Storia della filosofia antica. Platone e Aristotele [Vol. 2]
 8834325796, 9788834325797 [PDF]

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L'Autore e la sua produzione sàenti/ica

Giovanni Reale è professore ordinario, titolare della cattedra di Storia della filosofia antica presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università Cattolica di Milano. l suoi studi e la sua produzione scientifica spaziano su tutto l'arco della filosofia antica. Nell'ambito dei Presocratici ha approfondito soprattutto gli Eleati (Senofane, Parmenide, Zenone e Melisso), curando dapprima gli aggiornamenti sistematici de La filosofia dei Greà nel suo sviluppo storico, I, 3 di E. Zeller - R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967, e pubblicando in seguito una edizione dei frammenti di Melisso che arricchisce considerevolmente la raccolta di Diels-Kranz, con ampia monografia introduttiva e commentario storico-filologico e filosofico (il primo che finora sia stato fatto): Me/isso, Testimonianze e /rammenti, La Nuova Italia, Firenze 1970 (Biblioteca di Studi Superiori, 50). A Platone ha dedicato costante studio. Ha tradotto e commentato una serie di dialoghi per la collana «ll Pensiero» dell'Editrice La Scuola di Brescia: Critone, 1961 (1987 13 ); Menone, 1962 (1986 11 ); Euti/rone, 1964 (1987 7); Gorgia, 1966 (1985 7); Protagora, 1969 (1984 5 ); Fedone, 1970 (1986 10 ). Di recente ha pubblicato l'ampio volume: Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle "Dottrine non scritte", Vita e Pensiero, 19875 (la prima edizione è del 1984). Quest'opera è stata insignita del «Premio Fiuggi per la saggistica filosofica 1986». Ha tradotto dal tedesco e introdotto: Platone e i fondamenti della metafisica di H. Kriimer, 1982, 19872 ; La metafisica della storia in Platone di K. Gaiser, 1988 (due opere composte dagli autori su invito di G. Reale), nonché Th. A. Szlezak, Platone e la scrittura della filosofia, 1988; tutte opere pubblicate da Vita e Pensiero. Su Aristotele ha scritto numerosi saggi in riviste e in miscellanee e ha pubblicato i seguenti volumi: Il concetto di filosofia prima e l'unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1961 (l'opera ha avuto una seconda edizione nel 1965, una terza nel 1967 e una quarta nel 1985 e di recente è stata tradotta in lingua inglese da John R. Catan (State University of New York Press,

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Albany 1980); Introduzione a Aristotele, Laterza, Bari 1974 (1986 4), tradotta in spagnolo da V. Bazterrica (Herder, Barcelona 1985). Per la collana «Filosofi antichi» dell'Editore Loffredo ha tradotto La Metafisica, 2 voll., Napoli 1968 (19782 ), con un'ampia introduzione e un commentario storico-filosofico, il primo sistematico in lingua italiana (la traduzione senza commentario è stata edita anche presso Rusconi, Milano 1978; 19842 ). Nel 1974, per la medesima collana dell'Editore Loffredo, ha curato la prima traduzione italiana del Trattato sul Cosmo per Alessandro, con testo greco a fronte, introduzione e commentario sistematico, suggerendo, sulla base di nuovi argomenti e documenti, l'ipotesi di lavoro che l'opera possa appartenere ad Aristotele, o comunque al primo Peripato. Nell'ambito della filosofia postaristotelica ha approfondito un momento particolarmente importante della storia del Peripato nel volume Teofrasto e ia sua aporetica metafisica, La Scuola, Brescia 1964, opera che contiene anche la traduzione (la prima in lingua italiana) della Metafisica di Teofrasto, con commentario (l'opera è stata integralmente tradotta da J. Catan ed è stata in parte già' edita in appendice al Concetto di filosofia prima, come è stato fatto anche nella quarta edizione italiana di quest'opera). Ha inoltre ristudiato a fondo la figura di Pirrone in un saggio dal titolo: Ipotesi per una rilettura della filosofia di Pirrooe di Elide (in AA.VV., Lo scetticismo antico, Bibliopolis, Napoli 1981, pp. 243-336). Nell'ambito della filosofia dell'età imperiale si è occupato di Filone di Alessandria, oltre che con ricerche specifiche, promuovendo la prima traduzione italiana sistematica di tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, pubblicati presso l'editore Rusconi, Milano 1978-1988 in vari volumi. Ha curato altresì l'Introduzione, le Prefazioni e le Parafrasi a tutto quanto ci è pervenuto di Epitteto (nel volume Epitteto, Diatribe, Manuale, Frammenti, Rusconi, Milano 1982). Ha pubblicato una monografia su Proclo dal titolo L'estremo messaggio spirituale del mondo antico nel pensiero metafisica e teurgico di Proclo, edita come saggio introduttivo in: Proclo, I Manuali, Rusconi, Milano 1985 (pp. v-ecxxm). Inoltre, insieme a Dario Antiseri ha firmato una vasta sintesi in tre volumi: Il pensiero occzdentale dalle origini ad oggi, La Scuola, Brescia 1983, opera già più volte riedita e già tradotta in spagnolo da ].A. Iglesias per l'editrice Herder (Barcelona 1988).

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GIOVANNI REALE

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA Il. PLATONE E ARISTOTELE Sesta edizione

_ ~~ VITA E PENSIERO ~ Pubblicazioni della Università Cattolica

1r

Milano 1988

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Prima edizione: ottobre 1975 Seconda edizione: gennaio 1976 Terza edizione: gennaio 1979 Quarta edizione: ottobre 1981 Ristampa della quarta edizione: marzo 1984 Quinta edizione (con rifacimento della prima parte e con nuova veste grafico-editoriale): gennaio 1987 Sesta edizione: settembre 1988

N.B. Le nuove edizioni, con le modifiche apportate, sono pubblicate con contributi del «Dipartimento di filosofia» e del «Centro di Ricerche di Metafisica» dell'Università Cattolica.

© 1975 Vita e Pensiero - Largo Gemelli, l - 20123 Milano ISBN 88-343-2579-6

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SOMMARIO

Avvertenza

XIII

Parte prima PLATONE E LA SCOPERTA DELLA CAUSA SOPRASENSIBILE LA « SECONDA NAVIGAZIONE »

Sezione prima / Il grande impatto fra la cultura della « scrittura » e la cultura della « oralità » e i differenti modi di comunicazione del messaggio filosofico di Platone La mediazione tentata da Platone fra « scrittura » e oralità » e il rapporto strutturale fra « scritto » e « non scritto » l. Perché è necessario superare il criterio tndizionale e acquisirne uno nuovo per intendere il pensiero di !Platone - 2. Il giudizio dato da Platone sugli scritti nel « Fedro » - 3. Le autotestimonianze contenute nella «Lettera VII » - 4. I tratti essenziali delle « Dottrine non scritte » di Platone pervenuteci attraverso la tradizione indiretta - 5. Come va inteso il termine «esoterico » riferito a.J pensiero non scritto di !P-latone - 6. Significato, portata e finalità degli scritti platonici- 7. Il «soccorso» che la tradizione indiretta porta agli scritti platonici 1.

«

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7

VI

SOMMARIO

II. I grandi problemi che hanno travagliato gli interpreti di Platone e le loro più plausibili soluzioni alla luce dei nuovi studi l. La questione de1l'unità e del sistema nel pensiero di Platone - 2. La questione dell'ironia e della sua funzione nei dialoghi platonici - 3. La questione cruciale della evoluzione del pensiero di ·Platone - 4. « Mito » e « logos » iiil Platone - 5. ·La poliedricità e la polivalenza della filosofia platonica

36

Sezione seconda / La componente metafisicodialettica del pensiero platonico I. La « seconda navigazione » come passaggio dalla ricerca fisica dei Presocratici al piano metafisica l. L'incontro con i Fisici e la verifica dell'inconsistenza della loro dottrina - 2. L'incontro con Anassagora e la verifica deJl'.jmuffi.cienza della teoria dell'Intelligenza cosmica come era stata da lui proposta - 3. La grande metafora della « seconda navigazione» come simbolo dell'accesso al soprasensibile - 4. Le due tappe della «seconda navigazione »: la teoria delle Idee e la dottdna dei Principi 5. I tre grandi punti focali della filosofia di Platone: teorie delle Idee, dei Principi e del Demiurgo

n. La teoria platonica delle Idee e alcuni problemi ad essa connessi l. Alcune precisazioni sul termine « Idea » e sul suo significato - 2. I caratteri metafisico-ontologici delle Idee 3. Il supremo carattere metafisica della «unità» delle Idee - 4. H dualismo platonico come espressione della trascendenza - 5. Il grande problema del rapporto fra mondo delle Idee e mondo sensibile Le « Dottrine non scritte » dei Principi primi e supremi e i grandi concetti metafisici ad esse connessi l. I Principi primi identificati con l'Uno e con la Diade di grande e piccolo - 2. L'essere come sintesi (mescolanza) dei due Prindpi - 3. La divisione categoriale del reale -

59

74

III.

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102

VII

SOMMARIO

4. Numeri ideali e struttura numerica del reale - 5. Le realtà matematiche La metafisica delle Idee alla luce della protologia delle Dottrine non scritte » e le allusioni che Platone fa alla dottrina dei Principi l. Gli interessi pagati da Platone nella « Repubblica » intorno al Bene e il debito lasciato aperto - 2. Il « Parmenide » e il suo significato - 3. L'antologia dei generi supremi nel « Sofista » e la metafora del « parricidio di Parmenide » - 4. Le grandi tesi metafisiche del « Filebo »: la struttura bipolare del reale, i quattro generi sommi, e la suprema Misura come Assoluto IV.

«

v. La dottrina del Demiurgo e la cosmologia l. La posizione del mondo fisico nell'ambito del reale se-

123

152

condo Platone - 2. Il Demiurgo e il suo ruolo metafisica 3. Il principio materiale del mondo sensibile, il suo ruolo metafisica e i suoi nessi con la Diade - 4. L'« Uno » come cifra emblematica deH'agire e dell'operare del Demiurgo - 5. L'attività creazionistica del Demiurgo platonico intesa in dimensione ellenica - 6. Il Demiurgo (e non l 'Idea del Bene) è il Dio di Platone VI.

La gnoseologia e la dialettica

187

l. ,L'anamnesi, radice e condizione della conoscenza nel

Menone » - 2. Riconferme della dottrina dell'anamnesi nei dialoghi successivi - 3. I gradi della conoscenza delineati nella «Repubblica»- 4. La dialettica- 5. L'impianto protologico della dialettica impemiato sull'uno e sui molti

«

vn. La concezione dell'arte e della retorica l. L'arte come allontanamento dall'essere e dal vero La retorica come mistificazione del vero

2:

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209

SOMMARIO

VIII

Sezione terza l La componente etico-religioso-ascetica del pensiero platonico e i suoi nessi con la protologia delle «Dottrine non scritte » Rilevanza della componente mistico-religioso-ascetica del platonismo

1.

II. L'immortalità dell'anima, i suoi destini ultraterreni e la sua reincarnazione l. Le prove dell'immortalità dell'anima - 2. I destini escatologici dell'anima - 3. La metempsicosi

m. La nuova morale ascetica l. Il dualismo antropologico e il significato dei paradossi ad esso connessi - 2. La sistemazione e la fondazione della nuova tavola dei valori - 3. L'antiedonismo platonico 4. La purifìcazione dell'anima, la virtù e la conoscenza IV

La mistica di philia e di eros

219

223

245

261

l. L'amicizia (phiHa) e il «Primo Amico» - 2. L'« amor

platonico » v. Platone profeta?

270

VI. La componente etico-religiosa del pensiero platonico e i suoi rapporti con la protologia delle « Dottrine non scritte »

272

Sezione quarta l La componente politica del platonismo e i suoi nessi con la protologia delle « Dottrine non scritte » Importanza e significato della componente politica def platonismo l. Le affermazioni della Lettera VII - 2. Differenza fra la concezione platonica e la moderna concezione della politica 1.

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285

SOMMARIO

IX

n. La « Repubblica» o la costruzione dello Stato ideale l. Prospettive di lettura della Repubblica - 2. Lo Stato

291

perfetto e il tipo di uomo ad esso corrispondente - 3. Il sistema di comunanza di vita dei guerrieri e l'educazione della donna nello Stato ideale - 4. Il filosofo e lo Stato ideale - 5. L'educazione dei filosofi nello Stato ideale e la « conoscenza massima » - 6. Gli Stati corrotti e i tipi umani ad essi corrispondenti - 7. Lo Stato, la felicità terrena e quella ultraterrena - 8. Lo Stato nell'interiore dell'uomo ur. L'uomo di Stato, la legge e le costituzioni l. Il problema del Politico - 2. Le forme di costituzioni possibili - 3. Il « giusto mezzo » e l'arte politica

332

IV.

Lo « Stato secondo » delle « Leggi » l. La finalità delle Leggi e il loro rapporto con la Repubblica - 2. Alcuni concetti fondamentali delle Leggi

339

v. La componente politica del pensiero platonico e i suoi rapporti con la protologia delle « Dottrine non scritte »

344

Sezione quinta

l

Conclusioni sul pensiero platonico

1. Il « mito della caverna » come simbolo del pensiero platonico in tutte le sue valenze fondamentali

353

II. Alcuni vertici del pensiero di Platone rimasti punti di riferimento nella storia del pensiero occidentale

362

Parte seconda ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO

Sezione prima l Rapporti fra Aristotele e Platone Prosecuzione della « seconda navigazione » Premessa critica: il metodo storico-genetico e l'interpretazione moderna del pensiero aristotelico

1.

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379

x

SOMMARIO

Le tangenze di fondo fra Platone e Aristotele: l'inveramento della «seconda navigazione»

388

m. Le differenze di fondo fra Platone e Aristotele

396

11.

Sezione seconda

l

La metafisica e le scienze teoretiche

La metafisica l. Concetto e caratteristiche della metafisica - 2. Le quat-

I.

403

tro cause - 3. L'essere e i suoi significati e il senso della formula « essere in quanto essere » - 4. La tavola aristotelica dei significati dell'essere e la sua struttura - 5. Precisazioni sui significati dell'essere - 6. La questione della sostanza in generale - 7. La questione della « ousia » in generale: la forma, la materia, iJ ·sinolo e le note definitorie del concetto di sostanza - 8. La « forma » aristotelica non è l'universale - 9. L'atto e la potenza - 10. Dimostrazione dell'esistenza della sostanza soprasensibile - 11. Natura del Motore Immobile - 12. Unità e molteplicità del Divino 13. Dio e il mondo n. La fisica l. Caratterizzazione della fisica aristotelica - 2. Il muta-

451

mento e il movimento - 3. Lo spazio e il vuoto - 4. Il tempo - 5. L'infinito - 6. La « quinta essenza» e la divisione del mondo sublunare e celeste

m. La psicologia

466

l. Il concetto aristotelico dell'anima - 2. ,La tripartiziOne

dell'anima - 3. L'anima vegetativa - 4. L'anima sensitiva 5. L'anima razionale IV.

482

La matematica Sezione terza

l

Le scienze pratiche: etica e politica

L'etica l. Rapporti fra etica e politica - 2. Il bene supremo del-

I.

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489

XI

SOMMARIO

l'uomo: la felicità - 3. Deduzione delle «virtù» dalle «parti dell'anima» - 4. Le virtù etiche - 5. Le virtù «dianoetiche » - 6. La perfetta felicità - 7. L'amicizia e la .felicità - 8. Il piacere e la felicità - 9. Psicologia dell'atto morale La politica l. Concetto di Stato - 2. L'amministrazione della famiglia 3. Il cittadino- 4. Lo Stato e le sue possibili forme - 5. Lo Satto ideale II.

522

Sezione quarta / La fondazione della logica, la retorica e la poetica 1.

La fondazione della logica l. Concetto di logica o « analitica » - 2. H disegno generale degli scritti logici e la genesi della 'logica aristotelica - 3. Le categorie, i termini, la definizione - 4. Le proposizioni (il De Interpretatione) - 5. Il sillogismo - 6. H sillogismo scientifico o dimostrazione - 7. La conoscenza immediata - 8. I principi della dimostrazione - 9. I sillogismi dialettici, i sillogismi eristici e i paralogsmi - 10. La logica e la realtà

543

La retorica l. La genesi platonica della retorica aristotelica - 2. La

569

11.

definizione della retorica e i suoi rapporti con la dialettica, con l'etica e con la politica - 3. I diversi argomenti di persuasione - 4. L'entimema, l'esempio e le premesse del sillogismo retorico I tre generi di retorica - 6. La topica della retorica - 7. Conclusioni sulla Retorica

5:

La politica l. Il concetto di scienze produttive - 2. La mimesi poetica - 3. Il bello - 4. ·La catarsi 111.

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584

XII

SOMMARIO

Sezione quinta / Conclusioni sulla filosofia aristotelica 1.

La fortuna della filosofia aristotelica

n. Vertici e aporie della filosofia aristotelica

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597 600

A mia moglie Paola

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AWERTENZA

Questo secondo volume della Storia della filosofia antica contiene la trattazione di Platone e di Aristotele, e quindi dei più cospicui vertici raggiunti dal pensiero dei Greci. A questi due autori abbiamo sempre dedicato numerose e ampie ricerche, ma di Platone siamo giunti ad avere una visione globale che ci soddisfa pienamente solo negli anni Ottanta, e in particolare con il volume Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle "Dottrine non scritte" (edizione parziale 1984; edizione per intero rt/atta ed ampliata 1986; in questo stesso anno abbiamo pubblicato anche una terza e una quarta edizione e nel 1987 una quinta edizione presso Vita e Pensiero, in versione definitiva). A tale visione globale siamo pervenutt~ oltre che con una serie di lavori fatti in passato, soprattutto dopo il volume che H. Kriimer ha composto dietro nostro invito: Platone e i fondamenti della metafisica, e che noi stessi abbiamo tradotto e pubblicato, presso Vita e Pensiero, nel 1982 (1987 2). Per completare questo volume, abbiamo dovuto tradurre anche tutte le principali testimonianze sulle platoniche «Dottrine non scritte» tramandateci dalla tradizione indiretta (alcune per la prima volta in lingua italiana), e, di conseguenza, siamo stati indotti a ristudiare questa problematico, con la sistematica rivalutazione di questa tradizione e con una serie di esami analitici e puntuali. Ricordiamo che Kriimer è ulteriormente ritornato su questa !ematica nel volume La nuova immagine di Platone, Bibliopolis, Napoli 1986. Inoltre, egli ha puntualmente esaminato il nostro volume su Platone, esprimendo il giudizio della scuola di Tubinga intorno al medesimo, nell'articolo: Mutamento di paradigma nelle ricerche su Platone. Riflessioni intorno al nuovo libro su Platone di Giovanni

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XVI

AVVERTENZA

Reale, in «Rivista di Filosofia neoscolastica», 78 (1986), pp. 341-352, ora ripubblicato anche come Appendice seconda nella quinta edizione del nostro volume (pp. 705-720). Inoltre, nel1985 Th. Szlezak ha pubblicato il volume Platon und die Schriftlichkeit der Philosophie (De Gruyter, Berlin), che rovescia il modello tradizionale della lettura di Platone, e, pur muovendo da un differente punto di partenza, giunge a conclusioni ermeneutiche perfettamente convergenti con le conclusioni di fondo della Scuola di T ubinga, ossia con le ricerche di H. Kriimer e di K. Gaiser. Szlezak parte dalle grandi pagine conclusive del Fedro, nelle quali Platone fa una sistematica critica di ogni /orma di scrittura (e quindi anche della /orma dialogica dei propri scrittt) e /a vedere come esse contengano quei canoni basilari secondo i quali va riletto tutto quanto Platone ci ha lasciato per iscritto. Ogni dialogo di Platone ha bisogno di un «soccorso» che porta su un piano più elevato, in funzione di «cose di maggior valore». E non solo una parte di un dialogo ha bisogno del soccorso di un'altra parte del medesimo dialogo, che chiama in causa appunto «cose di maggior valore», ma spesso un dialogo ha bisogno del soccorso di cose di maggior valore che sono state dette in altro dialogo, e la totalità dei dialoghi, per i fondamenti supremi, rimanda all'oralità dialettica. Platone ha potuto concepire, strutturare e comporre i suoi dialoghi in questo modo, e ha potuto prendere nei loro confronti l'atteggiamento che ha preso, proprio sulla base delle verità ultimative guadagnate nella dimensione dell'oralità. E, in questo senso, si comprende perfettamente ciò che Platone ci dice, appunto nel Fedro, ossia che è filosofo solo colui che non mette nei suoi scritti le cose supreme di maggior valore. Abbiamo già tradotto e pubblicato il volume presso Vita e Pensiero (1988) con il titolo Platone e la scrittura della filosofia. Analisi di struttura dei dialoghi della giovinezza e della maturità alla luce di un nuovo paradigma ermeneutico, con una nostra Introduzione in cui discutiamo ampiamente i fondamenti ermeneutici dell'opera. Lo stesso Gaiser nel 1984 ha pubblicato il volume Platone come scrittore filosofico. Saggi sull'ermeneutica dei dialoghi platonici (Bibliopolis, Napolz) e nel1986 ci ha consegnato il volume La metafisica della storia in Platone (che noi stessi a nome del «Centro di Ricerche di Metafisica» gli abbiamo richiesto), che presenta con numerosi ritocchi e con aggiornamenti le importanti analisi da lui in precedenza già /atte su questo tema in funzione del nuovo modello di interpretazione di Platone, ossia con la rilettura dei dialoghi alla luce delle «Dottrine

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AVVERTENZA

XVII

non scritte». Lo abbiamo tradotto e pubblicato presso Vita e Pensiero ne/1988, con ampia Introduzione. Ricordiamo anche il cospicuo volume di V. Hosle, Wahrheit und

Geschichte. Studien zur Struktur der Philosophiegeschichte unter paradigmatischer Analyse der Entwicklung von Parmenides bis Piaton, Stuttgart-Bad Cannstatt 1984, che largamente recepisce e mette a /rutto il nuovo tipo di lettura di Platone. Ricordiamo, infine, che anche in Francia sta diffondendosi il nuovo paradigma ermeneutico. Una studiosa legata alla scuola di P. Hadot, M.D. Richard, ha pubblicato un ben documentato volume dal titolo

L'enseignement oral de Platon. Une nouvelle interpretation du platonisme, Paris 1986, con la prima traduzione francese delle testimonianze della tradizione indiretta sulle dottrine non scritte di Platone (e proprio in Francia - ricordiamo/o - L. Robin all'inizio del secolo aveva intravisto il nuovo paradigma nell'opera La théorie platonicienne des Idées et des Nombre d'après Aristate, 1908, che però rimase allora senza sviluppt). Gli anni Ottanta, dunque, segnano un progressivo ampliarsi ed imporsi di un nuovo modello di lettura di Platone, e ci è parso che i tempi siano ormai maturi per acquisire e presentare anche a livello di sintesi il nuovo modello di interpretazione, per i motivi che avremo modo di spiegare, e di cui, comunque, il/ettore potrà trovare nel nostro volume Per una nuova interpretazione di Platone tutti gli approfondimenti speafici ed analitici. D'altro canto, già alla fine degli anni Cinquanta Albin Lesky nella sua bella Storia della letteratura greca scriveva, senza mezzi terminz~ che, malgrado Platone abbia creato con i suoi dialoghi qualcosa di ineguagliato nella letteratura greca, li giudicò, in quanto parola scritta, qualcosa di inferiore al vivo logos del docente che feconda l'anima del discente, e nella Lettera VII ci disse espressamente che sul fine supremo della propria filosofia non avrebbe mai scritto nulla. Pertanto, afferma Lesky, «bisogna tenere per /ermo che questi dialoghz~ pieni di profonda gravità morale e dell'autentico eros del ricercatore, sotto un altro aspetto avvolgono la parte essenziale della filosofia platonica come una semplice sovrastruttura» (p. 663 dell'edizione italiana). E precisa: «Platone affermava [.. .] che i suoi scritti non contenevano tutta la sua dottrina. Ciò che egli scrisse dopo il primo ritorno dalla Sicilia va visto sullo sfondo de/lavoro dell'Accademt'a» (p. 686). Tesi, questa, che, come vedremo (cfr. pp. 15 s.), già Nietzsche aveva ben intuito, ma che solo

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XVIII

AVVERTENZA

ai nostri giorni sta sistematicamente imponendosi, e che in concreto dt~ mostreremo. Il fulcro della scoperta metafisica del soprasensibile (che Platone ha presentato come frutto della sua «seconda navigazione») rimane per not~ come nelle prime ediziont~ il punto da approfondire per capire Platone; ma, con il nuovo modello interpretativo che presentiamo, questa scoperta si chiarisce ulteriormente e nei modi che ampiamente spiegheremo. Questo guadagno del soprasensibile costituisce, a nostro avviso, non solo la tappa fondamentale del pensiero antico - che, come vedremo, si caratterizzerà proprio nei modi in cui accetterà, e poi smarrirà e infine riguadagnerà il senso di essa -, ma, più in generale, costituisce una pietra miliare nel corso della filosofia occidentale, per i motivi che avremo modo di puntualizzare nel corso della trattazione: ed è per questa ragione che ci siamo addentrati, nell'esporre l'antologia platonica, in una serie di temi e di problemi, che normalmente, in lavori di sintesi come il nostro, non vengono affrontati. Abbiamo presentato, infattt~ un Platone, per così dire, a tre dimensioni, perché ci è parso che le tre fondamentali interpretazioni proposte nel corso dei secoli rivelino tre effettive facce del nostro filosofo, tre componenti essenziali del suo pensiero: quella teoretica, quella mistico-religiosa e quella politica; e ciascuna di queste componenti assume il significato peculiarmente e squisitamente platonico, appunto in base alla «seconda navigazione». Ma abbiamo mostrato come solo alla luce delle «Dottrine non scritte» tramandateci dalla tradizione indiretta queste tre componenti (e in particolare la stessa «seconda navigazione») acquistino senso compiuto e come solo in questo modo si guadagni quell'immagine unitaria del pensiero di Platone, che tanto si è ricercata. L'interpretazione di Aristotele che proponiamo dipende, in larga misura, dall'interpretazione di Platone. A nostro avviso Aristotele, se viene letto senza pregiudizt~ risulta, nei nuclei essenziali del suo pensiero, non l'antitesi, bensì un certo inveramento di Platone. L'immagine dell'antitest~ così ben rappresentata da Raffaello nella sua «Scuola di Atene» (che riportiamo nella sovracoperta con il corrispettivo «cartone» nel retro), la quale raffigura Platone con la mano indicante il cielo (ossia la metafisica trascendenza) e Aristotele con la mano puntata verso la terra (ossia verso i fenomeni del mondo empirico), è, in realtà, l'immagine dell'interpretazione che l'Umanesimo e il Rinascimento avevano dato dei due filosofi, ossia l'immagine del conflitto fra lo spiri-

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AVVERTENZA

XIX

tualismo delle humanae litterae (di cui Platone era stato eretto ad emblema) e il naturalismo della scienza (di cui Aristotele era stato eretto a simbolo). Vedremo, invece, che Aristotele fu l'unico dei pensatori vicini a Platone che sviluppò - almeno in parte - la sua «seconda navigazione» e addirittura la portò innanzi per un certo tratto. Naturalmente, la nuova interpretazione di Platone implicherebbe ulteriori sviluppi e approfondimenti dei rapporti fra il sistema aristotelico e quello platonico, che però non possono essere /atti in una sintesi come questa nostra, in quanto riguarderebbero la comprensione delle polemiche di Aristotele contro Platone e le precise radici di dottrine aristoteliche nelle «Dottrine non scritte» di Platone. D'altra parte, l'interpretazione sistematico-unitaria di Aristotele che abbiamo sempre sostenuto converge in maniera paradigmatica con la nuova interpretazione sistematicounitaria di Platone, e per questo abbiamo ritenuto inutili ulteriori modifiche e aggiunte. La lettura sistematico-unitaria delle opere esoteriche di Aristotele (le uniche pervenutecz), dopo essere stata contestata a partire da/1923, è ormai tornata a reimporsi non solo come lecita, ma come l'unica possibile, per le ragioni che avremo modo di ribadire. In chiave unitaria e sistematica rileggeremo dunque Aristotele, e scenderemo anche all'analisi di alcuni punti dottrinali particolarz~ che solitamente si riservano alle trattazioni monogra/iche, perché solo in questo modo possono emergere i due segni distintivi del suo pensiero, vale a dire il modo in cui egli cerca di superare e inverare le istanze socratico-platoniche e il modo in cui crea il sistema del sapere filosofico, anche formalmente. Ricordiamo, infine, che per la maturazione delle tesi su Aristotele sostenute in questo volume è stato per noi decisivo il volume Il concetto di filosofia prima e l'unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1961 (1985 4; traduzione inglese di]. Catan, State University o/ New York Press, Albany 1980) e il lavoro di traduzione e di commento della Metafisica di Aristotele (2 voli., Loffredo, Napoli 1968, 19782). Segnaliamo allettare interessato altresì due opere sul pensiero dello Stagirita che abbiamo pubblicato e che possono essere un complemento di questa sintesi. Per la collana «l Filoso/i» dell'editore Laterza abbiamo pubblicato una Introduzione a Aristotele (Bari 1974; 19864; traduzione spagnola di V. Bazterrica, Editoria! Herder, Barcelona 1985), che, se riprende (per solito in modo ristretto) parti di questa Storia, per altro verso offre una serie di integrazioni sulla formazione di Aristotele,

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xx

AVVERTENZA

sugli scritti essoterici, sulla fortuna di Aristotele, nonché un'ampia bibliografia. Per la collana «Filoso/i antichi» dell'editore Lo/fredo abbiamo pubblicato la prima versione italiana (con testo greco a fronte, monografia introduttiva, commentario critico, bibliografia ragionata completa e col pnino indice integrale dei termini grecz) de/Trattato sul Cosmo per Alessandro (Napoli 1974), che (sia pure in via di ipotesi di lavoro, ma già accuratamente verificata anche nei particolarz) ,·vendichiamo ad Aristotele come opera scritta in stile essoterico per le lezioni che egli tenne ad Alessandro, allorché fu chiamato alla corte macedone come precettore del pn·ncipe. A tutti questi lavon· n·mandiamo il/ettore che desiden· ulterion· motivazioni delle interpretazioni di Aristotele che qui presentiamo, così come per gli approfondimenti dell'interpretazione che proponiamo di Platone rimandiamo al volume Per una nuova interpretazione di Platone, che è essenziale per capire tutte le innovazioni che dalla quinta edizione in poi abbiamo introdotto in questa nostra Storia della filosofia antica.

*** Per la veste editoriale delle nuove edizioni ringraziamo vivamente il dott. S. Raiteri per le ragioni che spieghiamo nell'Avvertenza al primo volume. GIOVANNI REALE

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PLATONE E ARISTOTELE

« [ ... ] se v'è chi meriti il nome di maestro del genere umano, sono precisamente Platone e Aristotele >>.

Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia

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È questo il celebre conservato al Museo Nazionale di Napoli, copia romana del I secolo d.C. di un originale greco. K. Gaiser ha dimostrato che raffigura l'Accademia e che Platone è la terza figura partendo da sinistra, mentre Aristotele è la settima. Si veda il volume: Das Philosophenmosazk in Neapel. Eine Darstellung der platonischen Akademie, Heidelberg 1980, e il breve saggio riassuntivo: Il Mosaico dei Filosofi di Napoli: una raffigurazione dell'Accademia platonica, Firenze, L. Olschki, 1981.

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PARTE PRIMA

BLATONE E LA SCOPERTA DELLA CAUSA SOPRASENSIBILE LA « SECONDA NAVIGAZIONE »

« [ ... ] -ròv l.ieu-repov 7tÀ.ouv É7tt -r'i]v -ri'ic; a~-ri.txc; ~-i)"t"T]OW TI 7tE7t(JIIY(l.!i"t"EU(l.C.U ~OUÀ.EL CTOL, ~epT], É7tLOEL~W 7tOL-i]CTW(l.C1L, KE~T]c;; >>.

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« [ ... ] la seconda navigazione che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa, vuoi, disse, che te la esponga, o Cebete? ». Platone, Fedone, 99 c-d

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SEZIONE PRIMA

IL GRANDE IMPATTO FRA LA CULTURA DELLA «SCRITTURA,. E LA CULTURA DELLA « ORALITA » E I DIFFERENTI MODI DI COMUNICAZIONE DEL MESSAGGIO FLLOSOFICO IN PLATONE

« MyE't!lL 8'1:1-tL :twxpci.-tTJVTJO'!lV't!1 Ò:V!11t'tijV!lL i)liv x),.ci.y!;a;V't!l· X!lt ~Elt' i)~Épa;v ITÀ.ci-twva; «v't~ O'VO'-tijva;L, -tòv liÈ 'tOV'tOV tl1tt~V ttV!lL 'tÒV opvw ».

«Si na"a che Socrate ahbia sognato di avere sulle ginocchia un piccolo cigno, che subito mise ali e volò via e dolcemente cantò e che il giorno dopo, presenta/osi a lui Platone come alunno, abbia detto che il piccolo cigno era appunto lui ». Diogene Laerzio, 111, .5

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EXC VD E B AT

A ~ V S,

« SCRITTURA» « ORALITÀ » E IL RAPPORTO STRUTTURALE FRA « SCRITTO » E « NON SCRITTO »

I. LA MEDIAZIONE TENTATA DA PLATONE FRA

E

l. Perché è necessario superare il criterio tradizionale e acquisirne uno nuovo per intendere il pensiero di Platone

Che Platone 1 costituisca il vertice più cospicuo raggiun' Platone nacque ad Atene nel 427 a. C. Il suo vero nome fu Ari· stocle (dal nome del nonno), e Platone fu un soprannome. Diogene Laerzio 111, 4 ci riferisce: « Aristone lottatore argivo fu il suo maestro di ginnastica, da cui ricevette il nome di Platone per il suo vigore fisico; prima si chiamava Aristocle dal nome del nonno, come dice Alessandro nella Successione dei filosofi. Sostengono altri che egli prese il nome di Platone per l'ampiezza del suo stile; o perché era vasta la sua fronte, come dice Neante ». (Si ricordi che, in greco, rt"ì..ci-.oc; significa ampiezza, larghezza, estensione, e da questo termine deriva appunto Platone). Il padre vantava fra i suoi antenati il re Codro, la madre vantava una parentela con Solone. E quindi ovvio che Platone vedesse, fin da giovane, nella vita politica il proprio ideale: la nascita, l'intelligenza e le attitudini personali, tutto lo spingeva in quella direzione. E questo un dato biografico, anzi esistenziale, assolutamente essenziale, che inciderà, e a fondo, nella sostanza stessa del suo pensiero. Aristotele (Metafisica, A 6) ci riferisce che Platone fu dapprima discepolo dell'eracliteo Cratilo e poi di Socrate (l'incontro di Platone con Socrate avvenne probabilmente attorno ai vent'anni). E certo, però, che Platone frequentò Socrate, dapprima, con lo stesso intento con cui lo frequentò la maggior parte degli altri giovani, cioè non per fare della filosofia lo scopo della propria vita, ma per meglio prepararsi, attraverso la filosofia, alla vita politica. Gli eventi indirizzarono poi in altro senso la vita di Platone. Un primo contatto diretto con la vita politica Platone dovette avere nel 404-403, quando l'aristocrazia prese il potere e due dei suoi congiunti,

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

to dal pensiero antico è, ormai, una convinzione ben acquisita. Anzi, se si rimane nell'ambito del pensiero antico, si costata in maniera sorprendente il fatto che la filosofia platonica costituisce addirittura l'asse portente più significativo del modo di pensare dei Greci. Aristotele stesso, come mostreCarmide e Crizia, ebbero parti di primo piano nel governo oligarchico: ma dovette indubbiamente trattarsi di una esperienza amara e deludente, a causa dei metodi faziosi e violenti che Platone vide mettere in atto proprio da coloro in cui aveva nutrito fiducia. Ma il disgusto per i metodi della politica praticata in Atene dovette raggiungere il culmine nel 399, quando Socrate fu condannato a morte. E della condanna di Socrate furono responsabili i democratici (che tosto avevano ripreso il potere). E così Platone si convinse che per il momento era bene per lui tenersi lontano dalla politica militante. Dopo il 399 Platone fu a Megara con alcuni altri Socratici, ospite di Euclide (probabilmente per evitare possibili persecuzioni che potevano venirgli per aver fatto parte del circolo socratico). Ma a Megara non dovette fermarsi molto a lungo. Diogene Laerzio ci informa: « [ ... ] andò a Cirene da Teodoro, il matematico, indi in Italia dai Pitagorici Filolao ed Eurito. E di qui in Egitto dai profeti [ ... ] . Platone aveva anche deciso d'incontrarsi con i Magi, ma le guerre d'Asia lo costrinsero a rinunciarvi » (m, 6-7). Di questi viaggi a Cirene e in Egitto non abbiamo conferme nella Lettera VII, mentre sappiamo con certezza del viaggio in Italia, nel 388 a. C., sui quarant'anni, e poi dei successi vi. A spingerlo in Italia dovette certamente essere il desiderio di conoscere le comunità dei Pitagorici (conobbe infatti Archita, come sappiamo dalla Lettera VII, 338 c). Durante questo viaggio, Platone fu invitato in Sicilia, a Siracusa, dal tiranno Dionigi 1. E certamente Platone sperava di inculcare nel tiranno l'ideale del re-filosofo (che già egli aveva esposto nel Gorgia, opera che molto probabilmente precede il viaggio). A Siracusa Platone venne ben presto in urto col tiranno e con la corte (proprio sostenendo quei principi espressi nel Gorgia); e, invece, strinse un forte vincolo di amicizia con Dione, parente del tiranno, in cui Platone credette di trovare un discepolo capace di diventare re-filosofo. Dionigi si irritò con Platone al punto - dice Diogene Laerzio (m, 19) - da farlo vendere come schiavo da un ambasciatore spartano ad Egina (ma forse, più semplicemente, costretto a sbarcare ad Egina, che era in guerra con Atene, Platone fu trattenuto come schiavo). Ma, fortunata~ente, fu riscattato da Anniceride di Cirene che si trovava ad Egina (Diogene Laerzio, m, 20). Al ritorno ad Atene fondò l'Accademia (in un ginnasio sito nel parco dedicato all'eroe Accademo, donde il nome Accademia) e il Menone è verosimilmente il primo proclama della nuova Scuola. L'Accademia si affermò ben presto e richiamò giovani e anche uomini illustri in grande numero.

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«SCRITTURA •

E

«

ORALITÀ •

SECONDO PLATONE

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remo, dipende in maniera strutturale da Platone, e dopo l'età ellenis~ica, come vedremo nel quarto volume, per circa sei secoli tutto ciò che di più significativo è venuto dai Greci dipende da ripensamenti e da sviluppi del pensiero di Platone, direttamente o indirettamente. Senza contare, poi, l'inNel 367 Platone si recò una seconda volta in Sicilia. Era morto Dionigi 1 e gli era succeduto il figlio Dionigi II, che, a dire di Dione, ben più del padre avrebbe potuto favorire i disegni di Platone. Ma Dionigi n si rivelò della stessa risma del padre. Esiliò Dione, accusandolo di tramare contro di lui, e trattenne Platone quasi come un prigioniero. Solo perché impegnato in una guerra, Dionigi lasciò, infine, che Platoll> 113. Bd.), p. 140. ' Cfr. volume I, pp. 358-362.

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

Il primo, però, che è alquanto accentuato nei primi dialoghi, va via via riducendo il suo mordente e la sua portata, nella misura in cui i dialoghi si .arricchiscono di contenuti di dottrina e nella misura in cui il momento costruttivo, in essi, sopravanza il momento aporetico. Il secondo, invece, tende ad ampliarsi e a farsi sempre più complesso, fino a raggiungere le punte massime anche in dialoghi molto importanti, come ad esempio nel Parmenide. Ed è proprio questo aspetto dell'ironia platonica che rende certi dialoghi difficili da interpretare, perché il filosofo non fa riconoscere espressamente la finzione ironica come tale e muta maschera senza mai farla cadere. L'ironia platonica ha un profondo valore metodologico, che ha le sue radici nella maieutica socratica: il lettore dei dialoghi viene coinvolto nelle invenzioni e nel gioco delle finzioni allo scopo di ottenere un suo impegno totale, che ha per fine il far scaturire dal di dentro la scintiHa del vero. Dunque, l'ironia platonica non ha nulla a che vedere, come J aspers ha giustamente rilevato nella sua ricostruzione del pensiero platonico, con la visione nichilista, che persegue la via della mera negazione, e che coincide con il ridicolo che colpisce ed annienta. Per contro, l'ironia platonica implica il possesso di un positivo, che non viene espresso direttamente, al fine di evitare il fraintendimento di chi non è in grado d'intendere. « L'ironia filosofica - scrive Jaspers - è invece espressione della certezza di un contenuto originario. Perplessa di fronte alla univocità del bisogno razionale e alla molteplicità di significati che hanno i fenomeni, essa vorrebbe cogliere il vero, non parlando ma suscitando. Vorrebbe dare un segno della verità nascosta, mentre l'ironia nichilista è vuota. Nel vortice dei fenomeni vorrebbe condurre con uno svelamento autentico alla presenza ineffabile della sua verità, mentre la vuota ironia attraverso il vortice ci fa cadere nel nulla. L'ironia filosofica è pudore di ogni verità diretta. Essa vieta ogni fraintendimento tota-

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I GRANDI PROBLEMI INTERPRETATIVI DI PLATONE

le immediato». Con la sua ironia - dice ancora Jas.pers « sembra che Platone abbia voluto dire: coloro i quali non possono intendere debbono fraintendere » 7 • Ebbene, accogliendo il nuovo modello interpretativo, non pochi dialoghi cessano di essere enigmi, e si comprende che cosa Platone ha detto davvero sul serio e per convinzione. Le precise indicazioni che si ricavano dalla tradizione indiretta gettano molta luce, come vedremo, su molti dialoghi, e soprattutto su parti enigmatiche dei dialoghi (che obiettivamente talora raggiungono i limiti della indecifrabilità), ed offrono la chiave per intendere il gioco ironico e far cadere la maschera, e, quindi, per identificare fattivamente il messaggio fìlosofìco platonico. In ogni caso, l'interpreta:done panironica dei dialoghi platonici, in cui alla fìne l'ironia travolge tutto e anche se stessa, alla luce della rivalutazione della tradizione indiretta non è più proponibile, mentre il gioco ironico svela, alfìne, la sua serietà fìlosofìca ed i suoi fìni costruttivi.

3. La questione cruciale luzione» del pensiero di

della «evoPlatone

A proposito della questione cruciale dell'evoluzione del pensiero platonico scriveva Theodor Gomperz alla fìne dell'Ottocento: « Accordiamoci per un momento il lusso di un bel sogno. Supponiamo che uno degli intimi di Platone, per esempio suo nipote Speusippo [ ... ] , avesse fatto quello che non gli avrebbe richiesto più di un quarto d'ora dei suoi ozi e che lo avrebbe reso inestimabilmente benemerito della storia della fìlosofìa: che avesse, cioè, segnato su una tavo7 K. Jaspers, Die grossen Philosophen, Miinchen 1957, pp. 267 sg. (traduzione italiana di F. Costa: I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, pp. 357 sg.).

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letta l'elenco, per ordine di data, degli scritti di suo zio, e che una copia di tale elenco fosse pervenuta fìno a noi. Possederemmo, in tal caso, l'ausilio migliore per lo studio dello svolgimento spirituale di Platone » 8 • Gomperz rileva che questo non supplirebbe alla mancanza di un diario, di un ricco epistolario, di ragguagli sulle sue conversazioni; per di più, il punto di vista direttivo che concerne lo sviluppo cronologico e quello che concerne la continuità dei contenuti dottrinali si contenderebbero pur sempre il primato; tuttavia, un catalogo di quel genere risulterebbe risolutivo dei più grossi problemi, dato che il pensiero di Platone è un continuo processo di avanzamento. Ebbene, oggi questa convinzione, sulla base di quanto abbiamo sopra detto circa i rapporti fra « scrittura » e « oralità » in Platone, risulta in parte superata, e in ogni caso ridimensionata in maniera strutturale. Ma per capire bene questo problema e le soluzioni che oggi vanno vieppiù imponendosi, è necessario che precisiamo alcuni suoi tratti essenziali. Il concetto di « evoluzione » del pensiero di Platone è stato introdotto da Hermann nel 1839 9 , in un'opera che ha segnato una svolta essenziale negli studi platonici, articolando in maniera nuova il modello interpretativo che era stato proposto da Schleiermacher. La tesi trovò consensi eccezionali e la concezione dell'evoluzione del pensiero platonico divenne un vero e proprio canone ermeneutico, anche per il fatto che essa ricevette alcune importanti conferme sulla base dell'applicazione del metodo dell'analisi stilistica e della statistica linguistica e con l'ausilio dei raffinati metodi della moderna filologia. ' Th. Gomperz, Griechische Denker, Leipzig 1896-1897; traduzione italiana di L. Bandini: Pensatori greci, vol. m, La Nuova Italia, Firenze 1953', p. 49. ' K. F. Hermann, Geschichte und System der platonischen Philosophie, Heidelberg 1839.

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I GRANDI PROBLEJdi INTERPRETATIVI DI PLATONE

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Si è partiti dalle Leggi, che sappiamo per certo essere state l'ultimo scritto di Platone, e, con una accurata determinazione delle caratteristiche stilistiche di quest'opera, si è cercato di stabilire quali altri scritti corrispondessero a queste caratteristiche, e si è di conseguenza potuto concludere (avvalendosi anche di criteri collaterali di vario genere) che gli scritti dell'ultimo periodo sono, in ordine, probabilmente i seguenti: T eeteto, Parmenide, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi. Si è ulteriormente potuto stabilire che la Repubblica appartiene alla fase centrale della produzione platonica, che è preceduta dal Simposio e dal Pedone e che è seguita dal Fedro. Si è potuto altresì accertare che un gruppo di dialoghi rappresenta il periodo di maturazione e di passaggio dalla fase giovanile alla fase più originale: il Gorgia appartiene verosimilmente al periodo immediatamente anteriore al primo viaggio in Italia e il Menone a quello immediatamente seguente. A questo periodo di maturazione risale probabilmente anche il Cratilo. ll Protagora è forse il coronamento della prima attività. Gli altri dialoghi, soprattutto quelli brevi, sono certamente scritti giovanili, come, del resto, è confermato dalla tematica squisitamente socratica che in essi viene discussa. Alcuni di essi possono essere stati ritoccati in età matura. Ed ecco le conclusioni che se ne potrebbero ricavare dal punto di vista teoretico e dottrinale, e che illustrano lo schema che in passato anche noi abbiamo sostenuto. Dapprima, Platone trattò una problematica prevalentemente etica (etico-politica), muovendo esattamente dalla posizione alla quale era pervenuto Socrate. In seguito, e proprio approfondendo in tutte le direzioni la problematica etico-politica, egli comprese la necessità di rivalutare le istanze della filosofia della physis: comprese che la giustificazione ultima dell'etica non può venire dall'etica stessa, ma solo da una conoscenza dell'essere e del cosmo di cui l'uomo è parte. Ma il ricupero delle istanze onto-cosmologiche

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

dei Fisici avvenne in modo originalissimo, e, anzi, mediante una autentica rivoluzione di pensiero, ossia con la scoperta del soprasensibile (dell'essere soprafisico). La scoperta dell'essere soprasensibiie e delle sue categorie mise in moto un processo di revisione di una serie di antichi problemi e ne fece nascere altresì tutta una serie di nuovi, che Platone mise a tema e approfondì via via, nei dialoghi della maturità e della vecchiaia, in modo instancabile. Il guadagno del concetto del soprasensibile diede nuovo senso alla socratica psyché e alla socratica « cura dell'anima »; diede altro senso all'uomo e ai suoi destini, altro senso alla Divinità, al cosmo e alla verità. Dall'alto degli orizzonti raggiunti con la scoperta del soprasensibile Platone poté comporre l'antitesi fra Eraclito e Parmenide, poté fondare l'intuizione teleologica di Anassagora, poté sciogliere molte aporie dell'Eleatismo, poté dare nuovo senso al Pitagorismo. Nella maturità le istanze eleatiche si fecero, anzi, così urgenti, che non solo ispirarono interi dialoghi come il Parmenide, ma portarono addirittura, come già abbiamo detto, ad una sostituzione di Socrate come protagonista: nel Sofista e nel Politico, infatti, il vero protagonista sarà uno Straniero di Elea. Nella fase della vecchiaia, infine, emersero in primo piano le istanze pitagoriche (peraltro dal Gorgia in poi sempre presenti e in vario modo operanti), al punto che, nella grande sintesi finale cosmo-antologica del Timeo, come protagonista Platone scelse appunto il pitagorico Timeo. Secondo la maggioranza degli studiosi, infine, le « Dottrine non scritte » (e anche per quegli studiosi che per primi le avevano rivalutate) avrebbero concluso la parabola evolutiva di Platone. Questa parabola-tipo che abbiamo brevemente schizzato, naturalmente ha una serie di varianti (e anche assai notevoli) nei vari interpreti. In particolare è da notare che molti studiosi hanno creduto di poter rintracciare nei dialoghi posteriori alla Repubblica espressioni di crisi, di superamenti,

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I GRANDI PROBLEMI INTERPRETATIVI DI PLATONE

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di « autocritiche », di « autocorrezioni » di vario genere del pensiero originario platonico, soprattutto per quanto concerne la dottrina centrale, ossia la dottrina delle Idee. Ed è anche da rilevare come il problema dei rapporti fra evoluzione e sistema sia stato variamente risolto, per lo più con la tendenza a dare la preminenza all'evoluzione proprio come canone ermeneutico a scapito del sistema, vale a dire a scapito dell'unità del pensiero platonico 10 • Ora, se si accetta il nuovo modello interpretativo, la ricostruzione genetica del pensiero platonico, unitamente a tutte le pretese che essa accampa, riceve un drastico ridimensionamento, perché vengono messi seriamente in crisi proprio i presupposti sui quali essa si basa. Sarà opportuno ricordare per sommi capi i punti focali di tale questione. a) In primo luogo è da rilevare che lo studio in chiave genetica dei dialoghi platonici può raggiungere risultati attendibili per quanto riguarda l'aspetto di Platone scrittore, ma non ad un tempo anche quello di Platone pensatore. Infatti lo scrittore Platone è !ungi dal coincidere sistematicamente e globalmente con il pensatore Platone, come da quanto sopra si è detto risulta, e come puntualmente emergerà anche dagli ulteriori rilievi che seguono. b) L'interpretazione genetica applica, senza per nulla dimostrarlo, il principio secondo il quale Platone possiederebbe solamente quel livello di dottrina e di consapevolezza teoretica che esprime nei dialoghi via via scritti. c) Le diverse finalità e i diversi obiettivi che ispirano i vari dialoghi impongono, per ragioni strutturali, differenti livelli di trattazione dottrinale, ossia un più o un meno in quantità e qualità di dottrine, che producono uno spiazzamen10 Oltre al lavoro di Hermann, citato alla nota precedente, sono stati decisivi i lavori di L. Campbell e soprattutto la cospicua opera di W. Lutoslawski, The Origin and Growth o/ Plato's Logic, London 1905' (1897'). Il più recente lavoro sul tema è: H. Thesleff, Studies in P/atonie Chronology, Helsinki 1982.

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mento notevole nel gioco delle inferenze su cui si basa il metodo genetico. Certi dialoghi, per esempio, presentano un minor contenuto dottrinale, semplicemente per H fatto che essi si propongono fini più limitati rispetto ad altri, e per di più adattandoli alla misura dei personaggi. d) Nel Fedro, inoltre, Platone dice chiaramente, come sopra abbiamo veduto, che il momento di elaborazione orale deHa dottrina veniva prima, e che solo in un secondo momento le dottrine guadagnate attraverso la discussione orale (o almeno alcune di esse) venivano fissate, a scopo ipomnematico, negli scritti. A questo proposito, inoltre, è facile rilevare una mobilità di limiti fra scritto e non scritto. Con il passare degli anni, infatti, Platone si è spinto a mettere per iscritto sempre di più e si è arrestato solamente di fronte a quelle «cose di maggior valore », ossia a quelle dottrine che, per le ragioni sopra spiegate, avrebbero dovuto restare « non scritte » in modo definitivo. e) Inoltre, a queste « Dottrine non scritte » egli ha fatto una serie di rimandi, che in molti dialoghi, per i lettori e per gli interpreti che non siano indebitamente prevenuti, risultano inequivoci. /) Le conclusioni sono, dunque, evidenti. Platone, quando componeva i dialoghi, si muoveva in un orizzonte di pensiero più ampio di quello che via via fissava per iscritto. La corretta rivalutazione della tradizione indiretta permette di ricostruire, in buona misura, questo orizzonte di pensiero. E una volta accertato che il nucleo essenziale delle « Dottrine non scritte » risale ad un'epoca molto anteriore rispetto a quanto si pensasse in passato, risulta evidente che la questione dell'evoluzione del pensiero platonico va impostata in modo del tutto nuovo, e precisamente sulla base dei rapporti fra opera scritta e insegnamento orale, vale a dire sulla base dei rapporti fra le due tradizioni pervenuteci, tenendo conto altresì di tutte le circostanze sopra indicate.

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I GRANDI PROBLEMI INTERPRETATIVI DI PLATONE

g) Bisognerà, in ogni caso, distinguere differenti livelli della parabola evolutiva: quello di Platone pensatore; quello di Platone scrittore in generale; quello della struttura dei rapporti fra scrittura ed oralità, che in una certa misura via via si restringono.

4.

«Mi t o »

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«lo gos »

in

Platone

Un altro problema di enorme portata, accanto a quelli che abbiamo sopra esaminato, è costituito dal fatto che Platone rivaluta il « mito » accanto al « logos », e, a partire dal Gorgia fìno ai tardi dialoghi, gli attribuisce una importanza assai notevole. Come si spiega questo fatto? Come mai la fìlosofìa torna a sussumere il mito, dal quale aveva cercato in vario modo di affrancarsi? È forse, questa, una involuzione, una parziale abdicazione della fìlosofìa alle proprie prerogative, una rinuncia alla coerenza, o, in ogni caso, un sintomo di sfiducia in sé? In breve, che senso ha il mito in Platone? A questo problema è stato risposto in modi diversissimi. Le soluzioni estreme sono venute da Hegel e dalla Scuola di Heidegger. Hegel scriveva in proposito: « Il mito è una forma di esposizione che, in quanto più antica, suscita sempre immagini sensibili che sono adatte per la rappresentazione, non per il pensiero; ma questo attesta l'impotenza del pensiero, che non sa ancora reggersi di per sé, e quindi non è ancora pensiero libero. Il mito fa parte della pedagogia del genere umano, poiché eccita ed attrae ad occuparsi del contenuto; ma siccome in esso il pensiero è contaminato da forme sensibili, non può esprimere ciò che vuole esprimere il pensiero. Quando il concetto si è fatto maturo, non ha bi-

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

sogno di miti» 11 • Dunque, il mito platonico apparterrebbe alla forma esteriore e alla rappresentazione; dal mito andrebbe sempre sceverato il concetto filosofico, che col mito si mescola solo perché ancora in parte non maturo. Pertanto il mito in Platone avrebbe un valore (filosoficamente) negativo. A conclusioni diametralmente opposte è giunta invece la Scuola di Heidegger, che ha additato nel mito la più autentica espressione della metafisica platonica; il logos, che pur campeggia nella teoria delle Idee, si rivela capace di cogliere l'essere, ma incapace di spiegare la vita: il mito viene in soccorso proprio per spiegare la vita, e, in certo senso, supera il logos e si fa mito-logia. Nella mito-logia sarebbe da ricercarsi il senso più autentico del platonismo 12 • E fra questi due estremi, naturalmente, si colloca una gamma assai varia di soluzioni intermedie 13 • A nostro avviso, il problema è solubile solo se si scoprono le precise ragioni che hanno portato Platone a riproporre il mito. E queste ragioni sono individuabili nella dvalutazione di alcune tesi di fondo dell'Orfismo e ddla tendenza mistica del medesimo, e, in generale, nel prepotente affermarsi della componente religiosa, a partire dal Gorgia. Il mito, insomma, in Platone rinasce non solo come espressione di fantasia, ma piuttosto anche come espressione di quella che potremmo chiamare fede (Platone usa nel Fedone li termine speranza, ÈÀ.1tCç) 14 • Il discorso filosofico platonico su certe tematiche escatologiche, in effetti, dal Gorgia in poi, nella maggior parte dei dialoghi, diventa una forma di fede ragionata: H mito cerca una chiarificazione nel logos, e il logos un completamento " Hegel, Vorlesungen iiber die Geschichte der Philosophie, cit., pp. 188 sg. ( trad. i t., ci t., pp. 171 sg.). " Cfr. W. Hirsch, Platons Weg zum Mythos, Berlin 1971. " Si veda la bibliografia nel volume v, s. v. " Fedone, 67 b-e; 68 a; 114 c.

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I GRANDI PROBLEMI INTERPRETATIVI DI PLATONE

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nel mito. Alla forza della « fede » che si esplica nel mito, Platone affida, talora, il compito di trasportare e di elevare lo spirito umano in ambiti e sfere di superiori visioni, aUe quali la pura ragione dialettica, da sola, fatica ad accedere, ma delle quali può tuttavia prendere mediatamente possesso; talaltra, invece, Platone affida alla forza del mito il compito, quando la ragione sia giunta ai suoi limiti estremi, di superare intuitivamente questi limiti e cosl di coronare e completare questo sforzo della ragione, elevando lo spirito ad una visione o almeno ad una tensione trascendente. E alle razionalistiche negazioni del valore del mito usato in questo senso, ecco che cosa espressamente risponde Platone, rivolgendosi a Callide e ai campioni della sofistica iper-razionalistica: A te parrà che questa [sci!.: il mito dell'oltretomba] sia una leggenda, di quelle che narrano le vecchierelle, e la disprezzerai; e, invero, il di.sprezzare queste cose non sarebbe assurdo, se cercando [sci!.: con la pura ragione] potessimo trovarne altre migliori e più vere. Ma vedi bene che voi tre, che siete i più sapienti dei Greci, tu e Polo e Gorgia, non sapete dimostrare che si debba vivere una vita diversa da questa, che è vita che ci appare utile anche laggiù 15 •

Inoltre è da notare questo in modo particolare: il mito di cui Platone fa uso metodico è essenzialmente diverso dal mito pre-filosofico che non conosceva ancora il logos. Si tratta di un mito che non solo, come dicevamo, è espressione di fede più che di stupore fantastico, ma è altresl un mito che non subordina a sé il logos, ma fa da stimolo al logos e lo feconda nel senso che abbiamo spiegato, e perciò è un mito che, in un certo senso, arricchisce il logos. Insomma è un mito che, mentre viene creato, viene dal logos spogliato dei suoi elementi meramente fantastici per mantenerne sola" Gorgia, 527 a-b.

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mente i poteri allusivi e intuitivi. Ma ecco l'esemplificazione più chiara di ciò che abbiamo affermato, in un passo del Pedone, che fa seguito immediatamente alla narrazione di uno dei più grandiosi miti escatologici con cui Platone ha cercato di raffigurare le sorti delle anime nell'aldilà: Certamente, sostenere che le cose siano veramente cosi come io le ho esposte, non si conviene ad un uomo che abbia buon senso; ma sostenere che o questo o qualcosa simile a questo debba accadere delle nostre anime e delle loro dimore, dal momento che è risultato che l'anima è immortale: ebbene, questo mi pare che si convenga e che metta conto di arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello! E bisogna che, con queste credenze, noi facciamo l'incantesimo a noi medesimi: ed è per questo che io da un pezzo protraggo il mio mito 16 •

Ma H problema è ancora più complesso, in quanto il mito in Platone presenta anche altri significati, oltre quello illustrato, che risulta soprattutto connesso a problematiche escatologiche. Un secondo e cospicuo significato è, infatti, quello di narrazione probabile che verte su tutte le cose sottoposte alla generazione. Il logos nella sua purezza può applicarsi solo all'essere indivenibile; invece all'essere che diviene non si potrà applicare il logos, ma l'opinione veritativa, appunto il mito probabile. In effetti, precisa Platone, fra la conoscenza e le cose di cui abbiamo conoscenza c'è una affinità strutturale. I ragionamenti e i discorsi che riguardano l'essere stabile e saldo sono essi pure stabHi e immutabili e colgono la pura verità; invece i ragionamenti e i discorsi che riguardano la realtà che si genera sono verosimili e fondati sulla credenza. Ed ecco il punto su cui va posta adeguatamente l'attenzione: proprio in quanto il cosmo diveniente è una « immagine » del puro essere, che è « modello originario»,

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Pedone, 114 d.

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INTERPRETATIVI DI PLATONE

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esso risulta in una certa maniera conoscibile; e proprio su questo suo essere « immagine » si fonda la differente portata conoscitiva rispetto al modello 17 • Le conclusioni di Platone sono, pertanto, le seguenti: ~ntorno all'universo fisico (che non è puro essere, ma sua immagine) non è possibile fare ragionamenti veritativi in senso assoluto, ma è possibile fare solamente alcuni ragionamenti verosimili. La natura umana, in questo ambito, deve, pertanto, accontentarsi del «mito », nel senso di « narrazione probabile », perché non è possibile andare oltre, per la natura stessa dell'oggetto di indagine: Dunque, o Socrate, se dopo molte cose dette da molti intorno agli Dei e all'origine dell'Universo, non riusciamo a presentare dei ragionamenti in tutto e per tutto concordi con se medesimi e precisi, non ti meravigliare. Ma se presenteremo ragionamenti verosimili non meno di alcun altro, allora dobbiamo accontentarci, ricordandoci che io che parlo e voi che giudicate abbiamo una natura umana: cosicché, accettando intorno a queste cose il mito (narrazione) probabile ( 'tÒ'V ELXO't!I !J.vi}ov ), conviene che non andiamo ancora più in là 18 •

Di conseguenza, tutta la cosmologia e tutta la fisica sono « mito » in questo senso. Ma ci sono ancora .altri significati che il mito ha in Platone. Talora il nostro filosofo lo presenta addirittura come uno scongiurare di carattere tipicamente magico. E giustamente è stato rilevato che con questo « egli intende caratterizzare la particolare forza persuasiva del discorso poetico-mitico, che è in grado di raggiungere non solo gli strati razionali, ma anche quelli emotivi dell'anima» 19 • E addirittura, in certi casi, Platone intende per mito " Cfr. Timeo, 29 b-e. Si veda Reale, Platone ... , pp. 519-521. " Timeo, 29 c-d. " Gaiser, Platone come scrittore ... , p. 44; su questo carattere del mito cfr. Pedone, 114 d (vedi il testo sopra riportato); Leggi, x, 903 b.

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ogni specie di esposizione narrativa di temi filosofici, che non sia fatta in pura forma dialettica (e quindi tutti i suoi dialoghi, o larga misura dei medesimi) 20 • H lettore avrà ben capito che l'importanza del mito per Platone è assai grande. Se volessimo riassumere con un minimo comun denominatore le cose che abbiamo precisato, potremmo dire che per il nostro filosofo il parlare per miti (JJ.u~oÀ.oyEi:v) è un esprimersi per immagini, che a vari livelli resta valido, in quanto noi pensiamo, oltre che per concetti, anche per immagini. Il mito platonico nella sua più elevata forma e potenza è un pensare-per-immagini e non solo in dimensione fisicocosmologica, ma anche in dimensione escatologica e addirittura metafisica, come avremo modo di vedere. Il JJ.U~oÀ.oyEi:v diventa, in questo modo, una delle cifre emblematiche dello spirito umano, cui Platone, di fatto, ha dato un ampio rilievo.

5. La poliedricità e la d e Il a filosofia platonica

poli valenza

Nell'esporre e intendere la filosofia di Platone gli interpreti hanno in generale seguito due strade opposte. Alcuni l'hanno esposta in una maniera sistematica ispirandosi agli schemi invalsi da Aristotele in poi, o, addirittura, allo schema hegeliano (come ad esempio lo Zeller, il quale impostò la sua trattazione del platonismo secondo lo schema dialettico triadico Idea-Natura-Spirito). Altri per contro, dopo la scoperta dei criteri che permisero di fissare una successione sia pure approssimativa dei più importanti dialoghi, e con la convinzione che il pensiero platonico abbia subito una profonda evoluzione, di cui abbiamo detto, pre20

Cfr. Fedro, 276 e.

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I GRANDI

PROBLE~I

INTERPRETATIVI DI PLATONE

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ferirono esporre dialogo per dialogo. Ma il primo metodo finisce indubbiamente per essere un letto di Procuste, in quanto costringe ad amputare troppe parti del pensiero di Platone per poterle sistemare. Il secondo finisce, invece, per essere essenzialmente dispersivo, e al limite elude anziché risolvere il problema della lettura di Platone: infatti, per essere chiarificatrice, la lettura di un filosofo deve individuare alcune chiavi, alcune cifre, e, insomma, alcune costanti, e l'idea-base attorno a cui ruotano. Noi cercheremo di seguire una terza strada che corre in mezzo alle altre due, tentando di ricuperare il « sistema » nel senso sopra precisato. Platone ha via via rivelato, nel corso dei secoli, facce diverse: forse è proprio questa diversità di facce che può svelare il suo pensiero. a) Si cominciò, a partire già dai filosofi dell'Accademia, col leggere Platone in chiave metafisica e gnoseologica} additando nella teoria delle Idee e dei Principi supremi il fulcro del platonismo. b) Successivamente, col Neoplatonismo, si credette di trovare il più autentico messaggio platonico nella tematica religiosa} nell'ansia del divino e in genere nella dimensione mistica, massicciamente presenti nella maggior parte dei dialoghi. c) E sono state queste due interpretazioni che, in vario modo, si sono prolungate fino ai tempi moderni, finché, nel nostro secolo, ne sorse una terza, originale e suggestiva, che additò nella !ematica politica} o meglio etico-politico-educativa, l'essenza del platonismo: tematica, questa, quasi del tutto trascurata in passato, o almeno trascurata nella sua giusta valenza. Noi crediamo che il vero Platone non sia ritrovabile in nessuna di queste tre prospettive singolarmente assunte come unicamente valide} ma che sia piuttosto ritrovabile in tutte e tre insieme le direzioni e nella dinamica che è loropropria: 'le tre proposte di lettura, infattli, illuminano, come dicevamo, tre effettive facce della poliedrica e polivalente speculazione platonica, tre dimensioni o tre componenti o-

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

tre linee di forza, che costantemente emergono, variamente accentuate o angolate, dai singoli scritti nonché dall'insieme di essi. È certo che la teoria delle Idee con tutte le sue implicanze metafisiche, logiche e gnoseologiche, specie nei dialoghi della maturità e della vecchiaia, è al centro della speculazione platonica. Ma è altrettanto vero che Platone non è l'astratto metafisica: la metafisica delle Idee ha anche un senso profondamente religioso, e lo stesso processo conoscitivo è presentato come conversione, e l'Amore che eleva alla suprema Idea è presentato come forza di ascesa che conduce alla mistica contemplazione. Ed è vero, infine, che Platone non ha posto nella contemplazione lo stadio in cui il filosofo deve concludere il suo tragitto, giacché prescrisse al filosofo di tornare, dopo aver visto il vero, a salvare anche gli altri, e ad impegnarsi politicamente per la costruzione di uno Stato giusto, nella cui dimensione soltanto è poss~bile una vita giusta: e nell'impegno politico egli, nella Lettera VII, come vedremo, ha espressamente additato la passione fondamentale della sua vita. Secondo queste tre dimensioni, pertanto, noi esporremo e interpreteremo il pensiero platonico. Tuttavia, il punto-chiave, ossia l'asse portante attorno al quale si articolano queste tre dimensioni, resta quello protologico che viene rivelato dalle « Dottrine non scritte ». E la protologia consegnata alla dimensione della oralità e riferitaci dalla tradizione indiretta, in un certo senso, costituisce una quarta dimensione; tuttavia, in un altro senso, si colloca su un differente piano, e, quindi, non risulta di pari grado accanto alle altre: essa costituisce, piuttosto, il tratto finale (come vedremo) della metafisica, ma, ad un tempo, anche il vertice della dimensione etico-religiosa e della dimensione politica. Dunque, la protologia è il vertice unitario generale, ossia ciò che fa del complesso pensiero platonico un « sistema », dandogli unità di struttura. Pertanto, parleremo

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in modo ampio della protologia del « non scritto » sia come secondo tratto e vertice della metafisica, sia come vertice delle altre due componenti, e quindi come sfondo di tutti i temi, riguadagnando, in questo modo, quell'unità che dà il senso supremo del pensiero platonico.

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Busto di Platone, il cui modello originario risale al IV secolo a.C. (si presume allo scultore Silanione), di cui ci sono pervenute numerose copie.

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SEZIONE SECONDA

LA COMPONENTE METAFISICO-DIALETTICA DEL PENSIERO PLATONICO

« D~Ev

ouv [ ... ] SUo EtSTJ -.wv 5v-.wv, -.ò

llÈV 6pa-.6v, -.ò Sè 1hSÉç ». « [ ... ] poniamo dunque [ ... ] due specie di esseri: una visibile e l'altra invisibile ». Platone, Fedone, 79 tt

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~9

P H A E D O. ~--~ t lf" r -' Ì• "~ _c.tM'~L ~- 'IZlrou~'tf ~moç1u '1111::4

. imlpridemh:rcofT;u.ut apud McgJren:;., ;,'Bo~tm4r..J,~~~~~E~ct~iA'l'iaut Bcrocosdfcn~, Opcinu tllius-opmior;vu,Ei,wl il~meJr&f,.W..U ~ v.J,M.m.t!),~ neddaca: mfi 1ufitus & pra:clanus tudtcat- .11'...-1 ' • Ìi.r.. 1 4 , ' - fem,easp-.6-pr ~s ~~ ~~m WDJcf Nihilominus t.1mcn fiquis affirmarir,pro• .t 'lfld.~ fPTt~rÙ ~7/c.> ~· où -ri'r,JCEA ptcr hzc mc &cere quz &coo , & haucnus 1 ',e' ~.~ ·-~ ':tL""..!.p'-.:_·,.1- -~ mcntc&imclligenciafaccre,nonvcròO. T/>;!1Ui14f m, ~vN\11-~,...,-........- -l'lr---- • . . d) .o. ,. • jj . ' ,, J , ,_ç'!ilf 041 au· d . -h· · -d ., . "'"" E"•" .,, o"· .. ' Jl •••fl.. ( Jl cm In errore ma l vcrfan VI mtur 1J1l udl'wc qua CòluJis 01 0 • .• . 'Tll M.G>tet~ r"f'd.71 ~~~"""" •"'~ ;,-,n>ol .. ?QIIIO!il-' (Plutarco, Quaest. conv., VIII 2). E appunto questo è il portare l'unità-nella-molteplicità. (Riportiamo il passo del Timeo, 41 a-ò, sotto, p. 367 e iJ passo del Gorgia, 507 e-508 b, sotto, p. 277). 50

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VI. LA GNOSEOLOGIA E LA DIALETTICA

l. L'anamnesi, radice e condizione della conoscenza n e l «Menone»

Abbiamo parlato del mondo dell'inteHigi:bile, della sua struttura e del modo in cui esso si riverbera sul sensibile. Resta ora da esaminare in quale modo l'uomo possa accedere conoscitivamente all'intelligibile. E, in generale, resta da rispondere ai seguenti problemi: come avviene e che cos'è la conoscenza? La conoscenza dell'intelligibile in che cosa differisce da quella del sensibile? H problema della conoscenza era stato agitato un po' da tutti i filosofi precedenti, ma non si può dire che qualcuno lo avesse impostato in forma specifica e definitiva. Platone è il primo a porlo in tutta la sua chiarezza, anche se, ovviamente, le soluzioni che propone negli scritti risultano, come sempre, aperte, e solo nelle « Dottrine non scritte » raggiungono il vertice supremo. La prima risposta al problema della conoscenza si trova nel Menone 1• Gli Eristi avevano tentato di bloccare capziosamente la questione, sostenendo che la ricerca e la conoscenza sono impossibili: infatti, non si può cercare e conoscere ciò che non si conosce, perché, se anche lo si trovasse, non lo si ' Per un commento analitico del dialogo rimandiamo alla nostra edizione, La Scuola, Brescia 1986".

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potrebbe riconoscere, mancando il mezzo per poterlo riconoscere; e neppure ha senso cercare ciò che si conosce, perché già lo si conosce: E in quale maniera ricercherai, o Socrate, questo che tu non sai affatto che cosa sia? E quale delle cose che non conosci ti proporrai di indagare? O, se anche tu ti dovessi imbattere proprio in essa, come farai a sapere che è quella, dal momento che non la conoscevi? 2 • È proprio per superare questa aporia che Platone trova

una nuovissima via: la conoscenza è anamnesi, cioè una forma di « ricordo », un riemergere di ciò che esiste già da sempre nell'interiorità della nostra anima. Vediamo di spiegare questa dottrina platonica, così spesso fraintesa. Si dice, infatti, da molti studiosi che essa non è che mito e niente affatto dottrina di carattere dialettico e teoretico e quindi è poco più che favola. In realtà la questione è ben !ungi dall'essere così riducibile ed eliminabile. Il Menone presenta la dottrina in una duplice maniera: una mitica e una dialettica, e bisogna esaminarle ambedue per non rischiare di tradire il pensiero platonico. La prima maniera, di carattere mitico-religioso, si rifà alle dottrine orfico-pitagoriche dei sacerdoti, secondo le quali, come sappiamo, l'anima è immortale ed è più volte rinata: la morte non è che il termine di una delle vite dell'anima in un corpo; la nascita non è che il ricominciare di una nuova vita, che viene ad aggiungersi alla serie delle precedenti. L'anima, pertanto, ha visto e conosciuto tutta la realtà nella sua globalità: la realtà dell'aldilà e la realtà dell'aldiqua. Se così è, conclude Platone, è facile capire come l'anima possa conoscere ed apprendere: essa deve semplicemente trarre da se medesima la verità che sostanzialmen2 Menone, 80 d (la traduzione dei passi del Menone è nostra; cfr. nota precedente).

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LA GNOSEOLOGIA E LA DIALETTICA

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te possiede, e possiede da sempre: e questo « trarre da sé » è un « ricordare ». Ecco il celebre passo del Menone: E poiché, dunque, l'anima è immortale ed è più volte rinata, e poiché ha veduto tutte le cose, e quelle di questo mondo e quelle dell'Ade, non vi è nulla che non abbia imparato; sicché non è cosa sorprendente che essa sia capace di ricordarsi e intorno alla virtù e intorno alle altre cose che anche in precedenza sapeva. E poiché la natura tutta è congenere, e poiché l'anima ha imparato tutto quanto, nulla vieta che chi si ricordi di una cosa ciò che gli uomini denominano apprendimento - costui scopra anche tutte le altre, purché sia forte e non si scoraggi nel ricercare: infatti, il ricercare e l'apprendere sono in generale un ricordare. Non bisogna, dunque, prestar fede a quel discorso eristico: esso, infatti, d renderebbe neghittosi, e suona gradito agli orecchi degli uomini inetti; questo nostro, invece, rende operosi e stimola alla ricerca 3 •

Orbene, se Platone si limitasse a dire questo, avrebbero perfettamente ragione quanti lamentano il carattere meramente mitologico, e quindi la non validità in sede strettamente speculativa, della «reminiscenza »: ciò che infatti si fonda sul mito - e così formulata la reminiscenza si fonda su un mito - non può avere altro valore che di mito. Ma, subito appresso, nel Menone, le parti vengono esattamente rovesciate: quella che era conclusione diventa interpretazione speculativa di un dato di fatto sperimentato e accertato, mentre quello che prima era presupposto mitologico avente funzione di fondamento diventa invece conclusione. Infatti, dopo l'esposizione mitologica, Platone fa un « esperimento maieutico », che ha una straordinaria portata dimostrativa. Interroga uno schiavo assolutamente ignaro di geometria, e riesce a fargli risolvere, solamente interrogandolo socraticamente con metodo maieutico, una complessa questione di geometria (in sostanza implicante la conoscenza del ' Menone, 81 c-d (cfr. il nostro commento, pp. 39 sgg.).

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teorema di Pitagora). Dunque - così argomenta allora Platone - poiché lo schiavo non aveva prima imparato geometria, e poiché non gli è stata fornita da nessuno la soluzione, dal momento che egli l'ha saputa guadagnare da solo (sia pure con l'ausilio del metodo dialettico), non resta che concludere che egli l'ha tratta dal di dentro di se stesso, dalla propria anima, ossia che se ne è « ricordato » 4 • E qui, come è chiaro, la base dell'argomentazione, !ungi dall'essere un mito, è una constatazione e una prova di fatto, ossia che lo schiavo, come ogni uomo in generale, può trarre e ricavare da se medesimo verità che prima non conosceva e che nessuno gli ha insegnato. Ulteriormente, poi, dall'esserci la verità nell'anima, Platone deduce l'immortalità e la perennità della medesima: se l'anima possiede in proprio verità che non ha appreso in precedenza nella vita attuale, che sono velate ma che possono essere ridestate alla coscienza, vuoi dire che essa le ha possedute in proprio già prima della nascita dell'uomo in cui ora si trova, da sempre: l'anima, allora, è immortale, anzi, in un certo senso permanente nell'essere, così come la verità. Ecco la conclusione che Platone fa trarre da Socrate dopo aver fatto costatare a tutti, mediante l'esperimento maieutico, che lo schiavo incolto, guidato solamente da opportune domande, aveva saputo risolvere un difficile problema di geometria e raggiungere la verità: Socrate - Dunque egli [lo schiavo] conoscerà senza che nessuno gli insegni, ma solo che lo interroghi, traendo egli stesso la scienza da se medesimo. Menone- Sl. Socrate - E questo trarre la scienza di dentro a se medesimi non è ricordare? Menone - Certamente. ' Cfr. Menone, 82 b - 86 c (si veda il commento e l'approfondimento di questo punto nella nostra edizione, pp. 45·60).

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LA GNOSEOLOGIA E I.A DIALETTICA

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Socrate - E la scienza che ora egli possiede, o la imparò un tempo o la possedette sempre. Menone- Sl. Socrate- Dunque, se la possedette sempre, fu anche sempre conoscente; e se, invece, l'apprese un tempo, non poté certo averla appresa nella presente vita. Oppure gli insegnò qualcuno geometria? Costui, infatti, farà lo stesso per tutta la geometria, e per tutte quante le altre scienze. C'è, forse, qualcuno che gli abbia insegnato tutto? A buon diritto tu devi saperlo: non per altro, perché è nato ed è stato allevato in casa tua. Menone- Ma lo so che nessuno gli ha mai insegnato. Socrate - Ed ha o non ha queste conoscenze? Menone - Necessariamente, o Socl'ate, appare. Socrate - E allora, se non le ha acquistate nella presente vita, non è già evidente che le ebbe e le apprese in un altro tempo? Meno ne - È chiaro. Socrate - E non è forse questo il tempo in cui egli non era uomo? Menone- Sì. Socrate - Se, allora, e nel tempo in cui è uomo e nel tempo in cui non lo è, vi sono in lui opinioni veraci, le quali, risvegliate mediante l'interrogazione, diventano conoscenze, l'anima di lui non sarà stata in possesso del sapere sempre, in ogni tempo? È evidente, infatti, che nel corso di tutto quanto il tempo, talora è e talora non è uomo. Menone - È chiaro. Socrate - Se, dunque, sempre la verità degli esseri è nella nostra anima, l'anima dovrà essere immortale. Sicché bisogna mettersi con fiducia a ricercare ed a ricordare ciò che attualmente non si sa (questo è infatti ciò che non si ricorda) 5 •

Gli studiosi hanno spesso ripetuto che la dottrina della

anamnesi è nata in Platone da influssi orfìco-pitagorici; ma, dopo quanto abbiamo spiegato, è chiaro che almeno altrettanto peso ebbe, nella genesi della dottrina, la maieutica socratica. È evidente, infatti, che, per potere maieuticamente far sorgere la verità dall'anima, la verità deve sussistere nell'ani' Menone, 85 d- 86 b.

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

ma. La dottrina dell'anamnesi viene così a presentarsi, oltre che come un corollario della dottrina della metempsicosi orfico-pitagorica, altresì come la giustificazione e l'inveramento (ossia la fondazione metafisico-gnoseologica) della possibilità stessa della maieutica socratica.

2. R i c o n ferme d e Il a namnesi nei dialoghi

d o t t r i n a d e Il ' asuccessivi

Una ulteriore riprova dell'anamnesi Platone ha fornito nel Pedone 6 , rifacendosi soprattutto alle conoscenze matematiche (che ebbero enorme importanza nel determinare la scoperta dell'intelligibile) 7 • Platone argomenta, in sostanza, come segue. Noi costatiamo con i sensi l'esistenza di cose uguali, maggiori e minori, quadrate e circolari, e di altre analoghe. Ma, ad un'attenta riflessione, noi scopriamo che i dati che ci fornisce l'esperienza - tutti i dati, senza eccezione di sorta - non si adeguano mai, in modo perfetto, alle corrispondenti nozioni che, pure, noi possediamo indiscutibilmente: nessuna cosa sensibile è mai « perfettamente » uguale ad un'altra, nessuna cosa sensibile è mai « perfettamente » e « assolutamente » quadrata o circolare, eppure noi abbiamo queste nozioni di uguale, di quadrato e di circolo « assolutamente perfetti ». Allora bisogna concludere che fra i dati dell'esperienza e le nozioni e le conoscenze che noi abbiamo esiste un dislivello: queste ultime contengono un qualcosa di più rispetto a quelli. E donde può mai derivare questo plus? Se, come si è visto, non deriva e non può strutturalmente provenire dai

• Cfr. Fedone, 73 c sgg. ' Rimandiamo, su questo argomento, alle chiare pagine di Le sens du platonisme, Paris 1967, pp. 115 sgg.

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J.

Moreau,

LA GNOSEOLOGIA E LA DIALETTICA

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sensi, cioè dal di fuori, non resta che condudere che viene dal di dentro di noi. Orbene, non può venire dal di dentro di noi come creazione del soggetto pensante: il soggetto pensante non « crea » questo plus, lo « trova » e lo « scopre »; ed esso, anzi, si impone al soggetto medesimo, assolutamente. Dunque, i sensi ci danno solo conoscenze imperfette; la nostra mente (il nostro intelletto, il nostro spirito) in occasione di questi dati, scavando e quasi ripiegandosi su di sé e facendosi intima a sé, trova le corrispondenti conoscenze perfette. E poiché non le produce, non resta se non la conclusione che essa le ritrovi in sé e le ricavi da sé come un « originario possesso », « ricordandole ». In tal modo, le matematiche rivelano che la nostra anima è in possesso di conoscenze perfette, che non derivano dalle cose sensibili, e che rispecchiano, anzi, modelli o paradigmi cui le cose tendono, pur senza riuscire a raggiungere, come sappiamo dall'esposizione fatta della dottrina ontologico-metafìsica. E il medesimo ragionamento Platone ripete a proposito delle varie nozioni estetiche ed etiche (buono, beNo, giusto, santo, etc.), che noi possediamo e di cui facciamo uso nei nostri giudizi e che, manifestamente, non ci derivano solo dall'esperienza sensibile, perché sono più perfette dei dati che ci sono .forniti dall'esperienza, e che, quindi, contengono quel plus, che non si può giustificare se non nella maniera detta, cioè come scaturente ad un originario e puro possesso della nostra anima, che viene riguadagnato in maniera esplicita come reminiscenza. Ecco il passo del Pedone che contiene il momento risolutivo del ragionamento: - E allora, soggiunge Socrate, a proposito di quegli uguali che riscontriamo nei legni e in quelle altre cose uguali di cui poco fa ragionavamo, dimmi: ti paiono uguali cosl come l'uguale in sé, oppure sono per qualche rispetto manchevoli per poter

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

essere tali quale è l'uguale in sé? Oppure non sono per nessun rispetto manchevoli? - Sono manchevoli, e di molto, rispose. - E allora si·amo d'accordo che quando qualcuno, vedendo qualche cosa, ragiona così: «questa che io ora vedo è qualche cosa che vuole essere come un'altra, cioè come uno degli esseri che sono per sé, ma rispetto ad esso è manchevole e non riesce ad essere come quello ed è inferiore a quello»; ebbene, siamo d'accordo che chi ragion" e si aggiunge: «come si dice per scherzo>>. È, questo, un punto per lo più frainteso. Infatti, il greco 'tÒ 'tW'\1 'ltcu!;6v'tW'II viene interpretato « come avviene al gioco delle 'ltÒ)vw; », una specie di gioco i cui vari pezzi si sarebbero chiamati appunto 'ltÒÀ.w;. Invece, il senso esatto è « come si dice per scherzo ». E lo scherzo sarebbe questo: où 'ltÒÀ.Lc; aÀ.À.à 'ltÒÀ.ELc;, o 'ltOÀ.Ei:c;, inteso come acsusativo plurale epico di 'ltoMc;. Fraccaroli (Platone, La Repubblica, Firenze 1932, p. 171, nota 1), che riportava tale interpretazione, la respingeva per questi motivi: «Questa seconda interpretazione peraltro è meno probabile, perché non si vede affatto quale possa essere l'applicazione di un tale proverbio». Invece, nell'ottica dell'interpretazione che qui sosteniamo, viene ad assumere un significato perfetto, incentrandosi esattamente sulla tematica dell'uno e dei molti, ed esprimendo con perfetta allusione scherzosa le verità protologiche ultimative. ' Repubblica, v, 462 a-b.

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POLITICA E PROTOLOGIA

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Quest'ultimo passo introduce espressamente proprio la complessa tematica della comunanza degli uomini, delle donne, dei figli e dei vari beni, che già sopra abbiamo spiegato con argomenti di diverso genere, ma che sul piano henologico delle « Dottrine non scritte » diventa ancora più chiaro. Infatti, la comunanza degli uomini, delle donne, dei figli e dei beni, è concepita e presentata da Platone come una delle forme più elevate della unificazione, ossia della realizzazione dell'unità fra gli uomini: nulla, nello Stato perfetto, dovrà dividersi nel mio, nel tuo e nel suo, e quindi disperdersi nella molteplicità (nel disordine degli egoismi) che ne deriva in vari sensi; tutto dovrà, invece, congiungersi nel « nostro », che porta unità nella molteplicità in senso globale. Si capisce perfettamente, di conseguenza, come l'uomo giusto per eccellenza, che fa solo ciò che gli compete (ossia che attua la giustizia nella sua essenza, che consiste nel -tà Éav-tou 1tpanEL'V), secondo l'ottica henologica della protologia che ormai ben conosciamo, venga detto da Platone (e addirittura proprio per iscritto!) colui che lega e armonizza le sue varie facoltà e tutto ciò che ad esse si collega, in modo da « diventare uno di molti ». Sicché l'essenza metafisica del giusto e della giustizia consiste nel fare unità nella molteplicità; e « sapienza » risulta essere la scienza su cui questo uni-ficare si fonda strutturalmente. Ecco il testo veramente programmatico: - Invero, come sembra, la giustizia era qualcosa di siffatto, ma non riguardante l'azione esterna delle facoltà dell'individuo, ma quella interna, che concerne lui stesso e le cose che gli competono: ossia non permettere che ciascuna cosa dentro di lui compia uffici che sono propri di altre, né che i generi differenti che sono nell'anima si immischino .t'uno negli affari dell'altro a vicenda, ma disposte veramente bene le cose che gli competono, preso comando, fatto ordine in se stesso, e diventato amico di sé e accordate le tre parti dell'anima come se fossero tre suoni di armonia, l'alto il basso e il medio, e se ce ne sono altri intermedi a questi, e legate insieme tutte queste cose e diventato in-

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

teramente uno di molti (Evti yEv61J.Evov Èx 1tOÀÀ.wv), temperato e armonizzato, così ormai operi, allorché deve operare, o per l'ac-

quisto di ricchezze, o per la cura del corpo, o per qualcosa riguardante la vita pubblica o per i commerci privati, in tutte queste cose giudicando e chiamando azione giusta e bella quella che conservi questo stato e cooperi al medesimo, e sapienza la conoscenza che sovrintende a queste azioni, e invece azione ingiusta quella che dissolve quest'ordine e così ignoranza la falsa opinione che sovrintende ad essa. - In tutti i sensi, disse, o Socrate, affermi il vero.

- Bene, dissi; se allora affermassimo di aver trovato 'l'uomo giusto e la giustizia che ci deve essere in lui, non credo che sembreremmo affatto dire il falso. - No, per Zeus, disse. - Lo diciamo, allora? - Diciamolo! 6 • Dunque, non solo la comunità civile realizza il Bene attuando l'Unità, ma anche ciascun uomo singolarmente considerato attua in sé il Bene realizzandosi in modo unitario, uni-ficando le sue potenzialità e attività. Infatti, un uomo solo non può realizzare bene molte arti e quindi esplicare molte attività, ma solamente « una sola » (uno, una sola). La virtù stessa, nella sua essenza, è detta una sola, mentre il vizio è detto « infinito » nelle sue forme (appunto come è infinita la Diade). E in tutta la loro gamma le costituzioni politiche procedono, dalla più alta alla più bassa, proprio con un progressivo predominare della « molteplicità », che comporta diseguaglianza, disordine ed eccesso, i quali via via prevalgono sull'Unità 7 • Non meno evidenti sono i nessi che la problematica politica, anche nella maniera in cui viene esposta nel Politico e nelle Leggi, ha con le « Dottrine non scritte ».

• Repubblica, IV, 443 d - 444 a. ' Kramer, Arete ... , pp. ~3-118 (dr. anche pp. 118-145).

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POLITICA E PROTOLOGIA

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Nel Politico} come abbiamo visto, vengono sviluppati i concetti di « giusto mezzo » e « giusta misura », che sono appunto unità-nella-molteplicità. Di conseguenza, una fondazione ultimativa di questi concetti implica una precisa dimostrazione dell'esattezza assoluta} ossia della Misura suprema, che è l'Uno; e quindi rimanda alla dimensione della oralità dialettica in maniera molto precisa. Aristotele stesso, proprio in un dialogo intitolato Politico} e quindi ispirantesi all'omonimo Politico di Platone, ci dice espressamente quanto segue: [ ... ] il Bene è la Misura perfettissima 8 .

E la Misura perfettissima è appunto l'Uno. È proprio questa capacità di produrre l'unità-nella-molteplicità, che permette al politico di realizzare la « mescolanza », ossia quel grande « tessuto » che costituisce la società politica, mescolando appunto gli estremi, e annodandoli con vincoli, in rapporto al Bello e al Bene, ossia in rapporto alla giusta misura, vale a dire in funzione della Misura perfettissima. E appunto con questo messaggio (la realtà politica come mescolanza degli opposti in funzione della Misura) il dialogo si conclude nel passo già sopra riportato. Nelle Leggi} e proprio in tutti i brani che abbiamo letto, emergono questi stessi concetti della « costituzione mista » e del « medio fra gli estremi », che hanno nessi strutturali essenziali con la protologia. Il giusto mezzo e l'ordine (come ormai ben sappiamo) sono una unità-nella-molteplicità, e quindi un modo di essere uno derivante dall'Unità originaria. E la giusta misura, che ispira fortemente tutte le Leggi} trova una espressione emblematica in quella affermazione che

' Aristotele, Politico, fr. 2 Ross; dr. Reale, Platone ... , pp. 379-385.

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

ben conosciamo, secondo la quale « Dio è la misura di tutte le cose » 9 • E ricordiamo, per concludere, che Dio è misura di tutte le cose, perché, appunto, possiede la scienza e la potenza di sciogliere l'Uno in Molti e di riportare i Molti all'Uno, come Platone non solo ci dice nel Timeo, ma come torna a ricordarcelo anche nelle Leggi, dove ribadisce che il governo divino del mondo avviene plasmando [ ... ] molte cose da una e da molte una 10 •

E questa è davvero una sigla aurea, vale a dire un suggello conclusivo del pensiero di Platone.

' Leggi, IV, 716 c. 10 Il passo del Timeo, da noi già più volte richiamato, è 68 d; il passo delle Leggi è x, 903 e - 904 a, del quale Gaiser ha dato eccellenti spiegazioni in: Platone come scrittore ... , pp. 146 sgg. Per capire bene il passo, è necessario leggere e meditare l'intero brano 902 d-904 d.

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SEZIONE QUINTA

CONCLUSIONI SUL PENSIERO PLATONICO

8EÒ>. « per noi la misura di tutte le cose è Dio soprattutto; assai più che non lo sia, come si sostiene, alcun uomo». Platone, Leggi, IV, 716 c

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I. IL «MITO DELLA CAVERNA» COME SIMBOLO DEL PENSIE-

RO PLATONICO IN TUTTE LE SUE VALENZE FONDAMENTALI

Al centro della Repubblica si colloca un celeberrimo mito platonico, detto « della caverna » 1• Il mito è stato via via visto come simboleggiante la metafisica platonica, la gnoseologia e la dialettica platonica, e anche l'etica e la mistica ascesa platonica; in realtà, esso simboleggia tutto questo e anche la politica platonica, e oggi siamo in grado di riconoscere anche le forti allusioni di carattere protologico che esso presenta in una maniera molto poetica: è il mito che esprime tutto Platone, e con esso, quindi, concludiamo l'esposizione e l'interpretazione del suo pensiero. Immaginiamo degli uomini che vivano in una abitazione sotterranea, in una caverna che abbia l'ingresso aperto verso la luce per tutta la sua larghezza, con un ripido andito d'accesso; e immaginiamo che gli abitanti di questa caverna siano legati alle gambe e al collo in modo che non possano girarsi, e che quindi possano guardare unicamente verso il fondo della caverna. Immaginiamo, poi, che appena fuori della caverna vi sia un muricciolo ad altezza d'uomo e che dietro questo (e quindi interamente coperti dal muricciolo) si muovano degli uomini che portano sulle spalle statue e oggetti lavorati in pietra, in legno e in altri materiali, raffìguran1 Repubblica, vn, 514 a sgg. Sugli influssi di questo mito su autori antichi e moderni e sulle cospicue rielaborazioni che sono state fatte di esso, si veda: K. Gaiser, Il paragone della caverna. Variazioni da Platone ad oggi, Bibliopolis, Napoli 1985.

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ti tutti i generi di cose esistenti. Immaginiamo, ancora, che dietro questi uomini arda un grande fuoco, e, in alto, il sole. Infine, immaginiamo che la caverna abbia un'eco e che gli uomini che passano al di là del muro parlino fra loro di guisa che dal fondo della caverna le loro voci rimbalzino, riproducendosi per effetto dell'eco. Ebbene, se così fosse, quei prigionieri non potrebbero vedere altro che le ombre delle statuette che si proiettano sul fondo della caverna e udrebbero l'eco delle voci: ma essi crederebbero, non avendo mai visto altro, che quelle ombre fossero l'unica e vera realtà e crederebbero, anche, che le voci dell'eco fossero le voci stesse prodotte da quelle ombre. Ora, supponiamo che uno di questi prigionieri riesca a sciogliersi con fatica dai ceppi; ebbene, costui con fatica riuscirebbe ad abituarsi alla nuova visione che gli apparirebbe; e, abituatosi, vedrebbe le statuette muoversi al di sopra del muro, e capirebbe che queste sono ben più vere di quelle cose che prima vedeva e che ora gli appaiono come ombre. E supponiamo che qualcuno tragga il nostro prigioniero fuori dalla caverna e al di là del muro; ebbene, egli resterebbe prima abbagliato dalla gran luce, e poi, abituandosi, imparerebbe a vedere le cose stesse, prima nelle loro ombre e nei loro riflessi nell'acqua, e poi le vedrebbe in se medesime, e, infine, vedrebbe il sole, e capirebbe che solo queste sono le realtà vere e che il sole è la causa stessa di tutte le altre cose. Riportiamo il testo per intero, perché è veramente basilare: - Dopo questo, dissi, paragona ad una condizione di questo genere la nostra natura rispetto alla nostra educazione spirituale e alla mancanza di educazione. Immagina di vedere degli uomini rinchiusi in una abitazione sotterranea a forma di caverna che abbia l'ingesso aperto verso la luce con un'ampiezza estendentesi per tutta la caverna medesima; inoltre che si trovino qui fin da fanciulli con le gambe e con il collo in catene in maniera da dover star fermi e guardare solamente davanti a sé, incapaci di

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volgere intorno la testa a causa delle catene, e che, dietro di loro e più lontano, arda una luce di fuoco; e, infine, che fra il fuoco e i prigionieri ci sia, in alto, una strada, lungo la quale immagina di vedere costruito un muricciolo, come quella cortina che i giocatori pongono tra sé e gli spettatori, sopra la quale fanno vedere i loro spettacoli di burattini. - Vedo, disse. - Immagina, allora, di vedere, lungo questo muricciolo, degli uomini portanti attrezzi di ogni genere, che sporgono al di sopra del muro, e statue ed altre figure di viventi fabbricati in pietra e in legno e in tutti i modi; e inoltre, come è naturale, che alcuni dei portatori parlino e che altri stiano in si·lenzio. - Parli di cosa ben st·rana, disse, e di ben strani prigionieri. - Sono simHi a noi, dissi. Infatti, credi, innanzitutto, che vedano di sé e degli altri qualcos'altro, tranne che le ombre che il fuoco proietta sulla parte della caverna che sta di fronte a loro? - E come potrebbero, disse, se sono costretti a tenere la testa immobile per tutta la vita? - E degli oggetti portati? Non vedranno, pure, la sola ombra? -E come no? - Se, dunque, fossero in grado di d1scorrere tra di loro, non credi che riterrebbero come realtà appunto queJ.le che vedono? - Necessariamente. - E se il carcere avesse anche un'eco proveniente dalla parete di fronte, ogni volta che uno dei passanti profferisse parola, credi che essi riterrebbero che ciò che profferisce parole sia altro se non l'ombra che passa? - Per Zeus, no, disse. - In ogni caso dunque, d1ssi, riterrebbero che il vero non possa essere altro se non le ombre di quelle cose artificiali. - Per forza, disse. - Considera ora, dissi, quale pot·rebbe essere la loro liberazione e la loro guarigione daJ.le catene e dall'insensatezza, e se non accadrebbero loro queste cose: qualora uno fosse sciolto, e subito costretto ad alzarsi e a girare il collo e a camm1nare e levare lo sguardo in su verso la luce, e, facendo tutto questo, provasse dolore, e per il bagliore fosse incapace di riconoscere quelle cose delle quali prima vedeva le ombre, che cosa credi che egli risponderebbe, se uno gli dicesse che prima vedeva solo vane ombre, e che ora, invece, essendo più vicino alla realtà e rivolto

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a cose che hanno più essere, vede più rettamente, e, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse a rispondere facendogli la domanda «che cos'è? ». Ebbene, non credi che egli si troverebbe in dubbio, e che riterrebbe le cose che prima vedeva più vere di quelle che gli si mostrano ora? - Molto, disse. - E se uno, poi, lo sforzasse a guardare la luce medesima, non gli farebbero male gli occhi, e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso quelle cose che può guardare, e non riterrebbe queste cose veramente più chiare di quelle mostrategli? - È cosl, disse. - E se di là, dissi, uno lo traesse a forza per la salita aspra ed erta, e non lo lasciasse prima di averlo portato alla luce del sole, forse non soffrirebbe e non proverebbe una forte irritazione per essere trascinato, e, dopo che sia giunto alla luce con gli occhi pieni di bagliore, non sarebbe capace di vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere? - Certo, dise, almeno non subito. - Dovrebbe invece, credo, farvi abitudine, per riuscire a vedere le cose che sono al di sopra. E, dapprima, potrà vedere più facilmente le ombre, e, dopo queste, le immagini degli uomini e delle altre cose riflesse nelle acque, e, da ultimo, le cose stesse. Dopo queste cose, potrà vedere più fadlmente quelle che sono nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e della luna, invece che di giorno il sole e la luce del sole. - Come no? - Per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole, e non le sue immagini nelle acque o in un luogo estraneo ad esso, ma esso stesso di ·per sé nella sede che gli è propria, e considerarlo cosl come esso è. - Necessariamente, disse. - E, dopo questo, potrebbe trarre su di esso le conclusioni, ossia che è proprio lui che produce le stagioni e gli anni e che governa tutte le cose che sono nella regione visibile, e che, in certo modo, è causa anche di tutte quelle cose che lui e i suoi compagni prima vedevano. - È evidente, disse, che, dopo le precedenti, giungerebbe proprio a queste conclusioni. - E aUora, quando si ricordasse della precedente dimora, della sapienza che qui credeva di avere e dei suoi compagni di

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IL MITO DELLA CA VERNA

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prigionia, non crederesti che sarebbe felice del cambiamento, e che proverebbe compassione per quelli? - Certamente. - E se fra quelli c'erano onori ed encomi e premi per chi mostrasse la vista più acuta nell'osservare le cose che passavano, e ricordasse maggiormente quaH di esse fossero solite passare per prime o per ultime o insieme, e quindi mostrasse grandissima capacità nell'indovinare che cosa stesse per arrivare, credi che costui potrebbe provare ancora desiderio di questo, o che invidierebbe coloro che sono onorati o che hanno potere presso quelli, o che accadrebbe, invece, quello che dice Omero, e che di molto preferirebbe « vivere sopra la terra a servizio di un altro uomo senza ricchezze », e patire qualsiasi cosa, anziché ritornare ad avere quelle opinioni e vivere in quel modo? - È cosi, disse; io credo che egli soffdrebbe qualsiasi cosa, piuttosto che vivere in questo modo. - E rifletti anche su questo, dissi, se costui, di nuovo ridisceso nella caverna, tornasse a sedere al posto che prima aveva, si troverebbe con gli occhi pieni di tenebre, giungendovi all'improvviso dal sole? - Evidentemente, disse. - E se egli dovesse di nuovo tornare a conoscere quelle ombre, gareggiando con quelli che sono rimasti sempre prigionieri, fino a quando rimanesse con la vista offuscata e prima che i suoi occhi ritornassero allo stato normale, e questo tempo dell'adattamento non fosse affatto breve, non farebbe forse ridere, e non si direbbe di lui che, per essere salito sopra, ne è disceso con gli occhi guasti, e che non mette conto di cercare di sal1re su? E chi cercasse di scioglierli e di portarli su, se mai potessero afferrarlo nelle loro mani, non lo ucciderebbero? - Certamente, disse 2 • Che cosa simboleggia, con esattezza, questo « mito della caverna »?

a) lnnanzitutto, simboleggia i vari gradi antologici dena realtà, ossia i piani dell'essere sensibile e soprasensibile, con le loro suddivisioni: le ombre della caverna sono le mere ' Repubblica,

vn, 514 a- 517 a.

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parvenze sensibili delle cose, mentre le statue e gli artefatti simboleggiano tutte le cose sensibili; il muro rappresenta lo spartiacque che divide le cose sensibili dalle soprasensibili. Al di là del muro, le cose vere e gli astri simboleggiano le realtà nel loro vero essere, ossia le Idee; il sole, poi, simboleggia l'Idea del Bene. E le ombre e le im~agini riflesse delle cose vere, che per prime il prigioniero vede al di là del muro, che cosa esprimono? Va rilevato che le ombre dirette e le immagini riflesse nell'acqua, fuori dalla caverna e al di là del muro, sono appunto ombre e immagini delle vere realtà prodotte dalla luce del sole, e, quindi, sono completamente differenti dalle ombre che i prigionieri vedono~riO~do della caverna, che sono, al contrario di queste, prodotte dalle statue e dagli oggetti artificiali e dalla luce del fuoco. In altri termini, esse stanno veramente « a mezzo » fra le Idee e le cose che le riproducono, e pertanto esprimono molto bene gli « enti intermedi », che sono appunto antologicamente « intermedi », come ben sappiamo. E le stelle e gli astri, che, evidentemente, stanno ancora al di sopra delle singole cose vere, che cosa simboleggiano? La risposta si è fatta ormai chiara e, con Kramer, è ormai possibile dire che non si sbaglia « se si riconoscono, qui, le Metaidee di identità e di diversità, di uguaglianza e di diseguaglianza, di pari e dispari [ ... ] » 3 • Pertanto, le cose reali simboleggiano le singole Idee specifiche, le stelle e gli astri le Metaidee e i Numeri ideali, mentre il sole simboleggia l'Idea del Bene-Uno. b) In secondo luogo, il mito simboleggia i piani della conoscenza nei suoi due differenti livelli e nei vari gradi di questi. La visione delle ombre nella caverna simboleggia l'Et3

Kramer, Platone ... , p. 194; dr. anche Gaiser, Il paragone ... , p. 16.

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xa.o-Ca. o immaginazione, mentre la visione delle statue e degli artefatti simboleggia la 1tCo-·nç o credenza. Il passaggio dalla visione delle statue alla visione dei corrispondenti oggetti veri, che avviene, dapprima, mediante i riflessi e le immagini delle medesime, e quindi degli enti matematici, simboleggia la OL!ivoLa., ossia la conoscenza mediana o intermedia, che è strutturalmente legata alle scienze matematiche. La visione più elevata che inizia con la percezione degli enti reali, e che, attraverso la visione delle stelle e degli astri e della luna durante la notte, giunge alla visione del sole e della piena luce del giorno, simboleggia il grande tragitto della dialettica nelle sue tappe essenziali, ossia nel suo procedere e nel suo giungere da Idea a Idea fino alle Idee supreme e, per astrazione da queste, all'Idea stessa del Bene, al Principio del Tutto.

c) In terzo luogo, il mito della caverna simboleggia anche l'aspetto ascetico, mistico e teologico del platonismo: la vita nella caverna simboleggia la vita nella dimensione dei sensi e del sensibile, mentre la vita nella pura luce simboleggia la vita nella dimensione dello spirito. La liberazione dalle catene e la «conversione », ossia il girarsi con il viso dalle ombre alla luce, simboleggia il volgersi dal sensibile all'intelligibile. Infine, la suprema visione del Sole e della luce in sé simboleggia la visione del Bene e quindi la conoscenza e la fruizione dell'Uno e della Misura suprema di tutte le cose e quindi del Divino in assoluto, con la conseguente decisione di ispirarsi ad esso in tutte le attività della vita. Si noti, in particolare, come Platone indichi la liberazione dalla visione delle ombre verso la luce come un « girare il collo » che fa il prigioniero della caverna (1tEpLayew -tòv a.ùxÉva.), proprio per poter levare lo sguardo verso la luce

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

(1tpòc; -rò cpwc; àva.~À.É1tEW)

E questa immagine emblematica del girare il capo dalla parte opposta viene ripresa e sviluppata poco dopo e qualificata come « conversione » (1tEpta.ywyi)) dell'anima dal divenire all'essere, come condizione necessaria per giungere a vedere l'essere nel suo massimo splendore, e quindi il Bene, che è il Principio di Tutto 5 • Questa metafora della « conversione » è stata ripresa e sviluppata dai Cristiani in senso religioso, come già Jaeger ha molto ben rilevato, affermando che qualora « si ponga il problema, non già del fenomeno di ' conversione ' come tale, ma dell'origine del concetto cristiano di conversione, si deve riconoscere in Platone l'autore primo di questo concetto. Il trasferimento del vocabolo all'espressione religiosa cristiana ebbe luogo sul terreno del primitivo platonismo cristiano » 6 • Ma la valenza religiosa e ascetica (naturalmente in senso ellenico) è già largamente presente in Platone, e il « convertirsi » nel senso globale del « voltarsi » dell'anima dalle illusioni alla verità, con tutto ciò che ne consegue, già in Platone risulta veramente emblematico, come dimostra proprio questo mito della caverna in modo straordinario. 4•

d) Il mito della caverna esprime anche la concezione politica squisitamente platonica. Platone parla, infatti, altresì di un « ritorno » nella caverna di colui che si era liberato dalle catene, di ·Un ritorno che ha come scopo la liberazione dalle catene di coloro in compagnia dei quali egli prima era stato schiavo. E questo « ritorno » è indubbiamente il ritorno del filosofo-politico, il quale, se seguisse il suo solo desiderio, resterebbe a contemplare il vero; e invece, superando il suo desiderio, scende per cercare di salva·re anche gli altri (il ve' Repubblica, VII, 515 c. ' Repubblica, VII, 518 d sgg. • Jaeger, Paideia ... , II, pp. 512 sg., nota 82.

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ro politico, secondo Platone, non ama il comando e il potere, ma usa comando e potere come servizio alla Città, per attuare il bene). Ma, a chi ridiscende, che cosa potrà mai capitare? Egli, passando dalla luce all'ombra, non vedrà più, se non dopo essersi riabituato al buio; faticherà a riadattarsi ai vecchi usi dei contubernali, rischierà di non essere da loro capito e di essere preso per folle, e, suscitando profonde avversioni, potrà perfino rischiare di essere ucciso. L'allusione è certamente a Socrate, ma il giudizio va indubbiamente molto al di là del caso di Socrate. Platone intende dire questo: guai a squarciare le illusioni che fasciano gli uomini; essi non tollerano le verità che rovesciano i loro comodi sistemi di vita basati sulle parvenze e sulla parte più fuggevole dell'essere, e temono quelle verità che fanno appello alla totalità dell'essere e all'eterno, e chi porta a loro un messaggio di verità antologicamente rivoluzionaria può essere messo a morte, come fosse un ciurmadore! Così avvenne per Socrate, « l'unico vero politico » della Grecia, come lo chiama Platone, e così fu e sarà o potrà essere per chiunque si presenti « politico » in quella dimensione globale.

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II. ALCUNI VERTICI DEL PENSIERO DI PLATONE RIMASTI PUNTI DI RIFERIMENTO NELLA STORIA DEL PENSIERO OCCIDENTALE

l) Uno dei vertici del pensiero platonico - che è rimasto nella storia del pensiero occidentale forse il punto di riferimento più significativo e più stimolante, non solo nell'età antica, ma anche nell'età moderna - è costituito dalla teoria delle Idee. Facciamo alcuni esempi significativi. Aristotele, pur facendola oggetto di una mass1cc1a cnuca di carattere teoretico, trae da essa ispirrazione basilare, proprio per la sua concezione della « forma » che struttura e plasma la materia. Con il Medioplatonismo le Idee diventeranno i pensieri dell'Intelletto divino, e in questo senso le intenderanno anche i Padri della Chiesa. E da ambedue queste inte11pretazioni trarranno importanti spunti gli Scolastici. Per l'età moderna ricorderemo due esempi, che sono i più significativi: Kant interpreterà le Idee come le supreme forme della Regione, e, pur negando un loro valore conoscitivo, attribuirà ad esse un uso « regolativo » strutturale di grande importanza; Hegel, poi, giudicherà la teoria delle Idee come «la vera grandezza speculativa » di Platone e addirittura come una vera e propria « pietra miliare » nella storia della filosofia, e perfino nella « s·toria universale ». Si potrebbe affermare, con buoni fondamenti, che una storia dell'interpretazione e dei ripensamenti teoretici della teoria delle Idee coprirebbe un'ampia area della storia della filosofia occidentale, proprio in alcuni punti essenziali. In

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VERTICI DEL PENSIERO DI PLATONE

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effetti, l'asse portante principale del pensiero che Platone ha presentato nei suoi dialoghi (ossia nella dimensione della « scrittura » ), è proprio la metafisica delle Idee, e su di essa tutti i lettori si sono incentrati, in tutte le epoche, per ripensare Platone. 2) Dal punto di vista strettamente teoretico, e per i motivi che abbiamo sopra spiegato, il vertice più cospicuo del pensiero platonico è costituito dalla teoria dei Principi (da cui dipende la stessa teoria delle Idee), che Platone ha affidato soprattutto alla « oralità », ma a cui, con rimandi e allusioni talora anche assai forti, ha fatto precisi riferimenti anche nei suoi scritti. Tale dottrina porta (come appunto per allusione si dice espressamente addirittura nella Repubblica) proprio al « principio del Tutto » (""t"ov 7t!X."V't"Òc; àpxi)) \ e quindi alla spiegazione metafisica globale del reale in tutti i suoi aspetti. Nell'ottica dell'interpretazione moderna di Platone la teoria dei Principi è stata ricuperata e compresa nella sua portata solamente in tempi recenti, per i motivi che abbiamo sopra spiegato; ma, dal punto di vista storico, almeno nell'ambito del pensiero antico, ha suscitato influssi veramente assai cospicui. Già nel 1912 W. Jaeger riconosceva che la filosofia platonica, cui Aristotele fa riferimento nella sua Metafisica, non è quella dei dialoghi, bensi quella delle « Dottrine non scritte» 2 • E in effetti, in aSJSai larga misura, sia per le sue polemiche sia per i ripensamenti teoretici, Aristotele deve moltissimo alle « Dottrine non scritte». I Neoplatonici, poi, prenderanno proprio di qui le mosse per il ripensamento teoretico e per gli sviluppi sistematici ' Repubblica, VI, 511 b. W. Jaeger, Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, Berlin 1912, p. 141. 2

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PLATONE E LA SCOPERTA DEL SOPRASENSIBILE

della filosofia di Platone. L'Uno-Bene, che è il fondamento del pensiero di tutti i Neoplatonici (e di cui parleremo con ampiezza nel quarto volume), è proprio il « Principio del Tutto » di Platone, con questa differenza: in Platone si tratta di un Principio supremo di struttura bipolare (l'Uno agisce sulla Diade, che risulta gerarchicamente subordinata, ma coessenziale e coeterna), mentre nei Neoplatonici si tratta di un Principio di struttura monopolare e assoluto, nel senso che tutto deriva da esso, compresa la stessa Diade, con tutto ciò che ne consegue. 3) Una conquista di Platone, che è strettamente connessa con le precedenti e ne sta alla base, è la concezione della struttura gerarchica del reale. Le conclusioni del Fedone, mantenute poi sempre va'lide da Platone, sono quelle su cui abbiamo sopra più volte insistito: « poniamo [ ... ] due specie di esseri: una visibile e l'altra invisibile» (i}w!J.EV [ ... ]

ouo

EL OT) "t WV ov"twv, "tÒ J..LÈV òpa"t6v, "tÒ OÈ titOÉ ('tOV cpucnxov 't~ç civw'tÉpw), in quanto il fisico si occupa della natura, la quale costituisce solamente un genere dell'essere (mentre al di sopra di questo esiste un altro genere di essere). Si veda anche Metafisica A 8, passim (dove sono criticati i Fisici, appunto a motivo del fatto che essi ammisero solo un genere dell'essere); E l e A passim. 1° Cfr. Metafisica, E l, 1026 a 18-23: «Tre sono di conseguenza le branche della filosofia teoretica: la matematica, la fisica e la teologia [ metafisica]. Non è dubbio, infatti, che se mai il divino esiste, esiste in una realtà di quel tipo. E non è dubbio, anche, che la scienza più alta deve avere come oggetto il genere più alto di realtà. E mentre le scienze teoretiche sono di gran lunga preferibili alle altre scienze, questa è, a sua volta, di gran lunga preferibile alle altre due scienze teoretiche »; A 2, 983 a 4-10: «Essa [la metafisica], infatti, fra tutte le scienze è la più divina e più degna di onore. Ma una scienza può essere divina solo in questi due sensi: o percM essa è scienza che Dio possiede in grado supremo, o, anche, perchl! essa ha come oggetto le cose divine. Ora solo la sapienza [ metafisica] possiede ambedue questi caratteri: infatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio, e, anche, che Dio, o esclusivamente o in grado supremo, abbia questo tipo di scienza ».

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ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO

in sé e per sé, perché ha in se medesima il suo scopo, e in tal senso è scienza « libera » per eccellenza 11 • Ma, si obietterà, come mai nasce, e quale è la sua ragion d'essere? La metafisica, risponde Aristotele, nasce non da altro che dalla meraviglia e dallo stupore che l'uomo prova di fronte alle cose: nasce, perciò, da un puro amore di sapere, nasce da quel bisogno, che è radicato nella natura dell'uomo, di conoscere il perché ultimo; infatti, a prescindere da qualsiasi vantaggio pratico che tale sapere può arrecare, l'uomo lo ama solo per se medesimo. La metafisica è, dunque, scienza tesa ad appagare non altro che questa umana esigenza del puro conoscere. E, questa, è la più vera ed autentica difesa e giustificazione della metafisica e con essa della filosofia in genere, almeno della filosofia classicamente intesa, che, come si è puntualmente veduto già nel corso del precedente volume, è filosofia puramente speculativa, ossia contemplativa. Sono chiare, ora, tutte le ragioni per cui - come già abbiamo detto - Aristotele ha chiamato la metafisica scienza « divina ». Dio non può avere se non questo tipo di scienza che ha in se medesima il suo unico scopo. Dio la possiede interamente, perfettamente e continuativamente; noi, invece, parzialmente, imperfettamente, e in modo discontinuo. Ma, sia pure entro questi limiti, l'uomo ha un punto di contatto con Dio. L'uomo che fa metafisica si avvicina dunque a Dio e, in questo, Aristotele ha additato la massima felicità dell'uomo. Dio è beato conoscendo e contemplando se medesimo; l'uomo è beato conoscendo e contemplando i principi supremi delle cose, e, quindi, Dio in primis et ante omnia. In questa conoscenza, l'uomo realizza perfettamente la sua natura e la sua essenza, che, appunto, consistono nella ragione e nell'in-

" Cfr. Metafisica, A 2, passim, anche per i concetti che seguono.

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telligenza. E, come vedremo nell'etica, realizza in questo modo anche la sua più autentica felicità. In tal senso, Aristotele ha potuto dire: Tutte le altre scienze saranno più necessarie per gli uomini, ma superiore a questa nessuna 12 • È una affermazione, questa, che può anche correttamente rovesciarsi in quest'altra: le altre scienze saranno più necessarie in funzione delle realizzazioni di particolari fini pratici e pragmatici, ma la metafisica resta in ogni caso la più necessaria, perché, in essa e con essa, l'uomo realizza la sua natura di essere razionale, la sua più alta areté, e appaga il più profondo, originario e imprescindibile bisogno che da questa sua natura scaturisce: il puro bisogno di sapere.

2.

Le quattro cause

Esaminate e chiarite le definizioni di metafisica dal punto di vista formale, passiamo ora ad enuclearne il contenuto. Abbiamo detto che la metafisica è, in primo luogo, presentata da Aristotele come ricerca delle cause prime. Dobbiamo pertanto stabilire quali e quante siano queste « cause». Aristotele ha precisato come le cause debbano necessariamente essere finite quanto al numero, ed ha stabilito che, per quanto riguarda il mondo del divenire, si riducono alle seguenti quattro (già intravviste - sia pur confusamente -, a suo dire, dai suoi predecessori): l) causa formale, 2) causa materiale, 3) causa efficiente e 4) causa finale 13 • Le prime due non sono altro che la forma o essenza e la materia, che costituiscono tutte quante le cose, e di cui dovremo parlare con maggior ampiezza più avanti. (Si ricordi 12 Metafisica, A 2, 983 a 10 sg. " Metafisica, A 3-10.

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che « causa » e « principio », per Aristotele, significano ciò che fonda, ciò che condiziona, ciò che struttura) 14 • Ora si badi: materia e forma, se consideriamo l'essere delle cose staticamente, bastano a spiegarlo; se, invece, lo consideriamo dinamicamente, cioè nel suo svolgimento, nel suo divenire, nel suo prodursi e nel suo corrompersi, allora non bastano più. È evidente, infatti, che, se consideriamo ad esempio un dato uomo staticamente, egli si riduce non ad altro che alla sua materia (carne ed ossa) e alla sua forma (anima); ma se lo consideriamo dinamicamente e domandiamo: « come mai è nato », « chi lo ha generato », « perché si sviluppa e cresce », allora occorrono due ulteriori ragioni o cause: la causa efficiente o motrice, cioè il padre che lo ha generato, e la causa finale, ossia il telos o lo scopo cui tende il divenire dell'uomo. Esaminiamo, in breve, ciascuna di queste quattro cause. l) La causa formale è, come abbiamo detto, la forma o essenza (dooc;, 'tÒ 'tC Tiv EtvaL) delle cose: l'anima per gli animali, quei dati rapporti formali per le diverse figu·re geometriche (per la circonferenza, ad esempio, il preciso luogo dei punti equidistanti da un punto detto centro), una determinata struttura per i diversi oggetti dell'arte, e così di seguito. 2) La causa materiale o materia (i.J)..T)) è il « ciò di cui » ('tò Èç où, id ex quo) è fatta una cosa: per esempio, la materia degli animali sono la carne e le ossa, la materia della sfera di bronzo è il bronzo, della tazza d'oro è l'oro, della statua di legno è il legno, della casa sono i mattoni e la calce, e così di seguito. 3) La causa efficiente o motrice è ciò da cui provengono il mutamento e il movimento delle cose: il padre è causa efficiente del figlio, la volontà è causa efficiente di varie azioni ,. Cfr. Reale, Il concetto di filosofia prima ... , pp. 34 sgg.

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dell'uomo, il colpo che imprimo a questa palla è causa efficiente del movimento di questa palla, e cosl via. 4) La causa finale costituisce il fine o lo scopo delle cose e delle azioni; essa costituisce ciò in vista di cui o in funzione di cui (Tò où ~vexa., id cuius gratia) ogni cosa è o diviene; e questo, dice Aristotele, è il bene ( &yoc&6v) di ciascuna cosa. L'essere e il divenire delle cose, dunque, richiedono in generale queste quattro cause. Sono queste le cause prossime; ma, oltre queste, occorrono le ulteriori cause date dai movimenti dei cieli e la causa suprema del primo Motore Immobile, di cui diremo in seguito 15 •

3. L'e s sere e i su o i significa t i e i l se n so d e li a formula «essere in quanto essere» Abbiamo visto che, oltre che come dottrina delle cause, la metafisica è definita da Aristotele come dottrina dell'« essere» o, anche, dell'« essere in quanto essere». Vediamo, pertanto, che cosa sia l'essere ( ov, dvoc~) e l'essere in quanto essere ( Cìv ov ), nel contesto della speculazione aristotelica. Che cos'è, dunque, l'essere? Parmenide e l'eleatismo avevano creduto che l'essere non potesse che essere assolutamente identico, ossia (in termini aristotelici) che non potesse che intendersi in un unico significato, cioè univocamente. Ora, l'univocità, nel caso particolare dell'essere, comporta anche l'unicità; e, infatti, attraverso Zenone, Melissa e la Scuola di Megara, l'eleatismo si cristallizzò nella dottrina dell'Essere-Uno con l'assorbimento integrale di tutta quanta la realtà in questo Essere-Uno, e portò all'immobilizzazione del Tutto. Ora Aristotele individua perfettamente la radice dell'errore degli Eleati e, in polemica con essi, formula il suo grande principio della

n

15

Cfr. Metafisica, A 4-5 e 6-8.

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originaria molteplicità dei significati dell'essere che costituisce la base della sua antologia. L'essere non ha significato univoco, ma polivoco (l' ov non si dice p.ova.xwç, ma 1toÀ.À.a.xwç)

16.

A questo guadagno essenziale, secondo Aristotele, non seppero giungere, nonostante le loro critiche a Parmenide, né Platone né i Platonici. Platone e i Platonici tentarono, sì, una deduzione del molteplice; ma, nel far questo, restarono ancora vittime del presupposto eleatico; in particolare, essi intesero il loro Essere come genere trascendente, come universale sostanziale, sussistente in sé e per sé oltre le cose: per questo motivo doveva sfuggire ad essi il vero ricupero del molteplice e del divenire. E così i Platonici non poterono veramente superare Parmenide 17 , Ed ecco, allora, come puntualmente Aristotele caratterizza l'essere. a) Come s'è detto, l'essere non può intendersi univocamente al modo degli Eleati, né come genere trascendente o universale sostanziale al modo dei Platonici. b) L'essere esprime originariamente una « molteplicità » di significati. Non per questo, però, è un mero «omonimo», cioè un « equivoco ». Tra univocità e equivocità pura c'è una via di mezzo, e il caso dell'essere sta appunto in questa via di mezzo. Ecco il celebre passo in cui Aristotele enuncia questa sua dottrina: L'essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad una unità e ad una realtà determinata. L'essere, quinçli, non si dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo « sano » tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la •• Cfr. Fisica, A 2-3. (Rimandiamo, per un approfondimento della questione, al nostro saggio: L'impossibilità di intendere univocamente l'essere e la tavola dei significati di esso secondo Aristotele, in « Rivista di filosofia neoscolastica », LVI [1964], pp. 289- 326). " Cfr. Metafisica, N 2, passim.

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conserva, o in quanto la produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla; o anche nel modo in cui diciamo « medico » tutto ciò che si riferisce alla medicina: o in quanto possiede la medicina o in quanto ad essa è per natura ben disposto, o in quanto è opera della medicina; e potremmo addurre ancora altri esempi di cose che si dicono nello stesso modo di queste. Cosl, dunque, anche l'essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento ad un unico principio [ ... ] 18 • Lasciamo, per ora, la questione dell'individuazione di questo principio e proseguiamo nella caratterizzazione generale del concetto di essere. c) L'essere, in conseguenza di quanto s'è stabilito, non potrà essere un « genere » e meno che mai una « specie ». Si tratta, dunque, di un concetto trans-generico oltre che transspecifico, vale a dire più ampio ed esteso del genere, oltre che della specie. I medievali diranno che è un concetto analogico, ma Aristotele non usa questo termine nei confronti dell'essere: lo si potrebbe certo usare, ma solo tenendo presente che l'analogicità dell'essere aristotelico è diversa dalla analogicità dell'essere medioevale e che essa è definita dalle caratteristiche ben precise che subito appresso spieghiamo. d) Se l'unità dell'essere non è una unità né di specie né di genere, che tipo di unità è? L'essere esprime significati diversi, ma aventi tutti una precisa relazione con un identico principio o una identica realtà, come bene illustrano gli esempi di « sano » e « medico », nel passo sopra letto. Dunque, le varie cose che sono dette « essere », esprimono, sl, sensi diversi dell'essere ma ad un tempo implicano tutte quante il riferimento a qualcosa di uno. e) Che cos'è questo qualcosa di uno? È la sostanza. Aristotele lo dice con tutta chiarezza a conclusione del passo che sopra abbiamo in parte già letto: Cosl, dunque, anche l'essere si dice in molti sensi, ma tutti " Metafisica,

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2, 1003 a 33-b 6.

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in riferimento ad un unico principio: alcune cose sono dette esseri perché sono sostanze, altre perché sono affezioni della sostanza, altre perché sono vie che portano alla sostanza, oppure perché corruzioni o privazioni o qualità o cause produttrici o generatrici sia della sostanza, sia di ciò che si riferisce alla sostanza, o perché negazioni di qualcuna di queste, ovvero della sostanza 19 •

In conclusione, il centro unificatore dei significati dell'essere è l'ousia, la sostanza. L'unità deriva, ai vari significati dell'essere, dal fatto di essere detti in relazione alla sostanza. Da tutto questo risulta chiaro che l'antologia aristotelica dovrà, sì, distinguere e precisare quali siano i vari significati dell'essere; ma essa non potrà ridursi affatto a mera fenomenologia o descrizione fenomenologica dei diversi significati dell'essere, perché i vari significati che fessere può assumere implicano tutti un riferimento fondamentale alla sostanza: tolta la sostanza sarebbero tolti tutti i significati dell'essere. Allora, è chiaro che l'antologia aristotelica dovrà, fondamentalmente, incentrarsi sulla sostanza che è quel principio in relazione al quale tutti gli altri significati sussistono. E in questo senso possiamo dire che l'antologia aristotelica è, fondamentalmente, una usiologia. Le precisazioni fatte devono mettere in guardia il lettore nell'interpretare la celebre formula «essere in quanto esset:e » (élv Ti ov). Questa formula non può significare un astratto uniforme e univoco ens generalissimum, come molti credono. Vedemmo, infatti, che l'essere non solo non è una specie ma neppure un genere, e che esprime un concetto transgenerico e transpecifico. Dunque, la formula « essere in quanto essere » non potrà che esprimere la molteplicità stessa dei significati dell'essere e la relazione che formalmente li lega e che fa sì, appunto, che ciascuno sia essere. Allora l'« essere in quanto essere » significherà la sostanza e tutto ciò •• Metafisica,

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2, 1003 b 5-10.

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che in molteplici modi si riferisce alla sostanza 20 • In ogni caso, resta fuori discussione che, per Aristotele, la formula « essere in quanto essere » perde ogni significato fuori del contesto del discorso sulla molteplicità dei significati dell'essere: chi ad essa attribuisce il senso di essere generalissimo o di puro essere, al di qua o al di sopra delle molteplici determinazioni dell'essere, resta vittima dell'arcaico modo di ragionare degli Eleati e tradisce completamente il significato della riforma aristotelica 21 •

4. La tavola aristotelica dei significati dell'essere e la sua struttura

Guadagnati il concetto di essere e il princ1p10 della originaria e strutturale molteplicità dei significati dell'essere, dobbiamo ora esaminare quanti e quali siano questi significati, dato che Aristotele traccia una precisa « tavola ». Ecco la numerazione e la delucidazione dei significati dell'essere 22 • a) L'essere si dice, da un lato, nel senso dell'accidente, ossia come essere accidentale o casuale ( òv xcn·c% aufl.~E~Yjx6ç ). Per esempio, quando diciamo «l'uomo è musico », oppure « il giusto è musico », indichiamo casi di essere accidentale: infatti l'essere musico non esprime l'essenza dell'uomo, ma 20 Cfr. il nostro saggio citato alla nota 16 e il nostro commentario ai libri f, E e K della Metafisica. " Per un approfondimento dei problemi si vedrà: J. Owens, The Doctrine of Being in the Aristotelian Metaphysics, Toronto 1963'. " Cfr. Metafisica, D. 7, E 2-4 e le ulteriori indicazioni che diamo nel nostro saggio citato alla nota 16 e la nostra Introduzione alla Metafisica, pp. 30 sgg. Ricordiamo che la prima messa a punto della tavola aristotelica dei significati dell'essere è stata fatta da F. Brentano in un'opera ormai classica: Von der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles, Freiburg 1862; Darmstadt 19602 •

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solamente ciò che all'uomo accade di essere, un puro accadere, un mero accidente. b) Opposto all'essere accidentale è l'essere per sé (ov xai}' a\.rc6). Esso indica non ciò che è per altro, come l'essere accidentale, ma ciò che è essere per sé, cioè essenzialmente. Come esempio di ens per se Aristotele indica, per lo più, la sola sostanza; ma, talora, anche tutte le categorie: oltre la essenza o sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, l'agire, il patire, il dove e il quando. In effetti (a differenza di quanto si verifica nella speculazione medievale) in Aristotele le categorie altre dalla sostanza sono qualcosa di assai più solido rispetto al puro accidentale (che esprime il puro fortuito), in quanto, sia pure subordinatamente alla sostanza, sono, come subito appresso vedremo, fondamento in secondo ordine degli altri significati dell'essere. c) Come terzo viene elencato il significato dell'essere come vero, cui viene contrapposto il significato del nonessere come falso. È, questo, l'essere che potremmo chiamare «logico»: infatti l'essere come vero indica l'essere del giudizio vero, mentre il non-essere come falso indica l'essere del giudizio falso. È, questo, un essere puramente mentale, ossia un essere che ha sussistenza solo nella ragione e nella mente che pensa. d) Ultimo elencato è il significato dell'essere come potenza e come atto. Diciamo, per esempio, che è veggente, sia chi ha la potenza di vedere, cioè chi può vedere (ossia colui che ha la capacità di vedere, ma, momentaneamente, poniamo, ha gli occhi chiusi), sia chi vede in atto; oppure diciamo che è sapiente, sia chi può fare uso del proprio sapere (per esempio chi sa l'aritmetica, ma non sta attualmente computando), quanto chi ne fa uso in atto. Analogamente, noi diciamo anche che è in atto una statua già scolpita, e che è invece in potenza il blocco di marmo che l'artefice sta scalpellando; e in questo stesso senso diciamo che è frumento la pianticella di frumento in

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erba, nel senso che è frumento in potenza, mentre della spiga matura diciamo che è frumento in atto. L'essere secondo la potenza e secondo l'atto, precisa Aristotele, si estende a tutti i significati dell'essere sopra distinti: ci può essere un essere accidentale in potenza ovvero in atto, ci può essere l'essere di un giudizio vero o falso in potenza ovvero in atto e, soprattutto, ci possono essere una potenza e un atto secondo ciascuna delle diverse categorie. (Ma di ciò diremo con più ampiezza un poco più avanti). La tavola dei significati dell'essere consta, dunque, di quattro significati. Ma sarebbe più esatto dire di quattro gruppi di significati. Già si è visto, infatti, implicitamente, ma lo espliciteremo subito più avanti, che l'essere non si intende in modo univoco neppure nell'ambito di ciascuno dei quattro significati. Per ridurre a schema le cose dette e per concludere, diremo che i significati dell'essere sono i seguenti quattro, ordinati procedendo dal significato più forte a quello più debole: a) h) c) d)

essere essere essere essere

secondo le diverse figure di categorie; secondo l'atto e la potenza; come vero e falso; come accidente o essere fortuito.

I significati del non-essere sono, invece, solamente tre: a) non-essere secondo le diverse figure di categorie; h) non-essere come potenza ( =non-essere-in-atto); c) non-essere come falso. L'essere accidentale non ha un corrispettivo non-essere, come hanno gli altri tre significati dell'essere, perché di per sé è già, per Aristotele, « qualcosa di vicino al non-essere » 23 , cioè quasi un non-essere. 23

Metafisica, E 2, 1026 b 21.

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5.

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Precisazioni sui significati dell'essere

Abbiamo notato, sopra, come i quattro significati dell'essere siano, in realtà, quattro gruppi di significati: infatti ciascuno di essi raggruppa, ulteriormente, significati simili, ma non identici, vale a dire non univoci ma analogici.

a) In primo luogo, le differenti figure di categorie non ridanno significati identici o univoci dell'essere; l'essere ridato da ciascuna « figura di categorie », in altri termini, costituisce un significato diverso da quello di ciascuna delle altre. Di conseguenza, l'espressione « l'essere secondo le figure delle categorie » designa tanti diversi significati di essere, quante, appunto, esse sono 24 • Aristotele dice espressamente che l'essere appartiene alle diverse categorie non nello stesso modo né nello stesso grado: L'è si predica di tutte le categorie, ma non nello stesso modo, bensl della sostanza in modo primario e delle altre categorie in modo derivato 25 •

E ancora: Bisogna dire o che le categorie sono esseri solo per omonimia, ovvero che sono esseri solo se si aggiunge o toglie ad essere una data qualificazione, come, ad esempio, quando si dice che anche il non-conoscibile è conoscibile. In effetti, il giusto sta nell'affermare che le categorie si dicono esseri né in senso equivoco né in senso univoco, ma si dicono esseri nello stesso modo che il termine medico, i cui diversi significati implicano tutti riferimento ad una medesima ed unica cosa, ma non significano una medesima ed unica cosa, e, cionondimeno, non sono puri omonimi: medico, 24 Sono otto, se si sta all'elenco della Metafisica e della Fisica, dieci se si sta invece all'elenco delle Categorie e dei Topici (ma la nona categoria è riducibile alla quarta e la decima alla settima; si veda sotto la tavola). 25 Metafisica, Z 4, 1030 a 21-23.

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infatti, designa un corpo, una operazione o uno strumento né per omonimia né per sinonimia, ma in virtù di un riferimento ad una unica cosa 26 • Quest'ultima realtà è, ovviamente, la sostanza. Come si vede, quello che vale in generale per i diversi significati dell'essere, vale, poi, in particolare per le categorie: le restanti categorie sono esseri solo in rapporto alla prima e in virtù di essa. Ma, allora, si chiederà, oltre all'unità che è propria di tutti i significati dell'essere, qual è lo specifico legame che unisce le diverse « figure di categorie » in un unico gruppo, che è appunto il gruppo delle« categorie»? La risposta è la seguente: le figure delle categorie ridanno i significati primi e fondamentali dell'essere: sono, cioè, l'originaria distinzione su cui si appoggia necessariamente la distinzione degli ulteriori significati. Le categorie rappresentano, dunque, i significati in cui originariamente si divide l'essere 27 , sono le supreme divisioni dell'essere, o, come anche Aristotele dice, i supremi « generi » dell'essere 28 • E in tal senso ben si comprende come Aristotele abbia indicato nelle categorie il gruppo dei significati dell'essere «per sé », appunto perché si tratta dei significati originari. Come ha dedotto Aristotele le categorie e la loro tavola? È, questo, un problema complessissimo, finora non risolto e probabilmente insolubile. Dovettero contribuire ricerche logiche, linguistiche, ma soprattutto dovette essere decisiva l'analisi fenomenologica e antologica 29 • Metafisica, Z 4, 1030 a 32 ·h 3. Cfr. Metafisica, Z 3, 1029 a 21. 28 Cfr. la massiccia documentazione addotta dal Brentano, in Von der mannigfachen Bedeutung ... , pp. 98 sgg. e passim. 29 Sul problema, dibattutissimo nello scorso secolo, si vedranno i seguenti studi, ormai classici: F. A. Trendelenburg, Geschichte der Kategorienlehre, Berlin 1846 (pp. 196-380); H. Bonitz, Ueber die Kategorien des Aristoteles, in « Sitzungsberichte der Kaiserlichen Akad. d. Wissensch. Philos.26

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Ecco la tavola delle categorie: [l] Sostanza o essenza (OUO'LCX, 't L ÈO''tL, 'tÒ 't L Tjv E!VCXL) [2] Qualità (1tOLOV) [3] Quantità (1to.:r6v) [4] Relazione (1tp6c; 't L) [5] Azione o agire (1tOLEi:v) [6] Passione o patire (mia-xEw) [7] Dove o luogo (1tov) [8] Quando o tempo (1to'tÉ) [9] Avere (EXELV) [lO] Giacere (XEi:~aL) b) Anche l'essere secondo la potenza e l'atto non ha un solo significato. Anzitutto è chiaro che con l'espressione «essere secondo la potenza e l'atto» si indicano due modi di essere diversissimi e in certo senso opposti. Aristotele, infatti, chiama l'essere della potenza addirittura non-essere, nel senso che, rispetto all'essere-in-atto, l'essere in potenza è non-essere-in-atto. L'espressione, peraltro, non deve trarre in inganno, giacché Aristotele ritiene di aver guadagnato un concetto essenziale ai fini della spiegazione della realtà e dell'essere, proprio con la scoperta dell'essere potenziale, come risulta dalla polemica con i Megarici. L'esperienza dice, infatti, che oltre al modo di essere in atto c'è il modo di essere in potenza: cioè quel modo di essere che non è atto hist. Klasse », Bd. 10, Heft 5, Wien 1853, pp. 591-645; O. Apelt, Die Kategorienlehre des Aristoteles, in Beitriige zur Geschichte der griech. Philos., Leipzig 1891, pp. 101-216 e il già più volte citato volume del Brentano, passim. Trendelenburg sostiene che Aristotele dedusse le categorie dalla grammatica, O. Apelt parla piuttosto di una deduzione logica, Bonitz e Brentano propendono invece per una deduzione ontologica. Il lettore italiano trova un'ampia discussione di queste tesi nel nostro saggio: Filo conduttore grammaticale e filo conduttore antologico nella deduzione delle categorie aristoteliche, in «Rivista di filosofia neoscolastica », XLIX (1957), pp. 423-457 (da correggere il refuso ivi sfuggito, passim, Trendelemburg in luogo di Trendelenburg).

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ma è capacità di essere in atto: chi nega che ci sia altro modo di essere oltre quello dell'atto, viene a bloccare la realtà in un immobilismo attualistico escludente qualsiasi forma di divenire o di movimento. È chiaro, dunque, perché Aristotele dia alla distinzione essere-in-potenza e essere-in-atto grandissimo rilievo 30 • Ma - e questo è il punto al quale ci preme di pervenire - l'essere potenziale e l'essere attuale, anche presi singolarmente, non hanno un unico significato, ma, ancora una volta, ne rivestono molteplici. Infatti l'atto e la potenza si estendono a tutte quante le categorie e assumono altrettanti significati diversi, quante sono le categorie. Questo significa che c'è una forma di essere in atto e di essere in potenza secondo la sostanza, una diversa forma di essere in atto e di essere in potenza secondo la qualità, un'altra forma ancora diversa di atto e di potenza secondo la quantità, e cosl di seguito. A parte le numerose questioni, cui queste affermazioni potrebbero dar adito, ma delle quali non è questo il luogo di dire, un punto resta chiarissimo: l'essere come potenza e l'essere come atto (che sono raccolti in un solo gruppo, perché si comprendono e si calibrano solo in funzione l'uno dell'altro) non esistono fuori o oltre le categorie, ma sono modi di essere che si appoggiano all'essere stesso delle categorie, si estendono secondo tutta la tavola delle categorie e sono diversi secondo che si appoggino alle diverse figure delle categorie. c) Anche il terzo significato dell'essere, l'essere come

vero e come falso, si intende in differenti modi, esso "' Cfr. soprattutto Metafisica, libro El, passim. Per un puntuale esame della dottrina rimandiamo al nostro saggio: La dottrina aristotelica della potenza, dell'atto e dell'entelechia nella Metafisica, in Studi di filosofia e di Jtoria della filosofia in onore di Francesco 0/giati, Milano 1962, pp. 145-207.

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pure, si appoggia all'essere delle categorie. Ma, siccome di esso non si occupa la metafisica, bensl la logica, non ci soffermeremo qui ad illustrarlo. d) Da ultimo ci resta da dire dell'essere accidentale. Premettiamo che la questione dell'accidente (e per conseguenza dell'essere accidentale) è assai complessa, in quanto il termine « accidente », in Aristotele, è fra i più fluttuanti. In ogni modo, quando lo Stagirita parla di essere accidentale ( av Xot't'ci C1U!L~E~TJX6ç) intende sempre l'essere fortuito o casuale, vale a dire un essere che dipende da altro essere, al quale, però, non è legato da alcun vincolo essenziale. È dunque un tipo di essere che non è sempre e nemmeno per lo più ma solo talora} fortuitamente} casualmente 31 • Spesso si è confuso l'essere categoriale e l'essere accidentale, ma questo è un grave errore. Non deve trarre in inganno il fatto che Aristotele stesso (ma soprattutto la speculazione posteriore) chiami « accidenti », talora, le stesse categorie. Vedremo, in effetti, che, fra le categorie, solo la prima è un essere autonomo, e che le altre suppongono questa prima e ad essa strutturalmente ineriscono. In tal senso, tutto ciò che non è sostanza non può essere per sé in senso stretto e, perciò, è accidente. Ma quando Aristotele parla di «essere accidentale», non ha di mira il semplice inerire ad altro o essere in altro, bensl il casuale, fortuito, occasionale congiungersi ad altro ed essere in altro. L'essere accidentale è ciò che può non essere, è ciò che non è né sempre né per lo più. Orbene: è ovvio che delle categorie ossia dell'essere categoriale come tale non si può affatto dire che è essere casuale, né si può dire che può sia essere che non essere, o che non è né sempre né per lo più. L'essere (almeno quello sensibile) è impensabile senza le ca31 Su questi due ultimi significati dell'essere cfr. Metafisica, E 2-4 e il nostro commento, vol. I, pp. 506-516.

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tegorie; il che significa che, in quanto tali, esse sono necessarie. Un esempio servirà a chiarire il pensiero e a concludere. Non è affatto necessario che un uomo sia pallido o adirato: che l'uomo abbia queste qualità è accidentale, è fortuito, è casuale, nel senso che esse potrebbero indifferentemente essere o non essere; però è necessario che l'uomo abbia qualità (non importa se queste o altre). L'esempio può ripetersi per ogni categoria. Può essere casuale il fatto che una cosa abbia una data misura, ma non è casuale e non è accidentale che abbia una misura (una cosa sensibile senza una quantità non è pensabile). Può essere accidentale che qualcosa si trovi in un dato luogo, ma non è puramente accidentale il suo essere in un luogo. E cosl gli esempi si potrebbero moltiplicare. In conclusione: l'accidente vero e proprio e l'essere accidentale non possono che fondarsi (come del resto anche gli altri significati dell'essere) sulle categorie, ma se ne distinguono totalmente, in quanto la categoria è necessaria, mentre l'accidente è l'affezione o l'accadimento meramente fortuito che ha luogo secondo ogni categoria. Insomma: l'essere accidentale è la contingente affezione o il contingente evento che si realizza secondo le diverse (necessarie) figure delle categorie. Ricapitoliamo i risultati della discussione di questo paragrafo. Si è dimostrato che i quattro significati dell'essere sono, in realtà, quattro gruppi di significati, facenti capo, tutti quanti, al primo, cioè alle categorie. L'essere come potenza e a;to ha luogo secondo le diverse categorie e solo secondo esse; esso non sussiste fuori di esse o oltre esse. L'essere come vero, che consiste nell'operazione mentale del congiungere e del dividere, non può che basarsi sulle categorie, che sono, appunto, ciò che viene unito o disgiunto. Infine anche l'essere accidentale si fonda sull'essere categoriale e non è che un'accidentale affezione o un accadimento secondo le varie figure delle categorie. Dunque: tutti

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i significati dell'essere presuppongono l'essere delle categorie; ma - e questo è un punto già più volte emerso e che ora è venuto il momento di approfondire - le varie categorie, a loro volta, non stanno tutte sul medesimo piano; fra la sostanza e le altre categorie c'è una differenza radicale, una differenza in qualche modo assimilabile a quella che c'è fra le categorie in generale e gli altri significati dell'e.rsere. Tutti i significati dell'essere presuppongono l'essere delle categorie; a sua volta, l'essere delle categorie dipende interamente dall'essere della prima categoria, ossia dalla sostanza. Se, dunque, tutti i significati dell'essere suppongono l'essere delle categorie, e se, a sua volta, l'essere delle categorie suppone l'essere della prima e su questo interamente si fonda, è evidente che la domanda radicale sul senso dell'essere andrà incentrata sulla sostanza. Perciò ben si comprendono le precise affermazioni di Aristotele: E in verità, ciò che dai tempi antichi, cosl come ora e sempre, costituisce l'eterno oggetto di ricerca e l'eterno problema: « che cos'è l'essere », equivale a questo: « che cos'è la sostanza » [ ... ] ; perciò anche noi, principalmente, fondamentalmente e unicamente, per cosl dire, dobbiamo esaminare che cos'è l'essere inteso in questo significato 32 •

Si deve dunque condudere che il senso ultimo dell'essere è disvelato dal senso della sostanza. Che cos'è, allora, la sostanza?

6.

L a q u e s ti o n e d e l I a sostanza

Diciamo subito che il problema della sostanza è il più delicato, il più complesso e, in un certo senso, anche il più sconcertante, per chiunque voglia intendere la metafisica ari32

Metafisica, Z l, 1028 b 2-7.

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stotelica, rinunciando alle soluzioni sommarie, cui le sistemazioni manualistiche ci hanno abituati 33 • Innanzitutto va chiarito che la questione generale della sostanza involge due problemi essenziali strettamente connessi, dei quali uno si svolge ulteriormente in due direzioni. Chiariamo preliminarmente questi problemi. I predecessori di Aristotele avevano dato alla questione della sostanza soluzioni del tutto antitetiche: alcuni avevano visto nella materia sensibile l'unica sostanza; Platone aveva invece indicato in enti soprasensibili la vera sostanza, mentre la comune convinzione sembrava additarla nelle cose concrete. Aristotele affronta ex novo la questione strutturandola in maniera esemplare. Dopo aver ridotto il problema antologico generale al suo nucleo centrale, cioè alla questione dell'ousia, egli dice, con tutta chiarezza, che il punto di arrivo starà nel determinare quali sostanze esistono: se solamente le sensibili (come vogliono i Naturalisti) o anche le soprasensibili (come vogliono i Platonici). Si badi: questo è il problema dei problemi e la quaestio ultima, la domanda per eccellenza della metafisica aristotelica così come di ogni metafisica in generale. Si tratta, in ultima analisi, di decidere della validità o meno dei risultati della « seconda navigazione » di Platone 34 • Ma, per poter risolvere questo specifico problema, Aristotele vuole prima risolvere il problema che cos'è la sostanza in generale. Ecco, quindi, l'altro problema dell'usiologia aristotelica: che cos'è la sostanza in generale? È la materia? È la forma? È il composto? Questo problema generale va risolto prima dell'altro, per correttezza metodo33 Quanto qui diciamo in sintesi il lettore lo potrà trovare più ampiamente documentato nella Introduzione alla Metafisica, pp. 45 sgg. (cfr. anche G. Reale, La polivocità della concezione aristotelica della sostanza, in Scritti in onore di Carlo Giacon, Padova 1972, pp. 17-40) e soprattutto nel commento ai libri Z e H, passim. "' Cfr. Z 2, passim.

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logica: si potrà, infatti, con precisione assai maggiore, dire se esiste solo il sensibile o anche il soprasensibile, se si sarà, prima, stabilito che cosa sia, in genere, la ousia. Se, per esempio, risultasse che ousia è solo la materia o il concreto composto di materia e forma, è chiaro che la questione della sostanza soprasensibile resterebbe eo ipso tolta; mentre, se risultasse che ousia è anche altro o addirittura prevalentemente altro dalla materia, allora la questione del soprasensibile si presenterebbe sotto tutt'altra luce. E su che cosa si baserà Aristotele per trattare della sostanza in generale? Ovviamente su quelle sostanze che nessuno contesta: le sostanze sensibili. Scrive espressamente il filosofo: Tutti ammettono che alcune delle cose sensibili sono sostanze; pertanto dovremo svolgere la nostra indagine partendo da queste. Infatti è di grande utilità procedere a gradi verso ciò che è più conoscibile. In effetti, tutti acquistano il sapere in questo modo: procedendo attraverso le cose che sono meno conoscibili per natura [ = le cose sensibili] verso quelle che sono più conoscibili per natura [ = le cose intelligibili] 35 •

In conclusione, dei due problemi dell'usiologia aristotelica, il primo «che cos'è la sostanza in generale » è preliminare al secondo « quali sostanze esistono » (problema teologico); inoltre il primo problema (preliminare) non può risolversi che basandosi sulla sostanza sensibile, che è l'unica che si conosce, prima di accertare se vi sia o no anche una sostanza soprasensibile 36 • 35 Z 3, 1029 a 33 sgg. Per Aristotele è per natura primo l'intelligibile, il quale è ciò che è antologicamente primo; per noi, invece, è primo il sensibile, il quale è ciò che è antologicamente secondo, perché ciò da cui noi muoviamo per conoscere sono i sensi e il sensibile, e all'intelligibile giungiamo solo attraverso e dopo il sensibile. ,. Cfr. anche Metafisica, Z 2, passim; Z 11, 1037 a 10-17; Z 16, 1040 b 34-1041 a 3; Z 17, 1041 a 6-9.

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7. La questione della « ous1a » in generale: la forma, la materia, il sinolo e le note definitorie del concetto di sostanza

Ed ora domandiamoci finalmente: che cos'è la ousta tn generale? Aristotele, come abbiamo già ricordato, trovava nei predecessori risposte contrastanti: per i Naturalisti sostanza era la materia o il sostrato materiale, per i Platonici la forma e l'universale; secondo il senso comune invece sembra essere sostanza l'individuo e la cosa concreta. Chi ha ragione? La risposta dello Stagirita è: tutti e nessuno ad un tempo; la risposta al problema non può essere semplice, ma deve essere necessariamente complessa. Quanto abbiamo premesso, avrà probabilmente già orientato il lettore circa la risposta aristotelica al problema posto. Lo Stagirita dice che per ousia possono intendersi, a diverso titolo, sia l) la forma, sia 2) la materia, sia 3) il sinolo o composto di materia e forma. Con ciò Aristotele riconosce a ciascuno dei suoi predecessori una parte di ragione e indica il loro torto nella unilateralità. Vediamo di illustrare brevemente i tre significati. l) Sostanza e m un senso la forma (elooc;, J.I.Opqn1). « Forma », secondo Aristotele, non è ovviamente la estrinseca forma o la figura esteriore delle cose (o lo è solo subordinatamente), ma è l'intima natura delle cose, il che cos'è o l'essenza intima ( -rò -r( ~v dvocL) delle medesime. La forma o essenza dell'uomo, per esempio, è la sua anima, ossia ciò che fa di lui un essere vivente razionale; la forma o essenza dell'animale è l'anima sensitiva e quella della pianta l'anima vegetativa. Ancora, l'essenza del cerchio è ciò che fa sì che esso sia quella data figura con quelle date qualità; e lo stesso può ripetersi per le diverse altre cose. Quando noi definiamo le cose, ci riferiamo alla loro forma o essenza e

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in generale le cose sono conoscibili solo nella loro essenza 37 • 2) Tuttavia, se l'anima razionale non informasse un corpo, non avremmo un uomo, e se l'anima sensitiva non informasse una certa materia, non avremmo un animale; e, ancora, se l'anima vegetativa non informasse altra materia, non avremmo le piante. Cosl dicasi - e la cosa risulterà anche più evidente - per tutti gli oggetti prodotti dall'attività dell'arte: se non si realizzasse nel legno l'essenza o forma del tavolo, essa non avrebbe alcuna concretezza, e lo stesso deve ripetersi per tutti gli altri casi. In questo senso, anche la materia risulta fondamentale per la costituzione delle cose, e pertanto potrà dirsi - almeno entro certi limiti sostanza delle cose. È chiaro, peraltro, che questi limiti sono ben definiti: infatti, se non ci fosse la forma, la materia sarebbe indeterminata e non basterebbe affatto a costituire le cose. 3) In base a quanto abbiamo detto, risulta pienamente chiarito anche il terzo significato: quello di sinolo (cruvoÀ.ov). Sinolo è la concreta unione di forma e di materia. Tutte le cose concrete sono non altro che sinoli di forma e di materia. Dunque, tutte le cose sensibili, senza distinzione, possono considerarsi nella loro forma, nella loro materia, nel loro insieme; e sostanza (ousfa) sono, a diverso titolo (nel senso veduto), e la forma e la materia e il sinolo 38 • Abbiamo detto che a diverso titolo Aristotele attribuisce la qualifica di sostanza alla forma, al sinolo e alla materia. Orbene, lo Stagirita, svolgendo il problema della sostanza in generale in una seconda direzione, ha anche cercato di determinare quali siano questi « titoli » in base ai quali qualcosa ha diritto ad essere considerato sostanza. Questa seconda

" Cfr. Metafisica, Z 4-12 e H 2-3 con il nostro commento, vol. I, pp. 572-621 e vol. n, pp. 19-30. 38 Cfr. Metafisica, Z H, passim.

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direzione, nei testi, non è sempre esplicitamente distinta dalla prima e spesso si intreccia in vario modo con essa; e tuttavia è essenziale distinguerla, per capire a fondo il pensiero aristotelico. Lo Stagirita sembra stabilire i caratteri definitori della sostanza in numero di quattro, anzi di cinque, se si computa anche un carattere che sta però su un piano un poco diverso dagli altri. l) In primo luogo, può chiamarsi sostanza solamente ciò che non inerisce ad altro e non si predica di altro, ma che è sostrato di inerenza e di predicazione di tutti gli altri modi di essere. 2) In secondo luogo, sostanza può essere solamente un ente che può sussistere di per sé o separatamente dal resto (un XWPLCT'tov), dotato di una forma di sussistenza autonoma. 3) In terzo luogo, può chiamarsi sostanza solo ciò che è un alcunché di determinato ('t6oE 'tL): non può quindi essere sostanza un attributo generale, né alcunché di universale e astratto. 4) In quarto luogo, sostanza deve essere un qualcosa di intrinsecamente unitario (Ev) e non un mero aggregato di parti o una qualsivoglia molteplicità non organizzata. 5) Infine va ricordata la caratteristica dell'atto o dell'attualità (ÉvÉpyELCl, ÉV'tf4À.ÉXELa): è sostanza solo ciò che è atto o in atto. E questa caratteristica, che come abbiamo detto sta un poco a sé, è importantissima. Ora riesaminiamo e commisuriamo a queste note definitorie delle caratteristiche della sostanzialità la materia, la forma e il sinolo, vale a dire quelli che abbiamo detto essere - a diverso titolo - significati dell'ousfa. In che misura materia, forma e sinolo realizzano quelle note?

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La materia possiede senza dubbio (l) il primo dei caratteri: essa non inerisce ad altro né si predica di altro; ad essa inerisce e di essa si predica, in qualche modo, tutto il resto: la stessa forma inerisce e in certo senso si riferisce alla materia. La materia, tuttavia, non possiede alcuno degli altri caratteri della sostanzialità. Essa (2) non sussiste affatto di per sé, perché non c'è materia che non possegga già la forma; (3) non è affatto un qualcosa di determinato perché tale può essere solo ciò che ha una forma; (4) non è nemmeno qualcosa di unitario, perché l'unità deriva dalla forma; (5) infine non è in atto, ma è solo in potenza. Diremo, quindi, che la materia è sostanza solamente in senso assai debole e improprio. Il che ben spiega come mai Aristotele neghi, talora, che la materia sia sostanza e, talaltra, invece, lo riaffermi: essa ha solamente il primo dei caratteri della sostanzialità e non gli altri. Invece la forma e il sino/o, anche se in maniera non identica, hanno tutti i caratteri della sostanzialità. La forma ( l ) non deve il suo essere ad altro e non si predica di altro: è vero - si badi - che la forma inerisce alla materia e che si riferisce in certo senso alla materia, ma, appunto, in un senso del tutto eccezionale (inerisce alla materia come ciò che informa la materia ed ha più essere - come tosto vedremo - che non la materia; gerarchicamente è la materia che dipende dalla forma, non viceversa). (2) La forma può separarsi dalla materia in due sensi: a) è la forma che dà essere alla materia e non viceversa e quindi la forma è, in generale, almeno concettualmente, sempre separabile; b) vi sono sostanze che si esauriscono interamente nella forma e che non hanno materia e, in questi casi, la forma è assolutamente separata. (3) La forma è un qualcosa di determinato ("t60E "tL), come ripetutamente Aristotele ribadisce: e, anzi, la forma è qualcosa di determinato e anche determinante, perché è ciò che fa sl che le cose siano ciò che sono e non altro. (4) La forma

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è unità per eccellenza, anzi è principio che dà unità alla materia che informa. (5) Infine la forma è atto per eccellenza, è principio che dà atto, al punto che Aristotele usa spesso forma e atto come sinonimi. E il sinolo? Anche il composto di materia e forma possiede i caratteri suindicati, e di conseguenza: infatti il sinolo è appunto l'insieme e di materia e di forma. Il sinolo, che è la concreta cosa individua, (l) è sostrato di inerenza e di predicazione di tutte le determinazioni accidentali; (2) sussiste di per sé e indipendentemente in modo pieno; (3) è un -r68e TL in senso concreto; (4) è una unità, in quanto ha tutte le. sue parti materiali unificate dalla forma; (5) è in atto perché le sue parti materiali sono attualizzate dalla forma. La materia- si è visto- è assai meno sostanza della forma e del sinolo; e fra la forma e il sinolo c'è una ulteriore differenziazione per quanto concerne il loro grado di sostanzialità? La questione è piuttosto complessa. In certi passi Aristotele sembra considerare il sinolo o il concreto individuo come sostanza per eccellenza, in altri passi, invece, sembra considerare tale la forma. Ma in ciò non c'è contraddizione, come invece, di primo acchito, potrebbe sembrare. In effetti, a seconda del punto di vista dal quale ci si collochi, si deve rispondere nel primo ovvero nel secondo modo. Dal punto di vista empirico e costatativo è chiaro che il sinolo o il concreto individuo sembra essere sostanza per eccellenza. Non cosi, invece, dal punto di vista strettamente speculativo e metafisica: infatti la forma è principio, causa e ragion d'essere, vale a dire fondamento, e rispetto ad essa il sinolo è invece principiato, causato e fondato; ebbene, in questo senso, la forma è sostanza per eccellenza e al più alto titolo. Insomma: quoad nos, sostanza per eccellenza è il concreto; in sé e per natura è invece sostanza per eccellenza la forma. D'altro canto, questo risulta pienamente riconfermato,

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se si pensa come il sinolo non possa esaurire la sostanza in quanto tale: se il sinolo esaurisse il concetto di sostanza in quanto tale, nulla che non fosse sinolo sarebbe sostanza, e, in tal modo, Dio e in genere l'immateriale e il soprasensibile non sarebbero sostanza! La forma può dirsi, invece, sostanza per eccellenza: Dio e le intelligenze motrici delle sfere celesti sono pure forme immateriali, mentre le cose sensibili sono forme informanti la materia. La forma è essenziale agli uni e agli altri enti, sia pure in diversa maniera 39 • E per concludere diremo che, in tal modo, il senso dell'essere è pienamente determinato. L'essere nel suo significato più forte è la sostanza; e la sostanza in un senso (improprio) è materia, in un secondo senso (più proprio) è sinolo, e in un terzo senso (e per eccellenza) è forma: essere è quindi la materia; essere, in più alto grado, è il sinolo; ed essere è, nel senso più forte, la forma. In tal modo si comprende perché Aristotele abbia chiamato la forma addirittura « causa prima dell'essere » 40 , appunto in quanto essa risulta informare la materia e fondare il sinolo.

8.

L a « forma » ari sto t e l i c a n o n è l'un i v e r sa l e

Prospettata nel modo che abbiamo sopra proposto, la dottrina aristotelica della sostanza appare assai meno aporetica di quanto, soprattutto dallo Zeller 41 , e, con lui, da molti degli studiosi moderni, non si sia preteso. La distinzione dei molteplici significati dell'ousia non è affatto proposta su un piano di ricerca meramente linguistica e per soddisfare ad istanze linguistiche, ma è fatta su un piano 39 Cfr. i puntuali riferimenti che diamo nella Introduzione alla Metafisica, vol. I, pp. 51 sgg., nonché il commentario al libro Z, passim. "' Metafisica, Z 17, 1041 b 28. •• Zeller, Die Philos. d. Griechen, II, 2, pp. 344 sgg. (questa parte dell'opera zelleriana non è ancora stata tradotta in lingua italiana).

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di analisi ontologica e per soddisfare all'esigenza di comprensione della realtà nei suoi molteplici aspetti. E così lo Zeller non ha potuto intendere che, a proposito dei tre significati di ousia e in particolare dei due principali (sinolo e forma), non si deve - per ragioni strutturali - fare un discorso in termini di aut-aut, come se a tutti i costi dovesse restare in campo uno solo dei significati, ma si deve fare invece un discorso in termini di et-et, come abbiamo veduto: la metafisica aristotelica non è portata, come la successiva, alla reductio ad unum a tutti i costi, ma è piuttosto rivolta a distinguere i vari aspetti della realtà, e quando li ha distinti non solo non procede ad ulteriori unificazioni, ma li dichiara irriducibili, e appunto come tali li considera espressione della poliedricità strutturale della realtà. Così si risolve agevolmente un'altra difficoltà sollevata dallo Zeller. È difficile - egli dice - pensare come indivenibili le forme del diveniente, come le vorrebbe concepire Aristotele. In verità Aristotele batte con molta energia su questo punto della indivenibilità dell' eidos. Ebbene, come può Aristotele affermare l'eidos indivenibile, senza ricadere nella tesi della « trascendenza delle forme » da lui rimproverata insistentemente ai Platonici? Semplice: l'indivenibilità dell'eidos aristotelico non è altro che l'indivenibilità della causa o della condizione o del principio metafisica, rispetto al causato, al condizionato e al principiato empirico 42 • Vogliamo, infine, concludere sulla sostanza, soffermandoci su un punto spesso trascurato e di cui, d'altra parte, l'impostazione zelleriana, alla quale i più si fermano, doveva fatalmente impedire la comprensione. Diciamo del rapporto fra la forma e l'universale. Aristotele dimostra che, mentre materia, forma e sinolo hanno titolo per essere considerati ousia, così come s'è veduto, l'universale, che i Platonici elevavano al rango di sostanza per eccellenza, non ha asso., Cfr. Metafisica, Z 7-9 {e il nostro co=ento, vol.

1,

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pp. 589-606).

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lutamente alcun titolo per essere considerato sostanza, perché non ha nessuno dei caratteri che sopra s'è visto essere propri della sostanzialità 43 • Ma, si dirà, non è un universale l'eidos aristotelico? La risposta è inequivocabilmente negativa. Più volte Aristotele qualifica il suo eidos come un .. 6 8 e .. t, espressione che indica il determinato che si oppone all'universale astratto; e, del resto, vedemmo come tutti i caratteri della sostanzialità competano all'eidos. L'eidos aristotelico è un principio metafisico, una condizione ontologica: in termini moderni diremmo una struttura antologica. Riportiamo a prova solo un passo - il più significativo -, quello posto a chiusura del libro dedicato alla sostanza. Dopo aver detto che la sostanza è « un principio ed una causa », Aristotele mostra come si debbano ricercare tale principio e tale causa. La cosa o il fatto di cui si cercano il principio e la causa devono essere preventivamente noti, e la ricerca va impostata cosi: perché questa cosa o questo fatto sono cosi e cosi? Il che significa dire: perché la materia è (o costituisce) questo determinato oggetto? Ecco come Aristotele puntualizza il problema: Questo materiale è una casa: perché? Perché è presente in esso l'essenza di casa. E si ricercherà così: perché questa data cosa è uomo? Oppure, perché questo corpo ha queste caratteristiche? Pertanto nella ricerca del perché, si ricerca la causa della materia, vale a dire la forma per cui la materia è una determinata cosa: e questa è appunto la sostanza 44 •

Ma ecco l'esempio più eloquente con cui Aristotele suggella la sua ricerca: Ciò che è composto di qualche cosa in modo tale che il tutto costituisce una unità non è come un mucchio, ma come una sillaba. E la sillaba non è solo le lettere da cui è formata, né BA è identica a B e A, né la carne è semplicemente fuoco e terra: "' Cfr. Metafisica, Z 13-16 (e il nostro commento, vol. .. Metafisica, Z 17, 1041 h 5-9.

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I,

pp. 621-634) .

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infatti, una volta che i composti, cioè carne e sillaba, si siano dissolti, non esistono più, mentre le lettere, il fuoco e la terra continuano ad essere. Dunque, la sillaba è un qualcosa che non è riducibile unicamente alle lettere, ossia alle vocali e consonanti, ma è un qualcosa di diverso da esse. E così la carne non è solamente fuoco e terra, o caldo e freddo, ma anche un qualcosa di diverso da questi. Ora, se anche questo qualcosa dovesse essere, esso pure, un elemento o un composto di elementi, si avrebbe quanto segue: se fosse un elemento, varrebbe lo stesso discorso di prima (la carne sarebbe costituita da questo elemento con fuoco e terra e da qualcosa di diverso, cosicché si andrebbe all'infinito); se fosse, invece, un composto di elementi, sarebbe, evidentemente, composto non di uno solo ma di più elementi (altrimenti saremmo ancora nel primo caso), cosicché si dovrebbe ripetere anche a questo proposito il discorso fatto a proposito della carne e della sillaba. Perciò si potrà ben ritenere che questo qualcosa non sia un elemento, ma sia la causa per cui questa data cosa è carne, quest'altra cosa è sillaba, e così dicasi per tutto il resto. E, questo, è la sostanza di ogni cosa: infatti esso è causa prima dell'essere 45 • Come si vede, l' ousia-eidos di Aristotele, come immanente struttura antologica della cosa, non può affatto confondersi con l'universale astratto. L'universale è invece il genere ( yévoç), che non ha una sua realtà ontologica separata. L'anima dell'uomo come eidos è un principio che informa un corpo e ne fa un uomo, e ha una sua realtà ontologica; invece l'animale, inteso come genere animale, è solo un termine comune astratto che non ha realtà in sé e non esiste se non nell'uomo o in altra forma di animale. È, peraltro, da rilevare che l'eidos aristotelico ha due aspetti: uno di questi è quello antologico già visto, l'altro è l'aspetto che potremmo chiamare logico. Lo Stagirita non ha studiato e messo a punto i due aspetti e le relative differenze, ma è passato, nei vari casi, dall'uno all'altro inconsapevolmente. Noi notiamo, anche per ragioni linguistiche, meglio di lui la differenza, perché, di volta in volta, siamo "' Metafisica, Z 17, 1041 b 11·28; cfr. anche H 2, 1043 h 10 sgg.

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costretti a tradurre eidos in due modi diversi: talora con forma e talaltra con specie. Per quanto concerne l'aspetto antologico dell'eidos, vale a dire la forma, Aristotele ha ragione di dire che non è un universale. Ma l'eidos nel senso logico di specie? Evidentemente la specie non è altro che l' eidos in quanto pensato dalla mente umana. E quindi si potrebbe ben dire che, in quanto struttura antologica o principio metafisica, l'eidos non è un universale; invece, in quanto vien pensato e astratto dalla mente umana, diventa universale. Ma, ripetiamo, Aristotele, preoccupato di ribadire il primo punto, non ha messo in rilievo il secondo. (Tanto più che, ai suoi occhi, l'eidos anche considerato come specie è la « differenza » specifica che dà concretezza al genere, appunto « differenziandolo » e quindi riscattandolo dalla sua astratta universalità 46 , come vedremo anche nella logica). In ogni caso, queste difficoltà non debbono distogliere lo sguardo da quello che s'è prima detto circa la statura antologica e reale dell'eidos. L'eidos non solo non è un universale, ma è più essere della materia e più essere del sinolo, in quanto è principio che, strutturando la materia, fa sussistere il sinolo stesso 47 •

9.

L'atto e la potenza

Le dottrine esposte vanno ancora integrate con alcune precisazioni riguardanti la potenza e l'atto riferiti alla sostanza 411 • La materia è potenza, cioè potenzialità, nel senso " Cfr. Metafisica, Z 12, passim. Cfr. Metafisica, Z 3, 1029 a 3-7: «Chiamo materia ad esempio il bronzo, forma la struttura e la configurazione formale, sinolo ciò che da queste risulta, cioè la statua. Orbene, se la forma è anteriore e maggiormente essere ( 1rp6-n:pov xcxl !Lillov ISv ) rispetto alla materia, per la medesima ragione essa sarà anteriore anche al composto ». 48 Cfr., sopra, la nota 30. 47

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che è capacità di assumere o di ricevere la forma: il bronzo è potenza della statua, perché è effettiva capacità e di ricevere e di assumere la forma della statua; il legno è potenza dei vari oggetti che col legno si possono fare, perché è concreta capacità di assumere le forme dei vari oggetti. La forma si configura, invece, come atto o attuazione di quella capacità. Il composto o sinolo di materia e forma, sarà, se lo si considera come tale, prevalentemente atto; se lo si considera nella sua forma, sarà senz'altro atto o entelechia e, se lo si considera nella sua materialità, sarà invece misto di potenza e di atto. Tutte le cose che hanno materia hanno quindi sempre, come tali, maggiore o minore potenzialità 49 • Invece se, come vedremo, ci sono esseri immateriali, cioè pure forme, saranno atti puri, scevri di potenzialità 50 • L'atto, come già abbiamo accennato, è chiamato da Aristotele anche entelechia: talora sembra che fra i due termini ci sia una certa diversità di significato, ma, per lo più, e in particolare nella Metafisica, i due termini sono sinonimi. Dunque, atto ed entelechia dicono realizzazione, perfezione attuantesi o attuata. L'anima, quindi, in quanto essenza e forma del corpo, è atto ed entelechia del corpo; e, in genere, tutte le forme delle sostanze sensibili sono atto ed entelechia. Dio, vedremo, sarà entelechia pura (e cosl anche le altre Intelligenze motrici delle sfere celesti). L'atto, dice ancora Aristotele, ha assoluta « priorità » e superiorità sulla potenza: la potenza infatti non si può conoscere, come tale, se non riportandola all'atto di cui è potenza. Inoltre l'atto (che è forma) è condizione, regola e fine della potenzialità. Infine, l'atto è superiore alla potenza, perché è il modo di essere delle sostanze eterne 51 • •• Cfr. Metafisica, H 2. 50 Cfr. Metafisica, A 6-8. 51 Cfr. Metafisica, 0 8, passim. Questo teorema della priorità dell'atto

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ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO

La dottrina della potenza e dell'atto è, dal punto di vista metafisica, di grandissima importanza. Con essa Aristotele ha potuto risolvere le aporie eleatiche del divenire e del movimento: divenire e movimento scorrono nell'alveo dell'essere, perché non segnano un passaggio dal non-essere assoluto all'essere, bensl dall'essere in potenza all'essere in atto, cioè da essere a essere 52 • Inoltre con essa egli ha risolto perfettamente il problema dell'unità della materia e della forma: la prima essendo potenza, la seconda atto o attuazione della medesima 53 • Infine, lo Stagirita di essa si è servito, almeno in parte, per dimostrare l'esistenza di Dio e intenderne la natura 54 • Ma anche nell'ambito di tutte le altre scienze i concetti di potenza e di atto hanno in Aristotele un ruolo rilevantissimo. E cosl siamo giunti all'ultima delle questioni della metafisica: quella della sostanza soprasensibile, che è la questione decisiva.

sulla potenza è molto importante, e, come vedremo, costituisce uno dei principi su cui fa perno l'inferenza metempirica del Motore Immobile. Ecco il passo della Metafisica (0 8, 1050 a 4 sgg.) in cui viene illustrata la priorità antologica dell'atto sulla potenza: «Ma l'atto è anteriore anche per la sostanza. In primo luogo, perché le cose che nell'ordine della generazione sono ultime, nell'ordine della forma e della sostanza sono prime: per esempio l'adulto è prima del fanciullo e l'uomo è prima dello sperma: l'uno, infatti, possiede la forma attuata, l'altro, invece, no. In secondo luogo, è anteriore perché tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso lo scopo (o fine): infatti Io scopo costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l'atto, e in grazia di questo si acquista anche la potenza: infatti gli animali non vedono al fine di possedere la vista, ma posseggono la vista ?! fine di vedere [ ... ] . Inoltre, la materia è in potenza perché può giungere alla forma; e quando, poi, sia in atto, allora essa è nella sua forma [ ... ]. Ma l'atto è anteriore alla potenza secondo la sostanza anche in più alto senso: infatti gli esseri eterni sono anteriori ai corruttibili quanto alla sostanza, e nulla di ciò che è in potenza è eterno». 52 Cfr. per esempio Metafisica, K 9; cfr., più avanti, pp. 310-314. 53 Cfr. Metafisica, H 6, passim. " Cfr. Metafisica, A 6-9.

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10. Dimostrazione dell'esistenza della sostanza soprasensibile

Esistono sostanze soprasensibili, oppure esistono solamente sostanze sensibili? Aristotele ha cercato di rispondere con precisione al problema (che, come sappiamo, era il problema sollevato dalla « seconda navigazione » platonica) e non solo, come già abbiamo accennato, ha riconfermato gli esiti della medesima, ma è addirittura riuscito a guadagnare posizioni, che, sia nella chiarezza dell'impostazione metodica sia nelle conclusioni, vanno oltre Platone. Diciamo subito che, per lo Stagirita, esistono tre generi di sostanze gerarchicamente ordinate; due sono di natura sensibile: l) il primo è costituito dalle sostanze sensibili che nascono e periscono, 2) il secondo è costituito dalle sostanze sensibili ma incorruttibili. Queste sostanze « se:-tsibili » ma « incorruttibili » sono non altro che i cieli, i pianeti c le stelle, che, secondo Aristotele, sono incorruttibili, perché strutturati di materia non corruttibile (l'etere, quinta essenza), capace solo di mutamento o movimento locale e quindi non passibile di alterazione, né di aumento o diminuzione e, meno che mai, di generazione e corruzione. Invece la sostanza sensibile corruttibile è sottoposta a tutti i tipi di mutamento, appunto perché la materia di cui è costituita include la possibilità di tutti i contrari: per questo le cose di questo mondo (sublunari), oltre a muoversi, sono soggette ad aumenti e diminuzioni, ad alterazioni, a generazione e corruzione. Al di sopra di queste, ci sono, poi, 3) le sostanze immobili, eterne e trascendenti il sensibile, che sono Dio o Motore immobile e le altre sostanze motrici delle varie sfere di cui consta il cielo, come vedremo. I primi due generi di sostanze sono costituiti di materia e forma: dei quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco) quelle sensibili corruttibili, di etere puro, come già s'è detto, quelle incorruttibili. La sostanza soprasensibile è,

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invece, forma pura assolutamente scevra di materia. Dei primi due generi di sostanze si occupano la fisica e l'astronomia; il terzo genere di sostanza costituisce l'oggetto peculiare della metafisica, come sappiamo. Ci resta pertanto da esaminare, in brevt., il procedimento attraverso il quale Aristotele dimostra l'esistenza della sostanza soprasensibile, quale ne sia la natura, se sia unica o se ve ne siano molteplici, e quale sia il rapporto fra tale sostanza e il mondo. L'esistenza del soprasensibile viene dimostrata nel modo che segue. Le sostanze sono le realtà prime, nel senso che tutti gli altri modi di essere, come abbiamo ampiamente visto, dipendono dalla sostanza. Se, quindi, tutte le sostanze fossero corruttibili, non esisterebbe assolutamente nulla di incorruttibile. Ma - dice Aristotele - il tempo e il movimento sono certamente incorruttibili. Il tempo non si è generato né si corromperà: infatti, anteriormente alla generazione del tempo, avrebbe dovuto esserci un« prima», e posteriormente alla distruzione del tempo avrebbe dovuto esserci un « poi ». Ora, « prima » e « poi » altro non sono che tempo. In altri termini: per le ragioni viste, c'è sempre tempo prima o dopo qualsiasi supposto inizio o termine del tempo; dunque, il tempo è eterno. Lo stesso ragionamento vale anche per il movimento, perché, secondo Aristotele, il tempo non è altro che una determinazione del movimento; dunque, non c'è tempo senza movimento, e, quindi, l'eternità del primo postula l'eternità anche del secondo. Ma a quale condizione può sussistere un movimento (e un tempo) eterno? Lo Stagirita risponde (in base ai principi da lui stabiliti studiando le condizioni del movimento nella Fisica): solo se sussiste un Principio primo che sia causa di esso. E come deve essere questo principio per essere causa di esso? In primo luogo, dice Aristotele, il Principio deve essere

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eterno: se eterno è il movimento, eterna ne deve essere la causa. O, in altri termini: per essere idonea a spiegare un movimento eterno, la causa non può essere che eterna. In secondo luogo, il Principio deve essere immobile: solo l'immobile, infatti, è causa assoluta del mobile. Nella Fisica, Aristotele ha dimostrato questo punto con rigore. Tutto ciò che è in moto, è mosso da altro; quest'altro, se è a sua volta mosso, è mosso da altro ancora. Una pietra, ad esempio, è mossa da un bastone, il bastone, a sua volta, muove mosso dalla mano, e la mano dall'uomo. Insomma, per spiegare ogni movimento bisogna far capo ad un principio di per sé non ulteriormente mosso, almeno rispetto a ciò che muove. Sarebbe assurdo, infatti, pensare di poter risalire di motore in motore all'infinito, perché un processo all'infinito è sempre impensabile, in questi casi. Ora, se così è, non solo devono esserci principi o motori relativamente mobili, cui fanno capo i singoli movimenti, ma - e a fortiori - deve esserci un Principio assolutamente primo e assolutamente immobile, cui fa capo il moto dell'universo tutto. In terzo luogo, il principio deve essere del tutto scevro di potenzialità, cioè atto puro. Se, infatti, avesse potenzialità, potrebbe anche non muovere in atto; ma ciò è assurdo, perché, in tal caso, non ci sarebbe un movimento eterno dei cieli, cioè un movimento sempre in atto. In conclusione: poiché c'è un movimento eterno, è necessario che ci sia un Principio eterno che lo produca, ed è necessario che tale Principio sia a) eterno, se eterno è ciò che esso causa, b) immobile, se la causa assolutamente prima del mobile è l'immobile e c) atto puro, se è sempre in atto il movimento che esso causa 55 • È, questo, il Motore immobile, che è non altro se-non la sostanza soprasensibile di cui eravamo in cerca. 55

Cfr. Metafisica, A 6-7.

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Ma, in quale modo può, il Primo Motore, muovere restando assolutamente immobile? C'è, nell'ambito delle cose che noi conosciamo, un qualcosa che sappia muovere, senza muoversi esso medesimo? Aristotele risponde additando come esempio di cose siffatte l'oggetto del desiderio e dell'intelligenza. L'oggetto del desiderio è ciò che è bello e buono; ora il bello ed il buono attraggono la volontà dell'uomo senza muoversi essi stessi in alcun modo; cosl anche l'intelligibile muove l'intelligenza senza muoversi esso stesso. E di questo tipo è anche la causalità esercitata dal Primo Motore, cioè dalla sostanza prima: il Primo Motore muove come l'oggetto di amore attrae l'amante (wc; &pwfJ.e:vov xLve:i:) 56 , e, come tale, resta immobile assolutamente. Come è evidente, la causalità del Primo Motore, non è una causalità di tipo efficiente, del tipo di quella esercitata da una mano che muove un corpo, o dallo scultore che incava il marmo, o dal padre che genera il figlio. Dio, invece, attrae; e attrae come oggetto d'amore, vale a dire a guisa di fine; la causalità del Motore immobile è quindi, propriamente, una causalità di tipo finale. Gli interpreti hanno a lungo discusso su questa questione, con diverso esito. C'è stato, ad esempio, chi ha preteso - scavando in vario modo nei testi aristotelici ed esplicitando i presupposti di certe asserzioni - di trovare in Aristotele, e più che implicitamente, il concetto di creazione, e dunque una vera e propria causalità efficiente del Motore immobile 57 • Ma, in realtà,

Metafisica, A 7, 1072 b 3. Cosl ad esempio F. Brentano, Ueber den Creationismus des Aristate/es, in « Sitzungsberichte der Akademie der Wissensch. in Wien. Philos.hist. Klasse », Bd. 101, 1882, pp. 95·126; Idem, Aristoteles und seine Weltanschauung, Leipzig 1911 (Darmstadt 1967), e, sempre dello stesso, Die Psychologie des Aristoteles, Mainz 1867 (Darmstadt 1967), pp. 234-250 (l'appendice intitolata: Von dem Wirken, insbesondere dem schopferischen Wirken des Aristotelischen Gottes). 56 57

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i testi aristotelici e i loro contesti non autorizzano tale esegesi: del resto il teorema della creazione non è stato guadagnato dalla speculazione greca ed è, invece, proprio solamente della successiva speculazione medievale. Pare corretto, invece, dire, con il Ross: « [ ... ] Dio è causa efficiente in grazia del suo essere causa finale, ma in nessun altro modo » 58 • Il mondo, anche se è tutto influenzato da Dio, dall'attrazione che Egli esercita come supremo fine, quindi dall'anelito del perfetto, non ha avuto un cominciamento. Non c'è stato un momento in cui c'era il caos (o il non-cosmo), proprio perché, se così fosse, sarebbe contraddetto il teorema della priorità dell'atto sulla potenza: prima, cioè, sarebbe il caos, che è potenza, poi sarebbe il mondo che è atto. Ma questo è tanto più assurdo, in quanto Dio è eterno: essendo eterno Dio da sempre ha attratto come oggetto d'amore l'universo, che, dunque, da sempre ha dovuto essere quale è 59 •

11.

Natura del Motore Immobile

Questo Principio, dal quale « dipendono il cielo e la natura », è Vita. E quale vita? Quella che più di tutte è eccellente e perfetta: quella vita che a noi è possibile solo per breve tempo: la vita del puro pensiero, la vita dell'attività contemplativa. Ecco lo stupendo passo in cui Aristotele fatto estremamente raro per lui - si commuove, e in cui il suo linguaggio si fa quasi poesia, canto, lirica: Da un tale principio, dunque, dipendono il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente: è quel modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo. E in quello stato egli è sempre. A noi questo è impossibile, ma a lui non è impossibile, 58 D. Ross, Aristotle, London 1923; traduzione italiana a cura di A. Spinelli, Bari 1946, p. 269. 59 Cfr. Metafisica, A 6, passim.

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poiché l'atto del suo vivere è piacere. E anche per noi veglia, sensazione e conoscenza sono in sommo grado piacevoli, proprio perché sono atto e, in virtù di questo, anche speranze e ricordi [ ... ] . Se, dunque, in questa felice condizione in cui noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è meraviglioso; e se egli si trova in una condizione superiore, è ancor più meraviglioso. E in questa condizione egli effettivamente si trova. Ed egli è anche Vita, perché l'attività dell'intelligenza è Vita, ed egli è appunto quell'attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo, infatti, che Dio è vivente, eterno ed ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo, dunque, è Dio 60 •

Ma che cosa pensa Dio? Dio pensa la cosa più eccellente. Ma la cosa più eccellente è Dio stesso. Dio, dunque, pensa se stesso: è attività contemplativa di se medesimo: è pensiero di pensiero ( v6l)atç vo~ae:O>ç ). Ecco le precise affermazioni del filosofo: Il pensiero che è pensiero per sé, ha come oggetto ciò che è di per sé più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L'intelligenza pensa se stessa, cogliendosi come intelligibile: infatti, essa diventa intelligibile intuendo e pensando sé, cosicché intelligenza ed intelligibile coincidono. L'intelligenza è, infatti, ciò che è capace di cogliere l'intelligibile e la sostanza, ed è in atto quando li possiede. Pertanto, più ancora che quella capacità, è questo possesso ciò che di divino ha l'intelligenza, e l'attività contemplativa è ciò che c'è di più piacevole e di più eccellente 61 •

Ancora: Se, dunque, l'Intelligenza divina è ciò che c'è di più eccellente, pensa se stessa, e il suo pensiero è pensiero di pensiero 62 •

Dio, dunque, è eterno, immobile, atto puro scevro di potenzialità e di materia, vita spirituale e pensiero di pen60 Metafisica, A 7, 1072 b 13-18 e 24-30. " Metafisica, A 7, 1072 b 18-24. 62 Metafisica, A 9, 1074 b 34-35.

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siero. Tale essendo, ovviamente, «non può avere alcuna grandezza », ma deve essere « senza parti ed indivisibile ». E deve altresì essere « impassibile ed inalterabile » 63 • Unità e molteplicità del Divino

12.

Aristotele ha però creduto che Dio non bastasse, da solo, a spiegare il movimento di tutte le sfere delle quali egli pensava che il cielo fosse costituito. Dio muove direttamente il primo mobile - il cielo delle stelle fisse -; ma fra questa sfera e la Terra vi sono molte altre sfere concentriche, digradanti e rinchiuse l'una nell'altra. Chi muove tutte queste sfere? Le risposte potrebbero essere due: o sono mosse dal moto derivante dal primo cielo, che si trasmette meccanicamente dall'una all'altra; ovvero sono mosse da altre sostanze soprasensibili, immobili ed eterne, che muovono in modo analogo al Primo Motore. La seconda soluzione è quella abbracciata da Aristotele. In effetti, la prima non poteva quadrare con la concezione della diversità dei vari moti delle differenti sfere. I moti delle varie sfere erano, infatti, secondo le vedute astronomiche di allora, diversi e non uniformi, al fine di poter produrre, combinandosi in vario modo, il moto dei pianeti (che non è un moto perfettamente circolare). Pertanto non si vedrebbe come dal moto del primo cielo potrebbero derivare differenti moti, né come dalla attrazione uniforme di un unico Motore potrebbero derivare moti circolari diretti in senso opposto. Ecco per quali ragioni Aristotele introdusse la molteplicità dei motori, che pensò come sostanze soprasensibili, capaci di muovere in modo analogo a Dio, vale a dire come cause finali (cause finali relativamente alle singole sfere). 63

Cfr. Metafisica, A 7, 1973 a 5-13.

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In base, poi, ai calcoli dell'astronomo del suo tempo, Callippo, e operando alcune correzioni che personalmente riteneva necessarie, Aristotele stabill in misura di cinquantacinque il numero delle sfere, ammettendo, peraltro, una possibile diminuzione di esse a quarantasette. E se tante sono le sfere, altrettante dovranno essere le sostanze immobili ed eterne che producono i movimenti di quelle. Dio o Primo Motore muove direttamente la prima sfera, e solo indirettamente le altre; altre cinquantacinque sostanze soprasensibili muovono le altre cinquantacinque sfere 64 • È, questa, una forma di politeismo? Per Aristotele, così come per Platone, e in genere per il Greco, il Divino designa un'ampia sfera, nella quale, a diverso titolo, come i lettori di questa nostra Storia della filosofia antica ormai ben sanno, rientrano molteplici e differenti realtà. Il Divino già per i Naturalisti includeva, strutturalmente, molti enti. Lo stesso vale per Platone: divine sono, per Platone, le Idee del Bene e del Bello e, in generale, tutte le Idee; divino è il Demiurgo; divine sono le anime; divini sono gli astri e divino è il mondo. Analogamente, per Aristotele, divino è il Motore Immobile, divine sono le sostanze soprasensibili ed immobili motrici dei cieli, divini sono gli astri, le stelle, le sfere e l'etere che le costituisce, e divina è anche l'anima intellettiva degli uomini. Divino, insomma, è tutto ciò che è eterno e incorruttibile. Il Greco (e in quest'opera abbiamo ampiamente dimostrato anche questo punto) non ha sentito l'antitesi unità-molteplicità del divino: e non è quindi puramente contingente il fatto che mai la questione sia stata esplicitamente messa a tema in questi termini. Premesso quindi che, data la forma mentis del Greco, l'esistenza di cinquantacinque sostanze soprasensibili oltre la prima, cioè oltre il Motore Immobile, doveva sembrare cosa assai meno strana che a noi; ebbene, pur premesso questo, .. Cfr. Metafisica, A 8, passim.

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dobbiamo dire che è innegabile un tentativo di unificazione da parte di Aristotele. Innanzitutto egli ha esplicitamente chiamato col termine Dio in senso forte solo il Primo Motore. Nello stesso luogo dove è esposta la dottrina della pluralità dei motori, Aristotele ribadisce l'unicità del Motore Primo - Dio in senso vero e proprio - e da questa unicità deduce anche l'unicità del mondo. E il libro teologico della Metafisica, come è noto, si chiude con la solenne affermazione che le cose non vogliono essere mal governate da una molteplicità di principi, suggellata, quasi per dare maggior solennità, dal significativo verso di Omero: il governo di molti non è buono, uno solo sia il comandante 65 • È chiaro, allora, che le altre sostanze immobili che muovono le singole sfere celesti, Aristotele non può che averle concepite come gerarchicamente inferiori al Primo Motore Immobile. E, in effetti, la loro gerarchia risulta essere la stessa di quella data dall'ordine delle sfere che muovono gli astri. Perciò i motori delle cinquantacinque sfere sono inferiori al Primo Motore e, ulteriormente, sono gerarchizzati l'uno rispetto all'altro 66 • Il che ben spiega come possano essere sostanze individue diverse l'una dall'altra: sono forme pure immateriali, una inferiore all'altra. Tuttavia esse sono, in qualche modo, Dei inferiori. In Aristotele c'è dunque un monoteismo esigenziale ben più che effettivo. Esigenziale, perché egli ha cercato di staccare nettamente il Primo Motore dagli altri, ponendolo su un piano tutto diverso, sl da poterlo legittimamente chiamare unico e da questa unicità dedurre la unicità del mondo. Ma questa esigenza si infrange, perché le cinquantacinque Omero, Iliade, n, v. 204. Cfr. Metafisica, A 8, 1073 b 1-3: «Dunque, che ci siano queste sostanze, e che, di queste, una venga prima e l'altra segua nello stesso ordine gerarchico (xa'tà 'tTJV aÙ't'ÌjV 'tti#v) dei movimenti degli astri, è evidente». 65

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sostanze motrici sono parimenti eterne sostanze immateriali che non dipendono dal Primo Motore quanto all'essere. Il Dio aristotelico non è creatore delle cinquantacinque intelligenze motrici: e di qui nascono tutte le difficoltà di cui ragioniamo. Lo Stagirita, poi, ha lasciato completamente inspiegato il preciso rapporto sussistente fra Dio e queste sostanze, e, anche, fra queste sostanze e le sfere che esse muovono. Il Medioevo trasformerà queste sostanze nelle celebri « intelligenze angeliche » motrici, ma potrà operare questa trasformazione appunto in virtù del concetto di creazione.

13.

Dio e il mondo

Dio (e parlando di Dio alludiamo al Primo Motore), come vedemmo, pensa e contempla se medesimo. Pensa anche il mondo e gli uomini che sono nel mondo? Aristotele non ha fornito una chiara soluzione al problema, e sembra, almeno in una certa misura, propendere per la negativa. Che ci sia il mondo e quali siano i principi universali del mondo è conoscenza che certamente il Dio aristotelico possiede. D'altra parte, se Dio è esso stesso principio supremo, è chiaro, anche, che dovrà conoscersi come tale: conoscerà, cioè, se medesimo, anche come oggetto di amore e di attrazione dell'universo tutto. È certo, però, che gli individui in quanto tali, ossia nelle loro limitazioni, deficienze e povertà, non sono da Dio conosciuti: questa conoscenza dell'imperfetto, agli occhi di Aristotele, rappresenterebbe una diminutio per Dio. Ecco i testi più eloquenti: Inoltre, sia nell'ipotesi che la sua [ = della intelligenza di Dio] sostanza sia la capacità di intendere, sia nell'ipotesi che la sua

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sostanza sia l'atto dell'intendere, che cosa pensa? O se medesima, oppure qualcosa di diverso, o pensa sempre la medesima cosa, o qualcosa di sempre diverso. Ma è o non è cosa ben differente il pensare ciò che è bello, ovvero una cosa qualsiasi? O non è assurdo che essa pensi certe cose? È pertanto evidente che essa pensa ciò che è più divino e più degno di onore e che l'oggetto del suo pensare non muta: il mutamento, infatti, è sempre verso il peggio, e questo mutamento costituisce pur sempre una forma di movimento 67 •

E subito appresso, dimostrando che l'intelligenza divina è per sua natura atto, lo Stagirita soggiunge: In primo luogo [. .. ] se non è pensiero in atto, ma in potenza, logicamente la continuità del pensare per essa costituirebbe una fatica. Inoltre, è evidente che qualcos'altro sarebbe più degno di onore che non l'Intelligenza: ossia l'Intelligibile. Infatti, la capacità di pensare e l'attività di pensiero appartengono anche a colui che pensa la cosa più indegna: sicché, se questa è, invece, cosa da evitare - è meglio, infatti, non vedere certe cose, che vederle -, ciò che c'è di più eccellente non potrebbe essere il pensiero. Se, dunque, l'Intelligenza divina è ciò che c'è di più eccellente, pensa se stessa, e il suo pensiero è pensiero di pensiero 68 •

Da questi passi sembra, dunque, doversi concludere che gli individui empirici, secondo Aristotele, sono indegni, appunto nella loro empiricità e particolarità, del pensiero divino. Un'altra limitazione del Dio aristotelico - che ha lo stesso fondamento della precedente: il non aver creato il mondo, l'uomo, le singole anime - consiste nel fatto che egli è oggetto d'amore, ma non ama (o, al più, ama solo se medesimo). Gli individui, in quanto tali, non sono affatto oggetto dell'amore divino: Dio non si piega verso gli uomini e meno che mai si piega verso il singolo uomo. Ciascuno degli uomini, come ciascuna cosa, tende in vario modo a Dio, ma " Metafisica, A 9, 1074 b 21-27. Metafisica, A 9, 1074 b 28-35.

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Dio, come non può conoscere, così non può amare nessuno dei singoli uomini 69 • Occorreva, perché si andasse oltre, che venisse guadagnato il teorema della creazione: ma la speculazione greca non giungerà a tale guadagno, nemmeno con il Neoplatonismo 7a.

69 In altri termini: Dio è solo amato e non, anche, amante; egli è oggetto e non anche soggetto di amore. Anche per Aristotele, così come per Platone, è impensabile che Dio (l'Assoluto) ami qualcosa (qualcosa di altro da sé), dato che amore è semp;c tendenza a possedere qualcosa di cui si è privi, e Dio non è privo di nulla. (È totalmente sconosciuta al Greco la dimensione dell'amore come dono gratuito di sé). Inoltre Dio non può amare, perché è intelligenza pura e, secondo Aristotele, l'intelligenza pura è impassibile e come tale non ama (cfr. il passo del De anima che riportiamo a pp. 480 sg.). 70 Per un approfondimento di tutti i problemi concernenti la metafisica aristotelica il lettore troverà tutte le indicazioni occorrenti nella ricchissima bibliografia redatta dall'Owens, The Doctrine of Being ... , pp. 425-446, nella bibliografia ragionata che abbiamo aggiunto alla seconda e terza edizione del nostro volume Il concetto di filosofia prima e l'unità de/l,; Metafi~Àoa'oq>TJ-rÉov q>~Àocroq>TJ'tÉov q>~ÀOO'O(j)T]'tÉOV q>~ÀOO"O(j)TJ'tÉOV o "ltaV'tWç O"Oq>Tj'tÉOVo EL J.l.ÈV yàp EO"'t~, "ltav-rwc; cp~Àocroq>E~v ova'TJELÀOJ.J.EV ~TJ'tEiv ovx ~O''t~ ~TJ-rovv-rEc; Bè cp~Àoa'ocpovJ.J.Ev, É"ltE~BiJ at-rLa -rijc; cp~Àoa'ocpLac; ÉO'-rLv >>o

xat EL J.l.TJ if.pa q>~ÀO· oq>ELÀOJ.l.EV l11-r~. xat cp~Àotrocp{a, -rò ~TJ'tE~v

« [ 000] se si deve filosofare, si deve filosofare, e se

non si deve filosofare, si deve ugualmente filosofare; in ogni caso dunque si deve filosofare; se infatti la filosofia esiste, siamo tenuti in tutti i modi a filosofare, dato appunto che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come la filosofia non esiste; ma, cercando, filosofiamo, perché il cercare è la causa della losofia ~o Aristotele, Protrettico, fro 2

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I. LA FORTUNA DELLA FILOSOFIA ARISTOTELICA

La speculazione aristotelica ha avuto un influsso di portata storica e anche sovrastorica che :non ha forse paragoni nell'ambito di tutto l'arco dell'intera esperienza culturale occidentale. Se immediatamente dopo la sua morte Aristotele tacque e non fu più inteso nell'ambito dello stesso Peripato (come, del resto, Platone stesso finl assai presto per non essere più inteso nella sua stessa Accademia), rinacque, già alla fine dell'età antica, nell'ambito dello stesso pensiero greco, con la stagione dei grandi commentatori greci che in lui cercarono un sicuro punto d'appoggio: da Alessandro di Afrodisia (200 d. C.) alla schiera dei vari commentatori neoplatonici. Già nel secolo VI d. C. Boezio faceva conoscere all'Occidente la logica, traducendo l'Organon (di cui, però, la cultura assorbi, in un primo momento, soprattutto le Categorie e il De Interpretatione) e fino al secolo xn sulla logica aristotelica si imperniò fondamentalmente tutto l'interesse degli Occidentali. Ma già all'inizio del secolo IX gli Arabi (dal Medio Oriente alla Spagna) riportarono in primo piano tutto quanto il pensiero aristotelico, commentandolo e ripensandolo a fondo. E in gran parte per influsso degli Arabi l'interesse per il pensiero dello Stagirita riflul in Occidente, e nei secoli XIII e XIV assistiamo, con la Scolastica, al più grandioso fenomeno di rifioritura che l'aristotelismo abbia conosciuto: in questo periodo Aristotele perse, però, quasi tutti i suoi contorni storici di uomo di una data epoca, e divenne sim-

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ARISTOTELE E LA SISTEMAZIONE DEL SAPERE FILOSOFICO

bolo del « philosophus » per eccellenza, divenne « il maestro di color che sanno», divenne quasi emblema di tutto quanto la ragione può dire con le sue pure forze, al di qua della fede. E dopo la fioritura scolastica venne il ripensamento rinascimentale, che dal secolo xv si protrasse fino alla fine del secolo XVII (soprattutto nell'Università di Padova), e che nel tentativo di ritornare all'Aristotele genuino, cioè all'Aristotele spogliato dai panni di cui l'aveva rivestito la Scolastica, in realtà, finì per identificare Aristotele con il naturalista antiplatonico, come già sappiamo. Nel secolo XIX, in seguito alla fioritura di studi filologici e alla grande edizione di tutte le opere del nostro filosofo curate dal Bekker, Aristotele si inserisce ancora, anche se parzialmente, nel vivo della cultura filosofica: da Brentano, uno dei più profondi conoscitori dello Stagirita, attinge sia la fenomenologia sia Heidegger, il cui capolavoro Essere e tempo muove esattamente dal libro del Brentano: I molteplici significati dell'essere secondo Aristotele. E un punto di riferimento Aristotele è considerato, poi, dalle correnti della Neoscolastica. Della rinascita di studi di carattere storico-filologico promossa dal nuovo metodo jaegeriano avutasi nel corso del Novecento, abbiamo già detto quanto occorre nella sezione introduttiva. Ebbene, è proprio a causa di questa signoria spirituale troppo spesso esercitata dal pensiero aristotelico e dalla figura di Aristotele che si scatenarono, oltre che indiscriminati amori che raggiunsero veri e propri parossistici atti di latrfa (uno degli ultimi aristotelici all'inizio dell'età moderna giunse a rifiutare di guardare nel cannocchiale, pur di non dover dar torto ad Aristotele), altresì avversione e disprezzo altrettanto indiscriminati ed ostilità irrazionali e viscerali veramente assurde, e non solo nell'ambito dei teoreti, ma addirittura in quello degli storici. Per conseguenza non accade di frequente di leggere una corretta e misurata valutazione complessiva del pensiero dello Stagirita. Vogliamo riportare, a ragion d'esempio, uno dei più cap-

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LA FORTUNA DELLA FILOSOFIA ARISTOTELICA

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ziosi e partigiani giudizi dato proprio dal maggior storico francese della filosofia antica degli ultimi tempi, in modo che il lettore possa farsi un'idea adeguata di quanto stiamo dicendo: « Forse si potrebbe definire senza ingiustizia Aristotele - scrive Léon Robin - dicendo che fu troppo e troppo poco filosofo: dialettico sapiente e abile, non fu né profondo né originale. La parte più importante delle sue invenzioni consiste in formule ben tornite, in distinzioni verbali facili da maneggiare; egli costrul una macchina i cui ingranaggi, una volta messi in moto, dànno l'illusione di una riflessione penetrante e di un sapere reale. Malauguratamente, di tale macchina egli si servi per combattere tanto Democrito che Platone. Cosl egli stornò per lungo tempo la scienza dalle vie in cui essa avrebbe potuto compiere abbastanza rapidamente decisivi progressi. Invece [ ... ] egli fu un poderoso enciclopedista e un gran professore: padroneggiò l'universalità delle cognizioni del suo tempo e seppe esporle sistematicamente con grande abilità in lezioni e trattati. La vastità e la varietà della sua opera, alcune innegabili qualità di elaborazione e presentazione (che sono però cosa ben diversa dallo spirito di ricerca in materia di scienza come di filosofia): ecco, prescindendo dalle speciali circostanze storiche, ciò che procurò un'incomparabile fortuna alla sua filosofia e al suo nome » 1• Naturalmente, il Robin stesso finisce di fatto per smentire se medesimo, tant'è che, nell'economia del suo lavoro, deve dedicare ad Aristotele più spazio che agli altri pensatori, e in particolare più spazio che allo stesso Platone, e quanto egli dice esponendo Aristotele puntualmente capovolge il suo giudizio finale. Ma noi abbiamo voluto leggere questo giudizio a mo' di paradigma, ossia per mostrare quanta acredine e inimicizia, cioè quanto di irrazionale condizbni perfino il giudizio degli storici, che dovrebbero essere sempre « oltre la mischia ». ' Robin, Storia del pensiero greco, pp. 374 sg.

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II. VERTICI E APORIE DELLA FILOSOFIA ARISTOTELICA

. Chi ci ha fin qtii seguito, si sarà reso pienamente conto che la fortuna dell'aristotelismo ha ben altri motivi che non siano le semplici «circostanze storiche», o, peggio, l'« enciclopedismo », o, peggio ancora, le « ben tornite formule ». In primo luogo, ricorderemo i vertici della metafisica. La riforma della platonica concezione delle Idee e insieme l'approfondimento dell'esito fondamentale della« seconda navigazione » portarono Aristotele alla grande scoperta del Motore Immobile, vale a dire alla scoperta dell'Assoluto concepito non come suprema realtà intelligibile, bensl come suprema Intelligenza (autointelligenza, autopensiero ). E a questa scoperta ha attinto tutto l'Occidente, in diversa maniera: dai teologi medievali, che_ la poser0 alla base del ripensamento filosofico dell'idea di Dio di cui parlano le Scritture, allo Hegel, che non esitò a considerare quest'idea speculativa quanto « v'ha di migliore e più libero », e a vedere in essa la prima intuizione storica dell'Assoluto come autopensiero. Le aporie cui diede luogo questa scoperta sono altrettanto notevoli: la sua assoluta trascendenza, sdegnosa di qualsiasi fattivo legame con il mondo e con gli uomini, doveva rendere assai difficilmente comprensibili i legami del mondo (e lo stesso strutturarsi del mondo) e degli uomini con essa. Il mondo esiste da sempre e per sempre, e da sempre e per sempre tende al Principio Primo, ma non perché Egli voglia o progetti questo, ma so-

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lo perché, essendo il Bene supremo, come tale non può non attrarre; ma se è così, Egli attrae in modo fatale e quasi meccanico (quasi come attrae il magnete). Senza contare, poi, le aporie teologiche che nascono dall'aver Aristotele ammesso altre Intelligenze (sia pure inferiori) accanto e al di sotto della Prima. Da tutte queste difficoltà solo il teorema della creazione avrebbe potuto offrire una via d'uscita: ma si tratta di un teorema rimasto sconosciuto a tutta la grecità. In ogni caso, l'aver colto l'Assoluto come spirito e come pensiero, come sostanza immateriale e intelligenza, resta la più alta conquista della metafisica antica. E accanto alla scoperta principale dobbiamo sottolineare, sia pure solo di passaggio, l'importanza delle figure speculative particolari della metafisica, quali: essere, categoria, sostanza, accidente, materia, atto, forma, potenza e tutte le altre a queste legate, intorno alle quali si polarizzerà la discussione per secoli interi (anche quando, come nell'età del razionalismo e dell'empirismo, si tenterà di dare ad esse significati completamente nuovi). E per quanto concerne la fisica aristotelica (compresa la cosmologia), il discorso non muta: sappiamo che la fisica dello Stagirita è, in realtà, una metafisica del sensibile e che, come tale, essa va valutata: essa svolge un discorso diverso rispetto a quello con cui Galileo aprirà la grande stagione della scienza moderna: e quando gli storici rimprovereranno alla fisica aristotelica di aver appunto inceppato la scienza fino a Galileo, dimenticheranno esattamente questo essenziale rilievo di struttura, e dimenticheranno, anche, quanto abbia contribuito questa metafisica della natura ad affinare quel logos che creerà la vera scienza della natura. Anche nella psicologia i guadagni aristotelici sono stati essenziali. Ancora una volta tali guadagni hanno poco a che fare con la moderna scienza empirica che porta lo

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stesso nome, dato che la psicologia dello Stagirita ha una base fortemente metafisica e non è stata affatto sostituita da quella, che procede su altri binari. La spiegazione della conoscenza come progressiva smaterializzazione della forma, che comincia dai sensi e termina con l'intelletto, resta probabilmente il contributo maggiore dato dallo Stagirita in questo ambito. Le aporie implicate nella platonica dottrina della anamnesi vengono superate con un sapiente uso dei concetti di potenza e atto, come s'è visto. Ma rispunta una ulteriore aporia a più alto livello: in noi c'è un Nous, uno Spirito, un Pensiero che agisce mettendo in atto la più alta conoscenza (che è poi la più alta forma di smaterializzazione). Esso viene « dal di fuori » ed è immortale, anzi è il « divino in noi »: ma come esso venga dal di fuori di noi, quale ne sia l'origine e quale il destino, Aristotele non dice. E tutte le successive interpretazioni tentate sono fuori strada, perché Aristotele non lo poteva strutturalmente dire: o avrebbe dovuto riprendere i miti escatologici di Platone, da lui accolti nei giovanili scritti essoterici, ma poi lasciati completamente cadere, oppure, daccapo, avrebbe dovuto far appello a un principio creazionistico. Essenziali furono le acquisizioni delle Etiche e grandissimi i loro influssi, in tutti i tempi. Nel pensiero morale Aristotele, per la verità, è assai più platonico di quanto non si riconosca comunemente. L'idea base dell'etica aristotelica è fondamentalmente quella socratico-platonica secondo cui la essenza dell'uomo è data dalla sua anima e quindi i veri valori sono i valori dell'anima, rispetto ai quali gli altri beni assumono solo un significato strumentale. Manca, invece, all'etica aristotelica la dimensione religiosa ed escatologica che è propria di Platone ed è questa mancanza (insieme all'attenta fenomenologia di carattere realistico che Aristotele profonde a piene mani) che la fa apparire più diversa da quella platonica di quanto non lo sia in realtà. La socratico-platonica «cura dell'anima » resta l'idea di fondo: la virtù è solo la

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virtù dell'anima, così come la felicità è solo la felicità dell'anima. Dalla distinzione delle parti dell'anima è dedotta la principale distinzione delle virtù e nella parte più alta dell'anima è posta la più alta virtù. Resta in ogni caso fondamentale che Aristotele dimostri come, anche a prescindere dai motivi religiosi platonici, quel tipo di etica regga, altresì su basi puramente filosofiche. Aristotele tenta, inoltre, spingendosi oltre Socrate e Platone, di spiegare la psicologia dell'atto morale, rivalutando quegli elementi volitivi che Platone introdusse nell'anima a partire dalla Repubblica, ma che poi non seppe sfruttare a fondo. Ma, questa volta, il successo è relativo; Aristotele capisce che nel nostro agire morale è determinante la libertà: ma, poi, che cosa siano la volontà ed il libero arbitrio non riesce a determinarlo e ripetutamente il libero arbitrio gli sfugge fra le mani nell'istante stesso in cui tenta di afferrarlo. Anch'egli, come Platone, pone nella conoscenza (o, per dirla con il suo stesso linguaggio, nelle virtù intellettive) la più alta areté dell'uomo, e nella contemplazione del vero pone ciò che fa essere !'uomo pienamente e perfettamente se medesimo. Aporetica resta, nell'etica aristotelica, la determinazione del vero cespite dell'agire morale: le virtù· etiche, da un lato, suppongono, per realizzarsi, la virtù intellettuale della saggezza (phr6nesis), ma la saggezza può esserci solo se ci sono le virtù etiche (e viceversa). Inoltre, per diventare buoni occorre volere fini buoni; ma riconosce i veri fini buoni solamente chi è già buono; sicché, daccapo, si gira in circolo. E la scelta razionale in cui soprattutto gli studiosi hanno creduto di rinvenire la volontà e la libertà, in verità per Aristotele è solamente scelta di mezzi e non di fini (che sono voluti anteriormente alla scelta). Anche l'etica aristotelica è in larga misura intellettualistica: la cifra che caratterizza l'uomo perfetto (così come caratterizza Dio) è la ragione e la conoscenza, non la volontà. Ancor più accentuate sono le aporie della politica (che -

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si ricordi è parte integrante dell'etica). Accanto a splendide intuizioni (come la definizione dell'uomo come animale strutturalmente politico e una serie di proposizioni da questa scaturienti) noi ritroviamo la teorizzazione dello schiavismo e perfino del razzismo. Aristotele non sa vedere al di là della polis e continua acredere che la polis sia l'istituzione politicamente più perfetta. Il suo discepolo Alessandro andava ellenizzando i barbari e apriva nuove vie alla storia, ma lo Stagirita non poteva capire nulla di tutto questo: i barbari erano, per lui, per natura esseri inferiori e, quindi, non potevano né essere parificati all'uomo greco, né essere ellenizzati, né essere veri soggetti attivi di organismi politici differenti dalla polis. Vedemmo con ampiezza come, per la verità, queste aporie derivino più che dai principi del filosofo, dalle ipoteche storico-culturali da cui egli era condizionato. Ma, questo, è tanto più interessante, perché mostra come nella comprensione adeguata dell'uomo e dei suoi destini non siano solo le componenti speculative che entrano in gioco. Applicati all'uomo, i principi puramente filosofici si dimostrano suscettibili di un largo margine di manipolabilità e di plasticità. In particolare, Aristotele non ha potuto dare un vero significato all'uomo, perché non lo ha posto in connessione con Dio: poiché il suo Dio non è creatore, non si interessa degli uomini ed Egli resta estraneo sia al destino dei singoli sia al destino dei popoli. Gli uomini esistettero da sempre ed esisteranno per sempre (giacché né il mondo né le specie viventi hanno avuto una origine), ma varranno, più che come concreti individui, come portatori e trasmettitori del loro eidos, cioè della razionalità che incarnano e nella misura in cui la incarnano; ma il singolo uomo, sotto il profilo della individualità, finisce per risultare insignificante. Solo la rivoluzione del Cristianesimo saprà rivalutare l'uomo appunto come singolo e saprà spiegare qual è la vera radice del bene e del male, cioè della responsabilità morale: e solo il concetto di « figli di Dio » offrirà lo strumento per abbattere defi-

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nitivamente le distinzioni uomo-donna, libero-schiavo, grecobarbaro e tutte le altre a queste connesse e saprà far capire in che cosa consista la vera uguaglianza di ciascuno e di tutti gli uomini. Del significato e della portata della logica aristotelica abbiamo già a lungo detto: difficilmente si potrebbe sostenere e dimostrare che le nuove logiche dell'età moderna, potrebbero sussistere se Aristotele non avesse scritto il suo Organon. Il che non significa affatto, com'è evidente, che dunque il sillogismo costituisca, come pretende Aristotele, la forma di ogni e qualsiasi corretto argomentare e anche la struttura propria di qualsivoglia mediazione e inferenza. Del resto, nelle varie branche del sapere filosofico, Aristotele stesso si avvale largamente di altri procedimenti, che non sono propriamente quelli deduttivi. E abbiamo anche visto come l'induzione e la stessa platonica intuizione ,indichino, in Aristotele, i dichiarati limiti della deduzione sillogistica. Ma la logica aristotelica rimane, in ogni caso, come il ceppo di cui le successive logiche sono le ramificazioni. Infine, circa i rapporti di Aristotele con Platone abbiamo detto tutto quanto occorre nel paragrafo iniziale. Qui, a conclusione, vogliamo solo aggiungere questo: l'immanentizzazione delle Idee e la loro trasformazione in essenze (ossia in strutture intelligibili del sensibile), che, come abbiamo visto, ha portato non già alla negazione dell'esistenza di sostanze soprasensibili, ma ad una più alta concezione delle sostanze soprasensibili come intelligenze (invece che come intelligibili), apriva una ulteriore aporia: quale rapporto esiste fra queste essenze intelligibili immanenti e l'Intelligenza (e le Intelligenze) trascendente? L'intelligibile immanente dipende o no dall'Intelligenza trascendente? E se dipende, in quale modo dipende? Bisognava fare delle essenze intelligibili i pensieri stessi dell'Intelligenza creatrice e considerarli cause esem-

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plari, sfruttando quell'intuizione solo vagamente balenata a Platone con la dottrina del Demiurgo, ma tosto compromessa nel contesto del pensiero platonico stesso, dato che il Demiurgo non è che un Dio inferiore, ben al di sotto del mondo delle Idee. Anche da queste aporie si sarebbe potuto uscire solamente con il teorema della creazione. E per terminare l'esposizione e l'interpretazione del pensiero di Aristotele, che è certamente la più compiuta espressione e quasi la sintesi della filosofia classica, la quale a sua volta è la forma di filosofia speculativamente e metafìsicamente più impegnata, vogliamo, chiudendo il discorso in cerchio rispetto a quanto abbiamo detto nella Introduzione, ribadire ancora un punto. Difendendo la filosofia contro i negatori di essa, Aristotele scriveva nel Protrettico: « Sia che si debba filosofare, sia che non si debba filosofare, bisogna filosofare; ma poiché fra il filosofarè e il non filosofare non si dà altra scelta, si deve in ogni caso filosofare » 1 • Il che vuoi dire: se si deve filosofare, si filosofa senz'altro; se non si deve filosofare, allora bisogna filosofare per dimostrare che non bisogna: ma questo è in ogni caso filosofare. Dal filosofare non è dunque strutturalmente possibile prescindere. Ebbene, quando Arsitotele esprimeva queste sacrosante· verità, era ben lungi dal sospettare che proprio la sua filosofia sarebbe stata in larga parte determinante nella storia dei contenuti dell'umano filosofare: sono stati proprio concetti, principi e categorie aristoteliche ad esser più volte invocati pro o contro il filosofare, ma con gli esiti che il dilemma sopra letto a-priori dimostra essere inevitabili. E non creda l'uomo di oggi, dopo Marx e dopo Freud, di aver lasciato definitivamente alle spalle la aimensione classica della filosofia, di cui la formulazione aristotelica è la più tipica:. se non si rifugerà rigorosamente negli stretti ambiti delle ' Traduzione di E. Berti.

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scienze empiriche, se non si limiterà esclusivamente all'impegno politico o se non si consegnerà per intero all'ansia esistenziale, e tenterà qualsivoglia asserto di carattere meta-settoriale e meta-empirico, si ritroverà puntualmente in quell'inesorabile dile!Jlma sopra riferito, e per di più - lo sappia o no - si ri-_ troverà a muovere categorie, che, per diretta figliazione o per dialettica e mediata trasformazione e contrapposizione, derivano da Aristotele e da quella filosofia classica che in lui ha trovato la forma più compiuta. E allora, non solo è follia rinunciare a filosofare, ma è altresl follia, dovendo inesorabilmente filosofare, credere di potersi limitare all'oggi, giacché il presente non è intelligibile senza il passato da cui nasce ed inoltre non è mai veramente attuale o è solo illusoriamente attuale: perché attuale è non già il momento che fugge, ma ciò che resiste al di là del momento, e, al limite, attuale veramente è solo l'eterno.

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Stampato dalla Tipolitografia Queriniana - Brescia Settembre 1988

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ILLUSTRAZIONE DELLE FIGURE DI PLATONE E ARISTOTELE DELLA «SCUOLA DI ATENE» DI RAFFAELLO RIPRODOTTE IN COPERTINA Le due figure riprodotte nella copertina, ormai divenute emblematiche, che rappresentano Platone e Aristotele, occupano la parte centrale del grande affresco di Raffaello intitolato «La Scuola di Atene», che si trova nelle Stanze Vaticane. Mediante la metafora pittorica della mano destra alzata con l'indice puntato verso il cielo, Raffaello esprime, in maniera splendida, il supremo messaggio metafisico di Platone fondato per intero sulla trascendenza. Il filosofo porta nell'altra mano il Timeo, che, in larga misura, è stato il suo dialogo più letto e più influente. Comunemente si ritiene che i tratti del volto con cui Raffaello ha rappresentato Platone siano quelli di Leonardo. Ma la cosa suscita problemi. K. Oberhuber e L. Vitali rilevano, a buona ragione, che il tipo di testa di Platone riproduce l'ideale tipico del filosofo greco quale si era formato e diffuso nell'Italia umanistica sotto l'influsso dei Greci, e precisano che tale ideale tipico era stato «adoperato spesso per ritrarre Aristotele, tanto che Leonardo, che di Aristotele si considerava seguace, stilizzò il proprio ritratto su quel modello». È evidente che è proprio per questo motivo che si è connesso il Platone di Raffaello con Leonardo. Che sia stata appunto questa l'intenzione di Raffaello, di per sé non solo è possibile, ma è anche molto probabile (per il motivo, appunto, che ripete lo schema di quei tratti con cui Leonardo stesso si è autoritratto); tuttavia quella intenzione rimane, in certa misura, un poco problematica. La figura di Aristotele (che, come da alcuni studiosi è stato ben rilevato, rappresenta la figura ideale dell'uomo di corte rinascimentale) punta la mano verso il mondo sensibile, e sembra, quindi, esprimere il tipico atteggiamento filosofico del . «salvare i fenomeni». Di conseguenza, noi ci aspetteremmo che tenesse nell'altra mano la sua Fisica; invece, tiene la sua Etica.

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Raffaello l'ha scelta indubbiamente per il fatto che fu una delle opere più lette di Aristotele, e molto amata in età umanistica. Nella contrapposizione fra l'indice della mano destra di Platone puntato verso il cielo e la mano destra di Aristotele puntata verso la terra viene indubbiamente rappresentata la tipica interpretazione rinascimentale dei due filosofi, come abbiamo spiegato nell'Awertenza. In realtà, mentre l'interpretazione pittorica emblematica di Platone risulta perfetta, quella di Aristotele risulta parziale, come abbiamo dimostrato sulla base dei suoi testi. Una interpretazione obiettiva di Aristotele implicherebbe la fusione sintetica dei due atteggiamenti: i fenomeni si salvano solo guadagnando le cause ultimative metafenomeniche. Peraltro, è anche da rilevare che la vicinanza di Aristotele a Platone rappresentata in modo così armonico e lo sguardo di Aristotele sulla mano alzata di Platone potrebbero anche suggerire la bella e corretta idea che lo Stagirita ha "salvato" i fenomeni, e lo ha fatto proprio in quel modo in cui lo ha fatto, essendo stato appunto il grande discepolo di colui che aveva scoperto il metafenomenico. Nel retro di copertina riproduciamo il particolare del «Cartone per la Scuola di Atene» (conservato nella sua interezza e in maniera pressoché perfetta nella Pinacoteca della Biblioteca Ambrosiana di Milano), evidenziando specialmente Platone e il gioco della mano di Aristotele. - La fotografia a colori delle figure di Platone e Aristotele è stata eseguita appositamente per quest'opera tramite i Musei Vaticani, mediante le più moderne tecniche. - La fotografia del particolare del Cartone è stata eseguita dai tecnici della casa editrice «Silvana Editoriale d'Arte» (che ha fornito a «Vita e Pensiero» i materiali tecnici occorrenti). Si può trovare la riproduzione del Cartone, nella sua completezza e in tutti i suoi particolari, nello splendido volume: K. Oberhuber - L. Vitali, Raffaello, Il Cartone per la Scuola di Atene («Fontes Ambrosiani in lucem editi cura et studio Bibliothecae Ambrosianae», XLVII), Silvana Editoriale d'Arte, Milano 1972.

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