Storia delle scienze. Fisica - Chimica [Vol. 2] [PDF]

  • 0 0 0
  • Gefällt Ihnen dieses papier und der download? Sie können Ihre eigene PDF-Datei in wenigen Minuten kostenlos online veröffentlichen! Anmelden
Datei wird geladen, bitte warten...
Zitiervorschau

STORIA DELLE SCIENZE VOLUME SECONDO A

CURA

DI

MARIO GLIOZZI - MICHELE GIUA

Con

tavole t'n rorocalco fuori testo e 273 illustrazioni nel testo 8

\

UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

TORINO - VINCENZO DONA - C. MONTEGRAPPA,

18

-

1962

INDICE STORIA DELLA FISICA CAPITOLO Il

di MARIO GLIOZZI.

I.

-

Pag.

L'antichità classica

))

periodo ellenico Lo sfondo tecnico e culturale 2. Aristotele . .

L'epoca ellenistica

12.

.

.

-

8

))

2I

))

2I 22

))

)) )) l)

))'

Il Medioevo .

Pag. ))

La meccanica . . 1.

L'ottica

. .

4· Alhazen 5· L'opera di Alhazen nel circolo della cultura occidentale 6. Ruggero Bacone 7· Lenti ed occhiali . . . . . . . . , , , , , .

.

.

.

23

23

))

))

23 24 24

))

25

))

La meccanica araba . Le Università . . . . 3· Le prime scuole occidentali di meccanica

2.

8

))

))

.

5

9 I3 I4 17 I8 I9 20 2I

»

Le enciclopedie I 3. Filopono . CAPITOLO II.

)) ))

.

La decadenza

))

))

3· I l Museo d 'Alessandria 4· Archimede . . . . . . 5. I meccanici alessandrini 6. Filone . . . . 7· Erone . . . . . . 8. L 'ottica greca . . g. L'ottica di Euclide Io. L'ottica di Tolomeo I I . La catottrica di Erone

3

3

))

r.

3

l)

)) )) ))

25

30 30

32

VII

Il

magnetismo

.

.

. .

8. La bussola . . . Pietro Peregrino

La tecnica . Influenza del rinascimento tecnico sulla rinascita della fisica .

CAPITOLO

III.

- Il Rinascimento

Leonardo da Vinci .

.

.

.

1 . Leonardo inventore . 2. Idraulica e idrostatica 3· I l volo u mano 4· I centri di gravità 5. La statica 6. La dinamica 7· I l metodo La meccanica 8 . L'ambiente culturale del Cinquecento g. I l contributo dei matematici italiani Io. Giovan Battista Benedetti 1 1. Simone Stevin L'ottica 1 2. Francesco Maurolico . 13. L'invenzione del cannocchiale Il magnetismo e l'elettricità 14. Declinazione e inclinazione magnetica I l primo trattato italiano di magnetismo 16. Guglielmo Gilbert . . . 1 7 . Nascita dell'elettrologia 15.

CAPITOLo

IV.

- Galileo Galilei

Galileo nello studio di Pisa .

1. Isocronismo delle oscillazioni pendolari 2. Primi lavori anti-aristotelici

Galileo nello studio di Padova .

3 · La scienza meccanica . . L'esperimento termoscopico 5· Qualità primarie e secondarie 6. La rei n venzione del cannocchiale 4·

Galileo ad A rcetri

VIII

33

l)

33 36

l)

37

))

g.

ro.

Pag.

7· Aerostatica . 8. I Massimi Sistemi . g. I l principio d'inerzia 10. Il principio di relatività 1 r. Il moto annuo della Terra 12. La velocità della luce . .

l)

37

Pag.

41

l)

41

l)

l)

41 43 43 46 48 49 so

l)

51

l)

l)

))

l) l)

l)

l)

51 51 53 55

l)

56

l)

56 57

l)

62

l)

l)

l)

l)

l)

62 63 64 65

Pag.

67

l)

67

l)

l)

l)

))

67 67

l)

6g

l)

6g 70 71

l)

l)

)) l)

l)

l) l) l) l) l)

71

73 73 74 74 75 75 76

I3. La dinamica I4. Il metodo CAPITOLO

V.

-

Tra Galileo e Newton

La meccanica generale Renato Descartes I discepoli di Galileo Evangelista Torricelli Giovanni Alfonso Barelli . L'orologio a pendolo Cristiano Huygens . 7. La polemica sulle forze vi ve

La statica dei fh.idi

La pressione nei fluidi . Principio di Pasca! La macchina pneumatica La legge di Boyle . Formule altimetriche

I 3 . L 'Accademia dei Lincei 14· Le Accademie di Londra e di Parigi I5. L 'Accademia del Cimento

L'ottica

Magnetismo ed elettricità 2 I. Sulle orme di Gilbert Esperimenti elettrici di Guericke

CAPITOLo

VI.

-

!sacco Newton

La meccanica . I. 2. 3· 4· 5. 6. 7· 8. 9.

Regulae philosophandi La massa La forza Tempo e spazio . Le leggi del moto . I l moto centripeto I l moto nei fluidi Acustica L'attrazione universale .

L'ottica Io. I l trattato d'ottica di Newton I I . Dispersione della luce e natura dei colori

81

,>

81

)) )) )) )) )) ))

81 85 86 89 90 91 95

))

96

)) )) )) l)

96 I03 I03 Io8 I lO

l)

III

l) l) ))

III I I2 112

))

1 15

l)

L'ottica di Kepler . La legge della rifrazione I l principio di Fermat . La diffrazione . Doppia rifrazione e velocità della luce

22.

Pag.

,>

Le accademie scientifiche

I 6. I 7. I8. I9. 20.

77

,>

1. 2. 3· 4· 5· 6.

8. 9· ro. r I. I2.

Pag. ))

\

79

)) )) )) . ))

I I5 117 12I I25 I27

))

I28

)) ))

1 28 I29

Pag. 1 3 I ))

I3I

)) )) )) )) )) )) )) )) ))

I3I 1 33 13 4 135 I36 I36 I38 139 140

))

I43

)) ))

1 43 145 IX

I2. I3. I4. I5.

I l cannocchiale a specchio Gli >, la diffrazione e la doppia rifrazione nell'ottica d i Newton . La teoria corpuscolare . La teoria ondulatoria .

CAPITOLO

VII.

-

Il Settecento.

Un tentativo di sintesi H principio di D'Alembert . I l principio di minima azione La meccanica analitica Acustica

L 'ottica 6 . L'acromatismo delle lenti 7. Fotometria

Il calore . . . 8. g. Io. II.

.

Temperatura e termometri Cenno su l'introduzione della macchina a vapore . I l calore specifico Natura del calore

L'elettricità . . . I2. I3. I 4. I5. I 6. I7. 18. Ig. 20.

La bottiglia di Leida Beniamino Franldin . Le teorie . . . . . . Giambattista Beccaria Piroelettricità . L'elettroforo Carlo Agostino Coulomb Luigi Galvani . Alessandro Volta . .

CAPITOLO

VIII.

-

L'ottica di Fresnel

La teoria ondulatoria . 1. 2. 3· 4· 5· 6. 7· 8.

.

.

I l principio delle interferenze . La polarizzazione della luce La teoria ondu latoria di Fresnel L'ottica di Hamilton-Jacobi Velocità della luce . . . . L'etere è immobile o trascinato dal moto dei corpi? Radiazioni invisibili Analisi spettrale

CAPITOLO

IX.

-

La Termologia

Il comportamento termico dei corpi I . Dilatazioni termiche . . . . 2 . Dilatazione termica degli aeriformi 3· I vapori . . . . . . . . . . . . x

Pag. 157 ))

La meccanica I. 2. 3· 4· 5·

Pag. I 4 7 )) I49 )) I5I I52 l)

l)

157

l)

I 57 158 1 59 160 162

l)

164

l)

164 166

))

I67

l)

l) ))

l)

l)

))

I67 169 I 72 1 74

l)

175

l)

l)

l)

l)

))

J) ))

l)

l) l)

l)

I 75 1 79 I81 I 83 I85 I 86 19I I97 20I

Pag. 207 l) l) l) l)

)) J) l)

l) l)

207 207 209 2II 2I6 2I7 2I9 22I 225

Pag. 229 l)

l)

))

l)

229 229 23I 233

4· La liquefazione dei gas 5· I calori specifici dei gas

La lermodinamica dei principi 6. 7· 8. 9. Io.

La crisi all'inizio del XIX secolo I l principio di Carnet . . I l principio d i equivalenza Conservazione dell 'energia Teoria meccanica del calore

Teoria cinetica dei gas II. Natura del calore I2. Teoria cinetica dei gas r 3. Leggi statistiche CAPITOLO

X.

-

La corrente elettrica

Le prime ricerche . . . .

I . I l galvanismo . . 2. I fenomeni chimici della corrente . 3· Effetti termici della corrente .

Effetti magnetici della corrente . 4· L 'esperimento di Oersted 5· II galvanometro . 6. L'elettrodinamica d i Ampère La legge di Ohm .

.

.

7· Prime ricerche sulla resistenza dei conduttori 8. Misure elettriche Calore e corrente elettrica 9· Effetto termoelettrico Io. La legge di Joule . . L'opera di 11-fichele Faraday II . I 2. I3. I4. 15. 16. I7. I8 . 19.

L'induzione elettromagnetica Elettrolisi . . . . . Pile costanti . . . . . . Teoria del potenziale Polarizzazione dielettrica . Magneto-ottica . . . . Costituzione della materia Diamagnetismo Applicazioni

L'elettromagnetismo di Maxwell . 20. Descrizione del campo elettromagnetico 2I. La teoria elettromagnetica della luce 22. Onde elettromagnetiche . . . . . CAPITOLO I.

I

XI.

-

L'elettrone

raggi catodici . . 2. Natura dei raggi catodici 3· Misura della carica e della massa dell 'elettrone

Pag. 235 )) 237 ))

>)

238

>)

238 240 242 245 246

>)

248

))

248 248 249

)) >) >)

))

))

Pag. 253 >)

253

)) >)

253 255 259

))

260

>)

))

260 263 265

))

270

))

270 273

>)

276

))

276 277

))

278

>)

>)

>)

))

))

>)

278 282 284 284 286 288 289 290 292

))

297

>)

297 30I 302

l) )) ))

>) >)

))

))

)) ))

Pag. 305 >)

>) ))

305 309 3II XI

Pag. 3 16

I raggi X . . .

l)

4· Produzione dei raggi X 5· Natura dei raggi X Fenomeni radioattivi 6. Sostanze radioattive . 7· Studio delle nuove radiazioni . 8. L'energia nei fenomeni radioattivi Effetto fotoelettrico ed effetto termoionico . g. Nuovi modi di produzione degli elettroni ro. Organizzazione della ricerca scientifica nel XX secolo CAPITOLO

XII.

- La relatività

3 . La con trazione lo rentziana La teoria elettromagnetica di Lorentz .



La relatività ristretta 5· La relatività del tempo e dello spazio 6. La relatività ristretta La relatività generale . . . 7 . Massa pesante e massa inerte 8. La relatività generale . . . . g. Conferme sperimentali . . . . IO. Cenno sulla fortuna della relatività



- La fisica del discontinuo . •

.

.

.

.

.







.

Materia ed energia . . . . Irraggiamento del Gli assurdi della teoria classica . I . Difficoltà sollevate dall'ipotesi dei quanti •

















La costante di Avogadro . . . . Le prime determinazioni . L'azzurro del cielo Calcolo di N dai fenomeni subatomici . I l moto browniano IO. La costante d'Avogadro dedotta dalla teoria dei quanti

6. 7· 8. g.

I

XII

calori specifici

.

.

.

.

.

3 23

J) l)

l) l) l)

l)

323 32 5 32 6 3 28 3 28 33 °

l)

333

l)

333 335

l)

Verso la relatività

I

l)

l)

I. Il moto diurno della terra 2. Critica dei principi newtoniani

XIII.

3 16 3 1g

Pag. 333

La meccanica del XIX secolo

CAPITOLO

l)

.

I I . La legge di Dulong e Petit 12. I fenomeni alle basse temperature

J)

))

33 8 33 8 338

l)

340

J)

340 3 42

l)

346

l)

l) l)

l)

l)

346 347 3 4g 350

Pag. 3 51 l)

J)

351

))

351 352 3 54 356 360

l)

362

l)

l) l)

))

l)

362 3 63 364 365 371

l)

372

))

372 374

l) l)

l)

l)

I fotoni .

.

.

.

. .

.

. . .

.

.

·

Pag. 375 l)

I3. Leggi dell'effetto fotoelettrico I4. I quanti di luce I 5 . L'effetto Compton . . . . . CAPITOLO

XIV.

-

))

l)

La struttura della materia

Pag. 38! l)

La disintegrazione radioattiva I. 2. 3· 4· I

l)

Trasmutazioni radioattive Natura dei raggi ex . . . La legge fondamentale della radioattività Isotopi radioattivi . . . .

l)

l)

l)

l)

l)

- La meccanica ondulatoria .

l)

La posizione del corpuscolo nell'onda I l principio d'indeterminazione . L'indeterminismo . . . . . . I l principio di complementarità . Le onde di probabilità . . . Movimento di ritorno al determinismo

l)

-

La radioattività artificiale

Le macchine acceleratrici I . I l protone . 2 . Macchine per altissime tensioni . 3. Il ciclotrone . . . . . . .

.

.

)) l)

434

))

l)

))

l)

))

l) l)

)) �

4I9 4I9 420 42I 424 425 427 428 432

))

.

.

409 4II 4I5 4I5 4I7

Pag. 4 I 9

Estensione alla radiazione della legge statistica radioattiva L'antitesi onda-corpuscolo L'onda associata al corpuscolo La meccanica quantica Le equazioni d'onda . . . . . Equivalenza delle meccaniche ondulatoria e quantica . Verifiche sperimentali . . Le statistiche dei quanti .

XVI.

409

))

Le serie spettrali . La teoria di Bohr . La teoria di Sommerfeld . Principio di corrispondenza Costruzioni degli atomi

CAPITOLO

l)

l)

L'interpretazione della meccanica ondulatoria . 9· Io. II. I2. I3. I4.

l)

394 396 398 402 403 406

))

Le nuove meccaniche I. 2. 3. 4· 5· 6. 7. 8.

394

l)

L'atomo di Bohr

XV.

l)

))

Prime idee sulla complessità degli atomi L'atomo di Thomson . . . . . . L'atomo di Nagaoka-Rutherford . . . Disintegrazione artificiale degli elementi g. Isotopi non radioattivi I O. Materia ed energia

CAPITOLO

l)

l)

5· 6. 7· 8.

38! 38! 385 389 39I

l)

modelli atomici non quantici .

II. I2. I3. I4. I5.

375 376 378

))

))

l)

434 43 5 437 440 44I 443

Pag. 449 l)

449

))

449 453 454

l)

l)

XIII

Il

'I93Z, l'anno meraviglioso della radioattività . .

.

Pag. 457

.

)}

. . . . . . . . . 4· I l deuterio . . 5· Trasmutazioni artificiali con particelle accelerate 6 . I l neutrone . .

.

.

.

L'energia atomica . 7· 8. 9· 10. II. I2.

l) l)

458 459 46I

l)

464

l)

I radioelementi I bombardamenti con neutroni Elementi transuranici La fissione dell'atomo I raggi cosmici . . I l campo nucleare

1)

464 465 468 468 472 477

1)

479

l) l)

1)

l)

Nota bibliografica

STORIA DELLA CHIMICA di

CAPITOLO

I.

MICHELE GIUA.

Pag. 485

- Origine e periodi della chimica

I.

1)

. . . Origine del nome . . . . . 2. Periodi della storia della chimica . . . 3 . Le conoscenze chimiche nel periodo prealchimistico . .

.

.

l)

.

CAPITOLO

I. 2. 3· 4· 5·

-

Caratteri Alchimia Alchimia Alchimia Risultati

CAPITOLO

I. 2. 3· 4· 5·

II.

III.

1)

Pag. 495

Il periodo alchimistico

l)

generali . . . greco-egiziana araba . . . occidentale . dell'alchimia occidentale . -

1) 1)

l) l)

l)

Caratteri generali La iatrochimica e i suoi risultati . . . . . . Gli iatrochimici . Gli inizi della chimica tecnica nei secoli XVI e XV I I I chimici tecnici

CAPITOLO IV.

-

l) l)

.

l)

l)

I. Caratteri generali e rappresentanti 2 . Roberto Boyle . . 3· I contemporanei di Boyle . . .

l) l)

l)

.

I. 2. 3. 4· 5· 6.

XIV

Caratteri generali - Stahl Altri rappresentanti della teoria Black - Cavendish Priestley . . . . Chimici svedesi . Chimici francesi e italiani

5I7 520 525 532 538

P.ag. 543

Il periodo di unificazione - La pneumatica

CAPITOLO V. - Il periodo di unificazione - La flogistica

495 497 . 500 504 5II

Pag. 5 I 7

Il periodo di unificazione - La iatrochimica

.

485 487 490

543 547 553

Pag. 559 . , • ·, ... . l

l)

l)

l) l)

l)

,l)

559 56 I 564 568 572 578

Pa�.

7· I contemporanei di Stahl 8. Altri chimici del secolo XVIII CAPITOLO VI. I. 2. 3· 4· 5·

-

-

La chimica nel secolo XIX

-

Il periodo delle leggi quantitative

. . . . Caratteri del periodo Leggi degli equivalenti . . . . Legge delle proporzioni costanti Legge delle proporzioni multiple Legge delle combinazioni tra gas Legge e numero di Avogadro. Numero di Loschmidt . Legge d eli 'isomorfismo . . . . . Legge dei calori specifici . . . . . . . . L'ipotesi atomistica di Berzelius . . . . L'ipotesi della unità della materia e il problema dei pesi atomici . Legge delle azioni elettrolitiche fisse . . . . Legge della costanza della quantità di calore La riforma atomica di Cannizzaro Le dottrine chimiche dal I8oo al I864 Teorie elettrochimiche . . . .

CAPITOLO V I I I . I. 2. 3· 4·

Lavoisier e l a chimica del secolo XVIII

La vita e l 'opera . . . . . . . . . La lotta contro il sistema flogistico . Lavoisier e l'atomistica del secolo XVI I I La nuova scuola e la nomenclatura chimica La chimica sperimentale nel secolo XVI II .

CAPITOLO V I I . I. 2. 3· 4· 5· 6. 7. 8. g. I O. II. I2. I3. 14· I5.

1)

-

Lo sviluppo della chimica organica

La chimica organica e le teorie chimiche . . Chimici organici della I metà del XIX secolo Liebig e la sua opera . . . . . . Altre ricerche di chimica organica

CAPITOLO IX.

-

La teoria della valenza

I . Gli inizi 2. Plurivalenza CAPITOLO X. I. 2. 3· 4· 5·

La chimica dal 1864 al 1900

Le dottrine . I l sistema periodico degli elementi La tabella di Mendeleev . Modifiche delle tabelle . . La teoria della struttura .

CAPITOLO X I . I. 2. 3· 4· 5· 6.

-

-

Isomeria e teoria dei composti aromatici

I primi passi . . . . composti aromatici Teoria delle tensioni . Gli idrocarburi del catrame e gli eterociclici Isomeria e teoria strutturistica . . . . . . Isomeria ottica e geometrica - Stereochimica I

579 58 I

Pag. 585 l)

l) l) l) l)

585 588 593 597 6o6

Pag. 6 I I l)

l) >) l) l) l) n •>

l)

l)

l) l) l)

l)

l)

6II 6II 6!2 6I3 614 614 620 620 622 626 627 628 629 634 634

Pag. 637 l) ))

l)

l)

637 639 648 653

Pag. 657 l)

l)

657 663

Pag. 669 l) >) l) l) l)

66g 66g 672 6 i6 68 1

Pag. 683 l)

l) l)

l)

>)

l)

683 684 688 691 694 697 xv

CAPI TOLO X I I .

I. 2. 3· 4· 5·

l)

Thiele e la sua opera . . \�erner e la sua opera La mesoidria di G. Oddo Abegg e l'elettrovalenza . Sviluppo ulteriore della teoria della valenza - Mesomeria

CAPITOLO X I I I .

-

CAPI TOLO XIV.

-

L'affinità chimica nel periodo moderno

I. La termochimica z. Legge dell'azione di massa . 3· Arrhenius e la sua opera 4· Dinamica chimica . . . . . 5· I l principio di Le Chatelier 6. Raoult e la crioscopia . 7 . Otswald e la sua opera 8. Regola delle fasi 9· Analisi termica . Io. Nernst e la sua opera CAPITOLO XV.

-

La fisica rinnova la chimica e le rapisce l'atomo

I. Radioattività e nuove nozioni sugli elementi . . . . . . 2. La complessità dell'atomo .

705 70 7 7 II 7 I2 7 I3

l) l)

)) l)

Un'opera ciclopica: la conquista della materia - la sintesi chimica

I . Primi passi . . . . . . . . . . . . . . 2. Marcellino Berthelot e la sintesi chimica 3· Reazioni di condensazione . . . 4· Composti organometallici . . . . 5· Gli acidi minerali e la sintesi organica 6. L'ammoniaca e le basi organiche 7 . Emilio Fischer e la sua opera 8. Gli idrocarburi 9. Gli alcooli IO. Gli aldeidi . . I I. A . G. Hofmann e la sua opera . 12. R . Piria e la sua opera I3. Altri chimici . . . . . . . . . 14. Le ammine . . . . . . . . . . 15. Ammidi, ammidine e immidoeteri I6. Urea, uretani, gruppo punmco 17 . Amminoacidi . . . . . I8. Azo- e diazocomposti . I9. Fosfine, arsine e stibine 20. Glicidi . 21. Terpeni 22. Protidi . 23. Composti eterociclici . 24. Alcaloidi 25 . Sintesi dieniche . . . 26. Fotosintesi 2 7 . Vitamine e antibiotici

XVI

Pag. 705

- Le valenze parziali e l� teoria moderna della valenza

Pag. 7 I5 l)

•>

l)

l)

l) l) l) l)

l)

l) l)

l)

l) l)

l)

l)

l) l) l) l)

l) l)

l) l)

l) -

•>

l)

.

7 I5 7 I6 7 I9 72 6 7 29 7 29 7 3I 7 34 7 35 7 36 7 38 7 4° 7 4I 7 42 7 44 7 46 750 75I 753 7 56 7 60 7 64 7 65 7 67 7 69 7 69 77 3

Pag. 775 l) l)

))

l) ))

l)

))

))

l) l)

775 775 777 77 9 7 80 7 8I 7 8I 7 84 7 85 7 85

Pag. 7 87 l) l)

7 87 7 89

3· 4· 5· 6.

Pag. 790 )) 791 792 >) )) 793

Veri fica speri me ntale della teoria atomico-molecolare Il numero atomico Isotopia Le reazioni nucleari

))

Nota bibliografica

797

ELENCO DELLE TAVOLE FUORI TESTO Frontespizio degli > di Otto von Guericke (Amsterdam, 1 672) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 105

Esperimenti sull'elettricità. Tavola delle > dell'abate Nollet (sec. XVI I I ) . . . . . . . . . . . . . . . . Una delle prime locomotive a vapore. Tavola degli < l Éléments d e physique > > di M. Pouillet (Parigi, I 8 53) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Particolare del reattore > del Centro di Ricerche Nucleari SORIN (Società Ricerche I mpianti Nucleari) di Saluggia (Vercelli) . . . . . . . . . .

L'alchimista. Quadro di Giovanni Stradano ( Firenze, Palazzo Vecchio) . .

.

Forno per cottura e simboli alchimistici. Tavola del Mihi >> di T. Norton in una stampa del 1 749 .

.

Trivellazione in una miniera. Tavola del silea, 1 556) . . . . . . . . . . . . Strumenti chimici vari. Tavola degli 1803) . . . . . . . . . . . .

eli L. Brugnatelli (Pavia,

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

>>

177

>>

249

>>

465

>>

497

>>

513

1>

537

»

6og

\

XVII

STORIA DELLA FISICA di MARIO GLIOZZI

\

t.

-

Storia delle Scimzc,

I I.

CAPITOLO l.

L'ANTICHITÀ CLASSICA IL PERIODO ELLENICO 1.

Lo sfondo tecnico e culturale.

Su un esteso complesso di conoscenze pratiche e di attività tecniche, in un ambiente culturale molto progredito, con un linguaggio già affinato da sottili disqui­ sizioni filosofiche e matematiche, comincia in Grecia, verso il quarto secolo avanti Cristo, lo sforzo di descrizione, di coordinazione e di spiegazione dei fenomeni natu­ rali, primo nucleo attorno al quale, nel corso dei secoli, si formerà la fisica (da q>UO'L sarà un cardine della fisica aristotelica e la polemica tra vacuisti e pienisti si protrarrà sino al Rinascimento scientifico (e forse oltre con la polemica sull'etere che ne è un prolungamento) . Ma per sentire una parola nuova su questo problema fisico bisogna arrivare all'esperimento torricelliano del 1644 (Cap. V, § 8 ) . Un'altra conseguenza immediata della dinamica aristotelica è che l a velocità di caduta dei corpi, in un dato mezzo, è proporzionale al peso dei corpi. La conseguenza si accordava con l 'osservazione volgare : una mela cade più rapidamente di una foglia. Frutto, invece, di osservazione non affrettata, ma attenta e prolungata è l'acuta scoperta del graduale aumento di velocità dei corpi cadenti, che Aristotele attribuisce al graduale aumento di peso dei corpi che vanno via via avvicinandosi al proprio luogo. E. Hoppe ha voluto trovare nella polemica antivacuista di Aristotele formulato il principio d'inerzia ; ma il passo della Physica (IV, 8, 215-219) in cui veramente si • 7

trova enunciato il principio è addotto come prova dell'assurdo a cui si giungerebbe ammettendo il vuoto, e questo significato hanno dato al brano gli aristotelici dei secoli successivi. Invece, merito grande della cinematica aristotelica è avere enunciato esattamente la regola di composizione degli spostamenti, sia pure per il caso particolare degli spo­ stamenti tra loro perpendicolari. Più aderenti ai risultati moderni sono anche le ricerche di statica: vi è enunciata la legge di equilibrio di una leva, con un accenno a quello che sarà il principio dei lavori virtuali e vi sono descritte la bilancia e la puleggia. Negli scritti di Aristotele, e specialmente nei Problemi, si trovano numerosi e interessanti osservazioni di musica, di meteorologia, di fisica, di meccanica applicata: cenno all'energia cinetica, osservazione di fenomeni cl' osmosi, idee corrette sulla pro­ pagazione del suono attraverso l'aria, spiegazione dell'eco come fenomeno di rifles­ sione, analoga (ed errata) spiegazione dell'arcobaleno, tentativo di determinazione sperimentale del peso dell'aria, riflessioni sulla propagazione della luce, ecc. È un complesso di osservazioni degno del più grande rispetto, che conferma come la fisica aristotelica fosse fondata sull'osservazione e in parte sull'esperimento. Ciò che mancò alla fisica aristotelica fu l'elaborazione analitica, la critica e la prudenza nella gene­ ralizzazione. Si potrebbe dire che la scienza moderna esperimenta con avvedutezza critiCa e la scienza aristotelica esperimentava con ingenuità. Per parlare concreta­ mente, la meccanica aristotelica non seppe fare astrazione dalle resistenze passive e la fisica non intuì che nello studio dei fenomeni qualche artificio può talvolta sve­ larci cose che la pura osservazione non ci consente di cogliere. Questi rilievi non sono ovviamente una spiegazione dell'insuccesso aristotelico nello studio della fisica, ma una constatazione dell'insufficienza dei suoi metodi di ricerca. Spiegare invece perchè Aristotele e la sua scuola non abbiano saputo astrarre e intuire, nel senso sopra detto, è un vecchio problema ancora insoluto.

L'EPOCA ELLENISTICA 3•

Il Museo d'Alessandria.

Morto Alessandro Magno (323 a. Cr. ) , fuggito Aristotele, Atene, che aveva già perduto la sua importanza politica, andava via via perdendo anche il suo primato intellettuale. Vi rimanevano le scuole filosofiche, ma il centro degli interessi scientifici si spostava ad Alessandria d'Egitto. Il movimento scientifico, favorito dall'universalità della lingua greca e dalla munificenza dei principi dei molti reami sorti dallo sfacelo dell'impero alessandrino, era ormai talmente avanzato che la scienza non poteva essere più esposta a un pubblico generico, ma solamente agli specialisti. Tolomeo I Soter, fondatore della dinastia dei Tolomei in Alessandria, chiamò alla sua corte Demetrio di Falera, già scolaro di Aristotele, e gli affidò l'incarico di costi­ tuire una scuola sul modello del Liceo. Sorgeva così il Museo e il primo nucleo della biblioteca annessa fu la collezione dei libri di Aristotele. Con Tolomeo I I (Filadelfo). 8

assunto al trono nel 285 a. Cr. , il Museo divenne una grande istituzione culturale, dove i dotti vivevano insieme, mantenuti dallo stato, disponendo di due grandi biblioteche che nel 48 a. Cr. contavano 700 mila volumi: è il primo esempio di organizzazione col­ lettiva della ricerca scientifica e bisogna aspettare il nostro secolo per vederne l'imita­ zione. Ben presto cominciò la pubblicazione dei libri a cura del Museo, favorita dal papiro egiziano che dava all'Egitto un monopolio naturale nella fabbricazione della carta. Queste condizioni eccezionalmente favorevoli per gli studiosi attrassero ad Ales­ sandria gran numero di scienziati da ogni parte del mondo e vi fiorirono scuole scien­ tifiche conservatesi per tutta l'antichità. In particolare, tutta la fisica dell'età elle­ nistica, che rappresenta il maggiore e migliore contributo dato dall'antichità classica allo studio della natura come noi oggi lo intendiamo, è legata al Museo di Alessandria. 4•

Archimede.

Legato alle fortune del Museo è anche il nome di Archimede, la cui opera mostra crudamente il contrasto tra le grandi sintesi filosofiche delle scuole ateniesi e la ricerca scientifica sistematica su par­ ticolari fenomeni naturali instaurata nelle scuole d'Alessandria. Nato a Siracusa, forse nel 287 a. Cr., da Fidia, noto astronomo, Archimede studiò per un lungo pe­ riodo in Alessandria, mantenendo poi per tutta la vita relazioni scien­ tifiche coi dotti del Museo. In Egitto, forse in un secondo soggiorno, quando già s'era levata la fama del suo genio, egli avrebbe costruito ponti ed ele­ vato argini per regolare le inonda­ zioni del Nilo. Ma la invenzione più geniale di questo periodo fu la coclea, detta anche oggi vite d'A rchimede (v. fig. a lato) , che, a giudizio di Ga­ lileo, giudice competentissimo e se­ vero, non solo è meravigliosa, ma è miracolosa; poichè troveremo che l' ac­ qua ascende nella vite, discendendo continuamente (Galileo Galilei, Le Meccaniche, scritto non dato alle stampe, in Le opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale, vol. II, Firenze, r8gr, p. 186) . L'invenzione, sugge­ rita ad Archimede dalle sue cogni­ La coclea di Archimede, secondo un Dictionnaire de zioni geometriche e realizzata per le mathématique dell 'inizio del sec. XVI I I . 9

A R C HI M E D I S O P E R A A\

F E D E

'J'{ Y

'P

E 1\. E.

T

R l

V

I C

'J.t C

l

N O N R

O

L

O

B

I

L

M

V

I

C O M M A N D

L .A T l M

N V L L A

N

A

T

'N._ V M

E

C O

E

N

T

A

R

S. T

R.

A

T t'A .

1{f/ E I

I

N O

1\_ S .A ,

S

'

\

� or·u·m nomina i n 'Cequenti pagina legu n t u r . '

C V M

P 1t l V I L

V E

E

N

G I

O

I N

E T I I S,

t

A N N O S

X.

apud Paulum Manutium , Aldi F . M

D

L

V

l

l

I .

Frontespizio delle opere di Archimede tradotte da F . Commandino (Venezia, 1 558). IO

sue eccezionali abilità meccaniche, fu usata dagli Egiziani sia per sollevare (pare sino a quattro metri) le acque sulle alture a cui non pervenivano naturalmente con le inondazioni, sia per prosciugare i terreni bassi. Ma numerose, una quarantina, sono le altre invenzioni meccaniche attribuite ad Archimede, e sebbene le fonti storiche di cui disponiamo contengano una parte di leggenda, pure gli storici non hanno dubbi sulla veridicità di alcune attribuzioni, come l'ingranaggio vite senza fine - ruota dentata e il paranco differenziale, da lui adoperati per il varo di una nave gigante. Collegato con questo avvenimento è il motto che gli si attribuisce : è propriamente Leonardo, cioè ingegnere, e forse aveva ragione il Feldhaus quando lo proclamava il più grande ingegnere che la storia ricordi. Ma la sua profondità di pensiero, il suo bisogno di universalità lo spingevano a un pas­ saggio dalla mera tecnica alla generalizzazione, dall'utilità immediata, caratteristica della tecnica d'ogni tempo, all'utilità differita, peculiare alla scienza. Gli storici della tecnica hanno enumerato centinaia d'invenzioni leonardesche, sparse nei suoi qua1

Il Codice A tlantico di Leonardo da Vinci, riprodotto e pubblicato dalla R. Ace. dei Lincei, Roma 1900-1 904, f. r 1 7, r. b. Questo famoso codice (detto atlantico per l'enorme abbondanza e varietà dei soggetti trattati) consta di 8 volumi, 4 di testo e 4 di tavole, con trascrizione diploma­ tica (cioè letterale) e critica (cioè interpretativa). Gli studiosi di Leonardo lo citano cosi: Cod. Atl., f. 1 1 7, r. b, dove la lettera scritta dopo r. o v. serve a facilitare la ricerca, non sempre facile, del passo citato.

41

Presunto autoritratto di Leonardo da Vinci (Torino, Biblioteca Reale) .

Fot. A nderson

derni in nitidi disegni, talvolta accompagnati da brevi, incisive didascalie, ma spesso senza parola di commento, come se l'urgere della fantasia inventiva lo costringesse a non sostare in illustrazioni verbali ; sono anche frequenti ripetizioni di disegni, modi­ ficazioni e perfezionamenti ai dispositivi già descritti, spesso apportati a distanza di anni, a testimonianza di un serio impegno di costruttore e non di un volubile capriccio d'artista. Citiamo alcune più note invènzioni di Leonardo : artifici per le trasformazioni e trasmissioni di moto, come le catene d'acciaio a nuclei e cilindri oggi in uso nelle biciclette, trasmissioni a cinghie semplici o intrecciate, varie specie d'ingranaggi : conici, a spirale, a gradinata; sostegni a rullo per antifrizione; doppio giunto oggi detto > in uso nelle automobili; macchine utensili, come la macchina di precisione per la produzione automatica di lime, una macchina a martelli per la preparazione dei lingotti d'oro; dispositivi, una volta attribuiti al Cel1ini, per

rendere più preciso il conio delle monete ; un banco per le esperienze sull'attrito; sospensione degli assi su contorno di mobilissime ruote per diminuire l'attrito vol­ vente, sistema che, ritrovato da Atwood alla fine del XVI II secolo, conduce ai moderni cuscinetti a sfere e a rulli; macchine di prova per esperienze sulla resistenza dei fili metallici alla trazione ; numerose macchine tessili, come la cimatrice, la· torcitrice, la cardatrice; un telaio meccanico e un filatoio per lana; strumenti di guerra (la , come egli la definisce) ; svariati e ingegnosi strumenti musicali. 2.

Idraulica e idrostatica.

3•

Il volo umano.

Dell'idraulica, scienza vetusta, Leonardo fu maestro : partecipò alla bonifica della Lomellina, alla sistemazione idrica del Novarese ; fece studi sul prosciugamento delle paludi pontine, progettò la deviazione dell'Arno a monte di Pisa, studiò la sistema­ zione dell'Adda e del canale della Martesana. E anche qui fioriscono le invenzioni : Leonardo disegna cavafanghi a catena, a secchi, a ceste, in tutto simili a quelli in uso oggi ; escogita mezzi meccanici per l'escavazione dei canali e li rende navigabili, perfezionando le conche. Egli infatti sostituì nelle conche, già ai suoi tempi in uso, alla primitiva saracinesca imperfetta facilmente soggetta a guasti, la doppia porta ad angolo, che sfrutta la stessa pressione dell'acqua per la perfetta chiusura, ed intro­ dusse il sistema delle ventole che comandano le aperture praticate nelle porte per il riempimento e il vuotamento delle conche. E dall'idraulica pratica passando all'idraulica teorica, Leonardo conobbe il prin­ cipio dei vasi comunicanti con liquidi di diversa densità e il principio fondamentale d'idrostatica, detto oggi , che, secondo il Duhem, al filosofo francese giunse da Leonardo, attraverso Giovan Battista Benedetti e Marino Mer­ senne. A Leonardo dobbiamo la teoria del moto ondoso del mare ; anzi, estendendo questa teoria mediante quello che è il più universale concetto fisico che gli sia bale­ nato, - è luce proveniente dalla terra e riflessa dalla luna. 7·

Il metodo.

Si suole talvolta indicare Leonardo come instauratore del metodo sperimentale. A noi pare semplicistica questa ricerca del taumaturgico instauratore del metodo sperimentale. Anche dalle pagine precedenti ci pare risulti chiaro che il ricorso all'esperienza è vecchio quanto la fisica e si conservò per tutto il Medioevo. Molti dotti medioevali non praticarono l'esperienza non perchè la disprezzassero, ma perchè la ritenevano superflua, dal momento che Aristotele aveva fatto tutte le esperienze possibili. La coscienza del metodo sperimentale (cosa distinta dal ri­ corso all'esperimento) si formò lentamente per la graduale liberazione dal principio d'autorità e la conseguente confluenza della tradizione dei dotti e della pratica degli artigiani. Tra gli uomini che maggiormente accelerarono questo processo di sintesi occupa un posto · eminente Leonardo, omo sanza lettere e perciò libero da pregiudizi, più vicino alla natura. Egli ebbe una concezione elevata dell'esperienza, ne sostenne il valore universale - la sapienza è figliola dell'esperienza e la praticò largamente, convinto che ogni nostra cognizione principia dai sensi, onde bisogna limitare la ragione alla sperienza, e non estenderla di là dall'esperienza ; ma l'esperienza in sè è un dato bruto e tocca alla ragione inquadrarla nella concezione del mondo e dimostrare perchè tale esperienza è costretta in tal modo ad operare (Ms. E, 55 r.). L'osservazione contenuta nel Codice sul volo degli uccelli (l'uccello è strumento operante per legge matematica) ha carattere universale, nel senso che per Leonardo -- e questa sua concezione del metodo sperimentale lo caratterizza e lo accomuna a Galileo - tutta la natura è intes­ suta di leggi matematiche, onde nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, s'essa non passa per le matematiche dimostrazioni e nessuna certezza è dove non si p1.tò applicare una delle scienze matematiche (Ms. G, g6 v.). Così concepita, l'esperienza in sè non falla mai, ma sol fallano i vostri giudizii, promettendosi di quella effetti tali che ne' vostri esperi·menti causati non sono, e perciò a torto si lamentan li omini della isperienza, la quale con somme rampogne quella acc�tsano esser fallace. Ma lascino stare essa esperienza e voltate tali lame-ntazioni contro alla vostra ignoranza, la quale vi fa transcorrere co' vostri vani e instolti desiderii, a impromettervi di q�telle cose che non sono in sua potenzia, dicendo quella esser fallace. -

so

Leonardo non fu, come non fu Galileo, un teorico del metodo sperimentale, ma tutta l'opera sua di fisico, questi ed altri pensieri analoghi lo pongono tra i più aperti e accorti sperimentatori moderni.

LA MECCANICA 8. L'ambiente culturale del Cinquecento. Molto dibattuto è il problema dell'influenza di Leonardo sull'ulteriore sviluppo della scienza. Alcuni la negano soprattutto appoggiandosi al fatto che i manoscritti di Leonardo rimasero sepolti e ignorati sino alla pubblicazione di un famoso opuscolo di Giovan Battista Venturi (Essai sur les ouvrages physico-mathématiques de Léonard de Vinci avec des fragments tirés de ses man�tscrits apportés d'Italie, Paris, 1797) ; altri, e specialmente il Duhem, sostengono la diffusione del pensiero di Leonardo negli ambienti scientifici italiani sino a Galileo, attraverso la tradizione orale e la diretta consultazione dei manoscritti. Senza entrare nella discussione, quasi interamente induttiva, ci limiteremo a con­ statare obiettivamente che molte idee di Leonardo si ritrovano in tre grandi nostri scienziati del Cinquecento: Nicolò Tartaglia ( 1499-1552) ; Girolamo Cardano ( 15011576) , Giovan Battista Benedetti (1530-1590). Ma, prima di dare un cenno sull'opera di questi e di altri scienziati, vogliamo ricor­ dare che il Cinquecento fu un secolo d'intensa attività intellettuale. Fisici e matematici , si familiarizzano con le opere di Archimede, attraverso le traduzioni, spesso commen­ tate, di Nicolò Tartaglia, di Federico Commandino ( I509-1575L di Guidobaldo Del Monte (1543-1607), di Francesco Maurolico (1494-1575) ; la matematica italiana attra­ versa il periodo più fulgido del suo splendore e le scienze biologiche un periodo ecce­ zionalmente fecondo. E, se vogliamo rivolgere lo sguardo a un orizzonte più ampio, dobbiamo tener presente che questo è il secolo della lotta contro l'autorità della Chiesa, nota col nome di Riforma; è il secolo della rivoluzione copernicana, che ebbe profonde ripercussioni sulla mentalità scientifica; è un secolo di rinnovamento della filosofia, che nel cosentino Bernardino Telesio ( 1509-1588) dette il primo fermo oppositore di Aristotele e nel nolano Giordano Bruno (1548-16oo) il primo martire ; è, infine, il se­ colo delle grandi scoperte geografiche, prima fra tutte la scoperta dell'America ( 1492) , d'importanza fondamentale nella successiva evoluzione del pensiero scientifico. I progressi della fisica nel Cinquecento, in sè presi, appaiono fatti staccati, quasi occasionali, di non molta importanza, ma se si inquadrano nel più ampio ambiente scientifico in cui nacquero, acquistano particolare rilievo, come prime conquiste di una cultura che si va liberando dal peso della tradizione, scuotendo il giogo secolare del principio d'autorità. 9·

Il contributo dei matematici italiani.

L'introduzione delle armi da fuoco poneva nuovi problemi di dinamica scientifica ; ne iniziò lo studio Nicolò Tartaglia con un'opera di piccola mole, La nova scientia, SI

pubblicata nel 1537 e divisa in tre libri: i primi due trattano del moto dei proiettili, che è per Tartaglia la nuova scienza; il terzo è dedicato a problemi di topografia. Per la traiettoria dei proiettili Tartaglia è ancora fermo alla traiettoria di Aristotele (Cap. I, § z) , ma intuisce che la gittata massima si ha quando l'arma è inclinata a 45° sull'orizzonte e lo afferma, senza dimostrazione, nell'VII I proposizione del secondo libro. Nei Q�eesiti et inventioni diverse racconta che nel 1531 un suo intimo amico gli chiese > e che egli, che non aveva mai scaricato artiglieria o schioppo, dopo avere > tal materia, gli concluse e dimostrò, >, che l'arma doveva essere inclinata di 45°. E al dubbio dell'amico, al quale sembrava che l'arma fosse troppo inclinata, >. Ma Tartaglia si guarda bene dal dire quali fossero codeste >. Noi possiamo essere sicuri che egli non le conosceva e questo stesso racconto conferma l'impressione che si ricava dalla lettura della sua opera : la sua dinamica dei proiettili d'artiglieria è quella che poteva apparire a un acuto osservatore che ne studiasse i tiri stando dal pezzo. I Quesiti et inventioni diverse, comparsi nel 1546 come continuazione e sviluppo de La nova scientia, è un'opera vivacissima, anche per la forma dialogata quasi sempre usata e che sarà ripresa e immortalata da Galileo : vi interloquiscono popolani, tecnici e signori, che propongono questioni pratiche e da queste assurgono a considerazioni scientifiche. Tartaglia sente l'originalità di questa forma di trattazione e nel sonetto caudato >, premesso all'opera, promette nove in ven t ioni non tolte da Platon nè da Plotino nè da alcun altro Greco over Latino, ma sol da L'arte, misura e Ragioni.

L'opera è divisa in nove libri. I primi due sono dedicati ai tiri di artiglieria, il terzo alle polveri da sparo, il quarto all'arte militare, il quinto all'uso della bussola nelle operazioni topografiche, il sesto alle fortificazioni, il settimo alla meccanica d'Aristotele, l'ottavo alla teoria delle macchine semplici, il nono, il più noto, a que­ stioni di matematica. È in quest'opera che per la prima volta, da Aristotele in poi, si afferma contra­ riamente a quanto era detto nella Nova Scientia, forse per notizie avute dai mano­ scritti leonardeschi, più probabilmente in seguito a una più accurata osservazione, che la traiettoria non verticale dei proiettili è curvilinea, perchè il trasito over moto violento d'un corpo �egualmente grave che sia fora della perpendicolare del orizonte, mai pol havere alcuna parte, che sia perfettamente retta (Nicolò Tartaglia, Quesiti et inven­ tioni diverse . . . di n�eovo restampati, Venetia 1554, Libro I, Quesito Il, c. ro r.) . Molte proposizioni di statica contenute in quest'opera di Tartaglia si trovano già nel manoscritto di Giordano Nemorario che egli stesso darà alle stampe (Cap. I I , § 3) . Ma originale è la discussione contenuta nel Quesito I del VII libro nella quale, contro Aristotele, sostiene che le bilance reali con braccia corte sono più esatte di quelle con braccia lunghe : la storia e le teorie di Mendeleev sulla bilancia gli dettero ragione. 52

Anche Girolamo Cardano, il grande antagonista di Tartaglia, merita un posto nella storia della fisica. Tartaglia è un popolano, scrive in volgare e tratta problemi del suo tempo ; Cardano è un umanista, intt odottissimo negli ambienti accademici, scrive in la­ tino e sfoggia una grande erudizione. Il suo De subtilitate libri XXI apparso nel 1550, insieme col De rentm varietate libri XV III, apparso quattro anni dopo, costituisce la più ampia enciclopedia delle scienze fisiche e naturali del Cinquecento; il De subtilitate, tra­ dotto in francese da Riccardo Le Blanc, fu usato nelle scuole francesi, sino a tutto il XVII secolo, come libro di testo, specialmente per lo studio della statica e dell'idrostatica. Le due opere, in un latino contratto e spesso confuso, contengono un po' di tutto : dalla cosmologia alla costruzione di macchine, che ricordano talvolta quelle di Leo­ nardo ; dall'utilità delle scienze della natura al nefasto influsso dei demoni. Sono una miniera di fatti veri o immaginari, di notizie sullo stato delle scienze, le credenze, le superstizioni, le tecniche, le manipolazioni alchimistiche, le pratiche magiche, astro­ logiche e chiromantiche del tempo: il loro maggior merito ci pare sia stato pedagogico, come stimolo allo studio del particolare e del concreto. Ma non vi mancano originali osservazioni scientifiche, come l'asserita impossi­ bilità del moto perpetuo; come alcuni passi, di difficile interpretazione, nei quali Duhem vede enunciato il principio dei lavori virtuali ; lo stesso principio però Lagrange lo attribuisce a Guidobaldo Del Monte, protettore di Galileo, che non sol­ tanto tradusse e commentò Archimede, ma scrisse un trattato di meccanica col pro­ posito di ricondurre la trattazione di tutte le macchine alla leva. In un'altra opera curiosa, l'Opus novztm, uscita nel 1570, Cardano si sforza di rendere quantitativo lo studio della fisica: notevole è la prima determinazione numerica del rapporto (r : so) della densità dell'aria rispetto all'acqua, che egli dice di aver ottenuto sperimentalmente partendo dal principio aristotelico che gli spazi percorsi nello stesso tempo da corpi egualmente gravi, in mezzi diversi, stanno tra loro in ragione inversa delle rispettive densità dei mezzi. 10.

Giovan Battista Benedetti.

Discepolo di Tartaglia fu Giovan Battista Benedetti, che dalla natia Venezia passò per qualche anno alla corte dei duchi di Parma e poi a quella dei Savoia a Torino, dove visse a lungo e morì. Bisogna andare a cercare il contributo più significativo dato dal Benedetti alla meccanica nella dedica-prefazione del suo primo lavoro dato alle stampe. Curiosa prefazione, di 22 pagine su un centinaio di testo, nella quale, in un'accozzaglia disor­ dinata di cose diverse, è improvvisamente cacciato a forza un discorso sul moto che non ha nulla da fare nè col resto della prefazione, nè con l'argomento del volume, una raccolta di problemi geometrici risolti con l'uso del solo compasso ad apertura fissa. Il lungo squarcio sul moto è una dimostrazione, diligentemente condotta, rivolta a provare, contro la sentenza d'Aristotele, che due corpi della medesima forma e della stessa specie tra loro egztali o diseg-uali, per eguale spazio, nello stesso mezzo, si muovono in egual tempo (Resolutio omnium Euclidis problemat,um . . . per Ioannem Baptistam de Benedictis inventa, Venetiis 1553, prefazione, p. xvn non num.). 53

Ciò che fece epoca fu non tanto l'enunciato, ma la dimostrazione. Benedetti con­ sidera due sfere omogenee coi loro centri ad una medesima distanza dal centro della terra e una quadrupla dell'altra. Suppone di dividere idealmente la sfera più grande in quattro sfere eguali e osserva che ognuna di queste si muoverà in tempo eguale a quello in cui si muove la sfera più piccola ipotizzata in principio, e continuando il sottile ragionamento conclude con la proposizione riferita. 32 anni dopo, nella sua opera principale, Benedetti ripiglia il ragionamento e lo semplifica, supponendo un solo corpo, che idealmente divide in due parti eguali, ciascuna delle quali si deve muovere con la stessa velocità dell'intero corpo: dunque, i corpi cadono con eguale velocità. Il ragionamento fu accolto da Cardano, fu plagiato da Taisner, fu ripetuto da Stevin, fu fatto proprio da Galileo : mi figurai con la mente, lasciò scritto lo scienziato pisano, due corpi eguali in mole e in peso, quali jussero, per esempio, due mattoni, li quali da una medesima altezza, in un medesimo istante si partissero . . . ma se si figureranno i mattoni, nello scendere, unirsi ed attaccarsi insieme, quale di loro sarà quello che, aggiugnendo impeto all'altro, gli raddoppi la velocità, stante che ella non può essere accrescùtta da un sopravenente mobile se con maggiore velocità non si muove ? (Postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco, in Le opere di Galileo Galilei, Ediz. Naz., vol. VII, p. 73 1 . Le postille furono stese nel corso del 1634 ; ma nello scritto giovanile De motu, Ediz. N az. , vol. I, p. 265, Galileo espone lo stesso argomento: il quale, quindi, gli fu presente per tutta la sua carriera scientifica) . Ma dopo Galileo vennero gli eruditi, i quali sembra si regolino talvolta come quel parroco di campagna, che, volendo narrare la storia del proprio villaggio, cominciò da Adamo. Gli storici, dunque, si meravigliarono molto che un ragionamento così semplice come quello di Benedetti avesse aspettato quasi duemila anni per affiorare. È esperienza comune che i ragionamenti scientifici, una volta trovati, sembrino sem­ plici: chi non ha avuto per un momento la sensazione, ripetendo una dimostrazione di un classico, di averla trovata lui ? Comunque, gli storici trovarono precursori anche al Benedetti : il più illustre, ma non il solo, dovrebbe essere il letterato Benedetto Varchi che in un'opera scritta nel 1544, ma pubblicata nel 1827, avrebbe affermato che i corpi cadono con eguale velocità. Può darsi che la proposizione sia stata enun­ ciata prima, come anche noi abbiamo osservato (Cap. II, § 3 ) , ma il merito della dimostrazione matematica rimane al Benedetti. Tutti gli altri contributi di Benedetti alla fisica si trovano nel suo capolavoro, il Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber, pubblicato a Torino nel 1585. L'opera, divisa in sei parti, si trattiene su teoremi di aritmetica e di alge elementari, sulla prospettiva, sulla meccanica e sulle proporzioni ; vi sono raccolte dispute e lettere su argomenti di matematica e fisica. È un'opera patetica molto importante anche per quei critici che contestano alcune esempio, che vi sia contenuto il principio d'inerzia e sia applicato per lerarsi del moto di un corpo sotto la continua azione di una sicchè · degli nei gravi cadenti il progressivo aumento di velocità è dovuto effetti prodotti dalla stessa causa del moto, e non già al nr'·"r,.·or.c. ,..,.,."'" ...,.. "'to di peso, come diceva Aristotele (Cap. I , § 2). Le stesse idee egli moto rotatorio, 54

dimostrando di avere intuito il concetto di forza centrifuga. Dallo studio dell'equilibrio di un liquido in due tubi verticali comunicanti, di sezione diversa, Benedetti enuncia il > (cioè dell'eguale pressione, a parità di altezza, esercitata dai liquidi sul fondo, indipendentemente dalla forma del recipiente) , giungendo al principio del tor­ chio idraulico, che sarà nel secolo successi­ vo ripreso da Mersenne e diffuso da Pascal. I

1.

Simone Stevin.

Un anno dopo la pubblicazione del Di­ versarum speculationum del Benedetti, il paradosso idrostatico era enunciato anche da Simone Stevin, uno dei più originali scienziati della seconda metà del Cinque­ Simone Stevin. cento, nato a Bruges nel 1548 e morto nel 1620, forse all'Aja. Può darsi che la scoperta di Stevin sia indipendente dall'opera di Benedetti ; certo l'enunciato di Stevin è molto più chiaro ed esplicito di quello di Benedetti. A Stevin l'idrostatica deve anche l'introduzione del concetto di metacentro, importante per lo studio dell'equilibrio dei corpi galleggianti, esattamente definito e denominato soltanto nel 1746 da Pietro Bouguer ( 1698-1758) . Ma il più grande titolo di merito di Stevin è l'originale dimostrazione della legge di equilibrio di un corpo appoggiato sopra un piano inclinato. Il ragionamento si basa sulla considerazione dell'equilibrio d'una specie di rosario avvolto su due piani inclinati la cui sezione è un triangolo rettangolo con l'ipotenusa orizzontale (v. fig. a pag. seg.) . L'introduzione del ragionamento segna un'epoca nella storia della fisica, perchè esso è condotto nel presupposto che il moto perpetuo è assurdo : è la prima volta che questa proposizione è assunta a principio scientifico e per convincersi che la proposizione non è tanto ovvia, come oggi potrebbe sembrare, basta pensare che anche dopo Stevin sino a Sadi Carnot e oltre, i tentativi di costruire macchine di moto perpetuo si moltiplicarono. Dalla considerazione dell'equilibrio del rosario Stevin dedusse la legge di compo­ sizione delle forze concorrenti e il principio di decomposizione di una forza in due componenti normali tra loro : entrambe queste leggi, però, sono limitate al caso par­ ticolare di tre forze rappresentate in grandezza e direzione dai tre lati di un triangolo e si riferiscono solamente agli effetti statici. Numerose furono pure le invenzioni meccaniche di Stevin e ben nota la sua opera di matematico. Tuttavia, l'influenza di Stevin fu piuttosto scarsa, un po' perchè egli, convinto che l'olandese fosse tra tutte le lingue antiche e moderne la più adatta per 55

W

B

D E

E E G H D ,A E T �

ESC H S

I

M

R

O

van

E VE N N

S T f

,

Brugghe.

D V E R V

I

N

trattare questioni scientifiche, scrisse nella propria lingua e le traduzioni in latino e francese si ebbero soltanto nel primo decennio del secolo XVII , u n po' perchè le sue due più importanti opere furono pubblicate molti anni dopo la sua morte. L'OTTICA 12.

Francesco Maurolico.

Dopo l'opera di Vitellione (Cap. I I , § 5 ) , i l Medioevo non c i ha tramandato altre trattazioni sistematiche dell'otti­ ca: si trovano qua e là cenni fugaci, dai quali si può solamente arguire che la confusione d'idee era grave e che s'era formata una grande diffidenza verso le percezioni dell'occhio, ritenuto il più T o T L E Y D B tor, ingannatore dei sensi. lndc Druckcryc van Chrifl:offcl Pbnrijn, By Fran�oys van Jbphdinghen. Può darsi che sia stato questo am­ c 1:>. I :>. L x x x v I. biente sordo, se non ostile, a trattenere Padre Francesco Maurolico {I494-I575), Frontespizio dell'opuscolo di Stevin· dedicato alla il famoso matematico ed umanista mes­ statica, col disegno del rosario avvolto sul doppio piano inclinato (Leida, 1586) . sinese, dal dare alle stampe il piìt ori­ ginale trattato di ottica che sia stato scritto nei tre secoli che seguirono Vitellione. La prima parte dell'opera era stata completata fin dal rszr e l 'ultima nel 1554, ma il trattato fu pubblicato postumo dai nipoti soltanto nel r 6 r r (Abbatis Francisci Maurolyci Messanensis, Photismi de lumine et umbra, Neapoli r 6 r r ) . E siccome le idee di Maurolico si ritrovano in autori posteriori, in particolare in Kepler, sorge qui lo stesso problema accennato per Leo­ nardo: l'opera di Maurolico rimase chiusa in sè o influenzò l'ambiente, attraverso la tradizione orale o la consultazione del manoscritto ? I Photismi sono divisi in due parti : nella prima si tratta la propagazione retti­ linea della luce e la riflessione su specchi piani, sferici, cilindrici, conici; nella seconda si tratta della rifrazione, dell'arcobaleno, dell'anatomia dell'occhio, del meccanismo della visione e del funzionamento degli occhiali. N ella prima parte è notevole la spiegazione dell'immagine rotondeggiante del sole, data dai fori di qualunque forma. Maurolico spiega che, a una certa distanza dal foro, le immagini dei raggi luminosi emessi da ogni punto del corpo luminoso si sovrappon ­ gono: Kepler riprese e migliorò la stessa spiegazione. N ella seconda parte Maurolico fa propria la teoria della visione di Alhazen ma, basandosi su una più precisa anatomia dell'occhio, fa rifrangere i raggi nel cristallino l

e avvenire la sensazione sulla retina. Così è introdotto un concetto fondamentale per la teoria della visione: che, cioè, il cristallino funziona come una lente. Ma anche a Maurolico manca il coraggio di affermare il capovolgimento delle immagini sulla retina dell'occhio e con un seguito di arzigogoli conclude che sulla retina le immagini si formano diritte: tanta è la forza dei pregiudizi anche sugli ingegni più alti ! Nella teoria della visione a Maurolico va ancora il merito di aver riconosciuto nella debole o eccessiva curvatura del cristallino la causa rispettivamente della presbiopia o della m10p1a. Pur non conoscendo la legge della rifrazione, Maurolico dimostra che nella rifra­ zione attraverso a una lastra a facce piane e parallele, i raggi luminosi non subiscono deviazioni, ma solamente uno spostamento parallelo ; invece le lenti convesse sono convergenti e le concave divergenti. Studiando la rifrazione della luce attraverso una sfera di vetro, Maurolico osserva la diacaustica e ne inizia lo studio. Per quanto possa apparire strano, Maurolico è il primo scienziato a indicare esattamente sette colorì nell'arcobaleno, mentre la tradizione, che risale a Vitellione, distingueva nel­ l 'iride soltanto tre colori. E, finalmente, Maurolico inizia lo studio della rifrazione della luce attraverso i prismi, affermando che i colori che se ne ottengono sono eguali a quelli che si osservano nell'arcobaleno. È un piccolo libro quello del Maurolico, appena 84 pagine, ma è un grande trat­ tato: peccato che sia comparso 57 anni dopo la sua stesura. 1 3·

L'invenzione del cannocchiale.

Ben diversi da questo serio librettino di Maurolico sono i ponderosi volumi del napoletano Giovan Battista Porta (1538 ?-r6r5), la cui serie comincia con una Magia naturalis sive de miraculis rerum naturalium, in quattro libri, pubblicata nel I558, la quale contiene qualche osservazione nuova, ma nel complesso è una mera compila­ zione condotta sui libri medievali dei segreti. Nel 1589 l 'opera fu ripubblicata in XX libri ; ma del primitivo lavoro giovanile è rimasto soltanto il titolo e neppure intero, perchè è stato soppresso il sottotitolo sive de miraculis rerum naturalium, forse per evitare all'autore le noie dell'Inquisi­ zione che lo aveva già fortemente infastidito. In questa seconda edizione, pur tra le molte stravaganze, le credulità e la ricerca ad ogni costo del mirabolante, si nota un più serio impegno e una più stretta imitazione delle due enciclopedie di Cardano, sopra ricordate (§ g) . Dei venti libri dell'opera, due attirano particolarmente la nostra attenzione : il settimo, di cui parleremo in seguito (§ 15) e il diciassettesimo. Quest'ultimo è dedicato alle >, e già nel proemio promette mira­ bilia: E se è parso che la veneranda antichità abbia escogitato molte e grandi cose, noi ne diremo di più grandi, di più elevate e di più famose, e non poco utili ai cultori della scienza ottica (Io. Baptistae Portae Neapolitani, Magiae naturalis libri viginti, Fran­ cofurti r6o7, p. 572. La prima edizione comparve, come abbiamo detto, nel 1589, ed ebbe innumerevoli edizioni e traduzioni in molte lingue). Ma non è tutto vanteria; anzi stupisce di trovare in questa opera, dove ogni cosa sembra scaturire per miracolo, le pagine di questo diciassettesimo libro e del settimo, 57

nelle quali si sente la parola nuova dei tempi nuovi. Il Porta mostra di avere una lunga pratica sperimentale di ottica, confermata, del resto, anche dalla storia esterna. Il Porta era andato, infatti, nel rs8o a Murano, per incarico del cardinale d'Este, e dalla corrispondenza col cardinale lo vediamo tutto il giorno affaccendato coi vetrai per farsi costruire lenti e uno specchio parabolico. Durante la sua permanenza a Murano egli strinse amicizia con Fra Paolo Sarpi ( r552-r623) , col quale mantenne poi per tutta la vita amichevoli rapporti e del quale parla in questa Magia con parole di grande ammirazione (§ 15). Negli anni giovanili Fra Paolo s'era dedicato alle scienze naturali e matematiche, in particolare, affascinato dal contenuto naturalistico e dalla veste geometrica, allo studio dell'ottica. E non s'era limitato allo studio dei classici - Euclide, Tolomeo, Alhazen - ma aveva fatto ricerche originali, sulle quali con­ versava con grande liberalità coi suoi numerosi amici scienziati. Vale la pena ricordare un caso specifico connesso col periodo storico che stiamo trattando. In un suo >, scritto intorno al 1578 ma pubblicato nel r882, il Sarpi, ricordato che la grandezza apparente degli oggetti dipende dall'angolo sotto il quale si vedono, aggiunge che questo fatto risulta anche dagli occhiali ed altri perspicui che aggrandiscono o sminuiscono la cosa, solo facendo l'angolo grande o piccolo (P. Cas­ sani, Paolo Sarpi e le scienze naturali, di fra Paolo Sarpi : Uno o più specchi si possono talmente accomodare, che vegga l'uomo quanto di fuori si fa, lo stesso con occhiali avvenendo. Far leggere lettere di lontano so passi. L'ho io provato collo sferale, o con la lente, ma meglio con la parabola e sua lente, e leggerlo stando lontano il lume (P. Cassani, op. cit., p. 320) . E quasi a commento di ·

59

... ·-�-....

.......-----�

=:::-:::-.... - ..

:::-- --- ..... --

L'applicazione di G . B . Porta della camera oscura ulteriormente perfezionata : A B è uno specchio inclinato a 45o sull'orizzonte; E una lente convergente che proietta su un foglio da disegno l'immagine di un oggetto esterno (da Saverien, Dictionnaire universel de mathématique et de physique, Parigi, 1 754). \

questo pensiero lo stesso Sarpi in una lettera del 6 febbraio 1609 al signor De L'Isle Groslot in cui gli comunica la comparsa del cannocchiale a Venezia, lo informa che anch'egli da giovane aveva pensato ad una tal cosa, ma, aggiunge, nè confermai, nè riprovai il pensier mio nell'esperienza. Non so se forse quell'artefice abbia riscontrato col pensier mio, e se la cosa non ha acquistato aumento, come suole la fama per il viaggio (Lettere di Fra Paolo Sarpi, Firenze 1 863, vol. I , pag. 181). Ci pare, pertanto, che non si vada molto lontano dal vero supponendo che nel suo famoso XI capitolo del XVII libro della Magia, il Porta abbia tentato di annunciare oscuramente il dispositivo telescopico specchio parabolico-lente d'ingrandimento che fra Paolo aveva proget­ tato di costruire e che il Porta, dopo avere per anni armeggiato, non era riuscito a mettere a punto. Il Porta s'era sempre rifiutato di dare spiegazioni su questo suo X I capitolo solo dicendo che Fra Paolo l'aveva capito ; solo dopo che lo strumento era stato adoperato da Galileo ne rivendica la priorità e lo dichiara >. 6o

Una > ricercata per secoli, perchè l'ispirazione è antica quanto le lenti, e quasi spontanea in ognuno che abbia adoperato una lente d'ingrandimento, il quale si dovette chiedere se non fosse possibile moltiplicare ad libitum il potere d'ingrandi­ mento. Ed è questo aver confuso l'aspirazione con la realizzazione che ha indotto molti storici ad attribuire l 'invenzione a personaggi diversi: a Ruggero Bacone che voleva costruire lenti che facessero vedere un uomo grande quanto una montagna; a Leo­ nardo da Vinci che voleva far occhiali da vedere la luna grande ; a Gerolamo Fra­ castoro che nel 1538 scriveva che guardando attraverso due occhiali sovrapposti ogni cosa si sarebbe vista molto più grande e più vicina; a Leonardo Digges che nel 1571 pubblicò un libro che insegnava a combinare lenti concave e convesse ; a Fra Paolo Sarpi ; a Giovan Battista Porta. Huygens, che di ottica s'intendeva, lasciò scritto nella sua Diottrica che un uomo capace d'inventare il cannocchiale, basandosi soltanto sulla teoria, senza il concorso del caso, sarebbe stato dotato di genio sovrumano. Le teorie ottiche del Cinquecento non portavano al cannocchiale, ma ne allontanavano. Per convincersene, basta scor­ rere il più voluminoso trattato d'ottica scientifica del Cinquecento, il De refractione, di cui nessuno farebbe autore Giovan Battista Porta. Ma fossero i tempi che andavano mutando, fosse l'esperienza della vita di studi con tutti i disinganni sui fenomeni mirabolanti a cui egli troppo facilmente aveva creduto, fossero gli insegnamenti di Fra Paolo, il fatto è che il Porta nel De refractione mostra, pur tra il balenio d'uno smisurato entusiasmo per i fenomeni naturali, un impegno scientifico nuovo, un senso critico, una serietà d'intenti e di metodi che non li diresti possibili nell'autore della Magia. Il Porta segue la teoria classica della visione, talmente incapace di spiegare i fenomeni di rifrazione da indurre il lettore nella convinzione che la rifrazione è tutta un imbroglio, un inganno della natura. Prendiamo, per esempio, una delle prime pro­ posizioni del Porta, la quinta del primo libro; dice: l'immagine rifratta arriva all'occhio per linee rette (Io. Baptistae Portae N eapolitani, De refractione, optices parte libri novem, Neapoli 1593, p. 12), che è un'incomprensibile proposizione, contraddittoria nei termini. Ne risulta che il Porta non riesce affatto a spiegare le più comuni esperienze di rifrazione, come quella del bastone spezzato, di cui si occupa il I libro. Peggio avviene nel secondo, dove, seguendo la malaugurata usanza medioevale, si affronta lo studio della rifrazione nella pila crystallina, cioè in una palla di vetro: in questo caso le aberrazioni, aumentate dagli effetti fisio-psicologici dell'osservazione a occhio fatta dal Porta, mascherano il fenomeno principale. Dopo altri cinque libri dedicati all'anatomia dell'occhio e alle teorie della visione, il Porta affronta, nell'VI I I , l'argo­ mento più interessante : le lenti. Non vi mancano osservazioni notevoli, ma l'impres­ sione fondamentale che il lettore riceve è che delle lenti non ci si può fidare: ingran­ discono e impiccioliscono, fanno veder doppio, fanno vedere colori che nelle cose non ci sono. No, delle lenti non ci si può fidare. Come poteva in questo ambiente scientifico nascere il cannocchiale ? Infatti, tutti i documenti che oggi si hanno concordano nell'indicare che il can­ nocchiale non nacque nell'ambiente dotto ma nell'ambiente artigiano, l'ambiente dei vetrai, quelli, più particolarmente, che lavoravano gli occhiali, diffusi ormai tanto che era sorta una vera industria specializzata. 61

Ma non astante i molti documenti accumulati, gli storici non sanno ancora dire con esattezza dove e quando comparvero per la prima volta i cannocchiali. Furono fatti molti nomi e avanzate molte pretese. Di sicuro si sa che nel 1604 molte persone guardarono attraverso il cannocchiale, e se si può credere a un tardo documento del 1634, nel 1604, a Middelburg, in Olanda, Zaccaria Janssen costruiva cannocchiali su un modello che egli diceva pervenuto dall'Italia e su cui era scritto: anno 1590. Se questa è la data di nascita del cannocchiale, esso visse una vita umbratile per 18 anni, sino al 1608, senza attirare l'attenzione particolare di nessuno, e tanto meno dei dotti. N el 1608 cominciò ad interessarsi allo strumento qualche militare, ma con molta freddezza. Nella primavera del 16og qualche notizia dello strumento arrivava a Venezia, alle orecchie di Galileo : dieci mesi dopo compariva il Sideretts Nuncius, l'ambasciatore celeste, che portava le notizie dei tempi nuovi.

IL MAGNETISMO E L'ELETTRICITÀ 14.

Declinazione e inclinazione magnetica.

Chiunque legga oggi il trattato di Pietro Peregrino (Cap. I I , § 9) , ammirata la chia­ rezza e la sistematicità dell'esposizione, deve convenire che l'autore non è un compila­ tore, ma uno sperimentatore accurato: egli non riferisce cose lette o sentite, ma fatti per­ sonalmente accertati. Sicchè, quando nel capitolo VII Peregrino dice, e nel capitolo X ribadisce, che l'ago si rivolge verso il polo nord, bisogna concludere che questa era proprio l'esatta posizione dell'ago magnetico da lui rilevata. Del resto, ci sono altri indizi per ritenere che all'epoca del Peregrino la declinazione magnetica - cioè l'angolo che il meridiano magnetico forma col meridiano geografico del luogo d'osservazione - fosse nulla in I t alia. Perciò le due note che si trovano soltanto in un manoscritto dell'epistola del Peregrino, conservato nella biblioteca dell'Università di Leida, i n cui si fa cenno ad una declinazione di 5°, debbono ritenersi soltanto tarde interpolazioni. Chi, dunque, scoprì la declinazione magnetica ? La domanda rimane per ora senza risposta sicura. Sino al XIX secolo si attribuiva, quasi concordemente, la scoperta a Cristoforo Colombo (1436 ?-1506) , durante il suo primo viaggio ( 1492) verso l'Ame­ rica. Ma, nel 1905, uno studioso tedesco, il Wolkenauer, dimostrò che già verso la metà del XV secolo si costruivano in Germania orologi solari (se ne conserva ancora qualche esemplare nei musei tedeschi) in cui era indicato l'angolo che la direzione dell'ago magnetico forma con la direzione dello gnomone a mezzogiorno. Ma questo solo fatto - l'unico probativo tra quanti ne sono stati invocati - non può indurre gli storici ad abbandonare l'antica credenza che attribuiva al Colombo la scoperta della declinazione, perchè sembra stranissimo che il fenomeno si conoscesse in terra ferma e fosse ignoto ai marinai tanto più pratici e interessati all'uso della bussola. Comunque, se non ci è noto il primo scopritore, possiamo fissare la data della cono­ scenza del fenomeno tra i marinai : il principio del XVI secolo.

I navigatori si accorsero ben presto che la declinazione magnetica varia da luogo a luogo. Anzi, ignorando ancora la sua variazione in uno stesso luogo anche col tempo (la cui scoperta richiedeva naturalmente una più lunga osservazione e fu fatta sol­ tanto nel r634 da Enrico Gellibrand, 1597-1636), essi credettero, sino a tutto il XVI I I secolo, che la sua conoscenza in ogni luogo risolvesse l'altro grande problema della navigazione: la determinazione della longitudine, che ritennero legata alla declinazione in modo che dalla conoscenza di questa si potesse dedurre quella. Da questa falsa credenza nacque la prima carta magnetica che il missionario gesuita Cristoforo Borri (nato a Milano in epoca incerta, morto a Roma nel 1632) pubblicò nella De arte navi­ gandi, tracciando su una carta geografica le linee che riunivano le località aventi, secondo i dati da lui posseduti, la stessa declinazione magnetica. Le carte magnetiche si diffusero dopo che, nel 1701, ne pubblicò una l'astronomo inglese Edmondo Halley, a cui comunemente se ne attribuisce il merito. Il fenomeno d'inclinazione magnetica - cioè il fatto che un ago calamitato libero di ruotare intorno a un asse orizzontale si dispone, nell'emisfero settentrionale, col polo nord rivolto verso il basso è di quelli che richiedono una coordinata serie di esperimenti. Intanto, con un ago libero di ruotare su una punta verticale, l'angolo d'inclinazione è necessariamente molto piccolo, onde il fenomeno può facilmente sfuggire ; con l'ago galleggiante o l'ago infisso in un cilindretto imperniato o con la sfera magnetica galleggiante il fenomeno non è osservabile. E pure osservato il feno­ meno con un ago sospeso a una punta verticale, è facile attribuire la causa a una dissimmetria di costruzione meccanica, che fa inclinare il polo nord dell'ago verso il basso. Per scoprire il fenomeno, bisogna costruirsi un ago di ferro, equilibrarlo bene sulla punta verticale in modo che esso sia orizzontale, quindi magnetizzarlo e veri­ ficare che, posto sulla punta verticale, non rimane più orizzontale. È precisamente questa la serie di esperimenti eseguiti, nel 1544, dal tedesco Giorgio Hartmann ( 14891564) , primo scopritore del fenomeno, che trovò un angolo d'inclinazione di 9°, valore troppo piccolo a causa appunto del dispositivo impiegato, adatto a rilevare la decli­ nazione, non l'inclinazione magnetica. Più tardi, nel 1576, l'inglese Roberto Norman insegnò a rendere l'ago libero di ruotare intorno a un asse orizzontale, costruendo così il primo inclinometro. -

15.

Il primo trattato italiano di magnetismo.

Mentre Norman sperimentava in Inghilterra, in Italia Giovan Battista Porta lavo­ rava febbrilmente attorno a ogni fenomeno arcano, di aspetto magico. E quale com­ plesso di fenomeni gli poteva sembrare più arcano del magnetismo ? E si capisce che, andando in cerca di cose meravigliose, spesso travide invece di vedere, credette invece di sperimentare, fantasticò invece di costruire. Ma, detto questo che è il massimo male che si possa dire, bisogna riconoscere che il settimo libro della Magia, a cui abbiamo già accennato nel § 13, è il primo trattato italiano di scienza magnetica. Ad esso collaborò, in misura notevole, Fra Paolo Sarpi, come lo stesso Porta riconosce nella prefazione al libro : Conoscemmo a Venezia, assorto nello stesso studio, il reverendo Maestro Paolo veneto, allora provinciale ora degnissimo

procuratore dell'ordine dei Servi, dal quale, lungi dall'arrossire, ci vantiamo di confessare di aver imparato alcune cose, perchè ancora non ci è capitato mai di conoscere un uomo enciclopedico più dotto e più perspicace di lui, ornamento e splendore non soltanto di Venezia e dell'Italia, ma del mondo (Io. Baptistae Portae Neapolitani, Magiae natu­ ralis libri viginti, cit., p. 288-89). Il settimo libro della Magia si può dividere idealmente in tre parti, trascurando la parte deteriore, costituita dall'ultimo capitolo, il 59°, nel quale sono raccolte tutte le fanfaluche tramandate dai secoli sulle virtù magiche della calamita. La prima com­ prende l'esposizione, con metodo sperimentale, dei fenomeni magnetici già noti. La seconda parte critica e ripudia antiche credenze fallaci, con un notevole spirito d'indi­ pendenza, anzi d'insofferenza per il principio d'autorità. La terza parte, quella che più ci interessa, è l'apporto originale alla scienza magnetica. Nuovo e bellissimo il seguente esperimento: poni limatura di ferro in un cartoccio e poi accostavi la cala­ mita; la limatura riceverà una virtù calamitica come se fosse un ferro unito ; poi versa la limatura e mischiala, e quindi rimettila nel cartoccio : la forza ne sarà confusa e dispersa. L'esperienza fu ripresa dal Grimaldi nel secolo successivo, consentendogli di emettere una teoria geniale che prelude a quella di Ewing della fine del secolo scorso. Al Porta è anche dovuto l'esperimento dei peli di limatura di ferro che imbarbano i poli della calamita e che si potrebbe considerare la prima osservazione su gli spettri magnetici. E vanno anche ricordate due autentiche e grandi scoperte : la prima, conte­ nuta nel capitolo XVI, è l'ufficio dì schermo magnetico delle lastre di ferro ; la seconda, descritta nei capitoli IV e XLI, è l'osservazione sperimentale che la calamita riscaldata ad alta temperatura perde la proprietà magnetica (effetto Curie, come si dice oggi) . 1 6. Guglielmo Gilbert. Nella storia del magnetismo chi assunse la posizione più apertamente e fieramente polemica - resagli possibile anche dalle condizioni generali del paese in cui viveva - fu l'inglese Guglielmo Gilbert (Colchester, 1544-Londra, 1603) che nei suoi viaggi giovanili venne in Italia, a Venezia, dove conobbe Fra Paolo Sarpi, col quale ragionò di magnetismo. Non soltanto la filosofia, ma anche la violenza verbale di Francesco Bacone (I56I­ I6z6) s'ispirarono al capolavoro del Gilbert, il De magnete, che si apre con una vio­ lenta filippica contro i filosofi del suo tempo: Perchè . . . dovrei io sottomettere qu,esta nobile filosofia, che per le cose mai prima dette è quasi nuova e inammissibile, al giu­ dizio di u,omini che gt:urano sulle opiniom: altrui, ai più insulsi corruttori delle arti, ai letterati buffoni, grammatici, sofisti, declamatori, ed alla caparbia plebe, perchè questa filosofia sia condannata e dilacerata di vituperi ? A voi soli, veri filosofi, uomini sinceri, che non solo nei libri, ma nelle cose stesse cercate il sapere, ho io dedicato questi fonda­ menti della scienza del magnetismo, trattati con un nuovo modo di filosofare (Guilielmi Gilberti, De magnete, magneticisque corporibus et de magno magnete tellure physiologia nova, Londini MDC, Prefazione, p. II non num.) . Questo nuovo modo di filosofare consisteva nel cercare il sapere non soltanto nei libri, ma nelle cose stesse assoggettandole a lunga, paziente esperienza. E la lunga ,

esperienza è veramente il grande merito del Gilbert, che descrive oltre 6oo esperienze, assurgendo da queste a una concezione di grande importanza scientifica e filosofica. Ispirandosi al Peregrino, il Gilbert si foggia un magnete a forma di sfera, la Ter­ rella. Quindi, con un piccolo ago magnetico imperniato che va poggiando sulla super­ ficie, studia le proprietà magnetiche della terrella e trova che esse corrispondono alle proprietà magnetiche della terra, la gran calamita: sicchè, egli conclude, per riguardo alle azioni magnetiche la grandezza è l'unica differenza tra la terra e la terrella. Questa concezione - giudicata > da Galileo - aveva un'importanza che andava ben oltre la pura nozione tecnica: era la prima volta che si aveva l'ardire di paragonare un fenomeno sperimentato nell'angusto laboratorio dell'uomo ad un fenomeno cosmico. Un colpo gravissimo era così inferto al millenario mito che con­ trapponeva il mondo sublunare ai cieli, perchè la concezione del Gilbert veniva in ultima analisi a dire che i fenomeni del cosmo si studiano con gli stessi metodi che valgono per i fenomeni di scala umana. Oltre all'accennato concetto stupendo e ad una personale rielaborazione del com­ plesso di conoscenze magnetiche tramandate dai secoli, si trova nell'opera di Gilbert anche qualche nuovo fatto sperimentale, come, per esempio, il fatto che un filo di ferro, disteso nel meridiano magnetico, martellato e stirato, assume le polarità magne­ tiche o quello di aumentare, con un'accurata lavorazione delle superficie, la portata delle calamite; tecnica nella quale fu largamente superato da Galileo che, per como­ dità sperimentale, introdusse l'uso (e il vocabolo) dell' àncora. Ma quando Gilbert tentò di dare una teoria del magnetismo, egli, dopo una lunga e oscura disquisizione, concluse che non gli sembrava > (Ibid. , p. 68) : via, risalire a Talete è un po' troppo ! 1 7. Nascita dell'elettrologia. Col Gilbert ha origine la scienza elettrica, praticamente rimasta sino al r6o6 alle conoscenze di Talete, cioè alla conoscenza che l'ambra - e forse anche un ipo­ tetico corpo detto Iincurio - strofinata attira le pagliuzze. Ci si può chiedere come mai una proprietà così comune sia stata attribuita, per tanti secoli, soltanto all'ambra. Una delle ragioni fondamentali dev'essere stato il fatto che l'elettrizzazione per stro­ finio degli altri corpi è talmente debole che l'effetto sfugge senza l'aiuto di qualche dispositivo sensibile che ne consenta il rilevamento : in sostanza, si trattava di supe­ rare, come oggi si dice, la soglia del fenomeno. Forse intuì questo fatto un nostro celebre poeta scienziato, Gerolamo Fracastoro (I483-I5S3), che nel rsso, nel suo De sympathia et antipathia rerum, descrisse un dispo­ sitivo costituito da una sbarretta sospesa ad una punta a mo' d'ago magnetico, col quale egli constatò che l'ambra non attira soltanto i fuscelli e le pagliuzze, ma anche l'argento. Ma se Fracastoro non andò più oltre nella sua indagine sperimentale, il Gilbert capì l'aiuto che gli sarebbe venuto dal dispositivo di Fracastoro, che senz'altro fece proprio, imponendogli il nome di versorio e usandolo nelle sue sistematiche ricerche, descritte nel capitolo II del libro I I del De magnete. 5·

-

Storia delle Scienze,

Il.

Con l'impiego di questo primo elettroscopio, Gilbert provò che attira non sol­ tanto l'ambra strofinata, ma anche il diamante, lo zaffiro, il carbuncolo, l'opale, l'ame­ tista, il berillio, il cristallo, il vetro, le belemniti, lo zolfo, la ceralacca, il salgemma, la pietra speculare, l'allume di rocca. E ciascuno di questi corpi chiamò > ; l'astratto > comparve nel r65o. Gilbert sperimentò pure che l'attra­ zione di ciascuno di questi corpi non si esercita soltanto su festuche e pagliuzze, ma su tutti i metalli, i legm:, i fogli, le pietre, le zolle di terra, e persino l'acqua e l'olio e tutto ciò che è sottoposto ai nostri sensi (lbid., p. 48) . Parve, invece, al Gilbert che non atti­ rassero altri corpi come i metalli e molte qualità di legni e di pietre ; ed egli sagace­ mente anche osservò che le fiamme obliterano la facoltà d'attrarre assunta dai corpi strofinati. Dopo così abbondante messe sperimentale, il Gilbert tenta una teoria dell'attra­ zione dei corpi elettrici. Egli rigetta le due spiegazioni che si davano nel XVI secolo per l'attrazione dell'ambra. L'una affermava che il calore ha la proprietà d'attrarre e che l'ambra attira perchè è riscaldata dalla frizione. Ma già il Benedetti aveva dimostrato che proprietà del calore è il rarefare e il condensare, non l'attrarre. Gilbert ripete le considerazioni di Benedetti, aggiungendo che se proprietà del calore fosse l'attrazione, tutti i corpi riscaldati dovrebbero attrarre, e non soltanto l'ambra. L'altra teoria aveva un'origine illustre, perchè risaliva a Lucrezio: gli effluvii emessi dal­ l'ambra strofinata producono la rarefazione dell'aria, onde le pagliuzze sono spinte dall'aria più densa nel vuoto parziale prodotto dagli effluvii. Ma se fosse così, osserva lo scienziato inglese, anche i corpi caldi e le fiamme dovrebbero attrarre e un corpo elettrizzato dovrebbe attrarre la fiamma d'una candela cui fosse vicino, mentre non solo non la piega, ma in sua presenza perde la sua virtù. La critica di Gilbert è senza dubbio acuta, ma la teoria che egli propose non si presentava piti verosimile di quelle che egli combatteva. Secondo il Gilbert, tutti i corpi deriverebbero da due soli elementi primi, l'acqua e la terra; quelli che derivano dall'acqua hanno proprietà d'attrarre, perchè l'acqua emette effluvii speciali che > afferrano il corpo e lo portano alla fonte della loro emissione, e , avendolo compenetrato e quasi uncinato, lo trattengono abbracciato, finchè non s'illanguidiscono e, snervati, abbandonano la preda; e così via con discorsi di questo genere negli altri casi : non si può dire che le teorie di Gilbert fossero migliori di quelle di Cardano o di Porta. Nello stabilire la distinzione tra l'attrazione magnetica e l'elettrica (distinzione già posta dal Cardano, mentre anteriormente i due fenomeni si ritenevano della stessa natura) , Gilbert osserva un altro fatto importante : difficilmente si riesce ad elettriz­ zare con lo strofinio i corpi umidi, mentre l'umidità non impedisce l'attrazione del magnete. Sorvoliamo sugli altri caratteri distintivi dei due fenomeni, per concludere che dalle mani di Gilbert la scienza elettrica, anteriormente limitata a un unico fatto curioso, esce arricchita di numerosi fenomeni nuovi, di osservazioni preziose, di una tecnica strumentale che per se stessa è un nuovo capitolo di scienza: Guglielmo Gilbert meriterebbe il titolo di , come dice nella stessa postilla citata nel Cap. I I I , § r o ; infine, ancora vivente Galileo s'instaurò quasi una tradizione di esperienze di caduta dei gravi fatte dall'alto d'una torre ; le ripeterono : Giovan Bat­ tista Baliani, dall'alto della Rocca di Savona nel r6r r ; Vincenzo Ranieri, già disce­ polo di Galileo a Pisa, nel r64r dal campanile di Pisa ; Giovan Battista Riccioli e Nicola Cabeo dal campanile della chiesa di Gesù a Ferrara ; il Riccioli solo, alla presenza di Francesco Maria Grimaldi, dalla torre degli Asinelli di Bologna nel r640, 1645, 1648. In conclusione non ci paiono fondati i dubbi dei moderni critici sulla veridicità degli esperimenti pisani. Appartengono ancora al periodo pisano l'invenzione della bilancetta, ossia della bilancia idrostatica per misurare la densità dei solidi (Cap. I , § 4) e gli studi sui centri di gravità che gli avevano procurato la fama di esperto geometra. Ma queste e le manifestazioni letterarie del suo ingegno gli procurarono opposi­ zioni sempre più vaste, sì da spingerlo, anche per le peggiorate condizioni economiche della famiglia, a trovare una sistemazione più conveniente.

GALILEO NELLO STUDIO DI PADOVA 3· La scienza meccanica.

Ancora i buoni uffici di Guidobaldo Del Monte gli procurarono (1592) la lettura di matematica nello Studio di Padova, dove egli rimase r8 anni che furono i più proficui e i più sereni della sua vita agitata. Lo Studio di Padova si divideva allora in due università, giurista ed artista ; quest'ultima, alla quale apparteneva Galileo, comprendeva i teologi, i filosofi e d i medici. Il più grande numero degli uditori di Galileo era costituito dagli studenti di medicina, che, appresa un po' di geometria, passavano allo studio dell'astronomia, necessaria per iniziarsi all'astrologia, materia che ogni medico, per il suo decoro, doveva conoscere o dire di conoscere. Dai pochi rotoli dello Studio pervenuti a noi, sappiamo che i corsi pubblici di Galileo si svolgevano sugli Elementi di Euclide, la Sfera di Sacrobosco, l'A lmagesto di Tolomeo, le Questioni meccaniche di Aristotele. Queste ultime egli lesse nell'anno scolastico I597-r5g8. Il titolo era tradizionale ; ma molto probabilmente lo scienziato avrà esposto dalla cattedra i risultati dei suoi studi pisani e le nuove speculazioni che via via aggiungeva. In questo periodo fu steso, forse per comodo dei suoi scolari, il trattato Della scienza meccanica e delle utilità che si trag­ gono dagli istntmenti di quella, che corse manoscritto e fu pubblicato per la prima volta nel r634, nella traduzione francese del Mersenne, col titolo Les Méchaniques. Il trat­ tato espone la teoria delle macchine semplici. Non conoscendo ancora il principio di decomposizione delle forze, Galileo tratta prima la leva, dimostrando il teorema dei mo-

menti, alla leva riduce la taglia, alla taglia il piano inclinato, al piano inclinato la vite. Nell'operetta, che supera tutte le precedenti per brevità, chiarezza ed eleganza, si trova enunciato in forma esplicita e corretta, anche se non generale, uno dei principi più fecondi della meccanica moderna, quello dei lavori virtuali, che, come abbiamo detto (Cap. I, § g) , con un po' di buona volontà, si può vedere adombrato anche in autori anteriori. Sorvoliamo su gli studi astronomici di Galileo per aggiungere che sono certamente del periodo padovano le scritture sull'isocronismo delle oscillazioni pendolari, lo studio sulle calamite (Cap. III, § r6) e le scoperte sul moto, di cui parleremo in seguito (§ 13). 4•

L'esperimento termoscopico.

Particolare menzione merita l'esperimento termoscopico, che risale anch'esso al periodo padovano, intorno al I597· Esso è importante non già per le lunghissime discussioni di priorità sull'invenzione del termometro, cui ha dato luogo, ma per la mentalità nuova antipe­ ripatetica, che ha presieduto alla sua ideazione e applicazione. L'esperi­ mento è il seguente : si riscalda con le mani una caraffella grossa quanto un uovo, col collo lungo e sottile come un gambo di grano, e quindi s'im­ merge la bocca in un vaso contenente acqua (v. fig. a lato) ; liberata allora la caraffella dal calor delle mani, l'acqua del vaso sale nel collo, via via che la caraffella si raffredda. . Ora, a nessun peripatetico sarebbe mai venuto in mente di poter misurare i gradi di caldo e di freddo, perchè, nella buona dottrina peripatetica, cal­ do e freddo erano proprietà distinte e intrinseche della materia. Ma invece Galileo insegnava - e più tardi (r623) esponeva lucidamente nel Saggiatore che il freddo non è una qualità positiva, ma una privazione di cal­ do ; che esso non è insito nella ma­ Schema dell'esperimento termoscopico di Galileo (dall'edizione nazionale delle Opere, tomo XVI I ) . teria, ma risiede nel corpo sensitivo. -

JO

5•

Qualità primarie e secondarie.

La distinzione tra qualità primarie e secondarie, come saranno chiamate da Locke, da alcuni critici rimproverata a Galileo come quella da cui hanno origine le filosofie dualistiche, è un carattere fondamentale distintivo della fisica galileiana, già sostenuto da Democrito d' Abdera, che s'ispirava al relativismo di Protagora (c. 480-410 a. Cr.) . È ben noto il passo del Saggiatore in cui Galileo ripiglia i l motivo democriteo ; m a vale la pena riferirlo ancora : ... ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch'ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch'ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch'ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch'ella si muove o sta ferma, ch'ella tocca o non tocca �tn altro corpo, ch'ella è una, poche o molte, nè per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni_· ma ch'ella debba esser bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l'immaginazione per sè stessa non v'arriverebbe già mai. Per lo che vo io pen­ sando che questi sapori, odori, colori etc. per la parte del suggetto nel quale ci par riseg­ gano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sen­ sitivo, sì che rimosso l'animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità,· tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali accidenti, volessimo credere ch'esse ancora fussero veramente e real­ mente da quelli diverse (VI, 347-48) . E per spiegare meglio i l concetto, Galileo passa subito agli esempi delle sensa­ zioni tattili che sono in noi e non nel corpo che ci tocca; degli odori, dei sapori, dei suoni questa ipotesi. Prima di meravigliarsi e di condannare l'atteggiamento di Galileo, bisogna richiamarsi ai tempi e aver capito la mentalità dello scienziato. Ora questa azione emanante dalla Luna e dal Sole, questa > o > di cui parlava Kepler, questa > o > di cui parlerà Newton, avevano tutto l'aspetto di ridare ai corpi celesti quelle qualità occulte di cui cianciavano i peripatetici e che Galileo aveva violentemente combattuto. La pubblicazione dei Massimi sistemi, fonte di tutte le sventure degli ultimi anni di vita di Galileo, è un evento memorabile nella storia del pensiero umano. I Massimi sistemi non sono propriamente un trattato d'astronomia o di fisica, ma un'opera peda­ gogica volta a combattere l'aristotelismo e a convertire gli uomini di buona fede alla nuova immagine del mondo portata dal copernicanesimo. Che lo scopo sia stato pie­ namente raggiunto è dimostrato dalla storia. 12.

La velocità della luce.

I Massimi sistemi si chiudono con una battuta di Sagredo che dichiara di stare >. La promessa contenuta in queste parole fu sciolta da Galileo, pubblicando a Leida dopo molte vicissitudini nel 1638 i Discorsi e dimostrazioni matematiche, intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica i movimenti locali, opera che egli chiamò, senza ingannarsi, il suo capola­ voro, perchè contiene organicamente raccolte, tutte le sue scoperte meccaniche. L'opera consta di quattro dialoghi (a cui Galileo aveva in animo di aggiungere altri che andava abbozzando), i cui interlocutori sono ancora Salviati, Sagredo e Sim­ plicio. I dialoghi si svolgono sereni e pacati, senza la concitazione polemica e il sar­ casmo dei Massimi sistemi; come se, abbattuto ormai l'aristotelismo, divenuto negli ultimi secoli una caricatura, si potesse procedere in serenità alla costruzione della nuova scienza. La Giornata Prima si apre con una lunga e interessante discussione su gli indivi­ sibili; questa discussione conduce gli interlocutori a trattare la questione dell'even­ tuale velocità della luce.

Galileo espone per bocca di Salviati, l'esperimento che avrebbe potuto decidere l'antica controversia sulla velocità della luce : è finita ? è infinita ? Due sperimentatori, ciascuno munito di una lanterna, si mettono a distanza e, secondo il preventivo accordo, il primo scopre la propria lanterna appena percepisce la luce della lanterna scoperta dell'altro; questi pertanto riceverà il segnale dal primo dopo un tempo · doppio del tempo impiegato dalla luce per andare dall'uno all'altro sperimentatore. A Galileo l'esperimento non poteva riuscire data l'enorme velocità della luce; ma gli rimane il merito di avere per primo posto il problema in termini sperimentali e di aver progettato un esperimento talmente geniale che sarà impiegato 250 anni dopo da Fizeau per la prima misura terrestre della velocità della luce: concettual­ mente, infatti, l'esperimento di Fizeau differisce da quello di Galileo soltanto nel fatto che ad uno dei due sperimentatori galileiani è sostituito uno specchio che rinvia subito il segnale luminoso ricevuto. Sulla velocità finita della luce e sulla possibilità di misurarla per via d'esperimento Galileo avrà più volte ragionato col suo amico Paolo Sarpi, il quale in gioventù aveva pensato alla misura della velocità della luce con un esperimento ancora primitivo, che avrà potuto però ispirare Galileo nel suo progetto sperimentale. In un lucido, lasciò scritto il Sarpi, mostrato ed ascoso, avverrebbe come nel suono poichè cesserebbe di vedere il vicino, quando il lontano a veder cominciasse, con dif}erenza pertanto mi­ nore, per essere il lume pù't veloce (P. Cassani, Paolo Sarpi e le scienze nat·urali, cit., p. 310-I I). 1 3. La dinamica. Dopo la digressione sulla velocità della luce, si affronta nelle Nuove sczenze, il problema del moto ; si confutano le massime aristoteliche e si giunge alla con­ clusione che . Per convalidare con l'esperienza questa conclu­ sione, Galileo, dopo aver pensato di far cadere i corpi lungo piani inclinati per rallen­ tarne il moto, volle anche liberarsi , Eustachio Divini di Roma, Francesco Fontana di Napoli) , la cui opera, parallela ai progressi teorici di cui parleremo in seguito, è uno dei maggiori meriti dell'ottica della prima metà del Seicento. Parleremo nel § 8 della scoperta fisica, la pressione atmosferica, che più di ogni altra rese immortale il nome di Torricelli. Ora ci limitiamo ad analizzare brevemente il suo contributo alla meccanica, contenuto nell'unico libro da lui dato alle stampe, diviso in tre sezioni : la prima e la terza sono dedicati alla geometria; la seconda, dal titolo De motu, gravium descendentium, et proiectorum libri du,o, sostanzialmente è la scrittura sottoposta da Castelli all'esame di Galileo. Nel primo libro del De motu Torricelli si propone di dimostrare il postulato di Galileo sulle eguali velocità dei gravi cadenti per piani inclinati di eguale altezza, e come già a sua insaputa aveva fatto Galileo (Cap. IV, § 13), lo dimostra assumendo a po­ stulato il principio oggi detto di Torricelli sul moto dei centri di gravità. Ma a Torricelli l ..

Fot. Alina'�

Evangelista Torricelli.

.

'

'

spetta ancora il merito di aver rigettato nelle numerose applicazioni del princtpto (al piano inclinato, alla leva, al moto per le corde di un cerchio o di una parabola) la teoria di gravi autori, che rimproveravano ad Archimede di aver considerato paral­ lele, invece che concorrenti al centro della terra, le direzioni verticali di due fili tesi da pesi alla superficie della terra e di avere insegnato che proprio la concezione archi­ medea era la più idonea allo studio della fisica teorica. Nel secondo libro è dapprima trattato il moto dei proiettili, generalizzando la dottrina contenuta nei Discorsi di Galileo. Questi aveva studiato soltanto il moto dei proiettili lanciati orizzontalmente ; in via incidentale, senza dimostrazione, Galileo aveva affermato che un proiettile rilanciato dal punto d'arrivo con velocità eguale e contraria a quella con cui vi era pervenuto, ripercorre la parabola in senso inverso. Torricelli, invece, considera un lancio obliquo qualunque e applicando i principi gali­ leiani ne determina la traiettoria parabolica e gli altri teoremi balistici oggi ben noti. In particolare, estendendo l'osservazione di Galileo, egli nota che il moto dei proiet­ tili è un fenomeno invertibile. Data, quindi, da Galileo e da Torricelli il concetto che i fenomeni dinamici sono reversibili, ossia che il tempo della meccanica galileiana è ordinato, ma privo di verso. Dopo aver parlato del De motu aquarum, a cui accenneremo tra poco, Torricelli dà cinque tavole di tiro, forse le prime che la storia dell'artiglieria ricordi, e nel timore che i pratici, cui son rivolte, non capiscano il latino, cambia bruscamente lingua e scrive in volgare. Col De motu aquarum, argomento nel quale ebbe a suoi immediati precursori Bene­ detti e Castelli, Torricelli ha portato un contributo così importante che Mach lo pro­ clama il fondatore dell'idrodinamica. Il problema fondamentale postosi da Torricelli fu di determinare la velocità d'efflusso di un liquido che sgorga da uno stretto orificio praticato nel fondo di un recipiente. Egli, con un artificio, fece zampillare verso l'alto il liquido sgorgato dal foro e constatò che giungeva a un'altezza minore del livello del liquido nel recipiente. Suppose allora che se tutte le resistenze al moto del liquido fossero nulle, il getto raggiungerebbe il livello del liquido nel recipiente: evidente­ mente questa ipotesi equivale ad ammettere, in questo caso particolare, ciò che noi oggi chiamiamo il principio di conservazione dell'energia. Dall'ipotesi ammessa, ragio­ nando per analogia col moto di caduta dei gravi, Torricelli conclude con la propo­ sizione fondamentale (oggi detta >) : L'acqua che erompe violen­ temente ha nel pu,nto d'efflusso la stessa velocità che avrebbe un qualunque corpo grave, ossia anche una singola goccia della stessa acqua, che fosse caduta naturalmente dal livello supremo della stessa acqua sino all' orifìcio di efflusso (De motu gravium naturaliter descendentium et proiectorum libri duo, Libro II, prop. XXXVII, in Opere di Evangelista Torricelli (ed. G. Loria e G. Vassura) , Faenza, I I , 1919, p. 1 86) . Il teorema, fondamentale per l'idrodinamica moderna, sarà dimostrato da Newton e da Varignon. Torricelli lo utilizzò, insieme coi risultati già ottenuti sul moto dei proiettili, per dimostrare che se il foro d'efflusso è praticato sulla parete verso il fondo del recipiente, il getto ha forma parabolica; fece inoltre acute osservazioni fisiche sullo spezzamento in gocciole della vena fluida e su gli effetti della resistenza dell'aria. ·

88

4· Giovanni Alfonso Barelli. Alla scuola galileiana appartenne anche il napoletano (o, secondo altri, messi­ nese) Giovanni Alfonso Borelli ( r6o8-r679) , una delle menti più acute che abbia avuto la scienza italiana del Seicento. È di Borelli il concetto precorritore della concezione newtoniana secondo il quale i pianeti tendono verso il sole per la stessa virtù per cui un grave tende verso la terra ; la sua similitudine tra un sasso ruotante all'estremità di una fionda e il moto di un pianeta intorno al sole è il primo germe, come riten­ gono quasi concordemente tutti i critici, della teoria dell'equilibrio dinamico del moto dei pianeti : secondo Borelli l'istinto che porta un pianeta a precipitare sul sole è equilibrato dalla tendenza di ogni corpo ad allontanarsi dal centro. Borelli pone questa vis repellens o forza centrifuga, come noi diciamo, inversamente proporzionale al raggio del cerchio descritto. Nel De vi percussionis (r667) , opera di meccanica in senso più ampio di quello indicato dal titolo, egli dette le leggi valide ancor oggi dell'urto centrale di due sfere anelastiche. Nella stessa opera egli si propose di determinare quale fosse il moto effet­ tivo di caduta dei gravi, supponendo (ex mera hypothesi, aggiunge con prudenza più che necessaria in lui che era frate) i gravi partecipanti al moto circolare uniforme di rotazione terrestre : concluse con la deviazione verso oriente, che soltanto nel 1791 fu verificata sperimentalmente da Giovan Battista Guglielmini ( ?-r8r7) con esperi­ menti di caduta dalla torre degli Asinelli di Bologna. Nel De motionibu,s naturalibus a gravitate pendentibus ( 1670) dedicò un capitolo allo studio sperimentale dei fenomeni capillari, giungendo alla conclusione che nei tubi capillari l'elevazione dei liquidi è inversamente proporzionale al diametro dei tubi: legge riscoperta nel 1718 dal medico inglese Giacomo Jurin ( r684-1750) di cui porta il nome. Nella stessa opera si trova la determinazione del peso specifico dell'aria (Cap. IV, § 7) con un dispositivo che è il primo esempio di areometro a volume costante. Nel r656, insieme col Viviani, determinò la velocità del suono nell'aria, adoperando il metodo diretto insegnato da Galileo, quello cioè di misurare l'intervallo di tempo tra l'istante in cui si percepisce la luce prodotta da un'esplosione e l'istante in cui se ne ode il rumore ; ottenne così risultati di gran lunga migliori dei risultati ottenuti dagli sperimentatori precedenti (Mersenne, Gassendi, e altri) . Ma il capolavoro di Borelli, l 'opera alla quale tutte le altre sono preordinate, è il De motu animalium, in due volumi pubblicati postumi, nel r68o-8r , a Roma, dove il Borelli era andato a morire in triste povertà. Il primo volume dell'opera descrive la struttura, la forma, l'azione e la potenza dei muscoli dell'uomo e degli animali con l'applicazione al moto. Nel secondo volume sono trattate, con analogie meccaniche, le contrazioni muscolari, i moti del cuore, la circolazione del sangue, la digestione. L'opera, che ebbe numerose edizioni successive, segna l'inizio della scuola dei iatro­ meccanici. Particolarmente ammirato è il XXII capitolo sul volo degli uccelli (De volatu) , tanto che più volte fu pubblicato a parte: nel nostro secolo, tradotto in inglese, fu inserito negli Aeronautical classics (n. 6, London 1 9 1 1 ) e, tradotto in tedesco, nei Klassiker der exacten Wissenschaften (n. 2 2 1 , Leipzig 1927) . 89

5· L'orologio

a

pendolo.

Subito dopo la scoperta (r7 gennaio r6ro) dei pianeti medicei, cioè dei primi quattro satelliti di Giove, Galileo ebbe l'idea di utilizzarli per la determinazione della longitudine in mare, problema, com'è noto, di grande importanza per i navigatori. Teoricamente il procedimento sarebbe stato molto semplice : calcolate in un certo luogo le effemeridi che diano l'istante in cui un certo satellite s'immerge nel cono d'ombra di Giove, basta determinare l'ora in cui lo stesso fenomeno si osserva in un altro luogo per avere dalla differenza tra le due ore la differenza di longitudine tra i due luoghi. L'ap­ plicazione del metodo richiede, dunque, la costruzione delle effemeridi, e un orologio. Nel r6r2 e successivamente nel r6r6 e poi ancora nel r63o Galileo tentò di avviare trattative col governo spagnolo per cedergli il suo ritrovato ; ma i tentativi fallirono. Nel 1636 rinnovò la proposta agli Stati Generali d'Olanda, che l'accettarono con animo grato, nominarono subito una commissione di studio e decretarono d'inviare in dono a Galileo una collana d'oro del valore di soo fiorini. La commissione fece alcune critiche al progetto galileiano, che Galileo trovò giuste ma superabili. Il negozio però non era di quelli che potessero essere trattati per lettera, onde Galileo propose che una delegazione degli Stati Generali si recasse da lui ad Arcetri. Amici di Galileo si rivolsero a Costantino Huygens, padre di Cristiano e segretario dei principi d'Orange, pregandolo d'interporre i suoi buoni uffici presso gli Stati Generali. Costantino Huygens accettò l'incarico e menò a buon fine la trattativa. Ma la notizia giunse al cardinale Francesco Barberini e questi ordinò subito all'Inquisitore generale di Firenze d'impe­ dire la negoziazione. Galileo pertanto ruppe le trattative e rifiutò il dono della collana che proprio in quei giorni una delegazione di mercanti gli recava. Il 15 agosto 1636, nel corso delle trattative, Galileo aveva scritto agli Stati Generali : Io ho tal misuratore del tempo, che se si fabbricassero 4 o 6 di tali strumenti et si lascias­ sero scorrere troveremo (in confermazione della lor giustezza) che i tempi da quelli misu­ rati et mostrati, non solamente d 'hora jn hora, ma di giorno in giorno et di mese in mese non differirebbero tra di loro nè a neo di un minuto secondo d' hora, tanto uniformemente camminano (Le Opere di Galileo Galilei, Ediz. naz., XVI, p. 467) . N on è difficile capire che il misuratore del tempo a cui allude Galileo doveva essere uno strumento che sfruttava a tal fine l'isocronismo delle oscillazioni pendolari. E infatti in una lettera del giugno 1637 a Lorenzo Réal (o Realio, secondo la comune italianizzazione del nome) , governatore delle Indie Olandesi, Galileo comunica che il suo orologio è un'applicazione del pendolo e gli descrive anche uno speciale conta­ tore del numero di oscillazioni. Nel 1641, narra Viviani, gli cadde in concetto che saria potuto adattare il pendolo agli oriuoli da contrappesi e da molla (lbid., XIX, p e già completamente cieco si confidò col figlio Vincenzo (morto nel r649) ; stabilirono di costruire il meccanismo, giunto a noi nel disegno del Viviani ( seg.) , con l'ingegnoso scappamento detto a virgola o a riposo. Che Vincen effettivamente costruito questo orologio è certo : risulta dall'inve della moglie di Vincenzo e dall'epistolario di Leopoldo de' M al Bouillau, il 21 agosto r659, un disegno del modello >.

Orologio a pendolo di Galileo, nel disegno lasciatoci da V. Viviani (dall'edizione nazionale delle Opere di Galileo, tomo XIX) . -�

--.,...

Cristiano Huygens (r62g-r6g5) comunicò di avere costruito l'orologio a pendolo in una lettera del 12 gennaio 1657, ne ottenne il brevetto nel giugno dello stesso anno, e rese pubblico il ritrovato nel trattato Horologùtm del 1658. Egli, figlio di Costantino che aveva avuto gran parte nei negoziati di Galileo con gli Stati Generali e in parti­ colare aveva conosciuto l'idea galileiq.na di applicazione del pendolo all'orologio, conobbe il progetto di Galileo ? Huygens lo negò sempre, pur riconoscendo che egli aveva avuto la stessa idea di Galileo, il cui orologio andava bene come il proprio, e pur ammettendo che il suo scopo, nel costruire l'orologio, fu esattamente quello di Galileo : la determinazione della longitudine in mare. Non vediamo perchè non si dovrebbe credere allo scienziato olandese, il quale nella costruzione dell'orologio rimase inferiore a Galileo nel meccanismo di scappa­ mento, avendone conservato l'antico: difettoso, ma in compenso lo superò di molto con la sostituzione del peso motore con la molla e il bilanciere. 6. Cristiano Hu ygens. La pubblicazione dell'Horologium dette subito tanta �ama. al suo autore, che Colbert lo chiamò a Parigi alla costituzione dell'A cadémie des ùiences nel r666 (§ 14). gr

Huygens vi rimase sino al i:68 r , quando, turbato l'ambiente dalla persecuzione contro gli Ugonotti cui egli apparteneva, stimò prudente ritornare all'Aja. Il trattato sull'orologio del '58 ha uno spiccato carattere di meccanica pratica: ma a un matematico dell'acume di Huygens non sfuggirono i problemi di meccanica teorica, connessi con la costruzione dell'orologio. Allo studio di questi problemi egli si dedicò negli anni successivi e nel 1673 comparve a Parigi il suo capolavoro, l'Horo­ log·ium oscillatoriun, sive de motu pendulorum ad horologia aptato demonstrationes geo­ metricae, diviso in cinque parti : descrizione dell'orologio ; movimento dei gravi su una cicloide ; evoluzione e dimensione delle linee curve; centro d'oscillazione o d'agita­ zione; costruzione di un altro orologio a pendolo circolare e teoremi sulla forza centrifuga. Huygens è il continuatore diretto di Galileo e Torricelli, dei quali, secondo la sua espressione, egli > le dottrine. Galileo aveva fondato la dinamica di un corpo solo, Huygens iniziò la dinamica di più corpi.

Cristiano Huygens. 92

Diamo ora un rapido cenno del contenuto di quest'opera fondamentale nella storia della meccanica, sorvolando sulla prima e la terza parte, non strettamente attinenti al nostro compito. Nella seconda parte, dopo aver riesposto le leggi di Galileo sulla caduta dei gravi, precisandone le dimostrazioni con la sistematica applicazione del principio di com­ posizione dei movimenti, Huygens, con ammirevoli dimostrazioni di geometria diffe­ renziale, arriva a stabilire l'isocronismo del pendolo cicloidale. Inizia poi la quarta partè ricordando che Padre Mersenne gli aveva proposto, quando egli era ancora quasi un ragazzo, la ricerca del centro d'oscillazione, cioè del punto della perpendicolare all'asse di oscillazione condotta dal centro di gravità, distante dall'asse di oscillazione d'una lunghezza eguale a quella del pendolo semplice isocrono col pendolo composto dato. Il concetto di centro di oscillazione, definito da Huygens nella forma precedente, si trova già in Galileo e fu ripetuto da Mersenne nel r646: se si avesse un insieme di pendoli semplici, immaginati come punti pesanti penduli da fili senza peso, di varia lunghezza, tutti attaccati alla stessa sbarra, i più corti oscillerebbero più rapidamente dei più lunghi ; se tutti questi pendoli venissero a un tratto a saldarsi tra loro for­ mando un sistema rigido, sarebbero costretti a muoversi tutti nello stesso tempo, onde i più corti accelererebbero il moto dei più lunghi: alcuni pendoli perderebbero di velocità, altri ne guadagnerebbero e altri ancora nè perderebbero nè guadagnereb­ bero: si chiamò centro di oscillazione il punto pesante di quello tra questi ultimi pen­ doli che si trova sulla perpendicolare condotta dal baricentro del corpo sull'asse di sospenswne. Sulla scorta delle precedenti considerazioni avevano invano tentato di determi­ nare la posizione del centro di oscillazione Descartes e Roberval. Huygens affrontò la questione e la risolse, ponendo a base della sua trattazione il principio di Torricelli. La teoria di Huygens non convinse molto i contemporanei, onde Giacomo Bernoulli, nel 1703, tentò una teoria più rigorosa, giungendo per la > del pendolo composto alla stessa formula di Huygens. Questi nel corso della trattazione introdusse inoltre la nozione di momento d'inerzia, e giunse alla proposizione culminante, la ventesima: il centro d'oscillazione e il punto di sospen­ sione sono reciproci (Ch. Huygens, Horologium oscillatorium, Paris r673, in Oeuvres complètes, XVI II, La Haye, 1934, p. 305) , che consente di trovare sperimentalmente il centro di oscillazione di un pendolo composto : nel r8r8 Enrico Kater (1777-1835) sfruttò questo teorema per costruire il >, cioè il dispositivo pra­ tico per determinare la lunghezza del pendolo che batte il secondo, e il valore del­ l'accelerazione di gravità in un certo luogo. Anche di questa ultima applicazione del pendolo siamo debitori a Huygens. Nel r676 Giovanni Richer (m. r696) fu molto sorpreso di constatare che un pendolo che batteva il secondo a Parigi, trasportato a Caienna ritardava ; fu accor­ ciato e, finita la ricerca, riportato a Parigi dove, invece, accelerava. Huygens nel suo Discours sur la cause de la pesanteur, finito nel r68r e pubblicato nel 1690, inter­ pretò il fenomeno come dovuto alla variazione dell'accelerazione di gravità, variazione che egli attribuiva solamente alla variazione di forza centrifuga che sorge dalla rota93

zione della terra. Questo studio lo condusse a ritenere che la terra dovesse essere schiacciata ai poli e rigonfia all'equatore ; ad avvalorare sperimentalmente la sua osser­ vazione egli impresse un rapido moto di rotazione a un globo d'argilla molle infilato in un asse e ne osservò lo schiacciamento : è ben noto come oggi l'esperimento si ripeta a scopo didattico con anelli elastici d'acciaio infilati in un asse diametrale. L'esperi­ mento ebbe notevole influenza sulla genesi delle teorie cosmogoniche di Kant e di Laplace. Fin dal r659 Huygens aveva scritto un trattato sulla forza centrifuga, De vi cen­ trifuga, pubblicato però soltanto nel 1703 postumo. Huygens vi studia la tendenza (conatus) d'un corpo attaccato a una ruota che gira, che secondo la sua intuizione, è della stessa natura del conatus di un corpo grave nella caduta. Che succede se un uomo è avvinto alla ruota girante e tiene in mano un filo che porta una palla di piombo ? Succede, risponde Huygens, che il filo è teso con la stessa forza che lo ten­ derebbe se esso fosse attaccato al centro della ruota. E dopo alcune considerazioni geometriche, Huygens conclude : Il conatus d',un globo attaccato a una ruota girante è quello che il globo avrebbe se tendesse ad avanzare di moto uniformemente accelerato secondo il raggio ( ... ) . Questo conatus è simile a quello d'un grave sospeso a un filo. Ne concludiamo che le forze cen­ trifughe di mobili ineguali, mossi da velocità eg�tali su cerchi eguali, stanno tra loro come le loro gravità, cioè come le loro quantità solide ( . . . ) . Ci rimane da trovare la grandezza o quantità del conatus per differentt: velocità della ruota (Ch. Huygens, De vi centrifuga, in Oeuvres complètes, XVI, 1929, p. 266). E a noi rimane da aggiungere che le ulteriori leggi trovate da Huygens sulla forza centrifuga e riportate, senza dimostrazione, verso la fine dell'Horologium oscillatorium, sono quelle che oggi si possono leggere, con lieve variazione di terminologia, su qua­ lunque tr�ttato elementare di fisica. Dopo il cenno sia pure breve che ne abbiamo fatto, sarebbe forse superfluo aggiun­ gere che per Huygens la forza centrifuga non è affatto fittizia, ma è una forza reale della identica natura della forza di gravità con la quale si può paragonare. Parleremo nel prossimo capitolo (Cap. VI, § rs) dell'ottica di Huygens, ritenuta il massimo contributo dato dallo scienziato olandese alla fisica. Ma non possiamo chiu­ dere la parte essenziale da lui avuta nei progressi della meccanica, senza accennare ai suoi lavori sull'urto. Fu questo un argomento di particolare difficoltà per i primi meccanici. Se ne era occupato Giovan Battista Baliani nel suo trattato De moto gravium solidorum del r638, e Galileo intendeva dedicare all'argomento la sesta giornata dei Discorsi sulle nuove scienze, ma. nei frammenti rimastici possiamo ammirare interessanti esperi­ menti, senza tuttavia trovare alcuna soluzione del problema; urtando contro questo scoglio abbiamo visto (§ r) che naufragò tutta la meccanica di Descartes. Molto pii1 fortunato Barelli che aveva trovato le leggi dell'urto dei corpi anelastici (§ 4) . Huygens, invece, si volge allo studio dell'urto dei corpi elastici. Nel De motu corporum ex percussione, completato nel r656, ma pubblicato postumo nel IJOO, egli affronta il difficile problema, ponendo a base della sua ricerca tre prin­ cipi: d'inerzia, di relatività e un terzo cui accenneremo tra poco, per aggiungere ora 94

che la concezione relativistica di Huygens è quella di Cartesio (§ r ) , cwe piit ampia di quella di Galileo e di Newton ; in altre parole, nemmeno Huygens ammette il moto assoluto rispetto allo spazio. Il terzo principio (che è il secondo nella numerazione di Huygens) afferma che se due corpi eguali animati da velocità eguali ed opposte si urtano centralmente, rimbalzano conservando le loro velocità cambiate di segno. In base a questi principi Huygens deduce le leggi dell'urto dei corpi elastici che poi esporrà anche in una memoria inviata nel r66g al concorso indetto dalla Royal Society l'anno precedente sulle leggi dell'urto dei corpi. A questo stesso concorso avevano preso parte Giovanni Wallis (r6r6-1703) che aveva trattato l'urto dei corpi non elastici e Cristoforo Wren ( r632-1723) con l'urto dei corpi elastici. La trattazione di Huygens è, senza alcun dubbio, molto superiore a quelle degli altri due geometri per l'ampiezza. d'imposta­ zione e la chiarezza d'esposizione, sia pure ottenuta talvolta a scapito della brevità. Le ulteriori ricerche meccaniche hanno ben poco cambiato le leggi sull'urto di Huy­ gens. Le trattazioni tanto di Wallis che di Wren e di Huygens avevano andamento essen­ zialmente geometrico. Edme Mariotte ( r62o-r684) , nel suo Traité de la percussion ou choc des corps, pubblicato postumo nelle sue opere (Leida 1717) , studiò gli stessi problemi giungendo press'a poco agli stessi risultati, per via nettamente sperimentale. Per avere velocità d'urto regolabili a volontà Mariotte ideò un dispositivo costituito da due pendoli eguali che si possono far cadere da altezze regolabili a volontà. Suo è anche l'apparecchio, tutt'ora impiegato allo scopo di dimostrare la trasmissione di moto nei corpi elastici, costituito da una serie di sfere elastiche pendule da fili, reci­ procamente a contatto : si sposta la prima; si fa ricadere sulla fila e l'ultima sfera si solleva, rimanendo immobili le altre. 7· La polemica sulle forze vive. Nel trattato citato sull'urto dei corpi e più esplicitamente ancora nel r686 Huygens afferma che nell'urto di due corpi la somma dei prodotti di per il quadrato della sua velocità è costante prima e dopo l'urto. Questo teorema di con­ servazione s'era presentato anche a Leibniz che, dopo averlo comunicato per lettera a Huygens, ne faceva oggetto della memoria Demonstratio erroris memorabilis Cartesii, pubblicata nello stesso anno r686 negli A cta entditontm. In questa memoria Leibniz chiama forza viva il prodotto per il quadrato della sua velocità e la con­ trappone alla forza morta o, come noi diremmo, all'energia potenziale : la prima espres­ sione, com'è noto, è rimasta nella scienza, con la modificazione introdotta da Gustavo Coriolis (r792-r843) che preferì valutare le forze vive come semiprodotto della massa d'un corpo, per il quadrato della sua velocità. Ora, Leibniz proponeva di valutare la (noi diremmo l'energia) di un corpo in caduta libera dall'altezza alla quale questo corpo potrebbe risalire, se fosse rilan­ ciato verso l 'alto con la velocità acquisita, sicchè si avrebbe in ogni caso eguaglianza tra forza viva e forza morta. Se la > si valuta così, dalle leggi della meccanica risulta che essa è eguale al prodotto del > per il quadrato della sua velocità, 95

sicchè un corpo dotato di velocità doppia possiede una : Noi siamo sommersi al fondo di un pelago d'aria elementare la quale per esperienza indubitata si sa che pesa e tanto che questa grossissima vicina alla super­ 111 a parte del peso dell'acqua (Evangelista Torricelli, fic-ie terrena pesa circa �tna 400 opere, III, Faenza I9I9, p. I87) . Torricelli continua descrivendo la notissima esperienza : un tubo di vetro lungo circa un metro, chiuso a un'estremità, si riempie di mercurio e otturatane con un dito l'altra estremità si capovolge su una bacinella contenente mercurio immer­ gendovi la bocca; tolto il dito, il mercurio scende nel tubo, restandovi a un livello di un braccio e I q. e un dito di più. L'esperienza, che per incarico di Torricelli fu eseguita la prima volta da Viviani, fu ripetuta con molti vasi alcuni cilindrici, altri terminanti con rigonfiamento a palla, e il livello raggiunto dal mercurio rimaneva sempre lo stesso. Torricelli, per dimostrare che lo spazio so­ vrastante il mercurio rimaneva vuoto, vi faceva arri­ vare acqua che con impeto orribile l'andava a riempire completamente. Descritti gli esperimenti, Torricelli continua : Q�testa forza che regge quell'argento vivo contro la sua naturalezza di ricader gz·ù, si è creduto fino adesso che sia stata interna nel vaso, o di vacuo, o di quella roba sommamente rarefatta,· ma io pretendo che la sia esterna e che la forza venga di fuori. Su. la superficie del liquore che è nella catinella gravita l'altezza di so miglia d'aria; però qual meraviglia è se nel vetro dove l'argento vivo non ha inclinazione, nè anco repugnanza per non esservi nulla, entri e s'innalzi fin tanto, che si equilibri con la gravità dell'aria esterna, che lo spinge ? (lbid.) . L'acqua poi in un vaso simile, ma molto più lungo, salirà sino a r8 braccia, cioè tanto più dell'argento vivo, quanto l'argento vivo è più grave dell'acqua, per equilibrarsi con la medesima cagione che spinge l'uno e l'altro (lbid. ," p. r88). In questa lettera è abbozzata la teoria della pressione atmosferica, meglio precisata in una succes­ siva lettera del 28 giugno 1644, nella quale Torricelli scioglie alcuni dubbi propostigli dall'amico Ricci. Questi chiedeva se la colonna di mercurio si sarebbe soste­ Esperienza di Gaspare Berti a nuta anche chiudendo la catinella, in modo che l'aria Roma, con un tu bo barometrico atmosferica non vi potesse gravare sopra. E Torricelli riempito d'acqua: C è u n cam­ risponde che, anche chiudendo con coperchio la va­ panello e A u n magnete col quale se ne solleva il battente e schetta, la colonna di mercurio non scènderà, perchè si fa quindi ricadere. Dal fatto l'aria rimasta nella vaschetta avrà la stessa che, corrusco prima di nuvole, va poi lentamente serenandosi (Ibid., p. 89) . Forse dal citato volume di Gaspare Schott conobbe gli esperimenti pneumatici di Guericke, Roberto Boyle ( 1627-1691), uno dei più acuti scienziati del tempo, for­ matosi sullo studio delle opere galileiane. Egli con la collaborazione del suo assistente Roberto Hooke, migliorò la macchina di Guericke, rendendo più facile il moto dello stantuffo mediante un sistema cremagliera-ruota dentata. L'aspirazione e l'espulsione dell'aria avveniva attraverso due rubinetti che si aprivano e chiudevano alternativa­ mente : più tardi, nel 1676, Dionigi Papin (1647-1712 ?) sostituì il rubinetto d'espul­ sione con una valvola nel pistone : munì la macchina di un piatto sul quale si poteva collocare una campana di vetro ; per ottenere un'evacuazione continua, accoppiò due pompe, i cui pistoni Hauksbee faceva muovere (1709) col sistema di due crema­ gliere ingrananti con un'unica ruota dentata. Dal 1709, insomma, la macchina assu­ meva press'a poco l'aspetto che si può osservare ancor oggi in qualche antiquato gabinetto di fisica. Gli esperimenti di Boyle non differiscono sostanzialmente da quelli di Guericke ; tra i più notevoli ricordiamo : la determinazione del peso dell'aria (Cap. IV, § 7) ; la misura della rarefazione, introducendo nel recipiente da evacuare la vaschetta e una parte del tubo di un barometro, dispositivo embrionale del vacuometro introdotto da Gian Giacomo da Mairan (1678-1771) nel 1734; la dimostrazione che nei recipienti vuotati dell'aria non si mantiene la combustione, nè la vita, nè si propaga il suono, nè funziona un sifone. Questi ed altri risultati Boyle pubblicò nel 166o in un lavoro dal titolo New Experiments . . . touching the spring of the air (N�wvi esperimenti sull'elasticità dell'aria) . In un successivo lavoro pubblicato nel 1686 come continuazione del precedente, Boyle descrisse una pompa di compressione, in tutto analoga, come principio di funziona­ mento, alle odierne pompe di compressione a stantuffo. 105

S t r u m e n t i p n e u matici vari. Tavola degli Expe­ rimenta de vacuo spatio di O. von Guericke (Amster­ dam, 1 672).

L'esperienza degli >, costituita con quattro sfere cave, vuotate d'aria, collegate a una barca. Le manovre di ascesa (oltre la quota d'equilibrio proprio) e di discesa sono assicurate rispettivamente con lancio di zavorra e con parziale immissione d'aria nelle sfere vuote ; vi sono previsti i possibili terrificanti impieghi bellici della macchina. Questo capo sesto del Prodromo, tradotto in latino, ristampato parecchie volte in epoche diverse, eccitò la fantasia dei tecnici, onde contribuì per la sua parte alla risoluzione del problema della navi­ gazione· aerea (v. fig. in alto) . 107

11.

La legge di Boyle.

Il surriferito titolo del libro di Boyle richiama l'attenzione sul concetto fonda­ mentale che aveva guidato lo scienziato nell'ideazione e nell'esecuzione dei suoi espe­ rimenti. L'elasticità dell'aria era stata dimostrata da Pasca! con · un'esperienza ripe­ tuta dall'Accademia del Cimento e da Guericke : una vescica floscia si gonfia, se viene a trovarsi nella camera barometrica o in un recipiente vuotato d'aria. Anche l'esperienza di Guericke dei due recipienti comunicanti dimostrava l'elasticità del­ l'aria. Boyle attribuiva a questa elasticità, cioè alla tendenza dell'aria ad espandersi, i fenomeni di apparente risucchio dei recipienti vuotati d'aria : è l'aria esterna a questi recipienti che spinge verso l'interno, non già l'orrore del vuoto o la forza del vuoto interna ai recipienti stessi. Contro questa concezione di Boyle si levò il padre gesuita Francesco Lino (1595r675), il quale sostanzialmente riprese le idee che erano state esposte dal padre Fabri e anche da Mersenne, i quali avevano tentato di attribuire il fenomeno barometrico e l'aspirazione dell'acqua nelle pompe a particelle uncinate d'aria e d'acqua che s'attacD E F E NSJO

D O C T R I N JE

DE E LATE R E ET

G R. A V I T A T E A E R I S _, Propojù f .cb Honor,tt1Jìmo ..

RO B E RT O In

Novis

B O Y L E,

lpjius

P H Y S I C O-M E C H A N I C I

E X P E R I M E NTIS

Arl-rmfuJ' Q B r E C T l O N E s

F RAN C I S C I

L I N I.

Ubi etiam Objtfloris Ft�mml11ris HJpothtjit examinatur guxJam l:. x P E R 1 M E N T A adduntur. ,

caquc occauono

L.Ab A v ro R E fitpr�t - di{lorMm Ex r E R. t •'"' E N TO R V M .

v E V L r r,

Apud S A M V E L E M VJI,

IO�

D E T O V R N E S.

J) C, L X ..} X.

Frontespizio di De elatere et gravitate aeris di R... Boyle (Ginevra, x6 8 o) .

Esperimenti di Boyle : a destra il barometro a lunga vaschetta. Nel lungo tubo A conte­ nente mercurio, Boyle introduceva lo stretto tubo B, previamente riscaldato e poi chiuso nel fondo C; raffreddando il tubo B il mer­ curio vi sale. Affondando il tubo B più o meno in A , l 'aria imprigionata in B occupa volumi diversi ed è soggetta a pressioni diverse che si deducono dalla differenza di livello del mercurio nei due tubi. A sinistra il tubo piegato descritto nel testo.

r-,

l l l

76

él )

b)

cano le une alle altre. Nel suo De experimento argenti vivi tubo vitreo inclusi, ecc. pub­ blicato a Londra nel r66o, padre Lino osservava che se si immerge nel mercurio un tubo aperto alle due estremità, quindi si chiude l'estremo superiore con un dito e si estrae parzialmente il tubo dal mercurio, si sente un'attrazione del polpastrello verso l'interno del tubo. Questa attrazione, arguiva padre Lino, non dimostra la pressione atmo­ sferica esterna, ma una forza interna, sviluppata da fili invisibili (funic�tli), di materia sottile, attac.cati da una parte al polpastrello e dall'altra alla colonna di mercurio. Idee come queste oggi fanno sorridere, ma allora occorreva prenderle in seria considerazione, come fece Boyle scrivendo una Defence against Linus (Difesa contro Lino), nella quale si proponeva di dimostrare che l 'elasticità dell'aria era capace di ben altro che il semplice sostegno della colonna torricelliana: Noi ora ci sforzeremo di dimostrare, con esperimenti appositamente fatti, che l' ela­ sticità dell'aria è capace di operare molto di più di q·ttanto ci è necessario attribuirle per spiegare il fenomeno torricelliano ... Prendemmo un lungo tubo di vetro che da una mano capace e con l'aiuto di una lampada fu in tal manùra piegato in fondo che la parte rivolta ·in su era quasi parallela al resto del tubo e l'orificio di questo braccio più corto era erme109

ticamente chiuso, mentre la sua lunghezza era divisa in pollici (ciascuno dei quali era diviso in otto parti) mediante una striscia di carta che contenendo quelle divisioni era accuratamente tutta incollata lungo il braccio (R. Boyle, Defence against Linus, London r66z, in The Workes of the Honourable Robert Boyle, London 1744, I , p. roo) . Sperimentando, come si fa ancor oggi, con questo tubo piegato a U, egli trovò che quando il volume dell'aria del ramo più corto era ridotto a metà, la differenza di livello del mercurio nei due rami era eguale all'altezza della colonna barometrica e quando il volume dell'aria era ridotto a un terzo la detta differenza diventava doppia della precedente (v. fig. a pag. prec.) . Non fu Boyle a capire l'importanza di questa legge, ma Riccardo Townley, un amatore (>) di Lancastre, che ripetè le esperienze e informò Boyle per lettera che la causa del fenomeno era l'elasticità dell'aria. Boyle pubblicò le osserva­ zioni di Townley parlando di > . Per verificare la legge di Townley per pressioni minori dell'atmosferica, Boyle ideò l 'apparecchio divenuto classico, conosciuto col nome di barometro a lunga vaschetta (v. fig. a pag. prec . ) . Con l'uso dei due dispositivi, Boyle assoggettò la massa d'aria racchiusa a pressioni variabili da I pollice e I/4 di mercurio a pollici 1 17 gfr6 e per ogni esperienza paragonava le pressioni osservate con quelle che si sarebbero dovute ottenere secondo l'ipotesi della proporzionalità inversa, trovando perfetta coincidenza tra valori osservati e valori teorici, sì da concludere : l'elasticità dell'aria si comporta in ragione inversa del volume. Boyle tornò ancora all'aerostatica nel 1666 pubblicando gli Hydrostatical Para­ doxes, nei quali confuta l'antica dottrina che un liquido più leggero non eserciti pres­ sione alcuna su un liquido più pesante. II fatto merita rilievo non per se stesso, ma come documento della lenta assimilazione delle idee. 12.

Formule altimetriche.

Nel 1676 Edme Mariotte ( r6zo-r684) , priore di Saint Martin sur Baune (Digione), pubblicò un saggio De la nature de l' air, nel quale descrive esperimenti quasi identici a quelli di Boyle e giunge (indipendentemente ? ) alla stessa conclusione, la >, che i francesi chiamano >. Ma Mariotte capì più di Boyle l'importanza di questa legge e le dette svariate applicazioni. Importante, fra tutte, fu il calcolo delle altezze mediante il barometro, partendo da un'ipotesi di carattere infinitesimale, che la modesta preparazione matematica di Mariotte condusse a un insuccesso. Riprese il calcolo di Mariotte Roberto Hooke, il quale, non più fortu­ nato del collega francese, ne dedusse che l'altezza totale dell'atmosfera è infinita, e da questo inferì la falsità della legge di Boyle. Al problema di dedurre l'altezza dalla pressione atmosferica si dedicò, nel 1 686, l 'astronomo inglese Edmondo Halley (r6s6- 1742), più noto per la scoperta della cometa che porta il suo nome, giungendo a una formula che, pur essendo sostanzial­ mente esatta, non tiene conto della variazione di temperatura. Sostanzialmente la formula di Halley dice che, mentre le altezze crescono in progressione aritmetica, la presswne atmosferica diminuisce in progressione geometrica. IlO

Sembra che il lavoro di Halley sia passato quasi inosservato, perchè numerosi matematici (Giacomo Maraldi, Giacomo Cassini, Domenico Bernoulli, e molti altri) per tutto il '700 e oltre si dettero alla ricerca di formule altimetriche ponendosi da punti di vista diversi. Soltanto Bouguer, nel 1 748, ritornò alla concezione di Halley. Ma fu Laplace a trattare (1821) il problema in tutta la sua generalità, ottenendo una formula molto complicata; ma che per usi pratici fu semplificata e fu di grande utilità nelle livellazioni rapide, in aeronautica e finanche nello studio del moto browniano (Cap. XIII, § g) .

LE ACCADEMIE SCIENTIFICHE 13. L'Accademia dei Lincei.

Sull'esempio delle accademie letterarie, sorsero in Italia le accademie scientifiche, che ebbero grande influenza sullo sviluppo e sulla diffusione delle scienze, e divennero centri propulsori del movimento scientifico. Si dice che fin dal 1560 Giovan Battista Porta avesse fondato a Napoli la prima accademia di fisica, l'A cademia secretorum naturae, ma probabilmente non si trattò di una vera accademia, con propri organi e statuti, ma di ricorrenti riunioni in casa del Porta di persone amanti delle particolari conoscenze, care al Porta, tra scienti­ fiche, magiche e astrologiche. Ben diversa la natura dell'Accademia dei Lincei fondata da Federico Cesi ( r585163o) nel 1603, insieme con l'olandese Giovanni Heck (italianizzato in Ecchio) , con Francesco Stelluti ( 1577-1651) da Fabriano e Anastasio De Filiis da Terni. Scopo dell'Accademia fu lo studio e la diffusione della conoscenza scientifica del mondo fisico ; ebbe come insegna la lince, cui si attribuiva vista tanto penetrante da vedere dentro gli oggetti, sormontata dal motto > . L'Accademia tenne la sua prima adunanza a Roma il 1 7 agosto 1603 e fu subito violentemente combattuta dal padre di Federico Cesi, uomo rozzo che abborriva ogni studio e che riuscì a far sospen­ dere le adunanze nel 1604. Nel 16og Federico Cesi la ricostituì, chiamando a farvi parte nuovi soci italiani e stranieri, sommo fra tutti Galileo, che sottoscrisse l'adesione il 25 aprile 1611. Fra il 16og e il 1630, anno della morte del Cesi, l'Accademia ebbe vita molto fio­ rida e un costante fermo atteggiamento di aperta difesa delle dottrine di Galileo . Nello stesso periodo essa pubblicò importanti opere scientifiche, tra le quali ricor­ diamo la !storia e dimostrazioni intorno alle macchie solari ( 1613) e il Saggiatore ( 1623) di Galileo. Morto il Cesi furono vani i tentativi di mantenere in vita l'Accademia. Dopo l'effimero tentativo di ricostituzione del 1745 e poi del 1795, assunse nel r8o2 la deno­ minazione di > e due anni dopo quello di >, vivendo una vita stentata sino al 1840, quando fu sciolta da papa Gre­ gorio XVI. Ricostituita nel 1847 da Pio IX col titolo >, fu trasformata nel 1870 in >, e per opera speIII

Lo stemma dell'Acca­ demia del Cimento (dai Saggi di naturali espe­ rienze, Firenze, 1667).

cialmente di Quintino Sella ( r827-r884) ne fu molto elevato il livello scientifico. Fusa nel 1939 con la cessata Accademia d'Italia, fu ricostituita nel 1944 come Vincenzo Viviani, Giovanni Alfonso Borelli, Carlo Renaldini, Alessandro Marsili, Paolo Del Buono, Antonio Oliva, Carlo Dati, Lorenzo Magalotti. Si annoveravano poi molti soci corrispondenti italiani e stranieri. La parte migliore della multiforme decennale attività scientifica del­ l 'Accademia fu esposta da Magalotti, il >, nella famosa opera Saggi di naturali esperienze fatte nell'A ccademia del Cimento (Firenze r 667, tradotti in inglese nel r684 e in latino nel 173 1) e una più ampia relazione fu data da Giovanni Targioni Tozzetti nei quattro tomi di A tti e Memorie inedite dell'A ccademia del Cimento e notizie aneddote dei progressi delle scienze in Toscana (Firenze 1 780) . I Saggi, ammirati anche per la precisione e la purezza linguistica, recentemente ristampati (Pisa 1957) in copia fotolitografica a cura della Domus Galilaeana di Pisa, dopo un proemio, iniziano la trattazione scientifica con la descrizione di termometri

l)

K \

.\

-\

.\.

w

·1

H.

n p

Esperimenti barometrici dell' Accade­ mia del Cimento. Al centro una va­ riante dell'esperimento del vuoto nel vuoto (dai Saggi di naturali esperienze, Firenze, 184 1 ) . 8.

·

Storia def.le Scienze,

II.

IIJ

e della relativa tecnica di costruzione ; poi si passa alla descrizione d'igrometri, di barometri e di artifici per l'applicazione dei pendoli alla misura del tempo. Seguono quattordici serie di esperimenti sistematici : sulla pressione atmosferica ; sulla soli­ ' dificazione ; sulla variazione termica di volume ; sulla porosità dei metalli ; sulla com­ pressibilità dell'acqua; sulla presunta leggerezza positiva; sulle calamit e ; sui feno­ meni elettrici ; sui colori ; sul suono ; sui proiettili. Il primitivo termoscopio ad aria di Galileo (Cap. IV, § 4) era stato trasformato in termometro a liquido (alcool) da Torricelli ; da lui e dagli accademici la costru­ zione fu talmente migliorata e adattata ai vari usi dello strumento che divennero fa­ mosi nel Seicento i (v. fig. sotto) , introdotti in Inghilterra da Boyle e diffusi in Francia dall'astronomo Ismaele Boulliau (r6os-r694), che aveva ricevuto un esemplare in dono da un diplomatico polacco. N el 1694 un accade­ mico del Cimento, Carlo Renaldini ( r6rs-r6g8) , fu il primo a proporre di assumere come , temperature fisse per la graduazione del termometro la temperatura del ghiaccio in fusione e quella dell'acqua bollente. La proposta di Renaldini fu ripresa nel 1742 dall'astronomo A. Celsius ( r70I-1744) che propose la scala centigrada con lo e il corrispondenti rispettivamente al punto di ebollizione e solidi-

Termometri dell' Accademia del Cimento.

1 14

Fot. Alinari

ficazione dell'acqua: l'inversione della scala fu fatta nel 1 750 dall'altro astronomo Martino Stromer (1707-1770) . Nel corso di studi sul calore, gli Accademici, volendo dimostrare che tutti i corpi si dilatano col riscaldamento, proposero l'esperimento che tuttora si ripete ne11e scuole col nome di ; invece di una sfera che a freddo passa di misura attraverso un anello e a caldo non vi passa, gli Accademici si servivano per lo stesso esperimento di un cilindro. Il Cimento dimostrò pure che la dilatazione termica dei liquidi è maggiore di quella dei solidi ed ebbe chiaro il concetto di capacità termica, sebbene le relative esperienze non siano state pubblicate nei Saggi. Sorvolando sulle interessanti esperienze relative alla resistenza dell'aria, alla com­ pressibilità dei liquidi e ai fenomeni che avvengono nel vuoto della camera baro­ metrica, aggiungeremo che, migliorata la costruzione di barometri e termometri, gli Accademici iniziarono sistematiche osservazioni meteorologiche, servendosi anche di un igrometro a condensazione inventato dal granduca Ferdinando II e talvolta di un pluviometro già proposto dal Castelli. Le osservazioni, dapprima in varie località della Toscana e successivamente a Milano, Bologna e Parma, erano fatte in cinque determinate ore del giorno, notando anche la direzione del vento e lo stato del cielo: lo studio dei dati così raccolti dall'Accademia consente di concludere che le condizioni meteorologiche della Toscana della seconda metà del Seicento non erano dissimili dalle attuali. Il 5 marzo r667 l'Accademia tenne la sua ultima adunanza; in quello stesso anno fu sciolta. Non si conoscono le ragioni dello scioglimento. Forse vi cospirarono tre cause : l'anonimità delle scoperte, imposta dalle regole statutarie, onde di ogni concetto, di ogni esperimento, di ogni osservazione si doveva tacere l'autore per farne sacrificio all'Accademia ; le rivalità e le gelosie sorte tra gli accademici e specialmente tra i due maggiori, il Viviani e il Borelli ; infine, l'animosità e il sospetto della curia romana, che attizzava il rancore tra gli accademici, ne derideva l'opera, li minacciava nelle persone. Secondo alcuni autori, al principe Leopoldo fu promesso il cappello cardi­ nalizio, ottenuto alla fine dello stesso anno r667, al solo patto che l'accademia fosse sciolta. ' Quale che sia stata la causa, la fine dell' Accademia del Cimento fu un evento luttuoso per la scienza italiana ; da lì a pochi anni nasceva ( 1690), ancora nel nostro paese, l'Arcadia, e per circa un secolo la scienza italiana non avrà nulla da dire alla scienza europea, alla cui formazione aveva pur dato vigoroso impulso.

L'OTTICA 16. L'ottica di Kepler. La fisica del XVII secolo praticamente comprendeva due capitoli, meccanica e ottica, che trovavano un comune campo di applicazione nell'astronomia. E per servire ai bisogni dell'astronomia Giovanni Kepler (r57I-I63o) scrisse un'opera fondamentale di ottica, che a lui parve modestamente, come denuncia il titolo, un semplice compie1 15

Giovanni Kepler. Ritratto di autore ignoto.

mento all'ottica di Vitellione, ossia, come sappiamo (Cap. I I , § 5 ) , di Alhazen (Ad Vitellionem paralipomena, quibus astronomiae pars optica traditur, Francofurti r6o4) . Kepler dice a più riprese di essersi ispirato al XVII libro della Magia e al De re­ fractione del Porta (Cap. I I I , § 13), al quale attribuisce meriti ben maggiori di quelli che siano disposti a riconoscergli i critici moderni ; ma è curioso, invece, osservare come molte idee di Kepler si trovino in Maurolico, i cui scritti d'ottica peraltro non erano stati ancora pubblicati (Cap. III, § 12) . Dell'opera del Kepler interessano la nostra storia i primi sei capitoli, perchè gli ultimi cinque sono dedicati a problemi astronomici. Kepler, ripigliando le idee di Alhazen, bandisce dall'ottica > e >, e considera coni di raggi ema­ nati in tutte le direzioni da ogni punto luminoso. Con questi raggi egli spiega un pro­ blema rimasto misterioso a tutti gli ottici precedenti: perchè in uno specchio si vedono le immagini là dove certamente non ci sono ? perchè, risponde Kepler e con lui i fisici d'oggi, l'occhio che riceve i raggi non può sapere il cammino che essi hanno compiuto e riferisce il punto luminoso sul loro prolungamento. Analoga spiegazione ha la loca­ lizzazione delle immagini viste per rifrazione, e si spiega così facilmente l'esperienza del bastone spezzato, rimasta per millenni inspiegata, macula foeda in pulcherrima sdentia dice Kepler. Il quinto capitolo dell'opera è dedicato alla rifrazione. Con un ingegnoso dispo­ sitivo sperimentale, Kepler tenta di trovare la legge della rifrazione, ma si contenta alla fine di ripiegare sulla vecchia regola attribuita a Tolomeo (Cap. I , § ro) : per angoli minori di 30°, l'angolo d'incidenza è proporzionale all'angolo di rifrazione. E tuttavia anche questa regola gli è preziosa nello studio della rifrazione attraverso una sfera, nel quale introduce una tecnica sperimentale nuova, di grande importanza. Kepler rico­ nosce che non è la stessa cosa guardare le immagini ad occhio o riceverle su uno 1 16

schermo e intuisce che con quest'ultima tecnica la sperimentazione è molto sempli­ ficata e più obiettivata. Insomma egli sostituisce all'ottica fisiologica medievale l'ottica geometrica moderna. E combinando questa tecnica con l'idea di Daniele Barbaro di diaframmare la sfera (Cap. III, § 13), Kepler scopre un fatto fondamen­ tale: anche nella rifrazione attraverso una sfera diaframmata, a un punto oggetto corrisponde un punto immagine e un fascio di raggi paralleli > (è suo l'uso del vocabolo in questo senso) in un punto che egli chiama, per la prima volta, focus. Il quinto capitolo è il più famoso di tutta l'opera: vi si tratta del meccanismo della visione. Più coraggioso di Alhazen, di Maurolico e di Porta, Kepler fa pervenire la luce fin sulla retina. Riconosce che necessariamente l'immagine sulla retina si forma rovesciata, ma non ritiene che questo fatto porti di conseguenza c:he si debbano vedere rovesciati gli oggetti: basta che l'occhio collochi il punto luminoso in alto quando lo stimolo che lo raggiunge è in basso e collochi a destra il punto che ha dato lo stimolo a sinistra ; e viceversa. L'opera di Kepler non destò molto interesse nell'ambiente colto del tempo; è certo che nel r6ro Galileo ancora non la conosceva, onde è da escludere che i Para­ lipomena abbiano avuto qualche influenza sulla costruzione e tanto meno sull'uso del cannocchiale. Anzi, dal comportamento ambiguo tenuto da Kepler al primo annuncio delle scoperte astronomiche galileiane, si potrebbe dedurre che neppure lui ebbe grande fiducia nel cannocchiale. Ma questa perplessità kepleriana, non in tutto ingiustificata, fu riscattata ben presto con un'esaltazione delle scoperte astronomiche galileiane e con la stesura, nei mesi di agosto e settembre r6ro, della Dioptrice, pubblicata poi nel r6rr, che aveva lo scopo di dare la teoria del cannocchiale, confortando così con dimostrazioni matematiche le apparenze sensibili. La Dioptrice si basa sull'ottica geometrica esposta nei Paralipomena, m a la estende e la precisa, e soprattutto la applica allo studio delle lenti, alla funzione del cristallino nell'occhio, alla correzione della miopia e della presbiopia. Kepler passa poi allo studio della combinazione di più lenti, esponendo chiaramente il concetto che l'immagine di una può funzionare come oggetto per la seconda ; applica i risultati alla costru­ zione di un cannocchiale ad oculare convesso, oggi detto astronomico o kepleriano la cui realizzazione pare sia avvenuta nel r63o ad opera di C. Scheiner {I57S-r6so) ; indica il dispositivo oggi detto teleobiettivo, e finalmente dà la teoria del cannocchiale galileiano. 17. La legge della rifrazione. Con le due opere di Kepler l'ottica geometrica elementare dei nostri giorni era acquisita alla scienza ; ma vi mancava una legge fondamentale : quella della rifrazione. Le scoperte astronomiche di Galileo resero l'ottica argomento di grande attualità, mentre le opere di Kepler avevano sottratto molte sue parti, e specialmente la teoria della visione, al dominio della filosofia. In questo ambiente culturale, Descartes, eccitato dall'invenzione del cannocchiale, col dichiarato, perseguito e fallito scopo di migliorarne la costruzione, forse nella spe­ ranza di emulare e superare Galileo nelle scoperte astronomiche, inizia lo studio delII7

l'ottica. Egli intuisce bene che il problema fondamentale della rinnovata scienza è la teoria della luce. Difatti il primo > della Diottrica ha il promettente titolo De la lumière. Purtroppo non c'è che il titolo. In presenza del complesso problema anche la fantasia scientifica del filosofo venne meno. Egli, pur promettenrlo di spie­ gare > le proprietà già note della luce e di dedurne > le altre, dichiara tuttavia che non è necessario ch'egli dica qual è la vera natura della luce, bastandogli al suo scopo ultimo, che è quello di spiegare la visione e i cannocchiali, servirsi di due o tre analogie. La prima analogia è vecchia di venti secoli : come un cieco, tastando col suo bastone si rende conto degli oggetti, così la luce > che attraverso l'aria e gli altri corpi trasparenti passa dal corpo luminoso agli occhi ; la seconda analogia, contraddicendo alla precedente, dà una natura mate­ riale alla luce : come due correnti di mosto escono, senza disturbarsi, da due fori fatti nel fondo del tino pieno d'uva, così le correnti di materia sottile che procedono dal sole verso i nostri occhi non si disturbano e non sono disturbate dalla materia ordi­ naria; la terza analogia è quella di Alhazen : un raggio di luce è paragonabile ad un proiettile materiale. Cartesio va avanti con queste tre analogie, adoperando ora l'una ora l'altra, e parla della propagazione rettilinea della luce, della trasparenza, della riflessione, della diffusione. Non si può dire veramente che le idee siano >, chè, in fine, non si riesce a capire che cosa sia per Cartesio la luce : oggettiva o soggettiva ? moto o materia ? Questo primo > della Diottrica è così oscuro e confuso che un matematico, e cartesiano per giunta, Cristiano Huygens, ha dovuto confessare di non capire che cosa voglia dire Cartesio sulla natura della luce. Gli scienziati conclusero, forse a nostro parere affrettatamente, che la Dioptrique, presentata da Cartesio come esempio di applicazione del (( metodo >>, ne dimostra invece il fallimento (com'è noto, la famosa opera pubblicata da Descartes nel 1637 ha per titolo : Discours de la Methode pour bien conduire sa raison, et chercher la verité dans les scz'ences. Plus la Dioptrique les Meteores et la Geometrie qui sont des essais de cette Methode) . Il secondo > tratta delle leggi della riflessione e della rifrazione, non della luce, ma dei proiettili, con estensione, naturalmente arbitraria, alla luce. Esso contiene un risultato importante. Descartes considera una palla lanciata contro una tela: essa l'attraversa perdendo una parte della sua velocità, per esempio, la metà. Ora, dice Descartes, il movimento della palla , alla quale appartennero in questo secolo Pasca!, Huygens e Newton, per citare soltanto i maggiori. Prima di accennare alla brillante applicazione della legge della rifrazione alla spiegazione dell'arcobaleno, dobbiamo prendere in esame una grande novità conte­ nuta nel primo > della Dioptrique. La luce dei fisici della prima metà del '6oo era una luce incolore, nel senso proprio della parola. Anche Kepler aveva ere119

duto che il colore fosse una cosa distinta dalla luce, una > che doveva con­ tinuare ad essere studiata dai filosofi. E i filosofi avevano detto e dicevano sui colori cose per noi oggi incomprensibili : che il colore è una qualità che risiede alla superficie dei corpi opachi ; che esiste in precedenza ed è visibile in potenza e viene reso visibile in atto dalla luce esterna; che è la diversità della limitazione nel diafano e nell'opaco ; e via discorrendo. Ma Cartesio sa (§ r ) che le qualità secondarie risiedono nel soggetto senziente, onde butta a mare tutti questi filosofemi, e afferma che noi distinguiamo i colori per i diversi modi di azione della luce che arriva ai nostri occhi. Più esplicitamente nel > VI II delle 111etéores, Cartesio dichiara : la natura dei colori non consiste in altro che nel fatto che le parti della materia sottile, che trasmette l'azione della luce, tendono a ruotare con più forza che a muoversi in linea retta,· di modo che quelle che ten­ dono a ntotare molto più forte cagionano il colore rosso e quelle che non tendono che un

Spiegazione cartesiana dell'arcobaleno: i l raggio solare A B si rifrange, s i dis perd e s i riflette sulla goccia d'acqua e arriva colorato all'osservatore secondo D E. ,

I20

po' più forte cagionano il colore giallo ( . . . ) E in tutto questo la ragione s'accorda cos! perfettamente con l'esperienza, che io non credo che sia possibile, dopo aver conosciuto l'una e l'altra, di dubitare che la cosa non sia tale come io l'ho spiegata (Oe�tVres de De­ scartes, cit., VI, pp. 333-34) . Lasciamo da parte un'analisi tecnica di questo brano per ritenerne il concetto fondamentale, profondamente innovatore : il colore è un feno­ meno fisico-fisiologico, dovuto alle varie sensazioni che desta in noi il vario moto delle particelle luminifere. Uno dei momenti più felici di Descartes come sperimentatore sono i suoi espe­ rimenti relativi alla formazione dell'arcobaleno, contenuti nel VIII delle Meteore. Tutti i trattati moderni riportano la spiegazione cartesiana dell'arcobaleno, che Newton completò e la scienza del XIX secolo, coi lavori di Young, di Airy e di Pernter, non ha modificato ma raffinato per tener conto dei fenomeni di diffrazione e d'interferenza, ignoti ai tempi di Descartes. Ma i trattati moderni se la cavano con relativa facilità, senza ricorrere alla parte sperimentale, perchè si avvalgono del con­ cetto di deviazione minima, affiorato nell'ottica solamente con Newton e, meglio, nel 1725 , con Eulero. Ma Cartesio, cui era ignoto il fenomeno di deviazione minima, dovette prima sperimentare con una fiala sferica di vetro, riempita d'acqua, inve­ stita dai raggi solari. S'accorse così che se la visuale che andava a un certo punto della fiala faceva con la direzione dei raggi incidenti un angolo di circa 42°, questo punto della fiala appariva d'un rosso vivo ; se quell'angolo era un po' più piccolo, apparivano successivamente altri colori. Poi con un piccolo schermo col quale andava coprendo le diverse parti della fiala, riuscì a determinare il fascetta di raggi incidenti che noi diciamo in posizione di deviazione minima e a tracciarne il cammino nel­ l'interno della fiala. Fu a questo punto che, per chiarire le proprie idee sulla natura dei colori, paragonò le colorazioni della fiala con quelle ottenute da un prisma di vetro ; il che gli dette modo di costruire su una base sperimentale la teoria dei colori a cui abbiamo accennato. La preziosa legge della rifrazione gli consentì allora di spiegare, con un lungo calcolo numerico, le ragioni di quel ben determinato angolo di 42° formato dai raggi incidenti ed emergenti dalla fiala. La spiegazione dell'arco­ baleno era così trovata (v. fig. a pag. prec.) , con una serie di esperimenti ben ideati, accuratamente condotti e assoggettati al calcolo: un vero capolavoro d'inda­ gine fisica moderna. 18. Il principio di Fermat. Nell'esporre la storia di questo principio, di cui la meccanica ondulatoria ha nuo­ vamente sottolineato l'importanza, scenderemo a qualche particolare che ci sembra illumini abbastanza bene la lentezza di assimilazione di certe idee che oggi sembrano ovvie, e, nello stesso tempo, ci mostra le vie tortuose e nebulose attraverso le quali talvolta la fisica è pervenuta a stabilire i suoi principi. Prima ancora che fosse pubblicata la Dioptrique cartesiana, Mersenne aveva inviato a Pietro Fermat (r6o8-r665) i primi , chiedendogliene il parere. E già nel settembre r637 Fermat rispondeva formulando sostanzialmente due cri­ tiche al procedimento cartesiano : con la prima egli rimproverava a Cartesio di avere 121

arbitrariamente esteso alla propagazione della luce il moto dei proiettili, perchè la velocità di questi ultimi è finita e variabile, mentre la luce si propaga istantaneamente ; con la seconda critica Fermat respingeva il principio di decomposizione dei moti, che egli dimostra di non aver capito e contro il quale nutrirà sempre una grande diffi­ denza: ancora venti anni dopo, nel I657, egli scriverà che bisogna andar cauti nell'uso dei moti composti, che sono come i farmaci che diventano veleni se non sono debi­ tamente usati. Alla replica di Descartes, sempre attraverso Mersenne, Fermat continuò a per­ sistere nelle sue critiche e soprattutto a misconoscere l'utilità e la legittimità del principio di decomposizione e a fraintendere il concetto cartesiano di détermination per lui equivalente soltanto a direzione, mentre Cartesio lo usava nel senso di vet­ tore velocità. Nel dicembre r637 la polemica tra i due scienziati era praticamente chiusa : due lettere di Fermat, una di Descartes, e ciascuno rimaneva della propria opmwne. Ma continuarono le riflessioni di Fermat sull'argomento e furono consegnate in un >, disgraziatamente andato perduto, scritto per l'amico Cureau De La Chambre. Riflessioni che dovettero ribadire in lui la convinzione della falsità della legge cartesiana di rifrazione o almeno dell'inconsistenza della dimostrazione. Se ne ha conferma in una vivace lettera scritta nel I658 a Clerselier, un cartesiano, nella quale ribadisce le sue vecchie obiezioni e aggiunge un'altra: nessuno ci autorizza a pensare che la componente tangenziale della velocità della luce nel secondo mezzo sia rimasta immutata, appunto perchè il secondo mezzo è cambiato. Ma già alla ripresa della polemica coi cartesiani il corso dei pensieri di Fermat era cambiato. Lo aveva fatto cambiare nel I657 la lettura di un libro d'ottica di De La Chambre, nel quale la legge della riflessione era dedotta alla maniera eroniana (Cap. I, § I I ) , cioè utilizzando il principio metafisica che la natura agisce sempre per le vie più corte: principio generico e tanto indeterminato da consentire di stiracchiarlo da tutte le parti per adattarlo ai casi propri. Fermat cominciò subito col modellarlo alla necessità di tranquillizzare la coscienza scientifica dell'amico, turbata dal fatto che in alcuni casi ben noti di riflessione su specchi concavi, la natura agisce per le vie più lunghe. Fermat assicura che in questi casi per vie, più corte bisogna inten­ dere le vie pitl semplici, onde, siccome la retta è più semplice della curva, bisogna riferire il raggio di luce che cade su uno specchio concavo al piano tangente allo specchio nel punto d'incidenza, e ne risulta che, riferito a questo piano, il percorso del raggio di luce è sempre il più corto: non si può dire che questo sia un discorso chiaro ! Se il principio spiega tanto bene tutti i casi di riflessione, perchè non tentare di applicarlo anche alla rifrazione ? Certo, se il raggio di luce, per andare dal punto A al punto C di un altro mezzo, si rifrange in B, il percorso ABC è più lungo di AC. Ma il principio di economia della natura bisogna interpretarlo nel senso che le vie più corte sono le vie più facili, le vie di minor resistenza. E se si suppone che il secondo mezzo offra diversa resistenza del primo alla propagazione della luce, può ben darsi che il tragitto ABC presenti complessivamente minor resistenza del tragitto AC. L' idea - primo nucleo di quella che sarà la formulazione definitiva del principio I22

è indubbiamente ingegnosa, ma appare subito in contraddizione con le convinzioni dello scienziato: infatti, il concetto di resistenza fa sorgere subito l'idea di propagazione in tempo della luce, che Fermat, invece, aveva creduto sino allora istantanea. L'impli­ cazione non è sfuggita al matematico, il quale, però, crede di poterla superare, con­ servando la propagazione istantanea, e giustificando la resistenza con l'antipatia tra luce e materia, postulata anche da De La Chambre. Crediamo che neppure Fermat fosse soddisfatto di questa scappatoia. Forse ci avvicineremo più alla verità, suppo­ nendo che alla mente di un matematico della sua forza si sia presentato un problema di pura geometria, che egli ha tentato di adattare in qualche modo alla realtà fisica. Il problema, enunciato nella stessa lettera a De La Chambre, è il seguente : dati il punto A in uno dei semipiani determinati dalla retta BD (e da A) e il punto C sul semipiano opposto, detto m un coefficiente diverso da I , determinare sulla BD un punto B tale che la somma AB -+ m · BC sia minima tra le somme analogamente formate. Il problema non era a quei tempi di facile soluzione, ma Fermat promette di darla quando all'amico piacerà : Fermat è guascone, diceva Descartes. La soluzione si fece aspettare quattro anni e forse, come è stato più volte osservato nelle analisi psicolo­ giche delle invenzioni scientifiche, si presentò improvvisamente alla mente di Fermat mediante un nuovo adattamento del principio di economia della natura: per vie più corte bisogna intendere non più le vie più facili o più semplici o di minor resistenza o di minore antipatia, ma le vie che breviori tempore percurri possint. Questo principio, aggiunto alla ipotesi che la velocità della luce è costante in un determinato mezzo e diminuisce con l'aumentare della densità del mezzo, consente a Fermat di trovare la legge della rifrazione e di constatare, con sua grande meraviglia, che essa è proprio la legge di Descartes. L'enunciato del principio e la sua utilizzazione per la dimostra­ zione della legge della rifrazione erano contenute in un brano dal titolo A nalysis ad refractiones (Oeuvres de Fermat, ed. P. Tannery et Ch. Henry, I, Paris 1894, pp. I70-72), incluso in una lettera del I gennaio r66z a Cureau De La Chambre. Successivamente, in uno scritto dal titolo Synthesis ad rejractiones, Fermat invertiva il teorema: se la rifrazione della luce obbedisce alla legge di Cartesio e se l'indice di rifrazione è eguale al rapporto tra la velocità della luce nel primo e nel secondo mezzo, la luce segue il percorso di minimo tempo nel propagarsi da un mezzo ad un altro. Il nuovo enunciato del principio di economia richiedeva naturalmente una velo­ cità finita per la luce, oltre a. dire che era smentito dai noti casi di riflessione su specchi concavi. A questi ultimi Fermat non accenna affatto, forse pensando di averli siste­ mati col bel ragionamento che abbiamo accennato sopra. E in quanto alla propaga­ zione in tempo non la crede neppure necessaria, purchè sia sostituita da una non meglio definita > o > della luce, variabile nei vari mezzi : da un qualche cosa insomma che si potesse assumere come traduzione verbale del coefficiente m nel suo problema di geometria pura. Fermat ha sempre fissa la mente al problema matematico, più che al fenomeno fisico. Contro il principio di Fermat insorsero subito i cartesiani ; in una lettera di Cler­ selier, tanto vivace da essere talvolta offensiva, sono contenute le loro principali cri­ tiche: il principio che la natura agisce per le vie più brevi o più semplici non è un I23

principio fisico, perchè esso richiederebbe che la natura agisse per conoscenza : infatti, arrivato il raggio di luce sulla linea di separazione dei due mezzi, esso dovrebbe sapere che piegandosi in quel certo modo impiega minor tempo ; e così risulterebbe anche che il tempo è causa di moto. Le variazioni su questo tema possono essere quasi innu­ merevoli e Clerselier ne fa molte per concludere che Fermat ha il merito di aver dimo­ strato che la rifrazione avviene la luce seguisse le vie più corte. Ma anche i fisici accolsero, in un primo tempo, con diffidenza il nuovo principio. Petit non era contento. Huygens nel 1662 criticava i principi fisici ammessi da Fermat dei quali non si aveva alcuna certezza, e in particolare questo principio di eco­ nomia della natura col quale non si era dimostrato mai alcuna verità. Ma ben presto questi giudizi aspri andarono attenuandosi ; già tre mesi dopo lo stesso Huygens giu­ dica molto buono e sottile il lavoro di Fermat sebbene i suoi principi fisici siano plane precaria. Più tardi, rifatti i calcoli di Fermat e trovatili esatti, Huygens prese tanta confidenza col principio o, come lo chiama, col phaenomenon Fermatij da acquistare la convinzione, espressa nella sua teoria, che l'indice di rifrazione sia eguale al rap­ porto tra la velocità della luce nel primo e nel secondo mezzo. Francesco Maria Grimaldi. Ritratto di autore ignoto.

124

1 g.

La diffrazione.

G

La legge cartesiana della rifrazione era stata soltanto da qualche anno confermata teoricamente da Fermat che un altro feno­ meno d'inflessione della luce veniva scoperto. L'annuncio era dato in un libro postumo del padre gesuita Francesco Maria Grimaldi (16181663), uomo di singolare capacità, di pazien­ tissima laboriosità sperimentale, che voleva prestar fiducia soltanto alle cose e non all'auto­ rità dei maestri : così assicura lui nel proemio della sua voluminosa opera di ben 535 pagine, dal titolo Physico-mathesis de lumine, coloribus et iride (Bononiae 1665 ) . Il volume s i apre con l'annuncio della scoperta del nuovo tipo d'inflessione della luce, detto diffrazione da Grimaldi, con vocabolo che sarebbe rimasto nella scienza. La scoperta fu certamente casuale e dovuta alla circostanza che Grimaldi sperimentava con fascetti di luce molto sottili ottenuti aprendo nella finestra esposta al sole un esile forellino. Sul fascetta di luce che lo attra­ Schema di raggio luminoso nella teoria versava lo scienziato poneva un ostacolo e ondulatoria di Grimaldi; si osservi come le ne raccoglieva l'ombra sopra uno schermo vibrazioni siano supposte trasversali (da bianco ; osservava allora che sullo schermo Grimaldi, De lumine, Bologna, 1665) . l'ombra era dilatata rispetto all'ombra geometrica che si sarebbe dovuto ottenere e inoltre era invasa da tre strisce luminose e colo­ rate di azzurro verso l'interno dell'ombra, di rosso verso l'esterno. Se, poi, il fascetta luminoso si faceva cadere su uno schermo opaco che porta un secondo forellino, paral­ lelo al primo, e si raccoglieva il fascio emergente su un altro schermo (v. fig. a pag. seg.), si osservava la formazione di una macchia centrale luminosa, assai più grande di quella prevista dall'ottica geometrica, con gli orli colorati in rosso e in azzurro. Non c'è possibilità di dubbio : la luce si piega dietro gli ostacoli. Dopo aver variato in più modi le condizioni sperimentali, dopo aver eseguito molti altri esperimenti di diffrazione con fili sottili, con penne d'uccello, con tele e stoffe sfilacciate, padre Grimaldi tenta una spiegazione del fenomeno: come le onde generate attorno a un sasso caduto nell'acqua, così l'ostacolo posto sul cammino del fascio di luce genera nel fluido luminoso onde che piegano dietro gli ostacoli. Ma per Grimaldi la luce è un fluido ? Ecco : il suo libro è un'interessante e curiosa opera. Interessante per il contenuto che tratta questioni varie di fisica (e una vedremo ancora nel § 2 1 ) ; curiosa perchè nel primo libro si sostiene la sostanzialità della luce e nel secondo l'accidentalità o, per dirla con un termine adoperato da lui e per not ..

125

più espressivo, il suo carat­ tere ondulatorio. All'ipotesi ondulatoria Grimaldi arriva per spiegare la natura dei colori, che, secondo la sua espressione, sono parti costi­ tuenti della luce bianca: L a modificazione della luce, egli scrive, per forza della quale essa si colora tanto perma­ nentemente quanto (come di­ cono) apparentemente, o piut­ # • tosto si rende sensibile con la # l qualifica di colore, non impro­ • • babilmente si può dire che sia l # una certa sua ondulazione mi­ l • nutamente increspata, come un • • tremito di diffusione, con un Il certo ondeggiamento minutissi­ • � mo, mediante il quale avviene l che essa stimoli l'organo della • visione con una propria e deter­ minata attività (F. M . Grimal­ di, Physico-mathesis de lumi­ Esperienza di diffrazione di padre Grimaldi: la luce che entra per il foro C D della finestra e imbocca il foro G H d i una parete ne, ecc., Bononiae r66s,p. 342). opaca, forma sullo schermo la macchia luminosa L lVI, circon­ A sostegno di questa sua data da anelli colorati (da Grimaldi, De lurnine) . teoria ondulatoria Grimaldi porta molti argomenti; in particolare l'analogia coi suoni, la cui varia altezza dipende, come aveva insegnato Galileo, dalle varie ondulazioni dell'aria. Con Grimaldi si può dire terminato il processo iniziato da Descartes e continuato non senza forti ostilità per portare i colori sotto il dominio della fisica. Esperienze analoghe a quelle di padre Grimaldi fece nel 1672 Roberto Hooke e pretese di averle fatte indipendentemente; ma è ben noto il grave difetto di carattere di Hooke, quello di reclamare sempre la priorità propria sulle scoperte altrui. Comunque, le esperienze di Hooke non aggiunsero nulla a quelle di Grimaldi. Di ben diversa importanza furono invece gli esperimenti descritti da Hooke nella sua Micrographia, apparsa nel r665, lo stesso anno in cui comparve il De lumine di Grimaldi. La Micrographia è un libro molto interessante, specialmente per la storia del microscopio, già costruito da Galileo e adoperato da Hooke con rara abilità. Tra le sue osservazioni microscopiche meritano particolare ricordo quelle relative alle lamine sottili (bolle di sapone, veli d'olio, ecc.) investite dalla luce : Hooke ne notò la colorazione, che studiò con molta attenzione e che tentò d'interpretare con una teoria vibratoria della luce sulla quale sorvoliamo perchè ci sembra di modesto inte­ resse.

I,:

!26



20.

Doppia rifrazione e velocità della luce.

Prima di trattare, nel prossimo capitolo, delle due grandi teorie della luce che per secoli si contesero il campo con alterna fortuna, dobbiamo ancora accennare a due scoperte che le precedettero e le influenzarono. Nel 1669 il danese Erasmo Bartholin ( 1635-1698) pubblicò un'opera dal titolo Experimenta crystalli islandt:ci disdiaclastici, quibus mira et insolita refractio detegitur, nella quale descriveva i cristalli di spato d' Islanda e gli esperimenti rimase purtroppo inedito sino al 1 883. Castelli piglia le mosse da alcuni risultati sperimentali noti o meno noti ; tra questi ultimi va ricordato l'esperimento che noi diciamo dello spettro magnetico, realizzato press'a poco come facciamo noi, sottoponendo a un foglio di carta una calamita e spargendovi poi sopra, invece di limatura di ferro, limatura di calamita. Castelli suppone quindi che esistano > nei quali siano disseminate particelle di calamita, cioè piccolissimi aghi magnetici, che pos­ sano poi ordinarsi per un'azione calamitica esterna e una volta ordinati vi riman­ gano tutti o buona parte nella nuova posizione ; suppone ancora che esistano > nei quali siano disordinatamente disseminate particelle di calamita che abbiano propensione a ritornare alle primitive posizioni. Il lettore confronti ora queste ipotesi con quelle che trova in un trattato moderno sulla costituzione dei magneti secondo Ewing: vedrà che concettualmente la differenza è soltanto nelle parole, e capirà pure come il Castelli con le sue semplici ipotesi, spieghi la costi­ tuzione delle calamite, la magnetizzazione temporanea e permanente, l'attrazione magnetica. Anche Grimaldi, nel De lumine, dedica oltre 30 pagine al magnetismo, descri­ vendo esperimenti vecchi e nuovi (tra questi ultimi quello del filo di ferro magnetiz­ zato che ripetutamente inflesso e raddrizzato perde la proprietà magnetica) e ten­ tandone quindi la spiegazione con l'ipotesi, d'ispirazione cartesiana, di un fluido magnetico sostanziale unico che scorre tra un polo e l'altro della calamita: le opposte direzioni di flusso produrrebbero gli effetti apparentemente opposti. Ogni corpo magne­ tico non magnetizzato, come il ferro, contiene il fluido disordinato ; la calamita lo ordina e induce quindi nel corpo la proprietà magnetica. La teoria di Grimaldi, anche se derivata dalla cartesiana, ha questo di caratteristico: introduce il concetto di fluido unico e non fa ipotesi sulla forma delle sue particelle costitutive (§ 1 ) . "'

22. Esperimenti elettrici di Guericke. Gilbert, con l'introduzione del versorio, aveva dato uno strumento di rivelazione dei fenomeni elettrici abbastanza sensibile ; Otto von Guericke, con l'introduzione del globo tornatile di zolfo, consentì di esaltarli, sì da superare le soglie di nuovi fenomeni. Gueriéke preparava una sfera di zolfo fuso e > e che la quantità di materia si conosce dal peso dei corpi, perchè egli s'era accertato, con esperimenti esattissimi sui pendoli, che i pesi dei corpi sono proporzionali alle loro masse. La definizione newtoniana, accettata per oltre un secolo, fece in seguito scorrere, come si dice, fiumi d'inchiostro. Il circolo vizioso è troppo evidente: si definisce la massa col concetto di densità e non si sa definire la densità che come massa dell'unità di volume. Lasciando da parte la storia della critica che ci porterebbe subito al XIX secolo, va qui osservato che un ente non definito o malamente definito non porta necessariamente in sè qualcosa di vago. Spesso non si riesce a definire un ente non perchè esso sia poco chiaro alla nostra mente, ma, al contrario, perchè ci" è troppo noto, tanto noto che non riusciamo a trovare concetti più semplici dai quali farlo dipendere. Tale è il caso del concetto di massa, chiarissimo in Newton e da lui sempre correttamente appHcato. 3·

La forza.

La seconda definizione dei Principia si riferisce alla quantità di moto e la terza a ciò che noi chiamiamo l'inerzia e Newton chiamava la vis insita o vis inertiae della materia (espressione, quindi, che ha accezione diversa dalla nostra forza d'inerzia), la quarta si riferisce alla forza applicata (vis· impressa) definita come determinante d'accelerazione. Già Kepler aveva introdotto il concetto di forza come causa di moto, ma misu­ rava la forza dalla velocità. In Galileo la forza era equivalente al peso, ma, supe­ rando di molto Kepler, egli misurava la forza dall'accelerazione impressa. Forse Newton non ebbe questa chiara intuizione galileiana, perchè la quarta definizione dice: la forza impressa è l'azione esercitata nel corpo per mutare il suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. E la definizione è così illustrata: Questa forza consiste in un'azione sola e non rimane nel corpo dopo l'azione. Infatti il corpo persevera in ogni suo nuovo stato per la sola forza d'inerzia. La forza impressa ha poi diverse origini, come da ttrto, da pressione, da forza centrifuga (lbid. , p. 2) . Le successive definizioni dalla V all'VI II si riferiscono alla forza centripeta, che Newton distingue in forza assoluta, forza acceleratrice, forza motrice. Come esempi di forza centripeta Newton cita la gravità, la forza magnetica; quella forza, qualunque ne sia la natura, che trattiene i pianeti nelle loro orbite curve; la forza esercitata dalla mano per trattenere la pietra nel gioco della fionda. Da questi esempi gli è facile indurre la possibilità tanto di satelliti artificiali intorno alla terra, purchè il proiettile sia lanciato con velocità sufficiente, quanto, addirittura, di corpi che lanciati dalla terra se ne vadano nei cieli, continuando il loro moto all'infinito: sono possibilità che avrebbero aspettato tre secoli per avverarsi. I J4

Nell'VIII definizione si dice che la quantità motrice della forza centripeta si misura dalla velocità prodotta in un tempo dato, cioè, secondo la nostra terminologia, dal­ l'accelerazione. È dunque questa quantità motrice che noi chiamiamo forza appli­ cata e nel caso di caduta dei gravi la identifichiamo col peso. In polemica con la con­ cezione cartesiana dei vortici, Newton così chiarisce il concetto di forza: · In seguito prenderò nello stesso senso le attrazioni e le impulsioni acceleratrici e motrici. Mi servo indifferentemente dei vocaboli di attrazione, impulso, propensione qualunque verso un centro, perchè queste forze le considero matematicamente e non fisicamente. Perciò il lettore si guardi dal credere che io con questi vocaboli abbia voluto designare una specie o modo d'azione o di causa o di ragz"one fisica oppure che abbia voluto attribuire veramente e fisicamente le forze ai centri (che sono punti matematici) ,· anche se per caso abbia detto che i centri attirano o che le forze sono applicate ai centri (Ibid., p. 6). Sono precauzioni verbali ; rimane il fatto che Newton moltiplica i concetti e le defi­ nizioni; definisce una forza centripeta assoluta, ente puramente astratto, del quale non si fa più cenno nel seguito dei Principia. Forza e massa sono in lui due concetti indipendenti ; tali rimarranno sino al 1845 quando Giovanni Duhamel (1797-1872) nel suo Cours de mécanique introdurrà il metodo divenuto tradizionale, non ostante la serrata critica di Ernesto Mach, di definire la massa come rapporto tra la forza applicata al corpo e l'accelerazione da esso assunta. 4·

Tempo e spazio.

Alle otto proposizioni segue un celebre scolio, che dette materia di profonde ri­ flessioni e di lunghe discussioni ai filosofi prima, da Kant in poi, ai fisici dopo, nel nostro secolo. È lo scolio nel quale sono postulati il tempo assoluto e lo spazio assoluto, enti metafisici sui quali, seguendo Newton, si costruì tutta la fisica sino al XIX secolo. Ecco i passi più caratteristici dello scolio : I . Il tempo assoluto vero e matematico in se e per sua natura, senza relazione a nulla di estraneo, fluisce zmiformemente e con altro nome si chiama durata. Il tempo relativo apparente e volgare è la misura sensibile ed esterna di una parte qualunque della durata, eguale o ineg'uale, che volgarmente si usa al posto del tempo vero: come l'ora, il giorno, t"l mese, l'anno. I I . Lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione a nulla d'estraneo, rimane sempre simile e immobile. Lo spazio relativo è la misura o la dimensione mobile di questo spazio assoluto, la qztale cade sotto i nostr1: sensi per la sua relazione coi corpi, e dal volgo è confztso con lo spazio immobile ( . . . ) . È possibile che nessun moto sia uniforme, col quale si possa misurare esattamente ' il tempo. Tutti i moti possono essere ritardati o accelerati, ma il flusso del tempo asso­ luto non pztò essere mzttato ( . . . ) . I tempi e gli spazi sono i luoghi di tutte le cose e di se stessi. Tutte le cose dell'uni­ verso si collocano nel tempo quanto all'ordine della successione,· nello spazio quanto all'ordine della collocazione. È questo che determina la loro essenza,- ed è assurdo che luoghi primari si possano muovere. Essi sono dunque luoghi assoluti,· e le traslazioni da tali luoghi sono assolute ( . . . ) . 135

Le cause per le quali si distinguono vicendevolmente moti veri ed assoluti sono le forze impresse nei corpi per generarvi il moto. Il moto vero non si può generare nè mutare se non per mezzo delle forze applicate allo stesso corpo,· mentre il moto relativo può essere generato e mutato senza che mutino le forze applicate a questo corpo (Ibid. , pp. 6-g) . Per Newton, dunque, mentre il moto non può avere che un carattere relativo per mancanza di sistemi di riferimento, la forza è un elemento assoluto. 5· Le leggi del moto.

Alle definizioni seguono le tre leggi del moto : d'inerzia, di proporzionalità tra forza ed accelerazione, di azione e reazione. Le tre leggi, riferite oggi da qualunque trat­ tato di fisica, sono ben note; meno noto, e non conforme all'uso dei tempi, è l'omaggio che N ewton rende ai suoi predecessori : I principi che ho esposto finora sono accolti dai matematici e confermati da una molteplice esperienza. Per mezzo delle prime due leggi e dei primi d�te corollari [sulla composizione delle forze] Galileo trovò che la caduta dei gravi avviene secondo il quadrato del tempo e che il moto dei proiettili è parabolico� ciò che è confermato dall'esperienza, tenuto presente che il loro moto è alquanto ritardato per la resistenza dell'aria ( .. ) Da queste due stesse leggi e dalla terza Cristoforo Wren� Giovanni Wallis e Cristiano Huygens, senza dubbio geometri principi di questi ultimi tempi, trovarono, ciascuno per proprio conto, le leggi dell'urto e della riflessione dei corpi duri, quasi esattamente tra loro coerenti, e quasi nello stesso tempo le comuni­ carono alla Società Reale (Ibid pp. 2 1-22) . Per conto suo Newton ripete gli esperi­ menti sull'urto, già eseguiti da Wren e Mariotte (Cap. V, § 6) , mediante due pendoli di massa diversa ; conclude che la quantità di movimento si mantiene sempre nell'urto dei corpi molli o duri, elastici o anelastici. Successivamente per giustificare il principio d'azione e reazione Newton ragiona così per il caso delle attrazioni : se due corpi mutuamente attraentisi sono separati da un ostacolo e se le rispettive forze non fossero eguali, l'ostacolo, premuto più da una parte che dall'altra, si muoverebbe nel senso della forza maggiore e nel vuoto acqui­ sterebbe un moto uniformemente accelerato che lo porterebbe all'infinito, il che è contrario alla prima legge : dunque i due corpi premono egualmente sull'ostacolo. La conclusione è da Newton verificata con esperimenti su un magnete e un ferro galleggianti. .

..

6. Il moto centripeto. La trattazione comincia col primo libro ed ha andamento geometrico, il che rende difficile la lettura ai moderni, abituati alle esposizioni analitiche. Molto proba­ bilmente Newton, proprio per essere letto e capito dal maggior numero possibile di persone, adoperò la forma geometrica invece del calcolo differenziale di cui già era i n possesso. Il primo libro si occupa del moto dei corpi soggetti a forze centrali. Con una dimo­ strazione molto semplice, Newton comincia con lo stabilire il seguente teorema e

il suo reciproco : il moto di un punto materiale soggetto a una forza centrale è piano e si compie in modo che le aree descritte dal raggio vettore siano proporzionali ai tempi impiegati a descriverle. Successivamente si stabilisce che le forze sono deviate in avanti se le aree descritte dal raggio vettore vanno aumentando e sono invece . deviate indietro se vanno diminuendo. Nel sesto corollario della quarta proposizione è dimostrato che le forze sono inver­ samente proporzionali ai quadrati delle distanze, se i quadrati dei periodi sono pro­ porzionali ai cubi delle distanze. N ella proposizione sesta è stabilito un teorema gene­ rale sul moto di un corpo in una linea curva intorno a un centro. Il teorema è appli­ cato nella terza sezione del libro, dove è trattato il moto sulle sezioni coniche. Con un ragionamento difficile da seguire vi si dimostra, in successivi teoremi, che se un corpo si muove su una sezione conica è soggetto a una forza centripeta diretta verso un fuoco della sezione ; ne segue che in questi casi la forza centripeta è inversamente proporzionale al quadrato del raggio vettore : sono teoremi meccanici nuovi, suffi­ cienti per interpretare le leggi empiriche di Kepler ed estendere la nuova dinamica ai moti planetari. La LIX proposizione dimostra che se un sistema di più corpi A, B, C, D, . . è tale che A attiri tutti gli altri con forze inversamente proporzionali ai quadrati delle distanze e analogamente B, A e B si attirano mutuamente con forze proporzionali alle loro masse. Nello scolio a questa proposizione Newton nuovamente avverte che le parole attrazione e impulso sono adoperate in senso matematico, per indicare il conato che porta i corpi ad avvicinarsi l'uno all'altro, senza voler dire nulla sulla natura di questo conato. La sezione dodicesima che segue subito la proposizione ora richiamata è dedicata all'attrazione mutua tra due corpi sferici. La chiave della trattazione è la soluzione di un problema che aveva tanto a lungo affaticato Newton e aveva ritardato, come vedremo (§ 9) , l'interpretazione dinamica del sistema del mondo: come si com­ porta una sfera materiale nell'attrarre un punto materiale ad essa esterno ? Newton risponde nella proposizione LXXI : Un corpuscolo posto fuori della superficie sferica sarà attratto verso il centro della sfera con una forza inversamente proporzionale al qua­ d1·ato della sua distanza dal centro (lbid., pp. 189-90) . I l che equivale a dire che se il punto è esterno alla sfera l'attrazione avviene come se tutta la massa della sfera fosse concentrata nel centro: proposizione che Halley ammetteva intuitivamente prima della dimostrazione newtoniana, ma che a Newton ripugnava di ammettere. Se il punto è interno alla sfera, completa la proposizione LXXI II, esso è attratto con una forza proporzionale alla sua distanza dal centro. La sezione XIII tratta delle forze attrattive dei corpi non sferici e prepara la XIV, l'ultima, dedicata al moto dei minimi corpicciuoli soggetti a forze attrattive da parte di grandi corpi : sono teoremi che si applicano alla riflessione e rifrazione della luce. Ma l'applicazione, si affretta a giustificare Newton, non è conseguenza di una qualunque ipotesi sulla natura della luce, corpuscolare o no, ma solamente conseguenza della sperimentata analogia tra la traiettoria di questi corpicciuoli e la traiettoria dei raggi luminosi. Infatti, i fenomeni di occultamento dei satelliti di Giove (Cap. V, § 20) dimostrano che la luce si propaga con velocità finita ; la legge di Cartesio .

137

è identica a quella ricavata per il moto dei predetti corpuscoli ; le esperienze di Grimaldi dimostrano che i raggi di luce sono attratti e incurvati dagli spigoli dei corpi (§ 13) ; infine, come i teoremi meccanici dimostrano per i corpuscoli materiali, anche la rifles­ sione della luce avviene non nel p�mto d'incidenza, ma a poco a poco per una continua curvatura dei raggi, fatta in parte nell'aria prima di raggiungere il vetro, parte, se non sbaglio, nel vetro, dopo che vi sono penetrati (lbid., p. 226) . Insomma Newton insinua che la costituzione granulare della luce non è un'ipotesi, ma un risultato dei fatti d'esperienza: a dir poco, l'induzione è stiracchiata. Comunque, l 'analogia tra moto di questi corpicciuoli e propagazione della luce lo consiglia a chiudere il libro con alcune proposizioni utili alla costruzione delle lenti. 7·

Il moto nei fluidi.

Tutto il primo libro dei Principia è redatto nella supposizione che i corpi si muo­ vano in un mezzo non resistente, sotto l'azione delle sole forze applicate. Per com­ pletare la scienza del moto, occorre studiare, come fa Newton nel secondo libro, le modificazioni subite dalle leggi trovate quando i corpi si muovono in un fluido, come avviene per i corpi alla superficie della terra. Wallis aveva supposto proporzionale alla velocità del corpo la resistenza da esso incontrata muovendosi in un fluido; ma Huygens aveva osservato che con l'aumentare della velocità aumenta la massa del fluido spostato, onde la resistenza dovrebbe essere proporzionale al quadrato della velocità. Newton trattò entrambi questi casi; ma osservò che un corpo che si muove in un fluido, oltre a doverlo spostare, ne deve vin­ cere anche la viscosità, onde pose la resistenza proporzionale alla somma di due ter­ mini : uno proporzionale al quadrato della velocità e l'altro alla velocità. I risultati sono applicati al moto dei proiettili nell'aria, al moto dei corpi soggetti a forze centripete in mezzi resistenti e al moto pendolare ; essi sono verificati da espe­ rimenti sui pendoli e da esperimenti di caduta in aria e in acqua. Newton inizia quindi lo studio dell'influenza della figura del corpo sulla resistenza che esso incontra nel moto ; enuncia il teorema che la resistenza è proporzionale, coeteris paribus, alla sezione massima del corpo perpendicolare alla direzione del moto; questi risultati lo portano naturalmente a studiare i profili aerodinamici, come oggi si chiamano, cioè la forma dei solidi che, a parità d'ogni altra circostanza, incontrano la minor resistenza al moto nei fluidi. Nella proposizione XXVI riprende in esame l'efflusso dei liquidi dai recipienti : da Torricelli in poi molti sperimentatori se ne erano occupati, ma senza aggiungere nulla di nuovo. Anche la trattazione newtoniana della prima edizione lascia a desi­ derare ; ma nella seconda edizione Newton deduce correttamente la velocità d'efflusso; osserva la > e la misura approssimativamente, ma ne dà una spie­ gazione non soddisfacente, invocando la direzione convergente dei filetti fluidi. Pochi anni dopo, nel 1718, indipendentemente da Newton, studiò lo stesso fenomeno Gio­ vanni Poleni (1683-1761) il quale determinò l'influenza dell'orificio d'efflusso e os­ servò che la vena contratta sparisce se all'orificio d'efflusso è adattato un corto tubo cilindrico.

8. Acustica. Importante è la sezione VIII del secondo libro, nella quale è fatta la teoria della propagazione per onde dei moti nei mezzi ponderabili. N ewton prende le mosse dal moto alternativo di un liquido in un tubo ad U e dimostra che le oscillazioni del liquido sono pendolari. Poi prova che una perturbazione prodotta nel punto A di una massa fluida si propaga per onde e se incontra il foro BC nell'ostacolo KN, la perturbazione si propaga dietro l'ostacolo con onde che hanno origine in BC. Nella proposizione XLVI è adoperata, per la prima volta, almeno nel senso tecnico, l'espressione oggi così comune di lunghezza d'onda (undarum latitudinem) . Nella prop. XLVIII è dedotta la velocità di propagazione di un'onda elastica, eguale alla radice quadrata del rapporto tra il modulo di elasticità e la densità del mezzo. Nello scolio finale Newton conclude che le nuovissime proposizioni si applicano alla pro­ pagazione del suono, che altro non è che impulsi dell'aria. Questa circostanza con­ sente di verificare sperimentalmente i teoremi mediante la misura della velocità di propagazione del suono, tenendo presente che a causa della variazione di tempe­ ratura e quindi di elasticità dell'aria la velocità del suono dev'essere maggiore in estate che in inverno. Tra la prima e la seconda edizione dei Principia comparvero dal 1 700 al 1707, le memorie sull'acustica di Giuseppe Saveur ( r653-I716) pubblicate dall'Accademia di Parigi. Nelle belle memorie di Saveur si parte dall'esame di un fenomeno ben noto ai costruttori d'organo: se due canne d'organo producono contemporaneamente due suoni poco differenti dall'unisono, si percepiscono periodici rinforzi di suono, come fossero rulli di tamburo. Saveur attribuì il fenomeno alle periodiche concordanze tra le vibrazioni dei due suoni. Per esempio, se uno dei due suoni fa 32 vibrazioni al secondo e l'altro ne fa 40, la fine della quarta vibrazione del primo coincide con la fine della quinta vibrazione del secondo e si ha così, dopo questo tempo, un rinforzo di suono. Su questo fenomeno e con queste considerazioni Saveur fondò un metodo per determinare il numero di vibrazioni al secondo, cioè la frequenza, di un suono. Dai tubi Saveur passò allo studio sperimentale delle vibrazioni di una corda, intro­ ducendo l'impiego del >, osservando i > e i > di vibra­ zione (le denominazioni, rimaste nella scienza, sono sue) e notando che, accanto alla nota fondamentale, la corda emette anche note che hanno lunghezza d'onda rj2, I/3. I/4 . . . della fondamentale, chiamò queste note, con denominazione destinata a rimanere nella scienza, toni armonici superiori. Saveur, infine, fu il primo a cercare di determinare i limiti di percezione come suoni delle vibrazioni : indicò 25 vibrazioni per i suoni più gravi e r2.8oo per i più acuti. Nella seconda edizione dei Principia, Newton, basandosi su questi lavori speri­ mentali di Saveur, iniziò i primi calcoli di lunghezza d'onda dei suoni, giungendo alla conclusione, oggi ben nota alla fisica, che in ogni tubo aperto la lunghezza d'onda dei suoni emessi sia eguale al doppio della lunghezza del tubo. Et haec sunt praecipua phaenomena sonor·um (lbid., p. 374) , finisce Newton questa parte dell'opera, con la soddisfatta coscienza di aver ridotto l'acustica scientifica a un capitolo della meccanica, la posizione che tuttora occupa. 1 39

g. L'attrazione universale.

Sarà opportuno ripercorrere, sia pure rapidamente, il cammino della storia per dimostrare che non basta la caduta occasionale di una mela, fenomeno già addotto da Kepler a titolo d'esempio, per provocare in Newton l'illuminazione dell'attrazione universale. Parenti e amici suoi raccontarono l'episodio, affermando d'averlo sentito dalla sua stessa voce ; Voltaire lo rese popolare ; ma l'episodio, anche se vero, andava collocato in un ben diverso quadro. Una tendenza ad unirsi del simile per il simile fu postulata fin dalle prime scuole filo­ sofiche greche (Empedocle, Anassagora, Democrito) ; l'idea si mantenne viva per tutto il Medioevo e il Rinascimento, sorretta dal fenomeno di attrazione magnetica, che in un certo senso la comprovava o almeno la rappresentava. Anche la teoria che attribuisce le maree all'influenza della luna e del sole ha origine classica (verso il III secolo a. Cr.) e fu condivisa da molti scienziati del Rinascimento, come Cardano, Scaligero, Porta, Kepler. Il problema assunse particolare rilievo con l'introduzione del sistema eliocentrico. Nel r6og Kepler pubblicò le prime due leggi empiriche sul moto dei pianeti e nel r6r8 la terza. Ma prima ancora della scoperta di queste leggi, egli s'era chiesto la causa del moto dei pianeti intorno al sole e della luna intorno alla terra. Nel Prodromus continens mysterium cosmographicum (rsg6) egli attribuisce il movimento della luna all'attrazione terrestre e afferma che il moto è incomprensibile se non si ammette in ogni materia la tendenza al riposo ; la causa del movimento è una vis immateriata che lotta contro l'inerzia della materia. Nel caso del moto dei pianeti la causa mec­ canica, la virtus movens, risiede nel sole e si diffonde non sfericamente come la luce, ma solo nel piano dell'equatore solare : perciò scema proporzionalmente alla distanza. Il pensiero di Kepler diventa molto più chiaro nella sua opera principale, 1' A stro­ nomia nova seu Physica coelestis (r6og) : il peso dei corpi è la tendenza di tutti i corpi in generale di congiungersi ed è analoga all'attrazione magnetica. Se nell'universo si trovassero solo due pietre, esse si muoverebbero l'una verso l'altra sino ad incon­ trarsi ; così anche la terra e la luna si andrebbero incontro, se esse non fossero man­ tenute nelle loro orbite da > ; m a la vis prensandi (prenso attiro) della luna si manifesta sulla terra con le maree; l'acqua dei nostri mari scorrerebbe tutta sulla luna, se la terra non la trattenesse. Pare che Newton non avesse conosciuto quest'opera di Kepler, prima della for­ mulazione del principio d'attrazione universale (Newton, come Galileo, era uomo di scarsa lettura) . Nei Principia egli cita come suoi predecessori Ismaele Boulliau, Borelli e Hooke. Boulliau, nella sua A stronomia philolaica (1645 ) , in polemica con Kepler, nega che dal sole emani una forza e osserva che se questa tesi kepleriana fosse vera, la forza si dovrebbe diffondere di superficie in superficie come la luce e variare quindi in ragione inversa del quadrato della distanza dal sole. Ben più importanti per Newton furono le considerazioni di Borelli (Cap. V, § 4) che, con una precisa formulazione matematica della forza centrifuga e della gravità, si sarebbero immediatamente trasformate in una teoria sintetica del moto dei pianeti. Più complesse e finora non completamente chiare sono le relazioni tra Hooke e Newton. Ne accenneremo sommariamente. Fin dal r666 Hooke riferì alla Royal =

Society su certi suoi esperimenti volti a dimostrare, in analogia con quanto avviene per l'attrazione magnetica, la variazione di peso dei corpi con l'altezza; più tardi tentò di applicare questa idea al moto dei pianeti che egli aveva intuito dovessero essere soggetti a una forza continua. Nel 1674 Hooke pubblicò un saggio sul moto della terra ; verso la fine vi si legge : Esporrò un sistema del cosmo differente in molti particolari da ogni altro sistema fin qui conoscù-tto, ma corrispondente in ogni aspetto alle com�tni leggi meccaniche. Tale sistema si fonda su tre ipotesi: I ) tutti i corpi celesti esercitano verso il loro punto centrale un'attrazione o gravitazione, in guisa che non sol­ tanto attraggono le loro proprie parti e impediscono che si allontanino, come osserviamo sulla terra, ma anche gli altri corpi celesti che si trovano nella loro sfera d'azione. Segue, per esempio, che non soltanto il sole e la luna esercitano un influsso sulla forma e il moto della terra - e questa a sua volta su quelli - ma anche Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, con la loro attrazione, esercitano �tn influsso sul moto della terra ( . ) ; 3) le forze di attrazione nella loro azione sono tanto più grandi quanto più i corpi sui quali esse agiscono sono vicini al centro di attrazione (Robert Hooke, A n attempt to prove the annual motion of the Earth from Observations, London 1674, p. 27) . In una lettera del 168o Hooke comunicava a Newton che egli era stato indotto a cambiare quest'ultima legge di semplice proporzionalità inversa e a supporre che l'attrazione tra due corpi fosse inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Quando Newton inviò il manoscritto dei Principia alla Royal Society, Hooke avanzò diritti di priorità su questa legge ; ma Newton reagì vivacemente, affermando che egli conosceva già da vent'anni la legge delle inverse dei quadrati ; che l'aveva comunicata a Huygens attraverso Oldenburg, segretario della Royal Society, e che proprio da queste lettere Hooke l'aveva potuta conoscere. Newton inoltre minimizzava i meriti di Hooke, accusandolo di avere attinto la sua scienza da Borelli ; soltanto in un secondo tempo, per l'amichevole pressione di Halley, s'indusse a riconoscere che fu una lettera di Hooke a dargli l'occasione di determinare il moto dei pianeti, e accettò di citarlo nei Principia. Il giudizio di N ewton su Hooke è troppo severo e pesa tuttora sulla fama dell'antico assistente di Boyle. Hooke fu, come si dice, un caratteraccio, ma ebbe una rara capacità inventiva (si attribuiva un centinaio d'invenzioni) e un intuito geniale che lo portò ad afferrare le leggi dina­ miche fondamentali che reggono il sistema eliocentrico; ma non avrebbe saputo esporle ordinatamente per l'incostanza del carattere e la scarsa perizia matematica. Dopo questa lunga parentesi, torniamo al sistema del mondo, contenuto nel terzo libro dei Principia. Newton espone prima le leggi d'osservazione del moto dei pianeti, dei satelliti di Giove e di Saturno e della Luna; applicando i risultati del primo libro egli interpreta dinamicamente queste leggi, sostanzialmente nella forma oggi esposta dai testi di meccanica, con la conclusione che in ogni caso emana dall'astro centrale sul pianeta o sul satellite una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Un punto fondamentale del terzo libro è la proposizione IV nella quale Newton istituisce il calcolo, ancor oggi ripetuto dai trattati, per provare che la forza �he trattiene la luna nella propria orbita è la stessa, affievolita dalla distanza, che fa cadere i corpi alla superficie della terra. A proposito di questo calcolo, sino a tutto il XIX secolo ebbe corso, e ha tuttora credito, il seguente racconto: verso il .

.

1670 Newton, intuita la legge di gravitazione universale, tentò di verificarla confron� tando la gravità sulla luna con la gravità sulla superficie terrestre, ma il calcolo, basato su un'errata conoscenza del raggio terrestre, condusse a una verifica solo approssi­ mata che indusse in Newton dubbi sull'esattezza della legge d'attrazione; ma nel 1682 egli, appresa in una seduta della Royal Society la nuova misura di grado di meridiano eseguita in Francia da Giovanni Picard, rifece i calcoli e trovò perfetta corrispondenza tra la gravità sulla luna e sulla terra. Il precedente racconto non pare attendibile, perchè è difficile credere che Newton dovesse aspettare sino al r682 per conoscere il valore del raggio terrestre poi utilizzato nei Principia. Questo valore infatti era stato dato da Snel fin dal 1617 ed era stato riportato in un'edizione della Geographia generalis di Bernardo Varenius (t166o) , pubblicata postuma ad Amsterdam nel 1664 e ripubblicata nel 1672 a Cambridge a cura proprio di N ewton. Più probabile è la conclusione a cui giunse nel 1927 un astronomo americano, J. C. Adams, dopo un accurato studio di gran numero di lettere inedite e di mano­ scritti newtoniani. Il motivo principale del ritardo nella pubblicazione della scoperta della legge d'attrazione universale va ricercato nel fatto che Newton per molto tempo non era riuscito a determinare l'attrazione esercitata da un corpo sferico su un punto esterno; anzi, risulta da una sua lettera ad Halley che egli non ammetteva in quel tempo ciò che poi dimostrò (§ 6) : che la sfera attrae il punto esterno come se tutta la sua massa fosse concentrata nel centro. Comunque, fatto il calcolo accennato, nella proposizione VII Newton annuncia: La gravità è presente in tutti i corpi dell'universo ed è proporzionale alla quantità di materia dei singoli corpi (lbid., p. 403). Ma se l'attrazione è proprietà universale dei corpi, perchè non la riscontriamo nei corpi della nostra quotidiana esperienza ? Newton prevede l'obiezione, e risponde : Se qualcuno obietterà che tutti i corpi che si trovano intorno a noi secondo questa legge dovrebbero gravitare l'uno verso l'altro, mentre in realtà tale gravitazione non viene affatto avvertita, rispondo che la gravitazione verso questi corpi, essendo rispetto alla gravitazione verso tutta la terra come la massa di questi corpi è alla massa di tutta la terra, risulta troppo piccola per .essere avvertita (lbid., pp. 403-4). Nel 1 798 Enrico Cavendish, con la bilancia di torsione (Cap. VII, § 18), misurò diret­ tamente l'attrazione tra due piccole sfere e confermò l'intuizione di Newton nel senso che tra i corpi della nostra comune esperienza l'attrazione risulta così piccola da essere inavvertibile. Il metodo di Cavendish, successivamente perfezionato, consentì nel secolo scorso la determinazione numerica della costante di gravitazione unive La proposizione VIII contiene il famoso teorema che due globi costituiti da concentrici omogenei si attirano come se le masse fossero concentrate centri. La proposizione XXIV afferma che le maree sono dovute all' 1 Se m ed m' sono le masse, in grammi, di due corpi, r la loro due masse si esercita una forza mutua di attrazione, che, espressa in

l

=

6,67

·

I0-8

mm'jr2 .

nata d'attrazione della luna e del sole; nella successiva proposizione è posto il pro­ blema da ]. C. Clairaut (1743) in poi detto , che tanto affaticò i matematici da Newton ai nostri giorni: il problema chiede di determinare il moto di tre corpi (nel problema newtoniano sole, terra, luna) mutuamente soggetti alla legge d'attrazione universale. Comparsi i Principia, profondo e difficile trattato, Leibniz e i cartesiani critica­ rono il concetto di gravitazione: questa virtù insita nei corpi, dicevano sostanzial� mente, che si esercita a distanza, è un ritorno alle qualità occulte degli scolastici (Cap. V, § r ) . Replicava Ruggero Cotes, nella prefazione alla seconda edizione dei Prin­ cipia, riprodotta nella terza, che non si può chiamare occulta una causa la cui esi­ stenza viene dimostrata nel modo più evidente dall'osservazione ; occulte sono invece le cause addotte da coloro che fanno dipendere i moti dei pianeti non so da quali vortici di una materia puramente fittizia e completamente ignota ai sensi (lbid., p. xrx non num.) . La risposta è polemica, ma niente affatto convincente ; la gravitazione rimase sino ad Einstein un dogma della scienza, uno dei tanti fenomeni incomprensibili, come diceva Mach. Lo stesso Newton trovava assurda un 'azione a distanza, senza la mediazione di un agente, ma egli si rifiutò sempre di prendere pubblicamente posi­ zione sulla natura della forza di gravità. Secondo una nota di David Gregory, datata dal z r dicembre 1705 ma pubblicata soltanto nel 1937, Newton aveva trovato una sua soluzione al problema. Era una soluzione mistico-religiosa, che affiora alla fine dei Principia e dell Opticks in frasi che s'erano ritenute finora traslati, espressioni letterarie di uno spirito religioso ( di carattere teòrico. Il volume si apre con una dichiarazione di fedeltà al metodo sperimentale e con la promessa di descrivere i fenomeni, senza fingere ipotesi : Nello scrivere questo libro, avverte l'autore, non mi sono proposto di porre alcune ipotesi e da queste poi spiegare le proprietà della luce; ma di comprovare queste proprietà esposte con semplicità mediante il ragionamento e gli esperimenti. A questo fine premetterò le seguenti definizioni e assiomi ( Optice: sive de reflexionibus, refractionibus, inflexionibus et coloribus lucis libri tres. Auctore Isaaco Newton [ . . .] latine reddidit Samuel Clarke, editio novissima, Lau­ sannae et Genevae 1 740, p. r). Che veramente Newton si sia attenuto a questo programma non si direbbe. E infatti subito dopo aver letto queste parole il lettore s'imbatte nella prima defini­ zione che o non ha significato o lo acquista in una teoria francamente corpuscolare. La definizione dice: Per raggi di luce intendo le minime parti di essa, tanto quelle suc­ cessive nelle stesse linee quanto quelle contemporanee in linee diverse (Ibid., p. 2). E che significa che > ? Significa che per Newton il raggio di luce non è più la traiettoria, inventata e affinata dai geometri greci, ma è quel minimum lumen aut minima luminis pars, come dice la delucidazione che segue 144

la definizione, che da sola, senza la luce restante o può essere intercettata o da sola può propagarsi,· o che può esercitare o subire qualche azione che il resto della luce nello stesso tempo non esercita o non subisce (Ibid.) . Insomma Newton, vittima di un'illusione ricorrente in tutti gli sperimentatori, nello stesso momento in cui dichiara di volersi attenere ai fatti dando il bando ad ogni teoria, basa l'interpretazione delle sue ricerche sperimentali su una nuova concezione teorica del raggio di luce : la concezione corpu­ scolare o, se vogliamo adoperare un termine moderno, quantistica. Seguono altre otto definizioni, alcune della stessa natura oscura della prima, e otto > che riassumono l'ottica geometrica elementare del tempo : leggi della riflessione e della rifrazione, e formazione delle immagini. 1

Dispersione della luce e natura dei colori.

1.

La parte sperimentale che segue ha fatto le sue prove e sostanzialmente è rimasta la base della nostra ottica fisica. Volerne sottolineare la genialità di concezione, l'abi­ lità di esecuzione, l'accuratezza di misurazioni, può apparire retorico: basta soltanto richiamare l'attenzione sul balzo che Newton fa compiere allo studio della rifrazione nei prismi, al quale s'erano dedicati innumerevoli fisici, da Maurolico in poi, anzi, volendo, da Seneca in giù. Un primo gruppo di esperimenti molto semplici, consistenti nel guardare attra­ verso un prisma un cartone bicolore, rosso e turchino, illuminato dalla luce solare, consente allo scienziato di concludere con la proposizione fondamentale : Le luci che differiscono nel colore, differiscono anche tra di loro nel grado di rifrangibilità (Ibid., p. 13) . E se la proposizione non era in tutto nuova, perchè già enunciata da Marco Marci (1595-1667) nel 1648, nuovo e tale da non poterlo far passare ancora inosser­ vato era il complesso di esperimenti che la seguivano e la confermavano ulterior­ mente. Praticata una piccola apertura circolare nella finestra d'una camera buia, N ewton fa cadere il fascio di luce solare che vi penetra su un prisma molto disper­ sivo e ne raccoglie lo > sulla parete di fronte, ad alcuni metri di distanza. Acutamente osserva che le migliori condizioni sperimentali si ottengono quando il prisma è, come oggi si dice, in posizione di deviazione minima, che si raggiunge facil­ mente ruotandolo intorno al suo asse. Con questo dispositivo, un primo gruppo di esperimenti, tra i quali spicca quello con due prismi incrociati che dànno uno spettro spostato ma non allargato o cambiato, provò a Newton che i colori erano presenti nella luce solare e il prisma non aveva altro effetto che di separarli, e lo condusse a stabilire una corrispondenza biunivoca tra rifrangibilità e colore, con la conseguente correzione della legge cartesiana della rifrazione : l'indice di rifrazione è sì costante per due determinati mezzi, qualunque sia l'angolo d'incidenza, ma cambia col cam­ biare del colore della luce. Ne segue che una lente ha tanti fuochi quanti sono i colori della luce che la investe e Newton verifica la conseguenza con esperimenti identici a quelli che ancor oggi si ripetono nelle scuole. A questo punto Newton esamina criticamente la questione della purezza dello spet­ tro e descrive un apparecchio, costituito da lente e prisma, che non è altro che il colli­ matore dello spettroscopio di Fraunhofer (Cap. V I I I, § 8) : come mai allora Newton non ::ro.

-

Storia

delle Scienu,

II.

145

D Esperimenti di dispersione di Newton (da Saverien, Dictionnaire universel de mathématique et de physique, Parigi, 1 754).

osservò le righe nere dello spettro solare ? Forse perchè era debole di vista e per le osservazioni si serviva degli occhi di un assistente. La circostanza fu provvidenziale, perchè le righe scure sarebbero state una complicazione, che difficilmente Newton avrebbe potuto dipanare. In un altro gruppo di esperimenti, Newton scompone col prisma la luce, raccoglie lo spettro su uno schermo, pratica in questo una stretta fessura e manda la luce che ne emerge su un secondo prisma, che la devia ma non la scompone più. Questo gruppo di fenomeni, fondamentale nella spettroscopia, conduce Newton al concetto di luce omogenea : Ogni l'uce omogenea ha un colore proprio e suo, corrispondente alla sua rifran­ gibilità, che non può essere mutato con alcuna riflessione o rifrazione (lbid., p. 87) .

È così confermata, con un'evidenza sperimentale che non potrebbe essere migliore,

l'intuizione cartesiana sulla natura dei colori : non sono i corpi su cui cade la luce a produrre i colori, nè > sono i raggi di luce per se stessi colo­ rati, ma essi hanno una certa disposizione, che in noi eccita la sensazione di questo o di quel colore. Seguendo una tradizione ormai secolare, Newton enumera sette colori (rosso, aranciato, giallo, verde, azzurro, indaco, violetto) , escludendo il bianco e il nero. E dopo l'analisi, in un gruppo egualmente ammirevole di esperienze, Newton procede alla sintesi dei colori. Alcune di tali esperienze rimasero classiche e sono tuttora riferite dai testi dì fisica: come quella del pettine che, mosso rapidamente ed alternativamente davanti a uno spettro, lo fa intravedere bianco per il fenomeno di persistenza delle immagini, che Newton· s'indugia a spiegare molto accuratamente ; come quello della ricomposizione della luce mediante un secondo prisma. Le precedenti proprietà consentono a Newton di dare una nuova più completa spiegazione dell'arcobaleno e d'interpretare il colore dei corpi come effetto d'un assor­ bimento selettivo delle radiazioni che li colpiscono. Ma quest 'ultima parte non va esente da critiche. Un esperimento aveva dimostrato a Newton che i colori risul­ tanti dall'assorbimento si comportano diversamente dai colori dello spettro ; ciò non pertanto egli crede di poter applicare ai colori dello spettro le regole di mescolanza dei pigmenti colorati, e dice, per esempio, che il verde dello spettro si ottiene da un azione era tutt'altro che propria, come quella di > tempo: in alcuni casi, con grave pregiudizio della saggezza del Creatore invocata a giustificazione del principio, l'azione e rispettivamente il tempo sono un massimo. Ma non ostante le critiche di Lagrange e più tardi di Hamilton, il qualificativo > è rimasto, salvo che negli enunciati, quasi in tutti i testi di fisica sino ai giorni nostri. 4• La :meccanica analitica.

N el 1 736 comparve la Mechanica, swe motus scientia analytice exposita che nel solo titolo è un programma. Ne era autore lo svizzero tedesco Leonardo Euler (1707-1783), una delle pii1 eminenti figure della scienza del Settecento. Egli si propose di sviluppare la meccanica come scienza razionale, ordinata su poche definizioni e assiomi, in modo che le leggi meccaniche appaiano, come sono, non soltanto certe, ma di >. La dinamica euleriana è fondata sul concetto primitivo di forza, e sul confro delle forze mediante i loro effetti statici assumendo il postulato, che Euler di dimostrare, che l'equivalenza o la composizione statica delle forze vale . gli effetti dinamici : è Ia tradizione galileiana. La trattazione pone 1'...."'"''-"-UU tutto sull'impulso della forza e si sviluppa con lo studio in buona gran numero di problemi relativi al moto di un punto libero o vin o su una superficie, nel vuoto o in un mezzo resistente. Con · continua� la metamorfosi della meccanica da geometrica ad analitica: come abbiamo visto (§ 2), nel trattato di d'Alembert. 1 60

Frontespizio della seconda edizione della Theoria motus corporum solidorum seu rigi­ dorum di L. Eulero (Greifs­ wald, 1 790).

THEORIA MOT\ S

CORPORVM SOLIDOR V� l SEV RIGIDORVM EX

PRlMIS N O S T R A E C O GNITIONIS P RINCIPIIS STA B I LITA

ET

AD

OMNES

M OTV�

QVl l N HVlVS IODl CORPORA CADERE POSSVNT, A C C O M M O D A T A.

AC A

l AE

�A��III\.S

/1.

A V CTORE

L E O N H. I � I P E R J\ T .

SCIENT,

EU L E R O

S C l E N T.

R t; G 1 t\ E

l' E T R O l' O L ·

JI. E G I A R V M

SOCIO

P.'\R I S I N I\ E

E D I T I O

O E t o t R A rt l> S I M I

l t r

l F R 1S

ET

A

CTO R I

t:1'

S

.

Il O R V S S l C A E D l R E C T O R- E H O N O R A R I O ET ACAllE�IIAI W N

CT

L O N D ! N E I\ S I S

JIJENBI\0,

N O V A,

S V I' P I

011: :-. T l S

LOCVPLCTATA

E M I: ' D A T A .

GR V P H l � \V A L O l A E l \l l' l. lo: S l S





R

0 S E.

M O C C X C.

Alla dinamica del punto segue nel 1760, la dinamica dei solidi, esposta nella Theoria motus corporum solidorum seu rigidorwm. Eulero vi sviluppa la teoria dei momenti d'inerzia e studia sistematicamente il movimento d'un corpo solido libero. Egli va oltre lo studio del moto centrale, tramandato da Newton, e tratta in generale tutti i movimenti di rotazione e i movimenti che obbediscono a forze qualunque, preparando così il terreno alla cinematica e alla cinetica moderne. I n particolare, è ammirevole, e in buona parte tuttora valido, lo studio analitico del moto della trottola, che uti­ lizza i concetti di momento e d'asse d'inerzia. Dopo la dinamica dei solidi anche l'idrodinamica comincia ad essere analytice exposita nella Théorie de la figure de la Terre tirée des principes de l' hydrodynamique (1743) di Clairaut, nell'Hydrodynamica, sive de viribus et motibus fluidorum commentarii ( I738) di Daniele Bernoulli, nei lavori di d' Alembert destinati all'idrodinamica (Traité de l'équilibre et du mouvement des flu.ides, 1 744 ; Essai d'une nouvelle théorie de la rési­ stance des fluides, 1752) ; nell'ammirata memoria Principes généraux du mottvement des fl,ttides presentata da Euler all'Accademia di Berlino nel 1755, nel Mémoire sur l'écoulement des fluides par les orifices des vases ( 1 766) del francese Gian Carlo Borda II.

-

Storia delle Scienze,

I I.

r6r

(1733-1799) e finalmente nei due importanti trattati di meccanica del generale della rivoluzione francese Lazzaro Carnot ( 1753-1823), l'Essai sur les machines en général ( 1783), Principes généraux de l'équilibre et du mouvement (1803) . Il lavoro del X VII I secolo verso una meccanica razionale si assomma nella Mécha­ nique analytique di Luigi Lagrange ( 1736-1813) , pubblicata per la prima volta nel 1 788. È un trattato che sviluppa dagli stessi principi tutte le parti della meccanica: la statica e l'idrostatica, la dinamica e l'idrodinamica. Adottando i concetti e i postulati di Galileo, di Huygens, di Newton, avendo studiato le opere dei suoi contemporanei, Lagrange si propose di fondere i principi e di farne emergere un metodo analitico generale di risoluzione dei problemi meccanici. Nell'A vertissement Lagrange enuncia così i suoi scopi: Mi sono proposto di ridurre la teoria della meccanica e l'arte di risol­ vere i problemi che vi si riferiscono a formule generali, il cui semplice sviluppo dà tutte le equazioni necessarie per la soluzione di ogni problema ( . . . ) Quest'opera avrà d'altra parte un'altra utilità, essa riunirà e presenterà sotto 1-tn medesimo punto di vista i differenti principi trovati finora per facilitare la soluzione delle questioni meccaniche, ne mostrerà il legame e la dipendenza mutua e porrà in grado di gittdicare sulla loro esattezza ed estensione (Méchanique analytique par M. De La Grange, in Oeuvres de Lagrange, XI, Paris r 888, p. XI) . Ma la preoccupazione fondamentale di Lagrange è di eliminare dalla trattazione ogni ricorso alla rappresentazione geometrica: Non si troveranno {ìg1tre in quest'opera. I metodi che io espongo non richiedono nè costruzioni nè ragionamenti geometrici o meccanici, ma solamente operazioni algebriche soggette a un andamento regolare e �miforme. Quelli che amano l'A nalisi vedranno con piacere la meccanica divenirne una nuova branca e mi saranno grati d'averne esteso così il dominio (lbid., p. XI-XII ) . Il genio matematico di Lagrange e la sua chiarezza d'idee gli permisero di rag­ giungere gli scopi che s'era prefisso in un'opera quasi perfetta di meccanica classica: la trattazione è fondata sul principio di d' Alembert combinato col principio dei lavori virtuali e conduce alle ben note equazioni dinamiche lagrangiane e all'equazione fon­ damentale della dinamica dei sistemi, basi della meccanica e della fisica classica moderne. 5• Acustica.

Nel 1715 il matematico inglese Brook Taylor (r685-173 I ) , prendendo le mosse dagli studi sperimentali di Saveur (Cap. VI , § 8), iniziò la trattazione matematica del problema della corda vibrante, dando così il primo avvio alla fisica matematica propriamente detta. Egli riuscì a calcolare il numero delle vibrazioni d'una corda in funzione della lunghezza, del peso, della tensione della corda e dell'accelerazione di gravità del luogo. Il problema divenne subito famoso ed occupò quasi tutti i matematici del XVI II secolo, suscitando lunghe e proficue polemiche. Se ne occuparono, tra gli altri, Giovanni Bernoulli e suo figlio Daniele, Giordano Riccati (1709-1790) e d'Alembert. Quest'ultimo trovò l'equazione alle derivate parziali che regge le piccole oscillazioni d'una corda omogenea e riuscì ad integrarla con un metodo r6z

Oiff

i

1--- . - -

o

l

+ · ,_

� " 1f ' · � uu ():J

1'7)

Figure di Chladni di una medesima lastra vibrante quadrata, rilevate sperimentalmente da Sa­ vart: le linee tracciate sono linee nodali (da M. Pouillet, Eléments de physique expérimentale et de météorologie, Parigi, 18 53).

tuttora in uso. Ma il contributo più importante fu dato da Euler, al quale dobbiamo una teoria completa delle vibrazioni delle corde, iniziata nel 1739 nell'opera Ten­ tamen novae theoriae musicae e proseguita in successive numerose memorie: in par­ ticolare, dalla teoria di Euler risultava che la velocità di propagazione dell'onda nelle corde è indipendente dalla lunghezza d'onda del suono prodotto. Euler fece pure ricerche teoriche sulle vibrazioni di verghe, di anelli, di lastre, di campane, ma i risultati ottenuti non si accordavano con le verifiche sperimentali del tedesco Ernesto Chladni (1756-r827) , considerato il padre dell'acustica speri­ mentale. Egli fu il primo a determinare esattamente le vibrazioni di un diapason e a dare (1796) le leggi delle vibrazioni delle verghe. L'attuale spiegazione razionale dell'eco, fenomeno abbastanza capriccioso, appar­ tiene a Chladni, almeno nei suoi tratti essenziali ; a lui sono pure dovute nuove deter­ minazioni sperimentali del limite superiore di udibilità dei suoni, che fissò a 22.000 vibrazioni al secondo : queste determinazioni, ripetute sino ai nostri giorni da innu­ merevoli fisici, sono molto soggettive e dipendono anche dall'intensità e dalla qualità del suono. Ma di Chladni sono specialmente ricordati gli studi ( 1 787) sulle vibrazioni delle lastre, con la formazione di quelle belle figure acustiche (v. fig. a pag. prec.) che da lui presero il nome, ottenute cospargendo le lastre vibranti di sabbia, sostituita da polvere di licopodio da Savart. Da questi studi sperimentali ebbe origine un nuovo problema di fisica matematica, quello della lamina vibrante. A Chladni è anche dovuto l'inizio dello studio delle onde longitudinali nei solidi, con il confronto tra le vibrazioni longitudinali e trasversali d'una verga, nei diversi modi di eccitazione (per urto, per strofinio longitudinale, ecc.). Gli studi sulle onde longitudinali furono continuati da Felice Savart (179I-I84r) sperimentalmente, e teoricamente da Laplace e Poisson. Molti altri fenomeni particolari di acustica furono studiati nel XVII I secolo (v �locità di propagazione del suono nei solidi e nei gas, risonanza, suoni di combina­ zione, ecc.) : tutti vengono spiegati col movimento delle parti dei corpi vibranti e delle particelle dei mezzi che propagano il suono ; in altre parole, tutti i fenomeni acustici sono spiegati come processi meccamc1.

L'OTTICA 6. L'acromatismo delle lenti. Il trionfo della teoria corpuscolare nel XVI I I secolo è comunemente attribuito all'autorità di Newton e il danno derivato alla scienza è spesso paragonato a quello subito per duemila anni dall'affermazione dell'autorità di Aristotele : è un'interpre­ tazione storica forse troppo semplicista. Certo l'autorità di Newton ebbe il suo peso, ma è dubbio che sia stata determinante nel successo della teoria corpuscolare. Nel XVI II secolo non c'erano ragioni scientifiche decisive a favore dell'una o dell'altra teoria. Il fenomeno di diffrazione, oggi invocato come l' experiment�tm crucis

Microscopio solare da proiezione, presentato alla Royal Society di Londra nel 1 740. Lo specch10 G invia un fascio di luce solare sul microscopio M posto all'interno d'una camera buia: sulla parete di fronte si forma l'immagine (da Saverien, Dictionnaire universel de mathém.atique et de physique, Parigi, 1 753).

a favore della teoria ondulatoria, era rimasto un mistero anche per Huygens. Entrambe le teorie spiegavano, più o meno bene, i fenomeni più comuni; entrambe erano com­ plicate. E, allora, complicazione per complicazione, tanto valeva attenersi alla teoria emissionistica che si presentava come un 'ottica del senso comune, in quanto spiegava, in una forma d'immediata intuizione, il fenomeno ottico più elementare, la propaga­ zione rettilinea della luce. Sebbene la grande maggioranza dei fisici del XVI II secolo abbia seguito la teoria emissionistica, che, privata di ogni elemento ondulatorio, non era neppure la teoria newtoniana, pure la tradizione ondulatoria fu conservata nel XVII I secolo da fisici e fisici matematici di grande rilievo, come Beniamino Franklin, Giovanni Bernoulli figlio (1 710-1790) ed Euler. L'opera di Euler merita particolare menzione. In una memoria del 1747 egli dette la formula tuttora in uso per il calcolo della distanza focale di una lente biconvessa e in una successiva memoria del 1766 insegnò a calcolare l'indice di rifrazione di una sostanza con una formula oggi ben nota che pone una relazione tra l'indice di rifra­ zione, l'angolo rifrangente di un prisma della stessa sostanza e la deviazione della luce che lo attraversa. r6s

Molto più importante è il contributo da lui dato con la Nova theoria lucis et colorum pubblicata nel I746. Euler vi sostiene la teoria ondulatoria e attribuisce alla diversa lunghezza d'onda la causa fisica dei diversi colori : è un concetto fondamentale della teoria che, completato dallo stesso Euler nel I752 con l'attribuzione della massima e della minima lunghezza d'onda rispettivamente ai raggi rossi e violetti, si manterrà sino ai nostri giorni. Dalla sua teoria Euler dedusse la possibilità di eliminare l'aber­ razione cromatica delle lenti e indicò molti dispositivi per raggiungere lo scopo, ma non riuscì a costruirne alcuno. I lavori di Euler spinsero Samuele Klingenstierna (I698-I765), professore a U ppsala, a ripetere gli esperimenti newtoniani sulla disper­ sione (Cap. VI, § I I ) ; egli trovò inesatti i risultati ottenuti da Newton. Le sue conclu­ sioni furono confermate dall'ottico inglese Giovanni Dollond (I706-I76 I ) , il quale, dopo un perseverante lavoro durato per anni, giunse nel 1758 a costruire una lente acromatica, accoppiando una lente di vetro crown (a base di piombo) con una di vetro flint (a base di silicio). Le lenti acromatiche applicate subito ai telescopi e successivamente, dopo molti insuccessi, ai microscopi, miglioravano molto la bontà degli strumenti ottici, con grandi vantaggi per le scienze d'osservazione, in particolare per l'astronomia. La loro costruzione rappresentava la prima clamorosa smentita dell'ottica newtoniana; ma non pare abbia provocato alcuna revisione teorica, forse perchè si presentava come un fatto isolato, strettamente tecnico. 7• Fotometria. Nel Settecento si va chiarendo il concetto d'intensità luminosa e si commctano a studiare i dispositivi che possono aiutare l 'occhio nei confronti d'intensità luminosa. Già Huygens nel I6g8 aveva tentato un confronto tra l'intensità luminosa del sole e di Sirio ; due anni dopo Francesco Maria pensava di poter porre l'intensità luminosa proporzionale al numero di lastre di vetro di eguale spessore necessario per estinguere completamente la luce. Ma il primo studio sistematico fu compiuto dal francese Pietro Bouguer (1698-1758) che nel 1729 pubblicò un Essai d'optiq�te s�tr la gradation de la lumière (completato nel Traité d'Optiq�te, postumo, I76o) . Bouguer studiò la perdita d'intensità della luce per riflessione, già osservata da Guericke e poi da Newton. Egli faceva cadere, con eguale inclinazione, la luce d 'una candela su due specchi ; ne osservava un'immagine direttamente e l'altra dopo una seconda riflessione su un terzo specchio ; spostava opportunamente la candela sino a quando le due immagini gli apparissero di eguale intensità. Con questo dispositivo e con altri nei quali utilizzava la luce solare egli studiò il potere riflettente di diverse sostanze e l'influenza sul fenomeno dell'angolo d'incidenza dei raggi; determinò la perdita d'intensità nel pas­ saggio della luce attraverso un mezzo, osservando anche l'assorbimento selettivo dell'aria per i diversi colori. Quest'ultimo studio fu ripreso nello stesso secolo da Musschenbroek, da Canton e da Priestley. Un decisivo progresso si ha con la comparsa nel 1760 della Photometria, sive de mensura et gradibus luminis colorum et umbrae del matematico e fisico tedesco Giovanni Lambert (1728-1777). 166

II neologismo del titolo, che si conserverà prolificando sino ai nostri giorni, si adatta bene alle novità di concetti e di metodi contenuti nell'opera. Lambert distingue tra la chiarezza (claritas visa) , grandezza che si riferisce alla sorgente, e l'illumina­ zione (illuminatio) che riguarda i corpi illuminati. Egli comincia lo studio teorico e sperimentale dall'illuminazione, dimostrando quattro teoremi: l'illuminazione è pro­ porzionale alla superficie del corpo illuminante, inversamente al quadrato della distanza tra corpo illuminante e illuminato, inversamente al seno dell'angolo d'inci­ denza alla superficie illuminata, direttamente al seno che i raggi luminosi fanno con la superficie illuminante. Se si tiene presente che oggi si definiscono angoli d'inci­ denza gli angoli formati dai raggi con la normale alla superficie, le ultime due leggi esprimono o leggi di Lambert, come ancora si chiamano. Dopo l'illuminazione Lambert studiò la chiarezza, descrivendo con molti parti­ colari l'assorbimento dell'aria, ed enunciando, come già aveva fatto anche Bouguer, la legge logaritmica dell'assorbimento (l'intensità della luce decresce in progressione geometrica mentre lo spessore dello strato d'aria attraversato cresce in progressione aritmetica). A Bouguer è dovuto ( 1740) il fotometro oggi attribuito dai manuali scolastici a Rumford : uno schermo sul quale si proiettano le ombre di due aste metalliche, formate dalle sorgenti luminose da confrontare. Rumford riprese ( r795) l'idea co­ struendo con molta cura uno strumento più complesso. Egli vide anche la necessità di introdurre 4 t'O

f,f(

5t

48

1-u 141-1

36" 3�

18 ·-

�20

J6

L-.

H,,

40

()0

l.. '>O

i\�

ilo

� o.- llllk

6o

� �fu

jl:uo

IWD �D

1!!90 luBo

ju70 ju60 J.uoo lp40

luJv

� !W � �o o

&� :

lJM �

4H

l



�il

L/9 l

!gtJ_

63

010

o

;"i

y

l,'lq

.JO

'?O JO

l()(l

:JO

So

3(1

J(l

.,

-

ti .L

bo

141'

"

(l

r-,o

6o

,1(1

lO

8o

4

o

to UJ

'

l�

8

·

de

r

. -..--- ,..---

UZ

J•..S

T�rmomRtre DrfJL'ne_ ;'wqLta l 'annie J75o .

{ � '' llj 1t:L raz�r'OI1

,108o

lD'iV

� m6o

IDJ#O JOQO

.ID:IlO

,Jif.1J1

JlD"'

o

�o :w

l"'"

lvi 5o

bo

170 JUU

fl.:l fil fw t}

lt:l 7

b

lL JV 4

13 :2.



o

190 �

&o

5o

r1" 3o

fW

Lw o

�D .20

•;)tJ no

r.va.:

1--

�-�� 18,1-

z3

&.�

22

f7�2J p�

2.1 2 ••

41)

�� 64 5

Il.} '"'

lsé11o �l"'l

l?

Bo

JJ/

��

14�10. ��16.

,;,

, .,.

20

l..l'il

,J!Sl

tJ

%1\41 �G�

12

Uo

IL

lA·\41

LO

6bc

o

lo

.., �

8

5� ....�

5o

� 'l>'

l

Y l t!

�)z:

!Uo



oo

l) Nnvtcm

�!A

f-·

--

3.ls

w.

o o o ��l��

Powler

Ralra

.1· 1

,



�e

.. �._

Tavola di comparazione delle scale termometriche, secondo Gian Giacomo De Mairan (Dissertation suf la glace, Parigi, 1 749) .

168

È interessante osservare che con questo strumento, accolto con poco favore,

Amontons giunse alla nozione di zero assoluto, che, dalle sue indicazioni corrispon­ derebbe a - 239,5 °C. Lambert ripetè con maggiore accuratezza gli esperimenti di Amontons, giungendo anch'egli al concetto di zero assoluto, così espres$o : Un grado di calore eguale a zero è realmente quello che può essere chiamato freddo assoluto. Onde al freddo assoluto il volume dell'aria è zero o quasi zero. Vale a dire al freddo assoluto l'aria si addensa così compattamente che le sue parti assolutamente si toccano, e diviene per così dire impermeabile (Johann Heinrich Lambert, Pyrométrie, Berlin 1779, p. 29) . Un progresso decisivo nella costruzione dei termometri si raggiunse col tedesco Gabriele Daniele Fahrenheit ( 1686-1736) che ne avrebbe avuto l'idea da Olaf Romer. Fahrenheit costruì termometri ad alcool e a mercurio, nella forma che hanno attual­ mente. I l successo dei suoi termometri va ricercato nel fatto che egli, oltre ad avere introdotto un nuovo metodo di depurazione del mercurio, faceva bollire il liquido nel tubo prima della saldatura. La sua scala termometrica, nella seconda versione, dopo il 1714, aveva tre punti fissi : lo o corrispondeva alla temperatura di una miscela di acqua, . ghiaccio e sale marino, il 96 alla temperatura interna della bocca o del­ l'ascella di una persona sana; come temperatura di verifica per i diversi termometri egli adoperava la temperatura del ghiaccio in fusione, corrispondente a 32. Ma l'uso del mercurio non piacque a Renato Antonio Ferchault ( 1683-1757) , signore di Réaumur, a causa del piccolo coefficiente di dilatazione. Egli propose ( 1730) l'uso dell'alcool come sostanza termometrica e una scala che fosse costruita non arbi­ trariamente, come quella di Fahrenheit, ma in base alla dilatazione termica dell'alcool. E siccome trovava che l'alcool di cui si serviva, mescolato con I/5 d'acqua, si dilatava da 1000 a ro8o tra la temperatura di congelamento e di ebollizione dell'acqua, così propose la scala o-80. A queste due scale si aggiunse quella di Celsius-Stromer (Cap. V, § 15) ; ma nel corso del secolo il numero di scale andò rapidamente aumentando ; (v. fig. a pag. prec.) ; nella Pyrométrie di Lambert se ne ricordano rg. Per fortuna oggi quelle in uso sono ridotte alle tre ricordate : ancora troppe. Ma la storia del sistema metrico è lì a rammentarci quanto sia difficile cambiare i sistemi di misure, dovendo vincere il peso della tradizione, gli interessi dei costruttori, le suscettibilità nazionali. Nel 1747 l'olandese Pietro Van Musschenbroek ( r692-176 r ) , primo autore d'un trattato sistematico di fisica, usò la dilatazione d'una sbarra di ferro per misurare la temperatura di fusione di molti metalli. A Musschenbroek sono dovuti i primi studi sperimentali sulla dilatazione termica dei solidi, resa visibile mediante amplificazione con ingranaggi e leve in un apparecchio molto simile a quello usato oggi nelle scuole allo stesso scopo. 9· Cenno su l'introduzione della macchina a vapore.

Sebbene esuli dal nostro compito la storia della fisica tecnica, pure è necessario dire qualche parola sull'introduzione della macchina a vapore, che ebbe diretta influenza sullo studio della fisica propriamente detta. Alcuni cinquecentisti, come Cardano e Porta, si erano occupati della forza espan­ Siva del vapor d'acqua ; anzi Porta aveva ideato un dispositivo per sollevare una

colonna d'acqua mediante il vuoto prodotto dalla condensazione del vapor d'acqua; Giovanni Branca (1571-1640) nel 1629 aveva progettato la trasformazione dell'eolipila di Erone (Cap. I, § 7) in una vera turbina a vapore, ma alla progettazione non seguì la costruzione effettiva o, al più, seguì la costruzione di un modello. Dionigi Papin (1647-1714) , nel 1682 collaboratore di Huygens alla costruzione di una macchina nella quale lo stantuffo di un corpo di tromba si sollevava mediante la combustione di polvere pirica posta sul fondo del cilindro, nel 1690 ebbe l'idea di sostituire alla polvere pirica un po' d'acqua da vaporizzare col riscaldamento. Sia o no riuscito ad ottenere risultati pratici con questa o con un'altra macchina termica che gli si attribuisce, è certo che nel corso di questi studi egli scoprì che la temperatura di ebollizione dell'acqua aumenta con la pressione ed applicò la scoperta per ottenere acqua a temperatura maggiore di 100 °C, riscaldandola in una pentola chiusa; per evitare la possibile esplosione della pentola per eccessiva pressione, inventò la valvola di sicurezza. In Inghilterra Edoardo Somerset (1601-1667) ideò una macchina termica per sollevare acqua, ripresa più tardi (1698) da Tommaso Savery (1650-17 15) ; nel 1705 Leibniz ne mandò un disegno a Papin. Ma proprio nello stesso anno il fabbro ferraio Tommaso Newcomen (1670-1730) ottenne il brevetto di una macchina termica che fu la prima effettivamente usata per il sollevamento dell'acqua. Nella macchina di Newcomen il vapore, prodotto da una caldaia, era iniettato nel cilindro attraverso una valvola e ne sollevava lo stantuffo ; si chiudeva quindi la valvola e si produceva

Giacomo Watt. Ritratto di C. Breda.

IJO

F. de

Macchina a vapore di Watt dell'inizio del sec.

XIX,

accoppiata a una pompa idraulica (a destra) .

la condensazione del vapore refrigerando il cilindro con acqua; allora lo stantuffo, spinto dalla pressione atmosferica, cadeva in basso : il moto alternativo dello stantuffo, attraverso una traversa, era comunicato all'albero di una pompa. La macchina, molto rudimentale, funzionò per decenni, con una perdita enorme di calore, dovuta princi­ palmente al raffreddamento del cilindro mediante un getto d 'acqua ad ogni colpo. Giacomo Watt (r736-r8rg) , fabbricante di strumenti matematici e meccanici nell'Università di Glasgow, iniziò con metodo scientifico uno studio sperimentale della macchina. Si propose dapprima di eliminare lo spreco di calore dovuto al raf­ freddamento del cilindro; gli venne l'idea (1765) che l'espulsione del vapore dal cilindro si poteva anche ottenere aprendo al momento giusto una comunicazione tra il cilindro e un recipiente vuoto : il vapore vi si sarebbe precipitato. Era così inventato il refri­ gerante, il terzo elemento della macchina termica. Incoraggiato da questo primo grande successo, Watt continuò ·ad apportare alla macchina altri geniali perfezionamenti: la trasformò in macchina a doppio effetto (in cui il vapore, cioè, agisce su entr.ambe le facce dello stantuffo) ; introdusse il rego­ latore d 'ammissione del vapore a forza centrifuga ; il cassetto di distribuzione; la camicia di vapore intorno al cilindro; l'indicatore di pressione. Sono questi gli ele­ menti essenziali di una motrice termica moderna, onde Watt si può considerare, più che un perfezionatore, l'inventore della macchina a vapore. 171

1 o. Il calore specifico.

Come abbiamo accennato (Cap. V, § 15), gli accademici del Cimento furono i primi a parlare di capacità dei corpi per il calore. Ma questa parte della loro opera rimase inedita sino al 1841, onde per tutto il secolo XVII non si fece distinzione tra tempe­ ratura e calore ; negli scrittori del tempo si trova frequentemente l'affermazione che i termometri misuravano la quantità > di calore. La difficoltà dei princi­ pianti a distinguere i due concetti riproduce il fenomeno storico. Soltanto nel 1729 Klingenstierna, in una critica al trattato di fisica di Musschen­ broek, afferma che temperatura e calore non sono due cose identiche. Ma soltanto nel 1750 il fisico di Pietroburgo (Leningrado) Giorgio Guglielmo Richmann ( 1 7 1 11753) sperimentò che mescolando quantità eguali di acqua a temperature differenti, la temperatura delle mescolanze è la media tra le due temperature dei componenti ; ma la stessa cosa non succede se si mescolano quantità diverse di acqua a temperature differenti; in questo caso si ha come temperatura finale la media ponderata delle tem­ perature dei componenti. Più di questi importanti esperimenti di Richmann ebbero qualche risonanza le esperienze, non meno importanti, sulla fusione e l'evaporazione, istituite nel 1757 da Giuseppe Black (1 728-1799) . Prima di lui, ovviamente per insufficiente sperimen­ tazione, si riteneva che bastasse portare un solido alla temperatura di fusione per distruggerne le forze di coesione tra le particelle e attenerne la fluidità. Black, invece, sperimentò che per fondere il ghiaccio non bastava portarlo a 32 °F (corrispondenti a o °C) , ma, giunti a questa temperatura, bisognava ad una unità di peso di ghiaccio aggiungere un'unità di peso d'acqua a 172 °F ( 77,8 °C circa) . C'era, dunque, qualche cosa che oltre a produrre la sensazione tattile di temperatura produceva anche il cambiamento di stato dei corpi. Black provò che questo agente, detto calorico, sul quale torneremo nel paragrafo successivo, era necessario anche per provocare il feno­ meno di evaporazione : esponendo un recipiente con acqua a roo °C su un fornello, per attenerne la vaporizzazione bisognava tenervelo tanto tempo quanto ne occorreva per riscaldare di un grado una quantità d'acqua 445 volte più grande. In sostanza, dagli �sperimenti di Richmann e di Black si deduceva che il termometro non misura il > e si facevano le prime misure del calore di fusione e di evaporazione. Gli esperimenti di Richmann furono ripetuti nel 1772 da Gian Carlo Wilcke (17321796) che verificò la formula delle mescolanze e introdusse l'unità di misura del calore, la quantità di calore che abbassa d'un grado centigrado l'unità di peso dell'acqua: è il concetto a cui s'ispira l'attuale definizione di caloria. In questo periodo sorge il concetto di > o calorifica, espressione adoperata dagli scrittori del tempo in due sensi completamente diversi, che possono disorientare il lettore moderno : alcuni l'adoperavano nel significato di quantità totale di calore > in un corpo che nè allora nè ora si ha alcun mezzo per misu­ rare ; altri, i più, l'adoperavano nel senso attuale di calore necessario per riscaldare o raffreddare un corpo di un grado (dalla scala scelta per le temperature). Da questo concetto era facile passare al concetto di calore specifico, cioè di capacità termica dell'unità di massa del corpo. Ne iniziò lo studio Wilcke con una memoria del 1 78 1 , =

Calorimetro ( 1 852) di Pietro Favre ( I 8 1 3-188o) e Giovanni Silbermann ( 1 8o6- I 865) , precursore del calorimetro di Bunsen: il pallone a, riempito con 8-10 Kg. di mercurio, si prolunga nel cannello calibrato d f. Dallo spostamento del mercurio nel cannello si deduce la quantità di calore ceduta dal corpo in esame introdotto nel tubo metallico b (da M. Pouillet, Eléments de physique expéri­ mentale et de météorologie , Parigi, 1853).

:

l

/

nella quale fa le prime misure adottando il >, oggi ben noto. Egli introduce anche il concetto di > e avverte che il calore specifico si può anche determinare dalla quantità di ghiaccio fusa dal corpo caldo in esame. Il metodo delle mescolanze fu adoperato nel secolo successivo da innu­ merevoli fisici. A questo metodo ricorsero ( r8rg) Dulong e Petit per determinare il calore specifico di un gran numero di solidi, giungendo alla famosa legge di costanza del prodotto del calore specifico per il peso atomico, che fu preziosa per la chimica e dette tanti grattacapi per oltre un secolo alla fisica teorica (Cap. XIII, § I I ) . L'altro metodo di misura dei calori specifici, consigliato d a Wilcke e basato sulla fusione del ghiaccio, fu applicato in un lavoro in collaborazione da due colossi della scienza, Antonio Lavoisier (I743-1794) e Pietro Simone Laplace (r749-I827) ; ne dettero notizia in uno studio pubblicato nel 1784 nelle Memorie dell'Accademia delle Scienze di Parigi (con la data del r78o). A questo scopo, essi si costruirono un apparecchio che chiamarono, con denominazione rimasta nella scienza, calorimetro, costituito da tre recipienti concentrici : nel recipiente interno, metallico, si pone il corpo riscaldato; nell'intermedio il ghiaccio da fondere ; nell'esterno acqua o ghiaccio, allo scopo di assicu­ rare nel recipiente intermedio la temperatura costante di o oc. Dalla quantità di ghiac­ cio fuso, tenendo conto dell'equivalente in acqua del recipiente interno, Lavoisier e Laplace misurarono i calori specifici di molti corpi, solidi e liquidi; scoprirono che il calore specifico di un corpo non è costante, ma varia con la temperatura, anzi affermarono che esso cresce sempre con la temperatura ; il che, com'è noto, non è sempre vero. Il maggior inconveniente del calorimetro di Lavoisier e Laplace è che una parte dell'acqua fusa non può essere raccolta perchè aderisce al ghiaccio. Furono fatti molti 173

tentativi per migliorare lo strumento, diminuendo la perdita d'acqua. L'inconve­ niente fu completamente eliminato nel 1870, quando Bunsen propose il suo ben noto calorimetro nel quale la quantità di ghiaccio fuso si deduce dalla riduzione di volume subita. II.

Natura del calore.

Fin dall'antichità classica due teorie furono avanzate sulla natura del calore : che il calore è una sostanza ; che il calore è uno stato dei corpi. Ma le idee in proposito furono spesso molto confuse. Nella filosofia ionica, per esempio, il quarto elemento era il fuoco ; molti, allora e dopo, identificarono il fuoco col calore, ma altri consi­ derarono il fuoco solamente come produttore del calore e il calore come uno stato non specificato dei corpi. Ruggero Bacone e più tardi Kepler specificarono questo stato come stato di movimento delle parti interne dei corpi ; più esplicitamente Boyle considerò il calore come uno stato di movimento delle molecole : questa concezione fu forse predominante nel XVI I secolo. Fra gli scienziati della prima metà del Settecento essa era talmente diffusa che quando nel 1738 l 'Accademia delle Scienze di Parigi bandì un concorso a premio sulla natura del calore, Leonardo Euler che vi partecipò e Io vinse, poteva affermare : Che il calore consista in un certo moto delle piccole par­ ticelle dei corpi è ormai abbastanza chiaro ( Recueil des pièces qui ont remporté les prix de l'Académie Royale des Sciences, IV, 1752, p. 13) . Ma nella seconda metà del secolo la teoria sostanziale, o come comunemente si dice, materiale del calore ebbe il sopravvento, per opera soprattutto di Black; al successo della teoria contribuì anche la teoria chimica del > sostenuta vigo­ rosamente da Giorgio Ernesto Stahl {I670-1734) e la tendenza della filosofia scienti­ fica del tempo di costruire ipotesi rappresentative di tipo cartesiano. D'altra parte i successi sperimentali ottenuti adottando questa teoria e ai quali abbiamo accennato nel paragrafo precedente erano innegabili. La teoria sostanziale del calore postulava l'esistenza di un fluido sui generis, responsabile dei fenomeni termici, il calorico, con­ cepito come imponderabile, diffuso in tutta la materia, capace di penetrare nei corpi, di > con essi e di disgregarli in liquidi se solidi, di dissolverli in vapore se liquidi. Si scrivevano allora correntemente eguaglianze del tipo: ghiaccio + calo­ rico = acqua ; acqua + calorico = vapor d'acqua. Il calore combinato nei corpi non era rivelabile dal termometro, era >; sul termometro agiva soltanto il >. Nel 1780 Marat, il futuro rivoluzionario, espose la teoria completa del calorico. Ma neppure nella seconda metà del secolo la concezione meccanica era comple­ tamente scomparsa. Basta riferire il seguente brano della citata memoria di Lavoisier e Laplace : I fisici non sono d'accordo sul calore. Molti di essi lo considerano come un fluido diffuso in tutta la natura ( . .. ) . A ltri lo considerano solamente come il risultato di movimenti invisibili delle molecole, gli spazi vuoti tra le molecole permettendo le vibra­ z·ioni in t�ttti i sensi. Questo movimento invisibile è il calore. Sulla base del principio di conservazione della forza viva, si può dare così questa definizione: il calore è la forza vtva, cioè la somma dei prodotti della massa di ogni molecola per il quadrato della 174

velocità (Histoire de l' Académie Royale des Sciences de Paris, Mémoires, 1780, p. 357). Tra le due teorie gli scienziati si lavarono le mani, limitandosi a dire che . L'esperimento si diffuse rapidamente ; Nollet cominciò la serie di far sentire la > su una catena di monaci che si tenevano per mano, nella certosa di Parigi. Continuò a sperimentare su gli uccelli, servendosi di un apparecchietto modesto ma utile, lo scaricatore, che si continuerà ad usare sino ai nostri giorni. E Nollet, sempre alla moda, sempre teatrale - i suoi esperimenti pubblici erano veri spet­ tacoli della Parigi mondana - avendo ucciso con la scarica qualche uccelletto, ammoniva di trattare con prudenza il nuovo ente misterioso che >. Già l'anno successivo l'acqua della bottiglia era sostituita con un rivestimento di foglie metalliche sulle sue due facce, interna ed esterna ; si costruiva il condensatore piano e, per aumentare gli effetti, Winkler in Germania, Franklin in America collega­ vano in parallelo le bottiglie ottenendo potenti >, secondo il vocabolo spe­ cifico introdotto da Franklin.

13. Beniamino Franklin.

Beniamino Franklin (I706-r7go) fu condotto quasi per caso a questi studi. Aveva 40 anni quando li iniziò e in meno di tre anni fece compiere alla scienza passi prodi­ giosi. Uno dei primi fatti che lo colpì fu, per adoperare le sue stesse parole, il mera­ viglioso effetto dei corpi a punta tanto per attirare che per respingere il fuoco elettrico (Oe�tvres de M. Franklin. Traduites de l'Anglois sur la quatrième édition par M. Barbeu Dubourg, Paris 1773, I, p. 3). L'osservazione non era nuova, come sappiamo (Cap. V, § 22) , ma nuova fu la sistematicità degli esperimenti coi quali egli riuscì a stabilire >, come oggi si dice; cioè, come pensava Franklin, che le punte sono atte tanto ad attirare che a lanciare il fluido elettrico.

h(/. 1. ,

Ricreazioni elettriche della se­ conda metà del sec. XVI II. In fig. I la > di Franklin (da M. Guyot, Nou­ velles récréations physiques et mathématiques, Parigi, I8oo).

179

Beniamino Franklin. Incisione di M. Chamberlin e E. Fisher.

Fot.

M11-seo Naz. Scienza

e

Ttctlica, Milano

Ma come spiegare razionalmente questo fatto ? Ci si provò Franklin, e sentì egli stesso l'insufficienza della sua spiegazione. E che ? è forse necessario al fisico cono­ scere l'intima essenza dei fenomeni ? E l'americano, con l'orientamento francamente pragmatista che guidò sempre le sue ricerche scientifiche, risponde: Il più importante per noi non è sapere in qual modo la Natura eseg�ta le sue leggi,· ci basta conoscere le sue leggi. Vi è un'�ttilità reale a sapere che �ma porcellana abbandonata nell'aria senza essere sosten,uta cade e si rompe immancabilmente,· ma sapere come cada e perchè si rompa è materia di pura speculazione. Queste sono conoscenze piacevoli alla verità, ma senza le q�tali noi possiamo garantire la nostra porcellana (Ibid., I, p. 59) . La somiglianza qualitativa tra scintilla elettrica e fulmine era stata rilevata subito fin dai primi sperimentatori; ma l'impiego della bottiglia di Leida mostrava altri ele­ menti di rassomiglianza: uccidere gli animali, fondere i metalli, produrre un odor di fo­ sforo. Franklin nota queste rassomiglianze, ma nota pure che c'è almeno un fatto che non consente per il momento di affermare l'identità tra scintilla e folgore : il fluido elet­ trico è attirato dalle punte, mentre non si sa se la stessa cosa succeda per la folgore. : si hanno due tubicini comunicanti contenenti vino; in uno di questi chiuso all'estremità supe­ riore, si fa scoccare una scintilla, sopra il livello del vino, mediante due fili di ferro, e contemporaneamente si osserva l'innalzamento di livello nel vino dell'altro tubicino. Purtroppo Beccaria non seppe interpretare correttamente il fenomeno, attribuendo la produzione del dislivello all'effetto meccanico dell'irrompere del > al momento della scarica. Ebenezer Kinnersley (171 2- ? ) , un amico di Franklin, come lui appassionato agli studi di elettricità, ripreso nel 1761 in esame il fenomeno, lo attribuì al riscaldamento dell'aria provocata dalla scintilla. Ne avvalorò l'interpre­ tazione mostrando che la scarica riscalda i conduttori che attraversa, sino a portarli anche al color rosso. Franklin, informato della scoperta dell'amico, osservò attenta­ mente l'effetto d'un fulmine abbattutosi su una casa e ne trovò bruciato l 'impiantito ; onde fu da lui definitivamente sfatata la leggenda, alla quale anche lui aveva creduto, tramandata da secoli nei libri filosofici, che il fulmine fondesse i metalli, senza tuttavia riscaldar!i : la >, come si chiamava. Sino al Beccaria, i fisici distinguevano i corpi in due classi : i conduttori, tutti egualmente conduttori, e gli isolanti, tutti egualmente isolanti. Merito grande di Bec­ caria è aver dimostrato che codesta distinzione netta non reggeva alla prova dei fatti : introdusse così nella fisica il concetto di > e ne avviò i primi studi, dimostrando che l'acqua è meno conduttrice dei metalli solidi e del mercurio. Nel 1772 egli stabilisce inoltre la notevole proposizione : i metalli comunque più deferenti (cioè conduttori) d'ogni altro corpo apportano pure alcuna resistenza proporzionata alla lunghezza del sentiero che la scintilla dee in essi trascorrere (Giambatista Beccaria, Elettricismo artificiale, Torin o 1772, p. 134) . Gli esperimenti di Beccaria furono ripresi

nello stesso anno 1 753 dal fisico inglese Giovanni Canton (1718-1772) , che confermò la varia resistenza dei corpi. Enrico Cavendish, in una memoria del 1776 e meglio ancora in alcuni suoi scritti inediti, iniziò le prime misure di resistenza elettrica. Nella seconda parte dell'opera Beccaria istituisce esperimenti molto ingegnosi sull'elettricità atmosferica, giungendo alla conclusione che l 'elettrizzazione delle nuvole può essere tanto positiva che negativa. Ma il contributo più importante dato da Beccaria allo studio dell'elettricità si trova nelle Lettere al Beccari pubblicate a Bologna nel 1 758 e giudicate dai contem­ poranei un capolavoro. Beccaria, ripetuti gli esperimenti di Franklin del 1751 dai quali si otteneva la magnetizzazione d'un filo di ferro o la inversione della polarità di un magnete scaricando una batteria attraverso il conduttore, avanza l'ipotesi che esista uno stretto legame tra la > del fluido elettrico e il magnetismo, e si chiede se non sia il fluido elettrico che con alcuna determinazione universale, impercettibile, perpetua, periodica circolazione . . . universalmente ogni magnetica direzione producesse, e conservasse (Giambatista Beccaria, Opere, Macerata 1793, vol. I I , t . I I , p. 139) : è un pensiero geniale che strappò un grido d'ammirazione a Priestley : è questo vera­ mente un gran pensiero, e, se giusto, introdurrà la più grande semplicità nelle nostre concezioni delle leggi della nat�tra (Joseph Priestley, The history ecc., cit., p. 331 ) . Nel 1756 Francesco Aepino (1724-r8oz), fisico tedesco vissuto a Pietroburgo, introdusse il condensatore ad aria che da lui prese il nome ; con questo dispositivo egli intese dimostrare che il vetro della bottiglia di Leida o del quadro di Franklin non produceva l'effetto condensante perchè vetro, ma perchè isolante. Il condensa­ tore di Aepino (o Epino, come scrivono i trattatisti italiani) ha una notevole impor­ tanza storica, perchè sino alla sua comparsa s'era creduto che fosse il vetro, per una sua particolare testura intima, a produrre il fenomeno di condensazione. Aepino, invece, provò che lo stesso ufficio poteva essere disimpegnato da qualunque isolante, che fermasse l'efflusso del fluido elettrico. Ma Beccaria, fin dal 1754, insegnava a Torino che il vetro poteva essere sostituito da un altro isolante, e costruiva condensatori piani con lastre di ceralacca, di zolfo, di pece, di pece e colofonio; egli andò molto più oltre d'Aepino, dimostrando che il potere condensante era diverso nei diversi isolanti. Nella quinta lettera al Beccari Beccaria istituisce i primi esperimenti di confronto : non è azzardato supporre che fu proprio questo scritto a indurre Cavendish ai suoi geniali studi sperimentali sul potere induttore specifico, rimasti disgraziatamente inediti sino al 1 879, quando ne curò la pubblicazione il Maxwell. Ritorneremo in seguito, particolarmente nei §§ 17 e 18, su altri meriti di questo attivissimo scienziato piemontese, che fu maestro a Lagrange, incoraggiò il giovane Volta e segnò la ripresa della ricerca scientifica in Italia, dopo il secolare torpore. 16. Piroelettricità. La tormalina, un minerale che cristallizza nel sistema romboedrico, pur essendo molto diffusa in Italia e in Europa, fu fatta conoscere in Europa nel 1717 dal chimico Luigi Lemery ( 1677-1743), che la descrisse come una pietra singolare, proveniente da

Ceylon, capace di attirare corpicciuoli leggeri e perciò chiamata da Linneo nel 1747 lapis electricus. Nessuno se ne occupò più sino al 1756, quando il minerale venne alle mani di Aepino che lo battezzò > e iniziò lo studio del singolare fenomeno da esso presentato. Una serie di esperimenti, condotti con rara perizia, lo conferma­ rono subito nel sospetto che il singolare fenomeno era di natura elettrica, ma ben distinto dal comune fenomeno di elettrizzazione per strofinio. La tormalina, invece, si elettrizzava per riscaldamento, mostrando sempre una sua estremità elettrizzata positivamente e l'altra negativamente. Alla pubblicazione dell'Aepino seguì un'accesa polemica, alla quale presero parte, tra altri, Beniamino \Vilson (1708 ?-1788), Musschenbroek, Wilcke, i quali contesta­ vano i risultati sperimentali di Aepino, soprattutto perchè queste esperienze, ancor oggi delicate quando non si ricorra alle polveri elettroscopiche, non erano ripetute con l'accuratezza con cui Aepino le aveva eseguite. Pose fine alla polemica Giovanni Canton (17 18-1772), che nel 1759 lesse alla Royal Society una bene elaborata memoria, nella quale non solo confermava i risultati ottenuti da Aepino, ma aggiungeva che l'elettrizzazione si ottiene anche per raffreddamento. L'anno dopo, nel 1760, egli trovò che la proprietà della tormalina è anche posseduta dal topazio del Brasile e Wilson la riscontrò successivamente in altre gemme. Nel 1762, inoltre, Canton dimo­ strava che le cariche suscitate dal riscaldamento della tormalina sono eguali e di segno contrario. A questo risultato egli giungeva immergendo la tormalina in un reci­ piente metallico con acqua bollente, collegato con il suo elettrometro : questo non accusava alcuna carica. Va qui ricordato che l'elettrometro di Canton, da lui intro­ dotto fin dal 1753, per molti anni strumento prezioso per lui e per altri, era una modi­ ficazione del primo elettroscopio a palline di sughero descritto da quel nostro anonimo che nel 1746 aveva pubblicato la prima opera di elettricità medica (§ 12) : l'elettro­ scopio di Canton era costituito da due sferette di sughero quasi a contatto, pendule da due fili di lino in una piccola scatola. Ritornando per un momento al fenomeno presentato dalla tormalina, aggiunge­ remo che il mineralogista Renato Haliy (1743-1822), nel suo trattato di fisica del 1803, e nelle successive edizioni sino al 1821, dette al fenomeno di piroelettricità l'assetto che fondamentalmente ha ancor oggi, a parte le questioni teoriche ancor oggi tutt'altro che pacifiche. Inoltre è dovuto ad Haliy l'importante scoperta che i cristalli piroelettrici si possono elettrizzare, oltre che col riscaldamento, anche con la pressione, e fondò su questo fenomeno, detto poi di piezoelettricità, la costruzione di un sensibile elettroscopio. La piezoelettricità fu studiata per tutto il XIX secolo e riceve oggi numerose importanti applicazioni tecniche. 1 7. L'elettroforo.

In una memoria del 1759 Aepino descrive il seguente esperimento di grande importanza: avvicinando a una delle due estremità di un regolo di bronzo un tubo di vetro o un cilindro di zolfo elettrizzati, l'estremità più vicina del regolo si elet­ trizza di segno contrario a quella del corpo elettrizzante e la parte più lontana dello stesso segno. Finora s'era creduto, seguendo Gray, che un corpo vicino a un altro 186

�.

• .



-

• .•



•. .,

...

.-

'
. Aepino insegna, invece, che il fenomeno d'influenza elet­ trostatica è ben diverso. Tanto diverso che esso potrebbe essere un valido argomento per la teoria dei due fluidi, proposta nello stesso anno (§ 14) . Nella polemica si inserì (1766) Giovan Fran­ cesco Cigna (1734-1790) , parente e discepolo di Beccaria e fisico che ebbe ai suoi tempi qualche rinomanza, anche perchè, insieme con Lagrange e il conte Luigi di Saluzzo, fondò nel 1757 quella Società privata torinese, nel 1783 trasformata nell'attuale Acca­ demia delle Scienze di Torino. Fra gli esperimenti di Cigna era notevole il seguente: se a una lastra di piombo isolata si avvicina un nastro di seta elettrizzato e un dito, si trae col dito una scintilla dalla lastra, mentre il nastro di seta vi aderisce. Se poi si stacca il nastro dalla lastra, il nastro risulta elettrizzato come prima e la lastra elettrizzata di segno opposto; tratta da questa una nuova scintilla, si può ripetere il gioco innumerevoli volte, tanto che al Cigna riuscì di caricare una bottiglia di Leida utilizzando una sola serie di scintille, al distacco o all'adesione del nastro sulla lastra. Da questi esperimenti (per i quali più tardi rivendicò la paternità dell'elettroforo) Cigna concludeva che i fenomeni elettrici si potevano spiegare tanto con la teoria di Franklin che con quella di Symmrr.

Questi esperimenti di Cigna richiamarono agli studi elettrici Beccaria, che li aveva dovuti abbandonare fin dal 1758 per altri studi di carattere idraulico e per lavori geodetici. Nel 1769 egli pubblicò un libretto dal titolo Experimenta atque observationes quibus electricitas vindex late constituitur atque explicatu.r, nel quale infelicemente soste­ neva che quando due lastre oppostamente elettrizzate venivano a contatto, annul­ lavano le loro elettricità contrarie, ma ciascuna riacquistava la propria all'atto del successivo distacco ; onde egli chiamava vindex questa elettricità che sibi vindicat loc1tm su-um. Contro questa teoria si levò coraggiosamente il giovane Volta nel suo primo lavoro dal titolo De vi attractiva ignis electrici ac phaenomenis inde pendentibus (1769) , redatto in forma di lettera al Beccaria. È una memoria fondamentale per capire l'evoluzione successiva del pensiero del Volta; si potrebbe dire, anche se un po' col senno di poi, che essa contiene in germe tutte le sue successive scoperte. Vi si sostiene rettamente la persistenza delle cariche negli strati isolanti e si spiegano i fenomeni osservati da Beccaria come fenomeni d'influenza elettrostatica. Anzi questi fenomeni in parti­ colare erano studiati con molta cura e con mentalità nuova.

Elettroforo fatto costruire da Caterina I I , imperatrice di Russia, per l' Accademia delle Scienze di Pietroburgo : lo scudo è parallelepipedo con le estremità arrotondate, sospeso a corde di seta, sollevato e abbassato mediante il sistema di carrucole indicato in figura (da A cta A cademiae Scien­ tiarum Petropolitanae, 1 777).

r88

I frutti della nuova impostazione dei problemi non si fecero attendere troppo. II 10 giugno 1775 Volta poteva scrivere a Priestley: lo vi presento �m corpo che una volta sola elettrizzato per brevissima ora, nè fortemente, non perde mai più l'elettricità sua, conservando ostinatamente la forza vivace dei segni a dispetto di toccamenti replicati senza fine (Alessandro Volta, Le opere, Edizione nazionale, Milano 1918- 1930, I I I , p. 95) . Volta descrive, quindi, l'apparecchio che egli battezza >. L'apparecchio è ben noto, e ci sembra superflua la descrizione (v. fig. a pag. 187) . Il successo del nuovo apparecchio fu veramente grande; un po' dovunque si fab­ bricarono elettrofori : alcuni piccoli, smontabili, chiusi in custodie, di facile trasporto ; altri mastodontici, in cui gli scudi (anche con due metri di Aiametro ! ) si dovevano sollevare con sistemi di carrucole (v. fig. a pag. prec. ) . L'elettroforo era il prototipo d i u n nuovo tipo di macchina elettrostatica, più efficace della macchina a strofinio, la macchina ad influenza, che cominciò ( 1831) la sua vita con il > di Giuseppe Belli (1791-I86o) , seguito nel 1865 dalla più pratica macchina di Augusto Topler (1836-1912) e l'anno successivo da quella di Guglielmo Holtz (I836-1913) , nota sotto il nome di Whimshurt, e si trasformò nel nostro secolo nella ben più potente macchina elettrostatica a effluvio (Cap. XVI, § 2 ) . Tra le ricerche cui l'elettroforo dette subito origine ricorderemo quelle d i Giorgio Cristoforo Lichtenberg (1744-1799) sulle figure che portano ancora il suo nome e il conseguente impiego, vivo ancor oggi, delle polveri elettroscopiche ; la costruzione del > di Abramo Bennet (ben diverso dall'accennato duplicatore del Belli), che, in seguito alle critiche di Tiberio Cavallo (1749-I809) , un rinomato fisico napo­ letano vissuto a Londra, Guglielmo Nicholson (1753-I8I5} migliorò (1788) > : l'apparecchio, che più che una macchina a influenza era un sensibile rivelatore di piccole cariche, fu di grande aiuto a Volta nei suoi studi sull'elettricità di contatto. Dall'elettroforo pigliano le mosse le ricerche di Volta sulla capacità dei condut­ tori. Nessuno più di lui ebbe chiari ai suoi tempi i concetti di capacità e di potenziale o >, secondo la sua terminologia. Basta leggere la sua lettera al De Saussure, datata dal 20 agosto 1 778, dal titolo Osservazioni sulla capacità dei conduttori elettrici, o, meglio ancora, le Lettere sulla metrologia elettrica, indirizzate a Lichtenberg, per ammirare l'originalità degli esperimenti, l'acutezza delle osservazioni e la chiarezza dei concetti. Scoprì la relazione tra capacità, carica e tensione di un conduttore isolato; istituì ingegnosi metodi di confronto tra elettrometri diversi ; ne costruì di molto sen­ sibili; propose un'unità di misura della tensione (corrispondente a 1 3.350 volt circa) : Volta, insomma, fu il fondatore della metrologia elettrica. Il frutto popolarmente più noto di questi studi fu l'elettroscopio condensatore, descritto in una memoria alla Royal Society del 14 marzo 1782. Il dispositivo è oggi ben noto: al cappelletto di un elettroscopio si sostituisce un piatto metallico con la faccia superiore verniciata, al quale si sovrappone un altro piatto metallico portato da un manico isolante ; se si carica il piatto inferiore, mettendo a terra il superiore, si staccano i contatti e si solleva il piatto superiore, la diminuita capacità del piatto inferiore ne fa aumentare la tensione e perciò la divergenza delle palline dell'elettroscopio : è un artificio, insomma,

t ..

Cr

l

.... '

...

'\

'

·. _. ....., .

.. .. '

.. .. .. - .

.

, (

l �

... ... .

'

'\

Fot. Museo Na�. Scienza e Tecnica, Milano

Una pagina della lettera inviata dal Volta a Giuseppe Banks il 2 0 marzo 18oo per annunciargli l'invenzione del suo nuovo apparato.

rgo

per variare la capacità di un conduttore, basato sulla relazione che lega carica elet­ trica, capacità e tensione, da Volta così chiaramente enunciata: Non vi vuol molto a comprendere, che ivi è maggior capacità, dove una data quantità di elettricità sorge a minor intensità, o che è lo stesso, quando maggior dose di elettricità è richiesta a portare l'azione a un dato grado d'intensità: a dir breve, la capacità e azione o tensione elettrica sono in ragione inversa. Farò qui osservare sul principio ch'io denoto col termine di tensione (che volentieri sostituisco a quello d'intensità) lo sforzo che fa ciascun punto del corpo elettrizzato per disfarsi della sua elettricità, e com,unicarla ad altri corpi: al q�tale sforzo corrispondono general?nente in energia i segni di attrazione, repulsione, ecc. e particolarmente il grado a cui 1Jien teso l'elettrometro (Ibid., III, p. 285). Aggiungiamo che, in appendice a questa memoria sul condensatore, Volta dà conto degli esperimenti da lui fatti, prima a Parigi nel 1782 in compagnia di Lavoisier e di Laplace, poi a Londra in presenza di Bennet, Cavallo, Kirwan e Walker, sull'elet­ tricità che si desta la legge delle attrazioni e repulsioni elettriche. Beccaria fu il primo a spiegare il fenomeno di Franklin (il quale aveva successi­ vamente aggiunto l'osservazione fatta più tardi indipendentemente da Volta, che un pendolino elettrizzato, portato a contatto col fondo del vaso, perde la carica) nella memoria De atmosphaera electrica, redatta in forma di lettera alla Royal Society e pubblicata nelle Philosophical Transactions del 1770 ; la spiegazione fu ripetuta, invaI 3·

-

Storia delle Scienze, I I .

1 93

riata, nel suo Elettricismo artificiale. Costruitosi il pozzo elettrico e il saggiatore, un elet­ troscopio formato da due pezzetti di carta penduli da un bastoncello di ceralacca, Beccaria osservava che, elettrizzato anche fortemente il pozzo, il saggiatore non dava alcun segno di elettrizzazione quando era portato a contatto con le pareti interne e col fondo del pozzo, onde rettamente concludeva, come più tardi Faraday dopo analoghi esperimenti (Cap. X, § 1 5 ) , che ogni elettricità si riduce alla superficie libera dei corpi, senza diffondersi punto nell'interiore sostanza loro (Giambatista Beccaria, Elettricismo artificiale, cit., p. 193 ) . Cavendish non poteva ignorare questi esperimenti, ma volle convalidarli, in una memoria inedita del 1772, con un nuovo esperimento, ancor oggi descritto dai testi di fisica, che gli sembrò più probativo : due emisferi cavi, conduttori, isolati, portati ad adattarsi su una sfera metallica isolata, le sottraggono completamente la carica. Oltre la legge di attrazione elettrica, i fisici della seconda metà del Settecento tentarono di scoprire la legge delle azioni magnetiche. Tra i molti che presero parte alla ricerca merita particolare menzione Giovanni Antonio Dalla Bella (1730-1823) , fisico italiano vissuto a Lisbona, il quale istituì esperimenti con un dispositivo certa­ mente non molto originale, consistente nell'appendere a un piatto d'una bilancia un magnete sferico e misurare l'attrazione cui era soggetto, alle varie distanze, da parte di un altro magnete opportunamente collocato sul pavimento. Ma se non era geniale il dispositivo, geniale era il concetto intuito da Dalla Bella: la distanza tra

Carlo Agostino Coulomb. 194

i poli dei magneti non va misurata dalle loro superficie, ma da punti interni dai quali si possa supporre emanare la forza magnetica, come per calcolare l'attrazione newto­ niana su un corpo misuriamo la distanza dal centro della terra. A parte le difficoltà sperimentali, la mancanza di questo concetto spiega i fallimenti dei tentativi pre­ cedenti. Dalla Bella, supposta verificata anche nei magneti la legge attrattiva newto­ niana, istituisce esperimenti per calcolare, come calcola, a che distanza dalla super­ ficie di ciascun magnete impiegato deve trovarsi il centro da cui si possa supporre emanare la forza magnetica. Questi erano i limiti cui era giunta la scienza, quando nel 1 784 Carlo Agostino Coulomb (1736-1806) aveva condotto a termine le sue brillanti ricerche sulla torsione elastica dei fili, tuttora ricordate dai trattatisti. Coulomb aveva scoperto che la forza di torsione di un filo dipende dalla sua natura, è proporzionale all'angolo di torsione e alla quarta potenza del suo diametro, è inversamente proporzionale alla sua lun­ ghezza. Ne risultava un nuovo metodo estremamente sensibile di misura delle forze, che potevano essere confrontate tra loro dalla torsione fatta subire allo stesso filo. Il nuovo strumento, una vera bilancia per >, fu chiamato dallo stesso Coulomb bilancia di torsione (v. fig. a pag. 1 92) , denomina­ zione tuttora viva. Dopo averlo applicato allo studio dell'attrito tra liquidi e solidi, Coulomb pensò che un altro campo d'applicazione del nuovo strumento fosse lo studio delle piccole forze magnetiche ed elettriche. Così, a 48 anni, l 'ingegnere militare francese che non s'era mai occupato di proposito di elettricità e magnetismo (era apparsa di lui una sola nota sul modo di calamitare gli aghi d'acciaio) iniziava, come ricerche collaterali, gli studi che ne dovevano immortalare il nome. Coulomb cominciò a misurare le forze di repulsione tra cariche omonime col variare delle distanze. Tra i moltissimi esperimenti eseguiti, Coulomb riferisce i risultati di tre, nei quali le distanze tra le cariche stavano come 36 : 1 8 : 1 7/2 e le corrispondenti forze repulsive come 36 : 144 : 575 1 , cioè press'a poco le forze stanno tra loro inver­ samente ai quadrati delle distanze. In verità i dati sperimentali si scostano alquanto . dalla legge teorica ; Coulomb ne spiega i motivi, tra i quali ha molto peso, oltre ad alcune semplificazioni introdotte nel calcolo, la dispersione elettrica durante il tempo deli' esperimento. Più ardua risultava la misura delle forze attrattive, perchè è intuitivo, e il calcolo ne dà la spiegazione, che è molto difficile impedire alla sferetta mobile della bilancia di andare a toccare l'altra oppostamente elettrizzata. Tuttavia Coulomb assicura di esser riuscito in più casi ad ottenere l'equilibrio tra la forza attrattiva delle due sferette e l'antagonista forza di torsione del filo : i dati sperimentali ricavati, non riferiti da Cou­ lomb, indicavano che anche le forze attrattive seguono la legge delle inverse dei quadrati. Ma Coulomb non si appagò di questi risultati ; per confermare la legge, che egli intuiva fondamentale per l'elettrologia, applicò un nuovo metodo originale di misura delle piccole forze, già da lui utilizzato per misurare la forza magnetica d'una lama d'acciaio, dimostratosi di grande fecondità nelle misure fisiche e che oggi va sotto il nome di >. Esso si basa su questo fatto: come la frequenza di oscillazione di un pendolo dipende dalla forza di gravità del luogo, così la frequenza I95

di oscillazione di un ago elettrizzato oscillante in un piano orizzontale dipende dal­ l'intensità della forza elettrica a cui è soggetto, in modo che dal numero di oscilla­ zioni per secondo si può dedurre la forza. Per applicare questo concetto, Coulomb faceva oscillare un'asticciuola isolante, munita all'estremità di una piccola placca metallica verticale elettrizzata, davanti a un globo metallico isolato oppostamente elettrizzato disposto con un suo diametro orizzontale che passa per il centro della placca, quando questa è in posizione d'equilibrio. Anche per questa via la legge delle inverse dei quadrati fu pienamente confermata. Coulomb, conoscesse o no lo studio di Dalla Bella (letto nel 1782, all'Accademia delle Scienze di Lisbona, ma pubblicato nel 1797) . capì che i metodi precedenti non erano immediatamente estensibili alle azioni magnetiche per la ragione che già Dalla Bella aveva indicato: la difficoltà di localizzare le masse magnetiche che si possono supporre presenti nell'ago. Coulomb supera la difficoltà con metodi ben più originali di quello di Dalla Bella, e sperimentalmente conclude che anche le azioni magnetiche si esplicano secondo la legge dell'inversa dei quadrati. Stabilita la legge fondamentale delle azioni elettriche e magnetiche, Coulomb continua nelle sue ricerche sperimentali e teoriche scrivendo il primo capitolo di elettrostatica quantitativa. La sua attenzione è rivolta dapprima alla dispersione elettrica, che aveva tanto turbato le misure nella ricerca precedente. Secondo Coulomb, la dispersione elettrica avviene attraverso i sostegni, che non sono mai perfetta­ mente isolanti, e per convezione dell'aria, le cui particelle vengono a contatto col conduttore, si appropriano parte della carica e ne vengono respinte. Accurate ricerche sperimentali lo portavano a concludere che il decremento di elettricità di un con­ duttore nell'aria varia con legge esponenziale rispetto al tempo. Coulomb ammette come postulato, come già aveva fatto Aepino, che la forza tra due cariche elettriche è proporzionale al loro prodotto. I tentativi di alcuni trat­ tatisti posteriori di dimostrare questo postulato sono del tutto illusori ; servono sol­ tanto a confondere le idee di quei principianti ai quali si vorrebbero chiarire, perchè deducono il postulato di Coulomb da altri molto meno intuitivi. Formulato il postu­ lato, Coulomb studia la distribuzione dell'elettricità sui conduttori, introducendo l'uso del >, costituito da un cerchietto di carta dorata portato da un bastoncino isolante, che si va appoggiando sulle diverse parti della superficie di un conduttore per saggiarne la densità elettrica: trova così che l'elettricità si porta alla superficie dei conduttori (e a questo scopo ripete anche l'esperienza dei due emisferi di Cavendish) ; dimostra poi teoricamente questa proprietà, fondandosi sulla legge della inversa dei quadrati ; dimostra che l'elettricità si distribuisce uniforme­ mente su una sfera conduttrice isolata; studia la distribuzione su più sfere conduttrici a contatto, quindi su un cilindro; dimostra con rigore che le quantità di elettricità in­ dotte da un corpo elettrizzato su un conduttore sono eguali tra loro e di segno contrario. In conclusione, in quattro anni di lavoro metodico ed intenso, dal 1 785 al 1789, Coulomb gettò le basi dell'elettrostatica moderna. Le forze elettriche, inquadrandosi nel tipo di forze newtoniane, venivano di colpo a godere di tutte le proprietà che la meccanica razionale aveva trovato per i campi newtoniani. Euler aveva introdotto nella meccanica il concetto di potenziale e ne aveva dimostrato (1756) una notevo.. 196

Iissima proprietà, la così detta > ; Simeone Poisson (r78r-184o}, a partire dal r8r 1 , estese il concetto matematico di potenziale ai campi elettrici e magnetici ; nel 1828 comparve un'opera classica sul potenziale elettrico, l'Essay on the application of mathematical A nalysis to the theorie of Electricity and_ Magnetism (Nottingham, 1828) di Giorgio Green ( 1793-1841). Ma questi rapidissimi progressi i teorici dell'elettrologia sarebbero stati impossibili senza il precedente progresso con­ cettuale e analitico della meccanica razionale. 19. Luigi Galvani.

Appena si sperimentarono le commozioni della scarica elettrica, sorse, come abbia­ mo visto (§ 12) , il fondato sospetto e la speranza che il nuovo ente potesse lenire o guarire i mali dell'umanità sofferente. La scoperta della bottiglia di Leida avvalorò " i sospetti e dilatò le speranze. E quando finalmente Franklin tirò l'elettricità dalle nubi, e poco più tardi Le Monnier ottenne i segni elettrici anche a ciel sereno, allora parve >. E se tutta la natura era elettrica, pure la vita dell'uomo, vita fisica e finanche spirituale, doveva essere regolata dal trascorrere per le vene e per i muscoli di questo ente misterioso. Si faceva così strada il concetto di una elettricità animale, suprema regolatrice della �ita degli animali in genere, e in particolare dell'uomo. Nel 1773 comparve una memoria di Giovanni Walsh ( ?-1795) nella quale si ·dimo­ strava la natura elettrica del noto fenomeno presentato dalla torpedine marina. Anche Guglielmo s'Gravesande (1688-1742) e Musschenbroek, insoddisfatti delle spiegazioni meccaniche che si davano al fenomeno della torpedine, lo avevano supposto di natura elettrica, ma senza confermare l'ipotesi con l'esperienza; qualche esperienza in pro­ posito, passata però inosservata, l'aveva fatta Pietro Bayen (1745-1798) . La memoria di Walsh giunse, quindi, come cosa nuova e fece grande impressione ; egli sperimen­ talmente dimostrava che i fenomeni della torpedine si potevano riprodurre mediante l'elettricità artificiale. La memoria di Walsh, redatta in forma di lettera a Franklin, così finiva: Gioisco nell'indirizzare a Voi queste comunicazioni. Quegli che predisse e mostrò che t'elettricità porta sull'ali il formidabile dardo dell'atmosfera, sentirà con atten­ zione che nel profondo oceano essa forma un umile dardo, silente e invisibile. Quegli che analizzò la bottiglia elettrizzata sentirà con piacere che le sue leggi valgono nelle bottiglie ani­ mate. Quegli che divenne elettricista con la ragione, sentirà con riverenza di un elettricista istintivo, dotato dalla natura fin dalla nascita di un meraviglioso apparato e di abilità nell'usarlo (John Walsh, Of the electric Property of the Torpedo, in The Philosophical Transactions of the Royal Society of London, Abridged r8o9, XIII ( 1773 ) , p. 477). Alla memoria di Walsh seguirono numerose altre sulla torpedine, fisiche e ana­ tomiche, tra le quali spicca una memoria del 1776 di Cavendish nella quale lo scien­ ziato, oltre a dare alcuni risultati sulle sue interessanti misure di resistenza elettrica, descrive una > in cui l 'elettricità era fornita da una batteria di bottiglie di Leida. Il curioso apparecchio era immerso in acqua salata, di salsedine pari a quella del mare. Gli effetti che si ottenevano erano identici a quelli prodotti dal pesce. 197

Luigi Galvani. ignoto.

Ritratto di autore

Fot. Atinarj

La fioritura di memorie seguita alla pubblicazione di Walsh vide i fisici divisi in due schiere : quelli che credevano l'elettricità animale propria ed esclusiva dei > e quelli che la reputavano generale a tutti gli animali. I fisiologi del­ l'epoca, da parte loro, avevano immaginato, senza alcun fondamento sperimentale, gli spiriti animali, simili al fluido elettrico, ma non meglio definiti, i quali s'incari­ cavano, trascorrendo per i nervi, di portare l� sensazioni al cervello e di provocare, per impulso della volo11tà, le contrazioni dei muscoli volontari. In questo mare magnum d'ipotesi infondate, d'idee confuse, d'analogie sbagliate, di vaghe intuizioni, s'iniziò l'opera di Luigi Galvani, nato a Bologna il 9 settembre I737 e mortovi il 4 dicembre I798. Già fin dal I773 Galvani, professore di anatomia nell'Università bolognese, aveva iniziato studi anatomici sul moto muscolare delle rane e nel I78o aveva istituito i primi esperimenti elettro-fisiologici su gli stessi animaletti. Dopo I I anni di studi e d'esperienze, egli rese noti i risultati nella celebre memoria De viribus electricitatis in mott·t muscttlari commentarius, pubblicata nel I79I nei Commentarii dell'Accademia di Bologna e ripubblicata l'anno successivo da Giovanni Aldini, nipote di Galvani, che vi aggiunse alcune note e una dissertazione. N el I937 Enrico Benassi ne dette la prima traduzione italiana, con testo latino a piè di pagina (Memorie ed esperimenti inediti d-i Luigi Galvani, Bologna 1937, pp. 83-I92). Galvani così racconta le fasi della sua scoperta: Dissecai una rana, la preparai come è indicato nella {t{!,1tra n (v. fig. a pag. seg.) e la collocai sopra una tavola su quale c'era rg8

una macchina elettrica, dal cui conduttore era completamente separata e collocata a non breve distanza,· mentre u-no dei miei assistenti toccava per caso leggermente con la punta di uno scalpello gli interni nervi crurali di questa rana, a un tratto furono visti" contrarsi tutti i muscoli degli arti come se fossero stati presi dalle più veementi convulsioni tossiche. A un altro dei miei assistenti che mi era più vicino, mentre stavo tentando altre nuove esperienze elettriche, parve di avvertire che il fenomeno succedesse proprio quando si faceva scoccare una scintilla dal conduttore della macchina. A mmirato della novità della cosa, subito avvertì me che ero completamente assorto e meco stesso d'altre cose ragionavo. Mi accese subito un incredibile desiderio di ripetere l'esperienza e di portare in luce ciò che di occulto c'era ancora nel fenomeno (De viribus electricitatis in motu musculari com­ mentari�ts, in Opere edite ed inedite del Professore Luigi Galvani raccolte e pubblicate per cura dell'A ccademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, Bologna 1841, p. 63) . Numerosi, successivi esperimenti confermarono a Galvani che i l fenomeno avveniva proprio come il suo assistente aveva osservato : ogni volta che dalla macchina si traeva una scintilla, la rana era scossa da un tremito convulso, purchè però i suoi nervi fos-

Primi esperimenti di Galvani, dalle Memorie ed esperimenti inediti.

199

Esperimenti vari di Galvani, dalle Memorie ed esperimenti inediti.

sero contemporaneamente toccati dallo sperimentatore con un conduttore ; risultati identici si ottenevano pure con altri animali, sia a sangue freddo che caldo, e anche se la scintilla era tratta dalla bottiglia di Leida o dall'elettroforo. C'era ora da verificare, continua Galvani nella seconda parte della sua memoria� se anche l'elettricità atmosferica producesse gli stessi effetti dell'elettricità artificiale. A questo scopo, egli eresse sulla sua casa un lungo conduttore, vi appese pei nervi crurali una rana, ne legò i piedi con un lunghissimo filo di ferro immerso nell'acqua di un pozzo e osservò che quante volte erompeva la folgore tante volte, nello stesso momento� tutti i muscoli erano presi da veementi e molteplici contrazioni (Ibid., p. 76) . Anzi le contrazioni si ottenevano non soltanto quando erompeva la folgore, ma anche quando densi nuvoloni ondeggiavano nel cielo, sopra la punta del conduttore. Da questi esperimenti, continua Galvani nella terza parte della memoria, sorse vivo in lui il desiderio di sperimentare se le contrazioni della rana, oltre che con l'elettricità dell'atmosfera procellosa, si fossero verificati anche con (Ibid., p. 100) . La quarta parte della memoria s'indugia quindi a dimostrare che l'elettricità animale ha gli stessi caratteri e le stesse proprietà dell'elettricità delle macchine. Galvani espose più tardi, in una memoria del 1795 pubblicata nel 1797, redatta in forma di lettera allo Spallanzani, nel modo più ampio la sua teoria sull'elettricità animale : l'elettricità è accumulata in uno stato di sbilancio nella fibra muscolare ; attraverso il nervo a contatto col muscolo passa nell'arco metallico e attraverso l'arco torna nuovamente al muscolo; in altre parole, secondo il Galvani, muscoli e nervi costituiscono come le due armature della bottiglia di Leida. \

20.

Alessandro Volta.

Alessandro Volta, nato a Como il 18 febbraio 1745 e ivi morto il 5 marzo 1827, era assolutamente scettico nei riguardi della cosiddetta elettricità animale : apparteneva a quella schiera di fisici che la riteneva del tutto inesistente, meno che nei casi di >. Con questo atteggiamento mentale, Volta lesse la memoria di Galvani. E gli sembrarono talmente fuori del comune e prodigiose le esperienze descrittevi nella terza parte, che forse non si sarebbe deciso a ripeterle, se non ne fosse stato incitato dai suoi colleghi dell'Università di Pavia. Incominciò a ripeterle il 24 marzo 1792 ; il suo scetticismo crollò : Infine, dice in una lettera a Galvani del 3 aprile 1792, eccomi convertito, dacchè cominciai ad essere testimonio oculare e spettatore io stesso dei miracoli, e passato forse dall'incredulità al fanatismo (Le opere di Alessandro Volta, Edizione nazionale, I, Milano 1918, p. 26) . 20!

Alessandro Volta.

Fot. Alinari

Al fanatismo, ma con giudizio: il 5 maggio, in una pubblica lettura all'università, Volta riferisce le esperienze del Galvani, ne esalta l'acume, scioglie un inno all'impor­ tanza della scoperta e alla possibilità di meravigliosi sviluppi; ma comincia ad avan­ zare qualche pretesa di maggior rigore quantitativo nello studio del fenomeno, perchè che mai può farsi di buono, se le cose non si riducono a gradi e misure, in fisica parti­ colarmente? Come si valuteranno le cau.se se non si determina le qualità non solo, ma la quantità e l'intensione degli efjetti ? (lbid. , p. 27). Per conto suo osserva che una rana può costituire di conduttori, cioè degli effetti che si ottengono da una successione di conduttori a contatto. N el 1 796-97 scopre che in una catena metallica la tensione tra i metalli estremi è eguale a quella che si stabilisce se i metalli sono messi direttamente a contatto ; in sostanza, per lo scopo che s'era proposto, questa per lui è una legge negativa, perchè gli dice che con contatti esclu­ sivamente metallici non si ottengono tensioni maggiori di quelle che si hanno con contatti di due metalli soli. Finalmente verso la fine del 1799 egli raggiunge lo scopo : mettendo in colonna coppie metalliche eguali, disposte nello stesso senso, e di dischi di panno umido interposti tra esse, la tensione agli estremi è proporzionale al numero di coppie. Il 20 marzo 18oo Volta scrive a Giuseppe Banks (1743-1820), presidente della Royal Society: Dopo un lungo silenzio di cui non cercherò di scusarmi, ho il piacere di comunicarvi, Signore, e, per mezzo vostro, di comunicare alla Società Reale alcuni stupendi risultati ai quali sono arrivato ( . ) Il principale di questi risultati, e che com­ prende presso a poco tutti gli altri, è la costruzione di un apparecchio che per gli effetti, ..

.

205

cioè per la commozione che è capace di far risentire nelle braccia, ecc. rassomiglia alla bottiglia di Leida e meglio ancora alle batterie elettriche debolmente caricate, che agiscono però senza posa, ossia la cui carica, dopo ciascuna esplosione, si ristabilisce da se stessa, in una parola, che fruisce di �tna carica indefettibile, d'un' azione, o impulso perpetuo sul fluido elettrico (lbid., p. 565). Così comincia la lunga lettera, in francese, dalla quale il mondo apprese l'inven­ zione del nuovo apparecchio, che Volta voleva chiamare Organo elettrico artificiale per la sua similit udine con l'organo elettrico naturale della torpedine ; ma poi lo chia� mava apparato elettromotore o anche apparato a colonna per la sua forma. Furono i Francesi a chiamarlo piliere o pila galvanica, e altri pila voltaica, per ricordare la forma del primo dispositivo. L'umanità aspetterà 142 anni per avere nella pila atomica (Cap. XVI, § IO) un apparecchio paragonabile per le conseguenze alla pila voltaica.

\

206

CAPITOLO VIII.

L'OTTICA DI FRESNEL LA TEORIA ONDULATORIA 1 . Il

principio delle interferenze.

Tommaso Young (1773-I829), molto noto anche come egittologo, era un medico dagli interessi molteplici, e fu condotto quasi naturalmente ad occuparsi della teoria della luce dalle sue ricerche sulla voce umana, oggetto della sua tesi di laurea in medicina. Al suo spirito non conformista la teoria di N ewton appariva molto insoddisfa­ cente ; specialmente gli sembrava inconcepibile la costanza della velocità delle par­ ticelle luminose, sia che fossero scagliate da piccole sorgenti come un tizzone ardente sia che emanassero da sorgenti enormi come il sole. E soprattutto gli sembrava profon ­ damente oscura e insufficiente la teoria newtoniana degli > (Cap. VI, § 13), con la quale Newton aveva tentato di spiegare ..}a colorazione delle lamine sottili. Ripetuto questo fenomeno e meditato a lungo su di esso, egli ebbe il lampo di genio di tentarne l'interpretazione come effetto della sovrapposizione della luce riflessa dalla prima faccia della lamina sottile guardata per riflessione e della luce che, penetrata nella lamina, si riflette sulla seconda faccia ed emerge poi dalla prima: codesta sovrappo­ sizione poteva portare all'estinzione o a un rinforzo della luce monocromatica impie­ gata. N on si sa bene come Young sia giunto al concetto di sovrapposizione : forse dallo studio del fenomeno dei battimenti sonori (Cap. VI, § 8), nel quale si ottiene un perio­ dico rinforzo e indebolimento del suono percepibile all'orecchio. Comunque, in quattro memorie lette alla Royal Society dal r8or al r8o3, rifuse dopo qualche anno in una opera d'assieme (A course of lectures on natural philosophy and the mechanical arts, London r8o7) , Young comunicò i risultati delle sue ricerche teoriche e sperimentali. Egli cita più volte un passo della XXIV proposizione del terzo libro dei Principia di Newton, nel quale si spiegano certe maree anomale osservate da Halley nell'arci­ pelago delle Filippine come effetto di sovrapposizione di onde. Anzi Young prende ·

207

le mosse proprio da questo esempio per introdurre il principio delle interferenze: Supponete un numero di eguali onde d'acqua muoversi sulla su,perficie di un lago con una certa velocità costante ed entrare in uno stretto canale che conduce fuori del lago; supponete inoltre che un'altra causa simile abbia eccitato un'altra eguale serie di onde che arrivano allo stesso canale con la stessa velocità, contemporaneamente al primo sistema di onde. Ness�mo dei due sistemi di onde distruggerà l'altro, ma i loro effetti si combineranno: se essi entreranno nel canale in modo che le elevazion-i di un. sistema coincidano con quelle dell'altro, esse produrranno insieme una serie di maggiori eleva­ zioni,· ma se le elevazioni di �tn sistema sono così disposte da corrispondere alle depres­ sioni dell'altro, esse riempiranno esattamente quelle depressioni e la superficie dell'acqua rimarrà liscia. Ora io ritengo che simili effetti avranno luogo quando due parti di luce . saranno in tal modo mescolate: e q�testa sovrapposizione io chiamo la legge generale del­ l'interferenza della luce (Thomas Young, A n A ccount of some case of the productions of Colours not hitherto described, in Philosophical Transactions of the Royal Society of London, gz (18oz) , p. 387) . Affinchè si abbia l'interferenza occorre che i due raggi di luce arrivino allo stesso ' punto dalla stessa sorgente (in modo che abbiano esattamente sempre lo stesso periodo), in direzioni press'a poco parallele, dopo aver percorso cammini diversi. Sicchè, continua Young, quando due parti della stessa luce arrivano all'occhio per vie diverse, press'a poco nella stessa direzione, la luce diviene intensa al mas­ simo quando la differenza dei cammini è multipla di una certa lunghezza e intensa al minimo nello stato intermedio : questa certa lunghezza è differente per luci di differenti colori. N el I 8oz Young confortò il suo principio con l'esperienza �lassica > a lui forse ispirata da un'analoga esperienza di Grimaldi dalla quale però non si pote­ vano ottenere fenomeni d'interferenza per le modalità del dispositivo sperimentale. È ben nota l'esperienza di Young: in uno schermo opaco, con una punta di spillo si praticano due forellini vicini e si illuminano con la luce solare passata attraverso un piccolo foro della finestra; i due coni luminosi dietro lo schermo opaco, dilatati dalla diffrazione, in parte si sovrappongono e nella parte comune si formano, in luogo di un aumento uniforme d'intensità luminosa, una serie di frange alternativamente scure e brillanti. Se si chiude un forellino dello schermo scompaiono le frange e ap­ paiono soltanto gli anelli di diffrazione dell'altro forellino; le frange scompaiono pure se i due forellini s'illuminano, come faceva Grimaldi, direttamente con la luce del sole o d'una fiamma artificiale. Adottando la teoria ondulatoria, Young inter­ preta il fenomeno in modo semplice : le frange scure compaiono dove il solco d'una onda passata da un forellino si sovrappone alla cresta d'un'onda passata dall'altro forellino, in modo che i loro effetti si elidano ; una frangia luminosa invece si ottiene dove si sovrappongono le creste alle creste e i solchi ai solchi di due onde passate attraverso i due forellini. L'esperimento consentiva a Young di misurare anche la lunghezza d'onda per i vari colori, ottenendo circa 1j36.ooo di pollice ( = 0,7 micron circa) per la luce rossa e Ij6o.ooo di pollice ( 0,42 micron circa) per l'estremo vio­ letto: sono queste le prime misure di lunghezza d'onda della luce che la storia della fisica ricordi, e per essere le prime sono d'una sorprendente prectswne. ., =

208

Le conseguenze tratte da Y oung dal suo principio sono molte e varie. Egli prende in esame i fenomeni di colorazione delle lamine sottili e li spiega fin nei più minuti particolari, sostanzialmente come è riferito oggi dai testi di fisica; deduce le leggi empiriche trovate da Newton e, ritenendo invariata la frequenza della luce di un dato colore, spiega il serrarsi degli anelli quando nelle esperienze di Newton si sostituisce l'acqua all'aria (Cap. VI, § 13) con la diminuzione della velocità della luce nei mezzi più rifrangenti : l'ipotesi di Fermat e di Huygens comincia così ad avere qualche conforto sperimentale. A titolo di curiosità aggiungeremo che è di Young l'espressione > per indicare lo studio delle sorgenti di luce, della velocità della sua propagazione, della sua intercettazione ed estinzione, della s�ta dùpersione in differenti colori, delle affezioni che soffre dalla varia densità dell'atmosfera, delle apparenze meteorologiche che la riguar­ dano e delle singolari proprietà di particolari sostanze nei suoi confronti (Thomas Y oung, A course of lectures in nat�tral pht:losophy, ecc., cit. za ediz., London 1845, I, p. 340) . I lavori di Young, pur rappresentando il più importante progresso portato alle teorie ottiche dall'epoca di Newton, furono accolti dai fisici del tempo con diffidenza giunta anche, in Inghilterra, a villana derisione, dovuta in parte all'abuso fatto da Young del principio d'interferenza applicato anche a fenomeni certo non interferen­ ziali, in parte a una certa oscurità di esposizione che si nota oggi e che doveva essere più evidente allora, in parte, come gli rimproverò Laplace, dall'essersi Young accon­ tentato di dimostrazioni matematiche alquanto disinvolte e talvolta superficiali. 2.

La polarizzazione della luce.

Nel Cap. VI, § 15 abbiamo accennato al fenomeno che Huygens aveva scoperto e che candidamente dichiarò di non sapere interpretare : la luce che passa attraverso uno spato d'Islanda assume un carattere speciale, per cui se incontra un secondo spato con la sezione principale parallela al primo non si birifrange, ma semplicemente si rifrange ; se poi il secondo spato si ruota opportunamente si verifica nuovamente la birifrangenza, ma l'intensità dei due raggi rifratti dipende dall'angolo di rotazione. Nei primi anni del secolo riprese lo studio del fenomeno un ufficiale del genio francese, Stefano Malus (1775-I8I2), il quale, nel r8o8, scoprì che anche la luce riflessa dall'acqua sotto un angolo di 52° 45' acquista lo stesso carattere della luce passata attraverso lo spato, come se la superficie riflettente ne fosse la sezione principale. Il fenomeno si ripete con qualunque altra riflessione, sotto angoli d'incidenza variabili con l'indice di rifrazione della sostanza ; per la riflessione sulle superficie metalliche le cose appaiono più complicate. In una successiva memoria dello stesso anno, Malus, sperimentando col polari­ scopio ancor oggi descritto dai testi di fisica come polariscopio di Biot costituito da due specchi ad angolo, enunciava la legge che porta il suo nome. Proprio nel tempo in cui Malus faceva queste ricerche l'Accademia di Parigi ban­ diva (r8o8) un concorso per una teoria matematica, verificata dall'esperienza, della doppia rifrazione. Malus vi partecipò e lo vinse con la memoria d'importanza storica Théorie de la double réfraction de la l�tmière dans les s�tbstances cristalisées, pubblicata 14·

-

Storia delle Scienze,

II.

209

nel 1810. Malus riferisce la sua scoperta e la sua legge e per interpretarla adotta l'opi­ nione di Newton >, ma come pura ipotesi che gli consente di procedere nel calcolo. E dichiaratosi così partigiano della teoria emis­ sionistica egli va a cercare la spiegazione in quella polarità delle particelle luminose appena accennata da Newton nella XXVI questione (Cap. VI, § 13). Nella luce naturale, come oggi si chiama, le particelle luminose sono orientate in tutti i versi, ma nell'attra­ versare i cristalli birifrangenti e nelle riflessioni esse si orientano : Malus perciò chiama polarizzata la luce in cui le particelle hanno questo orientamento ; il vocabolo e tutti i suoi derivati sono rimasti. Gli studi sulla polarizzazione della luce avviati da Malus furono proseguiti in Francia principalmente da Biot e Arago e in Inghilterra da Brewster, divenuto celebre ai suoi tempi più per l'invenzione ( 1817) del caleidoscopio che per le sue importanti ricerche di mineralogia ottica. Nel 1 8 1 1 , indipendentemente l'uno dall'altro, Malus, Biot e Brewster scoprirono che anche la luce rifratta è parzialmente polarizzata; nel 1815 David Brewster ( 1781-1868) completava la ricerca con la legge che porta il suo nome: la luce riflessa è completamente polarizzata (e la corrispondente rifratt a ha .il massimo di polarizzazione) quando il raggio riflesso e il raggio rifratto sono per­ pendicolari tra loro. Domenico Francesco Arago (1786-1853) provò che è polarizzata la luce della luna falcata, delle comete, dell'arcobaleno, onde si ha nuova conferma che queste luci sono luci solari riflesse ; polarizzata è anche la luce emessa obliquamente da solidi e liquidi incandescenti, onde si prova che essa proviene da uno strato interno del corpo ed è stata rifratta uscendo nell'aria. Ma la più importante e più nota scoperta di Arago è la polarizzazione cromatica da lui scoperta nel 1 81 1 : facendo attraversare da luce polarizzata una lamina di cristallo di rocca di 6 mm di spessore e osservandone la luce emergente attraverso uno spato, egli otteneva due immagini colorate coi colori complementari. La colorazione dei due raggi non cambia se si ruota il cristallo di rocca; ma cambia se si ruota lo spato, mantenendosi i due colori sempre comple­ mentari; per esempio, se un'immagine dapprima era rossa, per un determinato senso di rotazione dello spato, essa passa all'aranciato, al giallo, al verde, ecc. Biot riprese queste esperienze l'anno successivo e dimostrò che, per ottenere un certo colore, la rota­ zione dello spato è proporzionata allo spessore della lamina; egli inoltre, nel 1815, scoprì il fenomeno di polarizzazione rotatoria e l'esistenza di sostanze destrogire e levogire. Nello stesso anno Biot trovò che la tormalina è birifrangente, ed ha la proprietà di assorbire il raggio ordinario e di trasmettere soltanto lo straordinario. Su questo fenomeno Herschel nel 1820 costruì la ben nota pinzetta a tormalina, il semplice appa­ recchio di polarizzazione rimasto immutato sino ai nostri giorni. Il più grande incon­ veniente dell'apparecchio è la colorazione, evitata nel prisma costruito nel 1820 dal fisico inglese Guglielmo Nicol (1768-1851) ; il prisma di Nicol trasmette anch'esso il solo raggio straordinario. La combinazione di due >, come oggi si chiamano questi prismi birifrangenti, in un solo apparecchio ancor oggi diffusissimo, · fu realiz­ zata dallo stesso Nicol nel 1839. In conclusione, i fenomeni fondamentali di polarizzazione della luce, vasto e inte­ ressante capitolo del1a fisica, oggi esposto in ogni trattato, erano scoperti dai fisici 2 10

Apparecchio di polarizzazione ( 1 858) di Giovanni Norrenberg (1787- 1 862) . La luce incidente sul vetro g si polarizza riflet­ tendosi sullo specchio m che la invia su un analizzatore adat­ tato all'anello s. A destra vari tipi di analizzatori.

_V�' t

.

'

,,, l.

'' ''

@

('

N' !!B ''' '

". · o ·J � :

-'

'

' :



ti

' ' ' l

{'

. v �' �t

H

francesi nel settennio r8o8-r8r5. E siccome la scoperta di tali suggestivi fenomeni era avvenuta sotto il segno della teoria emissionistica, parve che questa ne ricevesse nuovo lustro. 3· La teoria ondulatoria di Fresnel.

Ma il sussulto di vitalità della teoria emissionistica ebbe breve durata. Un giovane ingegnere di ponti e strade, Agostino Fresnel ( r788-r8z7) , aggregatosi come volontario alla piccola armata legittimista che avrebbe dovuto fermare Napoleone, tornato ZII

Agostino Fresnel.

dall'isola d'Elba, fu sospeso dal servizio e costretto a ritirarsi durante i cento giorni, a Mathieu presso Caen. Quasi digiuno di studi d'ottica, il giovane ingegnere si dedicò nel ritiro di Caen allo studio della diffrazione servendosi di un'attrezzatura sperimen­ tale di fortuna. Due memorie presentate il I5 ottobre IBIS all'Accademia delle Scienze di Parigi furono il primo frutto di queste ricerche. Arago, incaricato con Poinsot di esaminarle e riferirne, le trovò talmente interessanti da ottenere per Fresnel che intanto, con la restaurazione, era stato richiamato in servizio, di andare a Parigi per ripetere gli esperimenti in migliori condizioni. Fresnel aveva cominciato a studiare le ombre prodotte da piccoli ostacoli posti nel fascio di raggi ed aveva osservato, come già aveva osservato Grimaldi e Newton aveva taciuto, che si ottengono le frange non soltanto all'esterno, ma anche all'inteuiliiJIIII dell'ombra. Lo studio dell'ombra prodotta da un sottile filo lo condusse a · .,,.n.""r.n; il principio delle interferenze. Ciò che lo colpì fu il fatto che se l'orlo di uno si disponeva lungo un lato del filo le frange interne sparivano. Sicchè, ,..., . subito, poichè intercettando la luce da un lato del filo si fanno sparire ...."-'1.!..2. il concorso dei raggi che arrivano dai due lati è necessario alla lo Le frange non possono provenire dalla semplice mescolanza , poichè ogni lato del filo separatamente getta nell'ombra luce l'incontro, 1' incrocio stesso d1: questi raggi che prod�tce le frange. Questa �M'J"i.Hlvn che non è, per ��

2I2

così dire, che la traduzione del fenomeno è del t-utto opposta all'ipotesi di Newton e con­ ferma la teoria delle vibrazioni. Si capisce facilmente che le vibrazioni di due raggi che s'incrociano sotto un piccolo angolo possono contrariarsi allorchè i nodi degli uni corri­ spondono ai ventri degli altri (Oe�tvres complètes d' Augustin Fresnel, I, Paris r866, p. 17) . Il concetto è chiaro; l'enunciato è inesatto e fu successivamente corretto da Fresnel, dicendo che le ondulazioni s'indeboliscono quando i > di un sistema si sovrappongono ai > dell'altro; si rinforzano quando i movimenti sono >: insomma è il principio delle interferenze che, una volta afferrato, conduce Fresnel a ripercorrere la strada di Young; in particolare a dare la spiegazione della colorazione delle lamine sottili. A Parigi Fresnel conobbe da Arago l'esperienza dei due fori di Young, che gli sembrava del tutto idonea a dimostrare la natura ondulatoria della luce; tuttavia, per eliminare ogni possibilità di attribuire il fenomeno all'azione dei bordi dei fori, egli ideò e comunicò nel r8r6 la ben nota > e successiva­ mente, nel r8rg, del >, divenute ormai classiche per la dimostrazione del principio d'interferenza. Nel 1837 Humphrey Lloyd dimostrò che l'interferenza ottica può essere ottenuta anche con un solo specchio, facendo interferire la luce diretta e la luce riflessa dallo specchio. Ma un progresso importante fu compiuto soltanto da Giulio Jamin (r8r8-r886) , quando nel r856, sviluppando un'osservazione fatta da Brewster nel 1831, costruì il suo ben noto rifrattometro interferenziale formato da due lastre di vetro parallele, che Quincke nel r867 inargentò sulle facce esterne. Come è noto nell'apparecchio l'interferenza è prodotta dalla differenza di cammino ottico. Aggiungiamo qui incidentalmente che fu l'esperienza dei due specchi a suggerire nel r833 a Giovanni Herschel (1792-I87r) l'analoga esperienza d'interferenza acu­ stica mediante un tubo a due vie, che Giorgio Quincke (r834-1924) sotto il cui nome oggi l'apparecchio è conosciuto, perfezionò nel r866. L'uso delle fiamme manometriche per un'osservazione obiettiva fu proposto nel r 864 da Carlo Rodolfo Konig (1832rgor) che sostituì ai tubi di gomma di Quincke due tubi metallici allungabili come in un trombone. Torniamo all'opera di Fresnel. Messo il principio d'interferenza al riparo da ogni attacco, la teoria ondulatoria disponeva di tre principi : il principio delle onde ele­ mentari, il principio dell'inviluppo, il principio d'interferenza. Erano tre principi staccati. Fresnel ebbe l'idea geniale di fonderli assieme. Per Fresnel, cioè, un inviluppo di onde non è un semplice inviluppo geometrico, come per Huygens. In un punto qualunque dell'onda l'effetto totale è la somma algebrica degli impulsi che vi pro­ ducono tutte le onde elementari : la somma integrale di tutti questi impulsi, che si sovrappongono secondo il principio d'interferenza, può anche essere nulla. Fresnel eseguì questo calcolo, sia pure in un modo non molto rigoroso, giungendo alla con­ clusione che l'effetto di un'onda sferica su un punto esterno si riduceva a quello di una piccola calotta dell'onda il cui centro è allineato con la sorgente luminosa e col punto illuminato; tutto il resto dell'onda dà sul punto considerato un risultato globale nullo. Così era superata la secolare difficoltà che aveva sempre impedito l'affermazione della teoria ondulatoria : la conciliazione tra la propagazione rettilinea della luce e il suo meccanismo ondulatorio. Ogni punto esterno a un'onda riceve luce da una pie213

colissima regione dell'onda attorno al punto ad esso più vicino: tutto avviene dunque come se la luce si propagasse in linea retta dalla sorgente al punto illuminato. È vero che le onde debbono girare gli ostacoli, ma l'affermazione non va presa grossolana­ mente, in senso qualitativo, perchè l'inflessione dietro gli ostacoli è funzione della lunghezza d'onda; nota la lunghezza d'onda, si può calcolare come e quanto la luce s'infletta dietro gli ostacoli. Presi in esame i fenomeni di diffrazione, Fresnel calcola le inftessioni che debbono avvenire e i risultati dei suoi calcoli corrispondono in modo ammirevole coi risultati sperimentali. Le prime memorie di Fresnel sulla diffrazione, per il loro scarso rigore matematico, furono male accolte da Laplace, da Poisson, da Biot, fini analisti che del rigore mate­ matico avevano un culto. Dopo qualche anno d'interruzione della ricerca, impostagli dalle esigenze della sua carriera, Fresnel riespose la teoria in una grande memoria sulla diffrazione pre­ sentata nel 1818 in un concorso a premio bandito dall'Accademia di Parigi. La memoria fu esaminata da una commissione composta da Laplace, Biot, Poisson, Arago, Gay­ Lussac : i primi tre newtoniani convinti, Arago favorevole a Fresnel, Gay-Lussac sostanzialmente incompetente sulla questione specifica, ma notoriamente uomo onesto. Poisson osservò che la teoria di Fresnel porterebbe a conclusioni violentemente in contrasto col buon senso comune, perchè il calcolo indicava che dovrebbe apparire la luce nel centro dell'ombra geometrica di un dischetto opaco di opportune dimen­ sioni, mentre il centro della proiezione conica di una piccola apertura circolare, a certe distanze facilmente calcolabili, dovrebbe apparire buio. La commissione invitò Fresnel a provare sperimentalmente queste conseguenze della sua teoria, e Fresnel le confermò brillantemente, dimostrando che in questo caso il buon senso comune aveva torto ; dopo di che, su proposta unanime della commissione, l'Accademia gli conferì il premio, e nel 1823 lo elesse membro. Stabilita la teoria della diffrazione, Fresnel passò allo studio dei fenomeni della polarizzazione. La teoria emissionistica, nel tentare d'interpretare i numerosi feno­ meni scoperti nel primo quindicennio del secolo, costretta ad introdurre ipotesi su ipotesi, affatto gratuite, talvolta contradditorie, era divenuta incredibilmente com­ plicata. Nell'esperienza dei due specchi ad angolo, Fresnel aveva ottenuto da un'unica sorgente luminosa due sorgenti virtuali, sempre esattamente coerenti fra di loro. Tentò di estendere l'artificio anche ai due raggi ottenuti per doppia rifrazione da un unico raggio incidente, compensando opportunamente la differenza dei cammini ottici dei due raggi. Ma in nessun modo gli riuscì d'ottenere l'interferenza dei due raggi polarizzati. In collaborazione con Arago continuò le ricerche sperimentali sull'even­ tuale interferenza della luce polarizzata. I due scienziati stabilirono sperimental­ mente che due raggi di luce polarizzati in piani paralleli interferiscono sempre e pala­ rizzati in piani perpendicolari non interferiscono mai (nel senso che non si estinguono) . Come spiegare questo fatto ? come spiegare tutti gli altri fenomeni di polarizzazione che non avevano nulla di analogo nei fenomeni acustici ? Il fatto che la luce polariz­ zata per riflessione presenti due piani di simmetria ortogonali tra loro e passanti pel raggio poteva portare a concludere che le vibrazioni dell'etere avvengano in questi p1am, trasversalmente al raggio : l'idea era stata suggerita a Fresnel da Ampère fin 214

dal r8rs; ma Fresnel l'aveva fatta cadere. Anche Young ebbe l'idea delle vibrazioni trasversali, appena conobbe le esperienze di Fresnel e Arago sulla polarizzazione; ma, fosse incertezza o prudenza, ne parlò come di un'immaginary transverse motion, cioè come di un concetto puramente fantastico : tanto le vibrazioni trasversali sembra­ vano agli scienziati del tempo un assurdo meccanico ! Dopo aver usato per anni il linguaggio implicito alla teoria delle vibrazioni longi­ tudinali, nel r82r Fresnel, non riuscendo a trovare altra via d'uscita all'interpreta­ zione dei fenomeni di polarizzazione, si decise a saltare il fosso, come si dice, adot­ tando la teoria della trasversalità delle vibrazioni. Da qualche mese, egli scrisse in quell'anno, meditando più attentamente sul soggetto, ho riconosciuto che è molto probabile che i movimenti oscillatori delle onde luminose avvengano unicamente secondo il piano di queste onde sia per la luce diretta che per la luce polarizzata ( . . . ) Farò vedere che l'ipotesi che io presento non ha nulla di fisicamente impossibile e che essa può già servire alla spiegazione delle principali proprietà della luce polarizzata ( . . . ) (A. Fresnel, Oeuvres complètes, cit. I, p. 630). Che l'ipotesi possa servire alla spiegazione delle principali proprietà della luce polarizzata fu ampiamente dimostrato da Fresnel ; ma che essa non avesse nulla di fisicamente impossibile era un altro paio di maniche. La trasversalità delle vibrazioni portava di conseguenza che l'etere, pur essendo un fluido sottilissimo e imponderabile, doveva essere un solido rigidissimo, più rigido dell'acciaio, perchè solamente i solidi trasmettono vibrazioni trasversali. L'ipotesi si presentava veramente ardita, quasi aberrante. Arago, fisico certo non irretito da pregiudizi; Arago, che era stato l'amico, il consigliere, il difensore di Fresnel in ogni occasione, non se la sentì di condividere la responsabilità di questa strana ipotesi e rifiutò la sua firma alla memoria presentata da Fresnel. Dal r8zr Fresnel continuò quindi da solo il suo cammino, e fu un cammino pieno di successi. L'ipotesi delle vibrazioni trasversali gli consentì di costruire il suo modello meccanico di luce. Ne è supporto l'etere che pervade tutto l'universo e compenetra i corpi, subendo da parte dei corpi modificazioni nelle sue caratteristiche meccaniche. Per effetto di queste modificazioni , quando un'onda elastica si propaga dall'etere puro all'etere commisto di materia, sulla superficie di separazione una parte dell'onda torna indietro e l'altra parte penetra nella materia: era così spiegato meccanicamente il fenomeno di riflessione parziale, rimasto per secoli un mistero per i fisici, e Fresnel dava le formule che portano il suo nome, rimaste sino ad oggi immutate. La velocità di propagazione della vibrazione che attraversa la materia dipende dalla lunghezza d'onda e, a parità di lunghezza d'onda, è minore nei mezzi più rifrangenti : ciò porta come conseguenza la rifrazione e la dispersione della luce. Nei mezzi isotropi le onde sono sferiche con centro nella sorgente puntiforme ; nei mezzi anisotropi la superficie d'onda è in generale di quarto grado. In questa teoria tutti i complicati fenomeni di polarizzazione sono interpretati in modo ammirevolmente coerente con i risultati sperimentali e appaiono come casi particolari delle leggi generali di composizione e scomposizione delle velocità. Lo studio della doppia rifrazione implicava la ricerca delle forze che in un mezzo elastico sviluppano i piccoli moti molecolari. Questo studio portò Fresnel ad enun215

ciare alcuni teoremi che, come osserva Emilio Verdet (r824-r866) , editore delle opere di Fresnel, sono alla base di un nuovo ramo di scienza, la teoria generale dell'elasti­ cità, che sorge subito dopo l'opera di Fresnel con le ricerche di Cauchy, di Green, di Poisson, di Lamé. Dal r8r5 al r823 Fresnel elevò la sua magnifica costruzione scientifica, che, come tutte le cose umane, non era esente da mende. Il giovane ingegnere affrontava i pro­ blemi e li risolveva affidandosi più alla sua potente intuizione che al calcolo mate­ matico; perciò qualche volta sbagliò e più spesso accennò appena alle soluzioni. Ma le sue idee, pur tra le opposizioni dei vecchi fisici, conquistarono rapidamente i giovani, ammirati della facile intuibilità e della semplicità del modello teorico. Giorgio Airy (r8or-r892), Giovanni Herschel (r792-I87r ) , Francesco Ernesto Neumann (1798r8g5) e una legione di altri fisici ordinarono e rettificarono la teoria e ne svilupparono le conseguenze. Dal 1823 alla morte, · precocemente avvenuta nel r 827, Fresnel, tormentato dalle malattie, per dovere del suo impiego (egli non aveva mai potuto ottenere una cattedra universitaria) , si dedicò allo studio dei fari, che lo portò all'invenzione delle lenti a gradinata e a un decisivo miglioramento dei fari ad eclissi. 4· L'ottica di Hamilton-Jacobi.

Quando, verso il 1 830, l'irlandese Guglielmo Rowan Hamilton (1805-1865) cominciò ad occuparsi d'ottica, la teoria ondulatoria non era unanimemente accettata. Poisson era ancora seguace della teoria emissionistica ; Biot, il più conservatore dei grandi fisici dell'Ottocento, vi rimase fedele sino alla morte, avvenuta nel 1862 ; Brewster non ammetteva la teoria ondulatoria, perchè non poteva attribuire al Creatore ; e, incredibile a dirsi, Arago nel r851, secondo la testimonianza di Verdet, dichiarava di non aver potuto più seguire Fresnel da quando questi aveva cominciato a parlare di vibrazioni trasversali. In queste condizioni Hamilton si propose di· costruire una teoria formale dei feno­ meni ottici conosciuti, che fosse suscettibile tanto di un'interpretazione ondulatoria quanto d'un'interpretazione corpuscolare nel senso del principio di minima azione (Cap. VII, § 3). Il suo scopo dichiarato era di fornire una teoria formale dell'ottica che avesse la stessa possedute dalla meccanica analitica di La­ grange. Secondo Hamilton noi possiamo considerare le leggi di propagazione dei raggi luminosi in se stesse, indipendentemente dalle teorie che le interpretano e pervenire così a un', cioè di velocità della cresta dell'onda risul­ tante di più onde monocromatiche sovrapposte: in un mezzo dispersivo la velocità di gruppo, che è quella direttamente misurata, non coincide con la velocità di fase. N el 1850 le esperienze di Fizeau e Foucault sembrarono il definitivo trionfo della teoria ondulatoria. Carlo Matteucci, uno dei più illustri nostri fisici del tempo, scriveva nello stesso anno : La dimostrazione sperimentale diretta della ritardata propagazione della luce in rapporto alla densità dei mezzi da essa percorsi, e di c�ti or' ora discorremmo, respinge assolutamente l'ipotesi newtoniana e conferma solennemente la verità del sistema delle ondulazioni (Lezioni di fisica di Carlo Matteucci, 4a edizione, Pisa r85o, p. 549). Ma le teorie fisiche non sono mai definitive. La teoria di Fresnel avrà vita tran­ quilla ancora per una ventina d'anni, poi cominceranno 1 gua1. 6. L'etere è immobile o trascinato dal moto dei corpi ? L'ipotesi delle vibrazioni elastiche poneva un primo problema: l'etere è fermo o si muove ? In particolare, l'etere che si trova addensato in un corpo si muove col corpo ? Arago, con belle esperienze, aveva dimostrato che il. movimento della terra non ha alcuna azione sensibile sulla rifrazione della luce che arriva dalle stelle. Il risultato era inconciliabile con la teoria dell'emissione, onde egli chiedeva a Fresnel se esso s'inquadrava nella teoria ondulatoria. E Fresnel, in una lettera del 1817, gli rispondeva che il risultato s'interpretava facilmente nella teoria ondula­ toria, come s'interpreta il fenomeno d'aberrazione, pur d'ammettere il trascinamento parziale dell'etere : un corpo cioè che si muove non trascina con sè tutto l'etere in esso contenuto, ma solamente l'eccesso di etere che esso contiene rispetto a quello che è contenuto in un volume eguale di spazio vuoto: con questa ipotesi Fresnel riusciva a spiegare tutti i fenomeni risultanti dal movimento rapido d'un corpo rifrangente. L'influenza del movimento dei corpi luminosi o sonori fu studiata teoricamente nel 1842 dal fisico austriaco Cristiano Doppler (r8o3-1853). Egli faceva osservare che se una sorgente luminosa si avvicina all'osservatore, questi percepisce vibrazioni luminose di durata minore di quelle emesse dalla sorgente, cioè il colore di questa si sposta verso il violetto, mentre invece si sposta verso il rosso se la sorgente si allon­ tana dall'osservatore. Analogamente se un corpo sonoro si muove avvicinandosi 219

all'osservatore, questi percepisce un suono più acuto di quello emesso dalla sorgente, mentre lo percepisce più grave se la sorgente si allontana : è un fenomeno che oggi si può verificare facilmente facendo attenzione alla variazione d'altezza del sibilo d'una locomotiva che ci passi davanti. Nel 1848 Fizeau propose di servirsi di questo fenomeno, detto efjetto Doppler o efjetto Doppler-Fizeau, per la misura della velocità radiale degli astri dallo spostamento delle loro righe spettrali. Già lo stesso Doppler aveva osservato che era possibile sfruttare questo principio per misurare la velocità delle stelle doppie, ma nessuno v'era riuscito, nemmeno Maxwell. L'applicazione del principio di Doppler all'astrofisica fu possibile soltanto dopo l'introduzione, nel 186o, del prisma a visione diretta da parte dell'astronomo Giovan Battista Amici ( 1786-1863) , ben noto come costruttore di apparecchi ottici di grande precisione : oltre a questo prisma, i testi di fisica ricordano di lui un altro prisma a riflessione totale che porta il suo nome, il miglioramento del microscopio e il metodo del microscopio a immersione. Il prisma a visione diretta di Amici è costi­ tuito da un prisma di flint tra due prismi di crown e dà lo spettro nella stessa direzione della luce incidente. Nel 1869 Federico Zollner (1834-1882) ebbe la felice idea di accop­ piare in direzioni opposte due prismi a visione diretta di Amici, in modo da ottenere due spettri opposti. Ne risulta uno spettroscopio col quale è possibile sfruttare l'effetto Doppler nel senso indicato da Fizeau : da allora l'effetto Doppler assunse un'importanza considerevole in astrofisica. Anche l'effetto Doppler sembrava confermare le idee di Fresnel sul parziale tra­ scinamento dell'etere, e tuttavia questa ipotesi fu combattuta da Giorgio Gabriele Stokes (r8r9-1903). uno dei più illustri continuatori dell'opera di Fresnel e noto soprat­ tutto per la scoperta e la denominazione, nel 1852, del fenomeno di fluorescenza e della legge che lo governa, detta ancor oggi >. In un notevole lavoro del 1845 Stokes sosteneva il totale trascinamento dell'etere nell'immediata prossimità della terra, che si mutava in parziale trascinamento gradatamente decrescente con la distanza dalla terra. N el r85r Fizeau tentò di risolvere la questione facendo interferire due raggi di luce, di cui uno avesse attraversato una colonna d'acqua corrente nel senso del moto e l'altro in senso contrario ; se l'etere è trascinato nel moto, le frange d'interferenza si debbono spostare rispetto alla posizione che occupano quando l'esperimento si compie con acqua ferma: i risultati sperimentali ottenuti da Fizeau confermavano l'ipotesi di Fresnel ; alla stessa conclusione conducevano le ricerche di Edoardo Ket­ teler ( 1836-1900) del r87r e quelle di Michelson e Morley del r886. Ma cinque anni prima Michelson aveva tentato, con un'esperienza divenuta famosa, di rivelare sperimentalmente il moto della terra rispetto all'etere supposto immobile; il per gli specchi concavi e le lenti dimostra che l'attenzione fu attratta più dalla concentrazione dei raggi calorifici che da quelli luminosi. Ma la distinzione tra raggi luminosi e calorifici si trova, forse per la prima volta, nella Magia naturalis ( 1589) del Porta, nella quale si legge che è mera­ viglioso che uno specchio concavo concentri non soltanto il calore, ma anche il freddo. L 'osservazione fu oggetto di attenta sperimentazione da parte dell'Accademia del Cimento, che notò un sensibile raffreddamento nel fuoco d'uno specchio concavo davanti al quale si trovava un grosso blocco di ghiaccio. E Paolo Del Buono ( r6zs­ r659) , corrispondente della stessa accademia, osservava che i raggi che attraversano una lente di ghiaccio non perdono affatto il loro potere calorifico. Ma la distinzione dei raggi calorifici da quelli luminosi è ancora più chiara in Mariotte che, costruito uno specchio concavo di ghiaccio, mostrò che i raggi calorifici vi si riflettevano senza indebolimento, tanto da potere concentrare nel fuoco un'intensità sufficiente per infiammare la polvere da sparo. Nel 1777 Lambert provò che i raggi calorifici si pro­ pagano in linea retta come i raggi luminosi. N el r8oo Guglielmo Herschel fece una scoperta fondamentale. Egli voleva stu­ diare se veramente il calore era distribuito uniformemente nello spettro solare, come da tutti si diceva. Spostò perciò un sensibile termometro lungo lo spettro solare e trovò che la sua temperatura non solo andava via via aumentando dal violetto al rosso, ma che era massima in una regione oltre il rosso, là dove l'occhio non discerneva nulla: tanto è utile, in filosofia naturale, dubitare delle cose comunemente ammesse, com221

menta Herschel. Egli interpretò subito il fenomeno come dovuto a radiazioni calori­ fiche invisibili provenienti dal sole, deviate dal prisma meno del rosso e dette perciò infrarosse ; studiò allora queste radiazioni oscure su una sorgente terrestre costituita da un cilindro di ferro caldo ma non incandescente e ne dimostrò la rifrazione mediante lenti. Young capì l'importanza di questa scoperta e nelle sue Lectures del r8o7 la disse la più grande dall'epoca di Newton. Ma Giovanni Leslie ( r766-r832), uno sperimen­ tatore molto accurato, attribuiva il fenomeno di Herschel a correnti d'aria; le sue obiezioni teoriche non ebbero seguito. Più fortunate furono le sue ricerche sperimen­ tali del r8o4, ancora ricordate dai trattati di fisica, nelle quali, con l'aiuto del termo­ metro differenziale che porta il suo nome, ma era stato descritto nel r685 da Giovanni Cristoforo Sturm (r635-I703), e del suo > con alcune facce annerite e altre spe­ culari, dimostrò che l'irraggiamento e l'assorbimento calorifico d'un corpo dipendono dalla natura della sua superficie. Qualche anno prima dei lavori di Leslie, il tedesco Giovanni Ritter (1776-r8ro) aveva fatto un'altra scoperta simmetrica a quella di Herschel e di eguale importanza. Egli, ripetendo nel r8or gli esperimenti di Herschel, si propose di studiare gli effetti chimici delle varie radiazioni luminose. Utilizzò a questo scopo il cloruro d'argento, il cui annerimento per effetto della luce era stato dimostrato da Giovanni Enrico Schulze (r687-1744) nel 1727. Egli s'accorse così che l'effetto delle radiazioni dello spettro andava via via aumentando dal rosso al violetto e raggiungeva il massimo dopo il violetto, in una regione dove l'occhio non percepiva luce: erano così scoperte nello spettro nuove radiazioni presenti nella luce solare, rifratte dal prisma più del violetto e dette perciò ultraviolette. Tommaso Young ripetè con maggiore accuratezza gli esperimenti di Ritter e fece anche misure di intensità, mentre Guglielmo Wollaston (r766-r828) ne confermò i risultati adoperando una soluzione di gomma gutta il cui colore giallo si muta in verde per azione della luce. Seguirono gli studi di numerosi altri fisici, come De Saussure e Pictet, Gay-Lussac e Thénard, Seebeck e Bérard, i quali tutti portarono qualche contributo particolare alla conoscenza dei fenomeni in esame. Essi anche condussero a un'applicazione che si sarebbe dimostrata di grande importanza anche per la fisica, la fotografia, della quale tuttavia non possiamo qui narrare la storia. Basterà accennare che nel 1 839 Luigi Daguerre (r78g-r8sr) comu­ nicò il processo detto di > perfezionamento del procedimento di ripro­ duzione d'immagini fotografiche su metalli, già indicato nel r 827 da Giuseppe Nice­ foro Niepce (r765-I833), di cui Daguerre era stato collaboratore. Nel r84o Draper fotografò la luna e nel r 842 le righe di Fraunhofer, mentre nello stesso anno, per la prima volta, Alessandro Maj occhi (I795-I854) fotografava il sole. Un progresso, veramente fondamentale per questi studi, fu compiuto da Mace­ donia Melloni, nato a Parma l ' r r aprile 1798, morto a Portici (Napoli) il 1 2 agosto 1854· Melloni, uno dei più grandi sperimentatori che abbia avuto l'Italia, si dedicò allo studio del > servendosi di uno strumento molto più sensibile dei comuni termometri allora usati: il termo-moltiplicatore costituito da una pila termo­ elettrica (Cap. X, § g) accoppiata ad un galvanometro di Nobili (Cap. X, § 5) , che è la parte sensibile del dispositivo sperimentale tuttora noto come > 222

Macedonia Melloni.

Fot.

Alinari

(v. fig. sotto) . Con l'appoggio di Arago, condusse le sue esperienze fondamentali a Parigi, dove si rifugiò, dal 1 831 al 1 839, per ragioni politiche, avendo lodato gli studenti parigini che avevano preso parte alla rivoluzione del 1830. Dopo aver ripreso in esame i risultati ottenuti nello studio del calore raggiante dai fisici precedenti, ed averne corretti alcuni, egli iniziò le ricerche personali con lo studio dell'assorbimento del calore raggiante da parte dei corpi, scoprendo che il salgemma è molto trasparente per il calore, onde esso è particolarmente adatto per la costruzione di prismi e lenti per lo studio delle radiazioni infrarosse ; dimostrò la

I l . Nell'accennato lavoro Dulong e Petit avevano ammesso che due termometri a mercurio fossero sempre concordi nelle loro indicazioni. Ma una smentita a questa ipotesi era stata data nel 1 808 da Angelo Bellani (1776-!852) con un'osservazione 229

che appare modesta, ma fu molto importante, perchè indicò la causa di molti errori fatti nelle misure termometriche, e cioè lo spostamento dello zero nei termo­ metri a mercurio, dovuto alle variazioni col tempo della capacità del bulbo di vetro. Lo studio della dilatazione delle varie qualità di vetro, fatte con l'abituale accura­ tezza da Regnault nel r842, trae origine da un altro fondamentale lavoro eseguito da Dulong e Petit nel r8r8 per determinare la dilatazione assoluta del mercurio, dedotta, con un ingegnoso metodo, ancora descritto dai testi di fisica, dalla misura di due temperature e di due altezze. Aggiungiamo di sfuggita che in questa occasione i due scienziati francesi inventarono il catetometro, un prezioso strumento, che serve a determinare il dislivello (barometrico, capillare e simili) tra due punti anche non posti sulla stessa verticale. La conoscenza della dilatazione assoluta del mercurio consentì a Dulong e Petit lo studio sperimentale della dilatazione termica degli altri liquidi e dei solidi, con i metodi descritti dai trattati di fisica. Il risultato generale fu che, rispetto alla dila­ tazione del mercurio, la dilatazione termica di solidi e liquidi non è uniforme, ma varia con la temperatura ed è soggetta a grandi anomalie in prossimità dei punti di fusione. Da ciò la necessità di definire per ogni solido o liquido un coefficiente di dila­ tazione termica teoricamente per ogni temperatura e praticamente per intervalli ristretti di temperatura. N e segue la necessità indicata da Federico Guglielmo Besse! ( 1784-1846) della correzione di temperatura nella determinazione dei pesi specifici e la necessità di una tavola di correzione per le letture barometriche: la prima è dovuta a Carlo Ludovico Winckler nel r8zo. Un fatto nuovo nella dilatazione dei solidi fu scoperto da Eilhard Mitscherlich ( 1794-1863) nel r825 : egli scoprì che i cristalli, ad eccezione di quelli del sistema mano­ metrico, si dilatano disegualmente nelle diverse direzioni e ne segue che cambiano di forma col variare della temperatura. Il fenomeno fu confermato da Fresnel e stu­ diato a fondo in numerose memorie, dal r 864 al r86g, da Fizeau, che utilizzò un metodo molto raffinato, basato sulle variazioni degli anelli di Newton per la variazione di spessore d'una sottile lamina d'aria interposta tra due superficie. A tale scopo una faccia del corpo in studio, resa leggermente convessa, si appoggia ad una lente piano­ convessa e si osservano con un cannocchiale gli anelli di N ewton prodotti per riflessione, illuminando il sistema con luce monocromatica; scaldando convenientemente si osserva una modificazione degli anelli dalla quale si deduce la variazione di spessore della lamina d'aria. Il metodo si presta anche per lo studio dei corpi non cristallizzati, ed è di così elevata precisione che la commissione internazionale del metro lo adoperò per lo studio delle sbarre metalliche del metro campione. Col suo dispositivo scoprì che, oltre l'acqua, anche altri corpi (diamante, smeraldo, ecc.) hanno simo di densità e che il ioduro d'argento si contrae nell'intervallo di - IO °C e + 70 °C. Già l'Accademia del Cimento aveva riconosciuto che l'acqua ha densità ; ma il fenomeno era stato negato da Hooke, ammesso da condotto Deluc nel 1772 a sistematiche esperienze sulle irregolarità Deluc trovò che l'acqua raggiunge il suo massimo di dens che riscaldata tra 32 gradi e 4r gradi della stessa scala si dilata di '"+" uanto si dilata

.� �

230

·

tra 41 e so gradi. Gli esperimenti furono ripresi nel r8o4 da Rumford e nel 1805 da Tommaso Hope ( r766-r844) e continuati poi per tutto il secolo : nel r868 Francesco Rossetti (r833-r88r) poneva il massimo di densità tra 4,04 e 4,07 °C, mentre nel 1 892 Carlo Scheel (r866-1936) lo poneva a 3,960 °C e Chappuis l'anno dopo a 3,98 °C. La temperatura di 4 °C a cui tutti i testi di fisica fanno corrispondere il massimo di den­ sità dell'acqua è un valore arrotondato, e perciò un po' convenzionale. L'influenza della temperatura sul periodo d'oscillazione del pendolo, indicata già da Picard nel r67o, fu corretta nel 1726 dal fabbricante di cronometri Giorgio Graham (1675-1751) di Londra, col ben noto sistema di sbarre di metalli diversi di varia dila­ tabilità. Nel 1765 Giovanni Harrisson (r693-1776) introdusse il metodo di compen­ sazione in uso negli orologi tascabili, fondato sulla curvatura che le variazioni di tem­ peratura fanno assumere al sistema di due lamine di metalli diversi sovrapposte e saldate insieme. Tra le moltissime applicazioni dei fenomeni e delle leggi della dilatazione termica dei solidi e dei liquidi, che i trattati di fisica ricordano, abbiamo accennato ai com­ pensatori pendolari, perchè ad essi s'ispirò il costruttore francese Abramo Luigi Bréguet (1747-1823) per costruire nel r8r7 il suo ben noto termometro bimeta1lico, di grande prontezza, che rese e rende preziosi servizi alla fisica, specialmente come termometro registratore (termografo) . 2.

Dilatazione termica degli aeriformi.

Gli studi di Amontons sulla dilatazione termica dell'aria (Cap. VII, § 8) furono con­ tinuati da molti altri fisici nel corso del XVI I I secolo (De La Hire, Stancari, Hauksbee, Saussure, Deluc, Lambert, Monge, Berthollet, Vandermonde e altri), ma le conclu­ sioni erano di uno scoraggiante disaccordo : alcuni ritenevano la dilatazione uniforme, altri variabile e il tutto mescolato con la confusione d'idee cui abbiamo accennato al principio del paragrafo precedente. Anche tra i sostenitori della prima tesi, il disac­ cordo, messo ben in luce da una fondamentale memoria di Volta del 1793, era stridente nella serie di valori attribuiti dai vari sperimentatori all'entità della dila­ tazione per il riscaldamento di un grado centigrado : si andava dal valore r/85 di Priestley al valore 1/235 di Saussure. I l lungo titolo dell'accennata memoria del Volta indica l'importante conclusione da lui raggiunta: Della ?tniforme Dilatazione dell'A ria per ogni grado di calore, comin­ ciando sotto la temperatura del ghiaccio fin sopra quella della ebollizione dell'acqua; e di ciò, che sovente fa parere non equabile tal dilatazione, entrando ad accrescer a dismi­ sura il volume dell'Aria (in Le Opere di Alessandro Volta, Ediz. Naz. , VII, Milano rgzg, p. 345). Come già aveva sospettato lo Stancari, Volta dimostrò che il disaccordo nei risul­ tati sperimentali era dovuto al fatto che gli sperimentatori precedenti non operavano con aria secca, ma con aria umida e la presenza del vapor d'acqua turbava l'andamento del fenomeno. Egli operò con un termometro ad aria (v. fig. a pag. seg.) ed ebbe la felice idea di separare il volume d'aria in esame con una colonna d'olio di lino o d'oliva, preventivamente ben bollito. Dopo numerosissimi accurati esperimenti, accompa231.

gnati dalla controprova ottenuta operando con aria 8fl umida, Volta poteva affermare : per ogni grado di calore del Termometro Reamuriano acquista l'aria con­ finata un aumento di circa I/2I6 del volume che ha alla temperatura zero; acquista, dico, un tale aumento di vol1-tme, egualmente a principio cioè poco sopra la temperatura del ghiaccio, come avvanzandosi verso il termine dell'acqua bollente (lbid., p. 370) . Il coefficiente trovato dal Volta è quindi pari a I/270 0,0037037 per grado centigrado. Ma la sua memoria, pubblicata sugli A nnali di chimica del Brugnatelli, di scarsa diffusione, fu poco nota negli ambienti scientifici, nè egli si adoperò per diffonderne la conoscenza, forse perchè molto impe­ gnato in quegli anni nella sua polemica con Galvani (Cap. VII, § 20). Certamente ignorava la memoria del Volta Luigi Gay Lussac ( 1 778-r8so) quando nel 1802, in una memoria rimasta classica, riprese lo studio della dila­ tazione termica dei gas. Dall'introduzione storica della memoria si apprende che IS anni prima aveva condotto studi sperimentali sullo stesso argomento, senza mai pubblicare nulla in proposito, Giacomo Alessandro Charles (1746-I823) , molto noto ai suoi tempi per avere innalzato nel 1783 a Parigi il primo pallone riempito d'idrogeno (il nuovo gas scoperto nel 1776 da Cavendish) invece d'aria calda impie­ c gata nel 1773 dai fratelli Montgolfier. Stando a quanto ne scrisse Gay Lussac, Charles trovò che l'ossigeno, l'azoto, l'idrogeno, l'anidride I l termometro ad aria, aperto in C, carbonica e l'aria si dilatano egualmente tra o °C e è riempito, sino alla gradazione 100, da olio bollito ed è immerso nel­ roo 0C. Gay Lussac estese e completò il lavoro di l 'acqua del recipiente di vetro D. Charles, giungendo al fondamentale teorema: Se si Facendo variare la temperatura del divide l'aumento totale di volume per il numero di bagno, misurata dal termometro a mercurio b, Volta studiava la dilata­ gradi che l'hanno prodotto o per Bo, si troverà, facendo zione dell'aria (dalla edizione nazio­ il volume alla temperatura o eguale all'unità, che l' au­ nale delle Opere di Volta, vol. V I I ) . mento di vol�tme per ogni grado è di I/213,33, ossia di I/266,66 per ogni grado del termometro centigrado (L. Gay Lussac, Recherches sur la dilatation des gaz et des vapettrs, in A nnales de Chimie, XLIII, r8o2, p. r6s). Sostanzialmente si tratta di una ricerca diversa da quella già compiuta dal Volta. Questi aveva dimostrato che la dilatazione dell'aria è uniforme (rispetto alla dila­ tazione del mercurio) ; Gay Lussac, invece, dimostrava che tutti i gas hanno eguale dilatazione totale tra o °C e roo °C e, supponendola per tutti uniforme, calcolava il coefficiente per tutti i gas. Più tardi Gay Lussac si accorse che l'uniformità di dila=

232

tazione da lui ammessa era un'affermazione gratuita, onde si adoperò per dimostrarla in una successiva serie di esperimenti, resi noti da Biot nell'edizione del suo trattato di fisica del 1816 insieme con gli apparecchi usati nelle nuove esperienze e che sono essenzialmente quelli descritti dai trattati moderni. Il congresso internazionale dei fisici, convocato a Como nel settembre 1927 in occasione del primo centenario della morte di Volta, emise il voto che sulla dilata­ zione dei gas si enunciassero nei corsi di fisica due leggi ; la legge di Volta: il coefficiente di dilatazione dell'aria è costante; e la legge di Gay Lussac : tutti i gas hanno lo stesso coefficiente di dilatazione. Ma la proposta, che tende a ricordare il nome di Volta accanto a quello di Gay Lussac, non ci sembra molto pratica. Il coefficiente 1j266,66 0,00375 dato da Gay Lussac, confermato da Biot e da Dalton, accettato da Laplace, fu considerato per 35 anni uno dei numeri più sicuri della fisica. Ma nel 1837 Federico Rudberg ( 18oo-1839) tentava una nuova determina­ zione e trovava un coefficiente minore di quello dato da Gay Lussac, onde Magnus, attribuendo il disaccordo a diversità di metodo sperimentale, rifece gli esperimenti di Gay Lussac e trovò un coefficiente concordante con quello di Rudberg ; egli attribuì l'errore commesso da Gay Lussac al fatto, abilmente evitato da Volta, che il fisico francese adoperava il mercurio per imprigionare la massa d'aria in esame, meno atto dell'olio ad una chiusura stagna. Ma nello stesso anno 1841 in cui operava Magnus comparve la classica memoria di Regnault che dava come valore del coefficiente o,oo367o6, rimasto quasi immutato sino ad oggi. Basta paragonare col valore di Regnault quello di Volta e di Gay Lussac per notare la maggiore approssimazione raggiunta dal comasco, non astante l'impiego di mezzi più modesti. Regnault, in accordo coi risultati già ottenuti da Magnus, trovò ( 1842) che i gas non hanno un coefficiente di dilatazione esattamente eguale, ma quelli che liquefano facilmente hanno un coefficiente più elevato e che esso aumenta pure, come aveva osservato Davy, con l'aumento della densità del gas. Nel 1 847, correggendo l'opi­ nione di Dulong e Arago, che credevano esatta la legge di Boyle, Regnault dimostrò, operando sino a 30 atmosfere, che a temperatura ordinaria tutti i gas, ad eccezione dell'idrogeno, si comprimono di più di quanto richiede la legge di Boyle, mentre l'idrogeno si comprime di meno; le conclusioni, alle quali era arrivato anche L. Bac­ celli nel 1812, furono in seguito confermate e completate da altri fisici (Chappuis, Rayleigh, Sacerdote e altri) . =



I vapori.

Dal 1789, per oltre un quindicennio, Volta si occupò intensamente, come risulta dai suoi numerosissimi manoscritti inediti, del comportamento dei vapori, senza tuttavia pubblicare mai una memoria organica. Delle sue ricerche dava notizie agli amici - al Vassalli, al Landriani, al Mascheroni - e ne faceva oggetto dei suoi corsi universitari e dei suoi discorsi in occasioni accademiche varie. È del Volta l'esperimento, ancor oggi ripetuto nei corsi di fisica, delle quattro canne barometriche nelle quali si pro­ duce l'evaporazione rispettivamente di acqua, alcool, etere e se ne osservano le varie 233

tensioni; sua è anche l'osservazione che la tensione del vapor d'acqua a o °C non è nulla, ossia che il ghiaccio sublima. Dalle misure alle varie temperature della tensione del vapore prodotto nella canna barometrica immersa in un bagno a temperatura va­ riabile, Volta credette di poter riassumere il comportamento dei vapori in tre leggi : le prime due (se le temperature crescono in progressione aritmetica, le tensioni del vapore crescono in progressione geometrica ; le tensioni dei vapori di tutti i liquidi sono eguali ad eguale distanza dalla temperatura di ebollizione) furono ben presto riconosciute false ; la terza dice che la pressione di un vapore è la stessa sia che esso occupi uno spazio vuoto, sia che occupi uno spazio pieno d'aria di qualsiasi densità. Alle stesse conclusioni giunse indipendentemente Giovanni Dalton ( 1766-1844) in una memoria pubblicata nel 1 802. Dalla terza legge sopra accennata, oggi nota col suo nome, Dalton dedusse, con considerazioni già fatte anche da Volta, che non poteva sostenersi la teoria, allora in voga, secondo la quale l'evaporazione è un fenomeno chimico, cioè una combinazione del vapore con l'aria. Nel 18r6 Gay Lussac estese la legge di Dalton anche alle miscele di vapori. Ma Magnus nel 1836 mostrò che la legge è valida per vapori i cui liquidi non si mescolino, per esempio acqua e olio; ma per vapori i cui liquidi si mescolano, per esempio etere ed alcool, la tensione totale della miscela di vapori è minore della somma delle tensioni dei componenti: il risultato fu confermato e sviluppato da Regnault. La crescente diffusione delle macchine a vapore aveva indirizzato in particolare allo studio della tensione del vapore d'acqua a temperature elevate. Già Giovanni Arzberger (1778-1835) nel 1813 aveva fatto misure non molto esatte spingendosi sino a 8 atmosfere. Nel 1829 Dulong e Arago, per incarico dell'Accademia delle Scienze di Parigi, iniziarono una sistematica misura delle tensioni dei vapori, giungendo sino a 24 atmosfere. I loro risultati, come i risultati dei predecessori, non sono sufficien­ temente esatti, perchè non era abbastanza ben garantita l'uniformità della tempe­ ratura di tutta la massa di vapore, onde la pressione misurata finiva per essere quella della regione più fredda, secondo il principio della parete fredda, attribuito di solito a Watt, mentre era stato enunciato da Felice Fontana (1730-1805) nel 1779. Le prime misure eseguite con cura si ebbero nel 1844 da parte del fisico tedesco Enrico Gustavo Magnus (r8o2-r87o) . Egli sperimentava con un calorimetro isolato da tre strati d'aria, nel quale s'introducevano i tubi a U col vapore e un termometro ad aria. Ma il lavoro più imponente, condotto con nuovi metodi e con grande abilità, fu compiuto da Enrico Vittorio Regnault (r8ro-r878) ed è esposto nella sua storica Relazione delle esperienze intraprese per ordine del signor Ministro dei Lavori p�tbblici su richiesta della commissione centrale delle macchine a vapore per determinare le prin­ cipali leggi e i dati numerici che entrano nel calcolo delle macchine a vapore (Paris 1847) . In questo grande lavoro Regnault corresse i risultati ottenuti da Dulong e Arago e dette le tensioni del vapor d'acqua per temperature comprese tra - 32 oc e roo oc e tra r ro oc e 232 °C. A misure termologiche a scopo tecnico Regnault dedicò tutta la sua vita, rifa­ cendo gli esperimenti dei predecessori, introducendo metodi di una precisione mai prima conosciuta e ottenendo, in virtù d'una ammirevole abilità e pazienza, risultati che tuttora, a distanza di un secolo, sono ritenuti tra i più attendibili. Oltre a quelle 234

accennate, sono da ricordare di Regnault le ricerche sulla dilatazione termica dei solidi e liquidi, sulla compressibilità dell'acqua, sulla misura dei calori specifici, sulla misura delle velocità del suono nei gas, sulle coppie termoelettriche. Si dice che Regnault mancò di quel genio creativo che apre vie nuove alla fisica, ma il contributo da lui dato alla tecnica sperimentale e alla fisica applicata possono caratterizzare un'epoca. 4·

La liquefazione dei gas.

Osservazioni empiriche sul raffreddamento prodotto dall'evaporazione erano state fatte da molto tempo e praticamente utilizzate, per esempio nell'uso dei vasi porosi per conservare l'acqua fresca. Ma i primi esperimenti scientifici furono compiuti da Gian Francesco Cigna e descritti in una sua memoria del 1760, De frigore ex evaporatione. Cigna provò che più l'evaporazione è rapida, più intenso è il raffreddamento. De Mairan mostrò che soffiando con un soffietto contro il bulbo umido d'un termometro si registra un abbassamento di temperatura maggiore di quello che si ha ripetendo la stessa operazione col bulbo asciutto di un altro termometro. Antonio Baumé (17281804) scoprì che il raffreddamento è più intenso con l'evaporazione dell'etere sol­ forico che con l'acqua. In base a queste conoscenze Tiberio Cavallo, nel 1800, costruì la prima macchina a ghiaccio e nel 1810 Wollaston il suo ben noto criojoro, ancora utilizzato, che condusse nel 1820 all'igrometro Daniell. La macchina a ghiaccio divenne pratica soltanto dopo il 1859, dopo cioè che Ferdinando Carré ( 1824-1894) pubblicò il suo metodo di fabbricazione del ghiaccio mediante evaporazione dell'etere, in seguito sostituito con ammoniaca. Nel 1871 Carlo Linde (1842-1934) descrisse la sua macchina a ghiaccio in cui il raffreddamento è ottenuto mediante espansione di un gas. Nel 1896 egli combinò la macchina col suo apparecchio a controcorrente, descritto dai trat­ tati di fisica, col quale riuscì a ottenere l'idrogeno liquido, portando nell'industria i risultati sperimentali ottenuti nel frattempo dai fisici e che ora esporremo. Il problema della liquefazione dei gas ha una storia secolare che comincia dalla seconda metà del secolo XVI II con la liquefazione, mediante solo raffreddamento, dell'ammoniaca per opera di Van Marum, dell'anidride solforosa ottenuta da Monge e Clouet, del cloro ottenuta nel 1805 da Northmore, dell'ammoniaca, ottenuta per sola compressione nel 1812, da Liberato Baccelli (1 772-1835 ) . U n progresso decisivo fu compiuto contemporaneamente e indipendentemente da Carlo Cagniard de La Tour ( 1777-1859) e da Michele Faraday (1791-1867) . Il primo, in una serie di memorie pubblicate nel 1822 e 1823, descrive gli esperi­ menti fatti per decidere se la dilatazione di un liquido avesse, come gli sembrava intuitivamente, un limite oltre il quale e non ostante la pressione cui fosse soggetto dovesse passare tutto allo stato di vapore. A questo scopo introdusse in una pentola di Papin, riempita per un terzo di alcool, una sfera di silice e riscaldò gradatamente: dal rumore che la sfera produceva rotolando all'interno della pentola, egli dedusse che ad una certa temperatura tutto l'alcool era evaporato. Gli esperimenti furono ripetuti con piccoli tubi previamente vuotati d'aria e riempiti per circa 2/5 del liquido in esame (alcool, etere, essenza di petrolio) e poi scaldati alla fiamma: via via che la temperatura aumenta, il liquido diventa sempre più mobile e sempre più evanescente 235

la superficie di separazione tra liquido e vapore, sino a che, a una certa temperatura, essa scompare completamente e tutto il liquido sembra trasformato in vapore. Accop­ piando questi tubi ad un manometro ad aria compressa, Cagniard De La Tour riuscì a misurare la pressione che si stabilisce nel tubo nel momento in cui scompare la super­ ficie di separazione tra liquido e vapore e la corrispondente temperatura. Contra­ riamente a quanto si scrive da molti, Cagniard de La Tour non solo non riuscì a deter­ minare con questo esperimento la temperatura critica dell'acqua, ma non riuscì nep­ pure ad evaporare completamente l'acqua, perchè i tubi si ruppero sempre, prima di raggiungere l'effetto desiderato. Risultati più concreti ottennero gli esperimenti di Faraday del 1823, condotti con un tubo di vetro ricurvo col ramo più lungo chiuso. Egli poneva in questa parte del tubo la sostanza che per riscaldamento avrebbe prodotto il gas da esaminare, poi chiudeva anche il ramo più corto e lo immergeva in una miscela frigorifera. Riscal­ dando allora la sostanza nel ramo più lungo, si produceva il gas con una pressione che andava aumentando e in molti casi Faraday ne otteneva nel ramo più corto la liquefazione. Così, riscaldando bicarbonato di soda, Faraday otteneva l'anidride car­ bonica liquida e analogamente ottenne liquido l'idrogeno solforato, l'acido cloridrico, l'anidride solforosa, ecc. Gli esperimenti di Cagniard De La Tour e di Faraday fecero quindi capire che si poteva ottenere la liquefazione dei gas sottoponendoli ad alte pressioni. In questo senso pertanto s'indirizzarono gli sforzi dei fisici, in particolare di Giovanni Natterer (1821-190 1 ) . Ma per questa via non si riusciva a ridurre certi gas (idrogeno, ossigeno, azoto) allo stato liquido; nel 1850 Berthelot sottopose l'ossigeno a 780 atmosfere senza ottenerne la liquefazione: ciò lo indusse ad accettare la conclusione di Faraday, il quale, pur convinto che un giorno si sarebbe ottenuto l'idrogeno solido, stimava che la pressione sola non basta a liquefare certi gas, detti allora > o >. Nello stesso anno 1845 in cui Faraday esprimeva questo concetto, Regnault, osser­ vato che la compressibilità dell'anidride carbonica presentava irregolarità alle basse temperature, ma seguiva la legge di Boyle verso i 100 oc, emise l'ipotesi che per ogni gas esista un campo di temperature entro il quale essi seguono la legge di Boyle. Nel 186o l'idea di Regnault fu ripresa e modificata da Dimitri Mendeleev (1834-1907), secondo il quale per tutti i fluidi deve esistere una >, sopra la quale essi esistono gassosi sotto qualunque pressione. Lo studio della questione fu ripreso nel r863 in forma nuova da Tommaso Andrews (r813-1885). Egli introduceva anidride carbonica in un tubo capillare e la chiudeva con una colonna di mercurio. Spingendo mediante una vite il mercurio si sottoponeva l'anidride carbonica alla pressione voluta, mentre si variava gradatamente la tempe­ ratura. Ottenuta, mediante sola pressione, la parziale liquefazione del gas, e poi via via riscaldando, Andrews osservava gli stessi fenomeni che trent'anni prima aveva studiato Cagniard De La Tour. Quando la temperatura dell'anidride carbonica rag­ giungeva i 30,92 °C, scompariva la superficie di separazione tra liquido e gas, e con nessuna pressione si riotteneva più la liquefazione dell'anidride carbonica. In una fondamentale memoria del r869 Andrews proponeva di chiamare >

dell'anidride carbonica la temperatura di 30,92 °C ; con la stessa tecnica egli deter­ minò i punti critici per l'acido cloridrico, l'ammoniaca, l'etere solforico, l 'ossido nitroso. Propose anche di riservare il vocabolo vapore agli aeriformi a temperatura inferiore alla temperatura critica e il vocabolo gas a quelli a temperatura superiore : così era posta una fondamentale distinzione per la ricerca fisica. Una conferma a queste vedute di Andrews apparvero i citati esperimenti compiuti da N atterer dal r844 al r855, nei quali i gas permanenti erano stati sottoposti a una pressione di 2790 atmosfere, senza attenerne la liquefazione e gli analoghi numerosi esperimenti, iniziati nel r87o da Emilio Amagat (r84I-I915) che giunse sino a 3000 atmosfere. Questi risultati negativi avvalorarono l'ipotesi avanzata da Andrews, secondo la quale i gas permanenti sono aeriformi a temperature critiche più basse delle tem­ perature allora raggiunte : la loro liquefazione si sarebbe quindi potuta ottenere me­ diante un preventivo forte raffreddamento seguito eventualmente da compressione. L'ipotesi fu brillantemente confermata nel r877 da Luigi Cailletet (r832-I913) e Raul Pictet (r846-r929) , che, lavorando indipendentemente, liquefecero l'ossigeno, l'idro­ geno, l'azoto, l'aria, mediante un forte raffreddamento preventivo. Altri fisici con­ tinuarono i lavori di Cailletet e Pictet, ma soltanto la macchina di Linde, più sopra ricordata, rese pratico il procedimento, consentendo la produzione di grandi quantità di gas liquidi e il loro comune impiego nella ricerca scientifica e nell'industria. 5·

I calori specifici dei gas.

I metodi descritti nel Cap. VI I, § ro per la determinazione dei calori specifici pre­ sentano difficoltà nella loro applicazione agli aeriformi a causa del piccolo peso speci­ fico di gas e vapori. Perciò nei primi anni del secolo XIX l'Accademia delle Scienze di Parigi bandì un concorso sui metodi di misura del calore specifico dei gas. Lo vinsero nel r8r3 Francesco Delaroche ( ?-r8r3 ?) e Giacomo Bérard (r789-r869) , i quali proposero d'introdurre nel calorimetro un serpentino nel quale si faceva passare, a temperatura nota, il gas a pressione costante. Il metodo in verità non era nuovo, perchè era stato proposto da Lavoisier venti anni prima; tuttavia i risultati ottenuti dai due scienziati furono ricordati dai testi di fisica per mezzo secolo. Il merito di Delaroche e Bérard è soprattutto nell'avere attirato l'attenzione sulla necessità di distinguere il calore specifico di un gas a pressione costante da quello a volume costante. La misura di quest'ultimo è molto difficile, a causa della piccola capacità termica del gas rispetto a quella del recipiente che lo deve contenere. Ma qualche anno prima dei lavori di Delaroche e Bérard si era cominciato a stu­ diare sistematicamente un curioso fenomeno segnalato da Erasmo Darwin (1731r 8o2) nel 1788 e poi da Dalton nel r 8o2, e cioè che la compressione dell'aria produce riscaldamento e la sua espansione raffreddamento ; il fenomeno si presentava con particolare evidenza nell'acciarino pneumatico, che comparve nei gabinetti di fisica nel r8o3. È del r8o7 l'esperienza di Gay Lussac, ripetuta nel r845 da Joule al quale comunemente si attribuisce. Gay Lussac riuniva per i colli due palloni, come già aveva fatto Guericke (Cap. V, § ro) , uno pieno d'aria e l'altro vuoto, e facendo espandere l'aria dal pallone pieno al vuoto verificava un abbassamento di temperatura nel primo pallone 237

e un innalzamento nel secondo. Questo comportamento termico dell'aria faceva capire che il calore specifico a pressione costante doveva essere maggiore del calore spe­ cifico a volume costante, indipendentemente da qualunque teoria sulla natura del calore : infatti è chiaro che se un gas espandendosi si raffredda, quando lo si riscalda consentendogli di dilatarsi bisogna fornirgli tanto calore da compensare il concomi­ tante raffreddamento d'espansione, e da riscaldarlo ulteriormente. Dalla conoscenza di questi fatti sperimentali, nel I8I6 Laplace ebbe l'idea geniale di attribuire la discor­ danza notata tra la velocità del suono nell'aria quale risultava dalle esperienze e la velocità teorica che si otteneva dalla legge di Newton (Cap. VI , § 8) alle variazioni di temperatura che gli strati d'aria subiscono per effetto delle alternative compressioni e rarefazioni. Partendo da queste considerazioni teoriche Laplace corresse la formula di Newton, introducendovi un termine che è il rapporto per l'aria tra i calori specifici a pressione costante e a volume costante : il confronto tra il valore sperimentale della velocità del suono nell'aria e il valore teorico della formula di Newton dava un valore del rapporto tra i calori specifici. Per questa via indiretta la fisica ebbe le prime infor­ mazioni sul valore di quel rapporto e perciò, essendo noto il calore specifico a pres­ sione costante, le prime valutazioni del calore specifico a volume costante dell'aria. Ma qualche anno dopo (I8 rg) Nicola Clément (I779-I84I) e Carlo Désormes (I777- ? ) riuscirono, con un esperimento di espansione dei gas, ripetuto da innume­ revoli scienziati sino ai nostri giorni e descritto in ogni testo di fisica, a determinare direttamente questo rapporto, che coincideva, entro gli errori sperimentali, con quello dedotto da Laplace. Con paziente e sagace lavoro Dulong nel I829 determinò il rapporto per i diversi gas, producendo in un tubo un suono con le correnti dei vari gas. Egli giunse alla con­ clusione che i fluidi elastici (gas e vapori), in eguali condizioni di volume, pressione e temperatura sviluppano una stessa quantità di calore allorchè sono compressi o dila­ tati della medesima frazione di volume. Riservandoci di tornare ancora sulla questione (Cap. XIII, § I I ) , aggiungeremo qui che il metodo di Dulong fu molto migliorato nel I866 da Augusto Kundt (I839-I894) con l'introduzione del > che porta il suo nome e che costituisce tuttora uno dei migliori metodi per la determinazione del rapporto tra il calore specifico a pressione costante e quello a volume costante.

LA TERMODINAMICA DEI PRINCIPI 6. La crisi all'inizio del XIX secolo. Nel Cap. VII, § I I abbiamo visto come la teoria fluidistica, dopo aver coesistito pacificamente per secoli con la teoria meccanica del calore, nella seconda metà del XVI I I secolo avesse avuto il sopravvento ; alla fine dello stesso secolo la lotta s'acuisce ed entra nella sua fase decisiva. Fra i fautori della teoria ftuidistica, alla fine del secolo, si possono citare Adair Crawford (1749-I795), Giovanni Mayer (I752-I83o), Federico Gren (I760-I798) ; mentre

fautori della teoria meccamca erano Pietro Macquer (I718-I784) , Davy, Rumford, Young, Ampère. Non è quindi vero, come spesso si legge, che l'americano Beniamino Thompson (I753-1814) , che venuto in Europa ottenne il titolo di conte di Rumford, abbia sco­ perto la concezione del calore come movimento molecolare, in seguito ai suoi ben noti esperimenti del 1798 a Monaco di Baviera. Rumford faceva ruotare sul fondo di un tubo di cannone una trivella smussata e misurava la temperatura del fondo, inizialmente a r6,7 oc, mediante un termometro inserito in un foro praticato nel cannone. Dopo 360 rotazioni la trivella aveva raschiato 837 grani di materia e la temperatura era salita a 54.4 °C. Successivamente, immergendo il tubo di cannone nell'acqua a 15,6 oc, ne ottenne l'ebollizione dopo due ore e mezza di rotazione della trivella. Meditando, disse Rumford nella lettura fatta alla Royal Society il 25 gen­ naio 1798, meditando sui risultati di httti q�testi esperimenti, noi siamo naturalmente portati a quella grande questione, spesso soggetto di spec�tlazione filosofica, e cioè: che cosa è il calore? c'è qualche cosa paragonabile a un fluido igneo? c'è qualche cosa che propriamente possa chiamarsi calorico ? ( . . . ) . Ragionando su q�testo soggetto non dobbiamo dimenticare la circostanza più notevole, cioè che la sorgente di calore generato per frizione in q·uesti esperimenti appare eviden­ temente essere inesauribile. E sarebbe su.perfluo aggùtngere che ciò che un corpo isolato o un sistema di corpi può contin�tamente fornire senza limitazione non è possibile che sia una sostanza materiale; e mi sembra estremamente difficile, se non pùnamente impos­ sibile, formarsi una rappresentazione di questi fenomeni, che non sia di movimento (B. Thompson, A n enq�tiry concerning the source of the heat which is excited by friction, in John Tyndall, Heat a mode of motion, Third edition, London r 868, pp. 57-58) . Il fenomeno di produzione di calore dalla frizione non era nuovo ; gli stessi esperi­ menti di Rumford erano tutt'altro che nuovi : due secoli prima Giovan Battista Baliani, facendo ruotare rapidamente un disco di ferro sul quale era appoggiato un vaso anche di ferro col fondo piano, produceva tanto calore da far bollire l'acqua contenuta nel recipiente. Ma gli esperimenti di Baliani, descritti .in una lettera a Galileo del 4 aprile 1614 pubblicata soltanto nel 1 85 1 , non erano conosciuti, onde negli analoghi esperimenti di Rumford fece molta impressione, non già il calore prodotto dalla fri­ zione, ma l'enorme quantità che si poteva ottenere. Tuttavia, essi non erano così probativi, come oggi si dice. Infatti, i fautori del calorico rispondevano che negli esperimenti di Rumford il calore combinato coi solidi si rendeva in parte libero, e perciò capace di riscaldare, quando i solidi erano sbriciolati ; e gli ulteriori esperimenti di Rumford per provare che la polvere metallica riscaldata dalla abrasione aveva la stessa capacità termica del metallo compatto avrebbero costituito risposta pertinente all'obiezione, se per capacità termica si fosse inteso ciò che intendiamo oggi, ma, come abbiamo osservato (Cap. VII, § ro), per capacità termica s'intendeva la quantità totale di calore posseduta da un corpo, e riguardo a questa nuova concezione anche i nuovi esperimenti di Rumford non concludevano nulla. Insomma Rumford avrebbe dovuto provare, e non lo fece, che una parte almeno del calore sviluppato dalla fri­ zione non era calore annidato nel metallo compatto e resosi libero col passaggio di questo allo stato di polvere. 239

Sadi Carnot. Incisione da u n ritratto di Boilly ( 1 8 1 3 ) .

Anche i fenomeni di riscaldamento o raffreddamento delle masse di gas rispetti­ vamente compresse o espanse (§ 5) furono interpretati dai fautori del calorico come una conferma della loro teoria. Il calorico, essi dicevano, è contenuto nei gas come è contenuto il succo nell'arancia: si spreme l'arancia e ne esce il succo ; e così si spreme il gas, si comprime il gas, e ne esce il calorico, dando all'esterno le manifestazioni termiche. La teoria così rattoppata resse per una trentina d'anni, tanto che ancora nel r829 Biot, nella seconda edizione del suo manuale, il più ampio organico e auto­ revole trattato di fisica del tempo, scriveva che era tuttora ignota la ragione per la quale l'attrito produce calore. 7• Il principio di Carnot.

Abbiamo già avuto occasione di notare che i più importanti studi sul calore nella prima metà del XIX secolo avevano lo scopo pratico di migliorare il funzio­ namento delle macchine a vapore : Dalton lamentava questo indirizzo delle indagini scientifiche, che a lui sembrava troppo tecnico. Era stato Watt a porre il problema in termini di estrema praticità: quanto carbone occorre per produrre un certo lavoro e con quali mezzi, a parità di lavoro, è possibile ridurne al minimo il consumo.

Allo studio di questo problema pratico si accinse un giovane ingegnere, Sadi Carnot ( 1792-1832), figlio di Lazzaro, e ne riassunse i risultati in un opuscolo apparso nel I824 col titolo Réflexions s�tr la put:ssance motrice d�t feu et sur les machines propres à déve­ lopper cette puissance. La comparsa di questo opuscolo segna una data memorabile nella storia della fisica; non soltanto per il risultato raggiunto, ma anche per il metodo, imitato poi innumerevoli volte. Carnot pone a base del suo ragionamento l'impossibi­ lità del moto perpetuo, che, non ostante l'uso già fattone da Stevin (Cap. I I I , § I I) , non era ancora assurto a principio scientifico, ma era rimasto alla fase di stato d'animo degli scienziati. Si potrebbe forse dire che l'uso della macchina a vapore avesse in un certo senso confortato e rafforzato codesto stato d'animo, mostrando che un effetto utile era inscindibilmente connesso col consumo di qualche cosa. Ma Carnot non ricorse neppure all'esempio della macchina a vapore per giustificare il principio ; egli lo giustifica invece con brevi giudiziose osservazioni sulle pile, che s'erano prestate a qualche precipitata illazione sulla possibilità del moto perpetuo. Carnot avvia il suo studio specifico con un elogio della macchina a vapore ; constata che la relativa teoria è molto arretrata e osserva che, per farla progredire, è neces­ sario prescindere un po' dalla sua empiricità, e considerare in astratto la potenza motrice del fuoco. Attraverso un esperimento mentale Carnot dimostra che, ammessa l'impossibilità del moto perpetuo, la produzione di lavoro è possibile soltanto se nella macchina esistono due differenti temperature e il calorico passa dalla temperatura più alta alla più bassa. E assimilando il calorico a una massa d'acqua e la differenza di temperatura a un dislivello, egli concluse che, come nelle cascate il lavoro si misura dal prodotto del peso dell'acqua per il dislivello, così nelle macchine a vapore il lavoro va misurato, indipendentemente dal fluido impiegato (acqua, alcool, ecc.) , dalla quan­ tità di calorico per la differenza di temperatura. Insomma, il rendimento d'una mac­ china termica è limitato dalle temperature della sorgente e del refrigerante, elemento quest'ultimo, . affermò esplicitamente Carnot, essenziale come la caldaia e sostituito dall'ambien te quando nella macchina manchi come parte costruttiva. Tutto questo costituisce l'essenza del o secondo principio della termodi­ namica, come si chiamò più tardi nel dare assetto assiomatico a questo capitolo della fisica. Dopo la pubblicazione del breve trattato, in epoca imprecisata, Carnot si convertì dalla teoria del calorico alla teoria meccanica del calore, come risulta dal seguente brano trovato nei suoi manoscritti e pubblicato nel 1878 in appendice alla ristampa delle sue Réflexions: Il calore non è altra cosa che la potenza motrice, o piuttosto che il movimento che ha cambiato di forma. È un movimento nelle particelle dei corpi. Dovunq�te c'è distruzione di potenza motrice vi è, nel medesimo tempo, produzione di calore in quan­ tità precisamente proporzionale alla quantità di potenza motrice distrutta. Reciproca­ mente, dovunque c'è distruzione di calore, vi è produzione di potenza motrice. Si può dunque porre in tesi generale che la potenza motrice è una q�tantità inva­ riabile nella natura, che essa non è mai, propriamente parlando, nè prodotta, nè distrutta. In verità essa cambia di forma, vale a dire che essa produce ora �tn genere di movimento, ora un altro,· ma non è mai annientata (Sadi Carnot , Réflexions sur la puissance motrice du feu, Paris 1878, p. 8g) . ·.

16.

-

Storùl delle Scimze,

II.

Senza accennare attraverso quale via fosse pervenuto, Carnot in una fugace anno­ tazione dà l'equivalente meccanico della caloria, che tradotto nelle unità chilogram­ metro e (grande) caloria, risulta eguale a 370, ossia 370 chilogrammetri, trasforman­ dosi completamente in calore, dànno una (grande) caloria. L'opera di Carnot passò quasi inosservata; il disinteresse si può spiegare soltanto con la novità dei concetti espressi, perchè la redazione è molto chiara ed elegante. Solo dieci anni dopo, nel 1834, richiamò l'attenzione sull'opera di Carnot Benedetto Clapeyron (1799-1864) , il quale sostituì all'originario ciclo l'altro celebre ciclo costi­ tuito da due isoterme e due adiabatiche, oggi erroneamente attribuito da tutti i testi a Carnot. È in questa occasione che Clapeyron enuncia l'equazione di stato o carat­ teristica dei gas, che pone una semplice relazione tra pressione, volume e tempera­ tura di una determinata massa gassosa, sintetizzando le leggi di Boyle e di Volta e Gay Lussac (§ 2 ) . 8 . Il principio d i equivalenza.

Dall'epoca di Rumford sino al 1842 non si registra alcun lavoro importante per la termodinamica, oltre i già ricordati e isolati di Carnot e Clapeyron. Gli esperimenti del 1822 di Giuseppe Morosi (1772-1840) , presi poi a fondamento da Domenico Paoli (1783-1853) per la teoria del continuo moto in cui si trovano anche le molecole dei solidi, erano una ripetizione degli esperimenti di Rumford ; non aggiungevano quindi

Giulio Roberto Mayer.

molto alla questione, ma contribuivano ad orientare sempre più l'ambiente verso una concezione meccanica del calore. Il capovolgimento di mentalità si operò, soprattutto tra i giovani, fuori dagli ambienti accademici, dove il peso della tradizione e l'autorità dei maestri talvolta impacciano il rinnovamento delle idee. Si spiega così come, quasi contemporanea­ mente e indipendentemente, fosse avanzato da diversi giovani, non legati alla scienza ufficiale, il concetto di equivalenza tra calore e lavoro: dal trentenne Carnot, ufficiale del genio, come abbiamo visto (§ 7) ; dal ventottenne Roberto Mayer (r8r4-1878), medico della marina tedesca; dal venticinquenne Giacomo Joule (r8r8-r889) , fabbri­ cante di birra a Londra; e potremmo ancora continuare citando Carlo Federico Mohr (r8os-r879) , Luigi Augusto Colding (r8rs-r888) , Marco Seguin (r786-1875), per i quali tutti fu rivendicata, e non gratuitamente, la priorità dell'enunciato. I più famosi sono giustamente rimasti Mayer e Joule. Il primo ebbe una subitanea intuizione della legge nel luglio 1840 e fu per lui come una conversione religiosa, perchè allo sviluppo e alla difesa della propria idea egli consacrò la vita, con tanta intensità di sforzo mentale e fisico da finire in manicomio. Mayer redasse nel 1841 una prima memoria, che Poggendorff, direttore degli A nnalen der Physik, rifiutò di pubblicare ; le sarcastiche critiche dei posteri contro Poggendorff non furono poche, ma in fondo la sua decisione fu un bene, perchè quella prima memoria conteneva tanti errori da com­ promettere seriamente il successo dell'idea fondamentale contenutavi. Una seconda memoria corretta fu pubblicata l'anno successivo dalla rivista di chimica di Liebig. È un documento fondamentale per la storia della fisica e conviene prenderlo in esame un po' da vicino. Mayer inizia la memoria chiedendosi che cosa noi intendiamo per > e quali siano le differenti forze in relazione tra di loro (per capire la memoria di Mayer il lettore moderno sostituisca alla parola > la parola >) . Per lo studio della natura è necessario che si abbia un concetto di forza altrettanto chiaro come quello di materia. Mayer continua : Le forze sono cause,· in conseguenza noi pos­ siamo nei loro confronti fare una completa applicazione del principio causa aequat effectum (Robert Mayer, Bemerkungen uber die Krajte d.er unbelebten Natur, in A nnalen der Chemie und Pharmacie, 42, 1842, p. 233). Mayer, proseguendo in questa imposta­ zione di sapore metafisico, giunge alla conclusione che le forze sono > indi­ struttibili, convertibili, imponderabili ; e che se >. Ne segue : Se, per esempio, noi strofìm:amo assieme d�te piatti metallici, noi vediamo scom­ parire il movimento, e il calore, d'altra parte, produrre i suoi efjetti, e noi abbiamo ora solamente da chiederci se il movimento è la causa del calore. Per rispondere alla domanda, noi dobbiamo discutere la questione se, negli innumerevoli casi nei quali la spesa di moto è accompagnata dall'apparenza di calore, il moto non ha qtttalche altro efjetto che la pro­ dt-tzione di calore, e il calore qualche altra causa che il moto (Ibid., p. 237) . Con poche considerazioni Mayer conclude che sarebbe irragionevole negare una connessione causale tra il moto (ossia, secondo la nostra terminologia, il lavoro) e il calore ; come irragionevole sarebbe supporre una causa, il moto, senza effetto o un effetto, il calore, senza causa : come un chimico che vedendo scomparire ossigeno e idrogeno e comparire acqua, preferisse dire che i gas sono scomparsi e l'acqua s'è 243

Giacomo J oule.

formata in qualche modo inesplicabile. Mayer preferisce più ragionevolmente inter­ pretare i fenomeni assumendo che il moto si muta in calore e il calore si converte in moto: Una macchina a vapore, col suo convoglio, può essere paragonata a un apparecchio di distillazione; il calore applicato sotto la caldaia passa via come movimento e questo è depositato di nuovo come calore sugli assi delle ruote (lbid., p. 239) . Mayer crede opportuno chiudere la disquisizione > : . Con intuizione veramente genia!� egli dedusse questo equivalente dalla consiste essenzialmente, com'è ben noto, nel dire che la differenza tra i due calori specifici equivale al lavoro fatto per vincere, nell'espansione del gas, la pressione esterna. Utilizzando i valori dei calori specifici dati da Dulong, Mayer, con un calcolo appena accennato nella memoria, trova che una grande caloria equivale a 3 65 chilogrammetri, e subito commenta: Se noi compariamo con questo risultato il lavoro delle nostre migliori macchine a vapore, noi vediamo che una piccola parte sola­ mente del calore applicato sotto la caldaia è realmente trasformata in moto, ossia nel sol­ levamento di pesi (Ibid. , p. 240) . Applicando lo stesso metodo, Regnault, con le sue più accurate determinazioni dei calori specifici dei gas, calcolò l'equivalente in 424, nelle solite unità. Giacomo Joule nel 1843 , ancora ignorando il lavoro di Mayer, determinò sperimen­ talmente l'equivalente meccanico della caloria, mentre stava studiando l'effetto termico delle correnti, che lo condusse alla legge che porta il suo nome (Cap. X, § ro). Il dispo­ sitivo di Joule è divenuto ormai classico : consiste nel riscaldare l'acqua di un calori244

metro agitandola con un frullino e fare quindi il rapporto tra il lavoro occorso per il riscaldamento e il calore prodotto. Come media di 13 esperimenti Joule conclude : La quantità di calore capace di aumentare la temperatura di una libra di acqua di un grado della scala Fahrenheit è eguale a, e può convertirsi in una forza meccanica capace di sollevare 838 libbre all'altezza di un piede (The scientifìc Papers of J ames Prescott Joule, I, London 1884, p. 156). Da questi dati si ricava facilmente che per Joule l'equi­ valente meccanico della caloria nelle nostre solite unità è 460. Moltissime altre determinazioni sperimentali furono poi fatte di questa (ossia l'energia, secondo il vocabolo già usato da Tommaso Young e riproposto da lord Kelvin nel 1 849) meccanica e calorifica, ma altre forme di energia. Sostanzialmente Helmholtz, riprendendo il concetto di Mayer, chiama energia qualunque ente che possa convertirsi da una ad altra forma e, come Mayer, le attribuisce il carattere d'indi­ struttibilità, onde essa si comporta come una qualunque sostanza: non può essere nè creata, nè distrutta. Oggi che siamo familiarizzati col concetto d'energia, e forse più che col concetto col vocabolo, può sembrare che la memoria di Helmholtz non aggiungesse nulla a quanto avevano asserito Mayer e Joule. Ma, per apprezzare la concezione nuova di Helmholtz, basta riflettere che Mayer e Joule s'erano riferiti a un caso particolare, anche se importantissimo, mentre Helmholtz introduce una grandezza prima ignota alla fisica o equivocamente confusa con la forza, presente in tutti i fenomeni fisici, mu­ tevole nelle forme ma indistruttibile, imponderabile ma regolatrice delle apparenze della materia. Tutta la fisica della seconda metà del secolo XIX poggiò su due con­ cetti distinti di sostanza: materia ed energia, obbedienti entrambe a leggi di conser­ vazione. Il peculiare carattere distintivo dei due enti era che la materia possiede peso, mentre l'energia è imponderabile. Le vedute di Helmholtz furono difese e divulgate specialmente da Tyndall ed esse ispirarono la scuola degli >, sorta in Inghilterra per opera di Guglielmo Rankine (r82o-1872) . Programma della scuola fu l'abbandono della concezione mecca­ nica dell'universo, secondo la quale tutti i fenomeni debbono essere spiegati mediante 245

i concetti di materia e di forza; al posto di questa concezione si sostituiva un'altra nella quale il giuoco delle energie, attuali o potenziali, esistenti nei corpi, spiega i vari fenomeni. L'energia è per gli energetisti l'unico ente fisico reale : la materia ne è l'appa­ rente supporto. 1 o.

Teoria meccanica del calore.

Fondatore della teoria meccanica del calore fu Rodolfo Clausius (r822-r888) che nel r85o iniziò le sue classiche ricerche sul principio di equivalenza tra calore e lavoro e sul principio di conservazione dell'energia. Clausius osservò che la costanza del rapporto tra lavoro speso e calore prodotto si ha soltanto nelle trasformazioni cicliche, nelle trasformazioni, cioè, nelle quali il corpo in ·esame, dopo una serie di cambiamenti, ritorna nelle condizioni iniziali. Per esempio non ci si trova in questo caso nel primitivo calorimetro di Joule, perchè in esso si ha acqua fredda a principio della trasformazione e acqua calda alla fine ; è per ottenere una trasformazione ciclica che al primitivo calorimetro delle mescolanze di Joule si sostituì un calorimetro di Bunsen. Se la trasformazione non è ciclica, quel

Rodolfo Clausius.

rapporto non è costante ; ossia la differenza, misurata nelle stesse unità, tra calore speso e lavoro prodotto o viceversa non è nulla. Per esempio, se si vaporizza una certa quan­ tità d'acqua, mantenendola a temperatura costante, il calore fornito è molto maggiore del lavoro di espansione del vapore : e l'altra parte di energia dove è andata ? Clausius ebbe la felice idea di saldare il conto che non tornava introducendo il concetto di energia interna : nell'esempio citato, il calore fornito all'acqua in parte si è trasformato in lavoro esterno di espansione del vapore (e dell'acqua) e in parte si è trasformato in energia interna che il vapore restituisce sotto forma di calore con­ densandosi. Con l'invenzione del concetto di energia interna - la cui realtà risiede unicamente nelle convenzioni atte a misurarne la variazione - Clausius dette forma matematica precisa al principio di equivalenza anche per le trasformazioni aperte 1. Ma specialmente il principio di Carnot Clausius dovette difendere contro i molti attacchi cui era esposto. Egli lo dedusse da un altro postulato sperimentale che sembra d'intuizione più immediata del postulato di Carnot. Il nuovo postulato di Clausius dice che il calore non passa spontaneamente da un corpo più freddo a uno più caldo; l'avverbio sta ad indicare che se talvolta questo passaggio avviene, come, per esempio, nelle soluzioni, nelle macchine frigorifere, ecc., esso è in un certo senso , cioè accompagnato da un altro fenomeno compensatore. Il nuovo enunciato di Clausius fu rapidamente trasformato in altri enunciati equivalenti : i fenomeni naturali sono irreversibili ; i fenomeni avvengono in modo che l 'energia che vi interviene si degradi ; e simili. Tutti questi enunciati sono in antitesi con le tradi­ zionali leggi dinamiche reversibili : torneremo su questa questione nel § 13. Nel r865 Clausius introdusse una nuova grandezza, che doveva assumere un ufficio fonda­ mentale nell'ulteriore assetto della termodinamica. Essa è l'entropia, un'espressione matematica ben precisa, ma di scarsa intuibilità fisica. Clausius dimostrò che si tratta di una grandezza di cui non si conosce il valore assoluto, ma soltanto le variazioni, e tale che essa aumenta sempre nei sistemi irreversibili termicamente isolati ; rimar­ rebbe costante soltanto nel caso ideale di trasformazioni reversibili. L'opposizione dei fisici all'introduzione di questa nuova grandezza fu vivissima, specialmente per il suo carattere misterioso, dovuto principalmente al fatto che essa non è percepìbile dai nostri sensi. Siccome la sua variazione è nulla per le trasformazioni ideali reversibili e positi va per le reali irreversibili, essa misura di quanto il processo reale si allontana dall'ideale : da qui il nome datole da Clausius, che etimologicamente significa contenuto di trasformazione. La teoria meccanica del calore, di cui Rankine rivendicò la priorità per avere pre­ sentato nel r8so alla Royal Society una memoria che trattava del solo principio di equivalenza, ebbe vita difficile ed ottenne piena cittadinanza nelle scienze solamente alla fine del secolo, soprattutto per opera e per merito dei lavori compiuti dal r887 al 1892 da Max Planck. 1

I l teorema fondamentale stabilito da Clausius si scrive, com'è noto:

dQ

=

A (d U + pdv)

dove dQ è la quantità di calore fornita al corpo, A l'equivalente termico dell'unità di lavoro, U = f(v, p) l'energia interna, pdv dL il lavoro esterno. =

247

TEORIA CINETICA DEI GAS 11.

Natura del calore.

I fondatori della termodinamica dei principi - Mayer, ] oule, Colding e, in un certo senso, anche lo stesso Carnot - in buona sostanza si disinteressavano della natura del calore. Essi si limitavano solamente ad affermare che il calore, in certe condizioni, si può trasformare in lavoro meccanico, e viceversa. La teoria meccanica del calore non andava oltre questo concetto fondamentale. I pionieri della teoria non credettero mai necessario indagare quale fosse l'intimo rapporto tra i fenomeni mec­ canici e le manifestazioni termiche. Fu Helmholtz, nella sua memoria del I847, ad affacciare per primo l'ipotesi che l'intima ragione della reciproca trasformabilità tra calore e lavoro potesse essere ricercata, secondo una via che egli non indicava, riconducendo i fenomeni termici a fenomeni meccanici, cioè a fenomeni di movimento. La via, non indicata da Helmholtz, fu imbroccata nel I856 da Augusto Kronig (I822-I879) e l'anno successivo da Clausius. Il concetto fondamentale della teoria era stato enunciato da Daniele Bernoulli nella sezione X della sua Hydrodynamica {I738) e sviluppato nella memoria premiata nel I746 dall'Accademia di Parigi di Daniele e Giovanni Bernoulli. Secondo i Bernoulli il calore è una manifestazione de11o stato vibratorio delle molecole. In base a questa ipotesi vibratoria Daniele Bernoulli interpretava la pressione di un gas come dovuta all'urto delle sue molecole contro le pareti del recipiente. La teoria era stata riaffacciata più volte dopo i Bernoulli: abbiamo visto, per esempio, che vi accennarono anche Lavoisier e Laplace (Cap. VII , § I I ) ; nel I848 pure Joule interpretò la pressione dei gas alla maniera d i Bernoulli. Ma gli accenni di questi scienziati erano rimasti solamente qualitativi, anche perchè ad un approfondimento quantitativo era necessaria una più sicura conoscenza della teoria atomica. Verso la metà del secolo la teoria atomica aveva fatto tali notevoli progressi da poter essere utilizzata dai fisici con confidenza, onde essa venne a confluire con la teoria meccanica del calore per la costruzione dell'edificio della teoria cinetica dei gas. A noi basterà richiamare qui, supposta nota la storia della teoria atomica, la legge fondamentale enunciata da Avogadro nel I8I I : volumi eguali di gas, in eguali condizioni di temperatura e pressione, contengono egual numero di molecole ; aggiun­ gendo che all'epoca della fondazione della teoria cinetica codesto numero non si cono­ sceva ancora (Cap. XIII, § 6). 12.

Teoria cinetica dei gas.

Secondo Kronig, un gas è costituito da un insieme di molecole che �,.,··.oa:.:t""'-q"'-LL.. a sferette perfettamente elastiche, in continuo moto assolutamente molecolare) . Kronig supponeva ancora trascurabile il volume delle volume totale del gas e nulle le azioni reciproche tra le continuo moto, le molecole si urtano tra loro e urtano con recipiente, con conseguente variazione della loro velocità. I n base a q , tenuta pre-

l. .

., j l \l'. J . _,

lf]1 L -'

Fig.

"

10 .

Fia'. 8. _,

Una delle prime locomotive a vapore. Tavola degli « Elé­

ments de physique )) di M. Pouillet (Parigi, I8S3)· Storia delle Scienze, II.

sente la legge d'Avogadro, Kronig riusciva a spiegare la legge di Boyle, col ragiona­ mento ancor oggi ripetuto nei trattati di fisica, che porta a concludere che il pro­ dotto della pressione per il volume di una massa gassosa è eguale ai 2/3 dell'energia cinetica traslatoria di tutte le molecole della massa gassosa. Il suddetto prodotto perciò rimane costante finchè rimane costante l'energia cine­ tica traslatoria delle molecole. Ma l'equazione caratteristica dei gas (§ 7) avverte che il prodotto varia col variare della temperatura, quindi anche l'energia cinetica deve variare con la temperatura, ossia l 'energia cinetica dipende dalla temperatura. Ne viene spontanea l'idea di definire la temperatura mediante l'energia cinetica media delle molecole, ponendo tra le due grandezze una ben determinata relazione matematica. Queste le basi della teoria cinetica di Kronig, sviluppata da Clausius prima nel 1857 e poi in una grande memoria del r862. La teoria cinetica riuscì subito a spiegare molti fenomeni (diffusione, soluzione, propagazione del calore . . . ) a calcolare i valori relativi e poi gli assoluti delle velocità medie delle molecole nei vari gas alle varie temperature, a determinare con Maxwell (r866) il lt:bero cammino medio di una mole­ cola, definito come il valore medio del percorso rettilineo compiuto da una molecola tra due urti successivi, e in conseguenza il numero di urti di ogni molecola in un certo tempo (si ottengono numeri grandissimi, che, in condizioni normali, sono dell'ordine di 5 miliardi per secondo) . Il precedente schema teorico è un po' semplicistico, onde le conseguenze tratte si potevano ritenere confermate dall'esperienza soltanto in prima approssimazione. In particolare l'equazione di stato che la teoria dava come verificata in ogni circo­ stanza era seguita soltanto dai gas molto rarefatti; già abbiamo registrato (§ 2) le prime osservazioni sperimentali sulla deviazione dei gas reali dall'equazione di stato. Nel 1873 comparve la prima memoria di Giovanni Van der Waals (1837-1923) , nella quale si dimostrava che basta correggere la precedente teoria in due punti sol­ tanto per giungere a conclusioni applicabili ai gas reali. Basta, in primo luogo, tener presente che il volume delle molecole non è nullo, ma, con l'aumentare indefinito della pressione, esso non tende a zero, ma a un certo valore, detto covolume, legato al volume totale delle molecole ; in secondo luogo, bisogna non trascurare l'attrazione mutua tra le molecole, cioè la coesione del gas, che ha per effetto di diminuire la pres­ sione, perchè ogni molecola all'istante dell'urto contro la parete è, per così dire, frenata dall'attrazione delle altre molecole. Tenendo conto di queste due correzioni, Van der Waals scrisse l'equazione di stato che porta il suo nome, rimasta valida sino alla fisica moderna ed applicabile persino ad un liquido non molto denso (p. es., è appli­ cabile all'acqua) , sì da giustificare il titolo della memoria originale di Van der Waals sulla continuità tra lo stato liquido e lo stato gassoso. ,

13.

Leggi statistiche.

Abbiamo osservato (§ 10) che il secondo principio della termodinamica, nell'enun­ ciato di Clausius, era in antitesi coi tradizionali concetti meccanici. La meccanica aveva considerato sempre i processi naturali come reversibili, mentre il secondo prin­ cipio della termodinamica li riteneva irreversibili. La teoria cinetica mutò l'antitesi 249

in antinomia: se il calore si riduce a moto delle molecole singole individue, retto da leggi dinamiche reversibili, come è possibile conciliare la reversibilità dei processi singoli con l'irreversibilità della massa ? Forse una delle ragioni dell'aspra lotta degli energetisti - Rankine, Helmholtz, Ostwald, Mach - contro la teoria atomica, da loro giudicata troppo rozza ed ingenua, è proprio da ricercare nell'antinomia dei processi dinamici reversibili e il secondo principio della termodinamica. Secondo loro l'antinomia si sarebbe eliminata quando fosse venuto a mancare uno dei termini; perciò essi propendevano per l'abbandono della teoria cinetica e il ritorno alla con­ cezione agnostica di Mayer. Ma l'antinomia fu superata per ben altra via; ne dette l'avvio Maxwell, ponendosi un preciso problema di teoria cinetica. Se le molecole di un gas sono in continuo moto, qual è la velocità che in un certo istante ha una determinata molecola del gas ? Maxwell cominciò con l'osservare che l'ipotesi di Bernoulli dell'eguale velocità di tutte le molecole era inammissibile. Se anche, infatti, in un certo istante, tutte le molecole di un gas avessero la stessa velocità, questa condizione ideale sarebbe distrutta ben presto a causa dei reciproci urti. Per esempio, se una molecola A in moto è urtata perpendicolarmente alla direzione del moto da una molecola B, è facile calcolare che A accelera e B rallenta. Ma seguire con la mente o col calcolo l'evoluzione di tutte le singole molecole dello sterminato numero contenuto in una massa gassosa non è possibile. Ciò che si può fare, secondo Maxwell, è la statistica delle velocità; non cioè chiedersi quale sia la velocità di una singola determinata molecola, ma quante siano le molecole che in un certo istante hanno una determinata velocità. A fondamento del suo calcolo Max­ well pose le seguenti considerazioni intuitive : nessuna direzione di moto è privilegiata ; nessuna velocità è privilegiata o proibita, cioè una molecola può assumere tutti i valori della velocità compresi tra o e un massimo ; ogni gas abbandonato a se stesso finisce per assumere uno stato stazionario nel quale la distribuzione statistica delle velocità rimanga costante col tempo. In altre parole, se due molecole di velocità rispettiva a e b collidono e dopo la collisione assumono le velocità p e q, contemporaneamente altre due molecole di velocità p e q collidono e assumono le velocità a e b, in modo che rimanga costante il numero di molecole di velocità rispettivamente a, b, . . , p, q. In base a queste ipotesi e ad altre meno importanti che si trovano nelle pieghe del ragionamento, Maxwell dette la formula, riferita dai trattati di fisica, della riparti­ zione delle velocità delle molecole di un gas. La formula sollevò lunghe discussioni, sopite soltanto negli ultimi anni, quando le pompe molecolari consentirono la sua verifica sperimentale. Senza seguire le discussioni, ci basta qui sottolineare l'enorme importanza del­ l'introduzione di leggi statistiche nella fisica: non più, dunque, leggi dinamiche causali, ma leggi statistiche che permettono di prevedere l'evoluzione futura non con asso­ luta certezza, ma solamente con una grande probabilità. Il concetto di probabilità degli eventi fisici, non esplicitamente introdotto da Maxwell, fu avanzato nel 1878 da Ludovico Boltzmann (1844-1906) per risolvere le difficoltà che sollevava il secondo principio della termodinamica. A questo riguardo è rimasta classica l'esperienza mentale immaginata da Maxwell nel 187 1 : un gas è .

250

Ludovico Boltzmann.

diviso in due parti da un diaframma munito di un piccolo foro chiudibile a volontà con una saracinesca; un >, capace di vedere le molecole, posto a guardia del foro, apre la saracinesca alle molecole dirette in un senso e la chiude a quelle dirette in senso contrario ; dopo un po' di tempo, si avrà compressione in uno dei due scom­ partimenti, e il secondo principio della termodinamica è violato. Le difficoltà furono superate da Boltzmann con un'innovazione radicale : il secondo principio della termo­ dinamica non è una legge naturale certa, ma solo di estrema probabilità. È ormai quasi popolare il ragionamento fatto da Boltzmann per illustrare il concetto. Suppo­ niamo, dice Boltzmann, due recipienti comunicanti attraverso una piccola apertura e inizialmente una sola molecola in ciascuno dei due recipienti. Per effetto dei loro moti può succedere che una molecola imbocchi l'apertura dei due recipienti e passi nell'altro. Avremo così una compressione spontanea, contro l'affermazione del secondo principio della termodinamica. Ma se le molecole in ciascuno dei due recipienti fossero inizialmente due, è chiaro che il fenomeno di compressione è meno probabile, e via via meno probabile ancora se le molecole fossero 4, 8, r6, . Il secondo principio della termodinamica, dunque, non è una legge di assoluta certezza, ma una legge estre­ mamente probabile. Si sono calcolate queste probabilità termodinamiche e per illu­ strare il loro ordine di grandezza assolutamente diverso dalle probabilità della vita ordinaria si sono ideati molti esempi ; uno è questo: se una scimmia pesta su una mac­ china da scrivere a carta continua, qual è la probabilità che scriva la D·ivina Com­ media ? è chiaro che teoricamente il calcolo si può fare : si otterrà una probabilità di gran lunga superiore alle probabilità termodinamiche. E come noi siamo pratica. .

mente certi che una scimmia non scriverà mai la Divina Commedia, a maggior ragione possiamo essere praticamente certi della validità delle leggi termodinamiche. Ma la validità pratica interessa il tecnico; lo scienziato vede scendere il secondo principio della termodinamica dal rango di certezza al rango di probabilità ; tra cer­ tezza e probabilità, sia pure estrema, per lo scienziato c'è un abisso. La fisica classica si trovò, dunque, di fronte a un dualismo inevitabile. I n presenza di una qualunque legge che credesse d'interpretare un fenomeno, la fisica si doveva chiedere : è questa una legge dinamica, causale o J.ma legge statistica, di probabilità ? Davanti a questo dualismo i fisici si divisero in due schiere. I pochi volevano superarlo negando l'esi­ stenza di leggi certe e dando a tutte le leggi fisiche carattere di probabilità ; i molti volevano ricondurre tutte le leggi statistiche a leggi dinamiche elementari. Le leggi statistiche, dicevano, sono sintesi di leggi individuali dinamiche causali, che la nostra mente non riesce a seguire tutte assieme ; la probabilità che risulta dalle leggi stati­ stiche è solamente la misura, secondo la celebre definizione di Poincaré, della nostra ignoranza. La scienza non si può fermare alle leggi statistiche, ma deve risalire da queste alle leggi individuali dinamiche che le compongono, perchè solamente così la nostra mente può seguire i nessi causali. Ovviamente questi fisici ritenevano pie­ namente valido il rigido determinismo dei fenomeni naturali, affermato da Laplace al principio del secolo in un famoso passo spesso citato: Noi dobbiamo considerare lo stato presente dell'universo come l'effetto del suo stato anteriore e come la causa di quello che lo seguirà. Un'intelligenza che in un dato istante conoscesse tutte le forze di cui la natura è animata e la posizione rispettiva degli esseri che la compongono, se essa fosse ancora tanto vasta per sottoporre questi dati al calcolo, abbraccerebbe nella medesima formula i movimenti dei più grandi corpi dell'universo e quello dell'atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per lei, e l'avvenire come il passato sarebbe presente ai suoi occhi (Théorie analytique des probabilités par M. le Comte Laplace, seconde édition, Paris r8r4, p. n dell'Introduzione ; la prima edizione dell'opera, comparsa nel r8r2, non contiene l'Introduzione) . A questa concezione deterministica s'ispirava Bjerknes quando, al principio del XX secolo, impostava un piano grandioso di studi, diretto a ricondurre tutte le sta­ tistiche meteorologiche a leggi dinamiche individuali. Ma quando Bj erknes impostava questo piano di studi era già sorta la fisica mo­ derna, che avrebbe rivoluzionato gli schemi tradizionali, come vedremo nel capitolo XV.

CAPITOLO

X.

LA CORRENTE ELETTRICA LE PRIME RICERCHE 1.

Il galvanismo.

La notizia dell'invenzione della pila (Cap. VII , § 20) si sparse rapidissima, destando un interesse quale forse non s'era mai avuto dai tempi di Newton. Il 1 7 novembre 1801 , da Parigi, dove Napoleone lo aveva chiamato per fargli ripetere i suoi espe­ rimenti davanti all'Istituto di Francia, Volta, con stupore e compiacimento, scri­ veva al frat ello: Io stesso ( . .. ) mi stupisco come le mie scoperte vecchie e nuove del così detto Galvanismo, le quali dimostrano altro questo non essere, che pura e sem­ plice elettricità mossa dal contatto di metalli fra loro diversi, abbiano prodotto tanto entusiasmo. Valutandole disappassionatamente le trovo ancor io di qualche importanza: portano de' n.�wvi lumi alla teoria elettrica: aprono 71-n nuovo campo alle ricerche chi­ miche, per alc�mi singolari effetti, che cotesti miei apparati elettro-motori producono, di decomporre cioè l'acqua, ossidare, ossia calcinare i metalli, ecc. ed offrono anche delle applicazioni alla medicina ( . . . ) . Da un anno e più tutti i giornali di Germania, di Francia e d'Inghilterra ne sono pieni. Qui poi a Parigi, vi è, si può dir, furore, perchè, come per altre cose, vi si aggiunge quel ch'è f�trore di moda (Alessandro Volta, Epistolario, ediz. naz., IV, Bologna 1953 , pp. 92-93). Ma non era furore di moda: i fenomeni che si scoprivano erano veramente numerosi e sorprendenti. Le ricerche scientifiche si orientarono subito in tre direzioni, intrec­ ciate tra loro e mutuamente condizionantisi : studio della natura del nuovo ente; costruzione di pile sempre più potenti ; studio dei nuovi fenomeni. Già all'epoca della polemica tra Volta e Galvani s'era affacciato il dubbio che nell'esperimento galvanico intervenisse un fluido sui generis, che nel 1796 Gren dubitò fosse lo stesso che entrava in giuoco nei fenomeni voltiani di contatto: propose perciò di chiamare galvan·ismo il complesso di fenomeni collegati coi fenomeni voltiani di contatto. Il neologismo piacque, si diffuse rapidamente e fu una delle cause del pro253

trarsi della polemica sull'identità tra elettricità e galvanismo, perchè è noto a tutti quanta forza di suggestione abbia una parola nuova, largamente usata. All'apparire dell'elettromotore di Volta, noti i suoi primi effetti, e specialmente gli effetti chimici, si riaccese vivamente il dubbio che il nuovo ente messo in giuoco dalla pila si potesse identificare col fluido elettrico proprio delle macchine elettro­ statiche. I fatti che davano adito ai dubbi erano principalmente tre : le pile non davano alcuni segni elettrici o li davano assai deboli rispetto a quelli dati dalle macchine elet­ trostatiche (per esempio, le scosse, la carica d'un elettrometro, ecc. ) ; alcuni corpi che si mostravano conduttori per il fluido delle macchine elettrostatiche, sembravano invece isolanti per il nuovo fluido delle pile ; non si sapeva spiegare che codesto fluido delle pile, così debole nel dare i segni elettrici, riuscisse poi a produrre gli effetti chi­ mici di decomposizione di alcuni liquidi ed ossidazione di alcuni metalli, laddove l'elettricità > delle macchine elettrostatiche non riusciva a produrli. A questi dubbi Vassalli Eandi aggiungeva il fatto che non si sapevano spiegare le diversità di effetti fisiologici tra le scariche delle macchine elettrostatiche e la corrente della pila: come, per esempio, alcuni animali erano solamente storditi dalla scarica di una bottiglia o d'una macchina, mentre morivano per azione della corrente d'una pila. A queste obiezioni Volta rispondeva con una memoria ; Antonio Francesco Fourcroy (1755-r8og) nello stesso anno otteneva con la pila l'incandescenza di una spiralina di ferro, che addirittura bruciava, se era posta in un ambiente d'ossigeno puro, come nella celebre esperienza di Lavoisier ; Cristiano Pfaff (I773-I852) notava l'attrazione di una fogliolina d'oro battuto, posta tra due conduttori connessi ai poli d'una pila: l'esperienza fu ripetuta con maggiore accu254

ratezza da Ritter e ad essa s'ispirò nel r8o6 Tommaso Behrens (1775-r8r3) per co­ struire il suo elettrometro oggi detto di Bohnenberg, costituito da due pile identiche i cui poli opposti comunicano con due piastre metalliche, poste sotto una campana di vetro, tra le quali pendeva una sottile foglia d'oro; nel r 8 r r Giovanni Andrea Deluc (r727-r8r7) sostituì alle due pile una pila sola e solamente nel r85o Guglielmo Hankel (r8r4-r8gg) perfezionò lo strumento nella forma oggi descritta. Alla teoria di un fluido galvanico diverso dall'elettrico, e non già in onore di Galvani, come dicono alcuni storici, si debbono i termini scientifici e del linguaggio comune che ne ricordano il nome, introdotti nei primi anni del secolo e tuttora vivi : come il vocabolo >, usato da Stefano Robertson (r763-r837) nel r8or per indicare un misuratore d'intensità del galvanismo, dedotta dall'effetto chimico ; il termine piacque ad Ampère che nel r82o lo usò nel significato odierno. La polemica sul galvanismo fu praticamente chiusa da Faraday nel 1833, come diremo nel § 12. 2.

I fenomeni chimici della corrente.

Uno dei primi fenomeni osservati da Volta nel suo apparato elettromotore, special­ mente nel tipo a corona di tazze, fu la decomposizione dei sali del liquido della pila e la calcinazione delle lastre metalliche, in particolare dello zinco : il fenomeno fu confer­ mato, ai primi di aprile del r8oo, dal suo collega dell'Università di Pavia Luigi Brugna­ telli (r76r-r8r8) , il primo scienziato a cui Volta mostrò il nuovo apparecchio. Ma nella lettera a Banks (Cap. VII, § 20) Volta non accenna a questi fenomeni, forse perchè si riprometteva di farne uno studio più accurato. Sicchè Antonio Carlisle (r768-r84o) e Guglielmo Nicholson (r753-I8r5) . ai quali Banks aveva comunicato la lettera di Volta prima che la leggesse (r8 giugno r8oo) alla Royal Society, nulla sapevano degli espe­ rimenti voltiani, quando, costruitasi una pila, cominciarono i propri. Dopo qualche mese gli sperimentatori inglesi scoprirono il fenomeno di scomposizione dell'acqua ; per raccogliere separatamente idrogeno e ossigeno idearono il dispositivo, ancor oggi ben noto, d'introdurre i capi di platino del circuito in due tubi chiusi ad una estre­ mità, riempiti d'acqua, capovolti sulla bacinella usata nell'esperimento, contenente anch'essa acqua. In verità i fenomeni elettrochimici non erano una novità. Già Beccaria, nel 1769, aveva ridotto ossidi metallici mediante scariche elettriche; Cavendish, riprendendo alcuni esperimenti che Priestley non aveva avuto la pazienza di continuare, aveva ottenuto la formazione di anidride nitrosa e di anidride nitrica facendo scoccare la scintilla in una massa d'aria; Van Marum con la grandiosa macchina elettrostatica costruita ad Harlem decompose, a cominciare dal 1785, numerose sostanze, mentre Adriano Van Troostwijk (r752-I837) , olandese anche lui, nel 1790, ottenne la decom­ posizione dell'acqua, facendo scoccare nel suo seno numerose scintille (almeno 6oo) . Ma gli esperimenti precedenti non avevano avuto particolare rilievo per la diffi­ coltà d'esecuzione e l'esiguità degli effetti. Con la pila, invece, l'esecuzione degli espe­ rimenti era di grande semplicità e gli effetti vistosi ; sicchè l'annuncio degli esperimenti di Carlisle e Nicholson dettero la stura a una moltitudine di ricerche analoghe. Nello 25 5

stesso anno 18oo Gugliemo Henry annunciava di aver decomposto l'ammoniaca; Guglielmo Cruickshank fece in tempo, qualche mese prima di morire, di costruire la pila a truogoli e di osservare che nelle soluzioni di sali metallici attraversati dalla corrente si deposita il metallo al capo del conduttore dove si sviluppa l'idrogeno nel caso delle soluzioni acide. Brugnatelli ottenne le prime argentature, zincature e rama­ ture : Ho ben veduto soventi volte, egli scrisse, gettarsi l'argento proveniente da un con­ duttore di questo metallo sul platino o sull'oro e inargentarlo egregiamente ( . . ) Ho osser­ vato in altre analoghe esperienze zincarsi e ramarsi l'oro e l'argento colla corrente del­ l' ossielettrico, allorchè nella stessa tazza pescavano conduttori d'oro ovvero d'argento, col zinco e col rame (A nnali di chimica e storia naturale, 18 (18oo) , p. 152) . E qualche anno dopo egli comunicava d'esser riuscito a dorare due larghe medaglie d'argento, immergendo ciascuna, collegata col polo negativo della pila, in una soluzione satura d'ammoniuro d'oro. Condusse ricerche sistematiche sugli effetti chimici della corrente Humphry Davy (1778-1829) , che con la sua parola calda e i suoi scritti forbiti e immaginosi rese popo­ lari i fenomeni galvanici. Egli dimostrò che l'acqua non era direttamente scissa dalla corrente, la quale produceva invece la scissione degli acidi e dei sali disciolti nel­ l'acqua. Nel 1807, dopo lunghi e pazienti tentativi, Davy riuscì a scomporre, me­ diante la corrente, la potassa e, poco dopo, la soda, ottenendo due nuovi metalli, da lui battezzati potassio e sodia: questo risultato ebbe vastissima eco e importanti conseguenze registrate dalla storia della chimica. Con Davy sorge un nuovo ramo di scienza, l'elettrochimica, che nel corso del secolo si va progressivamente staccando dalla fisica, per riavvicinarsi, come vedremo, verso la fine del secolo. La più rapida ossidazione dei metalli a contatto che dei metalli isolati, che Ostwald ritiene il fatto fondamentale dell'elettrochimica scientifica, fu scoperta da Giovanni Fabbroni (1752-1822) ed enunciata, in una memoria letta nel 1792 all'Accademia dei Georgofili di Firenze, i cui atti però furono pubblicati soltanto nel 1801. Il ritardo della pubblicazione indusse in errore gli storici italiani, che attribuiscono a Fabbroni la prima enunciazione della teoria chimica della pila, mentre Fabbroni sosteneva, quando la pila ancora non c'era, che la causa della contrazione della rana nel feno­ meno galvanico fosse da ricercare non nel moto di un fluido galvanico o elettrico, ma in un effetto calorifico o chimico conseguente al contatto dei metalli diversi. È certo tuttavia che ai lavori di Fabbroni s'ispirarono tanto il francese Nicola Gautherot (1753-1803), quanto l'inglese Wollaston nell'enunciare nel 1801, quasi contempo­ raneamente e indipendentemente, la teoria chimica della pila, secondo la quale l'ori­ gine della forza elettromotrice della pila va cercata nell'azione chimica tra i metalli e il liquido interposto. La polemica sull'origine della forza elettromotrice della pila durò per tutto il secolo ; la teoria chimica della pila ebbe alla fine il sopravvento, ma pare non possa negarsi un >, cioè una tensione elettrica che sorge dal semplice contatto di due metalli. Con esperimenti analoghi a quelli di Fabbroni, giunse nel 1799 a scoprire il fatto fondamentale dell'elettrochimica anche Giovanni Ritter (1776-1810) , del quale sono anche importanti le ricerche sulla pila. Egli osservava che, fatta passare per un po' di tempo la corrente, mediante conduttori d'oro, in un tubicino pieno d'acqua, stac.

.

cati quindi i conduttori dai poli della pila e collegatili tra loro, il processo di decom­ posizione chimica continuava nel tubicino, ma in senso inverso: al capo del condut­ tore, dove prima si sviluppava l'idrogeno, ora si sviluppava l'ossigeno, e viceversa. L'effetto diventava più vistoso con una colonna di dischi metallici della stessa natura, separati l'uno dall'altro da dischi di cartone bagnati. Ritter interpretò il fenomeno come se la colonna di dischi assorbisse il fluido della pila di Volta e poi lo restituisse al circuito esterno; perciò Oersted chiamò pila secondaria il dispositivo di Ritter. Chi vide chiaro nel fenomeno fu Volta, il quale, osservando i fenomeni chimici che avvenivano nella pila secondaria, concluse che questa era una pila che si cangia, non una pila che si carica. La teoria di Volta fu ampiamente confortata dagli esperi­ menti del r826 di Stefano Marianini (r790-r866) , mentre Brugnatelli fin dal r8o2 osservò che sul conduttore collegato al polo negativo si deposita uno straterello di idrogeno. I comuni esperimenti scolastici coi quali si dimostra la polarizzazione di due elettrodi di platino furono descritti nel r824 da Antonio Cesare Becquerel (r788r878) . Le pile secondarie· non potevano avere interesse pratico sino a quando non si fosse trovato il modo di ottenere correnti elettriche con sorgenti diverse dalla pila. Si spiega così come esse furono trasformate molto tardi ; soltanto nel r859 Gastone Planté ( 1834-1879) propose il suo ben noto tipo di > a piombo, e soltanto nel r88r, dopo cioè l'introduzione della dinamo, Camillo Faure (I84o-I898) lo migliorò nel tipo tuttora in uso. Sino alla scoperta dell'induzione elettromagnetica (§ I I ) i soli generatori di cor­ rente furono la pila di Volta e, dal I823, la pila termoelettrica (§ 9) . Il modo più semplice per ottenere batterie più potenti sembrava quello di riunire in serie un numero sempre più grande di elementi. Ma le pile a corona di tazze erano molto ingombranti e le pile a colonna erano, oltre che scomode, di funzionamento incerto, perchè il peso dei dischi metallici faceva sgocciolare il liquido imbevuto nei dischi di panno, mettendo fuori servizio le pile. Perciò Volta aveva sperato che un giorno si fosse riusciti a costruire pile tutte solide: è un concetto che scandalizza i critici moderni, perchè in esso appare implicita la negazione del principio di conservazione dell'energia, enunciato però mezzo secolo dopo Volta. Ma questa realizzazione aveva in vista Giuseppe Zamboni (r776-r846) quando nel r8r2 cominciò i primi tentativi per la costruzione di una pila composta di conduttori secchi. Dopo moltissimi tentativi Zamboni si convinse della necessità che il corpo interposto tra le lastre metalliche fosse umido ; bastando, tuttavia, che fosse nel suo naturale stato d'umidità. Ebbe allora la felice idea di sostituire alle piastre di rame e di zinco dischi di quella carta chiamata d'oro o d'argento, oggi adoperata per avvolgere i cioccolatini, formata da fogli di carta incollata a lamine di rame o di stagno. Lo stato igrometrico naturale della carta è sufficiente per assicurare il funzionamento della pila, che può essere costi­ tuita, in piccolo spazio, da migliaia di coppie. Zamboni ottenne così la > che da lui prese il nome e che rese importanti servizi alla scienza. Zamboni vide subito che con questa pila non erano da attendersi etfetti chimici, nè fisiologici, ma fisici sola­ mente, cioè la pura tensione elettrica (Giuseppe Zamboni, L' elettromotore perpetuo, Il, Verona I822, p. 36). Poco dopo egli sostituì alla carta una pasta di carbone polve17.

-

Storia delle ScieHze,

II.

257

rizzato e acqua; successivamente, per consiglio di Volta, il biossido di manganese. Nel r83r Zamboni applicò la sua pila alla costruzione di un orologio elettrico ; un tipo posseduto dall'Istituto di fisica dell'Università di Modena è in moto, quasi inin­ terrottamente, dal 1839 e dalle osservazioni fatte durante quasi un secolo risulta che la pila di Zamboni, oltre a deteriorarsi, si polarizza, sia pure lentissimamente. Sul meccanismo delle scissioni chimiche osservate al passaggio della corrente elettrica, che Monge, Berthollet e altri scienziati francesi avevano tentato d'inter­ pretare, portò ben presto un geniale contributo Cristiano Grotthus (r785-1822) , gio­ vane ventenne, che nel r Sos pubblicò a Roma, dove si trovava in viaggio di studio, una memoria ripubblicata l'anno successivo da una delle più diffuse e autorevoli riviste scientifiche dell'epoca, gli A nnales de chimie di Parigi. Grotthus assimila la pila a colonna di Volta a un magnete elettrico e in conse­ guenza introduce i termini polo positivo e polo negativo per indicare i due capi della pila. Egli estende l'analogia alle e il fluido magnetico) ; oppure tentavano di magne­ tizzare un ago d'acciaio lanciandovi una corrente. Un'azione tra fluido galvanico e fluido magnetico voleva porre in evidenza Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) nelle esperienze descritte in un articolo del 1802, che Guglielmo Libri (r8o3-186g) , Pietro Configliacchi ( 1777-1844) e molti altri dopo mvocarono per rivendicare al grande giureconsulto la priorità della scoperta. Basta z6o

Nino Cristiano Oersted.

L.

però leggere l'articolo (ripubblicato in Opere edite ed inedite, vol. I, parte I, Padova r84r , pp. Xl-XII) per constatare che negli esperimenti di Romagnosi, istituiti con una pila a circuito aperto e un ago magnetico, manca anche la corrente elettrica, onde, tutt'al più, egli potette osservare una comune azione elettrostatica. Quando, il z r luglio r8zo, in una stringatissima memoria latina di quattro pagine, dal titolo Experimenta circa etfect�tm conflictus electrici in acum magneticam, il fisico danese Nino Cristiano Oersted (I777-r8sr) annunciò il fondamentale esperimento elettromagnetico col quale si constata che una corrente rettilinea, disposta nel modo a tutti noto, devia un ago magnetico di declinazione, l'interesse e lo stupore degli scienziati furono grandi non tanto per la risoluzione di un problema lungamente ricercata, quanto perchè si vide subito che il nuovo esperimento rivelava una forza non di tipo newtoniano. Dall'esperimento di Oersted, infatti, appariva chiaramente che la forza tra un polo magnetico e un elemento di corrente non è lungo la retta che li congiunge, ma normale a questa retta; è, cioè, come allora si disse, una >. S'intuì anche un fatto grave, del quale, per altro, si ebbe piena coscienza col volger degli anni : questo esperimento di Oersted rappresentava la prima lacera­ zione alla costruzione newtoniana del mondo. Il senso di disagio di cui fu colta la scienza si può cogliere, per esempio, dall'im­ barazzo in cui si trovano i traduttori italiano, francese, inglese, tedesco, nel rendere in lingua nazionale la memoria latina di Oersted, tanto che più volte, fatta una tra­ duzione letterale che a loro sembra oscura, riportano in nota l'originale latino. Ciò che ancor oggi sembra veramente oscuro nella memoria di Oersted è la spie­ gazione che egli tenta di dare dei fenomeni osservati, dovuti, secondo lui, a due moti elicoidali in senso inverso attorno al conduttore di >. z6r

L'eccezionalità del fenomeno scoperto da Oersted richiamò subito la più viva atten­ zione di sperimentatori e teorici. Arago, rientrato da Ginevra dove aveva assistito agli esperimenti ripetuti da De La Rive, li diffuse a Parigi e nel settembre dello stesso anno r82o montò il ben noto dispositivo della corrente verticale che attraversa un cartoncino orizzontale cosparso di limatura di ferro, senza però vedere le circonferenze di limatura di ferro che noi diciamo sempre di vedere nel ripetere l'esperimento. Gli sperimentatori vedono chiaramente codeste circonferenze da quando Faraday emise la teoria delle > o linee di forza: per vedere le cose occorre sempre, dal più al meno, la buona volontà di vederle. Arago vide solamente che il conduttore - sono esattamente le sue parole - si carica di limatura di ferro come farebbe un magnete, onde dedusse che esso sviluppa il magnetismo nel ferro che non è stato soggetto a una preven,tiva magnetizzazione (Annales de chimie et de physique, (2) 15 ( r82o) , p. 82) . Sempre nello stesso anno r82o (il 30 ottobre e il r 8 dicembre) Biot lesse due memorie in cui comunicava i risultati di una ricerca sperimentale da lui condotta insieme con Savart. Biot si proponeva di scoprire la legge che regola l'intensità della forza elettromagnetica alle diverse distanze. A questo scopo egli pensò di servirsi del metodo delle oscillazioni, già usato da Coulomb (Cap. VII, § r 8) . Montò perciò un dispo­ sitivo costituito da un grosso conduttore verticale opportunamente disposto vicino a un ago magnetico di declinazione : lanciando nel conduttore una corrente, l'ago si pone in oscillazione con un periodo che dipende dalla forza elettromagnetica eser­ citata sui poli alle varie distanze della corrente dal centro dell'ago : dalle loro misure Biot e Savart dedussero la ben nota legge che porta il loro nome e che nel primo enunciato prescindeva dall'intensità della corrente per la quale non c'era ancora la possibilità tecnica di misura. Laplace, conosciuti i risultati degli esperimenti di Biot e Savart, osservò che l'azione della corrente si poteva considerare come la risultante delle azioni parziali esercitate sui poli dell'ago dagli infiniti elementi infinitesimi in cui si poteva sup­ porre decomposta la corrente e ne inferì che ogni elemento di corrente esercita su ogni polo una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza dell'ele­ mento dal polo. L'intervento di Laplace nella questione è riferito da Biot nel suo Précis élémentaire de physique expérimentale (2a ediz., I I , Paris r82r, p. 1 22). Negli scritti di Laplace, per quanto è a nostra conoscenza, non si trova traccia di questa osser­ vazione ; onde, probabilmente, egli la comunicò oralmente, in via amichevole, a Biot. Per completare la conoscenza di codesta forza elementare, Biot tentò, questa volta da solo, di determinare sperimentalmente se e come varia l'azione dell'elemento di corrente sul polo col variare dell'angolo formato dalla direzione della corrente con la congiungente il punto medio dell'elemento di corrente col polo. L'esperimento consisteva nel confrontare l'azione sullo stesso ago di una corrente rettilinea e di una corrente ad angolo ; dai dati sperimentali, Biot, attraverso un calcolo non pubblicato ma certamente sbagliato, come dimostrò nel r823 Felice Savary (I797-184r), dedusse che la forza è proporzionale al seno dell'angolo formato dalla direzione della corrente con la congiungente il punto considerato col punto medio dell'elemento di corrente. In conclusione, ciò che oggi si chiama la prima legge elementare di Laplace è, in buona parte, un'invenzione di Biot. 262

5• Il galvanometro.

L'esperimento di Arago, cui abbiamo prima accennato, interpretato da molti fisici del tempo come effetto della magnetizzazione di un filo percorso da corrente, fu intuito nella sua essenza da Ampère, il quale subito predisse, e poco dopo sperimen­ talmente provò, che una sbarra d'acciaio introdotta in un'elica percorsa da corrente si magnetizza permanentemente: si era trovato così un nuovo metodo di magnetiz­ zazione, enormemente più efficace e pronto e comodo degli antichi. Ma soprattutto s'era dato l'avvio alla costruzione di un apparecchietto semplice e preziosissimo, l'elettrocalamita, che trova applicazione in innumerevoli dispositivi tecnici e scienti­ fici. La prima elettrocalamita, in forma di ferro di cavallo, fu costruita nel 1 825 dall'americano Guglielmo Sturgeon (1783-1850) e stupì non poco gli sperimentatori per la prontezza di magnetizzazione e smagnetizzazione della sbarra di ferro dolce al momento di lanciare o d'interrompere la corrente nel conduttore che vi era avvolto sopra. Il dispositivo di Sturgeon fu migliorato da Gereit Moll (1785-1838) e dall'americano Giuseppe Henry ( 1 797-1878), contemporaneamente e indipendente­ mente nel 183 1 . Alla prima memoria latina di Oersted seguì una seconda in tedesco, che ebbe scarsa diffusione. I n essa Oersted dimostrava la reciprocità del fenomeno elettromagnetico da lui scoperto. Egli sospendeva un piccolo elemento di pila a un filo, chiudeva il circuito e ne otteneva la rotazione avvicinandovi un magnete : lo stesso fenomeno ottenne indipendentemente Ampère a cui comunemente si attribuisce. E, più sempli­ cemente, Davy, per invito di Arago, dimostrò l'azione di un magnete su una corrente mobile avvicinando il polo di una calamita a un arco elettrico. Sturgeon, costruita la sua elettrocalamita, modificò l'esperimento di Davy nella forma ancor oggi ripetuta nei corsi di fisica, in cui l'arco ruota continuamente in campo magnetico. Ma il primo fisico che aveva ottenuto la rotazione in un campo magnetico di un conduttore percorso da corrente era stato Faraday nel 1821, con un dispositivo molto semplice : l'estremità di un conduttore pendulo pesca nel mercurio di un recipiente, nel quale penetra dal fondo e sporge per breve tratto dalla superficie un magnete verticale. Lanciando la corrente attraverso il mercurio e il conduttore, questo si pone in rotazione attorno al magnete. L'esperimento di Faraday, brillantemente modi­ ficato da Ampère, fu variato in innumerevoli modi nel corso del secolo. Tra questi accenneremo soltanto alla > , descritta nel 1823, perchè essa rappre­ senta un tipo di motore elettrico, comodo anche agli insegnanti d'oggi per avviare la trattazione. È una ruota metallica, ad asse orizzontale, il cui bordo pesca nel mer­ curio contenuto in una vaschetta, tra le espansioni polari di una calamita a ferro di cavallo. Inviando la corrente dall'asse della ruota alla periferia, attraverso il mer­ curio della vaschetta, la ruota si mette in rotazione. Le regole di Oersted sulla deviazione dell'ago magnetico e l'equivalente regola d' Ampère indicavano che la deviazione aumenta se si fa passare la stessa corrente sopra e sotto l'ago magnetico. Il fatto, intuito da Laplace, sperimentato con successo da Ampère, fu applicato nel 1820 da Giovanni Schweigger (1779-1857) alla costru­ zione del suo moltiplicatore, costituito da un telaio rettangolare su cui è avvolto

in più strati il filo percorso da corrente ; nella sua parte centrale è disposto l'ago magne­ tico di declinazione. Quasi contemporaneamente Avogadro e Michelotti costruivano un altro tipo di moltiplicatore, senza dubbio concettualmente inferiore a quello di Schweigger, e lo descrivevano nel 1823. Nel moltiplicatore di Avogadro e Michelotti c'era però una novità: l'ago magnetico, sospeso ad un filo di cotone, ruotava su un settore graduato e tutto l'apparecchio era posto sotto una campana di vetro. Il moltiplicatore sembrò sulle prime un galvanometro di estrema sensibilità, ma ben presto ci si accorse che esso poteva essere molto migliorato. Già nel I8zi Ampère aveva costruito un dispositivo astatico, come egli lo chiamò, identico a quello che aveva adoperato Vassalli Eandi e prima ancora, nel 1797, Giovanni Tremery: due aghi magnetici, rigidamente collegati, paralleli, con le polarità affacciate di senso opposto. Il sistema veniva sospeso ad una punta e si vedeva ruotare di un angolo retto, quando si faceva passare una corrente elettrica in un conduttore parallelo e molto vicino all'ago inferiore : così Ampère dimostrava che quando l'ago magnetico è sottratto all'azione magnetica della terra si dispone perpendicolarmente alla corrente.

d

Bussola delle tangenti di Claudio Pouillet: la corrente, attraverso i reofori d e c, è inviata nella grande spira di 40-50 cm. di diametro. L'ago magnetico molto piccolo, posto nel centro della spira, è fissato a un lungo ago leggero di rame, le cui estremità si muovono sulle divisioni del cerchio graduato (da M. Pouillet, Eléments de physique expérimentale et de météorologie, Parigi, 1 853).

Leopoldo Nobili ( 1784-1835) ebbe la felice idea di accoppiare il dispositivo astatico di Ampère con la sospensione unifilare di Avogadro e Michelotti, giungendo così al suo ben noto galvanometro astatico, di cui dette la prima descrizione nella seduta del­ l'Accademia delle Scienze di Modena del 13 maggio 1 825. Nobili, per dare un'idea della sensibilità dello strumento costruito, dice che, congiunte le estremità del filo del galvanometro con un filo di ferro, basta scaldare una delle giunture con le dita perchè l'ago devii di 90°. Il galvanometro di N obili rimase per qualche decennio il più sensibile strumento di misura dei gabinetti di fisica e abbiamo già visto (Cap. VIII, § 7) quale aiuto pre­ zioso fu per le ricerche di Melloni. N el 1828 Oersted lo voleva migliorare disponendo un magnete a ferro di cavallo davanti a due poli posti alla stessa estremità dell'equi­ paggio mobile. Ma la proposta non ebbe successo ; essa, tuttavia, è da ricordare come il primo esempio di strumento con campo ausiliario. Un decisivo miglioramento di questi strumenti di misura si ebbe soltanto con l'intro­ duzione, nel 1837, della bussola delle tangenti da parte di Claudio Pouillet (17901868) e della bussola dei seni, già adoperata l'anno prima dallo stesso Pouillet ; ma forse questi non conosceva la teoria esatta dello strumento, data da Guglielmo Weber ( 1804-1891) nel 1840. Nel 1837 fu anche introdotta la . Ampère, preso lì per lì alla sprovvista, non seppe che cosa ribattere. Ma venne in suo soccorso Arago, il quale, tratte di tasca due chiavi, >. La parte essenziale di questo episodio dev'esser vera, perchè Ampère, nel suo grande Mémoire sur la théorie mathématique des phénomènes électro-dinamiques uniquement déd,uite de l' expérience, sente il bisogno di avvertire che dall'esperimento di Oersted non si potevano logicamente dedurre le azioni tra le correnti, come dal­ l'azione di due pezzi di ferro su un ago non si può dedurre la loro mutua azione. Ma altri raccontano un altro episodio : Laplace, recatosi ad assistere alla prima dimo­ strazione sperimentale data da Ampère servendosi del suo >, mentre il pub­ blico sfollava, attese l'assistente, Daniele Colladon, sulla porta e quando questi stava per uscire, gli battè una mano sulla spalla e guardandolo fissamente gli chiese: > 1 • Subito dopo la scoperta di Oersted si presentò come naturale ai fisici questa inter­ pretazione : al passaggio d'una corrente, un conduttore diventa un magnete. Questa interpretazione fu seguita da Arago, il quale fu portato all'esperimento accennato (§ 4) proprio da questa concezione, e fu accettata da Biot 2 che la professò tena­ cemente per molti anni ancora; da Davy, da Berzelius, il quale precisò che ogni sezione trasversale di un conduttore percorso da corrente diventa un doppio magnete affian­ cato con polarità opposte. Ma Ampère propose un'altra interpretazione che costi­ tuisce la parte piil geniale della sua opera : non il conduttore percorso da corrente diventa un magnete, ma il magnete è un complesso di correnti. Infatti, diceva Ampère, se supponiamo che in un magnete esista un complesso di correnti circolari, giacenti in piani esattamente perpendicolari all'asse, tutte nello stesso senso, una corrente parallela all'asse del magnete si viene a trovare ad angolo con le predette correnti e ne sorgono azioni elettrodinamiche che tendono a rendere parallele e nello stesso senso le correnti. Se la corrente rettilinea è fissa e il magnete mobile, questo devierà; se il magnete è fisso e la corrente è mobile, questa si muoverà. È facile rendersi conto che l'ipotesi di Ampère, nel r82o, era eccezionalmente innovatrice, onde si capisce il riserbo con cui fu accolta: l'ipotesi di Biot e d' Arago 1 RAOUL DE

PICTET, �tude critique du matérialis".me et du spiritualisme par la physique expé­ rimentale, Génève, 1 896, pp. 1 0 1 - 1 05. Probabilmente l 'episodio, da molti ripetuto, è inventato, perchè non è credibile che Laplace dovesse aspettare la pubblica dimostrazione per conoscere gli esperimenti di Ampère, quando lo stesso Ampère ricorda la collaborazione d i Laplace nel suggerirgli di aumentare l'effetto nell'esperimento di Oersted piegando lo stesso conduttore sopra e sotto l'ago. È poi certamente inesatto che la prima pubblica dimostrazione sia avvenuta, come dice Pictet, nel 1 823 o 1 824, con apparecchi imperfetti che fallirono la prova deludendo il pub­ blico e addolorando Ampère. Già dal febbraio 1 8 2 1 Ampère aveva fatto costruire il > con numerosi accessori dal celebre meccanico Pixii; di questo banco si servi Delambre il 2 aprile 1 8 2 1 per ripetere, davanti all'Accademia delle Scienze di Parigi, i fondamentali esperimenti di Ampère. 2 Nel 1 820 Biot affermò che quando una corrente rettilinea agisce su una molecola magnetica > . Biot e i fisici che la pensavano come lui interpretavano le azioni elettrodinamiche come dovute all'azione mutua dei magnetini elementari suscitati dalla corrente in ogni conduttore : in sostanza, ogni condut­ tore, percorso da corrente, diventa un tubo magnetico. Biot rimase fermo in questa teoria, sebbene fin dal 1 820, Gay Lussac e Welter ideassero un esperimento, ripetuto con eguale risultato da Davy ed Erman: due anelli tubolari, fortemente magnetizzati, non esercitavano azione mutua.

266

Andrea Maria Ampère.

sembrava molto più naturale. Ma quando, nel r8zr, Faraday ottenne la rotazione delle correnti in campo magnetico, Ampère osservò che simile effetto era inspiegabile con qualunque distribuzione di magnetini sul conduttore percorso da corrente, la qual distribuzione avrebbe potuto generare forze di attrazione o repulsione, ma non coppie di rivoluzione. Ma più che criticare la teoria concorrente, Ampère cercava conferma sperimen­ tale alla propria jpotesi. Pensava Ampère che se si concepisce un magnete come un sistema di correnti circolari parallele dirette nello stesso verso, un'elica di filo metallico percorso da corrente deve comportarsi come un magnete, prendere una posizione stabile d'equilibrio sotto l'azione magnetica della terra, presentare le due polarità. L'esperimento confermò la previsione per quanto riguarda il comportamento dell'elica sotto l'azione di un magnete, ma non riuscì chiaro per ciò che si riferisce all'azione della terra sull'elica; onde egli ricorse, per lo studio di questa azione, ad un'unica spira percorsa da corrente, che si comportò come una lamina magnetica. Si manifestava, dunque, un fatto oscuro : una sola spira si comporta come una lamina magnetica, ma una spirale che Ampère considerava esattamente equivalente a un sistema di lamine magnetiche, non si comportava chiaramente come un magnete. Nel tentare di chiarire questo punto oscuro, Ampère s'accorse con sorpresa che nei fenomeni elettrodinamici un conduttore ad elica si comportava come un conduttore rettilineo avente gli stessi estremi. Da questo fatto egli inferì che, per riguardo alle

azioni elettrodinamiche ed elettromagnetiche, gli elementi di corrente si possano comporre e scomporre con la regola del parallelogrammo. Sicchè, un elemento di corrente si può scomporre in due componenti, una nella direzione dell'asse e l'altra in direzione perpendicolare. Integrando le azioni risultanti dai vari elementi dell'elica, risulta che questa equivale a una corrente rettilinea nella direzione dell'asse e ad un sistema di correnti circolari giacenti in piani perpendicolari all'asse e dirette nello stesso senso. Affinchè, dunque, l'elica percorsa da corrente possa comportarsi esatta­ mente come un magnete occorre compensare l'effetto della corrente rettilinea: cosa che Ampère ottenne, come si sa, col semplice artificio di ripiegare lungo l'asse i capi del conduttore. Non astante questo, però, una differenza esisteva sempre tra spirale percorsa da corrente e magnete : la spirale presenta i poli esattamente alle estremità, il magnete invece ha i poli in punti interni. Allo scopo di eliminare quest'ultima diffe­ renza di comportamento, Ampère abbandonò la sua prima ipotesi delle correnti esat­ tamente perpendicolari all'asse del magnete e postulò invece che esse giacciono 1n piani variamente inclinati rispetto all'asse. Subito dopo i suoi primi esperimenti elettrodinamici, Ampère s'era proposto di esprimere con una formula il valore della forza che si esercita tra due elementi di corrente, in modo da poter dedurre da questa formula la forza che si manifesta tra due parti di conduttori, dati di forma e di posizione. Non potendo sperimentare su elementi di corrente, Ampère tentò dapprima, fin dal r8zo, di raggiungere lo scopo col seguente metodo : eseguire numerose, accurate misure su l'azione di due correnti finite di forma e di posizione diverse; emettere, quindi, un'ipotesi sull'azione di due elementi di corrente e da questa dedurre l'azione di due parti finite; modificare l'ipo­ tesi, sino a quando si trovasse accordo tra previsione teorica e risultato sperimentale. È la via classica tante volte seguita in ricerche del genere ; ma ben presto Ampère s'accorse che, nel caso specifico, si sarebbe trattato di un lavoro di divinazione, che si sarebbe potuto evitare seguendo una via più diretta: constatato che una corrente mobile resta sempre in equilibrio tra forze eguali prodotte da correnti fisse di cui si possa variare, sotto condizioni restrittive che l'esperienza indica, la forma e le dimen­ sioni, indurre direttamente dal calcolo quale deve essere il valore dell'azione tra due elementi di corrente affinchè l'equilibrio sia indipendente, sotto le condizioni trovate, dalla forma e dalle dimensioni delle correnti fisse. I suoi lavori sperimentali gli con­ sentivano di applicare, con speranza di successo, questo criterio, molto più restrittivo del primo, perchè egli aveva determinato sperimentalmente quattro casi d'equilibrio, di cui i trattati odierni ricordano ancora i primi due (eguaglianza dei valori assoluti delle forze esercitate da una stessa corrente in sensi opposti ; eguaglianza delle azioni su una corrente mobile di due correnti fisse di eguali estremi, una rettilinea, l'altra sinuosa). Da questi quattro postulati sperimentali, attraverso una dimostrazione non breve, Ampère giunge a dare la prima di una lunga serie di formule elementari elettrodina­ miche (Grassmann, Weber, Riemann e altri), tutte utilizzate e tutte criticate, le quali dànno la forza che si esercita tra due elementi di corrente in funzione delle loro inten­ sità, della loro distanza e della posizione reciproca. Nel corso della ricerca teorica era risultato che le parti di una stessa corrente si respmgono. Questo risultato parve ad Ampère di eccezionale importanza, tanto da z68

poter essere posto a fondamento di tutta l'elettrodinamica, onde egli si propose di trovarne una dimostrazione sperimentale diretta: la raggiunse nel settembre 1822 con un dispositivo ancor oggi ricordato da qualche trattatista, costituito da un reci­ piente diviso da una tramezza in due scompartimenti contenenti mercurio, collegati elettricamente da un conduttore mobile galleggiante sul mercurio: facendo passare la corrente dall'uno all'altro scompartimento, il conduttore mobile si sposta. Dalla formula elementare Ampère deduce, considerando un magnete come un sistema di correnti molecolari, la prima legge di Laplace e da questa, nel modo che i testi moderni riferiscono, la legge di Biot e Savart. Ampère deduce anche la legge di Coulomb per le azioni magnetostatiche tra due magneti, considerati come due com­ plessi di corrente. Un'altra circostanza favorevole alla propria teoria è trovata da Ampère nel fatto che la formula data di recente da Poisson per le forze esercitate da un elemento magne­ tico su un elemento di fluido australe o boreale è identica alla formula che si deduce dalla propria teoria per un circuito piccolissimo chiuso e piano. Onde, se si ammette che questo circuito chiuso, piano e piccolissimo sia equivalente ad un elemento magne­ tico, si deduce subito, scomponendo, come fanno ancor oggi i trattatisti, un circuito finito qualunque in maglie, che l'azione di un circuito chiuso è quella che esercite­ rebbero degli elementi magnetici distribuiti uniformemente su una superficie qua­ lunque limitata da questo circuito, allorchè gli assi degli elementi magnetici sono dovunque normali a questa superficie : si tratta, insomma, del celebre teorema di equi­ valenza di Ampère. Ma Ampère intuisce che alle stesse conclusioni verificabili sperimentalmente si può arrivare anche mediante altre leggi elementari, ond'egli pone l'accento su un altro merito della propria teoria: quello di aver ricondotto ad una causa unica l 'azione tra due elementi di corrente - tre ordini di fenomeni apparentemente diversi : le azioni magnetostatiche, le elettromagnetiche e le elettrodinamiche. Ma il merito fondamentale della propria formula - l'unica, secondo lui, che ha il diritto di chiamarsi elementare - è di avere bandito dalla fisica le >, riconducendo tutte le forze della natura ad azioni tra particelle, lungo la retta che le congiunge. Così, con questa grande memoria, pubblicata nel r827 e giudicata da Maxwell > , Ampère rappezzava la con­ cezione meccanicistica, fortemente scossa dall'esperimento di Oersted. Ma proprio l'opera di Maxwell avrebbe fatto scorgere che si trattava di un semplice rammendo. Weber aveva posto a base della propria teoria sulla corrente elettrica, considerata come un vero trasporto di particelle elettrizzate, l'azione elettromagnetica di una carica in movimento e Maxwell ne aveva accettato il concetto. Per suggerimento di Helmholtz, Rowland nel 1876 dimostrò con un classico esperimento che dette luogo a una lunga polemica praticamente chiusa nel 1903 per iniziativa di Poincaré, che una carica elettrica in moto circolare produce su un ago magnetico lo stesso effetto di una corrente circolare. Anzi, se la velocità della carica aumenta, aumenta anche la forza agente su ogni polo magnetico dell'ago. Insomma, l'intensità della forza dipende dalla velocità della carica. Ma la concezione meccanicistica aveva spiegato 269

tutti i fenomeni mediante forze dipendenti unicamente dalla distanza delle particelle. L'esperimento di Rowland non solo conferma l'esistenza di >, ma introduce un elemento nuovo, affatto estraneo alla concezione meccanicistica, che ne rimane pertanto fortemente scossa. Ma ritorniamo ancora per un momento alla memoria di Ampère per osservare, sorvolando sulla sua serrata polemica contro Biot non priva di vivaci accenni per­ sonali, che Ampère attribuisce, come aveva già fatto nel 1821, il magnetismo terrestre all'esistenza di correnti nell'interno del nostro globo: è una delle tante teorie, tutte insoddisfacenti, proposte per dar conto del magnetismo terrestre. Nel 1822 Leopoldo Nobili la confortava con un > costituito da una palla sferoidale vestita t�t.tt' attorno d'un filo metallico il quale faccia 1: suoi giri nella direzione dei paralleli, e comunichi al solito coi suoi capi alle estremità zinco e rame d'un apparato voltiano (L. Nobili, Sul confronto dei circ�tt:ti elettrici coi circuiti magnetici, Modena 1 822, ripro­ dotta in Memorie ed osservazioni edite ed inedite del cavaliere Leopoldo N o bili . . . colla descrizione ed analisi de' suoi apparati ed istrumenti, Firenze 1834, II, p. 23) . Si tratta dell'>, che alcuni testi di fisica descrivono come >, pre­ sentato da Barlow alla Royal Institution il 26 maggio 1824, due anni dopo la pub­ blicazione di Nobili. LA LEGGE DI OHM 7· Prime ricerche sulla resistenza dei conduttori.

Che cosa � un conduttore ? è un elemento puramente passivo del circuito elettrico, risposero i primi sperimentatori ; occuparsene è lambiccarsi il cervello in astruserie senza scopo, perchè soltanto la sorgente è l'elemento attivo. Questa mentalità spiega il disinteresse degli scienziati, protrattosi almeno sino al 1840, nei riguardi dei pochi studi sull'argomento. De La Rive, per esempio, nella seconda riunione degli scienziati italiani, tenutasi a Torino nel 1840 (la prima s'era avuta a Pisa nel 1839 ed aveva assunto significato anche politico), intervenendo nella discussione d'una memoria pre­ sentata da Marianini, affermava che il rapporto della conducibilità di più liquidi non è assoluto > : la legge di Ohm era stata pubblicata da 15 anni ! Tra i pochi e tra i primi ad occuparsi della conducibilità dei conduttori, dopo l'introduzione del galvanometro, fu Stefano Marianini (179o-r866) . Ne dette occa­ sione lo strano risultato a cui giunse nello studio della tensione delle batterie di pile: egli osservò che aumentando il numero di elementi di una pila a colonna non si accresce sensibilmente l'effetto elettromagnetico sull'ago, onde Marianini pensò subito che ogni coppia voltaica opponga sempre un ostacolo al passaggio della cor­ rente. E sperimentando su coppie attive e non attive (cioè costituite da due lastre entrambe di rame separate da un panno bagnato) giunse a trovare sperimentalmente una relazione che si presenta al lettore moderno come un caso particolare della legge di Ohm, supposta trascurabile, com'era nel dispositivo sperimentale di Marianini, la resistenza del circuito esterno. 270

Giorgio Simone Oh m .

Giorgio Simone Ohm (1789-1854) ri�onobbe il merito della ricerca di Marianini, che tuttavia non gli fu d'aiuto nella propria opera, ispirata da La théorie analytique de la chaleur (Paris 1822) di Giov. Battista Fourier (1768-1830} , una delle più alte produzioni scientifiche di ogni tempo, rapidamente conosciuta ed apprezzata dai fisici matematici dell'epoca. Ohm ebbe l'idea che il meccanismo del > di cui parla Fourier si potesse assimilare al flusso di elettricità in un conduttore. E come nella teoria di Fourier il flusso di calore tra due corpi o tra due punti dello stesso corpo si attribuisce alla loro differenza di temperatura; così Ohm attribuisce alla diffe­ renza di > tra due punti di un conduttore la causa del flusso di elettricità dall'uno all'altro. Guidato da questa analogia, Ohm iniziò i suoi studi sperimentali con la determi­ nazione dei valori relativi delle conducibilità dei diversi conduttori. Egli inseriva, seguendo un metodo rimasto classico, successivamente tra due punti di un circuito conduttori filiformi di sostanze diverse e di eguale diametro e ne variava la lunghezza sino ad ottenere una determinata intensità di corrente. I primi risultati ottenuti appaiono oggi modesti. Gli storici si meravigliano, ad esempio, che Ohm abbia tro­ vato che l'argento è meno conduttivo del rame e dell'oro, e menano per buona la giustificazione addotta più tardi dallo stesso Ohm di aver sperimentato con un filo d'argento ricoperto d 'un velo d'olio che ne variava il diametro apparente. Negli espe­ rimenti del tempo parecchie erano le cause d'errore (impurità dei metalli, calibrazione dei fili, loro esatta misura, ecc.), tra le quali era massima la polarizzazione delle pile, 27!

cioè il fatto che, non conoscendosi ancora pile (idroelettriche) costanti, il tempo neces­ sario per le misure ne alterava la forza elettromotrice. Furono queste cause d'errore a condurre Ohm a riassumere in una legge logaritmica i risultati sperimentali da lui ottenuti nello studio della variazione dell'intensità di corrente col variare della resi­ stenza inserita tra due punti del circuito. Dopo la pubblicazione della prima memoria, Poggendorff suggerì a Ohm di abban­ donare le pile idroelettriche e di servirsi di una coppia termoelettrica rame-bismuto, recentemente introdotta da Seebeck (§ g). Ohm accettò il suggerimento e ripetè gli esperimenti montando un dispositivo con una pila termoelettrica nel cui circuito esterno inseriva successivamente otto fili di rame di eguale diametro e di varia lun­ ghezza. Misurava l'intensità di corrente con una specie di bilancia di torsione, costi­ tuita da un ago magnetico sospeso con un filo metallico appiattito ad una testa cir­ colare : quando la corrente, parallela all'ago, lo deviava, Ohm torceva il filo di sospen­ sione sino a riportare l'ago nella sua posizione di riposo e riteneva l'intensità di cor­ rente proporzionale all'angolo di torsione del filo. Ohm concluse che i risultati sperimentali ottenuti con gli otto fili diversi possono essere rappresentati molto soddisfacentemente dall'equazione X =

a

b + x

dove X indica l'intensità dell' efjetto magnetico del conduttore la cui lunghezza è x , a e b essendo costanti dipendenti rispettivamente dalla forza eccitatrice e dalla resistenza delle rimanenti parti del circuito (]ournal fur Chemie und Physik (di Schweigger) , 46, r8z6, p. r6o) . Gli esperimenti furono variati, cambiando le resistenze e la coppia termoelettrica, ma sempre i risultati si potevano riassumere in una formula come la surriferita, la quale si trasforma immediatamente nella formula oggi riportata dai testi di fisica, sostituendo ad X l'intensità della corrente, ad a la forza elettromotrice, a b + x la resistenza totale del circuito. Ottenuta la formula, Ohm se ne serve per studiare l'effetto del moltiplicatore di Schweigger sulla deviazione dell'ago e la corrente che si stabilisce nel circuito esterno d'una batteria di pile, a seconda che il loro collegamento sia in serie o i n parallelo. Spiega così, come oggi fanno i trattati di fisica, i fenomeni della corrente esterna ad una batteria, che erano sembrati tanto capricciosi ai primi sperimentatori. Ohm sperava che le sue memorie sperimentali gli aprissero le sospirate porte uni­ versitarie, e invece esse passavano inosservate; allora abbandonò l'insegnamento nel ginnasio di Colonia e andò a Berlino per inquadrare in una trattazione teorica i risultati ottenuti. A Berlino, nel 1 827, pubblicò il suo capolavoro, un libro dal titolo Die galvanische Kette, mathematisch bearbeitet (Il circuito galvanico matematicamente trattato). La teoria, ispirata, come abbiamo accennato, dalla teoria analitica del calore di Fourier, introduce i concetti e le esatte definizioni di forza elettromotrice o >, come egli la chiama, di conducibilità elettrica (Starke der Leitung) e d'intensità di corrente. Ohm, dedotta la sua legge nella forma differenziale oggi riferita dai trattatisti, la traduce in termini finiti per particolari circuiti concreti, 272

tra i quali è notevole il circuito termoelettrico ; formula in conseguenza le ben note proprietà relative alla variazione della tensione elettrica lungo il circuito. Ma anche l'opera teorica di Ohm passò inosservata e se qualcuno ne scrisse fu per deriderla, come che da Wheatstone prese il nome. In verità il dispositivo era stato già descritto, fin dal 1833 da Hunter Christie, e, indipenden­ temente, nel 1 840 da Marianini: entrambi gli scienziati consigliavano il metodo di azzeramento, ma le loro teorie, che facevano a meno della legge di Ohm, lasciavano a desiderare. Wheatstone, invece, era un ammiratore di Ohm e ne conosceva bene la legge, sicchè la sua teoria del > è esattamente quella riportata dai trattati moderni. Inoltre, per variare rapidamente e comodamente la resistenza di un Iato del ponte, onde ottenere un'intensità nulla nel galvanometro inserito in una diagonale, Wheat­ stone ideò tre tipi di reostato (il vocabolo fu proposto da lui, sull'esempio di reoforo, introdotto da Ampère, imitato da Péclet nel termine reometro) : uno a cursore mobile, tuttora in uso, ispiratogli da un dispositivo analogo costruito da Jacobi nel 1841 ; un secondo, nel quale si poneva in circuito la parte di filo avvolta su un cilindro di legno e che si poteva facilmente variare svolgendo il filo dal cilindro di legno e avvol­ gendolo su un altro di bronzo; infine, un tipo corrispondente alla >, che Ernesto Werner Siemens (1816-1 892) , scienziato e industriale, nel 186o migliorò e diffuse. Col dispositivo del >, Wheatstone insegnò a misurare le resistenze e le forze elettromotrici. Come la telegrafia aerea, anche la telegrafia sottomarina dette un forte, forse mag­ giore, impulso alle misure elettriche. Gli esperimenti di telegrafia sottomarina erano cominciati fin dal 1837 e una delle prime questioni che si presentò fu di determinare la velocità di propagazione della corrente. Già nel 1834 Wheatstone, servendosi di specchi rotanti, come abbiamo accennato (Cap. VIII, § 5), ne aveva fatto una prima mi­ sura, i cui risultati furono contraddetti da altri esperimenti eseguiti da Latimer Clark, 274

che a loro volta non erano concordanti con ulteriori ricerche di altri sperimentatori. Guglielmo Thomson (poi lord Kelvin) dette nel r855 la spiegazione di questi risultati contraddittori. Secondo Thomson la velocità della corrente in un conduttore non ha un valore determinato. Come la velocità di propagazione del calore in una sbarra dipende dalla natura della sbarra, così la velocità della corrente in un conduttore dipende dal prodotto della sua resistenza per la sua capacità elettrostatica. Seguendo questa sua teoria, ai suoi tempi molto discussa, Thomson si dedicò al problema della telegrafia sottomarina. Un primo cavo transatlantico tra l'Inghilterra e l'America rimase in servizio per circa un mese e poi cessò di funzionare. Thomson ricalcolò il nuovo cavo, fece estese misure di resistenza e di capacità, ideò nuovi apparecchi di trasmissione, tra i quali è da ricordare il galvanometro astatico a riflessione, sosti­ tuito dal > dello stesso Thomson, e finalmente nel r866 11 nuovo cavo transatlantico entrò in servizio con grande successo. Questa prima grande opera d'ingegneria elettrotecnica fu accompagnata e seguita dalla costruzione effettiva di unità di misure elettriche e magnetiche. Le basi della metrologia elettromagnetica furono poste da Carlo Federico Gauss (1777-I855) con una celebre memoria pubblicata nel 1832 dal titolo Intensitas vis magneticae terrestris ad mensuram absolutam revocata. Gauss osservò che le diverse unità di misure magnetiche erano tra loro incomparabili, almeno in buona parte, onde propose un sistema di misure assolute fondato su tre unità meccaniche fonda­ mentali : il secondo come unità di tempo, il millimetro come unità di lunghezza e il milligrammo come unità di massa. Da queste egli deduceva tutte le altre unità fisiche e ideava strumenti, in particolare il magnetometro, per la misura in unità assolute del magnetismo terrestre. L'opera di Gauss fu proseguita da Weber, che costruì molti strumenti propri e di Gauss. A poco a poco, specialmente per l'opera svolta da Maxwell in seno a un'apposita commissione di misure nominata dalla British A ssociation, che pubblicò annuali relazioni dal r86r al r867, si formò l'idea di costruire interi sistemi di misure, in particolare il sistema elettromagnetico ed elettrostatico. Le idee sui sistemi assoluti furono precisate in una storica relazione del 1873 di una seconda commissione della British A ssociation. Il congresso internazionale di Parigi del r88r definì per la prima volta unità internazionali, dando a ciascuna il nome, che in massima parte tuttora portano, di un grande fisico: volt, ohm, ampère, joule e così via. Dopo molte vicende, nel 1935 fu adottato il sistema internazionale Giorgi o M.K.S.n, che ha per unità fondamentali il metro, il chilogrammo massa, il secondo e l'ohm. Collegate ai > di misure sono le >, usate per la prima volta da Fourier nella sua teoria analitica del calore (1822), e diffuse da Maxwell, che fissò il simbolismo. La metrologia del secolo scorso, basata sulla pretesa di spie­ gare tutti i fenomeni mediante modelli meccanici, dava grande importanza alle for­ mule dimensionali, dalle quali voleva apprendere, nientemeno, i segreti della natura ed aveva portato ad affermazioni quasi dogmatiche: per esempio, era quasi articolo di fede che le grandezze fondamentali dovessero essere tre. Ma verso la fine del secolo si cominciò a capire che le formule dimensionali sono pure convenzioni, onde l'inte­ resse per le teorie dimensionali andò progressivamente diminuendo. 275

CALORE E CORRENTE ELETTRICA 9·

Effetto termoelettrico.

Volta fin dal 1794 aveva più volte eseguito il seguente esperimento: una rana preparata di fresco alla Galvani era posta con le gambe posteriori intinte nell'acqua di un bicchiere, mentre il dorso e la colonna vertebrale erano immerse nell'acqua di un altro ; se chiudeva il circuito con un filo di ferro, un cui capo fosse stato immerso per qualche minuto nell'acqua bollente, osservava violente contrazioni della rana, le quali si ripetevano anche più volte finchè l'estremità del filo non si fosse raffreddata. L'esperimento passò inosservato e forse era ignoto anche a Tommaso Seebeck (I770-I83 r ) , quando nel r8zr cominciava la lettura delle memorie all'Accademia delle Scienze di Berlino, rifuse poi in una memoria classica che comparve soltanto nel r 825. Il fenomeno scoperto da Seebeck è ben noto; così egli descrive uno dei suoi moltissimi esperimenti: una sbarretta di bismuto era saldata ad entrambe le estremità con i capi di una spirale di rame ; se una estremità era riscaldata con una lampada e l'altra tenuta fredda, l'ago di declinazione entro la spirale ruotava, indicando il passaggio d'una corrente che nella saldatura non scaldata andava dal rame al bismuto. Il fenomeno fu reso noto nel 1823 da Oersted che gli dette anche il nome tuttora in uso. Nello stesso anno 1823 Fourier e Oersted dimostrarono che l'effetto terme­ elettrico gode della proprietà addittiva e costruirono la prima pila termoelettrica, formata da tre sbarre d'antimonio e tre di bismuto alternate e saldate di punta in modo da formare un esagono. La pila fu molto migliorata da Nobili nel 1829, disponendo le bacchette bimetalliche invece che di punta in un piano, inclinate, quasi verticali, secondo una superficie cilindrica, immerse in una scatola in cui si cola mastice, sì che una serie di saldature è annegata nel mastice e l'altra sporge appena dalla scatola. Un ulteriore perfezionamento portò l'anno successivo Melloni, costruendo il tipo pri­ smatico tuttora in uso. Con una pila di Melloni e il proprio galvanometro, Nobili costruì nello stesso anno 1830 un termomoltiplicator� talmente sensibile che dava indizio del calore emanato da una persona alla distanza di r8-2o braccia. Nel 1 834 a Gian Carlo Peltier (r785-I845) , nel corso di alcuni studi sperimentali sulla conducibilità dell'antimonio e del bismuto, si presentò il problema di deter­ minare come varia la temperatura lungo un conduttore omogeneo o eterogeneo per­ corso da corrente. Egli perciò esplorava la temperatura dei vari punti di un circuito termoelettrico mediante una pinza termoelettrica collegata a un galvanometro. Così egli scoprì che nelle saldature di metalli diversi la temperatura varia bruscamente e vi si può riscontrare anche un raffreddamento ; otteneva il massimo effetto con la coppia bismuto-antimonio. Insomma, la corrente elettrica può produrre anche raffred­ damento. Becquerel, De La Rive e altri fisici rimasero increduli agli esperimenti di Peltier, forse anche perchè Peltier era, per così dire, un irregolare della ricerca scien­ tifica, avendo fatto l'orologiaio sino a trent'anni. Per fugare i dubbi, Peltier provvide a mettere in evidenza direttamente il fenomeno mediante un termometro ad aria, nel modo che sostanzialmente ancor oggi riferiscono i trattati di fisica. In un secondo tipo di esperimento, Peltier saldava in croce due metalli sui quali voleva sperimentare,

attraverso un galvanometro mandava una corrente termoelettrica a due capi successivi della croce, interrompeva dopo un po' il circuito e collegava lo stesso galvanometro agli altri due capi della croce: il galvanometro indicava una corrente dovuta a un riscal­ damento o a un raffreddamento della saldatura della croce. Quando si produce riscal­ damento e quando raffreddamento nella saldatura fu precisato nel 1838 da Poggen­ dorff e, indipendentemente, nel 1 840, da Luigi Pacinotti ( r8o7-r88g) , padre di Antonio l'inventore della dinamo a corrente continua (§ r g). 1 o.

La legge di Joule.

Nel primo quarantennio dall'invenzione della pila non erano mancati i tentativi, alcuni sfortunati e altri incompleti, per scoprire a quale legge obbedisse la produzione di calore da parte della corrente elettrica. Gli insuccessi si possono spiegare con la scarsa chiarezza dei concetti d'intensità di corrente e di resistenza elettrica e la conseguente mancanza di ben definite unità di misura. L'ignoranza della legge di Ohm, poi, portava gli sperimentatori a inserire nel circuito successivamente fili di resistenza diversa, credendo di variare così solo la resistenza e non l'intensità di corrente. Queste ragioni spiegano l'insuccesso di alcune ricerche, come quelle di Guglielmo Harris (179I-r867) , che oggi potrebbero ritenersi sufficienti a raggiungere lo scopo. Nel 1841 Joule iniziò il lavoro sperimentale sul calore prodotto dalla corrente. Egli ebbe la felice idea di tarare preventivamente la sua bussola delle tangenti inse­ rendola in un circuito comprendente un voltametro, come aveva insegnato Faraday (§ 12). Il dispositivo di riscaldamento era costituito dal conduttore in esame avvolto a spira su un sottile tubo di vetro, immerso in un recipiente di vetro contenente una determinata quantità d'acqua e un sensibile termometro. In tre successivi esperimenti in ciascuno dei quali erano disposti in serie due resistenze, immerse in due calorimetri eguali, Joule ottenne, che, per la stessa intensità di corrente, le quantità di calore prodotto erano proporzionali alle rispettive resistenz� dei conduttori. Questo primo risultato lo condusse a formulare un'ipotesi sull'effetto dell'intensità di corrente, attraverso il seguente non molto chiaro ragionamento : Considerando la suddetta legge, pensai che l 'ef}etto prodotto dall'aumento dell'inten­ sità di corrente elettrica dovesse variare come il quadrato dell'intensità di corrente; perchè è evidente che in questo caso la resistenza deve variare in un doppio rapporto, prove­ nendo dall'aumento della quantità di elettricità passata in un dato tempo e anche dal­ l' aumento di velocità della stessa (The scientific Papers of J ames Prescott Joule, I, London r884, p. 64) . Probabilmente Joule vuole dire che il calore prodotto dalla corrente è dovuto agli urti delle particelle del fluido elettrico contro le particelle del conduttore. Ora, se aumenta l'intensità della corrente, aumenta la velocità delle particelle di fluido elettrico e perciò gli urti saranno più vigorosi e saranno più numerosi per l'aumentata quantità di fluido elettrico che passa, in un dato tempo, attraverso una sezione del conduttore. Comunque sia, Joule sottopose al controllo sperimentale la sua ipotesi e trovò che la quantità di calore misurata dal calorimetro in cui era immersa la spira di rame 277

differiva così poco dalla calcolata, da poter senz'altro ritenere la legge pienamente verificata, almeno nei conduttori metallici. Assai più originali di questi furono gli esperimenti istituiti da Joule per verificare la validità della legge nei conduttori elettrolitici e per correnti indotte. Le ricerche si conclusero in una memoria del r843 , che abbiamo già ricordata (Cap. IX, § 8) , col risultato che, in ogni caso, per qualunque conduttore, per qual si voglia corrente, il calore prodot­ to è proporzionale alla resistenza del conduttore e al quadrato dell'intensità di corrente. Naturalmente numerosi scienziati rifecero gli esperimenti di J oule e li variarono, confermandone i risultati e traendone le prime conseguenze. Tra queste ci limitiamo a ricordare quella tratta da Lenz nel r844 e, indipendentemente, da Domenico Botto ( r7gr-r86s) , professore di fisica a Torino, nel r845 : essi stabilirono che la massima quantità di calore che un generatore qualunque può fornire al circuito esterno si ha quando la resistenza di questo è eguale a quella interna del generatore. Fu in questa occasione che Lenz iniziò lo studio non facile sulla temperatura che assume un dato conduttore in funzione della corrente che lo attraversa e del mezzo in cui si trova.

L'OPERA DI MICHELE FARADAY 1 1.

L'induzione elettromagnetica.

Che tutti i fenomeni fisici siano manifestazioni diverse di un ente unico, ossia, per dirla con una fortunata frase di Angelo Secchi (r8r8-r87g) , < d'unità delle forze fisiche >>, fu l'essenza filosofica del pensiero fisico del secolo scorso. L'applicazione sistematica di questo concetto si trova costantemente nell'opera di uno dei più acuti fisici sperimen- . tatori di ogni tempo, Michele Faraday (r7gr-r867) . Che relazione c'è tra elettricità e magnetismo ? vi è tra i due enti trasformabilità ? Queste domande s'era rivolto Faraday e aveva istituito esperimenti fin dal r822 e li aveva ripetuti, senza successo, nel r825. I lavori avviati dalla scoperta di Oersted aveva.no dimostrato che una corrente elettrica varia fortemente la magnetizzazione di una calamita; Faraday s'aspettava che anche una calamita dovesse variare l'intensità d'una corrente. Finalmente, nel 1831, egli pervenne alla sua più grande scoperta: l'induzione elettromagnetica. Faraday otteneva l'effetto più vistoso col dispositivo della fig. a pag. seg. : su un anello di ferro si avvol­ gono due eliche distinte, una collegata con una pila, l'altra con un galvanometro. Al­ l'atto della chiusura del primo circuito, si nota una deviazione d'impulso nell'ago del galvanometro ; la deviazione è di senso contrario all'atto dell'apertura. Questo esperi­ mento fondamentale, variato in più modi, lo condusse ad ottenere veramente l'elet­ tricità òal magnetismo col semplicissimo modo oggi ben noto : basta introdurre un magnete in un'elica collegata a un galvanometro per osservare una deflessione dell'ago e una deflessione in senso opposto se si estrae il magnete dall'elica. Fin dal r824 Arago aveva notato che le oscillazioni dell'ago d'una bussola di decli­ nazione, con robusta ossatura di rame, erano fortemente smorzate ; da questa osser­ vazione egli fu condotto al suo noto esperiment o : un ago di declinazione è deviato dalla sua posizione allorchè un disco di rame ruota sopra o sotto di esso. Le teorie

(/-------�

Dispositivo di Faraday per correnti indotte (da Philosophical Transactions, 1 832).

escogitate per spiegare il fenomeno erano talmente artificiose, che per i più l'espe­ rimento di Arago rimase un mistero. Scoperto il fenomeno d'induzione elettroma­ gnetica, Faraday pensò che anche il fenomeno di Arago potesse spiegarsi con la pro­ duzione di correnti indotte nel disco. Per accertarsene Faraday fece ruotare un disco di rame tra le espansioni polari d'una calamita; applicò i capi del circuito di un gal­ vanometro rispettivamente all'asse e all'orlo del disco: mentre questo girava, il gal­ vanometro indicava una corrente di senso costante e d'intensità variabile con la velo­ cità del disco. Insieme col principio fisico, Faraday dava così il primo modello di generatore di corrente elettrica diverso dalla pila; cioè dava il primo avvio alla grande industria elettrica moderna e alle conseguenti svariatissime applicazioni. Ma Faraday non s'interessava delle applicazioni ; l'esperimento gli permetteva invece di scoprire le leggi qualitative del fenomeno d'induzione. Da questo esperi­ mento, infatti, egli deduce la regola che dà il senso della corrente in un conduttore rettilineo che si muova davanti a un polo magnetico. Ed è in questa occasione che Faraday, per la prima volta, parla di >. Per curve magnetiche, egli dice, io intendo le linee di forza magnetiche, comunque modificate dalla giustaposi­ zione dei poli, che possono rendersi palesi mediante la limatura di ferro,· ossia quelle curve alle qu,ali un piccolissimo ago magnetico si disporrebbe tangente (Michael Faraday, Experimental Researches in Electricity, § 1 14. Questa opera contiene i più importanti lavori scientifici di Faraday sull'elettrologia, che egli presentò successivamente, in trenta serie alla Royal Society di Londra dal 24 novembre 1831 al 24 ottobre 185 5 ; e via via pubblicate nelle Philosophical Transactions della Società. L o stesso Faraday le riunì in due volumi: il primo ( 1839) contiene le prime quattordici serie, e il secondo 279

Michele Faraday. Ritratto di T. Phillips.

(1855) le altre. Tutte le serie sono suddivise in §§ in numerazione continua; perciò noi, seguendo l'uso comune, indicheremo i paragrafi) . Gli esperimenti furono variati in più modi, con conduttori filiformi o a dischi, muo­ vendo ora i magneti rispetto ai circuiti elettrici, ora i circuiti rispetto ai magneti o rispetto alla terra. Faraday giunse alla conclusione che la forza elettromotrice indotta è indipendente dalla natura del conduttore ed emise sul fenomeno la seguente teoria, sostanzialmente rimasta immutata dal 183 1 ad oggi : Q�tando una corrente elettrica passa attraverso �tn filo metallico, questo è circondato da ogni parte da curve magnetiche che diminuiscono d'intensità secondo la loro distanza dal filo e che concettualmente possono essere assimilate ad anelli situati in piani per­ pendicolart: al filo, o, meglio alla corrente elettrica che circola in qu,esto. Queste curve, sebbene differenti di forma, sono perfettamente analoghe a quelle esistenti tra due poli magnct1:ci contrari, opposti l'uno all'altro; e quando un secondo filo, parallelo a quello che porta la corrente, si avvicina a quest'ultimo, esso attraversa le curve magnetiche esat­ tamente come taglierebbe le curve magnetiche di d�te poli opposti (lb1:d., § 232). Se non c'è movimento relativo tra indotto e induttore, non si manifesta la cor­ rente, perchè non sono tagliate linee di forza ; quando l 'indotto si allontana. dall'indut280

tore, esso taglia le linee di forza in senso opposto e si ha senso opposto nella corrente. Se indotto e induttore sono fermi, inviando la corrente nell'induttore, avviene come se le curve magnetiche si muovessero dal momento in C'ui esse cominciano a svilupparsi sino a quando la forza magnetica della corrente raggiunge il suo massimo; espandendosi dal filo all'esterno e conseguentenzente trovandosi nella stessa 1·elazione, rispetto al filo indotto fisso, come se questo fosse mosso in direzione opposta attraverso ad esse ossia 'Oerso il filo che porta la corrente (Ibid., § 238) . Poche parole, grandi concetti : la prima descrizione di un campo elettromagnetico, convenzionale rappresentazione dell'inten­ sità del campo col numero di curve magnetiche, propagazione in tempo della pertur­ bazione elettromagnetica. MoJti fisici si misero all'opera sulla nuova via aperta da Faraday. Giuseppe Henry (r7gg-r878) , che gli americani pretendono abbia preceduto Faraday nella scoperta del fenomeno d'induzione, scoprì il fenomeno di auto-induzione, che indipendente­ mente riscoprì nel r833 Salvatore Dal Negro (r768-1839) e l'anno successivo Guglielmo Jenkin e, nello stesso tempo, Antonio Masson (r8o6-r858) . Specialmente importanti furono gli studi di Henry del 1838 sulle correnti d'ordine superiore, cioè sulle correnti indotte prodotte da altre correnti indotte, fenomeno che Marianini aveva messo in evidenza sperimentale l'anno prima. Il fenomeno non era affatto a priori ovvio, come oggi potrebbe sembrare. Gli studi sulle correnti d'ordine superiore condussero Henry nel r842 a dimostrare che la scarica della bottiglia di Leida non consiste in un unico passaggio di elettricità da un'armatura all'altra, ma in una serie di rapide oscillazioni elettriche smorzate : alla stessa conclusione giunse Helmholtz nel r847 nella memoria Ober die Erhaltung der Kraft, che abbiamo già ricordato (Cap. IX, § g). Nel r834 Emilio Lenz (r804-r865) osservò che le regole pratiche di Faraday e di Nobili per determinare il senso delle correnti indotte contemplavano troppi casi diversi, mentre, 'tenendo presente la legge elettrodinamica di Ampère, esse potevano essere facilmente ridotte a una sola, applicabile a tutti i casi. Formulò pertanto la legge che, sotto il suo nome, è ancor oggi ben nota. Francesco Neumann (r7g8-r8g5) pose a base della sua teoria sull'induzione, esposta in due poderose memorie rispettivamente del r845 e del r847, la legge di Lenz, l'appli­ cabilità della legge di Ohm anche alle correnti indotte e un principio nuovo che gli era proprio, e cioè: l'induzione che si produce in un tempo determinato e brevissimo è proporzionale alla velocità con la quale si muove il conduttore. A un problema posto da Ampère, Gauss aveva dato una risposta che non pubblicò : l'azione tra due cariche elettriche non dipende soltanto dalla loro distanza, m a anche dalla velocità relativa di una rispetto all'altra. La legge di Coulomb è valida soltanto per due cariche in riposo. Guglielmo Weber riprese nel r846 l'idea del suo maestro e dette la formula che deve sostituire quella di Coulomb per due cariche elettriche in movimento. Da questa formula si ricava che l'azione tra due elementi di corrente obbedisce alla legge elementare di Ampère e se ne deduce la teoria completa dell'indu­ zione, in tutto conforme alla teoria di Neumann. Più originale apparve la teoria di Helmholtz, contenuta nel pii1 volte citato O ber die Erha.ltung der Kraft (r 847) , ampliata poi da Thomson. Helmholtz dimostra che l'induzione delle correnti elettriche può dedursi matematicamente dai fenomeni elet281

tromagnetici di Oersted ed elettrodinamici di Ampère, pur di ammettere il principio di conservazione dell'energia. Ma le leggi di Neumann, di Weber, di Helmholtz, i lavori analoghi di Abria e di Henry sembravano contenere ipotesi di natura teorica non pienamente fondate sul­ l'esperienza, onde scoprire le leggi dell'induzione elettromagnetica fidandosi fu lo scopo dichiarato di un'accurata indagine teorico-sperimentale di Riccardo Felici (r8rg-rgoz), condotta con costanza dal r 851 al 1856, e i cui risultati furono esposti, dopo averne via via data notizia durante il corso dei lavori, in una grande memoria dal titolo s�tlla teoria matematica dell'induzione elettrodinamica, apparsa nel 1854 e 1857 · Vi sono teorizzati i fenomeni d'induzione osservati nei casi d'interruzione del circuito primario, di moto relativo dei circuiti indotto e induttore, di moto dell'indotto in un campo magnetico, di moto relativo di due parti dello stesso circuito indotto. La teoria di Felici fu oggetto di vive discussioni durate per tutto il secolo X I X , ma alla fine si concluse, specialmente per opera dell'intervento chiari­ ficatore di Maxwell, che essa è equivalente alle teorie di Neumann e di Weber, più di queste, fondata sull'esperienza. 12.

Elettrolisi.

All'elettricità prodotta dallo strofinio, dalle pile idroelettriche, dalle pile termoelet­ triche si aggiungeva l'elettricità prodotta dall 'induzione elettromagnetica. A Faraday parve perciò necessario intervenire nella polemica tuttora aperta, sebbene meno viva che al principio del secolo, sull'eguale natura dell'elettricità, comunque prodotta, e abbiamo accennato (§ r) come egli chiudesse definitivamente la polemica dimo­ strando sperimentalmente l'identità di tutte le forme di elettricità. Dimostrata l'identità, gli sembrò necessario stabilire una comune unità di misura. A questo scopo egli, dando il primo esempio di uso balistico del galvanometro, dimostrò che una batteria di bottiglie di Leida, caricate in un determinato modo, e una certa pila impiegata per un certo tempo, producevano eguali effetti sull'ago del galvano­ metro ed eguali effetti chimici, onde indusse subito la legge fondamentale : il potere chimico, come la forza magnetica, è in proporzione diretta della quantità assoluta di elet­ tricità che passa (Ibid. , § 377). Nel corso di questi studi, eseguiti nel primo trimestre del r 833, Faraday scoprì la decomposizione chimica « a secco >>. Egli aveva osservato che un pezzetto di ghiaccio introdotto nel circuito di una pila ne interrompe la corrente, che si ripristina fusione del ghiaccio. Per accertarsi se il fenomeno era peculiare del sperimentò successivamente con cloruro di piombo, con cloruro d'argento, ruro di potassa, solidi e non conduttori a temperatura ordinaria, e verific corpi fusi conducono la corrente e ne sono decomposti. Sottoposti gran numero di corpi composti, Faraday giunse alla conclusione di questi corpi è legata alla decomposizione chimica, fugando tutti gli sperimentatori dell'epoca, i quali credevano che la acqua fosse necessaria per la decomposizione elettrochimica e quindi per one della pila. z 8z

Confermò il risultato sperimentale costruendo pile con liquidi non acquosi, come clorato di potassa, cloruri e ioduri vari, ecc. A questo punto egli affrontò la teoria della dissociazione elettrochimica. Per le ragioni che tuttora si ripetono dai trattatisti, egli rigetta il concetto che siano le forze del campo elettrico a provocare la scissione delle molecole ed espone una propria teoria molto simile a quella di Grotthus (§ 2) , ma più artificiosa. Notevole in questa ricerca è la sua definizione di corrente: flusso in senso contrario di due elettricità o moto in senso unico di un solo fluido ? Faraday, dando una brusca sterzata alla filo­ sofia scientifica del tempo, rigetta ogni concezione fluidistica e definisce la corrente �m asse di potenza costituito da forze esattamente eguali d'intensità e di direzioni opposte (Ibid. , § 517). E così il più grande fisico sperimentatore del secolo scorso spoglia il concetto di corrente della possibilità di rappresentazione mediante un modello mec­ canico, e ne fa un ente puramente matematico. Fondamentale sui fenomeni chimici della corrente è la settima serie di ricerche, presentata da Faraday nel 1834· Si apre con la proposta di una nuova terminologia del fenomeno di decomposizione elettrochimica, consigliatagli, su sua richiesta, dal noto storico della scienza Guglielmo Whewell (1794-r866) . Al termine polo che richia­ mava alla mente il concetto di attrazione, fu sostituito elettrodo, specificato in anodo e catodo. E nella scelta di questi vocaboli non si teneva presente il moto delle parti di molecole, inesistente nella teoria di Faraday, ma il senso che dovrebbero avere le ipotetiche correnti terrestri se il magnetismo della terra fosse ad esse dovuto (§ 4) ; in conseguenza si proponevano i termini anione e catione e genericamente ione; infine, elettrolita per indicare il corpo che subisce la decomposizione chimica, ed elettrolisi per indicare il fenomeno. Montato un circuito con un ramo principale e due derivati, come ancor oggi è descritto dai trattati, e posto in ogni ramo un voltametro, egli mise fuori dubbio che la quantità di elettrolita decomposta è esattamente proporzionale alla quantità di elet­ tricità passata, non astante le mille variazioni di circostanze nelle quali essa si può trovare ( lbid., § 732) , perciò i prodotti della decomposizione possono essere raccolti con tanta acc,uratezza da o(jrire un misuratore dell'elettricità molto prezioso ed eccellente (Ibid.) , al quale misuratore egli impose il nome di volta-elettrometro, contrattasi nell'uso in voltametro : ne descrive cinque tipi diversi e propone la prima unità pratica di quan­ tità di elettricità: quella che decompone la centesima parte di un pollice cubo d'acqua. Sperimentando con voltametri in serie contenenti soluzioni diverse, Faraday s'accorse ancora che la quantità di elettrolita decomposto variava, per una stessa quantità di elettricità, col variare della natura dell'elettrolita e dopo molte prove giunse alla conclusione, non sempre però confermata dai risultati sperimentali, che in termini moderni si esprime dicendo che una stessa quantità di elettricità libera quantità di elementi proporzionali ai loro equivalenti chimici. La fondamentale importanza di questa ricerca di Faraday fu immediatamente riconosciuta dagli scienziati del tempo, come testimonia la smagliante fioritura di studi seguitane. Riguardo alla teoria della conduzione elettrolitica, la teoria di Grotthus, lieve­ mente modificata da Faraday, come abbiamo accennato, e successivamente da Gu-

glielmo Hittorf (r824-I914) , subì una profonda modificazione nel 1 857 per opera di Clausius, il quale tornò sulla questione già discussa da Faraday: non possono essere le forze del campo elettrico a separare i ioni nella molecola, chè, in tal caso, è intuitivo che il processo elettrolitico dovrebbe iniziarsi solamente quando la forza elettromo­ trice applicata agli elettrodi superasse un certo limite, mentre l'esperienza avverte che essa avviene sempre, con qualunque forza elettromotrice. Per superare questa diffi­ coltà, Clausius, appoggiandosi alla teoria cinetica (Cap. IX, § 1 2 ) , ammise che i ioni o una parte di essi non fossero legati permanentemente, ma già scissi e vaganti nelle solu­ zioni. Ma questa teoria, sebbene se ne siano serviti Quincke e Kohlrausch, incontrò scarso credito sino al r887, quando Svante Arrhenius (1859-1927) addusse numerose prove nuove basate sui fenomeni di pressione osmotica e sulla teoria delle soluzioni diluite di van't Hoff. Questi lavori di Arrhenius, seguiti da altri di Ostwald e di Nernst segnano quel riavvicinamento tra fisica e chimica, a cui abbiamo accennato nel § 2, che dalla fine del secolo scorso andò via via diventando più intimo. 13.

Pile costanti.

Le vostre scoperte elettrochimiche rappresentano per la chimica una delle più grandi rivoluzioni e aprono un' èra di fresco impulso ( The Philosophical Transactions of the Royal Society of London, 126, 1836, p. 107), scriveva Daniell a Faraday nel gennaio 1836, comunicandogli che aveva fatto oggetto del suo corso universitario le scoperte elettrochimiche di Faraday. Nel corso della preparazione delle sue lezioni, Daniell s'accorse che sul piatto di rame di una pila, rimasta in circuito per qualche tempo, rimanevano aderenti bolle d'idrogeno. Questa osservazione gli fece balenare l'idea che proprio questo deposito d'idrogeno sulla lastra di rame fosse la causa della dimi­ nuzione di attività col tempo della pila. Una conferma si poteva ottenere impedendo all'idrogeno di depositarsi sul rame, impegnandolo prima in una reazione chimica: così nacque, dopo qualche tentativo, concettualmente perfetto in ogni parte, il pro­ totipo delle pile con depolarizzante, descritto .da ogni trattato di fisica; Daniell lo chiamò pila costante. Dopo e a somiglianza della pila di Daniell si costruirono centinaia di pile costanti diverse. Ne ricorderemo, rinviando per la descrizione ai trattati di fisica, la pila di Grove del 1839, quella di Bunsen del 1841, quella di Leclanché del 1 867, quella di Clark del 1878, adottata come campione internazionale di forza elettromotrice, alla quale Rayleigh dette nel 1884 la forma ad H, quella di Sigfrido Czapski ( 1861-1907) del r884, riproposta e costruita da Weston nel 1 893 e che sostituì la Clark come pila campiOne. 1 4. Teoria del potenziale.

Gli storici fanno risalire a Lagrange il merito di avere introdotto ( 1777) per primo nei problemi meccanici la considerazione della funzione che da Green in poi si chiama potenziale. Ma il merito in verità spetta ad Euler che, fin dal 1765, nella sua Theoria motus corpontm rigidorum ne aveva parlato, sia pure in forma un po' embrionale,

dando nel 1767 la cosiddetta eq�tazwne di Laplace, ritrovata dal matematico fran­ cese nel 1796. In una storica memoria del I8II Poisson estese la teoria del potenziale anche ai fenomeni d'elettrostatica, enunciando, fra altri, l'importante teorema che l'intensità del campo in un punto contiguo alla superficie di un conduttore è proporzionale alla densità elettrica del conduttore in quel punto. Da questo teorema egli deduce facil­ mente che la pressione elettrostatica o , come si chiamava nel secolo scorso, è proporzionale al quadrato della densità o dell'atmo­ sfera elettrica, come diceva Poisson (Cap. VII, § 1 4). Da questa trattazione Poisson passa a studiare la distribuzione dell'elettricità alla superficie dei conduttori e ottiene risultati concordanti con le determinazioni sperimenta1i di Coulomb (Cap. VII, § 18) . In due memorie lette nel 1824 Poisson estese la teoria del potenziale anche al magnetismo. Egli pone a base della trattazione la concezione di Coulomb, che aveva sostituito quella di Aepino sulla costituzione dei magneti. Secondo Aepino esistono nei magneti due fluidi magnetici, in eguale quantità, separati e ciascuno confinato a un'estremità del corpo calamitato. Secondo Coulomb, invece, i due fluidi magnetici sono confinati in ciascuna del corpo, dalla quale non possono uscire, ma solamente separarsi e portarsi alle sue estremità. Sicchè ogni magnete risulta costi­ tuito da un ammasso di magnetini elementari, opportunamente orientati. Poisson ripiglia questa ipotesi e su essa fonda una teoria matematica che, pur se in più punti criticata, fu d'importanza fondamentale, perchè i risultati ottenuti rimangono validi anche se si cambia l'ipotesi fondamentale, come dimostrò Thomson nel I8S I . N è minore poi è l'importanza storica della teoria di Poisson, che ispirò diretta­ mente la teoria sui dielettrici (§ 15). Tra i molti risultati della teoria di Poisson, ci preme ora ricordare il seguente : in una sfera cava, di spessore costante di materiale magnetico, sotto certe condizioni restrittive, i punti della cavità non risentono le azioni di masse magnetiche esterne, mentre i punti esterni non risentono l'azione di masse magnetiche interne. Insomma Poisson scoprì teoricamente gli schermi magnetici, già sperimentalmente noti fin dai tempi di Giovan Battista Porta (Cap. I II, § 15) . Questo risultato consigliò Poisson a riprendere in esame il comportamento di una sfera conduttrice cava in un campo elettrico. Provò così che anche questa sfera gode della precedente proprietà schermante, ma con una differenza: mentre l'effetto scher­ mante per il caso del magnetismo dipende dallo spessore delle pareti dell'involucro, per il caso dell'elettricità ne è indipendente. L'opera di Poisson fu ripresa e sviluppata da un singolare matematico inglese, Giorgio Green (I793-184I) , fornaio e poi mugnaio sino a 40 anni, che nel 1828 pubblicò il suo primo e fondamentale lavoro : A n Essay on the A pplication of mathematical A nalysis in the theories of Electricity and Magnetism (Saggio sull'applicazione dell'ana­ lisi matematica alle teorie dell'elettricità e del magnetismo) . Caratteristica del saggio è che vi è protagonista la funzione matematica che Green chiama , con espressione rimasta nella scienza, e definisce : la somma di tutte le particelle elettriche agenti su un dato punto divise per le loro rispettive distanze da questo punto. La linea di sviluppo della teoria è imperniata sulla ricerca di alcune relazioni tra il potenziale e la densità elettrica delle masse che lo producono e giunge a fondamentali

teoremi che i trattatisti di fisica matematica tuttora registrano. Noi ci limitiamo a ricordare che, considerato un involucro perfettamente conduttore e chiamato sistema interno l'insieme di tutti i corpi interni all'involucro e la superficie interna, e sistema esterno l'insieme di tutti i corpi esterni e della superficie esterna, Green enuncia il seguente testuale teorema: tutti i fenomeni elettrici del sistema interno, relativi alle attrazioni, rep�tlsioni e densità saranno gli stessi come se il sistema esterno non esistesse e la s�tperfìcie interna fosse un conduttore perfetto posto in comunicazione con la terra,· e tutti i fenomeni del sistema esterno saranno gli stessi come se l'interno non esistesse e la superficie esterna fosse un perfetto conduttore contenente una q�tantità di elettricità eguale alla somma di q�telle orig1:nariamente contenute nell'involucro e in tutti i corpi interni (George Green, A n Essay, ecc . , cit. , in ]ournal fur die reine und angewandte Mathematik, di Crelle, 47, 1854, p. 167) . Come si vede, sarebbe giusto attribuire a Green e non a Faraday il teorema del­ l'induzione completa. Che Faraday non conoscesse l' Essay di Green è certo, perchè il lavoro di Green passò completamente inosservato; non pubblicato in un periodico scientifico e di autore ignoto, soltanto nel r8so Thomson richiamò l'attenzione sul­ l'importanza dell'opera e la ripubblicò a puntate sul giornale di matematica di Crelle che abbiamo citato; senza dire, poi, che . Faraday non era in grado di leggere memorie di carattere matematico. 15.

Polarizzazione dielettrica.

L'azione tra due corpi è a distanza oppure avviene con l'interposizione del mezzo ? Questo problema s'era presentato alla mente dei fisici e dei filosofi fin dall'epoca di Newton. Questi, come abbiamo visto (Cap. VI, § g) , praticamente s'era lavato le mani, pur non credendo alle azioni a distanza; i fisici matematici propendevano per l'azione a distanza, non soltanto, come si dice, perchè Newton operò > l'azione fosse a distanza, quanto perchè, in mancanza di teorie soddisfacenti, essa si presentava come il modello più semplice per la trattazione matematica delle questioni. I feno­ meni elettrici e magnetici avevano riproposto l'annosa questione. All'azione a distanza avevano creduto Aepino, Cavendish, Coulomb, Poisson. Faraday affrontò la questione nel 1837, pensando che il problema potesse essere risolto per via sperimentale. Difatti, pensava Faraday, l'azione a distanza si deve esplicare solamente per linea retta, mentre l'azione mediata si deve poter esplicare anche per linea curva; inoltre se il mezzo non interviene nel meccanismo di propa­ gazione dell'azione elettrica, la natura della sostanza interposta non dovrebbe influire sul fenomeno; e l'opposto dovrebbe succedere se l'azione è mediata. Guidato da questi concetti, egli eseguì numerosi e ingegnosi esperimenti, dai quali risultò che l'influenza elettrostatica si manifesta anche per linee curve e che il mezzo interposto influisce fortemente sul fenomeno. Nel corso di questo studio Faraday fece la celebre esperienza del casotto di legno isolato, circondato da rete metallica come una gabbia, entro il quale non era possibile ottenere il più piccolo segno di stato elettrico, anche quando le pareti erano forte­ mente elettrizzate, e l'analogo esperimento del >, che da lui prese il nome, 286

ripetizione più accurata e completa dell'esperimento del di Beccaria (Cap. VII, § r 8) . Questi esperimenti di Faraday confermavano ciò che gli osservatori del secolo precedente avevano osservato e la fisica matematica recente aveva dimo­ strato, come abbiamo accennato nel paragrafo precedente. Sperimentando coi ben noti condensatori sferici di eguali dimensioni e diverso isolante interposto, egli mise fuori dubbio l'esistenza di un potere induttore spe­ cifico (la terminologia gli appartiene) , sviluppando così gli studi che erano stati ini­ ziati da Beccaria un settantennio prima (Cap. VII, § rs) . In seguito a questi esperimenti Faraday formulò la caratteristica teoria della pola­ rizzazione dielettrica. Come spiegare l'influenza del dielettrico nel fenomeno di con­ densazione ? Avogadro nel r8o6 aveva ammessa la polarizzazione delle molecole di un corpo non conduttore sotto l'influenza di un conduttore carico. Ma Faraday, che forse non conosceva il lavoro di Avogadro, si fece evidentemente guidare da due analogie : la teoria di Poisson sul magnetismo (§ 14) e la teoria delle azioni elettro­ litiche di Grotthus (§ 2). Egli fu colpito dalla somiglianza di un voltametro con un condensatore : se alle due facce di un pezzetto di ghiaccio si applicano due con­ duttori carichi, si ottiene un condensatore ; se si fonde il ghiaccio in acqua, si ottiene (§ 1 2) un voltametro, nel quale, secondo l'ipotesi di Grotthus, le molecole polarizzate sono orientate nel senso della corrente. Ora, secondo Faraday, la polarizzazione deve preesistere anche nelle molecole di ghiaccio ; lo stato liquido consente soltanto la migra­ zione dei ioni. Sicchè, conclude Faraday, l'induzione elettrostatica ordinaria, è una . Le particelle di un corpo, isolante o conduttore, sono conduttori perfetti, che nello stato normale non sono polarizzati, ma lo possono diventare sotto l'influenza di particelle elettrizzate poste nelle loro vicinanze. Un corpo carico, posto in un ambiente isolante, ne polarizza le particelle da strato a strato. La teoria del magnetismo di Coulomb e Poisson è così trasportata di peso nella teoria dei dielettrici. A un concorso bandito dalla Società italiana di scienze per una teoria matematica dell'induzione elettrostatica secondo le idee di Faraday, Ottaviano Fabrizio Mossotti (1791-1863), uno dei maggiori fisici matematici del secolo scorso, i cui scritti furono recentemente raccolti in due volumi (Pisa 1942-51 ) , rispose con una storica memoria: Discussione analitica s�tll'influenza che l'azione di un mezzo dielettrico ha sulla distri­ b�tzione dell'elettricità alla s�tperficie di più corpi elettrici disseminati in esso (Modena r8so ; ma della memoria furono tirati estratti con la data 1846 e un riassunto di essa apparve nel 1847 su Archives des sciences physiques et naturelles, VI, 1847, pp. 193-98, di Ginevra). Mossotti suppone un dielettrico costituito da un ammasso di particelle conduttive annegate in un ambiente isolante e applica al sistema la teoria di Poisson sul magnetismo ; i risultati sono quindi utilizzati per lo studio della distribuzione dell'elettricità alla superficie di più conduttori immersi in un dielettrico. La teoria di Mossotti fu poi, nel r867, utilizzata ed estesa da Clausius nella sua teoria mecca­ nica del calore ; vedremo (§ zo) come la utilizzò Maxwell. Aggiungeremo ancora che all'origine delle teorie moderne sui dielettrici è un'altra memoria famosa di Mossotti, pubblicata a Torino nel 1 836, nella quale, partendo dalla teoria di Aepino (Cap. VII, § r8) , si giunge a una nuova teoria delle forze molecolari e se ne dà lo sviluppo analitico. '

16. Magneto -ottica.

Più volte Faraday s'era chiesto se e quale connessione esistesse tra elettricità e luce, tra magnetismo e luce. Altri fisici s'erano proposto il problema, che rientrava nella tendenza del tempo alle teorie unificatrici. Già Domenico Morichini (1773-1836) nel r8rz e Hunter Christie nel r8z6 avevano erroneamente creduto di avere ottenuto la magnetizzazione per effetto della luce. Ma Faraday non si convinse delle esperienze di Morichini, che gliele ripetè a Roma nel 1814 durante il suo viaggio in Italia come accompagnatore di Davy ; si lasciò invece influenzare dalle considerazioni di Giovanni Herschel, il quale trovava nella deviazione di un ago magnetico per effetto della cor­ rente una simmetria elicoidale analoga alla rotazione del piano di polarizzazione di un raggio di luce, che ha attraversato certi corpi. Ma gli esperimenti istituiti da Faraday nel r 834, ripetuti nel r 838, con l'intento di scoprire un'azione del campo elettrico sulla luce, avevano dato risultato completamente negativo. Abbandonati questi tentativi elettro-ottici, nel 1845 Faraday istituì esperimenti di magneto-ottica e dopo i primi insuccessi, che non lo scoraggiarono, ottenne un fenomeno nuovo : un parallelepipedo di vetro pesante era appoggiato sulle espansioni polari di un'elettro­ calamita ed attraversato da un raggio di luce polarizzata, parallela alle linee di forza del campo: quando l'elettrocalamita era eccitata, il piano di polarizzazione della luce era ruotato. La scoperta fu annunciata da Faraday nel novembre r845 in una memoria (la diciassettesima delle Experùnental Researches) dal titolo A1agnetization of Light, and the illumination of the Lines of Magnetic Force (Magnetizzazione della luce e illumina­ zione delle linee di forza magnetica) . Ma prima che la memoria fosse pubblicata, il titolo fu criticato da molti, che ne erano venuti a conoscenza, specialmente per l 'espres­ sione ed > possiamo predire le condizioni del campo nell'immediata vicinanza e nell'istante appena trascorso. È una concezione del campo che si accorda perfettamente col pensiero di Faraday, ma è irriducibilmente in contrasto con due secoli di storia. Nessuna meraviglia, quindi, che sta avversata. Le critiche sollevate contro le teorie elettriche di Maxwell furono rose, rivolte sia ai concetti fondamentali posti a base della trattazione, più, al modo disinvolto da Maxwell seguito per giungere alle va via via modellando la sua teoria >, come disse felice espressione, rimasta per indicare le forzature logiche che si permettono per formulare le loro teorie. Quando, nello s · è serrato in un'evidente contraddizione, egli non esita a su 300

tanti licenze : come fare sparire dal calcolo un termine, cambiare un incomodo segno algebrico, trasformare il significato d'una lettera. A chi ammirava l'impeccabile svi­ luppo logico dell'elettrodinamica di Ampère, la teoria di Maxwell dava un senso di malessere. I fisici non riuscivano a rimetterla in sesto, cioè a liberarla dalle illogicità e dalle incoerenze ; nè, d'altra parte, potevano rinunciare a una teoria che, come diremo nel prossimo paragrafo, collegava in un modo felice l'ottica e l'elettricità. Sicchè, verso la fine del secolo, i maggiori fisici aderirono alla tesi enunciata nel 1890 da Hertz: poichè i ragionamenti e i calcoli che conducono all'elettromagnetismo di Maxwell sono affetti da errori che non sappiamo correggere, prendiamo le sei equazioni di Maxwell come ipotesi fondamentali, come postulati sui quali faremo poggiare l'intero edificio delle teorie elettriche ; e della >, Guglielmo Marconi (r874-1937) riusciva, sulla fine del r895, nei primi esperimenti pratici di radiotelegrafia, le cui rapide evo­ luzioni e i mirabili risultati hanno del miracoloso.

- CAPITOLO XI.

L'ELETTRONE 1.

I raggi catodici.

Un eterodosso, un libero ricercatore che nel suo laboratorio privato di Londra studiava problemi di chimica e di fisica, di scienze naturali e di spiritismo, può essere considerato il precursore immediato di quella fisica subatomica che nasce alla fine del secolo XIX e domina la ricerca scientifica del nostro secolo : Guglielmo Crookes (1832-I9I9) , scopritore del tallio nel r86 r , costruttore del > che porta il suo nome nel 1875 e dello > nel 1903 ; creato baronetto per i suoi meriti scientifici nel 1897. L'indagine verteva sul passaggio dell'elettricità attraverso i gas rarefatti : espe:­ rienze difficilissime da eseguire per l'ancora rudimentale tecnica del vuoto, più difficili da interpretare, e che soprattutto sembravano senza avvemre.

Guglielmo Crookes.

20.

-

Storia delle Scienze, I I .

In verità, lo studio della scarica nei gas era stato iniziato fin dal 1706 da un altro inglese, Francesco Hauksbee, ma aveva potuto fare progressi sostanziali soltanto dopo l'introduzione delle pompe a vuoto di mercurio (Geissler, r855) , che consentivano di ottenere vuoti molto spinti. Dopo l'introduzione di questo tipo di pompe, gli studi sperimentali sulla scarica furono ripresi e approfonditi da G. Pliicker ( r8or-r868) , da Guglielmo Hittorf (r844-19I4) , che studiarono specialmente la fluorescenza prodotta

A sinistra: i raggi molecolari proiettati dal catodo emisferico a si concentrano nel centro del­ l'emisfero dove è posto un filo di platino b che, iniziata la scarica, si porta all'incandescenza. A destra: Il radiometro usato nel 1879 da Crookes per dimostrare l 'effetto meccanico dei raggi . catodtci. P è collegato al polo positivo, N al negativo: quando la pressione nel recipiente è inferiore a mezzo mm. di mercurio, il mulinello si pone in rotazione (da Proceedings of the Royal Institution of Great Britain, 1 879). ·

Crookes dimostra la propagazione rettilinea dei rag­ gi catodici : pro­ iettati dal catodo a, sono arrestati dalla croce di al­ luminio b e sul vetro del tubo si forma l ' ombra della croce.

I raggi molecolari di Crookes s'incurvano in un campo magnetico. I l fascio è limitato dalla lamina di mica b d che ha una stretta fessura e : i raggi che ne escono producono la fluorescenza lungo e f sull'apposito schermo; avvicinando al tubo la calamita, il fascio s'incurva e produce la fluo­ rescenza in g (da Proceedings of the Royal Institution of Great Britain, 1879) .

sul vetro del tubo in cui avviene la scarica e che nel 1871 C. Varley ( r828-r883) spiegò come dovuta all'urto contro le pareti di agenti che partivano dal catodo. Nel 1876 Eugenio Goldstein ( r8so-1930) scoprì la prima caratteristica di questi nuovi agenti, che egli chiamò, credendoli della stessa natura della luce, raggi catodici : mentre la luce è emessa dai corpi luminosi in tutte le direzioni, i raggi catodici sono emessi soltanto in direzione normale alla superficie del catodo. Crookes riprese lo studio spingendo più oltre la rarefazione dell'interno dei tubi, da lui foggiati in fm me diversissime ; vi introdusse un radiometro e lo vide ruotare quando si trovava sul cammino di un fascio catodico (v. fig. a pag. prec.) : concluse che i raggi catodici avevano azione meccanica; vi introdusse una croce di Malta in metallo e vide che si formava l'ombra sul vetro fluorescente (v. fig. sopra) : concluse che i raggi catodici nell'interno del tubo si propagavano in linea retta; avvicinò una calamita (v. fig. sopra) a un fascio di raggi catodici limitati da una fessura e vide che la macchia fluorescente sul vetro si spostava: concluse che i raggi catodici sono incur­ vati dal campo magnetico.

Ma che cosa sono questi raggi catodici ? sono, rispose Crookes, , quarto stato della materia o stato ultragassoso dei gradi di libertà delle molecole e ne trova la giustificazione negli scambi per quanti dell'energia. In base a questi concetti, Einstein, con facile calcolo, dette la formula di varia­ zione del calore atomico. Nella formula di Einstein il calore atomico tende a zero col tendere allo zero assoluto della temperatura e tende al valore 6 calorie per grado centigrado col crescere della temperatura. Il valore 6 della costante di Dulong e Petit è pertanto un valore asintotico a cui tendono i calori atomici di tutti gli elementi. In un certo senso l'interpretazione einsteiniana generalizzava la regola di Dulong e Petit, a cui soggiacerebbero tutti gli elementi, senza eccezioni, ma a temperature variabili da elemento ad elemento. W. Nernst e la sua scuola si assunsero il non lieve compito della verifica speri­ mentale della formula di Einstein e vi lavorarono parecchi anni, giungendo (I9I I} alla conclusione che la legge di Einstein era qualitativamente verificata per tutti gli elementi (argento, zinco, rame, alluminio, mercurio, iodio . . .) sottoposti all'espe373

rienza, compreso il piombo, per il quale si ritenevano ancora validi i risultati spe­ rimentali ottenuti (1905) da Dewar di un calore atomico costante anche alle basse temperature. Nernst aveva un particolare interesse alla teoria d'Einstein. Infatti, fin dal 1905 egli aveva stabilito che se si accetta la teoria dei quanti, la costante indeterminata dell'ordinaria definizione termodinamica dell'entropia è eguale a zero allo zero asso­ luto. Una conseguenza di questo teorema, ormai noto sotto il nome di terzo principio della termodinamica, è proprio relativa al calore specifico dei solidi alle basse ·tem­ perature, perchè si dimostra facilmente che se il teorema di Nernst è vero il calore specifico allo zero assoluto è zero. La verifica della formula d'Einstein rendeva più probabile (ma non dimostrava, come osservò, contro Nernst, lo stesso Einstein) anche il terzo principio della termodinamica, che, d'altra parte, riceveva numerose conferme da molti altri fenomeni. Al principio di Nernst si suole oggi dare un enunciato più suggestivo, conseguenza immediata dell'enunciato generale surricordato : con nessun mezzo sperimentale è raggiungibile lo zero assoluto. Anzi, l'esperienza indicava che, per dirla con le parole di Nernst, conformemente ai risultati della teoria dei quanti, esiste per ogni corpo solido, nelle vicinanze dello zero assoluto, un intervallo di tempera­ t�tra nel quale la nozione di temperatura praticamente sparisce ; ossia, in termini più semplici, in quell'intervallo di temperatura tutte le proprietà del corpo (volume, dilatazione termica, compressibilità, . . . ) sono indipendenti dalla temperatura. Questo campo che potremmo dire d'insensibilità termica è variamente esteso per i vari corpi; per il diamante, secondo Nernst, si estende nientemeno che da zero a 40 gradi assoluti. Ma, secondo le verifiche sperimentali di Nernst, la formula di Einstein non con­ cordava quantitativamente coi risultati sperimentali. Per esempio, per il rame a 22,5 assoluti la formula di Einstein dava il valore 0,023 per il calore atomico, mentre l'esperienza forniva il valore 0,223. In base a questi rilievi Nernst e Lindemann modi­ ficarono empiricamente la formula di Einstein, dandone un'altra che si adattava molto meglio alla realtà sperimentale. Era convinzione dei non molti cultori di fisica quantica del tempo che anche la sola concordanza qualitativa della formula di Einstein con l'esperienza era indizio dell'attendibilità sostanziale della teoria, che andava modificata in qualche parti­ colare. Einstein stesso, d'altra parte, aveva indicato come troppo semplificativa l 'ipotesi degli atomi considerati come punti materiali. Debye, Born, von Karman avvalorarono in seguito la teoria di Einstein, indicarono le ragioni del divario quan­ titativo con l'esperienza, e la estesero al calore specifico dei gas, ottenendo un buon accordo con l'esperienza. 1 2.

I fenomeni alle basse temperature.

La teoria d' Einstein richiamava l'attenzione sulle profonde modificazioni che può subire la materia alle basse temperature e dava nuovo impulso alle ricerche spe­ rimentali e teoriche dei laboratori particolarmente attrezzati per la produzione di temperature basse e bassissime. Vi si dedicarono N ernst, Lindemann, Grtineisen e altri; in particolare Kamerlingh Onnes (r853-1926) , il fondatore del famoso labo3 74

ratorio criogeno di Leida, per la prima volta nel 1908 liquefece l'elio, che Keesom, suo successore nella direzione del laboratorio, riuscì nel 1926 a solidificare. Questi ed altri fisici studiarono il comportamento dei corpi alle basse temperature nei con­ fronti di molti fenomeni, come la dilatazione termica, la compressione, la conduci­ bilità calorifica, la tensione di vapore, la termoelettricità, il comportamento magne­ tico, scoprendo un mondo fenomenico diverso dall'usuale, che i trattati speciali, ai quali rimandiamo, descrivono. Ma su un fenomeno almeno è necessario dire qualche parola : sulla conducibilità elettrica alle basse temperature. Dopo anni di lavoro, Onnes scoprì con sorpresa che in vicinanza della temperatura dell'elio liquido (cioè, sotto 4,5 gradi assoluti) la resistenza elettrica di un filo di pla­ tino diventa indipendente dalla temperatura ; anzi, a temperature molto vicine allo zero assoluto, la resistenza elettrica di alcuni metalli (mercurio, piombo, stagno, tallio, indio) allo stato purissimo improvvisamente sparisce. Per esempio, in una spira di piombo, a temperatura inferiore a 7,20 gradi assoluti, una corrente indotta, ottenuta spostando un magnete dal suo centro, continua a fluire nella spira per moltissimo tempo, senza apprezzabile diminuzione. Questo comportamento, inspiegabile nella teoria elettronica di Lorentz, nella quale la resistenza elettrica si attribuisce all'urto degli elettroni in movimento contro gli atomi, è spiegabile, secondo Onnes, nella teoria dei quanti. Basta ammettere che gli ostacoli al movimento degli elettroni nei metalli puri provengano, non dai loro urti contro gli atomi, ma dall'agitazione degli oscilla­ tori di Planck. Ponendosi da questo punto di vista, Onnes elaborò (r9ro) una teoria quantitativa, in discreto accordo coi fatti sperimentali. Per molti anni si discusse se la superconduttività (termine introdotto da Onnes per indicare il fenomeno da lui scoperto) fosse una proprietà generale della materia o solamente una proprietà caratteristica dì alcuni elementi solidi. Dai lavori speri­ mentali (1929) di Kapitza sulla conducibilità dei metalli in campi magnetici molto intensi pare si possa concludere che la superconduttività è proprietà generale della materia. I FOTONI 1 3.

Leggi dell'effetto fotoelettrico.

Nel § 9 del Cap. XI abbiamo visto come, fin dal r899. era stata dimostrata la natura dell'effetto fotoelettrico : espulsione di elettroni in rapido movimento da parte della materia investita da un fascio di radiazioni. Il fenomeno si presentava come inverso del fenomeno di produzione dei raggi X. Schematicamente si può dire: l'urto di elettroni contro la materia produce radiazione ; l'urto di radiazione contro la materia produce elettroni. Anche per questa parentela con un fenomeno che era la più avanzata conquista scientifica del tempo, lo studio dell'effetto fotoelettrico fu intrapreso con molto impegno da molti fisici. Nel 1902 Lenard dimostrò sperimentalm�nte che la velocità di emissione degli elettroni è indipendente dalla intensità della luce incidente, ma dipende soltanto dalla 375

sua frequenza, crescendo col crescere della frequenza ; con l'intensità della luce inci­ dente aumenta solo il numero di elettroni espulsi. Inoltre, il fenomeno si verifica soltanto quando la radiazione incidente ha frequenza superiore a un certo limite, variabile con la natura del corpo investito dalla radiazione. Questi fatti empirici erano di difficilissima interpretazione nell'ottica classica. Infatti, la teoria ondulatoria della luce considera l'energia raggiante come unifor­ memente distribuita nell'onda luminosa. Per il principio di conservazione dell'energia, nell'effetto fotoelettrico una parte dell'energia raggiante si trasforma in energia cine­ tica degli elettroni espulsi. Perciò se la radiazione incidente è più ricca d'energia, anche gli elettroni espulsi ne debbono avere di più, cioè dovrebbero essere più veloci. D'altra parte, come può l 'energia assorbita dagli elettroni dipendere dalla frequenza, ossia, per dirla con termine impreciso ma più intuitivo, dal colore della luce ? essa dovrebbe essere proporzionale soltanto all'intensità della radiazione, affatto indi­ pendente dal suo colore. I tentativi fatti nei primi anni del secolo per inquadrare il fenomeno fotoelettrico nelle leggi della fisica classica riuscirono assolutamente infruttuosi; s'intuiva anche che non si . trattava di momentanee difficoltà d'adattamento, che si sarebbero potute superare con lievi modificazioni della teoria, con qualche ipotesi aggiunta, come era avvenuto tante volte nella storia del pensiero fisico : si trattava di un dissidio pro­ fondo, radicale. L'esperienza rompeva le barriere della teoria, mostrando l 'incompa­ tibilità tra la vecchia teoria e i nuovi fatti sperimentali. 14. I quanti di luce.

Nel gruppo di fenomeni, inspiegabili nella fisica classica, che Einstein, nel 1905, si propose d'inquadrare nella recente teoria quantistica, c'era appunto l'effetto foto­ elettrico. Einstein mostrò che il fenomeno fotoelettrico si spiega con facilità, con grande naturalezza, fin nei minuti particolari, se la quantizzazione, limitata da Planck alla sola emissione, si estende anche alla radiazione ; cioè se si suppone che il quanto di energia hv, una volta emesso non si sparpagli, ma conservi una propria individua­ lità localizzata nello spazio. Dobbiamo figurarci, per dirla con le parole di Einstein, che la luce omogenea si componga . . . di grani d'energia, ossia di > (Licht­ quanten) , infime particelle di energia che attraversano lo spazio vuoto con la velocità della luce. A questi agglomerati di energia, Compton, nel 1923, dette il fortunato nome di fotoni. Ed ecco con quale semplicità Einstein spiega, con questa semplice esten­ sione della teoria di Planck, l'effetto fotoelettrico : È senz' altro evidente che la teoria quantistica della luce dà ragione dell' efjetto fotoelettrico. Un getto di fotoni colpisce una lastra metallica. L ' interazione tra radiazione e materia consiste in tal caso in 'ltna mol­ titudine di singoli processi, per cui 1,tn fotone percuote �tn atomo divellendone un elet­ trone. Questi singoli processi sono tutti identici e perciò tutti gli elettroni divelti debbono avere la stessa energia. È altresì chiaro che accrescere l'ùttensità della luce significa, nel nostro nuovo linguaggio, accrescere il numero dei proiettili fotonici. In tal caso avverrà che un maggior numero di elettroni sarà espulso dalla lastra metallica, senza che l'energia di niuno di essi si dif}erenzi da quella degli altri. Vediamo dunque che la teoria è in perfetto

accordo con l'esperienza (Albert Einstein e Leopold Infeld, L'evoluzione della fisica, trad. it., Torino 1948, pp. 270-71 ; la prima edizione inglese apparve nel 1938 a New York) . Se a questa spiegazione qualitativa vogliamo aggiungere qualche elemento quanti­ tativo, possiamo dire che se un grano di luce colpisce un elettrone della materia gli cede tutta la propria energia : l'elettrone ne spende una parte per vincere le forze che lo vincolano alla materia e trasforma in energia cinetica propria la parte rima­ nente. Ne discende che il grano di luce o fotone deve avere un'energia minima suffi­ ciente a svincolare l'elettrone dalla materia. I n definitiva deve aversi il seguente bilancio energetico : energia del fotone

=

energia di estrazione + energia cinetica dell'elettrone.

Se la luce è concepita come una gragnuola di fotoni, che cosa bisogna sostituire al concetto di lunghezza d'onda, cui si attribuisce la causa della varia percezione dei colori, della teoria classica ? Bisogna sostituire, risponde Einstein, l'energia dei fotoni. E con questa sostituzione ogni enunciato della teoria ondulatoria si traduce imme­ diatamente in enunciato della teoria quantistica. Per esempio: Enunciato della teoria ondutatoria.

Enunciato della teoria quantistica.

Ogni luce omogenea ha una lunghezza d'onda determinata. La lunghezza d'onda dell'estremità rossa dello spettro è doppia di quella dell'estremità violetta.

Ogni luce omogenea consiste in fotoni di energia determinata. L'energia dei fo­ toni dell'estremità rossa dello spettro è metà di quella dell'estremità violetta.

Vanno ancora sottolineate due particolarità della teoria. I grani di luce, i fotoni, non sono tutti di grandezza eguale, come i grani di elettricità, gli elettroni, ma hanno energia variabile, pari, per ogni fotone, ad e; hv. I fotoni non hanno un'illimitata persistenza nel tempo: nascono e muoiono; si vedono comparire nell'emissione e scom­ parire nell'assorbimento ; pertanto in un ambiente il loro numero totale è variabile col tempo. Ne viene che i fotoni non sono i corpuscoli newtoniani, concepiti di carat­ tere sostanziale, anche se imponderabili. \ La teoria di Einstein incontrò dapprincipio forti opposizioni: abbiamo visto la vivace reazione negativa dello stesso Planck. Fu subito chiaro a tutti che la teoria dei quanti di luce era un ritorno, sia pure parziale (ma qualcuno invece lo diceva ) , all'ottica newtoniana, ma, non ostante le critiche, la teoria si mostrava sempre più feconda. Essa non spiegava soltanto l 'effetto fotoelettrico, ma innume­ revoli altri fenomeni classicamente misteriosi, come certe particolarità nell'emissione dei raggi X, i fenomeni di fluorescenza eccitata in certi corpi da radiazioni di varia frequenza, ecc. Un'esperienza, ripetuta da molti fisici, e in particolare da Millikan con molta accuratezza, parve particolarmente importante : su un pulviscolo metallico sospeso nell'aria tra i piatti d'un condensatore si fanno giungere raggi X di debolis­ sima intensità. L'ottica elettromagnetica classica consente di calcolare il tempo neces­ sario perchè un grano di pulviscolo assorba l'energia occorrente per l'espulsione di un elettrone ; si possono regolare le cose in modo che il tempo sia di parecchi secondi. Invece, contro la previsione della fisica classica, l'esperienza dimostra che l'espulsione =

377

degli elettroni avviene immediatamente dopo l'irradiazione del pulviscolo coi raggi X, con un ritardo tra i due eventi certamente minore di rj2ooo di secondo (com'è noto, questa immediatezza del fenomeno fotoelettrico è una delle ragioni principali della sua applicazione in tecniche moderne che hanno del meraviglioso, come il cinema sonoro e la televisione) : si deve concludere che sul pulviscolo non arrivano onde elet­ tromagnetiche, ma una gragnuola di fotoni. Ma questa esperienza ha un altro parti­ colare interesse. Essa ha consentito di calcolare che ogni particella del pulviscolo emette, in media, un elettrone per ogni intervallo di tempo calcolato mediante le equazioni classiche ; ne risulta che la teoria classica può ancora accettarsi come legge statisticamente valida per un flusso di numerosissimi quanti. 1 5. L'effetto Compton.

L'ipotesi dei quanti di luce pose in grave imbarazzo la fisica teorica. I grani di luce non sono certamente conciliabili con l'ottica classica. Alcuni fenomeni di ottica fisica sono inspiegabili se si ammette la costituzione granulare della luce. Per esempio, è inspiegabile l'esperimento dei due fori di Young, come in generale tutti gli esperi­ menti d'interferenza e di diffrazione della luce. E Lorentz ha dimostrato che non si possono spiegare le leggi del potere separatore degli strumenti ottici supponendo la luce costituita da quanti. D'altra parte, gli esperimenti di diffrazione dei raggi X, i conseguenti grandi successi nello studio della costituzione dei cristalli, (Cap. XI, § S) davano nuovo vigore e nuova dignità alla teoria ondulatoria ; essa era ancora capace di prevedere fenomeni che l'esperienza confermava, ed è questo il carattere di maggiore attendibilità d'ogni teoria fisica. Che necessità c'era di buttarla alle ortiche, quando poi con la nuova teoria non si riusciva a spiegare il complesso di fenomeni che l'ottica classica aveva tramandato sotto il nome di > ? Intorno al 1920 s'era stabilito tra la vecchia e la nuova teoria un curioso modus vivendi. La maggioranza dei fisici riteneva che i fotoni non fossero una realtà fisica, ma un semplice espediente euristico per indicare una certa quantità di energia con­ nessa forse con qualche irregolarità del campo elettromagnetico. Il quanto di luce, insomma, era una misura, non un corpuscolo sui generis. In sostanza non era soltanto la realtà fisica del fotone che si poneva in dubbio, ma tutta la teoria quantistica, verso la quale i fisici continuavano ad avere forti diffidenze. Si dice che fu determinante per il successo della teoria fotonica la scoperta (1922) dell'effetto Compton e dell'effetto Raman dell'anno successivo. Senza dubbio la sco­ perta di questi due fenomeni ebbe un grande peso per il successo della teoria. Ma forse questo giudizio è eccessivamente unilaterale. Non tiene conto da una parte del lento maturarsi delle idee e dall'altra dell'importanza che ha nei cambiamenti di mentalità scientifica la morte, proprio la morte corporale, dei vecchi scienziati, legati, anche sentimentalmente, alle teorie della loro giovinezza. A nostro parere, il susseguirsi delle generazioni è un fattore non trascurabile dell'evoluzione scientifica. Come che sia, il fenomeno o, come si dice, l'effetto Compton ebbe particolare rilievo storico. Ecco di che si tratta. È noto che se una radiazione colpisce un corpo,

i n generale una parte dell'energia è sparpagliata in tutte le direzioni o, come si dice, è diffusa, conservando la stessa frequenza, cioè lo stesso colore, della radiazione inci­ dente. La teoria di Lorentz spiega questo fenomeno, dicendo che gli elettroni del corpo investito dalla radiazione entrano in risonanza ed emettono perciò a loro volta onde sferiche che diffondono in tutte le direzioni una parte dell'energia dell'onda primaria. Si capisce che in questo meccanismo le onde secondarie debbono avere la stessa frequenza dell'onda primaria, onde la radiazione diffusa ha lo stesso colore della radiazione incidente. Questa teoria s'era dimostrata sempre adatta a spiegare i fenomeni di diffusione sia della luce visibile (ad opera di Drude e di Lord Rayleigh) , sia della radiazione invisibile (ad opera di Thomson, Debye ed altri). Ma nel 1922 il giovane fisico americano Arturo Compton dimostrò che nella diffu­ sione dei raggi X, accanto al fenomeno classico di diffusione senza cambiamento di frequenza, si ottiene anche la diffusione di una radiazione di frequenza minore. Le due componenti secondarie della radiazione primaria hanno intensità relative diverse; per le maggiori lunghezze d'onda il raggio non modificato ha più grande energia, mentre per le piccole lunghezze d'onda prevale la componente modificata, tanto che se per la produzione del fenomeno sono adoperati raggi y di grandissima frequenza non è possibile trovare nella radiazione diffusa alcuna radiazione dell'originale fre­ quenza. Un attento esame delle modalità del fenomeno consente a Compton di con­ cludere che non si tratta di un fenomeno di fluorescenza, già previsto da Thomson, Debye e altri. Ecco un altro fenomeno inspiegabile nella teoria ondulatoria, ma che riceve una immediata spiegazione nella teoria fotonica, come mostrarono subito Compton e Debye. Pensiamo i raggi X come una raffica di leggeri corpuscoli, chiamati per la prima volta fotoni da Compton. Un fotone urta contro un elettrone con conseguente scambio d'energia. Ma siccome l'elettrone, di fronte all'elevata velocità del fotone, si può considerare immobile, ne risulta che nell'urto è il fotone che perde energia cedendola all'elettrone. Ma per l'ipotesi fondamentale l'energia del fotone è l'analogo della lunghezza d'onda della radiazione nella teoria ondulatoria, sicchè dopo l'urto il fotone perde energia, cioè ha lunghezza d'onda maggiore. Inoltre l'elettrone urtato, da Compton chiamato elettrone di rinculo, varia la sua velocità per aver acquistato una parte dell'energia del fotone. La teoria matematica del fenomeno, trattata nello schema della relatività ristretta, conduce a una formula che lega la diffusione del fotone alla sua primitiva e alla sua variata frequenza: l'esperienza, ripetuta nelle più svariate condizioni da molti fisici, ha sempre confermato la teoria. Anzi, quando Compton propose la teoria, non era riuscito ancora a osservare sperimentalmente gli elettroni di rinculo. Ma di lì a pochi mesi C. T. R. Wilson in Inghilterra, poi W. Bothe in Germania osservarono sperimentalmente gli elettroni di rinculo e più tardi altri sperimentatori confermarono che il loro numero, la loro energia, la distribuzione spaziale erano in pieno accordo con le previsioni della teoria fotonica. Compton nella sua teoria tratta i fotoni come veri e propri corpuscoli, ritenendo che per i loro urti contro gli elettroni siano validi i principi di conservazione dell'energia e della quantità di moto. Inoltre nell'effetto Compton si coglie il fotone in una sua trasformazione, mentre anteriormente dell'individualità dei fotoni si sapeva soltanto che nascevano 379

e morivano, ma non si riusciva a coglierne una qualunque trasformazione della loro vita individuale. I n sostanza vogliamo dire che l 'effetto Compton accentua i caratteri di esistenza individuale dei fotoni, cioè la loro realtà fisica. Nuova conferma alla teoria fotonica fu la scoperta dell'effetto Raman, così chia­ mato dal nome del fisico indiano Sir Chandrasekhara Venhata Raman, che per primo l'osservò, pubblicandone la ricerca nel 1928. La prima idea, come egli stesso racconta, gli venne dall'osservazione dell'opalescenza azzurra del Mediterraneo, osservata durante un suo viaggio in Europa nel 192 1 . Come mai questo colore ? lo studio delle leggi della diffusione nei liquidi, da lui iniziato lo stesso anno al suo ritorno a Calcutta, poteva dare la spiegazione. Ma fu presto evidente che il problema superava di gran lunga il campo ristretto da cui Raman era partito. La diffrazione molecolare della luce, a cui il fenomeno del colore del cielo era attribuito, doveva essere studiato non sola­ mente nei gas e nei vapori, ma anche nei liquidi e nei solidi cristallini e amorfi. Raman affidò a suoi abili collaboratori lo studio di tutti questi particolari problemi e ne inter­ pretò i risultati alla luce della teoria elettromagnetica e perciò sotto l'influenza dei lavori di Lord Rayleigh, a cui abbiamo prima accennato. Ma nel 1923 un collaboratore di Raman, Ramanathan, osservò che, accanto alla diffrazione molecolare di tipo Rayleigh-Einstein si verificava una più debole diffrazione che differiva dalla classica nel fatto che la luce diffratta non aveva eguale lunghezza d'onda dell'incidente. In questa direzione si moltiplicarono gli sforzi sperimentali e nel 1924 si ottenne un primo inequivocabile risultato : la luce solare diffusa da un cam­ pione di glicerina altamente purificata era di un verde brillante invece del . solito azzurro. Analogo fenomeno si osservò in vapori organici, in gas compressi, nel ghiaccio cristallizzato e anche in vetri ottici. Il fenomeno era analogo all'effetto Compton, ma ne differiva in due circostanze fondamentali : nell'effetto Raman il cambiamento di frequenza può consistere anche in un aumento ; sul fenomeno ha influenza essenziale la natura del corpo diffusore, che invece non influisce affatto sull'effetto Compton. Ma come l'effetto Compton, anche l'effetto Raman è inspiegabile nella teoria clas­ sica, mentre ha una spiegazione relativamente semplice nella teoria fotonica, sup­ ponendo che un fotone urti contro una molecola o un atomo e, a seconda delle modalità dell'urto, o si spezza in due fotoni o rimbalza con energia variata. È intuitivo così che le modalità di questo effetto sono in stretto rapporto con la struttura molecolare, e quindi si capisce come lo studio di questo fenomeno abbia condotto alla risoluzione di molti problemi di chimica e di fisica. In definitiva, la teoria fotonica spiega molti fenomeni, ne ha previsti molti altri; ma non riesce a rispondere alla domanda che più di duemila anni fa si rivolgeva Euclide: che cosa è la luce ? Vedremo come, all'epoca della scoperta di Raman, rispondeva alla domanda millenaria la meccanica ondulatoria.

CAPITOLO

XIV

LA STRUTTURA DELLA MATERIA LA DISINTEGRAZIONE RADIOATTIVA 1.

Trasmutazioni radioattive.

Ernesto Rutherford era nato nella Nuova Zelanda da genitori inglesi ; vi aveva conseguito la laurea e quindi era venuto a Cambridge nel 1895 per iniziare la ricerca scientifica come assistente di Thomson. Nel r8g8 fu chiamato alla cattedra di fisica dell'Università McGill di Montreal (Canadà) , dove proseguì gli studi sulla radioatti­ vità, già iniziati a Cambridge. A Montreal, nel r8gg, il suo collega Owenes lo informò che la radioattività del torio era sensibile alle correnti d'aria. L'osservazione era curiosa ; Rutherford, postosi su questa traccia, sperimentò che la radioattività dei composti di torio, sensibilment� d'intensità costante se l'osservazione era fatta in un'ampolla chiusa, decresceva rapi­ damente se gli esperimenti erano fatti all'aria aperta di una stanza e il fenomeno era esaltato dalle deboli correnti d'aria. Inoltre i corpi vicini ai composti di torio, dopo qualche tempo, emettevano anch'essi radiazioni, come se fossero stati radioattivi: questa proprietà fu da lui chiamata >. Rutherford intuì ben presto che tutti questi fenomeni ricevevano un'immediata spiegazione se si ammetteva che i composti di torio, oltre a radiare particelle oc, pro­ ducono anche altre particelle, a loro volta radioattive. Alla sostanza costituita da queste particelle egli dette il nome di > e la assimilò ad un gas radio­ attivo che, depositandosi in sottilissimi strati invisibili sui corpi vicini al torio che lo produce, conferisce ai corpi stessi l'apparente radioattività. Guidato da questa ipotesi, Rutherford riuscì a separare, mediante un semplice soffio d'aria che lambiva il prepa­ rato di torio, il gas radioattivo dal materiale che lo produceva, a spingerlo quindi in una camera di ionizzazione e a studiarne così l'attività e le prime proprietà fisiche : in particolare dimostrò che l 'intensità di radiazione dell'emanazione (battezzata più tardi toron, come radon e attinon furono chiamati i gas radioattivi prodotti rispettiva­ mente dal radio e dall'attinio) diminuisce rapidamente e regolarmente, in progressione geometrica col tempo, di metà ad ogni minuto : dopo dieci minuti diventa trascurabile.

Ernesto Rutherford.

Fot. Nobclstijtelsen

Intanto anche i Curie mostravano che il radio possiede la proprietà di eccitare l'attività nei corpi vicini ; essi fecero propria la teoria già avanzata da Becquerel per spiegare la radioattività presentata da precipitati in soluzioni radioattive e chiama­ rono il nuovo fenomeno. Precisamente, i Curie pensavano che la radioattività indotta fosse dovuta a qualche particolare eccitamento dei corpi da parte dei raggi emessi dal radio: qualche cosa come la fosforescenza, alla quale esplicitamente i Curie assimilarono il fenomeno. Del resto anche Rutherford, par­ lando nei primi tempi di attività >, doveva pensare a un fenomeno d'indu­ zione, concetto che la fisica del XIX secolo era ben preparata ad accogliere. Ma Ruther­ ford sapeva già una cosa di più dei Curie : sapeva che l'eccitazione o l'induzione non era effetto diretto del torio, ma dell'emanazione, mentre i Curie non avevano ancora scoperto l'emanazione di radio, ottenuta da Later e Dorn nel rgoo ripetendo sul radio il lavoro che Rutherford aveva fatto sul torio. Nella primavera del r goo, pubblicata la sua scoperta, Rutherford sospese le ricerche e rientrò nella Nuova Zelanda per prender moglie. Al ritorno a Montreal,

nello stesso anno, s'incontrò con Federico Soddy (n. r 87r) che, laureato in chimica a Oxford nel r8g8, era venuto a Montreal in cerca di una sistemazione accade­ mica che non ottenne. L'incontro tra i due giovani fu un evento fortunato per la storia della fisica. Rutherford comunicò a Soddy di aver scoperto e separato il toron, gli fece intravedere la vastità delle ricerche che s'aprivano e lo invitò ad unirsi a lui nello studio fisico-chimico dei composti di torio. Soddy accettò. La ricerca impegnò i giovani scienziati per due anni. Soddy in particolare studiò la natura chimica dell'emanazione di torio, dimostrando che il nuovo gas era asso­ lutamente refrattario ad ogni reazione chimica conosciuta: bisognava pensare, quindi, che appartenesse alla famiglia dei gas inerti ; precisamente, come dimostrò con cer­ tezza al principio del rgor, il nuovo gas, per le sue caratteristiche chimiche, s'iden­ tificava con l'argon (oggi si sa che è un suo isotopo), che Rayleigh e Ramsay avevano scoperto nell'aria nel r8g4 . Una nuova, decisiva scoperta premiò la tenacia dei due giovani : insieme col torio nei preparati a loro disposizione era presente un altro elemento, con proprietà chi­ miche distinte da quelle del torio, e un'attività almeno migliaia di volte maggiore di quella del torio da cui è stato separato chimicamente con una precipitazione per mezzo d'ammoniaca. Sull'esempio di Guglielmo Crookes che nel rgoo aveva chiamato uranio X l'elemento radioattivo che aveva ottenuto dall'uranio, i due giovani chia­ marono torio X il nuovo elemento radioattivo. L'attività del nuovo elemento si riduce a metà in quattro giorni, tempo sufficiente per essere studiato con comodità e rico­ noscere, senza possibilità d'equivoco, che l'emanazione di torio non è prodotta dal torio, come era sembrato, ma dal torio X. Se in una massa di torio si separava il torio X dal torio, l'intensità radioattiva di quest'ultimo era molto minore della pri­ mitiva, ma andava aumentando col tempo, con legge esponenziale, per una continua produzione di nuovo materiale attivo fresco. In una prima memoria del rgoz gli scienziati interpretavano questi e altri feno­ meni, ammettendo che la radioattività è un fenomeno atomico, accompagnato da cam­ biamenti chimici, nel quale sono prodotti nuovi tipi di materia; questi cambiamenti debbono avvenire entro l'atomo e gli elementi radioattivi debbono essere trasformazioni spontanee . . . La radioattività dev'essere perciò considerata come �ma manifestazione di evento chimico subatomico (Philosophical Magazine, (6) 4 (rgo2) , p. 395) . E più chia­ ramente l'anno successivo scrivevano: I radioelementi possiedono tra tutti il più alto peso atomico. Questa è in verità la loro sola comune caratteristica chimica. La disinte­ grazione d'un atomo e la espulsione di pesanti particelle cariche, dello stesso ordine di massa dell'atomo d'idrogeno, lascia dietro un nuovo sistema più leggero del primitivo, con proprietà fisiche e chimiche completamente diverse da quelle dell'elemento originale. Il processo di disintegrazione, �ma volta iniziato, procede di fase in fase (from stage to stage) , con velocità definite e misurabili in ciascun caso. In ogni fase, ttno o più raggi oc sono proiettati, finchè le ·ultime fasi sono raggiunte, qt-tando i raggi oc o gli elettroni sono espulsi. Sembra opportuno avere un nome speciale per questi nttavi frammenti di atomi o nuovi atomi, che risultano dall'atomo originale dopo che è stato espulso il raggio, e che rimane in esistenza soltanto un tempo lùnitato, contin·uamente soggetto a ulteriori cambia­ menti. La instabilità è la loro principale caratteristica. Le quantità che si possono accu-

mutare sono molto piccole e di conseg�tenza non è probabile che si possano studiare coi metodi ordinari. La instabilità e la conseguente espulsione di raggi costituiscono il mezzo per st�tdiarli. Noi perciò suggeriamo il termine metabolone per questi frammenti di atomo (Ibid., (6) 5 (1903), p. 586). . Il termine non attecchì, perchè questa prima cauta teoria fu dai due giovani stessi rapidamente corretta e meglio chiarita in qualche punto ambiguo che il lettore ha notato. La teoria corretta non aveva alcun bisogno del nuovo termine ed era da uno dei due giovani, divenuto ormai scienziato di fama mondiale e premio Nobel per la fisica, così esposta una decina d'anni dopo: Gli atomi di una sostanza radioattiva subi­ scono una trasformazione spontanea. A ogni istante una piccola frazione del numero totale di atomi diventa instabile e si decompone con violenza esplosiva. Nella maggior parte dei casi, un fram11-tento di atomo - la particella � è emesso con grandissima velocz"tà, mentre, in qualche altro caso, l'esplosione è accompagnata dall'espulsione di un elettrone rapidissimo e dall'apparizione di raggi Rontgen di tipo molto penetranti, noti sotto il nome di raggi y. Le radiazioni accompagnano le trasformazioni degli atomi e servono di misura diretta del grado della loro disintegrazione. Si è trovato che la trasfor­ mazione di un atomo metteva capo alla produzione di un tipo di materia interamente nuova e differente totalmente, per le sue proprietà fisiche e chimiche, dalla sostanza pri­ mitiva. Questa mwva sostanza è, a sua volta, instabile e si trasforma con emissione di radiazioni di tipo caratteristico ( . . ) È stato così nettamente stabilito, che gli atomi di certi elementi subiscono una disin­ tegrazione spontanea, accompagnata da 2m' emissione di energia enorme, relativamente a quella che è liberata nelle trasformazioni molecolari ordinarie (E. Rutherford, The structure of the atom, in Scientia, r6 (1914) , p. 339) . Nella citata memoria del 1903, Rutherford e Soddy tracciano la seguente tavola di > che, accettando la loro teoria, si potevano ritenere, dalle esperienze proprie ed altrui, prodotti di disintegrazioni: -

.

.

·

Uranio t Uranio x t ?

Torio + Torio x t Torio-emanazione t Torio I t Torio I I t ? \

Radio t Radio-emanazione t Radio I t Radio I I t Radio I I I t ?

Sono questi i primi > delle sostanze radioattive. Via via altri componenti presero posto in queste famiglie di elementi radioattivi naturali, e si precisò che le famiglie sono tre, di cui due hanno per > l'uranio e la terza

il torio. La prima annovera I4 (( discendenti 1>, cioè I4 elementi ottenuti l'uno dall'altro per successive disintegrazioni, la seconda IO e la terza I I : ogni trattato moderno di fisica riporta per esteso questi alberi genealogici. Una riflessione : oggi che abbiamo i nostri schemi fatti, può sembrare del tutto naturale, anzi ovvia, la conclusione tratta dai loro esperimenti da Rutherford e Soddy. Schematicamente di che si trattava ? si trattava che dopo un po' di tempo un nuovo elemento si vedeva mescolato al primitivo torio fresco e questo nuovo elemento pro­ duceva, a sua volta, un gas anch 'esso radioattivo. La produzione di elementi nuovi è sotto gli occhi. Sotto gli occhi, ma non tanto. Si deve tener presente che le quantità di nuovi elementi erano ben lontane dal raggiungere le quantità minime necessarie alle più delicate analisi chimiche del tempo; si trattava di infime tracce, rilevabili soltanto coi metodi di rivelazione radioattiva, la fotografia e la ionizzazione. Ora questi effetti potevano spiegarsi in altri modi (induzione ; originaria presenza degli elementi nuovi nei preparati di partenza, come era avvenuto nella scoperta del radio, ecc.). Che la disintegrazione non fosse la cosa più ovvia a cui pensare in pre­ senza dei risultati sperimentali, risulta chiaro solo se si riflette che nè Crookes, nè i Curie ne ebbero il minimo sentore, pur avendo osservato fenomeni analoghi. E non va taciuto che occorreva molto coraggio, nel 1903, in pieno trionfo della teoria ato­ mica, parlare di trasmutazioni di elementi : era un'ipotesi non certo al riparo dalle critiche e sarebbe forse caduta, se Rutherford e Soddy, con costanza ammirevole, non avessero provveduto a confortarla, ancora per decenni, con numerose prove che in parte vedremo. E ci pare opportuno anche aggiungere che la teoria dell'induzione radioattiva rese anch'essa buoni servigi alla scienza, evitando la dispersione delle forze nella ricerca di nuovi elementi radioattivi ogni volta che si riscontravano fenomeni di radio­ attività in elementi non attivi. 2.

Natura dei raggi

a.

Un punto fondamentale della teoria della disintegrazione, sul quale abbiamo finora sorvolato per la linearità del racconto, è la natura dei raggi � emessi dalle sostanze radioattive, perchè l'ipotesi che essi abbiano una certa corposità acquista un'impor­ tanza determinante nella teoria di Rutherford e Soddy. I raggi �. lenti, facilmente assorbiti dalla materia, non avevano attirato, dopo la loro scoperta per opera di Rutherford, l'attenzione dei fisici, concentrata di pre­ ferenza sui veloci raggi �� cento volte più penetranti dei raggi �. Aver intuito l'impor­ tanza dei raggi � nei processi radioattivi ed essersi dedicato per anni al loro studio è uno dei segni più chiari della genialità di Rutherford e uno dei maggiori fattori del successo della sua opera. N el Igoo Roberto Rayleigh (Roberto Strutt, figlio di Giovanni) e indipendente­ mente Crookes avevano avanzato l'ipotesi, non convalidata da alcuna prova speri­ mentale, che i raggi � fossero caricati positivamente. Oggi si capiscono benissimo i motivi delle difficoltà sperimentali nello studio dei raggi e1. ; sono due : i raggi �. molto più pesanti dei raggi �� sono pochissimo deviati dai campi elettrici e magnetici, e 25.

-

Storia delle Scienze, 1 [ .

non basta certo una semplice calamita per ottenere una deviazione osservabile ; inoltre i raggi � sono rapidamente assorbiti dall'aria, onde l'osservazione diventa più difficile. Rutherford tentò per due anni di ottenere la deflessione dei raggi in campo magne­ tico, raggiungendo sempre risultati incerti. Finalmente, alla fine del 1902, essendo riuscito a procurarsi, mediante i buoni uffici di Pietro Curie, una discreta quantità di radio, egli potè osservare con chiara evidenza la deflessione dei raggi � in campo magnetico e in campo elettrico, col dispositivo della figura a pagina seguente. La deflessione osservata era tale da denunciare nella particella � una carica posi­ tiva; dall'entità della deflessione, Rutherford deduceva che la velocità della parti­ cella era circa la metà di quella della luce (valore successivamente ridotto a circa u n decimo) ; i l rapporto efm risultava eguale a circa 6ooo unità elettromagnetiche. N e veniva che �e la carica portata dalla particella � era la carica elementare, la massa della particella è circa doppia di quella di un atomo d 'idrogeno. Rutherford si ren­ deva conto che questi risultati erano soltanto di larga massima, ma una conclusione qualitativa si poteva pur trarre : i raggi � avevano una massa dell'ordine delle masse atomiche ed erano quindi assimilabili ai raggi canale osservati da Goldstein, ma di velocità considerevolmente più grande. Questo risultato, dice Rutherford, proiettò sul p1'ocesso radioattivo �m torrente di luce, e ne abbiamo visto il riverbero nei brani citati delle memorie di Rutherford e Soddy. Nel 1903 la signora Curie confermò la scoperta di Rutherford con un dispositivo, oggi descritto da tutti i testi di fisica, nel quale, utilizzando il fenomeno di scintil­ lazione prodotto da tutti i raggi emessi dal radio, si possono osservare contempora­ neamente le opposte deviazioni dei raggi � e �. e la nessuna influenza esercitata dai campi elettrici e magnetici sui raggi y. La teoria della disintegrazione radioattiva portava Rutherford e Soddy a pensare che ogni sostanza stabile prodotta durante la trasformazione dei radioelementi dovesse essere presente nei minerali radioattivi, dove le trasformazioni avvenivano da mil­ lenni. E allora l'elio che Ramsay e Travers avevano trovato presente nei minerali d'uranio non potrebbe essere un prodotto delle trasformazioni radioattive ? Dal principio del 1903 gli studi sulla radioattività ebbero un improvviso vigoroso impulso dal fatto che Giesel della Chinin-Fabrik di Brunswick fu in grado di mettere in commercio, a prezzi relativamente modesti, composti puri di radio, come il bro­ muro idrato di radio, contenente il so 0/0 in peso dell'elemento puro. Fin allora si era dovuto lavorare con composti che, al massimo, arrivavano a contenerne il 0, 1 1% ! Soddy che intanto era ritornato a Londra per continuare, nel laboratorio chi­ mico di Ramsay, l'unico del mondo allora attrezzato per ricerche del genere, lo studio delle proprietà dell'emanazione, comprò 30 milligrammi di questo preparato com­ merciale e questa quantità gli fu sufficiente per dimostrare, insieme con Ramsay, nello stesso anno 1903, che l'elio era presente nel radio vecchio di qualche mese e che l'emanazione produceva elio. Ma che posto occupava l'elio nello schema di trasmutazioni radioattive ? era il prodotto finale di una trasformazione del radio o era un prodotto di qualche stadio della sua evoluzione ? Rutherford pensò subito che l'elio fosse fornito dai raggi � del radio; precisamente che ogni particella � fosse un atomo di elio con due cariche posi-



Terra

'"

l'

�t%��

c.

J

-1-

v

oE

Entrata idrogeno

�l""

D

B

L____

Terra

p

Lam(na d i all u m i n i o

G

llllll

:

Radio

Uscita i d rogeno

Primo dispositivo di Rutherford per la deviazione dei raggi a in campo magnetico o elettrico. I raggi emessi dallo strato di radio passano attraverso una serie di strette fessure G, formate da lastre metalliche verticali e una sottilissima lamina di alluminio (spessore 3-4 centesimi d i mm.), nel recipiente V , vi ionizzano l' idrogeno contenutovi e la ionizzazione è misurata dalla caduta della foglia d'oro dell'elettroscopio B, caricato dall'esterno attraverso il filo D. Se si produce u n campo magnetico orizzontale, normale al piano del disegno, i raggi a sono deviati verso le lastre metalliche e sono da queste assorbiti ; ne penetrano perciò in minor numero nel recipiente V e la foglia dell'elettroscopio ricade pitl lentamente. La corrente d'idrogeno secco entra nel recipiente V, attraversa la lamina d'alluminio e le fessure G ed esce dal basso; essa i mpedisce che nella ca­ mera di ionizzazione entri l 'emanazione di radio che altererebbe i risultati . Lo stesso d ispositivo serve per la deviazione dei raggi in campo elettrico, collegando ogni placca verticale con un polo di pila in modo da creare tra le placche campi elettrici dello stesso senso.

tive. Ma accorsero anni di lavoro sperimentale per dimostrare questa proprietà intuita da Rutherford. La dimostrazione si ebbe soltanto quando egli e Geiger idearono il contatore per particelle � . di cui abbiamo parlato nel Cap. XIII, § 8 misurata la carica portata da ogni particella �. determinato il rapporto ejm, risultava subito per m la massa dell'atomo di elio. Eppure, tutte queste ricerche e calcoli non rappresentavano ancora la prova cru­ ciale dell'identità dei raggi � con i ioni di elio. Infatti, se, per esempio, un atomo di elio fosse liberato contemporaneamente all'espulsione di una particella �. esperimenti e calcoli tornerebbero come prima, ma la particella � potrebbe essere un atomo di idrogeno o di un'altra sostanza sconosciuta. Rutherford capì bene questa possibilità di critica e, a rimuoverla, dette nel 1908, insieme con Royds, la prova cruciale con

\

l l l

l l l l

l l

l l \ \

\ l l

\

l \ _ _ _ _ _,/ / , _ _ ____ .,..,

I l l '

l l l l l l

\

l l l l l

\ \ l \ � - - - -"l ll

, _ _ _ _ ,/

Dispositivo di Rutherford e Royds per dimo­ strare la produzione di elio dal radon. Lo spes­ sore delle pareti del tu bicino di vetro A , fog­ giato da un soffiatore di vetro specializzato, è di s-8 micron ; il tubicino è riempito di gas radon ; i raggi a da esso prodotti passano at­ traverso le pareti di A nel recipiente B. Dopo qualche tempo il mercurio, fatto salire in B, comprime il gas contenutovi nel tubo per osservazioni spettroscopiche C: da questo si ottiene lo spettro dell'elio. Se A si riempie di elio, non si ottiene traccia di elio in B . Attraversano quindi le pareti d i A soltanto i raggi a, non gli atomi di elio che possano, per qualunque ragione, essere presenti in A .

l'apparecchio schematizzato nella figura a pagina precedente, nel quale si raccolgono le particelle di Rutherford e Soddy doveva quindi subire una profonda modificazione, come abbiamo già accennato. Ma un nuovo interessante studio sorgeva dalla teoria della disintegrazione ato­ mica: siccome le trasmutazioni radioattive avvengono con legge inflessibile, non modi­ ficabile da alcun agente fisico conosciuto prima del 1930, dal rapporto tra le quantità di uranio e di piombo o di elio presente in un minerale uranifero si può desumere l'età del minerale stesso, cioè l'età della terra. Un primo calcolo dette per questa età mille­ ottocento milioni di anni, ma Giovanni Joly (1857-1933) e Roberto Rayleigh (r8751947). che hanno condotto importanti studi sull'argomento, ritenevano quella deter­ minazione errata per eccesso. Oggi si calcola che l'età dei minerali uraniferi sia del­ l'ordine di un miliardo e mezzo d'anni, non molto diverso, quindi, dalla primitiva stima. 3· La legge fondamentale della radioattività.

Abbiamo già accennato che Rutherford aveva trovato sperimentalmente che l'attività dell'emanazione di torio decresce esponenzialmente col tempo e si riduce a metà dopo un minuto circa. Tutte le sostanze radioattive esaminate da Rutherford e da altri seguono qualitativamente la stessa legge, ma ognuna ha un proprio tempo di dimezzamento. Questo fatto sperimentale è espresso da una semplice formula che pone una relazione tra il numero N0 di atomi radioattivi esistenti all'istante o e il numero di atomi ancora integri all'istante t 1. La legge si può anche esprimere dicendo che la per­ centuale di atomi disintegrati in ogni unità di tempo è una costante specifica dell'ele­ mento, che si chiama costante di disintegrazione e il suo inverso si chiama V1:ta med-ia. Con nessun agente, conosciuto prima del 1930, si è riuscito ad influenzare mini­ mamente il ritmo naturale del fenomeno. Rutherford e Soddy, fin dal 1902, e succes­ sivamente numerosi altri fisici, hanno portato i corpi radioattivi nelle più svariate •

La formula è la seguente :

N = N0e-')J

À è la costante di disintegrazione e il suo inverso la vita media dell'elemento; il tempo necessario perchè il numero di atomi diventi la metà si chiama periodo o tempo di dimezzamento. Come abbiamo detto, À varia moltissimo da elemento ad elemento, e quindi variano tutte le altre grandezze ora definite. Per esempio, la vita media dell'uranio I è 6 miliardi e 6oo milioni di anni; per l 'attinio A tre millesimi di secondo.

condizioni fisiche, senza riuscire mai a variare la costante dì disintegrazione. La radio­ attività, scrissero Rutherford e Soddy, secondo le attuali cmwscenze dev'essue consi­ derata co me ,:t risultato di n n processo che rima1te completamente juo11: dell-a sfera delle forze note e controllabt:li, e non prtò essere creata, alterata o distrutta. (Pkilosophical l\1aga­ zin e , (6) 5 (1903), p. 582). La vita media è una costante ben definita e immutabile per ogni elemento. ma la vita individuale di un atomo di quell'elemento è assolutamente indeterminata; inoltre la vita media non diminuisce col tempo: è sempre la stessa tanto per un gruppo di atomi di recente formazione quanto per un altro formatosi in epoche geologiche. Insomma, adoperando un linguaggio antropomorfo, gli atomi degli elementi radio­ attivi muoiono, ma non invecchiano. In definitiva, la legge fondamentale della radio­ attività si è dimostrata subito, ed è tuttora, assolutamente incomprensibile. Da quanto precede si capisce subito, e fu subito capito, che la legge della radio­ attività è una legge di probabilità ; precisamente essa dice che la probabilità di disin­ tegrazione di un atomo ad un dato istante è eguale per tutti gli atomi radioattivi presenti. Si tratta quindi di una legge statistica, tanto meglio verificata quanto piit numerosi sono gli atomi considerati. Se sul fenomeno della radioattività influissero cause esterne, l'interpretazione della legge sarebbe abbastanza facile, perchè, in questo caso, gli atomi che si trasformano a un dato istante sarebbero quelli che si trovano, in relazione all'azione della causa esterna, in una condizione particolarmente favore­ vole ; l'agitazione termica degli atomi potrebbe fornire la spiegazione di queste parti­ colari condizioni in cui vengono a trovarsi gli atomi che esplodono. Insomma, la legge statistica della radioattività verrebbe ad assumere lo stesso significato delle leggi statistiche della fisica classica, considerate come sintesi di leggi individuali dinamiche, che soltanto la moltitudine degli enti consiglia di valutare statisticamente. Ma gli esperimenti non davano assolutamente la possibilità di ricondurre la legge statistica a leggi individuali determinate da cause esterne. Escluse le cause esterne, si cercò di trovare le ragioni della trasformazione di un atomo nell'atomo stesso. Poichè, scrisse Maria Curie, tra un gran ntunero di atmm: presenti, alcuni si distruggono immedt:atamente, mentre altri potranno es·istere per 1.tn tempo hmgh-issimo, non è più possibt:le considerare come 1:nteramente sirm:li tutti questi atomi d'1.tna medesima sostanza semplice, ma si deve ammettere che la dif}erenza dei loro des#ni sia determinata da diffe­ renze individuali. Si presenta allora una nuova d·iffic·ottà; le dt:tferenze che noi faremo intervenire devono essere di tal natura che esse non possano determinare ciò che si può cht:a1·nare l'invecchiamento della sostanza,· esse debbono essere tali che la probabilità che un atomo duri ancora un tempo dato sia indipendente dal tempo durante il esso è già vissuto. Ogni teoria di stnttt?.tra degli atomi dovrà soddisfare questa c se ci si pone dal punto di vista precedente (Rapports et discussions du. C temt à Bru.xelles du 27 a·u JI avril I9IJ, Paris 192 1 , pp. 68-69) . Sulla linea di pensiero di Maria Curie si pose il suo discepolo suppose che ogni atomo radioattivo passi rapidamente e continua stati differenti , rimanendo costante e indipendente dalle condizio eguali pro­ medio : ne risulta che in media tutti gli atomi della stessa o, da uno stato prietà ed eguali probabilità di distruzione, causata, di tanf,.·

� .,.

390

instabile assunto dall'atomo. Ma la costante probabilità di distruzione implica un atomo di grande complessità, costituito da un gran numero di elementi dotati di movimenti disordinati. Questa agitazione intra-atomica, limitata alla parte centrale dell'atomo, potrebbe condurre a definire una temperatura interna dell'atomo, molto più alta della temperatura esterna. Le speculazioni di Maria Curie e del suo discepolo, non confortate da alcuna prova sperimentale e rimaste sterili di conseguenze, non ebbero alcun seguito. Noi le abbiamo rievocate e sottolineate, perchè il tentativo, rimasto senza effetto, d'interpretazione classica della legge di disintegrazione radioattiva fu il primo o almeno il più convin­ cente esempio di leggi statistiche cui non si può pervenire attraverso leggi di carat­ tere individuale. Sorge un nuovo concetto di legge statistica, data immediatamente, prescindendo dall'evoluzione degli individui che compongono gli aggregati : è un con­ cetto che risulterà chiaro poco pilt di un decennio dopo i vani sforzi di Curie e Debierne. 4· Isotopi radioattivi.

Nella prima metà del secolo scorso alcuni chimici, in particolare Giovan Bat­ tista Dumas (r8oo-r884) , avevano segnalato alcune relazioni tra i pesi atomici degli elementi e le loro proprietà chimiche e fisiche. Le ricerche furono approfondite da Dmitri lvanovich Mendeleev (r834-1907) che nel r868 emise la sua geniale teoria del sistema periodico degli elementi, una delle più potenti sintesi chimiche. Mende­ leev dispose gli elementi allora noti in ordine di peso atomico crescente. Ecco i pnm1, con l'indicazione dei pesi atomici noti all'epoca di Mendeleev : 7 Li ; 9 . 4 Be ; I I Bo; 1 2 C ; 14 N ; r6 O ; 19 Fl 23 Na ; 24 Mg ; 27, 3 Al; 28 Si; 3 1 P; 3 2 S ; 35,50 l. Mendeleev notò che le proprietà chimiche e fisiche degli elementi sono funzioni periodiche dei pesi atomici. Così, p. es., nella prima fila degli elementi testè scritti le densità crescono regolarmente col peso atomico, raggiungono un massimo verso la metà della serie, quindi decrescono; la stessa periodicità, sebbene non egualmente netta, si riscontra per le altre proprietà fisiche e chimiche (fusibilità, dilatabilità, conducibilità, ossidabilità, ecc.) degli elementi contenuti sia nella prima che nella seconda fila. Queste variazioni avvengono con eguale legge negli elementi delle due file, sicchè gli elementi che si trovano sulla stessa colonna (Li e Na, Be e Mg, ecc.) presentano caratteri chimici analoghi. Le due serie scritte si chiamano due periodi: tutti gli elementi si possono così ordinare in periodi, con le caratteristiche accennate ; segue la legge di Mendeleev : le proprietà degli elementi si trovano in relazione perio­ dica coi loro pesi atomici. Non è il caso di seguire le vivaci critiche suscitate dalla classificazione periodica e il suo progressi vo affermarsi per i preziosi servizi da essa resi alla scienza 1• Ci basta soltanto ricordare che alla fine del secolo essa era quasi universalmente accettata 1

V. in quest' opera, Storia della Chimica, pagg . 672 sgg.

3 91

dai chimici, che la assumevano come fatto d'esperienza, riusciti vani tutti i tentativi di interpretazione teorica. Nei primi anni del secolo XX i fabbricanti di gemme di Ceylon scoprirono un nuovo minerale, la torianite, che oggi si sa essere un minerale di torio e uranio. Alcuni quintali di torianite furono spediti in Inghilterra per l'esame; ma nelle prime analisi, per un errore che Soddy attribuisce a un noto trattato tedesco di chimica analitica, si confuse il torio con lo zirconio, onde il materiale, ritenuto un minerale d'uranio, fu trattato col metodo usato dalla Curie per separare il radio dalla pechblenda. Nel 1905, avendo usato questo procedimento, Guglielmo Ramsay e Otto Hahn (questo ultimo si sarebbe immortalato un trentennio dopo con la fissione dell'uranio) otten­ nero una sostanza che all'analisi chimica si presentava come torio, ma che invece n e differiva per una radioattività molto più intensa; come i l torio, essa produceva il torio X, il toron e gli altri elementi radioattivi. L'intensa attività denunciava nella so­ stanza ottenuta la presenza di un nuovo elemento radioattivo, ancora non definito chi­ micamente. Fu chiamato radiotorio e fu subito chiaro che era un elemento della serie di disintegrazione del torio, che, sebbene sfuggito alla precedente analisi di Rutherford e Soddy, s'inseriva tra il torio e il torio X. La vita media del radiotorio fu trovata di circa due anni, un tempo abbastanza lungo perchè il radiotorio potesse sostituirsi nei laboratori al costosissimo radio. Oltre l'interesse scientifico, anche questo motivo economico spinse moltissimi chimici a tentarne la separazione : invano. Con nessun procedimento chimico si riusciva a separarlo dal torio; anzi, nel 1907 il problema sembrò complicarsi perchè Hahn scoprì il mesotorio, generatore del radiotorio, anche esso inseparabile dal torio. I chimici americani McCoy e Ross ebbero il coraggio d'inter­ pretare l'insuccesso proprio e degli altri come un'impossibilità naturale, ma ai con­ temporanei sembrò questa una comoda scappatoia. Intanto nel periodo dal 1907 al 1910 si osservarono altri casi di radioelementi che non si riusciva a separare da altri elementi radioattivi ; i più tipici esempi erano dati dal torio e dal ionio, dal meso­ torio I e dal radio, dal radio D e dal piombo. Alcuni chimici assimilavano l'inseparabilità dei nuovi radioelementi al caso delle terre rare, presentatosi nel corso del XIX secolo. I n un primo tempo le proprietà chimiche simili delle terre rare fecero ritenere omogenei gli elementi stessi e sola­ mente più tardi, gradualmente, con più raffinati metodi chimici, s'era riusciti a sepa­ rarli. Ma Soddy obiettava che l'analogia era stiracchiata : nel caso delle terre rare la difficoltà non consisteva nel separare gli elementi, ma nel constatarne la separazione ; per contro, nei casi dei radioelementi si constata in partenza la diversità dei due radio­ elementi, ma non si riesce a separarli. Nel 1911 Soddy fece un esame sistematico di una preparazione commerciale di mesotorio contenente anche radio e trovò che gli era impossibile aumentare il con­ tenuto dell'uno o dell'altro dei due elementi, anche ricorrendo a numerosissime cri­ stallizzazioni frazionate. Egli concluse che due elementi possono avere proprietà radioattive differenti e tuttavia avere altre proprietà fisiche e chimiche talmente iden­ tiche che i due elementi risultano inseparabili con gli ordinari procedimenti chimici. Se due siffatti elementi hanno proprietà chimiche identiche, essi debbono essere posti nella stessa casella della classificazione periodica degli elementi : perciò li chiamò isotopi. 392

zoo.-I!I ....� . B T HAlliUM

RADI O - [ LEM E NTS ANO PER lODlC L A\J ALL ELEMENTS

IN

210

THE

I N THE

SAME

PLAC(

P ER IODIC TA BLE

ARE C HEMICAl l Y

NON- S E PARABL E

Af10 (PRO BABL Y)

ECTRO SCOPI CALLY

5

INOIST INGUIS tiABLE

o

nA

URAniUM

-t�- RAY (OR RAYL(SS)

o -

-:---+---1 230

CHANGE

RtlATIYt

s

M ! Of'

NC CATIVC

E: L C C T R OMS

Diagramma di Soddy del 1 9 1 3 per illustrare la legge degli spostamenti nelle trasformazioni radio­ attive. In ordinata sono riportate le masse atomiche e in ascissa il numero d 'ordine dell'elemento nel sistema periodico (numero atomico) (da F. Soddy, The origins of the conceptions of isotopes, in Les Prix Nobel en I92I-22).

Intuito questo concetto fondamentale, Soddy ne tentò un'interpretazione teorica, formulando la >: l'espul­ sione di una particella ex determina lo spostamento dell'elemento di due posti a sinistra nel sistema periodico ; ma l'elemento trasformato può successivamente ritornare, per successive espulsioni di due particelle �. nella stessa casella dell'elemento generatore, onde i due elementi avranno identiche proprietà chimiche, nonostante le diverse masse atomiche. Ma nel 191 1 gli elementi radioattivi che emettono raggi fj, quasi tutti con vita breve, erano ancora malnoti nei loro caratteri chimici, sicchè, prima d'accogliere codesta interpretazione, occorreva precisare meglio i caratteri degli elementi che 393

espellono raggi � · Soddy affidò l'incarico al suo assistente Fleck. Il lavoro richiese molto tempo e ad esso parteciparono i due assistenti di Rutherford, Russell e Hevesy, e successivamente Fajans. Nella primavera del rgr3 il lavoro era compiuto e la legge di Soddy risultò provata, senza alcuna eccezione. Essa poteva essere enunciata anche con grande semplicità : l'espulsione d i una particella oc fa diminuire la massa atomica d i u n elemento di 4 unità e sposta l'elemento di due posti a sinistra nel sistema periodico; l'espulsione di una particella � non varia sensibilmente la massa di un elemento, ma lo sposta di un posto nel sistema periodico. Sicchè, se una trasformazione generata da emis­ sione di raggi oc è seguita da due successive trasformazioni cop. raggi � l'elemento dopo tre trasformazioni ritorna alla posizione iniziale e assume proprietà chimiche identiche all'elemento generatore, pur avendo una massa atomica minore di 4 unità. Con questo meccanismo risulta anche chiaro che gli isotopi di due elementi diversi possono anche avere eguale massa atomica e proprietà chimiche diverse. Stewart li chiamò isobari. Nella figura della pagina precedente è riportata la forma origi­ naria data da Soddy, nel rgr3, alla legge degli spostamenti nelle trasformazioni radioattive. Naturalmente gli isotopi radioattivi noti oggi sono molto più numerosi degli iso­ topi conosciuti da Soddy nel rgr3. Ma non ci pare di dover seguire queste ulteriori conquiste tecniche. Ci pare che occorra invece porre brevemente in rilievo il fatto fondamentale : le particelle oc trasportano due cariche positive e le particelle � una carica negativa ; l'espulsione di una di queste particelle cambia il carattere chimico dell'elemento. Il significato profondo della legge di Soddy sta, dunque, nel fatto che il carattere chimico degli clementi, almeno degli elementi radioattivi fino a quando la legge non sarà estesa, non è legato alla massa atomica, come affermava la chimica classica, ma alla carica elettrica intratomica.

I MODELLI ATOMICI NON QUANTICI 5·

Prime idee sulla complessità degli atomi.

La seconda parte della memoria di Giuseppe Giovanni Thomson, nella quale è esposto il metodo, da noi ricordato nel Cap. XI, § 3 di determinazione del rapporto tra la carica e la massa dell'elettrone, è dedicata a considerazioni sulla struttura della materia. Dai primi esperimenti risultava, come abbiamo riferito, che i > hanno massa certamente pii1 piccola della massa dell'atomo più semplice, che però nel pensiero di Thomson non doveva abbassarsi oltre l 'ordine di grandezza del decimo o del centesimo della massa dell'atomo d'idrogeno. Allo scienziato sembrava pertanto accettabile l'ipotesi di Prout, secondo la quale i differenti elementi chimici sono aggregazioni diverse di atomi della stessa natura: sostituendo agli atomi d'idro­ geno ipotizzati da Prout i >, la teoria dell'elemento primigenio si trova in accordo coi risultati sperimentali e con l'ipotesi recentemente emessa da Sir Norman Lockyer per spiegare le caratteristiche degli spettri delle stelle. 394

Ma come stanno assieme i dai fisici del primo ventennio del secolo. Thomson riconobbe (1903) dapprima che gli elettroni rotanti dovevano produrre onde di luce polarizzata ellitticamente. In quanto al campo magnetico prodotto dalle cariche rotanti, la teoria faceva prevedere che gli elettroni rotanti sotto l'azione di una forza proporzionale a una distanza non possono spiegare le proprietà magnetiche dei corpi, quando il fenomeno avvenga senza dissipazione d'energia. Ma, ammettendo che il moto delle particelle sia smorzato da una causa sconosciuta, si potrebbe spie­ gare il paramagnetismo. Ma avviene dissipazione d'energia ? Thomson non si pro­ nuncia, intuendo le gravi conseguenze cui l'ammissione avrebbe condotto. Anche Guglielmo Voigt l'anno prima era pervenuto a spiegare para e diamagnetismo con un'ipotesi alquanto complessa di elettroni rotanti ostacolati nei loro moti da con­ tinui urti. Contrariamente alle conclusioni di Thomson e di Voigt, Pietro Langevin, in un'importantissima memoria del 1905, alla quale attingono tuttora i trattatisti della teoria del magnetismo, crede possibile dare all'ipotesi di Ampère un'interpr�ta­ zione precisa attraverso l'ipotesi degli elettroni mobili su traiettorie chiuse. Langevin inoltre dimostra che l'effetto Zeeman si può spiegare nell'ipotesi degli elettroni rotanti, anche ignorando la legge d'attrazione che mantiene l'elettrone nella sua orbita. La stabilità meccanica dell'edificio atomico fu studiata da Thomson in una suc­ cessiva memoria dello stesso anno 1904. Egli concluse che gli elettroni debbono essere in rapido movimento di rotazione con velocità non inferiore a un certo valore limite ; che se sono molto numerosi (più di otto) si dispongono in più anelli (e da qui una cor­ relazione tra la struttura degli atomi e il sistema periodico degli elementi) ; che infine il numero di elettroni su ciascun anello diminuisce col raggio dell'anello stesso. Negli atomi radioattivi, in conseguenza della radiazione, la velocità degli elettroni va lenta­ mente diminuendo e quando essa raggiunge il valore limite, si rompe la stabilità e si ha una vera e propria esplosione, con espulsione di particelle e un nuovo assesta­ mento atomico. Si sa che l'atomo di Thomson non resse alla critica e al cimento sperimentale; ma sarebbe un errore credere che il suo studio sia stato sterile. Esso invece fu una guida preziosa per gli studi teorici e sperimentali del tempo e mise in evidenza i pro­ blemi fondamentali che bisognava risolvere per qualunque modello di atomo che avesse tra i suoi costituenti gli elettroni. Codesti problemi si possono ridurre a tre : numero e distribuzione degli elettroni in relazione alla massa dell'atomo ; natura e distribuzione dell'elettricità positiva che compensi la quantità totale negativa degli elettroni ; natura e distribuzione della massa dell'atomo. Thomson capì che il problema essenziale per ogni modello era la ricerca di qualche via che consentisse, da risultati sperimentali, di ottenere indizi sul numero di elet­ troni di un atomo. Questa via egli la trovò supponendo ogni elettrone centro di diffu­ sione della radiazione che investe l'atomo. Basandosi su questa ipotesi, quattro feno­ meni consentivano di ottenere gli indizi cercati; la diffusione dei raggi X, l 'assorbi­ mento dei raggi catodici, la dispersione della luce, la deviazione delle particelle elettrizzate nel loro rapido passaggio attraverso la materia. Su questa traccia Thomson -397

e diversi altri sperimentatori, tra i quali i più noti furono Crowter e Barkla, conclu­ sero che il numero di elettroni nell'atomo dovesse essere proporzionale alla massa atomica. Precisamente Crowter, con esperienze di diffusione dei raggi, concluse ( 1910) che il numero di elettroni dovesse essere eguale a 2-3 volte il peso atomico dell'ele­ mento ; Barkla, invece, dallo studio della diffusione dei raggi X, concluse (I9II) che il numero di elettroni negli atomi leggeri dovesse essere press'a poco metà del loro peso atomico. Sono indicazioni contraddittorie, ma che hanno un elemento comune : il numero di elettroni è in qualche modo legato alla massa dell'atomo considerato. Non fosse che per questo solo risultato qualitativo, che spingerà altri a una più accu­ rata indagine, l'atomo di Thomson andrebbe ricordato. Più difficile avere indizi sul secondo problema ricordato : la carica positiva dell'a­ tomo. L'evidenza non è così flagrante, come per le cariche negative. E tuttavia c'erano, secondo Thomson , due indizi dell'esistenza di una carica positiva nell'atomo. L'espul­ sione di particelle Cl da parte delle sostanze radioattive lasciava supporre che esse provenissero dall'interno dell'atomo, anzi che fossero costituenti ordinari degli atomi degli elementi radioattivi. E gli elemenri stabili non potrebbero avere lo stesso costi­ tuente ? Per me, scrisse Thomson nel 1913, penso che c'è �tna grande certezza che altri atomt.", oltre quelli degli elementi radioattivi, possono essere disintegrati e che l'elio possa essere ottenuto come prodotto di questa disintegrazione. Anzi, ed è questo il secondo indizio, gli sembrava di aver osservato (come acuto ci appare il rilievo del Galvani che spesso ognuno vede nei fenomeni quello che vuole vedere !) che alcuni metalli bombardati con raggi catodici veloci avessero emesso elio ; ma il fatto fu contestato da Maria Curie. 7• L'atomo di Nagaoka-Rutherford.

Lord Kelvin aveva appena accennato alla possibilità di un nucleo centrale di elettricità positiva entro l'atomo. Il cenno, trascurato da Thomson, fu ripreso,· forse inconsapevolmente, dal fisico giapponese Hantaro Nagaoka (r865-I950) in una comu­ nicazione fatta nel dicembre 1903 alla Società fisico-matematica di Tokyo e pubbli­ cata l'anno successivo dalla rivista inglese Nature. Mentre Thomson proponeva il proprio modello tenendo presenti specialmente i fenomeni elettrici, Nagaoka si pro­ poneva di studiare un sistema saturniano nel tentativo di spiegare gli spettri d'emis­ sione. Il sistema, spiega lo scienziato, consiste in un gran numero di particelle di egual massa disposte in un cerchio ad intervalli angolari eguali e respingentisi mutuamente con forze inversamente proporzionali ai q�tadrati delle distanze tra le particelle; al centro del cerchio è posta una grossa particella che attrae le altre che formano l'anello secondo la stessa legge. Osservato che se le particelle si muovono intorno al centro, il sistema rimane stabile per piccole oscillazioni trasversali o longitudinali, Nagaoka aggiunge : Evidentemente il sistema qui considerato sarà approssimativamente realizzato se noi po­ niamo gli elettroni sull'anello e !a carica pos·itiva al centro. Tale atomo ideale non risulta contraddittorio coi risultati dei recenti esperimenti su1: raggi catodici, sulla radioattività e gli altri fenomeni collegati (H. Nagaoka, On a Dinamical System illttstrating the Spectrum Lines and the Phenomena of Radioactivity, in The Nature, 69 (1904) , p. 392) . Ma, per il momento, il modello di Nagaoka non ebbe, come si dice, buona stampa.

Nel 1908 Geiger e Marsden iniziarono lo studio sperimentale del passaggio delle particelle oc. attraverso sottili foglie d 'oro o d'altro metallo. Essi osservarono che la maggior parte delle particelle attraversa la foglia quasi in linea retta e prosegue il suo cammino oltre la foglia come se non incontrasse alcun ostacolo da parte della materia: identica osservazione era stata fatta da Guglielmo Bragg nel 1904. Ma Geiger e Marsden notarono ancora che, accanto a questo comportamento della moltitudine, avviene pure eccezionalmente che qualche particella - circa I su ro.ooo - sia for­ temente deviata di un angolo maggiore di un angolo retto. Si trattava indubbiamente di un fenomeno d'urto tra una particella oc. e gli atomi della materia attraversata. Ma tanto il modello atomico di Thomson che quello di Nagaoka imponevano un radicale mutamento del concetto d'urto tra atomi, traman­ dato dalla teoria cinetica dei gas. Questa assimilava gli atomi a sferette elastiche c trattava i problemi d'urto esattamente come si studia l'urto tra due biglie d'un bigliardo. I nuovi modelli atomici non consentivano pitt questa stilizzazione, perchè quando due atomi con le loro cariche elettriche si avvicinano, sorgono non trascu­ rabili forze repulsive tra le rispettive cariche elettriche, modificatrici delle traiettorie pri:r:nitive degli atomi : l'> in senso meccanico non avviene ; la teoria delle varia­ zioni di moto di due atomi che si avvicinano molto è notevolmente più complicata dal punto di vista matematico. In prima approssimazione, però, le variazioni ottenute nel moto di due atomi supposti con le rispettive cariche equivalgono a quelle che si otterrebbero con gli urti meccanici, onde si può continuare ancora a parlare di urti con la convenzione che si tratta di urti fittizi. Ciò posto, Thomson interpretava la forte deflessione osservata da Geiger e Marsden non come dovuta a un singolo urto di una particella oc. contro un atomo, ma come la somma di numerose piccole deflessioni subite dalla particella nei suoi urti successivi contro gli atomi della materia attraversata. Fu invano chiesto a Thomson di spiegare come mai le successi ve piccole deflessioni dovevano essere tutte dello stesso senso, in modo da dare una grande deflessione totale, quella os­ servabile. Il modello di Thomson non comportava altra interpretazione dell'esperimento di Geiger e Marsden, perchè è intuitivo, anche senza seguire i calcoli di Thomson, che una distribuzione diffusa di elettricità positiva - la particella oc. - attraversando un'altra distribuzione diffusa mischiata di elettroni -- l'atomo della foglia metallica attraversata - non può subire che lievi deflessioni. Il modello di Thomson era incapace di spiegare in forma accettabile l'esperimento di Geiger e Marsden. Lo intuì, nel 191 1 , l'antico assistente di Thomson, Ernesto Rutherford. Questi si convinse che la forte deflessione osservata per qualche parti­ cella oc. da Geiger e Marsden doveva essere attribuita alla deviazione brusca subita dalla particella oc. passando attraverso un campo elettrico intenso nell'atomo o, come si dice, per un solo urto contro un atomo. Ma se la deflessione era dovuta a un solo urto, occorreva necessariamente supporre nell'atomo un nocciolo centrale di dimen­ sioni estremamente piccole, caricato positivamente, e contenente la maggior parte della massa dell'atomo : occorreva, insomma, adottare il modello atomico di Nagaoka, della cui stabilità, sulla quale erano stati avanzati dubbi, non era il caso di occuparsi, 399

secondo Rutherford, perchè il problema della stabilità poteva sorgere in un secondo tempo, quando si fosse conosciuta la minuta struttura dell'atomo. Col modello di Nagaoka la forte deflessione si spiega immediatamente (v. fig. sotto). La particella oc attraversa l'atmosfera elettronica di un atomo di una foglia metallica, si avvicina al nucleo e per la grande forza coulombiana che sorge tra le due cariche positive è fortemente deviata, costringendola a un'orbita cometaria. Langevin fece osservare che l 'atomo di Nagaoka non sembrava in tutto confer­ mato dai fenomeni radioattivi, perchè i corpi radioattivi emettono anche particelle fj che sembrano provenire dalle parti più profonde dell'atomo. Dunque nel nucleo ato­ mico debbono essere presenti anche elettroni, e per questo verso il modello di Thomson sembrava più attendibile. Maria Curie insistette sulla necessità di ammettere l'esi­ stenza di elettroni nel nucleo; questi elettroni essenziali, come ella li chiamò, o nucleari, come si chiamarono dopo, non possono sfuggire senza la distruzione dell'atomo, mentre gli altri, dalla stessa scienziata detti periferici, possono essere staccati dall'atomo, senza variarne la natura chimica. Per una ventina d'anni gli elettroni nucleari fecero parte (residuo omaggio al modello di Thomson ?) dell'edificio atomico; i trattatisti, su suggerimento di Rutherford, finirono con l'attribuire ad essi una funzione di coagulo tra le cariche positive del nucleo, che la forza coulombiana di repulsione reciproca tendeva a separare e allontanare.

Orbite cometarie di parti­ celle a in prossimità di nu­ clei pesanti, secondo Ru­ therford { 1 9II}.

400

Il modello di Nagaoka-Rutherford era semplicemente una rappresentazione qua­ litativa di struttura dell'atomo ; occorreva scendere a specificazioni quantitative, della stessa natura di quelle che s'erano poste per il modello di Thomson. Gli espe­ rimenti che avevano portato a concludere che la carica nucleare fosse metà del peso atomico erano ovviamente applicabili anche al nuovo modello. Ma Rutherford osser­ vava che la legge, almeno per i nuclei leggeri, non doveva essere esatta. Infatti, indi­ viduata la particella oc. emessa dalle sostanze radioattive come un ione d'elio con due cariche positive, è difficile ammettere che questa particella conservi qualcuno dei suoi elettroni periferici: dunque, l'atomo d'elio neutro avrebbe due elettroni e quindi, per analogia, l'atomo d'idrogeno dovrebbe averne uno, e uno dovrebbe essere anche la carica del nucleo, onde l'accennata legge cadrebbe in difetto. Il 1913 fu l'anno cruciale o, come lo chiama Soddy, > per il modello di Rutherford. Quattro fatti fondamentali confluirono quasi contemporaneamente a dare un alto grado di attendibilità al modello di atomo c�n nucleo. Sono quattro fatti che s'intrecciarono e s 'influenzarono a vicenda, non soltanto per la ristretta area geografica in cui si svolsero (ad eccezione di uno) - tra Cambridge, Manchester e Glasgow - ma anche per la comune ispirazione di Rutherford, più o meno diretta. Abbiamo già parlato del primo fatto, la legge sperimentale degli spostamenti enun­ ciata esplicitamente da Soddy nella primavera del 19r3. Esporremo ora gli altri tre, che sono : il concetto di > suggerito da Van den Broek (187o-rg26) poco prima; la quantizzazione delle orbite elettroniche annunciata da Bohr nell'estate; la legge sperimentale di Moseley annunciata nell'inverno. Van den Broek notò che le osservazioni sulla diffusione delle particelle oc. erano meglio interpretate dal modello di Rutherford se si supponeva la carica nucleare eguale al numero d'ordine, da lui chiamato >, dell'elemento nella classifica­ zione periodica di Mendeleev. Questo numero è circa la metà del peso atomico per gli atomi leggeri e diminuisce progressivamente sino a raggiungere il valore 0,4 circa per l'uranio, l'ultimo elemento della classificazione. L'idea di Van den Broek, perciò, mentre non si discostava molto dalla precedente legge sperimentale, era d'una semplicità seducente. La sua giustificazione, tuttavia, era abbastanza fragile. A darle un solido fonda­ mento sperimentale provvide l'ultimo evento importante dell'annata (del terzo par­ leremo diffusamente nel § r2) : la legge di Moseley. Enrico Moseley (r887-I915), che due anni dopo sarebbe andato a morire in combattimento nella penisola di Gallipoli, iniziò a Manchester, come assistente volontario di Rutherford, le sue ricerche sugli spettri dei raggi X, adoperando il metodo recentemente introdotto dai Bragg della riflessione sui cristalli. Scopo ben determinato della sua ricerca, secondo l'attesta­ zione di Rutherford, era di decidere se il numero atomico d'un elemento fosse più importante del suo peso atomico nella produzione degli spettri d 'alta frequenza. Barkla aveva già provato che se i raggi X abbastanza duri investono una sostanza semplice, generano altri raggi X, detti secondari, che sono omogenei, cioè della stessa frequenza, e caratteristici della sostanza investita, ma non dipendono dalla frequenza dei raggi X primari. Moseley misurò la frequenza delle principali righe spettrali sco­ perte da Barkla per i successivi elementi del sistema periodico e trovò che esse erano ·

:26.

-

Storia delle Scienze, Il.

. 401

proporzionali al quadrato d'un numero che variava di un'unità al passaggio da un elemento al successivo della classificazione periodica. Era un fatto sperimentale che non implicava alcuna considerazione teorica sulla costituzione dell'atomo e sull'ori­ gine del suo irraggiamento. Ma esso acquistò un significato profondo allorchè Moseley dimostrò che il fatto osservato andava interpretato come prova che esiste nell'atomo una quantità fondamentale che aumenta regolarmente passando da un atomo all'altro. Questa quantità p�tò essere soltanto la carica del nucleo centrale. Oltre che questi risultati sperimentali di Moseley, anche la legge di Soddy con­ sentiva una verifica dell'idea semplice di Van den Broek. Siccome ogni emissione di una particella oc abbassa la massa atomica di 4 e il numero atomico di 2, mentre l'espulsione di una particella � eleva la carica di I e lascia invariata la massa atomica, basta conoscere il tipo di emissione di una famiglia radioattiva e il numero atomico del capostipite per calcolare immediatamente numero atomico e massa di tutti gli elementi della famiglia, e confrontarli coi risultati sperimentali. Il confronto dette sempre dati in perfetto accordo con la teoria. La fervida scuola di Rutherford andava alla ricerca di una misura diretta della carica nucleare, ma la prima guerra mondiale rallentò o impedì la ricerca, perchè, a differenza di ciò che avvenne nella seconda guerra mondiale, nessuno allora pensava lontanamente che questi studi potessero avere un qualunque interesse bellico; essi appartenevano totalmente al campo della >, che doveva essere sacrificata alle esigenze della guerra. Sicchè, soltanto nel 1920 Giacomo Chad­ wick fece una prima determinazione accurata delle cariche nucleari di alcuni ele­ menti, deducendole dal rapporto del numero di particelle oc deviate di un determinato angolo dagli atomi degli elementi attraversati. Con questo metodo egli trovò per il rame, l'argento e il platino rispettivamente le cariche 29,3 ; 46,3; 77.4, mentre i numeri atomici sono ordinatamente 29, 47, 78 : l'accordo è soddisfacente. 8. Disintegrazione artificiale degli elementi.

Gli indizi che, intorno al 1913, avvaloravano il modello atomico di Rutherford provenivano prevalentemente dai fenomeni radioattivi. Questi erano talmente singolari che potevano anche autorizzare a ritenere la struttura dell'atomo radioattivo diversa da quella dell'atomo stabile. Estendere la struttura dell'atomo radioattivo all'atomo stabile era pura estrapolazione. C' è più di �tn vantaggio, ammoniva Thomson nel 1913, a stabilire una teoria della struttura atomt�ca su una base più ampia di quella della radio­ attività . . . le proprietà chimiche degli atomi e un gran n�tmero di proprietà fisiche dipen­ dono dalla distribuzione degli elettroni nelle vicinanze della superficie degli atomi; questi elettroni non intervengono nelle trasformazioni radioattive che non possono dunque darci alcun insegnamento sul proprio conto (Rapports et Discussions du Conseil de Physique Solvay, 1913, p. 5 1 ) . Sarebbe stato, quindi, della massima importanza avere qualche prova sperimentale che la struttura degli atomi stabili fosse assimilabile a quella degli atomi radioattivi. Nel 1920 Rutherford tentò la prova, guidato da un ragionamento estremamente semplice, che conviene ripetere con le sue parole : La particella oc di radio è la sorgente 402

di energia più concentrata di cui noi disponiamo e abMamo visto che vi sono buone 1'agioni per credere che la particella (1. del radio C è capace di penetrare all'interno dei nuclei degli atomi leggeri e forse anche degli atomi pesanti. A meno che i nuclei degli atomi non siano degli edifici eccessivamente stabili, è da presumere che subiscono una rottura sotto l'infiuenza di forze interne che agiscono al momento dell''ttrto con una par­ ticella . . . In relazione alle piccole dimensioni dei nuclei, le probabilità di un urto cen­ trale sarebbero ben poche e, anche nei casi più favorevoli, non più di una particella ex su, Io.ooo prod'ttce effettivamente una disintegrazione (A tomes et électrons, Rapports et discussions du Conseil de Physique tenu a Bruxelles du 1er au 6 avril 1 92 1 , Paris 1923, pp. so-s r). Rutherford, quindi, fece passare attraverso l'azoto le particelle ex prodotte da una sostanza radioattiva o, come si dice, bombardò l'azoto con particelle ex. Egli osservò la produzione di ioni d'idrogeno con una sola carica, che Marsden nel 1 9 1 4 a veva già osservato e denominato protoni. Il numero di protoni prodotto era estre­ mamente piccolo : ùn milione di particelle ex impiegate a bombardare l 'azoto davano appena una ventina di protoni, osservati da Rutherford col metodo della scintillazione. L'effetto osservato, commenta Rutherford, è debole e difficile da misurare, ma nell'in­ sieme si ha fortemente l'impressione che gli atomi H prendono nascenza dalla disinte­ grazione del nucleo d'azoto (Ibid., p. 5 1 ) . Protoni si ottennero anche bombardando con le particelle ex del radio C altri elementi (boro, fluoro, sodio, alluminio, fosforo) . Nel 1921 e '22 Rutherford e Chadwick ottennero altre reazioni nucleari e nel 1925 Rutherford interpretò tutti questi risultati come disintegrazioni atomiche, provando che la particella ex può essere catturata dal nucleo. Più tardi, quando le disintegrazioni artificiali divennero una cosa comune, si capì che Rutherford aveva veramente otte­ nuto disintegrazioni fin dal 1920, mentre nei primi anni l'annuncio dei risultati da lui ottenuti era stato accolto con riserva, se non con scetticismo. Il primo esperimento di Rutherford, il bombardamento dell'azoto, per esempio, s 'interpretò e s'interpreta così : la particella ex è captata dal nucleo d'azoto, con successiva emissione d'un pro­ tone e formazione di un nucleo di massa 17, isotopo dell'ossigeno. g. Isotopi non radioattivi.

\

L'isotopia (o, come altri dice, l'isotopismo) degli elementi radioattivi si presentò come un fatto d'esperienza, indipendente da ogni ipotesi sulla struttura degli atomi. Per sottolineare questo processo storico, noi ne abbiamo trattato prima ancora di par­ lare dei modelli atomici, in considerazione del fatto che i trattatisti moderni invertono, a questo proposito, l'ordine storico per comodità didattica (ma Soddy ritiene, forse esa­ gerando, che l'inversione storica sia stata deliberatamente programmata ai suoi danni) . Ma dopo che la legge degli spostamenti di Soddy fu invocata come una delle prove più convincenti per il modello di Rutherford, estrapolato anche agli elementi stabili, l'isotopia degli elementi non radioattivi sembrava diretta conseguenza della teoria e gettava una luce nuova su un fatto scoperto da Thomson nel 1 912. Precedentemente, nel 1910, Watson aveva misurato con estrema cura il peso atomico del neon e lo aveva trovato eguale a 20,200 (fatto eguale a 16 il peso ato-

mico dell'ossigeno). Nel 1 9 1 2 Thomson, sottoponendo i raggi canale del neon all'azione di due contemporanei campi elettrico e magnetico, secondo il metodo che gli era proprio (Cap. XI, § 3), osservò che codesti raggi non sembravano omogenei, perchè si ottenevano due parabole, una corrispondente a una particella di peso atomico 20 e l'altra, più debole ma netta, corrispondente a una particella di peso atomico 22. Thomson ebbe il dubbio che il neon atmosferico fosse un miscuglio di due gas diversi. Soddy commentò subito: La scoperta è la più drammatica estensione di ciò che è stato trovato ad un estremo della tavola periodica ad un elemento dell'altro estremo e rafforza l'ipotesi che la complessità della materia in generale è maggiore di quello che rivela la sola legge periodica (A nnual Report in Radioactivity, in A nnual Reports on the Progress of Chemistry, Chemical Society, London 1913, p. 266) . Nel 1913 e ' 1 4 Francesco Guglielmo Aston ( 1877-1945 ) , assistente di Thomson, tentò di separare, mediante distilJazioni frazionate, i due ipotetici costituenti del neon . atmosferico, ma i risultati furono assolutamente negativi ; e risultato molto incerto dette un successivo faticoso tentativo di separarli per diffusione attraverso un vaso poroso. Scoppiò la prima guerra mondiale; Aston fu chiamato a prestare la propria opera in Qn servizio tecnico dell'aeronautica e sospese le ricerche. Le riprese nel 1919, quando

\

\ \Y \ \ \ \ \ \

---

Schema del primo spettrografo di massa. I ioni prodotti da un tubo di scarica non disegnato in figura, attraversano le fenditure 51 e 52, quindi il campo elettrico prodotto dal condensatore piano P1 .P 2 e sono deviati verso il basso. Emersi dal campo, i ioni imboccano la fenditura D ed entrano . nel campo magnetico prodotto da poli cilindrici indicato in figura con un cerchio; il campo ma­ gnetico devia i ioni verso l'alto sempre nel piano del disegno. Tutti i ioni di egual massa sono concentrati nello stesso punto della lastra fotografica G F, impressionandola. Dalla posizione di questa traccia si desume la massa del ione.

Dispositivo costruttivo del primo spettrografo di massa. B è i l tubo di scarica per i raggi canale, A l'anodo e C il catodo forato. D è un anticatodo di silice per ridurre al minimo la produzione di raggi X. I ioni passano attraverso le fenditure 51 e 52 , attraversano il campo elettrostatico pro­ dotto dal condensatore piano l 1 l2 e quindi i l campo magnetico M e vanno a colpire la lastra fotografica W. I 1 e I 2 sono bulbi ripieni di carbone di legna raffreddati in aria liquida per mante­ nere il vuoto; V è un dispositivo per spostare la lastra fotografica.

/

l

l

l'esistenza d'isotopi radioattivi era stata posta fuori d'ogni ragionevole dubbio, e le riprese con un lavoro teorico, compiuto in collaborazione con Lindemann, nel quale si dimostrava che tra i possibili metodi fisici (diffusione, distillazione, centrifugazione) di separazione degli isotopi il più promettente di risultati era · il metodo elettromagnetico di Thomson. Nello stesso anno Aston iniziò gli esperimenti e li perfezionò l'anno suc­ cessivo, mettendo a punto un dispositivo, che egli chiamò, con denominazione rimasta nella scienza, spettrografo di massa (v. figg. a pag. prec. e sopra) . Nello spettrografo di· massa è applicato il metodo di Thomson della deviazione delle particelle elettrizzate da parte di due campi elettrici e magnetici, ma Aston ne aumentò fortemente la sensibi­ lità introducendo la rivelazione fotografica e soprattutto facençlo avvenire nello stesso piano e in senso opposto le deviazioni, rispettivamente elettrica e magnetica. Per­ tanto, i principi fisici applicati nello spettrografo di massa ci son ben noti. Ioni del­ l'elemento in esame, attraversato un campo elettrico e successivamente un campo magnetico, vanno a colpire una lastra fotografica !asciandovi una traccia. Ora, le deviazioni subite dai ioni dipendono dal rapporto ejm (o, meglio, nejm, perchè un ione può trasportare più d'una carica elementare) tra la carica eguale per tutti e la massa; quindi tutti i ioni di eguale massa sono concentrati nello stesso punto della lastra fotografica e i ioni di massa diversa in punti diversi, onde · dal punto colpito sulla lastra si desume la massa del ione. Il nuovo strumento si dimostrò subito d'una fecondità eccezionale : Aston ebbe immediata conferma che il neon è costituito da due isotopi di massa rispettivamente 20 e 22; il successivo elemento sottoposto ad esame fu il sodio e vi si trovarono due isotopi di massa 35 e 37. Aston iniziò un sistematico studio e le caselle del sistema periodico �i popolarono d'isotopi: nel 1 92 I , I I su 2I elementi esaminati, avevano isotopi; ma IO anni dopo su 64 elementi esaminati, 42 avevano isotopi. Nel 1945, su 83 elementi esaminati, Io soltanto erano elementi puri , e gli altri avevano 283

isotopi: troppi! e ormai la moltitudine di atomi diversi costituisce una seria difficoltà allo studio dell'energia atomica. Gli spettrografi andarono via via perfezionandosi : nel I925 Aston costruì un secondo spettrografo, che aveva la precisione di I su IO.oo0; nel I937 il terzo spettrografo di Aston raggiunse la precisione di I su Ioo.ooo, onde, a giudizio di Soddy, questi stru­ menti si possono ritenere tra i più meravigliosi e precisi apparecchi che mai mente umana abbia potuto inventare. La scoperta di Aston ebbe conseguenze teoriche di eccezionale rilievo. Come imme­ diata conseguenza, essa ha riproposto il secolare problema della definizione di elemento. Si tratta cioè di sapere se ogni isotopo è da considerarsi come elemento diverso e ogni sostanza contenente più isotopi come un miscuglio di elementi e non come un solo elemento chimicamente definito. Per ora la grande maggioranza dei chimici rimane ancorata alla concezione classica : ritiene, cioè, che ogni elemento è chimicamente definito dalle sue proprietà chimiche e dal suo spettro d'emissione, sotto determinate circostanze ; per gli elementi di eguali proprietà chimiche e di massa nucleare diversa s'introduce il concetto e il nome d'isotopo. In altre parole, gli isotopi sono considerati elementi chimicamente equivalenti e fisicamente distinti. E si vede qui una prima insufficienza del sistema periodico, il quale è valido per la classificazione della maggior parte delle proprietà fisiche e chimiche degli elementi, come volume, valenza, conducibilità elettrica e termica, cioè di quelle proprietà, dette elettroniche, che si fanno dipendere dal numero e dalla disposizione degli elet­ troni più esterni al nucleo; ma per altre, come la massa, la radioattività, lo spettro dei raggi X, dipendenti dalla costituzione del nucleo e degli elettroni ad esso più vicini, la classificazione, basata sulla conoscenza del solo numero atomico, è insufficiente. 10. Materia ed energia.

Ma il fatto che più impressionò Aston e i suoi collaboratori, fin dalle prime deter­ minazioni del 1920, fu che i pesi atomici di tutti gli elementi leggeri erano numeri interi, almeno nei limiti degli errori sperimentali possibili a quel tempo e cioè con la ' precisione di I : IOOO. Questa > risultava lievemente in difetto con gli atomi pesanti, dal n. 30 in su, per i quali lo scostamento dalla legge è sempre piccolissimo e cresce regolarmente col numero atomico. La regola del numero intero, conclude Aston, consente la più seducente semplificazione al nostro concetto di massa atomica. La regola del numero intero riabilita l'ipotesi avanzata nel I8I6 da Prout : l'elemento primigenio, il protile, dal quale tutti gli altri elementi risultano costituiti, non è l'idro� geno, come Prout aveva creduto, ma il protone cui si aggiunge un corpuscolo circa duemila volte più piccolo, l'elettrone. Ne risulta che i numeri decimali trovati dai chimici per le masse atomiche di molti elementi risultano come media ponderata della miscela d'isotopi di cui l'elemento chimico è costituit o ; sono effetti statistici meramente fortuiti, dovuti alle quantità relative dei costituenti isotopici. Ma la regola del numero intero aveva un'eccezione ; un'eccezione che si dimostrò importante molto più della regola stessa : la massa atomica dell'idrogeno, anche con

l





� ,

� l

l

Il/

l

..... -

l

.., '

., '

• ....

.....



- '

l

---

"'

l

l

l •

Q ...

l l

Q) ...

l

l

l

v



.,

\ l

ì

', reso più difficile del problema astronomico, studiato a fondo da Newton in poi, dal fatto che l'azione reciproca tra i due elettroni è dello stesso ordine di grandezza dell'azione tra nucleo ed elettrone, mentre nel problema astronomico l'attrazione tra due pianeti è piccola rispetto all'azione tra un pianeta e il sole. Ma, a parte le difficoltà matematiche che con gli atomi più complessi diven­ tano insuperabili , c'era una difficoltà di principio, nel senso che con più elettroni la quantizzazione diventa incerta. In attesa di ulteriori progressi della teoria dei quanti che consentissero di superare questa difficoltà di principio, Bohr si limitò, nel I9I3, a tentare dì estendere la teoria almeno agli atomi idrogenoidi, cioè a quegli atomi che si possono immaginare così costituiti : se l'atomo contiene N elettroni, N - I appartengono ad una regione centrale, e l'ennesimo, il più esterno, ruota attorno alla carcassa costituita dal nucleo e dagli N - I elettroni ; le transizioni dell'ennesimo elettrone (detto luminoso) da un'orbita all'altra determinano l'emissione dello spettro

luminoso dell'elemento. A questa categoria di atomi appartengono il litio, il sodio, il potassio, ecc. Applicata a questa categoria di atomi, la teoria di Bohr si dimostrò 1n contrasto coi risultati sperimentali . 13. La teoria di Sommerfeld.

Quando Bohr, nel 1913, formulò la sua teoria, si sapevano quantizzare soltanto i movimenti dipendenti da una sola variabile. Per questo motivo Bohr fu costretto ad ammettere che le orbite degli elettroni periferici fossero esattamente circolari, mentre le leggi della meccanica indicavano che le orbite elettroniche dovevano essere ellissi kepleriane. Ma per definire la posizione di un punto su un'ellisse occorrono due va­ riabili e quindi volendo quantizzare orbite ellittiche bisogna saper quantizzare i mo­ vimenti definiti da due variabili. Nel 1916, quasi contemporaneamente, Wilson e Sommerfeld dettero un metodo di quantizzazione dei sistemi meccanici definiti da più variabili. Sommerfeld ebbe subito l'idea di applicare il metodo al modello atomico di Bohr introducendovi in conseguenza orbite ellittiche ; ma questa introduzione non portava sostanziali modi­ ficazioni alle conclusÌoni di Bohr. Sommerfeld riusciva soltanto a spiegare qualche altra formula empirica nota agli spettroscopisti e in particolare il principio di com­ binazione di Ritz. Ma Sommerfeld osservò ancora che Bohr aveva considerato costante, attenen­ dosi alla più rigida ortodossia classica, la massa dell'elettrone rotante, mentre dalle sue stesse formule si poteva dedurre che la velocità dell'elettrone era troppo elevata per poter prescindere dalle correzioni relativistiche. Occorreva, dunque, modificare la teoria di Bohr introducendo nelle formule la massa relativistica dell'elettrone, variabile con la velocità. Con questa sostituzione l'orbita dell'elettrone non r�sulta più un'ellisse fissa, ma un'ellisse che ruota nel proprio piano intorno al fuoco occu­ pato dal nucleo. Su questa base relativistica e col metodo proprio di quantizzazione, Sommerfeld riuscì, nello stesso anno 1916, a spiegare la struttura fina non soltanto dello spettro dell'idrogeno, ma anche negli spettri dei raggi X. La teoria di Sommerfeld fece ai suoi tempi molta impressione e si presentò come una fondamentale convalida sia dei metodi quantici che della relatività. Ma presto subentrarono una maggiore riflessione critica e una più accurata verifica sperimen­ tale, che smorzarono i primi entusiasmi. Le righe spettrali della teoria di Sommerfeld sono meno numerose di quelle che si osservano allo spettroscopio; inoltre, la teoria era inapplicabile agli atomi con più elettroni planetari. Persino la sua estensione all'atomo di elio era insoddisfacente, anche per le difficoltà matematiche a cui abbiamo prima accennato. 14. Principio di corrispondenza.

Gli insuccessi delle teorie di Bohr e di Sommerfeld non erano la cosa più grave. Oltre gli insuccessi, c'era un fondamentale elemento positivo, costituito dal fatto che per la prima volta la dottrina di Bohr riusciva a unificare lo sterminato campo della

spettroscopia, facendo intravedere il carattere delle sue leggi. Gli insuccessi potevano significare soltanto che qualche cosa ancora nella teoria non era al suo posto, ma non ne infirmavano i concetti fondamentali. Più gravi, invece, erano le critiche di carattere generale mosse alla teoria. Mentre la teoria elettromagnetica descriveva esattamente la radiazione, dando di un'onda monocromatica non solo la frequenza, ma anche l'intensità e lo stato di polarizza­ zione, la teoria di Bohr non riusciva a dare alcuna indicazione su queste due ultime grandezze, necessarie per definire completamente una radiazione monocromatica. Ma, oltre queste insufficienze, c'era nella teoria di Bohr un contrasto stridente: l'azione tra nucleo ed elettrone era concepita e trattata alla maniera classica; ma in questo quadro classico Bohr introduceva bruscamente una cesura quantica. I salti dell'elettrone tra un'orbita e l'altra non sono descrivibili nella meccanica classica; pure l'elettrone, in uno stato stazionario obbedisce alle leggi della meccanica classica; non irradiando però energia, come vogliono le leggi dell'elettromagnetismo, l'elet­ trone sembra vivere fuori dello spazio e del tempo, entro i quali s'inquadrano le leggi della meccanica e dell'elettromagnetismo classico. Insomma, Bohr parte da conce­ zioni classiche e arriva a conclusioni incompatibili con la fisica classica: si manifesta così nell� teoria un'intima incongruenza. I fisici se ne accorsero e se . ne accorse lo stesso Bohr. I n attesa di meglio, si cercò di limitare le troppo forti deviazioni delle conseguenze dalla realtà fisica, introdu­ cendo opportuni criteri orientativi, che ebbero notevole importanza nello sviluppo scientifico. Ne dette l'esempio Bohr elaborando, nel rgr8, il principio di corrispondenza, di cui si trova traccia anche nei suoi primi lavori del 1913. È un principio euristico che Bohr enuncia così : nella elaborazione della teoria bisogna farsi guidare dal concetto che quando si dànno, ai numeri dei quanti d'un sistema, valori via via più elevati, l'irraggiamento emesso tende asintoticamente verso quello che il sistema emetterebbe seguendo le regole classiche. In altre parole, le leggi della nuova fisica debbono ten­ dere alle leggi della fisica classica quando tendessero a sparire le discontinuità quan­ tiche, ossia quando tendesse a zero il valore del quanto d'azione. Così la fisica classica, sebbene riconosciuta inesatta, viene ad acquistare un valore di guida nella scoperta delle leggi quantistiche. Bohr dette in diversi lavori la tecnica d'applicazione di questo principio tutt'altro che facile da capire e da applicare. Tra i risultati concreti ottenuti dall'applicazione del principio di corrispondenza ricordiamo il calcolo approssimato eseguito da Bohr dell'intensità delle righe spettrali nella teoria quantica, e la formula quantistica data ( 1 923) dai suoi allievi Kramers e Heisenberg per la dispersione, che, sebbene non coincidente con la classica, era in accordo con l'esperienza. Ma via via che l'applicazione del principio di corrispondenza s'estendeva, le diffi­ coltà aumentavano fortemente. I fisici erano costretti a introdurre sempre nuove regole selettive o regole di proibizione, che apparivano non solo poco spontanee, ma misteriose. Tale, per esempio, il principio d'esclusione di Pauli (rgzs ) che afferma non poter esistere in un sistema quantico due o più elettroni nelle identiche condizioni fisiche. I fisici si chiesero quale fosse il significato profondo di questa strana regola, la cui applicazione d'altronde conduce a risultati d' accordo con l'esperienza. Se ne

discusse molto ; alcuni vollero giustificarla con la non distinguibilità degli elettroni, ma non pare che questa giustificazione regga alla critica. Molti fisici sono più inclini a pensare che essa sia semplicemente una regola correttiva che elimina le dannose conseguenze di concepire, forse in disaccordo con la realtà, gli elettroni come cor­ puscoli. 15. Costruzione degli atomi.

Alla fine della prima guerra mondiale appariva chiaro che, basandosi sulle ipotesi di Rutherford e Bohr, non sarebbe stato possibile giungere per via sintetica a una teoria genetica sulla costituzione degli atomi. I fisici allora pensarono, su suggeri­ mento di Bohr, di aggredire il problema per via induttiva: cioè avvalendosi di tutto l 'abbondante materiale sperimentale sul comportamento chimico, magnetico, spettrale dei vari atomi, che si potesse presumere dipendente dalla loro costituzione, desumere la loro struttura atomica e in particolare la distribuzione degli elettroni. Fu un lavoro imponente che portò a grandi risultati, naturalmente più empirici di quelli a cui s'era sperato potesse condurre la teoria di Bohr. Fu posta a base dello studio la classificazione periodica degli elementi e il con­ cetto di numero atomico, eguale al numero di elettroni periferici e al numero d'ordine dell'elemento nella classificazione periodica. E siccome esistono 92 elementi, esistono 92 atomi nei quali il numero di elettroni periferici cresce regolarmente da I a 92. Ma come sono disposti questi elettroni ? tutti sulla stessa orbita o in orbite diverse ? Abbiamo già visto che sin dai primi modelli di Thomson, gli elettroni si suppo­ nevano disposti in strati diversi e solamente così si poteva riuscire a spiegare la perio­ dicità della tavola di Mendeleev. Anche la teoria di Bohr - e per la stessa esigenza d'interpretazione - ha ammesso che su ogni livello quantizzato non ci potesse essere più di un certo numero massimo di elettroni. Questo principio di saturazione dei livelli e il grande principio della fisica per cui lo stato stabile di un sistema è sempre quello di minima energia, sono i fondamenti della teoria genetica degli atomi. N on è possibile entrare in particolari ; possiamo solo fare qualche cenno dei metodi seguiti. La fondamentale osservazione fu questa : gli atomi della prima colonna della tavola di Mendeleev (idrogeno, litio, sodio, potassio, rame, rubidio, argento, cesio, oro, v. Cap. X I V , § 4) hanno uno spettro analogo a quello dell'idrogeno, sono facilmente ionizzabili positivamente, hanno notevole instabilità e indifferenza chimica. Da tutte queste constatazioni sperimentali si può desumere ragionevolmente che tutti questi atomi hanno una struttura analoga a quella dell'idrogeno, sono cioè idrogenoidi con la particolare struttura a cui abbiamo accennato. La seconda colonna della classificazione periodica si può interpretare come otte­ nuta dalla precedente con l'aggiunta ad ogni atomo di un nuovo elettrone orbitale e contemporanea aggiunta di una carica elementare al nucleo. Si procede in modo analogo per le successive colonne. La distribuzione degli elettroni nella carcassa degli idrogenoidi si ottenne con un singolare processo genetico, in cui entravano in giuoco le regole di proibizione. L'atomo d'idrogeno è costituito, come abbiamo più volte detto. da un protone nucleare 27.

·

Storia delle Scienze, I L

da un elettrone planetario. Nel suo stato stabile, cioè non eccitato, il sistema avrà minima energia, e perciò l'elettrone ruoterà nell'orbita più vicina al nucleo, cioè al livello che si suole indicare con K . Se a questo livello K s i aggiunge un secondo elettrone, attribuendogli certe carat­ teristiche, e contemporaneamente si aggiunge una carica positiva al nucleo, si ottiene l'atomo di elio. Con l'aggiunta del secondo elettrone lo strato K è saturato o, come si dice, è chiuso . Se all'atomo si aggiunge un terzo elettrone, questo non può coll9carsi più sullo strato K , ma si colloca sul livello immediatamente successivo che si suole indicare con L : si ottiene così (sempre con la contemporanea aggiunta di una carica positiva al nucleo) il litio. Così, a uno a uno, si costruirono i 92 atomi diversi della classificazione periodica, indicando per ognuno la distribuzione degli elettroni periferici nei vari livelli : verso il 1927 questo imponente edificio induttivamente costruito era sostanzialmente com­ piuto. L'esistenza di livelli quantizzati e i precedenti schemi di struttura degli atomi furono ampiamente confermati dalle esperienze di ionizzazione per urto e dalla strut­ tura degli spettri dei raggi X.

e

CAPITOLO

XV.

LA MECCANICA ONDULATORIA

LE NUOVE MECCANICHE �.

Estensione alla radiazione della legge statistica radioattiva.

Il nuovo meccanismo introdotto da Bohr per l'emissione e l'assorbimento della radiazione liberava la teoria dei quanti dalle restrizioni che la legavano agli oscillatori lineari o a equivalenti sistemi particolari. Sorgeva pertanto il problema di dedurre la formula della radiazione nera sulla base delle nuove ipotesi. Si dedicò alla soluzione Alberto Einstein, che aveva seguito con interesse i lavori di Bohr e accolto in particolare con compiacimento il principio di corrispondenza, apparso a molti preludio d'inserimento della teoria dei quanti nella meccanica clas­ sica. Nel 1 9 1 7 apparve il massimo contributo dato da Einstein alla quantistica, il suo famoso saggio nel quale si applicavano all'atomo di Bohr i concetti di probabilità della legge di disintegrazione radioattiva. Come ogni singolo atomo radioattivo esplode in un momento imprevedibile con un processo che appare non causale, così la tran­ sizione di un elettrone in un atomo è del tutto imprevedibile e va studiata secondo leggi statistiche. Einstein le formulò, ammettendo : r) che in presenza di un campo di radiazione, la probabilità di transizione di un elettrone, sia nel senso dell'emissione che dell'assorbimento, è prop�rzionale nell'unità di tempo, all'intensità della radia­ zione ; 2) che anche in assenza di perturbazioni esterne avviene transizione spontanea degli elettroni da stati di energia più elevata a stati di energia più bassa, con una probabilità proporzionale, nell'unità di tempo, al numero di atomi inizialmente allo stato eccitato : è così trasportata di peso nel fenomeno di radiazione la legge di emis­ sione radioattiva, alla quale Einstein suggestivamente si richiama. Su queste basi, ricalcando e approfondendo la sua teoria sul moto browniano, Einstein non solo ottenne la formula di Planck per la radiazione nera, ma riuscì a discutere in modo generale il problema dello scambio d'impulso tra il sistema ato­ mico e la radiazione, concludendo che per ogni processo elementare di radiazione dev'essere emesso un impulso di valore hv/c in una direzione del tutto casuale. Questa

conclusione acuiva il dissidio onda-corpuscolo, perchè una siffatta descrizione del processo d'emissione escludeva la possibilità di onde sferiche. È una conseguenza che Einstein constata con rammarico alla fine del suo scritto : Queste caratteristiche, egli scrive, dei processi elementari sembrerebbero rendere quasi inevitabile lo sviluppo d'·una adeguata trattazione quantistica della radiazione. La debolezza della teoria sta nel fatto che da una parte essa non ci consente di fare alcun passo avanti verso la conclu­ sione ondulatoria, dall'altra si rimette al >, formatasi intorno a Bohr, e aveva consacrato i suoi primi lavori all'applicazione del principio di corrispondenza. La sua teoria sorge dal connubio tra questo principio e l'atteggia­ mento fenomenologico che egli assume nello studio dei problemi fisici. Secondo Heisen­ berg, nella costruzione della teoria fisica bisogna bandire tutte le grandezze non acces­ sibili alla nostra esperienza, per usare soltanto quelle osservabili. Nelle precedenti teorie dell'atomo, ad esempio, s'introducono le traiettorie, le posizioni, le velocità dell'elettrone ; ma chi ha mai visto una traiettoria elettronica ? chi ha mai determi­ nato sperimentalmente una posizione o una velocità dell'elettrone ? Noi conosciamo dell'atomo gli stati stazionari, le transizioni tra questi stati, l'energia emessa o assor­ bita in queste transizioni. Ogni teoria dell'atomo deve mettere in conto soltanto queste grandezze. Che Heisenberg sia veramente riuscito a realizzare questo suo programma filosofico e ad escludere dalla teoria ogni grandezza non osservabile, è un altro discorso. Ma rimane il fatto che questo nuovo indirizzo dato alla costruzione teorica segna una tappa fondamentale nell'evoluzione della fisica moderna. Le nozioni che possono collegarsi con l'esperienza non sono esprimibili, a causa delle discontinuità quantiche, con le usuali funzioni matematiche continue : occor-

reva trovare un nuovo formalismo. Forse il principio di corrispondenza ispirò Heisen­ berg nella scelta del nuovo formalismo. La teoria classica esprime ogni grandezza legata a un sistema quantizzato con sviluppi in serie di Fourier ; la teoria quantistica invece scompone la medesima grandezza in elementi corrispondenti alle diverse tran­ sizioni dell'atomo: secondo il principio di corrispondenza, questi due procedimenti debbono tendere asintoticamente a confondersi per un numero grandissimo di quanti. Da queste considerazioni sorse in Heisenberg l'idea, veramente sconcertante, di sgreto­ lare per così dire ogni grandezza quantica e di rappresentarla con una tabella di numeri analoga a quella che i matematici chiamano matrice (infinita) . Adottata questa rappresentazione, occorreva trovare le regole di calcolo per questi nuovi enti e Heisenberg, applicando il principio di corrispondenza, giunse a dimo­ strare che esse erano eguali alle regole trovate da Hermite per le matrici studiate dalla matematica e che finora non avevano avuto alcuna applicazione nella fisica: Ora, queste regole non sono sempre eguali a quelle dell'algebra ordinaria ; in parti­ colare il prodotto delle matrici non gode in generale della proprietà commutativa. Il prodotto di due matrici dipende dall'ordine dei fattori, ossia il prodotto di una matrice per una seconda non è eguale al prodotto della seconda matrice per la prima. Questo è un fatto fondamentale per la meccanica quantistica, tanto che Dirac lo pone a base della sua trattazione. Secondo Dirac si passa dalla meccanica classica alla meccanica quantistica (o, come pure si dice, quantica) sostituendo alle grandezze rappresentate dalla meccanica classica con numeri ordinari grandezze rappresentate con pra) e ne consentiva l'immediato confronto con le figure di diffrazione dei raggi X. Davisson così commentò la quasi contempo­ raneità e l'indipendenza delle due ricerche compiute a New York e nella piccola città di Aberdeen : Che 'ttn fiotto di elettroni possieda la proprietà dei raggi di onde era scoperto per la prima volta nel 1 927 1:n un grande laboratorio industriale nel C'ttare di una grande città e in 'ttn laboratorio di una piccola università affacciata su un mare freddo e deso­ lato. La coincidenza è più sorprendente se si pensa che i mezzi, per fare questa scoperta, erano stati d't-tso costante nei laboratori di tutto il mondo per più di un qztarto di secolo. E tuttavia la coincidenza non ebbe nulla di eccezionale. Le scoperte in fisica sono fatte 430

quando il tempo è maturo, e non prima. La successio-ne è fissata, arriva il momento e succede l'evento quasi nello stesso istante anche in luoghi molto lontani tra loro (C. ] Da­ visson, The Discovery of electron waves, Nobel lecture, p. I , in Les prix Nobel en I9J7 , Stockholm 1 938) . Forse più semplicemente si poteva dire che i laboratori erano attrez­ zati per la scoperta della diffrazione degli elettroni da 25 anni, ma che ancora man­ cava la meccanica onùulatoria a guidare la ricerca. Le verifiche continuarono variando condizioni e dispositivi, finchè Rupp riuscì nel 1 929 ad ottenere la diffrazione degli elettroni usando un semplice reticolo . ottico con un'incidenza quasi radente, secondo l'artificio già indicato da Compton. Come spesso succede, la verifica sperimentale della diffrazione degli elettroni che richiese molta abilità da parte dei primi sperimentatori, oggi si presenta tanto facile, dato il perfe­ zionamento dei mezzi tecnici, da poter essere ripetuta come un'esperienza da lezione. La diffrazione si ottiene anche con atomi (come mostrarono per primi nel 1929 Stern ed Esterman operando con atomi d'idrogeno) , con molecole e insomma con ogni sorta di raggi corpuscolari. Le verifiche, fatte nelle più svariate condizioni di velocità, hanno confermato l'esattezza delle relazioni fondamentali che legano onda e corpuscoli ; nel caso di alte velocità, la verifica sperimentale è esatta ove si tenga conto delle correzioni relativistiche, e perciò queste esperienze sono un'indiretta con­ valida della relatività. Il fenomeno di diffrazione elettronica fu subito applicato allo studio dei fenomeni superficiali e della costituzione dei piccoli cristalli, dimostrandosi molto più adatto dei raggi X allo studio delle sottili pellicole di materia, in ragione della minore pene­ trabilità degli elettroni ; in particolare il metodo è adoperato industrialmente nello studio del potere lubrificante degli olii e della natura degli strati superficiali dei metalli. Non sarebbe facile dare anche un elenco delle applicazioni avute dalla diffrazione elettronica, divenuta una scienza con i suoi metodi, le sue tecniche particolari e i suoi specialisti. Ma una occorre accennare, per la sua notorietà e per l'impiego lar­ ghissimo avuto specialmente nel campo biologico : il microscopio elettronico, costruito per la prima volta nel 1931 da von Borries e Ruska, e successivamente in Francia nel 1933, presso il laboratorio di fisica della facoltà di scienze di Besançon, da R. -Fritz e ] . ]. Trillat . Nei microscopi elettronici si ottengono correntemente 20.000 ingrandi­ menti e si arriva sino a 1 oo.ooo, con la possibilità di distinguere due punti a distanza 1o-8 cm) . È, pertanto, facile capire quanto di d'una trentina di Angstrom (r A questo strumento si siano avvantaggiate la medicina e la biologia per lo studio della morfologia dei bacteri, degli ultravirus e per le ricerche sul cancro. L'applicazione della meccanica ondulatoria alla fisica nucleare ebbe il suo primo grande successo nel 1928, quando Gamow spiegò il passaggio delle particelle CY. attra­ verso la barriera di potenziale dei nuclei pesanti ; pochi anni dopo, nel 1934, Fermi, applicando la meccanica ondulatoria, riusciva a spiegare con grande semplicità un fenomeno da lui scoperto e che aveva del paradossale : i neutroni lenti (la cui velocità, cioè, è dell'ordine di quella di agitazione termica) sono particolarmente efficaci nel produrre, se impiegati come proiettili, la radioattività artificiale. Ma su queste e su altre applicazioni della meccanica ondulatoria avremo modo di ritornare più ampia­ mente nel prossimo capitolo. .

=

43 1

Se la meccanica ondulatoria ha avuto così ampia applicazione nella fisica nucleare, è intuitivo che essa abbia dovuto avere successo anche nella chimica teorica, con la descrizione e la previsione di gran numero di reazioni chimiche e col risultato fonda­ mentale di aver dato un'interpretazione alle valenze chimiche �imaste sino a quel­ l'epoca un mistero. In conclusione la meccanica ondulatoria ha rinnovato tutte le teorie di struttura della materia; essa oggi è indispensabile per la comprensione anche dei fenomeni macro­ scopici : non è soltanto una scienza per fisici, chimici e biologi, ma anche per ingegneri. Se il valore d'una teoria si dovesse misurare dal numero e dall'importanza delle applicazioni, si dovrebbe dire, contrariamente all'opinione comune, che la meccanica ondulatoria è una delle più feconde teorie della fisica moderna. 8. Le statistiche dei quanti.

Concepito il fotone come corpuscolo, era inevitabile che i fisici tentassero d'ot­ tenere le leggi dell'irraggiamento considerando uno spazio occupato da radiazione come occupato da un gas di fotoni e applicando a questo gas gli stessi criteri statistici, mutatis mutandis, che la fisica classica aveva applicato con tanto successo ai gas or­ dinari per determinare la ripartizione delle velocità e quindi delle energie fra le n molecole di un gas di energia totale E contenute in un volume V. Per un gas di fotoni il problema differiva dal problema del gas di molecole essenzialmente per il fatto che il gas di molecole ha un numero costante di molecole e il gas di fotoni ha un numero variabile di fotoni, perchè le pareti dell'involucro possono assorbire o emettere radia­ zioni, cioè fotoni. Un 'altra differenza derivava dall'ipotesi quantica che diminuiva il numero di stati possibili del sistema fotonico considerato. Tenuto conto di queste due correzioni, s'impostava il problema secondo le concezioni della fisica classica per il gas di fotoni della cavità di un corpo nero e si otteneva la legg-e d'irraggiamento di "'ien, che, come abbiamo visto nel Cap. X I I I , § 3, era in contrasto con l'esperienza. Nel 1924 il fisico indiano D. M. Bose superò il contrasto ammettendo che ai fotoni non potessero venire applicati i criteri della statistica degli ordinari corpuscoli mate­ riali che ai fisici erano sembrati sino allora gli unici non solo possibili, ma pensabili. Si tratta essenzialmente di questo: ogni questione statistica si riduce in sostanza a determinare come si può distribuire un certo numero di individui in un certo numero rli celle. Per esemplificare supponiamo di avere due individui indicati coi segni + e - , da distribuire in due celle, ciascuna rappresentata con una parentesi ( ) . Secondo la statistica classica si possono dare le seguenti quattro distribuzioni : (+)

(

-

);

( -)

(+) ;

( + -)

(

( + -).

);

Ma Bose, osservato che i fotoni sono indistinguibili fra loro, ne 11egò anche l a indi­ vidualità, che nella mentalità classica è cosa ben diversa dall'indistinguibilità, onde concluse che le prime due rlistribuzioni sono una sola; sicchè, la distribuzione di due fotoni (indicati ora con lo stesso segno +) in due celle sono le tre seguenti: (+) 432

(+) ;

(+ +)

);

(

) (+ +) .

Accettabile o no la giustificazione di Bose, il fatto è che apportando nei proce­ dimenti statistici classici la correzione da lui suggerita si perviene alla legge di Planck, pienamente confermata, come sappiamo, dall'esperienza. Einstein curò la traduzione tedesca della memoria di Bose e contemporaneamente egli riceveva da Langevin, commissario all'esame di dottorato di De Broglie, il mano­ scritto della tesi del giovane fisico francese che aveva dedotto la legge di Planck dalla sua ipotesi ondulatoria. De Broglie osservava che se si associa al moto d'un corpu­ scolo la propagazione di un'onda bisognerà mettere in linea di conto soltanto le onde stazionarie in risonanza con le dimensioni del recipiente, onde andava modificato il calcolo statistico della meccanica classica. Einstein fu vivamente colpito da queste considerazioni di De Broglie e le avvicinò a quelle di Bose in due memorie degli anni 1924 e 1925, nelle quali egli applicò i nuovi criteri statistici anche ai gas ordinari. Ne derivò un'interessante teoria che spiega il comportamento classico dei gas in condizioni ordinarie e per temperature non molto basse. Il successo della statistica precedente, detta di Bose-Einstein, incoraggiò i fisici a ricercare se in altri casi non fosse conveniente modificare i criteri statistici classici. Nel 1926 Enrico Fermi (1901-1954) osservò che se si vuole, anche per un gas ideale, ammettere la validità del principio di Nernst, bisogna ritenere che il valore del calore specifico a volume costante dato dalla termodinamica classica per un gas perfetto monoatomico sia soltanto un'approssimazione valida per temperature ele­ vate ; ma che in realtà codesto calore specifico debba tendere a zero col tendere a zero della temperatura assoluta. Ma per rendersi conto del variare del calore spe­ cifico in questione bisogna che anche i moti del gas perfetto debbano essere quantiz­ zati. A questo problema di quantizzazione egli dedicò una fondamentale nota apparsa in quell'anno nei Rendiconti dell'Accademia dei Lincei. Le regole di quantizzazione date da Sommerfeld gli apparvero insufficienti perchè esse conducevano a un'espres­ sione per il calore specifico che tendeva a zero col tender a zero della temperatura assoluta, ma che dipendeva anche dalla quantità totale di gas, in disaccordo con ogni risultato sperimentale. Le regole di Sommerfeld dovevano quindi essere corrette tenen­ do presente che nei gas perfetti esistono, secondo Fermi, elementi non distinguibili fra loro. Ispirandosi al principio di Pauli, Fermi emette a questo punto la sua ipotesi fondamentale : ammetteremo che nel nostro gas ci possa essere al massimo una molecola il cui movimento sia caratterizzato da certi numeri quantici, e faremo vedere che questa ipotesi conduce a una teoria perfettamente conseguente della quantizzazione del gas per­ fetto, e che in particolare rende ragione della prevista diminuzione del calore specifico per basse temperature, e conduce al valore esatto per la costante dell'entropia del gas per­ fetto (Enrico Fermi, Sulla quantizzazione del gas perfetto monoatomico in Rend. A ce. L1:ncei, classe se. fis. mat. e nat. (6) 3 ( 1926) , p. 147) . Questa ipotesi equivaleva ad ammettere per questo gas obbediente al principio d 'esclusione di Pauli un nuovo criterio statistico, che quasi nello stesso tempo e indi­ pendentemente era adottato anche da P. A. M. Dirac. Questo criterio consiste, ripi­ gliando l'esempio semplicissimo da cui siamo partiti, nell'ammettere che due parti­ celle in due cellette si possono distribuire in un solo modo, questo: ( + ) ( + ) . .28.

-

Storia delle Sc1:enze,

II.

433

Le due nuove statistiche e le corrispondenti termodinamiche, lievemente diverse tra di loro, che le hanno a fondamento, si confondono asintoticamente con la stati­ stica classica quando tendessero a scomparire le discontinuità quantiche. Applicate ai gas reali gli scarti tra queste due termodinamiche e la termodinamica classica sono così piccoli da non poter essere messi in evidenza. Pertanto le nuove statistiche non si potettero verificare sperimentalmente dallo studio dei gas reali. La statistica di Bose-Einstein fu verificata sperimentalmente dall'irraggiamento del corpo nero e la statistica di Fermi-Dirac dalle teorie elettroniche dei metalli, come ha dimostrato per primo Sommerfeld. Ormai è pacifico tra i fisici che le particelle di scala atomica si dividono in due categorie : quelle che obbediscono al principio d'esclusione di Pauli, come elettroni, protoni, neutroni, certi nuclei di atomi, seguono la statistica di Fermi-Dirac e Dirac propose di chiamarle fermioni ; quelle che non obbediscono al principio d'esclusione, come particelle rx, fotoni, certi nuclei d'atomi, seguono la statistica di Bose-Einstein e Dirac propose di chiamarle genericamente bosoni.

L'INTERPRETAZIONE DELLA MECCANICA ONDULATORIA g. La posizione del corpuscolo nell'onda.

Come abbiamo osservato, De Broglie mostrò che fenomeni ondulatori erano anche connessi a corpuscoli tradizionalmente considerati come particelle di materia, affatto distinta dalla radiazione. In sostanza, quindi, De Broglie estese il contrasto onda­ corpuscolo provando che anche la materia presentava l'aspetto ondulatorio. Ma lo scopo di De Broglie era di superare per questa via il contrasto attraverso una teoria sintetica che conservasse alle nozioni d'onda e di corpuscolo i loro aspetti tradizionali. De Broglie, la cui mentalità scientifica s'era formata alle idee classiche d'una realtà fisica tutta interna al quadro dello spazio e del tempo, soggiacente a un rigoroso determinismo, aveva subito pensato che la sintesi si potesse ottenere considerando il corpuscolo come una specie di singolarità dell'onda. Fin dal 1924 egli scriveva: Tutta la teoria non diverrà veramente chiara finchè non si perviene a definire la struttura del­ l' onda e la natura della singolarità costituita dal corpuscolo il cui movimento dovrebbe poter essere previsto ponendosi ttnicanunte dal punto di vista ondulatorio (L. De Broglie, Sur la dynamique du quantum de lumière et les interférences, in Comptes rendus de l'A c. d. Se. de Paris, 1 79 (1924) , p. 1029) . Diversa e molto più ardita l'interpretazione di Schrodinger, anch'egli fedele agli schemi della meccanica classica. Schrodinger aveva risolto l'antitesi onda-corpuscolo, negando l'esistenza reale di uno dei termini. Secondo questa interpretazione, hanno realtà fisica soltanto le onde ; i corpuscoli non hanno esistenza obiettiva, ma sono pure apparenze del fenomeno di propagazione ondosa; precisamente sono piccoli treni d 'onda. De Broglie, Einstein e altri rigettarono questa interpretazione, specialmente perchè i pacchetti d'onda hanno tendenza a sparpagliarsi nello spazio e non possono, quindi, rappresentare un corpuscolo, dotato di stabilità prolungata. Ma Schrodinger 434

obietta che la cosa che si è sempre chiamata particella e che è ancora, per la forza del­ l' abitudine, chiamata con un nome di questo genere, non è certamente un'entità indivi­ dualmente identificabile, quahtnq�te cosa possa essere (E. Schrodinger, The meaning of wave mechanics, in Louis De Broglie physicien et penseur, Paris 1953, p. 24) . Onde egli ritiene che si possa riconsiderare un'interpretazione di questo tipo, meno e più sottile, fondata sulla seconda quantificazione, e più accettabile alla nostra mentalità di quanto non sia >; posizioni molto vicine a queste assunsero Jordan e Jeans, e da noi Enriques. 1 2. Il principio di complementarità.

'

In presenza delle relazioni d'indeterminazione, Niels Bohr assunse una singolare posizione filosofica, da lui esposta per la prima volta nel congresso internazionale dei fisici tenutosi a Como nel settembre 1 927, in occasione delle celebrazioni del cente­ nario della morte di Alessandro Volta. Bohr si chiede come mai per rappresentarsi un ente come l'elettrone si possano impiegare, senza contraddizione, due modelli tanto diversi tra di loro : il modello corpuscolare e il modello ondulatorio. Egli dimostra poi che, a causa delle relazioni d 'indeterminazione, i due modelli non possono mai contraddirsi, perchè più si cerca di precisare un modello, più l'altro diventa indistinto. I due aspetti, ondulatorio e corpuscolare, non entrano in conflitto perchè non si presentano mai contemporanea­ mente : quanto più nette sono in un fenomeno le proprietà corpuscolari di un elettrone, tanto più sfumate, evanescenti sono le sue proprietà ondulatorie. L'elettrone, insomma, ha due aspetti e ne presenta ora l'uno ora l'altro, ma mai contemporaneamente en­ trambi ; i due aspetti si escludono a vicenda pur completandosi, come si escludono e si completano le due facce d'una medaglia. Si capisce che ciò che si dice dell'elet­ trone vale anche per il fotone e per ogni altro ente elementare della fisica. Per espri-' mere tanto il concetto di esclusione che di completamento, Bohr dice che i due aspetti sono complementari. Secondo Bohr, la complementarità è una caratteristica profonda della nostra fisica ed egli ne fa quasi una dottrina filosofica. Ad alcuni fisici il concetto di complementarità non fu chiaro ; Einstein diceva di non esser mai riuscito a formularlo esattamente ; De Broglie lo trova > ; altri, infine, lo interpretano come espressione del fatto che l'elettrone non è n è un corpuscolo, nè un'onda, concepiti secondo la nostra mentalità classica: è qualche 4 40

cosa di diverso che solamente una nuova mentalità riuscirà ad intuire. Questa inter­ pretazione s'ispira al concetto, più volte espresso da Bohr, che le nostre schematiz­ zazioni fisiche o, come egli le chiama, le nostre . Einstein propose alla discussione un esperimento mentale che, pur che si tenesse conto dei concetti relativistici, smentiva il principio d'indeterminazione. L'esperimento va fatto col dispositivo della figura sopra riportata, costituito da una scatola con un foro in una parete chiuso da un otturatore manovrato da un congegno d'orologeria con­ tenuto nella scatola. Se la scatola contiene radiazione, si possono regolare le cose in modo che a un dato istante, segnato dall'orologio, l'otturatore si apra facendo sfug­ gire un solo fotone e immediatamente si richiuda. Pesando la scatola prima e dopo l'emissione, si può dedurre la màssa del fotone sfuggito e quindi la sua energia; si avrebbero così esattamente, senza le indeterminazioni reciproche postulate dalla mec­ canica quantica, le misure esatte del tempo e dell'energia. Questo ragionamento dette molto filo da torcere agli scienziati, che alla fine si convinsero che esso non poteva essere considerato valido. Una recente rievocazione di Bohr 1 alla quale rimandiamo, riferisce con molta chiarezza i sottili ragionamenti cui si dovette ricorrere per la confutazione.

1 N. BoHR, Discussione con Einstein sui problemi epistemologici della fisica atomica, in A Einstein, scienziato e filosofo, Torino 1958, pp. 1 47-190, già apparso nel 1949 nel testo inglese. Questo volume è costituito da un'ampia raccolta di scritti in onore di stein . Esso è importante non soltanto per l 'autorità dei collaboratori (Sommerfeld, Pauli, Heitler, Bohr, Born, Reichenbach, Milne, Infeld, Lane, Godei, per citare e l'acutezza degli scritti, ma anche come documento caratteristico della s ,..,.r,, ..... ,,�.. critica dei fisici moderni. Pur trattandosi di scritti in onore di Einstein che tutti procla, mano loro maestro, è fatta alla sua opera una critica serrata, tal verando continuamente allo scienziato la sua mentalità classica, la sua > dell'atomo, che rappresentava il primo esempio sicuro di trasmutazione artificiale degli elementi. Sicuro, ma estremamente raro ; tanto raro che bisognava impiegare milioni di particelle ex per ottenere qualche decina di protoni, e quindi di atomi trasmutati, numero assolutamente insignificante alla scala della più raffinata analisi chimica. L'esigua produzione di protoni non era dovuta soltanto alla rarità degli urti, ma specialmente al fatto che non tutti gli urti erano seguiti dall'espulsione di un protone. Le fotografie alla camera di Wilson mostravano improvvisi arresti delle traiettorie delle particelle ex non seguiti dall'espulsione di un protone (v. fig. a pag. seg.). Insom­ ma, le particelle ex non avevano l'efficacia di sfasciare l'atomo urtato. A indirizzare gli ulteriori sforzi degli sperimentatori venne, nel r gz8, come abbiamo accennato (Cap. XV, § 7 ) , la teoria di Giorgio Gamow, basata sulla meccanica ondulatoria. La carica positiva di un nucleo atomico crea attorno a sè un forte potenziale: il nucleo è circondato, come si dice con linguaggio figurato, da una barriera di potenziale. È

Due fotografie di Blackett che mostrano l'espulsione di un protone dopo l' urto di una particella con un nucleo d'azoto. Tutte le tracce rappresentano le scie lasciate dalle particelle a nel loro �oto n �lla camera di Wilson. Tra queste scie, a sinistra in entrambe le fotografie, si nota una biforcaziOne, dovuta a un processo d 'urto. Il ramo sottile della biforcazione è la scia lasciata dal �rotone �spulso; i l ramo più marcato è dovuto alla scia del nuovo nucleo formatosi dopo l'urto; SI osservi che non c'è alcuna traccia della scia della particella a dopo l ' urto: la particella a come individualità è scomparsa (da Proceedings of the Royal Society of London, 1925).

450

'

Urto elastico di una particella a con un atomo di azoto, mostrato dalla forcella, chiaramente visi­ bile nella figura a sinistra, costituita da due tracce, una dovuta alla particella a che dopo l'urto rimbalza e continua la sua corsa, l'altra al nucleo d 'azoto messo in moto dall'urto (da Proceedings of the Royal Society of London, 1 925) .

intuitivo che, per attraversare la barriera sia dall'interno all'esterno sia dall'esterno all'interno, un corpuscolo deve avere un'energia superiore a un certo limite. I fisici erano stati sorpresi dal fatto che le particelle rx fossero espulse dalle sostanze radio­ attive con un'energia troppo debole per giustificare, con le idee della meccanica clas­ sica dei corpuscoli, la foratura, per così dire, della barriera di potenziale. Ma se a una particella è associata un'onda, Gamow dimostrò che la barriera di potenziale si com­ porta per quest'onda come un mezzo rifrangente per un'onda luminosa. E come un'on­ da luminosa investendo un mezzo assorbente un pochino vi penetra sempre (sia pure con intensità estremamente debole nei casi di riflessione totale) , sicchè se il mezzo è molto sottile lo attraversa ; così l'onda associata al corpuscolo che investe la barriera 451

di potenziale, l'attraversa, sebbene molto indebolita, anche se il corpuscolo ha energia insufficiente. Dando all'onda materiale il significato di probabilità si può esprimere questo risultato dicendo che anche un corpuscolo di energia insufficiente ha una certa probabilità di attraversare la barriera di potenziale: è questo l'> o, come pure si dice, con espressione pittoresca, l'>. Precisamente la teoria di Gamow prevedeva che, a parità di energia del proiettile urtante, la proba­ bilità di attraversamento della barriera di potenziale è tanto più grande quanto minore è la massa del proiettile. L'immediata conseguenza è che i protoni, a parità di energia, sono molto più efficaci delle particelle rx per sfasciare gli atomi. Sino alla comparsa della teoria di Gamow s'erano usate esclusivamente parti­ celle rx nel bombardamento degli elementi per il fatto che, essendo le particelle

La macchina acceleratrice di protoni di Cockcroft e Walton. Le due sfere che si vedono al centro, di cui la superiore mobile verticalmente, sono di alluminio, del diametro di 75 cm. e servono per misurare, dalla distanza esplosiva, la tensione raggiunta.

452

di energia più concentrata che si conoscessero, sembravano le più efficaci allo scopo da raggiungere. L'energia di espulsione delle particelle (X era stata misurata fin dai pnm1 anni del secolo. Ci conviene riferirne ora i risultati nell'unità di energia che, verso il 1930, si diffuse rapidamente tra i fisici atomici : essa è il volt-elettrone o, come altri dice trasportando di peso l'espressione inglese, l'elettron-volt (eV) , prodotto dellà carica elettronica e per la differenza di potenziale di un volt, pari, come è facile calcolare immediatamente, a 1 ,59 · ro-12 erg; molto usato è il suo milionesimo multiplo, il MeV. Le particelle (X più veloci sono espulse dalle sostanze radioattive con un'energia di 8.ooo.ooo eV = 8 MeV. Ora, intorno al 1 925, i più potenti rocchetti d'induzione adoperati per la produzione dei raggi X raggiungevano appena la differenza di poten­ ziale di roo.ooo volt ; il che significa che un protone o un elettrone accelerati dal campo prodotto da uno di questi rocchetti potevano, al più, assumere l'energia di roo.ooo eV = o,I MeV : siamo ben lontani dall'energia di una particella (X ! Ma la teoria di Gamow apriva i cuori alle speranze, perchè essa prevedeva che i protoni di energia I MeV hanno la stessa efficacia delle particelle (X di 32 MeV. Non era quindi necessario, per superare anche di molto l'efficacia dei proiettili naturali, saper pro­ durre campi elettrostatici di milioni di volt d'intensità, il che avrebbe potuto apparire, in quel momento, obiettivo chimerico, tale da scoraggiare anche i più animosi ; sarebbe bastato forse riuscire a moltiplicare per 5 o per 6 le intensità già raggiunte: il che non era fuori della possibilità della tecnica di laboratorio del tempo. Per queste considerazioni la teoria di Gamow fu come uno scossone per i fisici sperimentatori. Essi capirono subito che si sarebbero potute ottenere particelle arti­ ficialmente accelerate capaci di rivaleggiare e anche di superare in efficacia distruttiva i proiettili naturali delle sostanze radioattive, liberandosi inoltre dalla tirannia di dover disporre, per le ricerche atomiche, dei costosi e rari corpi radioattivi. 2. Macchine per altissime tensioni.

Occorreva, dunque, realizzare dispositivi che consentissero di ottenere altissime tensioni. A raggiungere questo scopo indirizzarono i loro sforzi molti sperimentatori (Coolidge, Lauritsen, Tuve, Brasch, e altri) , ma il miglior risultato arrise, quasi nello stesso tempo, a R. ]. Van de Graaff, a Cockcroft e Walton, e a E. O. Lawrence. Van de Graaff s'ispirò alle macchine elettrostatiche classiche, che, dopo aver reso preziosi servigi alla fisica specialmente nel secolo scorso, sembravano dovessero essere relegate tra i venerandi cimeli dei musei delle scienze. Precisamente, nel 1931, Van de Graaff iniziò la costruzione, portata a termine nel 1 933, di una macchina a induzione elettrostatica che già Righi aveva progettata nel 1872 e Lord Kelvin aveva riproposto a principio del secolo. La macchina, detta ad effluvio, di Van de Graaff può essere così schematizzata (v. fig. a pag. seg.) : cariche elettriche fornite a una punta metallica da un modesto generatore di qualche decina di migliaia di volt, vengono spruzzate su un supporto isolante in moto continuo ; il sup­ porto penetra, durante il suo moto, entro un elettrodo cavo di grandi dimensioni (pozzo di Beccaria o di Faraday) e, attraverso un'altra punta collegata alla cavità, trasferisce 453

+ +

La punta P1 , collegata al positivo della dinamo D 1 , proietta sul nastro mobile N 1 N� la carica, la quale, rasentando la punta P�, collegata al­ l'elettrodo cavo F1 , ind u ce una carica positiva sulla superficie esterna di F ed è neutralizzata 1 dall'effluvio da P�. I n modo analogo si ca rica negativamente l 'elettrodo F2 •

+t ! i·� : .

le cariche sulla superficie esterna dell'elettrodo, il cui potenziale quindi può crescere teoricamente oltre ogni limite. Si sono così realizzate differenze di potenziale anche superiori a cinque milioni di volt, con una potenza utile di circa 6 chilowatt. Per valutare il progresso compiuto rispetto alle macchine a induzione dell'Ottocento, basta ricordare che dalla più \potente macchina elettrostatica dell'Ottocento, la Wommelsdorf a molti dischi, si riesce ad ottenere una differenza di potenziale di 300 mila volt, con una potenza di 1,2 chilowatt . L'inconveniente più grave di questa macchina è che il fabbricato i n cui è instal­ lata deve avere dimensioni vastissime per evitare che avvenga la scarica - un vero fulmine artificiale - tra l'elettrodo e le pareti, onde i recenti generatori di questo tipo sono racchiusi in robusti recipienti d'acciaio nei quali s'introduce un gas ad alta pressione e questo accorgimento consente di raggiungere con modeste dimensioni una differenza di potenziale anche di due milioni di volt. Anche nel laboratorio di Rutherford, a Cambridge, si pensò di produrre alte ten­ sioni per accelerare i protoni e utilizzarli nel bombardamento degli atomi. J. D. Cock­ croft e E. T. S. Walton iniziarono il lavoro nel 1 930 e due anni dopo misero a punto un dispositivo nel quale il voltaggio di un trasformatore era rettificato e più volte moltiplicato mediante un sistema di valvole termoioniche e di condensatori. Con questo dispositivo i due giovani scienziati ottennero una differenza di potenziale quasi costante di 70o.ooo volt, che era applicata a un tubo sperimentale costruito per produrre i ioni positivi d'idrogeno da accelerare e concentrare con appositi elet­ trodi, ottenendo correnti di protoni dell'ordine di I O micro-ampère. La macchina assunse l 'imponente aspetto della fig. a p. 452 e vedremo presto gli storici espe­ rimenti istituiti nello stesso anno 1932 dai due ideatori. 3· Il ciclotrone.

L'acceleramento delle particelle elementari fu ottenuto in un modo affatto diverso e quanto mai ingegnoso dal fisico americano Ernesto Orlando Lawrence (1901-1960). Pare che ad avviarlo alla costruzione del nuovo dispositivo sia stata la lettura di 454

una memoria del fisico tedesco R. Wideroe, il quale produceva particelle atomiche di alta energia non accelerandole mediante campi molto intensi, ma fornendo alle par­ ticelle stesse ritmici impulsi. Comunque, la prima macchina di questo tipo fu costruita nel 1930 da Lawrence con l'aiuto di Edlefsen, suo primo collaboratore all'Università di California: questo primo modello aveva appena I O centimetri di diametro ed era costruito in vetro e ceralacca rossa. Il primo modello metallico delle stesse dimensioni era costruito da Lawrence e M. S. Livingston ed era capace di dare ai ioni di idrogeno un'energia di 8o.ooo eV, sebbene fosse applicata all'apparecchio una differenza di potenziale di appena 2.000 volt. Incoraggiato dal successo Lawrence costruì successivamente una macchina di 28 centimetri di diametro, con la quale i ioni d'idrogeno ricevevano un'energia di 1,25 MeV. Questa macchina è descritta in una celebre memoria com­ parsa nell'aprile 1932, onde si suole attribuire questa data alla nascita del ciclotrone, come fu subito chiamata la macchina. Se il ciclotrone è una macchina che nei suoi esemplari più potenti assume un aspetto gigantesco, pure il suo principio di funzionamento è abbastanza semplice : si tratta di mettere in risonanza la traiettoria a spirale di un ione con un campo elet­ trico oscillante, in modo che il ione riceva ritmici incrementi di velocità da parte del campo. Una scatola cilindrica poco profonda (v. fig. a pag. seg.) , tagliata in due metà dette dalla loro forma, è posta in un intenso campo magnetico normale alle sue basi, prodotto da un potente elettromagnete con poli piani di sezione circolare. Alle due D, poste in un ambiente vuoto, è applicata una tensione alternata d 'alta frequenza, che produce un campo elettrico oscillante nell'intervallo tra le due D, mentre all'interno di ciascuna D il campo elettrico è nullo, per il ben noto teorema d 'elettrostatica. I ioni prodotti al centro della scatola entrano in una D e sono soggetti soltanto al campo magnetico che ne incurva la traiettoria a circonferenza, onde essi emergono di nu�vo nella regione tra le due D. Ora, il campo elettrico è così disposto che il tempo richiesto dal ione per compiere il cammino semicircolare entro una D è eguale a mezzo periodo dell'oscillazione del campo elettrico. In conseguenza ogni volta che i ioni emergono nella regione tra le due D, il campo elettrico ha cambiato direzione e i ioni ricevono un nuovo incremento di velocità nel passare all'altra D. Siccome i raggi delle traiet­ torie circolari entro le D sono proporzionali alle velocità dei ioni, il tempo richiesto da questi per percorrerle è indipendente dalla velocità, onde se la sincronia tra le oscillazioni del campo elettrico e il tempo necessario ai ioni per percorrere una semi­ circonferenza si è verificata una prima volta, si verificherà anche nei successivi per­ corsi : i ioni perciò descrivono una specie di spirale costituita da semicirconferenze d i raggio via via crescente, finchè raggiungono la periferia della macchina dove una placca deflettente, fortemente elettrizzata, li devia all'esterno attraverso a una sottile finestra di mica. Si capisce che l'energia finale del ione sarà tanto più grande quanto più numerosi sono gli impulsi ricevuti, cioè le semicirconferenze percorse (sempre dell'ordine delle migliaia) , che, per il progressivo aumento dei raggi, hanno il loro limite nella esten­ sione del campo magnetico prodotto, cioè nel diametro del magnete. Questo dia455

l =:::::c==-=f====== t H

H

l

==

= = =-= = = = 'C -=

e== = = = =

l

- -- --

.....-- - A- - -...._ / -- � -/ / ....... '' --//

l

O s c i l latore ad alta fre q u e n z a

l

1 / /· l

l l

l 1/

//

l l l l l l

/

,.. -

/

.......

-- - - - ,

1/,/

---,

......

,

'"

"\

\

"

"

\

'\ \

\

\

\\\\

\\ \\

\

Schema di funzionamento del ciclotrone. Le due basse scatole semicilindriche A e B (rappresen­ tate in sezione nella figura in alto) sono poste in u n tubo a vuoto in u n intenso campo magnetico uniforme normale al foglio del disegno. Ai due elettrodi A e B è applicata una differenza di poten­ ziale alternata d'alta frequenza; sicchè nella regione diametrale tra i due elettrodi risulta un campo elettrico oscillante con la stessa frequenza, mentre all'interno dei due elettrodi il campo elettrico è nullo. Se nella regione tra gli elettrodi si fa pervenire u n ione positivo in a quando A è, per esem­ pio, negativo, il ione è accelerato verso l 'interno di A e, per effetto del campo magnetico, vi com­ pie un percorso semicircolare emergendo in b. Se l'intensità del campo magnetico è calcolata in modo che il tempo i mpiegato dal ione, indipendente dal raggio della sua traiettoria e dalla sua velocità, per percorrere la semicirconferenza sia esattamente eguale a mezzo periodo delle oscil­ lazioni elettriche, il ione giunto in b si troverà in un campo elettrico di senso opposto e riceverà u n nuovo impulso verso l'elettrodo B, entro il quale percorrerà con maggiore velocità una semi­ circonferenza di raggio maggiore, emergendo in c nell'istante in cui il campo elettrico cambia n uovamente di senso; perciò il ione riceverà un nuovo impulso verso l'elettrodo A ; e così di seguito. (Da The Physical Review, 1932) .

metro, insieme con l'intensità del campo magnetico, è indicativo dell'energia rag­ giungibile . . Alla prima macchina, Lawrence fece seguire nello stesso anno 1932 una nuova macchina con un magnete di 94 centimetri di diametro e del peso di 75 tonnellate e

nel 1937, dopo anni d'intenso lavoro, egli costruiva un più potente ciclotrone con un magnete di 150 centimetri di diametro, del peso complessivo di 220 tonnellate, ca­ pace di produrre correnti di roo microampère e dell'energia di 8 MeV. Gli enormi progressi fatti nell'accelerazione delle particelle mediante il ciclotrone sono vividamente illustrati da esperimenti nei quali si vedono particelle di materia, artificialmente accelerate con tensioni di milioni di volt, attraversare un metro e mezzo d'aria a pressione normale e rendersi visibili, come una volta si riusciva ad ottenere soltanto con la scarica nei gas fortemente rarefatti. A principio del secolo era sem­ brato sorprendente che le particelle Cl fossero espulse dalle sostanze radioattive con tanta energia da poter attraversare senza deviazione sensibile pochi centimetri d'aria a pressione normale ! I potenti ciclotroni misero in evidenza ciò che la teoria facilmente prevedeva: il processo di accelerazione, che abbiamo sommariamente indicato, è valido quando si trascuri la variazione relativistica con la velocità della massa delle particelle da accelerare. Ora volendo far acquistare ad un elettrone l'energia cinetica di un pro­ torre bisogna conferirgli una velocità molto più elevata per compensare la sua minore massa: ne risulta che l'elettrone deve assumere una velocità tanto elevata che non è più possibile trascurare la variazione relativistica della sua massa, onde il pro­ cesso di accelerazione del ciclotrone non è più applicabile. In sostanza, non è possibile l'impiego del ciclotrone per l 'accelerazione degli elettroni. Ma si è raggiunto egualmente lo scopo di accelerare gli elettroni apportando al ciclotrone una o l'altra di queste due modificazioni : nel sincro-ciclotrone si diminuisce la frequenza della tensione applicata alle due D via via che la massa relativistica dell'elettrone aumenta; nel sincrotrone, invece, costruito nel 1945 da E. M. M. Millan e Veksler, si aumenta l'intensità del campo magnetico con l'aumentare della massa relativistica dell'elettrone. Un'altra macchina acceleratrice degli elettroni, messa a punto da D. W. Kerst nel 1945, è il betatrone, nella quale l'accelerazione degli elet­ troni si ottiene sfruttando il fenomeno d'induzione elettromagnetica.

I L 1932, L'ANNO MERAVIGLIOSO DELLA RADIOATTIVITÀ I l 1 932 fu chiamato solennemente, ma forse senza enfasi, , isotopo di massa 3 dell'idrogeno, invano ricercato nell'acqua pesante. I l tritio è radioattivo. 5• Trasmutazioni artificiali con particelle accelerate.

Cockcroft e Walton dimostrarono subito i grandi servigi che avrebbero potuto ren­ dere alla scienza le macchine acceleratrici. Anche la fiducia di Rutherford in queste nuove macchine doveva essere grande, se, secondo quanto si racconta, dopo qualche anno di duro lavoro di Cockcroft e Walton per mettere a punto il dispositivo di accelerazione, egli, più impaziente dei suoi collaboratori a vederne i risultati, abbia detto ai due giovani : >. Può darsi che l'episodio sia vero, perchè Rutherford in una nota del 1932 ricorda che i primi esperimenti furono fatti dai due giovani con un potenziale acceleratore di 125.000 volt. Ma la memoria originale dei due scienziati. descrive esperimenti che mostrano come i protoni aventi energt:a s�tperiore a ISO.ooo volt sono capaci di dt:sintegrare un conside­ revole numero di elementi (Proceedings of the Royal Society of London, Series A, 137 (1932) , p. 229) . I l metodo adoperato è molto semplice in linea di principio. I ioni d'idrogeno pro­ dotti da un tubo per raggi canale, accelerati da una tensione che può raggiungere i 6oo.ooo volt, sono lanciati contro una pellicola del metallo in esame. Gli eventuali prodotti di scissione vanno a colpire uno schermo fluorescente di solfuro di zinco sul quale le scintillazioni si osservano con un microscopio (v. fig. a pag. seg.) . I l primo elemento bombardato fu il litio : si osservarono sullo schermo brillanti scintillazioni, il cui numero era proporzionale all'intensità della corrente protonica. Le scintillazioni apparivano simili a quelle ottenute con particelle ex lanciate contro schermi fluorescenti : a convalidare questa impressione le particelle furono esaminate alla camera di Wilson e in una camera di ionizzazione, con la conclusione che non poteva esserci alcun dubbio sulla loro natura. Precisamente, secondo i due scienziati, avveniva questo processo: il nucleo di litio di massa 7 catturava il protone e subito dopo si spezzava in due particelle ex. Se questo processo corrispondeva alla realtà, le due particelle ex prodotte dalla scissione del nucleo dovevano essere proiettate in direzioni opposte, giusta il principio d'azione e reazione. Anche questa conclusione fu verificata montando un'esperienza come quella della fig. a pag. seg., nella quale però un secondo dispositivo schermo fluorescente-microscopio si trovava dalla parte opposta rispetto alla lastrina di litio, sostituita da un sottilissimo strato deposto per evapo­ razione su un'esile lamina di mica: le scintillazioni erano osservate contemporanea­ mente sui due schermi in punti simmetrici, il che avvalorava fortemente l'ipotesi che le particelle ex fossero emesse a paia. 459

Corrente di protoni accelerati

8

Schema del dispositivo di bombardamento di Cockcroft e Walton. La piastrina metallica A è investita dalla corrente di protoni accelerati che procede nel senso della freccia, inclinata a 45° sul piano della piastrina. B è uno schermo di solfuro di zinco sul quale è puntato il microscopio per osservarvi le eventuali scintillazioni ; C è uno schermo di mica più che sufficiente per fermare i protoni diffusi da A dopo l 'urto.

Si misurò subito che le due particelle rt. erano proiettate con un'energia di 8, 76 MeV, quasi eguale a quella delle particelle rt. emesse dal torio. D'onde proviene questa energia ? Certo non dal protone urtante il quale era prodotto con un'energia che non raggiungeva un sesto di quella posseduta da una sola particella rt.. Ora, se si somma la massa dell'atomo di litio con la massa del protone urtante si ottiene una massa leggermente maggiore della massa di due particelle rt.. In altre parole, si nota sperimentalmente il difetto di massa, tale che, se con questo processo si trasformas­ sero 7 grammi di litio, si avrebbe la perdita di poco più di 1 8 milligrammi di massa: è questa quantità di materia che nel processo si trasforma nell'energia misurata delle particelle rt.. L'esperimento, dunque, oltre a indicare la trasmutazione artificiale degli elementi, metteva per la prima volta in evidenza sperimentale la trasformazione

della materia in energia. A questa conclusione i due scienziati giunsero del tutto natu­ ralmente, perchè, specialmente dopo i geniali lavori di Aston, i fisici non avevano più dubbi sulla trasformabilità della materia in energia. Può stupire il fatto che, raggiunta codesta prova sperimentale, gli scienziati abbiano concordemente escluso con un sorriso la possibilità di utilizzare il fenomeno a scopi pratici di produzione di energia. La spiegazione è molto semplice : la liberazione d i energia atomica si otteneva con l'impiego di una quantità di energia maggiore di quella prodotta; a seguire questo processo, per la liberazione di energia atomica, sarebbe stato, per usare un paragone grossolano, ma calzante, come se si volesse pro­ durre energia idroelettrica pompando l'acqua sulle montagne per poi utilizzarne a valle l'energia di caduta. Dopo il litio i due scienziati assoggettarono al cimento sperimentale altri elementi : il berillio, il boro, il carbonio, l'ossigeno, il fluoro, il sodio, l'alluminio, il potassio, il calcio, il ferro, il cobalto, il nichel, il rame, l'argento, il piombo, l'uranio. Usando lo stesso dispositivo sperimentale tutti questi elementi dettero scintillazioni sullo schermo, indicando una trasformazione dei nuclei, cioè una trasmutazione degli elementi. La nuova alchimia, come la chiamò subito Rutherford in un libro divulgativo, era sorta ! Adoperando il simbolismo già introdotto da Aston e che consiste nell'aggiungere in basso al simbolo chimico il numero di massa a modo di indice, la prima reazione della nuova alchimia scritta dai due scienziati fu :

che significa: un nucleo di fluoro, colpito da un protone, lo cattura e subito si scinde in un nucleo d 'ossigeno e in un nucleo di elio. 6. Il neutrone.

Fin dal 1920 Rutherford per spiegare i risultati ottenuti dall'urto di particelle oc con atomi leggeri a cui abbiamo già accennato (Cap. XIV, § 8) aveva supposto l'esistenza di una particella di massa pari a quella del nucleo d 'idrogeno e di carica nulla. Vera­ mente, secondo Rutherford, non si trattava proprio di un nuovo tipo di particella, ma quasi di un nuovo tipo di atomo di idrogeno, nel quale l'elettrone fosse molto vicino al nucleo e ad esso strettamente legato. L 'esistenza di tali atomi, egli scrisse allora, sembra quasi necessaria per sp·iegare la struttura dei nuclei degli elementi pesanti,· è difficile infatti spiegarsi co1ne una particella caricata positivamente possa raggiungere il nucleo di un atomo pesante contro il suo intenso campo repulsivo. Invano J . L. Glasson, nel 1921, tentò di ottenere la particella neutra in un tubo di scarica ad alto poten­ ziale contenente idrogeno. S. Rosenblum, nel 1928, indicò anche le difficoltà speri­ mentali che si oppongono alla messa in evidenza di coteste ipotetiche particelle neutre, se esistono. Le difficoltà sono fondamentalmente due : i neutroni, attraversando una camera di Wilson, non producono una scia di goccioline d'acqua e perciò con questo mezzo non sono rivelabili ; i neutroni non possono essere deviati da campi elettrici o magnetici, e perciò non sono rilevabili per questa classica via elettromagnetica.

Tuttavia, l'autorità di Rutherford era tale e la sua idea talmente suggestiva e utile che l'esistenza del neutrone, secondo il vocabolo già proposto da Nernst, fu nella coscienza di tutti i fisici teorici del decennio 1920-3 0 ; lo stesso Rutherford insieme con Chadwick ritentò la prova sperimentale nel 1 929 con risultato nullo. Nel 1 930 W. Bothe e H . Becher bombardando atomi di elementi leggeri, special­ mente berillio e boro, con particelle ex di un preparato radioattivo di polonio ottennero una radiazione molto penetrante che essi interpretarono di natura elettromagnetica, che ha origine dalla disintegrazione del nucleo bombardato. !rene Curie (r897-1955) , figlia di Pietro e Maria, e suo marito Federico Joliot (rgoo-1958) ripresero nel 1931 le esperienze di Bothe e Becher, bombardando berillio e litio con una sorgente molto intensa di raggi ex : essi osservarono l a radiazione molto penetrante, ma si accorsero che quando la radiazione del berillio attraversava la paraffina o altra sostanza conte­ nente idrogeno, la ionizzazione prodotta dalla radiazione aumentava e dimostrarono che questo aumento era dovuto all'eiezione di protoni veloci da parte della paraffina. Ma i ] oliot scoprirono anche che la radiazione prodotta dal berillio è capace talvolta di proiettare i nuclei atomici che incontra sul proprio cammino : il fenomeno, veri­ ficato anche nella camera di Wilson, avviene tanto meno facilmente quanto più gli atomi urtati sono pesanti. Uno studio sistematico dell'assorbimento della nuova radiazione rivelava ai due giovani scienziati una natura corpuscolare della nuova radiazione piuttosto che elettromagnetica. Ulteriori esperimenti mostrarono che queste particelle possono passare facilmente attraverso la materia; attraversavano facilmente, per esempio, ro o anche 20 centimetri di piombo. Ma i protoni di eguale velocità sono fermati da uno spessore di piombo di un quarto di millimetro: la nuova radiazione non poteva essere costituita da protoni. Nel 1932 ]. Chadwick si propose di stabilire se la radiazione studiata dai Joliot­ Curie fosse costituita da neutroni, secondo l'ipotesi avanzata da Webster. Chadwick dimostrò che la radiazione non poteva essere di natura elettromagnetica, se non si voleva, per mettere d'accordo calcolo ed esperienza, rinunciare al principio di con­ servazione delle quantità di moto. In particolare Chadwick osservò che il potere penetrante di particelle della stessa massa e velocità dipende solam,ente dalla carica trasportata dalla particella ed è pertanto chiaro che la particella della radiazione di berillio deve avere una carica molto piccola rispetto a qz-tella del protone. La cosa più semplice è supporre che essa non abbia alcuna carica. Tutte le proP1'ietà della radiazione di berillio possono essere facilmente spiegate con questa ipotesi: la radiazione consiste di particelle di massa I e carica o, cioè di neutroni (James Chadwick, The neutron and its properties, Nobel lecture, p. 4, in prix Nobel en I9J5, Stockholm 1937) . Per esempio in questa ipotesi si spiega immediatamente perchè la proiezione da parte della nuova radiazione fosse meno facile quanto più pesanti erano i n Ma quando e dove hanno origine i neutroni ? Chadwick propone analogo a quello indicato da Rutherford per la disintegrazione nucleo bombardamento con particelle ex. Il neutrone si trova come · particella ex e viene espulso in seguito all'urto con una particella. Prec nucleo espelle urtando un nucleo di berillio ne viene catturata e subito

un neutrone, trasformandosi in un nucleo di carbonio. Con le notazioni già viste, indicando con n1 il neutrone, si avrebbe la seguente reazione:

e nel caso di bombardamento del boro il processo di disintegrazione sarebbe il seguente :

L'interpretazione di Chadwick fu universalmente accettata e ottenne negli ann1 successivi numerose conferme sperimentali, in gran parte indirette. Furono studiate le proprietà del neutrone. La sua massa è molto vicina a quella dell'atomo d'idrogeno, ma concentrata in un volume migliaia di volte piit piccolo. L'assorbimento dei neutroni da parte della materia avviene specialmente per urto del neutrone contro i nuclei dell'assorbente ; esso è perciò piccolo ed eguale in tutte le direzioni. N. Feather, nello stesso anno 1932, scoprì anche un'altra proprietà dei neutroni, di eccezionale importanza: bombardando l'azoto con la radiazione P0 + Be, egli osservò alla camera di Wilson traccie appaiate di eguale origine. Feather le attribuì a disintegrazione del nucleo d'azoto per urto contro di esso di un neutrone e riuscì a distinguere, con molta fatica, due processi diversi di disintegrazione, uno caratte­ rizzato dalla cattura del neutrone incidente e l'altro senza cattura. Anche Lisa Meitner e K . Philipp ottennero, sempre nel 1 932, la disintegrazione di atomi di ossigeno bombardati con neutroni : in seguito molte altre disintegrazioni di questo tipo furono osservate dagli sperimentatori. Ma su questi processi di disin­ tegrazione dovremo occuparci pii.1 ampiamente in seguito. Ma già ora possiamo anti­ cipare dicendo che i neutroni si sono dimostrati di straordinaria efficacia nello sfasciare gli atomi. Non è difficile capirne la ragione : La grande efficacia del neutrone nel pro­ d�trre le trasmutazioni nucleari, dice Chadwick, non è difficile da spiegare. Nelle col­ lisioni di una particella carica con un nucleo la probabilità di entrarvi è limitata dalle forze di Coulomb tra le particelle e il nucleo, q�testo impone �tna distanza minima di avvicinamento che aumenta col numero atomico del nucleo e presto diventa così grande che la probabilità delle particelle di entrare nel nucleo è molto piccola. Nel caso di col­ lisione di un neutrone con m't nucleo non c'è alcuna limitazione di questo tipo. La forza tra un neutrone e �tn nucleo è inapprezzabile; soltanto a distanze molto piccole essa aumenta molto rapidamente ed è attrattiva. Invece della barriera di potenziale del caso delle particelle cariche il neutrone incontra >. Così anche i neutroni di molto piccola energia possono penetrare nel nucleo (Ibid., p. 7) . Qui conviene accennare subito come la scoperta del neutrone nel nucleo abbia portato quasi immediatamente a modificare le idee sulla costituzione del nucleo. Abbiamo già accennato che la concezione del nucleo costituito da protoni a cui erano commisti elettroni era sostanzialmente ritenuta insoddisfacente da tutti i fisici. Questa diffusa insoddisfazione spiega l'immediato accordo dei fisici sulla necessità di mutare il modello di nucleo ; ma l'accordo cessava quando si trattava di ipotizzare il nuovo nucleo: alcuni ritenevano che gli elettroni nel nucleo fossero legati ai protoni in modo

da formare i neutroni, sicchè i nuclei leggeri sono costituiti da particelle a., da protoni e da neutroni, mentre i nuclei pesanti possono avere anche qualche elettrone libero; altri, come il Perrin, ritenevano che fossero presenti nel nucleo aggruppamenti spe­ ciali costituiti da un protone e da un neutrone, detti mezzo elio. Ma D. Iwanenko suppose che il nucleo fosse costituito soltanto da protoni e neutroni e subito dopo Heisenberg fondò su questa ipotesi la teoria che dà le condi­ zioni di stabilità del nucleo atomico e le leggi della disintegrazione radioattiva. L'ipo­ tesi di I wanenko, suggestiva per la sua semplicità, e via via confermata dallo studio successivo delle trasmutazioni nucleari, si diffuse rapidamente e finì col prevalere entro brevissimo tempo. Un nucleo di numero di massa A (che è l'intero più prossimo alla massa del nucleo) è costituito da Z protoni e da N = A - Z neutroni. Z è anche . eguale naturalmente al numero degli elettroni planetari dell'atomo, cioè è il numero atomico. Ai costituenti del nucleo, neutroni e protoni, si dette genericamente il nome di nucleoni, riesumando il vocabolo già usato in altro significato. La nuova teoria ha condotto all'usanza, ormai generalizzata, di modificare il simbolismo introdotto da Aston per indicare i nuclei. Alla notazione di Aston si aggiunge anche come indice il numero atomico dell'elemento, eguale al numero dei protoni del nucleo. Dopo varie proposte, finì col prevalere la notazione dei J oliot-Curie che pongono i due indici a sinistra del simbolo chimico, scrivendo in alto il numero di massa e in basso il numero della carica nucleare : p. es. ; � Al. Accettata la teoria di costituzione del nucleo, si determina immediatamente il numero di neutroni e protoni che lo costituiscono: essi sono quasi eguali, meno che nei nuclei degli elementi pesanti nei quali i neutroni sono in eccesso. Ma quali sono le forze che assicurano la stabilità del nucleo ? Ne fu subito iniziato lo studio da Heisenberg e Ettore Majorana ( 1906-1938 ? ) , il giovane fisico italiano scomparso misteriosamente nel 1938. Ma su questo problema, tuttora aperto, ritorneremo in seguito (§ 1 2) . L'ENERGIA ATOMICA 7· I radioelementi.

Alla seduta dell'Accademia delle Scienze di Parigi del 15 gennaio 1934 Giovanni Perrin presentava una nota d' Irene e Federico Joliot-Curie, nella quale era annun­ ciata la scoperta di radioelementi. I due fisici, continuando le ricerche su gli effetti dei bombardamenti con parti­ celle a., avevano scoperto l'anno precedente che certi elementi leggeri (glucinio, boro, alluminio) bombardati con particelle a. emettevano positoni. Essi cercavano quindi di precisare il meccanismo di questa emissione, che si presentava di natura diversa delle trasmutazioni allora note. A questo scopo essi ponevano una sorgente di raggi a. costituita da un preparato di polonio a un millimetro da una foglia d'alluminio; irra­ diavano la foglia per circa dieci minuti e poi la portavano sopra un contatore di Geiger e Miiller. Gli scienziati osservavano che la foglia emetteva una radiazione la cui intensità decresceva esponenzialmente in funzione del tempo con un periodo di

Particolare del reattore « a piscina )) del Centro di Ricerche Nucleari SORIN (Società Ricerche Impianti Nucleari) di

Saluggia (Vercelli).

Storia delle Scienze,

II.

3 minuti e 15 secondi. Risultati analoghi si ottenevano col boro e il magnesio, ma con periodi di decremento diversi : 14 minuti per il boro, 2 minuti e mezzo per il magnesio. Nessun effetto si otteneva con idrogeno, litio, carbonio, berillio, azoto, ossigeno, fluoro, sodio, calcio, nichel, argento. Ma anche questo risultato negativo dava un'indi­ cazione preziosa : diceva, cioè, che la radiazione osservata nell'alluminio, nel magnesio, nel boro, non poteva essere ascritta a una specie di contaminazione della sorgente di polonia. La radiazione del boro e dell'alluminio, osservata alla camera di Wilson, appariva costituita da positoni. Si trattava senza dubbio di un fenomeno nuovo che differiva sostanzialmente dai noti casi di trasmutazione in questa circostanza : tutte le reazioni nucleari provocate fino a quel tempo si presentavano come fenomeni istantanei paragonabili a esplosioni; al contrario, i positoni prodotti dall'alluminio irradiato da una sorgente di raggi � continuano a essere emessi anche dopo che l'irra­ diazione di particelle � è cessata. I due scienziati conclusero che si tratta di un vero fenomeno di radioattività che si manifesta con l'emissione di positoni. Questa interpreta­ zione rovesciava la generale credenza formatasi in quegli anni che gli atomi formati dal bombardamento di particelle pesanti corrispondessero sempre a comuni isotopi stabili. Considerazioni energetiche condussero i Joliot a interpretare il fenomeno così: dapprima la particella � è catturata dal nucleo d'alluminio con l'istantanea espulsione di un neutrone e formazione d'un atomo radioattivo isotopo del fosforo di massa 30 (l'atomo stabile di fosforo ha massa 3 1 ) ; successivamente questo atomo instabile, chiamato radiofosforo dagli scienziati, si disintegra emettendo un positone e trasfor­ mandosi in un atomo stabile di silicio, obbedendo a una legge identica a quella degli elementi radioattivi naturali. N on astante il rendimento debolissimo di queste trasmutazioni e la massa estrema­ mente esigua di elementi trasformati (solo qualche milione di atomi) riuscì ai due scienziati con esperimenti delicati di mettere in evidenza il carattere chimico del­ l'elemento ottenuto. La scoperta della radioattività artificiale apparve, ed è, una delle più grandi sco­ perte del secolo : i fisici intravidero la grande importanza teorica e gli scienziati lo sterminato campo di applicazioni alle scienze biologiche e alla pratica medica. E mentre ai Joliot era riconosciuto il giusto merito e assegnato l'anno successivo il premio Nobel per la chimica, gli sperimentatori di tutto il mondo ne imitavano l'opera, bom­ bardando gli elementi anche con altri proiettili. Specialmente in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove i fisici disponevano delle potenti macchine acceleratrici, si ottennero nuovi radioelementi mediante bombardamenti con protoni e deutoni accelerati. In particolare, uno dei più grandi successi del ciclotrone in questi suoi primi anni di vita fu la produzione di radiosodio, di radio E e di radio F o polonio, ottenuta bom­ bardando con deutoni di grande energia il sale comune per il radiosodio e il bismuto per gli altri due radioelementi. 8. I bombardamenti con neutroni.

Appena la notizia degli esperimenti dei Joliot giunse a Roma, Enrico Fermi, o >, che hanno cioè una velocità eguale a quella di agitazione termica. Ma c'era ora da spiegare il fatto, in apparenza paradossale, che i neutroni lenti fossero più efficaci di quelli veloci per produrre disintegrazioni ; anzi, come lo stesso Fermi e altri provarono, che il maggiore effetto si ottiene con una determinata energia del neutrone, differente per ogni sostanza. La meccanica ondulatoria consentì a Fermi di spiegare il paradosso e anche Bohr dette una spiegazione analoga, assimilando il processo a un fenomeno di risonanza. I risultati sperimentali dei bombardamenti con neutroni lenti andarono oltre ogni speranza; quasi ogni elemento bombardato dette isotopi radioattivi. Immedia­ tamente prima della seconda guerra mondiale si conoscevano già 400 nuove sostanze radioattive, metà delle quali era prodotta con bombardamento di neutroni, e alcune con un'intensità radioattiva anche maggiore di quella del radio.

g. Elementi transuranici.

L'analisi chimica e considerazioni teoriche basate sulla distribuzione degli isotopi permisero a Fermi d'identificare tre processi distinti di produzione di radioattività artificiale. Tutti e tre si iniziano con la cattura del neutrone urtante da parte del nucleo colpito ; questo contemporaneamente emette o una particella oc o un protone o nulla, in ogni caso trasformandosi in un nuovo elemento radioattivo. I primi due processi occorrono più frequentemente nel bombardamento dei nuclei leggeri, mentre il terzo tipo succede spesso con nuclei pesanti. Fin dalla primavera del I934 Fermi, bombardando con neutroni l'uranio e il torio, osservò la produzione di una complicata mescolanza di elementi radioattivi che subi­ vano una serie di trasformazioni con emissione di particelle �- Fermi e i suoi colla­ boratori tentarono d'isolare chimicamente i portatori di queste attività. Le indagini portarono gli scienziati a concludere che alcuni di questi portatori non erano isotopi dell'uranio, nè di elementi più leggeri, ma elementi di numero atomico maggiore di 92: insomma, elementi nuovi, assolutamente artificiali. Fermi, Rasetti e D'Agostino che per i primi credettero di avere. prodotto e riconosciuto due elementi di numero atomico rispettivamente 93 e 94 li chiamarono a·usonio ed esperio. Ma la scoperta fu messa in dubbio, finchè Otto Hahn e Lisa Meitner nel 1938 la confermarono, mettendo anche in evidenza la produzione di un altro elemento nuovo di numero atomico g6. Ma quando, nel 1940-4r, i due primi elementi transuranici furono, in un certo senso riscoperti, si dette loro il nome di nettunio e plutonio, per conservare l'analogia planetaria. Durante la seconda guerra mondiale e dopo si sono ottenuti una decina di ele­ menti artificiali transuranici. Si conoscono abbastanza bene, oltre il nettunio e il plutonio, gli elementi di numero atomico 95 e g6, detti rispettivamente americio e curio. Tutti gli elementi transuranici sono radioattivi, con vita media molto diversa: il nettunio di circa 2 giorni; il plutonio di 24.000 anni ; l'americio di soo anni e il curio di 5 mesi. Particolarmente importante per il suo impiego bellico apparve il plutonio che negli Stati Uniti si ottenne in discreta quantità mediante l'impiego dei ciclotroni, coi quali si bombardava l'uranio prima con deutoni e poi con neutroni. Già alla fine del rg42 era stato prodotto mezzo milligrammo di plutonio, sufficiente per studiarne i principali caratteri chimici. Successivamente il plutonio si ottenne dai reattori ato­ mici (§ ro) in quantità che non sono state rivelate, superando difficoltà tecniche enormi e affrontando spese ingentissime. 10. La fissione dell'atomo.

Nel rg38 !rene Joliot Curie e P. Savitch osservarono che nell'uranio attivato col metodo di Fermi, si riscontrava la presenza di un elemento simile al lantanio. Gli esperimenti erano ripresi nello stesso anno da Otto Hahn e F. Strassmann, i quali confermarono i risultati dei colleghi francesi ed accertarono che l'elemento nuovo da essi notato era proprio lantanio.

L'interpretazione del fenomeno lasciò, sul princ1p10, molto perplessi i fisici. Si dice che la prima ad intuire la vera natura del fenomeno sia stata Lisa Meitner che con Hahn e Strassmann lavorava all'Istituto K aiser Wilhelm di Berlino e che, intuì­ tane l'importanza, ella, ebrea tedesca, dopo una fuga avventurosa in Olanda, abbia raggiunto a Copenaghen Bohr e O . R. Frisch, altro fisico ebreo tedesco che aveva lavorato all'Istituto Kaiser \Vilhelm e s'era quindi rifugiato in Danimarca. Il fatto è che il fenomeno fu spiegato quasi contemporaneamente tra la fine del 1 938 e il principio del 1939 da parecchi fisici : da Hahn e Strassmann che non sembra­ vano molto convinti della spiegazione, da Meitner e Frisch, e da Federico Joliot : secondo questi fisici l'atomo d'uranio sottoposto a bombardamento di neutroni subisce un nuovo tipo di disintegrazione, nel quale l'atomo raggiunto dal neutrone si spacca in due parti più o meno eguali. Al fenomeno fu subito dato il nome di fissione, dall'in­ glese fìssion, rottura, fenditura (del nucleo) . Immediatamente F. Joliot capì l'importanza fondamentale del nuovo tipo di disintegrazione. Si tratta di una conseguenza quasi aritmetica. Come abbiamo già accennato, i neutroni e i protoni nei nuclei degli elementi leggeri sono in numero quasi eguale ; con l'aumentare del peso atomico il numero di neutroni aumenta rispetto ai protoni. Per il nucleo d'uranio, per esempio, il rapporto tra il numero di neutroni e di protoni è 1 ,59, mentre oscilla tra 1 , 2 e 1 ,4 per gli elementi che si trovano verso la metà del sistema periodico. Ne deriva che se un atomo d'uranio si scinde in due parti, il numero totale di neutroni contenuto nei frammenti deve, per la stabilità atomica dei frammenti stessi, essere minore dei neutroni contenuti nel nucleo pri­ mitivo. In definitiva, la frattura dell'atomo d'uranio libera neutroni. Questi, quindi, potrebbero fissionare altri atomi e questi altri ancora: s'intuì insomma la possibilità di una reazione a catena analoga alle reazioni a catena di natura chimica, che si hanno nelle esplosioni. F. Perrin , figlio di Giovanni, nello stesso anno 1939 pubblicò il primo calcolo della > per l'innescamento della reazione a catena ; natural­ mente fu una stima provvisoria e che ormai ha valore soltanto storico. Oggi si sa che in nessuna quantità di uranio ordinario si riuscirebbe a innescare una reazione a catena, perchè i neutroni prodotti dalla fissione dei pochi atomi di uranio 235 sarebbero assor­ biti, per >, come si dice in termine tecnico, dagli atomi di uranio 238 con produzione di uranio 239, il quale, attraverso due successive disintegrazioni � si trasforma in nettunio e plutonio. Solamente per materiali fissibili come uranio 235 e plutonio esiste la massa critica. Inoltre il calcolo della perdita di massa che si verifica nella fissione dell'atomo di uranio faceva prevedere che il processo di fissione dovesse essere accompagnato da una produzione di energia di 165 MeV : una quantità enorme, pari a quattro volte l'energia totale liberata nella successione completa di trasformazioni radioattive natu­ rali dall'uranio al piombo. L'intuizione di Joliot fu presto confermata sperimentalmente e in più si potè stabilire che il nucleo d'uranio cattura i neutroni lenti e quindi si scinde. Attraverso considerazioni teoriche Bohr attribuì la scissione non all'uranio comune di massa 238, ma a un suo isotopo di massa 235 ; poco dopo, nel 1940, A. O. Nier confermò speri-

mentalmente la prev1s10ne di Bohr, scoprendo anche che un altro atomo facilmente fissibile è l'atomo di plutonio. Questi, press'a poco, i limiti cui era giunta la fisica nucleare alla vigilia della seconda guerra mondiale. Poi una spessa coltre di mistero, impenetrabile all'uomo comune, coperse le ricerche nucleari. Anche il mondo scientifico specializzato, ma non iniziato, conobbe i progressi scientifici e tecnici della fisica nucleare da un laconico comunicato di guerra: il 6 agosto 1945 una . A questa particella, la cui esistenza fu definitivamente provata nel 1 937, Anderson propose di dare il nome di mesotone e Bohr quello di mesone; dei due termini, che .

475

Prima fotografia della traccia di un positone ottenuta da Anderson . I l positone, nell'attraversare la lastra di piombo (rappresentata dalla striscia nera orizzontale), riduce la propria energia da 63 a 23 milioni di volt-elettroni, e perciò il raggio di curvatura della propria traiettoria diminuisce. Il campo magnetico è normale al piano della fotografia (da C. Anderson, The production and properties of positrons, in Les Pri.x Nobel en r936).

vogliono entrambi ricordare la massa intermedia tra un elettrone e un protone, finì per prevalere quello di Bohr. Dal 1947 lo studio dei mesoni ha avuto un notevole incremento, per opera spe­ cialmente di C. M. G. Lattes, G. P. S. Occhialini, C. F. Powel ed E. O. Lawrence. Stabilito che la massa del mesone scoperto da Anderson è circa 290 volte quella del­ l'elettrone, mentre la carica può essere tanto positiva che negativa, si scoprì un altro mesone di massa zro rispetto alla massa dell'elettrone, onde il primo mesone si chiamò mesone 7t o pione e il secondo mesone � o muone. Con l'introduzione di una nuova tecnica delle lastre fotografiche (lastre nucleari) si scoprì e si va scoprendo un numero considerevole di altre particelle, di massa maggiore del pione, dette genericamente mesoni pesanti, e c'è l'indizio dell'esistenza di particelle di massa maggiore della massa dei nucleoni. I mesoni pesanti possono avere carica positiva o negativa o nulla, hanno vita media più breve di quella dei pioni che è già brevissima (qualche centomillesimo di secondo) . Il numero di nuove particelle che via via si scoprono, variamente chiamate e sim­ boleggiate dai vari scienziati, ha portato una certa confusione, onde alcuni fisici ato­ mici hanno proposto nel 1 954 una nuova classificazione e un nuovo simbolismo delle particelle elementari. Precisamente essi hanno chiamato mesoni leggeri (o mesoni L) i muoni o i pioni; mesoni pesanti (o mesoni K) le particelle più pesanti del pione e più leggere del protone; iperoni (o particelle Y) le particelle con massa intermedia tra le masse del neutrone e del deutone. Sull'origine dei raggi cosmici c'è ancora un profondo mistero, pur essendo state proposte molte teorie. Esse si urtano specialmente contro il grave scoglio di spiegare le enormi energie concentrate nei raggi cosmici, calcolate in media a 6 miliardi di voli-elettroni (con punte di oltre 20 miliardi di voli-elettroni) , rooo volte maggiori delle energie associate ai fenomeni radioattivi, rso volte la massima energia che finora i più potenti ciclotroni sono riusciti ad imprimere alle particelle da essi accelerate, e almeno 30 volte l'energia prodotta dalla fissione dell'uranio. Una delle teorie più recenti e più ampie è quella di Fermi, il quale suppone un meccanismo d'urto tra pro­ toni e materia ionizzata vagante negli spazi interstellari con conseguente accelerazione dei protoni. Ma forse le indicazioni degli strumenti collocati a bordo dei satelliti arti­ ficiali, il cui lancio fu iniziato da una base russa il 4 ottobre 1957, apriranno un nuovo capitolo nella conoscenza dei raggi cosmici e della struttura della materia. 12. Il campo nucleare.

I l problema fondamentale della fisica nucleare è di conoscere la natura delle forze che si esercitano tra i costituenti del nucleo. Già fin dal rgro, dallo studio di Ru­ therford sulla deviazione subita dalle particelle ex. in prossimità dei nuclei atomici, apparve, sebbene allora non vi fosse stato posto l'accento, che in prossimità del nucleo le forze agenti non sono più quelle previste dalla meccanica classica. Verso il 1932, ammesso che i nuclei fossero formati da protoni e neutroni, si capì che doveva esistere per la loro coesione un'attrazione tra i costituenti, indipendente dalle cariche elettriche (attrazione tra protoni e neutroni, tra neutroni e neutroni) 477

e tale anche da superare la repulsione coulombiana (tra protone e protone). Si faceva così strada l'idea di un campo nucleare che assicurasse la stabilità dei nuclei e la cui in ftuenza si facesse sen tire soltanto a distanza deli'ordine delle dimensioni nucleari. Ma è ancora incerta quale sia la natura di questo campo e se esso è associato a parti­ celle come il campo elettromagnetico. Pare ormai pacifico che le forze di questo campo non possono essere di natura elettrica, dato che il neutrone è privo di carica elettrica; e neppure possono essere di natura gravitazionale, perchè il calcolo in tale ipotesi dà forze 1 0 38 volte più piccole di quelle effettive. Bisogna dunque concludere che si tratta di un nuovo tipo di campo. Accertata l'esistenza del mesone, la teoria di Yukawa acquistò grande credito e i fisici ne costruirono parecchie altre sui campi nucleari, considerandoli come campi mesonici o, come pure si dice, mesici. Furono fatti anche tentativi fortunati di una teoria unitaria tra campo elettromagnetico e campo mesico. Comunque, oggi i fisici ritengono realmente esistente il campo nucleare, come ritengono realmente esistenti i campi elettromagnetico e gravitazionale. Caratteristica del campo nucleare è che vi si esercitano forze con raggio d'azione estremamente breve. Infatti, se si considera un nucleo qualunque e una particella carica, per esempio una particella oc, l'azione, a distanza relativamente grande, tra le due cariche si riduce alla repulsione coulombiana, inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra le due cariche ritenute puntiformi. Col diminuire della distanza, si giunge ad un valore critico R per cui la repulsione si scosta dalla legge di Coulomb ; R si chiama il raggio del nucleo e lo si può determinare speri­ mentalmente. Si è trovato cosi che R è proporzionale alla radice cubica del numero di massa A, secondo una costante di proporzionalità, detta raggio del nucleone, eguale a 1 ,42 1o- x3 centimetri. Ne discende che il volume del nucleo è proporzionale ad A, onde la densità di tutti i nuclei è praticamente la stessa ed acquista valore elevatissimo. Questo particolare suggerì a Bohr il suo modello a goccia del nucleo, che fra tutti i modelli proposti è quello che ha avuto maggior fortuna. Bohr assimila il nucleo a una goccia liquida; tanto in un nucleo che in una goccia la densità è indipendente dal numero di particelle componenti. N el modello di Bohr ogni reazione nucleare avviene in due tempi successivi. Nel primo tempo ogni particella che arriva nel nucleo ne viene catturata e la sua energia cinetica si suddivide rapidamente tra i costituenti del nucleo. L'energia in eccesso viene successivamente, nel secondo tempo, riemessa dal nucleo sotto forma di radiazione y, oppure essa si concentra casualmente su una singola particella nucleare che acquista energia sufficiente per uscire dal nucleo : l'emis­ sione della particella diventa, quindi, essenzialmente come l'evaporazione di gocc1a. In conclusione, si conosce ancora ben poco sulla natura delle forze n che esse siano forze attrattive, circa 100 volte più intense delle forze elet con un raggio d'azione brevissimo, indipendente dalla carica delle forse dipendente, in forma ancora ignota, dallo spin delle ·

NOTA BIBLIOGRAFICA A causa della mancanza di tradizione e di scuola i buoni trattati generali di storia della fisica sono finora molto pochi. Tra i primi tentativi del secolo scorso va citato: W. \VHEWELL, History of the lnductive Sciences from the Earliest to the Present Times, London, 1 837, 3 voli. : redatta secondo una veduta kantiana, più che una storia della fisica, come oggi s'intende, quest'opera è una giustapposizione di molte storie filosofiche particolari dei vari capitoli della fisica, e, nell'ultimo volume, di altre scienze. Più organiche, più ricche di notizie e più precise sono : J . C. PoGGENDORFF, Geschichte der Physik, Berlin, 1 879 ; trad. frane. Paris, 1 88 3 . F . RosENBERGER, Die Geschichte der Physik, Braunschweig, 1 882-1 890, 2 voli. R. CAVERNI, Storia del metodo sperimentale in Italia, Firenze, 1 89 1 - 1900, 6 voli . : è una storia della fisica italiana relativa specialmente ai secoli XVI-XVI I I , molto informata e ricca di documenti inediti, che va, però, utilizzata con cautela, perchè viziata dai preconcetti anti­ galileiani dell'autore. E. HoPPE, Geschichte der Physik, Braunschweig, 1926; trad. frane. Paris, 1928: è ricca di notizie e di riferimenti bibliografici in generale esatti. Riguardo particolare è riservato alla scienza tedesca; la trattazione si ferma al 1 895. A . EINSTEIN-L. INFELD, The evolution of Physics, New York, 1938; trad. it., Torino, 1948; sa ed. 1955: più che una storia, è una caratteristica opera di giustificazione filosofica, in sede sto­ rica, della teoria della relatività e della teoria dei quanti. LYNN THORNDIKE, A History of Magie and Experimental Science, New York, 1923-1958, 8 voll. : opera molto erudita, ai limiti tra scienza e magìa, che si può consultare con profitto. Si estende sino a tutto il secolo XVII. M. Guozzi, Storia del pensiero fisico, in >, vol. I I I , p.te I I , Milano, 1 950: contiene un'ampia bibliografia dei testi originali, degli studi parti­ colari, dei trattati generali, alla quale rimandiamo a completamento di questa nota. Di carattere prevalentemente biografico sono le opere: PH. LENARD, Grosse Naturforscher, Mtinchen, 1929; trad. ingl., London, 1 9 3 3 : i pregiudizi del­ l'autore sulla superiorità della razza tedesca spesso deformano l'obiettività della narrazione e la serenità dei giudizi. P. F. ScHURMANN, Historia de la fisica, Montevideo, 1936: lavoro di compilazione, costituito da centinaia di biografie di fisici, disposte in ordine cronologico.

479

Tra le trattazioni della storia della fisica nel X X secolo citiamo: The story of atomic energy, London, 1949, trad. it., Torino, 1 95 1 : il campo è stretta­ mente limitato alla sola storia dell'energia atomica; l 'esposizione assume talvolta anda­ mento tecnico. W . WILSON, A hundred years of Physics, London, 1 950 : è una storia della fisica specialmente dell'ultimo secolo.

F.

Sooov,

Tra le trattazioni particolari, citiamo solamente le seguenti relative alla meccanica: E. MA CH , Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt, Leipzig, 1 883, 4a ed. 1 901 ; trad. frane. , Paris, 1904; trad. it., Roma-Milano, 1909 : è divenuta ormai un'opera classica. R. DuGAS, Histoire de la Mécanique, Neu-Chàtel, 1950: oltre la meccanica classica, vi è trattata la storia della meccanica relativistica e quantistica; vi abbondano le citazioni dei testi ori­ ginali, non accompagnate però sempre dalle relative indicazioni bibliografiche. Ricordiamo ancora i seguenti due manuali, molto noti in Italia: History of Physics in its elementary Branches, New York, 1 899 ; trad. it., Bologna, 1909, ed. Palermo, 1930: trattazione molto succinta della fisica classica, con particolare riguardo ai contributi americani. Il traduttore italiano, D. Gambioli, vi ha aggiunto un capitolo su L'evoluzione dei laboratori di fisica, alcune note e cinque (2a ed.) lunghe appendici di com­ pilazione sui fisici italiani. R. PITONI, Storia della fisica, Torino, 1 9 1 2 : particolare riguardo è riservato alla fisica italiana, ma le notizie non sono sempre controllate. F.

GAJORI, A za

Tutti i trattati generali di storia della scienza dedicano capitoli più o meno ampi alla storia della fisica. Tra questi trattati generali citiamo :

A. M I ELI , Manuale di storia della scienza, I . Antichità, Roma, 1925, rifuso e molto ampliato, in collaborazione con P. BRUNET, in Histoire des sciences. Antiquité, Paris, 1 935; entrambe queste opere si sono fermate all'antichità; circa la metà di ognuna è occupata da un'anto­ logia di scritti originali, in traduzione rispettivamente italiana e francese. F. ENRIQUES e G . D E SANTILLANA, Storia del pensiero scientifico, vol. I, >, Milano, 1932 : anche questo trattato d 'impostazione più filosofica dei precedenti, non è andato oltre il primo volume. I l Compendio di storia del pensiero scientifico, Bologna, 1937, degli stessi autori contiene quasi lo schema dell'opera che essi avrebbero voluto scrivere e, sciolto dalla parte erudita e analitica, offre una visione storica del pensiero scientifico, filtrata attraverso la particolare visione filosofica degli autori. G. SARTON, Introduction to the History of Science, Baltimore, 1927-1948, 3 voli. in 5 tomi; è la più vasta storia analitica delle scienze sino al secolo XIV, corredata da un'estesa bibliografia ; s i occupa della cultura d i tutti i popoli. W. C. DAMPIER, A History of Science and its relations with Philosophy and Religion, Cambridge, 1 929, 46 ed. 1948; trad. it. Torino, 1953 : molta attenzione rivolge alla storia della fisica, fin quasi ai nostri giorni. Histoire générale des sciences, publiée sous la direction de M. R. Taton, Paris 1957-8, 2 voli. Tra i repertori citiamo : J . CH . PoGGENDORFF, Biographisch-literarisches Handworterbuch zur Geschichte der exacten Wis­ senschaften, Leipzig, 1 863, 2 voli . : continuato poi da altri per i periodi : 1858-83 ( 1 897, 2 voll . ) ; 1884-1904 ( 1 902-4, 2 voll.) ; 1904-22 ( 1 925-6, 2 voli.) ; 1 923 - 1931 ( 1 936-8, 4 voll.) ; 1 932-1 953 (1956-61, 4 voli.) : è un prezioso, ormai classico .. dizionario bio-bibliografico d i cultori di scienze esatte.

Royal Society of London, Catalogue of Scientific Papers , 1 8oo-1 9oo, Cambridge, 1 867-1925, 1 9 voll. ; è un colossale lavoro bibliografico, seguito dal Subject index, Cambridge, 1908-q, 4 voli., i cui due ultimi volumi si riferiscono alla fisica. L'opera era continuata nel: International Catalogue of Scientific Literature, pubblicato dall' International Council by the Royal Society of London. La letteratura scientifica è divisa in 1 7 branche, distinte da lettere del­ l'alfabeto : la lettera C indica la fisica. I volumi pubblicati coprono il periodo 1901-191 3 . Tra le più importanti riviste di storia delle scienze, citiamo: Isis, An international Review devoted to the History of Science and its Cultura! I nfiuences, fon­ data da G. Sarton nel 1913, Bruges : pubblica studi originali, note, rassegne e una biblio­ grafia critica molto ampia. Archivio di storia della scienza, più tardi A rcheion e, dal 1947, A rchives internationales d'histoire des sciences, fondato da A. Mieli a Roma nel 1 9 1 9 , si pubblica ora a Parigi ed è l'organo uffi­ ciale dell' Académie internationale d'histoire des sciences. Pubblica memorie originali, gli atti dell'accademia e un'ampia bibliografia critica. Revue d'histoire des sciences et de leurs applications: si pubblica a Parigi e ospita memorie ori­ ginali scritte in francese. Physis, rivista di storia della scienza, fondata nel 1959 dalla Domus galilaeana di Pisa, dall'Isti­ tuto e museo di storia della scienza di Firenze, dal Museo nazionale della scienza e della tecnica di Milano, dal Gruppo italiano di storia della scienza; si pubblica a Firenze. Molto utile come mezzo di documentazione specializzata è l'Extrait du Butletin signalétique, Histoire des sciences et des techniques, pubblicato, dal 1957, dal Centre de documentation del Centre national de la recherche scientifique (C. N.R.S.) di Parigi: fa lo spoglio sistematico delle riviste, segnalando gli articoli di storia della scienza, con u n breve sunto del loro contenuto, ma senza alcun giudizio critico : a richiesta, il Centro fornisce u n microfilm degli articoli segnalati. Sono segnalate anche le opere di libreria, ma attraverso le recensioni relative.

31.

-

Storia delle Scienze,

II.

S T ORIA

DELLA CHIM ICA di

MICH ELE GI UA

CAPITOLO l.

ORIGINE E PERIODI DELLA CHIMICA

1.

Origine del nome.

Col nome di chimica (X"')!J.dor.) fu indicata nell'antichità l'arte di trasformare i metalli comuni in oro e argento o loro leghe ; esso deriva probabilmente dalla parcla egiziana, cham o chemi, che significa Egitto e anche . L'origine del nome >, il compilatore dell'arte sacra. Insieme a Iside, Serapide, Mitra, ecc., Ermes Trismegisto· sta a indicare un certo rapporto tra religione e magia 3• Ed ecco la chimica diventare arte ermetica e più tardi arte spagiristica (da o-1t �f �l bk ù...; J-Jl P�\ A-? _� p1$Jl 4;�·..� , tSJI �'1-lO)l l 0� ....

15__,-:..� 1 -

.)U �-�_,

500

� ,

0-� 15 �� �� yW'I J.J:> J l� ul,.';

Lh..::..

lr

� j1l �-�� �l P'-"-))1 a -4' � � -

-

Vasi e alambicchi in un mano­ scritto arabo (Parigi, Biblioteca Nazionale) .

sione· della· Spagna e dell' Italia. Secondo Berthelot lo spirito scientifico e le nozioni alchimistiche furono trasmesse agli Arabi dai medici siriaci ; N estoriani e Sabii ebbero notevole influenza nel tramandare questa cultura al popolo invasore. E come assi­ milatori si distinsero vari studiosi arabi, il più noto dei quali fu il medico e alchimista Geber, che raccolse in sè, secondo la tradizione, la scienza chimica del suo tempo. Geber, il cui vero nome fu Dschabir o Dschafar, visse probabilmente tra il nono e il decimo secolo, ma poco si conosce sulla sua vita 1 ; alcuni anzi propendono a con­ siderarlo un personaggio mitico, altri credono che sia stato confuso con un altro alchi­ mista, suo allievo, di nome Schabir. Sta di fatto che col nome di Geber ci sono stati tramandati diversi scritti, alcuni dei quali in arabo, altri in latino. Berthelot ha distinto, tra gli scritti citati 2, le opere che si debbono realmente attribuire all'alchimista arabo, da quelle apocrife. Queste sono le opere latine, che risalgono ad alcuni secoli dopo la morte di Geber; così la Summa perfectionis magisterii (compilata probabilmente nel sec. XIV) , De investigatione veri­ tatis e De investigatione perfectionis metallorum sono apocrife e ora sono attribuite a uno o vari pseudo-Geber. Negli scritti arabi, attribuiti giustamente a Geber, questi non dimostra di possedere una profonda ed estesa conoscenza chimica e anzi si riporta agli alchimisti greco-egiziani del periodo alessandrino senza mostrare molta originalità. Diversi medici arabi, seguaci di Geber, vengono ricordati come alchimisti ; tra questi Rhazes o Abu-el-Rhazi, che credette nella trasmutazione dei metalli, Aven­ zoar, Abukases e Avicenna o Ibn-Sina. Anche Averroé (Ibn Rushd) , noto soprattutto per aver trasmesso all'Occidente una particolare interpretazione dell'aristotelismo (che fu sostenuta all'Università di Padova e dette origine a dibattiti famosi nella storia della filosofia) , viene ricordato tra i seguaci di Geber, ma per la storia della chimica ha scarsa importanza. Uno scritto notevole di un medico persiano, Muwaffak o Abu Mansur, il Trattato dei fondamenti farmacologici, della fine del sec. X (probabilmente 975) pubblicato e commentato all'inizio del secolo in Germania 3, ha importanza come fonte per sta­ bilire le conoscenze chimiche del tempo. Naturalmente, come fa prevedere lo stesso titolo dell'opera di Abu Mansur, le notizie che da esso possiamo trarre riguardano principalmente i composti usati in medicina, arte questa coltivata con successo dagli Arabi. Questi si attennero alle prescri­ zioni di Galeno, dando impulso ai preparati di sostanze estratte dal regno vegetale per le quali assai probabilmente si servirono di rudimentali processi di distillazione, che permisero di ottenere oli essenziali e la stessa acqua distillata -, come pure com­ posti chimici, tali gli etiopi con mercurio, cinabro e sublimato per le malattie della 1 Cfr. E. DARMSTAEDTER, Die A lchemie des Geber, Berlin, Springer, 1922; ] . Ruska nel vol. I, p. 18 del BuGGE, Das Buch der grossen Chemil�er, Berlin, Verlag Chemie, 1 929. Il : la vera medicina che produce la trasfor­ mazione dei metalli vili in nobili è la pietra filosofale o il grande elixir o il magisterium. Il piccolo elixir era capace di trasformare i metalli vili solo in argento. Le prescrizioni per ottenere queste medicine sono però date in un linguaggio ermetico, così da riuscire incomprensibili. 502

.. ..

·.

:..·· . .1 f


. La sola via aperta agli alchimisti in questo periodo di formazione del metodo sperimentale non era quella di correggere la teoria sui metalli avuta in retaggio dagli alchimisti dei secoli precedenti, ma di abbandonarla, visti inutili i tentativi per tro­ vare i supposti costituenti fondamentali dei metalli. Ma contro questa soluzione stava la forza della tradizione, che è conservatrice e non innovatrice, e la stessa organizza­ zione della ricerca alchimistica, chiusa nel suo ermetismo, e quindi incapace di assi­ milare i primi principi del metodo sperimentale già agli albori nel sec. XV. Per questo dovettero passare diversi secoli, prima che la chimica assurgesse a vera scienza. Tuttavia non si può negare che l'alchimia occidentale non abbia allargato le cono­ scenze su molti composti chimici, alcuni imparando a prepararli meglio e altri sco­ prendoli addirittura. Ad una più estesa conoscenza degli alcali fissi si pervenne presso gli alchimisti occidentali mercè una netta distinzione tra soda e potassa, distinzione già preannunciata in Abu Mansur, come si è detto a pag. 502. Importante è invece la conoscenza degli acidi minerali, che si trovano indicati negli scritti latini attri­ buiti a Geber. I...'acido solforico fu conosciuto dopo il sec. XI e di esso fa menzione 1 Su un alchimista ingenuo de f sec. XV, Bernardo Trevisano, cfr. il volume interessante di B. J AFFE, La conquùta della materia. Dall'alchimia alla radioattività artificiale, trad. Fachini, Milano, Mondadori, 1937; lo scritto De Chymico Miraculo, quod Lapidem Philosophiae appellant del Trevisanus (Basilea, 1 583) è al riguardo indicativo.

5II

Un vaso per cottura. Incisione di L' elixir des philosophes (Lione, 1 557).

\

Alberto Magno ; questo acido fu ottenuto per riscaldamento del solfato di ferro (di qui la sua denominazione di spirittts vitrioli) e dell'allume; questo si apprese a pre­ pararlo anche per riscaldamento cì.el solfo con salnitro. L'acido cloridrico, o spiritus salis, fu presto conosciuto dagli alchimisti occidentali, che lo prepararono riscaldando un miscuglio di salmarino e di acido solforico. Anche l'acido nitrico o aqua fortis fu ottenuto per riscaldamento di un miscuglio di nitro, solfato di rame e allume. La preparazione dell'acqua regia (di cui fu osser­ vata la proprietà importante di attaccare l'oro, ritenuto fino ad allora incorruttibile) per azione dell'acido nitrico su una soluzione di sale ammoniaca, travasi descritta nei testi latini attribuiti a Geber, ma Fra Bonaventura nella Compostillae dette una indicazione per la preparazione dell'acqua regia, da lui già descritta nel 1 270. Anche i sali furono meglio studiati e il loro numero si accrebbe notevolmente. Essi furono distinti generalmente tenendo presente l'origine; così il cloruro di sodio fu detto sal 512

r

. .

l

l

l

l l

l

l l

l

l

i

1

,. l l

l

, . ___

'

Pomo per cottura e simboli alchimistici. Tavola del « Trac­ tatus chimicus, dictus Crede Mihi » di T. Norton in una

stampa del

1749·

Storia delle Scienze, II.

AFE�

l O L l� B R V M E T $ E p T E M .

·

-

i l G N A � V J.

.i

.

.. .

.

.

.. ,·

••

' .·

'

.

"

..

.

t



r

\



La sfera celeste con simboli diversi, nella Voarchadumia di Giovanni Agostino Panteo ( 1 602 ) .

maris, il nitro sal petrae, Si conobbe anche una reazione generale per la preparazione di sali, che in seguito giovò molto allo studio della chimica, quella cioè dell'azione di un acido su un alcali e viceversa. Così fu ottenuto il salnitro per azione dell'acido nitrico sulla soluzione di potassa, come attesta il compilatore dei testi latini attri­ buiti a Geber. Questa reazione fu probabilmente scoperta inavvertitamente e sfuggì a molti ricercatori, ma negli ultimi secoli del periodo alchimistico essa fu molto usata per la preparazione di diversi sali allo stato puro, i quali furono pure ottenuti mediante il processo di cristallizzazione. Anche i sali ammonici, noti in parte agli alchimisti greco-egiziani e arabi, vennero meglio studiati ; oltre alla soluzione acquosa di ammoniaca (alcali volatile) vari sali . . .

33

·

-

Storia delle Scienze,

II.

51 3

l 0 A N N I S t D ·.z l ni V P �: S C I S S A

> l�

-

'""

-

.

.

.

-

-

- .

1

-

-

...

..

-

Spaccato di un forno per cottura, nel Liber lucis di Giovanni da Rupescìssa ( 1 602) .

ammonici furono riconosciuti per la loro volatilità al calore. Il carbonato ammonico fu ottènuto per evaporazione dell'urina putrefatta, ma fu trovato anche il metodo di preparazione del sale ammoniaca e alcali fisso (reazione tra cloruro ammonico e carbonato di sodio: zNH 4Cl + Na 2C0 3 � (NH 4) 2C03 + zNaCl ) . I l nitrato di argento cristallino fu ottenuto evaporando la soluzione nitrica dell'argento e fu pure osservata la formazione del precipitato di cloruro di argento per azione dell'acido cloridrico sulle soluzioni di nitrato di argento (AgN0 3 + HCl � AgCl + HN03) . Non sfuggì inoltre la precipitazione dell'argento con rame e mercurio dalle soluzioni del nitrato, osserva­ zione che nell'epoca moderna doveva acquistare importanza per la tabella delle ten­ sioni elettrolitiche dei metalli (zAg+ + zN03- + Cu � Cu++ + zN03- + Ag) . E a questo proposito non va dimenticato che sin dal decimo secolo gli alchimisti arabi avevano notato che il rame, sotto forma di cemento di rame, viene precipitato dalle soluzioni del solfato per mezzo del ferro ; reazione che è analoga alla prece­ dente e che doveva acquistare importanza nella metallurgia moderna del rame (Cu++ + SO; + Fe � Fe++ + S04 + Cu) . E se tra gli alchimisti dominò per molto tempo la credenza che tanto l'argento che il rame precipitati dalle loro soluzioni fossero creati di nuovo, restarono tuttavia acquisite per sempre le reazioni e ciò giovò al progresso della chimica. Importante fu pure l'osservazione fatta d'agli alchimisti occidentali che si poteva ottenere un cinabro artificiale per unione diretta del solfa col mercurio (Hg + S � HgS) . Ciò spinse a una pii.I accurata descrizione dei composti di mercurio, la cui preparazione fu perfezionata: il sublimato fu ottenuto riscaldando un miscuglio di mercurio, cloruro di sodio, allume e nitro, metodo conservato nell'industria farmaceutica moderna, dove in luogo del mercurio si adopera il solfato mercurico (HgS0 4 + zNaCl � HgC12 + + Na 2 S0 4) ; il nitrato mercurico per azione dell'acido nitrico sul mercurio [Hg + + zHN0 3 � Hg(N0 3) 2 + H 2] ; il solfato basico di mercurio (turbitto minerale) per azione dell'acido solforico sul mercurio (Hg + H 2S0 4 HgS0 4 + H 2 ; 3HgS0 4 + + zH 20 � HgS0 4 zHgO + H 2S04) ; l'ossido di mercurio per riscaldamento all'aria del mercurio (zHg + 0 2 � zHgO) . Il nome di amalgama per la lega del mercurio con i metalli, e particolarmente con l'oro e l'argento, fu usata, pare, da Tommaso d'Aquino, che pur non avendo esercitata la pratica dell'alchimista, subì l'influenza del suo maestro Alberto Magno, fu favorevole agli alchimisti e si occupò astrattamente dei problemi dell'alchimia, non avversando però il problema della trasmutazione di metalli vili in metalli nobili. Fra i composti di ferro meglio conosciuti dagli alchimisti occidentali sono da ricor­ dare gli ossidi artificiali : le denominazioni di caput mortuu:m e di Colcothar sono dovute ad essi. A questo periodo appartiene senza dubbio il riconoscimento dello zinco come metallo, per quanto l'ossido, come si è detto, fosse usato col nome di lana philosophica dagli alchimisti arabi, e così pure il solfato. Anche l'antimonio fu ottenuto dalla sti­ bina naturale per riscaldamento con ferro (Sb 2S3 + 3Fe � 3FeS + zSb) e ncono­ sciuto come una varietà di metallo (piombo di antimonio) . N el Carro trionfale dell'antimonio non solo si accenna al metallo, ma si descri­ vono le leghe col piombo e lo stagno, il solfodorato, il burro di antimonio e il cloruro �



·

s rs

basico, usato in medicina poco più tardi dal medico veronese Vittorio Algarotto (sec. XVI) col nome di pulvis angelicus, noto ora come polvere di A lgarotti. Un > fu considerato l'arsenico, isolato in questo periodo, per quanto alcuni suoi composti fossero noti da tempo ; pure nota era la sua proprietà di dare un colore bianco al rame, onde fu denominato medicina Venerem dealbans. Le proprietà venefiche del suo ossido erano conosciute sin dal periodo prealchimistico. La metallurgia non fu migliorata molto dagli alchimisti occidentali, i quali non fecero che adattare le conoscenze degli alchimisti arabi alle condizioni dei paesi europei e principalmente allo sfruttamento delle miniere. Verso la fine del sec. X e soprattutto nel secolo successivo compaiono però alcuni scritti che trattano della metallurgia e dello sfruttamento dei giacimenti minerari ; ricordiamo la Schedula diversarum artium del benedettino Teofilo Presbyter, il quale visse nella seconda metà del sec. Xl. Secondo E. v. Meyer 1 nel sec. XI lo sfruttamento dei giacimenti minerari fu attivo in Germania (Harz, Nassau, Slesia) ; l'estrazione dello stagno nell'Erzgebirge risale al 1 140, nel Freiberger al 1 1 70 e nel Mansfelder al r rgo. Particolare menzione meritano i prodotti della fermentazione (vino, aceto) , perchè è all'alchimia occidentale che si deve la preparazione dell'alcool puro per distillazione dei vini forti e dell'acquavite. Gli apparecchi di distillazione furono usati in Italia sin dal sec. XI ed essi si diffusero rapidamente negli altri paesi 2 • Probabilmente gli alchimisti occidentali ebbero a notare la formazione dell'etere solforico e dell'etere nitrico trattando l'alcool con acido solforico e con acido nitrico, ma non ne riconob­ bero la natura. Anche l'acido acetico, sotto forma di aceto forte, ottenuto per distil­ lazione dell'aceto, era conosciuto in questo periodo, nel quale pure fu usato come medicamento l'acetato basico di piombo. È merito degli alchimisti occidentali di aver aumentate notevolmente le cogni­ zioni di chimica pratica e operative. Oltre al bagnomaria 3 , noto nel periodo preal­ chimistico, essi foggiarono apparecchi adatti per le diverse operazioni di riscaldamento a fuoco diretto, a bagno eli sabbia e a bagnomaria, di distillazione, evaporazione, filtrazione, cristallizzazione, infusione e sublimazione. Gli scritti latini attribuiti a Geber informano ampiamente su questi particolari . Essi prepararono così le condizioni per una migliore conoscenza dei composti chimici dal lato del loro uso in medicina e nella vita pratica e impedirono che la chimica si perdesse in vani tentativi per la ricerca della pietra filosofale. l o p.

.

ctt., p. 50. 2 Secondo Berthelot [, {6) 23, 469 ( r 8g r )] la distillazione del vino per ottenere alcool si praticava già al tempo di Marcus Graecus (circa il sec. V I I I ) , mentre secondo v. Lippmann ( , 1 9 13, p. 1 3 1 3 ) non si può parlare di una vera distillazione del vino prima del sec. XI I . 3 Sul bagnomaria cfr. KoPP, Beitriige zur Geschichte der Chemie, III, p . 402, Braunschweig, r86g.

sr6

CAPITOLO III. I L PERIODO D I UNIFICAZIONE - LA IATROCHIMICA

1:.

Caratteri generali.

Come è stato detto (cfr. I , § z) questo periodo comprende tre sottoperiodi, che abbracciano complessivamente tre secoli, durante i quali si notano i primi tentativi per dare alla chimica un contenuto dottrinario unitario, come risulta dall'opera di Paracelso, Stahl e Lavoisier. Questo lungo spazio di tempo viene diviso dagli storici della chimica in tre o quattro periodi, che qui invece vengono considerati come sotto­ periodi, non per svalutare quella distinzione, ma per mettere in evidenza diverse con­ dizioni che, e per contenuto dottrinario e per conoscenze pratiche, slegate tra loro in apparenza, hanno invece confluito nella creazione di una scienza della natura, conscia dello scopo a cui mira. A prima vista il trovare Paracelso vicino a Lavoisier può sorprendere, così profondo è l'abisso che separa questi due pensatori e così diverso il contributo por­ tato da essi allo sviluppo della chimica ; ma per chi riesce a vincere l'impressione che deriva da una considerazione superficiale della vita degli uomini quell'abisso a poco a poco si colma e tanto in Paracelso, quanto in Lavoisier noi vediamo due grandi e appassionati cultori della nostra scienza, che per essa crearono teorie con attività feconda e per essa si affaticarono nella ricerca di un metodo scientifico. Fantasioso, è vero, Paracelso nella vita e nelle opere, ma innovatore per il tempo in cui visse e lottò per imporre la sua iatrochimica; più posato Lavoisier, più vicino cioè all'ideale dello scienziato che noi ora ci foggiamo, più fruttifera la sua opera per il progresso della scienza; ma è giuocoforza tener conto dei tempi in cui essi operarono e quindi delle conoscenze ereditate dal passato. Per questo ci pare consono alla trattazione schematica della 'storia della chimica dare rilievo a questo grande periodo di unificazione, nel quale la chimica fa i suoi primi passi come scienza autonoma e finalmente, trovata la sua via con l'applicazione de] metodo sperimentale e quindi con la esatta valutazione del metodo di ricerca chimica, si afferma come scienza unitaria e indipendente.

1

o

�-11111 0 Q

o

o (\

o o

()

o

o

o o

0 0

Strumenti chimici diversi. Tavola della A lchymia di A. Libavio (Francoforte, 16o6).

sr 8

Fot. Museo Na1. Scien1a e Tecnica, Milano

Un laboratorio alchimistico del sec. XVI . Incisione tedesca (Berlino, Gabinetto delle Stampe). .

'

Mentre in questo periodo la nostra scienza sale il suo Calvario, altre scienze affini specialmente la fisica - trovano nel il mezzo per render fertile il campo d'indagine. Chi abbia presente il progresso della meccanica sotto la guida del metodo galileiano e in seguito alle applicazioni delle matematiche, progresso che portò alla rapida creazione della fisica moderna, non può non restare perplesso dinanzi all'empirismo e alla falsa razionalità che la nostra scienza mostra nei secoli XVI e XVII . Di fronte a questa storia non ha importanza prospettare ora altre vie che la ricerca scientifica poteva prendere e non ha preso. Ogni scienza, come · la verità, è figlia del suo tempo. Ed è già molto se lo storico riesce a comprendere le condizioni del tempo in cui si sviluppa una data scienza, senza incorrere nel pericolo delle costruzioni astratte, a vincere cioè quel pericolo della rnitizzazione che consiste nel vedere la scienza come unica creazione di geni e di ricercatori, avulsa dalle condizioni sociali 1 . 1

Cfr. H . BuTTERFIELD, The origin of modern science, London, Bell,. t957·

51 9

2. La iatrochimica

e

i suoi risultati.

Il rinnovamento della cultura che si manifestò in Italia sin dal sec. XIII, il Rina­ scimento artistico, la vita dei Comuni con le necessità relative alle industrie della lana e della seta, i problemi imposti dall'arte della guerra 1 , la scoperta dell'America e l'incremento dell'attività commerciale, l'invenzione della bussola e dei caratteri da stampa e tante e tante altre cause di progresso, che si manifestarono prima in Italia e poi nell'Europa occidentale e centrale, come modificarono la vita sociale così spinsero la ricerca scientifica per nuove vie, diverse da quelle fino allora bat­ tute dalla Scolastica. Anche la chimica risentì l'influenza di questa vita nuova e, separandosi dalla vecchia alchimia, cominciò ad acquistare una certa libertà nella ricerca. Il sorgere della iatrochimica nel sec. XVI, la larga corrente di ricerche nel campo della chimica tecnica nello stesso periodo, sono i segni più manifesti di questo nuovo indirizzo. Nel sec. XVI in Italia anche l'alchimia ha perduto il fascino che esercitava nei secoli precedenti 2 e lo stesso si può dire per gli altri paesi europei, dove la chimica fu coltivata con successo. Il fondatore della iatrochimica fu uno svizzero-tedesco, Teofrasto Paracelso, il quale affermò che b]Jir• cbJm� :

E X O R N A T V S E S T V A· IolbumCll torom Cbym.ìcon�m �i. 1 :>,

V J.

Kopjfo.

Frontespizio dell'A lchymia di A . Libavio (Francoforte, z6o6).

extant omnia. Gli scritti che hanno interesse per la chimica sono : Saccharologia, Tar­ tarologia e Synopsis aphorismorum chymiatricorum. L'opera chimica di questo italiano è stata messa in luce da diversi storici 1 . Giovanni Rey ( r583-r645 ) . Medico di professione, più che come iatrochimico deve essere considerato un precursore di Lavoisier, perchè nel suo scritto Essais sur la recherche de la ca,use pour laquelle l'estain et le plomb au,gmentent de poids quand on les calcine (r63o), egli ammette che l'aumento di peso sia dovuto all'aria 2 • Fu un uomo originale e acuto osservatore. Turquet de Mayerne ( I573-r655) . Nato a Ginevra, esercitò la medicina a Parigi e in Inghilterra come medico del re. Pur seguendo la scuola di Paracelso, mostrò un grande equilibrio e sostenne l'uso razionale dei medicamenti 3. Andrea Libavio. Nato a Halle (nel 1 540 ? ) , fu medico a Rothenburg ; morì nel r6r6. Pur essendo convinto della grande importanza della chimica per la medicina, mise in evidenza le manchevolezze dei seguaci di Paracelso. Coltivò gli studi storici e filologici (a Coburgo fu anche direttore del Ginnasio), acquistando allo stesso tempo conoscenze di chimica, come dimostrano le sue opere : Rerum chymicarum epistolica forma ad Philosophos et 1\11edicos quosdam in Germania excellentes descriptorum (1595) e A lchymia ( 1597) . Nel suo scritto De fudicio aquarum mineralium ( r6o6) egli determina il residuo delle acque minerali. I suoi scritti apparvero in 3 volumi col titolo Opera omnia medico­ chymica poco prima della sua morte 4 • Libavio con le sue osservazioni contribuì allo sviluppo della metallurgia, alla cono­ scenza dell'acido solforico, dei sali di ammonio, di piombo, ecc. Scoprì il cloruro stan­ nico che denominò Spiritus argenti vivi s�tblimati perchè ottenuto distillando l'amal­ gama di stagno col sublimato corrosivo : in seguito il cloruro stannico fu chiamato Spiritus fumans Libavii. Distillando l'ambra ottenne l'acido succinico (flos succini) . Caratteristico è il suo interesse per l'organizzazione razionale di un laboratorio chimico, come risulta dallo studio citato di Darmstaedter. Tommaso Willis (r622-75). Medico inglese, sostenne idee simili a quelle degli iatro­ chimici ; alle tre sostanze fondamentali paracelsiane unì la terra e l'acqua. Manifestò sulla fermentazione idee che si avvicinano alla teoria chimica di Liebig. '

4· Gli inizi della chimica tecnica nei secoli XVI e XVII.

Le cause che favorirono notevolmente i progressi scientifici e le scoperte non potevano restar senza influenza sulla chimica tecnica, i cui inizi, per i suoi rami prin­ cipali, si trovano nei secoli XVI e XVI I . Da notare, perchè caratteristico, il fatto che in questi due secoli compaiono trattazioni sistematiche di alcuni rami della 1

Cfr. R. CAPOBUS, A ngelo Sala, Berlin, Verlag Chemie, 1 93 3 ; A. CossA , A ngelo Sala, medico e chimico vicentino del sec. X VI I, Vicenza, 1 894; Giulio PROVENZAL, Profili di chimici italiani, pag. I I , Roma, I938. 2 Cfr. HoEFEI�, op. cit., II, p. 254; KoPP, Geschichte der Chemie, III, p . 1 3 1 . 3 Cfr. BENEDICENTI, op. cit., p. 539· " Cfr. E. DARMSTAEDTER, nel vol. I, p. IO], del Buch der grossen Chemiker di BuGGE, Berlin, I 929; 0TTMANN, Verhandlungen der Ges. deut. Naturforscher, 1 894, I I , p. 79·

532

PIROTE CHNIA.

LI D I E CE L I B RI D E L LA PI ROT E C H N I A ,

N e Ili quali {i tratta non folo la

di ucrlid del­ le mincre,ma ancho quanto fi ricerca all:l prattica di dlè : e di q uanto s'appar­ tiene all'arte della fulìone ouer

fl����s !.:t '7

6') l



getto de metalli , e d'ogni altra co fa à quefia fo �� / m igl t e . /. ,-/

iU�rfuJ'tL



t1.,ncL-b Yt�U7/ u

C O M 'P O S T A. 'P E }\_ I L S. Yannuccio Biringoccio ,

COL

.

,,, .//.

n�'9i:4�=A

nobile St:nefo .

P R I V I L E G I O A P OSTOL I CO)

c dcUa C.Maeft�,e clell'llluftrift.Stnttto Vtneto. M D L V I l }. l

.'J

,. -:-:

Frontespizio della Pirotechnia di Vannoccio Biringuccio (Venezia, 1 558) .

533

tecnica, trattazioni che hanno per iscopo non solo di raccogliere quanto la tradizione ha trasmesso, ma di descrivere i processi chimici in modo intelligibile, senza l'uso di un linguaggio ermetico o fantastico. Si può dire che la scoperta di Gutenberg abbia rinno­ vato la letteratura chimica anche nell'espressione oltre che nel contenuto. I trattati più importanti rimastici sono i seguenti: Biringuccio, De la Pirotechnia (1540) , Piccolpasso, Tre libri dell'arte del vasaio (1548) , Palissy, L'art de terre (1557-80) , Agricola, De re metal­ lica (1530-46) , Rossetti, Plicto de l'arte de' tentori (1540) , Porta, Magia naturalis (1558), Neri, De arte vitraria (1612) . Questi scritti sono importanti non solo per la tratta­ zione di argomenti speciali di chimica tecnica, trattazione che ha dato inizio così a quella letteratura chimica che tanto ha giovato e giova al progresso della nostra scienza, ma anche per il fatto che i loro autori, resisi indipendenti dallo scopo centrale della ricerca alchimistica, vanno specializzandosi in un ramo particolare dell'attività pratica. Non è quindi un'esagerazione trovare negli scritti citati gli inizi della chimica tecnica. Le due opere di Biringuccio e Agricola si riferiscono alla metallurgia, quella di Rossetti alla tintoria, quelle di Piccolpasso, Palissy e Porta alla ceramica e infine quella del Neri all'arte vetraria. Ma tali trattati non descrivono tutti i rami della chimica tecnica coltivati dagli specialisti, perchè sia diverse altre scoperte di chimica tecnica che alcune nuove industrie appartengono pure a questo periodo. L 'industria ceramica fa il suo ingresso in vari paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Paesi Bassi) , ma si sviluppa particolarmente in Italia raggiungendo un grado di per­ fezione artistica tale che già nei secoli XV e XVI alcuni maestri d'arte e artisti italiani (come il pisano Nicoloso di Francesco e i Della Robbia) percorrono i paesi d'Europa, diffondendone i segreti di preparazione. Tale industria si sviluppò particolarmente nel­ l'Italia centrale (Umbria, Toscana ed Emilia) . Durante il sec. XV Faenza era alla testa della produzione ceramica e nel ventennio 1530-50 essa contava oltre trenta fabbriche. Agostino Hirschvogel, dopo un lungo soggiorno a Venezia, diffuse in Germania la ceramica artistica. I n Francia l'industria ceramica deve molto a Palissy. La preparazione della porcellana in Europa appartiene a un periodo posteriore ; alcuni l'attribuiscono a Joh. Friedr. Bottger (1685-1719) , altri a E. W. von Tschirn­ haus (165 1-1708). Nel 1710 sorse la manifattura di porcellana di Meissen presso Dresda (diretta da Bottger) , nel 1763 quella di Berlino e nel 1769 quella di Sèvres in Francia per opera di Réaumur e più tardi di Macquer. Già nel sec. XV l'industria del vetro raggiunse un grande sviluppo a Venezia, con le fabbriche di Murano 1 ; oltre al modo di preparare vetri artistici colorati si conobbe anche l'arte dello smalto. Il De arte vitraria del fiorentino Antonio Neri (morto nel r6r4) non è una sem­ plice compilazione, ma è ricco di preziosi insegnamenti. Anche l'arte tintoria trasse giovamento dal > de l'arte de' Tentori, che insegna tenger pani, telle, bambasi et sede sì per larthe magiore, come per la comune di Giovanni Ventura Rossetti (o 1 Sull'arte vetraria e sulle fabbriche veneziane dà ampie notizie l'opera di BussoLIN, Guida delle fabbriche vetrarie di Murano, Venezia, 1 842 ; cfr. inoltre: Pio MoLMENTI, Storia di Venezia, vol. I, Bergamo, 1 927. I l più antico documento riguardante l'arte vetraria veneta sembra risalga al rogo; cfr. in proposito : U. FoRTI, Storia della tecnica italiana, p. 28, Firenze, Sansoni, 1 94 1 .

534

Dl: TENTORI CHE INSE TE.NGE.R PANI T.ELLE DANBAS I �

:ET S:EDE S I "PER LARTHE MA.GIORE C OME PJ:R LA. G OMVN E

Frontespizio del Plichto d i Giovanni Ventura Rossetti (Venezia, 1548).

535

euini fcriuero per

Ol dine

tutte le ttlaniere

Cb( (i oie tcnir per tcnger panni per \art( ma{;{)lOU.



Una fase del lavoro di tin­ tura di tessuti. Incisione del Plichto di Giovanni Ve ntura Rossetti.

Rosetti) >. Il Plicto, ossia complesso di cognizioni sull'arte della tintura (da 7tÀ�x-r6� plesso) , fu pubbli­ cato a Venezia nel 1 540 per i tipi di Francesco Rampazetto e ripubblicato nel 1548 da Agostino Bindoni. L'autore è un tecnico, buon conoscitore dell'arte della tintura. La preparazione della carta viene sviluppata pure in questo periodo con l'intro­ duzione di miglioramenti in diverse fasi della lavorazione. I n Spagna, Francia, Ger­ mania e Italia si fabbricò la carta sin dal sec. XI I ; nel secolo successivo solo a Fabriano si contavano una quarantina di fabbriche che utilizzavano specialmente gli stracci di lino. La vera fabbricazione industriale appartiene però ai secoli posteriori ; ma già nel sec. XIV in Italia si usava la pila con ruota idraulica, sostituita nel r67o dagli Olan­ desi con la pila a cilindro (di qui il nome di dato a questa pila) . La macchina continua è dovuta a Luigi Nicola Robert (1798) ; essa fu perfezionata in seguito da Denkin (r822) e da Canson (1826) . Col diffondersi dell'uso delle bevande alcooliche, anche l'arte del distillatore pro­ gredì, tanto che nel sec. XVI, particolarmente in Italia, si può parlare di una vera tecnica della distillazione. Di ciò testimoniano varie pubblicazioni tra le quali la Magia naturalis e il De distillatione di G. B . della Porta. Fra le preparazioni che subi­ rono l'influenza delle mutate condizioni sociali e di un pil1 elevato tenore di vita della =

Trivellazione in una miniera. Tavola del « De re metallica >>

di Giorgio Agricola (Basilea, xss6).

Storia delle Scienze, Il.

borghesia - già affermatasi in diversi paesi perchè munita di mezzi materiali pari se non superiori a quelli della nobiltà terriera - ricordiamo l'industria del sapone, che può considerarsi avviata già nel sec. XVI. I l processo più usato è quello della saponificazione alcalina dei grassi. Uno dei problemi legati allo sviluppo della chimica tecnica è quello dei ricono­ scimento non solo dei prodotti manifatturati, ma pure delle materie prime; a ciò giovò molto il sorgere della chimica analitica come aiuto indispensabile al chimico per le sue ricerche. Per quanto nel sec. XVI non possa ancora considerarsi noto un vero procedimento analitico - si conoscevano, è vero, alcune reazioni del comporta­ mento delle sostanze inorganiche al calore, ma di esse non si poteva dare ancora una esatta spiegazione - tuttavia gli iatrochimici portarono un certo contributo alla chimica analitica qualitativa per via umida. Si è già detto che la precipitazione della soluzione di nitrato di argento con l'acido cloridrico era già stata applicata per il riconoscimento dell'argento come pure dell'acido cloridrico. Tachenio, Sylvius, van Helmont e altri si giovarono di varie reazioni di precipitazione e di reazioni cromatiche per il riconoscimento dei metalli in soluzione ; furono così usate le soluzioni alcaline (idrossidi, carbonati) e la tintura di galla. Siamo ben lontani da un vero procedimento analitico sistematico, ma già s'intravvede la possibilità di dare a queste ricerche uno scopo meglio determinato, e cioè il riconoscimento dei componenti dei corpi. Spetterà poco più tardi a Boyle di chiarire questo scopo e di creare la vera chimica analitica qualitativa su basi sistematiche. Un indizio della necessità del riconoscimento dei composti o prodotti usati nella vita ordinaria e nella tecnica è dato dalla esistenza di numerosi laboratori, di cui

1 FORNI:LLO DADI STIUAIU:

DI

REV.ERBIRO A

rRE EFF.ECTl

l l

l ' \

J

Fornelli per distillazione. Incisione della Pirotechnia di Vannoccio Biringuccio.

537

molti annessi alle officine, soprattutto a quelle metallurgiche. La pratica dell'assaggio dei metalli e dei minerali si era i mposta nei periodi precedenti ; basti pensare al rico­ noscimento dell'oro fino da quello in lega con altri metalli e da quello falso noto nel­ l'antichità. Così Plinio 1 asserisce che i Romani conoscevano la :pietra di paragone per differenziare le varie leghe di oro. L'importanza dei laboratori di analisi per la chimica tecnica era così riconosciuta che nel r686, sotto la direzione del tecnico Hiarne, ne sorse uno anche in Svezia per l'analisi di minerali, prodotti naturali, ecc. I l diffondersi di questi laboratori fu anche favorito dalla farmacia che nello stesso tempo, e particolarmente per influenza degli iatrochimici, si affermava sempre più su basi razionali. Fu appunto nei primi periodi di formazione dei vari rami della chimica che la farmacia, con la sua tradizionale organizzazione, cooperò validamente a chiarire molte conoscenze pratiche di chimica. Dopo quanto è stato detto sullo sviluppo della chimica tecnica ci rimane da trat­ tare della vita e dell'opera dei maggiori chimici tecnici. Essi sono Biringuccio, Agricola, Glauber, Della Porta, Palissy e Cesalpino. 5 · I chimici tecnici.

Vannoccio Biringuccio (r480-1539) . Nato a Siena si occupò dei processi alchimi­ stici: in seguito ad un bando del rsrs, per aver alterato come direttore della zecca la lega delle monete, fu costretto ad allontanarsi dalla città natale e viaggiò in Italia e in Germania; nel 1529 si occupò di tecnica di guerra al servizio della Repub­ blica di Firenze, nel 1 53 1-35 fu di nuovo a Siena e nel 1538 a Roma a servizio di papa Paolo I I I . La sua opera, diventata classica, è la Pirotechnia, stampata a Venezia nel 1540 2 • Essa comprende dieci libri che trattano delle miniere, dell'assaggio dei minerali, della preparazione dei metalli e delle leghe metalliche, della fusione dei metalli, della distillazione, dell'arte della guerra e dei fuochi di artifizio. Biringuccio dà indicazioni sulle miniere di mercurio, antimonio e solfo, sull'allume di rocca, sul modo di affinare l'argento con la coppella, sull'arte distillatoria, sull'arte figulina e sulle norme tecniche nell'arte del minatore e dell'artigliere. L'importanza dell'opera di Biringuccio risalta dal numero rilevante di edizioni apparse. I l suo merito prin­ cipale è di avere cercato di eliminare ogni nebulosità alchimistica per la interpre­ tazione dei processi tecnici, fermandosi ai dati dell'esperienza. Egli però è un empi­ rista e quindi non può essere considerato un precursore del metodo galileiano. Giorgio Agricola (I494-1555). Nato a Glauchau, morì a Chemnitz. Studiò a Bologna, Padova e Venezia e per quanto medico non si occupò della iatrochimica, bensì di 1

Hist. Nat. XXXIII, 4r, 42, 43· meriti di Biringuccio sono stati messi in rilievo per primo da I . Guareschi in u n ampio studio pubblicato nel >, 22, 4 1 9 ( 1 904) . Una prima parte della Pirotechnia fu pubblicata con note a Bari nel 1 9 1 4 da A. Mieli. Su Biringuccio cfr. inoltre O. JoHANNSEN nel vol. I, p. 70, del Buch der grossen Chemiker di BuGGE, Berlin, 1929; G. PROVENZAL, Profili di chimici italiani, pag. 5, Roma, 1938. 2 l

Sistema di pulitura di metalli. Tavola del De re metallica di Giorgio Agricola. 539

Lavorazione del vetro, nel De re me­ tallica di Giorgio Agricola.

problemi mineralogici e metallurgici. Fu anche filologo. Il suo scritto più importante è De re metallica, libri XII ( 1 530-46) ; inoltre sono da ricordare De natura fossilium, libri X e De ortu et causis subterra·neorum 1. Come quelli di Biringuccio, gli scritti di Agricola sono caratterizzati da una grande chiarezza e da uno stile lontano dalla fraseologia alchimistica. Giovanni Rodolfo Glauber ( r6o4-70) . Chimico olandese, esplicò la sua attività anche in Austria e in Germania. Per quanto non alieno dalle stranezze dell'alchimia e di temperamento fantastico, mostrò grande acume nell'interpretare diverse nozioni chimiche. Egli contribuì alla conoscenza e alla preparazione dei sali di ammonio, del vetro solubile e del solfato di sodio, che ottenne decomponendo il sal comune con acido solforico. Il solfato di sodio cristallizzato con ro molecole di acqua è noto come sale di Glauber 2• 1

Gli scritti tecnici di Agricola sono stati tradotti in tedesco da C. Schiffer e pubblicati con una introduzione di Darmstaedter (Berlino, 1928) ; una traduzione inglese del De re metallica venne pubblicata da H. C. Hoover nel 1 9 1 2 . Su Agricola cfr. inoltre : DARMSTAEDTER, G. A gricola, Monaco, 1926 e vol. I, p. 99, del Buch der grossen Chemiker di BuGGE, 1 929; G. H . ]ACOBI, Der !Vlineralog G. A gricola und sein Verhaltnis f. Wissenschaft seiner Zeit, Leipzig, 1 889; O. VoGEL, , 36, 405 (1916 ). 2 Su Glauber cfr. P. WALDEN nel vol. I, p. 1 91 , del Buch der grossen Chemiker di BuGGE, 1 929.

5 40

TO::Ol · I·

10

Ricerche chimiche e simboli alchimistici. Tavola del Mutus Liber (sec. XVI) riprodotta nella B-ibliotheca Chemica Curiosa di J . ] . Manget.

54I

Giovanni Battista Della Porta (r537-r6rs). Naturalista napoletano, fu anche versato nelle matematiche. I l suo scritto Magia naturalis (rs6o) raccoglie le cono­ scenze di chimica pratica del tempo. Egli si occupò dell'industria ceramica, del vetro, delle pietre preziose artificiali, della distillazione - ricordiamo a questo proposito il suo scritto De distillatione (r6o6) - e della iatrochimica 1. La Magia del Della Porta venne tradotta in volgare (Venezia, Avanzi, r s 6o) , in inglese (r658) e in tedesco (I713). Bernardo Palissy (r499-I58g) . È il chimico più eminente della Francia durante il sec. XVI, la cui opera, più che alle astrazioni alchimistiche e iatrochimiche, fu volta all'osservazione dei fenomeni naturali e alla ricerca. Per quanto sia esagerato considerarlo un sostenitore del metodo sperimentale scientifico, egli affermò netta­ mente la funzione dell'osservazione e dell'indagine nella scienza; come tale lo si deve considerare un precursore di Francesco Bacone 2• . Uomo di grande energia, Palissy da semplice vasaio seppe giungere ai posti più elevati della tecnica 3 ; egli si occupò dell'industria ceramica e, pur facendo tesoro dell'esperienza dell'industria italiana, portò ad essa un contri­ buto importante, particolarmente per gli smalti. Nei suoi scritti combattè tanto la dottrina di Paracelso quanto le ricerche alchimistiche sulla pietra filosofale ; fra essi ricordiamo il Traité de l'or potable, L'art de terre e il Traité des metaux. Gli scritti di Palissy furono raccolti in volume da Barthélemy Faujas de Saint Fond e N. Gobet e pubblicati nel 1777 da Ruault di Parigi ; le opere complete apparvero nel 1844 a cura di P. A. Cap. Tali scritti rivelano la forte personalità dell'autore e la sua sempli­ cità ; il suo stile è infatti piano e privo di termini ermetici. Palissy sostenne anche che i sali minerali sono necessari alla vita delle piante e quindi raccomandò l'aggiunta di sali solubili e della marna (già usata per lo stesso scopo dagli agronomi romani, come afferma Plinio) allo stallatico e fertilizzanti ana­ loghi. Andrea Cesalpino (rszo-r6o3) . Questo grande naturalista, che come medico rag­ giunse le vette della genialità, si occupò pure di problemi di chimica applicata. Ricor­ diamo il suo scritto De metallicis (rsgo) , interessante anche per le osservazioni sulla cristallizzazione di sostanze diverse. 1

Cfr. 2 Cfr. als Vater 3 Cfr.

54 2

HoEFER, op. cit., I I , p. 1 0 5 . A. B. HAUSCHMANN, Bernhard Palissy, der Kiinstler, Naturforscher und Schriftsteller der induktiven Wissenschaftsm.ethode des Baco von Verulam, 1903. HoEFER, op. cit., II, p. 9 2 ; M. L. FosTER, , 8, 1 045 ( 1 93 1 ).

CAPITOLO

IV.

IL PERIODO DI UNIFICAZIONE - LA PNEUMATICA

1.

Caratteri generali e rappresentanti.

La iatrochimica giovò in modo notevole alla chimica, in quanto valse a liberarla dalle pastoie dell'alchimia ed estese le conoscenze sui composti necessari alla vita, favorendo così anche la farmacia. Ma a lungo andare la iatrochimica avrebbe costi­ tuito un impedimento per lo sviluppo della chimica, poichè limitava il campo d'inda­ gine di questa scienza. Come la farmacia non è la chimica, così la iatrochimica non poteva risolvere tutto il complesso problema che la scienza nostra, in via di forma­ zione, andava impostando. Si è visto come a lato degli iatrochimici non pochi cultori della chimica tecnica abbiano seguito una via completamente diversa, inserendo cioè questa nella vita sociale e ponendola a servizio dell'uomo. Ma la chimica tecnica, soprat­ tutto in quel periodo, non poteva nè impostare, nè risolvere i problemi fondamentali della chimica in quanto scienza, quelli cioè inerenti alla composizione dei corpi. Ed ecco sorgere per vie diverse ricercatori che nei secoli XVII e XVIII portarono con le loro scoperte un contributo alla creazione delle prime teorie chimiche scientifiche. Una corrente importante è quella dei chimici pneumatici che ebbero di mira, forse più inconsciamente che volutamente, lo studio della materia allo stato gassoso. Non deve però meravigliare che lo studio chimico dei gas abbia permesso di scoprire le leggi fisiche sul volume dei gas in funzione della pressione e della temperatura: l'influenza della pressione sul volume dei gas fu notata da Boyle nel r66o e da Mariotte nel r677 ; l'influenza della temperatura fu osservata molto tempo dopo da Volta (1792) e da Gay-Lussac (r8o2) . Queste leggi, insieme a quella delle combinazioni di Gay-Lussac, formano la base della pneumatologia, ossia di quella scienza che ha per iscopo lo studio della materia allo stato gassoso. Attualmente la pneumatologia non è considerata una branca distinta delle scienze naturali, perchè viene compresa nelle due scienze più im­ portanti, la fisica e la chimica, ma lo stesso non si può dire per i secoli XVII e XVIII. L'iniziatore della chimica pneumatica fu van Helmont, che non solo introdusse il nome di gaz o gas, ma con l'osservazione che il gas silvestre, diverso dell'aria, si forma per azione degli acidi sulla pietra calcarea, nella fermentazione del mosto e 5 43

Alchimisti nel laboratorio. Dal frontespizio del Tripus aureus, in un 'edizione del 1 749.

nella preparazione della birra, come pure nella combustione del carbone, gettò le basi della chimica pneumatica. Questa osservazione, fatta nella prima metà del sec. XVI I , quando i gas che si sviluppavano nelle operazioni di laboratorio erano consi­ derati varietà dell'aria, ha una grande importanza. Il massimo rappresentante della chimica pneumatica è però Boyle, non solo perchè scoprì la legge che porta il suo nome, ma perchè introdusse i primi apparecchi per la raccolta di gas e quindi fornì ai chimici il mezzo più adeguato per l'isolamento e lo studio di altri gas. Tra questi chimici, che per la loro opera appartengono tutti al sec. XVI II, ricordiamo Black, che studiò meglio il gas silvestre e lo denominò aria fissa, in quanto veniva fissato dagli alcali concentrati e dalla calce, Cavendish che per primo caratterizzò l'idrogeno o aria infiammabile (1766) e studiò meglio l'aria atmosfe­ rica e l'aria fissa, Daniele Rutherford (1749-1 81 9) che isolò dall'aria l'azoto ( 1772) , Priestley che scoprì l'ossigeno ( 1774) , Scheele che, indipendentemente da Priestley, scoprì e studiò l'ossigeno e altri gas, Lavoisier che studiò l'ossigeno e chiarì la sua vera funzione nei fenomeni di combustione, di calcinazione e di respirazione e fìnal544

EXPL I CA TION plu s c ommun s C araél:er es Chymiques.

des

Aao-.zi;orv .Màr.s= --�---- - _ _ _

Au7la.I2L---------Atz..o

_ . _ . ___

. _ _ _ . . _______ .

---

_ _ _ __ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _

A/amblc.

A!wv Ama._!yanwo -

__ _ _ _

-- - -

--

-

_ _ _ _ _

-

--

-

-

-

_

- - - - - - -- - - - -

Anlimo�-- - - - - - - o A

...a.rUDrl.lW._

_ _ _ _

_

_

Atyent uu L WU/ . Ayent vj/'ou. .Mcrcure____ _ _ _ _ _ _ _ _

.

Ar/e..r .

___ . _ _ _ _ _ _ _ _ _ _

...4 r.r(_wÌA.�. o

.Bain, .

.

_ _ _ _ .

. 0•

.

• • •

.

. - -

- --� 0

- -

-.

• • •

. . .

.

.

o-

-

-

JJaLance,J'fjn.e dfe.rfb

Jln9uc

. .

.

.

o

_ _

o

.



_

Calaner

_

_ _ _ _ _

Làmplzre

_



.

_ _ _

_

_

_

_

_

_

_

_ _ _ _

.

_

.

.

.

.

. _

. _

_

_

. .

D:mcer, ou Eére

__

_

_ .

_

_

_

_



_

__ _

_

.

_

_

8

.

_

-_

B

.1\:B "58

_

_

_ _ _

_ _

_

_ _ _

_

0-

� W� .m

_

_ _ __

--

--V

. __

- --

_ _

_ _ _ _

_



_

.o-o

_ _

- - -

(t 1>

_ _ __

_ _ _ _ _ _ _ .

_• _

_ _

.

- - - -



_

- -

_

JJortUL .

_

-- - -

_ _ _

A � O

_ _ . _ _ _ _ _

. . . . .

- - -

_

_ _ _ _

• •

_

è:J

. ---.

_ _ _ _

- - - - - - -

n

- - . .tt

-

_ _ _ _ _ _ _

. . . .. _

- - vtlFtTreua::.. . . .

B