Su Nietzsche
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Zitiervorschau

« L ’aspirazione estrema, incondizionata, del­ l ’uomo è stata espressa per la prima volta da Nietzsche a prescindere da un fine mora­ le e dal servizio di un Dio. Nietzsche non può definirla con precisione ma essa lo anima, egli la assume sotto tutti gli aspetti. Ardere senza rispondere a qual­ che imperativo morale, espresso drammati­ camente, è certo un paradosso. È impossibi­ le predicare o agire partendo da queste pre­ messe. Ne deriva un risultato sconcertante. Se di uno stato d’ardore noi non facciamo più la condizione di un altro, successivo e dato come bene attingibile, lo stato proposto sembra una pura folgorazione, uno struggi­ mento vuoto. [...] Nietzsche non ebbe chiara coscienza di que­ sta difficoltà. Dovette constatare il suo falli­ mento: seppe alla fine che aveva parlato al deserto. Eliminando l’obbligo, il bene, de­ nunciando il vuoto e la falsità della morale, distruggeva il valore d’ efficacia del lin­ guaggio. La fama tardò e poi, quando ven­ ne, egli non potè più far nulla. Nessuno ri­ spondeva alla sua attesa. Oggi credo di dover dire: quelli che lo leg­ gono e lo ammirano, lo scherniscono, ed egli lo seppe, lo disse. Escluso me? (semplifico). Ma tentare di seguirlo come lui chiedeva si­ gnifica abbandonarsi alla stessa prova, allo stesso suo smarrimento. [...] Oggi trovo giusto affermare il mio smar­ rimento: ho cercato di trarre da me stesso le conseguenze di una chiara dottrina, che mi affascinava come la luce: ho ricavato quasi sempre angoscia e l’ impressione di soc­ combere. Ma anche soccombendo non lascerei l’aspi­ razione di cui ho parlato. O piuttosto questa aspirazione non potrebbe lasciarmi: mori­ rei, ma non tacendo per questo (credo alme­ no): augurerei a quelli che amo di resistere o di soccombere a loro volta. C ’è nell’essenza dell’uomo una tensione vio­ lenta, verso l’autonomia, la libertà dell’es­ sere. Libertà certo interpretabile in diversi In copertina: Caspar David Friedrich, Watzmann, 1824-2.5 (partico­ lare).

modi: ma chi oggi si stupirebbe che si muoia per essa? Le difficoltà che incontrò Nietzsche - abbandonando Dio e il bene eppure conti­ nuando a bruciare del fuoco di coloro che per Dio e per il bene si fecero uccidere - le incontrai anch’io a mia volta. La solitudine scuorante ch’egli ha descritto ora mi toglie le forze. Ma la rottura con le entità morali dà albana che respiro una verità così gran­ de che preferirei vivere da paralizzato o mo­ rire piuttosto che ricadere nella schiavitù ». TRADUZIONE DI ANDREA ZANZOTTO CON UNO SCRITTO DI MAURICE BLANCHOT

Retro di copertina: Georges Bataille, 1957. Fotografia di Andrà Bonin.

€ 21,00

ISBN 978-88-6723-099-0

TESTI E D O CU M EN TI

r i S I I i: D O C U M E N T

•4 8 *

GEORGES BATAILLE SU NIETZSCHE T R A D U Z IO N E DI A N D R E A ZAN ZO TTO C O N U N O SC R IT TO DI M A U R ICE BL A N C H O T

Titolo originale: Sur Nietzsche

© I 9 7 3 É D IT IO N S G A L L IM A R D

© I 9 9 4 e 2 0 0 6 SE SR L V IA M A N IN 13 - 20121 M IL A N O

INDICE

SU N IE T ZSC H E

9

NOTA A LL’ED IZ IO N E ITALIANA

II

PREFAZIO NE

13

PRIMA PARTE. IL SIG N O R N IET ZSC H E

33

SECONDA PARTE. IL CULM IN E E IL D E C LIN O

45

TERZA PARTE. DIARIO

73

Febbraio-aprile 1944. La « tazza da tè », lo « Zen » e « L’essere amato » Aprile-giugno 1944. La posizione della chance Giugno-luglio 1944. Il tempo Agosto 1944. Epilogo A PPEN D ICE

I II III IV V VI

Nietzsche e il nazionalsocialismo L’esperienza interiore di Nietzsche L’esperienza interiore e la setta Zen Risposta a Jean-Paul Sartre (difesa de « l’expérience intérieure ») Nulla, trascendenza, immanenza Surrealismo e trascendenza

PO STFA ZIO NE di Maurice Blanchot

75 99

143 183

195 197 202 205 207 216 218 219

SU NIETZSCHE

Entra Giovanni con un cuore infilzato alla punta del suo pugnale Gio v a n n i Non meravigliatevi se i vostri cuori

pieni di timori raccapricciano a questo vano spettacolo. Da che pallido spavento, da che vile ira i vostri sensi sarebbero stati afferrati se voi foste stati presenti al furto di vita e di bellezza da me compiuto! Sorella, oh, mia sorella! FLORIO Che c ’è? Gio v a n n i La gloria del mio atto ha spento il sole di mezzogiorno e ha fatto meriggio del­ la notte... Ford, Peccato che sia una sgualdrina

NOTA ALL’EDIZIONE ITALIANA

Nel presentare l’edizione italiana di Sur Nietzsche di Geor­ ges Bataille, è necessario fare alcune precisazioni in merito alle citazioni tratte dalle opere di Nietzsche che compaiono nel te­ sto. Di queste citazioni viene data la trascrizione italiana delle versioni francesi che Bataille aveva sott'occhio e che in genere risultano accurate e attendibili. Tale criterio è stato seguito so­ prattutto per conservare intatta la particolare natura del rap­ porto fra i due scrittori. Si tratta quindi di una scelta metodologica che trova la sua giustificazione anche in relazione al ca­ rattere del lavoro letterario di Bataille e specialmente di que­ st’opera. Bataille non dà indicazioni, o le dà imprecise, sulle versioni francesi delle opere di Nietzsche da lui utilizzate o consultate per questo lavoro. Esse probabilmente sono le seguenti: f .n . - Œuvres posthumes - Trad. H. Bolle, Paris, Mercure de France, 1934. f .n . - La volonté de puissance - Texte établi par E Wurz­ bach, trad. G. Bianquis (tome 11), Paris, n .r.f ., 1937 (parziale indicazione di Bataille). Si è lasciato anche in italiano sotto il titolo tradizionale Volontà di potenza questo gruppo di fram­ menti. f .n . - Le Gai Savoir - Trad. H. Albert, Paris, Société du Mercure de France (diverse edizioni dal 1901 in poi). f .n . - Le Gai Savoir - Trad. A. Vialatte, Paris, n .r .f ., 1939 (meno probabile). f .n . - Ecce homo - Trad. A. Vialatte, Paris, n .r .f ., 1937 (parziale indicazione di Bataille). f .n . - Ainsi parlait Zarathoustra - Trad. H. Albert, Paris, Société du Mercure de France (diverse edizioni dal 1898 in poi). f .n . - Ainsi parlait Zarathoustra - Trad. M. Betz, Paris, n .r .f ., 1936.

PREFAZIONE

I

Volete riscaldarvi a me? Vi consiglio di non avvicinarvi troppo: potreste bruciarvi le mani. Perché, vedete, sono troppo ardente. A fatica impedisco alla mia fiamma di divampar­ mi fuori dal corpo.

1886-1888 1

Ciò che mi obbliga a scrivere, penso, è la paura di di­ ventar pazzo. Soffro di una aspirazione ardente, dolorosa, che per­ dura in me come un desiderio inappagato. La mia tensione somiglia, in un certo senso, a una vo­ glia pazza di ridere, differisce poco dalle passioni di cui bruciano gli eroi di Sade, e tuttavia è vicina a quella dei martiri e dei santi... Non posso dubitarne: questo delirio manifesta in me il carattere umano. Ma, bisogna dirlo, porta allo squili­ brio e mi priva penosamente di riposo. Ardo e mi diso­ riento, e infine resto vuoto. Posso propormi azioni gran­ di e necessarie, ma nessuna basta alla mia febbre. Parlo di una preoccupazione morale: la ricerca di un obiettivo il cui valore superi quello di tutti gli altri! Paragonato ai fini morali proposti di solito, questo obiettivo è incommensurabile, ai miei occhi: questi fini sembrano sbiaditi e fallaci. Ma sono proprio essi quelli che potrei tradurre in azioni (non sono forse determinati come esigenza di azioni definite?). È vero: il perseguire un bene limitato conduce talora al culmine verso il quale tendo. Ma attraverso un giro vi­ zioso. Lo scopo morale è allora distinto dall’eccedenza di cui è l’occasione. Gli stati di gloria, i momenti sacri 1 Le citazioni di Nietzsche sono date senza il nome dell’autore; le indica­ zioni si riferiscono alle note postume. [N.d.A .]

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BATAILLE

che svelano l’incommensurabile, oltrepassano i risultati cui si tendeva. La morale comune pone questi risultati sullo stesso piano delle finalità del sacrificio. Un sacrifi-. ciò esplora il fondo dell’essere, e la distruzione che lo garantisce rivela il suo lacerare. Ma viene esaltato per uno scopo banale. Una morale tende sempre al bene de­ gli esseri. (Le cose sono cambiate apparentemente quel giorno in cui Dio fu rappresentato come unico vero fine. Sicu­ ramente si dirà: l’incommensurabile di cui parlo, in real­ tà è soltanto la trascendenza di Dio. Tuttavia questa tra­ scendenza è, a mio parere, una fuga dal mio obiettivo. Nulla è cambiato, in fondo, se si considera l’appagamento dell’Essere celeste invece che quello di esseri umani! La persona di Dio modifica ma non elimina il problema. Introduce soltanto la confusione: l’essere, sotto la specie di Dio, può darsi a volontà una figura incommensurabi­ le, quando occorra. Non importa: si serve Dio, si agisce per suo conto-. Egli è dunque riducibile ai fini ordinari dell’azione. Se si ponesse più in là noi non potremmo fare nulla per Lui.)

2

L ’aspirazione estrema, incondizionata, dell’uomo è sta­ ta espressa per la prima volta da Nietzsche a prescindere da un fine morale e dal servizio di un Dio. Nietzsche non può definirla con precisione ma essa lo anima, egli la assume sotto tutti gli aspetti. Ardere senza rispondere a qualche imperativo morale, espresso dram­ maticamente, è certo un paradosso. È impossibile predi­ care o agire partendo da queste premesse. Ne deriva un risultato sconcertante. Se di imo stato d’ardore noi non facciamo più la condizione di un altro, successivo e dato come bene attingibile, lo stato proposto sembra una pu­ ra folgorazione, uno struggimento vuoto. Non potendo metterlo in rapporto con un’acquisizione, come la forza e l’espansione di una città (o di un Dio, di una chiesa, di un partito), questo struggimento non è neppure com-

PREFAZIONE

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prcnsibile. Il valore positivo di una perdita può essere da­ to, in apparenza, solo in termini di vantaggio. Nietzsche non ebbe chiara coscienza di questa diffi­ coltà. Dovette constatare il suo fallimento: seppe alla fi­ ne che aveva parlato al deserto. Eliminando l’obbligo, il bene, denunciando il vuoto e la falsità della morale, di­ struggeva il valore d’efficacia del linguaggio. La fama tardò e poi, quando venne, egli non potè più far nulla. Nessuno rispondeva alla sua attesa. Oggi credo di dover dire: quelli che lo leggono e lo ammirano, lo scherniscono, ed egli lo seppe, lo disse.1 Escluso me? (semplifico). Ma tentare di seguirlo come lui chiedeva significa abbandonarsi alla stessa prova, allo stesso suo smarrimento. Questa totale liberazione del possibile umano quale egli l’ha definita, è, di tutti i possibili, il solo che non sia stato tentato (e mi ripeto, semplificando: salvo che da me[?]). Al punto attuale della storia io penso che ogni concepibile dottrina sia stata già predicata, e che, in qualche misura, il suo insegnamento abbia avuto un ef­ fetto. Nietzsche, a sua volta, ha concepito e predicato una ntiova dottrina, si è messo in cerca di discepoli, so­ gnava di fondare un ordine: e odiò ciò che ottenne... ba­ nali lodi! Oggi trovo giusto affermare il mio smarrimento: ho cercato di trarre da me stesso le conseguenze di una chiara dottrina, che mi affascinava come la luce: ho rica­ vato quasi sempre angoscia e l’impressione di soccom­ bere.

3 Ma anche soccombendo non lascerei l’aspirazione di cui ho parlato. O piuttosto questa aspirazione non po­ trebbe lasciarmi: morirei, ma non tacendo per questo (credo almeno): augurerei a quelli che amo di resistere o di soccombere a loro volta. 1 Vedi più avanti, a p. 40. [N.d.A.]

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BATAILLE

C’è nell’essenza dell’uomo una tensione violenta, ver­ so l’autonomia, la libertà dell’essere. Libertà certo inter­ pretabile in diversi modi: ma chi oggi si stupirebbe che si muoia per essa? Le difficoltà che incontrò Nietzsche abbandonando Dio e il bene eppure continuando a bru­ ciare del fuoco di coloro che per Dio e per il bene si fe­ cero uccidere - le incontrai anch’io a mia volta. La soli­ tudine scuorante ch’egli ha descritto ora mi toglie le for­ ze. Ma la rottura con le entità morali dà all’aria che re­ spiro una verità così grande che preferirei vivere da pa­ ralizzato o morire piuttosto che ricadere nella schiavitù.

4 Ammetto, nel momento in cui scrivo, che una ricerca morale il cui fine sia al di là del bene porti dapprima al disorientamento. Nulla mi accerta ancora che si possa superare la prova. Questa confessione, fondata su un’e­ sperienza dolorosa, mi autorizza a ridere di chiunque confonda la posizione di Nietzsche con quella di Hider, sia per attaccarla sia per farla propria. « A che altezza è la mia dimora? M ai ho contato, salen­ do, i gradini che conducono fino a me: dove cessano tutti i gradini là è il mio tetto e la mia dimora » (1882-1884; ci­ tato in Volontà di potenza). Così si esprime un’esigenza che non tende ad alcun bene raggiungibile e che altrettanto consuma colui che la vive. Voglio farla finita con un equivoco volgare: è spaven­ toso veder ridurre a livello di propaganda un pensiero rimasto comicamente senz’uso e che apre soltanto il vuo­ to a coloro che se ne ispirano. Nietzsche avrebbe avuto secondo taluni massima influenza sui nostri tempi. C ’è da dubitarne: nessuno aspettava lui per infischiarsene delle leggi morali. Egli non ebbe, particolarmente, alcu­ na inclinazione per la politica, rifiutava di scegliere qual­ siasi partito politico, e si irritava che lo si credesse di de­ stra o di sinistra. Non poteva sopportare l’idea che il suo pensiero fosse subordinato a qualche causa.

PREFAZIONE

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I suoi decisi sentimenti in politica risalgono all’allontanamento da Wagner, alla delusione che provò il giorno in cui Wagner manifestò davanti a lui la volgarità tede­ sca, Wagner socialista, gallofobo, antisemita... Lo spirito del Secondo Reich, soprattutto nelle sue tendenze prehitlcriane, di cui l’antisemitismo è l’emblema, era ciò che disprezzava di più. La propaganda pangermanista lo di­ sgustava. « Voglio far tabula rasa » scrisse. « Una delle mie am­ bizioni è anche di esser considerato lo spregiatore dei te­ deschi per eccellenza. Ho già espresso, all’età di ventisei anni, la diffidenza che mi ispirava il loro carattere (terza "Considerazione inattuale”, p. 71): i tedeschi sono per me qualcosa d’impossibile, quando cerco di immaginare un tipo di uomini che ripugna a tutti i miei istinti, fini­ sco sempre col rappresentarmi un tedesco » (Ecce ho­ mo). Se ben si riflette, sul piano politico, Nietzsche fu il profeta, l’annunciatore della grossolana fatalità tedesca. La denunciò per primo. Esecrò la chiusa follia, carica d’odio e contenta di se stessa, che dopo il 1870 si impa­ dronì degli animi tedeschi e che culmina oggi nella furia hitleriana. Mai più mortale errore fuorviò un popolo in­ tero, lo destinò più crudelmente all’abisso. Ma egli si staccò da questa massa predestinata, rifiutando di parte­ cipare all’orgia della « contentezza di sé ». Questo suo rigore non fu senza conseguenze. La Germania decise di ignorare un genio che non la adulava. Soltanto la sua fa­ ma all’estero gli attirò tardivamente l’attenzione dei suoi... Non credo che esista un più bell’esempio dell’ignorarsi reciproco tra un uomo e il suo paese: non è preoccupante che una nazione intera, per quindici anni, sia rimasta sorda a tale voce? Oggi, noi che assistiamo alla rovina, siamo costretti a compiacerci di un fatto: nel momento in cui la Germania si inoltrò per strade che dovevano condurre al peggio, il più saggio e il più ar­ dente dei tedeschi si allontanò da essa: ne provò orrore, e non potè dominare il suo sentimento. Tuttavia bisogna riconoscere, dall’attuale prospettiva, che da una parte e dall’altra, sia nell’aberrazione sia nel tentativo di sfuggir­ le, vi è l’impossibilità di ima via d’uscita: non è strano?

20

BATAILLE

Nietzsche e la Germania, opposti l’uno all’altra, han­ no avuto infine lo stesso destino: speranze insensate li agitarono entrambi, invano. Ma all’infuori di questa tra­ gica vanità dell’agitarsi, tutto tra loro si strappa e si odia. Le somiglianze non contano. Se non si fosse scelto di schernire Nietzsche, di farne ciò che lo avviliva di più, una lettura rapida, un comodo uso —senza nemmeno ab­ bandonare le posizioni che egli osteggia - la sua dottrina sarebbe considerata quello che è: il più vecchio dei cor­ rosivi. Farne un sostegno di cause che essa svaluta non è soltanto ingiuriarla, è calpestarla, dar prova che la si ignora, mentre ci si dà l’aria di amarla. Chi provasse, co­ me ho fatto io, a giungere ai limiti del possibile cui essa richiama, diventerebbe a sua volta un campo di infinite contraddizioni. Nella misura nella quale seguisse questo insegnamento del paradossale, vedrebbe che non è più possibile per lui abbracciare una delle cause già dette: la sua solitudine sarebbe completa.

5 In questo libro scritto disordinatamente non ho svi­ luppato questo punto di vista nella teoria. Credo perfino che uno sforzo di tal genere sarebbe infirmato da gros­ solanità. Nietzsche scrisse « col suo sangue »: chi ne fa la critica o piuttosto lo prova può farlo soltanto sanguinan­ do a sua volta. Scrivevo coi desiderio che il mio libro apparisse pos­ sibilmente in occasione del centenario della nascita (15 ottobre 1844). Lo scrissi da febbraio ad agosto, sperando che la fuga dei tedeschi ne rendesse possibile la pubbli­ cazione. L’ho cominciato col porre teoricamente il pro­ blema (è la seconda parte, p. 45), ma questo breve scrit­ to è in fondo soltanto un racconto di esperienza vissuta: un’esperienza di vent’anni, alla lunga caricatasi di terro­ re. A questo proposito, penso che sia utile dissipare un equivoco: Nietzsche sarebbe stato il filosofo della « vo­ lontà di potenza »; come tale egli si poneva, come tale è accettato. Io credo ch’egli sia piuttosto il filosofo del ma­

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le. Il fascino, il valore del male, mi sembra, per lui diede­ ro senso a ciò che voleva dire quando parlava di poten­ za. Se non fosse stato così, come si potrebbe spiegare questa affermazione? il guastagusto a .: « Sei un corruttore del gusto, lo dicono tutti! » . B .: « Certo! Io guasto a ognuno il gusto che ha per il suo partito: appunto ciò nessun partito mi perdona ». (La gaia scienza) Questa osservazione, tra molte altre, è assolutamente inconciliabile con i comportamenti pratici politici, tratti dal principio della « volontà di potenza ». Nietzsche provò avversione per quello che, mentre egli era vivo, si ordinò nel senso di questa volontà. Se non avesse avuto il gusto - e perfino subito la necessità - di calpestare la morale imposta, sono sicuro che avrebbe ceduto al di­ sgusto che ispirano i metodi dell’oppressione (la polizia). Il suo odio per il bene è giustificato da lui come la con­ dizione stessa della libertà. Io personalmente, senza far­ mi illusioni sul peso del mio atteggiamento, sento di op­ pormi e mi oppongo a ogni forma di costrizione: non per questo rinuncio a designare il male come oggetto di una ricerca morale estrema. Perché il male è il contrario della costrizione, la quale in teoria viene esercitata in vi­ sta di un bene. Il male non è sicuramente ciò che una ipocrita serie di malintesi ha voluto farne: in fondo, non è forse libertà concreta, la torbida violazione di un tabù? L’anarchismo m’irrita, soprattutto le dottrine grosso­ lane che fanno l’apologià dei delinquenti comuni. Le pratiche della Gestapo, messe in piena luce, mostrano l’affinità profonda che unisce la teppa alla polizia: nessu­ no è più portato a torturare, a servire crudelmente l’ap­ parato della costrizione di quanto lo siano uomini senza fede né legge. Detesto anche quei deboli, dallo spirito confuso, che domandano tutti i diritti per l’individuo: i limiti di un individuo non sono posti soltanto dai dirit­ ti degli altri, ma ben più duramente da quelli del popo­ lo. Ogni uomo è solidale col popolo, ne condivide le.sofferenze o le conquiste, le sue fibre sono parte di una massa vivente (non per questo è meno solo nei momenti gravi).

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Tali pesanti difficoltà dell’opposizione collettività-in­ dividuo e bene-male, e in generale queste folli contrad­ dizioni dalle quali di solito usciamo soltanto negandole, possono venire trionfalmente superate, mi sembra, sol­ tanto da un colpo di fortuna verificatosi nell’audacia del gioco. Questo sprofondare dove soccombe la vita porta­ ta avanti fino ai limiti del possibile non può escludere una probabilità di passare. Ciò che una saggezza logica non è in grado di risolvere potrebbe forse esser condot­ to a buon fine da un’audacia senza limiti, che non indie­ treggi né si volga più alle spalle. Per questa ragione, po­ tevo scrivere soltanto con la mia vita questo libro, pro­ gettato su Nietzsche, dove volevo porre ed, eventual­ mente, risolvere il problema intimo della morale. Soltanto la mia vita, con le sue risorse risibili, poteva tendere a continuare in me la ricerca di quel Graal che è la chance.1 E questo sembra corrispondere più esatta­ mente della potenza alle intenzioni di Nietzsche. Solo il « gioco » aveva la virtù di condurre molto avanti l’esplo­ razione del possibile, senza pregiudicarne i risultati, dando solo al futuro, al suo libero verificarsi, il potere che di solito si dà al partito preso, il quale è soltanto una forma del passato. Il mio libro, è, sotto un certo aspetto, di giorno in giorno, il racconto di colpi di dadi gettati, debbo dirlo, con forze scarsissime. Mi scuso per la parte di interessi privati, veramente comica quest’anno, che le pagine del mio diario tirano in ballo, non ne soffro, rido volentieri di me stesso e non conosco miglior mezzo di perdermi nell’immanenza. 6 Il piacere che ho di essere e di sapermi ridicolo non può tuttavia andar così oltre da lasciarmi disorientare 1 Bataille usa il termine « chance » in un’accezione propria (da lui chiarita nel corso di questo stesso libro) comprendente i significati comuni di « fortu­ na », « possibilità di riuscita », « possibilità di vincita in un gioco », « buona sorte », ecc., ma anche quello del tutto particolare che esprime la situazione metafisico-esistenziale analizzata in quest’opera. Si è preferito pertanto con­ servare il termine originario anche nella traduzione. [N.d.T .]

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chi mi legge. Il problema essenziale dibattuto in questo libro disordinato (e che doveva esserlo) è quello che Nietzsche ha vissuto e che la sua opera aspirava a risol­ vere, quello dell’uomo totale. « La maggioranza degli uomini, » egli scrive « sono un’immagine frammentaria e particolare dell’uomo; bi­ sogna addizionarli per ottenere un uomo. Epoche intere, popoli interi hanno in questo senso qualcosa di fram­ mentario; forse è necessario alla crescita dell’uomo che egli si sviluppi pezzo per pezzo. Quindi bisogna ammet­ tere che, in fondo, si tratta sempre di produrre l’uomo sintesi; gli uomini inferiori, la stragrande maggioranza, sono soltanto i preludi e gli esercizi preliminari dal cui armonico gioco sorge qua e là Yuomo totale simile a una pietra miliare che indichi dove è arrivata l’umanità fino a quel momento » (1887-1888; citato in Volontà di po­ tenza). Ma che cosa significa questa frammentazione, o me­ glio quale ne è "la causa se non questo bisogno di agire che specializza, e limita dentro l’orizzonte di una data at­ tività? Anche se è di interesse generale, e questo di solito non succede, l’attività che subordina ciascuno dei nostri istanti a qualche risultato preciso cancella il carattere to­ tale dell’essere. Chi agisce mette al posto di quella ra­ gion d’essere che è lui stesso uno scopo particolare, e nei casi meno specifici la grandezza di uno stato, il trionfo di un partito. Ogni azione specializza, per il solo fatto che non v’è azione se non limitata. Una pianta di solito non agisce, non è specializzata, si specializza ingoiando mosche! Posso esistere totalmente soltanto superando in qual­ che maniera lo stadio dell’azione. Altrimenti sarò solda­ to, rivoluzionario di professione, scienziato, non « l’uo­ mo totale ». Lo stato frammentario dell’uomo è in fondo come la scelta di un obiettivo. Quando un uomo limita i suoi desideri, per esempio, all’impadronirsi del potere nello stato, agisce, sa ciò che deve fare. Poco importa che fallisca: immediatamente inserisce il suo essere con vantaggio nel tempo. Ogni suo istante diventa utile. In ogni momento gli è data la possibilità di procedere verso

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il fine prescelto: il suo tempo diventa un cammino verso tale fine (ed è tutto questo che abitualmente si chiama vivere). Lo stesso accade se ha come fine la sua salvezza. Ogni azione rende l’uomo un essere frammentario. Pos­ so conservare in me il carattere d’integralità soltanto ri­ fiutando di agire, o almeno negando la preminenza del tempo riservato all’azione. Soltanto se non è subordinata a un soggetto preciso che la supera, la vita rimane integrale. La totalità in que­ sto senso ha come essenza la libertà. Tuttavia non posso voler diventare un uomo totale per il solo fatto di lottare per la libertà. Anche se questa lotta è l’attività che prefe­ risco fra tutte, non potrei confondere in me lo stato di integralità e la mia lotta. L’esercizio positivo della libertà e non la lotta negativa contro una oppressione particola­ re mi innalzò al di sopra dell’esistenza mutilata. Ognuno di noi impara amaramente che lottare per la propria li­ bertà è, prima di tutto, alienarla. Come ho già detto, l’esercizio della libertà sta dalla parte del male, mentre la lotta per la libertà è la conqui­ sta di un bene. Se la vita in me è intera, in quanto tale, io non posso metterla al servizio di un bene, del bene di un altro o di Dio o del mio bene, senza spezzettarla. Non posso acquisire ma soltanto dare, e dare senza tener con­ to, senza che mai un dono abbia per fine l’interesse di qualcuno. (Ritengo a questo proposito il bene di un altro un falso scopo perché se voglio ü bene di un altro lo fac­ cio per trovare il mio, a meno che non lo identifichi ad­ dirittura col mio. La totalità è in me questa esuberanza: una aspirazione vuota, un desiderio doloroso di strug­ gersi senz’altra ragione che il desiderio stesso - e i a tota­ lità lo è interamente —di bruciare. In ciò essa è la voglia di ridere di cui ho parlato, questo prurito di piacere, di santità, di morte... Non ha più compiti da assolvere.)

7 Un problema così strano è concepibile soltanto se vis­ suto. È facile contestarne il senso dicendo: infiniti com­

PREFAZIONE

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piti ci sono imposti. Proprio nel tempo presente. Nessu­ no pensa a negare l’evidenza. Ma è altrettanto vero che la totalità dell’uomo, come termine inevitabile, appare fin da ora per due ragioni. La prima negativa: la specia­ lizzazione, in tutti i campi si accentua al punto da mette­ re in allarme. La seconda: anche compiti schiaccianti ap­ paiono tuttavia, ai nostri giorni, nei loro limiti precisi. Un tempo l’orizzonte era oscuro, l’obiettivo impor­ tante era prima di tutto il bene di una città, ma la città si confondeva con gli dèi. L’obiettivo era in seguito la sal­ vezza dell’anima. In entrambi i casi l’azione mirava, da una parte, ad uno scopo limitato raggiungibile, dall’altra a una totalità definita come inaccessibile quaggiù (tra­ scendente). L’azione nella situazione moderna ha scopi precisi, del tutto adeguati al possibile: la totalità dell’uo­ mo non ha più carattere mitico. Chiaramente accessibile, essa si rimette all’espletamento di compiti dati e definiti materialmente. Ma è lontana: questi compiti sottomet­ tendo gli animi li frammentano. Non per questo è meno individuabile. La totalità che il lavoro necessario fa abortire in noi si dà proprio in questo lavoro. Non come imo scopo - lo scopo è cambiare il mondo, portarlo alla misura dell’uo­ mo - ma come un risultato ineluttabile. Quale esito del cambiamento, l’uomo-legato-al-compito-di-cambiare-ilmondo, che è soltanto un aspetto frammentario dell’uo­ mo, sarà trasformato lui stesso in uomo totale. Questo risultato, pur lontano come sembra per l’umanità, è de­ scritto dal compito definito: non ci trascende come gli dèi (la città sacra) né come la sopravvivenza dell’anima; è nell’immanenza dell’uomo-legato... Possiamo pensarci più tardi: ci è tuttavia contiguo; se gli uomini non posso­ no nella loro esistenza comune averne fin d’ora chiara coscienza, ciò che li separa da questa nozione non è né il fatto di essere uomini (e non dèi) né quello di non essere morti: è solo un obbligo momentaneo. Così un uomo in battaglia deve soltanto (provvisoria­ mente) pensare a piegare Ü nemico. Certo non esiste lot­ ta violenta senza che nelle fasi di tregua vi subentrino preoccupazioni del tempo di pace. Ma al momento, que-



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ste preoccupazioni sembrano secondarie. Gli animi più duri partecipano a questi attimi di distensione attenti a sminuirne la serietà. Si ingannano, in tal senso: la serie­ tà, in fondo non è forse la ragione per la quale il sangue scorre? Ma non c’è niente da fare: bisogna che la serietà sia il sangue; e bisogna che la vita libera, senza lotta, svincolata dalle necessità dell’azione e non frammenta­ ria, appaia sotto ima luce di frivolezza: in un mondo li­ berato dagli dèi, dalla preoccupazione della salvezza, perfino la « tragedia » è solo un divertimento - una di­ stensione subordinata a scopi cui mira soltanto un’atti­ vità. Questo modo d’entrare - dalla porta di servizio - della ragion d’essere degli uomini ha più di un vantaggio. In questa maniera l’uomo integrale si rivela prima di tutto nell’immanenza, a livello di una vita frivola. Dobbiamo ridere di lui, fosse anche profondamente tragico. Ecco una prospettiva liberatrice: egli acquista la peggiore semplicità, la nudità. Sono riconoscente - senza comme­ dia - verso coloro il cui atteggiamento austero e la cui vita a contatto con la morte definiscono me come uomo vuoto che si perde in inutili fantasticherie (ed io la penso come loro). In fondo l’uomo integrale è solo un essere in cui si annulla la trascendenza, da cui niente è più separa­ to: un po’ burattino, un po’ Dio, un po’ pazzo... è la tra­ sparenza. 8

Se voglio realizzare la mia totalità nella coscienza, de­ vo riferirmi alla immensa, comica, dolorosa convulsione di tutti gli uomini. Questo movimento va in tutti i sensi. Certo un’azione sensata (diretta a uno scopo preciso) at­ traversa questa incoerenza, ma proprio tale azione dà al­ l’umanità del mio tempo (come a quella del passato) l’a­ spetto frammentario. Se dimentico per un istante questo senso dato, vedo piuttosto la somma shakespeariana, tragicomica delle bizzarrie, delle menzogne, dei dolori e delle risate; la coscienza di una totalità immanente si fa

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luce in me, ma come una lacerazione: l’intera esistenza è situata al di là di un senso, è la presenza cosciente del­ l’uomo nel mondo in quanto egli è nonsenso , e non ha altro da fare se non essere quello che è, non potendo più superarsi, attribuirsi un qualunque senso nell’azione. Quésta coscienza di totalità si riferisce a due modi opposti di usare un’espressione. Nonsenso è di solito una semplice negazione, si dice di un oggetto che biso­ gna sopprimere. L’intenzione che rifiuta ciò che è privo di senso è infatti il rifiuto di essere totali, per questo ri­ fiuto noi non abbiamo coscienza della totalità dell’essere in noi. Ma se dico nonsenso con l’intenzione contraria di cercare un oggetto libero di senso, non nego nulla, enuncio l’affermazione nella quale tutta la vita si illumi­ na infine nella coscienza. Ciò che va verso questa coscienza di ima totalità, ver­ so questa totale amicizia dell’uomo verso se stesso, è giu­ stamente ritenuto in fondo mancante di serietà. Seguen­ do questa strada mi espongo allo scherno, acquisisco l’inconsistenza di tutti gli uomini (presi insieme, e messo da parte ciò che conduce a grandi cambiamenti). In que­ sto modo non voglio render ragione della malattia di Nietzsche (a quanto sembra era di origine somatica): bi­ sogna però dire che un primo movimento verso l’uomo totale è equivalente alla follia. Abbandono il bene e ab­ bandono la ragione (il senso), mi spalanco sotto i piedi l’abisso da cui mi separavano l’attività e i giudizi che essa connette. Almeno, la coscienza della totalità è dapprima in me disperazione e crisi. Se abbandono le prospettive dell’azione, mi si rivela la mia perfetta nudità. Sono al mondo senza aiuto, senza appoggio, sprofondo. Non c’è altra soluzione che un’incoerenza senza fine, dove mi potrà condurre soltanto la mia « chance ».

9 Evidentemente si può compiere un’esperienza così di­ sarmante solo dopo aver tentato, compiuto tutte le altre, e aver esaurito ogni possibilità. Di conseguenza essa non

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potrebbe riguardare l’umanità intera che come ultima ri­ sorsa. Soltanto un individuo molto isolato può compier­ la ai nostri giorni col favore del disordine dello spirito, e insieme di un vigore inconcusso. Se ha fortuna, può rea­ lizzare nell’incoerenza un equilibrio imprevisto: credo che la « volontà di potenza » non raggiunga in alcun mo­ do quel divino stato di equilibrio che traduce in una semplicità ardita e funzionante senza tregua il contrasto profondo ma danzato sulla corda. Se mi si capisce, la « volontà di potenza », considerata come un termine, sa­ rebbe ritornare indietro. Seguendola, ritornerei alla frammentazione servile. Mi prefiggerei di nuovo un do­ vere e il bene che è la potenza voluta mi dominerebbe. L’esuberanza divina, la leggerezza che esprimevano il ri­ so e la danza di Zarathustra si riassorbirebbero; invece che alla felicità sospesa sull’abisso, sarei ancorato alla pe­ santezza, alla servilità della Kraft durch Freude.1 Metten­ do da parte l’equivoco della « volontà di potenza », il destino che Nietzsche riservava all’uomo lo pone al di là della lacerazione: non è possibile tornare indietro e da ciò deriva l’impervietà profonda della dottrina. L’abboz­ zo di un’attività, la tentazione di elaborare uno scopo e una politica giungono nelle note del Nietzsche postumo soltanto a un labirinto. L’ultimo scritto portato a termi­ ne, PEcce homo, afferma l’assenza di uno scopo, l’insu­ bordinazione dell’autore ad ogni progetto. Situata nella prospettiva dell’azione, l’opera di Nietzsche è un aborto - dei più impossibili a difendersi - e la sua è una vita mancata, come la vita di chi tenta di realizzare gli scritti di lui.

io D i ciò non si dubiti neppure un attimo-, non si è capita una sola parola dell’opera di Nietzsche prima di aver vis1 « Forza attraverso la gioia »: motto dell’organizzazione dopo-lavoristica nazista. [N.d.T.]

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suto questa smagliante dissoluzione nella totalità: al di fuori di questo, tale filosofia è solo un dedalo di con­ traddizioni, peggio ancora un pretesto a menzogne per omissione (se, come i fascisti, si isolano passi per fini che il resto dell’opera nega). Vorrei che ora mi si seguisse con più attenzione. Lo si sarà indovinato: la critica che precede è la forma mascherata dell’approvazione. Essa giustifica questa definizione dell’uomo totale: l'uomo la cui vita è una festa « immotivata » e festa in tutti i sensi della parola, riso, danza, orgia, che non si subordinano mai, sacrificio che se ne infischia dei fini, materiali e mo­ rali. Quanto precede introduce la necessità di una disso­ ciazione. Gli stati estremi, collettivi o individuali, erano motivati una volta da fini. Di questi, alcuni non hanno più senso (l’espiazione, la salvezza). Il bene delle colletti­ vità ora non è più cercato con mezzi di dubbia efficacia, ma direttamente con l’azione. Gli stati estremi in queste condizioni ricaddero nel campo dell’arte, e ciò non fu privo di inconvenienti. La letteratura (l’immaginario) si è sostituita a ciò che era prima la vita spirituale, la poesia (il disordine delle parole) agli stati di trance reali. L’arte costituisce un piccolo campo libero al di fuori dell’azio­ ne, e paga la sua libertà con la rinuncia al mondo reale. Questo prezzo è alto e non ci sono scrittori che non so­ gnino di ritrovare il reale perduto: ma per questo devo­ no pagare nell’altro senso, rinunciare alla libertà e servi­ re una propaganda. L’artista che si limita al puro imma­ ginario sa di non essere un uomo totale, ma la stessa co­ sa accade per il letterato di propaganda. Il campo delle arti abbraccia in un certo senso la totalità mentre questa gli sfugge in ogni caso. Nietzsche è ben lungi dall’aver risolto la difficoltà. Anche Zarathustra è un poeta e in più una finzione lette­ raria! Ma non lo accettò mai. Le lodi lo esasperarono. Si agitò, cercò la soluzione in tutti i sensi. Non perse mai il filo d’Arianna che è il non avere alcun fine e il non servi­ re alcuna causa: la causa, egli lo sapeva, tarpa le ali. Ma d’altra parte, l’assenza di causa ributta nella solitudine: è

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la malattia del deserto, il grido che si perde in un grande silenzio... La comprensione alla quale invito intrappola decisa­ mente nella stessa mancanza di via d’uscita: essa presup­ pone lo stesso supplizio entusiasta. Immagino necessario in questo senso invertire l’idea di eterno ritorno. Non è la promessa di infinite ripetizioni quella che lacera, ma questo: gli istanti afferrati nell’immanenza del ritorno appaiono improvvisamente come scopi. Non si dimenti­ chi che gli istanti sono, da tutti i sistemi, considerati e assegnati come mezzi: ogni morale dice: « ciascun istan­ te della vostra vita sia motivato ». Il ritorno toglie il mo­ tivo all’istante, libera la vita dai fini e con questo, in pri­ mo luogo, la rovina. Il ritorno è il modo drammatico e la maschera dell’uomo totale: è il deserto dell’uomo per il quale ogni istante si trova ormai immotivato. È mutile cercare una scappatoia: bisogna infine sce­ gliere, da un lato uri deserto, dall’altro una mutilazione. La miseria non può essere deposta come un fardello. So­ spesi nel vuoto, i momenti estremi sono seguiti da de­ pressioni che nessuna speranza addolcisce. Se però arri­ vo ad una coscienza chiara di ciò che è vissuto in questo modo, non posso più cercare una via d’uscita dove non ce n’è (per questo, tenevo alla mia critica). Come si può non attribuire conseguenze all’assenza di scopo inerente al desiderio di Nietzsche? Inesorabilmente la chance - e la ricerca della chance - rappresentano un solo ricorso (e di questo il libro ha descritto le vicissitudini). Ma pro­ cedere così, con rigore, implica nel movimento stesso una necessaria dissociazione. Se è vero che nel senso in cui lo si intende abitual­ mente, l’uomo d’azione non può essere un uomo totale, l’uomo totale conserva una possibilità di agire. Ma a pat­ to di ridurre l’azione a fini e princìpi che le appartengo­ no in proprio (in una parola, alla ragione). L’uomo totale non può essere trasceso (dominato) dall’azione: perde­ rebbe la sua totalità. Per contro non può trascendere l’a­ zione (subordinarla ai suoi fini): in questo modo si defi­ nirebbe in un motivo, entrerebbe, si annullerebbe, nel­

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l’ingranaggio delle motivazioni. Bisogna distinguere da un lato il mondo dei motivi, dove ogni cosa è sensata (razionale) e dall’altro il mondo del non-senso (libero da ogni senso). Ognuno di noi appartiene per un aspetto al primo, per un altro al secondo. Possiamo distinguere chiaramente e coscientemente ciò che appare connesso soltanto nell’ignoranza. Dal mio punto di vista, la ragio­ ne può essere limitata solo da se stessa. Se operiamo, sbagliamo al di fuori dei motivi di equità e di ordine ra­ zionale degli atti. Tra i due campi, c’è un solo rapporto ammissibile: l’azione deve essere limitata razionalmente da un principio di libertà.1 Il resto è silenzio.

1 Ciò avviene in quanto la parte del fuoco, della pazzia, dell’uomo totale - la parte maledetta - è accordata (concessa dal di fuori) dalla ragione secon­ do norme liberali e « ragionevoli ». E qui è la condanna del capitalismo come modo di attività irrazionale. A partire da quando l’uomo totale (la sua irrazio­ nalità) si riconosce come esterno all’azione, da quando vede in ogni possibilità di trascendenza una trappola e la perdita della sua totalità, avviene la rinun­ cia, nel campo dell’attività, alle forme di dominio irrazionali (feudali, capitali­ ste). Nietzsche ha certo presentito la necessità del loro abbandono senza scor­ gerne la causa. L’uomo può essere totale solo rinunciando a darsi come finalità per gli altri: se no si rende schiavo, e di fatto resta nei limiti feudali o borghesi, al di qua della libertà. Nietzsche, è vero, ammetteva ancora la tra­ scendenza sociale, la gerarchia. Dire: non c’è nulla di sacro nell’immanenza, significa questo: d ò che era sacro non deve più servire. L’avvento della libertà è il tempo del riso: « Vedere affondare le nature tragiche e poterne ridere... » (si oserebbe forse applicare la proposta ai fatti attuali? Invece di impegnarci in nuove trascendenze morali...). Nella libertà, l’abbandono, l’immanenza del riso, Nietzsche eliminava in anticipo d ò che lo legava ancora (il suo immorali­ smo giovanile) alle forme volgari della trascendenza - che sono libertà nella schiavitù. 11 partito preso del male è quello della libertà, « la libertà, l’affran­ camento da ogni inceppo ». [N.d.A.]

PRIM A PARTE

IL SIGNO R NIETZSCHE

Ma lasciamo da parte il signor Nietzsche... La gaia scienza

Io vivo, a ben vedere, in mezzo a uomini strani, ai cui occhi la terra, i suoi casi e l’immenso gioco degli animali, mammiferi, insetti, sono più alla misura dell’illimitato, del perduto, dell’inintelligibile celeste, che di se stessi o delle necessità da cui sono limitati. Per questi ridenti es­ seri, il signor Nietzsche è in teoria un problema secon­ dario... ma c’è... Questi uomini, evidentemente, esistono poco... biso­ gna che lo dica subito. Con poche eccezioni, la mia compagnia sulla terra è quella di Nietzsche. Blake o Rimbaud sono grevi e adombrati. L’innocenza di Proust, l’ignoranza dei venti esteriori, nella quale volle tenersi, lo limitano. Soltanto Nietzsche si è reso mio compagno - dicendo noi. Se la comunità non esiste, il signor Nietzsche è un filosofo. Mi dice: « Se noi non consideriamo la morte di Dio una grande rinuncia ed una perpetua vittoria su noi stes­ si, dovremo pagare per questa perdita » (1882-1886; cita­ to in Volontà di potenza). Questa frase ha un senso: la vivo immediatamente fi­ no in fondo. Non possiamo basarci su nulla. Ma soltanto su di noi. Una responsabilità comica incombe su di noi e ci op­ prime. Fino ai nostri giorni, gli uomini si appoggiavano, in ogni evenienza, gli uni agli altri, o su Dio. Ascolto nel momento in cui scrivo un rumoreggiare di tuono e il mugolio del vento; in agguato indovino lo

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scoppio, il lampo, gli uragani terrestri attraverso i tempi. In quest’era, in questo cielo illimitati, percorsi da frago­ ri, che danno la morte semplicemente come il mio cuore dà il sangue, mi sento portato via da un moto vivace, tal­ volta troppo violento. Dalle imposte della mia finestra passa un vento infinito che porta con sé lo scatenarsi dei combattimenti, il dolore infuriato dei secoli. Perché non ho anch’io una furia che richiede sangue e la cecità ne­ cessaria alla passione del colpire? Vorrei essere niente altro che un grido di odio - esigente la morte - e non esisterebbe nulla di più bello che i cani straziantisi l’un l’altro - ma sono stanco, febbricitante... « Ora tutta l’aria è ardente, il respiro della terra è in­ fuocato. Ora voi passeggiate nudi, buoni e cattivi. E per l’uomo perdutamente innamorato della conoscenza, è ima festa » (1882-1884; citato in Volontà di potenza). « I pensatori sotto l’influenza di astri dalle orbite ci­ cliche non sono i più profondi, colui che guarda in se stesso come in un universo immenso, e porta in sé vie lattee, sa anche quanto tutte le vie lattee siano irregolari; esse conducono fino al caos ed al labirinto dell’esisten­ za » {La gaia scienza, 322).

II

V

Una malasorte mi dà il sentimento del peccato: non ho dunque il diritto di mancare la chance, la buonasorte. La rottura della legge morale era necessaria a questa esigenza. (Come era facile la morale antica in confronto a questo atteggiamento rigoroso!) Ora comincia un viaggio duro, inesorabile - alla ri­ cerca del più lontano possibile. Una morale che non è la conquista di un possibile ol­ tre il bene non è forse derisoria? « Negare il merito ma fare ciò che supera ogni lode, anzi ogni comprensione » (1885-1886; citato in Volontà di potenza). « Se vogliamo creare, dobbiamo concederci una liber­ tà maggiore di quella che ci sia mai stata data, dunque li­ berarci dalla morale e rallegrarci con feste. (Presentimenti del futuro! Celebrare il futuro e non il passato! Inventare il mito del futuro! Vivere nella speranza!) Mo­ menti fortunati! e poi lasciare ricadere il sipario e ricon­ durre i nostri pensieri a obiettivi solidi e vicini! » (18821886; citato in Volontà di potenza). Il futuro, non il prolungamento di me stesso nel tem­ po, ma il verificarsi di un essere che va più lontano supe­ rando i limiti raggiunti.

ni

... L ’altezza a cui sì colloca lo mette in rela­ zione con i solitari e i misconosciuti di tutti ì tempi. 1882-1885

« Dove ci troveremo, solitari fra solitari - perché que­ sto saremo certamente un giorno, per effetto della cono­ scenza - dove troveremo un compagno per l’uomo? un tempo cercavamo un re, un padre, un giudice per tutti, perché mancavamo di re, di padri, di giudici veri. Poi cercheremo un amico - gli uomini saranno diventati splendori e sistemi autonomi, ma saranno soli. L’istinto mitologico sarà allora alla ricerca di un amico » (18811882; citato in Volontà di potenza). « Noi renderemo la filosofia pericolosa, ne trasforme­ remo la nozione, insegneremo una filosofìa che sia un pericolo per la vita-, come potremmo servirla meglio? Un’idea è tanto più cara all’umanità quanto più le costa. Se nessuno esita a sacrificarsi alle idee di “Dio”, di “Pa­ tria”, di “Libertà”, se tutta la storia è fatta soltanto del fumo che circonda questo genere di sacrifici, come si potrebbe dimostrare la preminenza del concetto di “filo­ sofia” su questi concetti popolari, “Dio”, “Patria”, “Li­ bertà”, se non nel suo costare più caro di essi, nel suo esigere maggiori ecatombi? » (1888; citato in Volontà di potenza). Rovesciata, questa proposizione resta degna d’interes­ se: in quanto nessuno si dispone a morire per essa, la dottrina di Nietzsche è non esistente. Se avessi un giorno l’occasione di scrivere col sangue le ultime parole, scriverei: « Tutto ciò che ho vissuto, detto, scritto - ciò che amavo - lo immaginavo comuni-

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calo. Senza di questo non avrei potuto viverlo. Vivendo solitario, parlare in un deserto di lettori isolati! accettare la letteratura - lo sfiorare appena! Quel che ho potuto fare io, e nient’altro, era di mettermi in gioco e, nelle mie frasi, cado come gli infelici che oggi senza fine giac­ ciono stesi per i campi ». Desidero che si rida, che si al­ zino le spalle, e si dica: « Lui se ne infischia di me, so­ pravvive ». E vero, sopravvivo, ora sono perfino pieno di alacrità, ma affermo: « Se ti è sembrato che non fossi, senza riserve, tutto in gioco nel mio libro, gettalo; e, re­ ciprocamente, se leggendomi non trovi nulla che ti met­ ta in gioco - ascoltami: per tutta la tua vita, fino all’ora di cadere - la tua lettura finisce di corrompere in te... un corrotto ». « il tipo dei miei discepoli - A tutti coloro che mi in­ teressano, auguro la sofferenza, l’abbandono, la malattia, i maltrattamenti, il disonore; auguro che non sia rispar­ miato loro né il profondo autodisprezzo né il martirio della diffidenza verso se stessi; non ho affatto pietà di lo­ ro... » (1887; citato in Volontà di potenza).

Tutto ciò che riguarda l’umano esige la continuità di coloro che Io vogliono. Ciò che vuole andar lontano esi­ ge sforzi congiunti, o almeno susseguentisi l’un l’altro, che non si fermino al possibile di uno solo. La solitudine di un uomo è un errore, anche se egli avesse voluto tron­ care i legami intorno a sé. Una vita è soltanto l’anello di ima catena. Voglio che altri continuino l’esperienza che prima di me altri hanno cominciata, che altri si votino come me, come altri prima di me, alla mia stessa prova: andare fino ai limiti del possibile. Ogni frase è destinata al museo nella misura nella quale vi persista un vuoto letterario. È orgoglio degli uomini attuali il fatto che nulla di lo­ ro si possa intendere se prima non è stato deformato e svuotato di contenuto da questo o da quel meccanismo: la propaganda, la letteratura!

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Come una donna, il possibile ha le sue esigenze: vuo­ le che si vada con esso fino in fondo. Girando da amatori per le gallerie, sui pavimenti tira­ ti a cera di un museo dei possibili, alla lunga uccidiamo in noi ciò che non è brutalmente politico, limitandolo al­ lo stato di lussuosi miraggi (etichettati, datati). Nessuno se ne rende cosciente senza che la vergogna tosto non lo disarmi. Vivere un possibile fino in fondo richiede uno scam­ bio fra molti, che Xassumano come un fatto a loro esterno e non dipendente più da alcun singolo tra loro. Nietzsche non dubitò che l’esistenza del possibile da lui proposto esigesse una comunanza. Il desiderio di una comunanza lo agitava senza posa. Scrisse: « Il colloquio a tu per tu con un grande pen­ siero è insopportabile. Cerco e chiamo uomini ai quali poter comunicare questo pensiero senza che ne muoia­ no ». Cerca, senza mai trovare « un’anima abbastanza profonda ». Dovette rassegnarsi, ridursi a dire a se stes­ so: « Dopo un tale richiamo scaturito dagli abissi dell’a­ nimo, non udire alcun suono di risposta è un’esperienza tremenda di cui anche l’uomo più forte può perire: que­ sto mi ha liberato da ogni legame con gli uomini vivi ». La sua sofferenza si esprime in varie note... « Ti prepari al momento in cui dovrai parlare. Forse avrai allora vergogna di parlare, come hai talvolta vergo­ gna di scrivere, forse sarà ancora necessario che ti inter­ preti, forse le tue azioni e le tue astensioni non basteran­ no a comunicarti! Verrà un’epoca della cultura in cui sa­ rà di cattivo gusto leggere molto; allora non ci sarà più motivo che tu abbia vergogna di esser letto; mentre ora, tutti quelli che ti considerano uno scrittore ti offendono; e chiunque ti lodi per i tuoi racconti rivela una mancan­ za di tatto, scava un fossato tra lui e te; non capisce fino a che punto si umilia credendo in questo modo di esal­ tarti. Conosco lo stato d’animo degli uomini attuali quando leggono: ohibò! Voler lavorare e affaticarsi per

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produrre un simile stato » (1881-1882; citato in Volontà di potenza). « Gli uomini che hanno destini, quelli che portando se stessi portano destini, tutta la razza dei facchini eroici oh! come vorrebbero talvolta riposarsi di se stessi! Co­ me hanno sete di cuori forti, di spalle vigorose che li li­ berassero almeno per qualche ora da quanto gli pesa ad­ dosso! E come è vana questa sete!... Aspettano, rimpian­ gono tutto ciò che gli passa davanti. Nessuno gli viene incontro neppure con la millesima parte della loro soffe­ renza e della loro passione, nessuno indovina fino a che punto sono in attesa... Infine, molto tardi, imparano questa regola di prudenza elementare: non aspettare più, sopportare tutto... insomma ancora un po’ più di quanto avevano sopportato fino allora » (1887-1888; ci­ tato in Volontà di potenza). La mia vita con Nietzsche è una comunità, il mio li­ bro è questa comunità. Prendo queste righe per me: « Non voglio diventare un santo, preferisco che mi si prenda per un burattino... Forse sono un burattino... Tuttavia - anzi, non “tuttavia”, perché non c’è stato an­ cora nulla di bugiardo come i santi - la verità parla at­ traverso la mia bocca... ». Non toglierò la maschera a nessuno... Che sappiamo di Nietzsche, in fondo? Obbligati a un senso di disagio, a silenzi... Odiando i cristiani... Per non parlare degli altri!... E poi... siamo così poco!

IV

Nulla parla al cuore più vivacemente di quelle allegre melodie che sono di una tristez­ za assoluta. 1888

« Questo spirito sovrano che basta ora a se stesso per­ ché è ben difeso e fortificato contro ogni sorpresa, lo de­ testate per i suoi bastioni e il suo mistero, e tuttavia lo adocchiate curiosando attraverso le inferriate d’oro con cui ha chiuso la sua proprietà, appunto perché siete se­ dotti: infatti un profumo vago e sconosciuto vi soffia sottilmente sul viso e lascia indovinare qualcosa dei giar­ dini e delle delizie nascoste » (1885-1886; citato in Vo­ lontà di potenza). « C’è un falso aspetto dell’allegria contro il quale non si può far nulla; ma colui che lo adotta non può far altro che accontentarsene. Noi che ci siamo rifugiati nella feli­ cità, noi che abbiamo in qualche modo bisogno del mez­ zogiorno e di una folle sovrabbondanza di sole, noi che ci sediamo al margine della strada per veder passare la vita, simile a un corteo di maschere, a uno spettacolo che toglie senso, non sembriamo forse aver coscienza di una cosa che temiamo? C ’è qualcosa in noi che si spezza facilmente. Temiamo forse le mani puerili e distruttrici? Forse per evitare il rischio ci rifugiamo nella vita? nel suo splendore, nella sua falsità, nella sua superficialità, nella sua cangiante menzogna? Se sembriamo allegri, è forse perché siamo infinitamente tristi? Siamo seri, co­ nosciamo l’abisso - forse per questo ci difendiamo da tutto ciò che è serio? Sorridiamo fra noi della gente dai gusti malinconici nei quali indoviniamo una mancanza di profondità - ahimè, li invidiamo pur burlandoci di lo­ ro - perché non siamo abbastanza felici da poter per-

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metterci la loro delicata tristezza: il nostro inferno e le nostre tenebre ci sono sempre troppo vicini. Sappiamo una cosa che temiamo, con la quale non vogliamo resta­ re a quattro occhi; crediamo a qualcosa il cui peso ci fa tremare, il cui bisbiglio ci fa impallidire - quelli che non vi credono ci sembrano felici. Noi distogliamo lo sguar­ do dagli spettacoli tristi, ci tappiamo le orecchie ai la­ menti di chi soffre; la pietà ci spezzerebbe se non sapes­ simo indurirci. Resta strenuamente al nostro fianco, noncuranza beffarda! Rinfrescaci, alito che sei passato sui ghiacciai! Non ci preoccuperemo più di nulla, sce­ glieremo la maschera come divinità suprema e redentri­ ce » (1885-1886; citato in Volontà di potenza). « Grande discorso cosmico: “Io sono la crudeltà, so­ no l’inganno” ecc. Beffarsi della paura di assumere la re­ sponsabilità di uno sbaglio (beffa del creatore) e di tutta l’infelicità. Più cattivi di quanto lo si sia mai stati ecc. ecc. - Forma suprema di contentezza della propria ope­ ra; egli la spezza per ricostruirla senza stancarsi. Nuovo trionfo sulla morte, il dolore, l’annientamento » (18821886; citato in Volontà di potenza). « Certo! Amerò soltanto quello che è necessario! Certo Yamor fati sarà il mio ultimo amore! ». - Forse ar­ riverai fin là, ma prima dovrai amare le Furie: confesso che i loro serpenti mi farebbero esitare. - « Che ne sai tu, delle Furie? Furie, non è che il nome sgradevole del­ le Grazie! ». - « È pazzo! » (1881-1882; citato in Volontà di potenza). « Dar prova della potenza e della sicurezza acquisite mostrando che “ si è disimparato ad aver paura” ; scam­ biare la diffidenza e il sospetto con la fiducia nei nostri istinti; amare e onorare se stessi nella propria saggezza e perfino nella propria assurdità-, essere un po’ pagliacci, un po’ dèi; né faccia tetra né gufo; né serpe... » (1888; citato in Volontà di potenza).

Quale fu sino ad oggi il più grande pecca­ to? Non fu forse la parola di colui che disse: « Guai a chi ride quaggiù! »... Zarathustra, L'uomo superiore

« Friedrich Nietzsche aveva sempre desiderato scrive­ re un’opera classica, un libro di storia, sistema o poema, degno degli antichi greci che aveva scelto come maestri. Non aveva mai potuto dar corpo a questa ambizione. Alla fine di quell’anno 1883, aveva appena compiuto un tentativo quasi disperato; l’abbondanza, l’importanza di queste note ci permette di misurare la grandezza di un lavoro che fu completamente vano. Non potè né fondare il suo ideale morale, né comporre il suo poema tragico; nello stesso momento fallisce nelle sue due opere e vede svanire il suo sogno. Che cos’è? Un infelice, capace di brevi sforzi, di canti lirici e di gridi » (Daniel Halévy, La vie de F. Nietzsche, p. 285). « Nel 1872, mandava alla signora di Meysenburg la serie interrotta delle sue conferenze sul futuro delle Uni­ versità: “Tutto questo dà una terribile sete” diceva “e niente da bere” (ibidem , p. 288). Le stesse parole si pos­ sono riferire al suo poema » (ibidem , p. 288).

SEC O N D A PARTE

CULM INE E IL D ECLIN O

... qui nessuno si insinuerà al tuo seguito! I tuoi passi stessi hanno cancellato il sentiero dietro di te, e sopra il tuo sentiero sta scritto: Impossibile! Zarathustra, Il viandante

I problemi che introdurrò riguardano il bene e il male nei loro rapporti con l’essere o gli esseri. II bene è dato inizialmente come bene per un essere. Il male sembra un danno portato - evidentemente a qualche essere. Può darsi che il bene sia il rispetto degli esseri e il male la loro violazione. Se queste asserzioni hanno un qualche senso, posso ricavarle dai miei senti­ menti. D ’altra parte, in modo contraddittorio, il bene è lega­ to al disprezzo dell’interesse che gli esseri hanno per se stessi. Secondo ima concezione secondaria, ma che ha la sua funzione nell’insieme dei sentimenti, il male sarebbe l’esistenza degli esseri - in quanto implica la loro separa­ zione. Sembra facile conciliare queste forme opposte: il be­ ne sarebbe l’interesse degli altri. Effettivamente, è possibile che tutta la morale si basi su un equivoco e derivi da slittamenti. Ma prima di trattare i problemi implicati nell’enun­ ciato precedente mostrerò l’opposizione sotto un’altra luce.

I

Il Cristo crocifisso è il più sublime di tutti i simboli - anche ora. 1 8 8 J-1 8 8 6

Ho intenzione di opporre non più il bene al male ma « il culmine morale », che è altra cosa dal bene, al « decli­ no », che non ha nulla a che vedere col male e la cui ne­ cessità determina invece le modalità del bene. Il culmine corrisponde all’eccesso, all’esuberanza delle forze. Porta al massimo d’intensità tragica. È connesso al dispendio d’energia senza misura, alla violazione dell’inte­ grità degli esseri. È dunque più vicino al male che al bene. Il declino, che corrisponde ai momenti di sfinimento, di fatica, dà il massimo valore alla preoccupazione di conser­ vare e di arricchire l’essere. Da esso dipendono le regole morali. Prima di tutto mostrerò nel culmine che è il Cristo in croce l’espressione più equivoca del male.

Il supplizio di Gesù è considerato un male dalla cri­ stianità. È il più grande peccato che sia stato mai commesso. Questo peccato ha anche la caratteristica di essere illi­ mitato. I criminali non sono soltanto gli attori del dram­ ma: la colpa incombe su tutti gli uomini. Quando un uo­ mo commette il male, e ogni uomo per parte sua è obbli­ gato a farlo, mette il Cristo in croce. I carnefici di Pilato hanno crocifisso Gesù ma il Dio che essi inchiodarono alla croce fu messo a morte per sacrifìcio: l’agente del sacrificio è il Delitto che, senza interruzione, dopo Adamo, commettono i peccatori. Quanto la vita umana nasconde di orribile (ciò che essa

II. CULMINE E IL DECLINO

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porta di lercio e d’impossibile nei suoi recessi, il male condensato nel suo fetore) ha violato il bene in modo così perfetto che è impossibile immaginare qualcosa che gli si avvicini. Il supplizio del Cristo reca offesa all’essenza di Dio. Tutto avvenne come se le creature potessero comuni­ care con il loro Dio soltanto per mezzo di una ferita che ne lacerasse l’integrità. La ferita è voluta, desiderata da Dio. Gli uomini che gliela arrecarono non sono per ciò meno colpevoli. D ’altronde - fatto assai strano - questa colpevolezza è la ferita che lacera l’integrità di ogni essere colpevole. In questo modo, Dio ferito dalla colpevolezza degli uomini e gli uomini feriti dalla loro colpevolezza verso Dio, trovano, ma faticosamente, l’unità che sembra il lo­ ro fine. Se avessero conservato la loro rispettiva integrità, se gli uomini non avessero peccato, Dio da un lato e gli uo­ mini dall’altro sarebbero rimasti nel loro isolamento. Una notte di morte, in cui il Creatore e le creature insie­ me sanguinarono, si straziarono a vicenda e si posero in questione sotto ogni aspetto - al limite estremo della vergogna - è stata necessaria alla loro comunione. Così la « comunicazione » senza la quale, per noi, nulla esisterebbe, è assicurata dal delitto. La « comunicazione » è l’amore e l’amore sporca quelli che unisce.

L’uomo raggiunge nella crocefissione il culmine del male. Ma proprio per averlo raggiunto ha cessato di es­ ser separato da Dio. Da questo si vede che la « comuni­ cazione » degli esseri è assicurata dal male. L’essere umano senza il male sarebbe ripiegato su se stesso, rin­ chiuso nella sua sfera indipendente. Ma l’assenza di « comunicazione » - la solitudine vuota - sarebbe certa­ mente un male peggiore. La situazione degli uomini è scoraggiante. Essi debbono « comunicare » (con l’esistenza infinita

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e tra loro); l’assenza di « comunicazione » (l’egoistico ripiegamento su se stessi) è evidentemente più degna di condanna. Ma, poiché la « comunicazione » non può realizzarsi senza ferire o insozzare gli esseri, è colpevole pur essa. Il bene, in qualsiasi modo lo si consideri, è il bene degli esseri: ma se si vuole raggiungerlo, bisogna porre in questione - nella notte, per mezzo del male gli esseri per i quali lo vogliamo. Un principio fondamentale resta così espresso: La « comunicazione » non può avvenire da un essere pieno e intatto a un altro: essa vuole esseri in cui si trovi posto in gioco l’essere - in loro stessi - al limite della morte, del nulla;1 il culmine morale è un momento in cui si mette in gioco, si sospende l’essere al di là di se stesso, al limite del nulla.

2 ...l’uomo è il più crudele degli animali. Fi­ nora, si ì sentito più a suo agio a questo mon­ do assistendo a tragedie, a combattimenti di tori ed a crocifissioni; e quando inventò l’in­ ferno, ne fece in realtà il suo paradiso... Zarathustra, 11 convalescente

È importante per me dimostrare che nella « comunica­ zione », nell’amore, il desiderio ha come oggetto il nulla. Così è in ogni « sacrificio ». In generale il sacrificio, e non solo quello di Gesù, sembra aver dato il senso di un delitto:2 il sacrificio è dalla parte del male, è un male necessario al bene. Non si potrebbe del resto capire il sacrifìcio se non vi si vedesse il mezzo con il quale gli uomini, universal­ mente, « comunicavano » tra loro, e anche con le ombre di cui popolavano gli inferi o il cielo. Per rendere più sensibile il legame tra « comunicazio1 Sul significato della parola in questo libro, v. Appendice v, Nulla, tra­ scendenza, immanenza. [N.d.Æ] 2 Vedi Hubert e Mauss, E ssai sur le sacrifice, pp. 46-47 (Saggio sul sacrifi­ cio, trad. it. di V. Minelli, Morcelliana, 1981). [N .d.A .]

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ne » e peccato - tra sacrificio e peccato - rammenterò che il desiderio, cioè il desiderio sovrano, che rode, e nutre l’angoscia, impegna l’essere a cercare l’aldilà di se stesso. L’aldilà del mio essere è prima di tutto il nulla. Presa­ gisce la mia assenza nella lacerazione, nel sentimento pe­ noso di un vuoto. La presenza altrui si rivela attraverso questo sentimento. Ma essa è pienamente rivelata soltan­ to se l’altro, da parte sua, si china egli pure sull’orlo del suo nulla, o se vi cade (se muore). La comunicazione av­ viene solo tra due esseri messi in gioco - lacerati, sospesi, chini entrambi sul loro nulla. Questo modo di vedere spiega contemporaneamente il sacrificio e l’opera della carne. Nel sacrificio alcuni uo­ mini si uniscono, mandandolo a morte, a un dio personi­ ficato da un essere vivente, vittima animale o umana (con questo si uniscono anche fra loro). Colui che sacri­ fica - e il pubblico - si identificano in qualche modo con la vittima. Così, al momento del supplizio si affac­ ciano sul proprio nulla. Afferrano nello stesso tempo il loro dio scivolando nella morte. La devoluzione di una vittima (come nell’olocausto in cui è bruciata) coincide col colpo che riceve il dio. Parzialmente il dono mette in gioco l’essere dell’uomo. A lui è dunque lecito, per un istante, unirsi all’essenza della divinità che la morte ha nello stesso tempo messa in gioco.

3 Sarebbe orribile credere ancora al pec­ cato; in realtà, tutto ciò che facciamo, dovessi­ mo ripeterlo mille volte, è innocente. 1881-1882

Più spesso che l’oggetto sacro, il desiderio ha come obiettivo la carne e, nel desiderio della carne, il gioco del­ la « comunicazione » appare rigorosamente nella sua com­ plessità. L’uomo, nell’atto carnale, supera sporcando - e spor­ candosi - il limite degli esseri.

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II desiderio sommo degli esseri ha come oggetto l’al­ dilà dell’essere. L’angoscia è il sentimento di un pericolo legato a questa inesauribile attesa. Nel campo della sensualità, un essere carnale è ogget­ to del desiderio. Ma ciò che attira in quest’essere carnale non è direttamente l’essere, è la sua ferita: è un punto di rottura della integrità del corpo e l’orifizio della sozzura. Questa ferita non mette in gioco proprio la vita, ma sol­ tanto la sua integrità, la sua purezza. Non uccide ma in­ sudicia. Ciò che rivela la sozzura non è essenzialmente molto diverso da ciò che rivela la morte; il cadavere e l’escremento esprimono il nulla, l’uno e l’altro; il cadave­ re da parte sua partecipa della sozzura. Un escremento è una parte morta di me stesso, che devo ributtare facen­ dola sparire, terminando di distruggerla. Tuttavia, nella sensualità come nella morte, non è propriamente il nulla ciò che attira. Ciò che ci avvince, nella morte, ciò che ci lascia oppressi ma silenziosamente invasi da un senso di presenza - o di vuoto - sacri, non è il cadavere come ta­ le. Se vediamo (o immaginiamo) quale orrore è in realtà la morte - cadavere senza compostura, putredine - sen­ tiamo solo disgusto. Il religioso rispetto, la venerazione calma, e perfino dolce, in cui indugiamo, è legata ad aspetti artificiali - come l’apparente serenità dei morti, ai quali una bendatura di due ore ha chiuso la bocca. Così pure nella sensualità, la trasposizione è necessaria al fascino del nulla. Noi abbiamo orrore per l’escrezione, perfino un disgusto insormontabile. Ci limitiamo a subi­ re il fascino dello stato in cui essa avviene - della nudità che può essere attraente, se così scegliamo, per la grana della pelle, per la purezza delle forme. L’orrore dell’e­ screzione fatta di nascosto, nella vergogna, e in più la bruttezza formale degli organi, costituiscono l’oscenità dei corpi - zona di nulla che dobbiamo superare e senza la quale la bellezza non avrebbe quel tanto di sospeso, di messo in gioco, che ci danna. La nudità leggiadra, volut­ tuosa trionfa finalmente in questo mettere in gioco che viene realizzato dalla sozzura (in altri casi, la nudità falli­ sce, rimane brutta, completamente al livello del sudicio).

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Se ora evoco la tentazione (spesso indipendente dal­ l’idea di peccato: spesso infatti resistiamo per timore di conseguenze spiacevoli), io scorgo, sotto accusa, il pro­ digioso mettersi in movimento dell’essere nei giochi car­ nali. La tentazione colloca lo scarto sessuale di fronte alla noia. Non sempre siamo in preda alla noia: la vita riser­ va possibilità di numerose comunicazioni. Ma se questa possibilità viene a mancare, allora la noia rivela ciò che è il nulla dell’essere rinchiuso in se stesso. Se non comuni­ ca più, un essere isolato intristisce, deperisce e sente (oscuramente) che da solo, non esiste. Questo nulla inter­ no, senza via d’uscita, senza alcuna attrattiva, lo respin­ ge: egli soccombe al malessere della noia e la noia dal nulla interno lo rigetta in quello esterno, all’angoscia. Nello stato di tentazione, questo rigetto - nell’ango­ scia - indugia senza fine in questo nulla davanti al quale ci mette il desiderio di comunicare. Se prendo in consi­ derazione, indipendentemente dal desiderio, e per così dire in se stesso, il nulla dell’oscenità, scorgo soltanto il segno sensibile, percettibile, di un limite in cui l’essere viene a mancare. Ma nella tentazione questo nulla ester­ no sembra una risposta alla sete di comunicare. Il senso e la realtà di questa risposta sono facili a de­ terminarsi. Io comunico soltanto al di fuori di me, la­ sciandomi andare o gettandomi fuori. Ma al di fuori di me non esisto più. Ho questa certezza: abbandonando l’essere in me, cercandolo al di fuori, rischio di rovinare - o di distruggere - ciò che è condizione dello stesso ap­ parirmi dell’esistenza esterna, quell’io senza il quale nul­ la esisterebbe di « ciò che è per me ». L’essere, nella ten­ tazione, si trova per così dire stritolato dalla duplice te­ naglia del nulla. Se non comunica si distrugge - nel vuo­ to che è la vita quando ci si isola. Se vuole comunicare, rischia egualmente di perdersi. Certo si tratta soltanto di sozzura e la sozzura non è la morte. Ma se cedo in condizioni spregevoli - come pagando una prostituta - pur non morendo sarò comun­ que rovinato, scaduto davanti a me stesso: la cruda osce­ nità roderà in me l’essere, la sua natura di escremento la-

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scerà una traccia, davanti a questo nulla che la sozzura porta seco, che avrei dovuto rifiutare a ogni costo, sepa­ rare da me, sarò indifeso, disarmato, mi aprirò a esso con una spossante ferita. La lunga resistenza nella tentazione fa risaltare con chiarezza questo aspetto della vita carnale. Ma in ogni forma di sensualità entra lo stesso elemento. La comuni­ cazione, per quanto debole, esige un mettere in gioco. Essa avviene soltanto nella misura nella quale gli esseri seri, protesi al di fuori di se medesimi, si giocano sotto la minaccia del decadimento. Per questo anche gli esseri più puri non ignorano le sentine della sensualità comune (non possono restarle estranei, in qualunque misura ne partecipino). La purezza alla quale si attaccano significa che una parte inafferrabile, infima, di ignominia basta a perderli: essi presagiscono, nell’estrema avversione, ciò che da un altro è portato a fondo. Tutti gli uomini, infi­ ne, imbecilliscono per le stesse cause.

4 Andava bene, a quel predicatore per picco­ la gente, soffrire e sopportare il peccato degli uomini. Quanto a me, mi rallegro del grande peccato come della mia grande consolazione. Zarathustra, L'uomo superiore ... il bene supremo e il male supremo sono identici. 1885-1886

Gli esseri, gli uomini, possono comunicare - vivere soltanto al di fuòri di se stessi. E siccome devono « co­ municare », devono volere questo male, la sozzura, che mettendo in loro stessi in gioco l’essere, li rende recipro­ camente compenetrabili. Una volta scrivevo {Expérience intérieure, p. 147): « Ciò che tu sei è connesso all’attività che unisce gli in­ numerevoli elementi di cui sei formato, all’intensa co­ municazione di questi elementi tra di loro. Sono contagi

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d’energia, di moto, di calore, o i trapassi d’elementi che costituiscono internamente la vita di ogni essere organi­ co. La vita non è mai posta in un punto particolare: pas­ sa rapidamente da un punto all’altro (o da punti multipli ad altri punti) come una corrente o una specie di elettri­ co flusso... ». E più avanti (p. 148): « La tua vita non si limita a questo inafferrabile flusso interno; trabocca an­ che al di fuori e s’apre senza posa a ciò che scorre o sprizza verso di essa. Il vortice durevole di cui sei ornato urta contro vortici simili, con i quali compone una vasta figura animata da una misurata agitazione. Ora, vivere significa per te non soltanto i flussi e i giochi fuggenti di luce che si unificano in te, ma i passaggi di calore o di luce da un essere all’altro, da te al tuo simile e dal tuo si­ mile a te (anche nel momento stesso in cui mi leggi, que­ sto contagio della mia febbre che ti raggiunge): le paro­ le, i libri, i monumenti, i simboli, le risa sono altrettante vie di questo contagio, di questi scambi... ». Ma tali ardenti cammini si sostituiscono all’essere sol­ tanto se esso accetta, se non di annullarsi, almeno di mettersi in gioco - e, con lo stesso movimento, mette in gioco gli altri. Ogni « comunicazione » partecipa del suicidio o del de­ litto. L’orrore funebre l’accompagna, il disgusto ne è il se­ gno. E il male appare - sotto questa luce - come una fonte di vita! Rovinando in me stesso, negli altri, l’integrità dell’es­ sere, mi apro alla comunione, posso giungere al culmine morale. E il culmine non è subire, è volere il male. E accordo volontario col peccato, con il delitto, il male. Con un de­ stino che richiede senza tregua che alcuni vivano, altri muoiano.

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5 Si è creduto tutto questo! E lo si è chiama­ to morale! Écrasez l’infâm e! Sono stato capito? Dioniso contro il Cro­ cifìsso... Ecce homo

Distinguere i casi è un impoverimento: persino ima minima riserva offende la sorte. Ciò che per uno è solo l’eccesso nocivo all’eccesso stesso, non lo è per un altro, situato più in là. Posso considerare alcunché di umano come estraneo a meì Puntata la minima somma, apro una prospettiva infinita di maggiore offerta. In questo mobile sfondo si può intravedere un culmine. Come il punto più alto —il grado più intenso - di fasci­ no per se stessa, che la vita possa definire. Una specie di splendore solare; indipendente dalle con­ seguenze. Sopra ho parlato del male quale mezzo di cui dobbia­ mo far uso se vogliamo « comunicare ». Affermavo: « l’essere umano, senza il male, si sarebbe ripiegato su se stesso »; oppure: « il sacrificio è il male necessario al bene »; più avanti: « ... il male appare... co­ me una fonte di vita! ». Introducevo così un rapporto fittizio. Lasciando vedere nella « comunicazione » il be­ ne dell’essere, riportavo la « comunicazione » all’essere, che appunto essa supera. In quanto « bene dell’essere », bisogna dire per la verità che « comunicazione », male e culmine sono ridotti ad una schiavitù che non possono subire. I concetti stessi di bene o di essere fanno apparire una durata mentre preoccuparsene è, per essenza, estra­ neo al male - al culmine. Quanto è voluto nella « comu­ nicazione » è per essenza il superamento dell’essere. Ciò che si rifiuta, per essenza, nel male è la preoccupazione per il futuro. In questo senso l’aspirazione al culmine - il moto del male - è in noi alla luce di ogni etica. Una mo­ rale in sé non ha valore che tenendo conto del supera­ mento dell’essere - ributtando la preoccupazione del fu­ turo. Una morale vale in tanto in quanto ci propone il met­ terci in gioco. Altrimenti è solo ima regola d’interesse, al-

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la quale manca l’elemento di esaltazione (la vertigine del culmine, che la pochezza battezza con un nome servile: imperativo). Nel confronto con queste proposizioni, l’essenza della « morale volgare » è messa in evidenza nel modo più chia­ ro specie riguardo ai disordini sessuali. In quanto certi uomini si prendono la responsabilità di dare ad altri una regola di vita, devono appellarsi al meri­ to e proporre come finalità il bene dell’essere, che trova compimento nel futuro.

Se la mia vita è in gioco per un bene raggiungibile come per il mio paese, per qualche causa utile - la mia condotta è meritoria e comunemente considerata mora­ le. E per le stesse ragioni, ucciderò e distruggerò in con­ formità alla morale. In altro campo, è male dilapidare sostanze col gio­ co, o col bere, ma è bene migliorare le condizioni dei poveri. Il sacrifìcio cruento è pure esecrato (spreco crudele). Ma il più grande odio della spossatezza ha come oggetto la libertà dei sensi. La vita sessuale considerata in rapporto ai suoi fini è quasi interamente eccesso - irruzione selvaggia verso un culmine inaccessibile. È esuberanza che si oppone nel­ l’essenza alla preoccupazione del futuro. Il nulla dell’o­ scenità non può essere subordinato. Il fatto di non esse­ re distruzione di esistenza ma concezione che risulta provocata da un contatto, accresce la riprovazione inve­ ce di attenuarla. Nessun merito può esserle attribuito. Il culmine èrotico non è raggiunto, come quello eroico, a prezzo di dure sofferenze. In apparenza i risultati non hanno rapporto con le fatiche. Sembra contare soltanto la fortuna. La fortuna, la chance agisce nel disordine delle guerre, ma lo sforzo, il coraggio, lasciano una parte notevole al merito. Gli aspetti tragici della guerra, oppo­ sti alle comiche sudicerie dell’amore, elevano ancor più il tono di una morale che esalta la guerra - e i suoi bene-



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fici economici... - soffocando la vita sensuale. Non so se ho fin qui illuminato con sufficiente chiarezza l’ingenui­ tà del partito-preso moralistico. L’argomento che ha più peso è l’interesse delle famiglie, evidentemente danneg­ giate dall’eccesso sensuale. Si mette in mostra penosa­ mente una preoccupazione per l’integrità degli esseri, continuamente confusa con l’asprezza dell’aspirazione morale. L’essenza di un atto morale è, secondo l’opinione co­ mune, di trovarsi asservito a un utile - di riferire al bene di qualche singolo essere un movimento in cui l’essere aspira invece a superare l’essere. In questa prospettiva la morale non diventa altro che la negazione della morale. Il risultato di questo equivoco è di opporre il bene altrui a quello dell’uomo che sono: tale sbavatura conduce in­ fatti alla coincidenza di un disprezzo superficiale con ima profonda sottomissione al servizio dell’essere. Il ma­ le è l’egoismo e il bene l’altruismo.

6 La « morale » è spossatezza. 1882-1885

Questa morale non è tanto la risposta ai nostri ardenti desideri di un culmine quanto uno sbarramento opposto a questi desideri. Siccome la spossatezza viene presto, il consumo disordinato di energia a cui ci impegna la preoccupazione di infrangere il limite dell’essere è sfavo­ revole alla conservazione, cioè al bene di questo essere. Si tratti di sensualità o di delitto, sono implicate cata­ strofi sia da parte di chi agisce che da quella delle vit­ time. Non voglio dire che la sensualità e il delitto risponda­ no sempre (o anche soltanto di solito) al desiderio di un culmine. La sensualità persegue il suo disordine banale e senza vera forza - attraverso esistenze in semplice moi-

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lezza: nulla di più comune. Ciò che con naturale av­ versione chiamiamo piacere non è in fondo il subordina­ re ad esseri grevi quegli eccessi di gioia ai quali altri più leggeri hanno accesso per rovinarsi? Un delitto da cro­ naca nera ha ben poco a che vedere col torbido fascino di un sacrifìcio: il disordine che introduce non è voluto per quello che è, ma è messo al servizio di interessi ille­ gali, non molto diversi, se si osserva sottilmente, dagli interessi più alti. Però le regioni straziate del vizio e del delitto indicano pur sempre il culmine verso il quale ten­ dono le passioni. Quali erano i momenti più alti della vita selvaggia? in che cosa si traducevano liberamente le nostre aspirazio­ ni? Le feste la cui nostalgia ancora ci anima, erano il tempo del sacrifìcio e dell’orgia.

7 La felicità che troviamo nel divenire è pos­ sibile soltanto nell’« annientamento » della realtà, dell’esistenza, della bella apparenza, nella distruzione pessimistica dell’illusione - la felicità dionisiaca raggiunge il suo punto più alto nell’annientamento dell’apparenza, anche della più bella. 1885-1886

Se ora prendo in considerazione alla luce dei princìpi esposti l’estasi cristiana, mi è agevole scorgerla come un solo movimento che partecipa dei furori di Eros e del delitto. Più di ogni altro fedele, un mistico cristiano crocifig­ ge Gesù. Il suo amore stesso esige da Dio che Egli sia messo in gioco, che gridi la sua disperazione sulla croce. Il delitto dei santi è eroico per eccellenza. Esso è legato a quegli slanci, a quelle tortuose febbri che introduceva­ no gli ardori dell’amore nella solitudine dei conventi. Questi aspetti di estrema lacerazione che colpiscono nella preghiera ai piedi della croce non sono estranei agli stati mistici non cristiani. L’origine degli stati mistici è

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sempre il desiderio e l’amore che lo muove ha sempre, in qualche punto, come obiettivo la distruzione degli esse­ ri. Il nulla che agisce negli stati mistici è ora il nulla del soggetto, ora quello dell’essere, considerato per entro la totalità del mondo: il tema della notte d’angoscia si ritro­ va sotto altra forma nelle meditazioni asiatiche. Lo stato di trance mistica, con qualsiasi confessione abbia a che fare, si strugge a superare il limite dell’esse­ re. La sua intima arsione, portata al grado estremo di in­ tensità, consuma inesorabilmente quanto dà agli esseri, alle cose, un’apparenza di stabilità, quanto rassicura e aiuta a sopportare. Il desiderio innalza a poco a poco il mistico a una catastrofe così perfetta, a un così perfetto spreco di se stesso, che la vita in lui si può paragonare alla splendente combustione solare. Però, si tratti di yoghi, di buddhisti o di monaci cri­ stiani, è chiaro che queste rovine, queste distruzioni le­ gate al desiderio non sono reali: in esse il delitto o l’an­ nullamento degli esseri sono rappresentazione. Il com­ promesso che si è stabilito da ogni parte in tema di mo­ rale è facile a dimostrarsi: i disordini reali, pieni di acer­ be ripercussioni, come le orge e i sacrifìci, furono nei li­ miti del possibile rifiutati. Ma siccome persisteva il desi­ derio di un culmine al quale queste azioni miravano, e gli esseri restavano nella necessità di trovare « comuni­ cando » l’aldilà di se stessi, dei simboli (finzioni) sostitui­ rono la realtà. Il sacrificio della messa, che raffigura il supplizio reale di Gesù, è sempre soltanto un simbolo, nell’infinita ripetizione che ne fa la Chiesa. La sensualità prese l’aspetto di un’effusione spirituale. Temi di medi­ tazione sostituirono le orge reali, l’alcool, la carne, il san­ gue, divenuti oggetto di riprovazione. In tal modo il cul­ mine cui mirava il desiderio rimaneva accessibile e le violazioni dell’essere alle quali si lega non presentavano più degli inconvenienti, non essendo più altra cosa che rappresentazioni dello spirito.

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8 Per quanto riguarda la decadenza, chiun­ que non muore prematuramente è un’immagi­ ne di essa sotto tutti gli aspetti o pressappoco; conosce dunque per esperienza gli istinti che vi sono implicati; durante quasi la metà della vita l’uomo è in decadenza. 1888

La sostituzione di culmini spirituali ai culmini imme­ diati non potrebbe però compiersi se non ammettessimo il primato del futuro sul presente, se non traessimo conse­ guenze dall’inevitabile declino che segue il culmine. I cul­ mini spirituali sono la negazione di ciò che potrebbe esse­ re presentato come la morale del culmine. Appartengono ad una morale del declino.

Lo slittamento verso forme spirituali esigeva ima pri­ maria condizione: era necessario un pretesto per il riget­ to della sensualità. Se sopprimo la considerazione del fu­ turo, non posso resistere alla tentazione. Posso soltanto cedere senza difesa al più debole desiderio. E impossibi­ le perfino parlare di tentazione: non posso più essere tentato, vivo in balìa dei miei desideri ai quali possono ormai opporsi soltanto difficoltà esterne. A dire il vero, questo stato di felice disponibilità non è umanamente concepibile. La natura umana come tale non può abolire la preoccupazione per l’awenire. Gli stati in cui questa preoccupazione non ci tocca più sono al di sopra o al di sotto dell’uomo. In ogni caso, noi sfuggiamo alla vertigine della sen­ sualità soltanto rappresentandoci un bene posto nel fu­ turo, che essa guasterebbe e che noi dobbiamo conser­ vare. Possiamo dunque raggiungere le vette situate al di là della febbre dei sensi, unicamente a patto di introdur­ re un fine successivo. Oppure, se si vuole, e questo è più chiaro - e più grave - raggiungiamo i culmini non sen­ suali, non immediati, soltanto a patto di mirare ad una finalità necessariamente superiore. E non soltanto que­ sto fine è posto al di sopra della sensualità - che esso blocca - ma deve essere posto anche al di sopra del cui-

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mine spirituale. Al di là della sensualità, della risposta al desiderio, siamo effettivamente nel campo del bene, cioè della priorità del futuro rispetto al presente, della con­ servazione dell’essere rispetto alla sua perdita gloriosa. In altre parole, resistere alla tentazione implica l’ab­ bandono della morale del culmine, si rifa alla morale del declino. Quando sentiamo venir meno le forze, quando decliniamo, condanniamo gli eccessi di spreco in nome di un bene superiore. Finché ci anima un’effervescenza giovanile siamo d’accordo con gli sprechi generosi, con ogni specie di temerario porre in gioco. Ma basta che le forze vengano a mancarci o che cominciamo a scorgere i limiti, basta che decliniamo, e subito ci preoccupiamo di acquisire e di accumulare beni di ogni genere, di arric­ chirci in vista delle difficoltà future. Noi operiamo. E l’a­ zione, lo sforzo non possono avere altro scopo che un’acquisizione di mezzi. Ora, dato che i culmini spiri­ tuali, opposti alla sensualità - per il fatto stesso che vi si oppongono - si iscrivono nello sviluppo di un’azione, si rapportano a sforzi fatti in vista di un bene da ottenere. I culmini non hanno più nulla in comune con una mora­ le del culmine-, una morale del declino li indica più ai no­ stri sforzi che ai nostri desideri.

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Non ricordo alcuno sforzo, non si potreb­ be trovare nella mia vita una sola traccia di lot­ ta, sono il contrario di una natura eroica. La mia esperienza ignora completamente che cosa sia il « volere » qualcosa, lavorarvi ambiziosa­ mente, mirare ad uno « scopo », o alla realiz­ zazione di un desiderio. Ecce homo

Ma lo stato mistico è comunemente condizionato dalla ricerca della salvezza,

Verosimilmente, il legame tra un culmine come lo sta­ to mistico e l’indigenza dell’essere - la paura, l’avarizia

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espresse nei valori del declino - ha qualche cosa di su­ perficiale e deve essere, nel profondo, falso. Non per questo è meno manifesto. Un asceta in solitudine perse­ gue un fine per mezzo dell’estasi. Lavora per la propria salvezza: come un negoziante che traffica in vista di un utile, come un operaio che fatica in vista di un salario. Se l’operaio o il negoziante fossero ricchi come vorreb­ bero, se non avessero alcuna preoccupazione per l’av­ venire, alcun timore della morte o della rovina, abban­ donerebbero sui due piedi il cantiere, gli affari, cercan­ do secondo l’occasione piaceri pericolosi. Quanto all’a­ sceta, ha la possibilità di intraprendere un lungo lavoro di liberazione nella misura nella quale soccombe alla mi­ seria dell’uomo. Gli esercizi di un asceta sono umani appunto perché poco differiscono da una faccenda di agrimensura. La cosa più ardua è certo scorgere infine questo limite: sen­ za l’esca della salvezza (od ogni altra simile esca) non si sarebbe trovato il cammino mistico! Certuni dovettero dire a se stessi o ad altri: è bene fare così o in altra ma­ niera in vista di tal risultato, di tal profitto. Senza questo banale artificio non avrebbero potuto avere un compor­ tamento di declino (l’infinita tristezza, la comica serietà necessarie allo sforzo). Non è forse chiaro? Mando al diavolo la preoccupazione dell’avvenire: e subito scop­ pio in una risata infinita! Ho perduto nello stesso mo­ mento ogni motivo di compiere uno sforzo. io Si vede nascere un genere ibrido, l’artista, lontano dal delitto per debolezza del volere e paura della società, non ancora pronto per il manicomio, ma che allunga stranamente le sue antenne verso queste due sfere. 1888

Bisogna andare più in là. Formulare la critica è già declinare. Lo stesso « parlare » di una morale del culmine dipen­ de da una morale del declino.

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Se mando al diavolo il pensiero dell’avvenire, perdo pure la mia ragion d’essere, e, in ima parola, perfino la ragione. Perdo ogni possibilità di parlare. Parlare, come faccio in questo momento, di morale del culmine è in particolare la cosa più comica! Per qual motivo, per qual fine che supera il culmine stesso, potrei esporre questa morale? E prima di tutto, come costruirla? Costruire ed esporre una morale del culmine presup­ pone da parte mia un declino, un’accettazione delle re­ gole morali connesse alla paura. In effetti, il culmine proposto come fine non è più il culmine: lo riduco alla ricerca di un utile per il fatto stesso che ne parlo. Se pre­ sento la dissolutezza come culmine morale, trasformo completamente la sua natura. Cioè mi privo in tal modo del potere di accedere in essa al culmine. Il dissoluto ha probabilità di accedere al culmine uni­ camente se non ne ha l’intenzione. Il momento estremo dei sensi esige un’autentica innocenza, l’assenza di pre­ tesa morale e perfino, in contraccolpo, la coscienza del male.

ii Come il castello di Kafka, il culmine alla fine non è che l’inaccessibile. Si sottrae a noi, almeno in quanto conti­ nuiamo a essere uomini: a parlare. D el resto non si può contrapporre il culmine al declino come il male al bene. Il culmine non è « ciò che bisogna raggiungere »; il de­ clino non è « ciò che bisogna eliminare ». Come il culmine alla fine non è che l’inaccessibile, il declino è fin dall’inizio l’inevitabile.

Allontanando le confusioni grossolane, non ho per questo eliminato l’esigenza del culmine (non ho elimina-

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to il desiderio). Se ammetto il suo carattere inaccessibile (vi si tende soltanto a patto di non volervi tendere) non ho motivo per questo di accettare l’incontestata so­ vranità del declino - ciò a cui impegnerebbe il fatto di parlare. Non posso negarlo: il declino è l’inevitabile e lo indica il culmine stesso; se il culmine non è la morte, la­ scia dietro di sé la necessità di scendere. Il culmine è, per essenza, il luogo in cui la vita è al limite dell’impossi­ bile. Lo raggiungo, nella debolissima misura nella quale lo raggiungo, soltanto spendendo forze senza misurarle. Disporrò di forze da sprecare di nuovo solo a patto di ri­ cuperare, col mio travaglio, quelle che ho perdute. Del resto che cosa sono io? Inserito in limiti umani, non pos­ so altro che disporre incessantemente della mia volontà di agire. Non bisogna neppur ch’io pensi a non lavorare più, a non sforzarmi più, in alcun modo, per uno scopo in definitiva illusorio. Si supponga pure che io prenda in considerazione - nel migliore dei casi - il rimedio cesa­ reo, il suicidio: questa possibilità mi si presenta come un’impresa la quale esige - con pretesa disarmante - che io collochi la preoccupazione del futuro prima di quella del momento presente. È vero, non posso rinunciare al culmine. Protesto - e voglio mettere nella mia protesta un ardore lucido e persino arido - contro tutto ciò che ci chiede di soffocare il desiderio. Tuttavia posso unica­ mente accettare ridendo la sorte che mi costringe a vive­ re da povero. Non sogno di abolire i princìpi morali. Essi derivano dall’inevitabile declino. Noi decliniamo inces­ santemente e il desiderio che ci distrugge rinasce soltan­ to quando le forze si sono rinnovate. Dal momento che, in noi, dobbiamo tener conto dell’impotenza, non aven­ do forze illimitate, tanto vale riconoscere questa neces­ sità che subiremmo perfino negandola. Non possiamo renderci simili a questo cielo vuoto che, per sua parte, ci tratta infinitamente da assassino, distruggendoci fino al­ l’ultimo. Posso unicamente dire - con tristezza - che la necessità da me subita mi umanizza, mi dà un innegabile dominio sulle cose. Però posso rifiutarmi a non vedervi anche un segno d’impotenza.

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12 Sempre, il genere umano decreterà ogni tanto: « C ’è qualcosa su cui non abbiamo asso­ lutamente il diritto di ridere! ». E il filantropo previdentissimo aggiungerà: « non soltanto il riso e la gioiosa saggezza, ma anche il tragico e la sua sublime irragionevolezza, fanno parte dei mezzi e delle necessità per conservare la specie! ». E quindi, e quindi! La gaia scienza, i

Gli equivoci morali costituiscono sistemi di equilibrio abbastanza stabili, proporzionati all’esistenza in genera­ le. Ci si può trovar da ridire solo parzialmente. Chi po­ trebbe contestare l’importanza che si attribuisce alla de­ dizione? E come stupirsi che essa venga a un componi­ mento con un ben inteso interesse comune? Ma l’esi­ stenza della morale, il disordine che essa introduce, pro­ lungano l’interrogativo molto oltre un orizzonte così vi­ cino. Non so se, nelle lunghe considerazioni precedenti, ho fatto capire fino a che punto l’interrogativo finale è straziante. Ora svilupperò un punto di vista che, pur es­ sendo esterno ai problemi da me introdotti, ne mette tuttavia in luce la portata. Finché gli eccessivi moti ai quali ci conduce il deside­ rio potevano connettersi ad azioni utili o giudicate tali utili, beninteso, agli esseri in declino, ridotti alla necessi­ tà di accumulare forze - si poteva rispondere al deside­ rio del culmine. Così, una volta gli uomini sacrificavano, si abbandonavano perfino ad orge: attribuendo al sacri­ ficio, all’orgia, un’azione efficace a profitto del clan o della città. Anche quella violazione di altri che è la guer­ ra ha questo valore benefico, a giusto titolo, nella misura in cui il successo l’accompagna. Al di là del ristretto utile del paese, visibilmente grossolano, egoistico, nonostante le possibilità di dedizione individuale, l’ineguaglianza nella ripartizione dei prodotti all’interno della città - che si sviluppa come disordine - costrinse alla ricerca di un bene che si accordasse col sentimento della giustizia. La salvezza, la preoccupazione di una salvezza personale

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dopo la morte, divenne, più in là del bene egoistico della città, la ragione di agire e, di conseguenza, il mezzo per connettere all’azione l’ascesa al culmine, il superamento di sé. Sul piano generale, la salvezza del singolo permet­ teva di sfuggire alla lacerazione che scomponeva la so­ cietà: l’ingiustizia divenne sopportabile, dato che non era più senza appello; si cominciò persino ad unire gli sforzi per combattere gli effetti. Al di là dei beni definiti come altrettanti motivi d’azione successivamente dalla città e dalla Chiesa (a sua volta, la Chiesa divenne il cor­ rispettivo di una città e, durante le crociate, si morì per essa), la possibilità di eliminare radicalmente l’ostacolo costituito dalla ineguaglianza delle condizioni definì un’ultima forma di azione benefica, giustificando il sacri­ ficio della vita. Si svilupparono così, attraverso la storia - e facendo la storia - le ragioni che può avere un uomo per raggiungere il culmine, per mettersi in gioco. Ma più oltre, la difficoltà sta nell’ascendere al culmine senza motivo, senza pretesto. L’ho detto: il nostro discorso non va se parliamo di ricerca del culmine. Possiamo tro­ varlo solo parlando di altro. In altre parole, essendo ogni mettere in gioco, ogni er­ ta, ogni sacrificio, come l’eccesso sensuale, una perdita di forze, un dispendio, dobbiamo motivare ogni volta i nostri dispendi con una promessa di guadagno, falsa o no.

Se si considera questa situazione nell’economia gene­ rale, essa è abnorme. Posso immaginare uno sviluppo storico già compiuto e che pure riservasse possibilità di azione come un vec­ chio che si sopravvive, eliminando lo slancio e la speran­ za al di là dei limiti raggiunti. Un’azione rivoluzionaria fonderebbe la società senza classi - al di là della quale non potrebbe più verificarsi un’azione storica: almeno posso supporlo. Ma a questo proposito devo fare un’os­ servazione. In generale, sembra che nell’umano la som­ ma di energia prodotta sia sempre superiore alla somma necessaria alla produzione. Da cui questo eccesso di energia schiumante, che ci conduce senza posa al culmi-

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ne e che costituisce la parte malefica-, noi tentiamo inva­ no di spenderla per il bene comune. Allo spirito guidato dalla preoccupazione del bene e dal primato del futuro ripugna prendere in considerazione colpevoli sprechi, inutili e perfino nocivi. Ma ormai ci mancherebbero i motivi d’azione che offrirono finora pretesto ad infiniti sprechi: l’umanità incontrerebbe allora una possibilità di riprender fiato, in apparenza... che cosa succederebbe in questo caso della nostra energia straripante?... Insidiosamente, ho voluto mostrare quale portata esterna potrebbe avere la mia domanda. È vero, devo ri­ conoscere che così posta - sul piano del calcolo econo­ mico - essa perde in acume ciò che acquista in ampiez­ za. In effetti è alterata. Nella misura in cui ho messo in gioco Vinteresse, ho dovuto subordinargli il dispendio. Evidentemente si tratta di un vicolo cieco poiché in defi­ nitiva non possiamo spendere senza fine per guadagna­ re: come ho già detto la somma di energia prodotta è maggiore...

13 Formulerò ora le domande implicite nella mia esposi­ zione. Esiste un fine morale ch’io possa raggiungere al di là degli esseri? Ho già risposto che non potevo né cercarlo né par­ larne. Ma io vivo e la vita (il linguaggio) è in me. Ora, il lin­ guaggio in me non può prescindere dal fine morale... de­ ve comunque affermare che, seguendo le vie del declino, non potrò incontrare questo fine. Detto questo, continuo a vivere. Aggiungerò (e parlo per me) che non posso cercare un bene da sostituire al fine che mi sfugge. Non conosco più motivi - esterni a me - di sacrificare me stesso o la poca forza che ho.

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Vivo in balìa di risa, che mi rallegrano, di eccitazioni sessuali, che mi angosciano. Dispongo, se ne ho voglia, degli stati mistici. Lontano da ogni fede, privo di ogni speranza, non ho alcun motivo per accedere a questi stati. Provo un senso di distacco all’idea di uno sforzo per arrivarvi. Progettare un 'esperienza interiore non è forse allonta­ narmi dal culmine che questa esperienza avrebbe potuto essere? Di fronte a coloro che hanno un motivo, una ragione, non rimpiango nulla, non invidio nessuno. Li spingo in­ vece a condividere la mia sorte. Considero felici il mio odio dei motivi e la mia fragilità. L’estrema difficoltà del­ la mia situazione è la mia chance. Me ne inebrio. Ma p o r t o in m e ste sso , m io m a lg ra d o , e c o m e u n a c a ­ ric a e sp lo siv a , u n a d o m a n d a : c h e c o s a p u ò f a r e i n QUESTO MONDO UN UOMO LUCIDO... PORTANDO IN SÉ UN’ESIGENZA SENZA RIFERIMENTI?

14 Non siete aquile: per questo non avete sperimentato la felicità nel tenore dello spi­ rito. Chi non è uccello non deve fare il nido sopra gli abissi. Zarathustra, Dei sapienti illustri

Posta così la domanda, ho detto quanto avevo da di­ re: non do risposta. Ho lasciato da parte in questo svi­ luppo il desiderio di autonomia, la sete di libertà che pa­ re essere la passione dell’uomo e che è senz’altro la mia passione. Penso all’autonomia umana in seno ad una na­ tura ostile e silenziosa piuttosto che alla libertà strappata da un individuo ai pubblici poteri. La pregiudiziale di dipendere il meno possibile dal dato ci avvia, è vero, alla indifferenza per il futuro: d’altra parte si oppone alla soddisfazione del desiderio. Tuttavia immagino che il culmine del quale ho parlato si identifichi con la libertà dell’essere.

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Volendo rendere sensibile questo rapporto mi servirò di un giro vizioso. Per quante preoccupazioni abbiamo, il nostro pensie­ ro si esaurisce senza mai abbracciare l’insieme dei possi­ bili. Ad ogni momento sentiamo la notte enigmatica, in una profondità infinitamente grande, sottrarci l’oggetto stesso della nostra meditazione. Il minimo pensiero do­ vrebbe divenire suscettibile di uno sviluppo infinito. Quando sono preso dal desiderio di capire la verità (in­ tendo dire il desiderio di sapere alla fine e di accedere alla luce) sono preso dalla disperazione. So immediata­ mente di essere perduto, perduto per sempre, in questo mondo dove ho l’impotenza di un bambino (ma non ci sono adulti ai quali ricorrere). In verità, nella misura in cui mi sforzo di riflettere, non considero più come un termine il momento in cui si farà luce ma quello in cui si spegnerà, in cui mi troverò di nuovo nel buio come un bambino malato e infine come un moribondo. Chi ha se­ te, veramente sete di verità, non può avere la mia negli­ genza. Ammetto che egli tenti nell’audacia giovanile. Ma come, per agire, non abbiamo bisogno di prendere in considerazione gli obiettivi nell’infinito sviluppo dei loro aspetti (li manipoliamo e l’efficacia dei nostri movimenti garantisce il valore delle concezioni), così, se si tratta soltanto di interrogare, sono certamente obbligato a so­ spingere la domanda il più lontano possibile, ma « il più lontano possibile », vuole dire « facendo del mio me­ glio », mentre desiderando la Verità l’esigenza che avrei dovuto soddisfare sarebbe assoluta. Il fatto è che non posso evitarmi di agire, né di interrogare, quando posso vivere - agire, interrogare - nell’ignoranza. Il desiderio di conoscere ha forse un unico senso: servire da motivo al desiderio di interrogare. Sapere è senz’altro necessario all’autonomia che è procurata all’uomo dall’azione - gra­ zie alla quale egli trasforma il mondo. Ma al di là delle condizioni del fare, la conoscenza appare alla fine come un’esca, rispetto all’interrogativo che la domina. È nel fallimento costituito dall’interrogativo, che noi ridiamo. I rapimenti dell’estasi e le ustioni di Eros sono altrettan­ te domande - senza risposta - alle quali sottomettiamo

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Ih natura e la nostra natura. Se sapessi rispondere all’in­ terrogativo morale - che ho formulato or ora - di fatto mi allontanerei decisamente dal culmine. Proprio la­ sciando l’interrogazione aperta in me come una piaga conservo una probabilità, un possibile accesso verso il culmine. Se parlare come faccio ora, vuol dire in fondo buttarmi a letto come un malato: anzi per l’esattezza: co­ ricarmi per morire, non richiedo delle cure. Bisogna scu­ sare questo mio eccesso d’ironia. Non volevo davvero prendere in giro nessuno. Volevo soltanto burlarmi del mondo, cioè dell’inafferrabile natura di cui sono l’esito. Non siamo abituati a tener conto, se riflettiamo, se par­ liamo, che la morte ci interromperà. Non dovrò sempre perseguite la schiavizzante ricerca del vero. Ogni do­ manda resterà alla fine senza risposta. E mi sottrarrò in modo tale da imporre silenzio. Se altri riprenderanno questa faccenda, non la porteranno a compimento più di quanto abbia fatto io e, come a me, la morte troncherà loro la parola. L’essere potrebbe forse acquisire un’auto­ nomia più vera? Parlando così mi sembra di respirare l’aria libera del culmine. L’esistenza non può essere nello stesso tempo autono­ ma e perdurante nella vita.

TERZA PARTE

DIARIO FEBBRAIO-AGOSTO 1944

FEBBRAIO-APRILE 1944

LA « TAZZA DA TÈ » LO « ZEN » E « L’ESSERE AMATO »

Il nuovo sentimento della potenza: lo stato mistico; e il razionalismo più lucido, più arido, come strada per arrivarvi.

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... comunque sia, ogni volta che 1’« eroe » appariva in scena si otteneva qualche cosa di nuovo, il terribile contrario del ridere, la pro­ fonda emozione di molti al pensiero: « sì, vale la pena che io viva! sì, sono degno di vivere! ». L a vita, tu ed io, tutti noi quanti siamo, diven­ tammo di nuovo « interessanti » a noi stessi. Non si può negare che, alla lunga, il riso, la ra­ gione e la natura hanno finito per prevalere su ognuno di questi gran dottori in teologia: la breve tragedia ha sempre finito col ritornare all’eterna commedia d d l’esistenza, e il mare « dall’innumerevole riso » - per dirla con Eschilo - finirà per coprire con le sue onde anche la più grande di queste tragedie... L a gaia scienza, i

Se non si avverte un moto di disinvoltura, che mette da parte le difficoltà, che si prende gioco di tutto (e in particolare della sventura, della sofferenza), che nascon­ de la riuscita sotto la maschera della depressione, io so­ no, se si vuole, un essere che soffre... Tuttavia non ho fatto che connettere l’amore, la gioia eccedente, alla completa mancanza di rispetto, al diniego radicale di ciò che frena la libertà interiore. Oggi il mio desiderio verte su di un punto. Questo oggetto senza verità oggettiva e tuttavia il più dirompen­ te che posso immaginare, lo assimilo al sorriso, alla lim­ pidezza dell’essere amato. Nessun amplesso potrebbe danneggiarla, questa limpidezza (essa è precisamente ciò che si sottrae al momento del possesso). E proprio lace­ rato dal desiderio ho visto, al di là della presenza deside­ rata, questo punto la cui dolcezza è data nella dispera­ zione. L’ho riconosciuto, questo oggetto: lo attendevo da sempre. Noi riconosciamo l’essere amato da questa im­



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pressione di risposta: l’essere amato è l’essere atteso, che colma il vuoto (l’universo non è più intelligibile senza di lui). Ma questa donna che tengo tra le braccia mi sfugge; quell’impressione, che si era trasformata in certezza, di risposta all’attesa, cerco invano di ritrovarla nell’amples­ so; soltanto l’assenza continua a raggiungerla per mezzo del senso di un vuoto. Qualunque cosa io abbia potuto dire di questo ogget­ to (nel momento in cui scrivo non posso ricordarlo con precisione) oggi mi sembra che Proust, parlando di re­ miniscenza, abbia dato di esso una descrizione fedele. Questo oggetto percepito nell’estasi, ma in una calma lucidità, differisce in qualcosa dall’essere amato. Esso è ciò che, nell’essere amato, lasciò l’impressione straziante, ma intima ed inafferrabile, del déjà-vu. Quello strano racconto che è Le temps perdu nel qua­ le la vita sprofonda lentamente e si dissolve nell’inanità (nell’impotenza ad afferrare) ma tuttavia afferra dei pun­ ti ocellari in cui si risolve, mi pare abbia la verità di un singhiozzo. I singhiozzi significano la comunicazione spezzata. Quando la comunicazione - la dolcezza della comunica­ zione intima - è retta dalla morte, la separazione o il di­ saccordo, sento crescere in me nello strazio la dolcezza non familiare di un singhiozzo. Ma la dolcezza del sin­ ghiozzo differisce molto da quella che la precedeva. Quando la comunicazione è stabilita, il fascino è annulla­ to dall’abitudine. Nei singhiozzi esso si può paragonare alla scintilla che si fa scoccare togliendo la spina da una presa di corrente. Proprio perché la comunicazione è in­ terrotta, noi ne godiamo nel tono tragico, quando pian­ giamo. Proust immaginò di aver conservato nella memoria ciò che tuttavia era quasi completamente scomparso. La me­ moria vela completamente ciò che la presenza sottraeva, ma soltanto per un certo tempo. È vero, in un certo sen-

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so, che i singhiozzi dell’uomo lasciano in bocca un sapore di eternità. Come ammiro l’astuzia - certo cosciente - con la qua­ le Le temps retrouvé fa ricadere ciò che altri situarono nell’infinito, entro i limiti di una tazza di tè. Infatti se si parla (André Breton), di un brillare interno e cieco... tan­ to l’anima del ghiaccio quanto quella del fuoco..., sussiste nell’evocata folgorazione un non so che di grande e tra­ scendente, che conserva, anche all’interno dell’uomo, il rapporto di superiorità che passa tra l’uomo e Dio. Il malessere così introdotto non è certo facile da evitare. Noi possiamo uscire dai cardini soltanto straziati. Lungi da me l’intenzione di sottrarmi ai momenti di trascen­ denza (che Le temps retrouvé traveste). Ma la trascen­ denza dell’uomo, per quanto mi sembra, è palesemente negativa. Non ho il potere di mettere al di sopra di me alcun oggetto - sia che io lo comprenda sia che mi strazi - se non il nulla: che non è niente. Ciò che dà l’impres­ sione di trascendenza - e riguarda tale parte dell’essere è il fatto che noi la percepiamo attraverso il nulla. Ab­ biamo accesso all’aldilà dell’essere particolare che siamo, soltanto attraverso la lacerazione del nulla. Il nulla ci op­ prime, ci prostra e siamo tentati di dare a ciò che indovi­ niamo nel buio il potere di dominarci. Di conseguenza, uno dei momenti più umani è il ridurre alla nostra misu­ ra gli oggetti percepiti al di là dei crolli. Questi oggetti non ne restano appiattiti, ma un impulso di semplicità sovrana ne rivela l’intimità. Bisogna distruggere la trascendenza ridendo. Come il bambino abbandonato al temibile aldilà di se stesso rico­ nosce immediatamente la dolcezza intima della madre le risponde allora ridendo - così se un’ingenuità disinvol­ ta indovina un gioco là dove si tremò, io scoppio in un ri­ so illuminato, ma tanto più rido quanto più tremavo. È diffìcile parlare di un riso così strano (e soprattutto così felice). Conserva quel nulla di cui la figura infima di Dio (immagine dell’uomo) si era servita come d’un pie-

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distailo infinito. Ad ogni momento, l’angoscia mi strap­ pa a me stesso, alle preoccupazioni secondarie, e mi ab­ bandona a questo nulla. Nel nulla in cui sono - pongo domande fino alla nau­ sea e non ricevo risposta che non mi sembri allargare il vuoto, raddoppiare l’interrogazione - io non distinguo nulla: Dio mi sembra una risposta non meno vuota che la « natura » del materialismo grossolano. Ma, di questo Dio, non posso negare le possibilità date a coloro che se ne fanno un’immagine: ne esiste umanamente l’esperien­ za; i suoi racconti ci sono familiari. Venne il momento in cui la mia audacia - o se si vuo­ le la mia disinvoltura - mi prospettò: « Non potresti avere tu stesso questa esperienza insensata - e poi rider­ ne? ». « Impossibile, » mi risposi: « non ho la fede\ ». Nel silenzio in cui mi trovavo, in uno stato di disponibi­ lità veramente folle, restavo chino sul vuoto: tutto mi parve ugualmente ridicolo, schifoso, possibile... In quel momento andai oltre. E subito riconobbi Dio. Ciò che un riso infinito provocò non poteva essere più facile. Mi gettai ai piedi del vecchio fantasma. Noi ci facciamo di solito un’idea meschina della sua maestà: io ne ebbi la rivelazione smisurata. Le tenebre divennero una barba infinita e nera, uscita dalle viscere della terra e dall’orrore del sangue. Io risi. Era qualcosa di molto più grave. Ma la mia leggerezza venne a capo senza sforzo di questa infinita grevità: essa restituiva al nulla ciò che era soltanto nulla. AH’infuori della libertà, del riso stesso, non c’è nulla di cui io rida meno divinamente che di Dio.

II

Vogliamo essere gli eredi di ogni antica morale e non cominciare di nuovo. Ogni no­ stra attività è soltanto morale che si ritorce contro la sua antica forma. 1880-1884

Mi è sembrato che certi miei amici confondessero la loro preoccupazione per un valore desiderabile con il di­ sprezzo che ispira la bassezza. Il valore (o l’oggetto del­ l’aspirazione morale) è inaccessibile. Uomini di ogni ca­ tegoria possono essere amati. Li indovino - gli uni e gli altri - con una simpatia in rivolta. Non vedo più un ideale che faccia fronte alla decadenza. Il cedimento del­ la maggioranza è straziante, triste come una galera; l’ar­ dore eroico, il rigore morale comportano l’irrespirabile ristrettezza. Spesso il rigore ottuso è segno di rilassa­ mento (nel cristiano dolciastro o nell’agitatore gioviale). Amo soltanto l’amore, il desiderio... Nelle nostre condanne categoriche, quando di un tale diciamo « che mascalzone », dimenticando il sudicio fondo del nostro cuore, in realtà ci avviciniamo per mez­ zo di vile indifferenza alle indifferenze manifeste che de­ nunciamo. Così, nella polizia, la società s’awicina ai mo­ di di agire che condanna. La complicità nei delitti, e poi nella cecità sui delitti, unisce più strettamente gli uomini. L’unione alimenta l’ostilità incessante. Nell’amore che esubera, devo non soltanto voler uccidere, ma non falli­ re lo scopo. Se potessi, cadrei e griderei la mia dispera­ zione. Ma rifiutando la disperazione, continuando a vi­ vere felice, gaio (senza ragione) amo in modo più duro, più vero, come vai la pena di amare la vita.

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La sorte degli amanti è il male (lo squilibrio) al quale li costringe l’amore fisico. Essi sono condannati a guasta­ re senza fine l’armonia tra di loro, a combattersi nella notte. Si uniscono a prezzo di una lotta, grazie alle ferite che si producono. Il valore morale è l’oggetto del desiderio: ciò per cui si può morire. Non è sempre un « oggetto » (di esistenza definita). Il desiderio vive spesso di una presenza indefi­ nita. È possibile contrapporre parallelamente da una parte Dio, una donna amata, dall’altra il nulla, la nudità femminile (indipendente da un essere in particolare). L’indefinito ha logicamente il segno negativo. Odio le risa smodate, l’intelligenza ilare delle « perso­ ne di spirito ». Nulla mi è più estraneo di un riso amaro. Rido ingenuamente, divinamente. Non rido quando sono triste e, quando rido, mi diverto davvero. Sono imbarazzato per aver riso (con gli amici) dei de­ litti del dottor P. Il riso che probabilmente ha come og­ getto il culmine nasce dall’incoscienza che abbiamo di esso. Come i miei amici, sono ributtato da un orrore senza nome ad un’ilarità insensata. Al di là del riso, si in­ contrano la morte, il desiderio (l’amore), il deliquio, l’e­ stasi legata ad un’impressione di orrore, all’orrore trasfi­ gurato. In questo aldilà non rido più: conservo una sen­ sazione del ridere. Una risata che cercasse di durare, tentando di forzare l’aldilà, sarebbe « voluta » e suone­ rebbe male, perché non ingenua. La risata fresca, senza riserve, spalanca sul peggio e conserva nel peggio (la morte) un sentimento leggero di meraviglia (al diavolo Dio, le bestemmie o le trascendenze! l’universo è umile: il mio riso è la sua innocenza). Il riso benedice e Dio maledice. L’uomo non è, come Dio, condannato a condannare. Se vuole, il riso è mera­ viglia, può essere leggero, esso può benedire! Se rido di me...

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P. diceva alle sue clienti (secondo Q.): « La trovo un po’ anemica. Lei ha bisogno di calcio ». Dava loro appuntamento in via Lesueur, per una cura calcificante. Se dicessi che il periscopio di via Lesueur è il culminei Mi sentirei rivoltare d’orrore, di nausea. L’avvicinarsi del culmine sarebbe forse riconoscibile dall’orrore, dalla nausea che ci stringe il cuore? Soltanto le nature grossolane, primitive, si sottomet­ terebbero all’esigenza del « periscopio »? Da un punto di vista teologico, un « periscopio » cor­ risponde al Calvario. Dall’uno e dall’altro lato, un pecca­ tore gode gli effetti del suo delitto. Se è pio, si accontenta delle immagini. Ma il supplizio della croce, questo delit­ to, è il suo delitto: mette in rapporto il pentimento con l’azione. La perversione in lui consiste nel venir meno della coscienza e nel far sparire involontariamente l’atto, nella mancanza di vitalità, nella fuga. Un po’ prima della guerra, sognai di esser colpito dal­ la folgore. Ne ebbi come uno sradicamento, un grande terrore. Nello stesso momento ero strabiliato, trasfigura­ to: morivo. Oggi, sento la stessa spinta. Se volessi che « tutto fos­ se bene », se domandassi la sicurezza morale, sentirei la stupidità della mia gioia. Invece mi inebrio di non voler nulla e di non avere sicurezza. Provo un sentimento di libertà. Ma benché il mio slancio conduca alla morte, non è che desideri liberarmi della vita. La sento invece sollevata dalle preoccupazioni che la rodono (la rappor­ tano a concetti definiti). Un nulla - o nulla - mi inebria. Questa ebbrezza ha come condizione che io rida, soprat­ tutto di me stesso.

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L’amore più grande, più sicuro potrebbe accordarsi con l’infinita beffa. Questo amore somiglierebbe alla musica più pazza, all’estasi di essere lucidi. La mia furia di amare si apre sulla morte come una fi­ nestra sul cortile. Nella misura in cui l’amore rende presente la morte come il comico strappo di uno scenario - esso ha il pote­ re di strappar via le nuvole. Tutto è semplice! Attraver­ so questo strappar via, vedo: come se fossi complice di tutto il nonsenso del mondo, il fondo appare, libero e vuoto. In che cosa l’essere amato potrebbe differenziarsi da questa libertà vuota, dall’infinita trasparenza di ciò che, infine, non ha più il compito di avere un senso? In questa libertà che annienta, la vertigine si trasfor­ ma in rapimento. In un rapimento calmo. La forza (o l’impulso di libertà) dell’essere amato, la violenza, l’angoscia e la lunga attesa dell’amore, l’ombro­ sa intolleranza degli amanti, nulla che non contribuisca a questa risoluzione in un vuoto. Il vuoto libera dai legami: non c’è più sosta nel vuoto. Se davanti a me faccio il vuoto, indovino subito l’essere amato: non c’è nulla. Ciò che amavo perdutamente, era la fuga, la porta aperta. Un movimento brusco, un’esigenza troncata annulla­ no il mondo greve.

IV

Se ci si pensa, quanti ideali nuovi sono an­ cora possibili! Ecco un piccolo ideale che af­ ferro ogni cinque settimane circa, durante qualche passeggiata selvaggia e solitaria, nell’o­ ra azzurra di una felicità criminale. Passare la vita tra le cose fragili e assurde; rimanere estraneo alla realtà! mezzo artista, mezzo uc­ cello o metafisico; non dire né sì né no alla realtà, se non ogni tanto, per tastarla con la punta del piede, come un ballerino; sentirsi sempre sollecitato da un qualche raggio di sole della felicità; essere sempre gioioso, sentirsi stimolato dall’afflizione stessa, perché l’affli­ zione mantiene felice l’uomo; attaccare alle co­ se più sacre una punta di coda comica; questo è, beninteso, l’ideale di uno spirito greve, del peso di parecchie tonnellate: lo spirito stesso della pesantezza. Marzo-luglio 1888

Mi son svegliato di buon umore, stamattina. Evidentemente, nessuno è più irreligioso, più allegro di me. Non voglio più parlare di esperienza interiore (o mi­ stica) ma di pai. Come si dice Zen. Mi pare una cosa al­ legra dare un nome a un genere definito di esperienza come ai fiori. Il pai è diverso dallo Zen. Un poco. E così la buffone­ ria. In più, difficile da definire come lo Zen. Era pura acrobazia che io parlassi, intendendo tutto questo, di supplizio (ho dovuto farlo con tanta serietà, tanta verità, tanta febbre, che si è verificato un equivo­ co: ma era necessario che ci si ingannasse e che lo scher­ zo fosse vero). Oggi, insisto dicendo pai.

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Fin dall’inizio, insegnare l’esercizio del pai è un com­ pito ridicolo. Esso implica una convinzione: non si può insegnare il pai. Tuttavia Io insegno... Non è forse la verità fondamentale che il pai sia per la vittima un culmine inaccessibile? Una possibilità di insulso scherzo mi rivolta: non la si perderà certo sul pai e su Proust... Quando la si considera per quello che è - caduta di Dio (della trascendenza) nel derisorio (l’immediato, l’immanenza), una tazza da tè è il pai. Carattere duplice del culmine (orrore e delizia, ango­ scia ed estasi). Com’è espresso in rilievo nei due volumi - nero e bianco - del Temps retrouvé: da un lato l’orrore di un sordido albergo, dall’altro gli istanti di felicità. Gli istanti di felicità sono diversi: - dalla gioia diffusa, impersonale e senza oggetto, dello yoga-, - dalle straziate estasi, dai rapimenti che mozzano il fiato; - e più ancora dal vuoto della notte; corrispondono alla limpida trasparenza degli stati detti teopatici. In questi stati di trasparenza inafferrabile, lo spirito è inerte, intensamente lucido e libero. L’universo lo tra­ passa facilmente. L’oggetto gli si impone in una « im­ pressione intima ed inafferrabile di déjà-vu ». Questa impressione del déjà-vu (di penetrabile in tutti i sensi e tuttavia inintelligibile) definisce a mio avviso lo stato teopatico. Non più ombra di importunità divina. Evidentemen­ te! Per il mistico (il credente), Dio si è senz’altro volati­ lizzato: il mistico è lui stesso Dio.

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Mi divertii, qualche volta, a pormi come Dio - a me stesso. Nella teopatia, è diverso. Questo stato, di per sé, è l’e­ strema punta del comico, in quanto è volatilizzazione in­ finita, libertà senza sforzo, che riduce ogni cosa al moto in cui essa cade. Parlando di uno stato che designo con una specie di nomignolo (il pai), scrivo queste poche righe come tema di meditazione: Mi rappresento: un oggetto che affascina, la fiamma splendente e leggera che si consuma in se stessa, che si annichila, e così rivela il vuoto, l’identità tra il fascino, tra ciò che inebria e il vuoto; Mi rappresento il vuoto identico a una fiamma, la soppressione dell’oggetto che rivela la fiamma che inebria e illumina.

Non c’è esercizio che conduca allo scopo... Penso che, in ogni caso, sia la sofferenza, sconvol­ gendo ed esaurendo l’essere, ad aprire una ferita così in­ tima. Questo stato di immanenza è l’empietà stessa. La perfetta empietà è la negazione del nulla (del pote­ re del nulla) : nulla ha più pregio per me - né la trascen­ denza, né il tempo futuro (non c’è più attesa). Non parlare di Dio significa temerlo, non sentirsi an­ cora a proprio agio con lui (la sua immagine o il suo po­ sto nelle concatenazioni del reale, del linguaggio...), si-

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gnifica rimandare a più tardi l’esame del vuoto che egli indica, e il trafiggerlo col suo riso. Ridere di Dio, di ciò che ha fatto tremare le moltitu­ dini, richiede la semplicità, l’ingenua malignità del bam­ bino. Non persiste più nulla di grave, di malato. Il pai è il ridere, ma così vivo che nulla più ne resta. L’immensità messa alla luce, invece di portare la traspa­ renza all’infinito, è infranta dall’agitazione dei muscoli... Anche il sorriso insensibile di un Buddha sarebbe greve (penosa insistenza personale). Soltanto un’insistenza nel­ lo slancio, una leggerezza senza legami (l’autonomia, le libertà stesse) danno al riso un potere senza limiti. Così la trasparenza di due esseri è disturbata dal rap­ porto carnale. Parlo evidentemente di stati acuti. Di solito, scoppio a ridere e... M ’han chiamato « vedovo di Dio », « inconsolabile vedovo »... Ma rido. Siccome la parola ritorna incessantemente nei miei scritti, allora dicono che rido verde. Mi diverto e nello stesso tempo mi rattristo dell’equi­ voco. Il mio riso è allegro. Ho già detto che a vent’anni mi trasportò una marea di risate... Avevo il senso di una danza con la luce. Mi abbandonai, nello stesso tempo, alle delizie di una libera sensualità. Di rado il mondo ha riso meglio a chi gli sorrideva. Ricordo allora di aver affermato che il duomo di Sie­ na, quando gli arrivai davanti, mi aveva fatto ridere. « E impossibile, » mi hanno detto « il bello non fa ridere. » Non sono riuscito a convincerli. E tuttavia avevo riso, felice come un bambino, sul

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sagrato del duom o che, sotto il sole di luglio, mi ab b a­ gliava. Ridevo al piacere di vivere, alla mia sensualità d ’Italia - la più dolce e la più abile che abbia m ai conosciuto. E ridevo perché, in questo paese pieno di sole, indovinavo quanto la vita si era presa gioco del cristianesimo, tra­ sform ando il m onaco esangue in una principessa da M il­ le e u n a n otte.

Il duom o di Siena, in mezzo ai palazzi rosa, neri e bianchi, si pu ò paragonare a una torta immensa, m ulti­ colore e dorata (di gusto discutibile).

V

Ho finalmente più di un volto. E non so quale si bef­ fa dell’altro. L’amore è un sentimento così eccedente che mi strin­ go la testa tra le mani: questo regno del sogno, nato dal­ la passione, non è forse quello, in fondo, della falsità? L’« immagine » infine si dissolve. Invece di una lace­ razione nel tessuto delle cose - lacerazione straziante rimane soltanto una persona inserita nella trama del tes­ suto. Tappeti di foglie morte non sono gradini di un trono e muggiti di rimorchiatore allontanano le magiche illu­ sioni. Ma a che cosa corrisponderebbe la magnificenza del mondo se nessuno potesse dirci, comunicandoci un mes­ saggio sicuramente indecifrabile: « Il destino che ti è toccato - o che tu lo consideri come tuo (quello dell’uo­ mo che sei) o come destino dell’essere in generale (dell’immensità di cui sei una parte) - ora lo vedi, non può in alcun modo venir ridotto alla povertà delle cose che sono unicamente quelle che sono. Invece, ogni qual­ volta, foss’anche per menzogna casuale, una cosa è tra­ sfigurata, non senti quel richiamo che nulla in te lascia senza risposta? In questa odissea che tu non puoi dire di avere voluta ma piuttosto che è te stesso, chi rifiuterebbe l’estremo, il più lontano e il desiderabile? Desiderabile? sarei forse la misura dell’enigma? se, scorgendomi, tu non avessi scelto questo obiettivo inaccessibile, non avresti neppure affrontato l’enigma! ». Cade allora la notte, ma nell’esasperazione del desi­ derio. Detesto la menzogna (la stupidità poetica). Ma il de­ siderio in noi non ha mai mentito. C ’è una malattia del

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desiderio che ci fa spesso vedere un abisso tra l’oggetto immaginato e l’oggetto reale. È vero, l’essere amato è di­ verso dal concetto che ho di esso quando l’amo. La cosa peggiore è che l’identità fra reale e oggetto del desiderio implica, a quanto sembra, una rara fortuna. A questo si oppone l’evidente magnificenza dell’uni­ verso che rovescia l’idea che ci facciamo di questa fortu­ na. Se nulla offusca in noi lo splendore del cielo, siamo de­ gni di amore infinito. L’essere amato non emergerebbe da una realtà prosaica come il miracolo da una serie di fatti determinati. La sorte che lo trasfigura sarebbe sol­ tanto un’assenza di disgrazia. Mettendosi in gioco in noi, l’universo si negherebbe nell’inveramento comune della sventura (la scialba esistenza) e si affermerebbe presso rari eletti. L’universo, al paragone con Tessere amato, sembra vuoto e povero: non è « in gioco », non essendo « sog­ getto a perire ». Ma Tessere amato è tale per uno solo. L’amore carnale, che non è « al riparo dai ladri », dal­ le vicissitudini, è più grande dell’amore divino. Esso mi « mette in gioco », mette in gioco Tessere amato. Dio, per definizione, non è « in gioco ». Colui che ama Dio, per quanto ardore raggiunga in lui la passione, la concepisce come ritirata dal gioco, al di là della grazia (nella beatitudine degli eletti). E certo è vero che l’innamorato di una donna non ha pace - deve eliminare la tortura dell’assenza - se non ce l’ha sotto il suo tetto, in suo possesso. È vero che di soli­ to l’amore si spegne proprio nel voler eludere la sua na­ tura, che esigerebbe il suo restare in gioco... Chi non si accorge che la felicità è la più dura prova degli amanti? Tuttavia, il rifiuto volontario sarebbe fab­ bricato, renderebbe l’amore un cavillo voluto per se stes­ so ad arte (immagino amanti che mantengano, volonta­ riamente, una situazione difficile). Resta una probabilità, per quanto piccola, di superare, di esaurire la felicità.

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Chance ha la stessa origine (cadentia) di « échéance », scadimento. Chance è ciò che scade, ciò che cade (all’ori­ gine, buono o cattivo ac-cadere). È l’alea, la caduta di un dado. Da cui deriva quest’idea comica: propongo un ipercristianesimo\ In questa banale prospettiva delle cose, non è più l’uomo a cadere e a separarsi da Dio, è Dio stesso (o, se si vuole, la totalità). Dio non implica qui « meno di quanto implichi la sua idea ». Ancor di più, al contrario. Ma questo « più » si elimina in quanto Dio; per l’essenza di questo « più », che è 1’« essere in gioco », il « mettersi in gioco ». L’uo­ mo infine sussiste solo. In termini buffoneschi, è Yincarnazione generalizzata! Ma nella caduta dell’universale nell’umanità, non si tratta più, come con Cristo, di un’odiosa parodia del « mettere in gioco » (Dio abbandona Gesù solo appa­ rentemente). L’abbandono, in questo mettere in gioco, è totale.

Ciò che amo nella creatura amata - al punto da desi­ derare di morir d’amore - non è l’essere particolare, ma la parte di universale che è in lui. Ma questa parte è in gioco, mi mette in gioco. Sul piano banale delle idee, Dio stesso è particolare (Dio non è me stesso); l’animale poi è al di fuori del gio­ co (il solo al di fuori del gioco). Quanto è pesante, magniloquente quest’essere, para­ gonato a colui che cade, « nella tazza di tè », in un essere umano. La grevità è il prezzo dell’impazienza, della sete di si­ curezza. Parlare di assoluto : parola ignobile, inumana. È l’aspirazione delle larve. Non voglio divinizzare nessuno. Ma rido quando Dio cade dalla sua insipidezza nella precarietà delle cose inafferrabili.

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Una donna ha fazzoletti, un letto, calze. Deve « allon­ tanarsi un momento », a casa sua o in un bosco. Nulla è cambiato se scorgo, come in trasparenza, ciò che essa è veramente: il gioco, la chance stessa. La sua verità non è al di sopra di lei. Tuttavia, come la « tazza di tè », la rag­ giungo soltanto in rari momenti di fortuna. E la voce at­ traverso la quale il mondo mi dà risposta. Ma senza l’at­ tenzione infinita - senza una trasparenza legata all’ecces­ so sfibrante del soffrire - non sentirei nulla. Dovremmo amare nell’amore della carne un eccesso di sofferenza. Senza questo eccesso, non potremmo en­ trare nel gioco. Nell’amore divino, il limite delle soffe­ renze è dato nella perfezione divina. Amo l’irreligiosità, la mancanza di rispetto del mette­ re in gioco. La messa in gioco mi pone con tanta risolutezza nel massimo rischio che in certi momenti perdo perfino la possibilità dell’angoscia. L’angoscia, allora, sarebbe il ri­ tiro dal gioco. Ho bisogno di amare. Ho bisogno di la­ sciarmi andare alla felicità, indovinando la chance. E guadagnare nell’estasi per lasciare, crudelmente, il gua­ dagno nel gioco che mi sfibra. Alimentare nuove angosce con l’amarezza implicita in queste ultime parole sarebbe allontanarmi dal gioco. Non posso essere in gioco senza l’angoscia che mi dà il sentimento di essere sospeso. Ma giocare significa su­ perare l’angoscia. Temo che questa apologia serva a fini di stupidità, di magniloquenza. L’amore è semplice e senza frasi. Vorrei che nell’amore di ciò che non si conosce - de­ rivante, per quanto io possa avercela contro, dalle tradi­ zioni mistiche - potessimo raggiungere, attraverso la ri­ vendicazione della trascendenza, una semplicità così grande da riconnettere questo amore all’amore terrestre - rifrangendolo all’infinito.

VI

Quanto, infine, resta sconosciuto, è ciò che, nello stes­ so momento, riconosco: sono io stesso, nel momento so­ speso della certezza, io stesso nell’apparenza dell’essere amato, di un rumore di cucchiaio, o del vuoto. Fin dall’inizio l’essere amato si confuse stranamente con me. Ma, appena intravisto, si fece inafferrabile. Per quanto lo cercassi, lo trovassi, lo stringessi... Per quanto sapessi... Non potevo aver dubbi; ma se non avessi an­ negato questa angoscia nella sensualità, come avrei sop­ portato la prova del desiderio? Il dolore deriva da un diniego opposto all’amore dal­ l’essere amato. L’essere amato si allontana, è diverso da me. Ma senza la differenza, senza l’abisso, l’avrei ricono­ sciuto invano... L’identità resta in gioco. La risposta che ci vien data al desiderio, è vera soltanto se non afferrata. Una risposta che si può afferrare è la distruzione del de­ siderio. Questi limiti definiscono il desiderio (e ci defini­ scono). Esistiamo nella misura in cui siamo in gioco. Se il gioco cessa, se ne traggo un elemento per fissarlo, non c’è più una sola eguaglianza che non sia falsa: passo dal tragico al ridicolo. Tutti gli esseri, in fondo, sono un essere solo. Si respingono l’un l’altro mentre non sono che uno. E in questo movimento - che è la loro essenza - l’identità fondamentale si annulla. Un’impressione di déjà-vu significa la sosta - improv­ visa e temporanea - della repulsione essenziale.

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La repulsione è, in noi, la cosa già sorteggiata, l’ele­ mento fisso. La fissità nell’isolamento è uno squilibrio, come ogni stato. Il desiderio definisce in noi la chance: è la trasparen­ za, il luogo di risoluzione dell’opacità. (La bellezza fisica è la trasparenza, ma passiva; la bruttezza virile - attiva provoca la trasparenza rovesciandola.) La trasparenza non è l’eliminazione ma il superamen­ to della solitudine individuale. Non è lo stato di unità teorico e fondamentale, è probabilità, la chance, in un gioco. La chance si frammischia al sentimento del déjà-vu. L’oggetto di questo non è il puro essere-uno, ma l’es­ sere separato, che deve il suo potere di negare la separa­ zione soltanto alla chance che gli è toccata come essere separato. Ma questa negazione presuppone l'incontro con l’essere amato. È effettiva soltanto in rapporto all’al­ tro, presupponendo nell’altro un’eguale chance. L’amore è questa negazione dell'essere-uno che la chance realizza, rilevando in un certo senso la separazio­ ne, eliminandola soltanto per l’eletto. In questa elezione l’essere amato è un superamento dell’universo, il cui splendore senza rischio è unicamente quello dell 'essere-uno. Ma la sua sorte - ciò che egli è presuppone l’amore. Dire che l’essere amato è in realtà diverso da ciò che l’amore pone in lui rivela un difetto comune dei giudizi sugli esseri. L’essere amato è nell’a­ more. Essere per uno solo, essere per una folla, essere per un numero infinito di « conoscenze », sono altret­ tante realtà diverse, ma ugualmente vere. L’amore, la fol­ la, un ambiente sono realtà da cui dipende la nostra esi­ stenza. In amore, la chance è ciò che l’amante cerca prima di tutto nell’essere amato. Ma l’apertura sul possibile è data pure dall’incontro dei due. Nell’unirli, l’amore è in un

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certo senso la festa del ritorno all’essere-uno. Ha nello stesso tempo, ma ad un grado supremo, l’opposto carat­ tere dell 'essere-sospeso, nell’autonomia, nel superamento del gioco.

VII

Odio i monaci. Rinunciare al mondo, all’apertura sul possibile, alla verità dei corpi, dovrebbe secondo me provocare vergo­ gna. Non- c’è peccato più grave. Sono felice di ricordare la notte in cui ho bevuto e ballato - ballato da solo, come un contadino, come un fauno, in mezzo alle coppie. Solo? veramente si ballava l’uno di fronte all’altro, in un potlatch 1 di assurdità, il filosofo - Sartre - ed io. Ricordo di aver danzato volteggiando. Saltando, battendo il pavimento coi piedi. In un sentimento di sfida, di comica follia. Questa danza - davanti a Sartre - si collega in me al ricordo di un quadro (le Demoiselles d’Avignon di Picas­ so). Il terzo personaggio era un pupazzo fatto di un te­ schio di cavallo e di un’ampia vestaglia a righe, gialla e color malva. Uno squallido baldacchino di letto gotico sovrastava questi sollazzi. Un incubo di cinque mesi finiva in un carnevale. Che stranezza associarmi a Sartre ed a Camus (cioè parlare di scuola). D ’altra parte, l’affinità che trovo in me coi monaci Zen non mi incoraggia di sicuro (non ballano, non bevo­ no, non...).

1 Potlatch, parola indiana del Nord-America, significa una festa religiosa consistente in scambi di doni. Gli etnologi ritengono questa istituzione una delle forme primitive del contratto. [N.d.T.]

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In un ambiente dove si pensa allegramente (libera­ mente) lo Zen è oggetto di una fiducia un po’ affrettata. I più seducenti monaci Zen erano casti.

APRILE-GIUGNO 1944

LA PO SIZIONE D ELLA CHANCE

In che misura la distruzione che la morale fa di se stessa è ancora una prova della sua for­ za? Noi europei ci portiamo dentro il sangue di coloro che son morti per la propria fede; abbiamo preso la morale terribilmente sul se­ rio; le abbiamo sacrificato tutto. D ’altra parte la nostra raffinatezza intellettuale è dovuta so­ prattutto alla vivisezione delle coscienze. Igno­ riamo ancora in che direzione saremo spinti quando avremo lasciato il nostro antico terri­ torio. Ma questa terra stessa ci ha comunicato la forza che ora ci spinge lontano, all’avventu­ ra, verso paesi senza sponde, che non sono an­ cora stati scoperti né sfruttati; non abbiamo scelta, dobbiamo essere conquistatori poiché non abbiamo più una patria dove avremmo desiderato di « stabilirci ». Ci spinge un’affer­ mazione segreta, più forte di tutte le nostre ne­ gazioni. La nostra forza stessa non ci permette di restare su questo suolo antico e decompo­ sto; ci arrischiamo a partire, ci mettiamo in gioco noi stessi; il mondo è ancora ricco e sco­ nosciuto ed è meglio morire piuttosto che di­ ventare invalidi e velenosi. Il nostro stesso vi­ gore ci spinge in alto mare, verso il punto in cui finora sono tramontati tutti i soli; sappia­ mo che c’è un nuovo mondo... 1885-1886

w

I

Faccio in modo che un istante per me importantissi­ mo, che aspettavo per così dire in lacrime, mi sfugga. Per questo vado oltre i miei mezzi. Non ci son tracce nella memoria o ben poche. Non scrivo ciò deluso e irri­ tato ma, come la freccia lanciata, sicuro di arrivare allo scopo. Ciò che dico è comprensibile a questa condizione: che si abbia il gusto di una purezza abbastanza vera per­ ché sia impossibile viverla. L’equivoco infinito: ciò che amo, e in cui come l’allo­ dola grido al sole la mia gioia, devo dirlo in termini de­ primenti.

n

Ritornando indietro, copio pagine vecchie di più d’un anno: nel gennaio del 1943, mi rappresentai per la prima volta (arrivavo a V.) V« apertura sul possibile », la chance di cui parlo:

Quanto è noioso riflettere talmente - su tutto il possi­ bile. Il futuro considerato come pesante. Ma: Per quanto io sia abile a mettere in dubbio, in un’an­ goscia annodata a qualcosa (nulla che non entri in gioco, in particolare la necessità di avere risorse-, e tutto ciò connesso al patetico della Fenomenologia dello spirito della lotta di classe: mangerò se...; all’inizio dell’anno 1943, mi viene in aiuto il patetico degli avvenimenti - so­ prattutto di quelli futuri), niente mi scuserebbe di venir meno al mio cuore (al fondo del cuore, in me: levità, zampillo). Nessuno più di me è straziato nel vedere: intuendo l’infinito, non escludendo nulla, intricando l’angoscia ai diritti, alle ire, alle furie della miseria. Come non dare tutta la forza alla miseria? Essa non potrebbe però in­ frangere in me la danza del cuore che ride dal fondo del­ la disperazione. Dialettica hegeliana. - Oggi mi è impossibile essere soltanto un collegamento tra due punti, un salto che es­ so stesso non posa per un istante su nulla. Il salto rappresentava i due quadri. Stendhal scalzava allegramente le sue risorse (la società nella quale ripone­ va le sue risorse). Arriva il momento della resa dei conti. Nella resa dei conti, i personaggi in aria tra due punti sono soppressi. Due rappresentazioni si contraddicono. Nel primo paragrafo mi rappresentavo libero dall’angoscia della re­ sa dei conti.

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E ancora: Il salto è la vita, la resa dei conti è la morte. E se la storia si ferma io muoio. Oppure: Oltre ogni resa dei conti, un nuovo genere di salto? se la storia è finita, un salto fuori del tempo? esclaman­ do per sempre: Time out o f joints. In uno stato di estrema angoscia - e poi di decisione scrissi queste poesie:

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E grido fuori di me che mai non più speranza nel mio cuore si nasconde un topo morto il topo muore è braccato e nelle mie mani il mondo è morto spenta la vecchia candela prima di mettermi a letto la malattia la morte del mondo io sono la malattia sono la morte del mondo.

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Il silenzio nel cuore il silenzio di un singulto ai colpi del vento violento le mie tempie battono la morte e cade una nera stella nel mio scheletro ritto nero silenzio invado il cielo nero la mia bocca è un braccio nero scrivere su un muro di fiamme nere il vento vuoto della tomba fischia nella mia testa.

io 6

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Il folle silenzio di un passo il silenzio di un singulto dov’è la terra dove il cielo e smarrito il cielo impazzisco. Smarrisco il mondo e muoio lo dimentico l’ho sepolto nella tomba delle mie ossa. 0 i miei occhi d’assente 1 miei occhi di teschio.

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Speranza o mio cavallo di legno nelle tenebre un gigante sono io, quel gigante su un cavallo di legno.

IO ?

io 8

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Cielo stellato sorella mia uomini maledetti stella, tu sei la morte la luce di un grande freddo solitudine della folgore infine assenza dell’uomo mi svuoto di memoria un sole deserto cancella il nome stella io la vedo il suo silenzio agghiaccia urla come un lupo cado a terra sul dorso essa mi uccide la indovino.

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O dadi gettati dal fondo della tomba tra dita di lieve notte dadi uccelli di sole balzo d’allodola ebbra io come la freccia saettante dalla notte o trasparenza delle ossa ebbro di sole il mio cuore è l’asta della notte.

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Ili

Ho vergogna di me stesso. Mi par d’essere rammolli­ to, influenzabile... invecchio. Qualche anno fa, ero autoritario, ardito, sapevo con­ durre un gioco. Ora probabilmente è finita e forse era una cosa superficiale. L’azione, l’affermazione, compor­ tavano a quei tempi ben poco rischio! Ogni molla in me sembra spezzata: la guerra smentisce le mie speranze (nulla agisce all’infuori delle macchinazioni politiche); sono debilitato da una malattia; un’angoscia continua finisce di distruggermi i nervi (ma non posso considerarne l’occasione come una debo­ lezza); sul piano morale, mi sento ridotto al silenzio (il cul­ mine non può essere affermato, nessuno può parlare a suo nome). A questo si oppone una coscienza sicura di sé: se esi­ ste una probabilità di agire, me ne servirò, non come d’un gioco secondario, ma puntando la mia vita. Anche se sono malato, vecchio e febbricitante, il mio carattere è l’agitare. Non posso sopportare all’infinito la sterilità senza limiti (mostruosa) a cui costringe la fatica. (Se, nelle mie condizioni attuali di vita, mi lascio an­ dare un momento, mi gira la testa. Alle cinque del matti­ no, ho freddo, mi sento venir meno. Non posso far altro che cercar di dormire.) La vita? la morte? talvolta butto l’occhio con amarez­ za verso il peggio; non potendone più, recito a scivolare nell’orrore. So che tutto è perduto; la luce che potrebbe infine illuminarmi brillerebbe per un morto. Tutto in me ride ciecamente alla vita. Cammino nella vita, con la leggerezza di un bambino, la reggo.

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III

Ascolto cadere la pioggia. La mia tristezza, le minacce di morte, e questa specie di paura, che distrugge ma indica un culmine, si agitano in me; tutto questo mi ossessiona, mi soffoca... ma vado oltre - andiamo oltre.

IV

Mi meraviglio di cadere nell’angoscia - e tuttavia! Non smetto di giocare: è la condizione dell’ebbrezza del cuore. Ma vuol dire anche misurare il fondo ripugnante del­ le cose: giocare è sfiorare il limite, andare il più lontano possibile, e vivere sull’orlo dell’abisso! Uno spirito libero e che voglia essere tale sceglie tra l’ascesi e il gioco. L’ascesi è il gioco nella chance contra­ ria, una negazione del gioco invertitasi da sola. L’ascesi, è vero, rinuncia, si ritira dal gioco, ma il suo ritiro stesso è un modo di puntare. Ugualmente il gioco è una specie di rinuncia. La som­ ma puntata dall’autentico giocatore è perduta come « ri­ sorsa »: egli non ne « godrà » più. Se la perde, è detto tutto. Il guadagno che si aggiunge alla prima puntata, se egli vince, è il completamento delle nuove puntate e null’altro. H denaro del gioco « brucia le mani ». L’ardore del gioco consacra al gioco. (Le martingale e la specula­ zione matematica sono l’opposto del gioco come il cal­ colo delle probabilità lo è della sorte, della chance.) Così, quando il desiderio mi brucia - e mi inebria quando perseguire il suo obiettivo diventa il mio gioco, non posso in fondo avere la minima speranza. Il posses­ so, come la vincita del giocatore, accresce il desiderio o lo spegne. « Non c’è più riposo, ormai, per me! ». H romanticismo oppone, a quella dell’ascesi, ima san­ tità del gioco che rende insipidi i monaci e gli astinenti. « Onorare tanto più il fallimento quanto più è falli­ mento »... Così, in Ecce homo, Nietzsche si esprime a proposito del rimorso.

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II 3

Le dottrine di Niet2sche hanno questo di strano, che non si può seguirle. Esse ci pongono dinanzi bagliori im­ precisi, spesso abbaglianti: nessuna strada conduce nella direzione indicata. Nietzsche profeta di nuove vie? Ma superuomo, eter­ no ritorno nulla contano come motivi di esaltazione o di azione. Senza effetto, se paragonati ai motivi cristiani, o buddhisti. La stessa volontà di potenza è ben meschino tema di meditazione. Averla è bene: ma rifletterci? Nietzsche si accorse della falsità dei profeti che dico­ no: « fate questo o quello »; che indicano il male ed esortano alla lotta. « La mia esperienza » egli afferma in Ecce homo « ignora ciò che significa “volere” qualcosa, “lavorarvi ambiziosamente”, mirare ad imo “scopo” o alla realizzazione di un desiderio. » Nulla di più contra­ rio al buddhismo, al cristianesimo di propaganda. Paragonati a Zarathustra, Gesù e Buddha sembrano servili. Avevano qualche cosa da fare in questo mondo e anche un compito pesante. Erano soltanto « saggi », « dotti », « salvatori ». Zarathustra (Nietzsche) è qualche cosa di più: un seduttore, che rideva dei compiti che si era assunto. Si immagini un amico di Zarathustra che si presenta al monastero e, rifiutato, si siede sotto il portico d’entra­ ta, aspettando l’accettazione dalla buona volontà dei su­ periori. E qui non si tratta soltanto di essere umile, di chinare il capo senza ridere: il buddhista come il cristia­ no prende sul serio ciò che comincia a fare - s’impegna a non avvicinare più donne, per quanta voglia ne abhia\ Gesù, Buddha avevano qualche cosa da fare in questo mondo: fissarono ai loro discepoli un compito arido e obbligatorio.Il Il discepolo di Zarathustra impara soltanto, in fine, a rinnegare il suo maestro: gli si dice di odiarlo e di « al­ zare la mano sulla sua corona ». Il pericolo di un segua-

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ce non è il « vivi pericolosamente » del profeta, ma di non aver nulla da fare in questo mondo. Una delle due: o non si crede a nulla di ciò che si può fare (che si può effettivamente compiere, ma senza fede), o non si è il discepolo di Zarathustra, che non fissa com­ piti. Ho sentito al caffè dove pranzo una discussione do­ mestica. Rimostranza del padrone, del marito (giovane e sciocco): « Quella mi fa il muso, perché? ». La moglie serve in sala, con un sorrisetto in tralice. Dappertutto si manifesta la discordanza delle cose. Ma non è forse augurabile? Anche la discordanza aperta in me come una piaga - tra K. e me, la fuga senza fine che mi sottrae la vita e senza fine mi lascia nello sta­ to di un uomo che cade per uno scalino imprevisto, la sento, in fondo, e nonostante la paura, voluta da me. Quando K. mi scivola sotto gli occhi e mi oppone uno sguardo assente, talvolta mi capita - dolorosamente - di indovinare in me un’ardente complicità. E lo stesso, og­ gi, forse alla vigilia di catastrofi personali, non posso non riconoscere un fondo di voglia, un’attesa delle prove vi­ cine (indipendentemente dai risultati). Se per esprimere il mio sentimento avessi a disposi­ zione le risorse della musica, ne risulterebbe un bagliore, certo fragile, e nello stesso tempo un’ampiezza molle e delirante, un moto di gioia così selvaggia ma così abban­ donata, che non si potrebbe più dire se muoio o rido.

V

Improvvisamente viene il momento - difficoltà, sfor­ tuna e grande eccitazione delusa - a cui si aggiungono minacce di sventure: vacillo e, rimasto solo, non so come sopportare la vita. O meglio lo so: mi indurirò, riderò della mia debolez­ za, proseguirò come prima per la mia strada. Ma ora ho i nervi scoperti e, sfatto per aver bevuto, mi sento infeli­ ce di essere solo e d’aspettare. Questo tormento è insop­ portabile perché non è l’effetto di alcuna sventura e de­ riva soltanto dall’eclissi della chance. (Chance fragile e sempre in gioco, che mi affascina e mi sfinisce.) Ora mi irrigidirò, andrò per la mia strada (ho comin­ ciato). A patto di agire! Scrivo questa pagina con grande cura, come se ne valesse la pena. A patto di agire! Di aver qualche cosa da fare! Altrimenti come potrei indurirmi? Come potrei sop­ portare questo vuoto, questa sensazione di inanità, di se­ te che nulla può estinguere? Ma che cosa devo fare se non precisamente scrivere questo: questo libro dove ho raccontato il mio smacco (la mia disperazione) per non aver nulla da fare in questo mondo? Nel fondo stesso del mancamento (lieve, in realtà), indovino. Ho uno scopo al mondo, una ragione di agire. Non può essere definito. Immagino una strada difficile, tutta segnata di diffi­ coltà, dove mai mi potrebbe abbandonare il bagliore della mia chance. Immagino l’inevitabile, tutti gli av­ venimenti futuri. Nello strazio e nella nausea, nei mancamenti in cui le gambe si piegano e fino al momento della morte, starò in gioco.

il 6

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La chance che mi è toccata e che si rinnovò senza stanchezza, che mi precedette ogni giorno come l’araldo il cavaliere

che da nulla fu mai limitata, che evocavo quando scrissi io come la freccia saettante dalla notte

questa chance mi lega a chi amo, nel meglio e nel peg­ gio, vuole essere tenuta in gioco fino all’ultimo. E se capita che al mio fianco qualcuno la veda, la metta in gioco! Non è la mia, è la sua chance. Non potrà afferrarla più di quanto possa fare io. Non saprà nulla di essa; la porrà in gioco. Ma chi potrebbe vederla senza porla in gioco? Chiunque tu sia, lettore: metti in gioco la tua chance. Come lo faccio io, senza fretta, così come nel momen­ to in cui scrivo ti metto in gioco. Questa chance non è né tua né mia. È la chance di tutti gli uomini e la loro luce. Ebbe mai lo splendore che le dà ora la notte? Nessuno, all’infuori di K. e di M. (forse) può cono­ scere il significato di questi versi (o di quelli precedenti): dadi per uccelli di sole...

(Sono anche, su un altro piano, privi di senso.) Sto in gioco sull’orlo di un abisso così grande che sol­ tanto un sogno, un incubo di moribondo possono defi­ nirne la profondità. Ma giocare è prima di tutto non prendere sul serio. E morire... L’affermazione particolare della chance, insieme con quella del gioco, sembra vuota e inopportuna.

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È un peccato limitare ciò che è, per essenza, illimita­ to: la chance, il gioco. Posso pensare: K. o X. non possono stare in gioco senza di me (è vero il contrario, non potrei stare in gioco senza K. e X.). Questo non vuol dire nulla di definito (se non « mettere in gioco la propria chance » è « trovarsi »; « trovare se stessi » vuole dire « trovare la chance che si era »; « la chance che si era » viene raggiunta soltanto « stando in gioco »). Ed ora? Se definisco un genere di uomini degni di essere ama­ ti - voglio essere ascoltato con un solo orecchio. La definizione denuncia il desiderio. Mira ad un cul­ mine inaccessibile. H culmine si sottrae all’essere conce­ pito. È dò che è, mai dò che deve essere. Dopo essere stato indicato, il culmine si riduce alla comodità di un essere, si riferisce all’interesse di questo. Nella religione, è la salvezza - propria o degli altri. Due definizioni di Nietzsche: i ° « s t a t o d ’a n i m o e l e v a t o . Mi sembra che, in gene­ re, gli uomini non credano ad uno stato di elevazione spirituale, se non a momenti, al massimo per dei quarti d’ora - eccettuati alcuni pochi i quali conoscono per esperienza il perdurare degli stati d’animo elevati. Ma essere l’uomo di un solo grande sentimento, l’incarna­ zione di un unico eccelso stato d’animo, è stato finora soltanto un sogno ed una estasiarne possibilità: la storia non ce ne dà ancora alcun esempio sicuro. Tuttavia essa potrebbe un giorno far nascere un tal genere di uomini e ciò avverrà quando si sarà creata e stabilizzata una se­ rie di condizioni favorevoli, che ora neppure il caso più felice sarebbe in grado di mettere insieme. Forse, in questi spiriti del futuro, lo stato eccezionale che ci affer­ ra di tanto in tanto in un fremito diventerebbe lo stato normale: un andirivieni continuo tra l’alto e il basso, un sentimento di alto e di basso, un continuo salire come delle scale e un continuo librarsi sulle nuvole » {La gaia sdenta, 288).

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2° « L’anima che ha la scala più lunga e può scendere più in basso, l’anima più vasta, quella che può correre, errare, vagabondare più lontano in se stessa, l’anima più necessaria, quella che si getta con piacere nel rischio, l’anima che è, e vuole entrare nel divenire; l’anima che ha, e vuole gettarsi nella volontà e nel desiderio, l’anima che fugge se stessa e che si riafferra sul circui­ to più lungo, l’anima più saggia cui la follia parla più dolcemente nel cuore, l’anima che ama di più se stessa e nella quale ogni co­ sa ha la sua ascesa e la sua discesa, il flusso e il riflusso » {Zarathustra). Non si negherà senza ragione l’esistenza effettiva di questo genere di anime. Esse sarebbero diverse dai mistici nel senso che « gio­ cherebbero » e non potrebbero essere l’effetto di un’ap­ plicazione che specula sui risultati. Non so che cosa significa questa provocazione rivolta aK . Tuttavia non posso evitarla. Per me è la verità stessa: - Tu sei ima parte di me stesso, un pezzo tagliato sul vivo. Se fallisci il tuo culmine, me ne trovo disturbato. In altro senso, questo è un sollievo; ma se falliamo da­ vanti a noi stessi, che sia a patto di avere una scala (pos­ siamo, dobbiamo allontanarci da noi stessi, ma soltanto se, una buona volta, arriviamo sino in fondo e, senza più computare, ci buttiamo in gioco). So che non c’è al mondo alcun genere di obbligo, tuttavia non posso di­ struggere in me l’impaccio che deriva dalla paura del gioco. Chiunque, in fin dei conti, è parte di me stesso. Per fortuna, questo non è percettibile, di solito. Ma l’amore scopre nel vivo questa verità.

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Non c’è più nulla in me che non proceda zoppican­ do, più nulla che non arda e non viva - o muoia - di speranza. Sono una provocazione per quelli che amo. Non pos­ so sopportare di vederli dimenticare la chance che sareb­ bero se s’introducessero nel gioco. Una speranza insensata mi innalza. Mi vedo davanti una specie di fiamma, che sono io stesso, e che mi incendia. « ...vorrei far del male a coloro che illumino ». Sopravvivo - non potendo far nulla - alla lacerazione, seguendo cogli occhi questo bagliore che mi schernisce. « Se si conserva anche un minimo residuo di supersti­ zione, sarà difficile difenderci dall’impressione di essere soltanto l’incarnazione, il portavoce, il medium di una potenza superiore. L’idea di rivelazione, se si intende con questo l’improvvisa apparizione di qualcosa che si fa vedere e sentire a un uomo con una nitidezza ed ima precisione inesprimibili, sconvolgendo tutto in lui, sov­ vertendone Tardino fin nell’intimo, questa idea di rivela­ zione è pura descrizione dell’evidenza di un fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si domanda chi dà; il pensiero fulmina come il lampo, si impone necessaria­ mente e in forma definitiva: non mi sono mai trovato a dover scegliere. E un rapimento in cui talvolta il nostro animo troppo teso trova sollievo in un torrente di lacri­ me, ci si mette a camminare macchinalmente, si va più in fretta, si rallenta senza saperlo; è un’estasi che ci rapi­ sce a noi stessi, lasciandoci la percezione di mille brividi delicati che ci percorrono fino alla punta dei piedi; è un abisso di dolcezza in cui l’orrore e l’estrema sofferenza non appaiono come il contrario, ma come qualcosa di ri­ sultante, di provocato, il colore necessario nel fondo di questo oceano di luce... » (Ecce homo).

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Io non immagino una « potenza superiore ». Vedo, nella sua semplicità, la chance, insostenibile, buona, ar­ dente... E senza di essa gli uomini sarebbero quello che sono. Ciò che vuole esser divinato nell’ombra davanti a noi: ammaliante richiamo di un latteo aldilà, certezza di un lago di delizie.

VI

L’interrogazione nel mancamento appartiene a quelle che esigono subito una risposta. Devo vivere, non sapere soltanto. L’interrogazione che voleva sapere (il suppli­ zio) sottintende che le vere preoccupazioni siano allon­ tanate: essa avviene quando la vita è sospesa. Mi è facile ora vedere ciò che svia quasi ogni uomo dal possibile, o, se si preferisce, ciò che svia l’uomo da se stesso. Effettivamente il possibile è solo una chance - che non si può afferrare senza pericolo. Tanto vale accettare la vita scialba, e considerare un pericolo la verità della vita che è la chance. La chance è un elemento di rivalità, un’impudenza. Da ciò l’odio del sublime, l’affermazione del terra-terra ad unguem e il timore del ridicolo (dei sentimenti rari, nei quali si inciampa o che si teme di avere). L’atteggiamento falso, scialbo, sornione, chiuso alla « sconvenienza » e perfino a qualsiasi manifestazio­ ne di vita (atteggiamento che caratterizza generalmente la « virilità » intesa come l’età matura, e soprattutto le conversazioni), è, se ci si pensa, timor panico della chan­ ce, del gioco, del possibile aperto all’uomo e di tutto ciò che pretendiamo di amare nell’uomo, che riceviamo in sorte come chance e rifiutiamo con l’aria falsa e chiusa di cui ho parlato come casualità di gioco, come squili­ brio, ebbrezza, pazzia. E così. Ogni uomo è occupato ad uccidere in sé l’uo­ mo. Vivere, esigere la vita, far risonare un rumore di vi­ ta, è andar contro l’interesse. Dire intorno a sé: « guar­ datevi, siete tetri, tozzi; questo rallentamento, questa vo­ glia di essere spenti, questa noia infinita (accettata), que­ sta mancanza di orgoglio, ecco quel che voi fate di un possibile; leggete ed ammirate, ma uccidete in voi e in­ torno a voi ciò che dite di amare (voi lo amate soltanto

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scaduto, morto, e non nell’atto di stimolarvi), amate il possibile nei libri, ma io leggo nei vostri occhi l’odio del­ la chance... ». E parlare così è sciocco, è andare invano contro corrente, ricominciare le lamentazioni dei profe­ ti. L’amore richiesto dalla chance - la quale vuol essere amata - domanda pure che amiamo l’impotenza ad amarla, tipica di ciò che essa rifiuta. Non odio affatto Iddio, in fondo lo ignoro. Se Dio fosse ciò che si è detto, sarebbe chance. Per me, non è meno sconcio trasformare la chance in Dio di quanto lo sia l’inverso per un devoto. Dio non può essere chance, poiché è tutto. Ma la chance che tocca in sorte, che agi­ sce senza fine, che si ignora e si rinnega in quanto è toc­ cata in sorte (è la guerra stessa), domanda di essere ama­ ta e non ama meno di quanto i devoti immaginarono di Dio. Che dico? Al confronto della sua esigenza, quella di un Dio è vezzo da bambini. Infatti la chance innalza per far cadere da una maggiore altezza; la sola grazia che possiamo infine sperare è che ci distrugga tragicamente invece di farci morire di ebetudine. Quando i falsari della devozione oppongono all’amo­ re di Dio quello della creatura, oppongono la chance a Dio, ciò che tocca in sorte (si gioca) all’opprimente tota­ lità del mondo già accaduto, « toccato ». P E R SE M P R E

l ’a m o r e

D E L L A C REA TU RA È IL S E G N O E

L A V IA D I U N A M O R E IN F IN IT A M E N T E PIÙ V ER O , PIÙ

(Dio: se SÌ considera quest’immagine sviluppata, è semplice sup­ porto del merito, sostituzione di una garanzia all’alea). ST R A Z IA N T E , PIÙ PU RO D E L L ’A M O R E D IV IN O

A chi afferra il significato della chance, quanto pare scialba l’idea di Dio, e torbida, un’idea che tarpa le ali! Dio, come tutto, insignito degli attributi della chan­ ce! Tale scivolosa aberrazione ha come presupposto l’annientamento —intellettuale, morale - della creatura (la creatura è la chance umana).

VII

Scrivo seduto su una banchina con i piedi sulla mas­ sicciata. Aspetto. Odio aspettare. Ho poca speranza di arrivare in tempo. Questa tensione opposta al desiderio di vivere... che assurdità! Parlo della mia tetra evocazio­ ne di una felicità in mezzo ad una folla oppressa che aspetta - al cader del giorno, tra il lusco e il brusco. Arrivato in tempo. Sei chilometri a piedi nella foresta di notte. Svegliata K. gettando manciate di sassolini con­ tro la finestra. Allo stremo delle forze. Parigi è greve, dopo i bombardamenti. Ma non trop­ po. Quando ci lasciamo, S. mi dice una frase della sua portinaia: « Cosa mai siamo costretti a vedere in questi tempi: pensi che si sono trovati cadaveri vivi sotto le ma­ cerie! ». Da un racconto di tortura (Petit Parisien, 27-4): « ...accecato, con le orecchie e le unghie delle mani strappate, la testa fracassata a colpi di bastone e la lin­ gua tagliata con una tenaglia... ». Da bambino, l’idea del supplizio mi rendeva faticosa la vita. Ancora adesso non so come potrei sopportarlo... La terra è nei cieli, dove gira... Oggi la terra, da ogni parte, si copre di fiori - lillà, glicine, iris - e nello stesso tempo rumoreggia la guerra: centinaia di aerei riempiono la notte di un ronzio di mo­ sche. La sensualità non è nulla senza il torbido scivolare, in cui l’inaccessibile - qualche cosa di vischioso, di folle, che di solito sfugge - è improvvisamente percepito. Questo « vischioso » sfugge ancora, ma anche soltanto intravedendolo, i nostri cuori battono di pazze speranze: queste stesse speranze le quali, urtandosi, spingendosi

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come per raggiungere un’uscita, fanno scaturire, alla fi­ ne... Spesso un aldilà insensato ci strazia quando sem­ briamo lascivi. « Aldilà » che inizia dalla sensazione del nudo. Il nu­ do casto è l’estremo limite dell’imbecillità. Ma se esso ci desta alla voglia di contatto (dei corpi, delle mani, delle umide labbra), è dolce, animale, sacro. Perché, una volta nudo, ciascuno di noi si apre a qual­ che cosa di più che se stesso, si inabissa dapprima nell’as­ senza di limiti animali. Ci inabissiamo, allargando le gam­ be, spalancati il più possibile a ciò che non è più noi stes­ si ma l’esistenza impersonale, paludosa, della carne. La comunicazione dei due esseri che passano attra­ verso una perdita di se stessi nel dolce fango che è loro comune... Un’immensa distesa di bosco, alture dall’aspetto sel­ vaggio. Manco di fantasia. Il massacro, l’incendio, l’orrore: questo, sembra, riserveranno le prossime settimane. Pas­ seggiando nella foresta o scoprendo l’ampiezza di un’al­ tura, non riesco a immaginarla mentre sta bruciando: tuttavia brucerebbe come la paglia. Visto oggi, da molto lontano, il fumo di un incendio dalla parte di A. Intanto, questi ultimi giorni sono tra i migliori della mia vita. Quanti fiori da ogni parte! Quanto è bella la luce, e pazzamente alto nel sole il frondeggiare delle querce! La sovranità del desiderio, dell’angoscia, è l’idea più difficile da capire. Infatti il desiderio si nasconde. E na­ turalmente l’angoscia tace (non afferma nulla). Dalla prospettiva della sovranità banale, l’angoscia e il deside­ rio sembrano pericoli. Dalla prospettiva dell’angoscia, del desiderio, cosa possiamo farcene della sovranità? Che cosa significa in più la sovranità che non regna, da tutti misconosciuta, obbligata ad esserlo, e pur na-

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scondentesi poiché non ha nulla che non sia ridicolo e inconfessabile? Tuttavia immagino Yautonomia dei momenti di ango­ scia o di gioia (estasi o piacere fisico) come la meno con­ testabile. Il piacere sessuale (che si nasconde ed è moti­ vo di riso) raggiunge l’essenziale della maestà. E così la disperazione. Ma il disperato, il voluttuoso, non conoscono la loro maestà. E se la conoscessero, la perderebbero. L’autono­ mia umana necessariamente sfugge (si rende schiava proprio affermandosi). La vera sovranità è una esecuzio­ ne capitale di se stessa, così coscienziosa che non può, in alcun momento, porsi il problema di questa esecuzione. A una donna occorre più virtù per dire: « No men around bere, VII go and find one », che per rifiutare nella tentazione. Se si è bevuto, si scorre naturalmente l’uno nell’altro. La parsimonia è allora un vizio, un’esibizione di povertà (di disseccamento). Se non fosse per la capacità che hanno gli uomini di offuscare e avvelenare le cose sotto ogni aspetto - di es­ sere rancidi e pieni di fiele, piatti e meschini - che scusa avrebbe la prudenza femminile? Il travaglio, la pena, un amore immenso..., il meglio e il peggio. Giornata piena di sole, quasi estiva. Il sole, il calore bastano a se stessi. I fiori si aprono, i corpi... La debolezza di Nietzsche: egli critica in nome di un valore mobile, di cui non ha, evidentemente, potuto af­ ferrare l’origine e la finalità. Cogliere una possibilità isolata, con uno scopo parti­ colare, che sia solo per se stessa uno scopo, non è gioca­ re, jn fondo? È possibile allora che l’interesse dell’operazione stia nel gioco, non nello scopo prescelto. E se mancasse questo fine ristretto? Il gioco ne ordi­ nerebbe comunque i valori.

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Gli aspetti superuomo o Borgia sono limitati, vana­ mente definiti, di fronte a possibili la cui essenza consi­ ste in un superamento di se stessi. (Questo non toglie nulla allo scompiglio, al vento vio­ lento, che rovescia le antiche sufficienze.) Questa sera mi sento fisicamente sfinito, moralmente bizzarro, irritato. E aspetto sempre... Certo non è il mo­ mento di « mettere in questione ». Ma che posso farci? La stanchezza e l’irritazione mi mettono in causa mio malgrado e, nell’attuale stato di sospensione, finiscono persino col porre tutto in causa. Temo soltanto, in que­ ste condizioni, di non poter arrivare a capo di un possi­ bile che sia lontano. Che cosa significa un mancamento, del resto facile da superare? Abortirò in tutti i sensi, im­ putando alla mia debolezza un risultato che sfugge. Mi accanisco - e, infine, ritorna la calma, il sentimen­ to di dominare e di essere sì un giocattolo, ma d’accordo col gioco. Andare fino in fondo? Ora non posso che andare avanti a caso. Or ora, per la strada, in un viale di ippoca­ stani, le fiamme del nonsenso spalancavano i limiti del cielo... Ma devo rispondere a domande immediate. Che fare? Come rapportare ai miei fini un’attività che non esiti più? Condurre così nel vuoto un essere pieno? Alla pura esultanza dell’altro giorno è seguita un’in­ quietudine immediata. Nulla di inatteso. Di nuovo spez­ zato dall’attesa. Ho fatto, or ora, con K. il giro delle cose. Per un mo­ mento - tanto breve - eravamo appena stati felici. La possibilità di un vuoto infinito mi ossessiona, la coscien­ za di ima situazione inesorabile, di un futuro senza via di uscita (non parlo più di avvenimenti prossimi). Altre situazioni più pesanti? un tempo? Non è certo. Oggi tutto è nudo. Ciò che poggiava su di un artificio è perduto.

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La notte in cui entriamo non è soltanto la notte oscu­ ra di Juan de la Cruz, né l’universo vuoto senza un Dio soccorrevole: è la notte della fame vera, del freddo che ci sarà nelle camere e degli occhi strappati nei locali del­ la polizia. Vale la pena di considerare questa coincidenza di tre iliverse disperazioni. Mi sembra di non aver diritto di pensare all’aldilà della chance di fronte ai bisogni della folla, so che non c’è scampo e che i fantasmi del deside­ rio accrescono infine il dolore. In queste condizioni, come giustificare il mondo? 0 piuttosto: come giustificare me stesso? come voler es­ sere? Occorre una forza fuori del comune, ma, se non di­ sponessi già di questa forza, non avrei afferrato questa situazione nella sua nudità. Ecco ciò che mi fa andare sino al fondo. Le mie ango­ sce quotidiane. La dolcezza, o meglio la delizia della mia vita. Allarmi costanti, che riguardano la mia vita persona­ le, per me inevitabili, tanto più grandi quanto maggiore è la delizia. Il valore assunto dalla delizia nel momento in cui, da ogni lato, è presente l’impossibile. Il fatto che alla minima debolezza, tutto nello stesso tempo mi vien meno. L’entusiasmo col quale scrivo mi ricorda il Dos de mayo di Goya. Non scherzo. Questo quadro ha poco a che vedere con la notte: è folgorante. La mia felicità pre­ sente è solida. Mi cresce una forza alla prova del peggio. Rido di questo e di quello. Altrimenti cadrei, senza aver nulla a cui appigliarmi, in un vuoto definitivo.Il Il vuoto tenta ma che fare nel vuoto? Diventare una cosa senz’uso, un’arma di vecchio mo­ dello. Soccombere al disgusto per se stessi. Senza la mia felicità - senza la folgorazione - cado.

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Sono chance, luce, e questo, lentamente, fa indietreggia­ re l’inevitabile. Oppure? Sarei il soggetto di sofferenze infinite, prive di senso. Per questo, soffrirei due volte la perdita di K. Essa non colpirebbe in me soltanto la passione ma il carattere (l’essenza). Mi sveglio angosciato del torpore di ieri. Ogni oblio deprime: il mio denuncia la stanchezza. La stanchezza nelle condizioni anormali in cui vivo? La stanchezza è vicina alla disperazione? L’entusiasmo stesso sfiora la di­ sperazione. Questa angoscia è superficiale. La costanza è più for­ te. Il fatto di aver parlato della mia risoluzione la rende tangibile: è la stessa, questa mattina o ieri. La passione è, in un certo senso, in secondo piano. O meglio, si trasfor­ ma in decisione. La passione che assorbe la vita la degra­ da. Essa gioca tutto, la vita intera, per una posta partico­ lare. La passione pura si può paragonare alle orchestre di donne senza uomini: manca un elemento e si fa il vuoto. Il gioco che immagino, invece, è il più completo: non c’è nulla in esso che non sia posto in causa, la vita di tutti gli esseri e il futuro del mondo intelligibile. Anche il vuoto considerato nella perdita sarebbe, in questo ca­ so, la risposta attesa al desiderio infinito, l’uscire di una morte infinita, un vuoto così grande che scoraggia perfi­ no la disperazione. Ciò che è oggi in questione non è la scomparsa del carattere forte (lucido, cinico), ma soltanto l’unione tra questo carattere e la totalità dell’essere: ai punti estremi dell’intelligenza e dell’esperienza del possibile. In ogni campo, bisogna considerare: i° una media accessibile in generale, o per una deter­ minata massa: come il livello di vita medio, il rendimen­ to medio; 2° l’estremo, il record, il culmine.

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Umanamente, non si possono eliminare né l’una né l’altra di queste opposte situazioni. Il punto di vista della massa conta necessariamente per l’individuo, come quel­ lo dell’individuo per la massa. Se si nega uno di questi punti di vista, lo si fa prov­ visoriamente, in circostanze definite. Queste considerazioni sono chiare per quanto riguar­ da i particolari campi (gli esercizi fisici, l’intelligenza, la cultura, le capacità tecniche...); lo sono meno se si tratta della vita in generale: di ciò che è possibile aspettarsene, oppure, del modo di esistere che vai la pena di amare (cercare, magnificare). Anche tralasciando le divergenze di opinioni, un’ultima difficoltà deriva dal fatto che il modo di esistere preso in considerazione differisce quali­ tativamente - e non soltanto quantitativamente - a se­ conda che si consideri la media o l’estremo. In realtà esi­ stono due specie di estremi: quello che, dal di fuori, sembra estremo alla media; quello che sembra estremo a chi fa lui stesso l’esperienza delle situazioni estreme. Qui ancora, umanamente, nessuno può eliminare l’u­ no o l’altro di quei punti di vista. Ma se la media che elimina il punto di vista puro del­ l’estremo è giustificabile, non è la stessa cosa per l’estre­ mo che nega l’esistenza e i diritti di un punto di vista medio. Dirò di più. L’estremo non può essere raggiunto se si immagina la massa obbligata a riconoscerlo come tale (Rimbaud che immagina la folla sminuita dal fatto che essa ignora, mi­ sconosce Rimbaud!). Ma: non c’è neppure un estremo senza il riconoscimento da parte degli altri uomini (a meno che non si tratti del­ l’estremo degli altri-, mi riferisco al principio hegeliano dell'Anerkennen). La possibilità di essere riconosciuto da una minoranza significativa (Nietzsche) è già essa stessa nella notte. Verso la quale infine si rivolge ogni estremo. Soltanto la chance riserva alla fine una possibilità che calma.

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Dalle numerosissime difficoltà della vita deriva una possibilità infinita: noi attribuiamo a quelle che ci hanno fermato il sentimento di impossibile che ci domina! Se crediamo l’esistenza intollerabile, dipende dal fatto che un male preciso la svia. E lottiamo contro questo male. L 'impossibile è eliminato se è possibile la lotta. Se pretendiamo il culmine, non possiamo considerar­ lo raggiunto. Sento invece la necessità di dire - tragicamente? for­ se...: « L’impotenza di Nietzsche è senza scampo ». Se la possibilità ci è data nella chance - non quella ri­ cevuta dal di fuori, ma quella che siamo, giocando e sfor­ zandoci fino all’ultimo, non c’è evidentemente nulla di cui possiamo dire: « sarà possibile così ». Non sarà pos­ sibile, ma giocato. E la chance, il gioco, presuppongono in fondo Yimpossibile. La tragedia di Nietzsche è quella del buio, che nasce da un eccesso di luce. Gli occhi arditi, aperti come in un volo d’aquila... il sole dell’immoralità, la folgorazione della malvagità lo accecarono. Parla in lui un uomo abbagliato. La cosa più difficile. Arrivare al punto più basso. Dove tutto è gettato a terra, infranto. Se stesso col na­ so nel vomitaticcio. Rialzarsi senza vergogna: all’altezza dell’amicizia. j

Là dove falliscono la forza e la tensione della volontà, la chance ride (o meglio - che so? - un giusto sentimen-

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lo del possibile, un accordo prestabilito dal caso?) e alza innocentemente il dito... Questo, infine, mi sembra strano. Vado io stesso verso il punto più cupo. Dove tutto mi sembra perduto. E, contro ogni apparenza: sollevato da un sentimento di chance! Sarebbe una commedia impotente, se non fossi roso dall’angoscia. La cosa più greve. Ammettere la sconfitta e l’errore abbagliato, l’impo­ tenza di Nietzsche. Uccello arso nella luce. Lezzo di piume arrostite. La testa umana è debole e dà i numeri. Non può evitarlo. Così. Aspettiamo dall’amore il risolversi di sofferenze infinite. Ma cos’altro fare? L’angoscia in noi è infinita e noi amiamo. Ci tocca comicamente stendere l’essere amato su questo letto di Procuste: un’angoscia infinita! La sola via rigorosa, onesta. Non aver nessuna esigenza finita. Non ammettere li­ miti in alcun senso. Neppure nella direzione dell’infini­ to. Esigere da un essere: quello che è o quello che sarà. Non saper nulla, se non l’ammaliamento. Non fermarsi mai ai limiti apparenti.

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Ieri sera abbiamo bevuto (K. ed io) due bottiglie di vino. Notte magica di chiaro di lima e di tempesta. Il bosco di notte, lungo la strada radure di luna tra gli al­ beri e, sulla scarpata, piccole macchie fosforescenti (alla luce di un fiammifero, frammenti di rami tarlati pieni di vermiciattoli lucenti). Mai conosciuta una felicità più pura, più selvaggia, più cupa. Sensazione di andare mol­ to lontano: di avanzare nell’impossibile. Un impossibile magico. Come se, in quella notte, fossimo perduti. Solo al ritorno, sono salito in cima alle rocce. L’idea che il mondo degli oggetti è privo di necessità, l’idea dell’adeguamento dell’estasi a questo mondo (e non dell’estasi a Dio o dell’oggetto alla necessità mate­ matica) mi apparve per la prima volta - mi innalzò sopra la terra. In cima alle rupi, mi tolsi gli abiti, con un vento furio­ so (faceva caldo: avevo soltanto camicia e pantaloni). Il vento sfìoccava le nuvole che si deformavano sotto la lu­ na. L’immensa foresta al lume di luna. Mi volsi nella di­ rezione di... nella speranza... (Non m’importava nulla Tesser nudo: rimisi i vestiti.) Gli esseri (un essere amato, io stesso) che si perdono lentamente nella morte, somi­ gliano alle nuvole disfatte dal vento: mai più... Amai il viso di K. Come le nuvole che disfa il vento: entrai senza un grido in un’estasi ridotta ad un punto morto e perciò tanto più limpida. Notte magica simile a poche altre notti vissute. L’orribile notte di Trento (i vecchi erano belli, e balla­ vano come dèi - lo scatenarsi di un temporale visto da una camera in cui l’inferno... la finestra dava sulla catte­ drale e sugli edifici della piazza). Di notte, la piazzetta di V. in cima alla collina somi­ gliava, per me, alla piazza di Trento.

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Notti di V., ugualmente magiche, una di agonia. La decisione sigillata da una poesia sui dadi, scritta a V., si riferisce a Trento. Questa notte nella foresta non è meno decisiva. La chance, una serie incredibile di chance, mi accom­ pagna da dieci anni. Straziandomi la vita, rovinandola, spingendola sull’orlo dell’abisso. Certe chance fanno co­ steggiare l’orlo: un po’ più di angoscia e la chance diver­ rebbe il suo contrario.

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Saputo dello sbarco. Questa notizia non mi ha colpi­ to. Insinuata lentamente. Ritrovata la mia camera. Inno alla vita. Ieri avrei avuto voglia di ridere. Mal di denti (che sembra finito). Ancora stamattina, stanchezza, la testa vuota, residuo di febbre. Sentimento d’impotenza. Paura di non aver più notizie. Sono calmo, vuoto. La speranza di grandi avvenimen­ ti mi dà equilibrio. Eppure sconvolto nella mia solitudine. Indifferenza riguardo alla mia vita personale. Invece, dieci giorni fa, tornato a Parigi, ebbi la sor­ presa... Arrivo a desiderare, egoisticamente, ima stabili­ tà per qualche tempo! Ma no. È impossibile oggi pensa­ re ad una tregua - del resto probabile. Rumore di bombardamenti lontani (divento banale). Condannato a dodici giorni di solitudine, senza amici, senza possibilità di rilassarmi, obbligato a restare, de­ presso, in camera: a lasciarmi rodere dall’angoscia. Concatenare? ritrovare la vita? La mia vergogna del­ l’angoscia è legata all’idea di chance. Veramente, la con­ catenazione nelle condizioni attuali sarebbe da sola una chance autentica, quel completo « stato di grazia » che è la chance. L’amore di una donna (o un’altra passione) per un uomo è il solo mezzo di non essere Dio. Neppure il pre­ te, con i suoi ornamenti arbitrari, è Dio: qualche cosa in

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lui vomita via la logica, la necessità di Dio. Un ufficiale, fattorino, ecc. sono subordinati all’arbitrario. Soffro: domani, la felicità può essermi tolta. Quanto mi restasse di vita mi sembra vuoto (vuoto, veramente vuoto). Tentar di riempire questo vuoto? Con un’altra donna? Che disgusto. Un compito umano? Sarei Dio! Almeno tenterei di esserlo. Si consiglia di lavorare a chi ha appena perduto ciò che amava: di sottomettersi a una certa realtà data e di vivere per essa (per l’interesse che può trovarvi). E se questa realtà sembra vuota? Non ho mai sentito così forte - dopo tanti eccessi, ar­ rivo veramente ai limiti del possibile - di dover amare ciò che è per essenza perituro e vivere in balìa della sua perdita. Ho il sentimento di profonde esigenze morali. Oggi soffro duramente sapendo che non c’è modo di essere Dio senza venir meno a me stesso. Ancora undici giorni di solitudine... (se non capita niente di brutto). Cominciato ieri, dopo la mezzanotte, uno sviluppo che interrompo - per sottolinearne l’inten­ zione: mi manca la luce che mi fa vivere e lavoro dispe­ ratamente, cercando l’unità dell’uomo e del mondo! Sui piani coordinati del sapere (scienza), di un’azione politi­ ca e di una contemplazione illimitata! Devo arrendermi a questa verità: una vita implica un aldilà della luce, della chance amata. La mia pazzia - o meglio la mia estrema saggezza mi fa presente questo: l’aldilà della chance, anche se fos­ se un sostegno, quando mi viene a mancare la mia chan­ ce immediata - l’essere amato - ha pur esso il carattere della chance. Di solito neghiamo questo carattere. Possiamo soltan­ to negarlo cercando un terreno, un fondamento stabile che permetta di sopportare l’alea, ridotta alla parte se­ condaria. Cerchiamo questo aldilà soprattutto quando soffriamo. Da questo derivano le sciocchezze del cristia­ nesimo (in cui si presenta fin dall’inizio la bacchettoneria). Da questo la necessità del ridurre alla ragione, del dare una fiducia infinita a sistemi che eliminano la chan-

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ce (la stessa ragione pura è riducibile al bisogno di elimi­ nare la chance - ciò che è compiuto, in apparenza, dalle teorie della probabilità). Stanchezza estrema. La mia vita non è più la scaturigine - senza la quale c’è il nonsenso. Difficoltà fondamentale: dato che lo scaturire è ne­ cessario alla chance, la luce (la chance) da cui dipendeva lo scaturire viene a mancare... L’elemento irriducibile è dato dallo scaturire che non abbia atteso l’evento della luce e l’abbia provocata. Que­ sto getto - anch’esso aleatorio - definisce l’essenza e l’i­ nizio della chance. La chance è definita in rapporto al desiderio, che anch’esso scaturisce o dispera. Servendomi di finzioni, drammatizzo l’essere: ne stra­ zio la solitudine e in questa lacerazione comunico. D ’altra parte, non si può vivere la sfortuna - umana­ mente - se non drammatizzata. Nella sfortuna, il dram­ ma accentua l’elemento di chance, che persiste in essa o ne deriva. L’essenza dell’eroe del dramma è lo zampillo l’elevarsi alla chance (una situazione drammatica richie­ de, prima della caduta, l’elevazione)... Arresto ancora una volta uno sviluppo iniziato. È un metodo disordinato. Bevendo - al caffè Taureau - trop­ pi aperitivi. Un vecchio, mio vicino, mugola piano come ima mosca. Una famiglia, che attornia una comunicanda, beve birra. Soldati tedeschi passano svelti per la strada. Una ragazza seduta tra due operai (« potrete palparmi tutti e due »). Il vecchio continua a mugolare (è discre­ to). Il sole, le nuvole. Le donne vestite sono come un giorno grigio. H sole nudo sotto le nuvole. Esasperazione. Depresso, poi eccitato. Devo ritrovare la calma. Basta un po’ di fermezza. Il metodo, o-meglio la mancanza di metodo, è la mia vita. Sempre meno interrogo per conoscere. Me ne infi­ schio e vivo, interrogo per vivere. Conduco la mia ricer­

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ca vivendo una prova relativamente dura, angosciosa per la forza dei miei nervi. Al punto in cui mi trovo, non c’è scappatoia. Solo con me stesso: mi mancano le vie d’u­ scita di una volta (il piacere e l’eccitazione). Devo domi­ narmi, non potendo far altro. Dominarmi? È facile. Ma non mi piace l’uomo padrone di sé che posso di­ ventare. Scivolo verso la durezza, ma tomo presto all’amicizia verso me stesso, alla dolcezza: per cui ho bisogno di infi­ nite chance. A questo punto, non posso che cercare la chance, tentare di afferrarla ridendo. Giocare, cercare la chance, richiede la pazienza, l’a­ more, l’abbandono completi. Il mio vero tempo di reclusione - ancora dieci giorni da passare in questa camera - inizia stamattina (ieri e l’altro ieri sono uscito). Ieri dei fanciulli correvano dietro ad un tram, altri al­ l’autobus. Come sono le cose nel cervello dei bambini? Come nel mio. La differenza fondamentale è la decisio­ ne, che poggia su di me (non posso, io, appoggiarmi ad altri). Eccomi, io: che mi sveglio uscendo dalla lunga in­ fanzia umana nella quale, in tutte le evenienze, gli uomi­ ni si appoggiarono senza fine gli uni sugli altri. Ma que­ st’alba del sapere, del pieno autopossesso, in fondo è soltanto la notte, l’impotenza. Una piccola frase, « ci potrebbe essere libertà senza la impotenza? », è il segno oltrepassante della chance. Un’attività che abbia come oggetto soltanto cose inte­ ramente misurabili è potente, ma servile. La libertà deri­ va dall’alea. Se proporzionassimo la somma di energia prodotta alla somma necessaria alla produzione, la po­ tenza umana non lascerebbe nulla a desiderare, perché basterebbe e rappresenterebbe la soddisfazione dei biso­ gni. Come contropartita questo adattamento avrebbe però un carattere di obbligo: l’attribuzione di energia ai

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diversi settori della produzione sarebbe fissata una volta per tutte. Ma se la somma prodotta è superiore al neces­ sario, una attività impotente ha come oggetto ima pro­ duzione smisurata. Stamattina ero rassegnato all’attesa. Lentamente, senza bruschezza, mi decisi... Evidentemente, era irragionevole. Però partii, soste­ nuto da un sentimento di chance. La chance stimolata mi rispose. Assai oltre le mie spe­ ranze. L’orizzonte si rischiara (resta cupo). L’attesa si riduce da dieci a sei giorni. Il gioco gira: è possibile che oggi io abbia saputo gio­ care. L’angoscia mi rode e mi ossessiona. L’angoscia, là sospesa su profondi possibili... mi isso in cima a me stesso e vedo: il fondo delle cose, aperto. Come un colpo bussato alla porta, odiosa, ecco l’an­ goscia. Segno di gioco, segno di chance. Mi invita, con voce di follia. Sprizzo e fiamme sprizzano davanti a me. Bisogna ammetterlo: la mia vita, nelle condizioni at­ tuali, è un incubo, un supplizio morale. Ciò è trascurabile: evidentemente! Senza fine ci « in-nientiamo »; il pensiero, la vita ca­ dono dissipandosi nel vuoto. Chiamare Dio questo vuoto - a cui tendevo! a cui te­ se il mio pensiero! Che cosa si può fare nella prigione di un corpo uma­ no, se non evocare la vastità che comincia al di là dei muri? La mia vita è bizzarra, spossante e, stasera, prostrata. Passata un’ora d’attesa a immaginare il peggio.

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Poi, infine, la chance. Ma la mia situazione rimane inestricabile. A mezzanotte, apro la finestra su di una strada nera, su un cielo nero: questa strada e questo cielo, queste te­ nebre sono limpide. Al di là del buio, raggiungo un non so che di puro, li­ bero, ridente - con facilità. La vita ricomincia. Una mazzata in testa, gioviale e familiare. Inebetito, scendo seguendo la corrente. K. mi ha detto che, dopo aver bevuto, il 3, aveva cer­ cato la chiave di ima cisterna, ostinatamente ma invano, e si era ritrovata verso le quattro del mattino sdraiata nel bosco e tutta bagnata. Oggi ho sopportato male l’alcool. Mi piacerebbe (e tutto mi invita a farlo) dare alla mia vita un corso allegro, deciso. Esigendo da essa una dol­ cezza miracolosa, la limpidezza dell’aria delle vette. Tra­ sfigurando le cose intorno a me. Gaio, immagino un ac­ cordo di K.: l’allegria, il vuoto stesso (e senza scopo) tra­ sparente, a livello dell’impossibile. Esigere di più, agire, fissare la chance: essa risponde allo scaturire del desiderio. L’azione senza obiettivo ristretto, illimitata, che mira alla chance oltre gli scopi, come un superamento della volontà: esercizio di un’attività libera. Ripensando alla mia vita. Vedo che mi avvicino lentamente ad un limite. Poiché l’angoscia mi attende da ogni parte, danzo sul­ la corda tesa e, fissando il cielo, distinguo ima stella: mi­ nuscola, brilla di una luce leggera e strugge l’angoscia che mi attende da ogni parte. Possiedo un fascino, un potere infinito. Stamattina ho dubitato della mia chance. Per un lungo istante - di attesa interminabile - pen-

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sando di aver perduto tutto (in quel momento era logi­ co). Ho fatto questo ragionamento: « La mia vita è il bal­ zo, lo slancio che ha per energia la chance. Se, sul piano in cui si gioca ora la mia vita, mi manca la chance, io crollo. Sono soltanto quest’uomo che stabilisce la chan­ ce, e al quale attribuisco il potere di farlo. Se soprav­ vengono l’infelicità, la sfortuna, la chance che mi dava lo slancio era soltanto un miraggio. Vivevo credendo di avere su di essa un potere d’incantesimo: era falso ». Ora mi lamento sino in fondo: « La mia leggerezza, la mia divertita vittoria sull’angoscia, erano false. Ho gioca­ to il desiderio e la volontà di agire - non avevo scelto il gioco - sulla mia chance: oggi risponde la sfortuna. De­ testo le idee che la vita abbandona, quando si tratta di idee che danno il valore preminente alla chance... ». In quel momento, stavo così male: una disperazione particolare aggiungeva alla mia depressione un po’ di amarezza (comica). Aspettavo sotto la pioggia da un’ora. Nulla di più deprimente che un’attesa alla quale rispon­ de il vuoto di un viale. Dopo, benché K. camminasse con me, mi parlasse, un sentimento di infelicità continuava. K. era con me: io ero inetto. La sua venuta non era verosimile e facevo fa­ tica a pensare: la mia chance vive... In me l’angoscia contesta il possibile. Essa oppone al desiderio oscuro un oscuro impossi­ bile. In questo momento la chance, la sua possibilità, con­ testano in me l’angoscia. L’angoscia dice: « impossibile »: l’impossibile resta in balta di una chance. La chance è definita dal desiderio, eppure non tutte le risposte al desiderio sono chance. Soltanto l’angoscia definisce completamente la chan­ ce: è chance ciò che in me l’angoscia ha ritenuto impos­ sibile. L’angoscia è contestazione della chance. Ma io afferro l’angoscia in balìa di una chance capace

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di contestare —essa può farlo —il diritto di definirci che ha l’angoscia. Dopo lo strazio del mattino, i miei nervi sono ora di nuovo messi a dura prova. L’attesa interminabile e il gioco, forse allegro e chino sul peggio, che spossa i nervi, poi un’interruzione che fi­ nisce di sconvolgerli... Devo urlare in un lungo gemito: quest’ode alla vita, alla sua trasparenza di vetro. Non so se K. suo malgrado mi procuri inconsciamen­ te questa instabilità. Il disordine in cui mi fa restare deri­ va in apparènza dalla sua natura. Dicono: « al posto di Dio, c’è l’impossibile - e non Dio ». Occorre aggiungere: « l’impossibile in balìa di una chance ». Perché dovrei lamentarmi di K.P La chance è contestata senza fine, senza fine messa in gioco. Decidendo di incarnare la chance ad unguetn, K. non avrebbe potuto far meglio: apparendo, ma quando l’an­ goscia... sparendo, così improvvisamente che l’angoscia... Come se ella potesse soltanto succedere alla notte, come se soltanto la notte potesse succederle. Ma ogni volta sen­ za pensarci, come si conviene se si tratta di chance. « Al posto di Dio, la chance »; è la natura « scaduta » ma non una volta per sempre. Superandosi in scadenze infinite, escludendo i limiti possibili. In questa rappre­ sentazione infinita, probabilmente la più audace e la più folle che l’uomo abbia tentato, l’idea di Dio è l’involucro di una bomba che sta per esplodere: miseria e impoten­ za divine opposte alla chance umana! Dio come rimedio applicato all’angoscia: non guarire l’angoscia. Oltre l’angoscia, la chance, sospesa all’angoscia, che la definisce. Senza l’angoscia - senza l’estrema angoscia - la chan­ ce non si potrebbe nemmeno scorgere.

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« Dio, se ci fosse un Dio, non potrebbe - per sola convenienza - rivelarsi alla gente che sotto forma uma­ na » (1885; Volontà di potenza). Essere uomo: con l’impossibile di fronte, il muro... che solo una chance... K. stamattina era depressa, dopo una notte d’angoscia senza ragione, d’insonnia anch’essa angosciosa, e sicco­ me si sentivano molti aeroplani, era colta da leggeri tre­ miti. Fragile, sotto un’apparenza di brio - di gaiezza, di spigliatezza. Sono per abitudine così ansioso che questa angoscia senza ragione mi sfugge. Se lei intuisse la mia miseria e le mie difficoltà, il pantano in cui procedo, ri­ derebbe di gusto con me. Stupito di sentire in lei, im­ provvisamente, contro ogni apparenza, un’amica, quasi una sorella... Tuttavia, se così fosse, ci sentiremmo estra­ nei l’uno all’altro.

GIUGNO-LUGLIO 1944

IL TEMPO

Con che avidità quest’onda si avvicina, co­ me si trattasse di raggiungere qualche cosa! Con quale spaventosa furia penetra nei recessi. più nascosti della scogliera! Sembra voler av­ vertire qualcuno; sembra che là ci sia qualche cosa di nascosto, qualche cosa che ha valore, un grande valore. Ed ora ritorna, un po’ più lentamente, ancora tutta bianca d’emozione. È delusa? Ha trovato quello che cercava? Vuol assumere quell’aspetto deluso? Ma già si av­ vicina un’altra onda, più avida e più selvaggia della prima, e l’anima sua, anch’essa, sembra piena di mistero, piena di voglia di cercar teso­ ri. Così vivono le onde, così viviamo noi, noi che abbiamo la volontà! non dirò altro. - Come? diffidate di me? ce l’avete con me, leggiadri mostri? temete che tradisca com­ pletamente il vostro segreto? Ebbene! Adira­ tevi pure con me, alzate pure più che potete i vostri corpi verdastri e temibili, ergete un mu­ ro tra me e il sole - come ora! In verità, non resta più nulla del mondo se non un crepusco­ lo verde e verdi lampi. Sconvolgete tutto come volete, o impetuose, urlate di piacere e di mal­ vagità —oppure immergetevi di nuovo, versate i vostri smeraldi nel più profondo dell’abisso, gettatevi sopra i vostri bianchi pizzi infiniti di spuma e di schiuma. Accetto tutto, perché tut­ to questo vi si addice così bene, e ve ne sono infinitamente grato: come potrei tradirvi? In­ fatti —ascoltatemi! - vi conosco, conosco il vo­ stro segreto, so di che razza siete! Voi ed io, siamo della stessa razza! Voi ed io, abbiamo anzi lo stesso segreto! La gaia scienza, 3x0

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Al caffè, ieri dopo cena, ragazzi e ragazze ballarono al suono della fisarmonica. Uno dei suonatori aveva la testa - minuscola e grazio­ sa - di un anatroccolo: molto allegramente, con un’aria animale, immoderata, balorda, cantava. Mi piacque: mi sarebbe piaciuto essere anch’io stupi­ to, avere un occhio da uccello. Il sogno: dar sollievo alla testa scrivendo, come si dà sollievo al ventre... diventar vuoto, come un suonatore di musiche. Il gioco sarebbe fatto? Ma no! In mezzo alle ragazze - giovani e vivaci e carine - il mio peso (il cuore) è come la stessa leggerezza del giocatore infìnìto\ Offro da bere alla compagnia e la padrona annuncia: « Da parte di uno spettatore! ». Un mio amico - dal carattere molle, come piace a me, di una mollezza garantita da ima forza d’animo che rifiu­ ta un ordine di cose comico - si trovava nel maggio del 1940 a Dunkerque. Lo misero - per parecchi giorni - a vuotare le tasche dei morti (un’operazione che si faceva con la prospettiva di arrivare anche alle tasche dei restan­ ti). Ma poi toccò pure a lui d’imbarcarsi: finalmente, la nave riuscì a sfuggire, il mio amico raggiunse la costa in­ glese: a poca distanza da Dunkerque, a Folkestone, gio­ catori di tennis vestiti di bianco si agitavano sui campi. Allo stesso modo, il 6 giugno, giorno dello sbarco, io vidi sulla piazza alcuni saltimbanchi che montavano una giostra. Un po’ più tardi, nello stesso posto, il cielo chiaro si riempì di uno stormo di piccoli aerei americani a righe bianche e nere: filavano rasenti ai tetti, mitragliando le strade e la ferrovia. Avevo il cuore in una morsa; tutto era estasiarne.

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Molto aleatorio (scritto a caso, come giocando): Il tempo sia la stessa cosa che l’essere, l’essere lo stes­ so che la chance... che il tempo. Ciò significa: Se c’è l’essere-tempo, il tempo racchiude l’essere nell’accadere della chance, individualmente. Le possibilità si dividono e si oppongono. Senza individui, cioè senza la ripartizione dei possibi­ li, non potrebbe esserci tempo. Il tempo è la stessa cosa che il desiderio. Il desiderio ha come fine: che il tempo non esista. Il tempo è il desiderio che il tempo non esista. Il desiderio ha come fine: la soppressione degli indi­ vidui (degli altri)-, per ogni individuo, per ogni soggetto del desiderio, ciò significa ima riduzione degli altri a sé (essere il tutto). Voler essere il tutto - o Dio - significa voler soppri­ mere il tempo, sopprimere la chance (l’alea). Non volerlo significa volere il tempo, volere la chance. Volere la chance è l 'amor fati. Amor fati significa voler la chance, esser diversi da ciò che v’era. Ottenere ciò che non si conosce è giocare. Giocare per l’uno vuol dire rischiar di perdere o di vincere. Per l’insieme, significa superare il dato, andare oltre. In definitiva, giocare significa condurre all’essere ciò che non era (in questo il tempo è storia). Trattenere nell’unione dei corpi - nel caso del piacere che eccede - un momento sospeso di esaltazione, di inti­ ma sorpresa e di eccessiva purezza. In questo momento, l’essere si innalza al di sopra di se stesso, come un uccel­ lo a cui si dà la caccia si innalzerebbe gettandosi nella vastità del cielo. Ma mentre si annulla, gode del suo an­ nichilimento e domina da questa altezza ogni cosa, in un sentimento di estraneità. Il piacere eccedente si annulla e cede il posto a questa elevazione che annienta in seno alla piena luce. O meglio, il piacere che cessa di essere una risposta al desiderio dell’essere, che supera, con l’ec­

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cedere, questo desiderio, supera nello stesso tempo l’es­ sere e lo sostituisce con un glissare - un modo di esistere sospeso, radioso, « eccessivo », legato al senso del tro­ varsi nudi e di penetrare l’aperta nudità altrui. Questo stato suppone la nudità fatta, assolutamente fatta, attra­ verso tocchi ingenui - e nello stesso tempo abili: l’abilità qui presa in considerazione non è né quella delle mani né quella dei corpi. Esige la conoscenza intima della nu­ dità - di una ferita degli esseri fisici - di cui ogni tocco approfondisce l’apertura. Immagine gratuita di K., trapezista di music-hall. Que­ sta immagine le piace per un equilibrio logico, lei è d’ac­ cordo, ridiamo. La vedo sotto vivide luci vestita di lustrini d’oro e sospesa. Nel bosco, un giovane ciclista con un mantello di lo­ den: canta a qualche passo da me. La sua voce è profon­ da ed egli nella sua esuberanza dondola una testa tonda e ricciuta in cui ho notato, passando, labbra carnose. Il cielo è grigio, la foresta mi sembra severa, oggi le cose sono fredde. Un lungo, ossessivo rumore di bombardamenti segue al canto del giovane, ma il sole, un po’ più oltre, attraversa la strada (scrivo in piedi su una scarpa­ ta). Il rumore sordo è più forte che mai: segue un frago­ re di bombe o di D .c.A .1 Sembra a pochi chilometri. Sol­ tanto due minuti e tutto è finito: ricomincia il vuoto più grigio, più torbido che mai. Mi irrito per la mia debolezza. Continuamente entra l’angoscia, strangola, e sotto la pressione della sua morsa, soffoco e tento di fuggire. Im­ possibile. Non posso in alcun modo ammettere ciò che è, devo subirlo mio malgrado, mi inchioda. Alla mia angoscia se ne aggiunge un’altra, e siamo in due, braccati da un cacciatore inesistente. Inesistente? Grevi figure di nevrosi ci tormentano. Défense Contre Avions. [ N.d.R .]

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Del resto annunciatrici di altre immagini, altrettanto grevi ma vere. Leggendo un saggio su Descartes, devo rileggere tre o quattro volte lo stesso paragrafo. Il pensiero mi sfugge, il cuore e le tempie mi battono. Sono steso ora come un ferito, abbattuto, ma solo provvisoriamente, dalla mala­ sorte. La dolcezza di fronte a me stesso mi calma: al fon­ do dell’angoscia in cui mi trovo, ci sono la cattiveria, l’intimo odio. Quando resto solo, sono terrorizzato dall’idea di ama­ re K. per odio verso me stesso. Il bruciore di una passio­ ne che mi fa stare colle labbra aperte, la bocca arida e le guance infuocate, è connesso probabilmente all’orrore di me stesso. Non mi amo, ed amo K. Questa passione, sti­ molata da difficoltà disumane, raggiunge stasera una specie di febbre. Ad ogni costo devo sfuggire a me stes­ so, situare la vita in un’immagine illimitata (per me). Ma l’angoscia connessa all’incertezza dei sentimenti paraliz­ za K. Bisogna combattere l’angoscia, la nevrosi! (La sirena a un tratto strazia l’aria. Ascolto: un tuono immenso di aerei diventato per me il simbolo della paura morbosa.) Nulla può agghiacciarmi di più: sei anni fa, accanto a me, la nevrosi uccideva. Disperando, lottai: non avevo angoscia, credevo la vita più forte. La vita dapprima vin­ se, ma la nevrosi ebbe un ritorno e la morte entrò in me. Detesto l’oppressione, l’obbligo. Se, come oggi, la co­ strizione riguarda chi ha soltanto sensi di libertà - aspiro al suo fianco all’aria lieve delle vette - il mio odio è il più grande che si possa immaginare. Costrizione è il limite opposto dal passato a ciò che viene avanti. La nevrosi è l’odio del passato contro il presente: e la­ scia la parola ai morti.

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Dai recessi d’infelicità che portiamo in noi, nasce il li­ bero riso che richiede un coraggio angelico. « Questo v’è di grande nell’uomo: che è un ponte, non un fine; ciò che si può amare nell’uomo, è il suo es­ sere una transizione e un declino. Mi piacciono coloro che sanno vivere solo affondan­ do, perché così passano al di là. Mi piacciono i grandi spregiatori perché sono grandi adoratori, con le frecce del desiderio teso verso l’altra riva ». Quando si leggono, queste frasi di Zarathustra (pro­ logo della prima parte) hanno ben poco senso. Evocano un possibile e chiedono di essere vissute sino in fondo-. da chi fosse disposto ad agire senza misura, accettando di se stesso unicamente il balzo col quale poter superare i propri limiti. Ciò che mi ferma nella nevrosi è il fatto che ci forza a superarci. Sotto pena di affondare. Da cui Vumanità del­ le nevrosi, trasfigurate dai miti, dai poemi o dalle com­ medie. La nevrosi ci rende eroi, santi: o soltanto malati. Nell’eroismo o nella santità, l’elemento nevrosi raffigura il passato, intervenendo come limite (costrizione) all’intemo del quale la vita diventa « impossibile ». Colui che è reso greve dal passato, colui al quale l’attaccamento morboso al passato impedisce un facile passaggio al pre­ sente, non può più accedere al presente seguendo la car­ reggiata. E proprio in questo sfugge al passato, mentre un altro, che non ci bada molto, si lascia invece guidare, limitare da esso. Il nevrotico ha una sola via d’uscita: de­ ve giocare. La vita in lui si ferma. Non può seguire un corso regolare nei suoi tracciati. Essa si apre una via nuova, crea per se stessa e altri un mondo nuovo. E il parto non può aver luogo in un giorno. Molte strade sono mirabolanti vicoli ciechi, che hanno soltanto l’apparenza della chance. Sfuggono al passato in quanto evocano un aldilà: ma l’aldilà evocato resta inaccessibile. In questo campo, la regola è il vago: non sappiamo se

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raggiungiamo qualcosa (l’uomo è un ponte, non un fi­ ne). Il superuomo è forse un fine. Ma lo è restando un’e­ vocazione: se fosse reale, dovrebbe giocare, mirando al­ l’aldilà di se stesso. Non posso dunque offrire all’angoscia una via d’usci­ ta: mettersi in gioco, diventare l’eroe della chance? o piuttosto della libertà? In noi la chance è la forma del tempo (dell’odio verso il passato). Il tempo è libertà. Nonostante le costrizioni che la paura gli oppone. Esse­ re un ponte e non mai un fine: ciò comporta una vita strappata alle norme con una potenza acuminata, serra­ ta, volontaria, e che infine non accetta più d’essere sviata dal suo sogno. Il tempo è chance perché esige l’individuo, l’essere separato. È per l’individuo e nell’individuo che una forma è nuova. Il tempo senza il gioco sarebbe inesistente. Il tempo vuole dissolta l’uniformità: senza questo, sarebbe come se non ci fosse. Così, senza il tempo l’uniformità dissolta sarebbe come se non ci fosse. Necessariamente, per l’individuo, la variabilità può essere indifferente, felice e infelice. L’indifferenza è co­ me se non esistesse. La sfortuna e la fortuna si compon­ gono infinitamente in variabilità della fortuna o della sfortuna, poiché la variabilità è essenzialmente chance, fortuna (anche in previsione della sventura) e il trionfo dell’uniformità sfortuna (anche se si tratta dell’uniformi­ tà della chance-fortuna). Le fortune, chance, uniformi e le sfortune mobili indicano le possibilità di un quadro in cui la mobilità-sfortuna ha il fascino delle tragedie (chance a patto che ci sia una sfasatura tra spettatore e spettacolo - lo spettatore che gode della catastrofe: l’e­ roe che muore avrebbe forse un significato senza spetta­ tori?). (Scrivo in un bar. Ho bevuto - cinque aperitivi - du­ rante l’allarme: piccole e numerose nuvole di aerei riem-

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pirono il cielo; una d . c .a . violenta aprì il fuoco. Una gra­ ziosa fanciulla, un bel ragazzo danzavano, la ragazza mezza nuda in costume da spiaggia.)

Dopo i bombardamenti di ieri, le comunicazioni con Parigi sembrano interrotte. Si tratta forse, improvvisa­ mente - in seguito ad avverse coincidenze - della sfortu­ na che segue all’estrema chance? Per ora è soltanto ima minaccia.

Ora, la cattiva sorte mi prende da ogni parte. Non ho scampo. Ho lasciato sfuggire lentamente quei possibili che sono considerati di solito importanti. Se ci fosse ancora tempo, ma non c’è... Che tristezza alla fine del pomeriggio, sulla strada. Diluviava. Ci siamo riparati un momento sotto un fag­ gio, seduti sulla scarpata, coi piedi su un tronco d’albero abbattuto. Sotto il cielo basso, il tuono rombava a non finire. In ogni fatto, uno dopo l’altro, ho urtato contro il vuoto. La mia volontà s’era spesso tesa, la lasciavo anda­ re: come si aprono alla rovina, al vento, alle piogge le fi­ nestre della propria casa. L’angoscia ha passato al vaglio ciò che restava in me di ostinato, di vivo. Il vuoto e il nonsenso di tutto: possibilità di sofferenze, di riso ed estasi infinite, le cose - come sono - che ci legano, il ci­ bo, l’alcool, la carne; e più oltre, il vuoto, il nonsenso. E non c’è nulla che io possa fare (intraprendere) o dire. Soltanto vaneggiare, giurando che è così. Quello stato di ilarità disarmata, in cui mi aveva ri­ dotto la contestazione, restava pur esso in balìa di nuove contestazioni. La fatica ci sottrae al gioco, ma non la contestazione, che contesta infine il valore dello stato a cui ci porta. Quest’ultimo impulso potrebbe essere infine crudeltà

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gratuita. Ma può derivare da una chance. Se ha luogo, la chance contesta la contestazione. Tra contestare, mettere in questione, mettere in gioco i valori, non posso riconoscere differenze. Il dubbio di­ strugge successivamente i valori la cui natura sta nell’es­ sere immutabili (Dio, il bene). Ma mettere in gioco sup­ pone il valore dell’esporre al gioco. Nel momento di metterlo in gioco, il valore è soltanto spostato dall’ogget­ to alla sua esposizione al gioco, cioè alla contestazione stessa. Il mettere in questione sostituisce ai valori immutabili il valore mobile del porre in gioco. Nulla, nella messa in gioco, si oppone alla chance. La contestazione che dices­ se: « Ciò che è soltanto chance non può essere valore, poiché non è immutabile », si servirebbe senza averne il diritto di un principio connesso a ciò che contesta. Ciò che chiamano chance è valore per una situazione data come in sé variabile. Una chance particolare è una rispo­ sta al desiderio. Un desiderio è dato in anticipo, almeno come desiderio possibile, anche se non era manifesto dapprima. Del resto, non sono ragionevole. A intervalli, di un comico nervosismo (i nervi, sotto­ posti ad una interminabile prova, ogni tanto cedono: e se cedono, cedono veramente). La mia sventura sta nell’essere - o meglio nell’essere stato - depositario di ima chance così perfetta che le fate non avrebbero potuto darmi di meglio: tanto più vera quanto più fragile, rimessa in gioco ad ogni istante. Nul­ la che potesse di più straziare, lacerare, suppliziare per eccesso di gioia: realizzando infine pienamente l’essenza della felicità che consiste nel suo essere inafferrabile. Ma il desiderio, l’angoscia, che vogliono afferrare, so­ no presenti. Viene il momento in cui, con l’aiuto della sfortuna, mi lascerei andare per rilassarmi un po’. Tutto sembra accomodarsi: quando sono stanco di aspettare, mi capita di voler morire: la morte mi appare

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preferibile a questa condizione sospesa, non ho più co­ raggio di vivere e, nel mio desiderio di riposo, non m’importa più di sapere se la morte ne è il prezzo. Lo so, la felicità che attendo non è la chance assicura­ ta: è la chance nuda - rimasta libera - ritirata orgoglio­ samente nella sua alea infinita. Come si può far stridere i denti all’idea di un errore che si prolunghi forse in gioia indicibile, ma senz’altra soluzione che la morte. Ciò che mi tiene nell’angoscia è probabilmente il pen­ siero che la sventura mi raggiunga, in ogni modo, senza tardare. Immagino di arrivare, lentamente, sicuramente, al culmine dello strazio. Non posso negare di essere andato, da solo, incontro a questo impossibile (spesso, ci guida un’oscura forza di attrazione). Non amare nulla, non desiderare più di gio­ care, questo era quanto detestavo, non il fatto di essere lacerato. Talvolta, sono tentato di affrettare il momento del male estremo: posso smettere di sopportare la vita, ma non mi rammarico che sia stata come l’ho avuta. Mi piace questa frase di un esploratore, scritta sul ghiaccio; stava morendo: « Non mi rammarico di questo viaggio ». Perduta la chance, l’idea di riconquistarla - a forza di abilità e di pazienza - sarebbe per me un mancamento, sarebbe un peccato contro la chance. Meglio morire... Il ritorno della chance non può essere causato da uno sforzo, ed ancor meno da un merito. A rigore: da un bel tiro giocato all’angoscia, da una felice disinvoltura di giocatore (immagino sull’orlo del suicidio un giocatore ridente, che senza limiti consuma se stesso). Se la chance ritorna, ciò capita spesso nel momento in cui ne ridevo. La chance è il dio che si bestemmia non avendo più la forza di riderne.

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Tutto sembrava risolto. Arriva un’ondata di aeroplani, la sirena... Probabilmente, non è nulla, ma, di nuovo, tutto è rimesso in gioco. Mi ero seduto per scrivere e suona la fine dell’al­ larme...

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Un imperatore pensava costantemente al­ l’instabilità di ogni cosa per non darvi troppa importanza e vivere in pace. Su di me, l’insta­ bilità ha ben altro effetto: tutto mi sembra in­ finitamente più prezioso perché tutto è effime­ ro. Mi sembra che i vizi più preziosi, i balsami più squisiti siano sempre stati gettati in mare. 1881-1882

Improvvisamente, il cielo è chiaro... Si copre subito di nuvole nere. Pochi libri mi sono piaciuti più di II sole sorge ancora. Una certa somiglianza tra K. e Brett mi irrita e nello stesso tempo mi piace. Rileggendo qualche pagina della fiesta mi sentivo commosso fino alle lacrime. In questo libro però l’odio per le forme intellettuali ha qualche cosa di limitato. Preferisco vomitare, non mi piace l’astinenza di un regime. Stamattina il cielo è severo. I miei occhi lo svuotano. O meglio, lo lacerano. Ci comprendiamo, il vecchio nuvoloso ed io, ci misu­ riamo l’un l’altro e ci penetriamo fino alle midolla. Penetrandoci così reciprocamente - a fondo, troppo a fondo - ci affiniamo, ci distruggiamo. Niente sussi­ ste che non sia il vuoto - il nulla - come il bianco degli occhi. Mentre scrivo passa una graziosa ragazza povera - sa­ na, fragile. La immagino nuda, immagino di penetrarla più in là ài se stessa. La gioia che mi fingo - senza desiderare nulla - si ca­ rica di una verità che esaurisce il possibile, superando i limiti dell’amore. Proprio nel punto in cui la piena sen-

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sualità appagata - e la piena nudità che si vuol tale - sci­ volano oltre ogni spazio concepibile. Necessità di una forza morale che superi gioiosamen­ te il piacere (l’eròtico). Che non indugi. I possibili più lontani non annullano in alcun modo i più vicini. Tra gli uni e gli altri non si può far confu­ sione. Scivolare nei giochi dei corpi fino ad un aldilà degli esseri chiede che questi esseri si rovescino lentamente, s’impegnino, si perdano nell’eccesso senza mai finire di andar oltre: raggiungendo lentamente l’ultimo grado e poi l’aldilà del possibile. Tutto ciò richiede l’esaurirsi completo dell’essere - escludendo l’angoscia (la fretta) una tesa potenza, una padronanza durevole, che si eser­ citino nel fatto stesso di affondare - senza pietà, in un vuoto i cui limiti sfuggono. Ciò richiede che l’uomo ab­ bia una volontà sapiente, impenetrabile come un blocco, di negare e rovesciare lentamente - non soltanto negli altri ma in se stesso - le difficoltà e le resistenze che in­ contra il mettersi a nudo. Ciò richiede una conoscenza esatta del modo in cui gli dèi vogliono essere amati: con il coltello dell’orrore in mano. In questa direzione insensa­ ta com’è difficile fare un passo! L’impeto, le barbarie ne­ cessari vanno continuamente più in là dello scopo. Tutti i momenti di questa lunghissima odissea sembrano l’uno dopo l’altro fuori luogo: se essa appare tragica, subito s’impone un sentimento di farsa - che raggiunge proprio il limite dell’essere; se appare comica, l’essenza tragica sfugge, l’essere è come estraneo alla voluttà che prova (la voluttà è in un certo senso estranea a lui, derubato, men­ tre essa sfugge). L’unione tra un amore eccedente e un desiderio di perdere - di fatto, la durata della perdita c i o è i l t e m p o , c i o è l a c h a n c e - rappresenta eviden­ temente la possibilità più rara. L’individuo è la maniera di eventuarsi del tempo. Ma se egli non ha chance (se si eventua male) è soltanto una barriera opposta al tempo - un’angoscia - o Pannichilimento attraverso il quale si svuota dell’angoscia. Se annulla l’angoscia, per lui è fini­ ta: perché si sottrae ad ogni destino, si apparta in pro-

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spettive che sono al di fuori del tempo. Se invece l’ango­ scia dura, deve in un certo senso ritrovare il tempo. Il tempo, l’accordo col tempo. Ciò che è chance per l’indi­ viduo è « comunicazione », è il perdersi dell’uno nell’al­ tro. La « comunicazione » è « durata della perdita ». Riuscirò infine a trovare il tono gaio, un po’ folle - e la sottigliezza dell’analisi - per raccontare la danza intorno al tempo {Zarathustra, la Recherche proustiana) ? Con una cattiveria, un’ostinazione di mosca, insisto: Niente muri tra l’erotismo e la mistica! È il colmo del ridicolo: adoperano le stesse parole, trafficano con le stesse immagini e s’ignorano! Nell’orrore che prova per le sozzure del corpo, con una smorfia di odio, la mistica ipostatizza la paura che la irrigidisce: e proprio l’oggetto positivo generato e perce­ pito in quel momento essa chiama Dio. Tutta la forza dell’operazione poggia, come si conviene, sul disgusto. Situato all’intersezione, questo è da un lato abisso (l’im­ mondo, il terribile, scorto nell’abisso a profondità in­ commensurabili - il tempo...) e dall’altro è negazione massiccia, chiusa (come il lastricato, pudicamente, tragi­ camente chiuso) dell’abisso. Dio! Non abbiamo finito di profondere la riflessione umana in questo grido, in que­ sto richiamo di sofferenti... « Se tu fossi un monaco mistico! Vedresti Dio! ». Un essere immutabile, che il movimento di cui ho parlato descrive come qualcosa di definitivo, che non fu, non sarà mai « in gioco ». Rido degli infelici inginocchiati. Continuano ingenuamente a dire: - Non credeteci. E noi stessi! Via! non tiriamo le conseguenze. Noi diciamo Dio, ma no! è una persona, un essere particolare. Gli parliamo. Ci rivolgiamo a lui chiamandolo col suo nome: è il Dio di Abramo, di Gia­ cobbe. Lo mettiamo sullo stesso piano di un altro, di un essere personale... - Di una puttana?

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L’ingenuità umana - l’ottusa profondità dell’intelli­ genza - rende possibili ogni genere di tragiche scioc­ chezze, di manifeste frodi. Come si congiungerebbe ad una santa esangue una verga di toro, non si esita a mette­ re in gioco... l’assoluto immutabile! Dio che strazia la notte dell’universo con il grido (1’« Eloi! lamma sabachtani » di Gesù), non raggiunge forse il colmo della mali­ zia? Dio stesso grida, rivolgendosi a Dio: « Perché mi hai abbandonato? », cioè: « Perché io stesso mi sono ab­ bandonato? » O, con più precisione: « Che cosa succe­ de? mi sarei dimenticato fino al punto da essermi messo in gioco da me stesso? ». La notte della crocefissione, Dio, con le carni insan­ guinate come il buco insozzato di una donna, è l’abisso di cui è egli stesso la negazione. Non bestemmio. Mi colloco, invece, al limite delle la­ crime - e rido... di questo evocare, mescolandomi alla folla... uno strazio temporale nel più profondo dell’im­ mutabile! Infatti la necessità per l’immutabile...? è di cambiare! È strano che nell’animo delle folle, Dio si stacchi im­ mediatamente dall’assoluto e dall’immutabilità. Non è forse il massimo del comico nel punto della profondità insensata? Geova si toglie i lacci: inchiodandosi sulla croce!... Allah si toglie i lacci nel gioco delle conquiste sangui­ nose... In queste divine esposizioni in gioco di se stessi, la prima misura l’infinito comico. Involontariamente, Proust ha risposto, mi sembra, al­ l’idea di unire Apollo a Dioniso. L’elemento bacchico è tanto più divinamente - cinicamente - messo a nudo nella sua opera quanto più essa partecipa della dolce cal­ ma di Apollo. E il tono minore, voluto espressamente, non è forse il segno di una discrezione divina?

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Blake, tra le sublimi commedie dei cristiani e i nostri allegri drammi, lascia linee di chance. « E d’altra parte noi vogliamo essere gli eredi della meditazione e della penetrazione cristiana... » (18851886; citato in Volontà di potenza). « ...superare ogni cristianesimo attraverso un ipercristianesimo e non accontentarsi di eliminarlo... » (1885, citato in Volontà di potenza). « Non siamo più cristiani, abbiamo superato il cristia­ nesimo, perché siamo vissuti troppo vicini, anziché trop­ po lontani da esso, e soprattutto perché proprio dal cri­ stianesimo siamo usciti; la nostra religiosità più severa e insieme più delicata ci impedisce oggi di essere ancora cristiani » (1885-1886, citato in Volontà di potenza).

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Quando adoperiamo la parola « felicità » nel senso che le conferisce la nostra filosofia, non pensiamo prima di tutto, come i filosofi stanchi ansiosi e sofferenti, alla pace esterna ed interna, all’assenza di dolore, all’impassibilità, alla quiete, al « sabato dei sabati », ad una posi­ zione di equilibrio, a qualche cosa che abbia pressappoco il valore di un profondo sonno senza sogni. Il nostro mondo è piuttosto l’in­ certo, il mutevole, il variabile, l’equivoco, un mondo forse pericoloso, sicuramente più peri­ coloso che il semplice, l’immutabile, il prevedi­ bile, il fisso, dei filosofi precedenti, eredi dei bisogni del gregge e delle angosce del gregge, onorato al di sopra di tutto. 1885-1886

Il mondo partorisce e, come una donna, non è bello. Lanci di dadi si isolano gli imi dagli altri. Nulla li riu­ nisce in un tutto. Il tutto è la necessità. I dadi sono li­ beri. Il tempo lascia cadere « ciò che è » negli individui. L’individuo stesso - nel tempo - si perde, diventa ca­ duta in un movimento nel quale si dissolve - è « comu­ nicazione », ma non necessariamente dall’uno all’altro. Tranne ciò, che ima chance è la durata dell’individuo nella sua perdita, il tempo, che pur vuole l’individuo, è essenzialmente la morte dell’individuo (la chance è un’interferenza - una serie di interferenze - tra la morte e l’essere). Comunque agisca, mi procuro un sentimento di di­ spersione - di umiliante disordine. Scrivo un libro: devo riordinare le idee. Mi sminuisco dinanzi a me stesso, sprofondandomi nei particolari del mio compito. Di­ scorsivo, il pensiero è sempre attenzione concessa ad un punto, a spese degli altri; strappa l’uomo a se stesso, lo riduce ad un anello della catena che è.

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Fatalità per 1’« uomo intero » - l’uomo del pai - di non disporre pienamente delle sue risorse intellettuali. Fatalità di lavorare male, disordinatamente. Vive sotto una minaccia: la funzione di cui si serve tende a soppiantarlo! Non può servirsene fino all’estre­ mo. Sfugge al pericolo soltanto dimenticandola. Lavora­ re male, disordinatamente, è spesso il solo mezzo per non diventare funzione. Ma il pericolo inverso è altrettanto grande (il vago, l’imprecisione, il misticismo). Bisogna considerare un flusso ed un riflusso. Ammettere un deficit. « Non abbiamo il diritto di augurarci un solo stato, dobbiamo desiderare di divenire esseri periodici come l’esistenza » (1882-1885; citato in Volontà di potenza). Stamattina, al sole, ho il sentimento magico della feli­ cità. C ’è come una maggiore densità in me e neppure la preoccupazione dell’esultanza. Una vita infinitamente semplice, al limite delle pietre, del muschio e dell’aria piena di sole. Pensavo che le ore di angoscia (d’infelicità) preparas­ sero la via a momenti opposti - di eliminazione dell’an­ goscia, di illuminato sollievo! È vero. Ma stamattina, la chance, la felicità, sono situate molto più vicino all’ulti­ mo balzo: nel mio sentimento di conoscere ed amare, nelle strade, ciò che vive: uomini, bambini, donne. Chance, felicità - non esaltanti, sopraggiunte senza attesa, nella quiete, e che ho visto risplendere dolcemen­ te, della loro semplice esuberanza. L’idea di un grido di gioia mi traumatizza. Del riso, ho detto: « Io lo sono - al momento estremo del suo rompere - finché ridere è su­ perfluo e fuori luogo ». Nel bosco, mentre nasceva il sole, ero libero, la mia vita si innalzava senza sforzo e attraversava l’aria come un volo di uccello: ma infinitamente libera, dissolta e li­ bera. Come è bello, penetrando lo spessore delle cose, scorgerne l’essenza, burla immensa, infinita, che la chan-

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ce senza fine gioca a... (qui, ciò che strazia il cuore). Es­ senza? Per me. Qual è la calma immagine - rassicurante a condizione che io sia l’inquietudine e la morte stesse qual è l’angoscia così pura da rimuovere l’angoscia, e la morte così perfetta che al suo confronto la morte sia un gioco da bambini? Sarei ioì Enigmatica, fa silenziosamente balenare l’impossibile, esige un maestoso deflagrare di me stesso - maestà tanto più scossa da un riso irrefrenabile quanto io muoio. E la morte non è soltanto la mia. Moriamo tutti inces­ santemente. Il poco tempo che ci separa dal vuoto ha l’inconsistenza di un sogno. Le morti che immaginiamo lontane: possiamo d’un balzo gettarci più facilmente ol­ tre ad esse che in esse; la donna che stringo a me è mo­ rente, e la perdita infinita degli esseri, che scorre senza tregua, che scivola al di fuori di loro, sono io!

Per ora, pesce sulla sabbia, senso di malessere e di oppressione. Tempo di sosta nella concatenazione; guar­ do il meccanismo, la sola via d’uscita è l’impossibile... Mi trovo in attesa di una festa - che sarebbe la solu­ zione. Or ora, queste parole della Gaia scienza mi hanno straziato: « ... pronto sempre all’estremo come ad ima festa... ». Ho letto, sfinito dalla festa di ieri... (che dire della debolezza e dei deviamenti dell’indomani?). Ieri, il fiume scorreva grigio sotto un cielo carico di venti, di nuvole cupe, di spessi vapori: tutta la magia del mondo sospesa nella scarsa freschezza della sera, nel momento inafferrabile in cui il violento, deciso acquaz­ zone, le foreste, i prati hanno la stessa tremante angoscia delle donne che cedono. In quel momento, quanto cre­ sceva in me - al limite dello strazio della ragione - la fe­ licità, per la mia evidente impotenza a possederla! Era­ vamo come il prato che le piogge stavano per inondare, inermi sotto il cielo opaco. C ’era una sola via di scampo: portare i bicchieri alle labbra e bere lentamente questa immensa dolcezza, inserita nel turbamento delle cose. Nessuno vide mai, per la nostra vita nel tempo, altra soluzione che la festa. Una calma felicità che non abbia mai fine? Ma soltanto una gioia prorompente ha la forza di liberare. Eterna? Al solo scopo di evitarci, di evitare ai granelli di polvere che siamo un margine di decadi­ mento - e di angosce - procedendo con questo splendo­ re fino alla morte!... Che ora ogni uomo mi capisca e riceva da me questa rivelazione: Morali, religioni di compromesso, ipertrofie dell’in­ telligenza, sono nate dalla depressione dell’indomani di una festa. Bisognava vivere in quel margine, installarvisi

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c superare l’angoscia (questo sentimento di peccato, di amarezza, di cenere, che il flusso della festa lascia, riti­ randosi). Scrivo il giorno dopo una festa... Una piantina grassa mi ricorda improvvisamente una fattoria della Catalogna, sperduta in una valletta lontana, dove arrivai per caso dopo un lungo cammino nella fore­ sta. Sotto il sole alto del meriggio, silenziosa, senza vita: una porta monumentale in rovina, le colonne sormonta­ te da vasi di aloe. Il magico mistero della vita sospeso nel ricordo di questi edifìci, innalzati nella solitudine per l’infanzia, l’amore, il lavoro, le feste, la vecchiaia, la di­ scordia, la morte... Evoco questa immagine di me stesso, più vera: un uo­ mo che impone ad altri un silenzio quieto per eccesso di « umore » sovrano. Solido come la terra, e mobile come una nube. Innalzantesi sulla propria angoscia, nella disu­ manità di una risata. L’immagine dell’uomo è cresciuta nei colpi audaci; non dipende affatto da me che l’orgoglio umano, attra­ verso il tempo, agisca nella mia coscienza. Come la tempesta al di sopra della depressione, la calma della volontà s’innalza al di sopra di un vuoto. La volontà suppone il vertiginoso abisso del tempo - l’infi­ nito aprirsi del tempo sul nulla. La volontà ha chiara co­ scienza di questo abisso: ne misura con lo stesso impulso l’orrore ed il fascino (fascino tanto più grande quanto più grande è l’orrore). Essa si oppone a questo fascino ne tarpa la possibilità: si definisce persino, su questo punto, come l’interdetto che viene pronunciato. Ma nel­ lo stesso tempo trae dalla sua profondità un sentimento di serenità tragica. L’azione derivante dalla volontà an­ nienta il nulla del tempo, afferra le cose non più in una posizione immutabile, ma nel moto che le trasforma at­ traverso il tempo. L’azione annulla e neutralizza la vita, ma quel momento di maestà che dice « voglio » e ordina l’azione, si colloca sul culmine dove le rovine (il nulla

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che si produce) sono tanto visibili quanto la finalità (l’oggetto trasformato dall’azione). La volontà contempla decidendo l’azione - ne contempla nello stesso tempo i due aspetti: il primo che distrugge, di annichilimento, ed il secondo di creazione. La volontà che contempla (innalza colui che è capace di volere e che si erge come immagine di maestà, grave e tempestosa perfino, con le sopracciglia un po’ aggrotta­ te), questa volontà è trascendente rispetto all’azione da essa ordinata. Reciprocamente, la trascendenza di Dio partecipa dell’impulso della volontà. La trascendenza in generale, o che opponga l’uomo all’azione (all’agente co­ me all’oggetto) o Dio all’uomo, è imperativa per elezione. Per quanto strano ciò sia, il dolore è così raro che dobbiamo ricorrere all’arte per non restarne senza. Non potremmo sopportarlo quando ci colpisce se ci sorpren­ desse completamente, non essendoci familiare. E soprat­ tutto dobbiamo avere una conoscenza del nulla che è ri­ velata soltanto nel dolore. Le più comuni operazioni del­ la vita ci vogliono chini sull’abisso. Se l’abisso non si in­ contra nelle sofferenze che ci capitano, ne abbiamo di artificiali, che ci procuriamo col leggere o con gli spetta­ coli o, se abbiamo la capacità di farlo, creandocele. Nietzsche è stato dapprima, come altri, un evocatore del nulla - scrivendo VOrigine della tragedia (ma il nulla del­ la sofferenza venne a lui in modo tale che egli smise di darsi da fare). Questo stato di privilegio - anche da Proust raggiunto in seguito - è il solo in cui possiamo far a meno completamente, se lo accettiamo, della tra­ scendenza esterna. Sì, è troppo poco dire: se lo accettia­ mo, bisogna dir di più: se lo amiamo, se abbiamo la for­ za di amarlo. La semplicità di Nietzsche davanti al peg­ gio, la sua disinvoltura e allegria, derivano dalla presen­ za passiva dell’abisso in lui. Da ciò deriva l’assenza di estasi grevi e tese, che danno talvolta ai mistici degli im­ pulsi terrorizzati - e di conseguenza terrorizzanti. Almeno si aggiunge l’idea del ritorno eterno... Con un impulso volontario (sembra) aggiunge ai ter­ rori passivi l’amplificazione di un tempo eterno.

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Ma forse, questa strana idea non è semplicemente il prezzo dell’accettazione? o meglio dell’amore? Il prezzo, la prova, dati senza misura? Da cui deriva lo stato di trance al momento della nascita delle idee, che Nietz­ sche ha descritto nelle sue lettere. Per l’uomo della strada, l’idea di ritorno non è effi­ cace. Da sola, non dà un sentimento di orrore. Potrebbe amplificarlo se ci fosse, ma se non c’è... Tanto meno può provocare l’estasi. Perché, prima di accedere agli sta­ ti mistici, dobbiamo in qualche modo aprirci all’abisso del nulla. È quello che ci invitano a fare i maestri di pre­ ghiera di ogni religione. Dobbiamo, noi, noi stessi com­ piere uno sforzo, mentre in Nietzsche la malattia e la ma­ niera di vivere che essa causa avevano già fatto il lavoro. In lui la ripercussione infinita del ritorno ebbe un senso: quello dell’accettazione infinita dell’orrore dato, un’ac­ cettazione, piuttosto che infinita, non preceduta da alcu­ no sforzo. Assenza di sforzo! I rapimenti descritti da Nietzsche, l’ilare sollievo, i momenti di folle libertà, i suoi umori da marionetta ine­ renti agli stati « più alti »... questa empia immanenza sa­ rebbe forse un dono del soffrire? Quanto è bello questo rifiuto della trascendenza, del­ le sue temibili regole: proprio per la sua leggerezza! La stessa mancanza di sforzo - preceduta dallo stesso dolore, che scalza ed isola - si trova nella vita di Proust: elementi entrambi essenziali agli stati che egli raggiunse. Nello Zen, si mira al satori soltanto attraverso comi­ che sottigliezze. È la pura immanenza di un ritorno a sé. Al posto della trascendenza, l’estasi - nell’abisso più fol­ le, più vuoto - rivela un’eguaglianza del reale a se stesso, dell’oggetto assurdo al soggetto assurdo, del tempo-og­ getto, che distrugge distruggendosi, al soggetto distrut­ to. Questa realtà in un certo senso uguale si colloca oltre la trascendenza ed è, credo, il possibile più avanzato. Ma non credo che il satori sia mai stato raggiunto pri­ ma che la sofferenza abbia compiuto la sua devastazione. Può essere raggiunto soltanto senza sforzo: un nulla lo provoca dal di fuori, quando non è atteso.

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La passività stessa, l’assenza di sforzo - e l’erosione del dolore - appartengono allo stato teopatico - in cui la trascendenza divina si dissolve. Nello stato teopatico, il fedele stesso diventa Dio, l’estasi in cui prova questo sentimento di eguaglianza tra se stesso e Dio è uno stato semplice e « senza effetto »: tuttavia, come avviene per il satori, è situato oltre ogni estasi concepibile. Ho descritto (Expérience intérieure, pp. 85-89) l’espe­ rienza (estatica) del senso del nonsenso, che si capovolge in un nonsenso del senso, poi di nuovo... senza soluzio­ ne accettabile... Se si esaminano i procedimenti Zen, si vedrà che implicano questo movimento. Il satori è cerca­ to nella direzione del nonsenso concreto (sostituito alla realtà sensata), che rivela una realtà più profonda. È il procedimento del riso... La sottigliezza di un movimento del « senso del non­ senso » si può afferrare nello stato di sospensione de­ scritto da Proust. La scarsa intensità, l’assenza di elementi folgoranti, ri­ sponde alla semplicità teopatica. Non avevo affatto scorto questo carattere di teopatia negli stati mistici conosciuti da Proust quando, nel 1942, cercai di metterne in chiaro l’essenza (Expérience inté­ rieure, pp. 210-233). In quel momento, io stesso avevo raggiunto soltanto condizioni di strazio. Solo recente­ mente sono slittato nella teopatia: dalla semplicità di questo nuovo stato, pensai subito che lo Zen, Proust e, nell’ultima fase, santa Teresa e san Giovanni della Croce l’avevano conosciuto. Nello stato di immanenza - o teopatico - non è neces­ saria la caduta nel nulla. Lo spirito, interamente, è pene­ trato esso stesso di nulla, corrisponde al nulla (e il senso corrisponde al nonsenso). Da parte sua, l’oggetto si dis­ solve in questa equivalenza. D tempo assorbe tutto, la trascendenza non cresce più a spese del nulla, al di so­ pra del nulla, esecrandolo... Nella prima parte di questo diario, ho tentato di de­

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scrivere questo stato, che si sottrae al massimo alla de­ scrizione estetica. I momenti di semplicità mi sembrano riferire gli « stati » di Nietzsche all’immanenza. E vero, questi stati partecipano dell’eccesso. Però i momenti di semplicità, di gaiezza, di spigliatezza, non ne sono separati.1

Cfr. Appendice il, L ’esperienza interiore di Nietzsche. [N.d.A]

E venuto il momento di terminare il mio libro. In un certo senso il compito è facile! Ho la sensazione di aver evitato, superato un po’ alla volta innumerevoli scogli. Non ero armato di princìpi ai quali attenermi - ma a forza di astuzia, di sagacia..., lanciando audacemente i dadi, avanzai ogni giorno, ogni giorno mi feci gioco del­ le insidie. I princìpi di negazione enunciati all’inizio han­ no consistenza soltanto in se stessi; sono in balìa del gio­ co. Ben lungi dall’opporsi al mio progredire, mi hanno servito meglio di quanto non avrebbero fatto princìpi contrari, che oggi potrei dedurre. Servendomi contro es­ si delle sottili risorse di cui dispongono la passione, la vi­ ta, il desiderio, ho vinto più sicuramente che non serven­ domi della saggezza affermativa. La straziante domanda di questo libro... posta da un ferito, senza soccorsi, che va perdendo lentamente le forze... e che tuttavia è arrivato in fondo, indovinando silen­ ziosamente il possibile senza sforzo: nonostante il cumu­ lo degli ostacoli, scivolando attraverso le faglie dei muri... se non esiste più un grande meccanismo in nome del quale si possa parlare: come tendere l’azione, come do­ mandar di agire, che fare? Ogni azione finora si è basata sulla trascendenza en­ tro la quale si parlò di agire; e si sentì sempre un rumore di catene, che i fantasmi del nulla trascinavano verso le quinte. Voglio soltanto la chance... È il mio scopo, l’unico, e il mio solo mezzo. Qualche volta, come è doloroso parlare. Amo e il mio supplizio è di non essere intuito, di dover pronunciare

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parole - ancora invischiate nella menzogna, nella feccia del tempo. Mi ripugna aggiungere (temendo equivoci grossolani): « Mi faccio beffe di me stesso ». Mi rivolgo così poco ai malevoli che domando agli al­ tri di indovinarmi. Bastano gli occhi dell’amicizia per ve­ der lontano a sufficienza. Soltanto l’amicizia indovina il disagio che provoca l’enunciare una verità stabile o uno scopo. Se prego un facchino di portarmi la valigia in sta­ zione, do le indicazioni necessarie senza disagio. Se evo­ co un lontano possibile, toccando la fragile intimità, co­ me un amore segreto, le parole che scrivo mi danno la nausea e mi sembrano vuote. Non scrivo il libro di un predicatore. M i piacerebbe poter essere capito soltanto a patto di una profonda amicizia. « i l d o m i n i o d i s é - Quei professori di morale che raccomandano all’uomo, in primo luogo e sopra tutto, di avere il dominio di se stesso, lo gratificano così di una malattia: un’irritabilità costante di fronte ad ogni impul­ so ed inclinazione naturale e, in certo modo, ima specie di prurito. Qualunque cosa gli capita, dal di fuori o dal di dentro - un pensiero, un’attrazione, un incitamento quest’uomo irritabile immagina sempre che in quel mo­ mento il dominio su se stesso potrebbe essere in perico­ lo: senza poter affidarsi ad alcun istinto, ad alcun libero colpo d’ala, compie incessantemente un gesto di difesa, armato contro se stesso, con l’occhio pungente e diffi­ dente, lui che si è istituito come guardiano della sua tor­ re. Sì, in questo modo può essere grande! Ma come è di­ ventato intollerabile per gli altri, difficile a sopportarsi per lui stesso, come si è impoverito e tagliato fuori dai più bei rischi dell’anima e anche da tutte le esperienze future! Infatti bisogna saper perdersi, almeno un po’, se si vuole imparare qualcosa da ciò che noi stessi non sia­ mo... » {La gaia scienza, 305). Come si può evitare la trascendenza nell’educazione? Per millenni, evidentemente, l’uomo è cresciuto nella tra­ scendenza (i tabù). Chi potrebbe, senza la trascendenza,

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arrivare al punto in cui siamo (in cui è l’uomo)? Comin­ ciando dall’aspetto più semplice: i piccoli ed i grandi biso­ gni... facciamo scoprire ai bambini il nulla che esce da lo­ ro: e così costruiamo la loro vita su un orrore. Così defi­ niamo in essi questa potenza che si innalza, separata dalla sozzura, senza immaginabile mescolanza. Il capitalismo muore - o morirà - (secondo Marx) per le conseguenze della concentrazione. Così la trascen­ denza è diventata mortale condensando l’idea di Dio. Dalla morte di Dio - che portava in sé il destino della trascendenza - nasce il carattere insignificante delle grandi parole - di ogni esortazione solenne. Senza le tensioni della trascendenza - che fondarono l’atteggiamento imperativo - gli uomini sarebbero restati animali. - Ma il ritorno all’immanenza si attua all’altezza dove esiste l’uomo. Esso innalza l’uomo al punto in cui si poneva Dio e riporta al livello dell’uomo l’esistenza che sembrava op­ primerlo. Lo stato d’immanenza significa la negazione del nulla (e con questo la negazione della trascendenza; se nego soltanto Dio non posso trarre da questa negazione l’im­ manenza dell’oggetto). Alla negazione del nulla, si arriva per due vie. La prima, passiva, è quella del dolore - che stritola, annulla fino al punto che l’essere è dissolto. La seconda, attiva, è quella della coscienza: quando provo un interesse profondo per il nulla, l’interesse di un vizio­ so, ma che è già lucido (nel vizio, perfino nel delitto, di­ stinguo un superamento dei limiti dell’essere). Per que­ sta via posso accedere alla chiara consapevolezza della trascendenza, e nello stesso tempo alle sue origini incon­ sapevoli. Parlando di « negazione del nulla », non prendo in considerazione qualcosa di equivalente alla negazione hegeliana della negazione. Intendo parlare di « comuni­

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cazione » raggiunta senza che siano stati prima posti lo scadimento o il delitto. Immanenza significa « comuni­ cazione » allo stesso livello, senza scendere o risalire: il nulla, in questo caso, non è più oggetto che viene posto da un atteggiamento. O, se si preferisce, il dolore pro­ fondo risparmia un ricorso ai campi del vizio o del sacri­ ficio. Il culmine che desideravo con passione raggiungere ma ho visto che si sottrae al mio desiderio - è raggiunto ad ogni estremo dalla chance: sotto il travestimento del­ l’infelicità... Sarebbe forse chance pur essendo la vera infelicità? Qui è necessario passare da un punto all’altro glissan­ do, bisogna dire: « Non è l’infelicità poiché è il culmine (già definito dal desiderio). Se una sofferenza è il culmi­ ne, questa sofferenza è in fondo la chance. Reciproca­ mente, se il culmine è raggiunto attraverso la sventura passivamente - questo avviene perché esso è, per essen­ za, connesso alla chance, che ha luogo indipendente­ mente dalla volontà, dal merito ». Nel culmine, ciò che mi attirava - che corrispondeva al desiderio - era il superamento dei limiti dell’essere. E nella tensione della volontà, essendo lo scadimento (il mio o quello dell’oggetto di un desiderio) segno del su­ peramento, in modo esplicito era voluto da me. Era la grandezza del male, dello scadimento, del nulla, quella che conferiva valore alla trascendenza positiva, ai comandamenti della morale. Ero abituato a questo gioco... Quando l’essere stesso è divenuto il tempo - tanto è roso all’interno - quando il moto del tempo ha fatto di esso, alla lunga, a forza di sofferenze e di diserzione, questo colatoio dove scorre il tempo, l’essere si fa aperto all’immanenza, non differisce più dall’oggetto possibile. La sofferenza abbandona il soggetto, l’interno dell’es­ sere, alla morte.

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Di solito, invece, noi cerchiamo nell’oggetto quella espressione o effetto del tempo che è il nulla. Trovo il nulla nell’oggetto, ma allora si annida in me un terrore: da cui viene la trascendenza, come un’altura dalla quale si domina il nulla.

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Se mai verso di me un alito è venuto, di quell’alito creatore, di quella necessità divina che obbliga perfino il caso a danzare carole di stelle; se mai ho riso del lampo creatore che il lungo tuono dell’azione segue rancoroso, ma obbediente; se mai ho giocato a dadi con gli dii, al ta­ volo divino della terra, di modo che la terra tremava e si fondeva, e sprizzava torrenti di fiamme: - perché la terra è un tavolo divino, che trema di nuove parole e del lancio dei di­ vini dadi... Zarathustra, 1 sette sigilli Ma cosa importa a voi, giocatori di dadi! Non avete imparato a giocare e a beffeggiare come si deve! Non siamo sempre seduti ad una grande tavola di scherno e di gioco? Zarathustra, L’uomo superiore

La mia stanchezza corporea - nervosa - è così grande che, se non fossi arrivato alla semplicità, soffocherei d’angoscia, credo. Spesso gli infelici, ben lungi dal giungere all’imma­ nenza, si dedicarono a quel Dio la cui trascendenza deri­ vava dall’evocazione volontaria del nulla. Come contropartita: la mia vita procede dall’immanenza e dai suoi moti, e dunque accedo alla sovranità orgogliosa, che in­ nalza la mia trascendenza personale sopra il nulla del possibile decadimento. Ogni volta è composta di sottili equilibri. Una volta mi lasciavo attirare da tutti gli aspetti tor­ bidi - ghigliottina, fogne e prostitute... - affascinato dal decadimento e dal male. Avevo quel sentimento greve, oscuro, angosciato che opprime la folla, e che può veni­ re evocato da ima canzone come La vedova. Ero strazia­ to da quel senso di aurora che dipende in modo così

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profondo dal decadimento - che non sbocca nelle pé­ nombre religiose - che unisce lo spasimo alle immagini sudicie. Mi preoccupavo nello stesso tempo di dominare, di essere duro verso me stesso, di essere orgoglioso. E tal­ volta ero bloccato dallo splendore militare che deriva, in una incomprensione ottusa, dalla superba contemplazio­ ne del nulla - e che si accorda, in fondo, con quel male di cui è negazione trascendente (traendo la sua forza ora da una ostentata disapprovazione, ora da un compro­ messo). Mi ostinai a lungo, cercando di esaurire la feccia di queste possibilità maledette. Ero ostile alle argomenta­ zioni della ragione, che amministra l’essere, ne calcola gli evidenti interessi. La ragione stessa è ostile al desiderio di oltrepassare i limiti - che non sono unicamente quelli dell’essere ma anche i suoi propri. Cerco, nella seconda parte di questo libro, di mettere in chiaro questo stato d’animo. Mi sforzo di evocare schematicamente il religioso terrore che mi ispira ancor oggi(A questo proposito, credo che nella volontà di poten­ za si trascuri l’elemento essenziale, se non vi si vede l'a­ more del male, non come utilità ma come valore che in­ dica il culmine.) Quando, alla fine della seconda parte, esibisco un at­ teggiamento temerario, e un tono di sfida, probabilmen­ te lo faccio con lo stesso sentimento che provo ora. Anche ora, posso soltanto giocare, senza sapere. (Non sono di quelli che dicono: « Agite così, non po­ trà mancare il risultato ».) Tuttavia, avanzando e osando —certamente con saga­ cia (ma la sagacia consisteva nel « lanciare i dadi » ogni volta) - ho trasformato l’aspetto delle difficoltà di par­ tenza. i ° Il culmine nell’immanenza annulla per definizione certe difficoltà sollevate a proposito degli stati mistici (o almeno degli stati che della trascendenza conservano i

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moti di terrore e tremore, considerati nella critica dei « culmini spirituali »): - l’immanenza si riceve, non è il risultato di una ri­ cerca; è interamente dalla parte della chance (ed è se­ condario il fatto che, in certi campi in cui si moltiplicano i procedimenti intellettuali, non si possa istituire una prospettiva netta, purché esista un momento decisivo); - l’immanenza è contemporaneamente, in un modo indissolubile, culmine immediato, poiché è da ogni parte rovina dell’essere, e culmine spirituale. 20 Distinguo ora nel gioco il movimento che, non ri­ ferendo, di un essere dato, il presente all’avvenire, lo ri­ ferisce invece ad un essere che non esiste ancora-, in que­ sto senso, il gioco non mette l’azione al servizio dell’a­ gente né di alcun essere già esistente, e in questo supera « i limiti dell’essere ».

Riassumendo, anche se il culmine si sottrae a chi lo cerca (a chi mira ad esso come scopo definito discorsiva­ mente), posso riconoscere in me un impulso capace di farmi procedere verso il culmine. Se posso fare del cul­ mine la meta di un procedere o di una intenzione, posso fare della mia vita la lunga divinazione del possibile. Ora mi raffiguro questo: Il tempo entra in me attraverso la derelizione che il dolore fa di me stesso, mio malgrado, alla morte; ma se la mia vita segue il suo corso normale, entra anche attra­ verso l’effetto delle speculazioni che collegano al tempo ogni mia più irrilevante azione. Agire è speculare su un risultato successivo - semina­ re sperando in raccolti futuri. L’azione è in questo senso « messa in gioco », e la posta è nello stesso tempo il la­ voro ed i beni impegnati - come l’aratura, il campo, il seme, tutta una parte delle risorse dell’essere. La « speculazione » è però diversa dalla « messa in gioco » in quanto è fatta, per essenza, in vista di un gua­ dagno. A rigore, una « messa in gioco » può essere folle, indipendente dalla preoccupazione del futuro.

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La differenza tra speculazione e messa in gioco sparti­ sce atteggiamenti umani diversi. Talora la speculazione è preminente rispètto al mette­ re in gioco. Allora la posta è il più possibile ridotta, si fa il massimo per garantire la vincita, la cui natura, se non la quantità, è limitata. Talvolta l’amore del gioco induce al più grande ri­ schio, a misconoscere lo scopo che si persegue. Lo sco­ po, in quest’ultimo caso, può non essere stabile, la sua natura è di porsi un possibile illimitato. Nel primo caso, la speculazione sul futuro subordina il presente al passato. Riferisco la mia attività ad un esse­ re futuro, ma il limite di quest’essere è tutto determinato nel passato. Si tratta di un essere chiuso, che si vuole im­ mutabile e che limita il suo interesse. Nel secondo caso, lo scopo indefinito è apertura, su­ peramento dei limiti dell’essere: l’attività presente ha co­ me fine ciò che del tempo futuro è incognito. I dadi so­ no gettati in relazione a un aldilà dell’essere: a ciò che ancora non è. L’azione supera i limiti dell’essere. Parlando del culmine, del declino, opposi la preoccu­ pazione per l’avvenire a quella per il culmine, che si iscrive nel tempo presente. Ho considerato la vetta come inaccessibile. Effettiva­ mente, per quanto strano ciò sembri, il tempo presente è sempre inaccessibile al pensiero. Il pensiero, il linguag­ gio si disinteressano del presente e continuamente gli so­ stituiscono la tensione al futuro. Non è rinnegabile ciò che ho affermato della sensuali­ tà e del delitto. Anche se si dovesse superarlo, è per noi il principio ed il cuore dionisiaco delle cose: che, dopo la morte della trascendenza, il dolore compenetra ogni giorno un po’ di più. Ma ho colto la possibilità di agire e di non esser più, nell’azione, in balìa di un desiderio « patetico » del male. A rigore, la dottrina di Nietzsche è, rimane, un grido nel deserto. Anzi è malattia e occasione di gretti mahnte-

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si. La sua fondamentale assenza di fini, quell’innata osti­ lità verso i fini non può essere superata direttamente. « Noi crediamo che la crescita dell’umanità ne svilup­ pi anche gli aspetti spiacevoli; l’uomo più grande di tutti, se questo è un concetto ammesso, sarebbe colui che rap­ presentasse più vigorosamente in sé il carattere contrad­ dittorio dell’esistenza, la glorificasse e ne fosse l’unica giustificazione... » (1887-1888; citato in Volontà di po­ tenza). L’ambiguità nell’assenza di scopo, invece di riparare qualcosa, affretta la rovina. La volontà di potenza è un equivoco. Ne rimane, in un certo senso, la volontà del male, e infine quella di spendere, di giocare (su cui Nietzsche ha messo l’accento). Le anticipazioni di un ti­ po umano - in rapporto all’elogio dei Borgia - contrad­ dicono un principio del gioco, che chiede risultati liberi. Se rifiuto di definire gli scopi, agisco senza riferire i miei atti al bene, alla conservazione o all’arricchimento di dati esseri. Mirare all’oltre, non all’essere dato, signifi­ ca non chiudere, lasciare aperto il possibile. « È proprio della nostra natura creare un essere che ci sia superiore. Creare ciò che ci supera! E, l’istinto della riproduzione, l’istinto dell’azione e dell’opera. Siccome ogni volontà suppone un fine, l’uomo suppone un essere che ancora non esiste, ma che è il fine della sua esisten­ za, Ecco il vero libero arbitrio! In questo fine si riassu­ mono l’amore, la venerazione, la intuita perfezione, aspi­ razione ardente » (1882-1885; citato in Volontà di po­ tenza). Nietzsche espresse attraverso l’idea di fanciullo il principio del gioco aperto, in cui l’evento supera il dato. « Perché » diceva Zarathustra « bisogna che il leone diventi bambino? ». Il bambino è innocenza e oblio, un nuovo inizio ed un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo movimento, un « sì » sacro.

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La volontà di potenza è il leone, ma il bambino non è forse la volontà di chance? Nietzsche ancor giovane aveva annotato: « Il “gioco”, l’inutile - ideale di chi straripa di forza; che è “infanti­ le”. L’infantilismo di Dio » (1872-1873; citato in Volontà di potenza). L’indù Ramakrishna giunse, credo, allo stato d’imma­ nenza: « ...è il mio compagno di giochi - disse di Dio. Non c’è né capo né coda nell’universo. Il gioioso! lacri­ me e risa, tutte parti della commedia. Ah! il divertimen­ to del mondo! Scuole di bambini abbandonati, chi loda­ re? chi biasimare? Non c’è ragione. Non v’è cervello. Lui ci inganna con questo po’ di cervello e questo po’ di ragione. Ma stavolta non mi becca più. Ho la parola del gioco. Oltre la ragione e la scienza, al di là di tutte le pa­ role, c’è l’amore ». Immagino - che so? - una maniera di parlare così fe­ lice da deformare tuttavia la realtà che evoca. Nello stato di immanenza coincidono il tragico, il sentimento di una pazza burla e la più grande semplicità. La semplicità de­ cide. L’immanenza differisce poco da uno stato qualsiasi e sta proprio in ciò: questo poco, questo nulla, è impor­ tante più della cosa più importante. È possibile che la parola del gioco, che l’amore, offu­ schi la verità. Ma non a caso, penso, queste poche righe stabilisco­ no un’equivalenza tra l’oggetto che nell’immanenza vie­ ne afferrato e le prospettive infinite del gioco. Lo stato di immanenza implica una completa esposi­ zione di sé al gioco, tale che soltanto un evento indipen­ dente dalla volontà possa disporre di un essere così a fondo. Appena dissipato l’inganno della trascendenza, la se­ rietà è dissipata per sempre. Tuttavia, nell’assenza di se­ rietà sfugge ancora l’infinita profondità del gioco: il gio­ co è la ricerca, di sorte in sorte, degli infiniti possibili.

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Ad ogni modo. Lo stato di immanenza significa: al di là del bene e del male. È connesso alla non-ascesi, alla libertà dei sensi. Lo stesso per l’ingenuità del gioco. Arrivando all’immanenza, la nostra vita esce infine dalla fase dei padroni.

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AGOSTO 1944

EPILO G O

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Se un giorno io riuscissi a spezzar via, separandola dalla massa, se non tutta la mia vita almeno la parte che è per me più importante - se la massa si dissolve in un’immanenza senza fine - ciò avverrebbe soltanto allo stremo delle forze. Nel momento in cui scrivo, trascen­ dere la massa è come sputare in aria: lo sputo ricade... La trascendenza (l’esistenza nobile, il disprezzo morale, l’atteggiamento sublime) è caduta nella commedia. Noi trascendiamo ancora l’esistenza infiacchita: ma a patto di perderci nell’immanenza, di lottare da pari per tutti gli altri. Detesterei il vuoto della trascendenza in me (le decisioni drastiche), se non afferrassi immediatamente il suo annullarsi in qualche immanenza. Considero essen­ ziale essere sempre all'altezza dell’uomo, trascendere sol­ tanto una scoria, fatta di gesti trascendenti. Se non fossi io stesso al livello di un operaio, sentirei la mia trascen­ denza al di sopra di lui come uno sputo sospeso sulla mia testa. Sento tutto questo al caffè, nei luoghi pubbli­ ci... Giudico fisicamente esseri ai quali mi unisco e che non possono trovarsi né al di sotto né al di sopra di me. Sono profondamente diverso da un operaio, ma il senti­ mento di immanenza che ho, parlandogli, se la simpatia ci unisce, è il segno che indica il mio posto nel mondo: quello di un’onda in mezzo alle acque. Mentre i borghesi che si innalzano segretamente gli uni sugli altri, mi sem­ brano condannati alla vuota esteriorità. Da un lato, la trascendenza, ridotta a commedia (quella del padrone - del signore - era una volta connes­ sa al rischio della morte, che si correva con la spada in mano), produce uomini la cui volgarità afferma l’imma­ nenza profonda. Ma se immagino la borghesia distrutta - con qualche legittimo salasso - l’eguaglianza tra loro dei sopravvissuti, questa immanenza infinita, non svuo­ terebbe a sua volta di senso una riproduzione monoto­

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na di lavoratori, una moltitudine senza diversità e senza storia? È pura teorizzazione. Tuttavia il sentimento di immanenza all’interno di una massa che nulla potrebbe ormai trascendere, corri­ sponde ad un bisogno necessario in me non meno dell’a­ more fisico. Se per rispondere a un’esigenza più viva, co­ me il desiderio di giocare, dovessi isolarmi in una tra­ scendenza nuova, mi troverei nello stato di pena in cui si muore. Questo pomeriggio, quattro aerei americani hanno at­ taccato con bombe, cannoni, mitragliatrici un treno di olio e benzina, in ima stazione a un chilometro da qui. Volando a bassa quota, volteggiavano al di sopra dei tet­ ti, poi puntavano attraverso colonne di fumo nero: gros­ si e terribili insetti, schizzavano di nuovo sopra il treno, per rituffarsi in alto verso il cielo. Ne passavano in conti­ nuazione sulle nostre teste, picchiando in un rombo di mitragliatrici, motori, bombe, cannoni a tiro rapido. Ho assistito senza pericolo per un quarto d’ora alla scena: che pietrificava gli spettatori. Essi tremavano e si stupi­ vano, poi pensavano alle vittime a cose fatte. Trenta va­ goni sono stati incendiati: per ore, ne è uscita come da un cratere un’immensa colonna di fumo, che ha oscura­ to una parte del cielo. Una festa marinara a duecento metri dal treno riuniva un gran numero di bambini. Non ci sono stati né morti né feriti. La radio non segnala più l’avanzare di colonne blin­ date. Però penso che si trovino a meno di cinquanta chi­ lometri. Due camion di truppe tedesche si sono fermati davanti a me: cercavano un ponte sulla Senna... fuggen­ do verso est, a caso. Ne afferro per la prima volta il senso (del resto, da una prospettiva abbastanza limitata): questa guerra è quella della trascendenza contro l’immanenza. La scon­ fitta del nazionalsocialismo è connessa all’isolamento

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della trascendenza, come l’illusione di Hitler lo è alla forza scatenata dal movimento della trascendenza. Que­ sta forza ne coagula contro di sé una maggiore - lenta­ mente - attraverso le reazioni che causa all’interno del­ l’immanenza. Sussiste solo il limite dell’isolamento. In altre parole, il fascismo ebbe come essenza la tra­ scendenza nazionale, non potè diventare un « universa­ le »; traeva la sua singolare forza dalla « particolarità ». Perciò perse la causa che rappresentava, benché essa avesse un lato universale. In ogni paese, a molti indivi­ dui sarebbe piaciuto dominare la massa, avendo essi co­ me scopo la loro trascendenza personale. Tentavano in­ vano - non potendo offrire alla massa di seguirli nelle loro finalità - di trascendere il resto del mondo. E que­ sto è possibile in una sola nazione: la trascendenza di un satellite (l’Italia), divenne comica nel pieno della guerra (questa guerra non ha dimostrato l’inferiorità fondamen­ tale del fascismo italiano rispetto a quello tedesco, ma il fatto che il primo, unito e subordinato ad un movimento più grande, si era trasformato in ombra). È pure comico fare « le civette di Minerva », parlare a cose fatte, disponendo soltanto, per salutare quelli che cadono, di scoppi di risa. Chiaro o crudele? Chiaro. L’immanenza è la libertà, è il riso. « La breve tragedia » diceva Nietzsche « ha sempre finito col servire l’eterna commedia dell’esistenza, e il mare “dal sorriso innume­ revole” - per dirla con Eschilo - finirà per coprire con le sue onde la più grande di queste tragedie » (La gaia scienza, 1). Immagino attraverso l’immanenza una scissione, men­ tre ciascuna parte contesta l’autenticità dell’altra, e si av­ vicina all’autenticità soltanto perché contesta ed è conte­ stata. La tensione, se non la guerra necessaria tra le due...: poiché nessuna è ciò che pretende di essere. Ho finito il disegno di una filosofia coerente... Interminabile attesa. Molte esplosioni nella notte. Il sindaco (filotedesco) annunciava ieri che gli americani

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stavano entrando a Parigi. Ne dubito. Nel momento in cui scrivo, una violenta esplosione, un bambino grida. Tutto è sovreccitato, nell’attesa. L’altro ieri gli americani sono passati a una diecina di chilometri. Oltre all’inte­ resse comune, ho in più una ragione morbosa per atten­ dere - soprattutto l’entrata a Parigi. È improbabile che una grossa battaglia devasti la regione. I tedeschi se ne vanno. Soltanto le trascendenze sono intelligibili (le disconti­ nuità). La continuità è intelligibile solo in rapporto al suo contrario. L’immanenza pura ed il nulla dell’imma­ nenza si equivalgono, non significano niente. Nemmeno la trascendenza pura sarebbe intelligibile, se non fosse « ripetuta », vale a dire: se non fosse rap­ presentata all’infinito nell’ambiente omogeneo dell’im­ manenza. Tagliate le comunicazioni, ridotto ad una solitudine assoluta. Si è formata una specie di terra di nessuno, da due giorni senza tedeschi e dove non entrano gli ameri­ cani attestati, sembra, intorno alla foresta. Le strade so­ no inverosimilmente vuote, in un silenzio notturno... Po­ chi aerei, i rombi delle esplosioni sono cessati. Non si sentono né bombardamenti aerei né cannoneggiamenti. La vita intera, popolazioni, eserciti, si dissolve (si esauri­ sce) nell’attesa. Rinuncio a cercar notizie malsicure. Le sole che ormai mi importano, l’entrata a Parigi, l’arrivo degli americani, mi giungeranno per forza propria. In queste condizioni, mi tormenta l’incertezza riguar­ do a K., e nella solitudine che mi si è chiusa intorno mi rodermi distrugge. La relativa lentezza delle operazioni lascia posto a ti­ mori fondati. Combattimenti a Parigi. Provo sollievo, immaginando, per me, non so quale eccesso di sofferenza, invece della rapida liberazione che

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si attendeva. Preferiamo talvolta affrontare l’orrore piut­ tosto che essere pazienti. Infine, crollo dei nervi: almeno a tratti. Riesco a ri­ prendermi e mi domino scrivendo. Cade la notte, l’elet­ tricità manca, esito ad accendere la candela. Voglio scri­ vere, non cedere all’angoscia. Da mesi sto paventando la separazione, alla quale mi condanna 1’awicinarsi delle operazioni: oggi posso dire che la solitudine mi opprime in maniera intollerabile. Il nulla dell’assenza - che può essere definitiva - è provato oggi dal mio furore; io sof­ foco. Come mi irrita dover vivere questo venir ributtato alla menzogna della trascendenza dal nulla che soffoca: se fosse il puro, autentico nulla, il mio supplizio sarebbe più leggero, penso. Se si tratta di morire, è pur sempre menzogna; e certo la menzogna della perdita di un esse­ re amato è ancor più evidente. Ma la menzogna di vivere attenua, scopertamente, la tristezza di morire, mentre la menzogna dell’amore accresce l’orrore di perdere l’esse­ re amato. In entrambi i casi, l’evidenza del falso elimina soltanto una parte dell’effetto: il falso è diventato la no­ stra verità. Ciò che chiamo menzogna, che è in fondo menzogna lo è soltanto « in fondo »: esso è piuttosto l’impotenza della verità. Il sentimento d’impotenza che ci spezza, se la perdita - e non la nostra stanchezza - ci fa vedere che ci eravamo montati la testa, scuote defini­ tivamente i nostri nervi. Non può eliminare l’attacca­ mento. La separazione non è per questo meno dura, e ciò che arreca una pretesa lucidità, non è il distacco ma l’idea che anche il ritorno non potrebbe soddisfare la se­ te che perdura dentro la delusione. Sono ringiovanito di vent’anni. Ho trovato un divino, diabolico messaggero da ope­ retta. Ho visto K., il cannone romba e si sentono le mitra­ gliatrici. Stasera, in cima ad ima torre, l’immensa foresta sotto le nuvole basse: e la pioggia, la guerra ne raggiungono i limiti, da sud-est a est: un sordo brontolio.

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La battaglia non lontana, di cui ascoltiamo in molti il rumore dall’alto delle rocce, non mi provoca angoscia. Come i miei vicini, scorgo la distesa in cui essa si svolge, invisibile ed enigmatica, ascolto congetture inconsisten­ ti. Non c’è « terra di nessuno »: davanti a noi, pochi te­ deschi si oppongono all’avanzata degli americani. Ecco quello che so. Le notizie della radio sono confuse, e in contrasto con la resistenza tedesca davanti a noi: nella nostra ignoranza completa o quasi, questi rumori di can­ noni o di mitragliatrici e il fumo di incendi lontani sono altrettanti problemi banali. Se c’è una grandezza in que­ sti rumori, è quella dell’inintelligibile. Non suggeriscono né la natura omicida dei proiettili, né i movimenti im­ mensi della storia e neppure un pericolo che si avvicini. Mi sento vuoto e stanco: non scrivo, ma non perché sono affranto. H o bisogno di riposo, di stupidità e di le­ targo. Leggo su riviste del 1890 romanzi di Hervieu, di Marcel Prévost. I tedeschi stanno probabilmente cedendo. Il canno­ ne, nella notte, scuote le porte. Al calar del giorno, una ventina di esplosioni di terribile violenza (è saltato un importante deposito di munizioni): sentivo tra le gambe e sulle spalle il sommovimento dell’aria. A sette chilome­ tri, le fiamme incendiavano il cielo. Vidi un’esplosione di rocce. All’orizzonte, immense fiammate rosse ed altre, accecanti, s’innalzarono nel fumo nero. Questo orizzon­ te di foreste è lo stesso di tre mesi fa: allora, mi lamenta­ vo di mancare di fantasia. Non riuscivo a raffigurarmi, allora, in questo paesaggio così bello (come un oceano d ’alberi, animato da lente, immense onde) la distruzione e lo strazio di una battaglia. Vedevo oggi vasti incendi, a poche miglia il cannone infuriava, dominato poi da quei rombi di colossali esplosioni. Ma i bambini ridevano sul­ le rocce. La quiete del mondo resta inalterata. Le notizie infine sono meno confuse. Due persone ve­ nute in bicicletta da Parigi mi hanno raccontato i fatti: i combattimenti nelle strade, la bandiera francese al mu­ nicipio, gli strilloni con l 'Humanité. Mi hanno pure det­ to che la battaglia è vicina a Lieusaint, a Melun. E possi­

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bile che Melun cada stasera, e questo deciderebbe il de­ stino della foresta. Sono salito sulle rocce alle nove. Il cannone tuonava forte. Tacque, ma si sentì chiaramente nella foresta il fracasso di ima colonna motorizzata. Tornai a casa, mi stesi sul letto. Grida mi riscossero da un dormiveglia. Andai alla finestra e vidi donne e bambini correre. Mi urlarono che erano arrivati gli ame­ ricani. Uscii e vidi le autoblinde circondate da una folla come se ci fosse una fiera, ma più animata. Nessuno è sensibile più di me a questo genere di emozioni. Parlavo ai soldati. Ridevo. L’aspetto degli uomini, degli abiti e del materiale americano mi è simpatico. Questi uomini d’oltremare mi sembrano più conclusi, più completi di noi. Ad ogni modo i tedeschi sudano mediocrità trascesa. L’« immanenza » degli americani è innegabile (l’essere è in loro stessi e non al di là). La gente portava bandiere, fiori, champagne, pere, pomodori, e faceva salire i bambini sui carri armati a cinquecento metri dai tedeschi. I carri armati giunti a mezzogiorno si rimisero in mar­ cia alle due. Subito la battaglia infuriò a un chilometro dalle strade. Una parte del pomeriggio trascorse tra raf­ fiche di mitragliatrici, cannoneggiamento assordante e fucileria. Dall’alto delle rupi vedevo il fumo innalzarsi da un villaggio bombardato, dal quale sparavano batterie tedesche. Incendi dappertutto! Melun in fiamme, lonta­ na, esalava fumo come un vulcano. Dalle rocce si domi­ na una distesa immensa, per due terzi costituita dai rilie­ vi addolciti ma selvaggi di una foresta, e poi dalla pianu­ ra di La Brie verso Melun. Di tanto in tanto, all’orizzon­ te, aerei picchiavano su ima colonna tedesca e quando colpivano giusto, vedevo innalzarsi grandi colonne di fu­ mo nero.

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Alle nove arrivò, lentamente, una camionetta circon­ data da uomini della Resistenza armati. Essi imbandiera­ rono la piazza dove si ammassò la folla. Il primo che fe­ cero salire sulla camionetta era un vecchio alto e magro, con una distinzione da uccello raro, un generale. Come in castigo, seduto sull’orlo, assunse un’aria furba e disin­ cantata. Circondato da un caos di uomini armati. Era il capo della milizia locale. La « carretta » all’angolo della strada, e le vittime entrate in una solitudine di morte, avevano qualche cosa di raccapricciante. La folla ap­ plaudì l’arrivo di una donna e cantò la Marsigliese. La donna, una borghesuccia di quarant’anni, riprese la Mar­ sigliese con gli altri. Sembrava cattiva, limitata, testarda. Era ripugnante, ridicolo sentirla cantare. Calò la notte: il cielo basso e nero prometteva temporale. Furono con­ dotti il sindaco e qualche altro. Contrasti a proposito del sindaco, un parapiglia. Lentamente, la camionetta carica si mosse. Ragazzi a capo scoperto, armati di fucili o di mitra, salirono con i prigionieri. Nella folla eccitata ri­ suonò aspro il « Canto della partenza ». Nella notte ros­ seggiavano bagliori d’incendio. A tratti, lampi illumi­ navano tutto, accecando e conservando una specie di palpito insensato. Verso la fine il cannone più prossimo (le linee sono a cinquecento metri di distanza) tuonò con estrema violenza, portando al massimo questa deso­ lazione. Temo coloro che, per comodità, riducono il gioco po­ litico alle ingenuità della propaganda. Personalmente, l’idea degli odi, speranze e ipocrisie, sciocchezze (in una parola, delle dissimulazioni d’interessi) che accompagna' no i grandi movimenti d’armi, mi distrugge. L’andare e venire degli incendi nella pianura, il succedersi, come una carica di cavalli nelle strade, di cannoneggiamenti e frastuono di esplosioni, mi sembrano carichi, più che di un senso facile, di tutto il peso connesso al destino del genere umano. Quale strana realtà persegue i suoi scopi (diversi da quelli che si vedono) o non persegue il mini­ mo scopo attraverso questo rumore? E difficile ora dubitare che la nostra immensa convul­

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sione non tenda necessariamente alla rovina della vec­ chia società, con le sue bugie, il suo sfiatarsi, la sua mon­ danità, la sua dolcezza di malata; d’altra parte è la nasci­ ta di un mondo dove agiranno senza freno forze reali. Il passato (la sua truffa per sopravvivere) sta morendo: il pesante sforzo di Hitler ne esaurisce ulteriormente le ri­ sorse. Evidentemente, riguardo a questo: guai a chi non si accorgerà che è venuto il tempo di togliersi i vecchi abiti e di entrare nudi nel mondo nuovo dove il possibile avrà il mai visto come condizione! Ma che cosa vuole, che cosa cerca, che cosa significa un mondo al momento del parto? Stamattina, sono straziato: la ferita si è riaperta a un minimo urto, ancora una volta; un vuoto desiderio, un’i­ nesauribile sofferenza! Un anno fa, mi tolsi, in un mo­ mento di febbre decisiva, ogni possibilità di riposo. Da un anno, vivo le convulsioni di un pesce sulla sabbia. Brucio e rido, mi trasformo in una fiammata... Improv­ visamente, si fa il vuoto, l’assenza, da allora mi trovo in fondo alle cose: da questo fondo, tale vampa sembra es­ ser stata solo tradimento. Come si può evitare di riconoscere una volta - e poi ancora, e senza fine - la falsità degli oggetti che ci bru­ ciano? Tuttavia, in questa oscurità insensata, al di là di ogni nonsenso, di ogni crollo, mi strazia ancora la pas­ sione di « comunicare » a chi amo la notizia che è calata la notte, come se questa « comunicazione », e nessun’altra, fosse la sola misura di un amore grande a sufficien­ za. Così rinasce - qua o là, senza fine - la folle folgora­ zione della chance; che esige da noi, prima di tutto, la conoscenza della menzogna, del nonsenso che essa è. O culmine del comico!... Dobbiamo fuggire il vuoto (l’insignificante) di una immanenza infinita, destinando­ ci come pazzi al falso della trascendenza! Ma questo fal­ so illumina con la sua follia l’immanente immensità: quest’ultima non è il più puro nonsenso, il puro vuoto, ma è questo fondo dell’essere pieno, questo fondo vero, davanti al quale si dissipa la vanità della trascendenza.

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Non l’avremmo mai conosciuta - per noi, non sarebbe mai esistita (e forse, a farla esistere per sé questo era il solo mezzo), se non avessimo prima messo a morte, poi negato, demolito la trascendenza. (Sarà possibile seguirmi così lontano?) . Questa direzione è indicata, è vero, da una luce per­ cepita comunemente, annunciata dalla parola l i b e r t à . E ciò mi avvince profondamente. Non so se la preoccupazione, l’inquietudine morale, straziarono mai uomo più crudelmente di me. Non sono ora tra quelli che insegnano: ogni affermazione si pro­ lunga in me stesso, come il rumore delle esplosioni su una città bombardata, in disordine, polvere, gemiti. Ma come un popolo, passata la bufera, si trova ogni volta al di là delle sue disgrazie (lacrime asciugate, di soppiatto; volti chiusi che si illuminano: e di nuovo sgorga il riso), così la « tragedia della ragione » si tra­ sforma in diversità insensata.

APPENDICE

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I N IETZSCH E E IL NAZIONALSOCIALISM O

Nietzsche attaccò la morale idealista. Si fece beffe della bontà e della pietà, smascherò l’ipocrisia e l’assenza di virilità dissimulate sotto il sentimentalismo umanita­ rio. Come Proudhon e Marx, affermò l’aspetto benefico della guerra. Lontanissimo dai partiti politici del suo tempo, gli capitò di enunciare i princìpi di un’aristocra­ zia da « padroni del mondo ». Lodò la bellezza e la forza corporea, con una netta preferenza per la vita rischiosa e turbolenta. Questi decisi giudizi di valore, di fronte all’i­ dealismo liberale, spinsero i fascisti a richiamarsi a lui, e certi antifascisti a vedere in lui il precursore di Hitler. Nietzsche ebbe il presentimento di un’epoca vicina, in cui i limiti convenzionali opposti alla violenza sareb­ bero stati superati, in cui le forze reali si sarebbero af­ frontate in conflitti di smisurata ampiezza, in cui ogni valore esistente sarebbe stato materialmente e brutal­ mente contestato. Immaginando la fatalità di un periodo di guerre la cui durezza avrebbe superato ogni previsio­ ne, non gli venne in mente che si sarebbe dovuto evitarle ad ogni costo, e che la prova sarebbe stata superiore alle forze umane. Persino queste catastrofi gli sembrarono preferibili al ristagno, alla falsità della vita borghese, del­ la ovina soddisfazione dei professori di morale. Come principio affermava questo: se esiste per gli uomini un vero valore e le regole della morale comune, dell’ideali­ smo tradizionale, si oppongono all’affermarsi di tale va­ lore, la vita travolgerà la morale comune. Anche i mar­ xisti ritengono che i pregiudizi morali opponentisi alla violenza di una rivoluzione devono piegarsi di fronte ad un valore preminente (l’emancipazione del proletariato). Diverso dal valore marxista, quello che Nietzsche affer­ mò è pure di carattere universale: l’emancipazione che voleva non era quella di una classe rispetto ad altre, ma quella della vita umana, nella figura dei suoi migliori

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rappresentanti, rispetto alle schiavitù morali del passato. Nietzsche ha sognato un uomo tale da non fuggire più un destino tragico, ma da amarlo e incarnarlo a suo pia­ cimento, da non mentire più a se stesso e da innalzarsi al di sopra del servilismo sociale. Questo genere d’uomo sarebbe stato diverso dall’uomo attuale, che di solito si confonde con una funzione, cioè con una sola parte del possibile umano: sarebbe stato in una parola l’uomo to­ tale, libero dalle schiavitù che ci limitano. Quest’uomo libero e sovrano, a mezza strada tra l’uomo moderno e il superuomo, Nietzsche non ha voluto definirlo. Pensava con ragione che non si può definire ciò che è libero. Nulla è più vano che fissare, limitare ciò che ancora non esiste; bisogna volerlo: e voler l’avvenire è riconoscere prima di tutto il diritto che ha l’avvenire di non essere li­ mitato dal passato, di essere il superamento di ciò che si conosce. In base a questo principio, di un primato del futuro sul passato,1 sul quale insisté fedelmente, Nietz­ sche è l’uomo più estraneo a ciò che, sotto il nome di morte, esecra la vita e, sotto il nome di reazione, il so­ gno. Tra le idee di un reazionario fascista o simili e quel­ le di Nietzsche, vi è molto più che una differenza: vi è una radicale incompatibilità. Nietzsche, pur rifiutando di delimitare quel futuro al quale attribuiva tutti i diritti, lo evocò tuttavia con suggerimenti vaghi e contradditto­ ri, e ciò diede luogo a confusioni abusive: è vano pre­ stargli un’intenzione che si possa misurare in termini di politica elettorale, asserendo che parlò di « padroni del mondo ». Si tratta da parte sua di ima evocazione arri­ schiata del possibile. Quell’« uomo sovrano » di cui de­ siderava lo splendore, egli lo immaginò in maniera con­ traddittoria, talvolta ricco talvolta più povero di un ope­ raio, ora potente ora perseguitato. Da lui esigeva la virtù di sopportare tutto, come gli riconosceva il diritto di tra­ sgredire le norme. Del resto, lo distingueva in linea di massima dall’uomo al potere. Non limitava nulla, si ac­ contentava di descrivere quanto più liberamente poteva un campo di possibilità. 1 D primato dell’avvenire sul passato non ha nulla a che vedere col prima­ to dell’avvenire sul presente, di cui ho parlato in precedenza.

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Detto questo, mi sembra che, se dobbiamo definire il nietzschismo, ha poca importanza indugiare in quella parte della dottrina che dà alla vita diritti contro Yideali­ smo. Il rifiuto della morale classica è comune al mar­ xismo,1 al nietzschismo, al nazionalsocialismo. È essen­ ziale solo il valore in nome del quale la vita afferma i suoi più importanti diritti. Stabilito questo principio di giudizio, i valori nietzscheani, in rapporto ai valori razzi­ sti, si collocano nell’insieme al polo opposto. - Il procedimento iniziale di Nietzsche deriva da un’ammirazione per i Greci, gli uomini intellettualmente meglio riusciti di tutti i tempi. Nello spirito di Nietzsche tutto è subordinato alla cultura, mentre nel terzo Reich, la cultura, ridotta, ha come finalità la forza militare. - Uno dei caratteri più significativi dell’opera di Nietzsche è l’esaltazione dei valori dionisiaci: ebbrezza ed entusiasmo infiniti. Non a caso Rosenberg, nel Mito del x x secolo, denuncia il culto di Dioniso come non ariano!... Nonostante alcune tendenze ben presto re­ presse, il razzismo ammette soltanto valori soldateschi: « La gioventù ha bisogno di stadi e non di boschi sacri » afferma Hitler. - Ho già parlato dell’opposizione tra passato e futu­ ro. Nietzsche si definisce stranamente come figlio del­ l’avvenire. Connetteva lui stesso questo nome alla sua esistenza di senza-patria. Effettivamente, la patria è per noi la parte del passato, e su di essa, unicamente e ri­ strettamente su di essa, l’hiderismo edifica il suo sistema di valori, non porta alcun valore nuovo. Nulla di più estraneo a Nietzsche: il quale afferma di fronte al mon­ do la totale volgarità dei tedeschi. - Due precursori ufficiali del nazionalsocialismo che precedettero Chamberlain furono Wagner e Paul de Lagarde, contemporanei di Nietzsche. Nietzsche è apprez­ zato e messo in rilievo dalla propaganda nazista, ma il 1 Che sul piano della morale si colloca al seguito deU’hegelismo. Già H e­ gel si era allontanato dalla tradizione. A buon diritto Henri Lefebvre ha detto di Nietzsche che egli fece «inconsciamente opera di volgarizzatore fin troppo zelante dell’immoralismo implicito nella dialettica storica di Hegel » (H ..Le­ febvre, Nietzsche, p. 136). Su Questo punto Nietzsche è responsabile, per dirla con le parole di Lefebvre, di aver « sfondato porte aperte ».

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terzo Reich non ne fece uno dei suoi dottori, come fa in­ vece di questi ultimi. Nietzsche fu amico di Wagner ma se ne allontanò, nauseato dal suo sciovinismo gallofobo e antisemita. Quanto al pangermanista Paul de Lagarde, un passo di Nietzsche toglie ogni dubbio nei suoi riguar­ di. « Se sapeste » scrive egli a T. Fritsch « quanto ho riso nella scorsa primavera leggendo le opere di quel capar­ bio sentimentale e vanitoso che si chiama Paul de La­ garde... ». - Noi oggi ci rendiamo ben conto del senso che ha per il razzismo hitleriano la stupidità antisemita. Non c’è nulla di più essenziale all’hitlerismo dell’odio contro gli ebrei. A questo si oppone questa norma di condotta di Nietzsche: « Non frequentare nessuno che sia implicato nella sfrontata beffa mistificatoria delle razze ». Non c’è nulla che Nietzsche abbia affermato in modo più palma­ re del suo odio contro gli antisemiti. È necessario insistere su quest’ultimo punto. Nietz­ sche deve esser lavato dall’onta nazista; perciò bisogna denunciare certe commedie. Una di queste riguarda la sorella del filosofo, che gli sopravvisse fino ad anni re­ centi (morì nel 1935). La signora Elisabeth Foerster nata Nietzsche non aveva dimenticato, il 2 novembre 1933, le difficoltà che erano sorte tra lei ed il fratello a causa del suo matrimonio nel 1885 con l’antisemita Ber­ nard Foerster. Una lettera in cui Nietzsche le ricorda la sua ripu­ gnanza più ferma possibile per la posizione politica del marito - chiamato in causa col suo nome - fu pubblicata a cura della signora stessa. Ora, il 2 novembre 1933, la signora Elisabeth Judas-Foerster ricevette a Weimar, nella casa in cui morì Nietzsche, il Führer del terzo Reich, Adolf Hitler. In questa solenne occasione, la don­ na affermò l’antisemitismo della famiglia leggendo un te­ sto di... Bernard Foerster! Riferisce Le Temps del 4 novembre 1933: « Prima di lasciare Weimar per recarsi ad Essen, il cancelliere H i­ tler è andato a far visita alla signora Elisabeth FoersterNietzsche, sorella del celebre filosofo. La vecchia signo­ ra gli ha regalato un bastone animato che apparteneva

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al fratello. Gli ha fatto anche visitare gli archivi Nietz­ sche ». « Il signor Hitler ha ascoltato la lettura di una memo­ ria indirizzata nel 1879 a Bismark dal dottor Foerster, agitatore antisemita, che protestava contro l’invadenza dello spirito ebreo in Germania. Tenendo in mano il ba­ stone di Nietzsche, Hitler è passato in mezzo alla folla acclamante ». Nietzsche, nel 1887, inviando una sprezzante lettera all’antisemita T. Fritsch, terminava così: « Ma infine, co­ sa credete che io provi quando il nome di Zarathustra esce dalla bocca degli antisemiti? ».'1

1 D a consultare su questi problemi: Nicolas: De Nietzsche à H itler, 1937; Nietzsche et les fascistes. Une réparation (numero speciale di « Acéphale », gennaio 1937). Henri Lefebvre, Nietzsche, 1939 (E.S.I.), p. 161 e segg.

II L’ESPERIENZA INTERIORE D I NIETZSCHE

Le « esperienze » riferite in questo libro hanno meno spazio che nei due precedenti. Non hanno neppure lo stesso rilievo. Ma è soltanto un’apparenza. L’interesse fondamentale di questo libro si rivolge, è vero, all’in­ quietudine morale. Gli « stati mistici » vi hanno tuttavia una primaria importanza, perché il problema morale è posto a loro riguardo. Sembrerà forse inopportuno dare tale importanza a questi stati in un libro che tanto riguarda Nietzsche. L’o­ pera di Nietzsche ha poco a che vedere con le ricerche del misticismo. Tuttavia Nietzsche conobbe una specie d’estasi e lo dice (Ecce homo; citato prima, a p. 119). Ho voluto entrare nella comprensione dell’« espe­ rienza nietzscheana ». Credo che Nietzsche pensi a « sta­ ti mistici » nei passi in cui parla del divino. « Quanti dèi nuovi sono ancora possibili! » scrive in una nota del 1888. « Io stesso, in cui l’istinto religioso, cioè creatore di dèi si agita, persino fuori luogo, in quan­ ti diversi modi ho avuto ogni volta la rivelazione del di­ vino!... Ho visto passare tante cose strane in quei mo­ menti situati al di fuori del tempo, che cadono nella no­ stra vita come se cadessero dalla lima, e in cui non si sa più quando si è già vecchi, quando si ridiventerà giova­ ni... » (citato in Volontà di potenza). Avvicino questo testo ad altri due: « Veder affondare le nature tragiche e poterne ridere, malgrado la profonda comprensione, l’emozione e la simpatia che si provano, questo è divino » (1882-1884; citato in Volontà di potenza). « La mia prima soluzione: il piacere tragico di veder affondare ciò che esiste di più alto e di migliore (perché lo si considera troppo limitato in confronto al Tutto); ma questo è solo un modo mistico di presentire un “be­ ne” superiore.

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La mia ultima soluzione: il bene supremo ed il male supremo sono identici » (1884-1885; citato in Volontà di potenza). Gli « stati divini » conosciuti da Nietzsche avrebbero avuto come oggetto un contenuto tragico (il tempo), co­ me movente il riassorbimento dell’elemento tragico tra­ scendente nell’immanenza implicata dal riso. Il troppo li­ mitato in confronto al Tutto del secondo passaggio, è un riferimento allo stesso movente. Un modo mistico di pre­ sentire significherebbe un modo di sentire mistico, nel senso dell’esperienza e non della filosofia mistica. Se è così, la tensione degli stati estremi sarebbe data come ri­ cerca di un « bene » superiore. L’espressione « il bene supremo ed il male supremo so­ no identici » potrebbe ugualmente essere intesa come un dato dell’esperienza (un oggetto d’estasi). L’importanza attribuita da Nietzsche stesso ai suoi stati estremi è sottolineata espressamente in questa nota: « Il nuovo senso di potenza: lo stato mistico; e il razio­ nalismo più lucido, più ardito, che serva come strada per arrivarci. - La filosofia, espressione di uno stato d’a­ nimo straordinariamente elevato » (citato in Volontà di potenza). L’espressione « stato elevato » per indicare lo stato mistico si trovava già nella Gaia scienza (vedi p. 125). Questo brano è, tra gli altri, ima testimonianza dell’e­ quivoco introdotto da Nietzsche col parlare continuamente di potenza, mentre pensa alla capacità di dare. Ef­ fettivamente, noi possiamo prendere soltanto in questo senso un’altra nota (della stessa epoca): «Definizione del mistico: colui che ha sufficiente, e anche troppa, feli­ cità e che cerca un linguaggio per la sua felicità, perché vorrebbe darne » (1884; citato in Volontà di potenza). Nietzsche definisce così una linea da cui deriva in parte Zarathustra. Lo stato mistico, altrove accostato alla po­ tenza, può esserlo più giustamente alla volontà di dare. Questo libro ha un senso profondo: lo stato estremo si sottrae alla volontà dell’uomo (in quanto l’uomo sia progetto, azione), tanto che non si può neppure parlarne

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se non alterando la sua natura. Ma il valore decisivo di questa interdizione può soltanto straziare colui che vuo­ le, che parla: infatti, nel momento in cui non può, biso­ gna che voglia e parli. Io stesso, ho abbastanza, ho fin troppa felicità mia propria.

HI L’ESPERIENZA INTERIORE E LA SETTA ZEN

La setta buddhista Zen esisteva in Cina fin dal sesto secolo. Oggi è fiorente soprattutto in Giappone. La pa­ rola giapponese Zen è la traduzione del sanscrito dhyàna, che designa la meditazione buddhista. Come lo yoga, il dhyàna è un esercizio respiratorio al fine di provocare l’estasi. Lo Zen differisce dai metodi comuni per un evi­ dente disprezzo delle forme dolci. La base della religio­ sità Zen è la meditazione, ma avente come finalità solo un momento di illuminazione chiamato satori. Nessun metodo certo permette di accedere al satori. È la brusca apertura, lo scompiglio improvviso che qualche impre­ vedibile bizzarria scatena. Sian-ièn, al quale il maestro Uei-scian rifiutava ogni insegnamento, disperava. « Un giorno, mentre strappava erbacce e spazzava la terra, un sasso che aveva gettato da parte colpì un bambù e il suono prodotto dall’urto in­ nalzò il suo spirito, in modo inatteso, allo stato del sato­ ri. Il problema postogli da Uei-scian divenne luminoso, la sua gioia era senza limiti; fu come ritrovare un genitore perduto. Inoltre, capì allora la bontà del fratello maggio­ re, da lui abbandonato quando questi si era rifiutato di istruirlo. Infatti ora sapeva che ciò non gli sarebbe capi­ tato se Uei-scian fosse stato così privo di bontà da spie­ gargli le cose » (Suzuki, Essais sur le bouddhisme Zen, trad. Sauvageot e Daumal, 1944,11, pp. 29-30). Ho sot­ tolineato io le parole come ritrovare... « ...quando il meccanismo scatta, ciò che giaceva nel­ lo spirito prorompe come un’eruzione vulcanica o spriz­ za come un fulmine. Lo Zen chiama questo fatto “ritor­ nare a casa” ... » (Suzuki, op. cit., 11, p. 33).

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Il settori può risultare « dalla percezione di un suono inarticolato, da un’osservazione inintelligibile, oppure dal contemplare un fiore che sta sbocciando, o dal veri­ ficarsi di un qualsiasi fatto banale e quotidiano: cadere, avvolgere ima treccia, servirsi di un ventaglio, ecc. » (Su­ zuki, op. cit., ii, p. 33). Un monaco raggiunse il satori « nel momento in cui, camminando nel cortile, inciampò » (Suzuki, op. cit., in, p. 253). « Ma-ciù tirò il naso a Pai-ciang »... e aprì il suo spiri­ to (Suzuki, op. cit., il, p. 31). L’espressione Zen ha assunto spesso la forma poetica. Iang-Tai scrive: « Se volete nascondervi nella stella del Nord, / volge­ tevi, e incrociate le mani dietro la stella del Sud » (Suzu­ ki, op. cit., il, p. 40). s e r m o n i d i IU N -M E N . « Un giorno... disse “Il Bodhisattva Vasudeva si trasforma senza ragione alcuna in un bastone”. Così dicendo, tracciò per terra una linea col bastone e riprese: “Tutti i Buddha innumerevoli co­ me i granelli di sabbia, sono qui a parlare di ogni sorta di sciocchezze”. Poi lasciò la stanza. - Un’altra volta dis­ se: “Tutti i discorsi che ho fatto finora - di che cosa si tratta infine? Oggi, di nuovo, non essendo in grado di venire in aiuto a me stesso, sono qui per parlarvi ancora una volta. In questo vasto universo, c’è forse qualche co­ sa che si erga davanti a voi e vi riduca in schiavitù? Se mai la più piccola cosa, anche piccola come la punta di uno spillo, si trova sulla vostra via o vi ostruisce il pas­ saggio, toglietela!... Quando vi lascerete prendere a vo­ stra insaputa da un vecchio come me, vi perderete subi­ to e vi spezzerete le gambe...”. - Un’altra volta: “Oh! guardate! nessuna vita sussiste!” e così dicendo, fece fin­ ta di cadere. Poi chiese: “Capite? Altrimenti, domandate a questo bastone che vi illumini!” » (Suzuki, op. cit., 11, pp. 203-206).

IV RISPOSTA A JEAN-PAUL SARTRE 1 (DIFESA D E « L’EXPÉRIEN CE INTÉRIEURE »)

Ciò che disorienta nella mia maniera di scrivere è una serietà che inganna il pubblico. Questa serietà non è fal­ sa, ma che posso farci se l’estremo del serio si dissolve in ilarità? Espressa senza giri di parole, una mobilità ecces­ siva dei concetti e dei sentimenti (degli stati d’animo) non lascia al lettore più lento la possibilità di afferrare (di fissare). Sartre dice, riportando mie affermazioni: « Da quan­ do Bataille si è seppellito nella non-scienza, rifiuta ogni concetto che permetta di designare e classificare ciò che egli raggiunge: “ Se dicessi decisamente: ho visto Dio, ciò che vedo cambierebbe. Invece dell’ignoto inconcepi­ bile - davanti a me selvaggiamente libero, e che mi lascia davanti a sé libero e selvaggio - ci sarebbe un oggetto morto e la cosa del teologo” . Però non tutto è così chia­ ro: ecco che, dopo, Bataille scrive: “Ho del divino un’e­ sperienza così folle che si riderà di me, se ne parlo”, e, più sotto: “Con me, idiota, Dio parla faccia a faccia...”. Infine, all’inizio di uno strano capitolo che contiene tut­ ta una teologia, ci spiega ancora una volta il suo rifiuto di nominare Dio, ma in modo abbastanza diverso: “In fondo, ciò che priva l’uomo di ogni possibilità di parlare con Dio, è il fatto che, nel pensiero umano, Dio diventa necessariamente conforme all’uomo in quanto l’uomo è stanco, assetato di sonno e di pace”. Non si tratta più degli scrupoli di un agnostico cne vuole restare sospeso tra l’ateismo e la fede. È proprio un mistico che parla, un mistico che ha visto Dio e rifiuta il linguaggio troppo umano di quelli che non l’hanno visto. Nella distanza che separa i due testi è tutta la malafede di Bataille... ». La contestazione di Sartre mi aiuta a mettere in rilie1 Risposta a una recensione de L'Expérience intérieure di Bataille, apparsa sui « Cahiers du Sud », nn. 260-262 (ott.-dic. 1943), col titolo Un nouveau my­ stique.

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vo l’essenziale. Questa esperienza particolare che hanno gli uomini, e che da essi è chiamata esperienza di Dio, viene alterata, penso, se la si nomina. Basta che si abbia, riguardo ad essa, la rappresentazione di un qualche og­ getto; le precauzioni non cambiano nulla. Al contrario: eluso il nome, la teologia si dissolve e resiste solo quale memoria: l’esperienza è ridotta alla disperazione. Sartre descrive molto bene i moti del mio animo par­ tendo dal mio libro, sottolineando dal di fuori la loro stu­ pidità, meglio di quanto non potessi fare io dal di dentro (ero commosso): quando vengono così percepiti e sezio­ nati da ima lucidità indifferente, davvero ne è comica­ mente denunciato (come è giusto) il carattere stentato, penoso. Dice Sartre: « ... il supplizio che Bataille non può eludere, non può neppure sopportarlo. Ma se non c’è nient’altro che questo supplizio? Allora è il supplizio stesso che viene falsificato. E l’autore lo ammette: “Conosco l’arte di tra­ sformare l’angoscia in delizia” . Ed ecco lo slittamento: Non so nulla. Bene. Ciò significa che le mie conoscenze si fermano, non vanno oltre. Al di là, non esiste nulla, poiché nulla esiste al di fuori di quello che conosco. Ma se sostantivizzo la mia ignoranza? Se la trasformo nelle tenebre della non-scienza? Ecco che diventa positiva: posso toccarla, posso dissolvermi in essa. “Raggiunta la non-scienza, la scienza assoluta diventa soltanto una co­ noscenza come le altre”. O meglio: mi ci posso installa­ re. C ’era una luce che illuminava debolmente la notte. Ora mi sono ritirato nella notte e considero la luce dal punto di vista della notte. “La non-scienza mette a nudo. Questa proposizione è il culmine ma deve essere capita così: essa mette a nudo, dunque vedo ciò che la scienza finora nascondeva, ma se vedo, so. Effettivamente, so, ma la non-scienza denuda, ancora, ciò che ho saputo. Se il nonsenso è il senso, il senso che è il nonsenso si perde, ridiventa nonsenso (senza sosta possibile)” . Non si rie­ sce a prendere il nostro autore in castagna. Se sostantivizza ü non sapere, lo fa con prudenza: alla maniera di un movimento, non di una cosa. Ciò non toglie che il ti­ ro sia giocato; la non-scienza, che non era all’inizio nul-

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la, diventa l’aldilà della scienza. Gettandovisi dentro, Ba­ taille si trova improvvisamente dalla parte del trascenden­ te. È sfuggito. Il disgusto, la vergogna, la nausea sono ri­ masti dalla parte della scienza. Dopo di ciò ha buon gio­ co a dirci: “Nulla è rivelato, tanto nella caduta quanto nell’abisso” . Perché è rivelato l’essenziale: la mia abiezio­ ne è un nonsenso e c’è un nonsenso di questo nonsenso (che non è affatto un ritorno al senso primitivo). Un te­ sto di Blanchot, citato da Bataille, ci svelerà la truffa: “La notte gli parve presto più cupa, più terribile di qual­ siasi altra notte, come se fosse realmente venuta fuori da una ferita, dal pensiero che non si pensava più, dal pen­ siero preso ironicamente come oggetto da qualcosa di di­ verso dal pensiero”. Ma appunto, Bataille non vuol vede­ re che la non-scienza è immanente al pensiero. Un pen­ siero che pensa di non sapere è ancora un pensiero. Sco­ pre dall’interno i suoi limiti, ma non si sorvola per que­ sto. È come fare qualche cosa di nulla, col pretesto che gli si dà un nome. E appunto il nostro autore arriva fin là. Non occorre un grande sforzo. Voi ed io scriviamo: “Non so nulla”, semplicemente. Ma supponiamo che io metta questo nulla tra virgolette. Supponiamo che io scriva, come Bataille: “E soprattutto nulla, non so nul­ la”. Ecco un nulla che assume uno strano aspetto: si stacca e si isola, non è lungi dall’esistere per se stesso. Basterà chiamarlo ora l’ignoto e si sarà raggiunto il risul­ tato. Il nulla è ciò che non esiste affatto, l’ignoto è ciò che non esiste affatto per me. Chiamando nulla l’ignoto, ne faccio l’essere che ha come essenza di sfuggire al mio conoscere; e se aggiungo che non so nulla, significa che comunico con quest’essere grazie a qualche altro mezzo diverso dalla scienza. Su questo punto ci illuminerà an­ cora il testo di Blanchot, al quale il nostro autore si rife­ risce: “Attraverso questo vuoto, si mescolavano dunque lo sguardo e l’oggetto dello sguardo. Non soltanto que­ st’occhio che non vedeva nulla comprendeva qualche co­ sa, ma comprendeva la causa della sua visione. Vedeva come oggetto ciò che faceva sì che non vedesse” } Ecco 1 1 Sottolineato da Sartre.

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questo ignoto, dunque, selvaggio e libero, al quale Ba­ taille ora dà ora rifiuta il nome di Dio. E un puro nulla ipostatizzato. Ancora imo sforzo e ci dissolviamo anche noi in questa notte che ancora ci proteggeva: è il sapere che crea l’oggetto di fronte al soggetto. La non-scienza è “soppressione dell’oggetto e del soggetto, il solo mezzo per non arrivare al possesso dell’oggetto da parte del soggetto”. Resta la “comunicazione” : cioè la notte assor­ be tutto. Ma Bataille dimentica questo: che ha costruito con le sue mani un oggetto universale: la Notte. E il mo­ mento di applicare al nostro autore ciò che Hegel diceva dell’assoluto di Schelling: di notte, tutte le vacche sono nere. Sembra che questo abbandono alla notte sia affa­ scinante. Non mi meraviglierò. È un certo modo di dis­ solversi nel nulla. Ma Bataille - ora come poco fa - sod­ disfa per via indiretta il suo desiderio di “essere tutto” . Con le parole “nulla”, “notte”, “non-scienza” che “de­ nuda”, ci ha semplicemente preparato una cara è buona estasi panteistica. Si ricordi ciò che Poincaré disse della geometria riemaniana: sostituite la definizione del piano riemaniano con quella della sfera euclidea, e avrete la geometria di Euclide. D ’accordo. E così, il sistema di Spinoza è un panteismo bianco, quello di Bataille è un , panteismo nero ». A questo punto, tuttavia, devo riprendere Sartre: sa­ rebbe, devo dire, un panteismo nero... se, poniamo, la mia infinita inquietudine non mi avesse in anticipo pri. vato di ogni possibilità di sosta. Ma sono contento di ve­ dermi sotto questa luce accusatoria proprio da parte del pensiero lento. Probabilmente scorgevo io stesso (in una qualche forma) queste inestricabili difficoltà - il mio pensiero, il suo movimento, partivano da esse —ma era come il paesaggio che si scorge da un rapido, e ciò che sempre vedevo, era la loro dissoluzione nel movimento, la loro rinascita sotto altre forme, che acceleravano ima rapidità da disastro. In queste condizioni, dominava una penosa sensazione di vertigine: la mia corsa precipitosa, ansante, in queste prospettive del fondo estremo dell’es­ sere che si formava e si deformava (che si apriva e si chiudeva) non mi impediva mai di sentire il vuoto e la

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stupidità del mio pensiero: ma il culmine era nell’istante in cui il vuoto, inebriandomi, conferiva piena consisten­ za al mio pensiero: nel quale il nonsenso, attraverso l’eb­ brezza stessa che mi dava, prendeva diritto di senso. Ef­ fettivamente, se il nonsenso mi inebria, prende questo senso: mi inebria: è bene, in questo rapimento, perdere il senso —dunque è il senso del fatto di perderlo. Appe­ na apparso questo nuovo senso, me ne appariva l’incon­ sistenza, e di nuovo il nonsenso mi svuotava. Ma il ritor­ no del nonsenso era il punto di partenza di ima accre­ sciuta ebbrezza. Al contrario, Sartre, che non è inebriato né sgomentato da alcun movimento, giudicando dal di fuori, senza provarle, la mia sofferenza e la mia ebbrez­ za, conclude il suo articolo insistendo sul vuoto: « Se le gioie » dice « alle quali ci invita Bataille, debbono ri­ mandare soltanto a se stesse, né debbono inserirsi nella trama di nuove imprese, contribuire a formare un’uma­ nità nuova che supererà se stessa in nuove finalità, non valgono di più che bere un bicchiere di alcool o che scaldarsi al sole su una spiaggia ». È vero, ma insisto: proprio perché esse sono così - tali da lasciar vuoti —si prolungano in me nella prospettiva dell’angoscia. Ciò che tentai di descrivere in Expérience intérieure è il mo­ vimento che, perdendo ogni possibilità di sosta, cade fa­ cilmente sotto i colpi di una critica che crede di fermarlo dal di fuori poiché essa, la critica, non è presa nel movi­ mento. La mia caduta vertiginosa e la differenza che ne viene introdotta nello spirito, possono non essere affer­ rate da chi non ne fa la prova in se stesso: allora si può, come ha fatto Sartre, rimproverarmi prima di arrivare a Dio, poi di arrivare al vuoto! Questi rimproveri contrad­ dittori convalidano la mia affermazione: non arrivo mai a niente. Per questo la critica al mio pensiero è così difficile. La mia risposta, qualunque cosa se ne dica, è data in an­ ticipo: da una critica ben motivata non potrò che trarre, come in questo caso, un nuovo mezzo di angoscia, quin­ di di ebbrezza. Non mi fermavo, nella mia fuga precipi­ tosa, a tanti aspetti comici: Sartre mi permette di tornar­ ci sopra... E senza fine.

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Tuttavia il mio atteggiamento trae dalla sua facilità questa debolezza evidente: « La vita, ho detto, si perde nella morte, i fiumi nel ma­ re e il noto nell’ignoto » (Expérience intérieure, p. 137). E la morte è per la vita (come il livello del mare per l’acqua) la fine raggiunta senza pena. Perché dovrei farmi una preoccupazione del desiderio che ho di convincere? Mi perdo in me stesso come il mare: so che il fragore delle ac­ que del torrente si dirige verso di me! Ciò che un’intelli­ genza acuta sembra talvolta sottrarre, non tarda ad essere restituito dall’immensa stupidità alla quale essa si connet­ te - e di cui è soltanto un’infinita parte. La certezza dell’incoerenza delle letture, la fragilità delle più sapienti co­ struzioni, costituiscono la profonda verità dei libri. Ciò che veramente esiste, poiché l’apparenza limita, è tanto lo slancio di un pensiero lucido quanto la sua dissoluzione nell’opacità comune. L’immobilità apparente di un libro ci imbroglia: ogni libro è anche la somma dei malintesi di cui è l’occasione. Perché, allora, debbo sfinirmi in « sforzi di coscien­ za »? Non posso che ridere di me stesso scrivente (po­ trei forse scrivere ima frase se non vi si accompagnasse subito il riso?). Naturalmente io attendo al mio compito nella maniera più rigorosa possibile. Ma quel sentimento che il mio pensiero stesso ha della sua fragilità (soprat­ tutto la certezza di raggiungere i suoi fini proprio attra­ verso il fallimento) mi toglie la quiete, mi priva della di­ stensione favorevole all’ordine rigoroso. Dedito alla di­ sinvoltura, penso e mi esprimo in balìa del caso. Non c’è nessuno, evidentemente, che non debba la­ sciare una parte al caso. Ma è la più piccola e soprattut­ to la meno cosciente possibile. Mentre io me ne vado decisamente con la briglia sul collo, elaboro il mio pen­ siero, decido della sua espressione, ma non posso di­ sporre di me come voglio. Il movimento stesso della mia intelligenza è sbrigliato. Devo un minimo di ordine, una relativa erudizione, ad altri, al caso fortunato, a fuggevoli momenti di distensione. Il resto del tempo... Il mio pensiero in tal modo vince, immagino, in accordo con il suo oggetto - che esso raggiunge tanto meglio quanto

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più è distrutto - ma conosce male se stesso. Dovrebbe nello stesso tempo illuminarsi completamente e dissol­ versi... Dovrebbe, in una stessa persona, costituirsi e di­ struggersi. Perfino gli argomenti che adduco non sono infine precisi. E anche colui che più è rigoroso è sottomesso al­ la casualità: in contropartita, l’esigenza inerente all’eser­ cizio dèi pensiero mi porta spesso lontano. Una delle grandi difficoltà incontrate dall’intelligenza è di ordinare il suo succedersi nel tempo. A un dato momento, il mio pensiero raggiunge un rigore soddisfacente. Ma come metterlo d’accordo con il mio pensiero di ieri? Ieri ero in un certo senso diverso, rispondevo ad altri pensieri. Adattare le due situazioni resta possibile, ma... Queste insufficienze non mi disturbano più delle molteplici miserie che fanno generalmente il comporta­ mento umano: l’umano è connesso in noi alla frustrazio­ ne subita e tuttavia mai accettata; ce ne allontaniamo soddisfatti o ce ne allontaniamo rinunciando a cercare la soddisfazione. Sartre ha ragione di ricordare nei miei ri­ guardi il mito di Sisifo, ma qui il mio discorso, penso, è quello dell’uomo totale. Ciò che si può aspettare da noi è l’arrivare il più lontano possibile, non il raggiungere qualcosa. Ciò che invece resta umanamente criticabile è un’impresa che ha senso unicamente se messa in rappor­ to col suo compiersi. Posso andare oltre? Non attenderò il coordinamento di tutti i miei sforzi: vado oltre. Corro il rischio: i lettori, liberi di non avventurarsi dietro a me, si servono spesso di questa libertà! I critici fanno bene ad avvertirli del pericolo. Ma io, a mia volta, attiro l’at­ tenzione su un pericolo più grande: quello dei metodi che, essendo adeguati soltanto al risultato della cono­ scenza, danno a coloro che essi limitano l’esistenza fram ­ mentaria, mutilata, relativa, rispetto a un tutto non ac­ cessibile. Riconosciuto questo fatto, difenderò le mie posizioni. Ho parlato di esperienza interiore: era l’enunciazione di un argomento; non intendevo, mettendo innanzi que­ sto titolo vago, attenermi ai dati interiori di questa espe­ rienza. Soltanto arbitrariamente possiamo ridurre la co-

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noscenza a ciò che traiamo da un’intuizione del sogget­ to. Potrebbe farlo soltanto un « essere nascente ». Ma proprio noi (che scriviamo) non sappiamo nulla dell’es­ sere nascente se non osservandolo dal di fuori (il bambi­ no è per noi soltanto un oggetto). L’esperienza della se­ parazione, a partire dal continuum vitale (la concezione e la nascita), il ritorno al continuum (nella prima emozione sessuale e nella prima risata) non lasciano in noi ricordi precisi: raggiungiamo il nucleo dell’essere che siamo sol­ tanto attraverso operazioni oggettive. Una fenomenolo­ gia dello spirito sviluppata presuppone la coincidenza tra soggettivo e oggettivo, e nello stesso tempo una fusione tra soggetto e oggetto.1Ciò vuol dire che una operazione isolata è accettabile soltanto per stanchezza (così avviene per la spiegazione che ho dato del ridere senza svilup­ parne l’intero movimento e lasciando sospesa la coniu­ gazione delle sue modalità: non esiste teoria del riso che non sia una filosofia completa, e così non c’è una filoso­ fia completa che non sia una teoria del riso...). Ma affer­ mando questi princìpi devo appunto nello stesso tempo rinunciare a seguirli: il pensiero si produce in me attra­ verso lampi non coordinati e si allontana incessantemen­ te dal termine al quale il suo movimento lo avvicinava. Non so se così enuncio l’impotenza umana - o la mia... Non so, ma ho poca speranza di arrivare, fosse anche al risultato che accontenta dal di fuori. Non c’è forse un vantaggio nel fare della filosofia ciò che faccio io: il lam­ po nella notte, il linguaggio di un breve istante?... Forse, a questo proposito, il momento ultimo contiene una ve­ rità semplice. Volendo la conoscenza, attraverso una scappatoia tendo a divenire il tutto dell’universo: ma, in questo mo­ vimento, non posso essere uomo totale; mi subordino ad uno scopo particolare: divenire il tutto. Probabilmente, se potessi diventarlo, sarei anche l’uomo totale, ma nel mio sforzo mi allontano da lui: e come diventare il tutto 1 È l’esigenza fondamentale della fenomenologia hegeliana. È evidente che, non potendo rispondere a questa esigenza, la fenomenologia moderna è per il pensiero umano in atto soltanto un momento tra altri: un castello di sabbia, un miraggio qualsiasi.

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senza essere l’uomo totale? Quest’uomo totale posso es­ serlo soltanto mollando la presa. Non posso esserlo per volontà: la mia volontà è necessariamente quella di arri­ vare (ad un risultato)! Ma se la sventura (o la chance) vuole che abbandoni la presa, saprò allora di essere l’uo­ mo totale non subordinato a nulla. In altre parole, il momento di rivolta inerente a una volontà di conoscenza che vada oltre i fini pratici non può essere prolungato indefinitamente: per essere il tutto dell’universo, l’uomo dovrebbe lasciar perdere il suo principio: non accettare nulla di quanto egli è, se non il tendere all’aldilà di quanto egli è. L’essere che sono è la rivolta dell’essere, è il desiderio indefinito (Dio era per lui soltanto una tappa): ed eccolo, accresciuto da una espe­ rienza smisurata, comicamente appollaiato su un palo.

V NULLA, TRASCENDENZA, IMMANENZA

Il mio metodo ha come conseguenza un disordine alla lunga intollerabile (particolarmente per me!). Vi porrò rimedio se è possibile... Ma intendo fin da ora precisare il senso delle parole. Il nulla è per me il limite di un essere. Al di là dei li­ miti definiti - nel tempo, nello spazio - un essere non esiste più. Questo non-essere è per noi carico di senso: so che è possibile annientarmi, ma la totalità dell’essere (intesa come una somma di esseri) esiste davvero? La trascendenza dell’essere è fondamentalmente que­ sto nulla. Se appare nell’aldilà che è il nulla, un oggetto ci trascende, in un certo senso, quale dato del nulla. Invece, nella misura in cui afferro in esso l’estensione dell’esistenza che dapprima si rivela in me, l’oggetto si fa per me immanente. D ’altra parte, un oggetto può essere attivo. Un essere (irreale o no, un uomo, un dio, uno stato) che minacci gli altri di morte denuncia in sé il carattere della trascen­ denza. La sua essenza mi è data nel nulla definito dai miei limiti. E persino la sua attività definisce questi limi­ ti. Esso è ciò che si esprime in termini di nulla; l’immagine che lo rende sensibile è quella della superiorità. Se debbo ridere di lui, debbo ridere del nulla. Ma in con­ tropartita rido di lui se rido del nulla. Il riso è dalla par­ te dell’immanenza per il fatto che il nulla è l’oggetto del riso, ma esso è anche una distruzione. La morale è trascendente nella misura in cui si richia­ ma al bene dell’essere edificato sul nulla del nostro esse­ re (l’umanità data come sacra, gli dèi o Dio, lo Stato). Una morale del culmine, se ciò fosse possibile, esige­ rebbe il contrario: che io ridessi del nulla. Ma senza vo­ lerlo in nome di una superiorità: se mi faccio ammazzare per il mio paese io mi muovo verso il culmine ma non lo

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raggiungo: servo infatti il bene del mio paese che è 1’« aldilà » del mio nulla. Una morale dell’immanenza esigerebbe, invece, che io morissi senza ragione, se pos­ sibile: ma in nome di che esigerlo? In nome di nulla; dunque devo ridere! Ecco che ne rido: e allora scompa­ re l’esigenza! Se si « dovesse » morir di ridere, questa morale sarebbe il moto d’un irrefrenabile riso.

VI SURREALISMO E TRASCENDENZA

Ho parlato di André Breton (vedi p. 79) e avrei volu­ to dir subito ciò che mi viene dal surrealismo. Se ho cita­ to una frase in luce negativa, andavo contro un interesse dominante. Chiunque si rifaccia piuttosto allo spirito che alla lette­ ra, vede nelle mie domande perpetuarsi un’interrogazione morale che il surrealismo ebbe a subire, e, nell’atmosfera in cui vivo, protrarsi l’intolleranza surrealista, se ben l’ha conosciuta. E possibile che Breton si svii nella ricerca del­ l’oggetto. La sua preoccupazione dell’esteriorità lo arresta alla trascendenza. Il suo metodo lo incatena al porre og­ getti cui appartiene il valore. La sua onestà esige che egli si annienti, che si voti al nulla degli oggetti e delle parole. Il nulla è anche orpello, tuttavia: trascina in un gioco di con­ correnza perché sussiste nella forma della superiorità. L’oggetto surrealista è per essenza in aggressione: ha il compito di annientare. E certo non si asserve: attacca per nulla, senza motivo. Tuttavia l’autore ne è preso ugual­ mente nel gioco della trascendenza, sebbene non si possa dubitare della sua volontà d’immanenza. Quel moto che il surrealismo espresse forse non è più « negli oggetti ». È, se si vuole, nei miei libri (devo dirlo io stesso: altrimenti, chi se ne accorgerebbe?). Dal porre oggetti trascendenti che si danno, per distruggere, una superiorità, deriva un passaggio all’immanenza e tutto un incantesimo di meditazioni. Distruzione più intima, sconvolgimento più estraniante, mettere se stessi infini­ tamente in questione. Mettere in questione se stessi e tutte le cose insieme.

POSTFAZIONE DI MAURICE BLANCHOT

Questo saggio di Maurice Blanchot è apparso sul numero dell’ottobre 1962 della « Nouvelle Revue Française » con il titolo L’expérience-limite.

Mi si conceda, pensando a Georges Bataille, di meditare su un’assenza, piuttosto che pretendere di esporre ciò che ognu­ no dovrà leggere nei suoi libri. E appunto questi libri non co­ stituiscono affatto una parte secondaria, la semplice traccia della sua presenza. Essi dicono l’essenziale e sono essenziali. Non soltanto per la bellezza, lo splendore, la forza letteraria che non ha confronti, ma per i rapporti con la ricerca di cui sono testimonianza. Ed è persino sorprendente che un pensie­ ro così svincolato dalla coerenza libresca abbia potuto affer­ marsi fino a tale punto senza tradirsi, in un’opera che conser­ va la possibilità di essere raggiunta attraverso la lettura; a pat­ to che lo si riafferri nell’insieme delle sue espressioni, e mante­ nendo al centro, accanto a L’expérience intérieure, a Le coupa­ ble ed a La part maudite, i libri che Bataille pubblicò sotto pseudonimo e la cui potenza di verità è incomparabile: penso anzitutto a Madame Edwarda di cui ho parlato altra volta chia­ mandolo non abbastanza efficacemente « il più bel racconto del nostro tempo ». Tale lettura dovrebbe far scomparire gli epiteti attraverso i quali si cerca di rendere interessante ciò che si legge. Senza dubbio, mettere insieme le parole misticismo, erotismo, atei­ smo attira l’attenzione. Parlare di uno scrittore d’oggi come di un uomo che entrò in estasi, fece opera di irreligione, lodò il vizio, sostituì il cristianesimo con ü nietzschismo e il nietzschismo con l’induismo, dopo aver vagabondato intorno al surrealismo (riassumo qualche resoconto « ben intenziona­ to ») significa presentare il pensiero come spettacolo e creare un personaggio fittizio senza preoccuparsi minimamente delle finezze della verità. Da dove viene questo bisogno di cercare il vero soltanto a livello dell’aneddoto e attraverso il falso del pittoresco? Certo, lo sappiamo, ognuno di noi è minacciato dal suo Golem, rozza immagine d’argilla, il nostro doppio di errore, il ridicolo fantasma che ci rende visibili e contro ü qua­ le, da vivi, ci è concesso di protestare attraverso la discrezione della nostra vita; ma ecco che, da morti, esso ci perpetua: co­ me impedirgli di rendere la nostra scomparsa, fosse anche la più silenziosa, quel momento in cui, condannati ad apparire, dobbiamo rispondere precipitosamente al pubblico interroga­

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torio confessando ciò che non fummo? E talvolta proprio gli amici più vicini, con la buona intenzione di parlare al nostro posto e per non abbandonarci troppo presto alla nostra assen­ za, contribuiscono a questo travestimento benevolo o malevo­ lo sotto cui per sempre saremo visti. No, non c’è via d’uscita per i morti, per chi muore dopo aver scritto, ed io non ho mai visto nella posterità più gloriosa se non un inferno pretenzioso in cui noi critici - tutti - facciamo la parte di diavoli piuttosto meschini. Ho riflettuto a lungo, vi rifletto ancora. Non vedo come potrei evocare in termini giusti un pensiero così estremo e così libero, sempre connesso all’esigenza di un movimento, con­ tento di ripeterla. Questo è vero in generale per ogni com­ mento. Il commentatore non è fedele quando riproduce fedel­ mente; quanto cita, le parole, le frasi, per il solo fatto che sono citate, cambiano senso e si cristallizzano oppure acquistano un valore troppo grande. Le espressioni assai forti che a Georges Bataille è permesso di usare gli appartengono e conservano, sotto la sua autorità, la loro misura; ma se ci capita di parlare, dopo lui, di disperazione, orrore, estasi e rapimento, non po­ tremo che sentire la nostra goffaggine, e ancor più la nostra falsità e mistificazione. Non intendo dire che usare un lin­ guaggio completamente diverso, privo di queste parole-guida, ci possa condurre più vicino alla verità, ma, almeno, la lettura resta intatta nel suo accordo innocente con un pensiero pro­ tetto. In questa prospettiva, penso che il lavoro del commentatore - lavoro che deve tendere alla massima modestia - si debba limitare a proporre un punto da dove si possa meglio capire ciò che si svilupperà soltanto dalla lettura. Del resto, questo punto può variare. Cerchiamo dunque dove situarci perché l’esperienza-limite - quella che Georges Bataille ha chiamato « esperienza interiore » e la cui affermazione attira la sua ri­ cerca verso il punto di massima gravità - non si ponga soltan­ to come un fenomeno strano, come peculiarità di uno spirito straordinario, ma conservi per noi il suo potere di interroga­ zione. Ricorderò brevemente di che cosa si tratta. L’esperienza-limite è la risposta che l’uomo incontra quando ha deciso di mettersi in questione radicalmente. Questa decisione che compromette l’intero essere esprime l’impossibilità di fermar­ si, a qualsiasi consolazione o a qualsiasi verità, agli interessi o ai risultati dell’azione, alle certezze della conoscenza e della fe­ de. Questo movimento di contestazione attraversa tutta la sto­ ria, ma ora si rinchiude in sistema, ora trapassa il reale e ter­

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mina in un aldilà del mondo in cui l’uomo si affida ad un ter­ mine assoluto (Dio, Essere, Bene, Eternità), ma in ogni caso rinnega se stesso. Tuttavia, vediamo che questa passione del pensiero negativo non si confonde con lo scetticismo e neppu­ re con le modalità del dubbio metodico. Non umilia l’uomo, non lo getta nell’impotenza, non lo giudica incapace di com­ piutezza. Anzi; a questo punto si badi: è possibile che nell’uo­ mo si realizzi in pieno l’esigenza di essere totalità. In fondo, l’uomo è già totalità! Lo è nel suo progetto, è tutta la verità fu­ tura di questa stessa interezza dell’universo la quale si regge soltanto attraverso di lui, lo è sotto l’aspetto del saggio il cui discorso comprende tutte le possibilità del discorso compiuto, lo è nella prospettiva di una società svincolata dalle sue schia­ vitù. Non si dovrebbe forse dire che fin da questo momento la storia in qualche modo finisce? Il che non significa che non succederà più niente, né che l’uomo, l’individuo, non dovrà sopportare tutte le sofferenze e tutte le ignoranze del futuro; ma l’uomo come universale domina già tutte le categorie del sapere, può tutto ed è in grado di rispondere a tutto (è vero, soltanto a « tutto » e non alle difficoltà particolari: e a ciò ri­ sponde anche inducendo il particolare a rinunciare a se stesso, perché non c’è posto per il particolare nella verità del tutto). Certamente, queste possono apparire asserzioni sbrigative, e noi potremmo sollevare dei dubbi su questa eventuale fine della storia. Dubbi, forse. Ma pensiamoci meglio: chi dubita allora in noi? Il piccolo io, debole, insufficiente, infelice, che non sa quasi nulla, rinchiuso nell’ostinazione del suo ego: per questo piccolo io, è evidente che esiste soltanto la sua propria fine, una fine di cui l’io tanto più si rammarica in quanto, nel suo egoismo, essa non ha come orizzonte la fine di tutti gli al­ tri; la piccola ragione di cui esso si accontenta o che lo spinge a rinunciare rapidamente ad una via d’uscita ragionevole e lo precipita nei compiaciuti tormenti dell’esistenza assurda, op­ pure lo prepara alla speranza di un’altra vita nella quale si ri­ conoscerà in Dio. Torno dunque all’argomento: per tutti, sot­ to l’una o l’altra forma, la storia è arrivata alla fine, quasi « allo scioglimento »; per l’uomo dalla grande ragione perché si con­ sidera totale e lavora senza tregua per rendere il mondo ragio­ nevole; per l’uomo dalla piccola ragione perché, in una storia piena di furia e senza fine, la fine è ad ogni istante come già avvenuta; per il credente, perché fin d’ora l’aldilà mette fine alla storia, gloriosamente e in eterno. Sì, a pensarci bene, vi­ viamo tutti più o meno nella prospettiva della storia finita, se­ duti sulla riva del fiume, morendo e rinascendo, contenti di

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una contentezza che è quella dell’universo, già divenuti Dio, dunque, mediante la beatitudine e il sapere. Ora, la passione del pensiero negativo ammette questa or­ gogliosa via d’uscita che promette all’uomo il compimento di se stesso. Non soltanto la ammette, ma vi contribuisce: l’azio­ ne che ci spinge a questo futuro non è in realtà altro che la « negatività » stessa attraverso la quale, negando la natura e negandosi come essere naturale, l’uomo in noi si rende libero assoggettandosi al lavoro e si produce producendo il mondo. Cosa mirabile, l’uomo arriva alla contentezza, decidendo di es­ sere senza tregua malcontento; si compie perché giunge all’e­ stremo di tutte le sue negazioni. Non si dovrebbe forse dire che raggiunge l’assoluto perché ha il potere di esercitare total­ mente, cioè di trasformare in azione, tutta la sua negatività? Di­ ciamolo. Ma, appena l’abbiamo detto, ci scontriamo con que­ sta affermazione come con l’impossibile che ci rigetta indietro, come se noi rischiassimo di cancellare il discorso pronuncian­ dolo. Qui appunto interviene la contestazione decisiva. No, l’uomo non esaurisce la sua negatività nell’azione; no, non tra­ sforma in potere tutto il nulla che è; forse può raggiungere l’assoluto rendendosi uguale al tutto e formandosi la coscienza del tutto, ma più estrema di questo assoluto è allora la passio­ ne del pensiero negativo, perché è ancora capace, di fronte a questa risposta, di introdurre la domanda che la sospende, e, di fronte al compimento del tutto, di conservare l’altra esigen­ za che, sotto forma di contestazione, rilancia l’infinito. Cerchiamo di « illuminare » meglio questo momento. Sup­ poniamo l’uomo soddisfatto nella sua essenza; uomo universa­ le, non ha più nulla da fare, è come privo di bisogni, è, anche se individualmente muore ancora, senza inizio; senza fine, in riposo nel divenire della sua totalità immobile. L’esperienzalimite è quella che attende quest’uomo finale, capace un’ulti­ ma volta di non fermarsi a questa autosufficienza che ha rag­ giunta; è il desiderio dell’uomo senza desideri, l’insoddisfazione di chi è soddisfatto « in tutto », il puro mancamento, là do­ ve tuttavia c’è compiutezza dell’essere e onnipotenza e saggez­ za totale. L’esperienza-limite è l’esperienza del vuoto che è al limite della pienezza, l’esperienza di quello che c’è al di fuori di tutto (quando il tutto esclude tutto quanto c’è all’esterno), di ciò che resta da raggiungere quando tutto è raggiunto, e da conoscere quando tutto è conosciuto: l’inaccessibile, l’ignoto stesso. Ma vediamo perché si può attribuire all’uomo ciò che chiameremo ancora (erroneamente) questa « possibilità ». Non si tratta di estorcere un estremo rifiuto partendo dal con­

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fuso malcontento che ci accompagna sino alla fine, non si trat­ ta neppure di quel potere di dire no attraverso il quale tutto nel mondo si fa, poiché ogni valore, ogni autorità sono rove­ sciati da un’altra, ogni volta più estesa. Quanto è implicato nel nostro discorso è ben altro, ed esattamente questo: è proprio dell’uomo, com’è, come sarà, un mancamento essenziale che gli dà diritto di mettere se stesso, e sempre, in questione. Qui ritroviamo la nostra osservazione precedente: l’uomo è l’essere che non esaurisce la sua negatività nell’azione, in modo che, quando tutto è compiuto, quando il « fare » (attraverso il qua­ le anche l’uomo si fa) è realizzato, quando dunque l’uomo non ha più nulla da fare, egli pur deve esistere (come dichiara Georges Bataille con la più semplice profondità) allo stato di « negatività senza uso »: e l’esperienza interiore è la maniera stessa con cui si afferma questa negazione radicale che non ha più nulla da negare. Tutto avviene, in verità, come se l’uomo disponesse di una capacità di morire che superi di molto, e in certo modo all’infinito, ciò che gli occorre per entrare nella morte, e di questo eccesso di morte avesse saputo farsi un po­ tere mirabile; grazie a questo potere, negando la natura, ha costruito il mondo, si è messo al lavoro, è diventato produtto­ re, autoproduttore. Però, cosa strana^ questo non gli basta: gli resta ad ogni istante come una parte di morte che non può in­ vestire nell’attività; il più delle volte non ne ha coscienza; ma se arriva ad avvertire questo eccesso di nulla, questo vuoto inutilizzabile, se si scopre connesso a questa tensione che, ogni qual volta muore un uomo, lo fa morire all’infinito, se si lascia afferrare dall’infinito della fine, allora è costretto a sod­ disfare a un’altra esigenza: non più di produrre ma di spende­ re, non più di riuscire ma di fallire, non più di agire e parlare utilmente, ma di parlare invano e disperdersi senza far nulla: il limite di questa esigenza è nella « esperienza interiore ». Ora siamo forse situati in una prospettiva più giusta per ri­ conoscere ciò che si gioca per noi in tale situazione, e perché Georges Bataille vi ha connesso l’idea di sovranità. Infatti, a prima vista, si avrebbe il diritto di non lasciarsi prendere dal carattere eccezionale di questi stati sorprendenti. Un uomo ha estasi. Anche se si tratta di un dono straordinario, in che cosa il fatto di aver raggiunto tali stati potrebbe annunciare alcun­ ché a quanti vi rimangono estranei e modificare, forse allarga­ re, lo spazio umano? Non subiamo forse l’attrazione che con­ serva la parola mistica? E quando ci parlano di rapimento estatico, il moto di interesse che ci sorprende non potrebbe forse venire dall’eredità religiosa di cui restiamo depositari? I

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mistici hanno sempre beneficiato di uno statuto speciale nelle Chiese e persino fuori di esse. Disturbano il « confort » dog­ matico, sono inquietanti, a volte strani, a volte quasi scandalo­ si; ma sono a parte, non soltanto perché restano i portatori di un’evidenza che va al di là di ogni visibile, ma perché parteci­ pano e cooperano all’atto ultimo: l’unificazione dell’essere, la fusione fra la « terra » e il « cielo ». Di questi tipi di prestigio dobbiamo dunque diffidare profondamente. E dobbiamo an­ che dire che il rifiuto, severo, instancabile, di tutto ciò che im­ plicano presupposti religiosi, rivelazioni e certezze spirituali, disposizioni mistiche, fa parte essenzialmente e in primo luo­ go della tensione che descriviamo. Per chi si è legato alla pas­ sione del pensiero negativo, con la più ferma decisione, è as­ solutamente il minimo cominciare col non fermarsi a Dio e tanto meno al silenzio o all’assenza di Dio e - cosa ancora più importante - non lasciarsi tentare dal riposo nell’Unità, sotto qualsiasi forma. Possiamo ancora rappresentare le cose in al­ tra maniera: nello schema di cui ci siamo serviti parlando in modo un po’ figurato della fine della storia, comprendiamo che quanto di senso ha espresso il nome più alto, è ripreso dall’attività umana e brucia di una fiamma chiara nel fuoco dell’Azione e nel fuoco del Discorso: al punto in cui arrivia­ mo, « alla fine dei tempi », l’uomo si è già in qualche modo unito al punto omega: il che significa che non c’è più Altro che l’uomo e non c’è più Al-di-Fuori al di fuori di lui, poiché, affermando il tutto attraverso la sua stessa esistenza, compren­ de tutto comprendendosi nel chiuso cerchio del sapere. Il problema messo in causa dall’esperienza-limite ora è dunque il seguente: come l’assoluto (sotto l’aspetto della totalità) può es­ sere ancora superato? Come può l’uomo, giunto al culmine at­ traverso l’azione, lui l’universale, lui l’eterno, sempre realizzantesi e sempre realizzato, che si ripete in un Discorso il qua­ le non fa che parlarsi senza fine, come può, dicevo, non atte­ nersi a questa autosufficienza e, in tal modo, mettersi in que­ stione? Effettivamente, non lo può. E tuttavia l’esperienza in­ teriore esige questo evento che non appartiene al possibile; es­ sa apre nell’essere compiuto un piccolissimo interstizio attra­ verso il quale tutto l’esistente si lascia all’improvviso sopraffa­ re e degradare da un sovrappiù che sfugge ed eccede. Strano sovrabbondare. Qual è questo eccesso, operante in modo che la compiutezza sia ancora e sempre incompiuta? Qual è l’ori­ gine di questo moto dell’eccedere la cui misura non è data dal potere che può tutto? Qual è questa « possibilità » che do­ vrebbe offrirsi dopo la realizzazione di tutte le possibilità co­

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me il momento capace di rovesciarle e di ritirarle silenziosa­ mente? Quando a tali domande Georges Bataille risponde parlando dell'impossibile - una delle ultime parole che ha reso pubbliche - bisogna intenderlo rigorosamente; bisogna inten­ dere che la possibilità non è la sola dimensione della nostra esistenza e che ci è forse concesso di vivere ogni nostra vicen­ da in un duplice rapporto: una volta come ciò che compren­ diamo, afferriamo, sopportiamo e dominiamo (anche con dif­ ficoltà e dolore), riferendolo a un qualche bene, a un valore, cioè in ultima analisi all’Unità; un’altra volta come ciò che si sottrae a qualsiasi uso e fine, e ancor più come ciò che sfugge allo stesso nostro potere di farne esperienza, ma alla cui espe­ rienza non possiamo sottrarci. Sì, è come se l’impossibilità, ciò su cui « non possiamo più potere », ci attendesse dietro tutto quello che viviamo, pensiamo e diciamo, solo che una volta ci siamo trovati al limite di questa attesa, senza mai venir meno a ciò che esigeva da noi questo sovrappiù, questo eccesso: ec­ cesso di vuoto, sovrabbondanza di negatività che è in noi il cuore infinito della passione del pensiero.1 Mi sembra che a questo punto cominciamo a distinguere l’importanza che chiamerò (senza derisione) intellettuale dell’esperienza-limite, e perché essa non deriva dalla sua estra­ neità, ma dalla tensione che porta ad essa e dalla quale non si separa, dato che le sue caratteristiche di estraneità non fanno che esprimere in un solo momento e fino all’esplosione l’infi­ nito del mettere in causa. Bisogna anzitutto ripetere questo: la « perdita di conoscenza » estatica è soltanto la contestazione che in essa viene afferrata proprio nel colmo della rottura e del lasciare la presa. Questa esperienza non è la via d’uscita. Non soddisfa, è senza valore, senza ' lezza e tale appena da liberare dal loro senso l’insieme possibilità umane e qualsiasi conoscenza, parola, silenzio e finalità, e persino quel potere di morte da cui traiamo le ultime verità. Ma, a questo punto, bisogna guardarsi dal concludere con leggerezza, im­ putando questa esperienza a qualche irrazionalismo o avvici­ nandola ad una filosofia assurda. Il non-sapere di cui si dice che comunichi l’estasi, non elimina affatto la validità del sape­ 1 Proprio questo problema pone, anche sotto altra forma, Georges Batail­ le, quando riferisce la tendenza umana al gioco del divieto e della trasgressio­ ne (il superamento del limite insuperabile). Il divieto segna il punto in cui ces­ sa il potere. La trasgressione non è un atto del quale, in date condizioni, la potenza di dati uomini potrebbe mostrarsi ancora capace. Essa designa ciò che è radicalmente fuori portata: raggiungere l’inaccessibile, valicare l’invalicabile. Si apre all’uomo quando in lui il potere cessa di essere la dimensione estrema.

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re, come il non-senso, incarnato momentaneamente nell’espe­ rienza, non svia dal moto agente attraverso il quale l’uomo in­ stancabilmente lavora a darsi un senso. Al contrario (insisto ancora) soltanto in rapporto al sapere compiuto, quello affer­ mato da Lenin quando annunciava che un giorno « tutto » sa­ rebbe stato capito, il non-sapere si pone come esigenza fondamentale a cui bisogna rispondere; e non si tratta del non­ sapere che è ancora e soltanto una maniera di capire (la cono­ scenza messa tra parentesi dalla conoscenza stessa), ma il mo­ do di esistere dell’uomo in quanto esistere è « impossibile ». Detto questo, resta da precisare qualche cosa di difficile, ma essenziale. Ricorderò il discorso precedente: « L’esperien­ za interiore è la maniera stessa con cui si afferma la negazione radicale che non ha più nulla da negare ». E ciò che abbiamo tentato di illuminare precisando che questa esperienza non si distingue dalla contestazione. Ma di che specie è allora l’affer­ mazione che va introdotta a questo punto; che senso possiamo pretendere essa affermi? Non afferma nulla, non rivela nulla, non comunica nulla, tanto che ci si potrebbe accontentare di dire che è il « nulla » comunicato, oppure l’incompiutezza del tutto afferrata in un sentimento di pienezza: ma, in questo ca­ so, rischiamo di sostanzializzare il « nulla », cioè di sostituire all’assoluto quale tutto il suo momento più astratto, il momen­ to in cui il nulla passa immediatamente nel tutto ed a sua volta si totalizza indebitamente. Oppure dovremmo vedervi un ulti­ mo capovolgimento dialettico, l’ultimo scalino - al di fuori della scala - a partire dal quale l’uomo, questa testa compiuta a misura dell’universo, rigetti tutto l’edificio nella notte e, sop­ primendo questa testa universale, riceva dalla negazione finde ancora una luce, un’affermazione supplementare, che potreb­ be aggiungere al tutto la verità del sacrificio del tutto? Malgra­ do il carattere di tale tensione, così smisurata che non si può pretendere di rifiutarla (non è ricusabile darle un senso così preciso da poterla ricusare), direi che l’esperienza-limite è an­ cor più estrema. In realtà questo atto di suprema negazione che abbiamo supposto e che la ricerca di Acéphale ha senz’altro per un cer­ to tempo rappresentato per Georges Bataille, appartiene sem­ pre al possibile. Il potere che può tutto può far questo, anche sopprimersi come potere (l’esplosione del nucleo stesso, una delle punte del nichilismo). Tale atto non ci farebbe dunque compiere il passo decisivo, quello che ci restituisce - e in cer­ to modo senza di noi - al presente immediato dell’impossibili­ tà lasciandoci appartenere a questo non-potere che non è sol­

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tanto la negazione del potere. L’esperienza-limite rappresenta per il pensiero quasi una origine. Essa gli conferisce il dono essenziale, la prodigalità dell’affermazione, un’affermazione che, per la prima volta, non è un prodotto (il risultato della duplice negazione): così, sfugge a tutti i movimenti, opposi­ zioni e capovolgimenti della ragione dialettica che, essendosi compiuta prima, non può più riservarle una parte nel suo re­ gno. Evento difficile da circoscrivere. L’esperienza interiore afferma, è pura affermazione, non fa che affermare; ed essa anche non si afferma, perché allora si subordinerebbe a se stessa: afferma l’affermazione. Appunto in questo Georges Ba­ taille può accettare di dire che essa ha in sé il momento del­ l’autorità pura, dopo aver svuotato di valore tutte le autorità possibili e dissolto persino l’idea di autorità. È il Sì decisivo. È la presenza priva di ogni presente. In questa affermazione che si è liberata da tutte le negazioni (e in conseguenza da tutti i sensi), che ha relegato e deposto il mondo dei valori, che non consiste neU’affermare —portare e reggere - quanto esiste, ma si mantiene al di sopra, al di fuori dall’essere e non dipende dunque dall’ontologia né dalla dialettica, l’uomo si vede asse­ gnare, tra essere e nulla, ed a partire dall’infinito di questo spazio intermedio accolto come rapporto, lo statuto della sua nuova sovranità, quella di un essere senz’essere nel divenire senza fine di una morte impossibile a morire. L’esperienzalimite è così l’esperienza stessa: il pensiero pensa ciò che non si lascia pensare! il pensiero pensa più di quanto gli sia possi­ bile pensare, in un’affermazione che afferma più di quanto sia possibile raffermare! Questo sovrappiù è l’esperienza che af­ ferma soltanto attraverso l’eccesso dell’affermazione e che, in questo eccesso, afferma senza che nulla si affermi, infine non affermando nulla. Affermazione in cui tutto sfugge e che sfug­ ge pur essa, sfugge all’unità. Ed è tutto ciò che si può enuncia­ re di essa: non unifica e non si lascia unificare. Per cui essa sembra agire piuttosto dalla parte del molteplice, e insieme con ciò che Georges Bataille chiama la « chance »; come se per farla agire, occorresse non soltanto cercar di affidare il pensiero al caso (dono già difficile), ma affidarsi al solo pen­ siero il quale, in un mondo in generale unificato e privato del caso, effettui ancora un colpo di dadi pensando nella sola ma­ niera affermativa, a livello della pura affermazione: quella del­ l’esperienza interiore. Un’affermazione di questo tipo non potrebbe sostenersi. Non si sostiene ed anche rischia sempre, rimettendosi al servi­ zio della potenza, di rivolgersi contro la sovranità dell’uomo

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rendendosi per lui strumento di dominio, giungendo persino a sembrare concedere all’Io che crede di averla raggiunta l’arro­ gante diritto di chiamarsi ormai il grande Affermatore. Questa pretesa dell’Io è la spia della sua impostura. Mai l’io è stato soggetto di questa esperienza: « io » non vi giunge mai, né l’individuo che sono, questo atomo di polvere, né l’io di tutti che si presume rappresenti la coscienza assoluta di sé, ma vi giunge soltanto l’ignoranza incarnata dall’« Io che-muoio » nel suo accedere allo spazio in cui, morendo, non muore mai co­ me Io, in prima persona, ma come presenza anonima e senza persona, la presenza infinita del morire, presente interminabi­ le affermato dall’affermazione. Occorre dunque indicare un’ultima volta l’aspetto più strano - più greve - di questa si­ tuazione. Ne parliamo come di un’esperienza che non è un evento vissuto, e meno ancora uno stato di noi stessi: tutt’al più Vesperienza-limite dove forse cadono tutti i limiti e che ci raggiunge soltanto al limite, quando, ogni futuro divenuto presente, attraverso la risoluzione del Sì decisivo, si afferma il dominio sul quale non è più possibile dominare. Esperienza della non-esperienza. Giro vizioso di ogni visibile e di ogni in­ visibile. Se l’uomo non appartenesse già in qualche modo a questo giro vizioso di cui si serve il più delle volte soltanto per sviarsene, come potrebbe inoltrarsi in questa strada che ben presto viene a mancare, in vista di ciò che sfugge ad ogni vista, avanzando a ritroso verso un punto sul quale sa soltanto di non poterlo raggiungere mai come persona, sul quale sa che nulla vi giungerà di lui e che, assente per sempre, egli non vi troverà neppure come risposta la notte, con i suoi privilegi notturni, la sua evanescente immensità, la sua calma vuota bellezza, ma l’altra notte, falsa, vana, perpetuamente agitantesi e rinchiusa nella sua indifferenza? Come potrebbe desiderar­ la? Come, desiderandola, di un desiderio senza speranza e senza conoscenza che fa di lui un uomo senza orizzonte, desi­ derio di ciò che non si può raggiungere e desiderio che rifiuta tutto ciò che potrebbe colmarlo, appagarlo, desiderio infine di quel mancamento infinito che è il desiderio, di quell’indiffe­ renza che è il desiderio, desiderio dell’impossibilità del desi­ derio, che porta l’impossibile, lo nasconde, lo rivela, desiderio che proprio in questo è l’attingimento dell’inaccessibile, è la sorpresa del punto che si raggiunge soltanto attraverso l’im­ possibilità di raggiungerlo, punto in cui la vicinanza del lonta­ no è data soltanto dalla lontananza: come potrebbe il pensie­ ro, da tale attingimento, supponendo che vi si sia affermato un istante, ritornare e riportarne, se non un nuovo sapere, al­

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meno, nella distanza del ricordo, ciò che occorrerebbe per mantenersi la protezione di questo? La risposta è inattesa. Non è forse quella che Georges Bataille avrebbe accettato di dare, e tuttavia proprio lui stesso, i suoi libri, l’autenticità del­ la sua opera, spesso il tono unico delle sue parole ci permetto­ no di proporla: ciò che nessun esistente può raggiungere in prima persona, nel primato del suo nome, ciò che l’esistenza stessa, nella seduzione della sua particolarità fortuita, nel gio­ co della sua universalità glissante, può contenere, ciò che in­ somma decisamente sfugge, lo accoglie la parola, e non soltan­ to lo trattiene, ma è proprio partendo da questa affermazione sempre estranea e sempre sottratta - l’impossibile e l’incomu­ nicabile - che essa parla, traendovi origine, allo stesso modo che proprio in questa parola il pensiero pensa più di quanto gli sia possibile pensare. E certamente non si tratta di una pa­ rola qualsiasi: questa non contribuisce al discorso, non ag­ giunge nulla a ciò che è già formulato, vorrebbe soltanto con­ durre a ciò che comincerebbe ad esprimersi se infine, essendo stato « tutto » esaurito, non ci fosse più nulla da dire: dicendo allora l’esigenza estrema. L’esperienza è questa esigenza, non esiste che come esigenza e tale da non proporsi mai come compiuta, poiché nessun ricordo potrebbe confermarci che essa è esistita, poiché essa supera ogni ricordo e soltanto l’oblio è forse alla sua altezza, l’immenso oblio recato dalla parola. A questa affermazione, la più trasparente, la più opaca (l’oscuro come trasparenza) di cui l’uomo non si ricorda, ma che resta in attesa nell’attenzione del linguaggio, toccò a Georges Bataille rispondere, mantenendo aperto il rapporto con essa e stimolandoci —in lontananza e nostro malgrado —a questo rapporto che fu la sua sola misura, misura di dolore estremo e di estrema gioia. Aggiungerò che, lungi dal preten­ dere di conservarla solo per sé, ebbe la preoccupazione co­ stante di non lasciare che si affermasse solitaria, benché essa sia anche l’affermazione della solitudine, ma di comunicarla. Un giorno, l’ha chiamata col nome più tenero: l’amicizia. Per­ ché tutta la sua opera esprime l’amicizia - l’amicizia per l’im­ possibile che è l’uomo - perché da essa riceviamo questo dono dell’amicizia come segno dell’esigenza che ci mette in rappor­ to sovranamente e all’infinito con noi stessi, vorrei dire di nuovo ciò che, quando l'Expérience intérieure fu pubblicato, io scrissi citando il giudizio stesso di Nietzsche su Zarathustra, e che vent’anni di pensiero, attenzione, riconoscenza ed amici­ zia mi hanno reso sempre più vero: « Quest’opera è compietamente a parte ».