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Zitiervorschau

Jean-François Revel Su Proust Lui per lo meno siamo sicuri che non si metterà tutt'a un tratto a fare dello yoga, "a piangere e a credere", a infatuarsi del buddismo zen, della relatività generalizzata, a aderire alla meccanica ondulatoria o al riarmo morale. Tiene in riserva l'isterismo per il campo in cui è al suo posto: quello della vita quotidiana e dei rapporti amorosi, ma lo bandisce dalla sua opera, in cui diventa il più sano degli uomini. La Recherche è, fino nelle sue rare debolezze, uno dei rari libri che offrono l'esempi«? di un pensiero totalmente adulto.

Jean-François Revel

Su Proust

Osservazioni su A la recherche

du temps perdu

La Nuova Italia Firenze

© 1960 by René Julliard, Paris, and 1969 by « La Nuova Italia » Editrice, Firenze Diritti riservati. Printed in Italy. Prima edizione: ottobre 1969 Titolo originale dell'opera: Sur Proust. Remarques sur A la recherche du temps perdu Traduzione di Sergio de La Pierre Copertina di Paolo Lecci

A André Fermigier

Prefazione all' edizione italiana

La parte essenziale di questo libro è stata redatta nel 1955, ed è stata terminata nel 1959. Ciò significa che a quell'epoca io non avevo la"benché minima intenzione di occuparmi delle dispute, allora embrionali, su quella che più tardi avrebbe dovuto chiamarsi la questione della nuova crìtica. Le poche indicazioni, del tutto cursorie, che io do nell'ultimo capitolo a proposito delle diverse e possibili concezioni della critica letteraria, non hanno nessuna pretesa di costituire neppure un abbozzo di costruzione teorica in tale materia. Tutt'al contrario, era piuttosto mia intenzione scrivere questo libro per riposarmi dalle teorie. Critica bergsoniana, critica marxista, critica esistenzialista, critica sociologica, mescolata o meno ad una certa dose di psicanalisi: di scuole crìtiche, negli anni cinquanta, che fossero all'apice del loro trionfo o che fossero boccheggianti, ce n'erano a sufficienza per ispirare -i nel lettore il desiderio travolgente di fuggire lontano dal loro opprimente dogmatismo per rifugiarsi nel contatto con i testi originali. Fare questa dichiarazione non significa neppure, d'altra parte, scrivere un proclama in favore della cosiddetta critica « impressionista ». Certo, io sono abbastanza smaliziato nel campo della filosofia per sapere che non si può mai sfuggire completamente alle determinanti ideologiche. Tutto quel che posso dire è che, avendo riletto Proust integralmente dopo una prima lettura fatta quindici anni prima, sono stato indotto nel 1955 ad annotare nel modo più diretto ed immediato possibile le osservazioni che scaturivano da tale rilettura. A volte il mio libro è stato attaccato in Francia nella misura in cui sembrava che io volessi trasformare Proust in un romanziere « realista » o addirittura « naturalista », il che andava in una direzione del tutto opposta a quella della tradi-

vii

Prefazione

all'edizione

italiana

zione metafisica dei critici proustiani in trancia. Questo è un ottimo esempio dell'incomprensione cui può arrivare una critica troppo scolastica, che applica ai testi delle categorie fossilizzate. Il malinteso proviene dal fatto che delle classificazioni sommarie contrappono il « realismo » e la « letteratura d'immaginazione ». Ora e sufficiente citare l'esempio di Saint-Simon, che è il più grande realista e nello stesso tempo uno dei più grandi visionari della letteratura francese, per capire come una simile contrapposizione disconosca radicalmente quanto siano infinitamente varie le strade della creazione letteraria. Sarebbe come dire che Montaigne è privo di inventiva per il semplice fatto che il suo intento è di limitarsi a parlare di ciò che egli crede vero. Una delle idee che io esprimo in questo libro è semplicemente quella secondo cut Proust parte sempre da qualcosa che egli ha vissuto e provato direttamente e che, quindi, non è uno scrittore fantasioso. Questa sensazione che io avevo intuito con la lettura è stata confermata, dopo la pubblicazione, nel 1960, del mio studio, dall'importante opera biografica di George D. Painter. A questo proposito mi permetto di riportare qui alcuni passi della recensione che io feci di questo libro per « L'Express » nel 1966, quando apparve il primo volume della traduzione francese: «L'interesse di questa biografia risiede nel fatto che essa costituisce una conferma dell' autobiografia di Marcel Proust, o, se si preferisce, una conferma del fatto che la Recherche è realmente un'autobiografia. L'arte di Proust consiste in qualcosa di diverso dall'invenzione di avvenimenti, di personaggi, dì storie, di sentimenti, di dialoghi, di paesaggi. Esiste ormai giorno per giorno la prova che egli non ne ha inventato nessuno, e che, anche quando amalgama insieme diversi caratteri, luoghi o situazioni, cosa che fa molto spesso (come dice egli stesso), i singoli elementi di tali amalgami sono reali. L'unico romanzo che Proust abbia mai inventato è il fatto di dire che il suo libro sia un romanzo. « Ma era necessario un lavoro della mole e della scrupolosità Vili

Prefazione

all' edizione

italiana

di quello di George D. Painter per dimostrare, e non soltanto suggerire, questa sovrapposizione così letterale e così sorprendente fra la vita vissuta ed il racconto. È proprio in rue La Pérouse che abitava Laure Heyman, e la sua casa aveva, come quella di Odette, una porta di uscita in rue Dumont-d'TJrville; e M.me Strauss, uscendo una sera per andare ad un ballo in costume, si era effettivamente messa per errore delle scarpe nere al posto delle scarpe rosse; e la battuta della stupida dama dì compagnia della principessa di Parma: « Non può più nevicare ... hanno gettato del sale » 1, è stata veramente pronunciata dalla dama di compagnia della principessa Matilde; e « Taquin le Superbe » è una battuta di Arthur Baignères, e l'episodio di Saint-Loup col mantello ha avuto luogo da Lasserre; e l'ossessione del principe di Guermantes per l'etichetta nobiliare deriva da quella di Aimery de La Rochefoucauld, il quale, rifiutandosi di invitare i Luynes, spiegava la cosa dicendo che « essi non avevano alcuna posizione sociale nell'anno mille ». « Certo, più i personaggi della Recherche sono importanti, e maggiore è il numero delle fonti che vengono utilizzate per la ^loro costruzione: Charlus è nello stesso tempo — o, meglio, in successione — Montesquiou e il barone Doasan; Rachel è insieme la signorina de Marsy e Louisa de Mornand; la duchessa di Guermantes è di volta in volta Madame de Chevigné, Madame Greffulhe e Madame Strauss; la nonna di Proust leggeva e citava spesso Madame de Sévigné, ma il racconto che egli fa nel libro della sua agonia corrisponde, nella realtà, alla morte di sua madre, con un vero dottor du Boulbon. « Il nucleo della creazione non e mai un qualcosa di vago. La sua base è sempre costituita da un dato preciso, che è troppo particolare, troppo individualizzato, troppo impreve1 Si tratta di M.me Varambon, dama d'onore della principessa di Parma. La citazione è tratta da: Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, 7 voli, a cura di Paolo Serini, prefazione di Glauco Natoli, traduzione di Natalia Ginzburg, Franco Calamandrei, Nicoletta Neri, Mario Bonfantini, Elena Giolitti, Paolo Serini, Franco Fortini, Giorgio Caproni; Torino, Einaudi Editore. La citazione sta nel voi. I l i , I Guermantes, p. 597. IX

Prefazione

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italiana

dibile perché possa essere inventato di sana pianta. « D'altronde, già in quel tentativo preistorico fatto dal giovane Proust di scrivere una biografia su Proust, prima del 1900, che è Jean Santeuil "a parte tre capitoli — scrive Painter — tutta la sesta parte trae ispirazione, con lievi variazioni, dalle vacanze passate da Proust a Beg-Meil nel settembre-ottobre del 1895, in compagnia di Reynaldo Hahn. Ma la conversazione telefonica con sua madre, nel capitolo II, è tratta dalla settimana passata a Vontainebleau, nell'ottobre 1896, in compagnia di Leon Daudet, ecc.". Anche nella Recherche accadrà spesso che l'avvenimento sia contemporaneo alla sua espressione letteraria, e che quindi non provenga affatto dalla "memoria involontaria".

[...]

« Ad ogni modo, la Recherche è, secondo la formula perfetta del Painter, una "autobiografia creatrice". E la dimostrazione che egli ne dà costituisce appunto un'eccellente occasione per sbarazzarci di quella concezione scolastica dell'immaginazione che ingombra l'attuale critica letteraria, e secondo la quale l'immaginazione non sarebbe mai altro che la negazione della realtà che noi percepiamo. « L'immaginazione proustiana non è un qualcosa che allontana dalla realtà, ma è un qualcosa che serve appunto per vederla. Non esiste antinomia, nel caso di Proust, fra "critica biografica" e interpretazione attraverso il "mondo interiore" dell'artista, dal momento che questo mondo interiore non è altro che un giro più lungo fatto per meglio percepire una verità che è inseparabile dalla bellezza. È attraverso Ruskin che Proust ha preso coscienza di questa funzione dell'immaginazione : "Il poeta è una sorta di scriba che compone sotto la dettatura della natura; dovere dello scrittore non è quello di immaginare (nel senso di 'inventare di sana pianta'), ma è quello di cogliere la realtà" — dice Ruskin. "E poiché questo dovere è infinitamente più importante della vita, il suo adempimento sarà quello che ci procurerà la salvezza" — prosegue Proust. x

Prefazione

all' edizione

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« Tuttavia, io non seguirò Painter quando costui, legittimamente irritato dalle interpretazioni convenzionali che vengono date dell'opera di Proust, scrive: "Ci si può chiedere che cosa conoscono della Recherche coloro i quali conoscono soltanto la Recherche Sottoscrivere questa frase equivarrebbe a dichiarare che Proust ha fallito come scrittore. Se è esatto dire che lo storico della letteratura non può esimersi, per capire la genesi della Recherche, dal conoscere la vita di colui che l'ha scritta, sarebbe contraddittorio affermare, a meno di non decretare il fallimento artistico di Proust, che il semplice lettore, per mezzo della sola Recherche, non è in grado di capire che cosa il narratore ha voluto dirgli ». L'opera di Painter ha avuto un'accoglienza piuttosto fredda da parte dei proustologhi di professione, e ciò per delle ragioni che hanno assai più a che fare con il conformismo agiografico che non con la sollecitudine per la verità storica e per la comprensione letteraria. Da parte mia, la mia ambizione, assai più modesta, è stata quella di liberare il lettore, e ad ogni buon conto di cominciare col liberare me stesso, da quell'agiografia asfissiante che contribuisce a creare un'atmo* sfera da confessionale ed a diffondere un odore di chiuso attorno ad una delle opere più aperte e più vive del XX secolo. Jean-François Revel

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1. Proust e la vita « Ai soggiorni qui fatti da Marcel Proust la letteratura francese deve All'ombra delle fanciulle in fiore, vera e propria sintesi della vita di spiaggia agli inizi del secolo. Albertine giocava al « diabolo » sulla diga, le sue nipotine si esercitavano dio « jokari ». I nomi, i giochi, la moda cambiano, ma le spiagge normanne faranno sempre la gioia della gioventù ». (Dalle Guides Michelin Régionaux, fascicolo Normandie, voce Cabourg) « La verità e la vita sono entrambe cose molto ardue, e, per quanto tutto sommato io non le conoscessi, mi restava dì esse un'impressione in cui la tristezza era ancor superata dalla stanchezza ». Marcel Proust, La

fuggitiva

A la recherche du temps perdu è uno dei libri più omogenei che esistano. È opera di uno scrittore che domina con tutta la sua maturità ciò che dice; che potrebbe parlare della stessa cosa molto più a lungo, o dirla in un altro modo; che non si « vanta » affatto, ma al quale tutto ciò che racconta — o il suo equivalente i — è veramente accaduto; che infine dà la spiegazione di una cosa non per il gusto della teoria, ma per il fatto che egli ha veramente creduto di comprendere quella cosa in quel dato modo e pensa di non aver molte possibilità di trovare in seguito una spiegazione migliore. Libro omogeneo, certo, e purtuttavia omogeneo soltanto fino ad un certo punto, poiché si ha l'impressione, a volte, che Proust incorpori al suo pensiero presente, dopo averle tradotte nella sua formulazione di uomo maturo — e conferendo quindi loro un peso ed un'autorità che forse non possedevano all'origine — delle idee concepite, elaborate, recitate nel suo foro interno in tutte le epoche della sua vita. L'opera adulta sembra essere come il precipitato finale di una lunga meditazione, più o meno volontaria, spesso interrotta, sottoposta a tutti gli umori di un uomo che è capace di insistere per delle ore sullo stesso punto, sulla stessa circostanza, sullo stesso ritratto, di dirseli, di comporseli, di scriverseli nella testa, senza avere alcun bisogno di fare degli sforzi per concentrarsi sul proprio soggetto: un uomo anzi, per così dire, ghermito dalla realtà. 1

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Proust

Tale predisposizione non rende affatto inspiegabili le difficoltà provate da Proust per mettersi a scrivere: difficoltà dovute, beninteso, non alla mancanza di materia, ma all'impossibilità di poter trovare agevolmente un ritmo comune al flusso dei pensieri e all'organizzazione della vita quotidiana. Il problema di Proust è quello di cominciare; non è il problema della singola pagina, ma dell'opera intera. Una volta iniziata l'opera, vi si immerge, le frasi si scrivono da sole, traboccano da ogni parte, emergono le une dalle altre, ed allora quel che diventa difficile è piuttosto riuscire ad interrompersi. Procedendo innanzi, l'opera brulica di nuove scene, di tratteggi, arguzie, massime, di conclusioni generali che non concludono nulla ma che preannunciano soltanto nuovi sviluppi. Come Montaigne, Proust non pensa se non quando può farlo senza sforzo, fino alla sazietà, e diventa, suo malgrado, come ossessionato dalle proprie idee. È certo in quel modo che egli ha sempre pensato, a lungo, e sovente: così si spiega il prodigioso interesse che egli giunge a dimostrare per le riunioni più noiose. Ma egli non coglie la noia di tali riunioni: lui stesso si stupisce nel constatare, leggendo la àesctìzione-pastiche del salotto Verdurin fatta dai Goncourt, nel Tempo ritrovato 1, di no'n aver mai saputo, in realtà, cogliere nulla di tutto ciò che. era convinto di aver visto, si stupisce nel constatare che tutto ciò che colpisce gli altri gli è sfuggito. Da che cosa dipende questo fatto? Goncourt si occupa delle opinioni e delle teorie della signora Verdurin, Proust del suo modo di ridere. Goncourt ammira il vasellame dei Verdurin, Proust il modo in cui i Verdurin parlano di quel mirabile vasellame. E ponendosi così a quel livello in cui traspare tutto il sistema nervoso degli avvenimenti •— così come, guardando un quadro alla luce radente, l'occhio ne scopre la fattura accidentata, i colpi di pennello e le parti ridipinte, mentre guardandolo di fronte ne vede soltanto il primo strato fatto di illusione, cui ne verrà aggiunto un secondo ad opera della critica d'arte — Proust fa vedere in proiezione 1 Alla ricerca del tempo perduto, edizione integrale della Rechercbe a cura di Paolo Serini, prefazione di Glauco Natoli, Torino, Nuova Universale Einaudi, 1963, voi. VII, p. 23-32. (Il passo corrispondente francese sta in: A la rechercbe du temps perdu, Paris, Bibliothèque de la Plèiade, voi. I l i , pp. 709-717). A tale edizione faremo riferimento sempre, indicando il volume e le pagine, mentre saranno indicati tra parentesi il volume e le pagine corrispondenti dell'edizione francese. [ N . i . T . ] .

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simultanea le manifestazioni degli uomini, le spiegazioni che essi ne danno, le loro intenzioni coscienti ma non confessate, i moventi e gli impulsi, ad essi sconosciuti, da cui traggono origine le loro manifestazioni, ed infine (ciò che è forse la cosa più preziosa) i momenti in cui tali manifestazioni si mettono per così dire a vivere di vita propria, diventando indipendenti dagli uomini e distaccandosene per danzare un balletto fatto di gesti e di intonazioni, tutto ciò di cui è fatto, insomma, quello spettacolo che ogni essere umano, a propria insaputa, dà di se stesso: così Legrandin, a forza di frequentare certi postacci e di provar paura che qualcuno lo vedesse entrare o lo vedesse uscire, ha contratto l'abitudine, anche quando si trattava di entrare in un salotto, di passare nelle porte come un bolide, quasi con un balzo, come uno che voglia eclissarsi, sottrarsi alla vista il duca di Guermantes tiene ostinatamente nella propria la mano del padre del narratore « per dimostrargli... che non gli misurava il contatto della sua carne preziosa » 2, gesto in cui egli crede di mettere tutta una grandezza d'animo e che evidentemente dà fastidio al beneficiario; e Proust stesso, anche prima di aver riflettuto, acconsente meccanicamente al rimprovero di « dilettantismo » che gli viene mosso dal signor di Charlus. Di quel dilettantismo che è l'errore in cui ù l barone vede la causa principale della guerra del 1914. (« Stupito del rimprovero, mancandomi la prontezza di spirito per replicare, e deferente verso il mio interlocutore e intenerito dalla sua amichevole bontà, io risposi come se davvero, così com'egli m'invitava a fare, dovessi a mia volta battermi il petto: cosa molto stupida da parte mia, giacché non avevo un'ombra di dilettantismo da rimproverarmi » 3 . Se si guarda direttamente attraverso la pellicola del film della Recherche senza proiettarlo, o se lo si fa passare al rallentatore nell'eccellente moviola costituita dall'indice dell'edizione della Plèiade, si rimane colpiti dal numero di brevi sequenze autosufficienti da cui esso è composto. Sequenze ora visive: « Bloch era entrato saltellando come una iena » 4 , ora auditive, che impongono cioè un'intonazione all'orecchio del lettore: « Si diceva: — Di1 2 3 4

VI, III, VII, VII,

267 (III, 665). 32 (II, 33). 136 (III, 808). 311 (III, 966).

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menticate che il tale è morto, — così come si sarebbe detto "è stato decorato", "è dell'Académie" » 1 . Audiovisiva, o puramente visiva, l'instantanea acquista d'un colpo la vivacità dello scorcio, il potenziale narrativo che si trova come incastonato nell'immobilità stessa dell'immagine, quale si può vedere in una stampa del Goya, di Daumier o semplicemente di Gavarni o, più piacevolmente, di Constantin Guys: o che si tratti della scena d'amore sadica, a Montjouvain, tra la signorina Vinteuil e la sua amica, scena vista per intero attraverso l'incorniciatura di una finestra illuminata, di notte, o che si tratti dell'aspetto insieme burlesco e orrendo del signor di Norpois, dell'entrata del signor di Charlus in casa della signora Verdurin, alla Raspelière2, o ancora dell'atteggiamento del signor Bloch padre: « Pur non arrivando ad avere una carrozza, il signor Bloch noleggiava in certi giorni una vittoria scoperta a due cavalli della Compagnia, e attraversava il Bois de Boulogne, mollemente steso di traverso, due dita alla tempia, altre due sotto il mento; e, se le persone che non lo conoscevano lo prendevano per questo per un "arcifanfano", nella famiglia erano convinti che, quanto a chic, lo zio Salomon avrebbe potuto dar dei punti a Gramont-Calderousse ». Ritratto, questo, cui la seconda parte della frase serve da didascalia3. O che si tratti infine, ancora nel Bois de Boulogne, della silhouette vestita di colori chiari della signora Swann quando appare nel viale delle Acacie. Proust vuole vedere i fenomeni quali essi sono, crede profondamente che essi siano quali egli li vede, si potrebbe quasi dire quali egli li riceve-, la sua disattenzione, in un pranzo, nei confronti di quegli avvenimenti per lui superficiali che invece avvincono Goncourt, è la condizione di un atteggiamento di ricettività verso quei fatti che, ai suoi occhi, sono i soli ad essere importanti, e la cui percezione gli dà la certezza di entrare in contatto con la realtà così com'essa è in se stessa. La certezza di penetrare nel corpo delle cose rendendosi disponibile, collocando lo sguardo in modo tale da renderlo accessibile alle immagini che gli vengono inviate dalla materia intima del reale, con la sua verità, con le sue leggi — tale certezza può esser messa bene in eviden1 VII, 323 (III, 977). 2 IV, 330-332 (II, 907-908). 3 II, 375 (I, 772).

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e la vita

za mediante il seguente paragone tra diversi strumenti ottici: « Ben presto potei mostrare qualche primo abbozzo. Nessuno ci capì nulla. Anche coloro che erano stati favorevoli alla mia percezione delle verità che avrei voluto poi scolpire nel tempio si rallegrarono con me per averle scoperte "col microscopio", mentre mi ero servito invece d'un telescopio per scorgere cose piccolissime, sì, ma perché situate a grande distanza e ciascuna delle quali costituiva un mondo. Là dove io cercavo leggi universali, mi chiamavano rovistatore di particolari » Non soltanto l'autore della Recherche è come assalito dalla presenza delle cose e delle scene, ma si sente, e d'altronde egli dice che ciò accade da sempre, che non può impedire a se stesso di descriverle attentamente con delle parole. Capita frequentemente, infatti, di sentire la presenza, nella Recherche, di « brani preparati » — non ho nessuna intenzione, beninteso, di dare un significato peggiorativo a questa espressione, dato che si tratta, evidentemente, di una preparazione in profondità: Proust è capace di rifare uno stesso racconto in cento modi diversi, tenendo costante la stessa convinzione e lo stesso estro, e d'altronde lo fa spesso. L'intimo contatto con la cosa da dire genera il bisogno, ed il talento, di raccontarla diverse volte senza tuttavia ripetersi. Questa realtà Proust l'ha contemplata da lungo tempo, ha pensato senza dubbio centinaia di volte a una stessa conversazione, ad uno stesso individuo, ad uno stesso episodio, li ha imbevuti, nella propria testa, delle proprie parole, delle proprie frasi, esprimendoli già, trovando una, dieci espressioni; componendo, ordinando, classificando le proprie formule, quindi dimenticandole, senza però voler perdere la possibilità permanente di rimontare alla loro fonte. Questa è, probabilmente, una delle componenti del suo rammarico per non poter scrivere nel corso di lunghi anni di ozio, rammarico che sembra provenire dal semplice timore di morire senza aver preso nota, all'epoca stessa in cui accadono gli avvenimenti che egli racconta: preso nota non di quegli stessi avvenimenti (che non mancano mai!), ma delle proprie parole, ed altresì delle idee e delle riflessioni morali che tali avvenimenti gli suggeriscono. Senza questa pre-scrittura mentale, non si potrebbe capire la caratteristica di fotografie meravi-

1 VII, 394 (III, 1042).

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gliosamente a fuoco di certi paragrafi proustiani: il modo in cui Charlus si immerge, senza averne l'aria, nella contemplazione dei due figli della signora di Surgis-le-Duc mentre giocano a carte 1, oppure il modo in cui Swann, moribondo, viene assalito un'ultima volta dal desiderio, chinandosi sul corpetto di questa stessa signora di Surgis (e Proust coglie in Swann quello sguardo, della durata di un secondo, in cui l'amore per le donne, che ha dominato la sua vita, viene a scontrarsi nei suoi occhi con l'idea della morte imminente2; o ancora il ritratto, da personaggio di Molière, del prof. Dieulafoy, la cui specialità consiste nel venire a constatare l'agonia o la morte 3. A tutti questi ritratti-bozza, e a tanti altri archetipi, Proust ha dovuto pensare spesso, prima di scriverli, non tanto per averli già bell'e fatti sottomano, quanto per tenerli pronti ad essere fatti, per dimostrare che egli poteva, pensando ad essi per abbozzarne delle formulazioni, mettersi a scriverli in qualsiasi momento. Donde il doppio carattere, il doppio sapore della sua opera, nella quale giungono a maturazione i frutti di una lenta preparazione, e dove tuttavia si respira la distesa spigliatezza di una libera spontaneità. Proust improvvisa le sue fantasie, non è esattamente né un reporter (è ben «noto il suo disdegno per 1'« osservazione », che va a mettere il naso in modo miope sulle cose e le « annota », poiché non sa vederle) né un immaginativo, poiché egli si interessa soltanto a ciò che è veramente accaduto. Il fatto che, per lui, il ricordo sia, assai più di un'attenzione forzata rivolta al presente, favorevole ad una visione ed a un'intensa presa di coscienza dell'avvenimento, non significa affatto che ciò che lo interessa sia qualcosa di diverso dall'avvenimento stesso, dall'avvenimento vissuto, e da nient'altro. Il ricordo, per Proust, non è mai l'illusione, l'abbellimento mistico e la fuga dei romantici lungi da questa vita ingrata. Anzi, al contrario, è proprio il presente ad essere illusorio, sfocato, per delle ragioni d'altronde molto concrete: distrazioni, conversazioni, fatiche, e soprattutto condiscendenza la quale, per i bisogni dell'euforia del momento, ingigantisce ai nostri occhi le qualità dei nostri interlocutori. La purificazione let-

1 IV, 100 (II, 689). 2 IV, 120 (II, 707). 3 III, 374-375 (II, 342-343).

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teraria della scena può essere fatta dunque attraverso il ricordo, poiché il ricordo è in realtà il presente, ma un presente sgomberato da tutte le correnti d'aria, dalla vanità di abbagliare, dall'angoscia amorosa. Una nebbia si dilegua, l'oggetto appare, un'immagine si coagula, scena determinata, o, più spesso, insieme di gesti e di intonazioni che possono esser prestati eventualmente a più personaggi diversi, e che giocano il ruolo di quei piccoli dittici portatili, nella pittura degli Antichi Paesi Bassi, che i viaggiatori aprivano in ogni loro residenza passeggera. La Recherche è percorsa ovunque da simili quadretti. Così il passaggio che racconta dell'assottigliamento di Legrandin nella vecchiaia, contrapposto all'ispessimento di Charlus, « effetti contrari dello stesso vizio », lo si ritrova parola per parola applicato a Saint-Loup, allo stesso modo del passaggio che parla dell'abitudine di entrare nelle porte come un bolide, abitudine contratta a forza di superare ex abrupto la soglia delle case equivoche 1. Il fatto che Proust non abbia avuto il tempo di rivedere II tempo ritrovato per eliminare tali ripetizioni ci permette di constatare come quei comportamenti e quei profili egli li avesse già per così dire scritti in testa, e quindi venissero usati due volte, quasi che,, in certo qual modo, il dispositivo di scatto abbia funzionato due yolte per errore. Succede ancora la stessa cosa per la descrizione di Gilberte, quando essa appare a tavola « tutta dipinta », la sera in cui il marito viene a cena, per tentare di sedurlo di nuovo: la stessa scena viene riapplicata alla lettera alla principessa di Guermantes, nel momento in cui questa desidera sedurre Charlus (!); e ciò accade nel mirabile brano inedito fortunatamente pubblicato alla fine del volume II dell'edizione della Plèiade2. Per verificare l'esistenza di quei nuclei di partenza, di quelle scene divenute « classiche » nella mimica interiore di Proust persino già prima che egli si mettesse all'opera, non vi è nulla di più parlante, nulla di più dimostrativo dei sottotitoli che egli aveva dato alle diverse parti della Recherche. Per esempio, all'inizio della seconda parte dei Guermantes, si legge: « Malattia della 1 VII, 11-12 (III, 698-699). 2 VII, 15-16 (II, 1185). In quest'ultima «variante», non pubblicata nell'edizione italiana Einaudi di Sodoma e Gomorra, e che si riferisce all'episodio dell'amore segreto della principessa di Guermantes per il signor di Charlus (IV, 129 ed. it.), si parla della principessa « tutta dipinta » in termini molto simili a quelli usati per Gilberte. [N.d.T.].

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nonna. Malattia di Bergotte. Il duca e il medico. Declino delli nonna. Sua morte » Ora, se si paragona il programma alla rea lizzazione, si vede come questi piani originari non dicano una soli parola di certi passaggi che, nel testo finale, saranno a volte i piì lunghi ed i più importanti (così, nel volume citato, la serata al l'Opera, il soggiorno a Doncières, la matinée presso la signora d Villeparisis). Inversamente, alcune scene annunciate non vengone trattate del tutto, o lo sono appena, pur emergendo altrove (« ma lattia di Bergotte »), oppure si riducono ad un semplice particola re in un insieme molto più vasto (« il duca e il medico »), oppure vengono raccontate da un altro punto di vista (« lo spirito de Guermantes davanti alla principessa di Parma » 2 diviene infatt: qualcosa come « perdo le mie illusioni sui Guermantes e giudico i mondo »), o, ancora, appaiono in un ordine diverso da quelle preannunciato. Vi è, talvolta, una sfasatura dei quadri previsti (< visti) in rapporto agli sviluppi ed alle crescite cui va poi a sfocia re il racconto integrale, e, talaltra, al contrario, vi è l'inquadra mento esatto di uno di questi quadri nelle dimensioni annunciati nella sequenza generale: nella « mia strana visita al signor di Chat lus » 3 traspare la scena da lungo tempo preparata e messa a pun to, per la cui brillante riuscita ogni effetto è stato dosato, ogn: trovata è stata assaporata e ripetuta, per cui sono stati misurati epurati e limati fin nei minimi particolari e con un compiaciute divertimento sia la comica progressione che i momenti inenarrabili E quante volte Proust non dice: « nel momento in cui ciò acca deva, mi misi a pensare che, feci questa riflessione », non appena giunge alla constatazione finalmente irrevocabile o all'esplicazione finalmente evidente di un fenomeno che lo ha sempre interessato! Egli ci riporta non quello che l'autore pensa adesso mentre scrive il libro, ma ciò che la persona del narratore pensava un tempo e veniva precisandosi in lui stesso. Anche se li sua opinione non è cambiata, quel che importa è che tale opi nione sì sia manifestata al tempo dell'avvenimento vissuto. Le ri flessioni, anche quelle più generali, fanno parte del racconto, sono legate alla situazione che viene narrata, e all'uomo stesse che, allora, diviene attore in tale situazione. Questo è ciò che trop1 III, 343 [N.J.T.]. 2 III, 379 [N.J.T.]. 3 III, 603-618 (II, 552-565).

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"Proust e la vita

po spesso si perde di vista quando si cerca di isolare un Proust teorico. Le idee di Proust sono inseparabili dalle « cose viste », da quei pannelli mobili che costituiscono le cellule primarie della Recherche, e che ci mostrano come questa ricerca del tempo perduto è cominciata nel presente. Che l'ordine secondo cui questi pannelli mobili verranno alla fine esposti non sia, in sé, essenziale, che non vi sia, a dir il vero, un filo nella narrazione-?proustiana, sono fatti di cui ci si può rendere conto, più ancora che vedendo gli indici definitivi del tipo di quello ricopiato più sopra, alla lettura del « Pour paraître en 1914 » che si trova stampato sul risguardo dell'edizione originale del Du côté de chez Swann: « Saranno pubblicati nel 1914: Alla ricerca del tempo perduto. I Guermantes. Dalla signora Swann. Nomi di paesi: il paese. Primi .schizzi del barone di Charlus e di R. di Saint-Loup. Nomi di persone: la duchessa di Guermantes. Il salotto della signora di Villeparisis. Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato. All'ombra delle fanciulle in fiore. La principessa di Guermantes. Il signor di Charlus ed i Verdurin. Morte della nonna. Le intermittenze del cuore. Le « virtù e i vizi » di Padova e di Combray. La signora di Cambremer. Il matrimonio di R. di Saint-Loup. L'adorazione perpetua ». Esiste un quadro di Max Ernst che, visto di lontano, ha l'aspetto di una carta d'Europa, ma che, quando ci si avvicina, rivela di non esser composto da alcuna forma facente realmente parte dell'Europa, e tuttavia non arriva ad esser nient'altro che una carta d'Europa: si tratta dell'Europa dopo la pioggia: e, come spesso accade con Ernst, la lettura del titolo porta al senso di disagio provocato dall'opera. Non sembra forse di aver a che fare, qui, con una sorta di « Ri9

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cerca del tempo perduto dopo la pioggia », per quanto in realtà si tratti, al contrario, di una specie di era terziaria nella geologia proustiana? Come accade che, contemplando lo stato del nostro continente durante un antico periodo geologico, noi vediamo degli oceani là dove oggi si innalzano dei massicci montagnosi e viceversa, così si può constatare come, dei progetti di Proust, tutto sopravviverà sotto una forma o sotto un'altra, ma non si troverà più nello stesso punto, non sarà più nello stesso rapporto con il resto, non avrà più lo stesso rilievo: ciò che doveva pesare una tonnellata sarà alla fine ridotto a dieci grammi e sostituito con elementi non previsti nel programma, per quanto destinati ad arredare assai largamente l'orizzonte. Le Fanciulle in fiore poste dopo i Guermantes e divenute un semplice episodio del Tempo ritrovato, la signora di C ambremer messa su Ilo stesso piano d'importanza di Charlus e di Saint-Loup, le « virtù ed i vizi » di Padova e di Combray — cioè, suppongo, la visita all'Arena ed il raffronto con il ricordo delle riproduzioni offerte da Swann1 — annunciate come un capitolo e che occuperanno solo poche righe della Fuggitiva-, infine l'assenza totale di Albertine: tutta questa configurazione del Tempo perduto così diversa, a questo stadio della sua evoluzione, dalle forme e dalle proporzioni che verrà assumendo l'organismo adulto, permette di valutare o di sospettare perlomeno il valore reciproco dei ruoli, assunti da Proust scrittore, rispettivamente dell'improvvisatore che crea in abbondanza e dell'ossesso che riproduce alcune scene che è impossibile modificare. Il fatto di scrivere nasce in Proust dal bisogno di esprimere certe cose ben determinate, di raccontare quella certa storia e nessun'altra. Il suo talento non è una predisposizione indifferenziata che vada ad individualizzarsi in un particolare soggetto o in una categoria di soggetti. Egli è per così dire sospinto dai suoi soggetti, non li sceglie, in ciò simile a quei viaggiatori di una volta che sono diventati scrittori soltanto per il fatto che sono stati i soli testimoni di certi fatti straordinari in Oceania e nell'Antartide. È per questo che il lavoro di Proust è in apparenza così negligente, è per questo che egli preferisce andare avanti piuttosto che correggere, aggiungere all'infinito, riscrivere senza rimaneggiare, 1 II, 247-248.

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sovraccaricare, dimenticare, ripetere, turbare la composizione. E ciò non proviene dal fatto che egli improvvisi, ma al contrario proprio dal fatto che non improvvisa, che viene per così dire trasportato dalla materia. Chi effettivamente improvvisa, cioè chi trova le proprie idee nello stesso istante in cui le scrive, ha troppa paura di perdere il filo per potersi permettere un tale disordine esteriore, poiché, quando si inventa lì per lì, non si può esser sicuri, come invece lo è Proust, di veder risorgere in ogni modo, da una parte o dall'altra dell'opera, ciò che si è dimenticato di annotare, di sviluppare, di mettere al suo posto. Proust teme, certo, di non avere la possibilità di mettersi all'opera, ma, una volta cominciato, una volta riunite le n + 1 condizioni esterne, psicologiche o fisiche, senza le quali non può lavorare, sa che i suoi temi non possono volatizzarsi, e che soltanto la malattia o la morte potrebbero impedirgli di portare a compimento la sua opera. Una volta risolto il suo problema — che non consiste nel fatto di essere a corto di idee, ma nel potersi mettere materialmente a scrivere — , egli sa di dover giungere a parlare, qualunque cosa accada, di quel dato fatto, di quella data concezione, di quella data metafora. In lui la composizione, che è distinta il meno possibile dalla sostanza stessa dei fatti raccontati, fa parte del seme dell'opera, ^ è per così dire ineluttabile. Si è molto parlato della sottigliezza della composizione proustiana, la si è paragonata molto spesso ora alla musica seriale, ora alla relatività generalizzata, ora alla meccanica ondulatoria e alla teoria dei quanti: la lista di tali equivalenti scientifici trova dei limiti soltanto nella scarsità delle informazioni che vengono fornite dai manuali di logica del corso di filosofia. Osservare quanto la composizione della Recherche sia rilassata, poco calcolata e poco ritmata significherebbe dunque assumere l'aspetto di chi coltiva insieme la banalità ed il paradosso. Evidentemente Proust non compone affatto, non « mette insieme », nel senso architettonico del termine, elementi ben definiti in vista di questa stessa costruzione. Del resto soltanto i cattivi scrittori fanno una cosa simile. Per di più mi sembra chiaro, attraverso la sola lettura della Recherche, che questo libro, procedendo innanzi, più che comporsi, va decomponendosi, va arricchendosi mediante rigonfiamenti, traboccamenti e ipertrofie locali, come succede per gli Essais di Montaigne. Le idee-quadro, già fissate preliminarmente, vengono at11

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tinte rapidamente in mezzo ad un'enorme massa che, anzi, costituisce proprio la parte che è venuta come un soprappiù. La realizzazione di Proust ha superato di gran lunga il suo progetto, come lo dimostra ciò che avrebbe dovuto seguire Swann, secondo il piano da lui stesso preannunciato. Da un lato persiste, pur attenuandosi, l'improvvisazione dell'autore da lui stesso programmata, e che consiste nel voler stendere sulla carta alcuni ricordi assillanti: ma poi, avendo l'oscura coscienza che tali ricordi risorgeranno sempre — come la psicanalista sa che risorgerà inevitabilmente l'argomento di cui il paziente ha perso il filo — si allontana ad ogni istante da questa linea principale, si lascia andare liberamente nelle digressioni più lunghe, ed è questo ritorno perpetuo, per quanto sempre più spaziato, quello che conferisce alla Recherche le sue melodie e i suoi contrappunti, quello che può far parlare di composizione « sapiente » (come si dice per La strada di Swann, che si apre con un tramonto e si chiude con un'alba). Dall'altra parte, e sempre più generosa a misura che il libro diventa ciò che esso è, si dispiega un'altra improvvisazione, al servizio di un pensiero che si basa sulla constatazione, scritta nel presente: è l'improvvisazione di quelle disgressioni che avviluppano e sommergono* le immagini primitive, finendo col farcele perdere di vista, sia a noi che allo stesso autore. Come in Montaigne, l'accessorio diventa la parte più voluminosa, forse la più significativa e, dal punto di vista letterario, la parte migliore. Per quanto Proust resti della convinzione che è nei suoi argomenti antichi che dà il meglio di se stesso, sono al contrario le sue digressioni quelle che l'hanno senza dubbio salvato dalle sue ossessioni. Non ho avuto affatto la pretesa, nelle pagine che precedono, di trattare della genesi storica dell'opera di Proust. Le sensazioni che vi esprimo si basano sulla sola lettura dei testi letterari di Proust, ed anzi sull'attenta lettura della sola Recherche, poiché rimane vero, nonostante l'interesse che presentano gli inediti pubblicati da dieci anni a questa parte, che « Proust è l'uomo di un solo libro » come dice Bernard de Fallois: conferma, questa, del fatto che il genio di Proust è legato ad una materia unica, che 1 Prefazione al Contre Sainte-Beuve, Paris, Gallimard, 1954.

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esso non è una maniera. Io non affronto la questione dei rapporti fra il libro di Proust e la sua biografia, di cui io so soltanto ciò che nessuno può evitare di sapere. Mi scusino gli studiosi di Proust se io scrivo indifferentemente « Proust » e « il narratore ». Per quanto non vi sia nella Recherche, a detta dello stesso Proust, nessun personaggio o avvenimento reale che sia stato in essa incorporato in modo letterale ed integrale, mi sembra altrettanto indiscutibile il fatto che nulla, assolutamente nulla, vi è creato di sana pianta, e che l'autore non parla mai che di ciò che egli ha vissuto o visto. Che si tratti di memorie immaginarie o di romanzo vero, 0 di entrambi, il gusto più profondo della Recherche è quello del reale. Facendosi beffe di un'estetica terra terra dell'« osservazione » piatta, del ricalco elaborato, Proust ha creduto ingenuamente di aver fatto il processo al realismo, se non alla stessa realtà. Ma qualunque siano gli smembramenti, gli aggiustamenti, le dispersioni, le ricostruzioni plastiche che egli possa far subire agli elementi del suo racconto, ci si può domandare se egli abbia inventato uno solo di quegli elementi. Non è certo esatto dire che Proust « riversa » nel suo romanzo la sua « esperienza della vita », poiché non succede che un bel giorno ci si accorga di avere « dell'esperienza »: e, d'altronde, dove fissare quel giorno? Non si finirebbe forse con il doverlo far retrocedere all'infinito verso la nascita? In realtà, l'esperienza non si acquisisce (quanti sono ritornati dai campi di prigionia altrettanto piccolo-borghesi di prima!) o, perlomeno, quando la si acquisisce, lo si fa in ogni istante, vi si riflette in ogni istante. Proust stesso ha denunciato l'illusione secondo cui esisterebbero nella vita dei « minuti di verità » provocati da « momenti » eccezionali: « Perché è strano fino a che punto, in quei redivivi dal fronte che sono, tra i viventi, i soldati in licenza, o nei morti che un medium evoca, l'unico effetto d'un contatto col mistero sia quello di accrescere, se possibile, l'insulsaggine dei comuni discorsi » Così, l'idea della presa di coscienza del senso e della possibilità della sua opera — quando, nel Tempo ritrovato, Proust aspetta che il brano di musica sia terminato per entrare nel salotto della signora Verdurin divenuta principessa di Guermantes — questa brusca « rivelazione » mi è sempre sembrata una versione degli av1 VII, 77 (III, 757).

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venimenti forse un po' voluta. Dirò anzi che mi è sempre sembrato che essa sia un buon esempio di quella che viene chiamata una « sovrastruttura ideologica ». Per di più, per il punto in cui appare, questa rivelazione, così spesso annunciata, non è affatto una novità, e II tempo ritrovato non offre su questo punto altro che ripetizioni: Proust ha già spiegato cento volte in che cosa lui pensava consistesse la fonte della « creazione » letteraria, come lui dice. E tuttavia si continua a ripetere ad occhi chiusi che II tempo ritrovato è la chiave dell'opera. Ora II tempo ritrovato è un'affascinante raccolta di ricordi su Parigi in tempo di guerra, una salutare satira dello sciovinismo, dei salotti nazionalisti, delle ninfe Egerie del patriottismo, della stampa invasa dalla prosa marziale dei Norpois e dei Brichot. Una buona parte del libro è consacrata ad una cronaca, come parte accessoria, dell'evoluzione omosessuale di Saint-Loup e dei drammi che agitano il matrimonio GilberteSaint-Loup. Vi si trovano, alla fine, delle annotazioni estremamente « preziose » (per parlare il linguaggio della Sorbona) sulle condizioni nelle quali Proust si mette al lavoro, lottando contro la sua malattia e nello stesso tempo contro le proprie abitudini; sulla sua indifferenza al giudizio degli altri a proposito del valore della sua opera, per lo meno per quel che riguarda l'immediato. Vi si legge ancora il racconto della sua ultima uscita nel mondo, quella mattina in cui tutti hanno l'aria di essersi fatti « venire il broncio », a forza di essere invecchiati. Infine e soprattutto, si assapora non tanto la granguignolesca seduta masochista di Charlus, di notte, nell'albergo equivoco, intermedio riposante ma un po' convenzionale, quanto il mirabile incontro di Proust e di Charlus sui viali. Sublime monologo, quello del barone, sulla guerra, i tedeschi, la storia, le colpe dei francesi negli articoli di Norpois, l'epoca, il dilettantismo e l'impossibilità deplorevole in cui lo mettono gli avvenimenti di mandare gli auguri annuali a François-Joseph, suo cugino, ecc. Quanto alla rivelazione della natura e del senso della sua opera, già spiegata in sovrabbondanza nella Strada di Sivann, e che l'autore qui riprende, partendo dall'episodio del rinascere nella sua memoria della sensazione della disuguaglianza del livello delle lastre del battistero di San Marco a Venezia, si tratta qui, forse, del passaggio meno vivo e meno inatteso del Tempo

1 VII, 84-131 (III, 763-803).

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ritrovato 1. D'altronde, questa venuta al mondo dell'opera attraverso una sorta di illuminazione folgorante sarebbe comprensibile se si trattasse di un poema mistico o di un'estasi metafisica, dispensata da ogni contaminazione con l'esistenza quotidiana. Ma quella rivelazione è ancor più sorprendente, nella sua incandescenza profetica, quando si vede che si tratta poi tutto sommato di descrivere minuziosamente i maîtres d'hôtel di Parigi o di Balbec, lo sguardo di Brìchot- da dietro i suoi occhiali, o i giochi di parole del professor Cottard. Da un punto di vista generale, il tema delle due memorie, che costituisce la tesi filosofica fondamentale dell'opera, mi sembra che sia di gran lunga una delle meno originali. Tanto per cominciare, beninteso, l'idea non è nuova quando Proust la riprende. E non soltanto non è nuova, ma verso il 1910 regnava come un luogo comune mondano derivato da Bergson. Era stata, prima di Bergson, un tema fondamentale nei romanzi di George Eliot. Si sa che Proust li leggeva e che gli piacevano molto. E si incontra di nuovo la stessa idea, trattata con un'efficacia incomparabile, in uno scrittore che tutti allora ignoravano, Kierkegaard, il quale distingue, nell'Introduzione del Banchetto {In vino veritas)2, ciò che egli chiama ricordo da ciò che egli chiama memoria. Cosa curiosa, egli attribuisce alla sua memoria quelle caratteristiche di spontaneità e di subitaneità che Proust conferisce alla sua memoria « vera », ma, al contrario di Proust, è al ricordo ragionato, arte di ricordarsi che egli attribuisce la forza creatrice, la facoltà, per esempio, di sentire metodicamente attraverso il « ricordo » il male dell'intero paese pur restandosene a casa propria. All'epoca in cui scrive, Kierkegaard è originale, mentre al momento in cui scriverà Proust, egli verrà non soltanto dopo Bergson, ma anche dopo tutte le discussioni degli psicologi a proposito della « memoria affettiva ». Credendo di raggiungere l'eterno e l'imperituro, Proust non giunge nemmeno a legare le scarpe a Théodule Ribot 3 . Egli rivela il suo materialismo latente o il suo empirismo

1 VII, 202 (III, 805). 2 In vino veritas è il titolo della prima parte dell'opera Stadi sul cammino della vita, e parla appunto del primo stadio, quello estetico. Il racconto è ambientato durante un banchetto [N.d.T.J. 3 Filosofo e psicologo francese (1839-1916). Professore alla Sorbona (1885), direttore della « Revue philosophique », è autore di studi di psicologia sperimen-

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associazionista facendo sempre dipendere l'entrata in funzione della « memoria vera » da una sensazione, facendo dipendere il ricordo in tutta la sua pienezza dall'identità, dalla coincidenza tra una sensazione presente ed una sensazione passata e di conseguenza da un fattore esterno sempre fortuito. Nello spiritualismo bergsoniano, ciò che può procurare una simile esperienza non è mai nulla di esteriore, ma soltanto l'intuizione dell'« io profondo » nella purezza della sua interiorità. La psicologia di Proust mescola un po' di spiritualismo con un po' di sensualismo associazionista. Diventa più bergsoniano nel momento in cui diventa più teorico, per esempio nei suoi punti di vista sulla creazione artistica, e si riavvicina al sensualismo e all'associazionismo quando racconta senza troppo esaltarsi ciò che succede in lui, e quando il narratore del reale riprende la parola. Ma qualunque sia la filosofia che egli fabbrica a tal proposito, l'esperienza che egli riferisce, quella cioè di una sovrapposizione di una sensazione passata e di una sensazione presente, su cui bruscamente si concentra tutta l'attenzione, ha dovuto certamente essere molto forte in lui, tanto forte che egli ha senza dubbio stimato facile e naturale comunicarne il fascino. Ma, per quel che riguarda il fascino di questo contatto tra noi ed il nostro passato, che»è un fatto indiscutibile e vissuto da tutti, se è vero che ciascuno lo prova per conto proprio, non è forse altrettanto difficile condividerlo con un terzo quanto riuscire a farlo partecipe della nostra esperienza della passione amorosa? Infatti lo confesso: i passi di Proust che mi piacciono meno, quelli che leggo con meno curiosità, sono proprio queste risurrezioni che sgorgano, appunto, dalla sua « seconda memoria » — a cominciare dalla storia della « maddalena », che mi ha sempre fatto pensare a un tema di quarta ginnasio («Tutta Combray [...] è sorta dalla mia tazza di tè » 1 è debole, come ultima frase); quelle evocazioni di impressioni, a proposito di nomi di luoghi, di abitudini domestiche, di cambiamenti di stagioni; quelle riscoperte disincantate di posti familiari diventati più ristretti ed irriconoscibili quando vi si ritorna dopo molto tempo; quell'amalgamarsi di un nome e di un'immagine, di un sentimento e di una circostanza, di un rumore di calorifero e di un periodo della vita, di tale: Les maladies de la mémoire (1881), Les maladies de la volonté (1883), Les maladies de la personnalité (1885), Psychologie de l'attention (1888), ecc. [N.d.T.]. 1 I, 52 (I, 48).

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un odore e di un ricordo di un grande amore. Sì, tutto ciò è vero, sono cose che ci succedono, ma, bisogna dirlo, interessano soltanto noi stessi. A volte non si riesce veramente a vedere per quale ragione, che non sia quella di dire che ciò è successo a lui, Proust si dilunga tanto su certe cose. Non vorrei essere frainteso: ciò che mi dà fastidio non è la lunghezza, ma la cosa in sé; poiché se chiamiamo concisione il fatto di non scriver nulla che non esprima un'idea?nuova, lo stile di Proust è in generale uno dei più rapidi che esistano, salvo, appunto, in quei passaggi che lui credeva fossero i più lirici. La sua psicologia, all'occorrenza integralmente associazionista, si rivolta qui contro di lui: poiché se è vero, come egli dice, che le sue costruzioni affettive sono esclusivamente il risultato di incontri fortuiti tra una sensazione ed un sentimento, non hanno evidentemente alcuna risonanza se non per quell'individuo nel quale essi hanno avuto luogo. Ognuno ha i propri incontri per conto proprio, ma ciò che è veramente prezioso non è il fatto in generale, bensì il contenuto personale, che però ha un senso solo per chi lo vive direttamente. Le mie riserve non nascono dalla preoccupazione di "condannare per la decimillesima volta l'associazionismo, psicologia, pare, ormai fuori moda. Qualunque sia la teoria psicologica nella quale li si vorranno inquadrare, i fenomeni affettivi descritti da Proust sono, prima di tutto, dei fatti vissuti, ed è in quanto tali, è innanzi tutto in quanto romanziere che egli, fortunatamente, li descrive. Ma è dunque proprio al romanziere che si può rimproverare di non esser stato capace di vedere in quale limitata misura tali sentimenti possono essere condivisi dagli altri. Penso, per esempio, a tutte le pagine sui nomi di paesi. Tutto ciò che un nome può evocare in ciascuno di noi col suo solo suono è altrettanto poco d'obbligo per gli altri quanto gli stati d'animo provocati dai colori. Venire a sapere che un amico, alla vista del viola, è preso da convulsioni, anche se per lui si tratta di un'esperienza assai intensa, non potrà mai ispirarci nulla di più di un leggero fastidio. Io salto spesso diverse pagine, quando sento avvicinarsi uno di questi zatteroni proustiani, che avanzano sui flutti della « memoria involontaria ». E, purtuttavia, è proprio in questa memoria che egli ha visto la fonte e la novità della sua opera. Notiamo tuttavia come egli la faccia intervenire apertamente e pensi ad essa soltanto quando si ripiega su se stesso, e

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rievoca non già un avvenimento, ma un sentimento che lo distacca da quell'avvenimento, così come se ne era distaccato già nella realtà. C'è da domandarsi se la salvezza letteraria di Proust, che egli ha sempre pensato dipendesse da un ritorno in se stesso, non sia provenuta, al contrario, da quei momenti in cui egli dimenticava se stesso, in cui diventava infine, dinanzi allo schermo vergine, null'altro che spettatore e insieme realizzatore del film,. Poiché non c'è nessuno, salvo forse Montaigne, che abbia saputo descrivere gli uomini in modo così brillante. Nessuno, salvo forse Saint-Simon, che abbia saputo quanto lui mettere gli uomini in scena, fissare ciò che ogni giorno ci sfugge per il fatto che siamo incapaci di raccontarlo, colpire nel segno con tanta regolarità. Ma, pur non essendo un visionario del reale altrettanto fanatico quanto Saint-Simon, Proust lo supera quanto all'intelligenza che di esso acquisisce; rispetto a lui, è più sottile, più vario, più generoso nella sensibilità, e può così giungere a quelle verità morali che a Saint-Simon, dallo spirito ottuso, invano sollecitato dalla sua meravigliosa frenesia retinica, sfuggono per esasperazione. Proust, comunque, non è in alcun modo un romanziere di analisi. Esiste un romanzo di analisi quando il fatto è sostituito o persino creato dall'analisi stessa. Ora, l'analisi proustiana è sempre una riflessione su degli avvenimenti che sono veramente accaduti. Nella Recherche, le parti dedicate senza interruzione al racconto dei fatti, alle descrizioni, al resoconto delle conversazioni sono facilmente separabili dalle riflessioni che le commentano, ed ancor più dai pensieri sulla vita in generale che ne possono nascere. Oggi si attribuisce retrospettivamente a Proust il merito di una rivoluzione formale del romanzo (espressione che significa senza dubbio una rivoluzione della forma del romanzo). A dir il vero, io vedo piuttosto male in che cosa essa consista, e attribuirei più volentieri a Proust il merito più raro di una rivoluzione della materia della letteratura. Vent'anni fa, del resto, si rimproverava a Proust proprio il contrario: di non aver cioè trovato una forma nuova, adatta alle sue scoperte di contenuto. Esteta, letterato europeo, mandarino rimasto fedele ad una forma classica, egli non aveva osato portare fino in fondo la propria rivoluzione, il suo suicidio letterario non era che un suicidio « a spizzico », 18

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scriveva Sartre, contrapponendogli Faulkner ed i romanzieri americani che rischiavano tutto e si « suicidavano » realmente in quanto scrittori classici Al giorno d'oggi, nel momento in cui le prodezze tecniche degli americani hanno logorato il loro potere di suscitare il brivido, non è diventato forse quasi evidente che i romanzi di stile faulkneriano o hemingwayano sono assai più riaggiustati, più « letterari », più estetizzanti del romanzo proustiano? Quei romanzi fanno parte ormai della storia della letteratura, rappresentano un « momento » del romanzo, il momento della reazione, appunto, contro il romanzo d'analisi. Ma Proust non si cura davvero della storia del genere romanzo. Perché dovrebbe sopprimere, per partito preso, quelle lunghe meditazioni semi-organizzate, e subito dopo disorganizzate, quelle esitazioni, quelle interpretazioni, quelle ripetizioni interiori che, di fatto, ci accompagnano ovunque, e che son cose che ci accadono, per esempio, dopo la partenza di una persona amata, o dopo la sua morte? E perché dovrebbe esprimere tali cose nella forma del tutto letteraria del « monologo interiore » visto che è del tutto evidente che, nella realtà, esse non assumono tale forma, che anzi sono persino discretamente elaborate e ben espresse, e che è falso, o raro, che noi pensiamo con uno stile telegrafico? Anche se il suo libro è un romanzo fondato su dei ricordi, o su delle memorie piene di fatti romanzati o immaginati, perché dovrebbe privarsi della facoltà di dire e ridire ciò che gli è accaduto e di riferirci a lungo ciò che ne pensa, dal momento che, tanto per cominciare, accadono? Il romanzo behaviorista è un artificio letterario allo stesso titolo del romanzo che vuol essere puramente interiore. Come ha mirabilmente dimostrato Sartre stesso, si tratta in entrambi i casi di opere d'arte, di stilizzazioni del reale, cioè di menzogne 2. Noi non viviamo né unicamente nei nostri gesti, né unicamente nei nostri pensieri, né ci poniamo soltanto dinanzi agli avvenimenti ed agli spettacoli che ci si presentano. Proust, nonostante la sua volontà di fare un'opera d'arte, sembra aver preferito, su questo punto, la verità all'arte. E parlando soltanto ed esclusivamente a nome proprio, facendo sulla vita interiore degli altri

1 Situations, I, cit. Ed. ital. Che cos'è la letteratura, Milano, Il Saggiatore. 2 Id., in François Mauriac et la liberté.

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soltanto delle legittime supposizioni, egli ha dimostrato l'inestricabile e costante intreccio di ciò che è interiore e di ciò che è esteriore, cioè l'impossibilità — sempre sul piano dell'esatta precisione, e non l'impossibilità estetica o poetica — di isolarli l'uno dall'altro. In lui la regola è, come nella vita, la coesistenza delle più diverse sfere. Proust non sceglie: racconta. Una delle principali caratteristiche del romanzo d'analisi, così come del romanzo faulkneriano o del romanzo hemingwayano, che ne sono l'antitesi, è l'uniformità dello stile, visto che gli avvenimenti ed i personaggi non esistono, in entrambi i casi, che in virtù di una tensione artistica, e della loro traduzione in una forma. In Proust, al contrario, ogni personaggio parla a modo suo, c'è il linguaggio di Bloch, quello del signor Norpois, quello di Swann, quello del signor di Charlus, quello della duchessa di Guermantes, quello di Saint-Loup, quello di Brichot, quello di Cottard, quello della signora Verdurin, di Saniette, di Françoise, d'Aimé, di Jupien, di Legrandin, di Gilberte, di Odette, ecc., che sono diversi tra di loro in modo altrettanto sostanziale quanto lo sono dal linguaggio di Proust. Non si tratta qui soltanto di quella idea, spesso enunciata dalla critica a proposito dei grandi romanzieri e dei grandi autori drammatici, secondo la quale essi hanno il talento di saper rendere i loro personaggi « indipendenti dal loro creatore » e di farli vivere di vita propria nella nostra immaginazione. In Proust, non si tratta soltanto di questo. Non solo è possibile veder parlare e camminare nella nostra immaginazione Charlus, Norpois, Cottard, Morel, Swann; ma è per di più sbalorditivo vedere fino a qua 1 punto essi differiscano tra di loro fin nei minimi particolari. Indipendenti dal loro soggettista e dal loro spettatore, lo sono altrettanto gli uni dagli altri, e non solo in virtù della diversità delle loro rispettive biografie, ma indipendenti in se stessi. In Balzac, i personaggi differiscono tutti per le rispettive storie, ma risentono tutti di un tratto comune. In Proust, non vi è alcuna storia che distingua veramente questo o quel personaggio: le loro storie potrebbero rassomigliarsi tutte fra loro, e ciò nondimeno essi continuerebbero ad essere diversi fra loro, diversi in se stessi, nella loro stoffa. Tutti i personaggi di Balzac parlano la lingua di Balzac, e non si può di certo considerare il grossolano gergo tipografico di Nucingen o di Gobseck come un linguaggio originale. In Molière, Harpagon e M. Jourdain hanno

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ciascuno la loro unica personalità, ma cinque righe di una qualsiasi battuta dell'uno o dell'altro sono innanzi tutto cinque righe di Molière. In Proust vengono ogni volta inventati o rifatti completamente a nuovo non soltanto un vocabolario, una sintassi, un sistema di metafore o di una dizione, ma un intero modo di pensare e di sentire, un intero modo di essere. Supponiamo che tutta la Recherche venga ad esser distrutta, e che non si ritrovi altro che venti frasi di Bloch, venti di Norpois, venti di Aimé, ecc.: sarebbe difficile sospettare che esse siano uscite dalla stessa penna. Non si tratta soltanto delle centinaia di espressioni e di costruzioni, diverse per ogni personaggio, che Proust trova, ma anche di quel che questa gente dice, del contenuto, tipico di ognuno, del suo pensiero. Con un po' di predisposizione, possiamo facilmente imitare i modi di dire e di comportarsi degli altri, ma se provassimo a mettere tutto ciò per iscritto, ci fermeremmo ben presto, poiché ci verrebbe a mancare quella materia prima che essi soltanto possono fornirci, cioè le loro idee. Proust giunge sino a far parlare ed agire ogni personaggio secondo il suo stile, ma ogni volta su degli argomenti ed in circostanze diverse, di modo che, come nella « Commedia d'arte », ognuno rimane fedele al proprio tipo improvvisando se stesso e, facendoci la « sorpresa » di fare ogni volta meglio di prima, tuttavia si riconferma. Nella Recherche, non si vede all'opera soltanto l'imitatore eccezionalmente dotato, perché, imitando, noi riprendiamo da un autore ciò che egli ha già detto, allo stesso modo in cui facciamo la parodia di un nostro amico riferendoci a circostanze in cui l'abbiamo già visto. Ma è una cosa rara poter costruire interamente un personaggio che pensa, parla, agisce in modo diverso da noi, e che nello stesso tempo non porti il marchio di fabbrica dell'autore con altrettanta evidenza con cui lo portano gli eroi di Balzac o di Molière. Il personaggio diventa realmente quel qualcosa di imprevisto e di tangibile che ci si presenta ordinariamente soltanto nella vita quotidiana, e non nella letteratura, poiché un simile imprevisto non è affatto un'esaltazione dell'immaginazione, bensì l'acquietamento di essa mediante un qualcosa che proviene dal di fuori e che la tiene occupata senza provocarle alcuna tensione, un qualcosa che ci immerge in quella fontana dell'eterna giovinezza, così raramente raggiungibile, che è la totale assenza di noia per alcune ore. Quando noi

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conosciamo bene la gente, quel che ci appassiona è sapere che cosa ad essa capita tutti i giorni. Con Proust, noi bruciamo dal desiderio di « sapere » che cosa è successo a casa di quel tale, quella certa sera. Quando usciamo insieme a lui, sappiamo già che andiamo incontro a « qualcos'altro ». Proust, prima di ogni altra cosa, è l'inesauribile presentatore di ciò che è totalmente esterno, di ciò che viene dal di fuori. Non sempre ce ne siamo accorti perché, appunto, ciò che è esterno si presenta a noi, in Proust come nella vita, tutto penetrato di riflessioni, di apprezzamenti e di considerazioni; mentre il romanzo « moderno » al contrario ci ha abituati al falso esterno, che consiste nel raccontare dei dati soggettivi e semi-onirici con il diverso linguaggio dei fatti. Il gusto che Proust ha per il reale in tutti i suoi dettagli ci spiega il perché la Recherche si decomponga in vasti frammenti. Se gli sono necessarie a volte diverse centinaia di pagine per raccontare una serata, è per il fatto che lui ne ha vissuto integralmente ogni istante ed ogni aspetto dal momento del suo arrivo a quello della partenza. È stato detto che il romanzo proustiano è una continuità. È strano come si continuino a ripetere, da quarant'anni, le stesse frasi a proposito dello sconvolgimento, operato da Proust, dell'esperienza del tempo, a proposito della continuità del tempo proustiano, dell'importanza, nell'opera di Proust, del passare del tempo — tutto ciò detto sulla scorta, è vero, delle affermazioni filosofiche fatte dallo stesso autore — , quando è però sufficiente leggere la Recherche, vedendola come un romanzo e non soltanto come un insieme di dissertazioni abbellite di esempi « concreti », per accorgersi che, al di fuori di alcune parti accessorie del tutto teoriche e di alcune dichiarazioni di principio del resto abbastanza vuote, il tempo non adempie, nel racconto, nello svolgersi del racconto, ad alcuna funzione. O, più esattamente, non esiste nemmeno uno svolgersi del racconto, non vi è il minimo progredire continuo, mai la più piccola sensazione del passare del tempo. Ci sentiamo sempre nel presente. Il narratore vive alla giornata. E infatti la Recherche è una giustapposizione di mezze giornate e di serate, alcune delle quali separate fra di loro da diversi anni. Il narratore dedica molte meno pagine per il racconto di dieci di questi anni che non per raccontare un 22

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solo pranzo nel salone del Grand Hotel di Balbec. E qui, ancora una volta, come nel caso della sua filosofia del ricordo, Proust fa un po' di ricami sulla sua opera aggiungendo al racconto una filosofia del tempo. Mentre in Balzac, in Tolstoj o in Zola si assiste ad effettive evoluzioni, giorno per giorno ed ora per ora; mentre un mese, una settimana od una « giornata » possono essere decisive per Rubempré, per Birotteau o per Rastignac, Proust è al contrario il pittore dell'immobilità. Egli è veramente se stesso soltanto quando si dimentica del tempo, quando è semplicemente nel salotto della signora di Villeparisis o al ristorante in cui cena, in una serata di nebbia, con Saint-Loup. In Proust, i personaggi non cambiano mai: li si trovano quando sono già cambiati. Essi compiono dei « rientri » stupefacenti. Se qualcosa si mette in risalto nella Recherche, è proprio il fatto che noi non abbiamo mai direttamente coscienza del tempo. Si sa bene fino a qual punto Proust è stato allettato dall'idea di Balzac di far ricomparire certi personaggi di un romanzo in un altro. Egli ci ha raccontato (si potrebbe quasi dire « cantato » ) la gioia che ha dovuto provare Balzac il giorno in cui si è accorto che diversi romanzi da lui pubblicati potevano essere collegati tra di loro. In un saggio su Balzac, a proposito del famoso incont r o , nelle Illusions perdues, di Carlos Herrera con Rubempré,, sulla strada, all'alba, dinanzi alle rovine del castello di Rastignac, Proust parla di quel « raggio che si distacca dal fondo dell'opera » e che viene a posarsi, quindi, sui due personaggi, o meglio sui tre, poiché Rastignac è invisibilmente presente Ma i personaggi dalle molteplici apparizioni non hanno la stessa funzione in Balzac e in Proust. Il romanzo di Balzac è attivista. (Per il romanzo di Balzac in particolare ciò è evidente, poiché si tratta di romanzo di avventura. Ma si può dire la stessa cosa per la maggior parte dei grandi romanzi del XIX secolo, nei quali gli avvenimenti che trasformano le situazioni hanno diretta influenza sul fondamento stesso dei destini umani). Al contrario, in Proust, non si verifica alcun cambiamento fondamentale per il signor di Charlus in seguito al fatto che, innamoratosi di Morel, frequenta il salotto della signora Verdurin, salotto in cui sarebbe stato per l'innanzi inconcepibile che egli posasse i suoi « augusti alluci ». 1 Contro p. 240.

Saìnte-Beuve,

in:

Giornate

di lettura, Milano,

Il

Saggiatore,

1965,

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Su Proust

Questo avvenimento « mondano », appunto perché tale, non porta nulla di nuovo che non sia una illuminazione supplementare su di un personaggio. Serve da proiettore, ma non costituisce un'effettiva trasformazione. Proust ripete molto spesso che, nella vita mondana, non succede mai nulla. (Sainte-Beuve, dice, profonde tesori di sottigliezza per analizzare le differenze di atmosfera e di psicologia fra i diversi salotti letterari, senza tuttavia giungere a farci sentire la benché minima differenza tra loro; e dimostra così, a sua insaputa, una cosa soltanto: la nullità della vita di salotto). I soli cambiamenti reali che colpiscono le persone sono, in Proust, i cambiamenti indiretti provenienti dalla guerra, dalle morti, dalle perdite di fortuna, mentre la vita, dal punto di vista di quelli che la vivono, conserva un contenuto statico, spesso persin rubricato una volta per tutte fin dalla partenza. Ed ancora una volta, quale strana insensibilità all'evoluzione degli esseri umani ed all'imprevedibile ricchezza dell'avvenire, da parte del nostro preteso grande romanziere della temporalità! Mentre nei romanzieri inglesi che Proust appunto ammirava, in George Eliot 0 in Thomas Hardy, si sente, capitolo dopo capitolo, il flusso stesso del tempo biografico, lento e costante, mentre in Flaubert si sentono, sotto l'apparente e monotona regolarità della vita quotidiana, quei continui smottamenti di terreno che minano gli stessi supporti delle esistenze, il narratore della Recherche non ci presenta nulla di più che dei ritratti successivi dei suoi personaggi, incontrati casualmente dopo un intervallo di dieci o venti anni. Egli è, ogni volta, notevolmente « sorpreso » nel constatare che i volti e le situazioni non sono più gli stessi, in questo o quel salotto, di quando egli vi entrò per la prima volta, trenta anni prima. Lui stesso si accorge solo indirettamente di essere invecchiato quando, ad un'età che si può supporre prossima alla quarantina, suscita l'ilarità dei presenti per aver detto a Gilberte di Saint-Loup, che gli aveva proposto di pranzare sola con lui: « Se non vi par compromettente venirvene a pranzo sola con un giovinotto » Uno psicanalista direbbe senza dubbio che si tratta in questo caso di una manifestazione di attaccamento all'infanzia ... Il narratore afferma implicitamente « È incomprensibile che io possa avere quarant'anni, è irreale ». Si stupisce, come si 1 VII, 273 (III, 931).

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trattasse di straordinarie metamorfosi, dei cambiamenti più scontati, normali e prevedibili che avvengono negli altri, e resta « sorpreso » dinanzi ad essi, imitando in ciò il pubblico ed i giornali quando ogni anno sono « sorpresi » nel veder ritornare i grandi freddi o i grandi caldi, come si trattasse di cataclismi contro natura che posson così darci la spiegazione dell'insufficienza dell'approvvigionamento di carbone o di ghiaccio. Emmanuel Beri fa notare, in Sylvia? come i vecchi della Recherche non hanno mai l'aspetto di vecchi: sono piuttosto dei giovanotti truccati da vecchi. Sono la caricatura di se stessi. Bloch « prende l'aspetto » di suo padre. Uno o è un vecchio o non lo è — così il nonno del narratore è un vecchio, perché lo è fin dall'inizio — , ma se uno non lo è, non può mai diventarlo. Oppure, l'invecchiamento avviene a sobbalzi, irrazionale, ingiustificato e, tutto sommato, ingiusto. Cosa curiosa, questo eventuale attaccamento all'infanzia non nuoce per nulla, in Proust, all'estrema maturità del suo pensiero, e non ostacola per nulla l'eliminazione radicale delle ingenuità psicologiche dell'adolescenza, quando si tratta di esporre i sentimenti e le azioni. Ciò nondimeno, Proust non ha avuto l'arte, come Montaigne, né la forza, di riconciliarsi con l'idea che il tempo passa e che noi invecchiamo. Il giorno in cui egli l'accetta è anche il giorno in cui egli accetta non l'idea di invecchiare, ma quella di morire. Nell'attesa, è sempre nel quadro di un momento immobile che si scopre di « essere invecchiati », che il tempo « è passato », che tutto « è cambiato », che SaintLoup « ha rotto » con Rachel, che, nella stessa occasione, egli « non ama più » la letteratura e « non è più » dreyfusiano. Anche la riapparizione di un personaggio ha in genere lo scopo di distruggere una leggenda piuttosto che di riportare alla ribalta una data azione. Del resto non esiste azione. L'insieme dei personaggi di Proust costituisce quasi un corpo di ballo « che ricomincia sempre daccapo ». Non si limitano a riapparire in momenti diversi, ma si uniscono tra di loro. Finiscono con il formare un solo gruppo inestricabile. Gli Swann ed i Guermantes non possono rimanere separati; non solo Swann conosce da sempre i Guermantes, ma Saint-Loup sposa Gilberte, che è stata a sua volta un grande amore di Proust, e di quest'ultimo Saint-Loup era il migliore amico; ma Odette, che è stata « la signora vestita di rosa », « demi-mondaine » intravista in casa dello zio del narratore, prima

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Su Proust

di diventare la signora Swann, finisce per essere l'ultimo grande amore del duca di Guermantes. Non solo Saint-Loup diventa omosessuale, ma il giovane di cui si innamora è appunto Morel, l'antica ed infelice grande passione di suo zio Charlus, antica fiamma dell'altro suo zio, Sosthène, e nipote dell'antico cameriere dello zio di Proust stesso. La signora Verdurin diventa principessa di Guermantes. Jupien i trasforma in infermiere che si cura della senilità del signor di Charlus, dopo essere stato il suo seduttore, poi il suo assistente. All'ultima riunione generale degli azionisti della società « Recherche du temps perdu » — quella in cui gli invitati hanno l'aria di essersi « fatti una faccia » — ci sono tutti, compresa Rachel. Quelli che sono assenti (Cottard, Bergotte, Saint-Loup, Saniette) ci sarebbero anche loro se non fossero morti: è quest'ultima riunione quella che uccide la Berma, quando essa viene a sapere che sua figlia e suo genero sono venuti a « fare la posta » a Rachel per farsi ricevere. Tutto si mischia e si inabissa in un orrendo miscuglio: non si sa più dov'è la gamba del principe di Guermantes, il braccio di Odette di Forcheville, e poco ci manca che, per tirare la barba di Bloch, qualcuno faccia cadere il monocolo del signor Bréauté-Consalvi. Così i personaggi di Proust cambiano e non cambiano. A volte cambiano totalmente senza che sia loro successo nulla di notevole. Altre volte, al contrario, si verificano trasformazioni capitali nella loro esistenza, senza che essi cambino. Di ognuno di loro si può alla fine sempre dire, come capita nella vita, che « è molto cambiato » e che « è sempre lo stesso ». Certo, di fronte alla staticità di un signor di Norpois, si trova l'inspiegato mutamento di Saint-Loup. Ma questo mutamento, a dire il vero, non è che apparente: Saint-Loup era sempre stato quel che il narratore si accorge ora che sia, quando un maitre d'hotel, Aimé, lo informa; ma fino a quel giorno noi non l'avevamo visto sotto quell'aspetto. Il cambiamento avviene dunque soprattutto per quel che riguarda le informazioni ottenute. E se certi personaggi nonostante tutto cambiano in se stessi, si tratta soltanto del fatto che il tempo accentua certe tendenze già presenti in loro, mette in rilievo certi tratti e ne attenua altri. Così, è a dispetto e nei limiti della loro staticità di carattere e di destino che i personaggi proustiani si rinnovano. Quel maitre d'hotel è sempre lo stesso 26

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maitre d'hotel, domani lo ritroverò sempre allo stesso posto, ma 10 si troverà rinnovato per il fatto che la sua mimica sarà ancor più gustosa di quella di ieri, allo stesso modo in cui si dice, a proposito di un cantante, che « si rinnova » pur rimanendo fedele al proprio genere. Pur nella loro costanza, i personaggi della commedia proustiana sono tuttavia imprevedibili, fino al punto che una cena può cambiarli, ancora una volta, nel loro intimo. È per questo motivo che i cambiamenti più importanti nella vita delle persone si verificano in un modo meteorico ed incomprensibile, è per questo motivo altresì che gli avvenimenti più insignificanti («Bloch viene ricevuto dalla principessa di Guermantes ») appaiono di considerevole importanza, per il semplice fatto che sono effettivi e che modificano delle situazioni concrete. Proust si compiace, del resto, nel presentare le innovazioni personali, quelle che non sono soltanto cambiamenti della situazione sociale (che sono pochi e si riferiscono a personaggi secondari), come privi di qualsiasi radice nel passato, e dunque non come 11 risultato di una evoluzione, bensì come equivalenti alla nascita di un individuo del tutto nuovo; ed enuncia tali cambiamenti in modo quasi negligente, di sfuggita, tanto è contraria alla sua natura la rappresentazione dei cambiamento progressivo. Così Octave, soprannominato « nelle canne », il giovane gaudente idiota delle Fanciulle in fiore, diventa nel Tempo ritrovato un autore geniale la cui ultima opera, cui il narratore « non fa altro che pensare », è giunta da poco a sconvolgere la letteratura moderna! Tra queste due apparizioni di Octave, nulla permette di stabilire il benché minimo collegamento. Il tempo proustiano non è un tempo creatore. Pur essendo portatore di cambiamenti nelle situazioni sociali, cambiamenti insignificanti ma che appaiono di capitale importanza agli interessati e che vengono sempre constatati con sorpresa dal narratore, il suo ruolo è quello di rivelare la verità del carattere, di svelare ciò che gli uomini erano già da prima, a nostra insaputa. La visione di Albertine sulla spiaggia contiene già in sé tutto quel che verrà rivelato al narratore dalle ricerche postume sui suoi legami. È persino una cosa curiosa constatare come il racconto proustiano sia privo di qualsiasi realismo temporale. Proust è essenzialmente un realista per quel che riguarda il presente, la 27

Su Proust

descrizione, la regia, l'impressione, ma cessa di esserlo quando si tratta del concatenamento dei diversi momenti fra di loro. Il rifiuto della temporalità giunge in lui sino al punto da rendere praticamente impossibili i fatti riportati: così, per esempio, la scappata con Saint-Loup e Rachel — già così lunga, che inizia in campagna, continua nel ristorante, finisce in uno stanzino privato — avviene nello stesso giorno della famosa mattinata in casa della signora di Villeparisis, che basterebbe anch'essa da sola a riempire diverse settimane. L'insensibilità di Proust per il tempo la si avverte anche in dettagli di minore importanza: il famoso articolo inviato al « Figaro » quando il narratore è ancora un giovanotto 1, verrà pubblicato verso la fine della fuggitiva2, cioè, a quanto pare, circa quindici anni dopo che è stato inviato. Nell'intervallo, Proust ha aperto il « Figaro » tutte le mattine per cercarvi il suo articolo. La narrazione proustiana è altrettanto fuori del tempo quanto l'unità di tempo della tragedia e della commedia classica, ed implica, come in queste ultime, l'unità di luogo o dei luoghi (in numero ridottissimo) e l'unità cosiddetta di azione, il fatto cioè che tutti i personaggi si conoscano o finiscano con il conoscersi tra di loro. Come abbiamo già visto, tutti i personaggi di Proust si ritrovano riuniti insieme nello stesso salotto, alla fine del Tempo ritrovato. Ognuno di essi esercita o ha esercitato, in un modo 0 nell'altro, un'influenza sulla vita di tutti gli altri. Questa riunione generale viene per così dire preparata fin dall'inizio del libro. Come alla signora Verdurin, anche al narratore piace avere tutti sottomano. E da questo derivano tutte quelle inverosimiglianze, d'altronde senza nessuna importanza, di cui non ci si accorge nemmeno alla prima lettura, poiché la cosa importante, nel romanzo proustiano, non è l'azione, ma sono i quadri: l'albergo equivoco nel quale il narratore entra per caso è tenuto appunto da Jupien, e ciò capita, guarda caso, proprio nella sera in cui il barone di Charlus viene a farvisi torturare3. In un altro punto, tocca ad Aimé, il maître d'hôtel del Grand Hôtel di Balbec, ritrovarsi per caso trasformato nel maître d'hôtel del ristorante in cui stanno pranzando Rachel e Saint-Loup, a Pa1 III, 381 (II, 347). 2 VI, 160 (III, 567). 3 VII, 143 (III, 811).

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rigi, in compagnia del narratore: è nel corso di questo pranzo che il signor di Charlus fa chiamare appunto Aimé perché venga a parlargli alla porta della sua vettura, che si è fermata dinanzi al ristorante in un punto tale da cui Saint-Loup può benissimo riconoscere Charlus attraverso i vetri Le coincidenze proustiane hanno il duplice scopo di coagulare i personaggi e di appiattire i momenti del tempo: da un lato Proust, se occorre, per esempio, che qualcuno si sposi, gli sceglierà un consorte tra gli elementi già conosciuti (Saint-Loup sposa Gilberte; Octave, detto « nelle canne », sposa Andrée); dall'altro lato, quando è pur necessario che si producano avvenimenti nuovi, egli li ammucchierà tutti in poche righe, per poter in tal modo passare il più presto possibile alla sola cosa che lo interessi: un momento immobile, una soirée, una cena. Mette allora insieme l'appiattimento del tempo e la moltiplicazione dei fili ricollegando i personaggi gli uni agli altri in modo rocambolesco. Per esempio, in Sodoma e Gomorra2: il signor di Charlus scorge Morel (che egli non conosce) vestito da militare, in una stazione, che si scopre essere quella di Doncières, città già ben nota ai lettori e dove un caso fortunato ha voluto che Morel prestasse il servizio militare. Nello stesso momento il narratore attraversa la , stazione, ed il signor di Charlus lo manda a chiamare (cioè ad abbordare al posto suo) Morel, che si scopre essere il nipote del cameriere dello zio di Proust (ma il signor di Charlus lo ignora). Morel è un violinista e, quella stessa sera, conduce il signor di Charlus, facendolo passare per un « anziano parente », nella villa nella quale appunto quel giorno egli deve suonare. I padroni di casa non sono altro che i Verdurin (che evidentemente il signor di Charlus non conosceva), e si scopre che anche Proust (che conosce molto bene il barone) era invitato a quella soirée! Ma è appunto questa soirée, una volta che tutti i personaggi sono ben rinchiusi dietro alle finestre illuminate del salone della Raspelière, dopo esservi stati condotti a tamburo battente e manu militari, una volta che il narratore è sicuro che nulla più deve succedere e che ciascuno può finalmente, senza muovere 1 III, 163 (II, 153). 2 IV, 282-284 (II, 862-864).

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Su

Proust

un dito, essere se stesso, è appunto questa soirée il suo vero soggetto — un soggetto fuori del tempo. Proust propende per una concezione abbastanza semplice della « creazione letteraria »; crede che ogni artista « porti » in sé un mondo di immagini primitive preliminare ed indipendente dalla sua stessa esperienza, un « paese » segreto, com'egli dice a proposito di Barbey d'Aurevilly. Non vede come quel mondo non sia altro, nel suo caso, nel caso di Proust, che il contraccolpo in direzione dell'esterno di quel che 1'« artista » ha inizialmente scoperto al di fuori di sé, ed ha tratto assai ampiamente dall'osservazione. All'inizio della prefazione al Contre Sainte-Beuve, egli scrive la seguente frase, strana in lui: « ogni giorno che passa attribuisco sempre minor valore all'intelligenza »; sembra che egli non sospetti neppure che la concezione dell'intelligenza cui si riferisce — l'intelligenza che divide, rende banale, coglie soltanto « l'esterno » della realtà •— non è altro che una concezione divenuta di moda al suo tempo: che è il tempo di Bergson e della reazione « anti-intellettualistica » dell'Europa intera. Quella che sarebbe fatale al giudizio di gusto è dunque l'intelligenza presa in quel particolare significato, e non nel senso letterale di atto di comprendere. La sua teoria della « creazione » letteraria va così a ricongiungersi alla teoria, anch'essa frutto della moda, della « vera memoria ». Certo, Proust ha somministrato a Sainte-Beuve la punizione retrospettiva più meritata e più divertente che gli fosse mai stata data. Ma se è esatto che Sainte-Beuve ha preferito Vicq d'Azyr 1 a Stendhal, dispiace di dover constatare che Proust stesso prende per dei geni Maeterlinck, la contessa di Noailles o Léon Daudet, e non Max Jacob, Apollinare o Jarry. Alcuni, credendo di giustificare Proust, dicono che i suoi giudizi letterari possono essere spiegati con l'amicizia. È inutile sottolineare che questa pretesa scusa è un'ulteriore aggravante, poiché si tratta, per di più, di uno scrittore che considera l'opera d'arte come una cosa sacra, separata interamente dall'esistenza e dalle relazioni quotidiane e poiché i giudizi in questione si trovano incorporati nella stessa Recherche du temps perdu. Possiamo del resto ricordare che

1 Celebre medico ed anatomista del XVIII secolo.

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[N.d.T.].

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Proust non ha visto che una o due volte nella sua vita la contessa di Noailles, come accerta Emmanuel Beri nella Vrésence des morts. Egli dunque la giudicava la più grande poetessa francese del suo tempo senza ombra di condiscendenza. E si può essere infastiditi, in un altro campo, dal modo salottiero in cui egli utilizza i nomi dei grandi pittori, incapace com'è di vedere un bel viso senza parlare di Mantegna o di Carpaccio, e di vedere la cameriera1 della signora Putbus senza paragonarla a un Giorgione; anche se, in quest'ultimo raffronto, si trovano ancora mescolati una punta di ironia ed un utile senso dell'analogia erotica. Ma quando Proust scrive: « Gli (a Swann) piaceva ancora, infatti, vedere in sua moglie un Botticelli » lo fa con serietà e rispetto. Simili debolezze provengono direttamente, ahimè, dal « mondo di immagini » che « ogni grande artista » porterebbe in sé. Poiché, dopo tutto, non è forse vero che il carattere durevole di quelle grandi verità che un Proust o un Montaigne ci fanno conoscere, consiste proprio nel fatto di poter fare a meno di immagini, dal momento che la maggior parte delle nostre cosiddette verità teoriche non sono altro, appunto, che immagini che per un istante rinfrescano la nostra visione della realtà, prima di ^ logorarsi? Proust raggiunge le più alte verità quando descrive esattamente quello che succede. In un articolo sull'intenzionalità, Sartre ha scritto che « siamo liberati da Proust », per il fatto che adesso sappiamo, grazie a Husserl, che « se amiamo una persona, è perché essa è amabile ». Nonostante le innumerevoli prove in contrario che l'esistenza ci infligge, non mi metterò a cavillare sulla questione in se stessa. L'arguzia della frase di Sartre proviene soprattutto dal fatto che egli gioca su un doppio significato dell'aggettivo amabile: quello primitivo e quello corrente. Quanto alla prima accezione, « che è degno di essere amato », si tratta di una tesi antica e discutibile; quanto alla seconda, « che si ama, che piace », di una verità lapalissiana (in filosofia: tautologia). Ma soprattutto è proprio l'intenzionalità a non essere veramente nient'altro che un'immagine2. Certamente anche le 1 II, 206 [N.d.T.l 2 Situation, I, p. 34. Une idée fondamentale de Husserl: ital. II Saggiatore.

l'intentionnalité.

Ed.

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Su Proust

metafore « interioriste » di Proust non sono nient'altro che metafore: ma fortunatamente esse sono accessorie, poiché, una volta che Proust ci ha detto, per prima cosa, come tutto è effettivamente accaduto, una volta che ha seguito il filo dei fatti, si possono lasciare da una parte le metafore. Senza dubbio questi fatti, allo stato puro, lo colpiscono a tal punto — lui che è così pronto a riunire tutti i suoi personaggi nella stessa stanza, come se in tutto il mondo vi fosse una sola sala da pranzo, quella del Grand Hotel di Balbec — che egli, d'altra parte, rimane ingenuamente stupito quando si tratta dell'amore, delle coincidenze apparenti, delle « combinazioni » dell'esistenza: se Swann non avesse conosciuto suo nonno, se non fosse stato un appassionato di arte, se non gli avesse parlato della chiesa di Balbec, se non gli avesse detto che quella chiesa avrebbe potuto essere in Persia, se nello stesso momento una ditta non avesse deciso di costruire a Balbec un albergo confortevole, egli non avrebbe conosciuto Albertine e Albertine non si sarebbe forse uccisa in un incidente di equitazione. Queste coincidenze, che sembrano aver sempre favorito la nascita dei sentimenti, sono sempre apparenti, poiché appunto allora questi sentimenti non erano ancora nati. Quelle combinazioni non sono tali: sono dei semplici fatti. Bisogna pur che qualcosa accada, e tutto succede così. Perché noi entriamo in un albergo, bisogna pur che qualcuno ci abbia dato il suo indirizzo. Quando Proust pensa che se la signora di Stermaria non avesse disdetto l'appuntamento la sera in cui egli doveva cenare con lei nell'isola del Bois, ella avrebbe forse avuto nella sua vita il ruolo giocato da Albertine, non ha torto per il fatto che lo pensa, ma per il fatto che trova la cosa sorprendente. Ma la meraviglia del narratore, frutto legittimo dei ritorni al passato di un uomo che misura la sproporzione clamorosa tra gli inizi insignificanti di una passione e le sue conseguenze, tra il momento in cui gli avvenimenti che la fondano non si distinguono ancora dagli altri fatti quotidiani e il brusco balzo in avanti che con imprevista potenza li strappa da questi, ci ha fatto vivere contemporaneamente su due piani: questa meraviglia è un episodio del romanzo, non è una teorìa sulle circostanze contingenti su cui nasce l'amore. Del resto, non abbiamo affatto bisogno di leggere Proust per trovare delle teorie sull'amore. Non c'è nes32

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suno che non abbia la propria, ahimè! Ma, al contrario, quel che non possiamo trovare da soli è la verità dei dettagli. Questa preoccupazione per la verità dei dettagli fa spesso dire di Proust, come di Montaigne, che è un autore superficiale o mondano. Il rimprovero di essere « mondano » ha dovuto divertire Proust, poiché è stato proprio lui a dimostrare l'idiozia, la grossolanità e la «oia non soltanto della vita mondana del suo tempo, ma di ogni vita mondana in generale, tanto che dopo averlo letto si perde retrospettivamente ogni fiducia sulla reale atmosfera che doveva regnare nei salotti più « brillanti », per esempio, del XVIII secolo, e ci si rende conto che il « gran mondo » non ha potuto essere mai nient'altro che un mito. Certamente, anche Proust ha i suoi punti deboli. Quando, a casa della duchessa di Guermantes, le dame vanno davanti alla principessa di Parma per mettersi in ginocchio, come è doveroso fare dinanzi ad un'Altezza, questa le risolleva, fingendosi sorpresa, carezza loro la guancia e le abbraccia. E Proust commenta press'a poco in questo modo: mi chiedo come potrebbe esistere la gentilezza in una società egualitaria, dal momento che l'assenza di doveri verso un superiore non potrebbe far nascere una gentilezza tanto squisita come quella della principessa di Parma Non lo dirà per burla? Perché come evocare la gentilezza a proposito di un cerimoniale tanto vuoto e privo di significato, a proposito di un susseguirsi di atti così scimmieschi ed affliggenti, dal momento che si sa benissimo che essi non corrispondono ad alcuna « superiorità », ad alcun « dovere », ad alcuna « gentilezza » realmente esistenti e che in questo caso la « bontà » del cosiddetto superiore non è altro che un modo di più per sentire e per far sentire la sua pretesa superiorità? La gentilezza, cioè il riguardo per gli altri, che noi ci imponiamo anche verso chi non è nostro amico — o anche se lo è — non ha forse al contrario bisogno, per avere un senso, dell'uguaglianza degli individui? E che la vera gentilezza possa avere a che fare soltanto con ciò che è facoltativo, Proust lo fa vedere a sufficienza altrove. Ma alcuni considerano Proust un autore mondano secondo un'ac1 I Guermantes, II, cap. II.

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cezione del tutto diversa, cioè non soltanto perché darebbe prova di indulgenza nei confronti della vita mondana, ma perché egli si occuperebbe, sì, della vita, ma non del senso della vita; delle superfici e non delle profondità; delle apparenze e non delle radici dell'uomo, o di quel che sarebbe ad esso superiore. Per alcuni, è profondo colui che elabora nel modo più economico possibile una teoria metafisica. Accumulare la materia dei dettagli senza mai riassumerla in un concetto generale che si possa tenere a mente, continuamente aggiungere un'osservazione ad un racconto, ed un racconto a un'osservazione, senza farne mai la sintesi, senza neppure permetterla, ma lasciare da parte il riassunto e l'interpretazione, per correre al nuovo dettaglio che li aggiorna entrambi senza posa: non significa tutto ciò mancare di curiosità di spirito, compiacersi esclusivamente di un vano sfarfallio di annotazioni fatte a pezzi e bocconi, di un'accozzaglia superficiale dell'imprevedibile e sfibrante diversità umana? Cosa curiosa, si vede spesso in Proust un autore profondo là dove non lo è affatto, cioè nella sua teoria del tempo e della memoria, ed un cronista superficiale quando riesce a segnalare con infaticabile semplicità di sguardo quei meravigliosi dettagli che solo lui sa rendere evidenti. Proust non è soltanto uno dei più grandi geni della comicità, ma anche uno degli uomini più seri che siano mai esistiti. Proust, nei Guermanles, spiega in che cosa consiste la superiorità del grandissimo pianista sul pianista medio. Di solito si tende a credere che il primo sa interpretare la sonata meglio del secondo. Al contrario, egli non interpreta — per quanto magistralmente — tale sonata, ma cessa di esistere dinanzi ad essa, e grazie alla sua mediazione la sonata parla per così dire da sola. La stessa cosa a volte capita a Proust dinanzi alla realtà. Si afferma spesso che Proust è unicamente psicologo e manca di solide basi metafisiche. Ma « fare » della metafisica a proposito di una cosa vissuta non è già un sintomo del fatto che questa sta per diventarci indifferente? Proust è un uomo troppo appassionato per distaccarsi un solo istante da ciò che realmente accade in lui; solo il tempo — anche per lui — può compiere tale distacco, e, da allora in poi, non è che si sia « costituita » una « dimensione metafisica », ma un'altra cosa vissuta è sopraggiunta. La metafisica, elevata a pretesa esperienza diretta, non è che 34

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un modo di « forzare » un po' le cose, di rendere « interessante » il racconto di se stessi in modo che superi ogni esistenza, e tutto ciò allo scopo di sfuggire all'inesorabile « giorno per giorno » della vita. Al contrario, le esperienze più ricche, quelle che sono state vissute e comprese, e che sono le sole a far progredire la nostra comprensione di noi stessi e degli altri, non possono lasciare nello spirito — come viene detto molto tempo dopo la fuga e la morte della Fuggitiva — altro che un'« impressione in cui la tristezza è ancor superata dalla stanchezza ». Ogni altra impressione significherebbe che noi avremmo artificialmente caricato di mistero i fatti, che ci saremmo gettati in avanti oltre noi stessi, che avremmo voluto fare delle anticipazioni su un ipotetico ruolo futuro od inaccessibile, che avremmo interpretato la nostra vita presente per tentare di distrarci un po'; che, dunque, non parleremmo più di cose che veramente conosciamo. Poiché la comprensione effettiva, quando la raggiungiamo, diventa per noi una cosa così evidente, coincide così esattamente con noi stessi che, appunto, non può che apparirci banale e lasciarci nuovamente soli con noi stessi. Nulla di ciò che è veramente nostro è esaltante, elevato, metafisico: di simili espressioni ci si serve soltanto dall'esterno. Esistono le pretese « rivelazioni » di una realtà soltanto quando non si ha alcun contatto permamente con essa. E allora che « noi siamo attirati tutta la vita da ciò che ci rappresenta una parte d'ignoto, da un'ultima illusione da distruggere » Perché illusione? Non che la vita che scopriremo debba essere necessariamente poco interessante. L'illusione consiste piuttosto in qualcos'altro: nel fatto cioè che quella vita che noi abbiamo l'ambizione di avvicinare a noi, di comprendere o di vivere, potrebbe continuare a non essere la nostra vita pur essendo vissuta da noi, potrebbe continuare a conservare il fascino e il mistero di un qualcosa che è a noi estraneo pur diventando la nostra vita quotidiana. Inversamente, la menzogna metafisica consiste nel finger di credere che quella vita che, nonostante tutto, è la nostra vita, resti semi-sconosciuta, consiste nell'attribuire ad essa un carattere di affascinante mistero come se appartenesse ad un personaggio che noi fingiamo di conoscere solo di lontano: 1 III, 619 (II, 567).

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è quel che ad esempio facciamo, anche nostro malgrado, quando parliamo di noi e confessiamo la nostra vita ad un'altra persona, non tanto per informarla, quanto per sedurla. Ma se evita la metafisica dell'esaltazione, Proust non rinuncia nonostante tutto ad ottenere un effetto metafisico attraverso la depressione, stilizzando all'eccesso la terrificante futilità della vita, come ha fatto spesso Flaubert. Poiché se fossimo tutti dei coeur simple, dei Bouvard e dei Pécuchet, tutto tornerebbe ad essere fin troppo chiaro, e con troppa facilità ci verrebbe indicata la strada della verità. Voler descrivere l'esperienza degli uomini purgandola da qualsiasi conoscenza talvolta vera (e qui sta la difficoltà) che ne abbiamo, è una cosa altrettanto artificiale, per quanto Flaubert ne tragga un profitto poetico sconvolgente, quanto volersi immaginare l'uomo sotto le sembianze dell'eroe dostoievskiano ossessionato dal sacro. Proust non ha alcuna simpatia per le costruzioni, le deformazioni, i balzi ingiustificati, o per le invocazioni abusive. Non mette mai in rapporto fra loro due cose che siano l'una all'altra estranee. Io non conosco nessuna meditazione sull'assenza, sulla morte e sull'oblio che sia più bella di quella contenuta nella fuggitiva-, non conosco alcuna constatazione di effetti reali che sia più trasparente, più paziente, più flessibile, più sincera e più prudente di quella. La metafisica, se esistesse, sarebbe proprio questo: sarebbe quest'approfondimento sul vivo, quest'assenza di smargiassate, e di condiscendenza; sarebbe questa modestia, questo modo calmo di presentarsi dinanzi ad un certo numero di aspetti del mondo, che hanno a che vedere col senso della vita, e che ci cascano addosso da soli, per cui l'unica nostra azione dev'essere quella di non sfuggire ad essi. Proust non appartiene a quella categoria di quinquagenari surriscaldati, di adolescenti dell'undicesima ora, che annullano bruscamente, per una stupidità monumentale, ciò che hanno potuto dire poco prima di interessante. Si è sicuri, per Io meno, che lui non è di quelli che all'improvviso decide di mettersi a fare dello yoga, a « piangere e a credere », ad innamorarsi del buddismo Zen, o della relatività generalizzata, o di Eraclito, ad aderire alla Section d'Or, alla meccanica ondulatoria o al réarmement moral. L'isterismo lo riserva per quel campo in cui esso si trova al proprio posto: quello della vita quotidiana e dei rapporti amorosi — ma lo mette al bando dalla sua opera, 36

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dove egli diventa il più sano degli uomini. La Recherche du temps perdu è, anche nelle sue rare debolezze, uno dei rari libri che offrono l'esempio di un pensiero totalmente adulto. Nella sua psicologia della vita quotidiana, o, meglio, nella comprensione che egli ha degli esseri umani e nell'interpretazione delle motivazioni dei loro atti, Proust dà l'impressione di accontentarsi di spiegazioni o troppo facili, o troppo complicate, e ciò dipende forse dal fatto che tutti i suoi personaggi sono degli sfaccendati. Cercheremo di spiegare nel capitolo seguente qual'è la probabile funzione di tale ozio nel romanzo. L'aspetto immobile, al di fuori del tempo, della Recherche, viene da ciò a trovarsi, inoltre, rinforzato, visto che essa è popolata da tutta una folla di personaggi che non incominciano a fare mai nulla. Vi sono colti sul lavoro soltanto i domestici ed i medici di lusso. La terza categoria di persone attive che abbia un ruolo nel romanzo è, beninteso, quella dei grandi creatori. Ma, data la concezione proustiana della creazione letteraria o artistica, noi non siamo mai testimoni del loro lavoro, non possiamo esserlo per definizione. Fa eccezione il lavoro di Elstir, dato che il narratore, un pomeriggio, osserva il pittore mentre dipinge una tela. Ma, ancora una volta, si tratta di un Elstir arrivato, il cui scopo è ormai raggiunto, che continua ad applicare ciò che ha inventato ed il cui talento non si rinnoverà mai più. Bergotte mostra di sé soltanto l'uomo di mondo, e Vinteuil soltanto il piccolo borghese timorato e perseguitato. Il genio del primo appartiene alla storia, quello del secondo all'avvenire, ma nessuno dei due appartiene alla vita quotidiana. L'attività artistica, che è secondo Proust, in definitiva, l'unica che giustifichi la vita umana, è presente ovunque nella Recherche, ma, per così dire, in filigrana. Senza dubbio alcuni personaggi della Recherche esercitano un'attività regolare, hanno un mestiere — Saint-Loup è ufficiale, Bloch padre finanziere, il signor di Vaugoubert ambasciatore, ecc. — : ma noi veniamo a conoscenza di tutto ciò in modo incidentale e, quando vediamo tali personaggi, ciò accade sempre nei loro momenti di ozio. Se lavorano, si ha l'impressione che ciò accada sempre « al di fuori », quasi clandestinamente, come fanno quelle vedove dei piccoli impiegati le quali, cadute in uno stato di estrema ristrettezza, vanno a 37 A

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« fare la domestica a ore » lontano dal loro quartiere, perché i loro vicini non vengano a sapere nulla. Se si eccettuano i « creatori », il cui lavoro è al di sopra dell'ordinario, si può constatare come, in Proust, le persone che lavorano ufficialmente, come ad esempio il padre stesso del narratore, siano i personaggi più scialbi del romanzo; la stessa cosa che succede del resto per le persone totalmente simpatiche, che vengono subissate di elogi illimitati nello spazio di due o tre righe e che poi scompaiono per sempre dal testo Ma osserviamo come tutti gli altri personaggi, anche se sono sfaccendati, siano ciò nondimeno straordinariamente occupati. Le giornate di Charlus sono tanto piene di calcoli e di manovre quanto quelle di Napoleone. Ora, è proprio in questa agitazione contraddittoria che viene a trovarsi la riserva di caccia preferita della ricerca in profondità proustiana. Il suo terreno è quello della commedia che l'uomo recita per se stesso allo scopo di rendersi interessante, anche nel caso in cui egli sia realmente interessante. Così Charlus cerca di rendersi interessante, anche se lo è veramente; ma, se lo è, ciò avviene a sua insaputa ed evidentemente per motivi diversi da quelli che lui desidera. Secondo l'insegnamento di Proust, si potrebbe definire la lucidità nel seguente modo: sapere se stessi interessanti o non interessanti per gli stessi motivi per cui lo si è realmente. Anche un uomo che lavori quindici ore al giorno può sentire il bisogno di fingere di lavorare ancor più a lungo, allo scopo di conferire alla propria vita una certa importanza, di presentarla agli altri, pur continuando a viverla, sotto forma di una storia raccontata e di conseguenza stilizzata. Il fatto di essere molto attivi non impedisce dunque di comportarsi da oziosi, ed in ogni uomo esiste un'attività essenziale che lo spinge, per quanto egli si trovi a vivere nelle circostanze più faticose che si possano immaginare, a detrarre sempre una particella dell'energia indispensabile al sostentamento ed alla salvezza stessa della sua vita, per avere con essa la possibilità di recitare un personaggio. E soltanto i personaggi di Proust rappresentano questa commedia allo stato puro, poiché ciò che, per essi, è importante, « capitalissimo », coincide 1 Per esempio, il perfetto, squisito, gentile Luxembourg-Nassau, personaggio che esiste nella Recherete soltanto grazie a questa menzione (III, 589) (ed. frane. II, 539).

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molto esattamente con il vuoto totale. Anche Saint-Simon descrive degli oziosi, ma non li giudica in quanto tali poiché egli, appunto, crede nell'aristocrazia. Anche la crudeltà di Proust non è, come quella di Saint-Simon, cattiveria, e neppure indignazione morale, che del resto in Saint-Simon è spesso giustificata. Non si ha alcuno scrupolo a rendere monumentali i lati ridicoli delle persone quando ciò che esse fanno non ha realmente nessun senso. L'ozio e la ^pigrizia dei personaggi della Recherche non è dunque una circostanza sociale accidentale: non è tanto la caratteristica di una particolare classe quanto lo sfondo che è necessario perché possano apparire gli aspetti dell'uomo descritti da Proust. Questo è il soggetto di Proust. E chi è un grande scrittore, se non colui che riesce a trovare un soggetto? Avendo dimostrato come la nobiltà, tutto sommato, non sia altro che un settore dell'alta borghesia, e caratterizzata, nel seno di questa, da semplici manie e ossessioni supplementari, Proust sa trarre profitto da ciò che di ipertrofico cresce all'interno di queste manie ad opera dell'ozio. Così egli contrappone, ad esempio, l'atteggiamento placido e riservato del principe di Borodino — appartenente alla nobiltà dell'Impero, e che ha ricoperto in un passato relativamente recente cariche effettivamente importanti nello Stato — al meschino balletto che l'aristocrazia dell'Ancien Regime balla solo per se stessa, aristocrazia che ha ormai ereditariamente perduto ogni ricordo di quel che possa essere una responsabilità. E ciò può darci una spiegazione retrospettiva dell'ingenuità e dell'incompetenza di uno Chateaubriand, di un Polignac, di uno Chambord, nel momento in cui per un qualsiasi accidente si sono trovati in contatto con la politica attiva. Quanto alla politica passiva, la nobiltà, come si è visto durante l'affare Dreyfus, svolge semplicemente il ruolo dell'ala più reazionaria dell'alta borghesia. Proust distrugge una volta per tutte la vecchia leggenda: poiché la fondamentale mediocrità della duchessa di Guermantes e la sua malvagità sono una delle conclusioni più sconfortanti del libro. Il solo che si salvi dalla mediocrità è un Charlus, e ciò a causa della sua follia, cui il barone è debitore di quell'« angusta breccia che apre l'accesso a Beethoven e a Paolo Veronese » 1 . Ma Charlus, « geniale »

1 V, 214 (III, 206).

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quando parla, se si fosse messo a scrivere avrebbe senza dubbio composto degli insulsi romanzi sentimentali, al posto di quel delizioso repertorio di termini che, per il suo senso superiore della lingua, unito alla sua prodigiosa memoria verbale, sarebbe stato capace di mettere insieme: il « geniale Charlus » d'altronde è misconosciuto dalle persone del gran mondo, proprio in ciò che egli ha di geniale. Comprendere gli altri giorno per giorno nasce da quella che è la preoccupazione essenziale di Proust: la verità. E se sembra che tale ricerca si concluda con un insuccesso o per lo meno con una sorta di stanchezza, ciò accade perché Proust ha saputo rifiutare su tale punto qualsiasi brillante teoria che si fosse presentata con lo scopo di mettere dei pennacchi su quelle cose di cui egli era già sicuro, e perché in tal modo le verità che ha imparato si identificano talmente bene col suo modo abituale di vedere le cose che non hanno per lui più nulla di seducente e si confondono con l'evidenza delle cose quotidiane. Forse, del resto, seguendo Proust, si potrebbe definire la maturità come la capacità di avere una propria vita quotidiana esente tanto dall'esaltazione quanto dalla depressione, o, piuttosto, nella quale l'esaltazione e la depressione non siano gli unici mezzi che ci permettano di sfuggire alla noia. In particolare, Proust è il primo e fino ad ora il solo grande scrittore di tutte le letterature che sia assolutamente a-religioso. Egli non è neppure anti-religioso. Egli non cerca di combattere la religione per mezzo di una metafisica che assuma i suoi stessi contorni pur rifiutandola, e che per negarla faccia appello ad inclinazioni dell'uomo simili a quelle grazie alle quali viene coltivata la fede. Egli si pone immediatamente al di là di ogni pregiudizio, e non può essere sospettato di nessuna tendenza nascosta verso la trascendenza o la morale, il che lo preserva da ogni ricaduta così come da ogni aggressività compensatrice. Se egli non profana, non combatte neppure (Voltaire combatteva, Sade profanava): semplicemente ignora. Mentre il soggetto unico di un Gide rimane il conflitto tra un super-io ancor tutto imbevuto di morale tradizionale e la libertà (« io sono un ragazzino spensierato cui si sovrappone un pastore protestante che lo infastidisce »), il punto di partenza di Proust è quello in cui anche soltanto il ricordo di un simile conflitto è già relegato nella preistoria. Egli può 40

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così affrontare senza difficoltà il problema che ai suoi occhi è forse il più importante: quello della natura reale, e della possibile verità, dei nosri rapporti personali con gli altri esseri umani. « Com'è possibile desiderare di vivere, come si può fare un sol movimento per preservarsi dalla morte, in un mondo nel quale l'amore non ha altro incentivo che la menzogna ...? » In questa società che egli ci dipinge e in cui, quando si tratta di verità morali, alla maggior parte degli uomini interessa non tanto conoscere quanto giustificarsi, in cui essi si sentono tormentati senza essere inquieti, nervosi senza essere realmente preoccupati, in cui, nell'atto di imparare, percepiscono soltanto il fatto sgradevole di avere ignorato, in cui ognuno accusa volentieri se stesso di un errore per poter meglio evitare il ricorso a quei mezzi che gli diano la possibilità di non doverlo più commettere, in cui l'imparzialità è generata soltanto dall'indifferenza e di conseguenza diventa sterile, ed in cui i rapporti con gli altri si trovano dunque ad essere, in tutta l'accezione del termine, estremamente « limitati », a causa della generale assenza di curiosità, il narratore della Recherche ci offre l'esempio di un uomo capace di passare lunghe ore a pensare esclusivamente a qualcun'al, tro, e spesso anche a qualcun'altro che non ha alcuna diretta relazione con le sue preoccupazioni immediate. Egli è costantemente combattuto tra l'aspirazione ad un'esistenza in cui gli altri non contino per noi quasi nulla e soprattutto non possano procurarci delle delusioni e delle sofferenze, ed il bisogno di un'esistenza che, al contrario, attinga interamente il proprio significato da un'altra persona. È di volta in volta attratto o dalla fedeltà ad una « patria » interiore leggermente mitica (ed a questo proposito rifà propria l'ingenua distinzione bergsoniana tra « l'io superficiale » e « l'io profondo ») o dal bisogno di appassionarsi ad altri esseri. Soltanto il lavoro letterario soddisferà contemporaneamente queste due esigenze, ma ciò accadrà soltanto dopo che, nella realtà, Proust avrà tentato di soddisfarle a turno, ora l'una ora l'altra, senza riuscirvi pienamente. Si parla molto spesso di una di queste due ricerche, quella che è diretta verso l'interno, quella del « vero io ». Ma meno sovente si sottolinea

1 V, 94 (III, 94).

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il motivo per cui Proust racconti ciò, per cui lo faccia vivere e vibrare invece di esporne semplicemente il programma e di annunciarne solennemente il principio ed i benefici, il motivo per cui, prima di intraprendere la sua opera, la cosa principale, da un capo all'altro del libro, da cui egli attende la propria salvezza, e che guida la sua stessa vita, sia l'amore. Se è assolutamente certo che « la cosa importante è amare », Proust cade nondimeno, e giustamente, in un pessimismo scoraggiato, poiché in definitiva ogni tentativo per uscire da noi stessi e dipendere sinceramente da un'altra persona non può che condurre alla sofferenza. Ed infatti, per lui, amare veramente significa soffrire; la presa di coscienza dell'amore è la presa di coscienza di una sofferenza, nel momento stesso in cui è troppo tardi per tornare indietro: « Swann vide d'un tratto in se medesimo la bizzarria dei pensieri che veniva volgendo in sé dal momento in cui gli avevan detto dai Verdurin che Odette era già andata via, la novità della sofferenza al cuore che sentiva [...]. Fu costretto a rendersi conto che, in quella medesima carrozza che lo portava da Prévost, egli non era più lo stesso, e non era più'solo; che un essere nuovo era lì con lui, aderente, amalgamato a lui, del quale non potrebbe forse liberarsi, col quale avrebbe dovuto usar riguardi » ecc. Frase cui fa eco un'altra alla fine di Sodoma e Gomorra, quando, dopo la notte in cui si è appena accorto che non potrà mai più fare a meno di Albertine, Proust guarda piangendo, attraverso la finestra della camera del suo albergo, il sorgere del sole sul mare: « Ricordai, scrive, l'ebbrezza che mi aveva data, quando l'avevo scorta dal treno il primo giorno del mio arrivo a Balbec, quella stessa immagine d'una sera che non precedeva la notte, ma il nuovo giorno. Ma nessun giorno ormai sarebbe stato nuovo per me, né avrebbe risvegliato il desiderio d'una felicità ignota; esso avrebbe solo prolungato la mia sofferenza, finché non mi venisse meno la forza di sopportarla » 2 . Ma perché questo pessimismo? Non è che l'amore sia nocivo o fatale in se stesso. Proust non è per nulla romantico, non elabora

1 I, 245-246 (I, 228). 2 IV, 554 [N.J.T.].

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alcuna metafisica dell'amore, anzi, al contrario, si mantiene tenacemente sul terreno dell'empirismo integrale: in sé e per sé, l'amore è veramente la felicità, e, se non lo è, significa che la cosa non può essere « aggiustata ». Meravigliosa umiltà! « Quando si è vicini alla persona amata — dice il signor di Charlus citando La Bruyère — , parlarle, non parlarle, è tutt'uno ». E aggiunge: « Ha ragione; è l'unica felicità... E quella felicità, ahimè, la vita è così mal regolata che ne godiamo di rado » Ne godiamo, infatti, soltanto grazie ad una « coincidenza » casuale, illusoria e provvisoria tra il bisogno che noi abbiamo di un persona e quello che questa persona potrebbe avere di noi, ad una di « quelle coincidenze talmente perfette, che si verificano quando la realtà si inchina e si svolge verso ciò che noi abbiamo sognato tanto a lungo ». Questa è la formula stessa della felicità, tant'è vero che « è umano cercare il dolore e cercare subito dopo di liberarsi da esso ». Si è scritto sovente che in Proust l'amore è una cosa accidentale. Ma, al contrario, se egli si compiace di esagerare il carattere accidentale delle mille circostanze che circondano la nascita di una passione, non lo fa se non per mettere meglio in risalto come la passione, in se stessa, sia la più forte accentuai zione della vita. Proust potrebbe così riprendere e far propria la frase che Kierkegaard, in Aut-Aut, attribuisce all'ipotetico autore dei Diapsalmata: « Ahimè, la porta della felicità non si apre verso l'interno, e perciò non serve a nulla lanciarsi contro di essa per forzarla; essa si apre verso l'esterno, e non c'è nulla da fare ». L'unica differenza consiste in questo: che Proust non ha mai detto « ahimè ». In primo luogo, egli crede nella felicità, nella vita, in tutto ciò che vi è di positivo. Non insegna affatto che la sofferenza sia buona, l'insuccesso giovevole, l'illusione più preziosa della realtà. Dimostra per gli altri lo stesso attaccamento che per se stesso, per le cose lo stesso attaccamento, se non maggiore, che per i suoi « stati d'animo » riguardo alle cose stesse; ne dimostra più per il contenuto della sua visione che per la visione in se stessa, contrariamente ai romanzieri narcisi1 II, 365 (I, 763).

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stici che, come Dostoevskij, tengono più dì ogni altra cosa a proiettare sulle cose il « loro » punto di vista. I personaggi di Proust non sono mai il risultato di una proiezione allucinatoria, ma sempre di un incontro. La loro intensità proviene da loro stessi, e non dalle ossessioni dell'autore. A volte si fa per Proust lo stesso errore di interpretazione che per Montaigne: per il fatto che Montaigne si presenta al lettore sotto forma di analista del proprio « io », sembra che non si riesca più a vedere come, negli Essais, egli parli più di ciò che lo circonda che di se stesso, e che, quando dice « io », si tratta anche qui di un modo per giungere a parlare di ciò che 1'« io » ha visto o letto al di fuori di sé. Contrariamente a tanti scrittori che, pur parlando di cose esterne, in definitiva non parlano mai d'altro che di se stessi, Montaigne, pur parlando di sé, non può far a meno di parlare della realtà esterna. Dal punto di vista di quesia capacità invincibile di uscire al di fuori di se stessi, lo scrittore che, oltre a Montaigne, mi sembra più vicino a Proust, è Molière, non solo per il comune odio nei confronti del bello spirito meschino e del falso mistero, ma anche per l'acutezza della sua vista nella capacità di percepire istantaneamente il comico ambientale, percezione che esige sempre che ci si dimentichi di se stessi. Proust ha detto spesso che il lavoro letterario traeva la sua origine da un io che non era l'io « sociale » della vita di tutti i giorni. Affermando ciò, egli seguiva la moda filosofica del suo tempo ed intendeva reagire contro l'estetica di Sainte-Beuve, senz;a accorgersi che sarebbe stato forse più semplice confutare SainteBeuve constatando come il suo errore non sia quello di voler dare una spiegazione della letteratura attraverso la vita, ma, innanzi tutto, quello di non comprendere la vita. Se si volesse, dopo tutto, scegliere un libro che sia la constatazione di come l'opposizione tra la vita e l'opera, fra l'arte e la realtà non significhi nulla, e che dimostri, al contrario, non la loro identità, certo, ma la loro unità, non dovremmo forse designare, nonostante tutte le sue teorie, proprio il libro di Proust?

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2. Proust contro gli snob « Sois-moi mondarne je suis ton daim » 1. Max Jacob

E uno snob colui il cui atteggiamento nei confronti di una persona umana (e tralascio lo snobismo a proposito degli animali, che è un argomenta complesso e sul quale, mi si dice, sono in preparazione diverse tesi di laurea) non dipende direttamente da questa persona, né dalle impressioni che riceve da essa per effetto della sua presenza, ma da una terza forza, estranea alle qualità ed ai difetti che le sono specificatamente propri. Questo terzo fattore può essere la nobiltà, il denaro, il potere, l'essere in possesso di un'automobile che supera una certa velocità, di un cavallo, di un cane, di un record sportivo o letterario o persino di un titolo universitario; l'appartenenza, presente, passata 0 futura ad una corporazione qualsiasi: scuola, amministrazione, corpo, esercito; o ancora il fatto di aver soggiornato in questo o quel paese, in questa o quella città, o anche soltanto in questo o quell'albergo; di praticare la caccia, la pesca, lo sci, l'alpinismo, la navigazione a vela, il prossenitismo o una lingua straniera; di aver assistito a dei congressi o (in altri ambienti) di aver rubato, ucciso o esser stati in prigione. L'uomo può trovare in tutto materia di snobismo. Così si può esser testimoni, nei drogati, del disprezzo dei fumatori di oppio nei confronti dei morfinomani, e del disprezzo di questi ultimi nei confronti dei bevitori di etere, ecc. In una grande città del Texas esiste un quartiere dove, per tacita convenzione tra i proprietari e le agenzie immobiliari, non si vende un sol pollice di terreno a gente la cui fortuna sia valutata inferiore a un miliardo di dollari. Ora, da un punto di vista strettamente pratico, l'aspetto « residenziale » e lussuoso del quartiere potrebbe certamente esser salvaguardato ad un prezzo molto inferiore. La situazione è dunque qui condizionata appunto da un'immagine, da un totem, da un'idea-barriera, come d'altronde succede in tante città americane dove soltanto pochi metri separano la parte della città dove fa molto chic abitare, da quella dove la vostra residen1 « Sii per me una donna di mondo, io sono il tuo damerino »

[N.d.T.].

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za vi esclude da una certa società, per quanto nessuna differenza di attrattive o di pulizia sia percettibile ad occhio nudo nei settori contigui tra le due zone, ed anzi l'unica cosa che vi indichi il passaggio dall'una all'altra sia lo scarto dei fitti. Sarebbe facile e noioso allungare la lista. La cosa essenziale è il fatto che un'idea si frapponga fra noi ed il nostro simile, e aleggi al di sopra delle nostre teste. L'interlocutore che abbiamo dinnanzi ha un bell'offrirci tutte le più temibili prove di stupidità e di volgarità: noi non siamo capaci di registrare tali prove in quanto tali, poiché siamo immersi fino al collo nell'idea che egli è un campione di scherma, un collaboratore del « Time Magazine », un ambasciatore di Francia o il re dei succhiotti Girard. L'essere più noioso di questo mondo non riesce più ad annoiarci. Attraverso di lui noi entriamo in contatto con l'Idea, e, come dice il signor Verdurin, egli « ne » è (notate il linguaggio della partecipazione magica o platonica). Proprio alla fine, la signora Verdurin, divenuta principessa di Guermantes e semi-moribonda (dato che per lo snob come per l'uomo politico non esistono limiti di età né la pensione), esclama: « Sì, proprio così, faremo clan! faremo clan! Io adoro questa gioventù così intelligente, così partecipe! Ah, che musgiscista siete"! » E, fa notare l'autore, ella era disposta fino alla fine a « partecipare » e a « fare clan ». Fra i titoli di discriminazione più grossolani si incontrano innanzitutto i titoli nobiliari e ufficali, i.1 potere e il denaro. Ma si possono fabbricare milioni di altri principi discriminatori. Più una civiltà diventa complicata, e più i criteri dello snobismo si diversificano e possono anche non aver nulla a che fare, per lo meno in apparenza, con la ricchezza o la forza; lo snobismo moltiplica le sue faccette, si fa instabile, si suddivide, si maschera e giunge sino ad invertire la propria direzione. L'anti-snobismo degli snob infatti non è altro che una variante dello snobismo, che Proust ha catalogato insieme alle altre, quando, ad esempio, scrive che la duchessa di Guermantes « tornò sulle sue posizioni di donna di mondo, ossia di spregiatrice della mondanità » 2. In altre società, lo snobismo resta robusto e semplice, ed ha bisogno di etichette distintive, di segni visibili. In Italia un individuo

1 VII, 331 [N.d.TJ. 2 VII, 374 (III, 1023).

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che non sia in possesso di un titolo, che sia per così dire ridotto a se stesso, non può vivere che un'esistenza inferiore. Chiamare qualcuno soltanto « signore » è sempre un ripiego, una volgarità. Bisogna che sia Dottore, Ingegnere, Commendatore, Avvocato, Professore, Ragioniere l , ecc. Si racconta la storia di quel povero disgraziato che morì schiacciato da un camion perché, avendolo visto un passante in una pericolosa posizione, questi non osò, per paura di umiliarlo, ''chiamarlo dicendogli semplicemente « Signore! » 2 . Per ogni evenienza, comunque, esclamò « Commendatore! » 3 : l'altro (non essendo commendatore) non si voltò, e così morì. Ogni snobismo presuppone un conformismo di partenza, senza il quale si sentirebbe sperduto e perennemente disorientato, in altre parole presuppone l'accettazione acritica di certi valori. La cecità prodotta da tale accettazione può giungere sino al punto di farci consacrare un rispetto religioso ad una gerarchia sociale dalla quale noi stessi siamo stati esplicitamente esclusi: tale è lo snobismo dei domestici, così ben descritto da Proust; e simile è l'adorazione dei contadini per i loro padroni e per qyelle usanze di cui sono le vittime. Il bisogno di esser classificato, anche ultimo, ma di esserlo, rende accettabile all'uomo qualsiasi classificazione. i Lo snobismo ricompone, all'interno di un cerchio limitato da una frontiera artificiale, l'intera scala dei difetti e delle qualità umane. Al di fuori di quel cerchio, qualcuno potrà anche possedere delle virtù, essere gentile o intelligente: ma di tali virtù, per parlare il linguaggio amministrativo, egli non sarà mai il titolare di ruolo. Viceversa, la « gentilezza », il « coraggio », il « brio », ecc., si moltiplicano all'infinito se rifioriscono in un individuo che partecipa all'Idea. Un giovanotto « molto brillante », « molto colto », « che ha molto senso musicale », « molto retto », « molto spassoso », « molto affettuoso », ecc., non parla, non pronunzia una sola parola, non modula se stesso sempre in un identico modo, con una identica intonazione, con un'identica precipitazione, a seconda che si tratti di un individuo « di ruolo » o di uno che sia sprovvisto di qualsiasi status preciso. La nomina « di ruolo » potrà essere opera tanto di un'intera classe sociale, quanto di un gruppo ri1 In italiano nel testo. [N.d.T.]. 2 In italiano nel testo. [N.d.T.']. 3 In italiano nel testo. [N.d.T.].

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Su Proust

dotto a poche persone, o addirittura di una singola famiglia. È nota quella specie di auto-snobismo che unisce in una sorta di ammirazione reciproca i membri di certe famiglie, ammirazione tanto dura a smuoversi quanto poco motivata, e che d'altronde, a volte, non impedisce loro di dilaniarsi gli uni con gli altri. Ma poco importa: dividendo l'umanità tra quelli che sono « dentro » e quelli che non lo sono, lo snobismo ci rende la vita più facile, ci dispensa dal dover sentire e giudicare in ogni caso particolare, e fa dipendere la stima che noi abbiamo di noi stessi alla stima che noi senza restrizione alcuna accordiamo ad un ristretto numero di altri individui. Ogni categoria di snob fa dunque pensare ad una sorta di società segreta la cui coesione si basa sulla feroce custodia di un tesoro inesistente. Dicendo « che questo tesoro non esiste » mi riferisco evidentemente alle giustificazioni ed ai pretesti che lo snobismo dà a se stesso nel campo dei valori morali, intellettuali o estetici. Certamente, alla base di tutto, il tesoro esiste, visto che ogni snobismo difende, perlomeno alla sua origine, gli interessi di una classe, di un gruppo, di un clan o di una consorteria. In ultima analisi, su scala microscopica, non vi è che un solo snobismo, quello del denaro, e di tutto ciò che equivale al denaro: il potere, l'influenza, la celebrità. Ma tra la radice di un fatto e le sue proliferazioni ci corre una grande distanza. Come Marx ha dimostrato nel Diciotto brumaio, ogni costruzione morale viene ad acquisire una sorta di potere autonomo che ha una durata maggiore delle cause che l'hanno prodotta; essa può sopravvivere alle stesse necessità da cui è nata e cui inizialmente opponeva resistenza, e influenzare a sua volta i suoi stessi supporti materiali, continuando a svilupparsi per conto proprio, in un crescendo sempre più incontrollato. Oltrepassando largamente le sue forme più classiche — come quella della vita mondana — e le sue forme mostruose, come l'antisemitismo ed in generale il razzismo, lo snobismo è insondabile e polimorfo. Sempre presente in noi, foss'anche allo stato di residuo impercettibile, esso corrompe in modo molto sottile tutti i nostri atteggiamenti. Falsifica il comportamento persino di quelli che più degli altri vogliono negarlo (esiste uno snobismo all'interno del Partito Comunista e, beninteso, all'interno della Chiesa Cattolica) o che vi si vogliono opporre goffamente con un ostentato 48

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atteggiamento di difesa, attraverso il quale naturalmente esso appare tutto per intero, nello stesso modo in cui in uno specchio si può leggere una scrittura capovolta: il fatto di incanaglirsi non significa altro evidentemente che essere uno snob. Lo snobismo sfuma tutti i rapporti personali nelle società civilizzate, poiché è la riproduzione, per quel tanto che le leggi e l'interesse lo permettono, di quel vasto edificio di inclusioni e di esclusioni nel quale l'etnologia ha? veduto un fenomeno fondamentale di ogni vita sociale. La persona che si snobba è quella che, in certi sistemi sociali arcaici, in cui esistono solo due categorie di esseri umani, i parenti ed i nemici, normalmente si ucciderebbe. Scoprendo ed enunciando in modo estremamente preciso le tracce anche più deboli di snobismo che si trovano ovunque diffuse nella natura, che esse si trovino allo stato cristallizzato, fossilizzato, fluido o gassoso, Proust ne percepisce l'ubiquità, la mimica, le ramificazioni. Senza mai stancarsi, si diverte a decifrarne le parole e gli atti facendo uso della griglia, da lui fabbricata, dell'anti-snobismo. Ovunque entri, la prima cosa dove il suo occhio e la sua sensibilità penetrano, attraverso le persone che egli guarda, è l'oscuro stambugio in cui palpita i.1 segreto della loro maschera. Egli, innanzi tutto, incide i contorni di tale segreto, lo isola, lo mette alle strette, e si diverte a vedere lo snob « di ruolo », o quello candidato alla promozione, agitarsi, fare e rifare senza posa il tragitto triangolare che lo conduce, partendo dalla o dalle persone presenti, sino al Valore di cui è schiavo, per ritornare infine, dopo aver consultato tale Valore, ai suoi (se così si può dire) sentimenti. A volte, Proust prolunga apposta l'esperienza, tortura sadicamente lo snob. Lascia, ad esempio, che la signora di Cambremer, snob intellettuale, si sbilanci completamente nella sua condanna di Poussin, che essa crede sempre fuori moda, e poi dà con negligenza l'annuncio che a Degas piacciono molto i Poussin di Chantilly. « Eh? — rispose lei —. Non conosco quelli di Chantilly, (...) ma posso parlare di quelli del Louvre: sono degli orrori. — Egli ammira enormemente anche quelli. — Bisognerà ch'io li riveda. Tutto ciò è un po' vecchio nella mia testa, — ella rispose, dopo un attimo di silenzio e come se il giudizio favorevole che certo avrebbe presto dato su Poussin dovesse dipendere non dalla notizia che or ora le avevo comunicata, ma dall'esame supplementare, e 49

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questa volta definitivo, a cui contava sottoporre i Poussin del Louvre, per avere la facoltà di cambiare opinione » E nel suo sguardo sognante si posson leggere, come i raggi dell'aurora, i primi segni di quella virata che la condurrà infallibilmente, quindici giorni dopo, ad amare Poussin. Lo stesso Morel, così fiacco, così poco preoccupato dell'altrui disprezzo, ha tuttavia il suo segreto tallone d'Achille: la sacrosanta lezione di violino al Conservatorio. Il mondo intero potrebbe considerarlo come nulla più che un immondo piccolo manigoldo: l'unica idea che lo fa tremare è che qualcosa di tutto ciò possa trapelare in rue Bergère. Per quale cecità si è dunque a volte potuto considerare Proust come un romanziere della vita mondana, per quanto eccezionale, un romanziere il cui merito essenziale consisterebbe nell'aver saputo trarre il profondo dal superficiale, rendere umana una materia in: grata, in altre parole una specie di Saint-Simon dell'alta borghesia? Saint-Simon crede nella realtà dell'aristocrazia del sangue, ma ogni giorno è costretto a constatare delle meschinità e dei misfatti che assestano dei colpi alla sua stessa fede, scuotono le basi della sua esistenza e rendono indifendibile il suo sistema morale; donde quell'amara ferocia, quell'indignazione sardonica che si riscontrano nelle Mémoires. Là dove Saint-Simon-Alceste2 soffre, ProustFilinto3 è tutto ironia, sensibile solo alla comicità pura. Alcuni pretendono che Proust descriva la vita aristocratica e mondana per l'interesse che essa presenterebbe di per se stessa; altri par il fatto che, essendo mezzo ebreo, egli non vi sarebbe mai stato veramente ammesso e sarebbe da essa affascinato. Queste due interpretazioni si adattano entrambe molto bene a persone che non hanno mai neppure aperto la Recherche du temps perdu. Se la prima fosse esatta, sarebbe altrettanto esatto dire che La farce de maitre Pathelin è uno studio sulla situazione del Diritto nel

1 IV, 230-231 (II, 813). 2 È il nome del « misantropo » di Molière, caratterizzato dal contrasto tra la sua rigida e censoria dirittura morale e il clima di spregiudicata allegria i n c u i egli s i trova a vivere, quello della società dorata del Seicento francese. [N.d.T.]. 3 Altro personaggio del Misantropo di Molière, rivale in amore di Alceste, e simbolo del buon senso e di chi accetta gli uomini e la vita come sono. [N.d.T.].

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XV secolo. Quanto alla seconda, essa trae la sua origine da quella piatta applicazione di rimasugli di psicanalisi mal digeriti, secondo cui tutto quel che noi facciamo è sempre destinato a porci al riparo da un fortissimo desiderio di fare il contrario, o ad ingannare, pur dissimulandolo, il nostro dispetto per non averlo potuto fare. Senza alcun dubbio esiste, in Cervantes, un amore segreto ed una nostalgica tenerezza per i romanzi cavallereschi. Ma il tono dj, Proust non può ingannare. Nessuna eco affettuosa risuona dalle profonde cavità della sua satira. In lui, d'altra parte, non si tratta semplicemente di satira: questa presupporrebbe che l'autore abbia in un primo tempo preso sul serio ciò di cui si burla; infatti, se non si trattasse che di questo, non si potrebbe capire per quale motivo noi possiamo rileggere sempre provando lo stesso piacere le pagine sulla stupidità del signor di Norpois o quelle sullo scaltro egoismo dei Guermantes, né per quale motivo i lettori che non hanno mai conosciuto esemplari di simili tipi sociali potrebbero dimostrarvi un interesse. La « demistificazione », per avere un senso, presuppone una mistificazione iniziale. La forza della satira proustiana, come della satira della Preziosità in Molière, dipende dunque da qualcosa di diverso, ed affonda le proprie radici molto più in basso del semplice terreno sul quale camminano quegli individui a spese dei quali essa viene esercitata. La Recherete du temps perdu non è né il romanzo vendicativo di uno snob deluso o schernito, né la cronaca del crepuscolo di una società, o la descrizione scettica e crudele della mondanità, in cui eccelleva la penna abile di quella M.me Gyp che era tanto apprezzata da Nietzsche, o la penna amara e rabbiosa dei Goncourt, il cui diario, infatti, in questo campo, fa scoccar l'ora della disillusione, della caduta delle maschere e dell'apparizione dei tic. Proust non ha mai avuto bisogno di scoprire i limiti del « bel mondo », per il semplice fatto che non ha mai creduto in esso. O, più esattamente, egli ha creduto nello spirito, nel fascino del « bel mondo » ancor prima di conoscerlo, e le sue illusioni sono svanite nel momento stesso del suo primissimo contatto con la realtà. Il capitolo II dei Guermantes (ammesso che si possa parlare, in Proust, di veri e propri « capitoli »), Lo spirito dei Guermantes davanti alla principessa di 7arma, è stato scritto appositamente per raccon-

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tare ciò. Le sue lettere a Reynaldo Hahn, nelle quali egli prende in giro le ninfe Egerie parigine ed imita lo stile da esse usato negli inviti, dimostrano come l'uomo che, a vent'anni, collaborava alla « Revue Bianche », non abbia avuto bisogno di liberarsi da alcun « periodo mondano ». E tuttavia, è raro incontrare dei lettori di Proust che non credano che la Recherche contenga, oltre alla critica, l'ammissione di una certa dose di ammirazione e di un malinconico addio. Questo significa confondere Proust, ad esempio, con GabrielLouis Pringué, il simpatico autore di Trente ans de dìners en ville. Pringué crede nel « bel mondo », e ce lo rappresenta esattamente secondo l'immagine che di esso si facevano, nel 1900, quelli che non ci andavano mai. Pur essendo di quelli che ci andavano, egli lo vede con gli occhi di costoro. Per lui, i salotti sono popolati di donne « diabolicamente » belle (è il suo avverbio tipico); le regine hanno sempre un portamento da regina, gli autori alla moda fanno il loro ingresso « lanciando tre o quattro motti di spirito », allo stesso modo in cui, nell'immaginazione dei bambini, gli eroi del Far West non possono fare un passo senza sparare dei colpi di pistola. Le duchesse sono sempre molto « buone », e le marchese hanno sempre un senso tale della battuta pronta, da farvi rimanere secchi. Pringué cita estasiato un'infinità di « motti » e di « battute » celebri fra gli elegantoni dei cinque continenti tra il 1900 e il 1914, che sono di una vacuità talmente deprimente che ( in essi è impossibile scoprire — foss 'anche allo stato fetale — la più piccola ombra di senso dello spirito, tanto che il suo libro rischia un giorno o l'altro di esser scambiato per la requisitoria di un atrabiliare, alla stessa stregua degli Annali di Tacito. Sul piano morale, Pringué crede che esistano i buoni tutti buoni ed i cattivi tutti cattivi, come nelle « chansons de geste », o come nei western. A dir la verità, Pringué non ha scritto altro che un western della vita mondana. Egli crede nelle virtù delle persone di mondo, così come un bambino è sicuro in anticipo che Davy Crockett o Billy Kid avranno sempre coraggio e non mancheranno mai il bersaglio. Ma, ahimé, non sempre la virtù trionfa: e bisogna rileggere quella pagina straziante in cui Pringué lancia alti lamenti quando racconta di 52

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come le signore da poco « arrivate », e prive di una posizione mondana legittima, arrivino a intrufolarsi dappertutto, di come siano capaci di impadronirsi persino della presidenza delle società di beneficienza e delle organizzazioni delle opere pie, facendo uso esclusivamente del loro denaro. Infine, sul piano metafisico, il fatto di far parte della « crema », come egli la chiama, è, per Pringué, sicura garanzia che l'essere umano possiede ideile qualità di intelligenza, bellezza, bontà, inseparabili ed inalienabili dagli stessi individui (allo stesso modo in cui gli Scolastici pensavano che il Secco, l'Umido, il Caldo e il Freddo erano proprietà che potevano costituire l'essenza stessa di certi corpi). Parlando, ad esempio, di una donna « diabolicamente » bella, egli scrive: « Aveva la statura di una vera statua ». Ciò significa che, per Pringué: 1° esistono delle statue vere e delle statue false; 2° soltanto le statue vere hanno una bella statura; 3° le donne che non fanno parte della « crema » rassomigliano alle statue false. Tutti punti di vista che, certo, bisogna attribuire più all'ingenuità che alla malizia. E non mi tratterrò oltre su questo autore, al quale dedicherò appositamente un'opera importante. Ma questi accenni, per quanto troppo sommari, consentono per lo meno di dire che il libro di Proust è tutto l'opposto di 1 quello di Pringué. A la recherche du temps perdu può esser paragonato ai Trente ans de diners en ville assai meno di quanto il Don Chisciotte possa essere paragonato ali'Amadis-, si può dire piuttosto che la Recherche è, sotto questo come sotto altri aspetti, il rovescio della Comédie humaine. Infatti, quanto al fatto di credere alla grandezza innata degli individui che fanno parte della nobiltà, o alla superiorità della sostanza umana nelle donne del faubourg Saint-Germain, Balzac possiede la stessa fede di un carbonaio. Quanto a Saint-Simon, bisogna che egli arrivi fino alla corte di Spagna per riuscire finalmente a trovare un'etichetta che lo soddisfi pienamente, un cerimoniale che rifletta e materializzi le disuguaglianze di rango e di sangue nel suo ordinamento esteriore: e questa è la riprova di quanto sia un sogno dello snob il poter realizzare attraverso degli oggetti esterni o render palese mediante delle uniformi quella gerarchia che egli vorrebbe creder fondata sulla stessa natura umana. Spinto da questa ossessione di valutare il rango 53 5

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di una persona in base, ad esempio, al posto cui essa ha diritto in chiesa durante una cerimonia, oppure in base al diritto di coprirsi il capo, o a quello di passare o non per prima attraverso una porta, in breve in base alla topografia, Saint-Simon arriva sino al punto di scrivere: « Madrid è una bella e grande città, e si può dire che è proprio il suo andamento disuguale, con diversi punti in forte pendenza, quello che ha dato origine a tutte queste distinzioni di cui ho appena parlato » \ Proust, al contrario, non tenta neppure di giustificare la vita mondana nel modo in cui lo si fa spesso, quando cioè ci si sforza di dimostrare come, pur non essendoselo meritato, gli snob hanno tuttavia una funzione di ornamento, forse inutile ma delizioso, in ogni società che si dica civilizzata. Non esiste altro romanzo che, al pari del suo, distrugga con tanta semplicità la leggenda secondo cui l'ozio, la ricchezza e il rinchiudersi in una cerchia ristretta di relazioni personali costituiscano le condizioni più propizie per la fioritura delle migliori qualità dello spirito e della raffinatezza nelle buone maniere. In un primo abbozzo del personaggio di Charlus, quando questi ha ancora il nome di M. de Quercy, si può leggere: « Venne a Parigi. Era al suo venticinquesimo anno, d; una grande bellezza, e, per essere un uomo del gran mondo, pieno di spirito ... » 2 . E dopo la mancanza di spirito, l'ignoranza: lo si può sentir parlare della « straordinaria ignoranza di quel pubblico » 3 , che è il pubblico che si trova riunito, nel Tempo ritrovato, alla matinée della principessa di Guermantes. Si può dire così che non è soltanto per interesse psicologico, ma anche per curiosità etnologica, che Proust passa minutamente in rivista e riproduce con crudele precisione il modo di parlare delle persone del « gran mondo ». Il linguaggio delle persone false è anch'esso falso perché è privo di qualsiasi centro naturale e, mancandogli una qualsiasi sorgente, ha lo stesso aspetto di quei ruscelli dei presepi provenzali fatti di ritagli attorcigliati di carta argentata. Il cattivo francese del duca di Guermantes (persino i « cuirs » 4 di

1 Mémoires, cap. LXVI. 2 Contro Sainte-Beuve. La sottolineatura è mia. 3 VII, 351 (III, 1002). 4 II « cuir » è un legamento scorretto nell'uso parlato della lingua francese (per esempio; il s'en va-t-en guerre invece di il s'en va en guerre). [N.ii.T.].

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Françoise sono preferibili), contrapposto alla lingua elegante e corretta che viene parlata con naturalezza da tanta gente del popolo, da Jupien per esempio, non riuscirà mai tuttavia ad ispirarci un senso di disagio pari a quello che ci proviene da quelle volgarità di vocabolario e di sintassi, da quel miscuglio fatto di parole difficili mal digerite, di « argot » rileccato, di espressioni familiari artefatte e di silenzi suggestivi con cui tanti « uomini di mondo » sembrano colersi scusare del fatto di non possedere né una lingua né un linguaggio, e che, per esempio, troviamo in questi discorsi fatti al narratore da Gilberte de Saint-Loup: « Come mai venite a ricevimenti così affollati? ... Incontrarvi in un simile caravanserraglio non quadra con la mia idea di voi. Mi sarei aspettata di vedervi dappertutto fuorché a uno dei grandi traíala di mia zia, dacché zia ha da dirsi... » \ Di fronte all'aristocrazia e alla ricchezza, Proust è una delle persone meno impressionabili che esistano, così come, di fronte alla stessa nozione di « élite » sociale, è fra quelle che sono ad essa più estranee. Egli ci fa vedere ovunque la stupidità e la grossolanità delle persone dell'alta società e, se capita di non prestare molta attenzione a questo particolare argomento, ciò è dovuto al fatto che esso è talmente ovvio che, per quanto sia presente in modo costante, rimane per così dire ai margini della parte principale del racconto e non si sostituisce mai direttamente ad esso nel corso del suo svolgimento. Capita tuttavia che, nella Prigioniera, egli dichiari espressamente il suo disprezzo, nel passo in cui racconta della serata musicale organizzata dal barone di Charlus, in onore di Morel, in casa della signora Verdurin. Ci si ricordi di come, su richiesta della « padrona », Charlus abbia invitato quasi unicamente gente appartenente al suo mondo, e di come costoro si comportino così male che la signora Verdurin, per vendicarsi, convince Morel, alla fine della serata, di piantare in asso definitivamente il barone. « A rovinare quella sera il signor di Charlus —• scrive Proust — fu la cattiva educazione, così frequente nel gran mondo, dei suoi invitati... Più di una,

1 VII, 332 (III, 984). [La traduzione italiana non mette in evidenza tutte le improprietà linguistiche di Gilberte: p.es., « affollati » traduce « nombreuses », cioè « numerosi », « caravanserraglio » traduce « tuerie », che significa massacro, macello; « ... non quadra con la mia idea di voi » avrebbe dovuto essere tradotto, alla lettera, « n o n è cosi che io vi schematizzavo», ecc. N.d.T.].

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sentendo parlare della signorina Vinteuil, diceva: — Ah! la figlia della Sonata qual'è? — ... Un duca, per far vedere che era un intenditore, dichiarò: — È molto difficile da eseguire —- » 1 . E Proust conclude: « Essendo il gran mondo il regno del nulla, tra i meriti delle diverse donne di mondo non esistono che differenze affatto trascurabili, che soltanto i rancori o la fantasia d'un signor di Charlus possono follemente ingrandire » 2 . È buffo constatare come talvolta un'opera possa venir tenacemente considerata, anche per dei secoli, com'è successo per il Parnaso di Mantegna, come una specie di arringa in favore di quelle idee che era sua precisa intenzione confutare, e di quei personaggi che essa ci dipinge come odiosi o grotteschi. Se oggi capita di sentir definire « proustiano » chiunque coltivi le apparenze esteriori della raffinatezza, o un qualunque efebo del Quai d'Orsay che sussurra un francese atonale, o una qualunque sedicente scrittrice che si crogioli nelle sue complicazioni, o un qualsiasi energumeno erculeo e pieno di sangue che, inventandosi una nevrosi, fa una questione d'onore del fatto di restarsene a letto tutte le sere fino alle undici, per meglio rassomigliare a Proust, che faceva la stessa cosa quand'era moribondo — allora si può essere sicuri che un bel giorno si sentirà forse definire Il Capitale un inno, che con velata sensibilità e con tenera ironia illustra le delizie della condizione operaia nel XIX secolo. Il personaggio verso il quale Proust si dimostra più duro, nonostante le qualità che a più riprese gli riconosce, è in definitiva la duchessa di Guermantes. Alla fine si accanisce contro di lei più ancora che contro il duca. Quest'ultimo è un personaggio tutto d'un pezzo, nettamente definito nei suoi titoli, nella sua posizione mondana, nei suoi piaceri, nel suo denaro, nel suo egoismo. Non finge di coltivare una morale diversa da quella di cui ha bisogno per potersi sentire a proprio agio. La duchessa, al contrario, è una che fa il doppio gioco. La prima cosa che Proust ci fa vedere, parlando di lei, è la condiscendenza di cui può usufruire una donna pressoché sprovvista del senso dello spirito quando viene ad acquistare nel gran mondo la fama ufficiale di quella che ha sempre la battuta buona: il sorriso dei

1 V, 246-257 e 271. 2 V, 290 (III, 245 e 276).

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presenti ha naturalmente soltanto per un decimo la propria origine nella « battuta », e per gli altri nove decimi nella potentissima posizione mondana dei Guermantes, i quali riescono a divertire il prossimo allo stesso modo in cui un principale in vena di giovialità riesce, durante un banchetto, a fare « sbellicare dalle risa » i suoi impiegati. Infatti, se ci si fa attenzione, le famose « battute di Oriane » sono sempre assolutamente idiote. Quando le cita, Proust si mette a fare deliberatamente la stessa cosa che Pringué fa a propria insaputa: far vedere cioè quanto sia basso il prezzo che è sufficiente pagare, in un ambiente falsificato dallo snobismo, per farsi la reputazione di esser infinitamente dotati del senso dello spirito. Con estrema crudeltà egli mostra in modo particolareggiato tutto l'istrionismo della duchessa, che ripete sempre le sue solite « battute » dinanzi ad uditori successivi, fingendo prima di schernirsi o di averle dimenticate, e poi lasciandosi forzare la mano dal duca, dato che tra loro se la intendono come i ladri di Pisa. Il movente è uno solo, ma mille sono i pretesti per le preferenze e le azioni: la duchessa vuol farsi passare da bohémien, ma sposa come per caso, e con l'aiuto del « genio della famiglia », il partito più ricco di tutta la Francia. Si spaccia per un'intenditrice di letteratura e di arte, ma non può far altro che ripetere dei chlichés (« Ah, capisco, voi venite per osservare », dice con aria grave a Proust, sapendolo scrittore, nel corso della matinée presso la principessa di Guermantes, nel Tempo ritrovato). Nelle Lettres a Reynaldo Hahn, si possono leggere delle imitazioni della contessa Greffulhe (Lettere LII, LUI, LV, e LVI) che ci rivelano un Proust giovane altrettanto poco ingenuo quanto lo sarà il futuro narratore della Recherche. Dal momento che Proust ha dipinto della gente del gran mondo, e dei letterati « artisti », si confonde l'autore con quello che è il suo soggetto: ci si dimentica che se lo stile di Proust è denso, complesso, carico — il che succede per lo meno qualche volta, poiché spesso è anche di una leggerezza vaporosa — resta in ogni caso di una semplicità costante, ed è essenzialmente e profondamente naturale; non esiste, da un capo all'altro della Recherche, alcun segno di affettazione, o un solo preziosismo, un solo arcaismo, un solo giro di frase « elegante ». Infine, per parlare di quel campo in cui l'educazione ha a 57

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che fare con la morale, Orlane professa il culto dell'amicizia: però si comporta in un modo rivoltante quando Swann è moribondo, e poi, dopo la sua morte, tradisce la sua memoria quando, ricevendo a pranzo, nella fuggitiva, Gilberte Swann, divenuta per adozione Gilberte de Forcheville, insinua con il proprio atteggiamento di non aver conosciuto che molto vagamente l'ebreo Charles Swann, proprio lei che, per tanti anni, era stata la sua « più grande amica ». Per il narratore della Recherche è esistito un fascino della duchessa di Guermantes soltanto all'epoca in cui non la conosceva ancora, quando per lui essa non era altro che una diletta creatura della sua immaginazione, ed egli la seguiva per la strada senza averle ancora mai parlato. Ma tutto questo fascino si spezza fin dalla prima cena, fin dalla primissima conversazione: e non è forse questo uno degli effetti più voluti di tutta la storia? La duchessa da quel momento non è altro che una snob di infimo ordine, che crede di essere tutto quel che non è, che si fa passare per una che si interessa di tutto, tranne che dell'unica cosa che la interessa realmente: la sua posizione mondana. Questo è il carattere specifico dello snobismo: quello di giudicare tutti i valori secondo un unico peso ed un'unica misura, e restare nello stesso tempo della convinzione di valutare ogni singola situazione secondo un criterio disinteressato, in nome dell'amore per la verità, della « qualità », e di un alto concetto della natura umana. Legrandin si fa passare per un poeta, per un amante della natura, per un eremita, mentre in realtà il suo unico sogno è quello di essere « visto insieme ». I Verdurin assicurano che il loro salotto si basa sul principio dell'imparzialità per quel che riguarda la ricerca dei veri talenti, ma se un artista smette di frequentarli, o •— meglio ancora — muore (due modi altrettanto imperdonabili di « abbandonare »), smette immediatamente, ai loro occhi, di avere del talento e si trasforma in una « persona noiosa ». Evidentemente i Verdurin fanno parte della categoria più elevata, che è quella caratterizzata dall'autosnobismo: sono gli snob di se stessi. E tuttavia lo snobismo, per quanto intransigente in apparenza —• quasi non prestasse attenzione ad altro che ai valori eterni, quando in realtà è completamente schiavo delle fluttuazioni della fortuna, delle posizioni sociali, della celebrità — è continuamente

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condannato ad infliggere a se stesso delle cocenti smentite. I principali eroi di Proust sono gente che di solito si prostra ai piedi di quelle stesse persone di cui, vent'anni prima, si sarebbe persin rifiutata di fare la conoscenza (e molto spesso si sposa con esse). Bloch, Rachel, Gilberte, Odette, la signora Verdurin vanno all'assalto del faubourg Saint-Germain a colpi di denaro sonante e di rapporti sessuali. Quando Morel, che è il personaggio più astuto e piìÌ disonesto del libro, viene citato come testimone in un processo, la sua reputazione di alta onorabilità, acquistata grazie alle sue relazioni, conferisce alla sua testimonianza e alla sua parola, in mancanza di ogni altra prova, una tale autorità da renderla determinante ai fini della decisione della giuria. Perché dunque — ci si può chiedere •— tanti anni di meschine crudeltà e di sofferenze, se si tratta solo dopo tutto di arrivare a questo punto, perché tante vite di snob consacrate ad una custodia gelosissima di principi immaginari, perché tanta sottigliezza e tante astuzie per rincorrere un'ombra che esiste solo in virtù di tutti i mille sforzi vani che vengono spesi, senza alcun profitto, al solo scopo di raggiungerla? Nel romanzo di Proust lo snobismo gioca lo stesso ruolo di un'esca verso la quale le ambizioni, i desideri e le passioni dell'uomo si lanciano -i a capofitto, dimostrando allo stesso tempo quanto essi siano sproporzionati e senza alcun reale riferimento con quell'oggetto insignificante cui prestano tanta attenzione. Quest'oggetto non è altro che quella lepre di cui parla Pascal nel frammento sul divertissement, quella lepre che ci si stanca ad inseguire tutto il giorno e che « non vorremmo neppure, se ci venisse offerta in dono ».

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3. Proust e la politica « L'organza era il suo tormento. Ella sognava di possederne una originaria dell'India, che avvolgesse il suo corpo come in una nuvola di neve, che la drappeggiasse, seguendo i suoi movimenti, secondo pieghe tristi e lunghe che dessero la sensazione dell'abbandono del salice che si ripiega verso la terra, con quel senso di pesante prostrazione che danno tutte le cose leggere ». Contessa Greffulhe « Quel tedesco andava pazzo per l'arte, per i foulard e per le pollastrelle ». Max Jacob « Si perdonano i crimini individuali, ma non la partecipazione a un crimine collettivo ». Marcel Proust

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Balza dunque evidente dalla Recherche come l'ozio ed il denaro non siano affatto i mezzi più adatti per affinare il proprio gusto, ma al contrario servano soltanto a spingere forzatamente, e contro le proprie inclinazioni, una quantità di sventurati ad occuparsi di arte, i quali naturalmente, se non avessero avuto quest'impellente necessità di salvare la faccia, non si sarebbero mai lasciati condannare ad un simile supplizio ed avrebbero contemporaneamente risparmiato al prossimo quello di doverli stare ad ascoltare. Basterebbe che tutti costoro fossero stati dei poveri miserabili, e sarebbe diventata completamente inutile anche tutta quella produzione artistica che vien fuori su misura per loro: la letteratura decaffeinata, la pittura predigerita, e in generale ogni avanguardia retrospettiva. Proust distrugge il paradosso della funzione sociale degli snob, il mito della purificazione ereditaria del gusto, e fa vedere come l'educazione aristocratica e grandeborghese non apre la strada del Louvre ma quella della Galleria Charpentier Dimostrazione tanto più valida quanto più Proust non ha considerato la sua una battaglia vinta in partenza. Scegliendo come campione della nobiltà la duchessa di Guermantes, e come campioni della grande borghesia i Verdurin, egli ci di-

l Scomparsa nel 1965, questa galleria del faubourg Saint-Honoré era celebre per la sua incorniciatura mondana e per la mancanza di rigore di cui davan prova le sue esposizioni.

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pinge degli snob anti-snob liberi da ogni provincialismo, quelli che Jacques-Emile Bianche1 definisce « la crema ribelle della rocietà » 2 . La «padrona» è «nature». La duchessa di Guermantes dice volentieri: « Non vi piace il gran mondo? Avete ben ragione. È asfissiante. Se non ci fossi obbligata! » 3 . Per di più, Proust fa dell'ironia sulle persone che fanno suonare il piano al signor Vinteuil durante le loro matinées, o che hanno lanciato Elstir alla ribalta (che sono soprattutto i Verdurin, dato che la nobiltà si è accodata), e che sperano di poter passare un giorno alla storia — egli lo ripete spesso — per persone all'avanguardia della propria epoca, che hanno protetto le arti e praticato un mecenatismo illuminato. E visto che tutto ciò corrisponde al vero, è proprio per questo che acquista valore un verdetto che sarebbe assai meno significativo se Proust si fosse limitato a dipingere la decadenza di un certo ambiente. Lungi dal poter essere considerata come la descrizione di una decrepita decadenza dei salotti, o di qualcosa che sia ad essi equivalente, la Recberche distrugge la tenace leggenda che porta sempre ad invocare un passato brillante per le persone del gran mondo, a ricercare il tempo in cui esse erano veramente colte, una specie di età dell'oro dello snobismo." Ma la distruzione di tale leggenda viene ad avere un'efficacia retroattiva perché è proprio questa sedicente età dell'oro, anche se si parla del XVIII secolo, che, al contrario, viene ad essere sminuita dal presente, da tutto quel lavoro di trasfigurazione e di abbellimento del recente passato cui noi veniamo ad assistere. « Ci piacerebbe aver conosciuto Madame de Pompadour, che seppe protegger così bene le arti, e ci saremmo annoiati con lei come con le moderne Egerie, presso le quali non possiamo risolverci a tornare, tanto sono mediocri » 4 . Pensiamo a Musil: benché il suo tono sia diverso, e benché si sia assegnato uno scopo del tutto diverso, tuttavia, se si prende in considerazione L'uomo senza qualità nel suo filone satirico, quale semplicità eccessiva nella personalità caricaturale di una 1 Pittore, ritrattista, scrittore e critico d'arte francese (1861-1942). [N.d.T.]. 2 J.-E. Bianche: De Gauguin à la Revue Nègre. [Quest'ultima espressione, « le gratin révolté », potrebbe anche esser tradotta « l a crema contestatrice ». N.d.T.]. 3 III, 418 (II, 380). 4 III, 621 (II, 569).

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polìtica

Diotima! In questa sorta di signora Verdurin viennese, il lato ridicolo consiste soprattutto nel contrasto uniforme tra ciò che essa è e l'Ideale cui vuol far riferimento: una signora Verdurin che non ha mai ragione, ed i cui gusti, le cui idee, sono tutte buffe. Per di più essa giunge all'esistenza comica grazie alla sottigliezza allusiva dello stile di Musil, di questo stile diffuso e insieme lapidario in cui la profusione si unisce misteriosamente alla concisione. Mdh capita mai che Proust renda comici Í propri personaggi in virtù del suo stile, o, meglio, egli non li rende mai comici, né li rende odiosi. Avrebbe potuto tranquillamente non fare apparire altro che tutte signore di Cambremer, simili a quella povera bestiola spaurita che essa è e che, suppongo, doveva necessariamente preferire L'éducation sentimentale a Madame Bovary, che sarebbe stata capace di svergognare pubblicamente l'opera italiana nel 1945 per poi adorarla senza alcun discernimento nel 1960, che vomita Chopin quando è di moda soltanto Bach, e che viene inondata da sudori freddi se viene a sapere che il Tal dei Tali ha fatto l'elogio dell'« incomparabile scrittura pianistica » di Chopin. Oppure avrebbe potuto ancora accanirsi contro l'immortale genìa delle Odette de Crécy, che si mettono ad ascoltare Vivaldi tenendo a portata di mano le Voix du silence1 e tutti gli album Skira. Sarebbe stato allora, però, un prendersela con dei poveri diavoli, sempre pronti a balbettare e a battere in ritirata dinanzi al primo aggrottamento di sopracciglia dell'interlocutore. Ma mettendosi a picchiare proprio sulla testa, svelando le molle che fanno mettere in moto i capofila, i furbacchioni cui capita sempre di cavarsela pestando i piedi agli altri, Proust ci porta diritto al nocciolo di quello che è il prestigio intellettuale retrospettivo — e soltanto retrospettivo — di certi ambienti delle classi dirigenti: a scoprire cioè che sono proprio essi i parassiti degli scrittori e dei pittori, e non il contrario. I mecenati, più che dei protettori, sono dei sostenitori. Del resto non capisco per quale motivo si parli sempre, in storia dell'arte, di « mecenatismo », per designare l'atto di comperare quel prodotto di un lavoro che è un quadro, un mobile, un ciclo di affreschi o una statua. A meno che non si riesca a provare che l'artista era innanzitutto in uno stato di miseria totale, e che

1 Opera di André Malraux (1951).

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il compratore non sentiva alcun bisogno della cosa da lui ordinata, e che si è affrettato a distruggerla, cosa che capita assai di rado, evocare la generosità a proposito di una operazione commerciale per il semplice fatto che essa ha a che fare con un'opera d'arte, rivela un profondo disprezzo per l'arte. Quando io compero delle sardine sott'olio dal pizzicagnolo o un fornello a petrolio dal mesticatore, costoro si sentirebbero parecchio offesi se dicessi loro che io mi considero il loro mecenate. Perché dunque, quando si acquista una tempera a un pittore poco conosciuto, si fa la cosa con lo stesso atteggiamento protettore di chi fa la carità, nella ferma speranza, data la fiducia incrollabile che ognuno ha nel proprio gusto, di far salire le proprie quotazioni? L'argomento dell'inutilità non ha alcun valore, perché un fornello a petrolio qualche volta si guasta, e perché un profumo o un cappellino sono altrettanto inutili, eppure l'intera clientela è disposta a pagarli carissimi ed a provare nello stesso tempo un sentimento di riconoscente inferiorità e di rispettosa colpevolezza. Gli unici personaggi proustiani che sentano un bisogno reale dell'arte e delle lettere, e che abbiano acquisito di esse una certa competenza, sono Swann e Charlus: ma si tratta di personaggi che vivono ai margini e si trovano, per così dire, fuori sesto, e che, d'altronde, quando ricevono una qualche stima nel loro ambiente, questa viene loro elargita per motivi del tutto diversi da quelli che sono i loro meriti reali. La loro influenza in questo campo ha tutt'al più il valore di un piccolo contributo supplementare alla loro influenza mondana, e diventa degna di nota solo nel caso in cui quest'ultima sia molto forte. Nello snobismo come nell'amore, dopo che l'incantesimo si è rotto, non resta più nulla di quei benefici positivi che sia l'uno che l'altro erano in grado, si pensava, di trasmettere più agevolmente agli altri. Swann, per quanto troppo severo nei confronti di Violletle-Duc ha doppiamente ragione quando, venendo a sapere della visita che Odette va a compiere con i Verdurin nel castello di Pierrefonds, esclama: « Pensare che potrebbe visitare veri monumenti con me che ho studiato architettura dieci anni e di continuo sono pregato di accompagnare a Beauvais o a Saint-Loup-de-Naud

1 Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc, celebre architetto e scrittore francese, nato a Parigi, autore di preziose opere di archeologia. [N.