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Italian Pages 455 Year 2007
STORIA DELLA BRUTTEZZA
STORIA DELLA BRUTTEZZA UMBERTO ECO A CURA DI
BOMPIANI
Direttore editoriale Elisabetta Sgarbi Coordinamento editoriale Anna Maria Lorusso Collaborazione redazionale Fabio Cleto Federica Matteoli Progetto grafico Polystudio Impaginazione Paola Bertozzi Ricerca iconografica Silvia Borghesi Realizzazione tecnica Sergio Daniotti © 2007 RCS Libri S.p.A., Bompiani
SOMMARIO Introduzione
8
Capitolo I
1.
Il brutto nel mondo classico
2.
Capitolo II
1.
La passione, la morte, il martirio
2. 3. 4.
Un mondo dominato dal bello? Grecità e orrore
23 34
La visione pancalistica dell’universo Il dolore di Cristo Martiri, eremiti, penitenti Il trionfo della morte
43 49 56 62
Un universo di orrori L’inferno Le metamorfosi del diavolo
73 82 90
Capitolo III
1.
L’Apocalisse, l’Inferno e il diavolo
2.
Capitolo IV
1.
Mostri e portenti
2.
Prodigi e mostri Una estetica dello smisurato 3. La moralizzazione dei mostri 4. Le mirabilia 5. Il destino dei mostri
107 111 113 116 125
Capitolo V
1.
Priapo 2. Satire sul villano e feste carnevalesche 3. La liberazione rinascimentale 4. La caricatura
131 135 142 152
Capitolo VI
1.
La bruttezza della donna tra Antichità e Barocco
2.
La tradizione antifemminile Manierismo e Barocco
159 169
Capitolo VII
1.
Il diavolo nel mondo moderno
2.
Dal Satana ribelle al povero Mefistofele La demonizzazione del nemico
179 185
Capitolo VIII
1.
Stregoneria, satanismo, sadismo
2.
La strega Satanismo, sadismo e gusto della crudeltà
203 216
Capitolo IX
1.
Physica curiosa
2.
Parti lunari e cadaveri sventrati La fisiognomica
241 257
Capitolo X
1.
Il riscatto romantico del brutto
2.
Il Brutto, il comico, l’osceno
3.
Le filosofie del brutto Brutti e dannati 3. Brutti e infelici 4. Infelici e malati
271 282 293 302
Capitolo XI
Il perturbante
311
Capitolo XII
1.
Torri di ferro e torri d’avorio
2.
La bruttezza industriale Il Decadentismo e la lussuria del brutto
333 350
Capitolo XIII
L’avanguardia e il trionfo del brutto
365
Capitolo XIV
1.
Il brutto altrui, il kitsch e il camp
2.
Il brutto altrui Il kitsch 3. Il camp
391 394 408
Capitolo XV
Il Brutto oggi
421
Bibliografia essenziale Riferimenti bibliografici delle traduzioni utilizzate Indice degli autori e altre fonti Indice degli artisti Referenze fotografiche
441 443 447 449 454
Introduzione
Pablo Picasso, Donna che piange, 1937, Londra, Tate Gallery
In ogni secolo, filosofi e artisti hanno fornito definizioni del bello; grazie alle loro testimonianze è così possibile ricostruire una storia delle idee estetiche attraverso i tempi. Diversamente è accaduto col brutto. Il più delle volte si è definito il brutto in opposizione al bello ma a esso non sono state quasi mai dedicate trattazioni distese, bensì accenni parentetici e marginali. Pertanto, se una storia della bellezza può avvalersi di un’ampia serie di testimonianze teoriche (dalle quali si può dedurre il gusto di una data epoca), una storia della bruttezza dovrà per lo più andare a cercare i propri documenti nelle rappresentazioni visive o verbali di cose o persone in qualche modo intese come “brutte”. Tuttavia, una storia della bruttezza ha alcuni caratteri in comune con una storia della bellezza. Anzitutto, noi possiamo soltanto supporre che i gusti delle persone comuni corrispondessero in qualche modo ai gusti degli artisti del loro tempo. Se un visitatore venuto dallo spazio entrasse in una galleria d’arte contemporanea, vedesse volti femminili dipinti da Picasso, e sentisse che i visitatori li giudicano “belli”, potrebbe farsi l’idea errata che nella realtà quotidiana gli uomini del nostro tempo ritengono belle e desiderabili creature femminili dal volto simile a quello rappresentato dal pittore. Tuttavia, questo visitatore spaziale potrebbe correggere la sua opinione visitando una sfilata di moda o un concorso di Miss Universo, in cui vedrebbe celebrati altri modelli di bellezza. A noi, invece, questo non è possibile; nel visitare epoche ormai lontane, non possiamo fare verifiche, né in relazione al bello né in relazione al brutto, perché di quelle epoche ci sono rimaste soltanto testimonianze artistiche. Un’altra caratteristica comune sia alla storia del brutto che a quella del bello è che ci si deve limitare a registrare la vicenda di questi due valori nella civiltà occidentale. Per le civiltà arcaiche e per i popoli detti primitivi
STORIA DELLA BRUTTEZZA
Maschera per la danza, Ekoi (Nigeria dell’est), s.d., New York, Tishman Collection
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abbiamo reperti artistici ma non disponiamo di testi teorici che ci dicano se questi fossero destinati a provocare diletto estetico, terrore sacro, oppure ilarità. A un occidentale una maschera rituale africana può apparire orripilante – mentre per il nativo potrebbe rappresentare una entità benevola. Di converso, per l’appartenente a qualche religione extraeuropea potrebbe apparire sgradevole l’immagine di un Cristo flagellato, sanguinante e umiliato, la cui apparente bruttezza corporea a un cristiano ispirerebbe simpatia e commozione. Nel caso di altre culture, ricche di testi poetici e filosofici (come ad esempio quella indiana, giapponese o cinese), vediamo immagini e forme ma, traducendo sia pagine di letteratura che pagine filosofiche, è quasi sempre difficile stabilire sino a qual punto certi concetti possano essere identificabili con i nostri, anche se la tradizione ci ha indotto a tradurli in termini occidentali come “bello” o “brutto”. E anche se le traduzioni fossero attendibili, non basterebbe sapere che in una certa cultura si intende come bella una cosa che esibisca, per esempio, proporzione ed armonia. Che cosa si intende, infatti, con questi due termini? Essi hanno cambiato senso anche nel corso della storia occidentale. È solo paragonando affermazioni teoriche con un quadro o una costruzione architettonica dell’epoca che ci accorgiamo che ciò che era considerato proporzionato in un secolo non lo era più nell’altro; parlando per esempio di proporzione un filosofo medievale pensava alle dimensioni e alla forma di una cattedrale gotica, mentre un teorico rinascimentale pensava a un tempio cinquecentesco, le cui parti erano regolate dalla sezione aurea – e ai rinascimentali sono apparse barbare e, appunto, “gotiche”, le proporzioni realizzate dalle cattedrali. I concetti di bello e brutto sono relativi ai vari periodi storici o alle varie culture e, per citare Senofane di Colofone (secondo Clemente Alessandrino, Stromata, V, 110), “se i bovi e i cavalli e i leoni avessero le mani, o potessero disegnare con le mani, e fare opere come quelle degli uomini, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dèi, e simili ai bovi il bove, e farebbero loro dei corpi come quelli che ha ciascuno di coloro”. Nel Medioevo Giacomo da Vitry (Libri duo, quorum prior Orientalis, sive Hjyerosolimitanae, alter Occidentalis istoria), nel lodare la Bellezza di tutta l’opera divina, ammetteva che “probabilmente i ciclopi, che hanno un solo occhio, si stupiscono di coloro che ne hanno due, come noi ci meravigliamo e di coloro e di creature con tre occhi… Consideriamo brutti gli etiopi neri, ma tra di essi è il più nero che viene considerato come il più bello.” Gli farà eco secoli dopo Voltaire (nel Dizionario filosofico): “Chiedete a un rospo che cosa è la bellezza, il vero bello, il to kalòn. Vi risponderà che consiste nella sua femmina, coi suoi due begli occhioni rotondi che sporgono dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo e il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello consiste per lui nella pelle nera e oleosa, gli occhi ínfossati, il naso schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che il bello è un
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da sinistra a destra: Anonimo, Giovanni senza paura, duca di Borgogna. Primo quarto del XV sec. Parigi, Musée du Louvre Diego Velázquez, Ritratto di Filippo IV di Spagna, 1655 Madrid, Museo del Prado Scuola francese, collezione di Stato Ritratto di Luigi XI, XVII sec. Luca Giordano (attr.), Ritratto di Carlo II di Spagna, 1692, Madrid, Museo del Prado Ritratto di Enrico IV, re di Francia e di Navarra, XVII secolo Versailles, Musée National du Château de Pau Henri Lehmann, Ritratto di Carlo VII detto il Vittorioso, re di Francia, XIX sec. Versailles, Chateaux de Versailles et de Trianon,
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paio di corna, quattro zampe a grinfia, e una coda”. Hegel, nella sua Estetica, annoterà che “avviene che, se non ogni marito la propria moglie, per lo meno ogni fidanzato trovi bella, anzi esclusivamente bella, la propria fidanzata; e se il gusto soggettivo per questa Bellezza non ha alcuna regola fissa, questo si può chiamare una fortuna per entrambe le parti… Si ode così spesso dire che una Bellezza europea dispiacerebbe a un cinese o addirittura a un ottentotto, in quanto il cinese ha un concetto della Bellezza interamente diverso dal negro... Ed invero, se consideriamo le opere d’arte di quei popoli extra-europei, per esempio le immagini dei loro dèi, che sono scaturite dalla loro fantasia come degne di venerazione e sublimi, esse possono apparirci come i più mostruosi idoli, così come la loro musica può risuonare alle nostre orecchie nel modo più detestabile. A loro volta quei popoli considereranno le nostre sculture, pitture e musiche come insignificanti o brutte”. Sovente le attribuzioni di bellezza o di bruttezza sono state dovute non a criteri estetici ma a criteri politici e sociali. C’è un passo di Marx (Manoscritti economico-filosofici del ‘44) dove si ricorda come il possesso del denaro possa supplire alla bruttezza: “Il denaro, in quanto possiede la proprietà di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’ oggetto in senso eminente… Tanto grande è la mia forza quanto grande è la forza del denaro… Ciò ch’io sono e posso non è dunque affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella fra le donne. Dunque non sono brutto, in quanto l’effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono, come individuo, storpio, ma il denaro mi dà ventiquattro gambe: non sono dunque storpio… Il mio denaro non tramuta tutte le mie deficienze nel loro contrario?” Ora, basta estendere questa riflessione sul denaro al potere in generale e si capiranno alcuni ritratti di monarchi dei secoli passati, devotamente eternati nelle loro fattezze da pittori cortigiani che certamente non intendevano metterne troppo in risalto i difetti, e forse hanno fatto persino del loro meglio per ingentilirne i tratti. Questi personaggi ci appaiono senza ombra di dubbio assai brutti (e probabilmente lo erano anche ai tempi loro) ma erano portatori di un tale carisma, di un tale fascino dovuto alla loro onnipotenza, da essere visti dai loro sudditi con occhi adoranti. Infine, si legga uno dei più bei racconti della fantascienza contemporanea, La sentinella di Fredric Brown, per vedere come il rapporto tra normale e mostruoso, accettabile e orripilante, possa essere rovesciato a seconda che lo sguardo vada da noi al mostro spaziale o dal mostro spaziale a noi: “Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica… Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la
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2. Cin cin
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posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano mandato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della galassia... crudeli schifosi, ripugnanti mostri… Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all’erta, il fucile pronto… E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante e senza squame...”.
Agnolo Bronzino, Il nano Morgante di schiena con un gufo sulla spalla, XVI sec., Firenze, Galleria Palatina
Dire che bello e brutto sono relativi ai tempi e alle culture (o addirittura ai pianeti) non significa peraltro che non si sia sempre cercato di vederli come definiti rispetto a un modello stabile. Si potrebbe anche suggerire, come ha fatto Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli che “nel bello l’uomo pone se stesso come norma della perfezione” e “si adora in esso… L’uomo in fondo si rispecchia nelle cose, considera bello tutto ciò che gli rimanda la sua immagine… Il brutto viene compreso come un accenno e un sintomo della degenerescenza… Ogni sintomo di esaurimento, di pesantezza, di senilità, di stanchezza, ogni specie di non libertà, come convulsione o paralisi, soprattutto l’odore, il colore, la forma della dissoluzione, della decomposizione… tutto ciò evoca un’identica reazione, il giudizio di valore ‘brutto’… Che cosa odia ora l’uomo? Non v’è dubbio: odia il tramonto del suo tipo”. L’argomento di Nietzsche è narcisisticamente antropomorfo, ma ci dice appunto che bellezza e bruttezza sono definiti in riferimento a un modello “specifico” e la nozione di specie si può estendere dagli uomini a tutti gli enti, come faceva Platone nella Repubblica, accettando di definire bella una pignatta costruita secondo le giuste regole artigianali, o Tommaso d’Aquino (Summa Teologica, I, 39, 8) per cui il bello era dato, oltre che da una debita proporzione e dalla luminosità o chiarezza, dalla integrità per cui una cosa (sia essa un corpo umano, un albero, un vaso) deve esibire tutte le caratteristiche che la sua forma deve avere imposto alla materia. In tal senso, non solo si diceva brutto qualcosa di sproporzionato, come un essere umano con una testa enorme e gambe cortissime, ma si dicevano brutti anche gli esseri che Tommaso definiva come “turpi” in quanto “diminuiti”, ovvero – come dirà Gugliemo d’Alvernia (Trattato del bene e del male) – chi manca di un membro, chi ha un solo occhio (o addirittura tre, perché si può difettare di integrità anche per eccesso). Pertanto, erano spietatamente definiti brutti gli scherzi di natura, che spesso gli artisti hanno impietosamente ritratto – e per il mondo animale gli ibridi, che malamente fondevano gli aspetti formali di
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due specie diverse.
Mathias Grünewald, Tentazioni di Sant’Antonio, 1515, particolare dell’altare di Isenheim, Colmar, Musée Unterlinden
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Il brutto potrà allora semplicemente definirsi come il contrario del bello, sia pure un contrario che cambia col mutare dell’idea del suo opposto? Una storia della bruttezza si pone come contraltare simmetrico di una storia della bellezza? La prima e più compiuta Estetica del brutto, quella elaborata nel 1853 da Karl Rosenkrantz, traccia una analogia tra il brutto e il male morale. Come il male e il peccato si oppongono al bene, di cui sono l’inferno, così il brutto è “l’inferno del bello”. Rosenkrantz riprende l’idea tradizionale che il brutto sia il contrario del bello, una sorta di possibile errore che il bello contiene in sé, così che ogni estetica, come scienza della bellezza, è costretta ad affrontare anche il concetto di bruttezza. Ma è proprio quando passa dalle definizioni astratte a una fenomenologia delle varie incarnazioni del brutto che egli ci fa intravedere una sorta di “autonomia del brutto”, che lo rende qualcosa di ben più ricco e complesso che non una serie di semplici negazioni delle varie forme di bellezza. Egli analizza minutamente il brutto di natura, il brutto spirituale, il brutto nell’arte (e le diverse forme di scorrettezza artistica), l’assenza di forma, l’asimmetria, la disarmonia, lo sfiguramento e la deformazione (il meschino, il debole, il vile, il banale, il casuale e l’arbitrario, il rozzo), le varie forme del ripugnante (il goffo, il morto e il vuoto, l’orrendo, l’insulso, il nauseante, il criminoso, lo spettrale, il demoniaco, lo stregonesco e il satanico). Troppo, per continuare a dire che il brutto è il semplice opposto del bello inteso come armonia, proporzione o integrità. Se si esaminano i sinonimi di bello e brutto, si vede che mentre è ritenuto bello ciò che è carino, piacevole, attraente, gradevole, avvenente, delizioso, armonico, meraviglioso, delicato, grazioso, leggiadro, incantevole, magnifico, stupendo, affascinante, eccelso, eccezionale, favoloso, fiabesco, fantastico, magico, mirabile, pregevole, spettacolare, splendido, sublime, superbo, è brutto ciò che è repellente, orrendo, schifoso, sgradevole, grottesco, abominevole, ributtante, odioso, indecente, immondo, sporco, osceno, ripugnante, spaventoso, abbietto, orribile, orrido, orripilante, laido, terribile, terrificante, tremendo, da incubo, mostruoso, rivoltante, ripulsivo, disgustoso, nauseabondo, fetido, spaventevole, ignobile, sgraziato, spiacevole, pesante, indecente, deforme, difforme, sfigurato (per non dire di come l’orrore possa manifestarsi anche in territori assegnati tradizionalmente al bello, quali il fiabesco, il fantastico, il magico, il sublime). La sensibilità del parlante comune rileva che, mentre per tutti i sinonimi di bello si potrebbe concepire una reazione di apprezzamento disinteressato, per quasi tutti quelli di brutto è sempre implicata una reazione di disgusto, se non di violenta repulsione, orrore o spavento. Nel suo saggio su L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali Darwin rilevava che ciò che provoca disgusto in una data cultura non lo
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2. Cin cin
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Domenico Ghirlandaio, Ritratto di vecchio con nipote, 1490 ca., Parigi, Musée du Louvre
provoca in un’altra, e viceversa, ma concludeva che tuttavia “sembra che i diversi movimenti descritti come espressivi del disprezzo e del disgusto siano identici in una gran parte del mondo”. Ora, conosciamo certo alcune sfacciate manifestazioni di approvazione di fronte a qualcosa che ci appare bello perché fisicamente desiderabile, e si pensi al lazzo volgare al passaggio di una bella donna o alle scomposte manifestazioni di gioia del ghiottone di fronte al suo cibo preferito. Ma in questi casi non si tratta di espressioni di godimento estetico quanto piuttosto di qualcosa di simile ai grugniti di soddisfazione o addirittura ai rutti che si emettono in certe civiltà per manifestare il gradimento di un cibo (anche se in quei casi si tratta di una forma di etichetta). In generale, in ogni caso, sembra che l’esperienza del bello provochi quello che Kant (Critica della facoltà di giudizio) definiva piacere senza interesse: mentre noi vorremmo avere tutti quello che ci appare piacevole o partecipare a tutto ciò che sembra buono, il giudizio di gusto di fronte alla visione di un fiore provvede un piacere da cui è escluso alcun desiderio di possesso o di consumo. In tal senso alcuni filosofi si sono domandati se si possa pronunciare un giudizio estetico di bruttezza, visto che il brutto provoca reazioni passionali come il disgusto descritto da Darwin. In verità dovremo, nel corso della nostra storia, distinguere le manifestazioni di brutto in sé (un escremento, una carogna decomposta, un essere coperto di piaghe che emana un odore nauseabondo) da quelle di brutto formale, come squilibrio nella relazione organica tra le parti di un tutto. Immaginiamo di vedere per strada una persona con una bocca sdentata: quello che ci disturba non è la forma delle labbra o dei pochi denti rimasti, ma il fatto che i denti sopravvissuti non siano accompagnati dagli altri che dovrebbero esserci su quella bocca. Non conosciamo quella persona, quella bruttezza non ci coinvolge passionalmente e tuttavia – di fronte all’incoerenza o incompletezza di quell’insieme – ci sentiamo autorizzati a dire spassionatamente che quel viso è brutto. Per questo un conto è reagire passionalmente al disgusto che ci provoca un insetto viscido o un frutto imputridito e un conto è dire di una persona che è sproporzionata o di un ritratto che è brutto nel senso che è malfatto (il brutto artistico è un brutto formale). E, parlando di brutto artistico, ricordiamo che in quasi tutte le teorie estetiche, almeno dalla Grecia ai giorni nostri, è stato riconosciuto che qualsiasi forma di bruttezza può essere redenta da una sua fedele ed efficace rappresentazione artistica. Aristotele (Poetica 1448 b) parla della possibilità di realizzare il bello imitando con maestria ciò che è repellente e in Plutarco (De audiendis poetis) si dice che nella rappresentazione artistica il brutto imitato rimane tale ma riceve come un riverbero di bellezza dalla maestria dell’artista. Abbiamo così identificato tre fenomeni diversi: il brutto in sé, il brutto formale e la rappresentazione artistica di entrambi. Quello che c’è da tener
STORIA DELLA BRUTTEZZA
Heinrich Füssli, Macbeth consulta l’apparizione di una testa armata, 1783, Washington DC, Folger Shakespeare Library
presente nello sfogliare le pagine di questo libro è che quasi sempre si potrà inferire che cosa fossero in una data cultura i primi due tipi di bruttezza solo in base a testimonianze del terzo tipo. Nel fare questo rischiamo molti equivoci. Nel Medioevo Bonaventura da Bagnoregio ci diceva che l’immagine del diavolo diventa bella se rappresenta bene la sua bruttezza: ma pensavano davvero questo i fedeli che vedevano scene di inauditi tormenti infernali sui portali o negli affreschi delle chiese? Non reagivano forse con terrore e angoscia, come se avessero visto una bruttezza del primo tipo, agghiacciante e ripugnante come sarebbe per noi la vista di un rettile che ci minaccia? I teorici spesso non tengono conto di innumerevoli variabili individuali, idiosincrasie e comportamenti devianti. Se è vero che l’esperienza della bellezza implica una contemplazione disinteressata, tuttavia un adolescente turbato può avere una reazione passionale anche di fronte alla Venere di Milo. Lo stesso vale per il brutto: un bambino può sognare terrorizzato di notte la strega che ha visto sul libro di fiabe e che per altri suoi coetanei era soltanto un’immagine divertente. Probabilmente molti contemporanei di Rembrandt, anziché apprezzare la maestria con cui egli rappresentava un cadavere sezionato sul tavolo anatomico, potevano avere reazioni di orrore come se il cadavere fosse vero – così come chi ha subito un bombardamento forse non sa guardare a Guernica di Picasso in modo esteticamente disinteressato, e rivive il terrore di quella sua antica esperienza. Di qui la prudenza con cui dobbiamo preparaci a seguire questa nostra storia della bruttezza, nelle sue varietà, nelle sue molteplici declinazioni, nella diversità di reazioni che le sue varie forme stimolano, nelle sfumature comportamentali con cui vi si reagisce. Considerando volta per volta se e quanto avessero ragione le streghe che nel primo atto del Macbeth gridano: “Il bello è brutto e il brutto è bello…”
Nel corpo dei capitoli nomi o parole in neretto rinviano ai brani antologici corrispondenti. 20
Capitolo
I
Il brutto nel mondo classico
1. Un mondo dominato dal bello?
Statua in bronzo di un satiro, seconda metà del IV sec a.C., Monaco, Staatlichen Antikensammlungen und Glyptothek
Del mondo greco abbiamo di solito un’immagine stereotipata, che nasce dalle idealizzazioni che della grecità erano state fatte nel periodo neoclassico. Nei nostri musei vediamo statue di Afrodite o di Apollo che nel candore del marmo esibiscono una bellezza idealizzata. Nel IV secolo a.C. Policleto aveva prodotto una statua, detta poi il Canone, in cui erano incarnate tutte le regole per una proporzione ideale e più tardi Vitruvio avrebbe dettato le giuste proporzioni corporali in frazioni della figura intera: la faccia doveva essere 1/10 della lunghezza totale, la testa 1/8, la lunghezza del torace 1/4, e così via. È naturale che, alla luce di questa idea di bellezza, fossero visti come brutti tutti gli esseri che non incarnavano tali proporzioni. Ma se gli antichi avevano idealizzato la bellezza, il neoclassicismo ha idealizzato gli antichi, dimenticando che essi (spesso influenzati da tradizioni orientali) hanno consegnato alla tradizione occidentale anche le immagini di una serie di esseri che erano l’incarnazione stessa della sproporzione, la negazione di ogni canone. L’ideale greco della perfezione era rappresentato dalla kalokagathia, termine che nasce dall’unione di kalos (genericamente tradotto come “bello”) e agathos (termine di solito tradotto come “buono”, ma che copre tutta una serie di valori positivi). È stato osservato che l’essere kalos e agathos definiva genericamente quella che nel mondo anglosassone sarebbe poi stata la nozione aristocratica di gentleman, persona di aspetto dignitoso, coraggio, stile, abilità e conclamate virtù sportive, militari e morali. Alla luce di questo ideale, la grecità ha elaborato una vasta letteratura sul rapporto tra bruttezza fisica e 23
Pieter Paul Rubens, La testa di Medusa, 1618 ca., Vienna Kunsthistorisches Museum
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bruttezza morale. Tuttavia rimane imprecisato se per “bello” gli antichi intendessero tutto ciò che piace, che suscita ammirazione, che attrae lo sguardo, ciò che in virtù della sua forma appaga i sensi, oppure una bellezza “spirituale”, una qualità dell’anima, che talora può non coincidere con la bellezza del corpo. In fondo la spedizione di Troia è motivata dalla straordinaria bellezza di Elena e Gorgia di Elena aveva scritto paradossalmente un Encomio. Eppure Elena, moglie infedele di Menelao, non poteva certo essere considerata un modello di virtù. Certamente, se per Platone la sola realtà era quella del mondo delle Idee, di cui il nostro mondo materiale è ombra e imitazione, allora il brutto avrebbe dovuto identificarsi con il non-essere, dato che nel Parmenide si nega che possano esistere idee di cose immonde e spregevoli come le
macchie, il fango o i peli. Il brutto esisterebbe, dunque, solo nell’ordine del sensibile, come aspetto dell’imperfezione dell’universo fisico rispetto al mondo ideale. Più tardi Plotino, che più radicalmente definisce la materia come male ed errore, opererà una identificazione netta del brutto col mondo materiale. Però basta rileggere il Simposio, il dialogo platonico dedicato all’Eros (come amore) e alla bellezza, per individuare molte altre sfumature. In questo dialogo, come del resto negli altri e in genere in quasi tutte le disquisizioni filosofiche su bello e brutto, questi valori sono nominati ma mai chiariti da esempi (da cui la necessità, come si è detto nell’Introduzione, di confrontare i discorsi filosofici con le realizzazioni concrete degli artisti). Difficile dire come siano le cose belle che suscitano il nostro desiderio. Quanto al concetto di buono, materia del dialogo è per molti aspetti l’elogio della pederastia, nel senso etimologico di amore per la bellezza dei 25
I. IL BRUTTO NEL MONDO CLASSICO
Idee di cose brutte Platone (V-IV a.C.) Parmenide, 130 - E anche per realtà come l’Idea in sé di giusto ? chiese Parmenide ?di bello, di buono e così via? - Sì, rispose. - E che, anche l’Idea di uomo separata da noi e da tutti quanti noi siamo, l’Idea in sé di uomo o di fuoco o di acqua? - Spesso mi sono trovato in difficoltà ? rispose ? a proposito di questi dati, se bisogna considerarli come quelli precedenti o no. - E allora, Socrate, sei incerto anche a proposito di quelle realtà che sembrano ridicole, come capelli, fango, sporcizia o altro privo di importanza e valore, se cioè bisogna o non bisogna ammettere per ognuna di queste un’Idea separata, diversa da quanto noi trattiamo con le mani? - No!? ribatté Socrate. Io credo invece che quelle cose che vediamo esistano così come le vediamo, mentre mi sembra un po’ assurdo credere che vi sia una qualche Idea di queste.
Il brutto morale Plotino (III sec. d.C.) Enneadi, I, 6 Sia dunque un’anima brutta, intemperante e ingiusta. Essa è piena di un gran numero di desideri e delle più profonde inquietudini, paurosa per vigliaccheria, invidiosa per grettezza (…) vive la vita delle passioni del corpo e trova il suo piacere solo nella bruttezza. Non diremo allora che la sua bruttezza è sopravvenuta dall’esterno su quest’anima come una malattia che la offende, la rende impura e ne fa un impasto confuso di mali? (…) L’anima conduce una vita oscurata dall’impurità del male, una vita contaminata dai germi della morte. Essa non è più capace di vedere ciò che un’anima deve vedere: non le è più consentito di raccogliersi in se stessa perché essa è continuamente attirata nella regione dell’esteriorità, inferiore e carica di oscurità. Impura, travolta da ogni lato per l’attrazione delle cose sensibili, essa è mescolata con molti caratteri del corpo. Poiché essa ha accolto in sé la forma della materia, differente da lei, ne è rimasta contaminata, e la sua stessa natura è rimasta inquinata da ciò che è inferiore.
giovinetti da parte di un uomo saggio e maturo. Questo comportamento era generalmente accettato dalla società greca, ma all’interno del dialogo la pederastia elogiata da Pausania (effettivo desiderio carnale della bellezza del giovinetto) e la pederastia sublimata (oggi diremmo “platonica”) rappresentata da Socrate sono molto diverse. Pausania distingue l’Eros di Afrodite Pandemia, tipico degli uomini da poco, che amano indifferentemente donne e giovinetti, e ne amano i corpi più delle anime, dall’Eros di Afrodite Urania, che è unicamente amore per i giovinetti, non cioè bambini ancora sprovveduti ma adolescenti maturi “al momento in cui mettono la barba”. Ma lo stesso Pausania ammette che bisogna amare tra i giovinetti i più nobili e virtuosi “anche se sono più brutti degli altri”, per cui è malvagio quell’amante che ama il corpo più dell’anima. In tal senso, la pederastia, anche se non esclude il rapporto fisico, riguarda una forma di alleanza erotico-filosofica che si stabilisce tra l’amato (il giovane che accetta la compagnia di un uomo più maturo che lo inizia e alla saggezza e alla vita adulta, e a cui offre in cambio i propri favori) e l’amante, il saggio che s’innamora della grazia e della virtù del giovane. Dopo Pausania, interviene Aristofane che racconta come all’inizio i generi fossero tre, maschile, femminile e androgino, e solo dopo che Zeus ha diviso ciascuno in due, ci sono gli uomini che “godono a stare abbracciati con gli 26
1. UN MONDO DOMINATO DAL BELLO?
I centauri alla corte del re Piritoo, pittura parietale proveniente da Pompei, I sec. , Napoli, Museo Archeologico Nazionale
uomini”, le donne “che hanno propensione per le donne” (e queste due categorie “non si preoccupano delle nozze e della procreazione dei figli, ma vi sono poi costretti dalla legge”) e coloro che oggi definiremmo eterosessuali. Si inserisce allora nel dialogo Agatone che rappresenta Eros come eternamente bello e giovane, (riprendendo un tema che ritorna nel mondo greco, da Pindaro in avanti, per cui la bellezza si accompagna alla giovinezza e la bruttezza alla vecchiaia). Ma a questo punto Socrate (che esprime le proprie idee attribuendole a una fittizia sacerdotessa Diotima) dimostra che, se ciascuno desidera ciò che non ha, Eros non sarà né bello né buono, bensì una sorta di “demone” dalla natura ambigua, pura tensione verso valori ideali che cerca sempre di raggiungere; Eros è figlio di Penia (la mancanza, la povertà) e di Poros (l’espediente) e come tale dalla madre trae l’aspetto miserando (è ispido, scalzo e senza casa) e dal padre la capacità di “insidiare” e “andare in caccia” di ciò che è buono. In tal senso, è tipico di Eros il desiderio di procreare, per soddisfare l’umano desiderio di immortalità. Tuttavia, oltre alla procreazione fisica c’è la procreazione di valori spirituali, dalla poesia alla filosofia, attraverso i quali si ottiene l’immortalità della gloria. Si potrebbe dire che i semplici generano figli mentre coloro che coltivano l’aristocrazia dello spirito generano bellezza e saggezza. 27
I. IL BRUTTO NEL MONDO CLASSICO
da sinistra a destra Terracotta raffigurante un sileno, III-I sec. a.C., Monaco Antikesammlungen Ritratto di Socrate, VI sec. a.C, Selcuk (Turchia), Ephesos Museum a fronte Antonie Van Dyck, Sileno ebbro, 1620 ca., Dresda, Gemälde Galerie Alte Meister Staatlichen Kunstsammlungen
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In questa tensione l’uomo veramente kalos e agathos non solo ritiene “la bellezza che è nelle anime di maggior pregio di quella che è nei corpi” e potrà prendersi cura di un giovinetto che abbia molta virtù anche se ha “poco fiore nel corpo”, ma non si arresta alla bellezza di un solo corpo e attraverso l’esperienza di diverse bellezze cerca di raggiungere la comprensione del Bello in Sé, della Bellezza iperurania, della Bellezza come Idea. Si tratta dell’amore per i giovinetti a cui si dedica Socrate, e lo si comprende quando il bell’Alcibiade, ormai ubriaco, fa irruzione nel banchetto e ricorda come, nel desiderio di compartecipare la saggezza di Socrate, gli abbia più volte offerto il suo corpo, ma Socrate non abbia mai voluto cedere al desiderio carnale e abbia saputo giacere castamente accanto a lui. È in questo contesto che Alcibiade traccia il famoso elogio della apparente bruttezza di Socrate, che ha l’aspetto esteriore di un sileno ma sotto quei tratti nasconde una profonda bellezza interiore. Ecco, dunque, come in un solo dialogo si oppongono diverse idee di bellezza e di bruttezza e lo schema semplicistico della bruttezza come opposto della kalokagathia si complica. E di questa complicatezza
I. IL BRUTTO NEL MONDO CLASSICO
Tersite Omero (IX sec. a.C.) Iliade, II, 282 sgg. Non venne a Troia di costui (Teriste) più brutto ceffo; era guercio e zoppo, e di contratta gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso di raro pelo. Capital nemico del Pelìde e d'Ulisse, ei li solea morder rabbioso: Esopo il brutto Esopo Romanzo di Esopo I (I-II secolo d.C) Esopo, il grande benefattore dell’umanità, il favolista, fu schiavo per condizione, ma per nascita frigio di Amorio in Frigia: repellente alla vista (...), schifoso, pancione, con la testa sporgente, camuso, gibboso, olivastro, bassotto, con i piedi piatti, corto di braccia, storto, labbrone, errore (...). Inoltre – menomazione ancora più grave della deformità –, non aveva il dono della parola ed era anche balbuziente e del tutto impossibilitato a esprimersi. Socrate come sileno Platone (V-IV a.C.) Simposio, 203 c-d Dico dunque che egli [Socrate] assomiglia moltissimo a quei sileni, messi in mostra nelle botteghe degli scultori, che gli artigiani costruiscono con zampogne e flauti in mano e che, quando vengono aperti in due, rivelano di contenere dentro immagini di dei. Ritratto di Esopo, incisione, 1490, Basilea
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la civiltà greca è sempre stata cosciente, come si evince dall’elogio più tardo di un altro essere brutto di aspetto ma nobile d’animo e ricco di saggezza, Esopo. Ma il mondo greco è stato attraversato anche da altre contraddizioni. Platone nella Repubblica, ritenendo che il brutto come mancanza d’armonia fosse il contrario della bontà dell’animo, raccomandava che ai fanciulli fosse evitata la rappresentazione delle cose brutte, però ammetteva che in fondo esistesse una grado di bellezza proprio a tutte le cose, nella misura in cui adeguavano l’idea corrispondente; per cui si potevano dire bella una fanciulla, una giumenta, una pignatta, ciascuna di queste cose essendo però brutta rispetto alla precedente. Aristotele nella Poetica sanciva un principio che sarebbe rimasto universalmente accettato nel corso dei secoli, e cioè che si possono imitare bellamente le cose brutte – e sin dalle origini si ammirava il modo in cui Omero aveva bene rappresento la sgradevolezza fisica e morale di Tersite. Infine vediamo come più tardi, in ambiente stoico, Marco Aurelio riconosca che anche il brutto, anche le imperfezioni come le screpolature sulla crosta del pane, contribuiscano alla gradevolezza del tutto. Principio,
1. UN MONDO DOMINATO DAL BELLO?
Diego Velázquez, Esopo, 1639-1642, Madrid, Museo del Prado
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1. UN MONDO DOMINATO DAL BELLO?
Perseo sgozza Medusa, part. da metopa del Tempio di Selinunte, 540 a.C., Palermo, Museo Nazionale
Sulla difficoltà di definire brutto e bello Platone (V-IV sec. a.C.) Ippia maggiore, IX-XI Socrate: Un tale mi mise in difficoltà facendomi pressappoco questa domanda con molta arroganza: “Socrate”, disse, “dimmi, come sai quali cose sono belle e quali brutte?” (…) Ippia: Socrate, sappi che, se occorre dire la verità, una bella fanciulla è una cosa bella (…) Socrate: “Sei delizioso”, dirà, “caro Socrate. Ma non pure è bella una bella giumenta, che anche il dio ha lodato nell’oracolo?” Cosa diremo, Ippia? Non dobbiamo forse ammettere che anche la giumenta è bella – se è bella? (…) Ippia: È vero, Socrate; poiché il dio ha parlato correttamente. Infatti da noi ci sono cavalle bellissime. Socrate: “Bene”, dirà. “E una bella lira? Non è una cosa bella?” (…) E una bella pignatta?” (…) Se la pignatta è stata fatta da un bravo vasaio, è liscia, rotonda e ben cotta, come lo sono alcune belle pignatte a due anse che contengono quasi sei litri, bellissime, se domandasse com’è una pignatta simile, bisogna ammettere che è bella. (…) Ippia: Credo, Socrate, che anche questo oggetto sia bello, se è ben fatto, ma non è giusto giudicarlo bello in paragone a un cavallo, a una fanciulla e a quanto di bello ancora vi sia. Socrate: E sia; capisco, Ippia, che occorre muovere obiezioni di questo tipo a colui che fa domande del genere: “Uomo, tu ignori quanto sia giusto il detto di Eraclito, che la più bella delle scimmie è brutta in confronto al genere umano e la pignatta più bella è brutta a paragone con il genere femminile (…) Se si paragona il genere femminile a quello degli dèi, non accadrà la stessa cosa che al genere delle pignatte paragonato a quello delle ragazze? La fanciulla più bella non sembrerà brutta al confronto con gli dèi?” Evitare di rappresentare il brutto Platone (V-IV sec. a.C.) Repubblica III, 401 E la disarmonia delle forme, la mancanza di ritmo e di equilibrio sono parenti stretti di un discorso e di un carattere sconvenienti, come le qualità contrarie sono sorelle e copie dei caratteri contrari, ossia di una condotta di vita assennata e virtuosa. (…) Dovremo, dunque, limitarci a sorvegliare i poeti costringendoli a trasfondere nelle loro opere il modello delle buone consuetudini, oppure dovremo curare anche altri artisti, per impedire che riproducano questo
malcostume, dissoluto, volgare e vergognoso nei loro quadri, nei loro edifici e in ogni altro manufatto? E a chi non sa fare che questo non si impedirà di operare qui da noi, per evitare che i nostri Custodi, allevati fra immagini di vizio, come fra male erbe, a furia di raccoglierne e d brucarne in abbondanza, un po’ per giorno da tutte le parti, non finiscano per accumulare nella loro anima, senza neppure accorgersene, un gran male? Imitare bellamente Aristotele (IV sec. a.C.) Poetica, 1448b In generale due sembrano essere le cause che hanno dato origine all’arte poetica, e tutte e due naturali. Ed infatti in primo luogo l’imitare è connaturato agli uomini fin da bambini, ed in questo l’uomo si differenzia dagli altri animali perché è quello più proclive ad imitare e perché i primi insegnamenti se li procaccia per mezzo dell’imitazione; ed in secondo luogo tutti si rallegrano delle cose imitate. Prova ne è quel che accade in pratica, giacché cose che vediamo con disgusto le guardiamo invece con piacere nelle immagini quanto più siano rese con esattezza, come ad esempio le forme delle bestie più ripugnanti e dei cadaveri. Non c’è bruttezza in natura Marco Aurelio (II sec. d.C.) Colloqui con se stesso, III, 2 Si cuoce il pane: qua e là quel pane si screpola. Ebbene, si formano certe screpolature in modo tale che non ha nulla a vedere con l’arte del fornaio, ma in un certo senso vanno benissimo e soprattutto stimolano intensamente il desiderio del cibo. Allo stesso modo anche i fichi, quando sono molto maturi, si spaccano. Del resto guardiamo le olive giunte a maturità completa: proprio quell’aspetto così prossimo a corruzione aggiunge al frutto particolare bellezza. Del resto, le spighe quando si chinano a terra; la fiera espressione dei leoni; la schiuma che scorre dalla bocca dei cinghiali ed esempi senza numero ancora che, considerati in se stessi, sono remoti da bellezza, ma comunque, per il fatto di perseguire un ordine di natura, aggiungono a quello ornamento e diletto. Avviene dunque che, se qualcuno ha simpatia e comprensione per i fenomeni della natura, troverà che qualunque cosa, anche se accidentale conseguenza d’altri eventi; ebbene, anche questa cosa si compie secondo un ritmo di grazia a lei proprio. 33
I. IL BRUTTO NEL MONDO CLASSICO
2. Grecità e orrore
Ulisse e le sirene, dettaglio della decorazione di un vaso. III sec a.C., Berlino, Staatliche Museen
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questo, che (come vedremo nel capitolo successivo) domina la visione patristica e scolastica, in cui il brutto viene redento dal contesto e contribuisce all’armonia dell’universo. Il mondo greco era ossessionato da molti tipi di bruttezza e malvagità. Non è necessario rifarsi all’opposizione tra apollineo e dionisiaco: anche se nei cortei di Bacco appaiono sileni ebbri e comicamente ripugnanti, proprio nel Simposio si elogia come bella prodezza la resistenza di Socrate alle più generose libagioni. Rimane al massimo un’ombra di ambiguità sul ruolo della musica, che stimola passioni; ma tutta l’estetica pitagorica fa della musica ciò in cui si realizzano le leggi ideali, le regole matematiche della proporzione e dell’armonia. Nella cultura greca restano, però, le zone sotterranee dove si praticano i Misteri e gli eroi (come Ulisse ed Enea) si avventurano nelle nebbie tristi dell’Ade, di cui già Esiodo ci racconta gli orrori. La mitologia classica è un catalogo di inenarrabili crudeltà: Saturno divora i propri figli, Medea li massacra per vendicarsi del marito fedifrago, Tantalo cuoce il figlio Pelope e lo imbandisce agli dei per sfidarne la perspicacia, Agamennone non esita a sacrificare la figlia Ifigenia per propiziarsi gli dei, Atreo offre le carni dei figli al fratello Tieste, Egisto uccide Agamennone per sottrargli la sposa Clitennestra, che sarà uccisa da suo figlio Oreste, Edipo, sia pure senza saperlo, commette e parricidio e incesto… È un mondo dominato dal male, dove esseri anche bellissimi compiono azioni “bruttamente” atroci. In questo universo vagano esseri spaventevoli, laidi in quanto ibridi che violano le leggi delle forme naturali: si vedano in Omero le Sirene, che non erano come le ha rappresentate la tradizione posteriore, donne affascinanti dalla coda di pesce, bensì uccellacci rapaci, Scilla e Cariddi, Polifemo, la Chimera; in Virgilio Cerbero e le Arpie; e poi le Gorgoni (dalla testa irta di serpenti e le zanne di cinghiale), la Sfinge, dal volto umano su un corpo leonino, la Erinni, i Centauri, cattivi per la loro doppiezza, il Minotauro, dalla testa taurina su corpo umano, le Meduse... Se i posteri hanno vagheggiato l’era della kalokagathia, sono stati però anche ispirati da queste manifestazioni dell’orrendo, da Dante sino ai giorni nostri. Tanto è vero che poi il mondo cristiano (che, come vedremo nel prossimo capitolo, ha elaborato una propria tremenda idea di bruttezza) per esempio in pagine come quelle di Clemente Alessandrino o Isidoro di Siviglia, ha tratto pretesto dalle mostruosità
I. IL BRUTTO NEL MONDO CLASSICO
Le sirene Omero (IX sec. a.C) Odissea, XII, 52-82 Alle Sirene giungerai da prima, Che affascìnan chïunque i lidi loro Con la sua prora veleggiando tocca. Chïunque i lidi incautamente afferra Delle Sirene, e n’ode il canto, a lui Né la sposa fedel, né i cari figli Verranno incontro su le soglie in festa. Le Sirene sedendo in un bel prato, Mandano un canto dalle argute labbra, Che alletta il passeggier: ma non lontano D’ossa d’umani putrefatti corpi E di pelli marcite, un monte s’alza. Tu veloce oltrepassa, e con mollita Cera de’ tuoi così l’orecchio tura, Che non vi possa penetrar la voce. Odila tu, se vuoi; sol che diritto Te della nave all’albero i compagni Leghino, e i piedi stringanti, e le mani; Perché il diletto di sentir la voce Delle Sirene tu non perda. E dove Pregassi o comandassi a’ tuoi di sciorti, Le ritorte raddoppino ed i lacci. Poiché trascorso tu sarai, due vie Ti s’apriranno innanzi; ed io non dico, Qual più giovi pigliar, ma, come d’ambo Ragionato t’avrò, tu stesso il pensa. Vedrai da un lato discoscese rupi Sovra l’onde pendenti, a cui rimbomba Dell’azzurra Anfitrite il salso fiotto. Gl’Iddj beati nella lor favella Chiàmanle Erranti. Le arpie Virgilio (I sec. a.C.) Eneide, III, 354-358, 361-368 Strofadi grecamente nominate Son certe isole in mezzo al grande Jonio, Da la fera Celeno e da quell’altre Rapaci e lorde sue compagne arpie Fin d’allora abitate (…) Altro di queste Più sozzo mostro, altra più dira peste Da le tartaree grotte unqua non venne. Sembran vergini a’ volti, uccegli e cagne A l’altre membra; hanno di ventre un fedo Profluvio, ond’è la piuma intrisa ed irta, Le man d’artigli armate, il collo smunto, La faccia per la fame e per la rabbia Pallida sempre, e raggrinzita e magra Scilla e Cariddi Omero (IX sec. a.C.) Odissea, XII, 112-141 Scilla ivi alberga, che moleste grida Di mandar non ristà. La costei voce Altro non par, che un guajolar perenne Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce 36
Mostro, e sino ad un Dio; che a lei si fesse, Non mirerebbe in lei senza ribrezzo. Dodici ha piedi, anteriori tutti, Sei lunghissimi colli, e su ciascuno Spaventosa una testa, e nelle bocche Di spessi denti un triplicato giro, E la morte più amara in ogni dente. Polifemo Omero (IX sec. a.C.) Odissea, IX, 235-244, 364-382, 474-479, 484-491, 498-502 Uom gigantesco abita qui, che lunge Pasturava le pecore solingo. In disparte costui vivea da tutti (…) La man ponea sovra i compagni, e due Brancavane ad un tempo; e, quai cagnuoli, Percoteali alla terra, e ne spargea Le cervella, ed il sangue. A brano a brano Dilacerolli, e s’imbandì la cena. Qual digiuno leon, che in monte alberga, Carni, ed interiora, ossa, e midolle, Tutto vorò, consumò tutto. E noi A Giove ambo le man tra il pianto alzammo, Spettacol miserabile scorgendo, Con gli occhi nostri, e disperando scampo. Poiché la gran ventraja empiuto s’ebbe, Pasteggiando dell’uomo, e puro latte Tracannandovi sopra, in fra le agnelle Tutto quant’era ei si distese, e giacque. (…) Giacea nell’antro con la gran cervice Ripiegata su l’omero; e dal sonno, Che tutti doma, vinto, e dalla molta Crapula oppresso, per la gola fuori Il negro vino, e della carne i pezzi, Con sonanti mandava orrendi rutti. (…) Cerbero Virgilio (I sec. a.C.) Eneide, VI, 612-629 Giunti che furo, il gran Cerbero udiro Abbajar con tre gole, e ‘l bujo regno Intronar tutto; indi in un antro immenso Sel vider pria giacer disteso avanti, Poi sorger , digrignar, rabido farsi, Con tre colli arruffarsi, e mille serpi Squassarsi intorno. Allor la saggia maga, Tratta di mèle e d’incantate biade Una tal soporifera mistura, La gittò dentro a le bramose canne. Egli ingordo, famelico e rabbioso Tre bocche aprendo, per tre gole al ventre Trangugiando mandolla, e con sei lumi Chiusi dal sonno, anzi col corpo tutto Giacque ne l’antro abbandonato e vinto.
2. GRECITÀ E ORRORE
Gustave Moreau, La Chimera, 1867, Cambridge (Mass.), Fogg Art Museum pagine seguenti John William Waterhouse, Ulisse e le Sirene, 1891, Melbourne, National Gallery of Victoria
Gli inferi Esiodo (VII sec. a.C.) Teogonia, 736-773 Si tratta di un luogo tetro, squallido, che pure gli dèi odiano. È una voragine immensa: una volta varcata la soglia, nemmeno in un anno tutto intero arriveresti a toccarne il fondo, ché prima violentissime bufere ti sbatterebbero di qua e di là senza concederti respiro (…) Sta lì l’orrida casa della tenebrosa Notte, coperta di livide nubi. Prima di essa, ben piantato sulle gambe, il figlio di Giapeto regge saldamente l’ampio cielo con la testa e con le instancabili mani. Proprio in quel punto Notte ed Emera, incontrandosi, si scambiano il saluto nell’atto che ? l’una per uscire e l’altra per rientrare, o viceversa ? varcano la grande soglia di bronzo; giammai la casa le ospita tutte e due insieme contemporaneamente, ma sempre una di
esse, fuori, va percorrendo la terra, mentre l’altra, dentro, rimane ad aspettare finché giunga anche per lei il momento di uscire. L’una reca ai terrestri la luce che tutto rischiara; l’altra invece, la fosca Notte ammantata di densa caligine, porta fra le braccia Ipno, fratello di Tanato. Laggiù risiedono anche Ipno e Tanato, figli dell’oscura Notte, divinità tremende. Mai lo splendente Elio li illumina con i suoi raggi, né quando sale nel cielo, né quando ne ridiscende. Di essi il primo, placido e gradito agli uomini, va in giro sulla terra e sulla vasta distesa del mare, l’altro invece ha un cuore di ferro, un animo spietato di bronzo nel petto: ghermisce gli uomini per non lasciarli più e anche agli dèi immortali è nemico. Laggiù, più avanti, si erge la rimbombante dimora del dio sotterraneo, del possente Ades e della spaventosa Persefone. 37
II. IL BRUTTO NEL MONDO CLASSICO
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2. GRECITÀ E ORRORE
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I. IL BRUTTO NEL MONDO CLASSICO
Chimera di Arezzo, bronzo etrusco V sec. a.C., Firenze, Museo archeologico
Chimera Omero (IX sec. a.C.) Iliade, VI, 222-226 Era il mostro di origine divina, lion la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco: e nondimeno, col favor degli Dei, l’eroe la spense. Bruttezza delle divinità pagane Clemente Alessandrino (150-215) Proteptrico, 61 Ecco quali sono gli insegnamenti dei vostri dei che si prostituiscono insieme con voi! (…) E quali sono mai, del resto, anche altre
vostre immagini?! Certe statuette di Pan, certe figurine femminili ignude, e satiri ubriachi e rigonfiamenti fallici, dipinti senza velame alcuno e che sono svergognati dalla loro stessa incontinenza! Ormai, però, voi quando vedete dipinte apertamente e in pubblico le forme di ogni sfrenatezza, voi non ne sentite alcuna vergogna; ma addirittura le conservate, le appendete in alto, proprio come le immagini dei vostri dei, e nelle vostre case venerate come sacre quelle che invece sono stele di spudoratezza, e vi fate rappresentare indifferentemente le oscene posizioni di Filenide e le fatiche di Eracle!
2. GRECITÀ E ORRORE
Pittore del pigmeo, Kelebe volterrana con trombettiere, fine IV e inizi III sec. a.C. Colle Val d’Elsa, Museo archeologico
Pieter Paul Rubens, Saturno divora i figli, 1636-37, Madrid, Museo del Prado
I mostri pagani smitizzati dai cristiani Isidoro di Siviglia (570-636) Etimologie XI, 3 Si parla anche di altri favolosi portenti umani, che non sono tuttavia reali, ma inventati: sono simboli di una determinata realtà. È il caso di Gerione, re dell’Hispania, di cui si narra che fosse stato generato con tre corpi: in realtà, si trattò di tre fratelli tra cui esisteva una tale concordia che in tre corpi si dava quasi una sola anima. È il caso anche delle Gorgoni, meretrici anguicrinite, che con uno sguardo convertivano in pietra, aventi un unico occhio del quale si servivano a turno: in realtà, si trattò di tre sorelle di un’unica, uguale bellezza, quasi un unico occhio, che stupivano tanto chi le guardava da potersi credere che lo trasformassero in pietra. Si immagina che le Sirene fossero tre, in parte vergini ed in parte uccelli, dotate di ali ed artigli: l’una cantava, l’altra suonava la tibia, l’altra ancora la lira. Attraevano con il proprio canto i naviganti e li facevano poi naufragare. In verità, le sirene furono delle meretrici: poiché portavano i passanti alla miseria, si è immaginato che li conducessero al naufragio (…) Dicono poi che l’Idra fosse un serpente con nove teste, chiamato in Latino excetra, perché al caedere, ossia al tagliare, una testa ne nascevano tre. Consta tuttavia che Idra fosse un luogo che vomitava acque che devastavano una città vicina: al chiudere una delle bocche, se ne aprivano molte altre. Vedendo questo, Ercole prosciugò tali luoghi, chiudendo in tal modo le bocche da cui scaturiva l’acqua. L’Idra ha infatti preso nome dall’acqua (…) Immaginano che la Chimera sia una bestia triforme, con il volto di leone, la coda di drago ed il corpo di capra. Alcuni studiosi dei fenomeni fisici dicono che non si tratta di un animale, ma di un monte della Cilicia che in determinati punti offre nutrimento a leoni e capre, in altri arde ed in altri è pieno di serpenti: Bellerofonte lo rese abitabile e per questo si dice che uccise la Chimera. Fu l’aspetto a dare nome ai Centauri, per metà esseri umani e per metà cavalli: c’è chi dice che si trattasse dei cavalieri tessali, i quali, per come correvano da ogni parte in guerra, davano l’impressione di un unico corpo formato di cavalli ed esseri umani. 41
Capitolo
II
La Passione, la morte, il martirio
1. La visione pancalistica dell’universo
Mathias Grünewald, Crocifissione, particolare, 1515, particolare dell’altare di Isenheim, Colmar, Musée Unterlinden
La cultura greca non riteneva che il mondo fosse necessariamente tutto bello. La sua mitologia ne raccontava brutture ed errori, e per Platone la realtà sensibile era solo una insufficiente imitazione della perfezione del mondo delle idee. In compenso, l’arte vedeva negli dei il modello della bellezza suprema e a tale perfezione mirava la statuaria che rappresentava gli abitanti dell’Olimpo. Paradossalmente, col mondo cristiano il rapporto, almeno per certi aspetti, s’inverte: da un punto di vista teologico-metafisico tutto l’universo è bello perché è opera divina e da questa bellezza totale persino e il brutto e il male vengono in qualche modo redenti; l’espressione umana della divinità, il Cristo, che ha sofferto per noi, viene comunque rappresentata nel momento della sua massima umiliazione. Sin dai primi secoli i padri della chiesa parlano continuamente della bellezza di tutto l’essere. Dal Genesi apprendevano che, al termine del sesto giorno, Dio aveva visto che tutto ciò che aveva fatto era buono (1, 31) e la Sapienza ricordava che il mondo è stato creato da Dio secondo numero, peso e misura, e cioè secondo criteri di perfezione matematica. Accanto alla tradizione biblica, la filosofia classica concorreva a rafforzare questa visione estetica dell’universo. La bellezza del mondo come riflesso e immagine della bellezza ideale era concetto di origine platonica; e Calcidio (IV sec. d.C.) nel suo Commentario al Timeo aveva parlato dello “splendido mondo degli esseri generati... di incomparabile bellezza”.
II. LA PASSIONE, LA MORTE, IL MARTIRIO
Ildegarda di Bingen, L’universo in forma di uovo; la terra con i quattro elementi intorno, da Scivias, Codex Rupertsberg, XII sec.
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Il Medioevo sarà influenzato da un’opera di impronta neoplatonica (V sec. d.C.), il Commento ai Nomi Divini dello Pseudo Dionigi Areopagita. Qui l’universo appare come inesausta irradiazione di splendori, una grandiosa manifestazione della diffusività della bellezza prima, una cascata abbacinante di luci: “Il Bello soprasostanziale è chiamato Bellezza a causa della bellezza che da parte sua viene elargita a tutti gli esseri secondo la misura di ciascuno; essa che, come causa dell’armonia e dello splendore di tutte le cose, getta su tutti, a guisa di luce, le effusioni che rendono belli del suo raggio sorgivo, chiama a sé tutte le cose “donde appunto si dice anche Bellezza - e raccoglie in se stessa tutto in tutto” (Nomi divini, IV, 7, 135) Sulla scia dell’Areopagita, Scoto Eriugena (IX sec.) elaborerà una concezione del cosmo come rivelazione di Dio e della sua bellezza ineffabile attraverso le bellezze ideali e corporali; e si diffonderà sulla venustà di tutta la creazione, delle cose simili e delle dissimili, dell’armonia dei generi e delle forme, degli ordini differenti di cause sostanziali e accidentali conchiusi in meravigliosa unità (La divisione della natura, 3). E non c’è autore medievale che non torni su questo tema della pancalìa o bellezza di tutto l’universo. Per una identificazione tradizionale di Bello e Buono, dire che tutto l’universo era bello significava dire nel contempo che era buono – e viceversa. Come conciliare questa persuasione pancalistica con il fatto evidente che nell’universo esistono il Male e la difformità? La soluzione era stata anticipata da sant’Agostino, che della giustificazione del Male in un mondo voluto da Dio aveva fatto uno dei suoi temi fondamentali. Nel De ordine Agostino argomentava che ci sarebbe, è vero, disarmonia e “insulto per la vista” quando in un edificio apparisse un’errata disposizione delle parti, ma rilevava che anche l’errore fa parte dell’ordine generale. Nelle Confessioni (VII) ci dice che male e brutto non esistono nel piano divino. La corruzione è un danno, ma si parla di danno quando c’è diminuzione di un bene precedente. Se tutto ciò che si corrompe subisce una privazione di valore, allora vuole dire che prima della corruzione c’era valore positivo. Se la privazione di valore fosse totale, una cosa cesserebbe di esistere. Quindi il male e la bruttezza in sé non possono esistere, perché sarebbero “un assoluto niente”. Nel De natura boni contra Manicheos (XVII) (in polemica col manicheismo) Agostino dirà che non è un male nemmeno quella che gli antichi chiamavano hyle, “materia del tutto informe e priva di qualità”. Anche il legname non ancora lavorato “si presta a quanti lo lavorano, in modo che se ne ricavi qualcosa”. Se infatti non potesse accogliere una conformazione imposta da un artefice, non si potrebbe sicuramente chiamare materia.
1. LA VISIONE PANCALISTICA DELL’UNIVERSO
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II. LA PASSIONE, LA MORTE, IL MARTIRIO
Gargouilles di Notre-Dame, ricostruzione del XIX sec., Parigi
Se quindi una conformazione è un bene, donde sono chiamati formosi quanti ne traggono motivo di superiorità, così come speciosi deriva da species, senza dubbio è un qualche bene anche l’idoneità alla conformazione”. Se è bella persino la materia informe, sarà bello anche l’animale che gli incauti giudicano mostruoso, come la scimmia, che manifesta invece una giusta proporzione tra le sue parti. È sulla scia agostiniana che ritroveremo nel pensiero scolastico vari esempi di una giustificazione del Brutto nel quadro della totale bellezza dell’universo, dove anche le deformità e il male acquistano lo stesso valore in cui nel chiaroscuro di un’immagine, nella proporzione tra luci e ombre, si manifesta l’armonia dell’insieme. Si dirà che anche i mostri sono belli in quanto sono esseri e come tali contribuiscono all’armonia dell’insieme e che, se pure il peccato rompe l’ordine delle cose, questo ordine è ristabilito dal castigo, per cui i dannati all’inferno sono esempio di una legge di armonia. Oppure si cercherà di attribuire l’impressione di bruttezza ai nostri difetti percettivi, per cui ad alcuni il brutto può apparire tale per difetto di luce, per la distanza sbagliata, per l’aver guardato di sghimbescio, per
l’aria nebbiosa che deforma il contorno delle cose. 46
1. LA VISIONE PANCALISTICA DELL’UNIVERSO
I mostri nel contesto del cosmo Agostino (IV-V sec d.C.) La città di Dio, XVI, 8 Lo stesso principio che spiega la generazione di uomini mostruosi, spiega anche quella di popoli mostruosi. È Dio che ha creato tutti gli esseri, Egli sa quando e come si deve o si dovrà creare, poiché conosce la bellezza dell’universo e la somiglianza o la diversità delle sue parti. Chi però non può contemplare l’insieme rimane come conturbato dalla deformità di una sua parte, poiché ignora il contesto cui deve essere riferita. Les heures de Croy, cod. 1858, XVI sec., Vienna, Osterreischischen Nationabibliothek
Il brutto contribuisce all’ordine Agostino (IV-V sec d.C.) Sull’ordine, IV, 12-13 Che cosa è più tetro di un carnefice? Che cosa è più truce e crudele di quell’animo? Ma fra le stesse leggi ha un posto necessario ed è inserito nell’ordine di uno stato ben governato (...)Che cosa si può definire più laido, privo di dignità e pieno di sconcezza delle prostitute, dei lenoni, delle altre piaghe di questo genere? Togli le meretrici dalla società e sconvolgerai tutto con le passioni disordinate. Mettile al posto delle donne oneste, disonorerai ogni cosa con la colpa e la svergognatezza (...) Non è vero che se ti fissi solo su alcune membra dei corpi degli animali, non le puoi guardare? Tuttavia l’ordine della natura, poiché sono necessarie, ha voluto che non mancassero e, poiché sono indecenti, non ha permesso che si notassero molto. E quelle parti deformi occupando il loro posto hanno lasciato il luogo migliore alle parti migliori (...) I poeti hanno utilizzato quelli che si chiamano solecismi e barbarismi; hanno preferito, cambiando i nomi, chiamarli figure e trasformazioni, piuttosto che evitarli come evidenti errori. Ebbene, toglili dalle poesie, e sentiremo la mancanza di soavissimi addolcimenti. Riuniscine tanti in un solo componimento, e mi urterà perché sarà tutto lezioso, pedante, affettato (...) L’ordine che li governa e li modera non sopporterà che ve ne siano troppi né che siano ovunque. Un discorso dimesso e quasi trascurato mette in luce le espressioni elevate e i passi eleganti alternandosi ad essi. 47
II. LA PASSIONE, LA MORTE, IL MARTIRIO
Crocifissione, legno, V sec. d. C., Roma, Santa Sabina
Male e Brutto non esistono nel piano divino Agostino (IV-V sec. D.C.) Confessioni, Libro VII Del resto, per Te il male non esiste, e non solo per Te, ma anche per tutto ciò che hai creato, poiché nulla dal di fuori può irrompervi e turbare l’ordine che Tu hai stabilito. È vero che alcuni elementi, siccome non si armonizzano con certi altri, sono giudicati non buoni; ma quegli stessi invece s’accordano poi con altri e per questo sono buoni; anzi sono buoni in se stessi. E tutte le cose che non si armonizzano tra loro, sono però in accordo con la parte inferiore del mondo, quella che chiamiamo terra, a cui si confà un cielo velato di nubi e spazzato dai venti. Lungi da me ormai il pensiero: “O se tutte codeste cose non esistessero!” Se vedessi codeste sole, potrei certo desiderarne di migliori, ma pur di quelle dovrei dartene lode. Degno di lode ti cantano “dalle terra balene e abissi tutti, fuoco e grandine, neve e nebbia, vento tempestoso esecutore dei tuoi ordini”. Bellezza del cosmo Agostino (IV-V sec d.C.) Sulla natura del bene, 3, 14, 15, 16, 17 Quanto più tutte le cose sono secondo misura, forma ed ordine, tanto più sono certamente buone; invece quanto meno sono secondo misura, forma ed ordine, tanto meno sono buone. Prendiamo dunque questi tre aspetti: misura, forma e ordine, per non parlare di altri innumerevoli, che risultano riconducibili ai tre; ebbene proprio questi tre aspetti, misura, forma e ordine, sono come dei
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beni generali nelle realtà fatte da Dio, sia nello spirito che nel corpo (…). Fra tutti questi beni, tuttavia, quelli che sono piccoli, a confronto con i più grandi, sono chiamati con nomi contrari: ad esempio, a confronto con la conformazione umana, dove la bellezza è maggiore, la bellezza di una scimmia viene detta deformità. Sono in tal modo giocati gli incauti, come se quello fosse un bene e questo un male; essi non afferrano nel corpo della scimmia la misura propria, la corrispondenza simmetrica delle membra, la coesione delle parti, la tutela dell’incolumità, e altri aspetti, di cui sarebbe troppo lungo occuparsi. Anche una scimmia possiede il bene della bellezza, benché in grado inferiore (…) Così si parla di luminoso ed oscuro come di due contrari: eppure anche ciò che è oscuro ha una qualche luce; se ne è del tutto sprovvisto, allora ci sono le tenebre in quanto assenza di luce, come il silenzio è assenza di suono (…) Eppure anche queste privazioni delle cose rientrano a tal punto nel generale ordine della natura, da occupare un proprio posto non sconveniente nella considerazione dei sapienti. Dio infatti, non illuminando determinati luoghi e tempi, ha fatto le tenebre in modo conveniente come i giorni. Del resto, se noi, trattenendo il suono, intercaliamo nel discorso un silenzio conveniente, quanto più egli, come artefice perfetto di tutte le cose, produrrà in modo conveniente delle privazioni in alcune di esse? Bello e Brutto Alessandro di Hales (XIII sec. d.C.) Summa Teologica, II Come una pittura con un colore scuro posto nel luogo adeguato è appropriata, così l’insieme delle cose è bello anche coi peccatori. Vincenzo di Beauvais (XII-XIII sec. d.C.) Speculum Majus, 27 La deformità del male non sminuisce la bellezza dell’universo. Roberto Grossatesta (XII-XIII sec. d.C.) In divisione Se la bellezza e la salute, che sono dette buone, sono una proporzione delle parti e dei membri con venustà del colore, (…) nei corpi brutti e malati questa proporzione non si dissolve del tutto, ma solo si trasforma, per cui bruttezza e malattia si dicono bontà minori piuttosto che non mali veri e propri.
2. IL DOLORE DI CRISTO
2. Il dolore di Cristo
Quando l’arte deve considerare la passione di Cristo, si rende conto che come ha detto Hegel nella sua Estetica, “non si può raffigurare il Cristo flagellato, coronato di spine, crocifisso, agonizzante nelle forme della bellezza greca”. Questa accettazione della “bruttezza” di Cristo non è però stata immediata. C’era ? è vero ? una pagina di Isaia in cui si presentava il messia come sfigurato dalla sofferenza, e l’accenno era stato ripreso da alcuni padri della Chiesa, ma Agostino aveva riassorbito questa evidenza scandalosa nella sua visione pancalistica, affermando che Gesù quando pendeva dalla croce appariva certamente deforme, ma che attraverso quella deformità esteriore Gesù esprimeva l’interiore bellezza del suo sacrificio e della gloria che ci prometteva. L’arte paleocristiana si era limitata all’immagine abbastanza idealizzata del Buon Pastore. La crocifissione non era ritenuta soggetto iconografico accettabile e la si evocava al massimo attraverso il simbolo astratto della croce. È stato suggerito che la resistenza a raffigurare Cristo dolorante fosse dovuta anche a controversie teologiche e alla battaglia contro gli eretici che volevano affermarne la sola natura umana negandone la natura divina. È solo nei secoli del Medioevo più maturo che si riconosce nell’uomo in croce un uomo vero, battuto, insanguinato, sfigurato dai patimenti e che la rappresentazione sia della crocifissione che delle varie fasi della passione diventa drammaticamente realistica e celebra nella sua sofferenza l’umanità del Cristo. Nel Compianto su Cristo morto dipinto da Giotto per la cappella degli Scrovegni tutti i personaggi della scena piangono (compresi gli angeli) e suggeriscono al fedele sentimenti di compassione per qualcuno con cui deve identificarsi. In tal modo l’immagine del Cristo dolente passerà anche alla cultura rinascimentale e barocca in un crescendo di erotica del dolore, dove l’insistenza sul volto e sul corpo divino tormentato dai patimenti giocherà ai limiti della compiacenza e dell’ambiguità, come avviene col Cristo più che sanguinante, sanguinolento, de La passione cinematografica di Mel Gibson. Ma Hegel aveva anche ricordato che con il cristianesimo il brutto appare in forma polemica nella rappresentazione dei persecutori di Cristo. 49
II. LA PASSIONE, LA MORTE, IL MARTIRIO
Maestro Teodorico, Imago pietatis, 1360 ca., Castello di Karlsˇtejn
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La deformità di Cristo Agostino, IV-V sec. a.C. Sermone 27, 6 Per sostenere la tua fede Cristo s’è reso deforme, mentre rimane eternamente bello (…) E noi lo abbiamo visto e non aveva bellezza né attrattiva, ma il suo volto era repellente e deforme la sua posizione. Questa è la sua potenza: era disprezzato e la sua posizione era deforme; uomo coperto di piaghe, uno che esperimenta ogni debolezza. La deformità di Cristo ti rende formoso. Se infatti egli non avesse voluto essere deforme, mai tu avresti riacquistato la forma divina che avevi perduta. Era
dunque deforme quando pendeva dalla croce, ma la sua deformità costituiva la nostra bellezza. Pertanto nella vita presente aggrappiamoci a Cristo deforme. Che significa: Cristo deforme? Lungi da me il gloriarmi d’altro all’infuori della croce del nostro Signore Gesù Cristo, ad opera del quale il mondo è a me crocifisso e io lo sono per il mondo. Questa è la deformità di Cristo (…) Della sua deformità noi portiamo il segno nella nostra fronte. Non arrossiamo della deformità di Cristo! Battiamo questa strada e giungeremo alla visione; e quando saremo giunti alla visione, vedremo la sua uguaglianza con Dio.
2. IL DOLORE DI CRISTO
Giotto, Deposizione, 1304-1306, Padova, Cappella degli Scrovegni
L’annuncio del Messia Isaia, 53,2-7 Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.
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II. LA PASSIONE, LA MORTE, IL MARTIRIO
Aelbrecht Bouts, Cristo sofferente, partic., 1490 c., Cambridge (Mass.), Fogg Art Museum
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Aveva ricordato in proposito i pittori dell’alta Germania (e avrebbe potuto aggiungere i fiamminghi) ma si veda come anche un pittore delicato come il Beato Angelico ci mostri un persecutore che non solo è di rozze fattezze, ma volgarmente sputa sul viso di Gesù. Tutto questo non esclude le innumerevoli immagini idealizzate e pacificate di Gesù, sino ai santini popolari che lo rappresentano alto, bello, di lineamenti delicati, spesso sino alla svenevolezza. Ma l’introduzione della bruttezza e della sofferenza nelle celebrazioni del divino ha incoraggiato altri tipi di bruttezza esasperata a fini moralistici e devozionali, dalle immagini della morte, dell’inferno, del diavolo e del peccato a quelle della sofferenza dei martiri.
2. IL DOLORE DI CRISTO
da sinistra a destra Hans Memling, Cristo alla colonna, 1485-1490, Barcellona, Collezione Mateu Maestro ispano-fiammingo, Sepoltura di Cristo (Il Settimo dolore della Vergine), 1488-90 ca., Madrid, Museo del Prado
La Passione di Cristo, regia di Mel Gibson, 2003
La rappresentazione del dolore: Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) Estetica, II, 1 Il vero punto critico in questa vita di Dio è quello in cui egli abbandona la sua esistenza singola come questo uomo, la Passione, il soffrire sulla croce, il calvario dello spirito, il supplizio della morte. Nella misura, ora, in cui qui è implicito nel contenuto stesso che l’apparenza esterna, corporea, l’esistenza immediata come individuo, si mostri nel dolore
della propria negatività come il negativo, perché lo spirito giunga alla propria verità e al proprio cielo mediante il sacrificio del sensibile e della singolarità soggettiva, questa sfera di rappresentazione si stacca più di ogni altra dall’ideale plastico classico (...) Non si può raffigurare nelle forme della bellezza greca il Cristo flagellato, coronato di spine, trascinante la croce fino al luogo del supplizio, crocifisso, agonizzante nei tormenti di una lunga e martoriata agonia. 53
II. LA PASSIONE, LA MORTE, IL MARTIRIO
Hans Holbein, Cristo deriso, 1495 ca., Stuttgart, Staatsgalerie
a fronte Beato Angelico, Cristo deriso, partic., 1440-41, Firenze, Convento di San Marco Hieronymus Bosch (copia da), L’arresto di Cristo, 1500 ca., San Diego, Museum of Art
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I nemici di Gesù Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) Estetica, II, 1 I nemici... in quanto si contrappongono a Dio, lo condannano, lo dileggiano, lo martirizzano, lo crocifiggono, sono rappresentati come internamente malvagi, e la rappresentazione della malvagità interna e dell’ostilità verso Dio comporta all’esterno bruttezza, rozzezza, barbarie, rabbia e deformazione della
figura. Per tutti questi riguardi il non bello si presenta qui, a differenza che per la bellezza classica, come momento necessario (...) In tal campo si sono distinti particolarmente i maestri dell’Alta Germania, quando essi hanno messo in rilievo con grande energia, in scene tratte dalla Passione, la rozzezza della soldataglia, la malvagità delle beffe, la barbarie dell’odio verso Cristo nel corso della sua Passione e Morte.
II. LA PASSIONE, LA MORTE, IL MARTIRIO
3. Martiri, eremiti, penitenti
Maestro della Leggenda di sant’Orsola, Il massacro dei vandali, partic., 1474-1475, Bruges, Groeninge Museum
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Nel mondo cristiano la santità altro non è che imitazione di Cristo. Sofferenza sarà, e atroce, quella di chi dà la vita per testimoniare la sua fede, e a costoro si rivolge Tertulliano (II-III sec. d.C.) nella sua Esortazione ai martiri, invitandoli a sopportare le sofferenze innominabili (ma nominate con malcelato sadismo) a cui andranno incontro. Raramente nell’arte medievale il martire è rappresentato imbruttito dai tormenti come si era osato fare col Cristo. Nel caso di Cristo si sottolineava l’immensità inimitabile del sacrificio compiuto, mentre nel caso dei martiri (per esortare a imitarli) si mostra la serenità serafica con cui essi sono andati incontro alla propria sorte. Ed ecco che una sequenza di decapitazioni, tormenti sulla graticola, asportazione dei seni, può dar luogo a composizioni aggraziate, quasi in forma di balletto. Il compiacimento per la crudeltà del tormento sarà caso mai reperibile più tardi, come vedremo, nella pittura secentesca. In clima rinascimentale e post, nel clima della rivalutazione del corpo umano e della sua bellezza, si ha la tendenza alla eccessiva “pulcrificazione” di un fatto dolorosissimo, così che più che il tormento conta la forza virile o la dolcezza femminea con cui il santo l’affronta. Ed ecco che si hanno compiacenze non di rado omofile, e prove ne siano le varie rappresentazioni del martirio di san Sebastiano. Dove non si concede più nulla alla gentilezza è spesso nella rappresentazione dell’eremita, che per tradizione e definizione è imbruttito dalla lunga permanenza nel deserto. Su questi modelli la spiritualità barocca celebrerà le penitenze dei santi e il loro disprezzo per il corpo, indebolito da digiuni, flagellazioni e altre forme di disciplina (si veda per esempio il testo di padre Segneri). Tra gli eremiti dei primi secoli ovviamente i più imbruttiti erano gli stiliti, che si segregavano al culmine di una colonna, sopportando l’inclemenza degli elementi, gli insetti, i vermi che li ricoprivano, in lotta con visioni straziantemente seducenti o assediati da incubi diabolici (si veda una ripresa moderna del tema in Tennyson).
II. LA PASSIONE, LA MORTE, IL MARTIRIO
Stefan Lochner, Pannelli raffiguranti il martirio degli Apostoli, XV sec., Francoforte, Städelsches Museum a fronte Beato Angelico, Trittico di san Pietro martire, partic., 1425 ca., Firenze, Museo di San Marco
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Esortazione al martirio Tertulliano (II-III sec. d.C.) Esortazione ai martiri, 4 Ma il timore della morte non è tanto grande come il timore dei tormenti. Ricordiamo allora quella famosa femmina ateniese che, pur conoscendo esattamente la trama della congiura e essendo dunque sottoposta ai tormenti dal tiranno, non fece mai i nomi dei congiurati ma alla fine, staccatasi con un morso la lingua, gliela sputò in faccia, perché si sapesse che i tormenti, anche se fossero continuati a lungo, non avrebbero potuto nulla su di lei,. E non è sconosciuto neppure quello che dagli gli Spartani è considerato un rito di massima importanza: la flagellazione. In questa cerimonia sacra i giovani più nobili, davanti a un altare, vengono flagellati sotto gli occhi dei genitori e dei parenti, e
costoro li esortano affinché essi sopportino il dolore. E sarà maggior titolo di onore e di gloria se il corpo perirà sotto le sofferenze ed essi non avranno emesso alcun grido di dolore. Se dunque è lecito, per amore di gloria terrena, richiedere una simile prova di forza e dell’animo e dei sensi, così che essi possano mostrare come non curano l’offesa delle armi, lo strazio delle fiamme, i tormenti della croce, il furore delle belve, la raffinatezza delle torture, tutto solo col miraggio di lode umana, posso ben dire allora che ben piccole sono le sofferenze vostre di fronte al fulgore della gloria divina e della ricompensa celeste. Se tanto stimiamo il vetro, in quale maggior considerazione non dovremo tenere la perla? E chi non vorrà dare per la verità quanto altri hanno offerto di buon grado per la menzogna?
3. MARTIRI, EREMITI, PENITENTI
Brillasse di ghiaccioli nella luna, Oltre il grido dei gufi alzavo i salmi, E a volte, accanto a me, vedevo un angelo, Mentre cantavo, stare ad osservarmi. Adesso sono debole, finito; E sia così, lo spero; mezzo sordo A stento sento il popolo ronzare Ai piedi del pilastro, e quasi cieco A stento riconosco i noti campi; Ed ho le cosce macere per l’umido; E tuttavia non smetto di implorare, Finché mi regga il collo il capo stanco.
William Hone, San Simeone stilita, da The Everyday Book, 1826
a fronte, da sinistra a destra Andrea Mantegna, san Sebastiano, 1457-1459, Vienna, Kunsthistorisches Museum Hans Holbein, Trittico di San Sebastiano, partic., 1516, Monaco di Baviera, Alte Pinakothek Guido Reni, San Sebastiano, 1615, Roma Musei Capitolini El Greco, San Sebastiano, 1620-25, Madrid, Museo del Prado Jusepe de Ribera, San Sebastiano, 1651, Napoli, Museo Capodimonte Gustave Moreau, San Sebastiano, 1870-1875 ca., Parigi, Musée Gustave Moreau
San Simeone Stilita Alfred Tennyson (1809-1892) S. Simeone Stilita Sebbene sia il più misero degli uomini, Una scabbiosa crosta di peccato, Di cielo e terra indegno, buono appena Per legioni di dèmoni blasfemi Non smetto di aggrapparmi a una speranza Di santità, ed invoco fra i singhiozzi, Tempestando di preghi il Paradiso: “Pietà, Signore, e strappami alla colpa”. Questo mi valga, questo non sia vano, Dio giusto e atroce e forte: che trent’anni, Da sovrumani affanni triplicati, In fame e sete, e infreddature e acciacchi, E tossi, e fitte, e febbri, e doglie e crampi, Un segno a mezzo fra le nubi e l’erba, Su quest’alta colonna ho sopportato La pioggia e il vento, e sole e neve e Ed avevo sperato che anzitempo Tu mi avresti chiamato alla tua pace, Dando a quest’ossa rotte alle intemperie La paga santa, palma e veste bianca (…) Sai che in principio sopportavo meglio, Perché ero forte ed integro di corpo; E sebbene i miei denti, ora caduti, Battessero dal freddo, e la mia barba
Penitenze di sant’Ignazio Paolo Segneri (1624-1694) Panegiricho di santo Ignazio di Loyola Sacrificata ch’egli ebbe a Dio la parte superior di sé stesso, ch’era lo spirito, con sì umili avvilimenti, rimanea di sacrificargli ancor l’inferiore, ch’era la carne, con le più dolorose carnificine; e così forse addestrarsi, quasi in battaglia domestica, contro a que’ due tremendi nimici che dovea poi sempre incontrar nel dilatamento della maggior gloria divina per l’universo; affronti d’animo, patimenti di corpo. Come pensate voi dunque che del suo corpo facess’egli governo punto Pietoso? Statemi a udire e poi, se potete, lasciate d’inorridirvi. Vestir di sopra un ruvidissimo sacco e di sotto un irto cilicio: fasciarsi i nudi fianchi or di ortiche asprissime, or di virgulti spinosi, or di ferri aguzzi; digiunare ogni giorno, tranne le domeniche, a pane e acqua, e le domeniche aggiugnervi per delizia qualch’erba amara, stemperata or con cenere ed or con terra; passare quando i tre, quando i sei, e quando ancora gli otto giorni interissimi senza cibo; flagellarsi ben cinque volte fra notte e giorno, sempre a catena ed a sangue; con una selce usar furiosamente di battersi il petto ignudo, non aver letto, dove adagiare le membra, che ‘l terren duro, non altro guanciale, dove appoggiare la testa, che un macigno gelato; spendere ginocchione sette ore ‘l giorno in profonda contemplazione, non rimaner mai di piagnere, non cessar mai di straziarsi, questo fu l’invariabil tenor di vita, ch’ei nella grotta di Manresa menò, senza alleviarlo mai punto per le lunghe e tormentosissime infermità ch’egli ben presto contrasse, di languidezze, di tremori, di spasimi, di tramortimenti, di febbri eziandio mortali. 61
II. LA PASSIONE, LA MORTE, IL MARTIRIO
4. Il trionfo della morte
La Danza dei morti, particolare da Heures à l’usage de Rome, 1515 ca., Paris, Gillet Haroduin
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Se il santo attendeva la morte in letizia, altrettanto non si poteva dire delle grandi masse di peccatori; in questo caso, non si trattava tanto di invitarli ad accettare serenamente il momento del trapasso quanto di rammentar loro l’imminenza di quel valico, in modo che potessero pentirsi in tempo. Pertanto, sia la predicazione verbale sia le immagini che apparivano nei luoghi sacri erano intese a ricordare sia l’imminenza e l’inevitabilità della morte che a coltivare il terrore delle pene infernali. Che il tema fosse particolarmente sentito nei secoli medievali (ma anche oltre) era dovuto al fatto che, in epoche in cui la vita era più breve della nostra e si cadeva facilmente preda di pestilenze e carestie, vivendo in uno stato di guerra quasi permanente, la morte appariva come una presenza ineliminabile – molto più di quanto non accada ai giorni nostri, quando, vendendo modelli di giovinezza e prestanza, ci si sforza di dimenticarla, occultarla, relegarla nei cimiteri, nominarla solo attraverso perifrasi, oppure esorcizzarla riducendola a semplice elemento di spettacolo, grazie al quale si dimentica la morte propria per divertirsi su quella altrui. In letteratura il tema del trionfo della morte appare nel XII secolo, coi Vers de la mort di Hélinand de Froidmont, e continua anche nelle variazioni sul tema poetico dell’ubi sunt (dove sono le belle donne, le splendide città di un tempo, tutto è scomparso). Talora, nel Medioevo, la morte appare come qualcosa di doloroso ma familiare, una sorta di personaggio fisso (talvolta quasi burattinesco) nel teatro della vita. In molti cicli pittorici (come nel Camposanto di Pisa) viene celebrato il Trionfo della Morte. A Roma, durante il trionfo degli condottieri vittoriosi, un servo che stava accanto al celebrato sul cocchio, gli ripeteva continuamente “ricordati che sei un uomo”, una sorta di memento mori. Su questo modello nasce una letteratura dei Trionfi (vedi per esempio Petrarca) in cui è sempre presente anche un Trionfo della Morte, che vince ogni umana vanità, il tempo e la fama. Il Trionfo della Morte si accompagna alla visione del Giudizio Finale, altra forma di monito per il fedele, e ispira azioni teatrali e carri carnevaleschi (vedi Vasari).
II. LA PASSIONE, LA MORTE, IL MARTIRIO
Trionfo della morte, 1485, Clusone, Oratorio dei Disciplini
La morte in un’ora Hélinand de Froidmont (1160-1229) Vers de la mort La Morte in un’ora tutto disfa. A cosa vale la bellezza, a cosa vale la ricchezza? A cosa valgono gli onori, a cosa vale la nobiltà? Trionfo della morte Petrarca (1304-1374) Trionfo della morte, I, vv.73-90 Ed ecco da traverso piena di morti tutta la campagna, che comprender nol pò prosa né verso; da India, dal Cataio, Marrocco e Spagna (...) Ivi eran quei che fur detti felici, pontefici, regnanti, imperadori; or sono ignudi, miseri e mendici. U’ sono or le ricchezze? u’ son gli onori e le gemme e gli scettri e le corone e le mitre e i purpurei colori? Miser chi speme in cosa mortal pone (ma chi non ve la pone?), e se si trova a la fine ingannato è ben ragione. O ciechi, el tanto affaticar che giova?
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Carnevale 1511 Giorgio Vasari (1511-1574) Vite, Vita di Piero di Cosimo, III Era il trionfo un carro grandissimo tirato da bufoli tutto nero e dipinto di ossa di morti, e di croci bianche, e sopra il carro era una morte grandissima in cima con la falce in mano, et aveva in giro al carro molti sepolcri col coperchio, et in tutti que’ luoghi che il trionfo si fermava a cantare s’aprivano et uscivano alcuni vestiti di tela nera, sopra la quale erano dipinte tutte le ossature di morto nelle braccia, petto, rene e gambe, che il bianco sopra quel nero, et aparendo di lontano alcune di quelle torcie con maschere che pigliavano col teschio di morto il dinanzi e ‘l dirieto e parimente la gola, oltra al parere cosa naturalissima era orribile e spaventosa a vedere. E questi morti al suono di certe trombe sorde, e con suon roco e morto, uscivano mezzi di que’ sepolcri, e sedendovi sopra cantavano”…
4. IL TRIONFO DELLA MORTE
da sinistra a destra Corpo mummificato, 1599 ca., Palermo, Catacomba dei cappuccini Corpi mummificati, 1599 ca., Palermo, Catacomba dei cappuccini Teschio da sarcofago dell’imperatore Carlo VI, 1618 ca., Vienna, cripta della chiesa dei cappuccini
Appena questo corpo… Sebastiano Paoli (1684 – 1751) Prediche quaresimali Appena questo corpo, ben composto tuttavia e ben organizzato, sarà chiuso nel sepolcro e mutatosi di colore diviene giallo e smorto, ma di un certo pallore e di una certa smortezza che fa nausea e dà paura. Annerisce poi tutto da capo a’ piedi; ed un calore tetro e fosco, come di carbone spento, lo riveste e lo ricopre. Indi sul viso e sul petto e sul ventre comincia stranamente a gonfiarsi: sul quale stomachevole gonfiamento nasce una muffa fetida e grassa, lordo argomento della corruzione vicina. Né molto va, che il ventre cosl giallo e gonfio comincià a squarciarsi e a dare qua uno scoppio e là una rottura: dalle quali ne sbocca fuori una lenta
lava di marciume e di schifezze in cui a pezzi ed a bocconi qualla carne nera e marciosa galleggia e nuota. E dove vedesi ondeggiare un mezzo occhio inverminito, ove uno squarcio di labbro putrido e corrotto; e più avanti un gruppo di budella lacere e livide. In questo grasso fango si genera poi una quantità di picciole mosche, di vermi e di altri schifosi animaletti che bullicano e si aggomitolano in quel sangue corrotto, e attaccatisi a quella carne marcita se la mangiano e se la divorano. Una parte di questi vermi sorge dal petto, un’altra con un non so che di sporco e di muccoso cola dalle narici; altri invischiati in quella putredine entrano ed escono per bocca, ed i più satolli vanno e vengono, gorgogliano e rigorgogliano giù per la gola.
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4. IL TRIONFO DELLA MORTE
Maestro del Reno Superiore, Gli amanti trapassati, la Morte e la Lussuria, XVI sec., Musée de Strasbourg
Altre storie illustrate raccontano di tre cavalieri che nel bosco incontrano tre scheletri che si mostrano come lo specchio del prossimo futuro che attende tutti (la didascalia dice “Noi eravamo come voi adesso siete, voi sarete come noi ora siamo!”). Talora incontrano un corpo decomposto e un monaco ricorda loro il destino che li attende. Al tema sono dedicati molti affreschi come L’incontro dei tre vivi e dei tre morti (XIV sec.), nell’Abbazia di Santa Maria di Vezzolano, il Contrasto dei tre vivi e dei tre morti (XV sec.), nella Sagrestia di San Luca, a Cremona, o l’affresco ora mutilo sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini a Elusone (XV sec.), che riunisce i due temi del trionfo della morte e della danza macabra. In epoca moderna, forse anche in concomitanza con l’esperienza dei primi anfiteatri anatomici, all’idea ancora carnascialesca del trionfo si sostituisce nella letteratura penitenziale la descrizione minuta e orripilante dei sussulti dell’agonia o del corpo morto in putrefazione (e si veda per esempio il testo di Sebastiano Pauli). Nella letteratura moderna innumerevoli sono le variazioni sul trionfo della morte e basti citare a esempio Baudelaire e un recente testo di De Lillo. Un’altra delle forme sia dotte che popolari della celebrazione della morte è stata la Danza Macabra che si svolgeva nei luoghi sacri e nei cimiteri. L’etimologia del termine macabro, abbastanza recente, rimane controversa (forse viene dall’arabo o dall’ebraico, forse da un nome di persona come Macabré) e probabilmente il rito nasce a causa dei terrori diffusi dalla grande peste nera del XIV secolo, non tanto per accrescere il terrore dell’attesa quanto per esorcizzare la paura e prendere confidenza col momento finale. La danza mostra papi, imperatori, monaci o fanciulle che danzano tutti insieme guidati da scheletri, e celebra la caducità della vita e il livellamento di ogni differenza di ricchezza, età e potere. Una delle immagini più antiche (ora perduta) è del 1424, nel cimitero parigino dell’Église des Innocents, e ne rimangono solo riproduzioni incise. Nel rinascimento appare una serie di libri di piccolo formato con le incisioni della Danza Macabra, le più celebri dovute a Hans Holbein e poi sempre riprodotte sino ai giorni nostri: è una sequenza di scene quotidiane o di episodi biblici in cui uno o più scheletri accompagnano i protagonisti umani, per ricordare che la morte, sempre in attesa, è compagna ineliminabile della vicenda umana. Molti esempi delle prime immagini proiettate grazie alla tecnica della “camera oscura” nel XVII secolo hanno come tema lo scheletro, e forse l’ultima e celebre riapparizione della Danza Macabra la si vede ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. 67
II. LA III. LAPASSIONE, PASSIONE,LA LAMORTE, MORTE,ILILMARTIRIO MARTIRIO
Trionfo della morte, inizio XV sec., Palermo, Palazzo Abatellis, Museo regionale della Sicilia nelle pagine seguenti Pieter Bruegel il Vecchio, Trionfo della morte, 1562, Madrid, Museo del Prado
Danza macabra Charles Baudelaire (1821-1867) Quadri parigini Fiera quanto un vivente di sua nobile statura, Col suo mazzo di fiori, fazzolettino e guanti, Essa ha la svagatezza e la disinvoltura D’una civetta magra, dai modi stravaganti. Quando si vide a un ballo un vitino più snello? La veste esagerata, nel suo regale onore, Ricade largamente, sul piede asciutto, stretto Nello scarpin dal fiocco grazioso come un fiore. I nastri che folleggiano sopra le sue clavicole, Lascivo ruscelletto che gioca con lo scoglio, Pudicamente velano contro i lazzi ridicoli Le funebri sue grazie che preferisce ascondere. Gli occhi profondi sono e di vuoto e di tenebre, Il suo cranio, di fiori praticamente ornato,
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Oscilla mollemente sulle fragili vertebre. Oh l’incanto di un nulla follemente azzimato! Ti chiameranno alcuni una caricatura, indegni di comprendere, ebbri amator di carni, L’eleganza indicibile dell’umana armatura: Tu rispondi, gran scheletro, ai miei gusti più cari! Vieni forse a turbare col tuo ghigno potente La festa della Vita? Qualche vecchio desire Spronando ancora questa tua carcassa vivente Ti spinge forse, credula, al sabba del Piacere? Al canto dei violini, alla luce che abbaglia Speri tu di scacciare l’incubo schernitore E vieni a domandare al torrente dell’orgia Di rinfrescar l’inferno che ti brucia nel cuore? O inesauribil pozzo di peccatore di errori! Dall’antico dolore ho l’eterno alambicco! Attraverso l’intreccio curvo delle tue costole Io vedo errare ancora l’insaziabile serpente.
4. IL TRIONFO DELLA MORTE
Quando sarò morto William Shakespeare Sonetti, 71 (1609) Quando io morirò, il tuo pianto duri non più della campana che, in dolenza, annuncerà al mondo che fra impuri vermi ho portato la mia residenza. Se leggerai i miei versi, scorda allora chi li compose: tanto è il mio amore che, se la memoria ti addolora, voglio sparire dal tuo dolce cuore. Se tu li leggerai, io non so come, quando all’argilla sarò mescolato, non nominare il mio povero nome, fa che il tuo amore sia con me annullato: non veda il saggio mondo il tuo sconforto, e beffi te, per me che sarò morto. Una veduta di sala anatomica Sylvia Plath (1932-1963) Nel brugeliano panorama di fumo e macello Solo in due sono ciechi a quell’orda di putredine: Alla deriva nel mare della serica azzurra Gonna di lei, egli canta in direzione Della sua nuda spalla e su di lui si china Lei solfeggiando un foglietto di musica Entrambi sordi al violino della testa-dimorto Che adombra la loro canzone. Questi fiamminghi in fiore; non per molto. E tuttavia la desolazione del quadro risparmia la piccola contrada Assurda, delicata, nell’angolo in basso a destra.
Commento al trionfo della morte di Bruegel Don DeLillo (1936) Underworld Morti che sono venuti a prendere i vivi. Morti avvolti nel sudario, reggimenti di morti a cavallo, uno scheletro che suona l’organetto (…) Osserva la carretta dei condannati a morte piena di teschi. È fermo nel corridoio e guarda l’uomo inseguito dai cani. Guarda il cane macilento che mordicchia il neonato tra le braccia della madre morta. Sono segugi lunghi, scarni e famelici, sono cani da guerra, cani dell’inferno, segugi da fossa comune infestati dai parassiti, da tumori canini e cancri canini. Il caro Edgar senza-germi, l’uomo che ha installato in casa un impianto di filtraggio dell’ aria per vaporizzare le particelle di polvere – è affascinato da ulcere, lesioni e corpi macilenti a patto che il suo contatto con la fonte sia puramente figurativo. Trova una seconda donna morta nel mezzo della scena, cavalcata da uno scheletro. La posizione è inequivocabilmente sessuale. Ma è proprio sicuro Edgar che sia una donna quella che viene montata e non un uomo? È fermo nel corridoio circondato da gente festante e ha gli occhi fissi sulle pagine. Il quadro possiede un’immediatezza che Edgar trova strabiliante. Si, i morti si accaniscono sui vivi. Ma poi incomincia ad accorgersi che i vivi sono peccatori. Giocatori di carte, amanti libidinosi, vede il re in manto di ermellino con le sue ricchezze ammassate dentro barilotti. I morti sono venuti a svuotare le borracce ricolme di vino, a servire un teschio sul piatto di portata a una tavolata di notabili. Vede ingordigia, lussuria e cupidigia (…) Scheletri che suonano il timpano. Il morto vestito di un saio che taglia la gola a un pellegrino. I colori della carne sanguinolenta e le cataste di corpi, questo è un censimento dei modi più orribili di morire. Guarda il cielo fiammeggiante all’estremo orizzonte, al di là dei promontori sulla pagina di sinistra – la Morte altrove, la Conflagrazione diffusa, il Terrore dappertutto, cornacchie, corvi in silenziosa planata, il corvo appollaiato sulla groppa del cavallino bianco, bianco e nero per sempre. 69
2. Cin cin
Capitolo
III
L’apocalisse, l’inferno e il diavolo
1. Un universo di orrori Il brutto, sottoforma di terrificante e di diabolico, fa il suo ingresso nel mondo cristiano con l’Apocalisse di San Giovanni Evangelista. Non è che mancassero accenni al demonio e all’inferno nell’Antico Testamento e negli altri libri del Nuovo. Ma in quei testi il diavolo è più che altro nominato attraverso le azioni che compie o gli effetti che produce (per esempio le descrizioni degli indemoniati nei Vangeli), fatta eccezione per la forma di serpente che assume nel Genesi. Esso non appare mai con l’evidenza “somatica” con cui lo rappresenterà il Medioevo; e dell’oltetretomba si citeranno in modo abbastanza generico i patimenti che soffriranno i peccatori (pianto e stridor di denti, fuoco eterno) ma non verrà mai offerta alcuna immagine vivace ed evidente.
Lotta con le locuste Apocalisse di san Severo, XI sec., Parigi, Bibliothèque Nationale
L’Apocalisse è invece una sacra rappresentazione (oggi diremmo addirittura un disaster movie, uno di quei film che raccontano di incendi, terremoti, cataclismi) dove nessun dettaglio ci viene risparmiato. Beninteso, a patto di non tentare di questo testo una interpretazione allegorica, come è stato fatto dai vari esegeti, ma a leggerlo come racconto letterale di “cose vere” che accadranno, perché è così che lo ha letto o ne ha sentito riferire la cultura popolare ed è così che ha ispirato le immagini artistiche dei secoli a venire. Sul finire del primo secolo della nostra era, nell’Isola di Patmos, l’apostolo Giovanni (o in ogni caso l’autore del testo) ha una visione e ce ne parla secondo le regole del genere letterario “visione” (o apokalypsis, rivelazione), comune alla cultura ebraica. 73
III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
L’autore ode una voce che gli impone di scrivere quello che vedrà e di inviarlo alle sette Chiese della provincia asiatica. E vede sette lampade d’oro e in mezzo a esse uno simile a figlio d’uomo, con i capelli candidi, gli occhi di fuoco e i piedi ardenti come bronzo fuso, e la voce come fragore di molte acque. Esso tiene nella destra sette stelle e dalla bocca gli esce una spada. E vede un trono con Uno assiso, avvolto in un’iride simile a smeraldo, intorno al trono ventiquattro Vegliardi, e intorno al trono quattro Viventi, un leone, un toro, un animale con fattezze d’uomo e un’aquila in volo. E nella destra di colui che sta sul trono sta un libro dai sette sigilli che nessuno riesce ad aprire. Sino a che non viene un Agnello con sette corna e sette occhi, adorato dai Viventi e dai Vegliardi e, aperto il primo sigillo, appare un cavallo bianco montato da un cavaliere vittorioso; aperto il secondo ecco un cavallo fulvo montato da uno con una grande spada; aperto il terzo, si vede un cavallo nero montato da chi portava una bilancia; aperto il quarto, un cavallo vedastro montato dalla Morte; e aperto il quinto è la volta dei martiri; aperto il sesto avviene un grande terremoto; il sole si fa nero e la luna di sangue, cadono le stelle e il cielo si avvolge come un volume che si arrotola. Prima che il settimo sigillo sia aperto appare la moltitudine biancovestita degli eletti da Dio, poi il sigillo viene dischiuso, e i sette angeli che stanno ritti davanti a Dio prendono a suonare loro sette trombe. E a ogni squillo di una delle trombe sopravvengono grandine e fuoco a devastare la terra, la terza parte del mare si fa sangue, periscono tutte le creature, cadono stelle e sono ridotti di un terzo tutti i pianeti; si apre il pozzo dell’abisso, da cui escono fumo e cavallette, come guerrieri terribili guidati dall’Angelo dell’Abisso; e quattro angeli, sciolti dal fiume Eufrate dove stavano legati, muovono con eserciti innumerevoli di genti con corazze di fuoco, e cavalli con teste di leoni, e ne perisce la terza parte degli abitanti della terra, ferita dalle code dei cavalli, simili a serpenti, e dalle bocche belluine. Al suono della settima tromba, mentre appare l’Arca dell’Alleanza, ecco una Donna, vestita di sole e di luna, incoronata da dodici stelle, e un Drago rosso, con sette teste coronate di diademi, e dieci corna; e un figlio che nasce, assunto in cielo a fianco di Dio. Si svolge una battaglia terribile tra Michele, gli angeli e il Drago, il Drago che precipita a terra e tenta di colpire la Donna, che gli sfugge grazie a mirabili interventi delle forze naturali, mentre il Drago si arresta sulla riva del mare, e dal mare sorge una Bestia con dieci corna e sette teste, simile a pantera con zampe d’orso e bocca di leone, e con la terra intera, che ora l’ammira, mentre vomita orribili bestemmie contro Dio, fa guerra ai santi e li vince, assistita da un’altra Bestia sorta dalla terra, un falso profeta (che la tradizione successiva identificherà con l’Anticristo) che rende tutti gli uomini succubi e schiavi della prima Bestia. Ma è giunta l’ora della prima riscossa: riappare l’Agnello con centoquarantaquattromila eletti votati alla verginità, angeli profetizzano 74
1. UN UNIVERSO DI ORRORI
La meretrice di Babilonia, Apocalisse del Beato di Burgo de Osma, XI sec., Archivio della Cattedrale Albrecht Dürer, I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1511, Parigi, Muée du Louvre
la caduta di Babilonia; e giunge su una nuvola bianca il giudice supremo, che è simile a figlio di uomo e reca una falce affilata come gli angeli che lo coadiuvano, così che ne consegue un grande e punitivo massacro. Angeli con sette flagelli completano l’opera, la Bestia è vinta. S’apre nel cielo la Tenda della Testimonianza e gli angeli dai sette flagelli recano sette coppe ricolme dell’ira di Dio che ancora una volta spandono morte e terrore e ulcere maligne; l’acqua del mare e dei fiumi si tramuta in sangue, il sole brucia i sopravvissuti, le tenebre e la siccità tormentano i viventi, mentre dalla bocca del Drago, della Bestia e del falso profeta escono tre spiriti impuri simili a rane. Essi adunano tutti i re della terra e avviene la battaglia decisiva tra le forze del bene e quelle del male, nel luogo detto Armageddon. La meretrice appare ancora su una bestia scarlatta con sette teste e dieci corna, recando un calice colmo di tutte le sue impudicizie; ma sarà condotta a rovina dalla ribellione della folla che aveva sedotto. Crolla Babilonia, e l’ira di Dio distrugge la città. Gli angeli, i Vegliardi e i Viventi cantano la vittoria di Dio, appare nel cielo un guerriero su un cavallo bianco, che conduce bianchi eserciti vittoriosi, e tutti insieme catturano la Bestia e la precipitano insieme al falso profeta in un lago di fuoco ardente di zolfo. 75
III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
Arazzi dell’Apocalisse, 1300 ca., Angers a fronte La bestia che viene dal mare, Apocalisse di Bamberg, ms. 140, XI sec., Staat Bibliothek,
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A questo punto il ventesimo capitolo dice che viene un angelo che incatena il Drago nell’Abisso, ove starà per mille anni. Dopo mille anni, Satana, il Drago, tornerà per breve tempo a sedurre le genti, ma sarà destinato a essere sconfitto un’ultima volta, e gettato nella palude di zolfo, col falso profeta e la Bestia. Mentre Cristo e i suoi beati regneranno per mille anni sulla terra. Si compie infine il Giudizio Finale e appare, discesa dal cielo, la città Santa, la Gerusalemme Celeste, sfolgorante di oro e di gemme (ma questa splendida visione, che meriterebbe un capitolo a sé, riguarda una storia della bellezza). È evidente quale repertorio di creature mostruose e vicissitudini tremende questa visione abbia introdotto nell’immaginario cristiano. Ma soprattutto quello che ha generato secoli di discussioni è l’ambiguità sostanziale del capitolo 20. Secondo una interpretazione, il millennio in cui il diavolo resta incatenato non è ancora iniziato e quindi si è ancora in attesa di una età dell’oro. Oppure, come interpreterà Agostino nella Città di Dio, il millennio rappresenta il periodo che va dall’Incarnazione alla fine della storia, quindi è quello che si sta già vivendo. Ma in tal caso all’attesa del millennio si sostituisce l’attesa della sua fine, con i terrori che vi faranno seguito, il ritorno del demonio e del suo falso profeta, l’Anticristo, la seconda venuta di Cristo e la fine del mondo.
1. UN UNIVERSO DI ORRORI
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III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
Una lettura del genere colmò di angosce, appunto millenaristiche, coloro che vivevano la fine del primo millennio. La storia dell’Apocalisse si muove tra queste due letture possibili con una alternanza di euforia e disforia e un senso di perenne attesa e tensione per qualcosa (meraviglioso o tremendo) che deve avvenire. Ma l’Apocalisse e i suoi esegeti di tutto questo avevano solo parlato: non restava che tradurlo in immagini, comprensibili anche agli illetterati. Tra tutte le interpretazioni del testo giovanneo, il maggior successo lo ottiene un commento elefantiaco, centinaia di pagine contro le poche decine che conta il testo interpretato: è In Apocalipsin, Libri Duodecim di Beato abate di Liébana (730-785), che scrive nella Spagna visigotica alla corte del re di Oviedo. Inutile elencare le ingenuità e le farragini di questo commento: forse ha affascinato proprio per la sua eccitata lutulenza. In ogni caso esso viene copiato in numerosi manoscritti, ciascuno ornato da splendide miniature (capolavori dell’arte mozarabica), in una raffica impressionante di codici di favolosa bellezza, tutti prodotti tra X e XI secolo. Queste miniature dei cosiddetti “Beati” ispireranno gran parte dell’arte figurativa medievale, prima di tutto le sculture delle abbazie romaniche che si stendevano lungo le quattro vie di pellegrinaggio a Santiago de Compostela, ma poi anche quelle delle cattedrali gotiche. Dei temi apocalittici, questi portali e questi timpani sfrutteranno il Cristo in trono circondato dai quattro evangelisti, il Giudizio Finale e pertanto l’inferno. Per altre vie, invece, attraverso altri codici miniati e diversi cicli pittorici, si diffonderanno le immagini diaboliche, i draghi dell’abisso, le bestie con sette teste e dieci corna, la meretrice di Babilonia sulla bestia scarlatta. Così, dalla traduzione visiva di un testo visionariamente splendido (al di là della promessa di gloria finale con cui si conclude), la paura della fine entra nell’immaginario medievale. L’influenza più storicamente visibile del testo di Giovanni è stata in ogni caso di carattere sociale e politico e concerne i cosiddetti “terrori del millennio” e la nascita dei movimenti millenaristici. Per lungo tempo si è creduto che, nella notte fatale dell’ultimo 31 dicembre del millennio, l’umanità avesse vegliato nelle chiese attendendo la fine del mondo, salvo erompere in canti di sollievo al mattino seguente, e su questa leggenda si erano diffusi gli storici romantici. In realtà non solo i testi dell’epoca non recano alcuna traccia dei terrori, ma le uniche fonti a cui si erano rifatti i sostenitori dei terrori erano costituite da autori cinquecenteschi. Gli umili a quell’epoca non sapevano neppure di trovarsi nell’anno mille, perché la datazione dalla nascita di Cristo, e non dal preteso inizio del mondo, non era ancora di uso corrente. Recentemente si è sostenuto che terrori endemici ci sarebbero stati, ma sotterranei, in ambienti popolari sobillati da predicatori in odore d’eresia, e che per questo i testi ufficiali non ne avevano parlato. 78
1. LA VISIONE PANCALISTICA DELL’UNIVERSO
Inferno, Conques, abbazia di Sainte Foy, XII sec.
Prima della fine Vincenzo di Beauvais (XII-XIII sec.) Speculum Historiale, XXXI, 111 Nel primo giorno il mare si alzerà di quaranta cubiti sopra i monti e si ergerà dalla sua superficie come un muro. Nel secondo giorno sprofonderà a tal segno che a stento si potrà vedere. Nel terzo giorno i mostri marini appariranno sulla superficie del mare e manderanno ruggiti fino al cielo. Nel quarto il mare e le acque prenderanno fuoco. Nel quinto le erbe e gli alberi stilleranno rugiada di sangue. Nel sesto crolleranno gli edifici.
Nel settimo le pietre cozzeranno fra di loro. Nell’ottavo ci sarà un terremoto universale. Nel nono la terra sarà livellata. Nel decimo gli uomini usciranno dalle caverne e andranno come impazziti vagando senza potersi parlare. Nell’undicesimo risorgeranno le ossa dei morti. Nel duodecimo cadranno le stelle. Nel tredicesimo moriranno i superstiti per risorgere coi morti. Nel quattordicesimo cielo e terra bruceranno. Nel quindicesimo ci saranno un nuovo cielo e una . nuova terra e tutti risorgeranno.
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III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
Gog e Magog, Apocalisse del Beato di Burgo de Osma, XI sec., Archivio della Cattedrale
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In ogni caso, se non sui terrori di quella fatale fine d’anno, sui terrori millenaristici si sono intrattenuti molti autori medievali, come Rodolfo il Glabro, e pertanto angosce per la fine del mondo sono sempre riaffiorate nella cultura medievale. Occorre capire che per uomini di secoli tormentati dalle invasioni e i massacri seguiti al crollo dell’impero romano la visione di Giovanni non era una fantasia mistica bensì il ritratto veritiero di quanto stava loro accadendo e minaccia di quel che sarebbe ancora accaduto. Però, se le inquietudini prima del Mille venivano sofferte passivamente da popolazioni contadine che non potevano concepire alcun riscatto, nel nuovo millennio si disegna tutta una gamma di differenze sociali e nuove masse che oggi definiremmo “sottoproletarie” vedono nell’Apocalisse la promessa di un futuro migliore da ottenere attraverso la rivolta. Il millenarismo genera movimenti mistici come il profetismo di Gioachino da Fiore (che parla di una comunità dell’eguaglianza che dovrà istaurare una età dell’oro) e il rigorismo francescano dei cosiddetti fraticelli, ma in vari gioachimismi il passaggio a questa Terza Età si disegna spesso come opposizione al potere costituito e al mondo della ricchezza. Allora la pulsione mistica sfocia nell’anarchia, e rigorismo e dissolutezza, sete di giustizia e banditismo, vanno a caratterizzare gruppi di irrequieti affascinati da un leader carismatico – dove dell’ispirazione apocalittica emerge soltanto il gusto per la violenza purificatrice, che non di rado si esercita (per individuare un rappresentante dell’Anticristo) sugli ebrei. Movimenti millenaristici sono apparsi in vari secoli, e ancora ne nascono ai tempi nostri, in comunità marginali che talora hanno dato luogo persino a suicidi collettivi. Per l’inizio dei tempi moderni basterebbe ricordare episodi come quelli in cui, durante la riforma protestante, la rivolta dei contadini viene trasformata da Thomas Müntzer (che si definiva la falce che Iddio aveva affilato per mietere i nemici, e vedeva in Lutero la Bestia e la Meretrice di Babilonia) nell’utopia di una società egualitaria, o agli anabattisti di Münster, che chiamano la loro città Nuova Gerusalemme, annunciano la distruzione del mondo prima di Pasqua, vedono in Giovanni di Leida il Messia degli ultimi giorni, e muoiono in un immane massacro, che sembra immaginato da Giovanni nell’Apocalisse. Questi e altri movimenti nascevano come reazione alle brutture narrate dal veggente di Patmos, nell’intento di superarle realizzando un’epoca felice in cui Satana con le sue opere e le sue pompe fosse definitivamente debellato. Che poi, talora, i seguaci dell’Apocalisse abbiano ceduto ancora una volta al fascino della Bestia e della sua violenza, facendo colare altri fiumi di sangue, è solo un’altra prova delle capacità di seduzione di quel testo terribile.
1. UN UNIVERSO DI ORRORI
I terrori del millennio Rodolfo il Glabro (X-XI sec.) Storie dell’anno mille, IV, 9-10 All’avvicinarsi dell’anno 1033 dall’Incarnazione di Cristo, cioè il millesimo dalla passione di Cristo Salvatore, morirono uomini celeberrimi nel mondo latino (…) In seguito la fame cominciò a diffondersi in ogni parte del mondo, minacciando di morte quasi tutta l’umanità. Le condizioni climatiche erano così sconvolte, che non arrivava mai il momento opportuno per nessuna semina né il tempo utile per la mietitura, soprattutto a causa delle inondazioni. Pareva che gli elementi lottassero tra loro in reciproco conflitto, mentre è certo che infliggevano una punizione alla superbia degli uomini (…). Ogni strato della popolazione fu colpito dalla penuria di cibo; ricchi e meno ricchi diventavano smorti per la fame quanto i poveri (…). Frattanto, dopo essersi cibata di quadrupedi e uccelli, la gente, sotto i morsi tremendi della fame, cominciò a prendere per nutrimento ogni sorta di carne, anche di bestie morte, e altre cose schifose. Taluni cercarono di sfuggire alla morte mangiando radici silvestri e piante acquatiche, ma inutilmente: non si trova scampo all’ira vendicatrice di Dio, se non rivolgendosi a sé stessi. Si inorridisce a descrivere le perversioni cui l’umanità andò soggetta. In quel tempo – oh sventura! – la furia della fame costrinse gli uomini a divorare carne umana. I viandanti venivano ghermiti da uomini più forti di loro, squartati, cotti sul forno e divorati. Molti tra coloro che migravano da un luogo a un altro per sfuggire all’inedia, furono sgozzati di notte nelle case dove venivano accolti e diedero nutrimento ai loro ospiti. Moltissimi adescavano i bambini con un frutto o un uovo, li inducevano a seguirli in posti appartati, li trucidavano e li divoravano. In innumerevoli luoghi perfino i cadaveri furono dissepolti e usati per calmare la fame. Tanto dilagò quell’insano furore, da lasciare più al sicuro dal rischio di sequestri il bestiame abbandonato che l’uomo. Come se ormai stesse diventando un fatto abituale il mangiare carni umane, un tale ne portò di cotte per metterle in vendita sul mercato di Tournus, quasi si trattasse di comune carne animale.
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III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
2. L’inferno
a fronte Hans Memling, Trittico con il Giudizio universale, partic., 1467-1471, Danzica, Muzeum Narodowe
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Anche se termina con la visione di Satana precipitato nei mondi infernali, dai quali non uscirà mai più, non è tuttavia l’Apocalisse ad aver introdotto nel mondo cristiano l’idea dell’inferno. Molte religioni avevano già molto prima concepito un luogo di solito sotterraneo dove vagavano le ombre dei morti. Nell’Ade pagano Demetra va a cercare Persefone rapita dal re degli inferi, Orfeo discende per salvare Euridice, si avventurano Ulisse ed Enea. Di un luogo di pena parla il Corano. Nell’Antico Testamento leggiamo accenni a un “soggiorno dei morti”, senza peraltro che vi si parli di pene e tormenti, mentre più espliciti sono i Vangeli, nei quali si menzionano l’Abisso e specialmente la Geenna e il suo fuoco eterno, dove “sarà pianto e stridor di denti”. Il Medioevo aveva prodotto molte descrizioni degli inferi e molti resoconti di viaggi infernali, dalla Navigazione di San Brandano alla Visione di Tundalo, dalla Babilonia infernale di Giacomino da Verona al Libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva. Da costoro, da Virgilio (Eneide, VI) e probabilmente anche dalla tradizione araba (si cita un Libro della scala dell’VIII secolo dove si racconta di un viaggio di Maometto nei regni dell’oltretomba), Dante trarrà ispirazione per il suo Inferno. Testo capitale per una storia di ogni bruttura, repertorio di molteplici deformità (Minosse, le Furie, le Erinni, Gerione, Lucifero, con un capo a tre facce e sei enormi ali di pipistrello) e rassegna di immani torture – dagli ignavi che corrono nudi punti da vespe e mosconi, ai golosi flagellati dalla pioggia e squartati da Cerbero, dagli eretici che giacciono in tombe infuocate ai violenti tuffati in un fiume di sangue bollente, dai bestemmiatori, sodomiti e usurai colpiti da piogge di fuoco agli adulatori immersi nello sterco, dai simoniaci conflitti a testa in giù e coi piedi in fiamme ai barattieri sommersi nella pece bollente e uncinati dai diavoli, dagli ipocriti coperti da cappe di piombo, ai ladri trasformati in rettili, ai falsari affetti da scabbia e lebbra, ai traditori immersi nel ghiaccio… Per influenza sia della letteratura apocalittica che dei vari resoconti di viaggi infernali, prolifereranno nelle abbazie romaniche e nelle cattedrali gotiche, nelle miniature, negli affreschi, tutte quelle rappresentazioni che ricordano giorno per giorno al fedele le pene che attendono
III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
Maestro di Caterina da Clèves, La bocca dell’inferno, ms. 945, fol. 168v, 1440 ca., New York, Pierpont Morgan Library
L’inferno nell’Antico Testamento Salmi, 9:17 Gli empi se n’andranno al soggiorno dei morti, sì, tutte le nazioni che dimenticano Iddio. Giobbe, 21:13 Passano felici i loro giorni poi scendono in un attimo nel soggiorno dei morti. Isaia, 5:14 Perciò il soggiorno dei morti si è aperto bramoso, ed ha spalancata fuor di modo la gola; e laggiù scende lo splendore di Sion, la sua folla, il suo chiasso, e colui che in mezzo ad essa festeggia. Isaia, 14:3,9,11 Tu pronunzierai questo canto sul re di Babilonia e dirai: Il soggiorno dei morti, laggiù si è commosso per te, per venire ad incontrarti alla tua venuta. Il tuo fasto e il suono dei tuoi salteri sono stati fatti scendere nel soggiorno dei morti. Ezechiele, 26:20 Allora ti trarrò giù, con quelli che scendono nella fossa, fra il popolo d’un tempo, ti farò dimorare nelle profondità della terra, nelle solitudini eterne, con quelli che scendono nella fossa. L’inferno nei Vangeli Matteo, 5:22 Ma io vi dico: Chiunque si adira contro suo fratello senza motivo, sarà sottoposto al giudizio; e chi avrà detto al proprio fratello “stupido”, sarà giudicato dal tribunale; e chi
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gli avrà detto “pazzo”, sarà condannato al fuoco della Geenna. Matteo, 11:23 E tu, o Cafarnao, sarai tu forse innalzata fino al cielo? No, tu scenderai fino nell’a Geenna. Matteo, 13:40 Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Matteo, 13:42 E li getteranno nella fornace ardente. Lì sarà il pianto e lo stridor di denti. Matteo, 18:8 Ora, se la tua mano, o il tuo piede, ti è occasione di peccato, mozzali e gettali via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani e due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. (...) Matteo, 23:33 Serpenti, razza di vipere! Come sfuggirete alla condanna della geenna? Matteo, 25:41 Allora Egli dirà ancora a coloro che saranno a sinistra: Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Matteo, 25:46 E questi andranno nelle pene eterne, ed i giusti nella vita eterna. Marco, 3:29 Ma chiunque bestemmierà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, ma sarà destinato alla dannazione eterna. Marco, 9:43 Se la tua mano ti è occasione di peccato, tagliala; è meglio per te entrare monco nella vita, che avere due mani e andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore e il fuoco non si spegne. E se il tuo piede ti è occasione di peccato, taglialo, è meglio per te entrare zoppo nella vita, che avere due piedi ed essere gettato nella Geenna, nel fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore e il fuoco non si spegne. E se l’occhio tuo ti è occasione di peccato, cavalo; è meglio per te entrare con un occhio solo nella vita, che averne due ed essere gettato nella Geenna del fuoco, dove il loro verme non muore e il fuoco non si spegne. Marco, 9:48 Dove il loro verme non muore ed il fuoco non si spegne. Giovanni, 5:29 Quelli che hanno fatto il bene risusciteranno alla vita; e quelli che hanno fatto il male risusciteranno a condanna.
2. L’INFERNO
Nicola Pisano, L’inferno, 1260, Pisa, Battistero
L’inferno di san Brandano Navigazione di San Brandano, 24 (X sec., versione toscana del XV sec.) Essendo andati co ‘l vento nelle parti d’Aquilone eglino viddono una isola la quale era tutta piena di pietre grandi ed era molto una sozza isola e non v’è né albori né foglie né erbe né fiori né frutti, ma tutta era piena di fucine e di ferrari; e ogni fucina aveva el suo ferraro, aveva tutti e’ suoi ferri che al ferraro s’apartiene, le sue fucine ardevano a modo d’ardentissime fornaci e ciascuno martellava per sì gran forza e con tanto romore che se non fosse altro Inferno quel sarebbe paruto troppo. (…) E’ frati udivano uno ismisurato vento e romore di martelli, e battevano i martelli su per l’ancudini. E udendo San Brandano questo romore e’ si comincia a segnare e disse così: “O signore Iddio, debbiaci iscampare da questa isola se a voi piace”. E avendo così detto, inmantenente e’ venne uno uomo di questa isola inverso loro el quale era vecchio e aveva la barba molto lunga, e nero e piloso a modo d’uno porco, e apuzzava molto forte. E così, tosto come questi servi di Dio ebbeno veduti, questo uomo così tornò subitamente indietro, e ll’abate si segna e racomandasi a Dio e disse così: “O figliuoli miei, levate più alta la vela e navichiamo più forte acciò che noi
possiamo fuggire di questa isola, ché c’è male stare”. E avendo detto queste cose, cioè parole, incontanente e’ venne uno mal vecchio barbuto in su lo lido del mare e recava in mano una tanaglia e una pala di ferro tutta ardente di fuoco, e veggendo egli che la nave era partita, elli la gitta lor dietro quella pala del ferro, ma come piacque a Dio ella no lli giunse, ma dove ella diede tutta l’acqua fe bollire fortemente. E avendo veduto questo fatto eglino ebbono veduti in sulla riva una grande multitudine di sozzi uomini come fu lo primo; e aveva ognuno in mano una gran mazza di ferro tutte ardente di fuoco e rendeva una gran puzza. E di queste mazze e dell’altre traevano loro dietro, mai non gliene giunse veruna, ma un gran puzzo faceva, e faceva bollire l’acqua ben tre dì; anche vedemmo ardere quella isola molto forte e andando via i frati egli udivano un grande urlamento e romore il quale faceva quella brutta gente. E San Brandano confortava tutti e’ suoi frati e diceva: “Non temete, figliuoli miei, lo signore Iddio si è e sarà nostro aiutatore, io voglio che voi sappiate che noi siamo nelle parti del Ninferno e questa isola è delle sue, e avete veduto de’ suoi segni e perciò dobbiate orare divotamente acciò che non vi bisogni temere di queste cose”.
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III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
Gustave Doré, Gerione da Dante, L’Enfer, Paris, Hachette, 1861
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Gerione Dante Alighieri (1265-1321) Inferno, XVII, 7-27 E quella sozza immagine di froda sen venne, e arrivò la testa e ‘l busto, ma ‘n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d’uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d’un serpente tutto l’altro fusto; due branche avea pilose insin l’ascelle; lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle (…): Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in su la velenosa forca ch’a guisa di scorpion la punta armava.
Una mostruosa metamorfosi Dante Alighieri (1265-1321) Inferno, XXV, 34 sgg Com’io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia, e con li anterior le braccia prese; poi li addentò e l’una e l’altra guancia; li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra ‘mbedue, e dietro per le ren sù la ritese (…) Poi s’appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, né l’un né l’altro già parea quel ch’era (…) Già eran li due capi un divenuti, quando n’apparver due figure miste in una faccia, ov’eran due perduti. Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e ‘l ventre e ‘l casso divenner membra che non fuor mai viste. Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l’imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo. Come ‘l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, sì pareva, venendo verso l’epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe; e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l’un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso. Lo trafitto ‘l mirò, ma nulla disse; anzi, co’ piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l’assalisse (…) Le gambe con le cosce seco stesse s’appiccar sì, che ‘n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse. Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di là dura. Io vidi intrar le braccia per l’ascelle, e i due piè de la fiera, ch’eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle. Poscia li piè di retro, insieme attorti, diventaron lo membro che l’uom cela, e ‘l misero del suo n’avea due porti (..) Uscir li orecchi de le gote scempie; ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne. Quel che giacea, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia; e la lingua, ch’avea unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l’altro si richiude; e ‘l fummo resta.
2. L’INFERNO
Beato Angelico, Giudizio universale, 1430-35, Firenze, Museo di san Marco
Il viaggio infernale di Maometto Libro della scala 79, VIII sec. E quando Gabriele ebbe concluso la sua relazione io, Maometto, profeta e nunzio di Dio, vidi i peccatori tormentati all’inferno in tanti modi diversi, per cui nel mio cuore sentii una così grande pietà che per l’angoscia cominciai tutto a sudare; e vidi alcuni tra loro ai quali venivano amputate le labbra con forbici infuocate. E allora chiesi a Gabriele chi fossero. E lui mi rispose che erano quelli che seminano parole per mettere discordia fra le genti. Ed altri, a cui era stata amputata la lingua, erano quelli che avevano testimoniato il falso. Ne vidi altri appesi per il membro ad uncini di fuoco, ed erano quelli che nel mondo avevano commesso adulterio. E dopo vidi un grande stuolo di donne, in numero quasi incredibile, e tutte erano appese per la matrice a grandi travi infuocate. E queste pendevano da catene di fuoco, così straordinariamente ardenti che nessuno sarebbe in grado di esprimerlo. E io chiesi a Gabriele chi fossero quelle donne. E lui mi rispose che erano meretrici che non avevano mai abbandonato fornicazione e lussuria. E vidi ancora molti uomini bellissimi d’aspetto e molto ben vestiti. E capii che erano i ricchi tra la mia gente, e tutti bruciavano nel fuoco. E chiesi a Gabriele
perché bruciassero così, poiché sapevo bene che facevano molte elemosine ai poveri. E Gabriele mi rispose che pur essendo elemosinieri, erano gonfi di superbia e infliggevano molte ingiustizie alla gente minuta. E così vidi tutti i peccatori, ognuno tormentato con supplizi diversi, a seconda dei suoi particolari peccati. Cerbero Dante Alighieri (1265-1321) Inferno VI, 13-24 Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi è sommersa. Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e ‘l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. Furie Dante Alighieri (1265-1321) Inferno IX, 34-63 E altro disse, ma non l’ho a mente; però che l’occhio m’avea tutto tratto ver’ l’alta torre a la cima rovente, dove in un punto furon dritte ratto tre furie infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte. 87
III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
Tormenti infernali Romolo Marchelli Prediche quaresimali (1682) Dio, per più tormentar i dannati, fattosi distillatore, dentro a que’ lambicchi d’inferno racchiude i dolori delle fami più rabbiose, delle sete più ardenti, de’ freddi più gelati, degli ardori più accesi; i tormenti di quei che furono scannati da i ferri, strozzati da i capestri, inceneriti dalle fiamme e sbranati dalle fiere; le carni mangiate vive da’ vermi, divorate da serpenti, corticate da rasoi, lacerate da pettini; le saette dei Sebastiani, le graticole dei Lorenzi, i tori degli Eustachi, i leoni degli Ignazi; e mammelle svelte e ossa infrante e giunture disgiunte e membra smembrate; tutte le doglie più acute, tutte le angosce più veementi, tutti gli spasimi più gagliardi, tutte le agonie più lunghe e tutte le morti più lente, più stentate, più atroci. E lambiccando tutti questi ingredienti, ne fa colaggiù un tal distillo, ogni cui stilla in una estratta quinta essenza contiene raffinati tutti i dolori, in guisa che ogni fiamma, ogni carbone, anzi ogni favilla di quel fuoco dentro a sé racchiude distillati in un solo tormento tutti i tormenti. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori Apparecchio alla morte, considerazione XXVI (1758) Che cosa è questo inferno? È il luogo de’ tormenti (…) E quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato (…) Sarà tormentato l’odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? (...) Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d’altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. (…) Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell’inferno l’un sopra l’altro, come pecore ammucchiate in tempo d’inverno (…) Dal che ne avverrà poi la pena dell’immobilità (…) Sicché il dannato siccome caderà nell’inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un 88
piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio. Sarà tormentato l’udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti (…) Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l’eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina (…) Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l’acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l’Epulone, ma questa non l’ha avuta ancora, e non l’avrà mai, mai (…) La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l’inferno, che tormenta il tatto (…) Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell’inferno, che dice S. Agostino che ‘l nostro sembra dipinto (…). Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto, un abisso di sopra, e un abisso d’intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell’acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d’intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l’ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco (…) Se l’inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell’infermo si taglia una postema, a quell’altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell’operazione di fuoco continuasse per una
settimana, per un mese intero? Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d’occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? Un anno? Che sarà l’inferno? Dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d’occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d’un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l’eternità (…) La morte in questa vita è la cosa più temuta da peccatori, ma nell’inferno sarà la più desiderata… E questa loro miseria per quanto tempo durerà? Per sempre, per sempre. (…) Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? (...) Quando finisce? Quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: «Mai, mai». E quanto dureranno? «Sempre, sempre». Inferno moderno Jean-Paul Sartre Porta chiusa (1945) INES - (guarda a lui senza paura ma con infinita sorpresa) Oh! (Pausa) Un momento. Ho capito, ecco, so perché ci hanno messi insieme. GARCIN - Badi bene a quello che dice. INES - Guardate che cosa semplice : insipida come una rapa. Non c’è tortura fisica, va bene? Eppure, siamo all’inferno. E nessun altro deve arrivare, qui. Nessuno. Fino alla fine, soli noi tre, insieme. È cosi? In conclusione, chi ci manca? Manca il boia. GARCIN - (a mezza voce) Lo so bene. INES - Insomma, hanno realizzato una economia di personale. Ecco tutto. Sono gli stessi clienti a fare il servizio, come nelle mense cooperative. ESTELLA - Non capisco. INES - Il boia, è ciascuno di noi per gli altri due.
2. L’INFERNO
Luca di Leida, Trittico del Giudizio finale, partic., 1527, Leiden, Musée municipal de Lakenhal
il peccatore. Ma l’inferno ossessionerà anche i secoli successivi, (si vedano i due testi di Marchelli e di sant’Alfonso Maria De’ Liguori) il fedele viene terrorizzato con una descrizione dei tormenti infernali che supera la violenza dantesca, anche perché non è redenta dal soffio dell’arte. L’idea dell’inferno ritorna persino in una chiave esistenzialista e atea quando ai giorni nostri Sartre, in Porta chiusa, metterà in scena un inferno contemporaneo: se da vivi siamo definiti dagli Altri, dal loro sguardo impietoso che rivela la nostra bruttezza o la nostra vergogna, tuttavia possiamo ancora illuderci che gli altri non ci vedano veramente come siamo. Invece nell’inferno sartriano (una stanza d’albergo dalla luce sempre accesa e la porta chiusa, in cui dovranno convivere in eterno tre persone che prima non si erano mai viste) allo sguardo degli Altri non si sfugge e si vive solo del loro disprezzo. Uno dei personaggi urla “Aprite, aprite, perdio. Accetto tutto: lo stivaletto, le tenaglie, il piombo fuso, le pinze, a garrotta, tutto quel che brucia, che lacera, voglio soffrire sul serio…”. 89
III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
3. Le metamorfosi del diavolo
Ma invano: ”nessun bisogno di graticole; l’inferno, sono gli Altri”. Al centro dell’inferno sta Lucifero, o Satana che dir si voglia. Ma Satana, il diavolo, il demonio, sono presenti anche prima. Vari tipi di demoni, come esseri intermedi che talora sono benevoli talora malvagi e, quando malvagi, di aspetto mostruoso (ma anche nell’Apocalisse gli “angeli” sono sia adiuvanti di Dio che adiuvanti del demonio), esistevano in varie culture: in Egitto il mostro Ammut, ibrido di coccodrillo, leopardo e ippopotamo, divora i colpevoli nell’oltretomba; vi sono esseri dalle fattezze belluine nella cultura mesopotamica; in varie forme di religione dualista vi è un Principio del Male che si oppone al Principio del Bene. C’è il diavolo come Al-Saitan nella cultura islamica, descritto con attributi animaleschi, così come vi sono demoni tentatori, i gul, che assumono l’aspetto di donne bellissime. Quanto alla cultura ebraica, che direttamente influenza quella cristiana, il diavolo nel Genesi tenta Eva in forma di serpente e nella tradizione, interpretando alcuni testi biblici che sembrano riferirsi ad altro, come Isaia e Ezechiele, era presente all’inizio del mondo come Angelo Ribelle, precipitato da Dio nell’inferno. Sempre nella Bibbia troviamo la menzione di Lilith, mostro femminile di origini babilonesi, che nella tradizione ebraica diventa demone femminile con viso di donna, lunghi capelli e ali, e che nella tradizione cabalistica (Alfabeto di Ben-Sira, VIII-IX secolo) è stata ritenuta la prima moglie di Adamo, poi trasformatasi in demonio. Ma si potrebbe aggiungere il Demone Meridiano del Salmo 91, che all’inizio appare come angelo sterminatore ma nella tradizione monastica diverrà poi il tentatore della carne, e i numerosi accenni a Satana in vari passi, dove appare via via come il Calunniatore, l’Oppositore, colui che chiede di mettere alla prova Giobbe, l’Asmodeo in Tobia. La Sapienza (2.24) dirà : “Dio creò l’uomo per l’immortalità, e lo fece a sua immagine e somiglianza, ma per l’invidia del diavolo entrò nel mondo della morte”. Nei Vangeli il diavolo non viene mai descritto, se non per gli effetti che provoca ma, oltre a tentare Gesù, viene cacciato varie volte dal corpo degli indemoniati, viene citato da Gesù e viene variamente definito come il Maligno, il Nemico, Belzebù, il Bugiardo, il Principe 90
3. LE METAMORFOSI DEL DIAVOLO
Lucifero, Codex Altonensis, fol. 48r, XIV sec.
La caduta del re di Babilonia Isaia, 14,12 –21 Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso! Battaglia tra Michele e il drago: Apocalisse, 12, 1-5, 7-9 E un gran portento apparve nel cielo: una
donna ravvolta nel sole, e la luna sotto i suoi piedi, e sul suo capo una corona di dodici stelle. Ed essendo incinta gridava tra le doglie e si travagliava di partorire. Ed apparve un altro portento nel cielo: ed ecco un gran drago rosso con sette teste e dieci corna, e nelle sue teste sette corone; e la sua coda trascinava la terza parte delle stelle del cielo. E il drago si piantò di fronte alla donna che era per partorire, per divorare, quand’avesse partorito, il figliuolo di lei […] E ci fu una gran guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli guerreggiarono col drago. E il drago guerreggiò, e insieme con lui i suoi angeli. E non ce la poterono, ne si trovò più posto per loro nel cielo. E fu precipitato giù il gran drago, il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana, il seduttore di tutta la terra. 91
III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
di questo mondo. Pare ovvio, anche per motivi tradizionali, che il diavolo debba essere brutto. Come tale esso già viene evocato da San Pietro (“fratelli siate sobri e vigilate, perché il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente, vi circonda cercando chi divorare”), viene descritto in forme animali nelle vite degli eremiti e via via invade, in un crescendo di bruttezza, la letteratura patristica e medievale, specie quella di carattere devozionale. Il diavolo appare a Rodolfo il Glabro; torme di diavoli appaiono in racconti di viaggio nei paesi esotici come in Mandeville, e per vari secoli circolano leggende pie sul “patto col diavolo”: il diavolo tenta il buon cristiano, gli fa firmare un patto che oggi diremmo faustiano, ma poi il cristiano riesce di solito a sottrarsi alle sue insidie. Di un patto col diavolo parla la leggenda medievale di Cipriano, un giovane pagano che, per potere avere la fanciulla amata, Giustina, vende la propria anima al demonio ma infine, toccato dalla fede della fanciulla, si converte e si avvia con lei al martirio. Il tema sarà poi ripresa da Calderón de la Barca nel suo Mago dei prodigi (1637). Ma una delle sue versioni popolari di maggior successo era stata sin dai primi secoli cristiani la Leggenda di Teofilo: il protagonista, diacono in Cilicia, calunniato presso il suo vescovo, viene privato della sua dignità. Per riottenerla, grazie all’aiuto di un mago ebreo, Teofilo incontra il Diavolo che gli chiede di vendergli l’anima e di rinnegare Cristo e la Vergine. Firmato il patto, Teofilo ritrova il suo posto. Ma dopo sette anni vissuti da peccatore si pente, per quaranta giorni implora la Vergine, essa intercede presso suo figlio, riesce a riavere dal diavolo la pergamena fatale, gliela restituisce, Teofilo la brucia e dà pubblica testimonianza e del suo errore e del miracolo. La leggenda di Teofilo la si ritrova in Paolo Diacono, nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais, nella Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, in un poema di Roswita, in Rutebeuf e nella letteratura inglese e spagnola – per non dire del suo ritorno nel Faust goethiano. Una delle più efficaci rappresentazioni del miracolo di Teofilo la si trova nel timpano della chiesa romanica di Souillac, con una sequenza di immagini (definita come anticipatrice del fumetto) che scandisce lo svolgersi della vicenda: in basso a sinistra il diavolo porge la pergamena a Teofilo, a destra il diacono la firma e in alto viene mostrata la Vergine che scende dal cielo per riprendere il documento al diavolo. In questa scultura il diavolo è già brutto ma, stando alle immagini di questo periodo, esso non viene ancora rappresentato in tutta la sua bruttezza, e un mosaico di S. Apollinare Nuovo a Ravenna, datato intorno al 520, lo raffigura come un angelo rosso. Come mostro dotato di coda, orecchie belluine, barba di capra, artigli, zampe e corna comincia ad apparire dall’XI secolo in avanti, per acquisire 92
3. LE METAMORFOSI DEL DIAVOLO
Acta Sanctorum Truce d’aspetto, terribile di forma, grande di capo, lungo di collo, macilento di volto, squallido di barba, peloso d’orecchie, torvo di fronte, truce di occhi, fetido di bocca, equino di denti, gittante fiamme dalla bocca, torvo nelle fauci, ampio di labbro, spaventoso di voce, abbruciato nelle chiome, tumido di bocca, rilevante di petto, scabro di femore, adunco di gambe, gonfio nel tallone. Rodolfo il Glabro e il diavolo Rodolfo il Glabro (X-XI sec.) Cronache, V,2 Fatti del genere sono avvenuti molte volte proprio a me, per volere di Dio, in tempi anche assai recenti. Quando dimoravo nel monastero del Beato martire Leodegario a Champeaux, una notte, prima dell’ora del mattutino, mi apparve ai piedi del letto una figura di omiciattolo dall’aspetto tenebroso. Per quanto mi fu possibile distinguere, aveva modesta statura, collo esile, volto smunto, occhi nerissimi, fronte increspata da rughe, naso schiacciato, bocca sporgente, labbra gonfie, mento stretto e affilato, barba caprina, orecchie irsute e a punta, capelli ritti e scarmigliati,
dentatura canina, cranio allungato, petto sporgente, dorso a gobba, natiche che si scuotevano, panni sudici; era affannato e con tutto il corpo in agitazione. Afferrò un capo del pagliericcio dove giacevo e scosse il letto con terribile violenza; poi parlò: «Tu non resterai oltre in questo luogo». Nel risvegliarmi di soprassalto, come a volte capita, per lo spavento, vidi l’essere che ho descritto. Digrignando i denti, ripeté più volte: «Non resterai qui oltre». A precipizio balzai dal letto e corsi nel monastero, dove, gettatomi ai piedi dell’altare del santissimo padre Benedetto, rimasi a lungo terrorizzato. Cercavo con la massima attenzione di richiamare alla mente tutte le malefatte e le colpe gravi che volontariamente o per trascuratezza avevo commesso fin dalla fanciullezza. E poiché né timore né amore di Dio mi avevano mai indotto alla penitenza né alla riparazione per tutto questo, giacevo sofferente e smarrito e non mi veniva altro di meglio da dire che queste semplici parole: «Signore Gesù, che sei venuto per la salvezza dei peccatori, in virtù della tua immensa misericordia abbi pietà di me!»
Il prete Teofilo fa un patto col diavolo, XII sec., Timpano di Souillac
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III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
Jacques Le Grant, Le livre des bonnes moeurs, ms. 297, f. 109v, XV sec., Chantilly, Musée Condé
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3. LE METAMORFOSI DEL DIAVOLO
Demonio che porta via una religiosa, Cattedrale di Chartres, portale sud, XIII sec.
La valle dei diavoli John Mandeville Viaggi (1366 ca.) Accanto all’isola di Malazgirt, sul lato sinistro, nelle vicinanze del fiume Gange, si verifica un fatto portentoso. C’è una valle fra le montagne, che si estende per circa quattro miglia (…) Questa valle è completamente gremita di diavoli, e cosi è sempre stata. La gente dei dintorni dice che è una delle vie d’accesso all’inferno. In quella valle c’è molto oro e molto argento. Spesso perciò molti miscredenti, ma anche parecchi cristiani, vi si avventurano nel tentativo di appropriarsi di tale tesoro. Ma pochi ne ritornano, specialmente fra i miscredenti più che fra i cristiani, perché quelli vengono subito strangolati dai diavoli. In mezzo a quella valle, sotto un macigno, c’è una testa col viso d’un diavolo in carne ed ossa, veramente orribile e spaventosa da vedere. Non appare altro che la testa, fino alle spalle: (...) Egli fissa tutti con occhi acuti e orridi, sempre in moto e sfavillanti come il fuoco, e cambia e tramuta così spesso espressione, in maniera cosi raccapricciante, da togliere a chiunque l’idea di avvicinarsi. Da lui emana poi un fetido vapore infuocato, cosi abominevole che nessuno potrebbe mai sopportarlo. Solo i buoni cristiani, che siano saldi nella fede, possono entrare in quella valle senza pericolo. Bisogna però che prima si confessino e si facciano benedire col segno della santa croce, in modo che i demoni non abbiano alcun potere su di loro. Benché senza pericolo, essi non sono tuttavia senza paura, quando si vedono davanti diavoli in carne ed ossa, che li attorniano con assalti e minacce, sia da terra sia per aria, e li terrorizzano con colpi di tuoni e tempeste. La più grande paura che dobbiamo avere, però, è che Dio si rivalga per ciò che facciamo contro il suo volere. Sappiate che, quando io e i miei compagni giungemmo presso quella valle, fummo in grande dubbio se proseguire o no, se affidarci alla ventura o alla divina protezione. Alcuni dei compagni concordarono d’entrare, altri no. (...) Poi in quattordici entrammo nella valle, ma all’uscita eravamo soltanto in nove. E non abbiamo mai saputo se i nostri compagni si fossero perduti o fossero tornati indietro per paura. (...) Noi intanto passammo per quella valle, e vi trovammo oro e argento, pietre preziose e magnifici gioielli, di qua e di là a profusione, almeno così pareva a noi. Se però le cose fossero realmente come ci sembravano, io non lo seppi mai, perché non toccai nulla; e si sa che i diavoli sono abilissimi a far sembrare quello che non è, per ingannare la gente. 95
III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
Bernardo Parentino, Le tentazioni di sant’Antonio, 1490 ca., Roma, Galleria Doria Pamphilj
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Le tentazioni di sant’Antonio Attanasio di Alessandria (IV sec.) Vita di Sant’Antonio Dapprima (il demonio) tentò di allontanarlo dalla sua penitenza sussurrandogli ricordi della sua ricchezza, l’affetto per sua sorella, l’amore per il danaro e la gloria, i vari piaceri della tavola e altri agi della vita, e infine le difficoltà della virtù, suggerendogli che il suo corpo sarebbe divenuto infermo, e la durata dei suoi sacrifici (...) E una notte prese forma di una donna imitando i suoi atti per sedurlo. E il luogo si riempì subitamente con forme di leoni, orsi, leopardi, tori, serpenti, aspidi, scorpioni e lupi, e ciascuno di essi si muoveva secondo la sua natura. Il leone ruggiva, impaziente di attaccare, il toro pareva caricare con le corna, il serpente si contorceva ma era incapace di avvicinarsi, e il lupo sembrava avventarsi, ma poi si arrestava… Tutti i rumori di quelle apparizioni, con le loro urla rabbiose, incutevano spavento. Perché i demoni fanno ogni cosa, blaterano, confondono, si fingono innocenti per ingannare i semplici, strepitano, ridono come folli, e fischiano, ma se uno non gli presta attenzione subito piangono e si lamentano come vinti (…) E stava vigilando nottetempo quando il
diavolo gli scagliò contro animali feroci e quasi tutte le iene di quel deserto uscirono dalle loro tane e l‘assediarono, ed egli stava in mezzo a loro mentre ciascuna cercava di azzannarlo. Rendendosi conto che era una illusione del nemico, egli disse a quegli animali: “Se voi avete ricevuto potere contro di me io sono pronto a farmi divorare, ma se voi siete stati mandati contro di me dai demoni, allora andatevene perché io sono servo di Cristo.” E come Antonio ebbe detto questo, esse fuggirono, colpite dalle sue parole come da una frustata. L’estasi della tortura Gustave Flaubert La tentazione di Sant’Antonio (1847-1849) In mezzo al portico, in pieno sole, una donna nuda era legata a una colonna, due soldati che la fustigavano con le loro corregge, e a ogni colpo il suo corpo si torceva… e bella… prodigiosamente (….). Avrei potuto essere legato alla colonna vicina alla tua, faccia a faccia, sotto i tuoi occhi, rispondendo ai tuoi lamenti coi miei sospiri, e i nostri dolori si sarebbero confusi, le nostre anime allacciate. (Si flagella con furia) Così, così, per te, ancora! – Ma ecco che un fremito mi afferra. Che supplizio! Che delizie! come dei baci. Mi si fondono l’ossa! Muoio...
3. LE METAMORFOSI DEL DIAVOLO
Félicien Rops, Le Tentazioni di sant’Antonio, 1878
pagina 98 Salvator Rosa, Le Tentazioni di sant’Antonio, 1646 ca., Coldirodi (Sanremo), Pinacoteca Stefano Rambaldi pagina 99 Salvador Dalí, Le Tentazioni di sant’Antonio, 1946, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles
le ali di pipistrello. Il diavolo in tutta la sua mostruosità non solo domina terrorizzante in miniature e affreschi, ma era già stato vividamente evocato nei racconti delle tentazioni subite dagli eremiti (si veda ad esempio la Vita di Sant’Antonio di Attanasio di Alessandria). In questi testi assume anche l’aspetto invitante di ambigui giovinetti o di procaci prostitute, al punto che, nei tempi moderni, tra romanticismo e decadentismo, ha luogo un capovolgimento quasi blasfemo del tema della tentazione, dove più che sulla bruttezza del diavolo tentatore e sulla forza dell’eremita che gli resiste, si indulge sull’immagine tentatrice e sui languori del tentato (vedi per 97
III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
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3. LE METAMORFOSI DEL DIAVOLO
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III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
da sinistra a destra Abracax, Belzebuth, Baël, Deumus, Haborym, Hambuscias, da J. Collin de Plancy, Dictionnaire Infernal, Paris Plon, 1863
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esempio Flaubert). Una silloge fantasmagorica di tutte le bruttezze diaboliche è il Baldus (1517) scritto da Teofilo Folengo sotto lo pseudonimo di Merlin Cocai, poema eroicomico e grottesco, ridanciano e goliardico, insieme parodia della Commedia dantesca e anticipazione del Gargantua rabelaisiano, di cui purtroppo non si possono dare qui esempi antologici, perché o viene goduto nel suo latino maccheronico oppure in traduzione perde ogni sapore. Tra le varie e picaresche avventure del protagonista e dei suoi amici vi è nella seconda parte la battaglia con una grande schiera di diavoli, che appare in un collage di forme animali (pipistrello, cane, oca, serpente, bue, asino, caprone) con zanne, sangue che cola sul petto, bava puzzolente, zolfo emesso dallo sfintere. Alla fine Baldus e i suoi fanno i diavoli a pezzi così minuti che Belzebù, nel cercare di ricomporre i centosettantamila bocones in cui è stato smembrato, incolla volpi senza coda, orsi e porci con le corna, mastini a tre zampe, tori quadricorni, bocche di lupo su teste di gigante, uccelli dal rostro di gufo e gli arti di una rana… Ma la morale di quella battaglia vittoriosa è che Baldus si rende conto che il diavolo non è stato sconfitto perché torna nei vizi della società del suo tempo, specie nell’ambizione degli ecclesiastici. Questa invettiva sulla rinascita dell’inferno nel cuore della Chiesa (che avevamo già visto presente in gioachimiti ed eretici millenaristi) viene scritta mentre sta esplodendo la
3. LE METAMORFOSI DEL DIAVOLO
Il papa come principe dei demoni, caricatura protestante, XVI sec.
Dimensioni del diavolo Jean-Joseph Surin Triomphe de l’Amour Divin sur les puissances de l’Enfer, 1829 Se vuole, si piazzerà nella sua interezza sulla punta di una spilla; ma essi possono avere estrinsecazione del loro essere o sostanza in tutto lo spazio che sono capaci di contenere, per esempio di 15 leghe. Uno dei più grandi, come un Serafino, ad esempio Leviatano, può occupare uno spazio di 30 leghe, un altro, di 15, un altro, di 12, come ciascuno secondo la sua facoltà naturale Non può occupare 30 leghe quadrate, ma può estendersi come un serpente per tale ampiezza; e quello che si può allungare per 30 leghe, si può estendere, oltre che in lunghezza, in uno spazio più modesto (per esempio un tondo del diametro di un quarto di lega), oppure riempie una grande città e la riempie della sua sostanza.
riforma protestante. Sovente nei suoi scritti Lutero identificherà e il diavolo e l’Anticristo col Pontefice romano. Lutero è ossessionato dal diavolo e la leggenda vuole che, durante una delle sue apparizioni, lo cacci tirandogli un calamaio. Ma anche senza la leggenda, nei suoi Discorsi a tavola, appaiono invettive di questo tipo: “Spesso caccio via Satana con una scorreggia. Quando mi tenta con stolti peccati, gli dico: Diavolo, anche ieri ti feci una scorreggia: l’hai segnata sul conto?” (122) Oppure: “Quando mi sveglio, ecco che viene subito il diavolo e disputa con me me finché non gli dico: Leccami il culo… Perché egli ci tormenta più di tutto col dubbio. In compenso abbiamo il tesoro della Parola. Dio sia lodato” (141). Tuttavia già in Lutero e poi nella tradizione protestante si fa strada una concezione (che certamente non sarà condivisa da quei fanatici protestanti che più tardi daranno inizio alla persecuzione di streghe e stregoni sospettati di aver stretto patti col demonio, vedi capitolo VII) per cui il diavolo viene identificato piuttosto coi vizi di cui diventa simbolo. La massima raccolta demonologica pubblicata in ambito protestante è il Theatrum diabolorum (1569), un grande volume di circa settecento pagine, in cui si affrontano tutti i gli aspetti della demonologia (dei diavoli si calcola anche il numero in 2.665.866.746.664) ma non si nominano demoni tradizionali bensì i diavoli della bestemmia, della danza, della lussuria, della caccia, del bere, della tirannia, della pigrizia, 101
III. L’APOCALISSE, L’INFERNO E IL DIAVOLO
Hieronymus Bosch, particolari da Trittico delle tentazioni di sant’Antonio, 1505-06, Lisbona, Museo Nacional de arte Antiga
pagine seguenti Hieronymus Bosch, Trittico delle tentazioni di sant’Antonio, 1505-06, Lisbona, Museo Nacional de arte Antiga
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dell’orgoglio o del gioco d’azzardo. Mentre inizia la riforma protestante muore Hieronymus Bosch. I suoi esseri infernali sono ibridi che fanno pensare ai collages diabolici del Baldus, ma sono lontani dalla iconografia precedente. Non nascono dalla mescolanza di tratti animali noti ma hanno una loro autonomia incubatica, e non si sa se vengano dall’abisso o abitino, inosservati, il nostro mondo. Le creature che, nel Trittico delle tentazioni di Sant’Antonio assediano l’eremita, non sono i demoni della tradizione, troppo cattivi per essere presi sul serio. Quasi divertenti, come personaggi carnevaleschi, sono ben più insinuanti. Per Bosch si è parlato di “demoniaco nell’arte”, si sono individuati fermenti ereticali, richiami al mondo dell’inconscio, allusioni alchemiche e anticipazioni del surrealismo. Antonin Artaud ne parla per il suo “teatro della crudeltà” come uno degli artisti che ha saputo svelarci il lato oscuro della nostra psiche. Bosch era membro di una Confraternita di Nostra Signora, di spirito conservatore ma al tempo stesso tesa a una riforma dei costumi, così che le sue rappresentazioni fanno piuttosto pensare a una serie di allegorie moraleggianti sulla decadenza ai tempi suoi. Ne Il giardino delle delizie o ne Il carro di fieno non abbiamo solo sulfuree visioni dell’aldilà, ma anche scene apparentemente gentili, sensuali e idilliache, e però terribilmente inquietanti, del mondo dei piaceri terreni che all’inferno condurrà. Bosch sembra quasi anticipare lo spirito del Theatrum diabolorum: egli ci fornisce
3. LE METAMORFOSI DEL DIAVOLO
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Capitolo
IV
Mostri e portenti
1. Prodigi e mostri
Ulisse Aldrovandi, Monstrorum Historia, VI, 1642
Il mondo classico era molto sensibile ai portenti o prodigi, che venivano visti come segni di sventure imminenti. Erano fatti meravigliosi come piogge di sangue, incidenti inquietanti, fiamme nel cielo, nascite anomale, bambini dal doppio sesso, come si vede dal Libro dei Prodigi di Giulio Ossequente (che nel IV secolo d.C. annota tutti i fatti prodigiosi accaduti a Roma nei secoli precedenti). È probabilmente in base all’esperienza di queste anomalie che Platone era riuscito a immaginare la figura dell’androgino originario, e in parte sulle stesse basi erano stati concepiti molti del mostri che si diceva abitassero le terre dell’Africa e dell’Asia, di cui si avevano scarse e imprecise notizie. D’altronde, chi si inoltrava in quelle terre vi vedeva veramente ippopotami, elefanti o giraffe – e già in Giobbe appare quello che era probabilmente un coccodrillo ma che è passato alla tradizione come il Leviatano. Sulle meraviglie dell’India aveva scritto nel IV secolo a.C. Ctesia di Cnido; la sua opera è andata perduta, ma di creature straordinarie è ricca la Storia Naturale di Plinio (I sec. d.C.), che ha poi ispirato una miriade di compendi successivi. Nel II secolo d.C. Luciano di Samosata, nella sua Storia vera, sia pure per parodiare la credulità tradizionale, metteva in scena ippogrifi, uccelli dalle ali di foglia di lattuga, minotauri e le pulci-sagittario grandi come dodici elefanti. Si veda come nel Romanzo di Alessandro (che appare in latino nel XII secolo ma nasceva da fonti che risalgono allo Pseudo Callistene del III secolo d.C.) il conquistatore macedone si trovava a dover affrontare genti spaventose. 107
IV. MOSTRI E PORTENTI
Il Leviatano Giobbe, 41, 1-27 Nessuno è tanto audace da osare eccitarlo e chi mai potrà star saldo di fronte a lui? Chi mai lo ha assalito e si è salvato? Nessuno sotto questo cielo. Non tacerò la forza delle sue membra: in fatto di forza non ha pari. Chi gli ha mai aperto sul davanti il manto di pelle e nella sua doppia corazza chi può penetrare? Le porte della sua bocca chi mai ha aperto? Intorno ai suoi denti è il terrore! Il suo dorso è a lamine di scudi, saldate con stretto suggello; l’una con l’altra si toccano, sì che aria fra di esse non passa: ognuna aderisce alla vicina, sono compatte e non possono separarsi. Il suo starnuto irradia luce e i suoi occhi sono come le palpebre dell’aurora. Dalla sua bocca partono vampate, sprizzano scintille di fuoco. Il suo fiato incendia carboni e dalla bocca gli escono fiamme. Nel suo collo risiede la forza e innanzi a lui corre la paura. Le giogaie della sua carne sono ben compatte, sono ben salde su di lui, non cascanti. Il suo cuore è duro come pietra, duro come la pietra inferiore della macina. (…) La spada che lo raggiunge non vi si infigge, né lancia né freccia né giavellotto; stima il ferro come paglia, il bronzo come legno tarlato. Non lo mette in fuga la freccia, in pula si cambian per lui le pietre della fionda. Come stoppia stima una mazza e si fa beffe del vibrare dell’asta. Al di sotto ha cocci acuti e striscia come erpice sul molle terreno. Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti. Dietro a sé produce una bianca scia e l’abisso appare canuto. La terra genera molti flagelli Eschilo (VI sec. a.C.) Coefore, primo stasimo La terra genera molti flagelli di tremendi terrori: mostri immani, nemici ai mortali, empiono i seni del mare profondo. In alto, fra il cielo e la terra, fiamme solcano l’aria e ogni creatura che voli o che strisci può dire il ventoso furore delle tempeste. 108
L’androgino Platone (V-IV sec. a.C.) Simposio, 189d-191b Innanzi tutto, i generi degli uomini erano tre, e non due come ora, ossia maschio e femmina, ma c’era anche un terzo che accomunava i due precedenti (…) L’androgino era, allora, una unità per figura e per nome, costituito dalla natura maschile e da quella femminile (…) La figura di ciascun uomo era tutt’intera rotonda,con il dorso e i fianchi a forma di cerchio; aveva quattro mani e tante gambe quante mani, e due volti su un collo arrotondato del tutto uguali. E aveva un’unica testa per ambedue i visi rivolti in senso opposto, e quattro orecchi e due organi genitali (…) Erano terribili per forza e per vigore e avevano grande superbia, tanto che cercarono di attaccare gli dèi (…) Dopo aver a lungo meditato, Zeus disse: “Mi pare di aver a disposizione un mezzo che permetterebbe che gli uomini possano continuare ad esistere, e, divenuti più deboli, cessino di essere così sfrenati (…) Dopo aver detto questo, tagliò gli uomini in due, come quelli che tagliano le sorbe per farle essiccare, o come quelli che tagliano le uova con un crine. E per ciascuno di quelli che tagliava, dava incarico ad Apollo di rivoltare la faccia e la metà del collo verso la parte del taglio, in modo che l’uomo, vedendo questo suo taglio, diventasse più mansueto, e gli dava anche ordine di risanare tutte le altre parti. E Apollo rivoltava la faccia, e, tirando da ogni parte la pelle su quello che oggi vien chiamato ventre, come si fa con le borse che si contraggono, la legava nel mezzo del ventre, facendo una specie di bocca, il che ora si chiama ombelico. E spianava le molte altre pieghe e modellava i petti, (…) Ma ne lasciò qualcuna intorno nel. ventre medesimo e intorno all’ombelico, in modo che restasse un ricordo dell’antico castigo. Allora, dopo che l’originaria natura umana fu divisa in due, ciascuna metà, desiderando fortemente l’altra metà che era sua, tendeva a raggiungerla. E gettandosi attorno le braccia e stringendosi forte l’una all’altra, desiderando fortemente di fondersi insieme, morivano di fame e di inattività, perché ciascuna delle parti non voleva fare nulla separata dall’altra. E quando una moriva e l’altra rimaneva in vita, quella rimasta cercava l’altra metà e si intrecciava con questa, sia che si imbattesse nella metà di una donna sia che si imbattesse nella metà di un uomo. E in questo modo morivano.
1. PRODIGI E MOSTRI
Fabbrica di Volterra, Pigmeo e gru, cratere, partic., IV sec., Firenze, Museo Archeologico
I portenti Giulio Ossequente (IV sec.) Libro dei prodigi Si tenne un novendiale per la pioggia di pietre caduta nel Piceno e per i fuochi scaturiti dal cielo in molto luoghi che, accompagnati da un leggero vento, bruciarono le vesti di numerose persone. Il tempio di Giove nel Campidoglio fu colpito da un fulmine. In Umbria un ermafrodito di circa dodici anni fu scoperto e soppresso per ordine degli aruspici. I Galli, che attraversando le Alpi erano entrati in Italia, furono espulsi senza combattere (…) Una furiosa tempesta produsse gravi danni in Roma: abbatté statue di bronzo sul Campidoglio (…) Nell’allestimento di un lettisternio le statue divine girarono la testa in conseguenza del terremoto: il piatto dei cibi insieme al coperchio apparecchiato dinnanzi a Giove cadde dalla mensa e i topi rosicchiarono delle olive (…) A Lanuvio un oggetto fu visto di notte
brillare nel cielo. Molti edifici a Cassino vennero distrutti da fulmini e per alcune ore fu visto il sole di notte. A Teano Sidicino nacque un bimbo con quattro mani e altrettanti piedi. Dopo la cerimonia di lustrazione vi fu infine pace a Roma (…) A Cere nacque un maiale con mani e piedi umani e così bambini quadrumani e quadrupedi. A Foro Esino una fiamma, uscita dalla bocca di un bue, non lo ferì (…) Un uccello incendiario e un gufo furono visti a Roma. Nel carcere delle latomie un uomo divorò un altro uomo (…) Molte migliaia di persone morirono a causa dell’ingrossamento e dell’esondazione del Po e del lago di Arezzo. Piovve latte per due volte. A Norcia furono partoriti due gemelli da una donna libera: una bambina con tutte le membra integre e un bambino col ventre aperto davanti, sicché potevano scorgersi le viscere scoperte, dietro privo dell’orifizio anale: morì subito dopo aver emesso un gemito. 109
IV. MOSTRI E PORTENTI
Alessandro combatte con gli uomini selvaggi e le bestie, da Le livre et la vraye histoire du bon roi Alexandre, Royal Ms. 20 B. XX, fol. 51, XV sec., Londra, British Library
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Le avventure di Alessandro Il romanzo di Alessandro, II, 33 (XII sec.) Giungemmo poi in una terra grigiastra, in cui c’erano dei selvaggi, simili a giganti, tutti tondi, che hanno occhi di fuoco e paiono leoni. Con loro c’erano anche degli altri esseri, che si chiamano Ochliti: non hanno un pelo su tutto il corpo, sono alti quattro cubiti e larghi quanto una lancia. Come ci videro, si misero a correre verso di noi: erano coperti di pelli di leone, fortissimi e allenati a combattere senz’ armi: noi li colpivamo, ma quelli ci colpivano a loro volta con dei bastoni e così uccisero molti dei nostri. Ebbi paura che venissimo travolti, e diedi l’ordine di appiccare il fuoco alla selva: alla vista del fuoco, fuggirono, quegli uomini, fortissimi; ma prima avevano ucciso ben centottanta dei nostri soldati. Il giorno seguente decisi di andare alle loro caverne: lì trovammo delle fiere legate alle porte, che sembravano leoni, ma avevano tre occhi (…) Partimmo poi, e arrivammo al paese dei Mangiamele: c’era un uomo coperto di peli su tutto il corpo, era enorme e ne avemmo paura. Ordinai che fosse catturato: fu preso ma continuava a scrutarci col suo sguardo selvatico. Comandai allora che gli fosse
portata davanti una donna nuda: quello la afferrò e stava per mangiarsela: i soldati corsero subito per strappargliela, e lui si mise a schiamazzare nella sua lingua. A quelle grida uscirono dalla palude e si lanciarono contro di noi degli altri esseri della sua specie, a migliaia, e il nostro esercito era di quarantamila uomini: io allora ordinai che fosse dato fuoco alla palude, e quelli, alla vista del fuoco, fuggirono. Ne catturammo tre che non presero cibo per otto giorni e infine morirono. Questi esseri non parlano come gli umani, ma latrano piuttosto, come i cani.
2. UN’ESTETICA DELLO SMISURATO
2. Un’estetica dello smisurato
Queste e altre notizie erano andate a nutrire quella che è stata definita l’estetica isperica. La latinità classica aveva condannato lo stile detto “asiano” (e poi “africano”), in opposizione all’equilibrio dello stile “attico”, e questo stile era considerato “brutto” anche dai Padri della Chiesa, come testimonia l’invettiva seguente di san Gerolamo (Adversus Jovinianum I): “Vi sono ormai tanti scrittori barbari e tanti discorsi resi confusi da vizi di stile che non si comprende più né chi parli né di che cosa parli. Tutto si gonfia e si affloscia come un serpente malato che si spezzi mentre tenta le sue volute (…) Ma a che servono queste stregonerie di parole?” Tra il VII e il X secolo si assiste, però, a un rovesciamento del gusto, almeno in un’area che andava dalla Spagna alle isole britanniche, toccando la Gallia. L’estetica isperica è lo stile di una Europa che sta vivendo i suoi “secoli oscuri”, in cui col declino dell’agricoltura, l’abbandono delle città, il crollo dei grandi acquedotti e delle strade romane, in un clima di imbarbarimento generale, in un territorio coperto di foreste, anche i monaci, i poeti, i miniatori vedono il mondo come una selva oscura, abitata da mostri, attraversata da cammini labirintici. La pagina isperica non ubbidisce più alle leggi tradizionali della proporzione: si gode la nuova musica di incomprensibili neologismi barbarici, si privilegiano lunghe catene di allitterazioni che il mondo classico avrebbe giudicato pura cacofonia, si apprezzano non la misura ma il gigantesco e lo smisurato. In particolare i monaci irlandesi, che in questi secoli difficili e disordinati avevano conservato e riportato nell’Europa continentale una certa tradizione letteraria, si muovono nel mondo della lingua e della immaginazione visiva come, appunto, in una foresta, o come l’irlandese san Brendano vagava per mare – ancorandosi a un’orribile balena che aveva confuso con un’isola e incontrando Giuda prigioniero su uno scoglio, battuto e tormentato dalle onde marine. Tra VII e IX secolo, forse in terra irlandese (ma certamente nelle isole britanniche), appare un Liber monstrorum de diversis generibus che, oltre a descrivere mostri di ogni sorta, ne commenta la varietà. 111
IV. MOSTRI E PORTENTI
Book of Kells, VIII sec., Dublino, Trinity College
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Ci dice (libro II) “Sono senza dubbio infinite le razze di belve marine, che con corpi smisurati come alte montagne squassano coi loro petti le ondate più gigantesche e le distese d’acqua quasi sradicate dal profondo (…) Rovesciando con orribili risucchi le acque, già agitate dalla gran massa dei loro corpi, puntano verso la spiaggia offrendo a chi li guarda uno spettacolo terrorizzante”. In questo clima, nell’VIII secolo appare in Irlanda il Libro di Kells, ornato di splendide lettere iniziali in cui trionfano gli entrelacs, viluppi labirintici in cui appaiono, insieme a figure divine, creature mostruose di ogni genere. Sono forme animali stilizzate, piccole figure scimmiesche tra impossibili fogliami che coprono pagine e pagine, come i motivi sempre uguali di un tappeto, mentre di fatto ogni linea, ogni corimbo, rappresenta un’invenzione diversa. È una complicazione di vicende spiraliformi, volutamente ignare di ogni educata regola di simmetria, in una sinfonia di colori delicati, dal rosa al giallo arancio, dal limone alla malva. Quadrupedi, uccelli, levrieri dal becco di cigno, impensabili figure umanoidi contorte come un atleta da circo che introduca la testa tra le ginocchia, arrovesciando il capo e componendo cosi l’iniziale di una lettera, esseri malleabili e pieghevoli come elastici colorati, si introducono nell’intrico degli allacciamenti, fanno capolino dalle decorazioni astratte, si avviticchiano alle lettere iniziali, si insinuano tra riga e riga.
3. LA MORALIZZAZIONE DEI MOSTRI
3. La moralizzazione dei mostri
Come venivano intesi dai monaci devoti quei “bruttissimi” mostriciattoli? Certamente come saranno goduti anche nei secoli successivi altri esseri deformi in margine alle pagine miniate (i cosiddetti marginalia) e sui capitelli delle chiese romaniche. I medievali trovavano attraenti quei mostri così come noi facciamo con gli animali esotici del giardino zoologico; prova ne sia l’enfasi con cui un rigorista come san Bernardo (nella Apologia a Guglielmo) condanna le sculture dei capitelli su cui evidentemente i fedeli si soffermavano con troppo gusto (ma le descrive così efficacemente da lasciar sospettare che lui stesso le avesse guardate più del dovuto): “Che cosa fa nei chiostri (…) quella ridicola mostruosità, quella specie di strana formosità deforme e deformità formosa? Che cosa vi stanno a fare le immonde scimmie? O i feroci leoni? O i mostruosi centauri? O i semiuomini? O le maculate tigri? ... Si possono vedere molti corpi sotto un’unica testa e viceversa molte teste sopra un unico corpo. Da una parte si scorge un quadrupede con coda di serpente, dall’altra un pesce con testa di quadrupede. Lì una bestia ha l’aspetto del cavallo e trascina posteriormente una mezza capra, qui un animale cornuto ha il posteriore di cavallo. Insomma appare dappertutto una così grande e così strana varietà di forme eterogenee, che si prova più gusto a leggere i marmi che i codici e a occupare l’intera giornata ammirando a una a una queste immagini che meditando la legge di Dio”. Mostro che divora un uomo, capitello centrale della chiesa di Saint Pierre, XI-XII sec., Chauvigny
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IV. MOSTRI E PORTENTI
Anche i mostri sono figli di Dio Agostino (IV-V sec.d.C) La città di Dio, XVI, 8 Sorge ancora un altro problema: dai figli di Noè, o piuttosto da quell’unico uomo da cui anch’essi provengono, si deve credere che abbia avuto origine una razza di mostri umani? Di essi parla anche la storia profana; risulta che qualcuno avesse un solo occhio; taluni avevano i piedi rovesciati; altri erano di due sessi e avevano la mammella destra di un uomo e quella sinistra di una donna, e accoppiandosi potevano concepire e generare alternativamente; altri non avevano la bocca e respiravano soltanto per mezzo delle narici; altri ancora erano alti quanto un gomito e perciò dai Greci erano detti Pigmei; in qualche posto le donne potevano concepire all’età di cinque anni e non vivevano più di otto. Raccontano pure che esisteva un popolo di uomini che avevano una sola gamba e non flettevano il ginocchio, pur essendo velocissimi: si chiamano sciapodi, perché d’estate, quando sono sdraiati per terra, si proteggono con l’ombra dei propri piedi (…) In ogni caso lo stesso principio che spiega la generazione di uomini mostruosi, spiega anche quella di popoli mostruosi. È Dio che ha creato tutti gli esseri. Egli sa quando e come si deve o si dovrà creare, poiché conosce la bellezza dell’universo e la somiglianza o la diversità delle sue parti. Chi però non
può contemplare l’insieme rimane come conturbato dalla deformità di una sua parte, poiché ignora il contesto cui deve essere riferita. Sappiamo che nascono uomini che hanno più di cinque dita alle mani e ai piedi; si tratta di una anomalia piuttosto lieve, tuttavia non deve indurci ad essere così stolti da pensare che il Creatore abbia sbagliato il numero di quelle dita, anche se ci sfugge la ragione del fenomeno! (…) A Ippona Zarita esiste un uomo che ha le piante dei piedi e le mani a forma di mezzaluna, con due dita soltanto; se esistesse un popolo di questi individui, verrebbe ad aggiungersi a quei fatti curiosi e mirabili. Sarebbe però questo un motivo valido per negare che quest’uomo discenda dal primo uomo, creato da Dio? (…) Sempre che, però, siano vere le cose che si raccontano intorno alla varietà di quei popoli e alla loro differenza da noi. Infatti, se noi non sapessimo che le scimmie, i cercopitechi e gli scimpanzé non sono uomini, ma bestie, quegli storici che si vantano della propria erudizione potrebbero ingannarci con i loro imperterriti vaniloqui, presentandole come una razza umana (…) Per questo il modo più cauto con cui risolvere la questione mi pare il seguente: o ciò che è stato scritto intorno a questi popoli è falso, o, se è vero, non si tratta di uomini, o, se si tratta di uomini, provengono da Adamo.
Ma in effetti il mondo cristiano aveva proceduto a una vera e propria “redenzione” del mostro. Come si è già visto (nel capitolo II.1) a proposito della visione pancalistica, Agostino ci diceva che i mostri erano belli in quanto creature di Dio. Lo stesso Agostino (nella Dottrina cristiana) aveva cercato di regolare l’interpretazione allegorica delle Sacre Scritture avvertendo che bisogna subodorare un senso spirituale oltre quello letterale quando il libro sacro sembra perdersi in descrizioni apparentemente superflue di pietre, erbe o animali. Ma per capire quale sia il senso spirituale di una pietra preziosa o di un animale, occorreva possedere una “enciclopedia” che dicesse qual era il significato allegorico di quelle cose. Erano così nati i bestiari moralizzati, in cui a ogni essere menzionato (e non importa se reale o leggendario) veniva associato un insegnamento morale. Il primo testo a entrare in tal senso nel modo cristiano è il Fisiologo, scritto in greco tra II e III secolo della nostra era, poi tradotto in latino oltre che in varie lingue orientali, che elenca una quarantina tra animali, alberi e pietre. Dopo avere descritto questi esseri, il Fisiologo mostra come e perché ciascuno di essi sia veicolo di un insegnamento etico e teologico. Per esempio il leone che, secondo la leggenda cancella le proprie tracce con la coda per sottrarsi ai cacciatori, diventa simbolo di Cristo che cancella i peccati degli uomini. 114
3. LA MORALIZZAZIONE DEI MOSTRI
Licorno, Livres des propriétés des animaux, ms.3401, 1566, Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève
Dal Fisiologo (II-III sec.) L’unicorno è un piccolo animale, simile al capretto, ma ferocissimo. Il cacciatore non gli si può avvicinare a causa della sua straordinaria forza. Ha un solo corno in mezzo alla testa. Come gli si dà la caccia? Espongono una vergine immacolata, l’animale le balza in seno ed essa lo allatta, e lo conduce al palazzo del re. L’unicorno è un’immagine del Salvatore: infatti (…) ha preso dimora nel ventre della vera e immacolata Vergine Maria. Esiste nei monti un animale detto elefante. In lui non c’è brama di congiungimento carnale: quando vuol generare dei figli, si reca in oriente, vicino al paradiso, dove si trova un albero detto mandragora. La femmina coglie per prima il frutto dell’albero, e ne porge al maschio e lo alletta, finché anche questi lo prenda. Dopo aver mangiato, il maschio si avvicina alla femmina e si congiunge con essa (…) Quando giunge l’epoca del parto entra in uno stagno finché l’acqua non le giunga fino alle mammelle, e poi partorisce il suo figlio sull’acqua, e quest’ultimo le sale sulle ginocchia e le succhia il seno (…) La natura dell’elefante è questa: se cade, non è capace di rialzarsi, perché non ha giunture alle ginocchia. E in che modo cade? Quando vuol dormire, si appoggia ad un albero e i cacciatori, che conoscono la natura dell’elefante, vanno a segare parzialmente l’albero. L’animale viene ad appoggiarvisi, cade insieme all’albero, e comincia a mandare alti barriti. Lo sente un altro elefante e viene a soccorrerlo, ma non è in
grado di sollevarlo; si mettono quindi a barrire entrambi, e vengono altri dodici elefanti, e neanche questi riescono a sollevare quello caduto; allora si mettono tutti a barrire: e viene infine un piccolo elefante, pone sotto di esso la sua proboscide e lo solleva (…) L’elefante e la sua femmina sono dunque immagini di Adamo ed Eva: quando erano nelle delizie del paradiso prima della trasgressione, non conoscevano l’unione carnale e l’accoppiamento. Ma quando la donna ha mangiato il frutto dell’albero, cioè della spirituale mandragora, e ne ha dato anche all’uomo, allora Adamo ha conosciuto la donna, e ha generato Caino sopra le acque malefiche (…) È dunque venuto il grande elefante, cioè la Legge, e non è stato in grado di sollevarlo; poi sono venuti i dodici elefanti, cioè i profeti, e neanche loro sono stati capaci di risollevare l’uomo caduto; dopo di tutti, è venuto il santo elefante spirituale e ha sollevato l’uomo. Il Fisiologo ha detto della vipera che il maschio ha un volto d’uomo, la femmina un volto di donna: sino all’ombelico hanno forma umana, mentre la coda è di coccodrillo. La femmina non ha vagina, ma soltanto una sorta di cruna d’ago. Quando il maschio s’accoppia con la femmina le eiacula in bocca, e quando essa ha inghiottito il seme tronca i genitali del maschio, che muore all’istante. Quando i figli crescono divorano il ventre della madre (…) Le vipere sono dunque parricide e matricide. Bene dunque Giovanni ha paragonato alla vipera i Farisei: allo stesso modo in cui la vipera uccide il padre e la madre, anch’essi hanno ucciso i loro padri spirituali, i profeti. 115
IV. MOSTRI E PORTENTI
4.
Le mirabilia
Sul modello del Fisiologo (dovutamente ampliato e riorganizzato) nasceranno la maggior parte dei bestiari, lapidari, erbari e in genere molte “enciclopedie” concepite sul modello di Plinio, dalla Natura delle cose di Rabano Mauro (VIII-IX sec.) sino alle grandi compilazioni del XII e XIII secolo, come ad esempio L’Immagine del mondo di Onorio di Autun, La natura delle cose di Alessandro Neckham, Le proprietà delle cose di Bartolomeo Angelico, lo Specchio naturale di Vincenzo di Beauvais, sino al Trésor e al Tesoretto di Brunetto Latini. Del pari, gli animali del fisiologo sono cercati e talora descritti in resoconti di viaggi immaginari quali i Viaggi di Mandeville o La composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo. L’elenco è incompleto ma testimonia dell’attrazione del mondo antico e medievale per le terre ancora inesplorate e la tensione attonita con cui i lettori di quei libri fantasticavano di tutte quelle meraviglie. Prova ne sia la immensa fortuna che ebbe un falso prodotto nel XII secolo, la Lettera del Prete Gianni, in cui si parlava di un favoloso regno cristiano in Asia, al di là delle terre degli infedeli, abitato da genti virtuose e ricco di ori e gemme. Il mito del Prete Gianni aveva conquistato molti viaggiatori (come per esempio Marco Polo) che avevano così cercato di individuarlo e aveva incoraggiato politicamente l’espansione cristiana verso oriente (salvo spostarsi dall’Asia all’Africa agli inizi dell’era moderna, quando era stato identificato con l’Etiopia cristiana). Ma uno dei motivi dell’attrazione prodotta da questo regno immaginario, quasi una conferma delle virtù e delle ricchezze di cui godeva, era stata proprio la descrizione delle genti mirabili che l’abitavano, soggette al potere del Prete. Questi mostri non erano certo considerati esempi di bellezza, ma non tutti erano sentiti come pericolosi. Certamente temibili erano il Basilisco dall’alito avvelenato, la Chimera dalla testa di leone e il corpo metà drago e metà capra, la bestia leucrococa (dal corpo d’asino, il retro di cervo, le cosce di leone, i piedi di cavallo, un corno biforcuto, una bocca tagliata sino alle orecchie da cui usciva una voce quasi umana, e in luogo dei denti un solo osso) o la Manticora (con tre file di denti, corpo 116
4. LE MIRABILIA
Monstrous races of Ethiopia, Ms. 461, fol. 26v, 1460 ca., New York, Pierpont Morgan Library
Il regno del prete Gianni Lettera del Prete Gianni (XII secolo) Io, Prete Gianni, sono signore dei signori e in ogni ricchezza che c’è sotto il cielo, e in virtù e in potere supero tutti i re della terra. (...) Nei nostri domini nascono e vivono elefanti dromedari, cammelli, ippopotami, coccodrilli, metagallinari, cameteterni, tinsirete, pantere, onagri, leoni bianchi e rossi, orsi e merli bianchi, cicale mute, grifoni, tigri, sciacalli, iene, buoi selvatici, sagittari, uomini selvatici, uomini cornuti, fauni, satiri e donne della stessa specie, pigmei, cinocefali, giganti alti quaranta cubiti, monocoli, ciclopi, un uccello chiamato fenice e pressoché ogni tipo di animale che vive sotto la volta del cielo (...) In una delle nostre province scorre un fiume che chiamano Indo. Questo fiume, che sgorga dal Paradiso, distende i suoi meandri per bracci diversi per l’intera
provincia e in esso si trovano pietre naturali, smeraldi, zaffiri, carbonchi, topazi, crisoliti, onici, berilli, ametiste, sardonici e molte altre pietre preziose (...) Nelle regioni estreme della terra (...) possediamo un’isola (...) nella quale per tutto l’anno, due volte alla settimana, Dio fa piovere in grande abbondanza la manna che le popolazioni raccolgono e mangiano, né vivono di cibo diverso da questo. Infatti non arano, non seminano, non mietono, né in nessun modo smuovono la terra per trarne il suo frutto più ricco (...) Tutti costoro, che si nutrono solo di cibo celeste, vivono cinquecent’anni. Tuttavia, giunti all’età di cento anni, ringiovaniscono e riprendono forza bevendo per tre volte l’acqua di una fonte che sgorga alla radice di un albero che si trova in quel luogo (...) Tra di noi nessuno mente (...) Tra di noi non vi è chi sia adultero. Nessun vizio ha potere presso di noi. 117
IV. MOSTRI E PORTENTI
Un uomo silvestre Luigi Pulci Il Morgante, V, 38-45 (1481-1482) Egli avea il capo che parea d’un orso, piloso e fiero, e’ denti come zanne, da spiccar netto d’ogni pietra un morso; la lingua tutta scagliosa e le canne; un occhio avea nel petto a mezzo il torso, ch’era di fuoco e largo ben due spanne; la barba tutta arricciata e’ capegli, Mostre prins en une forest aiant figure humayne qui aymoit les femmes, da Pierre Boaistuau, Storie prodigiose, Ms. 136, fol. 140r, XVI sec., Londra, Wellcome Library a fronte Raffaello Sanzio, San Michele e il drago, 1505 ca., Parigi, Louvre
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gli orecchi parean d’asino a vedegli; le braccia lunghe, setolute e strane, e ‘l petto e ‘l corpo piloso era tutto; avea gli unghion ne’ piedi e nelle mane, ché non portava i zoccol per l’asciutto, ma ignudo e scalzo abbaia com’un cane: mai non si vide un mostro così brutto; e in man portava un gran baston di sorbo tutto arsicciato, nero come un corbo.
IV. MOSTRI E PORTENTI
Malvagi erano i Serpenti con la cresta sul capo che camminavano sulle gambe e avevano sempre la gola aperta da cui gocciolava veleno, e temibilissimo il Drago, che la pittura rappresentava nel momento in cui veniva sconfitto da san Giorgio, mentre molta letteratura cavalleresca lo avrebbe rappresentato in lotta coi cavalieri – i quali potevano incontrare nel bosco anche l’irsuto Uomo Silvestre, come si vede nel Morgante del Pulci. Ma non si può dire lo stesso di altre miti creature certamente straordinarie per forma e costumi e certamente assai lontane da ogni ideale umano di grazia o prestanza, ma sostanzialmente innocue, come gli Acefali, con gli occhi sulle spalle e due buchi sul petto a modo di naso e bocca, gli Androgini, gli Astomori privi di bocca, che si nutrivano di soli odori, i Bicefali, i Ponci con le gambe dritte senza ginocchio, lo zoccolo di cavallo e il fallo sul petto, i Phiti, con colli lunghissimi e braccia simili a seghe, i Pigmei, sempre in lotta con le gru, o gli amabili Sciapodi (forniti di un unica gamba con cui correvano velocissimi e che rizzavano per riposarsi all’ombra del loro grandissimo e unico piede), e infine l’Unicorno, bellissimo stallone bianco con un corno sulla fronte, che poteva essere catturato solo ponendo una vergine sotto un albero perché l’animale, sensibile al profumo della verginità, andasse a metterle il capo in grembo. Timpano della chiesa di Santa Maddalena a Vezelay, partic., 1120-1130 ca.
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4. LE MIRABILIA
Basilisco, da Sebastien Münster Cosmografia Universale, 1558
pagine seguenti Unicorni, draghi, cinocefali, blemmi, sciapodi, monocoli da Maestro di Boucicaut, Livre de Merveilles, XV sec., Parigi, Bibliothèque Nationale de France
Il basilisco Plinio (23-79 d.C.) Storia Naturale, 33 Il serpente basilisco lo genera la provincia della Cirenaica, non è più lungo di dodici dita e lo si riconosce per una macchia bianca sulla testa, a mo’ di diadema. Col suo sibilo mette in fuga tutti i serpenti, e non muove il suo corpo, come gli altri, attraverso una serie di volute, ma avanza stando alto e diritto sulla metà del corpo. Secca gli arbusti non solo toccandoli, ma col suo soffio, brucia le erbe, spezza le pietre: tale potenza ha questo pericoloso animale. Una volta, così si credette, un esemplare fu ucciso da un uomo a cavallo con un’asta e dal veleno salito attraverso di essa non soltanto il cavaliere, ma anche il cavallo furono annientati. E per un simile mostro – spesso i re hanno desiderato di vederlo estinto – è mortale il veleno delle donnole: così la natura ha voluto che nulla fosse privo del suo uguale. Gli uomini fanno entrare le donnole nelle tane dei basilischi, che si riconoscono facilmente per la contaminazione del suolo. Alcuni mostri Isidoro di Siviglia (570 - 636) Etimologie XI, 3 I greci (…) considerano i Giganti ghegheneis, ossia terrigeni, che significa nati dalla terra, perché la terra stessa, secondo la favola, li avrebbe partoriti con la propria mole immensa (…) I Cinocefali hanno tale nome in quanto aventi testa canina e perché il loro stesso latrare li manifesta più animali che uomini: nascono in India. La stessa India genera i Ciclopi, così chiamati perché si crede che abbiano un unico occhio al centro della fronte (…) Alcuni credono che in Libia nascano i Blemmyae, tronchi privi di capo, con la bocca e gli occhi sul petto. Altre creature verrebbero alla luce senza cervici e con gli occhi sugli omeri. Si è scritto che nell’estremo Oriente
esistono genti dal volto mostruoso: alcune prive di naso, con la faccia deforme e completamente piatta; altre con il labbro inferiore così prominente che, quando dormono, si coprono con esso il volto intero per difendersi dagli ardori del sole; altre ancora aventi la bocca come rappresa, che si nutrono soltanto attraverso un piccolo foro utilizzando cannucce d’avena; alcuni, infine, sarebbero privi di lingua e comunicherebbero attraverso cenni e movimenti. Dicono che presso gli Sciti vivano i Panotii, aventi orecchi talmente grandi da potersi coprire con essi il corpo intero (…) Si dice che gli Artabatitae vivano in Etiopia e camminino proni come pecore: nessuno di essi supererebbe i quaranta anni. I Satiri sono omiciattoli con naso adunco, coma sulla fronte e piedi simili a quelli di una capra. Sant’Antonio ne vide uno nella solitudine del deserto. Questi, interrogato dal servo di Dio, avrebbe risposto: “Io sono un mortale, uno di quelli che abitano nei pressi del deserto e che i gentili, ingannati da numerosi errori, venerano come Fauni e Satiri” (…) Si dice che in Etiopia viva il popolo degli Sciapodi, dotati di gambe particolari e di straordinaria velocità: i Greci li chiamano skiòpodes perché, quando si sdraiano a terra supini per il gran calore del sole, si fanno ombra con i propri enormi piedi. Gli Antipodi, abitanti della Libia, hanno le piante dei piedi al rovescio, ossia rivolte dietro le gambe, ed otto dita in ognuna di esse. Gli Ippopodi vivono in Scizia: hanno forma umana e piedi di cavallo. Dicono che in India viva un popolo chiamato Makròbioi, la cui statura è di dodici piedi. Nella stessa India vive anche un popolo la cui statura è pari a un cubito, cui i Greci danno il nome di Pygmaei, derivato appunto da cubito, e del quale abbiamo sopra parlato: occupano le regioni montuose dell’India, vicine all’oceano. 121
IV. MOSTRI E PORTENTI
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4. LE MIRABILIA
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IV. MOSTRI E PORTENTI
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5. IL DESTINO DEI MOSTRI
5. Il destino dei mostri
a fronte Lucifero ermafrodito, da Buch der heiligen Dreifaltigkeit, Ms. 428, 1488, Vad St. Gallen
La consuetudine coi mostri – e sin dagli inizi – aveva portato il mondo cristiano a usarli anche per definire la Divinità. Come spiegava lo Pseudo Dionigi Areopagita nella Gerarchia Celeste, poiché la natura di Dio è ineffabile, e nessuna metafora per quanto poeticamente folgorante potrebbe parlarne. Qualunque nostro discorso su Dio sarebbe impotente, capace solo di parlarne per negazione, non dicendo ciò che è bensì ciò che non è. Tanto vale allora nominarlo attraverso immagini altamente dissimili, quali quelli di animali ed esseri mostruosi. D’altra parte, un precedente si trovava già nella visione di Ezechiele, dove in forma animale si descrivevano creature celesti, fornendo ispirazione all’apostolo Giovanni per la visione del trono divino (e questo spiega come poi la tradizione abbia associato a tre evangelisti le figure del bue, del leone e dell’aquila). Ma anche in periodo rinascimentale i mostri assumono funzione amichevole, e proprio a causa della loro impressionante bruttezza. Per esempio nelle arti della memoria, sin dall’antichità, per poter ricordare parole e concetti, si consigliava di associarle a diverse stanze di un palazzo o a diversi luoghi di una città dove apparivano statue orripilanti, difficili da dimenticare. Ed ecco che nell’Ars memorandi di Petrus von Rosenheim (1502) appaiono figure mnemotecniche che coi mostri apocalittici e con le creature dei bestiari sono certamente imparentate. I mostri avranno, infine, una enorme fortuna nell’universo eterodosso degli alchimisti, dove simboleggeranno i vari processi per ottenere la Pietra Filosofale o l’Elisir di Lunga vita – e possiamo supporre che essi apparissero non spaventosi bensì meravigliosamente seducenti agli adepti delle arti occulte. Come però vedremo nel capitolo IX, a un certo punto il gusto per il meraviglioso leggendario lascerà posto alla curiosità per l’interessante scientifico, e altri tipi di mostri affolleranno le Camere delle Meraviglie e altre collezioni moderne. A quel punto, si esplorano luoghi che per i medievali erano ancora terra di leggenda, e queste imprese non lasciano più spazio ai mostri dei bestiari. Il mostro continuerà ad abitare l’immaginario moderno e contemporaneo, ma in altre forme. 125
IV. MOSTRI E PORTENTI
Petrus von Rosenheim, Ars memorandi, 1502, Pforzheim
Dio come verme Dionigi Areopagita (V sec. d.C.) Gerarchia celeste, II, 5 Noi troveremo che gli interpreti della teologia misteriosa adattano santamente questi simboli non solo alle manifestazioni delle disposizioni celesti, ma anche talvolta alle stesse manifestazioni della Tearchia. E talvolta essi celebrano la Divinità a partire dalle cose più preziose che vediamo come sole della giustizia (…) Altre volte, invece, la celebrano con gli appellativi degli elementi di mezzo come fuoco che illumina senza danni, acqua elargitrice di pienezza vitale e, per parlare simbolicamente, come acqua che entra nel ventre e fa scaturire fiumi che scorrono irrefrenabilmente. Infine, la chiamano anche con i nomi delle cose più basse come unguento fragrante, pietra angolare, e perfino le attribuiscono una 126
forma ferina adattandole le caratteristiche del leone e della pantera e dicendo che sarà come un leopardo e un’orsa inferocita. Aggiungerò anche il più vile di tutti i paragoni e che sembra essere il più sconveniente: infatti, tutti i dotti nelle cose divine ci hanno tramandato che Dio si è attribuito la forma di un verme. Così i teosofi e gli interpreti dell’ispirazione occulta separano in maniera incontaminata il “Santo dei santi” dalle cose imperfette e profane e vigilano sulle sante figurazioni dissimili, affinché le cose divine non siano accessibili ai profani e coloro che contemplano i santi simulacri non aderiscano alle figure come se fossero reali, e affinché le cose divine siano venerate con vere negazioni e con similitudini dissimili che provengono da cose che hanno tracce divine estremamente diverse nelle loro proprietà.
5. IL DESTINO DEI MOSTRI
Calibano William Shakespeare La tempesta, II, 2 (1611) Che mai vedo qui? Un uomo o un pesce? Morto o vivo? È un pesce, perché puzza come un pesce, e proprio d’un puzzo stantio e rancido come quello d’un pesce, una specie di stoccafisso non proprio dei più freschi. Ma che strano pesce! S’io fossi ora in Inghilterra, come c’ero un tempo, e non avessi altro che questo pesce dipinto su un cartellone, non mancherei neppur uno di quegli imbecilli domenicali che per vederlo spenderebbero una moneta d’argento. Là questo mostro farebbe la fortuna d’un uomo. Qualsiasi più strana bestia, laggiù, è capace di far al fortuna d’un uomo. Pur se non darebbero nemmeno la più piccola monetina per aiutare un mendicante azzoppato, ne tirerebbero fuori dieci per vedere un indiano morto. Ha le gambe come quelle d’un uomo! e le sue pinne somigliano a delle braccia! Ed è caldo, in fede mia! Debbo così rinunziare alla mia opinione, e non mantenerla più a lungo. Questo non è un pesce: è un isolano che poc’anzi ha dovuto esser colpito a morte di un fulmine!
Mostruose poppe Jonathan Swift I viaggi di Gulliver (1726) Nulla mai mi fece più schifo di quelle mostruose poppe, che non saprei a che cosa paragonare per consentire al lettore di formarsi un’idea della loro mole, forma, colore. Sporgevano sei piedi, e la loro circonferenza e misurava almeno sedici. Un capezzolo era press’a poco la metà della mia testa, e capezzoli e mammelle erano screziati di tante macchie, pustole e lentiggini, che nulla poteva vedersi di più nauseabondo (…) Questo mi fece pensare alle belle carnagioni delle nostre signore inglesi, le quali ci sembrano così formose solo perché hanno la stessa nostra dimensione, e i difetti della loro pelle non si possono vedere se non con una lente d’ingrandimento; la quale poi, infatti, ci rivela che l’epidermide più liscia e più candida è, in realtà, scabra, ruvida e di brutto colore.
Per l’influenza delle scoperte dei navigatori che s’imbattevano (ma realmente) in popolazioni selvagge dai selvaggi costumi, Shakespeare ci racconterà dell’orrido (e infelice) Calibano, Swift delle creature incontrate nel corso dei suoi viaggi. Poi, a poco a poco, col mostro si perderà confidenza; apparirà perturbante a Poe, orripilante ad Arthur Conan Doyle (che già sa qualcosa degli animali preistorici), mentre Baudelaire sognerà un’estasi erotica sul corpo di una gigantessa. Arrivati ai giorni nostri, passati attraverso Dracula, la creatura del dottor Frankenstein, mister Hyde, King Kong, e infine attorniati da morti viventi e da alieni giunti dallo spazio, abbiamo nuovi mostri intorno a noi, ma di essi abbiamo soltanto paura e non li vediamo come messaggeri di Dio. Né pensiamo più di renderli mansueti ponendo una vergine sotto un albero. E forse il primo accenno di scetticismo nei confronti degli esseri spesso benevoli dei bestiari lo troviamo già nel Milione di Marco Polo, quando egli, che viaggia davvero e non con la fantasia, incontra quelli che per noi sono evidentemente dei rinoceronti. Sono animali che lui non ha mai visto, e siccome la sua cultura gli metteva a disposizione l’idea dell’ unicorno come quadrupede con un corno sul muso, egli dice di aver visto unicorni. Però, siccome è cronista onesto e puntiglioso, si affretta a spiegarci che questi unicorni sono abbastanza strani, diversi dall’immagine consegnatagli dalla tradizione: non sono bianchi e snelli ma hanno “pelo di bufali e piedi come leonfanti”; il corno è nero e sgraziato, la lingua spinosa, la testa simile a quella di un cinghiale. E conclude che non solo questa bestia “è molto laida bestia a vedere” ma anche che “non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere alla pulcella, ma è il contrario.” 127
IV. MOSTRI E PORTENTI
2. Cin cin
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1. PRODIGI E MOSTRI
King Kong, regia di Merian Cooper e Ernest B. Schoedsack, 1933
a fronte Arnold Böcklin, Sirene, 1875, Berlino, Staatliche Museen
La gigantessa Charles Baudelaire Spleen e ideale (1857) Allorché la Natura nell’estro suo potente Concepiva ogni giorno dei figli mostruosi, Sarei vissuto insieme a un giovin gigante Come ai piè d’una regina un gatto voluttuoso. Vedere avrei voluto il corpo fiorire in un con l’anima, Liberamente crescere in terribili giochi: Divinar se il suo cuore covava truci fuochi Vedendo i suoi grandi occhi invasi da una bruna. Avrei amato errare per sue splendide forme, Strisciare sul versante d’un suo ginocchio enorme, E talvolta, d’estate quando i soli pesanti La spingono a distendersi in mezzo alle campagne, Dormire, abbandonato all’ombra dei suoi seni, Come un villaggio quieto a piè d’una montagna. Denti rossi come gli artigli Edgar Allan Poe La relazione di Arthur Gordon Pym da Nantucket, 18 (1850) Pescammo (…) la carcassa d’un animale terrestre dall’aspetto assai singolare. (…) aveva gambe assai corte e i piedi armati di lunghi artigli d’un rosso vivo simile al
corallo. Il corpo era rivestito d’un fitto pelame delicato e morbido che richiamava al tatto la seta ed era perfettamente bianco. La coda era sottile come quella d’un sorcio ma lunga un piede e mezzo circa. Il capo somigliava a quello d’un gatto, all’infuori delle orecchie che penzolavano, invece, come quelle d’un cane. I denti erano del medesimo rosso acceso degli artigli. Il mondo perduto A.C. Doyle Il mondo perduto, 12 (1912) (…) Poi all’improvviso lo vidi. Ci fu un movimento tra i cespugli all’estremo limite della radura che avevo appena traversato. Una grande ombra scura sbucò fuori e mosse, a balzi nella chiara luce lunare. Dico “a balzi” a ragion veduta, perché la bestia si muoveva come un canguro, saltando in posizione eretta sulle zampe posteriori, e tenendo quelle anteríorí piegate. Le sue dimensioni e la possanza, enormi, facevano pensare a quelle di un elefante dritto sulle zampe di dietro, ma i movimenti, nonostante l’imponenza, erano estremamente agili. (…) Al posto, della testa mite, simile a quella di un cervo, del grande erbivoro dalle zampe a tre dita, questo bestione aveva un muso largo, tozzo, simile al muso di un rospo, e somigliava a quello che ci aveva messo in allarme al campo. Il verso feroce e l’orribile energia del suo inseguimento mi garantivano che si trattava senz’altro di uno di quei grandi dinosauri carnivori, le bestie più terribili che abbiano mai calpestato il suolo terrestre. (…) 129
Capitolo
V
Il brutto, il comico, l’osceno
1. Priapo
Bartolomeo Passerotti, Caricatura, XVI-XVII sec., collezione privata
Si domandava Montaigne (Saggi II, V): “che cosa ha mai fatto all’uomo l’atto sessuale, così naturale, necessario e legittimo perché egli stesso non osi più parlarne se non con vergogna e per escluderlo dai discorsi seri e ponderati? Pronunciamo coraggiosamente: uccidere, rubare, tradire e perché quella cosa si pronuncerebbe soltanto fra i denti?”. In effetti l’essere umano si è trovato a disagio (almeno nella società occidentale) con tutto ciò che è escrementizio e tutto ciò che riguarda il sesso. Ci fanno ribrezzo e pertanto consideriamo brutti gli escrementi (quelli degli altri, animali compresi, molto più dei nostri) e nel Disagio della civiltà Freud osservava che “gli organi genitali in se stessi, la cui vista è sempre eccitante, non sono tuttavia mai considerati come belli”. Questo imbarazzo si è espresso attraverso il pudore, ovvero l’istinto o il dovere di astenersi dall’esibire e dal far riferimento a certe parti del corpo e a certe attività. Naturalmente il senso del pudore si è mostrato variabile secondo le culture e i periodi storici: vi sono state epoche, come è accaduto nella Grecia classica o nel Rinascimento, in cui la rappresentazione degli attributi sessuali non appariva ripugnante ma anzi contribuiva a rendere evidente la bellezza di un corpo e vi sono culture in cui si esibiscono gli stessi attributi in pubblico senza alcun imbarazzo. Ma nelle culture in cui esiste un forte senso del pudore si manifesta il gusto della sua violazione, attraverso l’opposto del pudore, che è l’oscenità. Si possono esibire comportamenti osceni per rabbia o per provocazione ma molto spesso il linguaggio o il comportamento osceno semplicemente fanno ridere – e basti pensare al gusto con cui i bambini amano fare o udire scherzi sugli escrementi. 131
IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
Invocazione a Priapo, I sec. d.C., Pompei, Casa dei Vettii
Sin dalla più remota antichità, il culto del fallo ha unito le caratteristiche dell’oscenità, di una certa bruttezza e di una inevitabile comicità. Tipica una divinità minore come Priapo (che appare nel mondo greco e latino in epoca ellenistica), dotata di un organo genitale enorme. Figlio di Afrodite, era protettore della fertilità e le sue immagini, di solito in legno di fico, venivano poste nei campi e negli orti sia per proteggere i raccolti sia come spaventapasseri; si riteneva che potesse allontanare i ladri sodomizzandoli. Era certamente osceno, era considerato ridicolo a causa di quel membro esorbitante (non a caso ancora oggi il priapismo è una malattia) e non era considerato bello, anzi era definito amorphos, laido (aischron) in quanto privo della giusta forma. In un bassorilievo di Aquileia dell’epoca di Traiano (noto anche a Freud, che ne parla in una lettera del 1898) è rappresentato mentre Afrodite, disgustata dalle fattezze di quel figlio mal nato, lo respinge. Infine, non era un dio felice: era definito anche come “monolitico”, in quanto era intagliato in un unico blocco di legno, e issato nel campo, senza possibilità di muoversi, senza la capacità di metamorfosi propria di molti altri personaggi mitologici, oppresso dalla sua solitudine e dalla incapacità, malgrado le sue ipertrofiche possibilità, di sedurre una ninfa. E si veda il tono di compatimento con cui lo considera Orazio nelle Satire. Eppure era sostanzialmente una divinità divertente e simpatica, amica dei viandanti, e come tale viene rappresentato da vari poeti, da Teocrito alle Priapee (una raccolta anonima probabilmente del I secolo d.C., di tono burlesco e impudico) fino all’Antologia Palatina. Priapo simboleggia così la stretta parentela che si è sempre stabilita sin dagli inizi tra bruttezza, sconcezza e comicità (come si vede anche dai brani da Aristofane e dalla Vita di Esopo). Lamento di Priapo Orazio (I sec. a.C.) Satire I, 8 Ero un tronco di fico una volta, un legno buono a niente, quando un falegname, incerto se farne uno sgabello o un Priapo, preferì fossi un dio: e dio da allora io sono, grande spauracchio di ladri ed uccelli; i ladri li tiene a freno la mia mano destra e il piolo scarlatto che mi si drizza dall’inguine impudico, gli uccelli dannosi li spaventavano invece le canne che ho confitte nel capo, a impedire si posino sui nuovi giardini. Prima, i cadaveri gettati fuori da anguste stanzette un compagno di schiavitù li metteva in una cassa da poco, perché
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fossero trasportati qui: questo era il cimitero comune (…) Ora, invece, l’Esquilino è salubre ed è possibile abitarvi e andare a passeggio sui soleggiati bastioni, da cui, or non è molto, ci s’intristiva a guardare quel campo sfigurato da un biancheggiare di ossa; e adesso io mi devo curare e dar pena non tanto dei ladri e degli animali avvezzi a tormentare i luoghi come questo, quanto delle donne che sconvolgono con incantesimi e filtri gli animi umani. Costoro non mi riesce in nessuna maniera di mandarle in malora, né di impedire che, non appena la luna errabonda ha mostrato il suo volto leggiadro, raccolgano ossa ed erbe malefiche.
1. PRIAPO
Priapea Priapea 6, 10, 24 Anche se sono, vedi, un Priapo ligneo, falce di legno e pur cazzo di legno, ti piglierò ugualmente e ti terrò; e questo coso, quant’è, senza frode, t’infilerò, più teso d’una cetra, fino a toccarti la settima costola.’ Ragazza stupidina, cosa ridi? Non mi scolpì Prassitele oppur Scopa, né mi lisciò la mano del gran Fidia; ma rude legno mi tagliò un villano ed esclamò: «Sì, tu sarai Priapo!» E tu mi guardi e poi ti metti a ridere? Certo ti sembra una cosa piacevole la colonna che sporge dal mio inguine! Qui a me custode di un orto fecondo il fattore comandò di aver cura di questo luogo affidato. Sii tu punito, o ladro, se pure indignato tu dica: «Dovrei pagare questo per poca verdura?» «Sì, certo!» Priapeum Teocrito (III-IV sec. d.C.) Epigrammi, 4 In quel sentiero, dove son le querce, o capraio, svoltando, - troverai un simulacro di fico, appena sbozzato, - a tre gambe, con la scorza, senza orecchi, ma col membro - vitale capace di compier l’opre di Cipride. - Un sacro recinto vi corre, ed un perenne rivo, dalle rocce, dovunque s’adorna - d’allori e di mirti e di cipresso odoroso, - e là si distende, datrice di grappoli, con le spire - una vite, e primaverili, con acute voci, - i merli emetton canti variegati. - E i canterini usignoli rispondono con cinguettii, - cantando dai becchi la voce di miele. - Fermati là, ed al grazioso Priapo - chiedi ch’io smetta il desiderio di Dafni, - e subito immolerò un bel capretto. Se però rifiuta, - ottenendo lui voglio compier triplice sacrificio: - darò infatti una giovenca, un peloso capro, un agnello che tengo - chiuso. Ascolti benevolo il dio! 133
IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
Pittore di Digione, La nascita prodigiosa di Venere, IV sec. a.C., Bari, Museo Archeologico della Provincia
Povero Socrate Aristofane Le nuvole, 153 sgg. (423 a.C.) Discepolo - E sapessi l’altra pensata di Socrate!... Cherefonte di Sfetto gli ha chiesto che pensa delle zanzare: cantano con la bocca oppure didietro?... Ecco la spiegazione: la zanzara ha l’intestino stretto, per essere stretto l’aria passa a viva forza, diritto al deretano. Dopo lo stretto però trova largo: quello del culo, che riecheggia per la forza dello sbuffo. Strepsiade - Allora è una tromba, il culo delle zanzare! (…) Discepolo - Di notte, studiava corsi e ricorsi della luna, la bocca per aria: una tarantola ci caca dentro, dal tetto. Strepsiade - Che spasso, una tarantola caca in bocca a Socrate! Cacare il senno Romanzo di Esopo (I-II sec. d.C.) “Saresti in grado di spiegarmi la ragione per cui, quando defechiamo, guardiamo spesso i nostri escrementi?”. Esopo spiegò: “Anticamente ci fu il figlio di un re che, causa una vita di lussi e mollezze, passava molto tempo seduto a cacare. Una volta ci rimase tanto a lungo che,
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persa memoria delle proprie azioni, cacò anche il senno. Da quel giorno gli uomini cacano stando curvi, facendo attenzione a non cacare anche il senno. Ma tu non fartene un problema: non potresti infatti cacare il senno che non hai!”. Contro il riso Regola di San Benedetto (V-VI sec.) Non pronunciare parole vane o ridicole; e non amare il riso eccessivo o smodato. San Basilio, Piccole regole (IV sec.) Il signore si è fatto carico di tutte le passioni corporali inseparabili dalla natura umana (…) Tuttavia, come attestano i racconti evangelici [vae vobis qui ridetis nunc, quia lugebitis et flebitis, Luca 6, 25] non ha mai ceduto al riso., Al contrario, ha definito infelici coloro che si lasciano dominare dal riso (…) Regola dei quattro padri (V sec.) Se qualcuno verrà scoperto a ridere o a proferire scherzi (…) ordiniamo che per due settimane tale uomo, in nome del Signore, sia represso in ogni modo con la frusta dell’umiltà.
2. SATIRE SUL VILLANO E FESTE CARNEVALESCHE
2. Satire sul villano e feste carnevalesche
Si è parlato di forme d’arte che esprimono l’armonia perduta (da cui il sublime o il tragico, che provocano ansietà e tensione), l’armonia posseduta (da cui il bello e il grazioso, che inducono serenità) oppure l’armonia perduta e fallita, ed ecco che abbiamo il comico come perdita e abbassamento, o anche come meccanizzazione dei comportamenti normali. Si può così ridere della persona impettita e boriosa che scivola sulla buccia di banana, dei movimenti rigidi della marionetta e si può ridere per varie forme di frustrazione delle attese, per l’animalizzazione dei tratti umani, per l’inabilità di un pasticcione o per molti giochi di parole. Queste e altre forme di comicità giocano sulla deformazione, ma non necessariamente sull’oscenità. Comicità e oscenità si sposano, invece, o quando ci si diverte alle spalle di qualcuno che si disprezza (si pensi alla “presa in giro” lubrica o agli scherzi sui cornuti) o nell’atto liberatorio compiuto verso qualcosa o qualcuno che ci opprime. In tal caso il comico-osceno, nel far ridere dell’oppressore, rappresenta anche una sorta di rivolta compensatoria. Queste forme di rivolta (sia pure autorizzate, e quindi intese come motore di sfogo per tensioni altrimenti incontrollabili) le troviamo nei Saturnali romani, durante i quali agli schiavi era permesso di prendere il posto dei padroni, e nei trionfi, dove si permetteva ai veterani di gridare al condottiero festeggiato battute salacissime, con allusioni anche pesanti. Per quanto riguarda il primo mondo cristiano, esso non era stato tenero nei confronti del riso, considerato licenza quasi diabolica. Una tradizione derivata da un vangelo apocrifo, l’Epistola di Lentulo, insegnava che Cristo non aveva mai riso e la disputa sul riso di Gesù era durata secoli. Ma quei documenti contro il riso non devono far dimenticare che altri padri e dottori della chiesa avevano difeso il diritto a una santa letizia e che sin da i primi secoli medievali circolavano testi giocosi come la Coena Cypriani (una parodia fantasmagorica che aveva molta fortuna nell’universo monastico, e in cui si mettevano in scena personaggi biblici in modo sicuramente irriverente) o i Joca monachorum. C’erano poi momenti esplicitamente dedicati alla licenza giocosa, come il riso pasquale, per cui durante le celebrazioni della Risurrezione erano 135
IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
Tricouillard, Angers, Casa in legno del XV sec.
Un marito imbarazzante Lo scroto nero (XII-XIV sec.) Signore, in vostra presenza voglio dire di fronte a tutti il motivo per cui sono venuta a corte. Sono già sette anni che sono sposata con un villano, che mai conobbi appieno, sino a ieri sera, quando per la prima volta scopersi il motivo per cui non posso più restare con lui, 136
né rimanere in sua compagnia. Mi sarà testimoniato per vero: mio marito ha un cazzo più nero del ferro e uno scroto più nero della tonaca di un monaco o di un prete; ed è irsuto come la pelle di un’orsa, e in più mai vecchia borsa d’usuraio fu così gonfia, come il suo scroto. Vi ho raccontato il vero; come meglio non so dirvela.
2. SATIRE SUL VILLANO E FESTE CARNEVALESCHE
Il peto del villano Rutebeuf (XIII sec.) Che non piaccia giammai a Gesù Cristo che il villano trovi ospitalità con il figlio di Santa Maria (..) Essi non possono ottenere il Paradiso con denari o altra cosa, e dell’Inferno sono d’altra parte privati, che i Diavoli sono da loro disgustati (…) Un giorno un villano cadde ammalato e all’Inferno tutti erano pronti a ricevere l’anima sua. Ve lo dico con assoluta certezza. Un diavolo gli era venuto accanto per portarlo giù, come era suo diritto, e tosto gli appende al culo un sacco di cuoio, perché credeva senza fallo che l’anima se ne scappasse per di là. Ma per guarire il villano aveva preso quella sera una pozione, tanto aveva mangiato del manzo all’aglio e del brodo grasso e caldo che la pancia non era molle bensì tesa come la corda di una citara. Ormai è indubbio che dovrà morire,
ma se riuscirà a petare, sarà risanato. A tale scopo egli si sforza assai, e vi si adopra con tutta la sua forza, e tanto si ingegna e si accanisce, tanto si volta e si rivolta, che lascia andare un peto con fracasso, riempie il sacco e l’altro lo lega, che il diavolo a mo’ di penitenza gli aveva calpestato la pancia; e giustamente si dice nel proverbio che “il troppo stringere fa cacare”. A forza di andare il Diavolo ha raggiunto la porta con il peto chiuso dentro il sacco. Getta il sacco nell’Inferno, e il peto scappa via d a un capo. Ed ecco tutti i diavoli furiosi e adirati a maledire l’anima del villano. L’indomani tennero capitolo e giungono a tale accordo: che mai più si porti un’anima uscita da villano, perché puzza per certo. È per tale accordo che il villano non entra né all’inferno, né in Paradiso: voi ne avete inteso la ragione tutta quanta.
consentite facezie anche in chiesa e persino nel corso dei sermoni. Il Medioevo era un’epoca piena di contraddizioni, in cui alle pubbliche manifestazioni di pietà e rigorismo si accompagnavano generose concessioni al peccato, come ci mostra tanta novellistica dell’epoca, ed esistevano luoghi dove veniva tollerata la prostituzione (addirittura villaggiginecei frequentati dai feudatari, detti columbaria). Non bisogna dimenticare l’erotismo della poesia cortese o i canti dei goliardi, che pure erano dei chierici. Inoltre, il senso del pudore era certamente diverso da quello moderno, specie tra i poveri, dove le famiglie vivevano promiscuamente, dormendo tutti nella stessa stanza o addirittura nello stesso giaciglio, e le necessità corporali si soddisfacevano nei campi senza troppe preoccupazioni di riservatezza. L’oscenità (e la magnificazione del difforme e del grottesco) appare nelle satire contro il villano e nelle feste carnevalesche proprio in relazione alla vita degli umili. Si tratta di due fenomeni abbastanza diversi. Ci sono infiniti testi, dai fabliaux francesi alla novellistica italiana e ai Racconti di Canterbury di Chaucer, in cui il villano viene presentato come sciocco, pronto a truffare il suo signore, sporco e puzzolente (in un racconto, un asinaio passando davanti alla bottega di un profumiere viene così stravolto da quegli aromi che sviene e torna in sé solo dopo che gli viene fatto odorare del letame) e talora come un priapo, sfigurato da disgustosi attributi genitali. Questo non era, però, un esempio di comicità popolare; era piuttosto espressione del disprezzo e della diffidenza che verso i contadini provavano il mondo feudale e quello ecclesiastico. Le deformità del villano erano 137
IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
Cacare sulla ciambella, Walcourt, Chiesa di Santa Materna, stallo, 1531 a fronte La bandiera della madre folle, XV o XVI sec., Digione
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Il bovaro Chrétien de Troyes Il Cavaliere del Leone (1180 ca.) Un villano che somigliava a un Moro, sconcio e orrendo a dismisura, creatura sì laida che non si potrebbe descriverla a parole, era seduto su un ceppo con una grossa mazza in mano. Mi avvicinai e vidi che aveva la testa più grossa di quella d’un ronzino o di ogni altro animale, capelli arruffati e fronte pelata, orecchi villosi larghi più di due spanne e grandi come quelli di un elefante, sopracciglia enormi, faccia piatta, occhi di civetta, naso di gatto, bocca tagliata come quella di un lupo, denti di cinghiale aguzzi e giallastri, rossa la barba, attorti i baffi, e il mento attaccato al petto, la schiena lunga, storta e gibbosa. Era appoggiato alla mazza e indossava un vestito assai strano; non era fatto né di lino né di lana, ma, attaccate al collo, portava due pelli da poco scuciate di toro o di bue.
Le flatulenze Karl Rosenkranz Estetica del brutto, III (1853) In tutte le circostanze le flatulenze sono una cosa brutta. Ma poiché affermano contro la libertà dell’uomo qualcosa di involontario, poiché spesso lo sorprendono con suo spavento nel posto sbagliato, con un rapido movimento gli sgusciano via incustodite, hanno la proprietà di un coboldo che senza preannunzio e sans gêne mette in imbarazzo. Perciò i comici se ne sono sempre serviti nel grottesco e nel burlesco, almeno per allusioni. (…) Poiché noi uomini, quali che siano le condizioni di età, di educazione, di censo e di rango che ci distinguono, ci ritroviamo tutti in questa involontaria bassezza della nostra natura, è raro che le allusioni al proposito manchino il bersaglio di far ridere il pubblico: per questo la comicità bassa predilige in modo straordinario tutte le zoticonerie, sozzerie e balordaggini relative.
IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
Le Charivari, Ms. Fr. 146, fol. 34, XIV sec., Parigi, Bibliothèque Nationale de France
godute con sadismo, e ci si divertiva su e non coi villani. Le stesse plebi cittadine erano, invece, protagoniste della parodia grottesca nei carnevali e in altre manifestazioni di tipo carnascialesco, come la Festa dell’Asino e gli charivari, processioni in occasione delle nuove nozze di un vedovo, caratterizzate da grida, gesti osceni, travestimenti, in cui si faceva gran fracasso usando soprattutto calderoni, casseruole e altri utensili da cucina. Nel carnevale prevalevano le rappresentazioni grottesche del corpo (da cui le maschere), le parodie delle cose sacre e una piena licenza di linguaggio, compreso quello blasfemo. Trionfo di tutto ciò che nel resto dell’anno era considerato brutto o interdetto, queste feste rappresentavano tuttavia una parentesi concessa o tollerata solo in certe specifiche occasioni. Per il resto dell’anno c’erano le feste religiose ufficiali. Nelle feste religiose veniva riconfermato l’ordine tradizionale e il rispetto delle gerarchie, nei carnevali si permetteva che l’ordine sociale e le gerarchie venissero rovesciati (si eleggevano persino i re o i vescovi della festa) ed emergevano i tratti buffoneschi e “vergognosi” della vita popolare. Ci si vendicava gioiosamente del potere feudale ed ecclesiastico e, attraverso parodie dei diavoli e del mondo infernale, si cercava di reagire alla paura della morte e dell’oltretomba, al terrore delle pestilenze e delle sventure che avevano dominato per tutto il corso dell’anno. Si potrebbe così dire, paradossalmente, che serietà e tetraggine erano appannaggio di chi praticava un sacro ottimismo (bisogna soffrire ma poi ci sarà la gloria eterna), mentre il riso era la medicina di chi viveva pessimisticamente una vita grama e difficile. Tra queste manifestazioni vi erano anche le Feste dei Folli, ed è ovvio come la figura del matto (che può però essere portatrice di inattesa saggezza) fosse caratterizzata da una smorfia di follia che si trasformò subito in maschera buffonesca. In queste occasioni assumevano funzione farsesca persino gli escrementi che in chiesa, durante l’elezione burlesca di un falso vescovo, venivano usati in luogo dell’incenso, mentre negli charivari venivano lanciati sulla folla. Il brutto veniva così in qualche modo riscattato, forse anche perché il protagonista del carnevale, affamato e oppresso dalle malattie, non era più bello della maschera che impersonava – e pertanto, con un atto di Il Principe degli Sciocchi Gringore (XV-XVI sec.) Sciocchi lunatici, sciocchi storditi, sciocchi saggi; sciocchi di città, sciocchi di castelli, di villaggi; sciocchi instupiditi, sciocchi sempliciotti, sciocchi sottili; sciocchi amorosi, sciocchi solitari, sciocchi selvaggi; sciocchi vecchi, nuovi e sciocchi di ogni età; sciocchi barbari, sciocchi forestieri, sciocchi gentili; sciocchi ragionevoli, sciocchi perversi,
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sciocchi caparbi (…), sciocche dame e sciocche damigelle; sciocche vecchie e sciocche giovani, novelle; tutte le sciocche amano il maschio; sciocche ardite, codarde, laide, belle; sciocche pimpanti, sciocche dolci, ribelli; sciocche che vogliono avere la lor prebenda; sciocche trottanti sul sentiero; sciocche rosse, magre, pallide e grasse; il Martedì Grasso il Principe vi intratterrà alle Halles.
2. SATIRE SUL VILLANO E FESTE CARNEVALESCHE
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IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
3. La liberazione rinascimentale
sfida, lo sgraziato veniva accettato e imposto come modello. Tutti questi fenomeni subiscono una sorta di rovesciamento nell’ambiente rinascimentale. Il ribaltamento più evidente lo si ha con il Gargantua e Pantagruele di Rabelais, che inizia ad apparire nel 1532. Qui non solo l’antica cultura popolare, nelle sue forme più scollacciate, viene rivisitata e saccheggiata con straordinaria originalità ma l’osceno rabelaisiano non appare più (o non soltanto) come caratteristica plebea, diventando piuttosto linguaggio e comportamento di una corte regale. Non solo. L’ostentazione della scurrilità (con risultati comici insuperati) non viene più praticata nel ghetto della festa carnascialesca appena tollerata: si trasferisce nella letteratura colta, si esibisce ufficialmente, diventa satira del mondo dei dotti e dei costumi ecclesiastici, assume funzione filosofica. Non riguarda più una parentetica rivolta anarchica popolare ma diviene vera e propria rivoluzione culturale. In una società che ormai sostiene la prevalenza dell’umano e del terrestre sul divino, l’osceno diventa orgogliosa affermazione dei diritti del corpo – e come tale Rabelais è stato splendidamente analizzato da Bachtin. I giganti Gargantua e suo figlio Pantagruele secondo i criteri classici medievali sono deformi perché sproporzionati, ma la loro deformità diventa gloriosa. Essi non sono più gli spaventosi giganti ribelli a Giove, inesorabilmente condannati dalla mitologia classica, né i mostruosi abitanti dell’India delle leggende medievali: nella loro incontinente ed “enorme” grandezza, Il peto di Pantagruele François Rabelais Gargantua e Pantagruele, II, 27 (1532) N on appena fece un peto, la terra tremò per nove leghe all’ingiro, e da essa, insieme alla corruzione dell’aria, nacquero subito piú di cinquantatremila omettini, tutti nani e contraffatti; e da una correggia, che gli venne subito dopo, altrettante piccole donne, come
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ne avete potute veder sulle fiere, di quelle che non crescono mai se non quanto una coda di vacca in lunghezza, o tutte in grossezza come le rape del Limosino. - Come, - disse Panurge, - avete i peti così prolifici? Perdio, ecco dei bei mozziconi d’uomini e dei begli stoppini di donne: bisogna sposarli assieme, e chissà che non ne nascano dei tafani.
3. LA LIBERAZIONE RINASCIMENTALE
Gustave Doré, Gargantua, XIX sec.
pagine seguenti Illustrazione da François Rabelais, Les songes drôlatiques de Pantagruel, Paris, Richard Breton, 1565
Come Panurge si smerdò François Rabelais Gargantua e Pantagruele, IV, 67 (1532) Fra’ Giovanni come s’avvicinava sentiva non so qual odore, diverso dalla polvere di cannone. Per cui tirò Panurge avanti, e vide che la sua camicia era tutta merdosa e lordata di fresco. La virtú ritentoria del nervo che restringe il muscolo chiamato sfintere (cioè il buco del culo) era stata allentata dalla veemenza della paura che egli aveva avuta nelle sue fantastiche visioni, oltre al rimbombo di quelle cannonate, che è più spaventoso nella stiva che non sul ponte. Perché uno dei sintomi e accidenti della paura, è che per essa solitamente si apre il lucchetto del serraglio nel quale è a tempo debito contenuta la materia fecale (…)
Alcune buone abitudini di Panurge François Rabelais Gargantua e Pantagruele, II, 16 (1532) In quanto poi ai rettori dell’università e teologi, li perseguitava in altri modi; quando ne incontrava qualcuno per la vìa, non mancava mai di far loro qualche brutto scherzo : ora mettendogli uno stronzo nelle pieghe del berretto, o attaccandoglì delle code di carta o strisce di cenci dietro la schiena, o qualche altro fastidio. Un giorno, che tutti i teologi dovevano riunirsi in Sorbona per esaminare gli articoli della fede, egli compose una bella tartina alla Borbonese, tutta fatta d’aglio, di galbanum, di assa foetida, di castoreum, e di stronzi ben caldi, la stemperò nella marcia dì posteme cancrenose, e sul far del mattino ne ìmpiastrò e unse teologalmente tutto l’anfiteatro di Sorbona, che non ci avrebbe resistìto neanche il diavolo. 143
IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
L’invenzione del nettaculo François Rabelais Gargantua e Pantagruele, I, 13 (1532) – Ho inventato, – rispose Gargantua, – con lunghe e diligenti esperienze, un mezzo per pulirmi il culo, il più nobiliare, li più eccellente, il più attinente che mai si vedesse. – E quale ?, – disse Grangola. v Questo, che vi racconterò subito, – rispose Gargantua. “Provai a pulirmi una volta con la mascherina di velluto di una damigella, e trovai che andava bene, perché la soavità della seta mi procurava davvero un gran piacere al fondamento; un’altra volta, con un cappuccio della medesima, e col medesimo risultato; un’altra volta, con una sciarpa da collo; un’altra volta, con una cuffietta di raso cremisi; (…) Guarii quel male, pulendomi con il berretto di un paggio, con su un bel piumetto alla Svizzera. Quindi, cacando dietro una siepe, e trovandoci un gatto marzolino, provai a pulirmi con lui, ma le sue grinfie mi ulcerarono tutto il perineo. Della qual cosa guarii l’indomani, nettandomí coi guanti di mia mamma, ben profumati di belgioino. Poi mi pulii con la salvia, il finocchio. l’aneto, la maggiorana, le rose, le foglie di zucca, di bietola, di cavolo, di vite, di malva, di verbena (che è come il rossetto del culo), di lattuga, e con foglie di spinaci - tutte cose che mi fecero un gran bene ai calli! (…) ma me ne venne il cacasangue dei Lombardi, da cui fui guarito nettandomi con la braghetta. Quindi mi pulii con le lenzuola, con la coperta del letto, con le tendine, con un cuscino, con uno scendiletto, con un tappeto da tavola, una tovaglia, una salvietta, un moccichino, un accappatoio. E sempre vi trovai maggior piacere che non un rognoso quando gli grattan la schiena. – Bene, – disse Grangola; – ma qual è il nettaculo che ti sembrò mígliore? (…) – In conclusione, affermo e sostengo, che non v’è migliore nettaculo d’un papero ben piumato; purché si abbia l’avvertenza di tenergli la testa in mezzo alle zampe. E potete credermi sulla parola. Perché sentirete al buco del culo una mirifica voluttà: sia per la soavità di quel suo piumetto, che per il temperato calor naturale del papero. (…) E vorrei credeste che la beatitudine degli eroi e semidei, che stanno nei Campi Elisi non é già nel loro asfodelo, o nell’ambrosia o nel nettare, come raccontano queste vecchiette; ma bensì, secondo il parer mio, nel fatto che si nettano sempre il culo con un papero, e tale è altresì l’opinione del nostro maestro Gian Scoto. 144
3. LA LIBERAZIONE RINASCIMENTALE
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IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
Tavola dittica, XVI sec., Liège, Bibliothèque centrale
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diventano gli eroi dei tempi nuovi. All’inizio del Seicento assisteremo anche a un ribaltamento della satira del villano, con il Bertoldo di Giulio Cesare Croce (1606). Con questo personaggio, ancora bruttissimo e rozzo, il villano da sciocco diventa astuto, e si appropria della leggenda di Esopo, che nutriva in un corpo disgraziato saggezza e furbizia. Né bisogna attendere il Bertoldo, perché ad esempio già nel 1553 troviamo una Historia di Campriano Contadino dove l’ingegnoso villano, che aveva nascosto le sue monete nel sedere della propria asina, inganna gli stolti mercanti facendo vedere che essa defeca danaro, e gliela vende a caro prezzo. Nel frattempo anche il folle, da comparsa carnevalesca, si trasforma in simbolo filosofico: vari tipi di matti in navigazione per il paese di Cuccagna erano già diventati ciascuno caricatura di un diverso vizio nella Nave dei Follli di Sebastian Brant (1494) e la Follia stessa interviene a fustigare i costumi del proprio tempo
3. LA LIBERAZIONE RINASCIMENTALE
Hieronymus Bosch, La barca dei folli, 1500 ca., Parigi, Musée du Louvre
La bocca e il naso Michail Bachtin L’opera di Rabelais e la cultura popolare, V (1965) Fra tutti i tratti del volto umano, soltanto la bocca e il naso, e quest’ultimo come sostituto del fallo, hanno un ruolo di primo piano nelle immagini grottesche del corpo. (…) Gli occhi non hanno alcuna importanza nell’immagine grottesca del volto. Essi esprimono soltanto la vita puramente individuale, come dire, interiore, dell’uomo, che ai fini del grottesco non viene ad avere alcuna importanza. Il grottesco ha a che fare soltanto con gli occhi strabuzzati… cosí come si interessa a tutto ciò che sbuca fuori, che sporge e affiora dal corpo, tutto ciò che cerca di sfuggire ai confini del corpo. Nel grottesco un particolare significato vengono ad avere tutte le escrescenze e le ramificazioni, tutto ciò che prolunga il corpo e lo unisce agli altri corpi o al mondo non corporeo. Si può dire inoltre che gli occhi strabuzzati interessano il grottesco poiché sono testimonianze di una tensione puramente corporea. Ma per il grottesco, la parte più importante del volto è la bocca. Essa domina. Un volto grottesco si riduce, in sostanza, a una bocca spalancata e tutto il resto non serve che da cornice per questa bocca, per questo abisso corporeo che si spalanca e inghiotte.
Bertoldo Giulio Cesare Croce Le sottilissime astuzie di Bertoldo, 1 (1606) Nel tempo che il Re Alboino, Re dei Longobardi si era insignorito quasi di tutta Italia, tenendo il seggio reggale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo, il qual era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell’ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l’acutezza dell’ingegno, anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura sua era tale, come qui si descrive. Prima, era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, l’orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all’insù, con le nari larghissime; i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre che esso parlava, parevano tanti pignattoni che bollessero; aveva le gambe caprine, a guisa di satiro, i piedi lunghi e larghi e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio, e tutte rappezzate sulle ginocchia, le scarpe alte e ornate di grossi tacconi. Insomma costui era tutto il roverso di Narciso. 147
IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
Pieter Bruegel, Combattimento fra Carnevale e Quaresima, partic., 1559, Vienna, Kunsthistorisches Museum
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nell’Elogio che ne fa Erasmo da Rotterdam (1509). Contemporaneo di Rabelais era Pieter Bruegel il Vecchio, grazie al quale il mondo dei contadini, con le sue feste, la sua rozzezza e le sue deformità entra nella grande pittura. Come nelle satire sui villani, la pittura di Bruegel rappresenta il popolo ma non è destinata al popolo. Come ha osservato Hauser nella sua Storia sociale dell’arte, a voler ritrarre la propria vita sono i gruppi sociali soddisfatti del loro stato, non quelli ancora oppressi che desidererebbero una vita diversa. L’arte di Bruegel era destinata alla città e non alla campagna. Non per questo, però, si può negare a Bruegel un’attenzione fedele ai costumi campagnoli; la sua rappresentazione del villano certamente non è feroce e beffarda come quella delle satire
1. PRIAPO
Ritratto di Falstaff William Shakespeare Enrico IV, II, 4 (1598-1600) C’è un diavolo che ti sta ai panni sotto le sembianze d’un vecchio uomo grasso: una botte d’uomo è il tuo compagno. Perché ti associ con quella cassa d’umori, quel moggio di bestialità quel gonfio fagotto d’ipocrisia, quell’enorme otre di vin di Spagna, quella valigia zeppa di budella, quel bove arrostito dal ventre infarcito, con quel venerando vizio, quella grigia iniquità, quel padre ruffiano, quell’annosa vanità? A che cosa è egli buono se non a gustare il vin di Spagna e a berlo? In che cosa è accurato e pulito, se non a trinciare un cappone e a mangiarlo? in che cosa è abile, se non nell’astuzia? In che cosa è astuto, se non nelle bricconate? In che cosa è briccone, se non in tutte le cose? In che cosa è valentuomo se non in niente? La buona bruttezza della natura Antonio Rocco Della bruttezza (1635) Sono nella Natura bruttissime le corruzzioni, le morti, le carestie, le
povertà, ecc. Da queste s’intendan l’altre; e pur, se dritto mirarete, sono queste, e le simili le miglior cose del Mondo. Le corruzzioni, che sono privazioni, danno principio ad ogni generazione, ad ogni essere sublunare, ne è piena la peripatetica Filosofia; or se i principii son mali, i principiati saranno peggiori; e se questi son buoni, ottimi saranno i principii, l’uno di quali Aristotile chiama turpe, appetit enim, ut turpe, etc.. De generatione animalium, riferisce pur egli che non è più brutta e stomachevol cosa, quanto la generazione degli animali, e spezialmente dell’uomo. Chi vedesse quelle fecciose misture di sangui atri, di semi immondi, di menstrui sordidi, di sperma putrido nausearebbe in sommo. E la maggior parte delle più importanti faciture son di così sordida condizione. Considerate i parti, le purghe, l’escrezioni, ecc. e vedrete verissimo quanto dico, e nondimeno questi sono i principii di ogni bene, assolutamente importanti, e necessarii; or quanto buona la bruttura della Natura?
medievali. L’attenzione al brutto sta a questo punto per assumere tratti realistici, come avverrà nella pittura del Seicento; è del 1635 Della bruttezza di Antonio Rocco, che afferma polemicamente di voler trattare di cose brutte perché quelle sempre dolci e graziose alla fine provocano la nausea. Di primo acchito, Rocco si diverte a enunciare paradossi moralistici e antifemministi, dimostrando come nelle donne la bruttezza sia “custodia di onestà, rimedio di lussuria, occasione di equità, e di giustizia” e che pertanto solo le donne brutte non provocano desiderio e patemi negli amanti e non sono lascive come le belle. Ma Rocco fa anche un elogio dei disastri naturali, occasione di nuova generazione, e definisce come principio di ogni bene le cose che riteniamo disgustose, come i parti, i mestrui, lo sperma, le purghe. È che con il Rinascimento l’osceno è entrato in una nuova fase. Non solo nelle rappresentazioni di corpi umani gli attributi sessuali non sono più sentiti come motivo di scandalo e diventano elemento della loro bellezza, ma con autori come l’Aretino l’esaltazione di atti prima innominabili (che la decenza vieta ancor oggi di inserire in antologia) entra nelle corti, compresa quella pontificia – e non si pone più sotto l’insegna della sgradevolezza, bensì di uno spavaldo e spudorato invito al godimento. L’arte delle classi colte si arroga pubblicamente lo stesso diritto che prima era concesso quasi di straforo alla canaglia plebea, salvo che lo esercita con grazia e non con violenza – e fa scomparire la differenza tra dicibile e indicibile. Pretendendo di rappresentare “bellamente” non solo il brutto innocente 149
IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
Il Presidente de Courval Marchese de Sade Le 120 giornate di Sodoma, introduzione (1785) Logorato in modo strabiliante dalla vita dissipata, egli si presentava alla vista non molto diverso da uno scheletro. Era alto, smilzo, asciutto, aveva due occhi blu senza vita, una bocca livida e malsana, un mento prominente, un lungo naso. Peloso come un satiro, la schiena piatta, i lombi molli e cascanti che rassomigliavano piuttosto ad un paio di stracci sporchi ondeggianti sulla parte superiore delle cosce; la pelle di questi lombi era, grazie alle frustate, così morta e indurita che avreste potuto prenderla a piene mani e massaggiarla senza alcuna sensazione da parte sua. (…) Ugualmente lurido per quanto riguarda tutto il resto della sua persona, il Presidente, che per di più aveva gusti come minimo nauseanti quanto il suo aspetto, era divenuto una figura, la cui vicinanza notevolmente maleodorante non avrebbe potuto indurre al piacere nessuno (….) Pochi mortali erano stati così liberi nella loro condotta o così
Félicien Rops, Pornocrati, 1878, Namur, Musée provincial Félicien Rops
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dissipati come il Presidente; ma, completamente sfinito, assolutamente rimbecillito, tutto ciò che gli rimaneva erano la depravazione e un’impudica profusione di libertinaggio. Più di tre ore di eccessi, e degli eccessi più immondi, erano necessari prima che si potesse sperare di ispirargli una reazione erotica. (…) Curval era a tal punto immerso nel fango del vizio e del libertinaggio che era diventato virtualmente impossibile per lui pensare o parlare di qualcosa altro. Egli, incessantemente, aveva sulla bocca le più terrificanti espressioni, proprio come nel cuore aveva i più vili propositi, e queste con l’estrema energia che mescolava alle bestemmie e alle imprecazioni, gli derivavano da quel sincero orrore, sentimento che condivideva con i suoi compagni, per tutto ciò che avesse sentore di religione. Il disordine mentale, ancor più aumentato dal quasi continuo stato di intossicazione, in cui amava mantenersi, gli aveva, nel giro di pochi anni, dato un’aria di imbecillità e di prostrazione che, egli dichiarava, dava origine alle sue più adorate delizie.
ma anche quello ritenuto tabù, separa l’osceno dal brutto. L’oscenità diventa occasione di garbato intrattenimento nella letteratura licenziosa del Sei e del Settecento, anche se in un autore “maledetto” come Sade essa riprende tutti i suoi tratti più ributtanti. Ancora una volta, la decenza impedisce di porre in antologia tutta la descrizione del presidente di Courval che appare nelle 120 giornate di Sodoma. Courval è un vizioso reso orrendo, puteolente e disgustoso da atti di schifosa libidine, descritti senza risparmiare nulla al lettore. Con Sade, nel superare il limite tra dicibile e indicibile, si va oltre il normale esercizio delle funzioni corporali: volendo essere liberatorio, l’osceno supera la misura, mira all’enormità, all’insostenibile. Come tale, acquisterà infine un ruolo dominante in molta letteratura di fine Ottocento e con le avanguardie del XX secolo, proprio per distruggere i tabù dei benpensanti e al tempo stesso per accettare tutti gli aspetti della corporalità. Ma nel XIX secolo ciò che prima veniva considerato oscenamente brutto era stato trattato senza esitazioni nell’arte e nella letteratura realistica, interessata a mostrare la vita quotidiana in tutti i suoi aspetti. In ogni caso, a prova della relatività del concetto di pudore, molte opere che oggi sono lette anche a scuola come Madame Bovary di Flaubert e Ulisse di Joyce, o i romanzi di Lawrence o di Miller, al loro primo apparire avevano suscitato
IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
4. La caricatura
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scandalo e talora ne era stata proibita la libera circolazione. Una delle forme del comico è certamente la caricatura. L’idea di caricatura è tutto sommato moderna, e alcuni la fanno iniziare con certi ritratti grotteschi di Leonardo. Ma Leonardo “inventava” dei tipi più che scegliersi dei bersagli riconoscibili, così come in tempi precedenti si davano raffigurazioni di esseri già deformi per definizione, come sileni, diavoli o villani. La caricatura moderna, invece, nasce come strumento polemico nei confronti di una persona reale o al massimo di una categoria sociale riconoscibile, ed esagera un aspetto del corpo (di solito del viso) per irridere o denunciare, attraverso un difetto fisico, un difetto morale. In tal senso, la caricatura non ingentilisce mai il proprio oggetto, ma lo imbruttisce, enfatizzandone un tratto fino alla deformità. Così, moralisti come Hans Sedlmayr (ne La perdita del centro) hanno parlato di una forma di meschinizzazione che toglie all’uomo il suo equilibrio e la sua dignità. Certamente si danno caricature intese a umiliare e rendere odioso il proprio bersaglio (e si vedano nel capitolo VII le varie tecniche di demonizzazione del Nemico politico, religioso o razziale). Tuttavia, spesso la caricatura intende anche, enfatizzando alcune caratteristiche del soggetto, raggiungere una conoscenza più profonda del suo carattere. E non sempre è intesa a denunciare una bruttezza “interiore” bensì a mettere in luce caratteristiche fisiche e intellettuali o comportamenti che rendono il caricaturato amabile e simpatico. Così mentre le feroci caricature di Daumier o di Grosz denunciano la bassezza morale di personaggi e tipi del proprio tempo, le caricature di pensatori o artisti realizzate da Tullio Pericoli sono veri e propri ritratti di grande penetrazione psicologica, che spesso raggiungono la celebrazione. Per questo Rosenkranz considerava la caricatura una sorta di redenzione estetica del brutto, in quanto essa non si limita a evidenziare una sproporzione, né enfatizza tutti gli elementi anomali presenti (nel qual caso, come nei giganti o pigmei di Swift, non si avrebbe caricatura ma descrizione di una forma diversa): la buona caricatura inserisce l’esagerazione “come un fattore dinamico che ne coinvolge la totalità”, fa sì che l’elemento di disorganizzazione formale diventi “organico”. In altri termini è una “bella” rappresentazione che fa un uso armonico della deformazione.
4. LA CARICATURA
Quentin Metsys, Il contratto di vendita, s.d. XVI sec., Berlino, Gemäldegalerie, Staatliche Museen Leonardo da Vinci, Caricatura della testa di un vecchio, 1500-1505, Amburgo, Kunsthalle
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IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
John Hamilton Mortimer, Caricatura di un gruppo, 1776 ca., Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection a fronte Honoré Daumier, Due avvocati e la Morte, s.d. XIX sec., Winterthur, Oskar Reinhart Collection
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L’armonia nella caricatura Karl Rosenkranz, Estetica del brutto, III (1853) (Il brutto) stravolge il sublime in volgare, il piacevole in ripugnante, il bello assoluto in caricatura, nella quale la dignità diventa enfasi, il fascino civetteria. La caricatura è pertanto l’apice nella forma del brutto ma proprio perciò, per il suo riflesso determinato nell’immagine positiva ch’essa distorce, trapassa in comicità. Fino ad ora abbiamo visto sempre il punto in cui il brutto può diventare ridicolo. L’informale e lo scorretto, il volgare e il ripugnante distruggendosi possono produrre una realtà apparentemente impossibile, e con ciò il comico. Tutte queste determinazioni entrano a far parte della caricatura. Anch’essa diventa informale e scorretta, volgare e ripugnante, secondo tutte le graduazioni di questi concetti. È inesauribile nel trasformarli e connetterli in modo camaleontíco. Sono possibili grandezze meschine, forze deboli, maestà brutale, nullità sublime, goffa grazia, delicata rozzezza, sensata insulsaggine, vuota pienezza e mille altre contraddizioni (…). La caricatura consiste nell’esagerare un momento di una forma fino alla difformità. Eppure questa definizione va ancora limitata (…) Per spiegare la caricatura bisogna quindi aggiungere al concetto di esagerazione un altro concetto, quello di sproporzione tra un momento della forma e la sua totalità, quindi della negazione dell’unità che dovrebbe sussistere secondo il concetto della forma. Se cioè l’intera forma venisse ingrandita o diminuita in
egual misura in tutte le sue parti, le proporzioni resterebbero in sé le stesse e di conseguenza – come è il caso di quelle figure di Swift – non nascerebbe nemmeno qualcosa di propriamente brutto. Se però una parte fuoriesce dall’unità in modo da negare il rapporto normale, e siccome quest’ultimo continua a sussistere nelle altre parti, si produce uno spostamento e un disordine del tutto, che è brutto. La sproporzione ci costringe a sottintendere di continuo la forma proporzionata. Un naso pronunciato, ad esempio, può essere una grande bellezza. Ma se diventa troppo grande, il resto della faccia scompare troppo nei suoi confronti. Ne nasce una sproporzione. Involontariamente paragoniamo la sua grandezza con quella delle altre parti del volto e concludiamo che non dovrebbe essere così grande. L’eccesso di grandezza rende caricaturale non solo il naso, ma anche il volto di cui fa parte (…) Ma anche qui, ancora una volta, è necessaria una delimitazione. Una semplice sproporzione, cioè, potrebbe avere come conseguenza solo una semplice bruttezza, che però ancora non sarebbe affatto possibile definire caricatura (…) L’esagerazione che sfigura la forma deve operare come un fattore dinamico che ne coinvolge la totalità. La sua disorganizzazione deve diventare organica. Questo concetto è il segreto della produzione della caricatura. Nella sua disarmonia, attraverso la cattiva eccedenza di un momento dell’intero, risorge di nuovo una certa armonia.
4. LA CARICATURA
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IV. IL BRUTTO, IL COMICO, L’OSCENO
a fronte Tullio Pericoli, Albert Einstein, 1959 George Grosz, Giornata grigia, 1921, Berlino, Nationalgalerie, Staatliche
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Contro la caricatura Hans Sedlmayr Perdita del centro, V (1948) Caricature sono sempre esistite anche in epoche più antiche. Noi le conosciamo fino dalla tarda epoca della civiltà alessandrina. In esse viene accentato ciò che è fisicamente brutto. Durante l’epoca barocca esistono caricature personali e private, come ad esempio nei Carracci, in Mitelli e Ghezzi e anche nel Bernini. Come giustamente ha osservato il Baudelaire, le cosiddette caricature di Leonardo da Vinci non sono vere e proprie caricature. Nel medioevo esiste il quadro politico infamante, che è una esecuzione capitale in effigie. Solo a cominciare dalla fine del secolo diciottesimo compare – prima che altrove, in Inghilterra – la caricatura come genere a sé, e solo nel secolo diciannovesimo, con Daumier, essa diviene per un grande artista il campo centrale della sua creazione. Non è dunque la semplice nascita della caricatura a costituire un sintomo importante, ma l’elevarsi di essa fino a divenire un’alta e significativa forza artistica. Dal 1830 in poi esce, con intendimenti politici, la rivista La caricature: “Una notte di Valpurga, un pandemonio, una commedia satanica gozzovigliante, ora pazza ora orripilante”. Si allude qui ai bassifondi dai quali sorge la caricatura. Per sua natura questa è uno sfiguramento del carattere umano e, nei casi estremi, una introduzione dell’elemento infernale (il quale non è altro che l’insieme di immagini opposte a quelle umane) nell’elemento umano.” Lo sfiguramento può seguire varie direzioni: l’uomo viene sfigurato, ad esempio, in una maschera (…) In generale però il procedimento incosciente dello sfiguramento si serve di due metodi che possono essere chiamati l’uno positivo e l’altro negativo. Quest’ultimo toglie all’uomo il suo equilibrio, la sua forma e la sua dignità; lo presenta brutto, informe, meschino e ridicolo. L’uomo, il coronamento della creazione, viene avvilito e abbassato, ma conserva il suo carattere umano. (…) All’inizio del secolo ventesimo (…) accanto a una nuova spietata caricatura che denigra interiormente l’uomo, l’immagine dell’uomo sfigurato che soggioga l’artista in maniera irresistibile si mostrerà senza maschera nelle immagini umane dell’arte moderna, in quelle immagini che all’uomo ingenuo appaiono come spaventose caricature e che sono veramente generate nelle stesse buie profondità dell’abisso.
4. LA CARICATURA
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Capitolo
VI
La bruttezza della donna tra Antichità e Barocco
1. La tradizione antifemminile
Bernardo Strozzi, Vanitas, 1630, Mosca, Museo Pusˇkin
Tra Medioevo e periodo barocco prospera il tema della vituperatio nei confronti della donna, la cui bruttezza manifesta la interiore malizia e il nefasto potere di seduzione. Già nella letteratura classica Orazio, Catullo e Marziale ci fornivano disgustosi ritratti femminili, e ferocemente misogina era la Satira sesta di Giovenale. Ovidio, ne I medicamenti del volto femminile, pur dedicato alla cosmetica, avvertiva che, più che dai belletti, la donna è abbellita dalla virtù. Il problema della cosmesi viene ripreso nel mondo cristiano, con spietato rigorismo, da Tertulliano, che ricorda come “secondo le Scritture gli adescamenti della bellezza fan sempre tutt’uno con la prostituzione del corpo”. A parte la condanna morale (e l’evidente polemica con la licenza del mondo pagano), appare evidente l’insinuazione che la donna si trucchi con impiastri e altri artifici per mascherare i suoi difetti fisici, nella vanitosa illusione di rendersi piacente al marito o, peggio, agli estranei. Patrizia Bettella (nel suo The Ugly Woman, che spazia dal Medioevo al periodo barocco) individua tre fasi nello sviluppo del tema della donna brutta. Nel Medioevo si hanno molte rappresentazioni della vecchia, simbolo di decadimento fisico e morale, in opposizione a un elogio canonico della gioventù come simbolo di bellezza e purezza; nel Rinascimento la bruttezza femminile diventa, piuttosto, oggetto di divertimento burlesco, con l’elogio ironico di modelli che si distaccano dai canoni estetici dominanti; infine nel periodo barocco si giunge a una rivalutazione positiva delle imperfezioni femminili quali elementi 159
VI. LA BRUTTEZZA DELLA DONNA TRA ANTICHIÀ E BAROCCO
Ragazza nasuta Catullo (84 ca.-54 ca. a.C.) Carmi, 43 Salve, ragazza dal naso non piccolo, dai piedi non belli, dagli occhi non neri, le dita non affusolate, la bocca non asciutta, la parlata non elegante, amica del bancarottiere di Formia! E i provinciali dicono che sei bella Ti confrontano con la mia Lesbia? Che mondo volgare e stupido!
Statua di vecchia del mercato, I sec. d.C., New York, Metropolitan Museum of Art
Tristo lezzo Orazio (65-8 a.C.) Epodi, XII Sei, come donna, tipo da elefanti: che vuoi da me? Mi mandi regali, letterine; sono un ragazzo serio. E per di più ho un naso. Fiuto con raro istinto il polipo e l’afrore di capra dimorante greve in ascelle folte, più che il bracco di razza il covo del cinghiale. E l’odore poi cresce col sudore malignamente ovunque dalle sue antiche membra quando sul membro inerte Sfoga una rabbia fiera: cade intanto leggera la creta inumidita col belletto fatto di sterco di coccodrilletto mentre le nella foia rompe i cinghioni e le cortine al letto. Vetustilla Marziale (I sec. d.C.) Epigrammi, 94 Tu sei vissuta sotto trecento consoli, Vetustilla; ti restano tre capelli e quattro denti e hai il petto di una cicala, le gambe e il colore di una formica. Porti in giro una fronte che ha più pieghe della tua stola e seni simili a tele di ragno; il coccodrillo del Nilo ha una bocca minuscola se si paragona alle tue fauci e sono più melodiose le rane di Ravenna e le zanzare di Adria, col loro stridore, sono meno fastidiose di te. La tua vista è pari a quella delle civette di mattina e puzzi come i caproni; il tuo sedere è come quello di un’anatra rinsecchita e neppure un vecchio filosofo cinico è più ossuto della tua vagina. Il custode dei bagni ti fa entrare tra le prostitute delle tombe solo dopo aver spento la lampada (…) E tu pensi ancora al matrimonio dopo che ti sono morti duecento mariti? (…) In questa vagina può penetrare solo la fiaccola funebre.
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Donne, portate il velo Tertulliano (III secolo d.C.) Gli ornamenti delle donne, 4-7 Dovete piacere soltanto ai vostri mariti. E tanto più piacerete loro, quanto meno vi preoccuperete di piacere agli altri. Non preoccupatevi, o benedette, nessuna donna è brutta per suo marito; abbastanza gli piacque quando fu scelta grazie ai suoi costumi e alla sua bellezza. Né vi sia tra noi chi pensi che, se si agghinderà con più moderazione, diverrà odiosa e respingente pel marito. Ogni marito esige il tributo della castità, ma non desidera la bellezza, se è cristiano, perché noi non siam presi da quei beni che i pagani stimano buoni (…) Non vi dico questo per suggerirvi un aspetto esteriore totalmente rozzo e selvatico, né vi voglio persuadere che sia bene esser sciatte e sudice, ma (vi consiglio) la misura e il giusto limite nel curare il corpo. Non dovete oltrepassare ciò che è richiesto da una semplice e sufficiente proprietà: non più di quello che piace a Dio. Infatti peccano contro di lui quelle donne che si tormentano la pelle con belletti drogati, macchiano le loro gote di rosso e si allungano gli occhi con la fuliggine. Per certo a queste dispiace ciò che Dio ha modellato e rimproverano e biasimano in se stesse l’artefice di tutte le cose. Lo biasimano quando tolgono le mende, quando fanno aggiunte, prendendo senz’altro queste aggiunte dall’artefice nemico, ovvero il diavolo (...) Vedo poi talune tingersi i capelli color zafferano. Esse si vergognano della loro nazione: di non essere nate in Germania o in Gallia. Così mutano la loro patria grazie ai capelli (…) È stato detto che nessuno può aumentare la propria statura. Voi di certo aumentate il vostro peso, aggiungendo sopra la nuca a mo’ di costruzioni certe focacce o bernoccoli di scudi (…) Respingete da un capo libero tutta questa schiavitù di ornamenti. Invano vi date pena di sembrare adorne, invano vi valete dell’opera dei parrucchieri più abili: Dio vi comanda di velarvi, affinché, penso io, le teste di talune di voi non siano viste.
VI. LA BRUTTEZZA DELLA DONNA TRA ANTICHIÀ E BAROCCO
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1. LA TRADIZIONE ANTIFEMMINILE
Hans Baldung Grien, La morte e le età dell’uomo, partic. 1540, Madrid, Museo del Prado
Io son dolce serena Dante Alighieri (1265-1321) Purgatorio XIX, 7-33 Mi venne in sogno una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, con le man monche, e di colore scialba (…). “Io son”, cantava, “io son dolce serena, che’ marinari in mezzo mar dismago; tanto son di piacere a sentir piena! Io volsi Ulisse del suo cammin vago al canto mio; e qual meco s’ausa, rado sen parte; sì tutto l’appago!” Ancor non era sua bocca richiusa, quand’ una donna apparve santa e presta lunghesso me per far colei confusa (...) L’altra prendea, e dinanzi l’apria fendendo i drappi, e mostravami ‘l ventre; quel mi svegliò col puzzo che n’uscia. Anti-Beatrice Cecco Angiolieri (XIII-XIV sec.) Le rime, 398 Deh, guata, Ciampol, ben questa vecchiuzza com’ell’è ben diversamente vizza, e quel che par quand’un poco si rizza, e come coralmente viene ‘n puzza, e com’a punto sembra una bertuzza del viso e delle spalle e di fattezza,
e, quando la miriam, come s’adizza e travolge e digrigna la boccuzza. Che non dovresti sì forte sentire d’ira, d’angoscia, d’affanno o d’amore, che non dovessi molto rallegrarti, veggendo lei, che fa maravigliarti sì che per poco non ti fa perire gli spiriti amorosi ne lo core. Vecchia puzzolente Rustico di Filippo (XIII sec.) Dovunque vai, con teco porti il cesso, oi buggeressa vecchia puzzolente, ché qualunque persona ti sta presso si tura il naso e fugge immantenente. Li denti, le gengìe tue ménar gresso, ché li taseva l’alito putente; le selle paion legna d’alcipresso inver lo tuo fragor, tant’è repente. Ch’e’ par che s’apran mille monimenta quand’apri il ceffo: perché non ti spolpe o ti rinchiude, sì ch’om non ti senta? Però che tutto ‘l mondo ti paventa: in corpo credo figlinti le volpe, ta lezzo n’esce fuor, sozza giomenta. Vecchia maligna Burchiello (XV sec.) Vecchia maligna Vecchia vizzosa, perfida e maligna Inimica d’ogni ben, invidïosa, e strega incantatrice e maliosa, trista, stravolta, che se’ pien di tigna.
Nel Medioevo, orribile femmina balbuziente è in verità per Dante (Purgatorio XIX, 7-9) la sirena, e il tema della “vituperazione della vecchia” appare in molti testi come L’arte versificatoria di Matteo di Vendôme, dove si legge un disgustoso ritratto della vecchia e depravata Beroe (dalla testa calva, il volto rugoso, gli occhi cisposi, il naso che cola muco e l’alito repellente), oppure ne I segreti delle donne dello Pseudo-Alberto, dove si accetta una diceria diffusa per cui lo sguardo di una vecchia (reso mortifero a causa della ritenzione del sangue mestruale) avvelena i bambini nella culla. Talora, il topos della invettiva antifemminile appare come reazione all’elogio stilnovista della donna angelicata, per cui la brutta femmina descritta da Rustico di Filippo o da Cecco Angiolieri diventa una antiBeatrice. All’alba dell’Umanesimo, l’apice della misoginia è raggiunto dal Corbaccio di Boccaccio. Il narratore ama, non riamato, una bella vedova e il suo evidente risentimento viene espresso dall’anima del marito, che sorge dal Purgatorio per descrivergli la lussuria e la perfidia della donna, rivelando allo spasimante già vecchio (quarantadue anni!) che essa nasconde i suoi cinquant’anni con creme e altri impiastri schifosi, diffondendosi con particolari disgustosi sulla sua bruttura fisica. 163
VI. LA BRUTTEZZA DELLA DONNA TRA ANTICHIÀ E BAROCCO
Che cosa le femine sono Giovanni Boccaccio Corbaccio (1363-1366) La femina è animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli e abbominevoli pure a ricordarsene, non che a ragionarne: il che se gli uomini riguardassono come dovessono, non altrimenti andrebbono a loro, né con altro diletto o appetito, che all’altro naturali e inevitabili opportunità vadano; i luoghi delle quali, posto giù il superfluo peso, come con istudioso passo’ fuggono, così il loro fuggirebbono (…) Niuno altro animale è meno netto di lei: non il porco, qualora è più nel loto convolto, aggiugne alla bruttezza di loro; e, se forse alcuno questo negar volesse, riguardinsi i parti loro, ricerchinsi i luoghi segreti dove esse, vergognandosene, nascondono gli orribili strumenti li quali a tór via i loro umori superflui adoperano (…) Era costei, e oggi più che mai credo che sia, quando la mattina usciva dal letto, col viso verde, giallo, maltinto d’un colore di fummo di pantano, e broccuta quali sono gli uccelli che mudano, grinza e crostuta e tutta cascante; in tanto contraria a quello che parea poi che avuto avea spazio di leccarsi, che appena che niuno il potesse credere, che veduta non l’avesse, come vid’io già mille volte. E chi non sa che le mura affumicate, non che i visi delle femine, ponendovi su la biacca, diventano bianche e, oltre a ciò, colorite secondo che al dipintore di quelle piacerà di porre sopra il bianco? E chi non sa che, per lo rimenare, la pasta, che è cosa insensibile, non che le carni vive, gonfia; e, dove mucida parea, diviene rilevata? Ella si stropicciava tanto e tanto si dipigneva e si faceva la buccia, per la quiete della notte in giù caduta, rilevarsi che a me, che veduta l’avea in prima, una strana meraviglia venire facea. E se tu, come io le più delle mattine la vedea, veduta l’avessi colla 164
cappellina fondata in capo e col veluzzo dintorno alla gola, così pantanosa nel viso come ora dissi, e col mantello foderato covare il fuoco, in su le calcagna sedendosi, colle occhiaia livide, e tossire e sputare farfalloni, io non temo punto che tutte le sue virtù, dal tuo amico udite, avessero tanto potuto farti di lei innamorare (…) Tu la vedesti grande compressa; e parmi essere certo, come io sono della beatitudine che per me s’aspetta, che, riguardando il petto suo, tu estimassi quello dovere esser tale e così tirato qual vedi il viso, senza vedere i bargiglioni cascanti che le bianche bende nascondono (…) In quello gonfiato, che tu sopra la cintura vedi, abbi per certo ch’egli non v’è stoppa né altro ripieno che la carne sola di due bozzacchioni, che già forse acerbi pomi furono, a toccare dilettevoli e a veder similmente, come che io mi creda così sconvenevoli li recasse del corpo della madre (…) Esse, qual che si sia la cagione, o troppo l’essere tirate d’altrui, o il soperchio peso di quelle che distese l’abbia, tanto oltre misura dal loro natural sito spiccate e dilungate sono, se cascare le lasciasse, che forse, anzi sanza forse, infine al bellico l’aggiugnerebbono, non altrimenti vote o vizze che sia una vescica sgonfiata; e certo, se di quelle, come de’ cappucci s’usa a Parigi, a Firenze s’usasse, ella per leggiadria sopra le spalle se le potrebbe gittare alla francesca. E che più? Cotanto o meno alle gote, dalle bianche bende tirate e distese, risponde la ventraia; la quale, di larghi e spessi solchi vergata come sono le toreccie, pare un sacco vòto, non d’altra guisa pendente che al bue faccia quella pelle vòta che gli pende dal mento al petto; e per avventura non meno che gli altri panni quella le conviene in alto levare, quando, secondo l’opportunità naturale vuol scaricare la vescica o, secondo la dilettevole, infornare il malaguida.
1. LA TRADIZIONE ANTIFEMMINILE
Andres Serrano, Budapest (The Model), 1994, Courtesy Paula Cooper Gallery
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VI. LA BRUTTEZZA DELLA DONNA TRA ANTICHIÀ E BAROCCO
Bei capelli d’argento Joachim Du Bellay (XVI sec.) Les regrets Bei capelli d’argento e con grazia contorti, fronte serena e crespa, e voi, faccia dorata, begli occhi di cristallo, grande bocca onorata da quella una vasta piega che ti fa i bordi attorti! Denti d’ebano belli, oh tesoro prezioso che di un solo sorriso l’animo m’attanaglia, e voi, ampie tettine, degne di tanta taglia, voi pieghe della gola di damasco sontuoso! O mani grassottelle dalle unghie ingiallite,! O coscia fine e magra, voi carnoso polpaccio, e ciò che per pudore, ahimé, purtroppo taccio! Bel corpo trasparente, voi membra intirizzite, di grazia perdonatemi, miracol prodigioso, se, per esser mortale, io d’amarvi non oso. Chiome d’argento Francesco Berni (XVI sec.) Sonetto alla sua donna Chiome d’argento fino, irte e attorte senz’arte intorno ad un bel viso d’oro; fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro, dove spunta i suoi strali Amor e Morte; occhi di perle vaghi, luci torte da ogni obietto diseguale a loro; ciglie di neve, e quelle ond’io m’accoro, dita e man dolcemente grosse e corte; labra di latte, bocca ampia celeste; denti d’ebeno rari e pellegrini; inaudita ineffabile armonia; costumi alter e gravi: a voi, divini servi d’Amor, palese fo che queste son le bellezze della donna mia. Al tempo ch’ero bella Pierre de Ronsard (XVI sec.) Sonnets pour Hélène Quando vecchia sarete, la sera, alla candela, seduta presso il fuoco, dipanando e filando, ricanterete le mie poesie, meravigliando: Ronsard mi celebrava al tempo ch’ero bella. Serva allor non avrete ch’ascolti tal novella, vinta dalla fatica già mezzo sonnecchiando, 166
ch’al suono del mio nome non apra gli occhi alquanto, e lodi il vostro nome ch’ebbe sì buona stella. Io sarò sotto terra, spirto tra ignudi spirti, prenderò il mio riposo sotto l’ombre dei mirti. Voi presso il focolare una vecchia incurvita, l’amor mio e ‘l fiero sprezzo vostro rimpiangerete, Vivete, date ascolto, diman non attendete: cogliete fin da oggi le rose della vita Tettina schifosa Clement Marot Blasone della brutta tettina (1535) Tettina senza nulla che la pelle, scarna bandiera che flotti molle, grande tettina, lunga tettaccia, tettina stiaccia, tettina focaccia, tettina dal capezzolo puntuto come la punta aguzza di un imbuto, tu vai sballonzolando ad ogni mossa senza bisogno alcuno di una scossa… Tettina, si può dir che chi ti tasta sa di aver le mani messo in pasta. Tettina abbrustolita, tettina che pende, tettina avvizzita, tettina che rende invece di latte fanghiglia, e il diavolo ti vuol nella famiglia dell’inferno, ad allattar sua figlia. Tettina da gettar sopra le spalle per farne come un tempo un largo scialle, se ti si vede, viene voglia a tanti di afferrarti coi guanti per non sporcarsi, e prendere a ceffoni con te, tettina, il nasaccio di quella che ti fa spenzolar sotto l‘ascella… Signora Aldonza Diego Hurtado de Mendoza (XVI sec.) A una vecchia che si crede bella Signora Aldonza, hai tre volte trent’anni non più di tre capelli e un solo dente, il petto di cicala, propriamente, fatto di ragnatele, esattamente. Non mostri in quella veste che tu porti tutte le rughe che ti vedo in fronte, la bocca è sgangherata come un ponte ed eccede l’ampiezza di due porti. Canti come rana o una beccaccia, la tua zampa è una caccola di morto, d’un barbagianni hai proprio la faccia. Puzzi siccome un pesce messo a mollo, col tuo dorso di capra tutto storto mi pari spelacchiata come un pollo.
1. PRIAPO
Vantaggi della bruttezza femminile Ortensio Lando “Che meglio sia l’essere brutto che bello”, Paradossi II (1544) Qualunque dubita che meglio non sia d’essere brutto che bello (…) Certissima cosa mi pare che se Elena la greca e Paris il pastor troiano fussero suti brutti sì come furono belli, né Greci sentito avrebbono tanti travagli, né Troia sostenuto l’ultimo suo sterminio (…) Veggiamo ancora spesso più savi e ingegnosi li brutti che li belli. E da Socrate incominciamo, il quale, per quanto s’intende e dalla sua medaglia apparisce, fu stranamente sozzo, e fu però tale che meritò di aver il testimonio dall’oracolo d’essere il più savio di qualunque altro uomo. Esopo di Frigia favoleggiatore eccellentissimo, fu di figura quasi che mostruosa, di modo che qual si voglia de’ Baronzi, in comparazione di lui, seria paruto un narciso o vero un ganimede; non di meno (come ognuno sa) abondò d’ogni vertù, e ebbe sopra ogn’altro acutissimo intelletto. Di molta laidezza fu Zenone filosofo, fu brutto Aristotele, fu brutto Empedocle, bruttissimo fu Galba, ma d’ingegno e d’eloquenza nel cospetto di ciascuno illustrissimo sempre apparve (…) E quante donne belle vegonsi oggidì per Italia che parimenti pudiche tenute sieno? (…) O bruttezza adunque santa, amica di castità, schifatrice de scandali, riparatrice contra pericoli, tu certo sai le conversazioni più facili, tu da quelle lievi ogni amaritudine, tu scacci ogni ria sospizione, tu sola sei finalmente medicina alla rabbiosa gelosia. Io vorrei saper ritrovare parole degne per lodarti come i tuoi meriti richiederebbono, ch’io lo farei vie più che voluntieri, perché
da te procedeno infiniti beni, e a gran torto sei dalli ignoranti biasimata La bruttezza degli uomini Lucrezia Marinelli La nobilta’ et l’eccellenza delle donne (1591) Se le donne adunque sono più belle de gli huomini, che per lo più rozzi e mal composti si vedono, chi negherà giamai che quelle non sieno più singolari de’ maschi? Niuno a giudicio mio. Onde si può dire che la bellezza nella donna sia un meraviglioso spettacolo e un miracolo riguardevole, che mai non fia a pieno honorato e inchinato da gli huomini. Ma voglio che passiamo più inanzi e che mostriamo che gli huomini sono obligati e sforzati ad amar le donne e che le donne non sono tenute a riamarli, se non per semplice cortesia (…) Sarà necessitato l’huomo ad amar le cose belle: ma che più belle cose ornano il mondo delle donne? Niuna, in vero, niuna, come ben dicono tutti questi nostri contrari, che affermano lampeggiar ne’ lor leggiadri volti la gratia, e lo splendor del Paradiso e da questa beltà sono sforzati ad amar quelle: ma non già elle sono tenute ad amar gli huomini: perché il men bello, o il brutto, non è per sua natura degno di essere amato. Ma brutti sono tutti gli huomini a comparatione dico delle donne; non sono a dunque quelli degni di essere riamati da loro, se non per la sua cortese e benigna natura (…) Cessino adunque le querele, i lamenti, i sospiri e le esclamationi de gli huomini, che vogliono al dispetto dei mondo essere riamati dalle donne, chiamandole crudeli, ingrate e empie: cosa da mover le risa, delle quali cose si veggono pieni tutti i libri Poetici.
Nel Rinascimento la donna brutta sembra piuttosto un’anti-Laura; in divertimenti quali quello del Berni, di Doni o dell’Aretino – come in analoghi testi francesi (Ronsard, du Bellay o Marot) – si manifesta infatti un chiaro anti-petrarchismo. In queste poesie non vi è più astio: la visione della deformità o è giocosamente ironica o è affettuosa. Lo stesso sfiorire della donna anziana diventa riflessione melanconica su una beltà in declino. E proprio in periodo rinascimentale appaiono alcune riflessioni che rimettono in questione la condanna del brutto. Se Ortensio Lando, prima ancora dell’elogio della bruttezza di Rocco (già citato nel capitolo precedente), riflette satiricamente sui vantaggi della bruttezza femminile, Lucrezia Marinelli, in uno spirito che diremmo pre-femminista, capovolge la tradizione precedente ed esalta la bellezza delle donne in opposizione alla bruttezza degli uomini. 167
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2. MANIERISMO E BAROCCO
2. Manierismo e Barocco
Giuseppe Arcimboldo, L’inverno, 1563, Vienna Kunsthistorisches Museum
Se nel Rinascimento trionfava una concezione classica dell’arte, fondata sull’imitazione delle armonie della natura, col Manierismo si ha una svolta. Oggi si tende a fissare l’inizio del Manierismo con una data certamente convenzionale, il 1520, anno della morte di Raffaello. Se prima si era parlato di maniera per indicare lo stile di un determinato autore, e poi un modo ripetitivo di rifarsi ai grandi modelli precedenti, ora si definisce il Manierismo come la stagione in cui l’artista, affetto da inquietudine e “melanconia”, non tende più al bello come imitazione bensì all’espressivo. I teorici del Manierismo enunciano la dottrina dell’Ingegno e l’Idea, il disegno interno concepito dalla mente dell’artista, è la manifestazione, dotata di forza demiurgica, del divino che lo abita. La deformazione è quindi giustificata come rifiuto della piatta imitazione e delle regole, che non determinano il genio ma nascono da lui. Il manierista tende alla soggettivizzazione della visione: mentre la prospettiva monoculare dei rinascimentali mirava a ricostruire una scena come se fosse vista da un occhio matematicamente oggettivo, l’artista manierista dissolve la struttura dello spazio classico nelle visioni affollate e prive di centro privilegiato di Bruegel, nelle figure distorte e “astigmatiche” di El Greco, nelle fisionomie inquiete e irrealisticamente stilizzate del Parmigianino. Abbiamo una scelta dell’espressivo contro il bello, una tendenza al bizzarro, allo stravagante e al deforme, come nelle figure di fantasia dell’Arcimboldo. A maggior ragione si sviluppa nel Barocco il gusto per lo straordinario, per ciò che può destare meraviglia e, in questa temperie culturale, si esplorano il mondo della violenza, della morte o dell’orrore, come avviene nell’opera di Shakespeare e degli elisabettiani in genere, o nei Sogni di Quevedo, arrivando sino alla riflessione morbosa sul cadavere dell’amata, come accade in Gryphius. In tal modo, Manierismo e Barocco non temono di ricorrere a quello che per l’estetica classica era considerato irregolare. Pertanto anche il tema della donna brutta muta di prospettiva: della donna si descrivono ora le imperfezioni come elementi di interesse, talora come stimoli voluttuosi – e vedremo come questo atteggiamento venga ripreso e dal Romanticismo e dal Decadentismo, da autori, tanto per fare un solo nome, come Baudelaire. 169
VI. LA BRUTTEZZA DELLA DONNA TRA ANTICHIÀ E BAROCCO
Il fascino delle zoppe Michel de Montaigne Saggi, III, 11 (1595) Si dice in Italia, con un proverbio comune, che non conosce Venere nella sua perfetta dolcezza chi non è andato a letto con la zoppa (…) Avrei detto che fosse il movimento scomposto della zoppa a dare qualche nuovo piacere alla cosa e qualche punta di dolcezza a coloro che lo provano, ma ho appreso poco fa che anche l’antica filosofia lo ha stabilito: essa dice che poiché le gambe e le cosce delle zoppe non ricevono, a causa della loro imperfezione, l’alimento che è loro dovuto, ne deriva che le parti genitali, che sono al di sopra, sono più piene, più nutrite e più vigorose. Oppure che, dato che tale difetto impedisce l’esercizio, quelli che ne sono colpiti dissipano meno le loro forze e giungono più integri ai giochi di Venere (…) Per la sola autorità dell’uso antico e pubblico di questo detto, un tempo io sono arrivato a credere di aver avuto più piacere da una donna perché era zoppa, e ho annoverato questo fra le sue grazie. Pallore di bella donna Giovan Battista Marino La lira, 14 (1604) Pallidetto mio sole, ai tuoi dolci pallori perde l’alba vermiglia i suoi colori. Pallidetta mia morte, a le tue dolci e pallide vïole la porpora amorosa perde, vinta, la rosa. Oh, piaccia a la mia sorte che dolce teco impallidisca anch’io, pallidetto amor mio! La bella vecchia Giuseppe Salomoni Rime, 4 (1615) Già menzognero e stolto biasmai, vecchia gentile, il tuo sen, la tua chioma e ‘l tuo bel volto. Or, cangiando pensier, vo’ cangiar stile e farti udir d’ogni menzogna mia una palinodía (...). D’argento è la tua chioma, ma pur così d’argento, più che se fosse d’or m’allaccia e doma; ed o sia chiusa in treccia o sciolta al vento, più che se fosse d’or, m’alletta e piace (…) 170
La tua fronte serena, che fu già di beltade, sparsa di bianchi fior, piaggetta amena, dal freddo aratro de la vecchia etade solcata è, si, ma con quei solchi sui produce ai cori altrui di diletto e di duol confuse e miste soavi biade e rigidette ariste. Le tue ciglia falcate, l’inarcate tue ciglia ond’han gli Amori ancor le destre armate, sembrano (oh meraviglia!) inutil arme e fragili stromenti; ma più che mai possenti sen van co’ loro arcieri e mietitori mietendo l’alme e saettando i cori. Le tue luci leggiadre languiscon, ma languendo non restan già d’esser rapaci e ladre, o di far si ch’io non languisca ardendo (….) La tua bocca rosata, del tesoro de’ baci e del parlar soave arca animata, non teme de l’età l’unghie rapaci (…) Il tuo candido seno, di bei pomi lascivi lieto orticello e giardinetto ameno, dolci non men né men leggiadri e vivi scopre, benché sian vecchi, i frutti suoi (…) La tua man bella e bianca, tocca da la vecchiezza, sembra dal lungo säettar già stanca; ma languendo non langue e di bellezza alcun vanto non perde, anzi n’acquista (…) Crespa hai la gola e crespe le guance e crespo il petto, ma son, mercé d’amor, quelle tue crespe trofei di leggiadria, non di difetto (…) Sì, si, bella mia vecchia, vecchia sei ma leggiadra, e nel tuo bel la gioventù si specchia (…) Teco Amor pargoletto invecchia, e vuole teco invecchiando incanutire il sole. Canzon, sen vola il tempo ma non temer però le sue quadrella, ché diverrai ne l’invecchiar più bella.
2. MANIERISMO E BAROCCO
Giorgione, La vecchia, 1506-1507, Venezia Gallerie dell’Accademia nella pagina seguente Quentin Metsys (attr.), Donna grottesca, 1525-30, Londra, National Gallery
Già a cavallo tra XVI e XVII secolo troviamo due testi significativi: Montaigne stila un affettuoso elogio delle donne zoppe e Shakespeare apparentemente deprime la sua Dark Lady attraverso una serie di negazioni delle tradizionali caratteristiche della bellezza, ma conclude con un “eppure”: malgrado tutto, egli ama la sua musa. Ma nella poesia barocca si va oltre: appaiono l’elogio della nana, della balbuziente, della gobba, della guercia, della butterata, e contro la tradizione medievale della gota vermiglia o rosata Marino esalta il pallore dell’amata. Se prima la bellezza femminile esigeva capelli biondi, si fa ora l’elogio dei capelli neri. Tasso, nelle sue Rime, già scriveva: “Bruna tu sei, ma bella – qual vergine viola” e Marino elogia la bellezza di una schiava nera. Toccante è l’elogio della bella vecchia in Salomoni e, se il testo di Quevedo appare ancora tradizionalmente astioso, non è così per quello di Burton, dove la straripante descrizione di una donna orrenda tende a ribadire che l’amore può andare al di là dell’opposizione tra brutto e bello. 171
2. MANIERISMO E BAROCCO
Una allucinazione Francisco Goméz de Quevedo Fin del mundo por de dentro (1612) Vedi questa allucinazione? Laida era andata a letto e stamattina si è fatta bella da se stessa, e ora fa delle stravaganze. Sappi dunque che le donne, appena si svegliano, per prima cosa indossano una faccia, uno scollo e due mani, e poi i vestiti. Tutto quello che vedi in lei è di bottega e non opera di natura. Vedi i capelli? Ebbene se li è comprati, non son cresciuti di suo. Le ciglia sono più affumicate che nere, e se i nasi si facessero come le ciglia non ce l’avrebbe proprio. I denti che vedi, e la bocca, erano neri come un calamaio, e a forza di misture sono diventati un polverino. Il cerume delle orecchie è passato alle labbra, che ora sono due candeline. E le mani, allora? Quello che sembra bianco è unto. Che spettacolo è vedere una donna, che il giorno dopo deve uscire per farsi ammirare, mettersi la notte prima in salamoia, e far la nanna alla faccia ridotta a un barattolo di unguento, e il giorno dopo dipingersi sulla carne viva a suo piacere! Che spettacolo una brutta o una vecchiaccia che come il famoso negromante [Enrique de Villena] vuole resuscitare da un’ampolla! Le vedi? Ebbene, non è roba loro. Se si lavassero il viso non le riconosceresti. Credimi, nel mondo non c’è cosa tanto conciata come la pelle di una bella donna, dove si asciugano, si seccano e si sciolgono più calcinature di quante gonne si mettono. Diffidano del loro corpo e quando vogliono solleticare qualche naso si affidano subito all’essenza, al suffumigio, al profumo, e perfino i piedi dissimulano il sudore con scarpette d’ambra. Ti assicuro che i nostri sensi restano a digiuno di quello che è una donna, e satolli
di quello che sembra. Se la baci ti impiastricci le labbra; se l’abbracci stringi tavolette e schiacci cartoni; se ci vai a dormire la metà la lasci sotto il letto nei tacchi; se la corteggi ti sfinisci; se poi la ottieni ti annoi, se la mantieni ti rovini; se la lasci ti perseguita; se l’ami ti lascia. Fammi capire cosa ci trovi di buono, e considera ora questo animale superbo della nostra debolezza, fatto potente dalle nostre necessità, che ci sarebbero di maggiore utilità frustrate e mortificate che non soddisfatte, e vedrai chiaramente la tua follia. Pensa a quando soffre il suo flusso mensile e ti farà schifo; e quando non ce l’ha ricordati che l’ha avuto e che l’avrà di nuovo, e ti farà orrore quello che ti incanta. E vergognati di essere ammaliato da cose che in una statua di legno qualsiasi avrebbero un’essenza meno schifosa. Amare una donna brutta Robert Burton Anatomia della melanconia, “Sintomi o segni di melanconia amorosa” (1621) L’amore è cieco, dice il proverbio, Cupido è cieco e ciechi son tutti i suoi seguaci. Chi s’innamora d’una rana crede che sia Diana. L’innamorato ha un’ammirazione sviscerata per l’amata sebbene costei sia la bruttezza in persona, priva di qualsiasi dote naturale, vizzosa, foruncolosa, bianca, rossa, gialla, nera, pallida come cera, il faccione piatto e rotondo come quello di un buffone, oppure smunto, rinsecchito e minuto come il volto d’un pargolo, maculata nel corpo, contorta, tutta pelle e ossa, spelacchiata, gli occhi strabuzzati e roteanti, cisposi, magari sbarrati, lo sguardo d’un gatto stretto all’uscio, la testa piegata, ponderosa e greve, le occhiaie incavate, gialle e nere, guercia, la bocca spalancata come i passeri,
il naso adunco dei Persiani, o lungo e affilato come quello della volpe, rosso, mastodontico, imponente, appiattito come quello dei Cinesi, naso piatto e rincagnato, naso a promontorio, denti radi e sporgenti, neri, marci, soprammessi, intartariti, sopracciglia come antenne di scarafaggio, barbetta da strega, il fiato che appesta la stanza, il naso che sgocciola estate e inverno, gozzuta come una bavarese, la scucchia a punta, orecchie a sventola, il collo lungo e sbilenco come quello della gru, pendulis mammis, poppe cadenti, “mammelle come un paio di brocche”, o al contrario piatta come un’asse, le dita a salsicciotto pei geloni, le unghie lunghe, seghettate e nere di sporco, mani e braccia coperte di scabbia, la pelle scura, una carcassa putrida, il groppone ricurvo, gobba, zoppa, i piedi piatti, “sottile in vita quanto può esserlo la trippa d’una vacca”, le gambe gottose, le caviglie che traboccano sulle scarpe, i piedi puzzolenti, un covo di pidocchi, un essere informe, un mostro, uno scherzo della natura, pelle dall’afrore acuto, voce gracchiante, gesti sgarbati, portamento volgare, un donnone immenso, una nana ripugnante, una sguattera, grassa e sporca, un gomitolo, una stecca di balena lunga e secca, uno scheletro, un’ombra (…) simile ad una merda alla luce di lanterna, peggiore di quanto avresti immaginato, ma che odi, aborri, alla quale vorresti sputare in faccia o nel cui petto ti vorresti soffiare il naso, remedium amoris, che riterresti un vero antidoto per gli altri, una sgualdrina trasandata, sudiciona, bisbetica, disgustosa, fetente, animalesca, puttana all’occorrenza, oscena, volgare, accattona, rozza, sciamannata, ignorante, linguacciuta (…) Se lui se ne innamora, si prostra ad ammirarla per sempre.
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VI. LA BRUTTEZZA DELLA DONNA TRA ANTICHIÀ E BAROCCO
Calibano William Shakespeare La tempesta, I, 2 (1623) Prospero - E tu, schiavo invelenito che il demonio in persona concepì di sulla tua perfida madre, vieni fuori! Calibano - Una perfida rugiada come quella che mia madre raccoglieva con una penna di corvo su da una malsana palude possa ricader su entrambi voi due! E il vento di libeccio possa travolgervi ed appestarvi di vesciche. Prospero - Per tutto questo – ne puoi star certo – stanotte sarai assalito da crampi, da trafitture ai fianchi che ti mozzeranno il respiro, e folletti in forma di porcospini approfitteranno delle più desolate ore notturne, per esercitare su te l’opera loro. E ti infliggeranno punture più fitte che le celle di un alveare, così come ognuna d’essere sarà più acuta ancora che quelle delle api che le medesime celle han costruito. Calibano - Debbo ancor mangiare il mio pranzo. Quest’isola che tu hai tolto a me, è mia per parte di Sycorax mia madre. I primi tempi che vi giungesti mi carezzavi e facevi gran 176
conto di me; e mi davi a bere dell’acqua con dentro infuse delle bacche; e m’insegnasti qual nome dovessi dare alla luce più grande e quale alla più piccola, che bruciano e il giorno e la notte. Ed io t’amavo allora, e ti mostrai tutto quel che di bello c’era da veder nell’isola, e le sorgenti di fresche acque, e le cisterne d’acqua salata, e il luoghi sterili e quelli fertili. Maledetto quand’io t’ho fatto veder tutte queste cose! Tutti gli incantesimi di Sycorax, i rospi, gli scarafaggi, i pipistrelli ti piombino addosso! Poiché io sono il solo suddito che tu abbia, mentre prima ero re di me stesso. Ed ora mi hai confinato in questa dura roccia, mentre il resto dell’isola m’è vietato. Prospero - O schiavo mentitore, che può esser persuaso bensì dalla frusta ma non dalla bontà! Io t’ho trattato, nonostante tu non fossi altro che un mucchio d’immondizie, con la cura che si deve agli esseri umani. E t’ho alloggiato nella mia stessa grotta, fino al dì in cui non tentasti di violare l’onore della mia figliuola. Calibano - Oh, oh! Ci fossi almeno riuscito! Ma tu me lo hai reso
impossibile! Avrei popolato, altrimenti, quest’isola di piccoli Calibani. Miranda - Aborrito schiavo, sul quale non sarà mai possibile che s’imprima l’orma della bontà, dal momento che non v’è male di cui tu non sia capace! C’è stato pure un tempo in cui ho avuto compassione di te, e mi sono presa la briga d’insegnarti a parlare; e non passava ora che non t’apprendessi questa o quella cosa. E quando tu, selvaggio com’eri, non sapevi dare espressione ai tuoi pensieri, ma soltanto emettere dei suoni inarticolati come le più brutte creature, io seppi dotare i tuoi appetiti di parole che potevano renderli noti. Ma la tua razza vile, sebbene tu riuscissi pure ad apprendere, aveva in sé quel che le buone nature soprattutto non possono tollerare. E fu giusto, perciò, che tu fossi confinato entro questa roccia, nonostante tu meritassi d’esser chiuso entro qualcosa anche di più orrido che una prigione! Calibano - Tu m’hai insegnato a parlare, e l’unico vantaggio ch’io ne traggo si è che posso maledire. Che la peste rossa ti distrugga per avermi insegnata la tua lingua!
2. MANIERISMO E BAROCCO
nelle pagine precedenti: Lucas Cranach, La Fontana della giovinezza, 1546, Berlino, Gemäldegalerie
a fronte Georges de la Tour, Suonatore di ghironda, 1628-1630, Nantes, Musée des Beaux Arts Bartolomeo Passerotti, Mangiatore del braccio, s.d. XVI sec., Milano collezione privata
Michelangelo vecchio Michelangelo Buonarroti Rime (1623) Io tengo un calabron in un orciuolo, in un sacco di cuoio ossa e capresti, tre pilole di pece in un bocciuolo. Gli occhi di biffa macinati e pesti, i denti come tasti di stormento c’al moto lor la voce suoni e resti. La faccia mia ha forma di spavento; i panni da cacciar, senz’altro telo, dal seme senza pioggia i corbi al vento. Mi cova in un orecchio un ragnatelo, ne l’altro canta un grillo tutta notte; né dormo e russ’ al catarroso anelo (…) Che giova voler far tanti bambocci, se m’han condotto al fin, come colui che passò ‘l mar e poi affogò ne’ mocci? L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui di tant’opinion, mi rec’a questo, povero, vecchio e servo in forz’altrui, ch’i’ son disfatto, s’i’ non muoio presto. A se stesso Andreas Gryphius (XVII sec.) Notte, lucente notte, I, 48 Ho orrore di me stesso: mi tremano le membra quando le labbra e il naso e le caverne degli occhi ciechi per la veglia e l’aria greve del respiro osservo e le ciglia ormai spente. La lingua, nera d’arsura, cade con le parole biascica qualcosa; l’anima stanca chiama il gran consolatore, la carne sa di tomba, medici van via, ritornano i dolori, il mio corpo non è che vene, pelle e ossa. Sedere è la mia pena, giacere il mio tormento. Le cosce stesse hanno bisogno di stampelle.
Che cos’è l’alta fama, onori, giovinezza e arte? Quando viene quest’ora è tutto fumo e nebbia. È un’ambascia che viene deliberata a ucciderci. Riccardo III William Shakespeare Riccardo III, I, 1 (1597) Ma io, che non sono davvero conformato per i dilettosi svaghi, né per far la corte a un amorevole specchio, io, che venni fuor da un rude stampo e che sono affatto privo delle grazie d’amore per potermi pavoneggiare dinanzi ai capricciosi ancheggiamenti d’una ninfa, io, che son reso manchevole dell’armonica simmetria, e cui la natura fraudolenta ha sottratto ogni onesta sembianza di figura umana, io, che son deforme, non finito, mandato anzi tempo in questo spirante mondo, senza che m’avessi neppur plasmata a mezzo la forma, questa così azzoppata e storpia che i cani m’abbaiano contro se m’avvio zoppicando insieme a loro… Ebbene, io, in quest’effeminato e sufolévole tempo di pace, non ho altra distrazione che m’aiuti a passare il tempo, se non quella che consiste nel riguardare l’ombra mia nel sole e ricercar le variazioni della mia deformità. E così, dal momento che non riuscirei davvero a far l’innamorato e intrattenere questi bei giorni dalla voce soave, ho deciso d’assumere, per contro, la parte del cattivo, e di portare ogni sorta d’invido odio agli oziosi piaceri di questo tempo.
Ma sin dagli inizi del periodo manierista si fa strada una riflessione malinconica sulla vecchiezza maschile, e una dolente pietà vibra nei versi in cui Michelangelo o Gryphius dipingono la loro bruttezza senile. Inizia anche una riflessione pietosa su una bruttezza che produce dolore e al tempo stesso malvagità – altro tema che sarà ripreso dal Romanticismo. Si veda il modo amaramente pietoso in cui Shakespeare mette in scena la sofferenza di Calibano o di Riccardo III, suggerendo che sia stato lo sguardo astioso con cui gli altri hanno considerato la loro bruttezza ad averli resi cattivi. La stessa comprensione per gli umani difetti appare anche in molti pittori, i quali nei loro volti sgraziati non intendevano irridere gli sventurati né rappresentare il male, bensì mostrare la malattia o il fatale lavorio del tempo. 177
Capitolo
VII
Il diavolo nel mondo moderno
1. Dal Satana ribelle al povero Mefistofele
Heinrich Füssli, Satana emerge dal caos (dal Paradiso Perduto di Milton, III, 1010 ff.), 1794-96, Zurigo, collezione privata
La tradizione cristiana aveva cercato di non ricordare che, se Satana era stato un angelo, allora doveva essere presumibilmente bellissimo. Verso il XVII secolo, tuttavia, Satana inizia a subire una trasformazione. Shakespeare, nell’Amleto, aveva ricordato che il diavolo può presentarsi anche in belle forme, e infine Marino, ne La strage degli innocenti (1632), ci presenta Satana come un essere su cui pesa una cupa mestizia – e che quindi in qualche misura ispira la nostra pietà. Si confronti il Lucifero di Dante (XIV secolo) col Plutone della Gerusalemme Liberata di Tasso (XVI secolo). Sono entrambi orrendi; tuttavia al suo Plutone Tasso non riesce a negare una “orrida maestà”. Ma il testo che segna definitivamente il riscatto di Satana è il Paradiso perduto (1667) di Milton. Si è parlato di ragioni politiche (Milton aveva partecipato alla rivoluzione puritana poi sconfitta dalla restaurazione monarchica) per cui il poeta aveva identificato in Satana un modello di ribellione al potere. Ma – anche senza concedere, con Blake, (Matrimonio del cielo e dell’inferno, 1790-1793) che in fondo Milton era “del partito del Demonio senza saperlo”, nel Satana miltoniano prevalgono i tratti di una decaduta bellezza e di una indomita fierezza. Egli non è un rivoluzionario, perché gli manca uno scopo ideale al di là del sentimento della vendetta e dell’affermazione del proprio Io, ma è certamente un modello di pura energia in rivolta, al punto che Schiller (Autorecensione ai ‘Masnadieri’) scriverà che il lettore parteggia col vinto e Shelley, nella Difesa della poesia, dirà che il demonio di Milton è superiore al Dio a cui si oppone. Satana non si pente per senso dell’onore, non accetta di sottomettersi a chi lo ha vinto, e rifiuta di chiedere grazia: “Meglio regnare nell’inferno che servire nei 179
VII. IL DIAVOLO NEL MONDO MODERNO
William Blake, Satana colpisce Giobbe con le piaghe, illustrazione dal Libro di Giobbe RA 2001.68, 1826, New York, The Pierpont Morgan Library a fronte Joseph Anton Koch, L'Inferno, 1825-29, Roma, Casino Massimo, sala di Dante
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Lucifero Dante Alighieri (1265-1321) Inferno, XXXIV, 22-57 Lo ‘mperador del doloroso regno da mezzo ‘l petto uscia fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno, che i giganti non fan con le sue braccia (…); Oh quanto parve a me gran maraviglia quand’io vidi tre facce a la sua testa! L’una dinanzi, e quella era vermiglia; l’altr’ eran due, che s’aggiugnieno a questa sovresso ‘l mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnieno al loco de la cresta; e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde ‘l Nilo s’avvalla. Sotto ciascuna uscivan due grand’ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid’io mai cotali. Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, sì che tre venti si movean da ello: quindi Cocito tutto s’aggelava. Con sei occhi piangëa, e per tre menti gocciava ‘l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co’ denti un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti. Plutone Torquato Tasso Gerusalemme liberata, IV, § 4-8 (1581) Orrida maestà nel fero aspetto terrore accresce e più superbo il rende: rosseggian gli occhi e di veneno infetto come infausta cometa il guardo splende. Gl’involve il mento e su l’irsuto petto ispida e folta la gran barba scende, e in guisa di voragine profonda s’apre la bocca d’atro sangue immonda. Satana Giovan Battista Marino La strage degli innocenti (1632) Negli occhi, ove mestizia alberga e morte, Luce fiammeggia torbida e vermiglia. Gli sguardi obliqui e le pupille torte Sembran comete, e lampadi le ciglia. E da le nari e da le labra smorte Caligine e fetor vomita e figlia; Iracondi, superbi, e disperati, Tuoni i gemiti son, folgori i fiati.
1. DAL SATANA RIBELLE AL POVERO MEFISTOFELE
Il fascino del ribelle John Milton Il paradiso perduto, I, 62-151 (1674) Nove volte lo spazio che misura giorno e notte ai mortali, con sua orrenda schiera egli vinto cadde rotolando nell’igneo abisso, debellato pur se sempre immortale. Ma la sua condanna a più grave soffrir lo riserbava, poi che il pensiero dell’ormai perduta felicità e del dolore eterno or lo tormenta. Ei ruota i suoi sinistri occhi d’intorno, che testimoniavano calamità e sgomento, d’obdurato orgoglio misti e d’odio pertinace; e tosto sguarda, come posson gli angeli, il tristo luogo desolato ed aspro: un orribil torrione intorno tondo come una gran fornace fiammeggiante: pur non vien luce là da quelle fiamme, bensì sol una oscurità visibile che sol discopre vedute di mali,
regïoni d’angoscia, dolorose ombre: dove la pace od il riposo mai può avere dimora, o la speranza la speranza, che pur tutti i mortali tiene. Ma una tortura senza fine anche gli urge e di fuoco un uragano di sempre ardente solfo in consumabile nutrito. Tale il luogo che l’Eterna Giustizia preparava a quei ribelli (…) “In qual bolgia caduti ora tu vedi, da quale altezza, e quanto più possente si mostrò Lui che ha il fulmine: e chi mai finor la dira forza conosceva di quell’arme? Ma pure, non per essa, né per quel che il potente Vincitore nella Sua rabbia possa ancora infliggerci, io già mi pento! E neppur anche muto, per mutato che sia nel lustro esterno, questa mia mente ferma e l’alto sdegno per l’offesa ai miei meriti ch’io sento.
Questo fu che mi spinse alla contesa col Più Potente : e nella fiera lotta meco trassi la forza innumerevole degli spiriti in arme, cui spiaceva tanto osavan - Suo regno, e, preferendo me, la Sua forza massima con loro forze opposero avverse nell’incerta battaglia su del Ciel nelle pianure. E ne tremò il Suo trono. Ma che importa che sia perduta la giornata? Tutto non è perduto! Indomito volere e studio di vendetta ed immortale odio e il coraggio mai di sottomettersi o di cedere: e in che cos’altro sta il non essere vinti? Una tal gloria mai potrà l’ira Sua né la potenza estorcere da me; Io inchinarmi e implorar grazia in supplici ginocchia? Io deificare il poter che pur ieri per terrore di questo braccio mio era dubbioso del Suo impero? No, troppo basso sarebbe, e l’ignominia è vergogna peggior della caduta!” 181
VII. IL DIAVOLO NEL MONDO MODERNO
Lewis Morrison, Faust, manifesto teatrale, 1896 Gérard Philippe in La beauté du diable, regia di René Clair, 1950
Un povero diavolo Wolfgang Goethe Il primo Faust I, Studio (1773-1774) Mefistofele - Io sono parte di quella forza che sempre vuole il Male, e il Bene pur sempre opra. (…) Son lo spirto che nega eternamente. E con ragion: ch’ogni cosa creata giustamente a perire è condannata e meglio assai se non fosse mai nata. Perciò, quel che Peccato qui s’intende, Distruzione, o, a farla breve, il Male, è il mio elemento naturale (…). Ti voglio dir modestamente il vero. Se l’uomo, questo nido di pazzia, un tutto in generai crede ch’ei sia... son parte della parte che il Tutto già coprì, son parte della tenebra che luce partorì, quella superba luce che con la madre Notte pel privilegio antico, lo spazio ora combatte; ma invan: per quanto ai corpi essa tenti sfuggire, imprigionata vi deve aderire (…).
Faust - Ora conosco i bei compiti tuoi! Poiché in grande distruggere non puoi, così incominci dal particolare. Mefistofele - Senza peraltro molto combinare. Ciò che al Nulla quaggiù si contrappone, il Qualche Cosa, il mondo zoticone, per quante volte io ritorni a tentarlo, non son pur mai riuscito ad intaccarlo, con incendi, con scosse, onde e bufere... tornano cielo e mare tranquilli a rimanere. Quanto alla maledetta genia d’uomini e bestie, non c’è più verso di farne qualcosa; ne ho sotterrati a josa, e tornan sempre a ricacciar le teste. In seno all’aria, all’acqua ed alla terra un pullular di germi si disserra, con pazzo ritmo, interminabilmente, in caldo, in freddo, asciutto, umido loco... se non mi fossi riservato il fuoco, davver, per me non resterebbe niente!
Se nel Dr. Faustus di Marlowe (1604) Mefistofele era ancora brutto e se, ancora nel XVIII secolo, nel Diavolo innamorato di Cazotte, appare sotto la forma di un cammello, nel Faust di Goethe egli appare come un signore vestito propriamente. È vero che s’introduce presso Faust nelle spoglie di un cane nero che poi inizia una trasformazione inquietante, prendendo forma d’ippopotamo con occhi di brace e zanne orrende, ma infine si manifesta in vesti di chierico vagante, di intellettuale per bene. È diabolico solo in quanto dialetticamente insinuante e convincente e fa con Faust “come il gatto fa col topo”. D’altra parte, non ha da far molto per sedurre Faust, già pronto ad avere commercio con gli spiriti, quasi fosse lui a voler andare incontro al diavolo e non viceversa. Mefistofele preannuncia pertanto una terza metamorfosi del diavolo. Esso nel secolo XX diventerà assolutamente “laico” (si vedano i testi di Dostoevskij, Papini e Mann); né terrificante né affascinante, infernale nel suo grigiore e nella sua apparente meschinità piccolo borghese, è ora più pericoloso e preoccupante perché non è più innocentemente
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1. DAL SATANA RIBELLE AL POVERO MEFISTOFELE
Il diavolo di Cazotte Jacques Cazotte Il diavolo innamorato (1772) Pronuncio l’evocazione con voce chiara e sostenuta, poi, rafforzando il suono, chiamo a tre riprese e a brevissimi intervalli: Belzebù. Un brivido mi corse nelle vene, e i capelli mi si rizzarono in capo. Avevo appena terminato che sul soffitto della volta, proprio di fronte a me, si aprì una finestra a due battenti: l’apertura rovescia un torrente di luce più abbagliante di quella del giorno: una testa di cammello, orribile nelle dimensioni, si affaccia alla finestra: di smisurato aveva soprattutto le orecchie. L’odioso fantasma apre le fauci, e con tono assortito al resto dell’apparizione, mi risponde: “Che vuoi?” (…) Poiché la prima idea che mi venne in mente fu quella di un cane Vieni - gli dico - sotto forma di spaniel.- Appena dato l’ordine, lo spaventoso cammello allunga di sedici piedi il collo, abbassa la testa
fin al centro della sala, e vomita uno spaniel dal pelo lucente, e le orecchie lunghe fino a terra” Il diavolo di Dostoevskij Fedor Michajlovic Dostoevskij I fratelli Karamazov (1879-1880) Era un signore, o per dir meglio, una sorta di gentleman russo, non più giovane, qui frisait la cinquantaine, come dicono i francesi, con un po’ di bruma nei capelli scuri, tuttora abbastanza lunghi e folti, e nella barbetta tagliata a punta. Il diavolo di Papini Giovanni Papini Il demonio mi disse, in Il tragico quotidiano (1906) È molto alto e molto pallido: è ancora abbastanza giovane, ma di quella giovinezza che ha vissuto troppo e che è più triste della vecchiaia. Il suo volto bianchissimo e allungato non ha di particolare che la bocca sottile, chiusa e serrata, ed una ruga unica e
profondissima che si innalza perpendicolarmente tra le sopracciglia e si perde quasi alla radice dei capelli. (…) Veste sempre di nero e le sue mani sono sempre inappuntabilmente inguantate. Il diavolo di Mann Thomas Mann Doctor Faustus (1947) È un uomo piuttosto allampanato, non alto e anche più piccolo di me, con un berretto sportivo tirato su un orecchia, mentre sull’altra i capelli rossigni gli sporgono dalla tempia. Ha le ciglia rossiccie, gli occhi infiammati, il viso cereo, con la punta del naso un po’ curva all’in giù. Sopra una camicia a maglia a righe trasversali porta la giacca a quadretti, con le maniche troppo corte, donde sporgono le mani dalle dita tozze. Ha calzoni troppo stretti e le scarpe trite, che non si possono più pulire. Un lenone, uno sfruttatore, con una voce da attore di teatro. 183
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1. DAL SATANA RIBELLE AL POVERO MEFISTOFELE
2. La demonizzazione del nemico
Manfredo Settala, Lo schiavo in catene (automa di diavolo), XVII sec., Milano, Civiche Raccolte d’Arte Applicata, Castello Sforzesco pagina seguente Luca Signorelli, Predicazione dell’Anticristo, partic. 1499-1504 affresco dalla cappella della Madonna di san Brizio, Duomo di Orvieto
brutto come lo si dipingeva. A mano a mano che Satana sdrammatizza i suoi tratti, cresce invece la demonizzazione del Nemico, a cui si assegnano caratteristiche sataniche. Se pure ci si occuperà di questo Nemico (che viene a prendere il posto di Satana) particolarmente nel mondo moderno, il Nemico è però sempre esistito. Sin dall’antichità, nemico è sempre stato anzitutto l’Altro, lo straniero. I suoi tratti non appaiono corrispondere ai nostri criteri di bellezza e se ha abitudini alimentari diverse si è colpiti dal suo odore. E senza andare troppo indietro nel tempo, ricordiamo che gli occidentali giudicano inaccettabile che i cinesi mangino cani e gli anglosassoni che i francesi mangino rane. Per non dire dei suoni incomprensibili di una lingua straniera. I Greci, infatti, definivano barbari (e cioè gente che balbettava) tutti coloro che non parlavano greco, e nella scultura romana i barbari sconfitti dalle legioni mostrano barbe incolte e nasi camusi. Il primo nemico cui il cristianesimo si è trovato di fronte è stato il vicario di Satana, l’Anticristo, e tutti i testi che conosciamo sul volto dell’Anticristo (che peraltro si ispirano a fonti bibliche come Daniele), dai primi secoli sino al Libello sull’Anticristo di Adso de Montier-en-der e a Ildegarde di Bingen, insistono sulla sua oscena bruttezza (talora giustificata dalla provenienza da stirpe giudaica). Il secondo nemico, sin dai primissimi secoli, è stato costituito dagli eretici, e una delle armi con cui il cristianesimo occidentale e orientale li ha combattuti è sempre stata la descrizione dei loro costumi diabolici. Basti vedere un testo bizantino quale Sull’attività dei demoni di Michele Psello (XI secolo), infinitamente ricalcato, in seguito, da ogni tipo di setta eretica e (per quanto riguarda l’infanticidio rituale) sovente usato come atto di accusa contro gli ebrei. Nemici erano gli scismatici. In un rapporto di Liutprando di Cremona, del X secolo, sulla corte bizantina (che noi ricordiamo per i suoi fasti) troviamo una descrizione orripilata degli abiti, dei cibi locali e di quel vino resinato che oggi per molti costituisce una prelibatezza. Orrendi sono sempre stati ovviamente i nemici saraceni. Infine, è sempre stato costante l’orrore per il lebbroso e l’appestato, 185
VII. IL DIAVOLO NEL MONDO MODERNO
Profezia di Daniele Daniele, 7 Io, Daniele, guardavo nella mia visione notturna ed ecco, i quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mar Mediterraneo e quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare. La prima era simile ad un leone e aveva ali di aquila. Mentre io stavo guardando, le furono tolte le ali e fu sollevata da terra e fatta stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d’uomo. Poi ecco una seconda bestia, simile ad un orso, la quale stava alzata da un lato e aveva tre costole in bocca, fra i denti, e le fu detto: «Su, divora molta carne». Mentre stavo guardando, eccone un’altra simile a un leopardo, la quale aveva quattro ali d’uccello sul dorso; quella bestia aveva quattro teste e le fu dato il dominio. Stavo ancora guardando nelle visioni notturne ed ecco una quarta bestia, spaventosa, terribile, d’una forza eccezionale, con denti di ferro; divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava: era diversa da tutte le altre bestie precedenti e aveva dieci corna. Stavo osservando queste corna, quand’ecco spuntare in mezzo a quelle un altro corno più piccolo, davanti al quale tre delle prime corna furono divelte: vidi che quel corno aveva occhi simili a quelli di un uomo e una bocca che parlava con alterigia (…). Io, Daniele, mi sentii venir meno le forze, tanto le visioni della mia mente mi avevano turbato; mi accostai ad uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose ed egli me ne diede questa spiegazione: “Le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra; ma i santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per secoli e secoli (...) La quarta bestia significa che ci sarà sulla terra un quarto regno diverso da tutti gli altri e divorerà tutta la terra, la stritolerà e la calpesterà. 186
Nascita dell’Anticristo Adso di Montier-en-Der (X sec.) Sulla nascita e i tempi dell’anticristo L’Anticristo nascerà dal popolo dei giudei (…) dall’unione di un padre e una madre come tutti gli uomini, e non, come si dice, da una vergine. Così sarà del tutto concepito nel peccato, nel peccato sarà generato e nel peccato nascerà. All’inizio del suo concepimento il diavolo entrerà nell’utero materno, per virtù del diavolo sarà nutrito nel ventre della madre, e la potenza del diavolo sarà sempre con lui. E così come nella madre di Nostro Signor Gesù Cristo discese lo Spirito Santo e lo riempì della sua virtù, in modo che fosse concepito di Spirito Santo e che santo e divino nascesse, nello stesso modo il diavolo entrerà nella madre dell’Anticristo e la colmerà tutta, la circonderà, la farà propria, la possiederà fuori e dentro in modo che, grazie alla cooperazione diabolica, essa lo concepisca a opera di uomo e colui che nascerà sia completamente iniquo, malvagio, perduto. E per questo sarà detto figlio della perdizione (…) Egli avrà maghi, stregoni, divinatori e incantatori che, per ispirazione diabolica, lo educheranno in ogni iniquità, falsità e arte malefica. Sul volto dell’anticristo Testamento siriaco di Nostro Signore Gesù Cristo, I,4 (V sec.) Questi sono i suoi tratti: la testa è come fiamma ardente, l’occhio destro iniettato di sangue, il sinistro di un verde felino, e ha due pupille, le sue palpebre sono bianche, il labbro inferiore è grande, il femore destro è debole, i piedi grossi, il pollice schiacciato e allungato. Apocalisse di Elia, 3:15-17 (III sec.) È piccolo, dalle gambe sottili, è alto, ha un ciuffo di capelli grigi sulla fronte calva, le sopracciglia raggiungono le orecchie, ha un marchio di lebbra sul dorso delle mani. Si trasformerà davanti a coloro che lo vedono: una volta sarà un giovane, un’altra un vecchio.
Apocalisse di san Giovanni Teologo (V sec.) L’aspetto del suo volto è cupo, i capelli sono come le punte di una freccia, la fronte è accigliata, l’occhio destro è come la stella del mattino e il sinistro come quello di un leone. La sua bocca è larga un cubito, i denti sono lunghi una spanna e le dita sono come falci. Le sue impronte sono lunghe due cubiti. Sulla fronte ha scritto: “Anticristo”. Ms. del Monastero del Mont Saint Michel (X sec.) I discepoli dissero a Gesù: “Signore, dicci come sarà”. E Gesù disse: “La sua statura sarà di nove cubiti. Avrà capelli neri raccolti come una catena di ferro. Avrà sulla fronte un occhio splendente come l’alba. Il labbro inferiore sarà grosso e non avrà labbro superiore. Il mignolo della sua mano sarà il più lungo, e più largo il piede sinistro.” Hildegarde di Bingen, Liber Scivias III, 1, 14 (XII sec.) E come sarà che da quel luogo dove si riconosce una femmina, apparirà una testa mostruosa e tutta nera? È che il figlio della perdizione, nella sua follia, verrà con tutte le astuzie della prima seduzione, con mostruose turpitudini e nere iniquità: avrà due occhi di fuoco, orecchie come quelle di un asino, naso e bocca come un leone, perché invierà agli uomini gli atti di follia del più delittuoso tra i fuochi e le voci più vergognose della contraddizione, facendo loro rinnegare Dio, spandendo nei loro sensi il fetore più orribile, lacerando le istituzioni della chiesa con la più feroce delle cupidigie; sogghignando con un rictus enorme e mostrando orribili denti di ferro. Cursor mundi , 22.391-22.398 (XIV sec.) La venuta di Cristo sarà di tal fulgore che nella potente luce del signore l’Anticristo sentirà tale terrore che la sozzura delle sue budella gli uscirà tutta dalle fondella. Per paura di Cristo, svergognato e pieno di paura e di dolore, egli così morirà tutto smerlato.
VII. IL DIAVOLO NEL MONDO MODERNO
La bruttezza dei Bizantini Liutprando di Cremona Relazione della ambasciata a Costantinopoli (X sec.) Il 4 giugno (968) arrivammo a Costantinopoli e, dopo essere stati ricevuti in modo disonorevole per far ingiuria a Voi, fummo trattati in modo vergognoso (…) Il vino dei Greci, miscelato con pece, resina e gesso, era per noi imbevibile (…) Il 7 giugno, nel giorno santo di Pentecoste, fui davanti a Niceforo, un essere mostruoso, un pigmeo dalla testa enorme, che pare una talpa per la piccolezza degli occhi, è imbruttito da una barba corta, larga, spessa e brizzolata, ha il collo lungo un dito, ed è un vero Iopa per la lunghezza e la densità dei capelli, un etiope per il colore, “con cui non vorresti imbatterti nel cuor della notte”, di ventre obeso, secco di natiche, dalle cosce troppo lunghe per la sua piccola statura, dalle gambe corte, i piedi piatti, e un vestito da contadino troppo invecchiato, fetido e scolorito a forza di indossarlo, calzato di scarpettine di Sicione, dalla lingua procace, il carattere di una volpe, un vero Ulisse per spergiuri e menzogne (…). Una moltitudine copiosa di mercanti e gente ignobile, riunitasi in quella solennità per accogliere e lodare Niceforo, si assiepava dal palazzo fino a S.Sofia lungo la strada, formando quasi un muro; era mal fornita di piccoli scudi troppo leggeri e lance da poco. E si aggiunga a questo brutto spettacolo che la maggior parte del volgo, nell’acclamarlo, avanzava a piedi nudi (...) Ma anche i suoi dignitari, che sfilarono con lui in mezzo a tutta quella plebe scalza, erano vestiti di tuniche larghe e tutte bucherellate per troppa vecchiezza (…) Durante quella cena turpe e disgustosa, proprio da ubriachi, unta d’olio e condita con un certo pessimo liquido di pesci, mi fece varie domande sulla Vostra potenza, sui regni e i soldati. E mentre gli rispondevo su ogni con sincerità, disse: “Menti: i soldati del tuo signore non sanno cavalcare e non san nulla di combattimenti a piedi; la grandezza dei loro scudi, il peso delle loro corazze, la lunghezza delle loro spade, il peso dei loro elmi non li lascia combattere (…) Nemmeno in mare il tuo padrone ha flotte in abbondanza. Solo io posseggo il nerbo delle forze di mare e lo assalirò con le mie navi, distruggerò le sue città sul mare e ridurrò in cenere quelle vicine ai fiumi”. 188
2. LA DEMONIZZAZIONE DEL NEMICO
Mathias Grünewald, Tentazioni di Sant’Antonio, 1515, particolare dell’altare di Isenheim, Colmar, Musée Unterlinden
a fronte Sarcofago dell’imperatore Ostiliano decorato con scene di battaglia tra romani e barbari, 251 d. C., Roma, Museo Nazionale Romano
L’appestato Tommaso Fasano Della febbre epidemica sofferta in Napoli l’anno 1764. Libri tre (1765) Chi poi voglia meglio intendere la forza del fiato putrido degl’infermi e particolarmente delle ulcere, piaghe sordide, parti mortificate e cancerose, rifletta che un sol uomo afflitto da ulcera maligna, colla sanie ivi generata e raccolta, produce intorno al suo corpo un’atmosfera putentissima, nauseosa e di tal efficacia che offende chiunque v’entri e la respiri; a tale che le persone non avvezze ad osservare tal sorta di malattie o di natura schifosette, cadano in deliqui. Quest’atmosfera corrompe l’aria vicina e successivamente tutto il resto dell’aria che riempie i piccioli stanzini, e quindi l’intera corsia dell’ospedale; onde contamina le vesti e in certo modo il pavimento e le pareti stesse.
L’olezzo del saraceno Felix Fabri Evagatorium in Terrae Sanctae, Arabiae et Egypti peregrinationem (XV sec.) I Saraceni emettono un certo orribile lezzo, per cui di danno a continue abluzioni di diverse sorti; e siccome noi non puzziamo, a essi non importa che ci bagniamo insieme a loro. Ma non sono altrettanto indulgenti con gli Ebrei, che puzzano ancora di più. Essi ci vedono volentieri nei loro bagni perché – come persino un lebbroso si rallegra quando un uomo sano si unisce a lui, perché costui non viene disprezzato e perché il lebbroso pensa che a contatto dell’uomo sano egli stesso potrebbe trarre vantaggio per la propria salute – così i puzzolenti saraceni sono lieti di trovarsi in compagnia di chi come noi non puzza. 189
VII. IL DIAVOLO NEL MONDO MODERNO
Il pastore della chiesa luterana (al centro) stringe un patto con un giullare o un pazzo e con il diavolo, da Thomas Murner, Von der Grossen Lutherischen Narren, 1522
avversario della società perché inguaribile e infetto. Nel mondo moderno, che ha sempre rappresentato con fattezze grottesche o malvagie il nemico religioso o nazionale, nasce la caricatura politica. Feroci sono state, nell’età della Riforma, le caricature attraverso le quali protestanti e cattolici rappresentavano il papa o Lutero. Durante la Rivoluzione Francese troviamo caricature di parte legittimista che rappresentano i sanculotti come cannibali assetati di sangue. Tra XIX e XX secolo abbiamo la caricatura anticlericale. Tra i patrioti italiani nell’Ottocento si metteva in feroce caricatura l’Austriaco oppressore (anche se un testo delizioso come quello di Giusti prima descrive la bruttezza degli occupanti, poi s’intenerisce su quei soldati lontani da casa, intenti a pregare un Dio comune). Ma in ogni guerra l’avversario è stato rappresentato come mostruoso. Tale Berillon durante la prima guerra mondiale aveva scritto La polychesie de la race allemande dove dimostrava che il tedesco medio produce più materia fecale del francese, e di odore più sgradevole. Ricca la messe di caricature antinaziste e antifasciste, ma parimenti feroce è stata, specie durante la guerra fredda, la caricatura 190
2. LA DEMONIZZAZIONE DEL NEMICO
Gli eserciti alleati contro il Kaiser, da “Le petit journal”, 29 settembre 1914 James Gillray, Una famiglia di sanculotti si ristora dopo le fatiche della giornata, pubblicato da Hannah Humphrey nel 1792
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VII. IL DIAVOLO NEL MONDO MODERNO
Gli Austriaci Giuseppe Giusti Sant’Ambrogio (1846) Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco Per que’ pochi scherzucci di dozzina , e mi gabella per anti-tedesco perché metto le birbe alla berlina, o senta il caso avvenuto di fresco a me, che girellando una mattina, càpito in Sant’ Ambrogio di Milano, in quello vecchio, là, fuori di mano (…) Entro, e ti trovo un pieno di soldati, di que’ soldati settentrionali, come sarebbe Boemi e Croati, messi qui nella vigna a far da pali: di fatto se ne stavano impalati, come sogliano in faccia a’ generali, co’ baffi di copecchio e con que’ musi, davanti a Dio diritti come fusi. Mi tenni indietro; ché piovuto in mezzo Di quella marmaglia, io non lo nego D’aver provato un senso di ribrezzo Che lei non prova in grazia dell’impiego. Sentiva un afa, un abito di lezzo: scusi, Eccellenza, mi parean di sego, in quella bella casa del Signore, fin le candele dell’altar maggiore. Ma in quella che s’appresta il sacerdote a consacrar la mistica vivanda di sùbita dolcezza mi percuote su, di verso l’altare, un suon di banda. Dalle trombe di guerra uscian le note Come di voce che si raccomanda D’una gente che gema in duri stenti e de’ perduti beni si rammenti Era un coro del Verdi; il coro a Dio Là de’ Lombardi miseri, assetati; quello: O Signore, dal tetto natio, che tanti petti ha scossi e inebriati. Ricominciai a non esser più io E, come se que’ cosi doventati Fossero gente della nostra gente, entrai nel branco involontariamente. Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello, 192
poi nostro, e poi suonato come va; e coll’arte di mezzo, e col cervello dato all’arte, l’ubbìe si buttan là. Ma cessato che fu, dentro bel bello Io ritornava a star come la sa; quand’eccoti, per farmi un altro tiro da quelle bocche che parean di ghiro, un cantico tedesco lento lento per l’aer sacro a Dio mosse le penne: era preghiera, e mi parean lamento, d’un suono grave, flabile, solenne, tal che sempre nell’anima lo sento; e mi stupisco che in quelle cotenne, in quei fantocci esotici di legno, potesse l’armonia fino a quel segno. Sentia nell’inno la dolcezza amara De’canti uditi da fanciullo; il core Che da voce domestica gl’impara, ce li ripete il giorni del dolore; un pensier mesto della madre cara, un desiderio di pace e d’amore, uno sgomento di lontano esilio, che mi faceva andare in visibilio. E quando tacque, mi lasciò pensoso Di pensieri più forti e più soavi. Costor, dicea tra me, re pauroso, schiavi gli spinge per tenerci schiavi; gli spinge di Croazia e di Boemme, come mandre a svernar nelle maremme. A dura vita, a dura disciplina, muti, derisi, solitari stanno, strumenti ciechi d’occhiuta rapina che lor non tocca e che forse non sanno; e quest’odio, che mai non avvicina il popolo lombardo all’allemanno, giova a chi regna dividendo, e teme popoli avversi affratellati insieme. Povera gente! Lontana da’ suoi, in un paese qui che le vuol male, chi sa che in fondo all’anima po’ poi non mandi a quel paese il principale! Gioco che l’ hanno in tasca come noi. Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale, colla su’ brava mazza di nocciòlo, duro e piantato li come un piolo.
2. LA DEMONIZZAZIONE DEL NEMICO
Vignetta anticlericale, “L’Asino”, 15 gennaio 1899
Manifesto elettorale anticomunista, 1948
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VII. IL DIAVOLO NEL MONDO MODERNO
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2. LA DEMONIZZAZIONE DEL NEMICO
John Heartfield, Have no fear, he’s a vegetarian, fotomontaggio nella rivista “Regards” del 7 maggio 1936. Germania, Snark Archives
Il capitalista italiano assume il volto di Mussolini, collezione Giovanni Galantara, febbraio 1923
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VII. IL DIAVOLO NEL MONDO MODERNO
glutei molto grossi, che conferiscono loro la forma di una sella. I vizi più noti sembrano essere il destino di questa razza infelice: si dice che ozio, tradimento, vendetta, crudeltà, impudenza, furto, menzogna, turpiloquio, dissolutezza, meschinità e intemperanza abbiano estinto i principi della legge naturale e abbiano messo a tacere i rimproveri della coscienza. Sono estranei a qualunque sentimento di compassione e costituiscono un terribile esempio della corruzione dell’uomo quando lasciato a se stesso.
Gino Boccasile, cartolina di propaganda antiamericana della Repubblica Sociale Italiana, 1943-1944
Il dottor Fu Manchu Sax Rohmer La schiava di Fu Manchu (1933) Indossava una semplice veste gialla, ai piedi aveva delle pantofole con la suola spessa. Sul capo portava un piccolo copricapo nero, sormontato da un grosso grano di corallo. Stava lì a guardarmi, con le mani nascoste dentro le larghe maniche dell’abito. La faccia dell’uomo era la più straordinaria che avessi mai visto in vita mia. Era antica, ma senza età. Pensai che se Benvenuto Cellini avesse voluto fare una maschera mortuaria di Satana, in oro, il risultato non sarebbe stato troppo lontano dall’aspetto defunto e insieme vitale di questo viso, che mi stava ipnotizzando (...) Questo era il dottor Fu Manchu! Il Negro Encyclopaedia Britannica Voce “Negro” (1798) Homo pelli nigra, nome dato a una varietà della specie umana, interamente nera, che si trova nella zona torrida, specialmente in quella parte dell’Africa che si stende tra i tropici. Nella carnagione dei negri incontriamo diverse sfumature; ma tutti allo stesso modo si differenziano dagli altri uomini in tutte le fattezze dei loro volti. Guance tonde, zigomi alti, una fronte leggermente elevata, naso corto, largo e schiacciato, labbra spesse, orecchie piccole, bruttezza e irregolarità di forma caratterizzano il loro aspetto esteriore. Le donne negre hanno lombi molto cadenti, e
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Anatomia della razza Cesare Lombroso L’uomo bianco e l’uomo di colore. Letture su l’origine e la varietà delle razze umane, I e II (1871) Il cranio dell’Europeo si distingue per una stupenda armonia delle forme: esso non è troppo lungo, né troppo rotondo, né troppo appuntato o piramidale. Nella sua fronte (Fig. 2), piana, vasta, eretta su’l viso, si legge a chiare note la forza e il predominio del pensiero: gli zigomi, o pomelli del viso non sono troppo distanti, e la mascella non isporge molto all’infuori: onde è ch’esso s’intitola ortognato. Invece il cranio del Mongolo è rotondo, o pure piramidale, coi pomelli del viso molto distanti tra di loro, onde è detto eurignato; a questi caratteri s’associano la scarsezza della barba e dei capelli, l’obliquità degli occhi e la pelle più o men gialla, od olivigna (…) Ma l’Ottentotto forma una varietà ancor più singolare della razza umana. L’Ottentotto è, si può dire, l’Ornitorinco dell’umanità, perché riunisce insieme le forme più disparate delle razze negre e gialle ad alcune tutte sue proprie, le quali egli ha comuni con pochi animali, che brulicano vicino a lui. Al muso sporgente del Negro mescola il muso allargato del Cinese. I suoi denti incisivi sono foggiati a modo di incudine. L’ulna, che è un osso dell’antibraccio, conserva, come in alcuni animali, quel foro, detto foro olecranico, che presenta il nostro feto. Le ossa delle dita del piede sono disposte a gradi, come le cannucce di una zampogna. Le apofisi spinose delle vertebre cervicali mancano della solita biforcazione. I capelli sono inseriti tutt’intorno alla testa, ed escono a fascetti, a gruppi, fuori dei tegumenti come i pennelli di una scopetta da panni, cosicché un barbiere che radesse per bene un Boschimano, si troverebbe dinanzi una testa marezzata quà e là come una tavola di mogano, sparsa di grani di pepe.
2. LA DEMONIZZAZIONE DEL NEMICO
Alex Raymond Ming, da, Flash Gordon (© King Features Syndicate, Inc.)
anticomunista. A sostenere la missione civilizzatrice dell’uomo bianco, impietosa è sempre stata la raffigurazione dell’africano, non solo nella narrativa e nella pittura, ma anche in testi di carattere scientifico come quelli di Lombroso. Ma l’ideologia del “fardello dell’uomo bianco” ha spinto molta narrativa a creare caratteri viscidi appartenenti a qualunque etnia non europea, dall’arabo infido ai thugs indiani strangolatori, per non dire degli infiniti cinesi dal volto sinistro e maestri di ogni crudeltà. E ciò è accaduto anche nei fumetti; si veda Il Ming di Alex Raymond, nella saga di Flash Gordon, la cui perfidia risulta evidente dai suoi lineamenti asiatici. Si pensi poi ai nemici di James Bond nei romanzi di Ian Fleming che, molto più che nei film, sono quasi sempre o di sangue misto o agenti comunisti, e sono veri e propri mostri che 197
VII. IL DIAVOLO NEL MONDO MODERNO
Goldfinger Ian Fleming 007, Missione Goldfinger (1959) La prima cosa che aveva colpito Bond era stata la mancanza di proporzioni di tutta la figura. Era basso, forse poco più di un metro e mezzo, e in cima al corpo tozzo e pesante piantato su due gambe robuste da contadino, la sua grossa testa perfettamente rotonda stava incassata fra le spalle. Dava l’impressione di essere stato messo insieme con pezzi tolti ad altre persone. Lesbica e sovietica Ian Fleming 007, Dalla Russia con amore (1957) Tatiana aprì la porta e, mentre rimaneva in piedi e fissava lo sguardo in quello della donna che sedeva dietro un tavolo rotondo sotto la luce di una lampada centrale, si ricordò improvvisamente dove aveva sentito quell’odore. Era l’odore della metropolitana di Mosca in una sera calda, profumo dozzinale che dissimulava gli effluvi animaleschi. In Russia, la gente si inzuppa letteralmente di profumo, sia che abbia fatto, sia che non abbia fatto il bagno, ma soprattutto quando non l’ha fatto (….) La porta della stanza da letto si aprì e “quella Klebb” apparve sulla soglia. “Che cosa ne pensate di questo, mia cara?” Il colonnello Klebb spalancò le tozze braccia e si rigirò sulle punte dei piedi come un’indossatrice. Poi si mise in posa, con un braccio teso e l’altro appoggiato alla vita (…) Il colonnello Klebb indossava una camicia da notte trasparente di crêpe de Chine arancione, con la scollatura bassa e quadrata e delle lunghe maniche fluttuanti. Sotto la camicia si poteva intravedere un reggiseno formato da due rose di seta artificiale e un paio di mutande vecchio stile pure di seta artificiale, con gli elastici sopra le ginocchia. Da 198
un’apertura della camicia sporgeva un ginocchio rugoso, simile a una noce di cocco giallastra, spinto in avanti in una posa classica da manichino (…) Rosa Klebb si era tolta gli occhiali e si era impiastricciata il viso con uno spesso strato di belletto e di rossetto. Aveva l’aspetto della più brutta e più vecchia prostituta del mondo. (…) Alzò un braccio e accese una lampada rossa sostenuta da una statuetta di vetro che rappresentava una donna nuda. Poi batté leggermente sul divano, accanto a sé. «Spegni la luce centrale, mia cara. L’interruttore è vicino alla porta. Poi vieni a sederti accanto a me. Dobbiamo conoscerci meglio.» Il Dr. No Ian Fleming 007, Licenza di uccidere (1958) Era alto almeno quindici centimetri più di Bond, ma il suo portamento sempre eretto lo faceva apparire ancor più alto. Anche il viso era lungo, e si staccava da un cranio rotondo e completamente calvo, fino al mento sottile, dando così l’impressione di una goccia di pioggia capovolta, anzi di olio, perché la pelle era d’un colore giallo intenso, quasi traslucido. Impossibile dire l’età del dottor No: il viso era privo di rughe, anche le guance profondamente incavate sotto gli zigomi alti e pronunciati erano lisce come l’avorio. Le sopracciglia, che ricordavano Dalí, erano sottili, nere, fortemente arcuate, come dipinte per la truccatura di un prestigiatore. Sotto, gli occhi nerissimi e lucenti, completamente privi di ciglia, sembravano le bocche di due piccole rivoltelle, dritti e fissi e completamente privi di espressione. Il naso sottile si inarcava sopra una bocca larga dal taglio sottile, che, nonostante il perpetuo sorriso, denotava solo crudeltà e autorità. Il mento, sfuggente, come doveva poi notare Bond, si spostava solo
leggermente di lato, così da dare l’impressione che le vertebre del collo fossero rigide. Quella strana figura gigantesca sembrava un’enorme larva velenosa avvolta in una corazza metallica. Bond non si sarebbe meravigliato di vedere la parte rimanente strisciare viscosa sul pavimento. Il dottor No giunse a tre metri da loro e si fermò. «Scusate se non vi stringo la mano, » disse con voce inespressiva, «ma non mi è possibile.» Sollevò lentamente le maniche. «Non ho mani.» Mr. Big Ian Fleming Vivi e lascia morire (1954) La sua testa rassomigliava ad un grosso pallone da football, era due volte la grandezza normale e quasi assolutamente sferica. Il colore della pelle appariva di un nero grigiastro, la faccia era gonfia e lucida come quella di un corpo che fosse stato nel fiume per una settimana. Era senza capelli, ad eccezione di un ciuffo grigiastro al di sopra delle orecchie. Era privo anche di ciglia e di sopracciglia e gli occhi erano straordinariamente distanti l’uno dall’altro, di modo che non si poteva guardarli tutti e due contemporaneamente, ma solo uno alla volta. Lo sguardo era fermo e penetrante. Quando i suoi occhi si soffermavano su qualcosa, sembrava divorassero l’oggetto della loro attenzione. Erano leggermente sporgenti e l’iride era di color oro attorno a due fosche pupille nere che ora aveva dilatate. Erano gli occhi di un animale, non avevano un’espressione umana, e sembrava lanciassero fiamme. Il naso era largo, ma non decisamente negroide. Le narici non erano dilatate. Aveva le labbra leggermente sporgenti, ma grosse e scure. Le apriva solo quando parlava e allora le allargava totalmente mettendo in mostra i denti e le gengive anemiche.
2. LA DEMONIZZAZIONE DEL NEMICO
Chester Gould, Personaggi di Dick Tracy, 1941-1946
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La “cosa” Howard Phillips Lovecraft L’orrore di Dunwich (1927) I locali erano saturi di quell’atroce odore che il dottor Armitage conosceva fin troppo bene, e i tre uomini corsero nella piccola sala di lettura da dove sembrava venire il mugolio del cane. Per un secondo nessuno osò accendere la luce, poi Armitage, raccogliendo tutto il suo coraggio, girò l’interruttore. (…) La cosa distesa sul pavimento, lunga circa due metri e settanta, era girata su un fianco e immersa in una fetida pozza di colore giallastro e vischioso. Il cane gli aveva strappato tutti gli abiti di dosso e qualche lembo di pelle. Non era ancora cadavere, ma si torceva silenziosamente e spasmodicamente, mentre il suo petto palpitava in mostruoso unisono con il canto degli uccelli in attesa (…) Sarebbe banale, e non del tutto esatto, dire che nessuna penna umana avrebbe potuto descriverla, ma si può giustamente affermare che non poteva essere percepita con chiarezza da nessuno di noi: da 200
nessuno cioè che avesse, sulle forme della realtà, idee troppo strettamente legate ai comuni aspetti della vita su questa terra. L’essere era parzialmente umano, senza dubbio, con testa e mani umane, e nella faccia caprina e senza mento ancora si riconosceva l’impronta degli Whateley. Ma il torso e il resto del corpo erano d’una mostruosità senza nome, e solo in grazia degli abiti, che li avevano sempre accuratamente nascosti, avevano potuto impunemente camminare sulla terra. Dalla vita in su era semiantropomorfo, sebbene il petto, dove il cane posava ancora le zampe, avesse la pelle dura e reticolata di un coccodrillo o di un alligatore. Il dorso era chiazzato di giallo e di nero, e ricordava la pelle squamosa dei serpenti. Ma dalla vita in giù ogni parvenza umana cessava, e cominciava il puro incubo. La pelle era fittamente coperta di una folta pelliccia nera, e dall’addome si protendevano una ventina di lunghi tentacoli grigiastri terminanti con delle rosse bocche a ventosa. La disposizione di questi tentacoli era a
dir poco bizzarra, e pareva seguire le simmetrie di qualche geometria cosmica sconosciuta alla terra o al sistema solare. Su ciascun fianco, affondato in una specie di orbita rosea e cigliata, c’era qualcosa che pareva un occhio rudimentale; e alla radice della schiena, in luogo d’una coda, c’era una specie di proboscide o antenna con violacei segni anulari, e con tutta l’apparenza d’essere una gola e una bocca male sviluppate. Le gambe, salvo per la pelliccia nera che le copriva, somigliavano a quelle dei preistorici sauri giganti; sotto il ginocchio, dove la pelliccia cessava, recavano un intrico di vene molto rilevate, e terminavano in due appendici che non erano né zoccoli né artigli. Di vero sangue non ce n’era; solo il fetido siero giallastro che, scorrendo sul pavimento, ne faceva sbiadire il colore. (…) Quando il perito medico arrivò, trovò soltanto una massa vischiosa e biancastra, e l’odore mostruoso era quasi scomparso. La cosa, evidentemente, non aveva mai avuto un teschio né uno scheletro..
2. LA DEMONIZZAZIONE DEL NEMICO
Frank Frazetta, La bella e la bestia, 1995, collezione privata
a fronte Karel Thole, Copertina di Strisciava sulla sabbia di Hal Clement, edizioni Urania, 1962
sembrano costruiti nel laboratorio di un mad scientist. Il nostro viaggio nella bruttezza del Nemico non può che concludersi con la prima vera apparizione di quello che sarà il Nemico Galattico, The Thing, la Cosa, l’Inconcepibile. Questo essere amorfo o viscidamente polimorfo in Lovecraft è ancora di questo mondo e rappresenta i nostri terrori inconsci, ma nella fantascienza (romanzi e film) si presenterà come l’invasore “alieno”, il Bug-eyed-monster, il mostro dagli occhi d’insetto che viene dallo spazio, barbaro nel senso più ancestrale del termine, minaccioso e inassimilabile perché totalmente disumano. Esso è la personificazione di ogni Nemico e riconferma la tendenza 201
Capitolo
VIII
Stregoneria, satanismo, sadismo
1. La strega
Francisco Goya, Il Sabbah delle streghe, 1797-98, Madrid, Museo Lazaro Galdiano
Esseri diabolici capaci di stregonerie, filtri magici e altri incantesimi esistevano sin dalla più remota antichità; sono nominati nel Codice di Hammurabi, agli inizi del secondo millennio a.C., nella cultura egizia, ai tempi di Assurbanipal nel settimo secolo a.C., nella Bibbia dove si parla della lapidazione di negromanti e indovini. La cultura greca conosceva maghe come Medea e Circe, nelle leggi romane delle Dodici Tavole si condannava la magia nera, e nella letteratura latina troviamo testimonianze come quelle di Orazio e Apuleio. Sin dagli inizi, benché si riconoscesse cha la magia nera era praticata sia da uomini (gli stregoni) che da donne (le streghe), per una sorta di radicata misoginia si identificava di preferenza l’essere malefico con una femmina. A maggior ragione nel mondo cristiano, il connubio col Diavolo non poteva essere perpetrato che da una donna. Infatti nel Medioevo già si parla del Sabba come di riunione diabolica in cui le streghe si danno non solo a incantesimi ma anche a vere e proprie orge, intrattenendo rapporto sessuale col Diavolo sotto forma di un caprone, simbolo della concupiscenza. Infine l’immagine della strega che cavalca un manico di scopa (anche se poi si trasforma nella figura benefica della Befana) rappresenta una chiara allusione fallica. La leggenda non nasceva dal nulla. Le cosiddette streghe erano anziane fattucchiere che pretendevano di conoscere erbe medicamentose e altri filtri. Alcune erano povere mestatrici che vivevano sulla credulità popolare, altre erano davvero convinte di avere rapporti col demonio, ed erano casi clinici. Ma nel complesso le streghe rappresentavano una forma di sottocultura popolare. 203
VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
maggiore, urlando: il pallore le faceva orrende d’aspetto ambedue. Presero a grattare la terra con le unghie e a sbranare a morsi un’agnella nera; il sangue era versato nella fossa, per evocarne i Mani, anime che avrebbero dato responsi. Con sé avevano un pupazzo di lana ed un altro di cera; quella di lana era più grande, perché, a forza di castighi, avesse ragione del pupazzo più piccolo; il pupazzo di cera stava in atto di supplice, come chi è destinato a perire alla maniera degli schiavi. Ecate invoca una delle due streghe, Tisifone crudele l’altra: avresti visto vagare serpenti e cagne infernali, e al luna, fatta rossa, nascondersi dietro le grandi sepolture, per non essere testimone di simili orrori.
Tre streghe con testa d’asino, gallo e cane, partono per il Sabba, xilografia da U. Molitor, Von den Unholden oder Hexen, Konstanz, 1489
La stregoneria nella Bibbia Levitico XX, 22 L’uomo e la donna che hanno spirito pitonico o di divinazione siano messi a morte e siano lapidati, e il loro sangue sia sopra di essi. Le parche Dante Alighieri Inferno XX, vv-121-123 Vedi le triste che lasciaron l’ago, la spuola e ‘l fuso, e fecesi ‘ndivine; fecer malie con erbe e con imago. Streghe di Orazio Orazio (65-8 a.C.) Satire, 8 Io con i miei occhi ho visto Canidia, il nero mantello cinto su in vita, slanciarsi, piedi nudi e capelli sparsi, insieme a Sagana, la
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Trasformato in asino Apuleio (125-180 ca.) L’asino d’oro, I, 13, III, 24 Gli immerge la spada fino all’elsa nel lato sinistro del collo. Poi avvicina alla ferita un piccolo otre e vi raccoglie tutto il sangue che sgorgava a fiotti, con tanta cura che non si vedeva in giro neanche una goccia. Io ho visto tutto questo con i miei occhi! E poi, credo per non trascurare niente del rito sacrificale, la brava Meroe gli caccia la mano nella ferita fin giù nelle budella, le fruga ben bene, e tira fuori il cuore del mio povero compagno, mentre dalla gola squarciata da quel colpo tremendo gli veniva fuori una voce, anzi un indistinto stridore, per il gorgogliare del fiato. Pantia intanto tamponava con la spugna la ferita dove era più larga, e diceva; ‘O spugna nata nel mare, acqua di fiume non devi passare’. Ciò fatto stavano per uscire, ma prima, tirato via il mio lettino, si misero tutte e due a gambe larghe sulla mia faccia, e si svuotarono la vescica, inondandomi di un piscio fetentissimo. I miei peli, invece, diventavano grossi come setole, e la pelle mi diventava dura come il cuoio, e in cima alle mani le dita non erano più separate ma si univano in un unico zoccolo, e dall’estremità della spina dorsale mi viene fuori una gran coda. La mia faccia è enorme, la bocca tutta larga, le narici dilatate, le labbra mi pendono giù: e mi crescono smisurate orripilanti orecchie pelose. E non ho nessun conforto in questa mia disgraziata trasformazione se non uno: adesso che non potevo nemmeno più abbracciare la mia Fotide, la verga mi era diventata enorme!
1. LA STREGA
Scuola francese, Preparativi per il Sabbah delle streghe, prima metà del XIX sec., Musée de Meudon
Esistono, nel Medioevo, documenti di condanna delle streghe, come una bolla di Alessandro IV del 1258; di stregoni e negromanti parlavano anche i teologi, per esempio San Bonaventura quando avverte che “in ragione della loro sottilità o spiritualità, i demoni… in virtù della loro sottilità e della loro potenza, possono introdursi nel corpo dell’uomo e tormentarlo, a meno di essere impediti da un potere superiore” (Commento alle Sentenze, III, 8). E tuttavia le streghe non costituivano un’ossessione per il mondo ecclesiastico. Contrariamente all’opinione corrente, non è stato il Medioevo l’epoca in cui i processi alle streghe si sono diffusi. È stata piuttosto l’epoca moderna, e lo prova il fatto che la più ricca iconografia sulle streghe parte dal XV secolo. Nel XIII secolo nasceva l’Inquisizione, ma essa si occupava per lo più degli eretici. Nel 1484 appare invece una bolla di Innocenzo VIII contro la stregoneria, Summis desiderantibus affectibus, e il papa incarica due inquisitori, Heinrich Kramer e Jakob Sprenger, di procedere con severità contro le fattucchiere. Sono costoro che qualche anno dopo pubblicano il Malleus Maleficarum (Il martello delle streghe), il massimo trattato contro la stregoneria, in cui si insegnava come riconoscere queste sciagurate, come interrogarle, come 205
VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
Histoire de Merlin, manoscritto del XV sec., folio 62v
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La strega crede di essere strega Canon Episcopi (IX sec) Certe donne depravate, rivoltesi a Satana e sviate dalle sue illusioni e seduzioni, credono e affermano di cavalcare nottetempo certe bestie, in compagnia di una moltitudine di donne, al seguito di Diana (…) I sacerdoti devono costantemente predicare al popolo di Dio che queste cose sono del tutto false e che tali fantasie non sono evocate nelle menti dei fedeli dallo spirito divino bensì da quello malvagio. Satana, infatti, si trasforma in angelo della luce e prende possesso della mente di queste donnette e le domina a causa della loro scarsa fede e incredulità. Egli assume aspetto e sembianze di persone diverse (…) e nonostante la donna infedele sperimenti questo soltanto in ispirito, essa crede che questo accada nel corpo e non nella mente.
La strega è davvero strega Innocenzo VIII Summis desiderantes affectibus (1484) È da poco giunto alle nostre orecchie – con nostra grande sofferenza – che in alcune regioni della Germania (…) persone d’ambo i sessi, dimentiche della propria salute e allontanatesi dalla fede cattolica, non esitano a darsi carnalmente ai diavoli incubi e succubi, a far morire o deperire la progenie di donne, animali, dei frutti della terra (…) per mezzo di incantesimi, fatture, scongiuri ed altre odiosissime pratiche di maga (…) Volendo impedire, come ci impone il nostro incarico, con opportuni rimedi che il flagello dell’eretica pravità diffonda i suoi veleni a danno degli innocenti. sia permesso agli inquisitori summenzionati Sprenger e Kramer di esercitare l’ufficio inquisitoriale su quelle terre, in modo che possano procedere in tutto e per tutto alla correzione, imprigionamento e punizione di quelle persone per gli eccessi e i crimini suddetti.
1. LA STREGA
Histoire de Merlin, manoscritto del XV sec., folio 63v
Così i processi e la condanna al rogo o all’impiccagione delle streghe esplodono tra XVI e XVIII secolo, non solo nel mondo cattolico ma anche e specie in quello protestante (visto che Lutero le definiva “puttane del diavolo” e le accusava di rubare latte, suscitare tempeste, cavalcare i caproni e tormentare i bambini nella culla) e non solo in Europa, ma anche e con particolare virulenza nel New England, e rimangono tristemente celebri i processi di Salem del 1692, dove vengono impiccate diciannove donne. La strega ha abitato generosamente la letteratura; basti ricordare le streghe di Shakespeare e quelle della Notte di Valpurga nel Faust di Goethe. Ma la letteratura più ricca riguarda la polemica sulla stregoneria. Mentre Cardano già nel 1557 sosteneva che le streghe erano solo donnette superstiziose (anticipando l’interpretazione della psichiatria moderna), alla stregoneria credono fortemente (per citarne solo alcuni) Ian Wier (De praestigiis daemonum, 1564), Jean Bodin (La démonomanie des sorciers, 1580), Martino del Rio (Disquisitionum magicarum libri sex, 1599), Francesco Maria Guazzo (Compendium maleficarum, 1608), Joseph Glanvil (Saducismus triumphatus, 1681) , e nello stesso secolo, in vari sermoni, Cotton Mather, che aveva avuto un ruolo (peraltro controverso) nei processi di Salem - mentre tentativi di demitizzazione sono compiuti solo nel XVIII secolo da autori come Tartarotti (Del congresso notturno delle lamie). 207
Louis Maurice Boutet de Monvel, La lezione prima del Sabbah, 1880 ca., Nemours, Castello
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Il martello delle streghe Sprenger e Kramer Il martello delle streghe (1486) Innanzitutto parleremo di come agiscano con gli uomini, poi con gli animali e infine con i frutti della terra. Per quanto riguarda gli uomini, interessa innanzitutto in che modo esse impediscano con le stregonerie la potenza generativa o l’atto sessuale, affinché la donna non possa concepire e l’uomo non sia in grado di compiere l’atto. In secondo luogo come, talvolta, tale atto sia impedito con una donna e non con un’altra. Terzo, come vengano portati via i membri virili, come se fossero completamente divelti dal corpo. Quarto, come si può discernere se qualcosa proviene dalla sola potenza del diavolo, che agisce da solo senza la strega. Quinto, come le streghe tramutino in belve persone dell’uno e dell’altro sesso con l’arte dei prodigi. Sesto, come le streghe levatrici uccidano in diversi modi il feto nel grembo della madre, oppure, quando non fanno questo, offrano i bambini ai diavoli. (…) In conclusione, tutte queste cose
provengono dalla concupiscenza carnale che in loro è insaziabile (…) Non c’è da stupirsi se tra coloro che sono infetti dall’eresia delle streghe ci sono più donne che uomini (…) E sia benedetto l’Altissimo che finora ha preservato il sesso maschile da un così grande flagello! (…) Sono donnette Gerolamo Cardano Della varietà delle cose, XV (1557) Sono donnette di misera condizione, che vivacchiano nelle valli cibandosi di castagne e di erbe. Se non prendessero un po’ di latte, non vivrebbero affatto. Perciò sono macilente, deformi, di colore terreo, con gli occhi fuori del capo, e dallo sguardo mostrano di avere un temperamento melanconico e biglioso. Sono taciturne, svagate e si differenziano poco da quelli che sono posseduti dal demonio. Sono così ferme nelle loro opinioni, che a badare soltanto ai discorsi che fanno si crederebbero vere le cose che raccontano con tale convinzione, cose che mai sono accadute né mai accadranno.
Theodore Chassériau, Macbeth e le tre streghe, partic., 1855, Parigi, Musée d’Orsay
nelle pagine seguenti Jacob Cornelisz van Oostsanen, Saul e la strega di Endor, 1526, Amsterdam, Rijksmuseum
Le streghe di Macbeth William Shakespeare Macbeth, I,3 e IV,1 (1623) Prima strega - Mugolò tre volte il gatto. Seconda Strega - Tre più una il porcospino. Terza Strega - Arpia grida: “È il tempo esatto”. Prima Strega - Tutte attorno alla caldaia Ne attoschiamo la ventraia. Questo rospo che dormì Trentun notti e trentun dì A far fiel sotto una proda Bolla primo in questa broda. Tutte - Dài e ridài, rimesta e attizza, Bolle il brodo e il fuoco guizza. Seconda Strega - Questa biscia di pantano Bolla e cuocia a mano a mano; D’un ramarro aggiungo un occhio E la zampa di un ranocchio, Con il pel d’un pipistrello E d’un verme col pungello, D’una serpe il doppio stocco Ed un’ala di un allocco, Di lucerta un piè rimane Ed infin lingua di cane: Perché il filtro sia potente
Bolla e bolla ogni ingrediente. Tutte - Dài e ridài, rimesta e attizza, Bolle il brodo e il fuoco guizza. Terza Strega - D’un dragone l’aspra scaglia, D’uno squalo la ventraglia, D’una lupa zanna acuta Con radici di cicuta Colte al buio, mummia di strega, Fiel d’ebreo che Dio rinnega, E ancor fegato di becco, E d’un tasso un ramo secco Che, eclissandosi la luna, Colto fu nell’aria bruna; Naso d’uomo di Turchia, Labbra d’un di Tartaria, Di un fanciullo il tronco dito In un fosso partorito E strozzato ancora in fascia Da una squallida bagascia: Tutto questo addensa e aggruma La miscea che bolle e spuma, Ma di un tigre la ventraia Scenda ancor nella caldaia. Tutte - Dài e ridà!, rimesta e attizza, Bolle il brodo e il fuoco guizza. 209
VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
Cessate le persecuzioni, l’immagine della strega non è tramontata; essa ha continuato a sopravvivere nella letteratura fiabesca e torna in scrittori dell’orrore come Lovecraft. Quello che interessa la nostra storia è che nella maggior parte dei casi le vittime di tanti roghi sono state accusate di stregoneria perché erano brutte. E a proposito della loro bruttezza si è persino immaginato che nei sabba infernali fossero in grado di trasformarsi in creature dalle forme allettanti, ma sempre segnate da tratti ambigui che ne rivelavano la bruttezza interiore. Salvator Rosa, La strega, 1640-1649, Milano, collezione privata
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La notte di Valpurga Wolfgang Goethe Il primo Faust, Notte di Valpurga (1887) Faust, Mefistofele e il Fuoco Fatuo (Alternandosi nel canto) Siamo e ntrati, a quanto pare, dove regnan sogni e incanti. Bravo, sappici guidare, che in brev’ora andiamo avanti nelle nude, immense lande! Vedi piante sopra piante Inseguirsi in lor cammini, e le creste far l’inchino e russar, soffiare cupi Lunghi nasi di dirupi! (…) Uhu! Uhu! Canta il chiù E s’appressa ognor di più. Le ghiandaie e pavoncelle tutte sveglie ancor son elle? Salamandre tra le macchie! Lunghe gambe, grosse pance! Le radici, al par di bisce da sabbiose rupi uscendo, gittan lunghe e strane strisce per pigliarci, far spavento; dalle nocchie vive e forti del viandante al piede attorti gittan polipi. Ed i topi variopinti, a folte schiere van pei muschi e le brughiere! E le lucciole, col volo del lor fitto errante stuolo fan da guide menzognere (...) Tutto pare andar ruotando, piante e rocce sbeffeggianti ed i fatui fuochi erranti che si gonfian brulicando! (…) Mefistofele La notte è fosca di vapori. Nelle foreste, che fragori!
Volan le nottole spaventate, le colonne stridon schiantate di palazzi che in color verde van brillando eternamente. Dei rami il rompersi e il gemere! Delle radici lo spasimo e il fremere! Dei tronchi il rombo potente! Nella caduta orrenda e confusa si schiantan tutti alla rinfusa, e sui detriti nei burroni fischiano ed urlano gli aquiloni (…) Su tutto il monte, lungo la via, impazza un canto di ebbra magìa! Coro delle streghe Su verso il Brocken traggon le streghe, gialla è la stoppia, verde è il grano, lassù si tengon le gran congreghe, sopra tutti sta sire Uriano. Così si va per greppi e per stecchi, scorreggian streghe, puzzano becchi (…) La strada è larga, lunga è la strada, che cos’è mai questospingere pazzo? Forca puntuta, pungente granata, crepa la madre, si strozza il ragazzo. Gli stregoni in semicoro Noi lumaconi, nel guscio strisciando, le donne tutte ci vanno avanzando, ché se si va del Maligno alla stanza, di mille passi la donna ci avanza. L’altro semicoro Così alla lettera presa non va, con mille passi la donna la fa, ma pur, per quanto li faccia di volo, l’uomo li supera d’un balzo solo. (…) Coro delle streghe Coraggio alle streghe dà l’unguento, serve da vela uno straccio al vento, su ogni truogo si può navigar, o volar oggi, o mai più volar”.
VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
Il villaggio delle streghe Howard Phillips Lovecraft L’orrore di Dunwich (1927) Due secoli fa, quando non si rideva delle streghe, degli adoratori di Satana e di strane presenze nelle foreste, era comprensibile che quel luogo venisse evitato. Nella nostra epoca razionale la gente continua a evitarlo, ma, per la maggior parte, senza sapere perché (…) È che gli abitanti della località hanno raggiunto un tale stadio d’involuzione da essere quasi repellenti. Formano ormai una razza a sé, con ben definite stigmate di regressione fisica e mentale. La media della loro intelligenza è penosamente bassa, e le loro cronache pullulano di assassini, incesti, atti d’innominabile violenza e perversità. La vecchia nobiltà, rappresentata dalle due o tre famiglie arrivate da Salem nel 1692, è rimasta un poco al di sopra del generale livello di decadenza, sebbene, in queste stesse famiglie, molti rami siano caduti ormai così in basso che soltanto i loro nomi rimangono a testimoniare l’origine che hanno vilipeso. (…) Nessuno, nemmeno chi è a conoscenza dei recenti orrori, sa come stiano realmente le cose a Dunwich; benché vecchie leggende parlino di riti sacrileghi e di conclavi di indiani, nei quali furono evocate proibite forme d’ombra dalle grandi colline circolari, e furono recitate selvagge preghiere orgiastiche, cui risposero crepitii e rimbombi da sottoterra. Nel 1747 il reverendo Abijah Hoadley, arrivato da poco alla Chiesa Congregazionista del villaggio, fece un memorabile sermone sulla presenza di Satana e dei suoi demoni, nel quale diceva: «Dobbiamo ammettere che queste Empietà e queste infernali Processioni di Demoni sono Fatti troppo universalmente conosciuti per essere negati; e che le Voci maledette di Azazel e Buzrael, di Beelzebub e di Belial, sono state udite venire dal Sottosuolo da numerosi Testimoni degni di Fede tuttora viventi. lo stesso, non più di quindici giorni fa, colsi un Discorso di Forze Maligne nella Collina dietro la mia Casa, durante il quale ci fu un tale Gemere e Grattare, Tuonare, Urlare e Fischiare, che nessuna Cosa terrestre avrebbe potuto originare, e che doveva senza dubbio provenire da quelle Caverne che solo la Magia Nera può rivelare e solo il Diavolo aprire». 214
Sognare le streghe Patrick McGrath Spider (1990) Quando ero un ragazzo vivevamo in Kitchener Street, che è dall’altra parte del canale, più a est. (…) La porta d’ingresso aveva in alto una lunetta sporca a forma di sole calante; c’era anche un deposito per il carbone raggiungibile attraverso una porta che si apriva sul corridoio da basso e dava su una ripida rampa di scale. Tutte le stanze della casa erano piccole e in disordine, con soffitti bassi; le camere da letto erano state tappezzate molti anni prima e la carta era umida e si staccava, e appariva molto scolorita in alcuni punti; le grandi macchie che si allargavano con il loro odore di intonaco ammuffito (lo sento ancora adesso!) formavano strane figure sul disegno floreale e stimolavano nella mia immaginazione infantile molti terrori fantastici. (…) Più tardi, salivo in camera mia. Credo di dovervi parlare di quella stanza perché gran parte di tutto questo si basa su quello che ho visto e sentito e perfino annusato da lassù. Era sul retro della casa, in cima alle scale, e vedevo il cortile e, più oltre, il vicolo. Era una stanza piccola, e probabilmente la più umida della casa: c’era una grossa macchia sul muro di fronte al mio letto, dove la tappezzeria si era staccata e l’intonaco sottostante aveva letteralmente incominciato a “eruttare” – c’erano grumi verdastri di gesso umido che si gonfiavano dalla parete come bubboni o cancri e al tocco si mutavano in polvere. (…) Di notte io giacevo sveglio, e alla luce della luna che entrava nella stanza guardavo quei foruncoli e quei noduli che nella mia immaginazione infantile diventavano i gozzi e le verruche di qualche terribile strega gobba con un’impressionante malattia della pelle, uno spirito dannato per i suoi peccati contro gli uomini, che doveva essere intrappolato, tormentato nel cattivo intonaco di un vecchio muro di periferia. A volte, la strega lasciava il muro e penetrava nei miei incubi (ero pieno di incubi, da ragazzo), e allora, quando mi svegliavo terrorizzato, la vedevo sogghignare nell’angolo della stanza, con la testa avvolta nelle tenebre e gli occhi scintillanti in mezzo a quell’orribile pelle butterata, mentre la puzza del suo alito appestava l’aria; allora mi rizzavo a sedere nel letto, gridando, e solo quando mia madre veniva e accendeva la luce lei faceva ritorno al suo intonaco, ma io dovevo lasciare accesa la lampadina per il resto della notte.
1. LA STREGA
Francesco Salviati, Le tre parche, 1550 ca., Firenze, Galleria Palatina
Walt Disney Biancaneve e i sette nani, regia di David Hand, 1937
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VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
2. Satanismo, sadismo e gusto della crudeltà
Heinrich Füssli, Titania accarezza Bottom con la testa d’asino, 1793-94, Zurigo, Kunsthaus
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Le streghe errano accusate di compiere cerimonie blasfeme di adorazione del diavolo, ma la liturgia di Satana non fa soltanto parte della leggenda, per quanto l’adorazione del diavolo sia stata sempre attribuita a sette eretiche o sia stata evocata per condannare i cavalieri Templari. Numerose forme di satanismo esistono ancora ai giorni nostri – ogni tanto emergendo ai fasti della cronaca per i comportamenti delittuosi (e reali) di cui sono imputati i loro membri. Gli studiosi suddividono le sette sataniche odierne in quattro correnti: i razionalisti e atei, che considerano Satana simbolo della ragione e della ricerca del piacere, al di fuori di ogni vincolo morale e religioso; gli occultisti, che capovolgono credenze e riti religiosi; i satanisti “acidi”, dove i riti assumono sempre carattere orgiastico con uso di droga (tendenza teatralizzata da molti complessi rock); e infine i luciferiani, di antiche ascendenze manichee e gnostiche, dove il demonio appare come principio positivo. Le ragioni dell’adorazione del diavolo, quando non nascono da sindromi psichiatriche, o non servano semplicemente a giustificare comportamenti orgiastici e sessualmente eccessivi, sono dovute alle stesse ragioni per cui molti aderiscono a credenze magiche. Nella vita reale la distanza tra ciò che si desidera e ciò che si ottiene è di solito abbastanza dilatata, anche se interviene la scienza, mentre la magia assicura il successo attraverso una sorta di corto circuito istantaneo (si può nuocere all’avversario pungendo con uno spillo una statuetta di cera, si può evitare un male attraverso un amuleto, si può conquistare l’amore di chi non ci ama attraverso un filtro). In tali casi il satanismo è una forma di patto col Diavolo. Il rito fondamentale degli adoratori di Satana è stato di solito la messa nera, che secondo le varie cronache era celebrata non su una pietra d’altare ma sul corpo nudo d’una donna, mentre un prete, apostata ma regolarmente ordinato, consacrava le ostie, in modo che potessero essere profanate. Siccome di tali cerimonie si è molto favoleggiato ma per lo più i testimoni sono stati sempre restii a parlarne, il testo che ci descrive meglio questi riti è quello di Huysmans (in Là bas), il quale aveva avuto probabilmente delle frequentazioni con gli ambienti satanisti.
VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
Odilon Redon, Il polipo difforme, 1883 ca., Saint-Germain-en-Laye, Musée Départemental Maurice Denis “La Prieuré”
Giacomo Grosso, Studio di Supremo Convegno, 1894, Camino Monferrato (Al), collezione Enrico Colombotto Rosso
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2. SATANISMO, SADISMO E GUSTO DELLA CRUDELTÀ
La messa nera Joris-Karl Huysmans Là bas (1891) Apparve l’altare, un altare comune, sormontato da un tabernacolo su cui si ergeva un Cristo ridicolo e infame. Gli avevano alzato la testa, allungato il collo, e le rughe dipinte sulle guance gli trasformavano il volto dolorante in un ceffo deformato da un riso ignobile. Era nudo, e in luogo del lino che gli avvolgeva i fianchi, una eccitata vergogna virile emergeva da un cespuglio peloso. (…) Preceduto da due chierichetti, coperto da un berretto scarlatto sul quale si rizzavano due corna di bisonte in stoffa rossa, il canonico entrò… Era grande ma mal formato, tutto busto; la fronte nuda si prolungava senza curve in un naso diritto; labbra e guance erano irte di quei peli duri e fitti che hanno i preti vecchi che si sono rasati a lungo; i tratti erano sinuosi e grossolani; gli occhi, piccoli come semi di mela, neri, scintillavano vicini al naso (…) Egli si inchinò solennemente all’altare e ne salì i gradini, cominciando la sua messa. Durtal vide allora che, sotto le vesti liturgiche, era nudo. Le sue carni, compresse da due giarrettiere molto alte, debordavano sopra le sue calze nere. La pianeta era normale, ma rossa come sangue secco e nel mezzo, in un triangolo intorno al quale fungheggiava una vegetazione di colchici, savine ed euforbie, un caprone nero, ritto sulle zampe posteriori, protendeva le corna… A quel punto i chierichetti passarono dietro l’altare e riportarono l’uno una sorta di fornello in rame e l’altro degli incensieri che distribuirono ai presenti. Tutte le donne si lasciarono avvolgere da quelle fumigazioni; alcune piegarono il capo sul fornello e ne aspirarono violentemente l’odore poi, quasi svanite, si aprirono le vesti emettendo sospiri rauchi. Allora il sacrificio si interruppe. Il prete ridiscese i gradini all’indietro e con voce emozionata e acuta gridò: “O maestro del pandemonio, dispensatore dei benefici del delitto, grande intendente del peccato più
sontuoso e del vizio più grande, Satana, è te che adoriamo, o Dio logico e giusto!” (…) Tu spingi la madre a vendere la figlia, tu assisti gli amori sterili e proibiti, o tutore delle nevrosi più stridule, torre di piombo dell’isteria, vaso sanguinante delle deflorazioni! (…) E te che in qualità di sacerdote io forzo, che tu lo voglia o no, a discendere in quest’ostia e a incarnarti in questo pane. Gesù, artista della soperchieria, ladro di omaggi, predatore d’affetti, ascolta! Dal giorno che sei uscito dalle viscere della vergine ambasciatrice tu hai mancato ai tuoi impegni e alle tue promesse; secoli hanno singhiozzato attendendoti, Dio disertore e muto! Tu dovevi apparire nella tua gloria e tu dormivi (…) Noi vorremmo ribadire i tuoi chiodi, premere sulle tue spine e far colare il tuo sangue dolorante lungo le tue piaghe rinsecchite! (…) Amen, gridarono le voci cristalline dei chierichetti. Durtal ascoltava questo torrente di bestemmie e di insulti; la sudiceria di quel sacerdote lo stupiva; (...) Fu come un segnale: alcune donne caddero rotolando sul tappeto. Una come mossa da una molla, si gettò sul ventre dimenando in alto le gambe, un’altra, presa di colpo da un odioso strabismo, chioccolava, poi, divenuta come afona, restò con la mascella aperta, la lingua arrotolata all’indietro a toccare il palato; un’altra, gonfia e livida, le pupille dilatate, rovesciava la testa poi la raddrizzava bruscamente, e si dilaniava la gola con le unghie; un’altra ancora, stesa sulle reni, si toglieva la gonna mostrando un ventre nudo, gonfio di gas, enorme, poi si torceva con smorfie orribili e tirava fuori, senza poterla ritrarre da una rastrelliera di denti rossi, una lingua biancastra e smangiata i bordi. Subito Durtal si alzò per vedere meglio e sentì distintamente il canonico Docre. Costui contemplava il Cristo che sormontava il tabernacolo e a braccia aperte vomitava spaventose contumelie, e urlava all’estremo delle sue forze ingiurie da cocchiere ubriaco. Un chierichetto gli si inginocchiò davanti volgendo la
schiena all’altare, il dorso del prete fremette. In tono solenne ma con voce rotta disse “hoc enim est corpus meum”. Poi, invece d’inginocchiarsi dopo la consacrazione davanti alla preziosa particola, si rivolse ali fedeli e apparve tumefatto, stravolto, coperto di sudore, Oscillava tra i due chierichetti che, sollevando la pianeta, mostrarono il suo ventre nudo mentre l’ostia, che egli gettava avanti a sè, saltellava insozzandosi e spezzandosi sugli scalini. Allora Durtal si sentì fremere perché un vento di follia prese a sconvolgere la navata. Una grande isteria fece seguito al sacrilegio e s’impossessò delle donne; mentre i chierichetti incensavano la nudità del celebrante, delle donne si avventarono sul pane eucaristico e, prone ai piedi dell’altare, lo lacerarono, ne strapparono delle particelle umide, bevvero e mangiarono quella divina immondizia. Un’altra, accovacciata su un crocifisso, scoppiò in una risata lacerante e poi gridò: mio prete, mio prete! Una vecchia si strappò i capelli, balzò in avanti piroettando su se stessa, si piegò, non rimase che su di un solo piede, s’abbatté vicino a una ragazza che, rannicchiata lungo il muro, si torceva convulsa, sbavava saliva fermentata, sputava piangendo inconcepibili bestemmie. E Durtal , spaventato, vide tra i fumi, come attraverso una nebbia, le corna rosse di Docre che, ora seduto, schiumava di rabbia, masticava i suoi pani azzimi, li sputava, si torceva, ne distribuiva alle donne; ed esse li inghiottivano vogliose o si travolgevano a vicenda per profanarle. Era la cella di un manicomio, una fornace di prostitute e di dementi. Allora, mentre i chierichetti si accoppiavano con gli uomini e la padrona di casa saliva, si alzava verso l’altare, con una mano impugnava l’asta del Cristo e con l’altra portava un calice tra le sue gambe nude, in fondo alla cappella, nell’ombra, una bambina, che non si era ancora mossa, si piegò di colpo in avanti e urlò a morte, come una cagna! 219
VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
Il fascino dell’orrendo Friedrich Schiller Dell’arte tragica (1792) È un fenomeno generale nella nostra natura, che ciò che è triste, terribile, perfino orrendo ci attira con un fascino irresistibile; che da scene di dolore e di terrore noi ci sentiamo respinti e con pari forza riattratti… Come è numeroso il séguito che accompagna un delinquente sul luogo del suo supplizio! Né il piacere di un appagato amore di giustizia, né l’ignobile gusto dell’acquietata brama di vendetta possono spiegare questo fenomeno. Quello sciagurato può anche essere scusato nel cuore degli spettatori, la più sincera compassione può
interessarsi a favore della sua salvezza; tuttavia nello spettatore si agita, più forte o più debole, un desiderio curioso di tendere occhio ed orecchio verso l’espressione della sua sofferenza. Se l’uomo di educazione e di sentimento raffinato fa una eccezione, non è perché questo istinto non esista in lui, ma perché esso è sopraffatto dalla forza dolorosa della pietà o è tenuto a freno dalle leggi del decoro. Il rozzo figlio della natura, non imbrigliato da alcun sentimento di delicata umanità, si abbandona senza pudore a questo potente impulso. Il quale deve dunque avere il suo fondamento nella disposizione naturale dell’animo umano.
Un caso di pseudo-satanismo che però ci induce ad altre riflessioni è quello di Gilles de Rais. Compagno di battaglie di Giovanna d’Arco, maresciallo di Francia in giovane età, egli finisce impiccato a trentasei anni dopo un processo in cui (grazie e numerose testimonianze) viene dimostrato colpevole di atti di sodomia e altre violenze su giovani che prima attirava nel suo castello, poi massacrava e di cui infine seppelliva i cadaveri smembrati. Come accade di solito in questi casi, si era detto che Gilles avesse stabilito rapporti col diavolo, ma è difficile ricondurre i suoi delitti a un fenomeno di satanismo. Egli era semplicemente un malato, che le esperienze della guerra avevano assuefatto al gusto del sangue. Proprio questa sua propensione alla tortura, del resto, induce a riflettere se sia il demonio a spingere gli esseri umani verso la crudeltà o se non sia una naturale tendenza alla crudeltà a fare immaginare, come giustificazione e motivo d’eccitazione, il rapporto col diavolo. Gli esseri umani amano gli spettacoli crudeli, sin dai tempi degli anfiteatri romani, e una delle prime descrizioni di un supplizio orripilante la troviamo in Ovidio, quando racconta come Apollo avesse fatto scorticare vivo il sileno Marsia, che aveva battuto in una gara musicale. Schiller aveva definito molto bene questa “disposizione naturale” all’orrendo, e non dimentichiamo che in ogni epoca il popolo è accorso pieno di eccitazione ad assistere alle esecuzioni capitali. Se oggi ci pare di esserci “civilizzati”, forse è solo perché il cinema ci ha messo a disposizione scene splatter, che non turbano la coscienza dello spettatore, visto che gli vengono presentate come fittizie. 220
2. SATANISMO, SADISMO E GUSTO DELLA CRUDELTÀ
Tiziano Vecellio, La punizione di Marsia, 1570-76, Kromeriz, Palazzo arcivescovile
pagina seguente Il “famigerato” Gilles de Rais pratica la magia nera sacrificando dei bambini in un’incisione del XIX secolo
Marsia Ovidio (42 a.C.-18 d.C.) Metamorfosi, VI, 383 sgg Un altro si rammenta del Satiro, che il figlio di Latona punì, dopo averlo vinto col suono del flauto, sacro alla dea Tritonide. “Perché mi strappi a me stesso?” egli diceva; “Ahimè! mi pento! Ahimè! un flauto non vale tanto strazio!” Ma mentre egli urlava, a fior delle membra gli fu strappata la pelle: né altro era se non una sola ferita: d’ogni parte scorre sangue, affiorano, scoperti, i muscoli e senza alcuna protezione guizzano pulsando le
vene; potresti contargli le viscere palpitanti e il brillio delle fibre sul petto. I Fauni campestri, divinità arboree, i fratelli Satiri, l’Olimpo, anche allora a lui caro, le Ninfe e quanti su quei monti pascolarono lanose greggi e cornuti armenti, lo piansero. Si irrorò la ferace terra; si intrise nell’accoglier lagrime che cadevano e le assorbì nelle intime vene; e dopo averle rese acqua, le fece scaturire nella libertà dell’aria. Da qui prende nome di Marsia un corso d’acqua, che rapido scorre entro declinanti rive: il più limpido fiume di Frigia. 221
VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
I piaceri di Gilles de Rais Georges Bataille Deposizione di Etienne Corillart in Il processo di Gilles de Rais (1998) Inoltre il detto teste disse e depose che il detto Sillé, Henriet ed egli stesso, rintracciarono e condussero dal detto Gilles de Rais, accusato, nella sua stanza, numerosi ragazzi e ragazze con i quali il detto Gilles faceva le sue orgie libidinose, com’è detto più avanti con maggiori dettagli, la qual cosa fecero su ordine del detto Gilles, accusato. (…) Interrogato circa il numero di bambini che furono dati in mano al detto Gilles, accusato, in ognuna delle dette località, da lui, il teste, e dai detti Sillé e Griart, rispose che a Nantes egli ne vide quattordici o quindici, a Machecoul la maggior parte dei detti quaranta, e che non poteva diversamente precisarne il numero esatto. Item, disse e depose che il detto Gilles de Rais, per esercitare con i detti fanciulli, bambini e bambine, le sue perversioni contro natura e appagare il suo desiderio libidinoso, prendeva dapprima la sua verga o membro virile tra le mani, la maneggiava o la faceva erigere o la tendeva, poscia la metteva tra le cosce e le gambe dei detti bambini e bambine, trascurando il naturale orifizio delle dette bambine, sfregando la sua detta verga o membro virile sul ventre dei detti bambini e bambine con grande piacere, bramosia e libidinosa concupiscenza, fino a che lo sperma non si spandeva sul loro ventre. Item, disse e depose che prima di perpetrare le sue dissolutezze sui detti bambini e bambine, allo scopo di prevenire le loro grida, e affinché non fossero uditi, il detto Gilles de Rais talvolta li appendeva con le sue mani, talaltra li faceva appendere da altri per il collo, con canapi o corde, nella sua stanza, a una pertica o a un gancio; poi li calava o li faceva calare, fingeva di vezzeggiarli, li rassicurava dicendo loro che non gli voleva 222
fare del male e neanche ferirli e che, al contrario, voleva divertirsi e, in questo modo, impediva loro di gridare. Item che, quando il detto Gilles de Rais commetteva le sue orribili dissolutezze e i suoi peccati di lussuria sui detti bambini e bambine, dopo li uccideva o li faceva uccidere. Interrogato per sapere da chi, rispose che talvolta il detto Gilles, accusato, li uccideva con le sue mani, talaltra li faceva uccidere dal detto Sillé o da Henriet o da lui, il teste, o da uno di loro, insieme o separatamente. Interrogato per sapere in che modo, rispose: talvolta decollandoli o decapitandoli, talaltra sgozzandoli, talaltra squartandoli e ancora rompendo loro l’osso del collo con un bastone; e che c’era una spada appositamente usata per la loro uccisione, volgarmente detta squarcina. (…) Item, disse e depose inoltre che il detto Gilles de Rais talvolta commetteva le sue lussurie con i detti bambini e bambine prima di far loro del male, ma ciò solo raramente; altre volte, e spesso, dopo averli appesi o prima di aver loro procurato altre lesioni; altre volte dopo aver loro reciso o fatto recidere la vena del collo o della gola, mentre il sangue sgorgava; altre volte mentre erano nel languore della morte e altre ancora dopo la loro morte e quando avevano il collo mozzato, fintantoché il loro corpo restava caldo. Item, disse e depose che il detto Gilles de Rais praticava le sue lussuriose perversioni con le fanciulle nello stesso modo con cui abusava dei fanciulli, disdegnando e trascurando la loro natura, e che aveva sentito dire da molti che egli godeva assai di più a depravarsi in tal modo con le dette fanciulle, com’è detto più sotto, che non usando il naturale orifizio e nel modo normale. (…) Al quale Gilles de Rais, Abdré Buchet, di cui è fatta menzione più sopra, consegnò un bambino di circa dieci anni, sul quale il
detto Gilles commise e perpetrò i suoi abominevoli peccati di lussuria nel modo più sopra descritto; il quale fanciullo venne condotto da un certo Boetden, la cui casa si trova nei pressi del mercato di Vannes, abbastanza vicino alla casa del detto Lemoine, e dal detto Boetden avevano preso alloggio gli stallieri del detto Gilles, accusato. La ragione per cui vi fu portato il bambino è che dal detto Lemoine non v’era un posto abbastanza sicuro ove poterlo uccidere; il quale bambino fu ucciso in una stanza della casa del detto Boetden, e gli fu mozzata la testa, la quale venne poi bruciata nella detta stanza; quanto al corpo, legato con la stessa cintura del bambino, esso fu gettato nel pozzo nero della casa del detto Boetden, ove lui, il teste, a fatica, discese per farvi affondare il detto corpo; e il teste aggiunse che il detto Buchet era al corrente di tutto ciò. Item, disse e depose che il detto Gilles, accusato, dopo che era stata recisa la vena del collo o della gola dei detti fanciulli, o che erano state tagliate altre parti del corpo, e quando il sangue cominciava a sgorgare, e anche dopo la decapitazione, praticata com’è più sopra detto, si sedeva talvolta sul loro ventre e prendeva piacere a vederli morire e si sedeva di traverso per meglio osservare la loro agonia e la loro morte. Item, disse e depose che talvolta e anzi abbastanza spesso, dopo la decapitazione e la morte dei detti fanciulli, procurata in tal modo o altrimenti, com’è detto più sopra, il detto Gilles prendeva piacere a guardarli e a farli guardare da lui, teste, e dagli altri che erano a parte dei suoi segreti, e mostrava loro la testa e le membra dei detti bambini uccisi, e domandava quale di quei bambini avesse le membra più graziose, il viso più bello, la più bella testa; spesso godeva a baciare uno o l’altro di quei bambini uccisi, e di cui si stavano esaminando le membra, o uno di quelli che erano già stati esaminati e che gli era parso avesse il viso più bello.
2. SATANISMO, SADISMO E GUSTO DELLA CRUDELTÀ
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VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
Jacques Callot, Tavola da Le miserie della guerra, 1633
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La ballata degli impiccati di Villon è certamente ispirata a pietà nei confronti dei suppliziati, ma ci ricorda come la visione di corpi umiliati dal supplizio fosse consueta nei tempi antichi; analogamente, le acqueforti di Callot ci mostrano grappoli di impiccati che costituivano spettacolo quotidiano durante le guerre del XVII secolo. È rimasto tristemente celebre Vlad Dracula, voivoda di Valacchia, che nel XV secolo, pur essendosi distinto valorosamente nella lotta contro i turchi, indulgeva nell’infiggere creature umane su pali acuminati ? anche se è forse solo la leggenda che ce lo ha mostrato mentre cenava gaiamente in mezzo a una selva di impalati. La consuetudine con la morte portava a elaborare sindromi di crudeltà anche nei confronti dei santi. Oggi noi vediamo, nella cattedrale di San Vito a Praga, le teche con i crani di Sant’Adalberto e San Venceslao, un dente di Santa Margherita, un frammento della tibia di San Vitale, una costola di Santa Sofia, il mento di Sant’Eobano; nel tesoro di Vienna un dente di San Giovanni Battista e un osso del braccio di Sant’Anna, nel tesoro del Duomo di Milano la laringe di San Carlo Borromeo. Sono reperti che sembrano opera di un artista contemporaneo, e la storia delle reliquie è peraltro ricca di falsi, opera di alto artigianato; ma quando erano autentiche, queste cartilagini ingiallite misticamente ripugnanti, patetiche e misteriose, questi brandelli di materie spesso sbriciolate di cui è difficile dire la natura e l’origine, nascevano da un vero e proprio squartamento di corpi venerati, da bolliture delle carni per ottenerne scheletri da smembrare, da vere e proprie profanazioni di cadaveri dovute a un eccesso di pietà popolare. Talora la pietà popolare era solo vittima di un commercio che nasceva per ragioni turistiche, per attirare folle di fedeli in una città o in un santuario. Dove si vede che la crudeltà può nascere non solo dall’odio o dal gusto perverso dello sfregio ma spesso anche da amore e venerazione vissuti in modo spropositato.
2. SATANISMO, SADISMO E GUSTO DELLA CRUDELTÀ
Vlad III Dracula, fa impalare le sue vittime, 1476-77
Ballata degli impiccati François Villon La ballata degli impiccati (1489) Fratelli ancora vivi, o umana gente, non siate contro noi duri e spietati! Più presto troverete Iddio clemente, pietà portando a questi disgraziati... Cinque, sei, ci vedete qui impiccati: già in polvere si va, stecchito ossame, ché i corpi, cui saziammo cento brame, da un pezzo sono putridi e distrutti... Non irridete questa sorte infame, ma Dio pregate – che ci assolva tutti! E non vi sdegni il nome di fratelli, anche se noi morimmo giustiziati: spesso difetta il senno nei cervelli, voi lo sapete, e avvengono i peccati... poiché la morte adesso ci ha ghiacciati, fate che Cristo scusi i nostri torti,
che avaro non ci sia dei suoi conforti e nel fuoco infernale non ci butti! Nessuno ci molesti: siamo morti. Ma Dio pregate – che ci assolva tutti! Ci lisciò la pioggia e ci ha lavati, e neri e secchi diventammo al sole: le gazze e i corvi gli occhi hanno strappati e barbe e ciglia... Macabre carriole, il vento ci sballotta come vuole, di qua, di là, mai fermi – e le beccate in ditali le salme hanno mutate... e sempre avanti e indietro, come i flutti... Di questa compagnia, dunque, non siate, ma Dio pregate – che ci assolva tutti! Principe da cui siamo governati, Satana non ci tenga incatenati: più nulla noi facciamo che gli frutti... uomini, basta con gli scherni usati, ma Dio pregate – che ci assolva tutti! 225
VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
Morte di Andronico Niceta Coniate (1150 ca.- 1217) Narrazione cronologica, XI, 8, 5-10 Comparso in tal guisa al cospetto dell’imperatore Isacco, lo oltraggiano, lo prendono a schiaffi sulle guance, a calci nel sedere, gli strappano la barba, gli cavano i denti, gli spelano la testa, viene esposto al pubblico ludibrio (…) Poi, dopo che con la scure gli fu tagliata la mano destra, fu gettato di nuovo nella stessa prigione, senza cibo, senza bevanda, senza avere una qualunque assistenza da parte di nessuno. Dopo alcuni giorni gli viene cavato un occhio e, seduto su un cammello rognoso, è portato in trionfo (di disonore) per l’agorà: come una vecchia quercia senza foglie, metteva in mostra un cranio più glabro d’un uovo e del tutto scoperto, addosso aveva uno straccetto (…) Alcuni lo colpivano in testa con delle mazze, altri gli imbrattavano le narici con escrementi di bue, altri con delle spugne gli versavano sulla faccia lordura di ventri bovini e umani. Altri inveivano lanciando turpi ingiurie contro sua madre e l’altro suo genitore. Alcuni trapassavano i suoi fianchi con spiedi. Altri più spudorati gli gettavano pietre e lo chiamavano cane rabbioso. Una meretrice dissoluta afferrò da una cucina un vaso pieno d’acqua calda e lo svuotò sulle sue guance. Non c’era nessuno che non maltrattasse Andronico. Condotto in modo così ignominioso nel teatro con un ridicolo trionfo, innalzato miseramente e con scherno sul cammello – ciò che era in alto venne giù –, fu subito appeso per i piedi, legati da qualcuno con una cordicella di sughero, alle due colonnine che, sormontate da una pietra, si ergono presso una lupa e una iena di bronzo con il collo piegato. Pur soffrendo tanti tormenti e pur sottoposto a infiniti altri, che si tralascia di raccontare, tuttavia Andronico, essendo di animo forte, resisteva coraggiosamente all’assalto delle disgrazie. Volgendosi a quanti gli andavano addosso per colpirlo, non diceva altro se non: «Kyrie, 226
eleison», e «Perché spezzate una canna già infranta?». Neppure dopo averlo appeso per i piedi la folla stoltissima si ritrasse dal martoriato Andronico o risparmiò la sua carne ma, toltagli via la camicia, massacrò i suoi organi genitali. Uno scellerato immerse una lunga spada nei suoi visceri attraverso le fauci; alcuni di stirpe latina con entrambe le mani gli piantarono nell’ano una scimitarra e, dispostisi attorno, calavano giù le spade, provando quale fosse più tagliente e gloriandosi per la destrezza della loro mano in ragione del colpo ben assestato. Dopo tanti travagli e sofferenze alla fine spirò, allungando dolorosamente il braccio destro e portandolo intorno alla bocca, così che alla gente sembrò volesse succhiare il sangue che da esso stillava ancora caldo per il taglio recente. Il supplizio di Damiens Gazzetta di Amsterdam, 1 aprile 1757 Alla fine venne squartato. Quest’ultima operazione fu molto lunga, perché i cavalli di cui ci si serviva non erano abituati a tirare; di modo che al posto di quattro, bisognò metterne sei (...) Si assicura che, benché fosse stato sempre un grande bestemmiatore, non gli sfuggì alcuna bestemmia; solamente i dolori eccessivi gli facevano lanciare grida orribili, e spesso egli ripeté: “Mio Dio, abbi pietà di me; Gesù soccorrimi” (…) Venne acceso lo zolfo, ma il fuoco era così debole, che la pelle, del disopra delle mani solamente, non fu che assai poco danneggiata. Poi, un aiutante del boia, le maniche rimboccate fino al di sopra del gomito, prese delle tenaglie d’acciaio fatte apposta, di circa un piede e mezzo di lunghezza, lo tanagliò prima al grasso della gamba destra, poi alla coscia, poi alle due parti del grasso del braccio destro; in seguito alle mammelle. Questo aiutante, benché forte e robusto, fece molta fatica a strappare i pezzi di carne, che prendeva con le sue tenaglie due o tre volte nello stesso posto, torcendo, e quello che egli toglieva
formava ogni volta una piaga della grandezza di uno scudo da sei lire. Dopo questi tanagliamenti, Damiens, che urlava forte senza tuttavia bestemmiare, alzava la testa e si guardava; lo stesso tanagliatore prese poi con un cucchiaio di ferro, dalla marmitta, un po’ di quella droga bollentissima e la gettò a profusione su ciascuna piaga. Poi vennero annodate con delle corde sottili le corde destinate ad attaccare i cavalli, poi i cavalli furono attaccati ad ognuna delle membra, lungo le cosce, gambe e braccia (…) I cavalli diedero uno strappo, tirando ciascuno una delle membra per diritto, ogni cavallo tenuto da un aiutante. Dopo un quarto d’ora, stessa cerimonia, e infine dopo numerosi tentativi si fu obbligati a far tirare i cavalli: ossia quelli del braccio destro verso la testa, quelli delle cosce girando indietro dalla parte delle braccia, il che gli ruppe le braccia alle giunture. Questi tiramenti furono ripetuti diverse volte senza riuscita (…) Alla fine il boia Samson andò a dire al sieur Le Breton, che non c’era mezzo né speranza di venirne a capo, e gli disse di chiedere ai Signori se volevano che lo facesse tagliare a pezzi (…) . Il sieur Le Breton, tornato dalla città, diede ordine di fare nuovi sforzi, il che fu fatto; ma i cavalli scartarono e uno di quelli attaccati alle cosce cadde sul selciato (…) Dopo due o tre tentativi, il boia Samson e quello che lo aveva tanagliato tirarono ciascuno un coltello dalla tasca e tagliarono le cosce dal tronco del corpo; i quattro cavalli essendo al tiro, portarono via le due cosce, ossia quella del lato destro per la prima, poi l’altra; in seguito si fece lo stesso alle braccia e alle spalle e ascelle e alle quattro parti; bisognò tagliare le carni fin quasi all’osso; i cavalli tirando a tutta forza staccarono il braccio destro per primo e poi l’altro. Staccate queste quattro parti, i confessori scesero per parlargli, ma l’aiutante del boia disse che era morto, ma la verità è che io vedevo l’uomo agitarsi e la mascella inferiore andare avanti e indietro come se parlasse.
Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, particolare del pannello destro con l’Inferno, 1500 ca., Madrid, Museo del Prado
Di smembramenti di corpi ancora vivi ci parlano invece due testimonianze di supplizi reali, quello dell’imperatore bizantino Andronico (raccontato da Niceta Coniate) e lo squartamento di Damiens (che aveva tentato di assassinare Luigi XV nel 1757), il primo a opera della folla stessa, il secondo seguito dalla folla con eccitato interesse. Il gusto della crudeltà non ha mai risparmiato gli animali: del supplizio inflitto a un gatto ci parla fantasticamente Poe, ma di un progetto reale ci racconta Eco, che si era ispirato a un esperimento davvero proposto nel XVII secolo, per trovare un modo sicuro di stabilire la longitudine a bordo di una nave. Oggi per questi e altri episodi noi parliamo di sadismo, ma è stato per dimostrare come il gusto della crudeltà fosse radicato nella natura umana che Sade ha celebrato il disprezzo del corpo altrui. E se Sade propugnava la pratica della violenza anche come provocazione filosofica, la letteratura romantica e decadente (vedi Maturin) vi fa spesso ricorso come a una suprema macchinazione della sensualità. Non meno orripilanti saranno altre pagine narrative, alcune dovute al puro gusto per il sensazionale, come in Fleming, altre tese invece a condannare la crudeltà del mondo, come in Conrad (che ha ispirato gli orrori di un film come Apocalyspe now), in Orwell, che ci rammenta che la tortura ha ancora diritto di cittadinanza sotto i regimi dittatoriali, o in Kafka, che ci parla di una violenza metafisica, sempre presente, come peraltro la vediamo ancora oggi manifestarsi nel corso di conflitti in cui i belligeranti perdono ogni senso d’umanità. In queste pratiche, il diavolo non ha più alcuna funzione, né si cerca ancora di evocarlo a titolo di giustificazione. Il gusto della crudeltà presenta ormai tratti unicamente e squisitamente umani. 227
VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
solo per compensarsi di questa apparenza di minor depravazione con quanto poteva oltraggiarmi di più… Ahimé, se talvolta la mia immaginazione si era soffermata su questi piaceri, io li credevo casti come il Dio che li ispirava, dati dalla natura per servire di consolazione agli uomini, nati dall’amore e dalla tenerezza; ero molto lontana dal credere che l’uomo, alla pari delle bestie feroci, non potesse gioire se non facendo inorridire le sue compagne; io provai tutto questo, e a un tale grado di violenza che i dolori della lacerazione naturale della mia verginità furono i minori che dovetti sopportare nel corso di questa aggressione, ma fu al momento dell’orgasmo, quando Antonino ebbe finito con delle grida così furiose, con degli assalti così brutali contro ogni parte del mio corpo, con morsi infine così simili alle sanguinose carezze delle tigri, che per un istante mi credetti la preda di qualche bestia feroce che non si sarebbe placata se non divorandomi. Terminati questi orrori, ricaddi sull’altare dove ero stata immolata, quasi priva di conoscenza ed esanime.
Francesco Del Cairo, Martirio di sant’Agnese, 1634-1635 ca., Venezia, Collezione Pier Luigi Pizzi a fronte Maestro del Sacro Sangue, Lucrezia, 1520 ca.
Il gusto dell’esecuzione Marchese de Sade Justine o le sventure della virtù (1791) I nostri luoghi pubblici non sono forse pieni ogni volta che si assassina qualcuno secondo la legge? E ciò che è singolare è che il più delle volte si tratta di donne: esse sono maggiormente portate di noi alla crudeltà perché hanno una complessione più sensibile. Ecco quello che gli sciocchi non capiscono” Sadismo Marchese de Sade Justine o le sventure della virtù (1791) Ma quali dettagli… gran Dio… mi è impossibile descriverli; si sarebbe detto che questo scellerato, il più libertino dei quattro per quanto sembrasse il meno lontano dalle vie della natura, consentisse ad avvicinarsi a essa, a porre una minore sregolatezza nel suo culto,
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Amatori di sofferenze Charles Robert Maturin Melmoth (1820) “È addirittura possibile diventare amatori di sofferenze. Ho udito di uomini che hanno fatto viaggi in paesi dove ogni giorno si poteva assistere a esecuzioni orribili, per ottenere quell’eccitazione che la vista delle sofferenze non manca mai di dare, dallo spettacolo d’una tragedia o d’un rogo fino ai contorcimenti al più vile dei rettili a cui potete infliggere una tortura, e sentire che quella tortura deriva dalla vostra potenza. È un sentimento del quale non possiamo mai spogliarci – un trionfo su coloro che la sofferenza ha posto sotto di noi (…) Voi la chiamerete crudeltà, io la direi curiosità, la stessa che spinge migliaia di persone ad assistere a una tragedia, e a fare sì che la donna più delicata si compiaccia di lamenti e agonie (…) Seguitando a parlare, Melmoth si gettò su un’aiuola di giacinti e tulipani. “Oh, rovinerete i miei fiori!” gridò Isidora. “È la mia vocazione; vi prego di volermi scusare!” disse Melmoth, mentre si beava sui fiori schiacciati, e con uno sguardo sinistro lanciava a Isidora un sogghigno che metteva freddo nelle ossa.
2. SATANISMO, SADISMO E GUSTO DELLA CRUDELTÀ
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VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
Arturo Martini, Ritratto della marchesa Luisa Casati, 1912, Milano, collezione privata
Il giardino dei supplizi Octave Mirbeau Il giardino dei supplizi, III, 3 (1899) Si raggomitolò vicino a me, tutta contro di me, flessuosa e tenera. – Non vuoi ascoltarmi, brutto! – riprese – e nemmeno mi accarezzi! Accarezzami caro! Senti i miei seni, come sono freddi e duri! E con voce più sorda, volgendomi gli occhi lampeggianti di fiamme verdi, voluttuosa e crudele, disse: – Proprio otto giorni fa ho visto una cosa straordinaria. Oh, amore mio, ho visto frustare un uomo perché aveva rubato del pesce (…) È accaduto nel giardino dei supplizi. Cerca di immaginarti la scena, l’uomo era inginocchiato, con la testa appoggiata ad una specie di ceppo, tutto nero di sangue vecchio. Aveva schiena e reni denudati: schiena e reni color oro antico. Arrivai proprio quando un soldato stava legandogli il lunghissimo codino ad un anello fissato a una pietra del selciato. A fianco del paziente, un altro soldato arroventava al fuoco di una forgia, una bacchettina di ferro. Ed ora sentimi bene! Mi ascolti? Quando la bacchettina era rossa, il soldato la faceva vibrare nell’aria e cadere sulla schiena del condannato. La bacchettina faceva sciuip, nell’aria, e penetrava nella muscolatura che friggeva, e dalla quale si levava un alone rossastro... capisci? Allora il soldato lasciava raffreddare il ferro nella carne, che si gonfiava e si rinchiudeva; poi, quando era freddo, lo strappava con violenza, con piccoli brandelli sanguinanti... E l’uomo emetteva spaventose grida di dolore. Poi il soldato ricominciava. Lo fece quindici volte. E a me sembrava, anima mia, che anche a me la bacchetta entrasse a ogni colpo nelle reni... Atroce e delizioso! E poiché tacevo, ripeté: – Atroce e delizioso! Sapessi come era bello e forte quell’uomo! Muscoli scolpiti... Abbracciami, amore caro, abbracciami, dunque! Le pupille di Clara s’erano rovesciate. Fra le palpebre semichiuse vedevo solo il bianco degli occhi. Ella disse ancora: – Stava fermo. Sulla schiena aveva come delle piccole onde. Oh, dammi le labbra! Il prigioniero del sogno. Giovanni Papini L’ultima visita del Gentiluomo Malato (1906) Era, veramente, un seminatore di spavento. La sua presenza dava un colore fantastico alle cose più semplici – quando la sua mano toccava qualche oggetto sembrava
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che questo entrasse a far parte del mondo dei sogni. I suoi occhi non riflettevano le cose presenti ma cose sconosciute e lontane, che quelli ch’eran con lui non vedevano. (…) – Io non sono un uomo reale. (…) Io sono – e voglio dirlo per quanto, forse, non vorrete credermi – io sono nient’altro che la figura di un sogno. Un’immagine di Guglielmo Shakespeare è divenuta per me letteralmente e tragicamente esatta: io sono della stessa stoffa colla quale son fatti i vostri sogni! Esisto perché c’è uno che mi sogna; c’è uno che dorme e sogna e mi vede agire e vivere e muovere e in questo momento sogna ch’io dico tutto questo. Quando quest’uno ha cominciato a sognarmi ho cominciato ad esistere; quando si sveglierà cesserò di esistere. (…) – Ma finalmente fui stanco e umiliato pensando di dover servire di spettacolo a questo padrone sconosciuto e inconoscibile; mi accorsi che questa finzione di vita non valeva tanta bassezza e tanta adulatrice viltà. Desiderai allora ardentemente ciò che prima mi faceva orrore, cioè il suo risveglio. Mi sforzai di riempire la mia vita di spettacoli tanto orridi da farlo destare per lo spavento. E tutto ho tentato per giungere al riposo dell’annientamento; tutto ho messo in opera per interrompere questa triste commedia della mia vita apparente, per distruggere questa ridicola larva di vita che mi fa simile agli uomini! – Nessun delitto mi fu alieno: nessuna nefandezza mi fu ignota; da nessun terrore mi ritrassi. Uccisi con raffinate torture i vecchi innocenti; avvelenai le acque d’intere città; incendiai nello stesso istante le capigliature di una moltitudine di donne; sbranai coi miei denti, resi selvaggi dalla volontà di annientamento, tutti i fanciulli che trovai sul mio cammino. La notte cercai la compagnia dei mostri giganteschi, neri, sibilanti, che gli uomini non conoscono più; presi parte a incredibili imprese di gnomi, d’incubi, di coboldi, di fantasmi; mi precipitai dall’alto di un monte in una valle nuda e sconvolta, circondata da caverne piene di bianche ossa; e le fattucchiere m’insegnarono urli di belve desolate che fanno rabbrividire nella notte anche i più forti. Ma sembra che colui che mi sogna non s’impaurisca di quello che fa tremare voialtri uomini. O gode alla vista di ciò che v’è di più orribile, oppure non se ne cura e non se ne spaventa. Fino a questo giorno non sono riuscito a svegliarlo e debbo ancor trascinare questa ignobile vita, servile e irreale.
2. SATANISMO, SADISMO E GUSTO DELLA CRUDELTÀ
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2. SATANISMO, SADISMO E GUSTO DELLA CRUDELTÀ
Sam, vincitore del concorso per il cane più brutto del mondo, da www. essentialnews.net
Arf arf Umberto Eco L’isola del giorno prima (1994) Ben difeso da sguardi curiosi, in un ridotto costruito su sua misura, su una coltre di stracci, c’era un cane. Era forse di razza, ma la sofferenza e gli stenti lo avevano ridotto a pelle e ossa. Eppure i suoi carnefici mostravano l’intenzione di tenerlo in vita: gli avevano provvisto cibo e acqua in abbondanza, e anche cibo non canino, certamente sottratto ai passeggeri. Giaceva su un fianco, con la testa abbandonata e la lingua fuori. Sul suo fianco si apriva una vasta e orrenda ferita. Fresca e cancerosa al tempo stesso, essa mostrava due grandi labbra rosacee, ed esibiva al centro, e lungo tutta la sua fenditura, un’anima purulenta che pareva secernere ricotta. E Roberto comprese che la ferita si presentava così perché la mano di un cerusico, anziché cucirne i labbri, aveva fatto sì che rimanessero aperti e beanti, fissandoli alla pelle. Figlia bastarda dell’arte, quella ferita era stata dunque non solo inferta, ma curata con empietà in modo che non si cicatrizzasse, e il cane continuasse a soffrirne – chissà da quando. Non solo, ma Roberto scorse anche intorno e dentro alla piaga i residui di una sostanza cristallina, come se un medico (un medico, così crudelmente accorto!) ogni giorno l’aspergesse di un sale irritante (…) Da quanto Roberto aveva visto, quello che un uomo, che sapesse quel che lui sapeva, poteva inferirne, era che il cane era stato ferito in Inghilterra e Byrd poneva cura a che esso rimanesse sempre piagato. Qualcuno a Londra, ogni giorno a un’ora fissa e convenuta, faceva qualcosa all’arma colpevole, o a un panno imbevuto del sangue della bestia, provocandone la reazione – forse di sollievo, forse di pena anche maggiore, poiché il dottor Byrd aveva pur detto che con il Weapon Salve si poteva anche nuocere. In questo modo sull’Amarilli si poteva sapere a un momento dato che ora fosse in Europa. Conoscendo l’ora del luogo di transito, era possibile calcolare il meridiano! (…) Era stata una attesa di ore, resa più lunga dai gemiti della disgraziatissima bestia, ma finalmente aveva udito altri rumori e scorto delle luci. Dopo poco si trovava testimone di un esperimento che aveva luogo a pochi passi da lui, presenti il
dottore e i suoi tre assistenti. “Stai annotando, Cavendish?” “Aye aye, dottore.” “Dunque attendiamo. Si lamenta troppo stasera.” “Sente il mare.” “Buono, buono, Hakluyt,” diceva il dottore che stava calmando il cane con qualche ipocrita carezza. “Abbiamo fatto male a non fissare una sequenza fissa di azioni. Bisognerebbe sempre iniziare dal lenitivo.” “Non è detto, dottore, certe sere all’ora giusta dorme, e bisogna svegliarlo con una azione irritante.” “Attenti, mi pare che si agiti... Buono Hakluyt... Sì, si agita!” Il cane stava emettendo ora snaturati guaiti. “Hanno esposto l’arma al fuoco, registra l’ora Withrington!” “Qui sono le undici mezza circa.” “Controlla gli orologi. Dovrebbero passare circa dieci minuti.” Il cane continuava guaiolare per un tempo interminabile. Poi emise un suono diverso, che si spense in un “arff arff” che tendeva ad affievolirsi, sino a che lasciò luogo al silenzio. “Bene,” stava dicendo il dottor Byrd, “che tempo è, Withrington?” “Dovrebbe corrispondere. Manca un quarto a mezzanotte.” (…) “Mi pare ci basti. Ora signori,” disse il dottor Byrd, “spero che cessino subito l’irritazione, il povero Hakluyt non regge. Acqua e sale, Hawlse, e la pezzuola. Buono, buono, Hakluyt, ora stai meglio... (…) Domani mattina, Hawlse, il solito sale sulla ferita. Tiriamo le somme, signori. Al momento cruciale, qui eravamo prossimi alla mezzanotte, e da Londra ci segnalavano che era mezzogiorno. Siamo sull’antimeridiano di Londra, e quindi sul centonovantottesimo dalle Canarie. Se le Isole di Salomone sono, come vuole la tradizione, sull’antimeridiano dell’Isola del Ferro, e se siamo alla latitudine giusta, navigando verso ovest con un buon vento in poppa dovremmo approdare a San Christoval, o come ribattezzeremo quella maledetta isola (…) Dunque il destino del mondo era legato al modo in cui quei folli stavano interpretando il linguaggio di un cane? Un brontolare del ventre di quel poveretto poteva far decidere quei miserabili che stavano avvicinandosi o allontanandosi dal luogo agognato da spagnoli, francesi, olandesi e portoghesi altrettanto miserabili?
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VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
Caravaggio, Giuditta taglia la testa a Oloferne, partic., 1599, Roma, Galleria nazionale d’arte antica, Palazzo Barberini
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Il gatto nero Edgar Allan Poe Il gatto nero (1839) Una sera, ritornando a casa dai miei vagabondaggi per la città, ubriaco fradicio, ebbi la sensazione che il gatto evitasse la mia presenza. Lo afferrai, e l’animale, allora, spaventato della mia violenza, mi produsse sulla mano, con i suoi denti, una lieve ferita. In un attimo fui invaso da una furia demoniaca. Non mi riconoscevo più. Era come se la mia anima originaria mi si fosse a un tratto spiccata dal corpo, e una malvagità peggio che infernale, alimentata dal gin, pervase ogni fibra del mio essere. Mi tolsi di tasca un temperino, lo apersi, afferrai la povera bestia per la gola, e deliberatamente gli feci saltare l’occhio dall’orbita. (…) Coll’andare del tempo tuttavia il gatto guarì. Certo la sua occhiaia vuota aveva un aspetto pauroso, ma l’animale non pareva più soffrire alcun dolore. Si aggirava per la casa come al solito, ma, com’era da aspettarsi, fuggiva terrorizzato non appena mi vedeva. Mi era rimasto ancora abbastanza del mio vecchio cuore per sentirmi a tutta prima addolorato da questo
evidente disgusto da parte di una creatura che un tempo mi aveva tanto amato. Ben presto però a questo sentimento succedette una viva irritazione. E infine si impadronì di me, per sommergermi in modo definitivo e irrevocabile, lo spirito della PERVERSITÀ. Di questo spirito la filosofia non si cura. Eppure sono sicuro, quanto sono sicuro che la mia anima vive, che la perversità è uno degli impulsi più primitivi del cuore umano, una di quelle facoltà o sentimenti primari non analizzabili che dirigono il carattere dell’Uomo. (…) Era questo insondabile anelito dell’anima a torturare se stessa, a violentare la propria stessa natura, a fare il male soltanto per amore del male, che mi sospinse a continuare e infine a consumare l’offesa che avevo inflitta alla bestia innocente. Un mattino, a sangue freddo le passai un cappio al collo e la impiccai al ramo di un albero; la impiccai, con le lagrime che mi sgorgavano dagli occhi e col più amaro rimorso nel cuore; la impiccai perché sapevo che mi aveva amato, e perché sentivo che non mi aveva dato alcun motivo di offesa; la impiccai perché sapevo che così facendo commettevo un peccato.
2. SATANISMO, SADISMO E GUSTO DELLA CRUDELTÀ
Noel Quidu, Testa di un membro del movimento armato LURD, 2003, Monrovia
pagina seguente Gaudenzio Ferrari, Martirio di santa Caterina, 1539-1540, Milano, Pinacoteca di Brera
Teschi Joseph Conrad Cuore di tenebra (1899) Ricorderete che vi ho detto di essere rimasto colpito, a distanza, da certi tentativi di decorazione alquanto singolari nell’aria di rovina del luogo. Ora d’improvviso ne avevo una visione più ravvicinata, il cui primo effetto fu di farmi buttare indietro la testa come per evitare un colpo. Mi misi a osservare attentamente col binocolo un paletto dopo l’altro, e mi resi conto dell’errore che avevo fatto. Quelle protuberanze rotonde non erano decorative ma simboliche; erano espressive ed enigmatiche, sorprendenti e inquietanti – alimento per la riflessione non meno che per gli avvoltoi, se ce n’era qualcuno che guardava giù dal cielo; in ogni caso, per formiche abbastanza industriose da arrampicarsi in cima ai paletti. Sarebbero state ancor più impressionanti, quelle teste impalate, se le facce non fossero state rivolte verso la casa. Soltanto una, la prima che avevo notata, guardava dalla mia
parte. Non mi sentivo sconvolto, come forse potreste credere. Il soprassalto che avevo avuto era stato, in realtà, solo un moto di sorpresa. M’aspettavo di vedere una protuberanza di legno, capite. Tornai a guardare attentamente la prima che avevo vista – ed eccola lì, quella testa nera, rinsecchita, incavata, con le palpebre chiuse – pareva dormire in cima al palo, e con le labbra secche e raggrinzite che mostravano una sottile fila bianca di denti sorrideva addirittura, non la smetteva di sorridere a chissà quale interminabile e faceta visione di quel suo eterno sonno. (…) Ebbi la curiosa sensazione che particolari di tal fatta mi sarebbero riusciti ancor più intollerabili delle teste messe a seccare in cima ai pali sotto le finestre di Kurtz. Dopo tutto, quello era solo uno spettacolo barbaro, mentre a me pareva d’essere stato trasportato d’un balzo in una tenebrosa regione di subdoli orrori dove la pura e semplice barbarie riusciva addirittura di sollievo, essendo qualcosa che aveva diritto di esistere – ovviamente – alla luce del sole. 235
VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
La colonia penale Franz Kafka Nella colonia penale (1919) «Ma» s’interruppe l’ufficiale «io sto chiacchierando e la macchina è qui dinanzi a noi. È formata, come vede, da tre parti. Coll’andar del tempo si sono venute creando per ognuna di queste parti delle denominazioni per così dire popolari. La parte inferiore si chiama il letto, quella superiore il disegnatore e quella di mezzo, oscillante, l’erpice.» (…) Mi limiterò dunque soltanto all’essenziale. Quando l’uomo è steso sul letto e questo comincia a sussultare, l’erpice viene abbassato sul corpo, e si colloca da sé in maniera da toccarlo appena colle punte; una volta fissata la posizione, questo cavo d’acciaio s’irrigidisce in modo da diventare come una sbarra. Ed ora comincia il gioco. Chi non è iniziato non si accorge lì per lì di qualche differenza fra pena e pena. L’erpice par lavorare sempre allo stesso modo. Vibrando trafigge colle sue punte il corpo, che vibra per conto suo nel letto. Per render possibile a tutti di controllare l’esecuzione della condanna, l’erpice è fatto di vetro. C’è stata qualche difficoltà tecnica da superare, per riuscire a fissarvi gli aghi, ma dopo molti tentativi, ci siamo riusciti. Non ci siamo davvero risparmiati delle fatiche. Ed ora tutti possono vedere, attraverso al vetro, come l’iscrizione venga segnata sul corpo. Non si vuole avvicinare per guardare gli aghi?». L’esploratore s’alzò lentamente, si avvicinò e si chinò sull’erpice. «Lei vede» disse l’ufficiale «due specie di aghi disposti in varie direzioni. Ogni ago lungo ne ha uno corto accanto: quello lungo scrive e quello corto spruzza l’acqua per lavare via il sangue e mantenere così lo scritto sempre chiaro. L’acqua insanguinata viene poi avviata in piccole condutture e scorre finalmente in una grossa cannella che sbocca, per mezzo di un tubo di scarico, nella fossa.» L’ufficiale indicava col dito il preciso percorso che doveva 236
seguire l’acqua insanguinata. […] «Ora so già tutto» disse l’esploratore, quando l’ufficiale tornò presso di lui. « Salvo l’essenziale» disse questi, prese l’esploratore per un braccio e gli accennò in alto: «Lassù nel disegnatore c’è il meccanismo degli ingranaggi che determina il movimento dell’erpice, e vien disposto a seconda del disegno corrispondente alla condanna. Adopro ancora i disegni del vecchio comandante. Eccoli qua» e così dicendo trasse alcuni fogli dalla cartella di cuoio «non posso, purtroppo, darglieli in mano perché sono la cosa più preziosa che abbia. Si sieda, glieli farò vedere da questa distanza e vedrà bene tutto ». Mostrò il primo foglio. L’esploratore avrebbe voluto dire volentieri qualche parola di approvazione, ma vide solo un labirinto di linee che s’incrociavano continuamente e, fitte com’erano, quasi coprivano tutto il foglio, tanto che soltanto a fatica si potevano distinguer gli spazi bianchi. «Legga» disse l’ufficiale. « Non ci riesco» rispose l’esploratore. « Eppure è chiaro! » ribatté l’ufficiale. «È fatto con molta arte» disse l’esploratore evasivamente « ma non riesco a decifrarlo.» «Già» osservò l’ufficiale ridendo e riponendo la cartella, «non è un saggio di calligrafia per scolaretti. Occorre leggervi a lungo. Anche lei alla fine ci riuscirebbe. Naturalmente non deve essere uno scritto semplice; non deve infatti uccidere subito ma, in media, soltanto in un periodo di dodici ore; dopo sei ore, si calcola, giunge il punto culminante. Occorre dunque che lo scritto vero e proprio sia circondato da molti ghirigori, perché da solo, gira intorno al corpo in una zona sottile; il resto è destinato agli ornamenti. […] «Comprende ora quel che succede? L’erpice comincia a scrivere; una volta che lo scritto è stato segnato una prima volta sulla schiena dell’uomo, lo strato di ovatta si arrotola facendo girare così il corpo lentamente da una parte, per offrire all’erpice
nuovo spazio. I punti piagati dalla scrittura vengono a trovarsi intanto a contatto dell’ovatta che, per la sua speciale preparazione, arresta subito l’emorragia e prepara il corpo a una più profonda incisione della scrittura. Questi denti all’orlo dell’erpice strappan poi via a ogni movimento del corpo, l’ovatta dalle ferite e la gettan nella fossa, sicché l’erpice può riprender il suo lavoro. E così, per dodici ore, scrive sempre più profondamente. Nelle prime sei ore il condannato vive quasi come prima, non sente che il dolore. Dopo due ore vien levato il feltro, poiché l’uomo non ha più la forza di gridare. Qui, in questa scodella a capo del letto, scaldata elettricamente, c’è una pappa di riso caldo e l’uomo, se ne ha voglia, può mangiare quanto gli riesce di prenderne con la lingua. Nessuno si lascia sfuggire questa occasione. Non ne ho conosciuto neppur uno che non lo facesse e la mia esperienza è grande. Soltanto verso la sesta ora perde il gusto di mangiare. E allora mi metto in ginocchio qui vicino per osservare il fenomeno. L’uomo inghiotte di rado l’ultimo boccone, lo rigira soltanto in bocca per sputarlo nella fossa. Mi devo chinare allora, altrimenti mi viene in faccia. Ma come si quieta l’uomo dopo la sesta ora! Al più ottuso si dischiude l’intelligenza. Comincia a diffondersi dagli occhi. È una vista che potrebbe tentare qualcuno a mettersi accanto al condannato sotto l’erpice. In fondo non succede che una cosa: l’uomo comincia a decifrare lo scritto; stringe le labbra come se stesse in ascolto. Lo ha visto lei stesso, non è facile decifrare lo scritto cogli occhi; ma il nostro uomo lo decifra con le sue ferite. È certamente una gran fatica e gli ci voglion sei ore per compierla. Ma in quel punto l’erpice lo trafigge completamente e lo getta nella fossa, dove cade con un tonfo sull’ovatta e l’acqua insanguinata. Allora la sentenza è stata eseguita e noi, io e il soldato, lo sotterriamo.»
2. SATANISMO, SADISMO E GUSTO DELLA CRUDELTÀ
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VIII. STREGONERIA, SATANISMO, SADISMO
Salò e le 120 giornate di Sodoma, regia di Pier Paolo Pasolini 1975
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La stanza 101. George Orwell 1984, III, 3 e 5 (1949) “Fatemi tutto quel che volete!” urlò. “M’avete affamato per settimane! Fatela finita e fatemi morire! Fucilatemi! Impiccatemi! Condannatemi a venticinque anni! C’è ancora qualcosa che volete che io dica? Ditemi che cos’è, e io vi dirò tutto quel che volete! Non m’importa di chi sia e di quel che gli farete! Ho una moglie e tre figli! Il più grande non arriva a sei anni. Potete prenderli tutti e tre e tagliar loro la gola proprio davanti ai miei occhi, e io starò imperterrito a guardarli. Ma non la stanza 101!” “Stanza 101” disse l’ufficiale. L’uomo si guardò in giro, preda del delirio, come se pensasse di poter mettere un’altra vittima al suo posto. I suoi occhi si posarono sulla faccia fracassata dell’uomo dal mento sfuggente. Sollevò un braccio magrissimo. “È lui che dovreste prendere, non me!” gridò con quanto fiato aveva in gola. “Non avete sentito quel che ha detto, dopo che gli avete sfasciato la faccia? Datemene la possibilità, e io vi dirò per filo e per segno tutto quel che ha detto. È lui che è contro il Partito, non io.” (…) Due guardie si prepararono a trarlo su per le braccia. Si gettò lungo per terra, si aggrappò a una delle gambe di ferro che sostenevano la panca (…) S’udì un grido diverso. Una guardia, con un calcio, aveva rotto le dita d’una delle mani dell’uomo. Lo sollevarono in piedi. “Stanza 101” disse l’ufficiale. (…)
“Una volta m’hai chiesto che cosa c’era nella stanza 101” disse O’Brien. “Ti risposi che sapevi già qual era la risposta. Tutti lo sanno. La cosa che c’è nella stanza 101 è la cosa peggiore del mondo.” La porta si aprì di nuovo. Entrò una guardia, trasportando qualcosa che era fatto di fil di ferro, una specie di recipiente, una cesta, o qualcosa del genere. Posò l’oggetto sul tavolo più lontano. A causa della posizione che aveva preso O’Brien in piedi davanti a lui, Winston non poteva vedere precisamente che cos’era quell’oggetto. “La cosa peggiore del mondo” disse O’Brien “varia da individuo a individuo. Può essere venir seppelliti vivi, essere arsi, o affogati, o impalati, o un’infinità di altre morti. Ci sono casi in cui è una cosa assai più modesta, nemmeno fatale, a volte.” Si spostò un po’ di lato, in modo che Winston potesse veder meglio l’oggetto che era sul tavolo. Era una gabbia oblunga di fil di ferro, con un manico in cima per trasportarla. Vista di fronte, aveva come l’aspetto di una di quelle maschere che si mettono per esercitarsi nella scherma, con il lato concavo sporto in fuori. Sebbene fosse a tre o quattro metri lontano da lui, pure poté accorgersi che la gabbia era divisa, per lungo, in due scomparti, e che in ognuno di essi si trovavano alcuni esseri viventi. Erano topi. “Nel tuo caso” disse O’Brien “la cosa peggiore del mondo sono i topi.”
1. DAL SATANA RIBELLE AL POVERO MEFISTOFELE
Re-Animator, regia di Stuart Gordon, 1985
Divorato dagli squali Ian Fleming Vivi e lascia morire (1954) Un grosso muso uscì dall’acqua e si gettò sotto di nuovo afferrando qualcosa. Di colpo si videro due braccia nere batter l’aria e poi piombare giù e sparire. Si sentivano urli acuti. Due o tre paia di braccia cercarono di avvicinarsi agli scogli, agitandosi disperatamente. Poi uno di questi uomini cessò di battere l’acqua davanti a lui con il palmo delle mani, le sue braccia scomparvero sott’acqua. Anche egli cominciò ad urlare mentre il suo corpo veniva sbattuto in qua e in là nelle onde. Con la mente ancora offuscata Bond pensò : “I barracuda” (…) Era una grande testa massiccia con un velo di sangue che colava sulla faccia da una larga ferita nel cranio. Bond lo guardò arrivare. Il Grand’uomo stava lottando con il respiro ansante e i diguazzava tanto da attirare qualsiasi pesce che già non fosse occupato nel festino (…) La testa affiorante si avvicinava. Bond poteva vederne i denti che le labbra stirate in un rictus agonico lasciavano scoperti. Il sangue offuscava quegli occhi che Bond sapeva dovevano sporgere dall’orbita. Poteva con l’immaginazione sentire quasi quel grosso cuore malato che batteva affannosamente sotto la pelle grigiastra (…) Mister Big avanzava. Le spalle erano nude, gli abiti gli erano stati strappati dall’esplosione, ma aveva ancora la
cravatta di seta nera intorno al collo tozzo che gli galleggiava dietro alla testa come un codino di cinese. Una breve ondata gli tolse dagli occhi un po’ di sangue. Erano spalancati e fissavano Bond con una luce di pazzia. Non c’era nessuna invocazione di aiuto, erano fissi e folli. Ora era ad una decina di metri e Bond fissò i suoi occhi in quelli di lui, ma questi si chiusero di colpo mentre la grande faccia si contorceva in una smorfia di spasimo, “Aahhh,” rantolò la bocca distorta. Tutte e due le mani cessarono di batter l’acqua, la testa andò sotto e poi riemerse. Una nuvola di sangue oscurò l’acqua. Due ombre brune lunghe quattro o cinque metri sbucarono dalla nuvola di sangue e poi vi si immersero di nuovo. Il corpo nell’acqua si voltò su di un fianco. Metà del braccio destro del Grand’uomo affiorò sull’acqua. Era senza mano; senza polso, senza più orologio. Ma la grande immensa testa con la bocca spalancata che mostrava i denti candidi era ancora viva. Ed ora urlava. Un lungo animalesco urlo che veniva emesso ogni volta che un barracuda gli addentava il corpo (…) Poi la testa riapparve sull’acqua. Teneva la bocca chiusa. Gli occhi gialli sembrava guardassero ancora Bond. Il muso del pescecane affiorò di nuovo e si portò verso quella testa, le mandibole spalancate. Ci fu un orribile scricchiolio mentre richiudeva le mascelle e un gran agitarsi d’acque. E silenzio. 239
Capitolo
IX
Physica curiosa
1. Parti lunari e cadaveri sventrati
in alto D.C. Courcelles, Icones muscolorum capitis, 1743 a sinistra Lavinia Fontana, Ritratto di Antonietta Gonzales, 1594-95, olio su tela, Blois, Musée du Chateau de Blois
I mostri non scompaiono con le mirabilia medievali, ma tornano nel mondo moderno, salvo che lo fanno in altra forma e con altra funzione. Fin dal Medioevo, si era discusso della differenza tra due tipi di mostruosità che, astraendo da molte variabili terminologiche, potremmo caratterizzare come portenti e mostri. I portenti erano eventi prodigiosi e stupefacenti ma naturali (come le nascite di bambini ermafroditi o con due teste). Molti autori hanno cercato di spiegarne le cause (si pensi per esempio a un medico rinascimentale come Paré, che troveremo anche dopo), anche se è parso difficile non vederli (come avevano fatto gli antichi) quali segni premonitori di qualche evento fuori dall’ordinario – e in tal senso rimane celebre il Prodigiorum ac ostentorum chronicon di Conrad Lycosthenes (1557). In ogni caso, sin dai primi secoli medievali, si è sostenuto che i portenti non fossero da considerare contro natura (come se fossero sfuggiti al controllo divino) bensì, ed era l’opinione di Isidoro di Siviglia, contro la natura conosciuta. Nell’antichità e nel Medioevo i mostri veri e propri erano invece individui di razza non umana, nati regolarmente da genitori uguali a loro e (come si è visto nel capitolo IV) permessi o voluti da Dio come segni di un suo linguaggio allegorico. Ora, dal Rinascimento in avanti, con le esplorazioni che fanno conoscere altri continenti, abitati certamente da selvaggi e da animali stranissimi ma tutti importabili nelle corti europee, e non da mostri leggendari e mai realmente incontrati, il termine mostro, quando usato, indica individui portentosi, vuoi prodotti di parti anomali, vuoi animali inconsueti incontrati da esploratori e viaggiatori. 241
IX. PHYSICA CURIOSA
Il mostro di Ravenna Luca Landucci Diario Fiorentino (1512) A Ravenna era nato d’una donna un mostro, el quale venne qui disegnato; e aveva in su la testa un corno ritto in su che pareva una spada, e in iscambio di braccia avea due ali a modo di pipistrello, e dove sono le poppe, avea dal lato ritto un fio, e dall’altra aveva una croce, e più giù, nella cintola, due serpe, e dove è la natura era di femmina e di maschio; di femmina era di sopra nel corpo, e maschio di sotto; e nel ginocchio ritto avea un occhio, e ‘l piè manco aveva d’aquila. Lo vidi io dipinto, e chi lo volle vedere, in Firenze. Mostro in forma di monaco Ambroise Paré Des monstres et prodiges (1573) Rondelet, nel suo libro Sui pesci, scrive che nel mare della Norvegia fu visto un mostro marino al quale, quando fu preso, tutti diedero il nome “monaco”, in quanto così era. Mostro di Ravenna, Foglio sciolto, 1506 ca. München, Bayerische Staatsbibliothek Ein Blatt, VIII, 18
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L’atteggiamento verso queste creature non è più né di spavento né di decifrazione del loro significato mistico, bensì di curiosità scientifica, o almeno pre-scientifica, e si è scelto come titolo di questo capitolo Physica curiosa perché così s’intitolava un’opera monumentale (milleseicento pagine con decine e decine di incisioni) pubblicata dal gesuita Caspar Schott nel 1662, dove si descrivono tutte le mostruosità naturali note all’epoca. Si tratta di animali esotici come l’elefante o la giraffa, di scherzi di natura e di esseri che ai marinai o ai viaggiatori che li vedevano di lontano (sovrapponendovi il ricordo di racconti sui mostri leggendari) apparivano simili ai mostri dei bestiari, così che accadeva di scambiare un normale dugongo con un essere sirenoide. D’altra parte, in testi consimili, molte volte il miniatore o l’incisore interpretavano alla lettera i nomi, già di per sé fantasiosi, dati da Plinio o altri, per cui la foca (vitulus marinus) diventava una sorta di vitello pesciforme, il crostaceo (mus marinus) un topo con pinne, il polipo un pesce con le gambe, lo struzzo (struthiocamelus) un cammello alato. Tra i molti libri sui mostri citeremo Des monstres et prodiges di Ambroise Paré (1573), la Monstrorum historia di Ulisse Aldrovandi (1642) e il De monstris di Fortunio Liceti (la cui prima edizione è del 1616). Ma Aldrovandi in ben undici volumi si era occupato di zoologia in generale e così avevano fatto altri autori.
1. PARTI LUNARI E CADAVERI SVENTRATI
Ulisse Aldrovandi, Monstrum foemina, in Monstrum Historia, 1658, Bologna, Ferroni Ambroise Paré, Opera chirurgica, 1594, Francoforte, Feyerabend
Pur indulgendo alla rappresentazione di esseri mostruosi, hanno dato così contributi fondamentali allo sviluppo delle scienze biologiche la Historia animalium di Conrad Gessner (1551-1558), o la Historia naturalis di Jan Jonston (1653), per citarne solo due. L’interesse per le cose straordinarie faceva nascere nello stesso periodo le Wunderkammern, ovvero le camere delle meraviglie, antesignane dei nostri musei di scienze naturali, dove, tuttavia, più che cercare di raccogliere sistematicamente tutto ciò che si deve conoscere, si tendeva a collezionare ciò che suonasse straordinario e inaudito, compresi oggetti bizzarri, o reperti stupefacenti come un corno d’unicorno (anche se si trattava poi di un corno di narvalo) o un coccodrillo impagliato. In molte di queste raccolte, come per esempio quella di Pietro il Grande a San Pietroburgo, si conservano feti mostruosi accuratamente tenuti sotto spirito. Talora la scoperta di un parto anomalo provocava reazioni a catena, come è accaduto col Mostro di Ravenna che, probabilmente nato a Firenze nel 1506, dopo la prima notizia datane dal Landucci nel 1512, ha generato una serie di riprese iconografiche, diventando sempre più simile ai mostri di un tempo della leggenda. Di meraviglie analoghe si occuperanno autori come Paré, che abbiamo già citato, Montaigne, Lemnio e altri, e in tutti questi casi pare che lo spettacolo della deformità non venga sentito come disgustoso, ma come intellettualmente eccitante. 243
IX. PHYSICA CURIOSA
Ulisse Aldrovandi, Monstro tribus capitis, in Monstrorum Historia, 1698, Bologna, Ferroni Creature monstrueuse engendrée de parens honnorables, da Pierre Boaistuau, Storie Prodigiose, XVI sec. Ms. francese 136, f. 29 v, Londra, Wellcome Library
a fronte Edvard Munch, Eredità I, 1897-99, Oslo, Munch Museet
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Origine dei mostri Ambroise Paré Des monstres et prodiges (1573) Esistono svariate cause che danno origine ai mostri. La prima è la gloria di Dio. La seconda è la sua ira. La terza, una sovrabbondanza di seme. La quarta, una quantità insufficiente di esso. La quinta, l’immaginazione. La sesta, l’ipotrofia, ovvero le dimensioni ridotte dell’utero. La settima, il modo scorretto in cui sta seduta la madre, per esempio quando, incinta, resta troppo tempo a sedere con le gambe accavallate o raccolte contro il ventre. L’ottava, a causa di una caduta o per colpi inferti sul ventre della donna incinta. La nona, malattie ereditarie o accidentali. La decima, la putrefazione o corruzione del seme. L’undicesima, la commistione o mescolanza di seme. La dodicesima, l’inganno di cattivi pezzenti. La tredicesima sono i demoni o diavoli. Di un fanciullo mostruoso Michel de Montaigne Saggi, II, 30 (1595) Ho visto l’altro ieri un fanciullo che due uomini e una nutrice, che dicevano essere il padre, lo zio e la zia, portavano con sé per ricavar qualche soldo dal metterlo in mostra, a causa della sua stranezza. Era in tutto il resto di aspetto normale e si reggeva sui propri piedi, camminava e cinguettava pressappoco come gli altri della stessa età; non aveva ancora voluto prendere altro nutrimento che dalla mammella della sua nutrice; e quello che in mia presenza
cercarono di mettergli in bocca, lo masticava un po’ e lo restituiva senza inghiottirlo; le sue grida sembravano certo aver qualcosa di particolare; aveva quattordici mesi precisi. Sotto alle mammelle era congiunto e attaccato a un altro bambino senza testa, che aveva il canale della schiena turato, e il resto a posto; aveva, in realtà, un braccio più corto, ma gli era stato rotto per accidente alla loro nascita; essi erano attaccati faccia a faccia, e come se un bambino più piccolo volesse abbracciare uno più grandicello. La giuntura e il tratto per cui erano uniti, era di sole quattro dita circa, sicché se tiravate indietro questo ragazzo imperfetto, vedevate al di sotto l’ombelico dell’altro; così la saldatura era fra le mammelle e l’ombelico. L’ombelico di quello imperfetto non si poteva vedere, ma si vedeva tutto il resto del suo ventre. Tutto quello che non era attaccato, cioè braccia, natiche, cosce e gambe di quello imperfetto, rimaneva ciondoloni e penzoloni sull’altro, e quanto alla lunghezza, poteva arrivargli fino a mezza gamba. La nutrice disse che orinava da ambedue le parti; le membra dell’altro erano nutrite e viventi, sviluppate come le sue, salvo che erano più piccole e minute. (…) Quelli che noi chiamiamo mostri, non lo sono per Dio, che vede nell’immensità della sua opera l’infinità delle forme che vi ha compreso; e c’è da credere che la forma che ci stupisce abbia un rapporto e una relazione con qualche altra forma dello stesso genere sconosciuta all’uomo
1. PARTI LUNARI E CADVERI SVENTRATI
IX. PHYSICA CURIOSA
Ambroise Paré, Des monstres et prodiges, 1573, Paris
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Con dodici zampe Ambroise Paré Des monstres et prodiges (1573) Ho ripreso dalla Storia africana di Leone Africano questo animale assai mostruoso di forma rotonda, simile alla tartaruga; sulla sua schiena vi sono due linee che s’incrociano ad angolo retto, a forma di croce e all’estremità di ogni linea vi è un occhio e un orecchio, cosicché questi animali vedono e odono in quattro direzioni e in ogni lato con i loro quattro occhi e le quattro orecchie; peraltro hanno una bocca sola e un solo stomaco, dove quello che bevono e mangiano scende. Queste bestie hanno più piedi attorno al corpo tramite i quali possono camminare in qualsiasi direzione vogliano senza girare il corpo; la loro coda è molto lunga e la sua punta ha un pelo molto folto. Gli abitanti di quel paese affermano che il sangue di questi animali ha lo straordinario potere di marginare e
cicatrizzare le ferite e che non esiste nessun balsamo che ha il potere di farlo meglio. Ma quale persona non si meraviglierà grandemente contemplando questo animale con tanti occhi, orecchie e piedi e [vedendo] che ciascuno di essi adempie al proprio dovere? Dove possono essere gli strumenti dedicati a tali operazioni? Per ciò che mi riguarda, a dire la verità, io ho perso la ragione e non posso dire altro, se non che la Natura l’ha fatto per gioco per fare ammirare la grandezza delle proprie opere.
1. PARTI LUNARI E CADAVERI SVENTRATI
Bambino idrocefalo, incisione, s.d., fine del XVIII sec.
Il parto lunare Levinio Lemnio De gli occulti miracoli (XVI sec.) Simile a questo [l’aborto] è un altro flusso che viene alle donne con molte e grandissime storsioni e dolori di corpo, nel quale vengon fuori molte carnosità senza forma, il quale si chiama parto lunare, peroché nella quarta luna, la donna viene a ingravidare, nel qual tempo il corso del sangue in loro è grandissimo. Questo mostruoso e brutto concetto suol qualche volta farsi senza l’aiuto dell’uomo, e solamente viene a certe donne molto libidinose, per una forte e fissa immaginazione, nelle quali, solamente per guardar fissamente o per toccar un uomo, si mescola il seme col suo mestruo e si fa un pezzo di carne che pare… un animale vivo (…) A questi anni passati io medicai una donna, la quale era stata ingravidata da un marinaio…; essendo poi passato lo spazio di nove mesi…, chiamata
l’allevatrice, prima mandò fuori con grandissima fatica una massa di carne senza forma alcuna, la quale credo io che si generasse dopo il legittimo congiungimento. Solamente aveva di qua e di là due pezzi di carne lunghe a guisa di braccia e, palpitando, mostrava che in lei era un non so che di vita, non altrimenti che si voglia vedere nelle ortiche e nelle spugne marine di cui si vede la state gran copia andare a galla, e massimamente nel Oceano… Dopo questo pezzo di carne ella partorì un mostro ch’aveva il collo lungo e tondo, il muso torto ed adunco, gli occhi spaventevoli e lucidi, la coda aguzza e i piedi velocissimi. Come questo mostro uscì fuori e vide la luce, subito cominciò a stridere, e mandando fuori orribilissime voci cercava quivi per camera, correndo di qua e di là di nascondersi. Ma le donne ch’erano quivi presenti, pigliando i guanciali e gittandogline addosso l’affogorno. 247
IX. PHYSICA CURIOSA
da Fortunio Liceti, De monstris, 1668 Pavia, Frambotti
Caspar Schott, Physica curiosa, 1662 Ulisse Aldrovandi, Monstrum marinum rudimenta habitus episcopi referens, in Monstrorum Historia, 1698, Bologna, Ferroni
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1. PARTI LUNARI E CADAVERI SVENTRATI
Ulisse Aldrovandi, Monstrum marinum humana facie in Monstrorum Historia, 1698, Bologna, Ferroni
In questi stessi secoli la cultura ha preso confidenza con l’interno del corpo umano. Se i primi esperimenti anatomici erano già iniziati nel XIV secolo con Mondino de’ Liuzzi, è solo dal Rinascimento in avanti, e massime con il De humani corporis fabrica di Vesalio, dotato di splendide e agghiaccianti immagini di esseri scorticati, ridotti a scheletro o a mero reticolo di nervi e di vene, che l’arte si rivolge ai corpi sezionati negli anfiteatri, e una allucinante mostra di organi interni trionfa in modo iperrealistico nei musei di cere anatomiche. Qui si riproduce con indubbio compiacimento quella facies hippocratica che annuncia il trapasso sul volto del morente, ma ora la smorfia dell’agonizzante eccita pittori e scultori, così come i lineamenti devastati di malati incurabili. C’è un brano di Schlegel (Sullo studio della poesia greca, 1797) in cui si suggerisce che questa nuova attenzione per gli aspetti meno gradevoli del corpo umano sia in qualche modo vicina allo stile di Shakespeare: “Come in natura Shakespeare genera il bello e il brutto senza separarli e con la medesima esuberante ricchezza; nessuno dei suoi drammi è mai interamente bello, e mai la bellezza è il criterio che determina la struttura dell’insieme. Come in natura, solo raramente le singole bellezze sono libere da scorie impure (…) Shakespeare scarnifica i suoi oggetti e scava col ferro del chirurgo nella disgustosa putrescenza dei cadaveri morali”. 249
IX. PHYSICA CURIOSA
Clemente Susini, Statua di giovane donna scomponibile con rappresentati gli apparati cardiorespiratorio, digerente e urogenitale (Venerina), fine XVILI sec., Bologna, Istituto di Anatomia Umana a fronte Gérard David, Lo scorticamento di Sisamnes, 1498, Bruges, Groeninge Museum
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La facies hippocratica Ippocrate Prognostici, 2 (IV sec. a.C.) Nelle malattie acute occorre condurre l’indagine in questo modo: in primo luogo osservare il viso del malato se è simile a quello dei sani, ma soprattutto se è simile a sé stesso in condizioni normali, ché questo sarebbe il caso migliore, tanto più grave invece quanto più è dissimile. In quest’ultimo caso si presenterebbe così: naso affilato, occhi cavi, tempie infossate, orecchie fredde e contratte e con i lobi rivolti in fuori, la pelle del viso rigida e tesa e secca, il colore del viso tutto giallastro o nero. Se dunque all’inizio della malattia il viso si presenta in tal modo e non è ancora possibile formulare congetture sulla base degli altri sintomi, occorre chiedere al malato se ha trascorso notti insonni, se ha avuto evacuazioni molto liquide, o se avverte i morsi della fame. E se risponde affermativamente a taluno di questi quesiti, meno grave si considererà il male: vengono a crisi questi stati entro un giorno e una notte, se per tali ragioni il viso era così alterato. Ma se egli
non conferma nessuna di esse, e se non si riprende nel tempo predetto, sappi che questo è sintomo mortale. Se poi, pur durando la malattia da più di tre giorni, il viso presenta lo stesso aspetto, si pongano gli stessi quesiti che già prima ho stabilito, e s’indaghino gli altri sintomi, e quelli del corpo tutto e quelli degli occhi: se infatti rifuggono dallo splendore della luce, o lacrimano involontariamente, o si distorcono, o l’uno diviene più piccolo dell’altro, se hanno il bianco arrossato e livido o vi compaiono venuzze nere e catarri attorno alla pupilla, se sono irrequieti o sporgenti o troppo infossati, se il colore del viso intero trasmuta, tutti questi segni van considerati negativi e funesti. Anche occorre osservare la parte dell’occhio visibile nel sonno: se fra le palpebre chiuse s’intravvede una zona del bianco, e non ne è causa una diarrea o un purgante né l’abitudine del malato a dormir così, sfavorevole è il sintomo e del tutto mortale. Se poi, insieme con qualcuno degli altri sintomi, le palpebre o le labbra o il naso s’incurvano o s’illividiscono, bisogna sapere che il malato è prossimo a morte.
2. Cin cin
Rembrandt, La lezione di anatomia di Nicolaes Tulp, 1632, Mauritshuis, L’Aia Andrea Vesalio, De humani corporis fabrica, 1568, Venezia, Criegher a fronte William Hogarth, La ricompensa della crudeltà, da Le quattro fasi della crudeltà, tavola IV, 1799, Parigi, Musée d’histoire de la Médeciné pagine seguenti Gaetano Zumbo, La Peste, 1691-1694, Firenze, Museo della Specola
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L’autopsia Charles Baudelaire Hogarth (1861) Una delle più strane [incisioni] è indubbiamente quella che ci mostra un cadavere appiattito. rigido, allungato sulla tavola anatomica. Sopra una puleggia. o un meccanismo consimile fissato al soffitto, si addipanano le viscere del morto libertino. Questo morto è orribile. e nulla può fare un contrasto più strano col suo cadavere. cadaverico quanti altri mai. che gli alti. lunghi, magri o tondeggianti volti di tutti quei dottori britannici. oppressi dalle loro mostruose parrucche a riccioli. In un angolo un cane ficca avidamente il muso in un secchia e vi ruba qualche frammento umano. Hogarth. il funerale della comicità! Preferirei dire la comicità del funerale. Quel cane antropofago mi ha fatto sempre pensare al maiale storico che si ubriacava impunemente col sangue del disgraziato Fualdès, mentre un organetto eseguiva. per così dire. la messa funebre dell’agonizzante.
1. DAL SATANA RIBELLE AL POVERO MEFISTOFELE
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IX. PHYSICA CURIOSA
2. Cin cin
Joseph Adams, Observations on morbid poisons, Chronic and acute…the first comprehending syphilis, yarus, sivvens, elephantiasis, 1803, London, Callow
La sifilide Karl Rosenkranz Estetica del brutto (1853) La malattia è sempre causa di brutto quando comporta lo sformarsi di ossa, scheletro e muscoli, come il tumefarsi delle ossa nella sifilide, nelle devastazioni cancrenose. Lo è sempre quando tinge la pelle come nell’itterizia, quando copre la pelle di exantemi come nella scarlattina, nella peste, in certe forme di sifilide, nella lebbra, nell’erpete, nel tracoma. Le deformità più orrende le arreca senza dubbio la sifilide perché non causa solo eruzioni cutanee nauseanti, ma anche piaghe putrescenti e devastazioni ossee. Exantemi e ascessi sono assimilabili al vermicello della sabbia, che scava i suoi canali sotto la pelle; sono, in certa misura, individui parassitarí, la cui esistenza contraddice alla natura dell’organismo come unità e in cui esso si disintegra. La vista di una simile contraddizione è dunque oltremodo brutta. La malattia è in generale causa di brutto quando modifica 256
in modo abnorme la forma: è anche il caso dell’idropisia, della timpanite e simili. Ma non lo è quando – nella cachessia, nell’etisia, negli stati febbrili – dà all’organismo quella tinta trascendente che lo fa apparire etereo. Lo smagrimento, lo sguardo bruciante, le guance pallide o arrossate dalla febbre del malato possono far intuire in modo anche più immediato l’essenza dello spirito. Allora lo spirito è come già separato dall’organismo. Lo abita ancora, ma solo per renderlo puro segno. Il corpo nella sua trasparente “morbidezza” non ha già più significato per sé, è in tutto e per tutto espressione soltanto dello spirito che se ne va via da lui, indipendente dalla natura. Che spettacolo veramente luminoso offrono una fanciulla o un giovinetto sul letto di morte, vittime dell’etisia: niente del genere è possibile tra gli animali. Per gli stessi motivi, non è affatto detto che la morte produca sempre un imbruttimento dei tratti del volto: può anche lasciare dietro di sé un’espressione bella, beata.
2. LA FISIOGNOMICA
2. La fisiognomica
Un capitolo importante per una storia del brutto è dato dalle vicende della fisiognomica, pseudo scienza che associava tratti del volto (e forma di altri organi) a carattere e disposizioni morali. Già Aristotele (Analitici Primi, II, 70b), ricordando che le grandi estremità sono il segno esterno del coraggio del leone, concludeva che pertanto un uomo con un paio di piedi grandi non potesse essere che coraggioso. Nel Rinascimento Barthélemy Coclès (Physiognomonia, 1533), disegnava fronti di uomini irascibili, crudeli e cupidi, e addirittura rappresentava la barba tipica di un individuo brutale e dominatore; Giovanni di Indagine (Chiromanzia, 1549) mostrava come gli uomini crudeli avessero denti sporgenti e come dagli occhi si riconoscessero individui lussuriosi, traditori e mentitori. Giovan Battista Della Porta, in De humana physiognomia (1586), compara i volti di vari animali con volti umani, lasciandoci affascinanti immagini di uomo-pecora, uomo-leone, o uomo-asino, partendo dalla persuasione filosofica che la potenza divina manifestasse la sua saggezza regolatrice anche nei tratti fisici, stabilendo analogie tra mondo umano e mondo animale. E, convinto che esistessero sottili armonie tra corpo e anima, e che la virtù abbellisse mentre il vizio deformava, Johann Kaspar Lavater (Physiognomische Fragmente, 1775-1778) esaminava anche le fattezze di personaggi storici.
Bouches d’hommes audacieux, téméraires, impudiques et menteurs, gravé par le Petit Bernard. Jean d’Indagine, Chiromante, 1549, Lyon
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IX. PHYSICA CURIOSA
2. Cin cin
I temperamenti e l’anima Giovan Battista Della Porta Della fisionomia dell’uomo, I, 6 (1610) I segni della complessione fredda sono l’esser senza peli, grassi, e fredda la carne a coloro che la toccano; la carne et i peli rossi; e quando sono molto freddi, un color livido; alcuni lo chiamano pallido. In altro luogo: le vene strette, gli occhi bianchicci. Altri vi aggiungono che crescono tardamente; il respirar tardo et occulto; la voce ferma et acuta; debili al corso; poco mangiano…I capelli distesi, lunghi, sottili e deboli (…) I segni dell’umido temperamento: il corpo pien di carne, molle, liscio, le giunture occulte; che dormono poco; le parti che sogliono esser pelose, di pochi peli; gli occhi che subito piangono; i capelli di color biondo. Altrove: gli occhi bianchicci; di natura deboli; le giunture e fossa nascoste; di poca forza, che non soffriscono fatica, per che subito divengono lassi; corpolenti, deboli, senza peli; e che dormono molto. 258
Capo aguzzo Giovan Battista Della Porta Della fisionomia dell’uomo, II, 1 (1610) Polemone et Adamanzio, nella figura del stolto insensato, gli dànno il capo stretto et aguzzo. E coloro che hanno il capo aguzzo sono senza vergogna. Alberto assai barbaramente: il capo troppo disonestamente lungo è segno di sfacciatezza, e nella parte dinanzi insolenza. E s’è lecito rassomigliarlo ad alcuno animale, si rassomiglia agli uccelli di unghie curve. Ma io stimo che questi uccelli di unghie curve sieno i corvi e le quaglie, i quali hanno la testa aguzza e sono sfacciatissimi. Fronte rotonda alta Giovan Battista Della Porta Della fisionomia dell’uomo, , II, 2 (1610) Quelli che hanno la fronte rotonda alta sono stupidi, per esser rassomigliati all’ingegno dell’Asino, come dice Aristotele nella sua Fisonomia. Onde se alcuno guarderà la fronte asinina la vedrà alta, rotonda e gibbosa (…) E nella figura
dell’ignorante gli attribuisce non ritonda fronte soltanto, ma grande e carnosa. Polemone et Adamanzio, eccellentissimi Fisonomi, acciò qui alcuno non s’ingannasse, hanno usato molte parole chiare: la fronte gibbosa, alta, rotonda dimostra stupidi et ignoranti uomini. E nella idea dello ignorante, gli dànno la fronte rotonda. Alberto: la fronte rotonda alta dà segno di stolidità. La labbra grosse Giovan Battista Della Porta Della fisionomia dell’uomo, , II, 12 (1610) Le labra grosse dimostrano stoltizia, come scrisse Aristotele ad Alessandro. Polemone nel fin del libro: le labra grandi dimostrano ignoranza. Il Conciliatore: le labra grandi fan stolto et ignorante. Da queste labra furon detti i Labioni e Chiloni. Esopo ebbe le labbra grosse et eminenti, come disse il Planude. Quei ch’han le labbra grosse (…) sono giudicati ignoranti, perché così sono quelli dell’Asino, della Simia. Agli Asini et alle Simie infatti le labbra di sotto sono più sporte di quelle di sovra.
1. DAL SATANA RIBELLE AL POVERO MEFISTOFELE
Agostino Carracci, Arrigo Peloso, Pietro Matto e Amor Nano, 1598-1600, Napoli, Museo di Capodimonte a fronte Giovan Battista Della Porta, De humana physiognomonia, 1586, Vico Equense, Cacchio
In quello stesso volgere di secolo appare la frenologia di Franz Joseph Gall: tutte le facoltà mentali, gli istinti e i sentimenti hanno la loro rappresentazione sulla superficie del cervello, e per esempio coloro che hanno spiccate qualità mnemoniche hanno il cranio rotondo con occhi a fior di testa e distanti l’uno dall’altro. Gall a modo proprio anticipava la ricerca sulle localizzazioni cerebrali, ma andando alla ricerca di bozze craniche che avrebbero espresso il prevalere dell’una o dell’altra facoltà. Accusato di materialismo, intorno alla sua proposta nacquero dispute scientifiche e filosofiche, ed Hegel, nella Fenomenologia dello spirito (1807), osservava sarcasticamente: “la frenologia naturale non pensa soltanto che un uomo accorto debba avere dietro gli orecchi una protuberanza grossa come un pugno, ma anche che la moglie infedele debba avere, non proprio in se stessa, ma nel suo legittimo consorte, delle protuberanze frontali”. Hegel ammetteva che la conformazione del cranio al massimo stabilisse una predisposizione iniziale, ma negava che potesse prevalere sull’attività spirituale, sola forza attiva capace di determinare il cervello in cui ha sede. Sia Gall che Hegel esageravano nel sostenere unilateralmente le proprie posizioni, ma bisogna riconoscere a Hegel il merito di aver intuito che, a prendere troppo sul serio i tratti fisiognomici, si poteva giungere a marchiare irrimediabilmente un individuo o una razza. 259
IX. PHYSICA CURIOSA
Immagine tratta da Gaspar Lavater, L’art de connaitre les hommes par la physionomie, tom. IX, 1735, Paris, Depelafol
Il reo-nato. Cesare Lombroso L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alla psichiatria, III, 1(1876) Molti dei caratteri che presentano gli uomini selvaggi, le razze colorate, rincorrono spessissimo nei delinquenti nati. Tali sarebbero, p. es., la scarsezza dei peli, la poca capacità cranica, la fronte sfuggente, i seni frontali molto sviluppati, la frequenza maggiore dell’ossa wormiane, specie epactali, le sinostosi precoci, specialmente frontali, la salienza della linea arcuata del temporale, la semplicità delle suture, lo spessore maggiore dell’ossa craniche, lo sviluppo enorme delle mandibole e degli zigomi, il prognatismo, l’obliquità delle orbite, la pelle più scura, il più folto ed arricciato capillizio, le orecchie voluminose; si aggiungano l’appendice lemuriana, le anomalie dell’orecchio,
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l’aumento di volume delle ossa facciali, il diastema dentario, la grande agilità, l’ottusità tattile e dolorifica, la buona acuità visiva, la disvulnerabilità, l’ottusità degli affetti, la precocità ai piaceri venerei e al vino e la passione esagerata per essi, la maggiore analogia dei due sessi (…), la minore correggibilità nella donna (Spencer), la poca sensibilità dolorifica, la completa insensibilità morale, l’accidia, la mancanza di ogni rimorso, l’impulsività, l’eccitabilità fisico-psichica e sopratutto l’imprevidenza, che sembra alle volte coraggio, e il coraggio che si alterna alla viltà, la grande vanità, la passione del giuoco, degli alcoolici o dei loro surrogati, le passioni tanto fugaci quanto violente, la facile superstizione, la suscettibilità esagerata del proprio io e perfino il concetto relativo della divinità e della morale.
2. LA FISIOGNOMICA
Diversi tipi di criminale, in Cesare Lombroso L'uomo delinquente, 1876, Torino, F.lli Bocca
Tuttavia nell’Ottocento positivista, nel campo dell’antropologia criminale, trionfano le posizioni di Cesare Lombroso, che nell’Uomo delinquente cercava di dimostrare come i tratti della personalità criminale fossero sempre associati ad anomalie somatiche. Lombroso non arrivava alla semplificazione per cui chi è brutto è sempre delinquente, ma associava stigmate fisiche a stigmate morali, con argomenti che si volevano scientifici. Facile, almeno nella divulgazione popolare di queste teorie, non considerare abbastanza che molte tare fisiche si ritrovavano con maggior frequenza in ceti sociali oppressi da cattiva nutrizione e altre malattie, e che ovviamente è tra questi emarginati che si danno più di frequente comportamenti asociali. Di qui a incoraggiare il pregiudizio per cui “chi è brutto è cattivo per natura” il passo è breve. Per non dire del passo successivo, per cui diventano brutti e cattivi, anche nella letteratura popolare, tutti i reietti che la società non riesce a integrare e domare o non intende redimere – come già osservava Nietzsche a proposito di Socrate. Tali saranno i poveri, e si veda l’impietoso ritratto che stende De Amicis del piccolo sottoproletario Franti, gli omosessuali (vedi Foucault), i dementi e, segnate inesorabilmente dal loro vizio le prostitute 261
IX. PHYSICA CURIOSA
Hugh Welch Diamond, Ritratto di folle, 1852-53 ca., Parigi, Musée d’Orsay Thomas Couture, Il pazzo, XIX sec., Digione, Musée Magnin
La nascita dell’omosessuale. Michel Foucault La volontà di sapere, II, 2, 2 (1976) L’omosessuale del XIX secolo (…) è diventato un personaggio: un passato, una storia, ed un’infanzia, un carattere, una forma di vita; una morfologia anche, con un’anatomia indiscreta, e forse una fisiologia misteriosa. Nulla di quel ch’egli è complessivamente sfugge alla sua sessualità. Essa è presente in lui dappertutto: soggiacente a tutti i suoi comportamenti poiché ne è il principio insidioso ed indefinitamente attivo; iscritta senza pudore sul suo volto e sul suo corpo perché è un segreto che si tradisce sempre. Gli è consustanziale più come una natura particolare che come un peccato d’abitudine (…) L’omosessualità è apparsa come una delle figure della sessualità quando è stata ricondotta dalla pratica della sodomia ad una specie di androginia interiore, un ermafroditismo dell’anima. Il sodomita era un recidivo, l’omosessuale ormai è una specie Fisionomica nietzscheiana Friedrich Nietzsche “Il problema di Socrate”, in Crepuscolo degli idoli (1889) Per i suoi natali Socrate apparterrebbe al popolo minuto: Socrate era plebaglia. È
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noto, e lo si può vedere anche oggi, quanto egli fosse brutto (…) La bruttezza è abbastanza spesso l’espressione di uno sviluppo ibrido, ostacolato dall’incrocio. In altri casi essa appare come un’involuzione nello sviluppo. Gli antropologi che si interessano di criminologia ci dicono che il delinquente tipico è brutto: monstrum in fronte, monstrum in animo. Ma il delinquente è un décadent. Era Socrate un delinquente tipico? Per lo meno a ciò non contraddice quel famoso giudizio fisionomico che aveva un suono così urtante per gli amici di Socrate. Uno straniero che si intendeva di volti, allorché venne ad Atene, disse in faccia a Socrate che egli era un monstrum – che nascondeva in sé tutti i vizi e le bramosie peggiori. E Socrate si limitò a rispondere: “Lei mi conosce, signore!” È un indice della décadence in Socrate non soltanto la confessata sregolatezza e anarchia degli istinti; precisamente a essa rinvia anche la superfetazione della logica e quella malvagità da rachitico che lo caratterizza. Non dimentichiamo nemmeno quelle allucinazioni acustiche che sono state interpretate in senso religioso, come il “demone socratico”. Tutto in lui è esagerato, buffo, caricatura, tutto è al tempo stesso occulto, pieno di secondi fini, sotterraneo.
2. LA FISIOGNOMICA
Le ladre Karl Rosenkranz Estetica del brutto (1853) Nelle ladre si nota uno sguardo insicuro, che sfugge lateralmente, con un movimento che i francesi chiamano (dal latino fur) “fureter”. Quando si visitano grossi istituti carcerari e si entra nel capannone dove spesso sono riunite insieme a filare da sessanta a cento ladre si può percepire questo sguardo particolare dell’occhio malizioso e in agguato, caratteristico di quel genere di persone. La bruttezza diventa naturalmente ancora più grande quando si vuole il male in sé e per sé (...) Il traviamento occasionale del vizio può avere spesso un’espressione molto più spiacevole, cruda che il male per antonomasia, il quale nella sua negatività è, daccapo, un intero. Il vizio grossolano è evidente nella sua unilateralità; la profondità – o piuttosto la non profondità – del male assoluto penetra con la sua intensità l’abito e il volto in egual misura, e può esistere anche senza offrire occasione e materia particolari alla giustizia criminale.
I sodomiti da Dante Alighieri, La Divina Commedia, ms. 597, folio 114, 3 canto XV, 1328-1330, Chantilly, Musée Condé
La prostituta Francesco Mastriani I vermi (1896) Questa fanciulla riuniva nella sua persona tutti i caratteri fisici e morali che costituiscono il tipo della prostituta, caratteri che si verificano in 90 individui su 100 di questa disgraziata specie. Caratteri fisici - Abbiamo detto che ella era di giusta complessione. E qui è da notarsi che la pinguedine in queste sciagurate creature non si sviluppa (per lo più in quella classe che vive nell’agiatezza) che dall’età di venticinque a trent’anni (…)
La voce... Oh! Ecco ciò che tradisce la donna miseramente caduta nella prostituzione... Voi vedete una giovinetta dalle belle sembianze, su cui sembra leggersi l’angelico candore della verginità (…) Ebbene, sentitela a parlare. In un momento, il velo della illusione è caduto; il simulacro della verginità è sparito! Nella gentile e modesta fanciulla voi ritroverete la meretrice. La voce, la sola voce vi additerà a che genere di donne quella fanciulla appartiene. La raucedine della voce; ecco il carattere particolare di queste infelici. “Non è più, dice il succitato Duchatelet, quel metallo di voce che aggiunge tanto incanto a’ vezzi della donna: dalle loro bocche non escono che suoni rauchi e discordi che lacerano gli orecchi, e che un carrettiere potrebbe appena imitare”. Egli è vero che questo carattere si trova più frequentemente nelle donne delle infime classi; ma se in queste è più sviluppata ed evidente, non è meno notevole anche in quelle giovanette che l’aristocrazia del vizio colloca ne’ più splendidi e lussuosi casini (…) Occhi grigi. È questo il colore degli occhi che il più frequentemente si osserva in queste povere creature.
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IX. PHYSICA CURIOSA
2. Cin cin
Mattia, da Senza famiglia di Hector Malot, 1878 a fronte Medardo Rosso, Bambino malato, Dresda, Skulpturensammlung, Staatliche Kunstsammlungen
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Povero e cattivo Edmondo De Amicis Cuore (1886) (25 ottobre, martedì) È anche un tipo curioso il mio vicino di sinistra, – Stardi – piccolo e tozzo, senza collo, un grugnone che non parla con nessuno, e pare che capisca poco, ma sta attento al maestro senza batter palpebra, con la fronte corrugata e coi denti stretti: e se lo interrogano quando il maestro parla, la prima e la seconda volta non risponde, la terza volta tira un calcio. E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione (…) (21 gennaio, sabato) Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei funerali del Re, e Franti rise. Io detesto costui. È malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una partaccia al figlìuolo, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a Garrone, e picchia il muratorino perchè è piccolo; tormenta Crossi perché ha il braccio morto; schernisce Precossi, che tutti rispettano; burla perfino Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Ci ha qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino di tela cerata. Non teme nulla, ride in faccia al maestro, ruba quando può, nega con una faccia invetriata, è sempre in lite con qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare i vicini, si strappa i bottoni della giacchetta, e ne
strappa agli altri, e li gioca, e ha cartella, quaderni, libri, tutto sgualcito, stracciato, sporco, la riga dentellata, la penna mangiata, le unghie rose, i vestiti pieni di frittelle e di strappi che si fa nelle risse Dicono che sua madre è malata dagli affanni ch’egli le dà, e che suo padre lo cacciò di casa tre volte; sua madre viene ogni tanto a chiedere informazioni e se ne va sempre piangendo. Egli odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro. Il maestro finge qualche volta di non vedere le sue birbonate, ed egli fa peggio. Provò a pigliarlo con le buone, ed egli se ne fece beffa. Gli disse delle parole terribili, ed egli si coprì il viso con le mani, come se piangesse, e rideva. Tu sospeso dalla scuola per tre giorni, e tornò più tristo e più insolente di prima. Derossi gli disse un giorno: – Ma finiscila, vedi che il maestro ci soffre troppo, – ed egli lo minacciò di piantargli un chiodo nel ventre. Ma questa mattina, finalmente, si fece scacciare come un cane. Mentre il maestro dava a Garrone la brutta copia del Tamburino sardo, il racconto mensile di gennaio, da trascrivere, egli gittò sul pavimento un petardo che scoppiò facendo rintronar la scuola come una fucilata. Tutta la classe ebbe ,in riscossone. Il maestro balzò in piedi e gridò: – Franti! fuori di scuola! – Egli rispose: – Non son io! – Ma rideva. Il maestro ripetè : – Va’ fuori! – Non mi muovo, – rispose. Allora il maestro perdette i lumi, gli si slanciò addosso, lo afferrò per le braccia, lo strappò dal banco. Egli si dibatteva, digrignava i denti: si fece trascinar fuori di viva forza. Il maestro lo portò quasi di peso dal direttore.
1. DAL SATANA RIBELLE AL POVERO MEFISTOFELE
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IX. PHYSICA CURIOSA
Ammazzavano i bambini Geoffrey Chaucer I racconti di Canterbury, “Il racconto della Priora” (1532) Quando attraversava andando e tornando il quartiere degli Ebrei, tutti lo sentivano sempre cantare allegramente. O alma Redemptoris Mater. Ma quel serpe velenoso di Satana, il nostro primo nemico, che nel cuore dei Giudei ha nascosto il suo nido di vespe, si gonfiò di rabbia e disse: “O popolo d’Israele, è forse una cosa che ti fa onore, che un bambino abbia a passare a suo bell’agio in mezzo a voi cantando in questo modo, a dispetto vostro e contro le vostre leggi?” Allora gli Ebrei si misero d’accordo per fare sparire il piccolo innocente dal mondo, e assoldarono un assassino che abitava in un vicolo nascosto. Infatti il Giudeo maledetto, un giorno che il fanciullo passava di là, lo afferrò e tenutolo fermo, gli segò la gola, e lo buttò dentro un pozzo. Dico che lo gettarono in un cesso dove quegli Ebrei vuotano i loro visceri. O razza maledetta! O Erodi novelli! Quale sarà il frutto del vostro malvagio talento? L’assassinio non si nasconde di certo, senza fallo e veramente la gloria di Dio si diffonderà: il sangue grida sul vostro capo vendetta (…)
Quella gemma di purezza, quello smeraldo prezioso, quel rubino fiammeggiante del martirio, era laggiù supino, e con la gola segata si mise a cantare, come prima, Alma Redemptoris Mater, così alto che ne risonò tutto il quartiere. I Cristiani che passavano per la via corsero subito curiosi di vedere che cosa fosse; e veduto il pietoso caso, mandarono in fretta a chiamare il capo della città. Il quale non tardò ad accorrere, e dopo aver lodato Cristo re del cielo, e la madre sua, gloria del genere umano, fece legare i Giudei. Il fanciullo su tirato tra pietosi lamenti seguitava a cantare la sua preghiera. Poi lo portarono in processione alla badia più vicina, e la misera madre cadde priva di sensi accanto alla bara. I Giudei che erano stati complici dell’assassinio del fanciullo, furono messi tutti a morte, in mezzo ai tormenti e all’infamia, poiché il governatore non volle avere compassione di gente tanto iniqua. Chi si merita male, male deve avere: così egli dopo averli fatti trascinare da cavalli selvaggi, li fece impiccare, come stabilivano le leggi. Sulla bara giaceva il piccolo innocente, davanti all’altare maggiore mentre veniva celebrata una messa.
Ma dove l’identificazione tra bruttezza e malvagità ha raggiunto picchi inconcepibili è stato, nel corso dei secoli, nell’analisi dei tratti dell’ebreo. Non è in questa sede che si può tracciare una storia dell’antisemitismo – dalle prime condanne cristiane dei “perfidi giudei” all’antisemitismo popolare che va dai pogrom medievali durante le Crociate a quelli moderni nei paesi slavi. Esso è iniziato per impulso di un “antigiudaismo” di carattere religioso, e non solo da parte della Chiesa di Roma, perché anche Lutero (in Degli ebrei e delle loro menzogne del 1543) era stato spietato nei confronti degli ebrei, che pure negli anni precedenti aveva sperato di convertire in massa al protestantesimo; ma l’antigiudaismo religioso si è gradatamente fuso con un antisemitismo di carattere etnico nei confronti degli ebrei installatisi in Europa dopo la diaspora e, ancor più, dopo che erano stati espulsi dalla Spagna, quando ne erano stati cacciati i Mori nel 1492. Benché si ritenga comunemente che questo antisemitismo nascesse dal contatto con una etnia che conservava la propria identità e si esprimeva in una lingua ignota, in realtà esso si basava in gran parte su stereotipi tradizionali. Si vedano infatti testi antisemiti come la storia della Priora nei Racconti di Canterbury di Chaucer, L’ebreo di Malta di Marlowe, o il Mercante di Venezia di Shakespeare. 266
2. LA FISIOGNOMICA
Gino Boccasile, Cartolina antisemita di propaganda fascista, 1943-1944
È stato ricordato che gli ebrei erano stati espulsi dall’Inghilterra nel 1290 (e riammessi solo nel XVII secolo da Cromwell) per cui i tre autori inglesi citati – e molti altri come loro - non avevano mai potuto conoscere un ebreo. L’immagine dell’ebreo si era diffusa pertanto come puro stereotipo e come tale la ritroveremo persino nei testi di un autore “illuminato” quale l’abate Grégoire, e nel romanzo ottocentesco Oliver Twist di Dickens, con Fagin. Ma ben più feroce è stato (nel XIX e XX secolo) l’antisemitismo basato sul concetto, che si voleva “scientifico”, di razza. Si leggano nell’ordine i testi di Wagner (è stata avanzata l’ipotesi che sullo stereotipo dell’ebreo sia concepito anche il malvagio nano Mime nella Tetralogia, che con tratti ebraici è stato rappresentato da illustratori come Rackham), di Hitler, di Céline, della rivista fascista La difesa della razza, per vedere come, nell’astiosità viscerale con cui si enunciano le caratteristiche di questo Nemico, si manifestano indubbie tare psicologiche e complessi irrisolti da parte di chi lo descrive. Il volto, la voce, i gesti del “brutto” ebreo diventano (e questa volta sul serio) segni inequivocabili della deformità morale dell’antisemita. Capovolgendo un detto di Brecht, l’odio per 267
IX. PHYSICA CURIOSA
L’ebreo degli illuministi Baptiste-Henri Grégoire Essai sur la régénération physique, morale et politique des Juifs (1788) In genere hanno il volto livido, il naso adunco, gli occhi infossati, il mento sporgente e i muscoli costrittori della bocca fortemente pronunciati (…) Inoltre gli ebrei sono soggetti a malattie che indicano corruzione del sangue, come una volta la lebbra e oggi lo scorbuto, che le è affine, le scrofole, i flussi di sangue (…) Si dice che gli ebrei esalino sempre un cattivo odore (…) Altri attribuiscono questi effetti all’uso frequente di verdure dall’odore penetrante come cipolla e aglio, e c’è anche chi parla anche della carne di montone. Altri ancora dicono che è la carne d’oca, che essi amano molto, a renderli lividi e atrabiliari, dato che questo cibo abbonda di zuccheri grossolani e vischiosi. L’ebreo di Wagner Richard Wagner L’ebraismo nella musica (1850) Nell’aspetto esterno dell’ebreo si trova qualcosa di straniero che ripugna sopra ogni altra cosa a questa nazionalità; con un uomo che ha un aspetto come quello non si vuole avere nulla in comune (...) Ci è impossibile immaginare che un personaggio dell’antichità o dei tempi moderni, eroe o amoroso, sia rappresentato da un ebreo senza sentirci involontariamente colpiti da quanto vi è di sconveniente, anzi, di ridicolo in una rappresentazione del genere (…) L’uomo la cui comparsa, non sotto le vesti del tale piuttosto che del talaltro personaggio, ma unicamente a causa della sua razza, ci sembra incongrua in una rappresentazione artistica, deve altresì venir riconosciuto incapace di produrre una qualsiasi opera d’arte che abbia la propria origine nella natura stessa dell’uomo (…) Ma la cosa che più ci ripugna è il particolare accento che caratterizza il parlare degli ebrei (…) Le nostre orecchie sono particolarmente urtate dai suoni acuti, sibilanti, stridenti di questo idioma. Gli ebrei usano le parole e la costruzione della frase in modo contrario allo spirito della nostra lingua nazionale (…) Ascoltandoli, noi, senza volerlo, prestiamo più attenzione al loro modo di parlare che a quello che dicono. Questo punto 268
è della maggior importanza per spiegare l’impressione prodotta soprattutto dalle opere musicali degli ebrei. Ascoltando l’ebreo che parla, noi siamo nostro malgrado urtati dal fatto di trovare il suo discorso privo di ogni espressione veramente umana (…) È naturale che la congenita aridità dell’indole ebraica che ci è tanto antipatica trovi la sua massima espressione nel canto, che è la più vivace, la più autentica manifestazione del sentimento individuale. All’ebreo si potrebbe riconoscere attitudine artistica per qualsiasi altra arte piuttosto che per quella del canto, che sembra essergli negata dalla natura stessa. L’ebreo di Hitler Adolf Hitler Mein Kampf, 2,2 (1925) Nei giovani l’abbigliamento deve essere posto al servizio dell’educazione. Il giovane che d’estate va in giro con lunghi calzoni, avviluppato negli abiti fino al collo, perde già nel suo vestire un impulso all’educazione fisica (…) La fanciulla deve imparare a conoscere il suo cavaliere. Se oggi la perfezione corporea non fosse respinta in seconda linea dalla nostra moda trascurata, non sarebbe possibile che centinaia di migliaia di ragazze fossero sedotti da ripugnanti bastardi ebrei dalle gambe storte. L’ebreo di Céline Louis-Ferdinand Céline Bagatelle per un massacro (1937) Basta guardare un poco più da vicino, qualche bel ceffo di giudeo tipico, uomo o donna (…) Quegli occhi che spiano, così falsi da farti illividire... quel sorriso stampato sul viso… quelle labbra da iena rialzate sui denti... E poi, di colpo, quello sguardo che si lascia andare, pesante, infetto, abbrutito… il sangue del negro che passa… Quelle commessure nasolabiali sempre inquiete… flessuose, segnate da rughe, difensive, scavate dall’odio e dal disgusto… per voi!... per voi l’abbietto animale di razza nemica e maledetta da distruggere… Il loro naso, il loro beccaccio da tucano imbroglione, da traditore, da fellone, quel naso alla Stavisky, alla Barmat, alla Tafari… fatto per le combinazioni più losche, per ogni tradimento, come un membro che s’infila nella fessura schifosa della bocca, quella
2. LA FISIOGNOMICA
Josef Fenneker, Pogrom, poster, 1919, Berlino, Deuthes Historisches Museum
banana putrida, quel cornetto, quell’immonda smorfia del giudeo, da canaglia vischiosa… quell’abbozzo di proboscide che ciuccia come un vampiro… Ma questa è zoologia! (…) Smorfie come quelle del grugno dell’ebreo, sappiatelo, non s’improvvisano, non risalgono a ieri o all’affare Dreyfus… Spuntano dal fondo dei tempi per il nostro spavento, da spasimi di meticciati, da sanguinosi letamai talmudici, insomma da tutta l’Apocalisse!… Maledetti dannati! Crepa dunque, inconcepibile animale! L’ebreo del razzismo fascista Giorgio Montandon La difesa della razza III, 21-22, “Da che cosa si riconoscono gli ebrei?” (1940) Quali sono i caratteri del tipo giudaico?
– Un naso fortemente incurvato, differente secondo gli individui, spesso con prominenza del setto nasale, e con ali molto mobili. In certi individui del mezzogiorno e oriente d’Europa, il profilo a becco d’avvoltoio è così accentuato da far credere ad un tipo selezionato (…) – Labbra carnose, delle quali l’inferiore sporge spesso, talvolta molto fortemente; occhi poco incavati nelle orbite, con, abitualmente, qualcosa di più umido, di più pantanoso, di quel che non si veda in altri tipi, e una fessura palpebrale meno aperta. (...) – Caratteri meno frequenti e meno decisivi, per il tipo ebraico, sono: i capelli lanosi (...) e, per il corpo: le spalle leggermente incurvate, i piedi piatti, senza parlare di atteggiamenti come: il gesto rapace; l’andamento dinoccolato. 269
Capitolo
X
Il riscattto romantico del brutto
1. Le filosofie del brutto
Laocoonte, 50 a.C., Roma, Musei Vaticani
Il primo esempio di compiuta riflessione estetica sul brutto è il Laocoonte di Lessing (1766). Il gruppo statuario del Laocoonte (del I secolo a.C) rappresenta il momento in cui il sacerdote troiano, che aveva cercato di avvertire i suoi compatrioti dell’insidia contenuta nel cavallo, viene divorato, insieme ai suoi figli, da due orribili serpenti inviati da Minerva. Il riferimento inevitabile era al racconto che ne fa Virgilio nel secondo libro dell’Eneide, dove i mostri dilaniano le carni dei due giovani e avvolgono l’infelice nelle loro spire mentre egli, cercando di svincolarsi dalla stretta mortale, lancia grida atroci come un toro scannato. Winckelmann (Pensieri sull’imitazione, 1755), a sostegno della sua poetica neoclassica, aveva notato come la statua esprimesse il dolore di Laocoonte in modo classicamente composto, in “un murmure represso e angoscioso”. Lessing tendeva, invece, ad attribuire la differenza tra la rappresentazione poetica e quella scultorea al fatto che la poesia, arte del tempo, si esprime descrivendo un’azione, nel corso della quale si possono evocare eventi ripugnanti senza renderli insostenibilmente evidenti, mentre la scultura (come la pittura, arte dello spazio) può rappresentare un solo istante, e nel fissarlo non potrebbe mostrare un volto stravolto in modo disgustoso, perché la violenza deturpante del dolore fisico non si concilierebbe con la bellezza della rappresentazione. Ma in questa sede non ci interessa tanto il nucleo del dibattito quanto il fatto che, per sostenere la sua tesi, Lessing elabora una complessa fenomenologia del brutto, analizzandone le varie espressioni nelle varie arti e riflettendo sulla difficoltà di rappresentare artisticamente
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
David Caspar Friedrich, Monaco davanti al mare, 1810, Berlino, Nationalgalerie, Staatliche Museen
pagine seguenti John W. Waterhouse, Miranda, 1916, Collezione privata Wiliam Turner, Il passaggio del san Gottardo visto nel mezzo del Ponte del diavolo, XIX sec., Birmingham, Birmingham Museums and Art Gallery
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Brutto poetico e brutto pittorico Gotthold Ephraim Lessing Laocoonte (1766) Il poeta si serve della bruttezza delle forme: che uso ne è consentito al pittore? La pittura, come facoltà imitativa, può esprimere la bruttezza; la pittura come arte bella non può esprimerla. Nel primo caso tutti gli oggetti visibili le appartengono; nel secondo essa include solo quegli oggetti visibili che suscitano sentimenti piacevoli (…) Dato dunque che la bruttezza delle forme non può essere in sé e per sé un soggetto della pittura come arte bella, perché la sensazione che essa suscita è spiacevole e tuttavia non di quel tipo di sensazioni spiacevoli che si trasformano in piacevoli grazie all’imitazione, si tratterebbe ancora di vedere se essa non possa essere utile alla pittura, come del resto alla poesia, per rafforzare altre sensazioni. La pittura può servirsi di forme brutte per raggiungere il ridicolo e il terribile? Non voglio arrischiarmi a rispondere immediatamente con un no. È innegabile che la bruttezza innocua può diventare ridicola anche in pittura; in particolare quando le venga associata un’affettazione di grazia e di rispetto. Ma
è altrettanto innegabile che la bruttezza dannosa, così come in natura, anche nel quadro suscita terrore; e che quel ridicolo e quel terrore, che sono già dei sentimenti misti, ottengono grazie all’imitazione un nuovo grado di penetrazione e di diletto. Debbo però fare osservare che ciò nonostante qui la pittura non si trova affatto nella stessa situazione della poesia. Nella poesia, come ho già notato, la bruttezza della forma, per via della trasformazione delle sue parti coesistenti in progressive, perde quasi del tutto il suo effetto ripugnante; da questo punto di vista essa cessa per così dire di essere bruttezza e può dunque collegarsi tanto più intimamente con altre apparenze per produrre un nuovo effetto particolare. In pittura, invece, la bruttezza ha tutte le sue forze indivise, e ha un effetto non meno forte che in natura. La bruttezza innocua non può di conseguenza rimanere ridicola troppo a lungo: il sentimento spiacevole prende il sopravvento, e ciò che nei primi momenti era farsesco diviene in seguito disgustoso. Non altrimenti avviene con la bruttezza dannosa; il terribile a poco a poco si perde, e resta solo ed immutabile l’informe.
Nello stesso volgere di secolo appaiono, peraltro, le riflessioni sul Sublime, che impongono una svolta radicale al modo di considerare il brutto, lo sgradevole e addirittura l’orrendo. Il tema del Sublime era stato proposto in epoca ellenistica dallo Pseudo-Longino ed era stato riscoperto attraverso alcune traduzioni moderne, tra cui quella di Boileau (Trattato del sublime e del meraviglioso, 1674), come riflessione retorica sul modo di esprimere poeticamente grandi e trascinanti passioni. Nel XVIII secolo la discussione sul bello si sposta, però, dalla ricerca delle regole che lo definiscono alla considerazione degli effetti che produce, e le prime riflessioni sul Sublime non riguardano tanto gli effetti artistici quanto la nostra reazione di fronte a quei fenomeni naturali in cui prevalgono l’informe, il doloroso e il tremendo. Non a caso l’estetica del Sublime precede di poco la nascita del cosiddetto romanzo gotico (vedi capitolo successivo) e si accompagna a una nuova sensibilità nei confronti delle rovine. Si veda in particolare l’Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee del Sublime e del Bello di Edmund Burke (1756-1759). Si prova la sensazione del Sublime di fronte a un temporale, a un mare in tempesta, a rupi impervie, ghiacciai, abissi, distese senza confini, caverne e cascate, quando si gode del vuoto, dell’oscurità, della solitudine e del silenzio, della tempesta ? tutte impressioni che possono risultare dilettevoli quando si prova orrore di qualcosa che non può possederci e non può farci del male.
2. Cin cin
Il sublime Arthur Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, III, 39 (1818) La natura in tempestosa agitazione; incerta luce fra nere e minacciose nubi d’uragano; malfide, nude, incombenti rocce che con la loro cerchia precludono la vista ; acque scroscianti e spumeggianti, ovunque deserto e gemiti del vento che soffia per le gole. La nostra insufficienza, la nostra lotta, con la natura nemica, la nostra volontà spezzata ci si manifestano intuitivamente. Ma finché l’angoscia personale non prenda il sopravvento, finché noi persistiamo nella contemplazione estetica, è il puro soggetto del conoscere che guarda attraverso quella lotta della natura (…) e tranquillo, imperturbato, non coinvolto in quegli oggetti che sono appunto minacciosi e paurosi per la volontà, coglie le idee. Precisamente in questo contrasto sta il sentimento del sublime. Ma più potente ancora è l’impressione, quando la battaglia degli elementi scatenati si svolge in grandi proporzioni davanti ai nostri occhi (…), quando ci troviamo dinanzi al vasto mare in burrasca; onde alte come palazzi salgono e scendono, battono impetuose contro
la scogliera, lanciano al cielo le loro spume; la tempesta urla, il mare mugghia, lampi balenan dalle nuvole nere, e lo scoppio del tuono vince il ruggito della tempesta e del mare. Di fronte a questa scena lo spettatore imperturbato acquista la massima consapevolezza del doppio carattere della sua coscienza: egli sente se stesso come individuo, come labile manifestazione della volontà (…) e in pari tempo avverte sé come soggetto immortale, sereno del conoscere. L’interessante Friedrich Schlegel Sullo studio della poesia greca (1797) Il dominio dell’interessante non può che distruggere se stesso ed è quindi una crisi transitoria del gusto. Ma le due possibili catastrofi che gli stanno davanti sono di natura molto diversa: se l’arte si orienta prevalentemente verso l’energia estetica, il gusto, sempre più assuefatto ai vecchi stimoli, ne chiederà in continuazione altri, sempre più forti e violenti: non tarderà a passare al piccante e all’impressionante. Il piccante è ciò che eccita in modo convulso una sensibilità intorpidita, mentre l’impressionante è uno stimolo e un pungolo per l’immaginazione. Entrambi sono prodromi della morte
vicina. L’insulso è l’avaro nutrimento del gusto impotente, mentre ciò che produce uno shock nell’animo del pubblico (nelle sue modalità dell’eccentrico, del ripugnante e dell’orrido) è l’ultima convulsione del gusto agonizzante (...) Il bello è così lontano dall’essere il principio dominante della poesia moderna che molte delle più splendide opere moderne sono palesemente rappresentazioni del brutto, tanto che si è costretti ad ammettere (a malincuore) che esiste una rappresentazione dell’immensa ricchezza del reale nel suo massimo disordine e della disperazione causata dall’eccesso e dal conflitto delle energie, per la quale è necessaria un’eguale, se non maggiore forza creatrice e sapienza artistica che non per la rappresentazione di quella ricchezza e di quelle energie in perfetta armonia. (…) Il pubblico, anche il più colto, del tutto indifferente alla forma ed esclusivamente assetato di contenuti, non chiede all’artista che individualità interessante. Purché si produca un effetto e questo effetto sia forte e nuovo, il pubblico è indifferente al modo e alla materia in cui ciò avviene, proprio come è indifferente all’armonia dei singoli effetti in un insieme compiuto. 275
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
La Tigre William Blake “La tigre”, da Canti d’esperienza (1794) Tigre! Tigre! Divampante fulgore Nelle foreste della notte, Quale fu l’immortale mano o l’occhio Ch’ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria? In quali abissi o in quali cieli Accese il fuoco dei tuoi occhi? Sopra quali ali osa slanciarsi? E quale mano afferra il fuoco? Quali spalle, quale arte Poté torcerti i tendini del cuore? E quando il tuo cuore ebbe il primo palpito, Quale tremenda mano? Quale tremendo piede? Quale mazza e quale catena? Il tuo cervello fu in quale fornace? E quale incudine? Quale morsa robusta osò serrarne i terrori funesti? Mentre gli astri perdevano le lance tirandole alla terra e il paradiso empivano di pianti? Fu nel sorriso che ebbe osservando Arnold Böcklin, Peste, 1898, Basilea, Kunstmuseum
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compiuto il suo lavoro, Chi l’Agnello creò, creò anche te? Tigre! Tigre! Divampante fulgore Nelle foreste della notte, Quale mano, quale immortale spia Osa formare la tua agghiacciante simmetria? La Medusa Percy B. Shelley Sulla Medusa di Leonardo da Vinci (1819) Il suo orrore e la sua bellezza sono divini. Sulle sue labbra e sulle palpebre posa la venustà come un’ombra: ne irradiano, ardenti e fosche, le agonie dell’angoscia e della morte che sotto si dibattono (…) E dal suo capo, come se fosse da un sol corpo, sorgono, pari all’erba da un’umida roccia, capelli che son vipere, e si attorcono e si distendono, e intrecciano i nodi tra loro e in infiniti avvolgimenti mostrano il loro splendore metallico, quasi a irridere la tortura e la morte interiori, e tagliano l’aria compatta colle loro scheggiate mandibole.
Opponendo al Bello il Sublime, Kant (Critica della facoltà di giudizio, 1790) ci parla di un Sublime Matematico, dato per esempio dalla visione del cielo stellato, dove si ha l’impressione che quello che vediamo vada al di là della nostra sensibilità e la nostra ragione ci induce a postulare un infinito che i sensi non riescono a cogliere ma che l’immaginazione riesce ad abbracciare in un’unica intuizione. Invece si ha Sublime Dinamico di fronte alla visione di una tempesta, quando il nostro animo viene scosso da un’impressione d’infinita potenza e la nostra natura sensibile rimane umiliata – da cui un senso di disagio, compensato dal sentimento della nostra grandezza morale, contro a cui nulla valgono le forze della natura. Schiller (Sul Sublime, 1800) parlerà del Sublime come qualcosa di fronte a cui sentiamo i nostri limiti ma al tempo stesso avvertiamo la nostra indipendenza da ogni limite; per Hegel esso sarà il tentativo di esprimere l’infinito senza trovare nel regno dei fenomeni un oggetto che si mostri adeguato a questa rappresentazione (Estetica, II, 2, 1836-38). Ormai la bellezza non è più l’idea dominante di una estetica. Inoltre, con i pensatori romantici l’attenzione si sposta dalla natura all’arte, che è l’unica a poterci dare la possibilità di realizzare il valore estetico, anche parlando di ciò che in natura ci respingeva. Come dirà più tardi Nietzsche (Nascita della tragedia, 7, 1872) col Sublime si ha “l’assoggettamento estetico
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
Théodore Géricault, Studio di arti troncati, 1818-1819, Montpellier, Musée Fabre
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Il testo fondamentale in questo senso è quello di Friedrich Schlegel (Sullo studio della poesia greca, 1795) dove si oppone l’arte moderna a quella antica. Si noti che fra i pensatori pre-romantici e romantici si fa iniziare (come avverrà in Hegel) l‘arte moderna col cristianesimo, in opposizione all’ideale classico della grecità. Ma è difficile evitare l’impressione che essi di fatto, rivivendo il passato secondo la sensibilità dei nuovi tempi, ci parlino della nuova poetica del Romanticismo. Schlegel lamenta che sino a quel momento non sia stata tentata una teoria del brutto, indispensabile per capire il divario tra classicità e modernità. Egli si pronuncia in favore dell’arte classica e lamenta l’irruzione moderna del brutto come “sgradevole forma sensibile di ciò che è cattivo”. Tuttavia emerge dalle sue pagine una sorta di fascinazione per le caratteristiche della nuova arte – unita alla speranza che essa contenga i principi di un suo superamento. Egli vi vede una prevalenza dell’interessante sul bello e del caratteristico e dell’individuale su quella specie di tipicità ideale che veniva celebrata nell’arte antica, e di fatto disegna la poetica del personaggio romantico di cui parleremo tra poco. Anche se il brutto diventa quasi un “malfattore estetico” contro il quale Schlegel si propone di stendere una sorta di “codice criminale”, in questa diffidenza – come osserva Remo Bodei – si manifesta anche una adesione allo spirito di un volgere di secolo segnato dalla rivoluzione francese e si è attratti dall’idea di un “caos rigeneratore” di
1. LE FILOSOFIE DEL BRUTTO
Ilija Repin, Ivan il Terribile con il cadavere del figlio Ivan, 1851, Mosca, Galleria Statale Tret’jakov
nuovi ordini possibili. Al di là delle sue intenzioni, Schlegel ci ricorda che l’interessante e il caratteristico esigono (per metterci continuamente in stato di eccitazione e rappresentare “l’immensa ricchezza del reale nel suo massimo disordine”) l’irregolare e il deforme. Non si potrebbe altrimenti capire come possa essere celebrato, quale “vertice sommo della poesia moderna”, Shakespeare, che ha saputo fondere il bello e il brutto come avviene in natura, dove le singole bellezze non sono mai libere da scorie impure, e di queste scorie sono ricchi e le sue opere e i suoi personaggi. Nel Sistema di estetica di Weiss (1830) il brutto apparirà come una parte integrante del bello, una presenza con cui la fantasia artistica deve fare i conti. Hegel nell’Estetica, di cui si sono già citate le pagine sull’irruzione del brutto nell’iconografia cristiana, ne parlerà come di un momento necessario che entra in collisione con il bello. In ambito post-hegeliano, del brutto si occuperanno altri autori come Solger, Wischer, Ruge e Fischer, e in particolare Karl Rosenkranz, con la sua Estetica del brutto (1853), elabora una fenomenologia che va dalla descrizione dello scorretto a quella del ripugnante, passando per l’orrendo, l’insulso, il nauseante, il criminoso, lo spettrale, il demoniaco, lo stregonesco, sino alla celebrazione della caricatura, che può risolvere il ripugnante in ridicolo e nella sua deformazione diventa bella grazie all’umorismo che la esagera, sino al fantastico. 279
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
William Hogarth, David Garrik come Riccardo III, 1745, Liverpool, National Museum
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Ma la più appassionata esaltazione romantica del brutto si era avuta con la prefazione di Victor Hugo al suo dramma Cromwell (1827). Anche Hugo parla della modernità come di qualcosa che nasce col cristianesimo, ma tutti i suoi riferimenti al passato si risolvono in quello che è stato definito il manifesto del romanticismo. La sua visione del Medioevo, come selva di quelle mostruose immagini infernali che appaiono nelle sculture delle cattedrali, ci rinvia senza dubbio a quel medioevo neogotico che egli farà rivivere qualche anno dopo nel suo Notre Dame de Paris. Il brutto che Hugo vede come tipico della nuova estetica è il grottesco (“una cosa deforme, orribile, repellente, trasportata con verità e poesia nel dominio dell’arte”), la più ricca delle sorgenti che la natura possa aprire alla creazione artistica. Già nei suoi Discorsi sulla poesia (1800) Schlegel aveva parlato del grottesco o arabesco come della distruzione dell’ordine abituale del mondo, nella libera eccentricità delle immagini. Jean Paul in Avviamento allo studio dell’estetica (1804) ne parlava come di humour distruttivo, e partiva dalle feste dei folli per arrivare alla “ridicolizzazione del mondo intero” in Shakespeare, per cui lo humour si trasforma in qualcosa di terribile e ingiustificabile (così che ci viene a mancare il terreno sotto i piedi). Ma in Hugo il grottesco diventa la categoria che (anche se egli parla di fenomeni artistici che si distendono lungo una decina di secoli) spiega, annuncia e in parte promuove una galleria di personaggi che tra il tardo Settecento e i giorni nostri appaiono segnati da una satanica o patetica assenza di bellezza. Come annota Bodei, Hugo “fa compiere al bello una rotazione completa, un angolo giro che lo porta a coincidere col brutto”.
1. LE FILOSOFIE DEL BRUTTO
Ary Scheffer, Morte di Géricault, 1824, Parigi, Musée du Louvre
Il tramonto del bello Victor Hugo Cromwell, Prefazione (1827) Abbiamo indicato il tratto caratteristico, la differenza fondamentale che separa, secondo noi, l’arte moderna dall’antica, la forma d’oggi dalla forma morta, o – per servirci di parole più vaghe ma più accreditate – la letteratura romantica da quella classica (…) Non che sia giusto dire che commedia e grottesco erano assolutamente ignoti agli antichi: che sarebbe d’altronde impossibile (…) [Ma] nel pensiero dei moderni il grottesco ha una parte immensa. È dovunque: da un lato crea il deforme e l’orribile; dall’altro il comico e il buffonesco (…) Il genio moderno conserva il mito dei fabbri soprannaturali, ma gli conferisce bruscamente un carattere del tutto
opposto, che lo rende ben altrimenti efficace: tramuta i giganti in nani; dai ciclopi ricava gli gnomi. (…) Il contatto col deforme ha conferito al sublime moderno qualcosa di più grande, di più sublime, insomma che il bello antico. (…) Il bello non ha che un tipo, il brutto ne ha mille. (…) Gli è che il bello, dal punto di vista umano, altro non è che la forma considerata nel suo rapporto più elementare, nella sua simmetria più assoluta, nella sua più intima armonia col nostro organismo. (…) Quel che al contrario chiamiamo il brutto, è il particolare di un grande tutto che ci sfugge, e che si armonizza non già con l’uomo ma con la creazione intera. Ecco per quale motivo ci presenta senza tregua aspetti nuovi, ma incompleti. 281
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
2. Brutti e dannati
Annotava Schiller (Dell’arte tragica, 1792) che “è un fenomeno generale nella nostra natura, che ciò che è triste, terribile, perfino orrendo ci attira con un fascino irresistibile; che da scene di dolore e di terrore noi ci sentiamo respinti e con pari forza riattratti” e che divoriamo con avidità vicende di spettri capaci di farci rizzare i capelli. È in questo spirito che era nato qualche decennio prima il romanzo gotico, popolato di castelli e monasteri in rovina, sotterranei terrorizzanti, sanguinosi delitti, apparizioni diaboliche e fantasmi, corpi decomposti. In particolare in opere come Il castello di Otranto di Horace Walpole (1764), il Vathek di Beckford (1786), Il Monaco di Lewis (1796), L’Italiano o Il confessionale dei penitenti neri di Ann Radcliffe (1797), il Melmoth di Charles Robert Maturin, sfilano personaggi che manifestano una tenebrosa bellezza o portano sul volto le stimmate della loro malvagità. Ma l’eroe dannato (spesso erede del diavolo miltoniano) che Praz ha posto all’insegna delle “metamorfosi di Satana”, continuerà ad abitare pittura e letteratura oltre il filone del gotico, attraversando romanticismo, realismo e decadentismo. Tali sono il Giaurro di Byron (1813) e i vari “malvagi” che appaiono in Sue, Balzac, Emily Brontë, Hugo, Stevenson, sino ai giorni nostri. Inoltre, se Kant (Critica della facoltà di giudizio, 48) sosteneva ancora che la bruttezza che suscita disgusto non può essere rappresentata senza distruggere ogni compiacimento estetico, con il romanticismo questo limite viene superato. Lady Josiane, ne L’Uomo che ride di Hugo, desidera Gwynplaine proprio perché ripugnante e disgustoso. Eugène Delacroix, Il combattimento di Giaurro e Hassan, 1835, Parigi, Musée du Petit-Palais
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Il viaggio di Vathek William Beckford Vathek (1786) In mezzo alla immensa sala si aggirava una moltitudine d’uomini e donne; camminavano muti, con la destra sul cuore, e parevano indifferenti a tutto quello che li circondava. Erano pallidi come cadaveri, e i loro occhi infossati somigliavano a quelle fosforescenze che si vedono la notte nei cimiteri. Gli uni erano immersi in profondi pensieri; altri schiumavano di rabbia e correvano da ogni parte come tigri ferite da un dardo
avvelenato; tutti si evitavano; e, benché in mezzo a una folla, ognuno errava a caso, come se fosse stato solo. (…) Seduto sopra un globo di fuoco, era il terribile Eblis. Il suo volto era quello di un giovane di vent’anni, i cui lineamenti, nobili e regolari, parevano avvizziti da maligni vapori. La disperazione e l’orgoglio erano dipinti nei suoi grandi occhi, e la chioma ondeggiante ricordava ancora quella d’un angelo di luce. Nella mano delicata, ma annerita dalla folgore, teneva lo scettro di bronzo che fa tremare il mostro Uranbad, gli Afriti e tutte le potenze dell’abisso.
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
Franz von Stuck, Lucifero, 1891, Sofia, National Gallery for Foreign Art nella pagina seguente Arnold Böcklin, Autoritratto con la Morte che suona la viola, 1872, Berlino, Nationalgalerie, Staatliche Museen
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L’evocazione del diavolo Matthew G. Lewis Il Monaco (1796) Matilda lo guidò per un’infinità di gallerie anguste; e ovunque, ai raggi della lampada, risaltavano le immagini più rivoltanti: teschi, ossa, tombe ed effigi che parevano sgranare su di loro occhi colmi d’orrore e di stupore (…). «Viene!» esclamò Matilda, gioiosa. Ambrosio ebbe un sussulto e aspettò, terrorizzato, il demone. Quale non fu lo sbalordimento quando, cessata l’eco del tuono, nell’antro risuonarono le note possenti di un’aria melodiosa. Il globo di fumo allora si dissolse ed egli poté ammirare una figura più stupenda di tutte quelle mai tracciate dal pennello della fantasia. Era un giovane che dimostrava diciott’anni scarsi, d’impareggiabile perfezione nelle forme e nel viso, e completamente nudo: sulla fronte gli brillava una stella radiosa; dalle spalle gli si divaricavano due ali scarlatte; e i riccioli di seta erano fissati da un nastro di fiammelle multicolori che gli guizzavano tutto intorno al capo, disegnando una gran quantità di simboli e risplendendo di un bagliore, ben più intenso delle pietre preziose. Braccia e caviglie erano cinte di braccialetti di diamanti e nella destra reggeva, simile al mirto, un ramoscello argenteo. La persona era di un abbagliante splendore, avvolta da un nembo di luce rosata; al suo apparire una ventata vivificatrice emanò effluvi per tutta la caverna. A una visione tanto inaspettata, Ambrosio, incantato, fissò lo spirito con stupefatto piacere; ma non gli sfuggì che il demone, per quanto d’ aspetto stupendo, sprizzava un tale furore dagli occhi e aveva una tale arcana melanconia stampata nei tratti che si intravedeva l’angelo caduto, e l’osservatore era invaso da segreto sgomento.
L’eroe fatale George Byron Il giaurro (1813) Torvo e non di questa terra è il ceffo che balena sotto il suo tenebroso cappuccio. Il lampo di quell’occhio dilatato svela troppe cose di tempi trascorsi; benché mobile e dubbia la sua espressione, spesso il riguardante si pentirà d’averlo fissato, poiché entro vi sta in agguato quel fascino senza nome che, sebbene lui stesso ineffabile, parla di uno spirito ancora elevato e non spento, che pretende e mantiene supremazia... Il monaco mezzo atterrito, quando l’incontra da solo ben vorrebbe scansarlo, come se quell’occhio e quell’amaro sorriso trasfondessero in altri il terrore e la colpa. Non sovente egli accondiscende a sorridere, e quando lo fa, è triste vedere come non faccia che schermir la sventura... Ma ancor più triste sarebbe rintracciare quali sentimenti un giorno animassero quel volto: il tempo ancora non ha fissato i suoi tratti, e ha lasciato lineamenti più puri commisti con altri maligni; e vi sono sfumature non appieno svanite, che parlano d’uno spirito non del tutto degradato dagli stessi delitti in cui è stato immerso. Il volgo non discerne altro che l’ombra d’azioni perverse e un meritato destino; l’osservatore più attento può intravedere un’anima nobile, un alto lignaggio. Ahimé! Benché entrambi largiti invano – se la sventura poté alterarli e la colpa macchiarli – non fu a un volgare terreno che tali eccelsi doni vennero concessi, eppure lo sguardo ne è ora attirato con poco men che timore.
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
Il maestro di scuola Eugène Sue I misteri di Parigi (1842-1843) Non si poteva immaginare cosa più terrificante del volto di questo brigante. La faccia era solcata in tutte le direzioni di cicatrici livide e profonde; le labbra tumefatte dall’azione corrosiva del vetriolo; le cartilagini del naso tagliate; le narici surrogate da due buchi informi. Gli occhi grigi, chiarissimi, microscopici, tondi tondi, sprizzavano ferocia; la fronte schiacciata come quella di una tigre, era quasi nascosta da un berretto di pelle con pelo lungo e rossiccio... si sarebbe pensato alla criniera di un mostro. Il Maestro non era alto più di cinque piedi e due o tre pollici; la testa, smisuratamente grossa, s’incassava tra due spalle larghe, alte, potenti, carnose che si notavano anche sotto le pieghe svolazzanti del camiciotto di tela greggia; aveva le braccia lunghe, muscolose; le mani corte, grosse e pelose fin sopra le dita; le gambe erano un po’ arcuate, ma i polpacci enormi denunciavano una forza atletica. Insomma quest’uomo incarnava l’esagerazione di ciò che c’è di più corto, di massiccio, di tozzo nel tipo alla Ercole Farnese. Dobbiamo rinunciare a dipingere l’espressione di ferocia che scoppiava su questa maschera spaventosa, in quegli occhi inquieti, mobili, ardenti come quelli di una fiera. Vautrin Honoré de Balzac Papà Goriot (1835) Il capo andò dritto verso di lui, e gli diede un colpo cosi forte sulla testa, che fece saltar via la parrucca e rese al capo di Collin tutto il suo orrore. Con i capelli rosso mattone e corti che davan loro uno spaventevole carattere di forza mista a violenza, quella testa e quel volto, in armonia con il busto, 286
furono improvvisamente illuminati come vi si fossero accesi tutti i fuochi dell’inferno. Ognuno allora, capì tutto Vautrin, il suo passato, il suo precedente, il suo avvenire, le sue dottrine implacabili, la religione del suo piacere, la sovranità che gli davano i suoi cinici pensieri e la forza di un’organizzazione pronta a tutto. Il sangue gli salì al viso, i suoi occhi brillarono come quelli d’un gatto selvatico. Diede un balzo improntato d’una così feroce energia, e diede un tale ruggito che strappò grida di terrore a tutti i pensionanti. A questo gesto da leone, e approfittando del clamore generale, gli agenti puntarono le loro pistole. Collin comprese il pericolo, vedendo brillare il cane di ogni arma, e diede ad un tratto la prova della più alta potenza umana. Spettacolo orribile e maestoso! Il suo volto presentò un fenomeno che non si può paragonare che a quello d’una caldaia piena di quel vapore acqueo che solleverebbe una montagna e che una goccia d’acqua fredda dissolve in un batter d’occhio. La goccia d’acqua che raffreddò la sua rabbia, fu una riflessione rapida come un baleno. Si mise a ridere, e guardò la sua parrucca. Heathcliff Emily Brontë Cime tempestose (1847) Heathcliff non fece attenzione al mio armeggio, e io alzai gli occhi, e mi misi ad osservare il suo viso quasi con lo stesso coraggio che se fosse diventato di pietra. Sulla sua fronte, che una volta avevo giudicato tanto virile, e ora giudicavo tanto diabolica, pendeva una greve nuvola; i suoi occhi di basilisco erano quasi spenti sotto l’effetto della veglia…e forse del pianto, poiché le ciglia erano ancora umide; le sue labbra prive del loro ghigno feroce, e strette in un’espressione di tristezza
indicibile. Se si fosse trattato di un altro, avrei nascosto il volto in presenza di tanto dolore. Si trattava di lui, provavo piacere. Amare il brutto Victor Hugo L’uomo che ride (1869) «Vicino a te mi sento degradata, che gioia! Com’è insipido essere altezza! Io sono augusta, niente di più faticoso. Decadere è riposante. Sono così satura di rispetto che ho bisogno di disprezzo (...) Ti amo non solo perché sei deforme, ma perché sei abbietto. Amo il mostro e amo l’istrione. Un amante umiliato, schernito, grottesco, orribile, esposto alle risa su quella gogna chiamata teatro, tutto questo ha un gusto straordinario. È come addentare il frutto dell’abisso. Un amante infamante, che cosa squisita. Affondare i denti nella mela dell’inferno, non del paradiso, ecco ciò che mi tenta, è questa la mia fame e la mia sete, e io sono questa Eva. La Eva del baratro. Tu, probabilmente, senza saperlo, sei un demone. Mi sono tenuta in serbo per una maschera di sogno. Tu sei un burattino di cui uno spettro tiene i fili. Tu sei la visione del grande riso infernale. Tu sei il signore che aspettavo. (…) Gwynplaine, io sono il trono, tu sei un palco di piazza. Mettiamoci allo stesso livello. Ah! Sono felice, eccomi decaduta. Vorrei che tutti potessero sapere quanto sono abbietta. Si prosternerebbero ancora di più, perché più aborriscono, più strisciano. Il genere umano è fatto così. Ostile, ma rettile. Drago, ma verme. Oh, sono depravata come gli dèi (…) Tu non sei brutto, sei deforme. Il brutto è piccolo, il deforme è grande. Il brutto è la smorfia del diavolo alle spalle del bello. Il deforme è il rovescio del sublime. (…) “Ti amo” esclamò la donna. E lo morse con un bacio.
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
Il Golem Gustav Meyrink Il Golem, “Paura” (1915) Era un’orribile creatura grigia, larga di spalle, delle proporzioni di un uomo tarchiato, appoggiato a un nodoso bastone a spirale di legno bianco. Dove avrebbe dovuto esserci la testa, non riuscivo a scorgere che un globo nebuloso di diafani vapori. Un intenso odore di legno di sandalo e di ardesia bagnata emanava dall’apparizione. La sensazione di essere completamente inerme in sua balia mi fece quasi perdere i sensi. Il tormento che m’aveva snervato per tutto quel lasso di tempo si addensava ora in un orrore mortale e stava lì coagulato in quell’essere che mi stava di fronte. L’istinto di conservazione mi diceva che sarei impazzito dall’orrore e dalla paura, se solo avessi potuto vedere il viso del fantasma (…) e tuttavia m’attirava con la forza d’una calamita, e non potevo distogliere lo sguardo dal diafano globo di nebbia, e vi andavo cercando gli occhi, il naso, la bocca. Ma per quanto mi sfibrassi a decifrarlo, quel vapore restava lì, immoto, impenetrabile. Mi riusciva certamente di sistemare su quel tronco ogni sorta di teste, ma ogni volta sapevo che non scaturivano che dalla mia immaginazione. Tutte sparivano, quasi nello stesso istante in cui le avevo create. Solo la forma di una testa d’ibis egizia persistette alquanto a lungo. I contorni del fantasma, stagliantisi spettrali nell’oscurità, sì contraevano in modo appena percettibile e di nuovo si dilatavano, come a opera d’un lento respiro che pervadesse l’intera figura, unico movimento che fosse dato d’osservare. In luogo dei piedi, sul pavimento posavano ossei monconi, su cui la carne, grigia ed esangue, s’era ritratta all’insù in rigonfi concentrici. I mostri del Terrore Victor Hugo Novantatre, II, 1 (1873) Il 28 Giugno 1793 tre uomini erano riuniti intorno a una tavola in quel retrobottega. Le loro seggiole non si toccavano, erano seduti ognuno a uno dei lati della tavola lasciando vuoto il quarto. Erano circa le otto di sera, nella strada era ancora giorno ma era notte in quel retrobottega e un lume a olio attaccato al soffitto, un lusso in quei tempi, illuminava la tavola. Il primo di quei tre uomini era pallido, giovane, grave, con le labbra sottili e lo sguardo freddo. Aveva nella gota un tic 288
nervoso che doveva imbarazzarlo quando sorrideva. Era incipriato, inguantato, spazzolato e abbottonato. Il suo abito azzurro chiaro non faceva una piega. Aveva un paio di pantaloni di nanchino, calze bianche, una sciarpa alta, una gala pieghettata, scarpe con fibbie d’argento. Gli altri due uomini erano, uno una specie di gigante, l’altro una specie di nano. Quello alto, malvestito, con un grande abito di panno scarlatto, col collo nudo ed una cravatta sciolta che cadeva più bassa della gala, la giacca aperta con bottoni mancanti, era calzato con stivali a rovesci e aveva i capelli irti quantunque vi si potesse notare una traccia di acconciatura; la sua parrucca aveva qualche cosa di simile ad una criniera. Aveva nel volto le tracce del vaiolo, una ruga di collera fra le sopracciglia, la piega della bontà all’angolo della bocca, labbra grosse, denti grandi, un pugno da facchino, l’occhio smagliante. Il piccolo era un uomo giallo che, seduto, sembrava deforme; aveva la testa rovesciata indietro, gli occhi iniettati di sangue, placche livide sul viso, un fazzoletto annodato sui capelli grassi e lisci, era senza fronte, aveva una bocca enorme e terribile. Aveva scarpe larghe, un panciotto che pareva che fosse stato di raso bianco e sopra quel panciotto una blusa nelle pieghe della quale una linea dura e diritta lasciava indovinare un pugnale. Il primo di quegli uomini si chiamava Robespierre, il secondo Danton, il terzo Marat. Mister Hyde Robert Louis Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr.Hyde, 2 (1886) Il signor Hyde aveva una carnagione pallida e una statura da nano; dava un’impressione di deformità senza tuttavia presentare una malformazione definita, aveva un sorriso sgradevole, si era comportato con un misto sconcertante di timidezza e di sfrontataggine e si esprimeva con una voce roca, sussurrante, incerta: tutti questi particolari deponevano a suo sfavore ma non erano sufficienti a spiegare il vago disgusto, la ripugnanza e la paura che Utterson sentiva nei suoi riguardi. “Dev’esserci qualcos’altro” borbottò perplesso. “Non può che esserci qualcos’altro, solo che io non riesco a capirlo. Che Iddio mi perdoni, ma quell’uomo non sembra quasi umano! (…) Mio povero caro vecchio Harry Jekyll, se mai ho visto su una faccia la firma di Satana, è proprio su quella del tuo nuovo amico!”
2. BRUTTI E DANNATI
Copertina di Souvestre e Allain, Fantomas, 1912, Firenze, Salani
Lon Chaney in Il fantasma dell’Opera, regia di Rupert Julian, 1925
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Heinrich Füssli, L’incubo, 1781 ca., Francoforte, Goethe Museum a fronte Gustav Klimt, Pesci d’argento, 1899, collezione privata
Brutta ed eccitante Joris-Karl Huysmans A ritroso, IX (1884) Era questa una piccola bruna; magra, nera di occhi, dai capelli impomatati così aderenti che parevano inverniciarle il capo, divisi ad una tempia da una scriminatura maschile. L’aveva conosciuta in un caffé concerto dove si produceva come ventriloqua. Tra lo stupore di un pubblico che la sua bravura metteva a disagio, faceva parlare uno alla volta dei ragazzi di cartone disposti a canne di organo su delle sedie; conversava con fantocci che parevano vivi (…) Des Esseintes era rimasto affascinato; mille idee gli germogliarono in capo. (….) Cadde in balia d’una demenza erotica senile. Vedendosi ogni volta più irresoluto presso l’amante, ricorse all’afrodisiaco più efficace in queste congiunture, alla paura. Mentre abbracciava la donna, una voce avvinazzata scoppiava di dietro 290
all’uscio: “M’apri sì o no? Che forse non lo so che sei con un merlo! Aspetta, aspetta me, ora, baldracca!”. Lì per lì, come i viziosi che eccita il timore d’esser colti sul fatto mentre si sfogano all’aperto, su una proda, in giardini pubblici, in un vespasiano o su una panchina, Des Esseintes recuperava per un attimo le forze, si precipitava sulla ventriloqua, la cui voce continuava il chiasso di là dell’uscio; ed in quel corpo a corpo, in quel panico d’uomo minacciato, interrotto nella sua oscenità, incitato a spicciarsi, provava godimenti inauditi. Disgraziatamente quelle sedute durarono poco; sebbene compensata con straordinaria larghezza delle sue prestazioni, la ventriloqua finì per metterlo alla porta; e la sera si diede ad un giovanottone d’esigenze meno complicate e di reni più solide. Il figlio del Male Howard Phillips Lovecraft L’orrore di Dunwich (1927) Meno degno di memoria, invece,
parve il fatto che la madre di Wilbur fosse una degli Whateley decaduti, una donna di trentacinque anni, albina, brutta e quasi deforme, che viveva con il vecchio padre semipazzo del quale, quando era giovane, si erano raccontate le più spaventose storie di stregoneria. Lavinia Whateley non aveva marito, ma, seguendo il costume della regione, non cercò in nessun modo di far riconoscere il bambino, e lasciò che la gente facesse tutte le supposizioni che voleva sulla sua paternità. Sembrava anzi singolarmente fiera di quel suo rampollo, dalla pelle scura e dall’aspetto caprino, che tanto contrastava con il suo malaticcio e occhiroseo albinismo, e fu udita mormorare molte curiose profezie sul suo straordinario futuro. (…) Nonostante questo era estremamente brutto; c’era qualcosa di caprino e di bestiale nelle grosse labbra, nella pelle giallastra e porosa, nei ruvidi capelli crespi e nelle orecchie molto appuntite.
1. LE FILOSOFIE DEL BRUTTO
Morte di she Henry Rider Haggard Lei (1887) Il sorriso si spense in uno sguardo secco e duro! Il viso perfetto sembrava sempre più segnato, come per effetto di una grande angoscia. Gli occhi splendidi persero la loro luce, il corpo la sua forma perfetta e la sua linea eretta. Mi strofinai gli occhi; credevo di essere vittima di una allucinazione, o di qualche illusione ottica provocata dalla rifrazione della luce intensa. In quel momento, la colonna di fuoco lentamente si ritorse su se stessa e scomparve tuonando nelle viscere ignote della grande terra, lasciando Ayesha in piedi là dove era. Non appena la fiamma scomparve, Lei ritornò davanti a Leo – ma il suo passo aveva perso ogni elasticità e tese il braccio per appoggiarlo sulla spalla del giovane. Guardai quel braccio. Dove erano adesso la sua rotondità e la sua bellezza meravigliosa? Stava diventando magro, spigoloso, e la sua faccia – santo cielo! – la sua faccia invecchiava sotto i miei occhi! Immagino che anche Leo l’avrà visto; infatti indietreggiò uno o due passi (…) «Oh guardate...! guardate...! guardate...!» strillò Job, con la voce resa acuta dal terrore, gli occhi che gli uscivano quasi dalla testa, la schiuma sulle labbra. «Guardate...! Guardate...! guardate...! Si rattrappisce! Sta diventando una scimmia!» e cadde a terra, digrignando i denti in preda a un attacco di isterismo. Era vero – mi sento venir meno perfino adesso che lo scrivo –, si rattrappiva; il serpente d’oro che cingeva il suo corpo grazioso era scivolato lungo i fianchi e caduto a terra; diventava sempre più piccola; la sua pelle cambiava colore, e invece del candore perfetto di prima era adesso di un colore tra marrone sporco e giallo, come un pezzo di vecchia pergamena. Di nuovo si portò la mano alla testa, quella mano delicata non era ormai che un artiglio, una granfia umana come quella di una mummia egizia conservata male, e allora parve si accorgesse del mutamento che stava subendo, e urlò... ah come urlava! Si gettò a terra e torcendosi urlava! Diventava sempre più piccola; ormai era piccola quasi come una scimmia. La pelle si era raggrinzita in un milione di rughe, e sul viso irriconoscibile si leggeva il marchio di una vecchiaia indescrivibile. Non ho mai visto niente di simile (…) 291
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1. LE FILOSOFIE DEL BRUTTO
3. Brutti e infelici
a fronte Franz von Stuck, Il peccato, 1893, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek
Si può restare belli e dissoluti senza mai invecchiare, ma essere infelici perché il nostro decadimento reale e la nostra bruttezza interiore sono spietatamente denunciati da un ritratto che si corrompe al posto nostro, come accade al Dorian Gray di Wilde. Tuttavia la ricerca dell’interessante e dell’individuale, o del grottesco, porta anche a immaginare la deformità che trascina a un destino tragico chi, pur nutrendo un animo mite, è condannato dal proprio corpo. Forse il primo “brutto infelice” del romanticismo è il mostro protagonista del Frankenstein di Mary Shelley (1818), seguito poi dai patetici scherzi di natura di Hugo, come il Quasimodo di Notre Dame e il Gwynplaine de L’uomo che ride. E ai brutti infelici appartengono eroi del melodramma verdiano come Rigoletto – per quanto Verdi abbia messo in scena anche dei brutti dannati, da Lady Macbeth a Jago, e in una lettera scriva che vorrebbe veder interpretato quest’ultimo come “una figura piuttosto magra e lunga, labbra sottili, occhi piccoli, vicini al naso come le scimmie, la fronte alta che scappa indietro e la testa sviluppata di dietro”. Infelicissime tra tutti sono le donne brutte, come Fosca di Tarchetti (e lo sarebbe la Felicita di Gozzano, se non accettasse con malinconica grazia il suo destino). In un racconto di Zola (Le repoussoir, ovvero “La racchiona”, 1891) tal Durandeau si accorge che, quando si vedono passeggiare insieme due donne di cui una è visibilmente laida, tutti per contrasto trovano bella l’altra. Decide, dunque, di far commercio della bruttezza e fonda un’agenzia che permette alle signore di prendere in affitto una partner brutta per uscire al suo fianco, e porre in risalto le proprie grazie – anche se talora la cliente si rivela sempre più brutta di qualsiasi compagna le venga proposta, e scopre la sua scarsa avvenenza solo in quel momento. Atroce è il momento del reclutamento e il modo in cui si comunica a una donna brutta perché e a qual fine la si assoldi. Ma ancora più atroce è la sofferenza delle prescelte che, dopo avere goduto di una giornata spesa con belle vesti, al teatro o al ristorante di lusso con una signora della buona società, a sera, quando rientrano nella loro solitudine, si trovano di fronte a uno specchio che ricorda loro l’atroce verità. Lo stesso specchio che a Sartre fanciullo ricorderà la sua irrimediabile 293
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
Quasimodo Victor Hugo Notre-Dame di Parigi, I, 5 (1831) Non tenteremo neppure di dare al lettore una idea di quel naso tetraedro, di quella bocca a ferro di cavallo; di quell’occhietto sinistro ostruito da un sopracciglio rosso e cespuglioso, mentre l’occhio destro scompariva del tutto sotto una verruca enorme; di quei denti in disordine, sbrecciati qua e là come i merli d’un castello; di quel labbro calloso, sul quale uno di quei denti sporgeva impervio come la zanna di un elefante; di quel mento forcuto, e della fisonomia, della fisonomia specialmente, che caratterizzava tutto quell’insieme, miscuglio di malizia, di sbalordimento e di tristezza (…) Un testone irto di capelli rossi; tra una spalla e l’altra una gobba enorme, di cui si faceva sentire davanti il contraccolpo; un sistema d’anche e di gambe così stranamente deviate, che queste non potevano toccarsi che, alle ginocchia e, viste di fronte, somigliavano a due lame di falcetti che si congiungessero all’impugnatura; piedi larghi, mani mostruose; e, con tutta questa deformità, non so qual temibile insieme di vigore, di agilità e di coraggio: curiosa eccezione alla eterna regola la quale esige che la forza, come la bellezza, risulti dall’armonia. Tale era il papa che i matti si erano allora allora eletto. L’uomo che ride Victor Hugo L’uomo che ride II, 1 (1869) La natura era stata prodigalmente benefica con Gwynplaine. Gli aveva fornito una bocca che si apriva fino agli orecchi, orecchi che si ripiegavano fin sugli occhi, un naso deforme fatto apposta per sostenere le oscillazioni degli occhiali di chi fa smorfie, e un viso che non si poteva guardare senza ridere (...) Ma, era stata proprio la natura? Non era stata anche aiutata? Due occhi simili a finestre soggette a servitù legale, una bocca ch’era una caverna, una protuberanza camusa con due buchi ch’eran le narici, una faccia che sembrava essere stata schiacciata, e come risultante di tutto ciò il riso: certo, la natura non sa produrre da 294
sola capolavori del genere (…) Un viso simile non è prodotto dal caso, ma voluto (…) Gwynplaine, bambino, era stato oggetto di tanta attenzione, che altri si occupasse di lui al punto da modificargli il viso? E perché no? Non fosse altro, a scopo di esibizione e di speculazione. Tutte le apparenze facevan credere che industri modellatori di fanciulli avevan lavorato a quel viso. Appariva evidente che una scienza misteriosa, probabilmente occulta, che stava alla chirurgia come l’alchimia sta alla chimica, aveva cesellato quella carne, certo in tenerissima età, e creato, con premeditazione, quel viso. Tal scienza, abile ai tagli, alle ottusioni e alle allacciature, aveva tagliato la bocca, sbrigliato le labbra, scoperto le gengive, allungato le orecchie, sconnesso le cartilagini, scombinato le sopracciglia e le guance, allargato il muscolo zigomatico, sfumato i punti e le cicatrici, riportato la pelle sulle lesioni pur mantenendo la faccia sempre a bocca aperta, e da questa opera di scultura potente e profonda era uscita fuori una maschera: Gwynplaine. Il mostro di Frankenstein Mary Shelley Frankenstein, 10 (1818) A una certa distanza scorsi d’un tratto la figura di un uomo che avanzava verso di me a una velocità sovrumana. Saltava sui crepacci di ghiaccio, tra i quali io avevo camminato con molta cautela; anche la statura, man mano che si avvicinava, sembrava superare quella di un uomo. Ero turbato: mi si annebbiò la vista e mi sentii mancare, ma venni subito rianimato dalle fredde folate delle montagne. Compresi, man mano che la sagoma avanzava (vista tremenda e odiata!) che si trattava dell’essere miserabile che avevo creato. Tremavo di rabbia e di orrore, e decisi di attendere il suo arrivo, per venire con lui a un combattimento mortale. Si avvicinò; il suo volto mostrava un’angoscia profonda, mescolata a sdegno e a malvagità, mentre la sua deformità inumana lo rendeva quasi troppo orribile a guardarsi. Ma io notai appena tutto questo: in un primo momento l’odio e la collera mi
avevano privato della voce, presi solo per investirlo di parole piene di odio e di disprezzo. “Demonio – esclamai, – come osi avvicinarti a me? Non temi che la feroce vendetta del mio braccio ricada sulla tua spregevole testa? Vattene, viscido insetto! O meglio, resta, affinché io possa calpestare la tua polvere! E, oh! Affinché possa, estinguendo la tua ignobile esistenza, far rivivere le vittime che hai assassinato così diabolicamente!». “Mi aspettavo questa accoglienza – disse il demone. – Tutti gli uomini odiano i miserabili; quanto, dunque, devo essere odiato io, che sono il più miserabile tra i viventi! Tuttavia tu, mio creatore, detesti e sprezzi me, la tua creatura, alla quale sei legato da vincoli che potranno essere sciolti soltanto con l’annientamento di uno di noi due. Intendi uccidermi. Come osi giocare così con la vita? Compi il tuo dovere verso di me e io compirò il mio verso di te e il resto dell’umanità. Se accetterai le mie condizioni, lascerò loro e te in pace; ma se rifiuterai, sazierò le fauci della morte, finché non si sarà saziata del sangue degli amici che ti restano» (…). “Come posso commuoverti? Nessuna supplica ti farà rivolgere uno sguardo benevolo alla tua creatura che implora la tua bontà e la tua compassione? Credimi, Frankenstein, io ero buono; il mio animo ardeva di amore e di umanità; ma non sono forse solo, desolatamente solo? Tu, che sei il mio creatore, mi detesti; quali speranze possono darmi i tuoi simili, che non mi devono nulla? Mi disprezzano e mi odiano. Le montagne deserte e i lugubri ghiacciai sono il mio rifugio. Ho vagato qui per molti giorni; le caverne di ghiaccio, che io solo non temo, sono la mia dimora, l’unica che l’uomo mi conceda. Saluto questi cieli tempestosi, poiché essi sono verso di me più gentili degli esseri umani tuoi simili. Se la moltitudine degli uomini sapesse della mia esistenza si comporterebbe come te, e combatterebbe per distruggermi. Non dovrei dunque odiare chi mi detesta? Non scenderò a patti con i miei nemici. Sono un infelice ed essi spartiranno con me la mia infelicità”.
3. BRUTTI E INFELICI
L’uomo che ride, 1928, regia di Paul Leni
Boris Karloff in Frankenstein, 1931, regia di James Whale
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X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
Egon Schiele, Giovane seduta, 1914, Vienna, Albertina a fronte Otto Dix, Sylvia von Harden, 1926, Parigi, Centre Pompidou
Signorina Felicita Guido Gozzano Signorina Felicita (1911) Sei quasi brutta, priva di lusinga nelle tue vesti quasi campagnole, ma la tua faccia buona e casalinga, ma i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime trecciuole, ti fanno un tipo di beltà fiamminga... E rivedo la tua bocca vermiglia così larga nel ridere e nel bere, e il volto quadro, senza sopracciglia, tutto sparso d’efelidi leggiere e gli occhi fermi, l’iridi sincere azzurre d’un azzurro di stoviglia... Fosca Igino Ugo Tarchetti Fosca (1869) Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, – ché anzi erano in parte regolari, – quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati – occhi d’una beltà sorprendente. (...) “Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, l’esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture. (…) io ho provato questo tormento in tutta la sua estensione; io più che molte altre infelici, giacché la mia sensibilità era disgraziatamente ancora più mostruosa della mia laidezza. Sì, della mia laidezza; avrò il coraggio di giudicarmi senza pietà, e di chiamare le cose col loro nome. Se tu sapessi… io ho odiato molto me medesima, ho odiato molto la mia disavvenenza, ma non mai tanto quanto ho detestato e detesto ancora il mio cuore. (…)
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3. BRUTTI E INFELICI
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X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
10_23 Ivan Le Lorraine Albright, Il ritratto di Dorian Gray, 1943-44, Chicago, The Art Institute a fronte Odilon Redon, Il ciclope, 1895-1900, Otterlo, Rijksmuseum Kröller
Il ritratto Oscar Wilde Il ritratto di Dorian Gray, 10 (1890) Ora per ora, settimana per settimana, la cosa sulla tela sarebbe invecchiata. Poteva sfuggire l’orrore del peccato, ma l’orrore dell’età l’attendeva. Le guance sarebbero divenute cave o cascanti, rughe gialle si sarebbero incise intorno agli occhi senza scintilla rendendoli 298
ripugnanti. I capelli avrebbero perso il loro fulgore, la bocca sarebbe divenuta larga o cadente, sciocca o volgare, come sono le bocche dei vecchi. E poi il collo grinzoso, le mani fredde venate di azzurro, il corpo rattrappito che ricordava in quel nonno così severo verso la sua fanciullezza. Il ritratto doveva essere nascosto, non c’era scampo.
3. BRUTTI E INFELICI
L’irrappresentabile Richard Matheson Nato d’uomo e di donna (1950) X - Questo giorno, quando c’è stata la luce, mamma mi ha chiamato schifo. Sei uno schifo ha detto. Ho visto la rabbia nei suoi occhi. Chissà cos’è uno schifo. Questo giorno veniva giù l’acqua dall’alto. Cadeva tutto intorno. Io l’ho vista. Il terreno di dietro l’ho guardato dalla finestrella. La terra risucchiava l’acqua come una bocca assetata. Ne ha bevuta troppa e si è sentita male e così è diventata tutta viscida e marrone. Non mi piaceva. Mamma è bella lo so. Qui dove dormo con intorno tutti i muri freddi ho una cosa di carta che prima stava dietro la stufa. C’è scritto STELLE DEL CINEMA. Nelle fotografie ci vedo tutte facce come quelle di mamma e papà. Papà dice che sono belle. L’ha detto una volta.
E anche mamma, ha detto lui. Mamma cosi bella e io invece così brutto. Guardati ha detto e non aveva una buona faccia. Gli ho toccato il braccio e ho detto fa lo stesso papà. Lui ha tremato tutto e si è spostato dove non ci potevo arrivare. Oggi mamma ha allentato un poco la catena così ho potuto guardare fuori dalla finestrella. È così che ho visto l’acqua che cadeva dall’alto. XX - Questo giorno era tutto dorato, in alto. L’ho capito quando ho guardato sopra e mi facevano male gli occhi. E dopo che ho guardato la cantina è diventata tutta rossa. (…) XXX - Questo giorno papà ha spinto la catena nel muro, prima della luce. Io dovevo cercare di tirarla fuori ancora. Ha detto che sono stato cattivo ad andare su. Ha detto di non farlo mai più oppure mi picchia sul serio. Quello fa male. Io avevo male. Ho dormito tutto il
giorno e ho riposato la testa contro il muro freddo. Ho pensato a quel posto bianco là sopra. (…) X - Questa è un’altra volta. Papà mi ha incatenato stretto. Sentivo dolore perché mi ha picchiato. Questa volta ho preso il bastone e gliel’ho tirato via dalla mano, e ho fatto un rumore. Lui è andato via e la sua faccia era bianca. Correva via dal mio letto e ha chiuso la porta a chiave. Non sono tanto contento. Qui è freddo tutto il giorno. La catena esce poco dal muro. E ho una brutta rabbia contro mamma e papà. Glielo farò vedere. Farò quello che ho fatto già una volta. Strillerò e riderò forte. Correrò sui muri. E alla fine mi metterò a testa in giù con tutte le gambe e riderò e schizzerò di verde per tutta la cantina fino a che non saranno dispiaciuti che non mi hanno trattato bene. Se cercano di picchiarmi di nuovo gli farò male. Lo prometto. 299
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
3. BRUTTI E INFELICI
Arnulf Reiner, L'uomo che ride, coi grandi occhi spalancati, 1977, Vienna, Galerie Ulysses
L’infanzia di Sartre Jean-Paul Sartre Le parole (1964) Mi dicono che sono bello, e ci credo. Da un po’ di tempo ho sull’occhio destro quell’ombra che mi ridurrà orbo e guercio, ma ancora non ci se n’accorge. (…) Avevo due ragioni per rispettare il mio maestro: mi voleva bene, aveva l’alito cattivo. Le persone grandi debbono essere brutte, rugose, noiose; quando mi prendevano fra le braccia, non mi dispiaceva avere un leggero disgusto da superare: era la prova che la virtù non era facile. C’erano gioie semplici, triviali: correre, saltare, mangiar dolci, baciare la pelle vellutata e profumata di mia madre; ma attribuivo maggior pregio ai piaceri studiosi e compositi che provavo in compagnia degli uomini maturi: la repulsione che mi ispiravano faceva 300
parte del loro prestigio: confondevo il disgusto con lo spirito di serietà. Ero snob. Quando il signor Barrault si chinava su di me, il suo fiato m’infliggeva tormenti squisiti, respiravo con zelo la puzza ingrata delle sue virtù. (…) Sparii, andai a fare smorfie davanti a uno specchio. Oggi, quando mi ricordo quelle smorfie, capisco che esse provvedevano alla mia protezione: contro le scariche folgoranti della vergogna io mi difendevo per mezzo di un blocco muscolare. Eppoi, esasperando il mio infortunio, esse me ne liberavano: mi precipitavo nell’umiltà per schivare l’umiliazione, mi privavo delle mie capacità di piacere per dimenticare di averle avute e di averne fatto un cattivo uso; lo specchio mi era di grande soccorso: lo incaricavo di farmi conoscere che ero un mostro; se ci
riusciva, i miei acerbi rimorsi si mutavano in pietà. Ma soprattutto, avendo lo smacco scoperto a me stesso la mia servilità, mi facevo schifoso per renderla impossibile, per rinnegare gli uomini e per esser rinnegato da loro. La Commedia del Male si rappresentava contro la Commedia del Bene; Eliacin prendeva la parte di Quasimodo. Grazie a una combinazione di torsione e increspamento, scomponevo il mio volto; mi vetrioleggiavo per cancellare i miei antichi sorrisi. Il rimedio era peggiore del male; contro la gloria e il disonore, avevo tentato di rifugiarmi nella mia verità solitaria; ma non avevo verità: trovavo in me soltanto una stupida insipienza (…) Lo specchio mi aveva insegnato quello che sapevo da sempre: ero orribilmente naturale. Non me ne sono mai riavuto.
1. LE FILOSOFIE DEL BRUTTO
George Grosz, Lo scrittore Max Hermann-Neisse, 1925, Mannheim, Stadtische Kunsthalle
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X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
4. Infelici e malati
Che la malattia rechi con sé la bruttezza lo abbiamo già visto, e si ricordi la descrizione che Rosenkranz fa dei guasti della sifilide. Ma nel commentare un quadro di Grosz non sa sottrarsi all’attrazione per i bubboni della peste bellamente ed eroicamente rappresentati. Infine, lo stesso autore ricorda che la malattia si fa brutta quando comporta lo sformarsi delle ossa e dei muscoli o tinge la pelle come l’itterizia, ma quasi bella si manifesta nella tisi e negli stati febbrili, quando il male conferisce all’organismo un aspetto etereo, sino a commentare: “che spettacolo veramente luminoso offrono una fanciulla o un giovinetto sul letto di morte, vittime dell’etisia”. Specialmente nel decadentismo si sarà molto indulgenti anche con le forme più ripugnanti del decadimento fisico, ma è in ogni caso certo che dall’Ottocento in avanti il disfacimento prodotto da una malattia polmonare (forse per esorcizzare l’invadenza di un male allora incurabile) si sublima, dai languori di Violetta morente nella Traviata verdiana sino, nel XX secolo, a quell’epopea della tisi che è La montagna incantata di Thomas Mann. Il fascino della malattia si afferma anche nelle arti figurative, sia che l’artista renda, idealizzandolo, l’esausto abbandono di una bellezza alla soglia della morte o il lento decorso di un morbo, sia che realisticamente rappresenti gli emarginati della società, resi fragili da quei mali che si chiamano vecchiaia o povertà. Bellezza mortuaria e “spirituale” che si afferma nel decadere di ogni bellezza fisica, la malattia produce evanescenti immagine di fanciulle votate all’estinzione da Shelley a Barbey d’Aurevilly a Renée Vivien. Ma del fascino ambiguo di ogni corpo malato è testimone anche Hugo quando celebra nel ragno e nell’ortica le più sgradevoli e disprezzate tra le creature della natura. Baudelaire loderà il corpo sbilenco di una decrepita vegliarda o l’andatura da sonnambulo del cieco, facendo rivivere la schiera dei non vedenti già immaginata da Breugel. Senza più alcun compiacimento estetistico, e metafora d’altri orrori, tremenda sarà l’immagine di una disgustosa ferita, fiore nel fianco del ragazzo di Kafka. O della bellezza del disgusto, pienamente ormai realizzata. 302
Jean-Antoine Gros, Bonaparte visita gli appestati di Jaffa, 1804, Parigi, Musée du Louvre
Napoleone a Jaffa Karl Rosenkranz Estetica del brutto, III (1853) Un altro eccellente quadro che appartiene a questa sfera è quello di Gros, Napoleone tra gli appestati a Jaffa. Come sono spaventosi questi malati coi loro bubboni, i colori lividi, le tinte grigio-bluastre e violette della pelle, gli sguardi infuocati e riarsi, i tratti sfigurati dalla disperazione! Ma sono uomini, sono guerrieri, sono francesi, sono soldati di Bonaparte! Lui, che è la loro anima, appare tra loro, non si cura del pericolo che viene
dall’insidia della più tremenda delle morti: la condivide con loro, così come ha condiviso la pioggia di pallottole in battaglia. Quest’idea esalta quei coraggiosi. Le teste fiaccate, cupe, si sollevano, gli sguardi semispenti o scintillanti di febbre si rivolgono a lui, le braccia fiacche si rianimano e si tendono verso di lui, un beato sorriso di gioia serpeggia sulle labbra dei moribondi – e nel mezzo di queste figure si erge compassionevole il gigante Bonaparte e tocca con la mano il bubbone di un malato che seminudo si è sollevato di fronte a lui. 303
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
Le vecchiettine Charles Baudelaire Quadri di Parigi, 94 (1861) Nelle pieghe sinuose delle vecchie metropoli Ove tutto, anche il tragico, si volge in incantesimo, Soglio o spiar, seguendo il mio fatale umore, Delle strane creature, seducenti e decrepite. Questi mostri sbilenchi, un tempo furon donne, Eponina o Laide! – Mostricini ingobbiti O distorti, bisogna amarli! Son pur anime Sotto i panni strappati, sotto misere gonne. (…) Eppure hanno certi occhi acuti come spilli, Lucenti come l’acqua che dorme nella notte, Hanno gli occhi divini dei fanciulli Che stupiscono e ridono a tutto ciò che brilli. – Avete mai notato molte bare di vecchie Che son quasi piccine come quelle d’un bimbo? La Morte sapiente crea in tal similitudine Un simbolo, dal gusto bizzarro e cattivante. (…)
Auguste Rodin, L’Inverno, 1890, Parigi, Musée d’Orsay
Erotismo mortuario Percy B. Shelley Poemi Postumi (1820) E come una donna morente che pallida e smunta ravvolta in un velo diafano esce vacillando dalla sua camera, ed è l’insensato incerto vaneggiare della mente smarrita che la guida, la luna sorse nel tenebroso oriente, una massa deforme che biancheggia. 304
Amo il ragno e l’ortica Victor Hugo Le contemplazioni (1856) Amo il ragno e l’ortica perché li odiamo. Nulla premia, tutto punisce quella cupa speranza. Gracili e maledetti, neri esseri rampanti, sono dei loro agguati. i tristi prigionieri di ciò che fanno, vittime – o sorte, o nodi fatali! Perché l’ortica è una biscia, ed il ragno un pezzente. Han l’ombra degli abissi, e li si fugge, catturati qual sono dalla notte più fosca. O passante, fai grazia a quella pianta oscura, al povero animale, alla bruttezza e alla loro puntura. Abbi pietà del male! Nella melanconia del tutto, tutto pur vuole un bacio. Se appena ci si scorda di calpestarli, di gettargli uno sguardo meno altero, ai nostri piedi e lontano dal giorno, in quell’orrore ecco la brutta bestia e la malvagia erba che mormorano: Amore!
Pieter Bruegel (scuola di), La parabola dei ciechi, s.d., Parigi, Musée du Louvre
I ciechi Charles Baudelaire Quadri di Parigi, 95 (1861) Guardali, anima mia: son proprio spaventosi; Simili a manichini, vagamente ridicoli, Tremendi e singolari, al pari di sonnambuli Volgono chissà dove gli occhi lor tenebrosi. Gli occhi, che la scintilla divina hanno perduta, Come a guardar lontano, restan alti, levati Al cielo: non li vedi andare mai curvati Inclinando pensosi la testa appesantita. Attraversan così l’illimitata tenebra, Fratelli del silenzio eterno; e la città D’intorno canta e mugghia, piena di gioiosi echi…
Una ferita grande Franz Kafka Un medico di campagna (1919) Il ragazzo è malato. Sul fianco destro, verso l’anca è aperta una ferita grande come il palmo di una mano; di color rosa, in diverse gradazioni, scura in fondo, più chiara verso gli orli, leggermente granulosa, col sangue raggrumato a chiazze, aperta come la bocca d’una miniera. Vista da lontano è così. Ma da vicino appare ancor più grave. E come guardarla senza ansar lievemente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei di suo, spruzzati anche di sangue, brulicano, trattenuti nell’interno della ferita, colle testine bianche e le numerose zampine tendenti verso la luce. Povero ragazzo, nessuno ti può aiutare. Ho scoperto la sua orrenda ferita; questo fiore nel tuo fianco ti farà morire. 305
X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
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4. INFELICI E MALATI
Angelo Morbelli, S’avanza, s.d., Verona, Galleria Civica d’Arte Moderna a fronte Francesco Mosso, La moglie di Claude, 1877, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea pagine seguenti Angelo Morbelli, Il Natale dei rimasti, 1903, Venezia, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna
Léa Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly Léa (1832) “Ma sì, sì, mia Lea, tu sei bella, tu sei la più bella delle creature, io non ti cederei, te, i tuoi occhi battuti, il tuo pallore, il tuo corpo malato, io non li cederei per la bellezza degli angeli del cielo!” (…) Quella morente di cui toccava le vesti lo bruciava come la più ardente delle femmine.
L’amore e l’agonia Renée Vivien Alla donna amata (1903) E lunghissimi gigli dal sacrale pallore Morian tra le tue mani come dei ceri spenti. Spiravi dalle dita dei profumi languenti Nell’alito sfinito del supremo dolore. Dalle tue chiare vesti si esalavan via via L’amore e l’agonia.
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X. IL RISCATTO ROMANTICO DEL BRUTTO
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4. INFELICI E MALATI
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Capitolo
XI
Il perturbante
1. Il perturbante
Johann Heinrich Füssli, La follia di Kate, 1806-1807, Francoforte, Goethe Museum
In una storia del brutto deve rientrare anche il brutto che chiameremo di situazione. Immaginiamo di trovarci in una stanza famigliare, con una bella lampada posta sul tavolo: di colpo la lampada si solleva a mezz’aria. La lampada, il tavolo, la stanza sono sempre gli stessi, nessuno di essi è diventato brutto, ma è diventata inquietante la situazione e, non riuscendo a spiegarla, la troviamo angosciosa o, a seconda della nostra tenuta di nervi, terrorizzante. È questo il principio che governa ogni vicenda di fantasmi e d’altri eventi soprannaturali, in cui ci spaventa o ci fa orrore qualcosa che non va per il suo verso giusto. Nel 1919 Freud scrive un saggio sul perturbante (Unheimliche). Questa nozione circolava nella cultura tedesca già da tempo e Freud aveva trovato in un dizionario una definizione di Schelling per cui è perturbante qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e invece è riaffiorato. Nel 1906 Ernst Jentsch aveva scritto una Psicologia del perturbante definendolo come qualcosa d’inconsueto, che provoca “incertezza intellettuale” e di fronte a cui “non ci si raccapezza”. Freud si diffondeva sull’etimologia del termine, esaminando un campo semantico che comprende, in varie lingue, nozioni come estraneo o straniero in greco, uneasy, gloomy, uncanny, ghastly, haunted (detto di una casa) in inglese, inquiétant, sinistre, lugubre, mal à son aise in francese, suspechoso, siniestro in spagnolo, nell’arabo e nell’ebraico demoniaco e orrendo, e infine disagevole, che suscita trepidante orrore, orripilante, che può essere detto di un fantasma, della nebbia, della notte, della rigidità di una figura di pietra… 311
XI. IL PERTURBANTE
Lo spettrale Karl Rosenkranz Estetica del brutto, III (1853) La contraddizione per cui il morto sarebbe tuttavia ancora vivente costituisce l’orrore della paura degli spettri. La vita morta in quanto tale non è spettrale: possiamo vegliare imperturbabili accanto a un cadavere. Ma se un alito di vento ne muovesse il sudario o il vacillare del lume ne rendesse incerti i tratti, allora l’idea pura e semplice della vita nel morto ? un pensiero che forse al di fuori di questa situazione ci può essere assai caro ? in primo luogo avrebbe in sé qualcosa di spettrale. Per noi con la morte l’aldiquà finisce; l’apparire dell’aldilà attraverso un trapassato ha il carattere di spaventosa anomalia. Il morto, appartenente all’aldilà, sembra obbedire a leggi che noi non conosciamo. Con l’orrore di fronte al morto in quanto essere preda della decomposizione, con la venerazione per il morto come essere consacrato si mescola l’assoluto mistero del futuro. Per i nostri scopi estetici dobbiamo pensare separatamente ombra e spettro, analogamente a quanto facevano i romani per Lemuri e Larve. L’idea di spiriti che appartengono originariamente a un altro ordine ha certamente in sé qualcosa di straordinario e di raccapricciante, ma nulla di spettrale. Demoni, angeli, coboldi sono così come sono fin dall’inizio, non sono diventati così con la morte. Stanno al di sopra delle ombre. Tra lo spettro e il vivente si colloca l’idea particolare del vampirismo.
Il perturbante Sigmund Freud Il perturbante (1919) Non c’è dubbio che esso appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore, ed è altrettanto certo che questo termine non viene sempre usato in un senso nettamente definibile, tanto che quasi sempre coincide con ciò che è genericamente angoscioso (…) Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. (…) La parola tedesca unheimlich [perturbante] è evidentemente l’antitesi di heimlich [confortevole, tranquillo, da Heim, casa], heimisch [patrio, nativo], e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare. Naturalmente, però, non tutto ciò che è nuovo e inconsueto è spaventoso, la relazione non è reversibile; si può dire soltanto che ciò che è nuovo diventa facilmente spaventoso e perturbante; alcune cose nuove sono spaventose, ma certo non tutte. Bisogna aggiungere qualcosa al nuovo e all’inconsueto perché diventi perturbante.
Freud ammetteva con Jentsch che certamente il perturbante si presenta come antitesi di tutto ciò che è confortevole e tranquillo, ma osservava che non tutto ciò che è inconsueto è perturbante; ricordando Schelling, osservava che perturbante appariva ciò che costituiva un ritorno del rimosso, e cioè di qualcosa di dimenticato che riaffiora, e dunque di un inconsueto che riappare dopo la cancellazione di qualcosa che era noto, che aveva turbato sia la nostra infanzia individuale sia una infanzia dell’umanità (come il ritorno di fantasie primitive circa gli spettri e altri fenomeni soprannaturali). Coerentemente coi suoi principi teorici, Freud faceva risalire il rimosso individuale a timori riguardanti la sfera sessuale e in particolare il timore dell’evirazione, e non a caso citava come eventi perturbanti situazioni “gotiche”come membra staccate dal corpo, teste mozze o piedi che danzano da soli. L’analisi più approfondita era dedicata al Mago Sabbiolino (o Uomo della sabbia) di Hoffmann. Qui un ragazzo inizia a soffrire di incubi inspiegabili a proposito di un misterioso conoscente di suo padre. E gli pare salire le scale verso la sua stanza di notte, e lo identifica col mago di cui gli parlava la balia, che getta sabbia negli occhi dei bambini che non vogliono dormire sino a che gli occhi non gli escono dalla testa. Scriveva Freud che “l’angoscia di perdere 312
Balthus, La camera, 1952-54, collezione privata
Nel racconto il protagonista, diventato grande, si invaghisce di una bellissima fanciulla, Olimpia, che in realtà è un automa. In questa “incertezza intellettuale” circa l’inanimato e il vivente riemergerebbe un’altra situazione infantile (questa volta non terrorizzante): il desiderio o la credenza che le bambole possano acquistare vita. Roger Caillois traccia una differenza tra meraviglioso e fantastico, e assegna il meraviglioso a tutte le culture in cui è naturale (e non stupisce) che accadano eventi soprannaturali, sino alle credenze nel miracolo. È quello che avviene anche con le fiabe. Ma se un bambino (in circostanze normali) non si spaventa a sentir raccontare o a vedere immagini di esseri fiabeschi malvagi e mostruosi, può soffrire di incubi terribili se, in sogno o in un dormiveglia agitato, immerso nel buio, fantastica sull’arrivo del lupo o ha l’impressione che la strega, sulla quale ha giocosamente fantasticato durante il giorno, occhieggi dalla finestra. In tal senso, la fiaba è sempre stata prodiga di orrori capaci di generare ossessioni infantili, e si pensi alle apparizioni spaventevoli nel Pinocchio di Collodi, o alle crudeltà raffigurate con noncuranza in tante favole o in storie che si volevano educative come Pierino Porcospino (Struwwelpeter). Ed è per questo che autori come Angela Carter o Isabel Allende ci richiamano alla fiaba come momento 313
qui e pagina seguente C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, illustrato da Attilio Mussino, Firenze, Bemporad, 1911
Due figuracce nere Carlo Collodi Pinocchio, 10 (1883) Si voltò a guardare e vide nel buio due figuracce nere tutte imbacuccate in due sacchi da carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi. (…) Poi si provò a scappare. Ma non aveva ancor fatto il primo passo, che sentì agguantarsi per le braccia e intese due voci orribili e cavernose, che gli dissero: - O la borsa o la vita! (…) Allora l’assassino più piccolo di statura, cavato fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo, a guisa di leva e di scalpello, fra le labbra, ...” Mangiafuoco Carlo Collodi Pinocchio, 10 (1883) Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro, e con le mani faceva schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.
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1. IL PERTURBANTE
Il serpente Carlo Collodi Pinocchio, 20 (1883) Nel tempo che diceva così, si fermò tutt’a un tratto spaventato e fece quattro passi indietro. Che cosa aveva veduto? Aveva veduto un grosso Serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntuta, che gli fumava come una cappa di camino. Impossibile immaginarsi la paura del burattino: il quale, allontanatosi più di mezzo chilometro, si mise a sedere sopra un monticello di sassi, aspettando che il Serpente se ne andasse una buona volta per i fatti suoi e lasciasse libero il passo della strada. Aspettò un’ora; due ore; tre ore; ma il Serpente era sempre là, e, anche di lontano, si vedeva il rosseggiare de’ suoi occhi di fuoco e la colonna di fumo che gli usciva dalla punta della coda. Allora Pinocchio, figurandosi di aver coraggio, si avvicinò a pochi passi di distanza, e facendo una vocina dolce, insinuante e sottile, disse al Serpente: — Scusi, signor Serpente, che mi farebbe il piacere di tirarsi un pochino da una parte, tanto da lasciarmi passare? Fu lo stesso che dire al muro. Nessuno si mosse. Allora riprese colla solita vocina: — Deve sapere, signor Serpente, che io vado a casa, dove c’è il mio babbo che mi aspetta e
che è tanto tempo che non lo vedo più!… Si contenta dunque che io seguiti per la mia strada? Aspettò un segno di risposta a quella dimanda: ma la risposta non venne: anzi il Serpente, che fin allora pareva arzillo e pieno di vita, diventò immobile e quasi irrigidito. Gli occhi gli si chiusero e la coda gli smesse di fumare. — Che sia morto davvero?… — disse Pinocchio, dandosi una fregatina di mani dalla gran contentezza: e senza mettere tempo in mezzo, fece l’atto di scavalcarlo, per passare dall’altra parte della strada. Ma non aveva ancora finito di alzare la gamba, che il Serpente si rizzò all’improvviso, come una molla scattata: e il burattino, nel tirarsi indietro, spaventato, inciampò e cadde per terra. E per l’appunto cadde così male, che restò col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria. Alla vista di quel burattino, che sgambettava a capofitto con una velocità incredibile il Serpente fu preso da una tal convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si strappò una vena sul petto: e quella volta morì davvero.
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Gustave Doré, illustrazione per Pollicino, in Contes de Perrault, Paris. Hertzel, 1862 a fronte Heinrich Hoffmann, Der Struwwelpeter, Postdam, 1938
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Il mago Sabbiolino Ernst Theodor Amadeus Hoffmann Il Mago Sabbiolino (1816) “È un uomo cattivo che viene dai piccini, quando questi non vogliono saperne di andare a nanna, e getta loro delle manate di sabbia negli occhi, finché questi sgusciano via dal capo, gatti sanguinolenti; allora egli se li butta nel sacco e al chiaro di luna li porta in cibo ai suoi piccolini; questi stan nel nido e hanno il becco storto come i gufi; con esso si beccano gli occhi dei bimbi disobbedienti”. Da quel momento l’immagine del crudele mago mi si stampò nell’animo in modo orribile; la sera, quando lo sentivo salire rumorosamente le scale, tremavo di paura e di sgomento; né la mamma poteva cavarmi fuori altro che il grido balbettato tra lagrime: “II Mago Sabbiolino! Il Mago Sabbiolino!” Mi precipitavo in camera, e tutta la notte l’orribile apparizione mi torturava (…) Ecco, vicinissimo all’uscio un passo più forte, un colpo sul saliscendi, la porta si spalanca
scricchiolando. Mi scuoto, mi faccio coraggio e prudentemente dò una sbirciata oltre la tenda. Il mago Sabbiolino è in mezzo alla camera, in faccia a mio padre, la viva luce delle lampade gli batte in viso. Il misterioso, il temuto mago è il vecchio avvocato Coppelius, che talvolta suol pranzare da noi (…) Figurati, un uomo alto dalle larghe spalle, con la grossa testa deforme, un viso terreo, le sopracciglia ispide e grigie, sotto le quali un paio d’occhi da gatto, verdastri e perforanti, schizzavano scintille, un gran naso carnoso appiattito sul labbro superiore. Il muso spesso gli si stira in un sorriso maligno; e allora sulle guance appaiono due macchie rosse, e uno strano suono come di fischio passa tra i denti serrati.
1. IL PERTURBANTE
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Walter Crane, illustrazione da The Beautiful and the Beast, London, Routledge, 1874
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La bimba, il lupo, la nonna Angela Carter Il lupo mannaro (1979) Collane di aglio appese alle porte tengono lontani i vampiri. Se, nella notte di San Giovanni, un bambino con gli occhi azzurri nasce girato al contrario, dicono che avrà il dono della divinazione. Quando scoprono una strega – qualche vecchia che fa stagionare il suo cacio mentre i vicini non riescono, o qualche altra con un gatto nero che, oh, sinistro presagio! la segue dovunque, denudano l’infame, vanno a caccia dei segni, quel terzo capezzolo che il demone al suo servizio succhia (…). Vai a trovare la nonna, che è stata malata. Portale i biscotti d’avena che per lei ho cotto sulla piastra del forno e una terrina di burro. Obbediente la bimba fa come le ordina la madre – cinque miglia di faticoso cammino nella foresta; non allontanarti dal sentiero, ci sono gli orsi, il cinghiale, i lupi affamati (…) Quando udì l’urlo agghiacciante del lupo, lasciò cadere i doni, afferrò il coltello e si volse verso la bestia. Era enorme, gli occhi rossi, le fauci grigie grondanti di bava; chiunque all’infuori del figlio di un montanaro sarebbe morto di spavento alla sua vista. Le si avventò alla gola, come fanno i lupi, ma lei gli vibrò un poderoso fendente con il coltello di suo padre e gli mozzò la zampa destra anteriore. (...) Ma non era più una zampa di lupo. Era una
mano, mozzata al polso, una mano indurita dal lavoro che l’età aveva coperto di macchie. All’anulare, una fede nuziale, sull’indice una verruca. Dalla verruca capì che si trattava della mano di sua nonna. Sollevò il lenzuolo ma, a quel punto, la vecchia si svegliò, e cominciò a dibattersi, a emettere strida, a urlare come fuori di sé. Ma la bimba era robusta ed era armata del coltello da caccia di suo padre; riuscì a tener ferma la nonna tanto quanto le bastò per vedere ciò che le aveva procurato la febbre. Là dove sarebbe dovuta essere la mano destra era un moncone ormai putrescente. La bimba si fece il segno della croce e lanciò un tale urlo che i vicini lo udirono e in un attimo accorsero. A prima vista riconobbero nella verruca un capezzolo della strega; trascinarono la vecchia, così com’era, in camicia da notte, nella neve, spingendone a bastonate la vecchia carcassa fino al margine della foresta dove, a sassate, la batterono fino a che fu morta. Dopo di ché la bimba visse nella casa della nonna; felice e contenta.
1. IL PERTURBANTE
Il meraviglioso mago di Oz, 1939, regia di Victor Fleming
La Perfida Strega dell’Ovest L. Frank Baum Il mago di Oz, 12 (1900) Nessuno l’ha mai ammazzata finora, quindi pensavo naturalmente che vi avrebbe fatti schiavi, come ha fatto con tutti gli altri forestieri. Ma badate! È una strega malvagia e crudele, ed è capacissima di non permettervi di ucciderla. (…) Ora, la Perfida Strega dell’Ovest aveva un occhio solo, ma questo era potente come un telescopio e riusciva a vedere dappertutto. Così, mentre se ne stava seduta sulla porta del suo castello, voltandosi per caso vide Dorothy che giaceva addormentata con tutti i suoi amici intorno. Erano lontani parecchie miglia, ma la Perfida Strega montò sulle furie al vederli nel suo paese e soffiò un fischietto d’argento che teneva appeso al collo. Immediatamente un branco di grossi lupi accorse verso di lei. Avevano lunghe zampe, occhi feroci e denti affilati.
- Andate da quei forestieri, ? ordinò la Strega ? e sbranateli! (…) - Ebbene, ancora qualche minuto e io sarò completamente squagliata, e tu resterai padrona di questo castello! Sono stata molto cattiva finché ero in vita, ma non avrei mai immaginato che una bambinuccia come te potesse farmi morire e metter fine alle cattive azioni! Sta attenta! È finita! Con queste parole la Strega si trasformò in una massa liquida, informe e bruniccia che cominciò subito a dilagare sul pavimento ben spazzato della cucina. Vedendo che ormai non rimaneva più nessuna traccia della sua nemica, Dorothy gettò su quella poltiglia un altro secchio pieno d’acqua, poi scopò fuori tutto dalla porta della cucina.
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XI. IL PERTURBANTE
Ho paura di me Guy de Maupassant Lui? (1883) Non ho paura d’un pericolo. Se entrasse un uomo, lo ucciderei senza un brivido. Non ho paura dei fantasmi; non credo al soprannaturale. Non ho paura dei morti; credo all’annullamento definitivo di ogni essere che scompare. Allora?..., Allora?..., Ebbene! Ho paura di me stesso! Ho paura della paura; paura degli spasimi della mente che si smarrisce, paura di quell’orrenda sensazione che è il terrore incomprensibile (...) Ho paura dei muri, dei mobili, degli oggetti familiari che si animano, per me, d’una specie di vita animale. Ho paura soprattutto dell’orribile turbamento del mio pensiero, della ragione che mi sfugge in un caos, dispersa da una misteriosa invisibile angoscia. Fantasmi Montagne Rhodes James Quis est iste qui venit (1904) È difficile che il lettore sia in grado di immaginare l’atroce sensazione che prese il professore quando vide una figura rizzarsi improvvisamente a sedere su quello che aveva ogni ragione di ritenere un letto vuoto. Con un balzo solo fu in piedi e si precipitò verso
a fronte Daniel Lee, Giurato n. 4 (Spirito volpe), 1994, Linz, Oberösterreichische Landesmuseum
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la finestra, dove si trovava la sua unica arma, l’ombrello di cui s’era servito per puntellare la tenda. Un istante dopo si rese conto di aver commesso un errore gravissimo, poiché il personaggio sorto dal letto vuoto, con un movimento rapido e silenzioso, scivolò a terra e venne a piantarsi, a braccia aperte, in mezzo alla stanza, proprio di fronte alla porta. Parkins lo guardava con un senso di orrida stupefazione. Per qualche inspiegabile ragione, l’idea di passargli accanto, raggiungere la porta, e fuggire, gli riusciva intollerabile; in nessun caso – e non sapeva perché – avrebbe potuto sopportare di toccarlo; quanto a lasciarsi toccare da lui, si sarebbe piuttosto gettato dalla finestra. (…) Ma ora la figura prese ad avanzare china verso terra, e a un tratto lo spettatore capì, con sollievo e con orrore insieme, che doveva essere cieca, poiché andava brancolando e annaspando con le lunghe braccia molli, a passi cauti e incerti (…) A quanto potei capire, gli è rimasta soprattutto impressa la faccia, una faccia mostruosa fatta di lenzuola attorcigliate.
Freud riconosceva che la sua identificazione del perturbante col ritorno del rimosso riguardava la vita quotidiana ma che, nell’arte, “per ottenere effetti perturbanti, esistono una quantità di mezzi di cui la vita non può disporre”. Si consideri per esempio Il giro di vite di Henry James (1898) che ci mostra come, quando i meccanismi ordinari del romanzo gotico non riuscivano più a orripilare lettori ormai smaliziati, nel secondo Ottocento si è fatto ricorso a meccanismi più raffinati. A una giovane governante vengono affidati, in una antica dimora campestre, un bambino e una bambina di straordinaria sensibilità, grazia e dolcezza, ma a poco a poco la donna ha l’impressione che i due fanciulli non siano innocenti come le apparivano e abbiano rapporto coi sinistri fantasmi di un servo e di una governante precedente. Tutto si svolge in un’atmosfera da incubo, il lettore può sospettare che tutto nasca dalla paranoia dell’istitutrice, e tuttavia non riesce a “raccapezzarsi” di certi fatti che pare accadano davvero. Domina completamente l’incertezza intellettuale tra reale e immaginato. Riprendendo Freud, Caillois scrive che il fantastico come perturbante si manifesta in una cultura in cui ormai si crede che il miracolo non sia possibile, e tutto dovrebbe poter essere spiegato secondo le leggi di natura, per cui il tempo non può tornare indietro, un individuo non può trovarsi contemporaneamente in due posti, gli oggetti non hanno vita, uomini e animali hanno caratteristiche diverse, eccetera.
XI. IL PERTURBANTE
Dracula, 1992, regia di Francis Ford Coppola, a pagina 325 Salvador Dalí, Gala e l’Angelus di Millet precedono l’arrivo imminente delle anamorfosi coniche, 1933, Ottawa, National Gallery of Canada a pagina 326 Nosferatu, 1922, regia di Friedrich Wilhelm Murnau a pagina 327 Edvard Munch, Vampiro, 1893-1894, Oslo, Munch Museet
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L’inspiegabile appare, allora, quando non troviamo più una stanza o una strada che conoscevamo benissimo, gli stessi fatti si riproducono più volte, un manichino si anima, quello che era creduto un sogno o un incubo si rivela realtà, appaiono spettri, si sospetta che alcuni individui possano gettare il malocchio. Culmine dell’inspiegabile perturbante è, infine, l’apparizione di un nostro sosia, ossia del doppio. Troviamo apparizioni di un sosia in Gogol’, Gautier, Poe e altri, e l’esperienza è ancor più angosciosa quando, come in Dostoevskij, tutti gli altri trovano o sembrano trovare la cosa del tutto ovvia e accettabile. Freud ricordava che, se nell’antichità (quando il faraone si assicurava una sorta di sopravvivenza facendo modellare la sua immagine) il doppio era garanzia di immortalità, in una fase in cui viene superato il narcisismo primario del primitivo e del bambino il fenomeno diventa sinistro avviso di morte. Un caso assai popolare di perturbante è il vampirismo. Oggi letteratura e cinema si rifanno di solito all’archetipo del Dracula di Bram Stoker (1897), ma il tema dell’essere che succhia il sangue altrui per continuare una sua stranita vita oltre la tomba proviene da antiche leggende. Il vampiro genera angoscia non tanto quando si manifesta come essere-pipistrello dai canini grondanti di sangue, perché in tal caso scatta semplicemente la paura, bensì quando del vampirismo altrui non si ha certezza ma soltanto
1. IL PERTURBANTE
L’Orco, Parco dei mostri di Bomarzo, 1540 ca.
Il sospetto come generatore d’inquietudine lo si ritrova in certa pittura contemporanea quando una semplice casa, in una luce ambigua, e isolata nel paesaggio, diventa haunted, si carica di significati minacciosi e maligni (per la narrativa vedi Blackwood). Maestro del sospetto è stato il Kafka del Processo ma talora (come ne La metamorfosi) perturbante non è tanto l’orrore che viene mostrato e descritto (un uomo si risveglia trasformato in un insetto schifoso), bensì il fatto che famigliari e conoscenti prendano l’evento come imbarazzante ma del tutto naturale, e non sospettino una alterazione dell’ordine delle cose – mentre noi sospettiamo che il racconto parli della nostra acquiescenza di fronte al male che ci circonda. Infine abbiamo il ritorno dei morti. Allo spettrale già Rosenkranz dedicava una sua analisi in Estetica del brutto (III). La morte in quanto tale non è ancora spettrale. “Possiamo vegliare imperturbabili accanto a un cadavere. Ma se un alito di vento ne muovesse il sudario o il vacillare del lume ne rendesse incerti i tratti, allora l’idea pura e semplice della vita nel morto (...) avrebbe in sé qualcosa di spettrale.” Il fantasma non ha la tranquilla ovvietà dei lemuri dell’antichità, dei demoni, degli angeli o delle creature fiabesche, che sono così come erano fin dall’inizio. L’apparire del trapassato dall’aldilà (anche se desidereremmo che vivesse ancora) assume il carattere di una “spaventosa anomalia”. 323
XI. IL PERTURBANTE
Il sosia Fëdor Dostoevskij Il sosia, V (1846) Il signor Goljadkin poteva già perfino ravvisare del tutto il suo nuovo compagno ritardatario: lo ravvisò e gettò un grido di stupore e di terrore; le gambe gli si piegarono (…) Lo sconosciuto si fermò infatti – a una decina di passi dal signor Goljadkin, e in modo che la luce del lampione più vicino cadeva tutta sulla sua intera figura – si fermò, si volse verso il signor Goljadkin e, con aria impazientemente inquieta, attese quel che egli avrebbe detto. – Scusate, io forse mi sono ingannato, – disse con voce tremante il nostro eroe (…) Il fatto è che questo sconosciuto gli era parso adesso in certo qual modo noto. Ciò non sarebbe stato ancora nulla. Ma egli aveva riconosciuto, aveva ora quasi pienamente riconosciuto quell’uomo. L’aveva visto spesso, quell’uomo, l’aveva visto un tempo, e perfino molto recentemente (…) Sapeva perfino come si chiamava, com’era il cognome di quell’uomo; e intanto a nessun costo, e ancora una volta per nessun tesoro del mondo, avrebbe voluto nominarlo (…) Lo sconosciuto si fermò proprio di fronte alla casa in cui abitava il signor Goljadkin. Si udì il suono del campanello, e quasi nello stesso tempo lo stridere del catenaccio. Il portello si aprì, lo sconosciuto si curvò, baluginò e scomparve. Quasi nello stesso attimo arrivò anche il signor Goljadkin e volò come una freccia sotto il portone (…) Il compagno del signor Goljadkin sembrava pratico, sembrava uno della casa; correva su disinvolto, senza inciampi e con perfetta cognizione del luogo (…) Fuori di sé, l’eroe del nostro racconto entrò di corsa nella sua abitazione; senza togliersi il cappotto e il cappello, attraversò il piccolo corridoio e, come colpito da un fulmine, si fermò sulla soglia della propria camera (…). Lo sconosciuto stava seduto dinanzi a lui, anch’egli con cappotto e cappello, proprio sul suo letto, sorridendo alquanto e, strizzando un po’ gli occhi, gli faceva amichevolmente cenno con il capo (…) Il signor Goljadkin aveva perfettamente riconosciuto il suo amico notturno. L’amico notturno non era altri che lui steso, lo stesso signor Goljadkin, un altro signor Goljadkin, ma assolutamente tal quale come lui - in una parola, come si dice, il suo doppio, sotto tutti gli aspetti. 324
Il doppio come naso Nikolaj Gogol’ Il naso (1835) A un tratto restò come inchiodato davanti alla porta d’una casa; sotto i suoi occhi avveniva un fatto incomprensibile; presso l’ingresso s’era fermata una vettura; lo sportello s’apri; ne saltò giù, piegandosi, un signore in uniforme che corse per la scala. Ora, quale non fu il terrore e insieme la meraviglia di Kovalev quando riconobbe in colui… il suo proprio naso! (…) – Illustre signore, – disse Kovalev col senso della dignità offesa, – non so come debba prendere le vostre parole (…) È chiaro che voi siete il mio naso! Il naso guardò il maggiore aggrottando le ciglia. – V’ingannate, egregio signore: io non appartengo che a me stesso. Doppia sorte Théophile Gautier Il cavaliere doppio (1840) Il piccolo Oluf è un bambino molto strano: nella sua pelle bianca e vermiglia sembra che convivano due bambini dal carattere opposto: un giorno è buono come un angelo, un altro è cattivo come un demonio, morde il seno della madre, e con le unghie graffia il viso della governante. (…) Cosa strana, Oluf sentiva i colpi inferti all’ignoto cavaliere, soffriva delle ferite che procurava e di quelle che riceveva. Aveva avvertito un gran freddo nel petto, come se una lama vi fosse penetrata e cercasse il cuore, e tuttavia alla sua altezza la corazza non era forata. Solo il braccio destro era ferito. Singolare duello, in cui il vincitore soffriva quanto il vinto e in cui dare o ricevere era la stessa cosa. Raccogliendo le forze Oluf fece volar via con un manrovescio il terribile elmo del suo avversario. Quale terrore! Che cosa vide il figlio di Edwige e di Lodborg ? Vide se stesso davanti a sé: uno specchio sarebbe stato meno fedele. Si era battuto con il proprio spettro, con il cavaliere dalla stella rossa. Lo spettro lanciò un gran grido e scomparve. La lotta con il doppio Edgar Allan Poe William Wilson (1839) Breve fu lo scontro. Deliravo di una folla di furori, e mi sentivo nel braccio l’energia e la forza di una folla. In pochi secondi lo forzai d’impeto contro il legno
della parete, ed avendolo sì alla mia mercè, immersi la spada, con bruto furore, ripetutamente nel suo petto. In quel momento qualcuno tentò il nottolino della porta. Mi affrettai ad impedire un’intrusione, e subito tornai al mio moribondo antagonista. Ma quale lingua umana può adeguatamente esprimere lo stupore, l’orrore che allora si impadronì di me, davanti a quello spettacolo? Il breve istante in cui avevo distolto lo sguardo era bastato per causare un mutamento totale nella parte a me opposta della stanza. Un grande specchio – così mi sembrava nel mio turbamento – era apparso in quel luogo; e, come mi accostai allo stremo del terrore, la mia stessa immagine, pallida in volto, intrisa di sangue, mi venne incontro con passo malfermo. Così sembrava, ma non era. Era il mio antagonista – era Wilson, che mi stava dinnanzi, negli spasimi della fine. La maschera, il mantello giacevano sul pavimento, dove li aveva gettati. Non un filo dei suoi indumenti, non un tratto dei suoi intensi e singolari lineamenti che non fossero, in identità perfetta, assolutamente miei! Era Wilson; ma non più parlava con quel suo bisbiglio, ed avrei potuto immaginare che io appunto stessi parlando, allorché mi disse: Tu hai vinto, ed io mi arrendo. E tuttavia, d’ora in poi, anche tu sei morto, morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza! In me tu vivevi… e, nella mia morte, in questa immagine, che è la tua, vedi come totalmente tu hai assassinato te stesso.
XI. IL PERTURBANTE
Incontro con il Conte Dracula Bram Stoker Dracula, II (1897) Il volto era grifagno, assai accentuatamente tale, sporgente l’arco del naso sottile con le narici particolarmente dilatate; la fronte era alta, a cupola, e i capelli erano radi attorno alle tempie, ma altrove abbondanti. Assai folte le sopracciglia, quasi unite alla radice del naso, cespugliose tanto che i peli sembravano attorcigliarvisi. La bocca, per quel tanto che mi riusciva di vederla sotto i baffi folti, era dura, d’un taglio alquanto crudele, con bianchi denti segnatamente aguzzi, i quali sporgevano su labbra la cui rossa pienezza rivelava una vitalità stupefacente in un uomo così attempato. Quanto al resto, orecchie pallide, assai appuntite all’estremità superiore; mento marcato e deciso, guance sode ancorché affilate. L’effetto complessivo era di uno straordinario pallore (…) Come il Conte si è chinato verso di me e le sue mani mi hanno sfiorato, non ho potuto reprimere un brivido. Può darsi 326
che il suo alito fosse fetido, certo è che un’orribile sensazione di nausea mi ha invaso e, per quanto facessi, mi è stato impossibile celarla (…) Quella che avevo scorto era la testa del Conte che si sporgeva dalla finestra. Non ne vedevo il volto, ma lo riconoscevo dal collo e dal movimento di spalle e braccia. E comunque, non avrei potuto sbagliarmi sulle mani che avevo avuto tante occasioni di studiare. Dapprima ne sono stato interessato e alquanto divertito, poiché è straordinario come un prigioniero possa distrarsi con un nonnulla. Ma questa mia prima impressione si è tramutata in ripugnanza e in terrore, allorché ho visto l’uomo tutto quanto uscire lentamente .dalla finestra, e prendere a strisciare giù per il muro del castello, al di sopra dello spaventevole abisso; a faccia in giù, il mantello aperto a guisa di due grandi ali. Dapprima non sono riuscito a credere ai miei occhi. Ho pensato che fosse un miraggio prodotto dalla luce della luna, un bizzarro gioco di ombre; ma ho continuato a guardare: non
m’ingannavo. Vedevo le dita delle mani e dei piedi aggrapparsi ai margini delle pietre, messi a nudo dagli anni che avevano asportato la malta, e così il Conte, servendosi di ogni aggetto e irregolarità, muoveva verso il basso con notevole rapidità, esattamente come una lucertola su un muro (…) Di fronte a me, nel raggio dell’astro notturno, erano tre donne giovani, dame nell’abbigliamento e nel tratto. Al primo vederle, ho creduto di sognare perché, sebbene avessero la luna alle spalle, non proiettavano ombra alcuna sul pavimento. Mi si sono accostate, guardandomi per un po’, quindi sussurrando tra loro. Due erano brune, con nasi aquilini come quello del Conte, e grandi occhi scuri, penetranti, che sembravano quasi rossi nel lucore giallo pallido della luna. La terza era bionda come più non si può essere, con grandi masse di capelli d’oro ondulati, e occhi come pallidi zaffiri. Avevo l’impressione, non so perché, di conoscerne il volto, e che fosse correlato a un onirico timore, ma non sono riuscito a ricordare, al
1. IL PERTURBANTE
momento, il dove e il come. Tutte e tre avevano candidi denti smaglianti che scintillavano come perle sulle labbra rosse e voluttuose. Provavo, per esse, qualcosa che mi metteva a disagio, una brama e in pari tempo una paura mortale. Avvertivo in cuor mio un perverso, ardente desiderio di essere baciato da quelle rosse labbra (…) Non osavo sollevare le palpebre, ma guardavo e vedevo perfettamente. La ragazza si è inginocchiata e si è protesa su di me, con avidità, sì. C’era una manifesta voluttà che era insieme elettrizzante e repulsiva, e mentre piegava il collo si è leccata le labbra proprio come un animale, e al lume di luna ho veduto scintillare le labbra umide e scarlatte e la lingua rossa lambire i denti bianchi e appuntiti. Giù, sempre più giù scendeva il suo capo, e le labbra si sono allontanate dalla mia bocca e dal mio mento, sì che parevano prossime ad avventarmisi alla gola. Poi si è arrestata, e ho udito il risucchio della lingua che leccava denti e labbra, e ho potuto avvertire il fiato caldo sul collo. E la pelle mi si è accapponata come
quando una mano ci si accosta per farci il solletico, vicina, sempre più vicina. Quindi il tocco delle labbra duttili, frementi, sulla pelle sensibilissima della gola, e il duro contatto di due denti acuminati, che sfiorano appena e si fermano. Ho chiuso gli occhi in un’estasi di languore, e ho atteso, atteso col cuore che mi batteva forte. Gonfio di sangue Bram Stoker Dracula, III (1897) Il Conte giaceva nella cassa, ma sembrava che il tempo fosse tornato indietro, perché i baffi e i capelli erano diventati color grigio ferro; le guance erano più piene e la pelle sembrava più colorita; la bocca era più rossa che mai perché sulle labbra c’era sangue fresco che gocciolava lungo il mento e il collo. Gli occhi incavati e brucianti erano immersi nel gonfiore delle palpebre. Quell’orribile creatura era gonfia di sangue; giaceva come una lurida sanguisuga, esausta nella sua pienezza (…) Un desiderio terribile mi prese, liberare il mondo da quel mostro. Non avevo armi a portata di mano, ma afferrai la vanga che
gli operai usavano per riempire le casse, la sollevai in alto e colpii con tutte le mie forze la faccia malvagia. In quel momento, la testa si voltò e quegli occhi di fuoco mi si puntarono addosso, orrendi come quelli del basilisco.
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XI. IL PERTURBANTE
Martin Frobenius Ledermueller, Amusement microscopique, Norimberga, Winterschmidt, 1764 a fronte Alberto Savinio, Roger et Angélique, 1930 ca., collezione privata
Diventare altro Franz Kafka La metamorfosi (1915) Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta da letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi.
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XI. IL PERTURBANTE
Edward Hopper, Casa vicino alla ferrovia, 1925, New York, Museum of Modern Art
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Certe case Algernon Blackwood La casa vuota (1906) Certe case, come certe persone, hanno, chissà come, il potere di manifestare immediatamente la loro essenza maligna. Se si tratta di persone, non è detto che a tradirle sia questo o quel particolare del loro aspetto esteriore: può darsi, anzi, che ostentino un volto aperto e un sorriso ingenuo. Ma basta frequentarle anche per poco, e subito si forma in noi la convinzione assoluta che ci troviamo di fronte a creature fondamentalmente «diverse» : che la pasta di cui son fatte è il male. Sembrano respirare, e portarsi appresso (forse a loro stessa insaputa) un’atmosfera così densa di segreta nefandezza che in loro presenza l’uomo comune si ritrae istintivamente, come da un appestato. Ciò vale, forse, anche per le case ed è il sentore delle sinistre azioni perpetrate sotto quel tetto – e che ancora aleggia dopo la scomparsa dei protagonisti – a farci venire la pelle d’oca e rizzare i capelli in capo. La furia originale dell’omicida e il terrore provato dalla sua vittima, riecheggiano a distanza di anni nel cuore dello spettatore ignaro, che all’improvviso si sente i nervi a fior di pelle e il sangue che gli si agghiaccia nelle vene: senza una ragione tangibile o visibile, il terrore l’ha colto. (...)
Furtivamente, camminando in punta di piedi e facendo schermo alla candela perché non rivelasse la loro presenza attraverso le finestre sguarnite, entrarono innanzi tutto nella vasta sala da pranzo. Non c’era ombra di mobili. Pareti nude e brutti camini dalle griglie vuote fissavano il loro sguardo su di loro. Tutto – lo sentivano – reagiva a quella intrusione, tutto sembrava spiarli con occhi ostili. Una scia di sussurri li seguiva; un corteo di ombre si schierava in silenzio qua e là; alle loro spalle pareva che ci fosse sempre qualcosa in agguato, pronto a cogliere l’occasione per scatenarsi. Impossibile sottrarsi all’impressione che le segrete attività di cui la stanza era teatro fino a un istante prima, fossero state interrotte al loro arrivo, e che ora si attendesse soltanto la loro partenza per riprenderle. Tutto lo spazio interno del vecchio edificio pareva essersi coagulato in una presenza maligna che li ammoniva a desistere dall’impresa, a non occuparsi dei fatti altrui; la tensione nervosa dei due visitatori cresceva ad ogni istante.
1. IL PERTURBANTE
Alberto Savinio, Autoritratto, 1936 ca., Torino, Galleria d’Arte Moderna
Uno schifoso odore muffa Montague Rhodes James Il tesoro dell’abate Thomas (1904) Nel buio più completo, continuai a cavare fuori l’oggetto: una specie di enorme borsa, che passava a mala pena per l’apertura. Alla fine, dopo essere restata un momento in bilico sull’orlo della cavità, mi scivolò sul petto e mi mise le braccia intorno al collo. – Mio caro Gregory, questa che vi racconto è la pura verità. Credo di aver sperimentato il più orrendo dei terrori, la più spaventosa delle ripugnanze, che un uomo possa sopportare senza perdere la ragione (…) Sentivo uno schifoso odore di muffa, e una specie di fredda e viscida faccia che scivolava lentamente contro la mia, mentre parecchie, non so quante, gambe, o braccia, o tentacoli, mi si avviticchiavano attorno. Urlai come una bestia, dice Brown, e precipitai all’indietro dal gradino dove stavo, mentre con un tonfo quell’essere andava a cadere, a quanto suppongo, sul gradino stesso. (...) – Bene, ecco, signore… – disse Brown a bassa voce, e piuttosto nervosamente, – ecco precisamente come andò. Il signore stava lavorando un po’ più in basso, davanti all’apertura nel muro, e io gli facevo lume, quando m’accorsi che qualche cosa era cambiato nei riflessi dell’acqua che luccicava in fondo al pozzo. Guardai in alto, e vidi un’ombra che si
sporgeva dal parapetto, spiandoci. (…). Ah, che brutta faccia, signore! La faccia d’un vecchio rugoso e sdentato, col naso a becco, le guance cadenti, e con gli occhi più cattivi che abbia mai visto. Spari mentre salivo gli ultimi gradini, e quando guardai fuori non c’era più nessuno, il cortile era vuoto (…) Fantasmi d’infanzia Isabel Allende D’amore e ombra (1984) Rammentò i racconti di fantasmi narrati da Rosa durante l’infanzia: il diavolo installato negli specchi per spaventare le vanitose; l’uomo nero che reggeva il sacco colmo di creature imprigionate; i cani con squame di coccodrillo sul dorso e zoccoli da caprone; uomini con due teste in agguato negli angoli per acciuffare le bambine che dormono con le mani sotto le lenzuola. Storie truculente per provocarle incubi, ma la cui malia era tale che non riusciva a smettere di ascoltarle e di chiederle a Rosa, tremando di paura, desiderosa di tapparsi le orecchie e di chiudere gli occhi per non sapere e al tempo stesso ansiosa di conoscere i minimi dettagli.
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Capitolo
XII
Torri di ferro e torri d’avorio
1. La bruttezza industriale
Otto Griebel, Disoccupato, 1921, Dresda, Stadt Museum
Dal XVIII secolo, con l’invenzione del telai meccanici e della macchina a vapore, si erano prodotte radicali trasformazioni nell’organizzazione del lavoro; nel secolo successivo, con lo sviluppo di manifatture e industrie, si affermava il modo di produzione capitalista, il sorgere di un proletariato operaio e la nascita di invivibili agglomeramenti urbani. Alcuni pensatori o scrittori si sono entusiasmati per queste straordinarie novità, e basti l’esempio di Giosuè Carducci che nel suo Inno a Satana (1863) celebrerà il treno a vapore come mostro “bello e orribile” che simboleggia, col progresso, la riscossa di un Satana che si ribella all’oscurantismo medievale. Ma inizia parimenti una critica dell’universo industriale, di cui l’espressione più famosa sarà il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels (1848). Contemporaneamente, all’interno della stessa borghesia, si manifestano sindromi di rivolta, per esempio con l’opera e l’attività sociale di John Ruskin. Innamorato dei primitivi italiani e dell’architettura gotica, Ruskin, apostolo di una nostalgica idea di bellezza, si batte contro lo squallore di “una plebe che fa soldi”, propugnando un’utopia socialista di ispirazione cristiana, richiamandosi a modi di produzione ispirati alla gioia creativa degli artigiani di un tempo. Negli stessi decenni (benché la rappresentazione degli orrori cittadini si abbia già nel XVIII secolo con Hogarth o Blake), di fronte allo shock della città industriale, saranno artisti come Doré e scrittori come Dickens, Poe, Wilde, Zola, sino a London ed Eliot, a fornire un’agghiacciante rappresentazione dello squallore del progresso. 333
1. LA BRUTTEZZA INDUSTRIALE
James Abbott Whistler, Tamigi. Notturno in blu e argento, 1872-1878, Yale, Center for British Art, Paul Mellon Fund a fronte William Hogarth, La strada del gin, 1750-51
Le miserie di Londra Charles Dickens Le avventure di Oliver Twist, 8 (1838) Non aveva mai visto un luogo più sudicio e più miserabile; la strada era strettissima e piena di fango e l’aria era impregnata di effluvi disgustosi. Vi era una quantità di bottegucce, ma l’unica merce in vendita sembrava consistere in mucchi di ragazzi che, anche in quell’ora serale, facevano il chiasso fuori delle porte o strepitavano negli interni. I soli luoghi che sembrassero prosperare in quella generale miseria erano le osterie, dove irlandesi della più bassa estrazione litigavano a più non posso. Passaggi coperti e cortili che qua e là si diramavano dalla strada principale mostravano gruppetti di case, dove uomini e donne ubriachi si avvoltolavano letteralmente nella sporcizia. Strade di Londra William Blake Songs of Experience, “Londra” (1794) Vago per strade commerciali vicino a dove il Tamigi commerciale scorre e colgo in ogni volto che incontro segni di debolezza, segni di dolore. Nel grido d’ogni uomo nel pianto di paura d’ogni bimbo, in ogni voce, in ogni bando, sento le manette forgiate dalla mente. Come il grido dello spazzacamino spaventa ogni chiesa annerita dal fumo; e il sospiro del soldato sventurato scorre via nel sangue giù per le mura del palazzo. Ma soprattutto per le strade a mezzanotte sento
come la bestemmia della giovane prostituta rinsecchisca le lacrime del bimbo appena nato e contagi il carro funebre del matrimonio. Nebbia a Londra Charles Dickens Casa desolata, I (1852-1853) Nebbia ovunque. Nebbia su per il fiume, che fluisce tra isolette e prati verdi; nebbia giù per il fiume che scorre insudiciato tra le file di navi e le sozzure che giungono alla riva di una grande (e sporca) città. Nebbia sulle paludi dell’Essex, nebbia sulle alture del Kent. Nebbia che s’insinua nelle cambuse dei brigantini di carbone; nebbia sparsa sui cantieri e librata nel sartiame dei grandi bastimenti; nebbia sospesa sulle falchette dei barconi e dei piccoli battelli. Nebbia negli occhi e nella gola dei decrepiti pensionati di Greenwich che respirano a stento accanto ai focolari delle loro camerate; nebbia nel bocchino e nel fornello della pipa pomeridiana dell’iroso capitano di lungo corso rintanato nella sua cabina; nebbia che morde crudelmente le dita dei piedi e delle mani del piccolo mozzo intirizzito in coperta. Passanti occasionali che sui ponti guardano dal parapetto un infimo cielo di nebbia, avvolti essi stessi nella nebbia come in una mongolfiera sospesa tra nuvole oscure. Luce a gas che balugina nella nebbia in diversi punti delle vie, quasi come il sole appare al coltivatore e all’aratore nei campi inzuppati. La maggior parte delle botteghe illuminate due ore prima del tempo, e la luce a gas sembra che lo sappia, perché ha l’aria indifferente e svogliata. 335
XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
Il trionfo dei fatti Charles Dickens Tempi difficili, I, 5 e 10 (1854) Coketown era il trionfo dei fatti. Era una città di mattoni rossi o, meglio, di mattoni che sarebbero stati rossi, se fumo e cenere lo avessero consentito. Così come stavano le cose, era una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano, snodandosi ininterrottamente, senza mai svoltolarsi del tutto, interminabili serpenti di fumo. C’era un canale nero e c’era un fiume violaceo per le tinture maleodoranti che vi si riversavano; c’erano vasti agglomerati di edifici pieni di finestre che tintinnavano e tremavano tutto il giorno; a Coketown gli stantuffi delle macchine a vapore si alzavano e si abbassavano con moto regolare e incessante come la testa di un elefante in preda a una folle malinconia. C’erano tante strade larghe, tutte uguali fra loro, e tante strade strette ancora più uguali fra loro; ci abitavano persone altrettanto uguali fra loro, che entravano e uscivano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso scalpiccio sul selciato, per svolgere lo stesso lavoro; persone per le quali l’oggi era uguale all’ieri e al domani, e ogni anno era la replica di quello passato e di quello a venire. […] La prigione avrebbe potuto essere l’ospedale, l’ospedale avrebbe potuto essere la prigione, il municipio avrebbe potuto essere o l’uno o l’altro oppure tutti e due, o anche qualsiasi altra cosa. Nella parte più industriosa di Coketown, nelle fortificazioni più segrete e recondite di quella orribile cittadella dove mura di mattoni sbarravano il passo alla natura con la stessa prepotenza con cui custodivano gas ed esalazioni mefitiche; nel cuore di quel labirinto di cortili che si succedevano a cortili, di vicoli che si susseguivano a vicoli, tutti costruiti a pezzi e bocconi in un posto scelto a caso, solo perché un tizio qualsiasi ne aveva bisogno 336
urgentemente; in questo cuore dove gli edifici, ammassati in un insieme disarmonico, si addossavano, appiccicati l’uno all’altro, fino a esserne soffocati; nella nicchia più remota di questo grande serbatoio, ormai quasi del tutto esaurito, dove i camini, per creare le necessarie correnti d’aria, avevano una infinita varietà di forme -e uno era tutto storto, l’altro tutto striminzito – come a indicare la natura di coloro che nascevano in ciascuna di quelle case; in mezzo alla folla di Coketown, chiamata genericamente la “manodopera” – una razza di esseri che sarebbe stata tenuta in maggior considerazione, se la Provvidenza avesse ritenuto opportuno fornirli soltanto di mani o, come avviene per alcune specie inferiori di esseri marini, soltanto di mani e stomaci – in questo luogo viveva un certo Stephen Blackpool, di quarant’anni. Il popolo dell’abisso Jack London Il popolo dell’Abisso, 1 e 6 (1903) A Londra non esistono quartieri in cui sia possibile sottrarsi allo spettacolo della più abietta povertà. Di norma, basta partire da un punto qualsiasi della città e camminare qualche minuto per ritrovarsi in uno slum. Ma l’area in cui la vettura stava ora finalmente avventurandosi era un unico slum senza soluzione di continuità. Per strada s’accalcava una sorta di razza a me ignota, una razza diversa fatta di gente di bassa statura e d’aspetto sordido, inebetita dall’alcol. Percorremmo non so quanti chilometri di strade fiancheggiate da squallide costruzioni in mattoni d’un rosso sporco, tutte inevitabilmente eguali, e ogni volta che oltrepassavamo una viuzza laterale ci si rivelavano scorci di altri chilometri e chilometri di squallide costruzioni in mattoni d’un fosso sporco, tutte inevitabilmente eguali. Di tanto in tanto, c’imbattevamo in un uomo o in una donna che si trascinavano furtivi lungo i muri, ubriachi fradici, e l’aria risuonava d’urla oscene e di volgari litigi. Traversammo un mercatino rionale e scorgemmo
vecchi laceri e cenciosi d’ambo i sessi, che s’aggiravano con passo vacillante tra i carretti e frugavano tra i rifiuti ammucchiati nel fango del rigagnolo, in cerca di patate, di fagioli, di verdure mezzo ammuffite. Un nugolo di mocciosi ronzava come tante mosche impazzite intorno a un cumulo di frutta in decomposizione, le braccine affondate fin quasi alla spalla in quella massa putrescente (...) Gettai un’occhiata dalla finestra, aspettandomi di vedere la solita, lunga teoria di cortiletti sul retro degli edifici accanto. Ma non c’era neanche l’ombra di cortiletti, o meglio: eran tutti coperti d’assi e cartoni in modo da formare tanti tuguri a un piano solo, vere e proprie stalle cadenti, in cui però vivevano degli esseri umani. Il tetto di quei tuguri era ricoperto d’uno strato di rifiuti alto in certi punti fino a trenta centimetri, il contributo proveniente dalle finestre sul retro degli «appartamenti» del secondo e terzo piano. Potevo scorgere lische di pesce, ossa e brandelli di carne muffita, spazzatura di vario genere; stracci immondi, vecchie scarpacce sfondate, cocci di vasellame di varia foggia (…) Era un caotico brulichio di stracci e immonda sporcizia, un grumo di rivoltanti malattie della pelle, di piaghe purulente, di ferite e abrasioni, un condensato di oscena volgarità e indecenza, di mostruosità lascive, di bestiali espressioni… Soffiava un vento gelido, tagliente e spietato, e quelle povere creature si stringevano le une alle altre nei loro stracci, alcuni – i più – preda d’un sonno agitato, altri che cercavano di dormire in qualche modo. Alla mia destra, stese a terra addormentate o in una sorta di sopore, c’erano una dozzina di donne di età comprese tra i venti e i settant’anni, e accanto a loro, disteso sul duro legno d’una panchina, senza cuscino né coperta, senza nessuno che s’occupasse di lui, un fagottino che avrà avuto sì e no nove mesi. Poco più in là, sei, sette uomini dormivano seduti dritti come fusi o appoggiati gli uni agli altri.
1. LA BRUTTEZZA INDUSTRIALE
Gustave Doré, Londra, da London: A Pilgrimage, 1872
La città guasta T.S. Eliot La terra desolata, “La sepoltura dei morti” (1922) Città irreale, Sotto la nebbia bruna di un'alba d’inverno, Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, Ch'io non avrei mai creduto che morte tantia n'avesse disfatta. Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano, E ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. Affluivano su per il colle e giù per la King William Street, Fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore
Con morto suono sull'ultimo tocco delle nove. Lì vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: "Stetson! Tu che eri a Mylae con me, sulle navi! Quel cadavere che l'anno scorso piantasti nel giardino Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest'anno? Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola? Oh, tieni il Cane a distanza, che è amico dell’uomo, Se non vuoi che con le unghie lo metta allo scoperto! Tu! hypocrite lecteur! – mon semblable, – mon frère!" 337
Otto Griebel, L’Internazionale, 1928-30, Berlino, Museum für Deutsche Geschichte a fronte Incidente alla Gare Montparnasse, 22 ottobre 1895, Parigi
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La folla Edgar Allan Poe L’uomo della folla (1841) I più di coloro che passavano avevano un contegno soddisfatto di gente d’affari che sembrava solamente pensare a farsi strada fra la moltitudine (...) Scendendo la scala di ciò che chiamiamo distinzione, trovai soggetti degni di meditazione più tenebrosi e più profondi Venditori ebrei con gli occhi di falco lampeggianti su fisionomie dalla espressione di abbietta umiltà; vigorosi accattoni di professione che guardavano torvi; mendicanti di più alto rango che solo la disperazione aveva spinto ad uscire nella notte per chiedere l’elemosina ; invalidi deboli e spettrali, sui quali la morte aveva già posato la mano sicura, che camminavano a sghembo e vacillavano tra la folla guardando supplichevolmente nel viso di ciascuno come se cercassero qualche consolazione casuale, qualche speranza perduta. Vidi giovinette modeste, che ritornavano dopo un lavoro prolungato in una casa triste e che indietreggiavano più dolenti che indignate davanti agli sguardi dei mezzani, il cui contatto diretto non potevano nemmeno evitare; prostitute d’ogni specie e d’ogni età – la bellezza incontestabile nel fulgore della sua femminilità che ci fa pensare alla statua di Luciano dalla superficie di marmo pario e dall’interno pieno di sozzura – la. lebbrosa ricoperta di stracci, ripugnante e del tutto perduta; - la
strega aggrinzita, ingioiellata e insudiciata dalle tinture che fa un ultimo sforzo verso la giovinezza; - la fanciulla dalle forme immature, già per lunghi rapporti esperta nelle orrende civetterie della sua professione, e che anela con ardente ambizione di essere posta allo stesso livello di quelle più inveterate nel vizio. È ancora vidi innumerevoli e indescrivibili ubbriaconi: alcuni dagli abiti a brandelli e a toppe, barcollanti, con facce peste ed occhi smorti; altri in vesti luride, con modi insolenti ma leggermente vacillanti, grosse labbra sensuali e rubiconde facce allegre; ed altri coperti di stoffe buone un tempo ed ora spazzolate con cura; uomini che camminavano con passo più fermo ed elastico del naturale, e il cui sembiante era spaventosamente pallido, gli occhi strani e rossi, e che si attaccavano con dita tremanti ad ogni oggetto che fosse alla loro portata, mentre a lunghi passi avanzavano tra la folla. Treno Satanico Giosue Carducci Inno a Satana (1863) Un bello e orribile – mostro si sferra, corre gli oceani, – corre la terra: corusco e fumido – come i vulcani, i monti supera, – divora i piani; sorvola i baratri; – poi si nasconde per antri incogniti, – per vie profonde; ed esce; e indomito – di lido in lido come di turbine – manda il suo grido, come di turbine – l’alito spande: ei passa, o popoli, – Satana il grande.
1. LA BRUTTEZZA INDUSTRIALE
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XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
Kees Van Dongen, I viveurs, inizio XX sec., Troyes, Musée d’Art Moderne
pagine seguenti 12_8 Honoré Daumier, Il vagone di terza classe, 1862, Ottawa, The National Gallery of Canada Chaim Soutine, Bue macellato, 1925 ca., Buffalo, Albright-Knox Art Gallery 340
Una notte di Dorian Gray Oscar Wilde Il ritratto di Dorian Gray, 16 (1891) Dicono che la passione costringe a pensare dentro un circolo chiuso. Certo, con mostruosa insistenza le labbra tormentate di Dorian Gray formarono e riformarono quelle sottili parole che trattavano dell’anima e dei sensi finché trovò in esse la piena espressione del suo stato d’animo e giustificò, con un intimo assenso, passioni che anche senza quel consenso lo avrebbero tuttavia dominato. Da cellula a cellula del suo cervello scivolò cautamente quell’un unico pensiero; e il selvaggio desiderio di vivere, il più terribile degli istinti, diede nuova forza ai nervi e alle fibre tremanti. La bruttezza, già da lui odiata, perché rende reali le cose, gli era cara adesso per la stessa ragione. La bruttezza era l’unica realtà. Le grida rauche, i covi infami, la cruda violenza di una vita disordinata, la stessa bassezza dei ladri e dei banditi erano più vividi, nella loro stessa intensa attualità di impressione di tutte le belle forme dell’Arte, delle ombre sognanti del Canto (…). Entrò in una stanza lunga e bassa che aveva l’aria di essere stata una vecchia sala da ballo di terz’ordine. Stridenti fiamme a gas, che si riflettevano offuscate e contorte negli specchi lordati dalle mosche, erano allineate lungo le pareti contro sudici riflettori di latta scanalata, oscillanti dischi di luce. Il pavimento era coperto di segatura color ocra, qua e là calpestata e ridotta in una poltiglia fangosa e macchiata da cerchi scuri di bevande versate. Alcuni malesi erano accoccolati vicino a una piccola stufa a carbonella e giocavano con gettoni di osso, parlando in fretta e mostrando i denti bianchi. In un angolo c’era un marinaio rovesciato sulla tavola, con la testa nascosta tra le braccia; accanto al banco dipinto a colori sgargianti, che occupava tutto un lato della stanza, stavano due donne sparute che canzonavano un vecchio intento a spazzolarsi le maniche della giacca con un’espressione di disgusto (…). In fondo alla stanza c’era una breve scalinata che conduceva a una camera buia. Mentre Dorian si affrettava su per i tre gradini sconnessi, l’odore dell’oppio gli venne incontro. La bruttezza del “bello tecnico” Hans Sedlmayr La morte della luce, III,2 (1964) Contemporaneamente al germogliare di questa nuova bellezza si è però riversata nel mondo un’ondata di bruttezza, anch’essa unica nel suo genere. Dai quartieri nuovi
delle grandi città essa si propaga al di là della periferie fino in aperta campagna, invade la piccola città e il paese. La bruttezza della maggior parte dei quartieri nuovi delle città è indescrivibile: una bruttezza che toglie il fiato. Questo vale tanto per le costruzioni del centro quanto per quelle della periferia, tanto per le case di affitto quanto per le zone residenziali, tanto per i quartieri poveri quanto per quelli ricchi, per gli edifici privati e per i pubblici, per le facciate e per gli ambienti interni e i cortili. Questa nuova bruttezza ha, nel secolo diciannovesimo, qualche cosa di fosco, di selvaggio, qualche cosa che fa intravedere il profitto esagerato, qualche cosa di barbaramente caotico, di individuale. Questo non toglie affatto che in questi deserti della bruttezza siano sparse, qua e là, oasi di antica nobiltà, e che vicino a una bruttezza priva di carattere si manifesti, non di rado, una caratteristica provocante bruttezza, che potrebbe essere preferita alla piacevolezza priva di carattere di certi edifici odierni, specialmente perché spesso questa bruttezza è unita a una sorprendente solidità e alla accuratezza della costruzione. “Sono convinto che in nessuna epoca dell’antichità l’uomo abbia considerato le forme espressive architettoniche con disgusto e avversione; questo è stato riservato solo ai tempi nostri. Fino all’epoca classica il costruire era una funzione naturale. Può essere che non si osservassero affatto le nuove costruzioni, così come non si deve affatto notare un albero piantato da poco; ma quando si vedevano, si sapeva che era accaduto qualche cosa di buono e di naturale; così Goethe guardava gli edifici del suo tempo” (Broch). Nel secolo ventesimo, alcune zone ove apparivano simili bruttezze sono state di nuovo demolite, sebbene esse continuino ad esistere nella nuova forma della cosiddetta architettura “razionale”, ossia in colori e proporzioni assurdi e, come “funzione”, in aberrazioni ornamentali malamente camuffate (…) In compenso, la monotonia è spesso ancor più esagerata che non nelle strade “a facciata” del secolo diciannovesimo. Il rapporto con la campagna è brutale specialmente nei quartieri moderni intensamente abitati, il traffico eccezionale è difficilmente superabile con mezzi umani e la desolazione dei falansteri aumenta per la qualità raramente durevole dei nuovi materiali che, invecchiando, non divengono più belli (come avveniva nel caso dei materiali dei tempi antichi) ma più brutti e più logori.
1. LA BRUTTEZZA INDUSTRIALE
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XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
Le miserie di Parigi Charles Baudelaire Quadri di Parigi, “Il crepuscolo del mattino”, 106 (1861) La diana cantava nelle corti delle caserme, E il vento del mattino spegneva le lanterne. Ed era l’ora in cui lo sciame dei sogni malefici Torce sui lor guanciali i bruni adolescenti. Quando, come un occhio di sangue che palpita ed ammicca, La lampada chiazza l’alba della sua macchia rossiccia; E l’anima, sotto il peso del corpo riottoso e sordo, Sembra imitar la lotta fra la lampada e il giorno. Come su un viso le lagrime che le brezze rasciugano, L’aria è rigata dal fremito delle cose che fuggono. L’uomo è stanco di scrivere e la donna di amare. 342
I comignoli sparsi cominciano a fumare. Le prostitute, con le palpebre peste, A bocca aperta, dormono il loro sonno di bestie; E povere donne, dai seni magri e pendenti, Soffiano sui tizzoni e sulle gelide dita. L’ora in cui, nella stretta del gelo e degli stenti Si fa più crudele il travaglio delle partorienti. Come un singhiozzo strozzato da un sangue schiumoso, Il canto del gallo lontano lacerava l’aere brumoso; (…) Il ventre di Parigi Émile Zola Il ventre di Parigi, 1 e 33 (1873) Il quadrante luminoso di SaintEustache impallidiva, agonizzava, simile ad un lume da notte sorpreso dalla luce del mattino. Al fondo delle strade vicine, nelle botteghe dei vinai, le fiamme si spegnevano a una a
una, come stelle che si tuffassero in un mare di luce. E Florent rimirava i grandi mercati uscir dall’ombra, scuotere il sonno in cui li aveva veduti allungare senza fine i loro palazzi traforati. Tutti quegli edifici prendevano corpo, colorandosi di un grigio verdognolo, ancora più giganteschi con la loro prodigiosa alberatura che reggeva la distesa infinita dei tetti. Le loro forme geometriche si intersecavano l’una sull’altra; quando ogni lume fu spento all’interno, ed i mercati furono inondati dalla luce del giorno, apparvero quadrati, uniformi, come una macchina moderna e smisurata, che so, un’enorme macchina a vapore, una caldaia che dovesse servire alla digestione di un popolo, un ventre gigantesco, bullonato, ribadito, fatto di legno, di vetro e di ferro, di una eleganza, di una potenza da motore meccanico azionato dal calore del combustibile, e dalla furia fremente e vertiginosa delle ruote.
1. LA BRUTTEZZA INDUSTRIALE
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XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
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1. LA BRUTTEZZA INDUSTRIALE
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XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
Tour Eiffel costruzione, agosto 1889 nele pagine precedenti Otto Dix, Cartoon for Metropolis, trittico, 1927-28, Stuttgart, Galerie der Stadt
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L’intero XIX secolo è agitato dal conflitto tra gli entusiasti della rivoluzione industriale, che ispira una nuova architettura basata sul ferro o sul cristallo, e coloro che rifiutano quelle novità tecnologiche non solo in nome dei valori tradizionali ma anche della nuova sensibilità estetica. Prima che Gustave Eiffel terminasse nel 1889 la sua Torre metallica per l’Esposizione Universale di Parigi, nel 1887 veniva pubblicata sul giornale Le Temps una lettera tra i cui firmatari figuravano Alexandre Dumas figlio, Guy de Maupassant, Charles Gounod, Leconte de Lisle, Victorien Sardou, Charles Garnier, François Coppée, Sully Prudhomme: “Noi veniamo, scrittori, pittori, scultori, architetti, amatori appassionati della bellezza sino ad ora intatta di Parigi, a protestare con tutte le nostre forze e tutta la nostra indignazione, in nome del gusto francese misconosciuto, dell’arte e della storia francese minacciate, contro l’erezione, nel cuore della nostra capitale, dell’inutile e mostruosa torre Eiffel che la malignità pubblica, sovente ricca di buon senso e spirito di giustizia, ha già battezzato ‘Torre di Babele’”. E si inveiva contro quel nero e gigantesco camino d’officina che, come una macchia d’inchiostro, avrebbe allungato su Parigi la sua ombra odiosa di “odiosa colonna di latta bullonata”.
Mario Sironi, Paesaggio urbano con ciminiere, 1920-23 ca., Milano, collezione privata
Eiffel rispondeva sostenendo che la torre avrebbe avuto una sua tipica bellezza ed eleganza, che alle ragioni dell’ingegneria non sono estranee quelle dell’armonia, che la costruzione avrebbe manifestato, con l’arditezza della sua concezione, forza e bellezza, che vi è un fascino anche nel colossale, e che infine sarebbe stato l’edificio più alto che gli uomini avessero mai innalzato. “Perché ciò che è ammirevole in Egitto diventerebbe orribile e ridicolo a Parigi?” La Tour Eiffel è diventata ormai una presenza caratterizzante nel panorama parigino, e all’epoca alcuni degli stessi protestatari mutarono opinione. Ma il “dossier Eiffel” rimane come testimonianza delle cosiddette oscillazioni del gusto. Oscillazioni che si sono prodotte nel tempo anche a proposito dell’immagine della città. Nella pittura contemporanea troviamo immagini agghiaccianti di disperate metropoli e periferie industriali; amare riflessioni sul brutto cittadino appaiono in pensatori come Sedlmayr e Adorno; sulfurea e torva era la metropoli in Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin (1929), e ancor oggi De Lillo rinnova in chiave americana gli orrori della Londra e della Parigi ottocentesca. Ma nello Ulysses di James Joyce (1922) abbiamo un’epopea della città moderna, affascinante crogiolo di aspetti contradditori, inferno e paradiso di Leopold Bloom. 347
XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
2. Cin cin
Charles Sheeler, Paesaggio classico, 1931, St. Louis, Missouri, Mr. and Mrs. Barney A. Ebsworth Foundation a fronte Isaac Soyer, Agenzia di collocamento, 1937, New York, Whitney Museum of American Art Joseph Stella, Fuochi nella notte, 1919, Milwaukee Art Museum
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Le miserie d’America Don DeLillo Underworld (1997) Più avanti vediamo segni di vecchi esperimenti, in superficie, e c’è una stranezza in questo posto, un disagio che tento di definire. Vediamo i resti di un ponte ferroviario, un tratto scolpito di metallo scuro carbonizzato appoggiato a piloni di cemento. Una rarità, uno spirito di vecchi segreti andati a male, ormai privi di valore. Vediamo la base tozza e grigia di una torre di guardia, distrutta da decenni, di cui resta soltanto questo blocco di cemento che si alza di appena un metro e mezzo dalla superficie irregolare, con un’aria ancora stranamente stupefatta, con travi di metallo sporgenti. Senso di colpa in ogni oggetto contaminato, i pilastri sciupati dalle intemperie e le travi abbandonate al vento, cose fabbricate e forgiate dagli uomini, vecchi progetti andati a male. Procediamo in silenzio. Ci sono mucchi di terra rovesciata intorno a un bunker dipinto di giallo – giallo che indica contaminazione. Il posto è strano, congelato, un campione del nostro oblio proprio mentre ne esaminiamo i dettagli. Vediamo segni di case in lontananza, costruzioni usate per gli esperimenti, fatte saltare in aria con la gente ancora dentro, manichini, e i prodotti sugli scaffali dove sono stati messi forse quarant’anni prima – prodotti americani, dice l’autista. (…) La latta, la carta, la plastica, il polistirene. Tutto vola giù per i nastri trasportatori, quattrocento tonnellate al giorno, catene di
montaggio di immondizia, divisa, compressa e infine trasformata in unità squadrate, di nuovo prodotti, legati col fil di ferro e accuratamente ammonticchiati e pronti per essere venduti. Sunny adora questo posto, e come lei gli altri bambini che vengono qui accompagnati dai genitori o dagli insegnanti, e si fermano sulla passerella e visitano la mostra. La luce entra a fiotti dai lucernari e scende fin sul pavimento del capannone, e cade sui grossi macchinari con uno splendore magico. Forse proviamo reverenza per la spazzatura, per le qualità redentrici delle cose che usiamo e scartiamo. Guardate come ritornano, illuminate da una specie di invecchiamento coraggioso. Le finestre rivelano un grande e potente deserto e un enorme cielo. La discarica sull’altro lato della strada è chiusa, adesso, ormai piena fino all’orlo, ma il gas continua a salire dalla grande berma di terra, il metano, e produce un tremolio sulla terra e nel cielo che aumenta l’aura di sacralità. È come se l’aria fremente raccontasse la storia di una civiltà fantasma, un luccichio di rovine nel deserto. I bambini adorano i macchinari, le imballatrici e le tramogge e i lunghi nastri trasportatori, e i genitori guardano fuori dalle finestre nella foschia del metano, e gli aerei spuntano dalle montagne e si allineano in manovra di avvicinamento, e i camion sono disposti in doppia colonna fuori dal capannone, portano l’immondizia non divisa, lo squallore viscerale della nostra vita, e ripartono con le unità squadra e ammucchiate, per riportarle nel mondo.
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XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
2. Il Decadentismo e la lussuria del brutto
Di fronte all’oppressività del mondo industriale, alle metropoli percorse da folle immense e anonime, all’insorgenza di un movimento operaio organizzato, mentre fiorisce una forma di giornalismo che, pubblicando racconti popolari a puntate, dà inizio a quella che oggi chiamiamo cultura di massa, l’artista sente minacciati i propri ideali, avverte come nemiche le nuove idee democratiche, decide di farsi “diverso”, emarginato, aristocratico o “maledetto”, e si ritira nella torre d’avorio dell’Arte per l’Arte. Come dirà Villiers de l’Isle-Adam: “Vivere? Ci pensano i nostri servi per noi”. Così l’epoca del trionfo della macchina e del culto positivistico della scienza è anche quella del Decadentismo. Prende forma una religione estetica per cui la Bellezza deve essere l’unico valore da realizzare, e per il dandy la vita stessa andrà vissuta come opera d’arte. Nella sua poesia Languore (1883), Paul Verlaine paragona la sua epoca al mondo della decadenza romana e bizantina: tutto è già stato detto, tutti i piaceri sono stati provati e bevuti, all’orizzonte si profilano le orde dei barbari che la civiltà malata non saprà arrestare. Non rimane che tuffarsi nelle gioie sensuose di una immaginazione sovraeccitata e sovraeccitabile, elencare i tesori dell’arte, passare le mani stanche tra i gioielli accumulati dalle generazioni passate. Per Baudelaire (Le corrispondenze, 1857) la natura è un tempio ove pilastri viventi lasciano talora sfuggire confuse parole, e può essere guardata solo come una inesausta riserva di simboli. Ma se tutto permette una rivelazione simbolica, essa dovrà essere cercata anche negli abissi del male e dell’orrore.
Edouard Manet, Il bevitore di assenzio, 1858-59, Copenaghen, Ny-Carlsberg-Glyptothek
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Ritratto di un decadente Paul Valéry Varietè II, “Ritratto di Huysmans” (1930) Era il più nervoso degli uomini (…) artista del disgusto, incline al peggio e assetato solo dell’eccessivo, credulo da non credere, accogliente verso ogni orrore che mente umana possa immaginare, goloso di bizzarrie e di storie come se ne racconterebbero in una portineria dell’inferno; e d’altra parte, le mani pure (…) Emanavano da lui i riflessi di un’erudizione votata allo stupefacente. Annusava il sudiciume, i malefizi, le ignominie in tutti
gli affari mondani, e forse aveva ragione (…) Quando si è dato alla mistica ha aggiunto con delizia, alla sua minuziosa e compiacente conoscenza delle sozzure visibili e delle sporcizie ponderabili, una curiosità attenta, inventiva e inquieta per la sozzura sovrannaturale e le immondizie soprasensibili (…) Le sue singolari narici annusavano fremendo tutto ciò che nel mondo v’è di nauseabondo. L’aroma vomitevole delle bettole, l’acre incenso corrotto, gli odori infetti e spenti dei tuguri e dei ricoveri di mendicità, tutto quello che rivoltava i suoi sensi eccitava il suo genio.
2. IL DECADENTISMO E LA LUSSURIA DEL BRUTTO
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XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
Arthur Rimbaud (Lettera a P. Demeny, 1871) dirà che il poeta si fa veggente solo “attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi”, e in Una stagione all’inferno (1873) scriverà: “Una sera, ho attirato la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho giudicata amara… Mi sono adagiato nel fango. Mi sono asciugato all’aria del delitto.” La religiosità à rebours dei decadenti prende la strada del satanismo, con l’adesione a pratiche di magia ed evocazioni diaboliche (vedi Là-bas di Huysmans), e la nostra antologia non può rendere ragione delle infinite celebrazioni del sadismo, del masochismo, dell’apologia del vizio (vedi, anche al di là del decadentismo, l’elogio della prostituta in Rilke, o la celebrazione della laidezza dell’atto sessuale in Bataille), del piacere ricercato nel dolore, dell’esaltazione di stati nevrotici (Huysmans). Corbière s’identifica nella bruttezza melanconica del rospo, Dostoevskij dice dell’orrore del topo, Baudelaire scrive quel modello di esaltazione del disgustoso che è Una carogna, Tarchetti scrive un elogio della dentatura guasta, così come Rimbaud prova fremiti di piacere nel descrivere le cercatrici di pidocchi. E infine leggeremo, con Proust, del fascino per la sublime aristocraticità della bruttezza. Parimenti, gli artisti figurativi ci daranno figure perverse, prostitute, sfingi, fanciulle morenti, volti segnati dalla sgradevolezza. Il piacere della bruttezza Charles Baudelaire Scelta di massime consolanti sull’amore (1846) Per certi spiriti più curiosi e disincantati, il piacere del brutto proviene da un sentimento più misterioso, che è la sete dell’ignoto e il gusto dell’orribile. È quel sentimento, di cui ciascuno porta in sé più o meno sviluppato il germe, che precipita certi poeti nelle cliniche e nelle sale anatomiche, e le donne alle esecuzioni pubbliche. Mi spiace che qualcuno non lo capisca – un’arpa a cui manca una corda grave! Vi sono persone che arrossiscono di aver amato una donna quando si accorgono che è sciocca… La stoltezza è sovente l’ornamento della bellezza, è essa che dona agli occhi la limpidezza incolore degli stagni nerastri, la calma oleosa dei mari tropicali.
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Il rospo Tristan Corbière Gli amori gialli (1873) Un canto in una notte senza vento... – La luna placca di metallo chiaro I frastagli del verde scuro. ... Un canto; come un’eco, vivo Sotterrato, là, sotto il cespuglio... – Tace: Vieni, si nasconde nell’ ombra... – Un rospo! – Perché questo spavento, Accanto a me, tuo soldato fedele? Guardalo, poeta pelato, senz’ala, Usignolo del fango... – Orrore! – … Canta. – Orrore!! – Orrore perché? Non vedi l’occhio lucente... No: freddo, se ne va, sotto la pietra. Buonasera – quel rospo sono io.
2. IL DECADENTISMO E LA LUSSURIA DEL BRUTTO
Max Klinger, La Morte. Seconda parte (Vom Tode II), Opus XIII, 1898, Berlino
La donna del sarcofago Gabriele D’Annunzio Poema paradisiaco (1893) La donna in attitudine regale Sopra il grande sarcofago romano Assisa – ov’è scolpita, opra di mano Mirabile, una pompa funerale – Aspetta forse l’Edipo fatale Che disciolga l’enigma sovrumano?
O la sorella Morte che il profano Sogno chiuda nel marmo sepolcrale? La sua bocca non dice il suo pensiero. Chi suggerà da la sanguigna polpa Di quel frutto l’essenza del mistero? Aspetta. E ne’ profondi occhi impudichi, Ombrati già da la futura colpa, Trapassano ombre di delitti antichi.
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Angelo Morbelli, Venduta, 1887-1888 ca., Galleria d’Arte Moderna, Civiche Raccolte d’Arte, Torino
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Del Medioevo si riscoprono il demoniaco o i balbettamenti di un latino ormai corrotto, del Rinascimento la figura ambigua dell’androgino. Scriverà Jean Lorrain (Roma, 1895-1904): “Ah, le bocche di Botticelli, quelle bocche carnali, solide come frutti, ironiche e dolorose, enigmatiche nelle loro pieghe sinuose, senza che si possa capire se tacciono purezza o abominio!” Nella donna si vagheggia il mistero sfingeo (Wilde), il peccato e la corruzione morale, o le carni disfatte (ancora Baudelaire) sino alla voluttà della necrofilia (D’Annunzio), che in Tarchetti si arricchisce di una indubbia misoginia. Parrebbe sfuggire al fascino della bruttezza la poetica dell’epifania. Come voleva Walter Pater (Saggio sul Rinascimento, 1873), “ad ogni momento una perfezione di forma appare in una mano o in un volto; qualche tonalità sulle colline o sul mare è più squisita del resto; qualche stato di passione o di visione o di eccitazione intellettuale è irresistibilmente reale e attraente per noi - per quel momento solo”. Maestro di epifanie sarà nel XX secolo James Joyce, e basterebbe citare la folgorante apparizione della “ragazza uccello” in Dedalus (1916). Ma per Joyce anche l’esperienza del brutto, come un odore di cavoli marci o la vista di un cadavere, poteva diventare emblema incancellabile di un momento interiore, purché redento esteticamente dallo stile. E Stephen Dedalus s’incantava su banali insegne di negozi sino a che “l’anima gli si raggrinzò, sospirando invecchiata”.
2. IL DECADENTISMO E LA LUSSURIA DEL BRUTTO
Toulouse-Lautrec, Donna che tira su la calza, 1894, Parigi, Musée d’Orsay
Elogio della prostituta Rainer Maria Rilke Elegie Duinesi, 7 (1912-1922) Essere qui è magnifico. Voi lo sapeste, fanciulle, anche voi, che private sembraste e sprofondanti – , voi, nei pestilenti vicoli delle città, voi suppuranti e aperte al degrado. Perché ognuna ebbe un’ora, e forse non tutta Compiuta, un’ora che la misura non regge degli orologi, tra due lassi di tempo –, poiché ebbe esistenza. Tutto. Nelle vene esistenza.
Bruttezza ed erotismo Georges Bataille L’érotisme, 13 (1957) Nessuno dubita della bruttezza dell’atto sessuale. Come la morte nel sacrificio, la bruttezza dell’accoppiamento piomba nell’angoscia. Ma più grande è l’angoscia – secondo la forza dei partecipanti – e più forte la coscienza di eccedere i limiti, che decide un trasporto di gioia. Che le situazioni varino secondo i gusti e le abitudini non può impedire che generalmente la bellezza (l’umanità) di una donna concorra a rendere sensibile e sconvolgente l’animalità dell’atto sessuale. Niente è più deprimente, per un uomo, della bruttezza di una donna, sulla quale non risalti la bruttezza degli organi o dell’atto sessuale. La bellezza conta anzitutto in quanto la bruttezza non può essere insudiciata, e l’essenza dell’erotismo è proprio la lordura 355
XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
2. Cin cin
Franz von Stuck, Il bacio della sfinge, 1895, Budapest, Szepmuveszen Muzeum
L’idolo mostruoso della decadenza Oscar Wilde La Sfinge (1883/1894) Nascosta in un angolo buio della mia stanza da un tempo che non so immaginare, mi guarda una splendida Sfinge silenziosa tra mutevoli ombre (…) Vieni avanti, mia amata, così sonnolenta e pari a una statua. Vieni, creatura squisita e grottesca: metà donna e metà animale. (…) Lascia ch’io tocchi l’avorio dei tuoi artigli e intorno alle tue zampe avvolga la coda come un Serpe mostruoso (…) Quali furono i tuoi amanti? Chi per te lottò nella polvere? Quale vaso contenne la tua lussuria? Quale Drudo Possedesti ogni giorno? Tra i canneti della riva non vennero forse enormi lucertole a stendersi innanzi ai tuoi piedi? E i Grifoni dai solidi fianchi non s’avventarono forse su di te nel tuo calpestato giaciglio? Non vennero i mostruosi ippopotami al tuo fianco nella nebbia? E se tu passavi, 356
non c’erano i draghi dalle scaglie dorate che presi di desiderio più volte si contorcevano? E quale orrenda Chimera, dalla tomba dai rossi mattoni, si alzò con le sue teste spaventose ed emise il suo pauroso fuoco, per generar dal tuo grembo meraviglie impensate? (…) Il tuo orribile e lieve respiro raggiunge la lampada e ne fa tremar la fiamma: già sento la notte e la morte bagnare la mia fronte di terribili stille di rugiada. I tuoi occhi sono lune fantastiche che rabbrividiscono nelle acque stagnanti di un lago. La tua lingua è un serpente scarlatto che danza seguendo fantastici ritmi, il tuo cuore scandisce melodie velenose e la tua gola nerissima è come un carbone bruciato su un tappeto orientale (…) Ora va, disgustoso mistero. Allontanati, tremendo animale: tu ridesti nel mio sangue ogni istinto bestiale, mi rendi quale non vorrei essere, trasformi il mio credo in arida menzogna
2. IL DECADENTISMO E LA LUSSURIA DEL BRUTTO
Edvard Munch, Arpia II, 1899, Oslo, Munch Museet
pagine seguenti Franz von Stuck, Fauno che porta una ninfa, 1918, collezione privata Adolfo Wildt, Il Prigione, 1915, collezione privata Alfred Kubin, Creatura di Marte, 1906 ca., collezione privata
Il canto dell’odio Olindo Guerrini Postuma (1877) Quando tu dormirai dimenticata Sotto la terra grassa E la croce di Dio sarà piantata Ritta sulla tua cassa, Quando ti coleran marcie le gote Entro i denti malfermi E nelle occhiaie tue fetenti e vuote Brulicheranno i vermi, Per te quel sonno che per altri è pace Sarà strazio novello E un rimorso verrà freddo, tenace, A morderti il cervello. Un rimorso acutissimo ed atroce Verrà nella tua fossa A dispetto di Dio, della sua croce, A rosicchiarti l’ossa. Io sarò quel rimorso. Io te cercando Entro la notte cupa, Lamia che fugge il dì, verrò latrando Come latra una lupa; Io con quest’ugne scaverò la terra Per te fatta letame
E il turpe legno schioderò che serra La tua carogna infame. Oh, come nel tuo core ancor vermiglio Sazierò l’odio antico, Oh, con che gioia affonderò l’artiglio Nel tuo ventre impudico! Sul tuo putrido ventre accoccolato Io poserò in eterno, Spettro della vendetta e del peccato, Spavento dell’inferno: Ed all’orecchio tuo che fu sì bello Sussurrerò implacato Detti che bruceranno il tuo cervello Come un ferro infocato (...) E son la gogna i versi ov’io ti danno Al vituperio eterno, A pene che rimpianger ti faranno Le pene dell’inferno. Qui rimorir ti faccio, o maledetta, Piano a colpi di spillo, E la vergogna tua, la mia vendetta Tra gli occhi ti sigillo.
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XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
2. Cin cin
Il fauno Arthur Rimbaud Testa di fauno (1854-1891) Un fauno stupefatto mostra i suoi occhi accesi E morde i fiori rossi con i candidi denti. Bruno e sanguinolento come un vino stravecchio, Sotto i rami il suo labbro scoppia in un lungo riso. Cercatrici di pidocchi Arthur Rimbaud Le cercatrici di pidocchi (1854-1891) Quando la fronte giovane, rossa per le tormente, Implora il bianco sciame dei bei sogni indistinti, Accanto al letto vengono due graziose sorelle Che hanno fragili dita dalle unghie argentine. Fan sedere il ragazzo a una finestra aperta Dove l’azzurro bagna una macchia di fiori, E nei capelli grevi sui cui piove rugiada Muovon le dita fini, terribili e maliarde. Egli ascolta cantare quegli aliti sospesi, Odorosi di un miele lento e rosa di pianta, Interrotti talvolta da un sibilo, saliva Ripresa sulle labbra o bramosia di baci. Ode le ciglia nere battere nel silenzio Profumato e le dita elettriche e dolci Che fanno crepitare nella grigia indolenza Sotto l’unghie regali la morte dei pidocchi. (…) I denti neri Igino Ugo Tarchetti Re per ventiquattrore (1839-1869) I Denti Neri pei quali mi era sembrato che avrei dovuto provare un orrore insuperabile, avevano aspetto sì dolce, sì mite, sì affettuoso che mi sentii subito attratto verso di essi da una forza di simpatia irresistibile, mentre i Denti Bianchi mi parvero d’indole sì ribelle, sì feroce, sì fiera che ne fui quasi atterrito. Quei denti lunghi, affilati, bianchi, orribilmente bianchi, scoperti fino alla radice dal labbro un po’ rovesciato, acuminati e curvi verso la punta come i canini, parevano fatti per afferrare, per mordere, per lacerare la carne viva, palpitante – davano ai loro visi un’apparenza orribilmente ferina. I denti neri, pel contrario, tozzi, brevi, quadrati, bene incassati e coperti dalla gengiva, promettevano indole e tendenze sì mansuete, che avrei dato metà dell’isola di Potikoros perché il mio regno non fosse stato popolato che di quella razza (...)
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2. IL DECADENTISMO E LA LUSSURIA DEL BRUTTO
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XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
La carogna Charles Baudelaire Spleen e ideale, XXX (1857) Ricordati, amor mio, quello che abbiamo visto Un bel mattino dolce d’estate: Lungo il sentiero, una carogna infame Sopra un letto di pietre. Le gambe in aria, qual donna lubrica, Calda, essudante veleni, Offriva a tutti, noncurante e cinica Il ventre gonfio di miasmi. E il sol raggiava su quella lordura, Come per cuocerla a punto E render disgregato alla Natura Ciò ch’essa un di creando avea congiunto. Il cielo rimirava la superba Carcassa, che si apriva come un fiore. Sì forte era il fetore, che sull’erba Temeste di cader venendo meno. Ronzavano le mosche intorno al putrido Ventre, e ne uscivan schiere Di larve, come un nero denso liquido Che colasse per quegli stracci vivi. E il tutto s’innalzava, e s’abbassava come un’onda Aggressivo, formicolando, Sembrava che quel corpo, dissolvendosi Vivesse ancora e si moltiplicasse. E quel mondo emanava una bizzarra Musica, come un frusciar d’acque o del vento, O il ritmico rumor del grano che nel trebbio Si agita scuotendolo. Si confondean le forme nella vista, Quasi come un abbozzo faticoso Lasciato sulla tela, e che l’artista, Finirà solamente a memoria. Da dietro i massi, una cagna inquieta Ci guardava con occhio irritato, Ansiosa di riprender sullo scheletro Il pasto che vi aveva abbandonato. – Pur anche voi sarete simile a quel rifiuto, A quell’infetto orrore, Voi, stella dei miei occhi, voi sole del mio mondo, Mio angelo e mia passione! Cosi anche voi sarete, o regina di grazie, 360
Dopo gli estremi onori Quando discenderete sotto l’erba e i fior grassi A marcir fra gli ossami. Allora, o mia beltà, dite a quei vermi, Che vi mangeranno di baci Ch’io l’essenza ho serbato e la forma divina Del mio amor decomposto. Come un topo Fëdor M. Dostoevskij Memorie dal sottosuolo, I, 3 (1864) Il fatto è che lui stesso si considera un topo; non glielo chiede nessuno; e qui sta il punto fondamentale. Osserviamolo, questo topo in azione. Supponiamo che anche lui sia stato offeso (capita quasi sempre) e che anche lui abbia voglia di vendicarsi. Forse in lui si accumula ancora più rabbia che nell’Homme de la nature et de la vérité, una schifosa, miserevole voglia di restituire l’offesa con la stessa rabbia, anzi la rabbia gli roderà l’anima peggio ancora che all’Homme de la nature et de la vérité, perché L’Homme de la nature et de la vérité, per la sua innata stupidità considera la sua vendetta semplicemente un atto di giustizia; e il topo per via della vigorosa coscienza nega questa giustizia. Arriva alla fine il momento della vendetta. Il povero topo, oltre alla propria iniziale laidezza, è riuscito ad ammassare intorno a sé, grazie alla sua vigorosa coscienza, una quantità di altre laidezze: a un problema riconduce un’infinità di problemi irrisolti tanto che gli si raccoglie intorno senza che lo voglia un mortifero brago, una fetida melma fatta dei suoi dubbi, delle sue esitazioni, e degli sputi che gli tirano addosso gli uomini spontanei e attivi, che lo accerchiano solennemente, travestiti da giudici e da dittatori, che sghignazzano di lui a squarciagola. Chiaramente a lui non resta che (…) strisciare indecorosamente nella sua tana. Lì, nel suo schifoso, fetido sottosuolo il nostro topo offeso, bastonato e deriso si immerge in una gelida, velenosa e, quel che è peggio, inestinguibile rabbia.
La nevrosi Joris-Karl Huysmans A ritroso, 9 (1884) Questi incubi si rinnovarono; ormai aveva paura di addormentarsi. Restò per ore intere steso sul letto, ora in persistenti insonnie e agitazioni febbrili, ora in sogni abominevoli spezzati da sobbalzi di persona che scivoli, che cada dall’alto di scalinate, che precipiti, senza potere trattenersi, nel fondo di un abisso. La nevrosi, assopita per qualche giorno, trionfava, si rivelava più veemente e più ostinata sotto nuove forme (…) Per distrarsi e occupare le interminabili ore, ricorse alle sue cartelle di stampe e allineò i suoi Goya. I primi stati di certe tavole dei Capricci, alcune prove riconoscibili dal tono rossastro, acquistate in passato nelle aste a peso d’oro, lo rasserenarono, ed egli si sprofondò in quelle seguendo le fantasie del pittore, preso dalle sue scene vertiginose, dalle sue streghe a cavallo di gatti, dalle sue donne che si sforzavano di strappare i denti di un impiccato, dai suoi banditi, dai suoi succubi, dai suoi dèmoni e dai suoi nani. Poi percorse tutte le altre serie delle sue acqueforti e delle sue acque tinte: i Proverbi di macabro orrore, i soggetti di guerra di furia feroce, la tavola dello Strangolamento, di cui custodiva con singolare cura una meravigliosa prova stampata su carta spessa, non collata, in cui erano visibili le impressioni delle verghe che attraversavano la pasta.
XII. TORRI DI FERRO E TORRI D’AVORIO
Oskar Zwintscher, Madreperla e oro, 1909, Chemniz, Stadtische Kunstsammlungen a fronte Christian Schad, Autoritratto con modella, 1927, collezione privata
Ninfa macabra Charles Baudelaire I fiori del male, “Il Mostro” (1857) No, non sei più fresca, mia cara, mia vecchia bambina! E tuttavia le tue scorribande insensate t’hanno lasciato quel ricco lucido delle cose che sono molto usate ma che seducono, tuttavia. Io non trovo affatto scipito il succo dei tuoi quarant’anni; i tuoi frutti, Autunno, li preferisco ai fiori di Primavera, banali! No, tu non sei mai scipita! La tua carcassa ha le sue attrattive e grazie tutte particolari; scopro pigmenti rari nel cavo delle tue due saliere; la tua carcassa ha le sue attrattive! (…) La tua gamba muscolosa e scarna sa salire in cima ai vulcani e malgrado la neve e la migragna ballare i più focosi cancan. La tua gamba è muscolosa e scarna; la tua pelle arsa e senza dolcezza come quella dei vecchi gendarmi non conosce più il sudore come il tuo occhio non conosce lacrime. Una civetta magra Charles Baudelaire I fiori del male, “Danza macabra” (1857) Fiera, come chi è vivo, della sua nobile statura con il mazzo di fiori, il fazzoletto e i guanti, ha la leggerezza e la disinvoltura d’una civetta magra, dai modi stravaganti. Si è mai vista ai balli una figura più smilza?
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La veste esagerata, con ampiezza maestosa ricade regalmente su un piede secco, che stringe uno scarpino a fiocchi, leggiadro come un fiore. La gala che le corre intorno alle clavicole, ruscelletto lascivo che si struscia alla roccia, difende pudicamente dai lazzi ridicoli le funebri attrattive che tiene a nascondere. Gli occhi fondi sono fatti di vuoto e di tenebre, ed il cranio, con fiori artisticamente acconciato, oscilla mollemente sulle fragili vertebre. O fascino d’un nulla follemente agghindato! Per alcuni sei solo una caricatura; amanti ebbri di carne, non possono capire l’eleganza indicibile dell’umana armatura. L’aristocraticità del brutto Marcel Proust I Guermantes, I (1920) Per la duchessa di Luxembourg, per la signora di Morienval, per la signora di Saint-Euverte, per tante altre, il segno che permetteva di identificarle era la combinazione d’un gran naso rosso con un muso di lepre, o di due guance rugose con un’ombra di baffi. E questi tratti bastavano d’altronde per incantare, perché, presentando il semplice valore convenzionale di segni alfabetici, permettevano di leggervi un nome celebre, che si imponeva; ma finivano anche per dar l’idea che la bruttezza ha qualche cosa di aristocratico, e che non occorre che il viso di una gran dama sia bello.
2. IL DECADENTISMO E LA LUSSURIA DEL BRUTTO
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Capitolo
XIII
L’avanguardia e il trionfo del brutto
Pablo Picasso, Donna in camicia in poltrona, 1913, Firenze, Collezione Pudelko
Per Carl Gustav Jung (nel suo saggio sullo Ulysses di Joyce, del 1932) il brutto di oggi è segno e avvisaglia di grandi trasformazioni a venire. Questo significa che quello che sarà apprezzato domani come grande arte potrà comunque apparire sgradevole oggi e che il gusto è in ritardo sull’apparizione del nuovo. Idea che vale per ogni epoca, ma che sembra singolarmente adatta a caratterizzare le opere prodotte dai movimenti dell’avanguardia detta “storica” dei primi decenni del Novecento. Gli autori s’ingegnavano a “stupire il borghese” ma il pubblico generico (e non solo quello borghese) non solo si stupiva ma si scandalizzava. Se vale la differenza proposta nella Introduzione a questo libro tra brutto in sé, brutto formale e brutto artistico, possiamo dire che gli artisti dell’avanguardia talora rappresentavano il brutto in sé e il brutto formale, talora semplicemente deformavano le proprie immagini, ma il pubblico vedeva le loro opere come esempi di brutto artistico. Non le considerava belle rappresentazioni di cose brutte bensì brutte rappresentazioni della realtà. In altre parole, il borghese si scandalizzava di fronte a un volto femminile di Picasso non perché lo ritenesse la fedele imitazione di una donna brutta (né Picasso voleva che fosse tale) ma perché lo considerava come brutta rappresentazione di una donna. Hitler, mediocre pittore, aveva condannato l’arte contemporanea come “degenerata” e decenni dopo Nikita Khru‰ãëv, abituato alle opere del realismo sovietico, di fronte a quadri di avanguardia aveva detto che sembravano dipinti con la coda di un asino. 365
XIII. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
Man Ray, Ritratto del Marchese De Sade, 1938, collezione privata a fronte James Ensor, Il giudice rosso, 1890, Mendrisio, collezione privata
Alchimia della parola Arthur Rimbaud Un stagione all’inferno (1898) A me. La storia di una delle mie follie. Da molto tempo mi vantavo di possedere tutti i paesaggi possibili, e giudicavo derisorie tutte le celebrità della pittura e della poesia moderna. Amavo le pitture idiote, le sovrapporte, gli scenari, i teloni dei saltimbanchi, le insegne, le stampe popolari; la letteratura fuori moda, il latino di chiesa, i libri erotici senza ortografia, i romanzi delle nostre nonne, i racconti di fate, i libretti per l’infanzia, i vecchi melodrammi, i ritornelli stupidi, i ritmi ingenui. Lo sregolamento dei sensi. Arthur Rimbaud Lettera a P.Demeny (1871) Il Poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, egli esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che le quintessenze. Ineffabile tortura, in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, in cui diviene tra tutti il gran malato, il gran criminale, il gran maledetto – e il Saggio supremo! – Perché egli arriva all’ignoto.
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Canti di Maldoror Conte di Lautréamont (Isidore-Lucien Ducasse) Canti di Maldoror, IV,4 (1869) Sono sporco. I pidocchi mi rodono. I porci, quando mi guardano, vomitano. Le croste e le spaccature della lebbra hanno squamato la mia pelle, coperta di pus giallastro. lo non conosco l’acqua dei fiumi, né la rugiada delle nubi. Sulla mia nuca, come sopra un letamaio, cresce un fungo enorme, dai peduncoli ombrelliferi. Seduto sopra un mobile informe, da quattro secoli non ho mosso le membra. I miei piedi hanno messo radici nel suolo e compongono, fino al mio ventre, una sorta di viva vegetazione, piena di ignobili parassiti, che non deriva ancora dalla pianta, e che non è più carne. Tuttavia il mio cuore batte. Ma come batterebbe, se la putredine e le esalazioni del mio cadavere (non oso dire corpo) non lo nutrissero abbondantemente? Sotto la mia ascella sinistra, ha preso residenza una famiglia di rospi, e, quando uno di essi si muove, mi fa il solletico. State attenti che non ne scappi fuori uno, e non venga a grattare, con la sua bocca, l’interno del vostro orecchio: sarebbe capace poi di entrarvi nel cervello. Sotto la mia ascella destra, c’è un camaleonte che fa a quelli una caccia ininterrotta, per non morire di fame: tutti devono vivere. Ma, quando un partito sventa completamente le astuzie dell’altro, non trovano nulla di meglio che non mettersi in imbarazzo, e succhiano il grasso delicato che ricopre le mie costole; ci sono abituato. Una vipera malvagia ha divorato la mia verga e ne ha preso il posto: mi ha reso eunuco, quell’infame (…) Due piccoli istrici, che non crescono più, hanno buttato a un cane, che non ha rifiutato, l’interno dei miei testicoli: nell’epidermide, accuratamente lavata, ci si sono sistemati dentro. L’ano è stato intercettato da un granchio; incoraggiato dalla mia inerzia, il granchio occupa l’ingresso con le sue tanaglie e mi fa molto male! Due meduse hanno valicato i mari, immediatamente allettate da una speranza che non fu delusa. Hanno guardato con attenzione le due parti carnute che formano il didietro umano, e, aggrappandosi alla loro forma convessa, le hanno talmente schiacciate con una pressione costante, che i due pezzi di carne sono spariti, mentre sono rimasti due mostri, usciti dal regno della viscosità, eguale per colore, forma e ferocia. Non parlate della mia colonna vertebrale poiché è una spada.
1. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
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XIII. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
Gert Wollheim, Il ferito, 1919, collezione privata
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Le avanguardie storiche si rifacevano agli ideali di sregolamento dei sensi già propugnati da Rimbaud o da Lautréamont. In particolare si pronunciavano contro l’arte naturalistica e “consolatoria” dei loro tempi (che bollavano come pompier e kitsch). Agli inizi, coi Manifesti Futuristi, si elogiano la velocità, le macchine da corsa più belle della Vittoria di Samotracia, la guerra, lo schiaffo e il pugno, ci si batte contro il “chiaro di luna”, i musei e le biblioteche, ci si propone di fare “coraggiosamente il brutto”, Palazzeschi sostiene un’educazione delle giovani generazioni al disgustoso, e nel 1913 Boccioni intitola “Antigrazioso” sia una scultura che un quadro. Quanto fosse insostenibile questa battaglia del brutto è mostrato dal fatto che, in seguito, molti autori futuristi (come per esempio Carrà) sono tornati a forme neoclassiche, o all’arte celebrativa del fascismo. Ma la miccia era stata accesa. Se quello dei futuristi era un brutto di provocazione, quello dell’Espressionismo tedesco sarà un brutto di denuncia sociale. Dal 1906, anno di fondazione del gruppo Die Brücke (Il Ponte), sino agli anni dell’ascesa del nazismo, artisti come Kirchner, Nolde, Kokoschka, Schiele, Grosz, Dix e altri rappresenteranno con sistematica e impietosa insistenza volti sfatti e ripugnanti che esprimono lo squallore, la corruzione, la soddisfatta carnalità di
1. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
Otto Dix, Salon I, 1921, Stuttgart, Galerie der Stadt
Cubisti come Braque e Picasso, nel perseguire una decostruzione delle forme, cercavano sorgenti d’ispirazione nelle arti extraeuropee, nelle maschere africane che l’opinione corrente considerava mostruose e repellenti. Nel movimento Dada il richiamo alla bruttezza emerge con decisione attraverso l’appello al grottesco. Duchamp mette provocatoriamente i baffi alla Gioconda e dà inizio alla poetica del ready made esponendo come opera d’arte un orinatoio. Avrebbe potuto esporre un altro oggetto, ma voleva che fosse qualcosa di sconveniente. Una particolare propensione per situazioni conturbanti e immagini mostruose si ha col Manifesto Surrealista del 1924. L’artista è chiamato a riprodurre situazioni oniriche che aprono spiragli sull’inconscio attraverso operazioni come la scrittura automatica, per liberare la mente da ogni freno inibitorio e lasciarla vagare secondo libere associazioni di immagini e di idee. La natura viene trasfigurata per dare via libera a situazioni incubatiche e a teratologie inquietanti in artisti come Ernst, Dalí, Magritte. Si praticano giochi come i “cadaveri squisiti”, in cui ciascun partecipante scrive una frase o inizia a tracciare una figura, quindi si piega il foglio e il giocatore successivo continua alla cieca – creando così sequenze e accostamenti inconsueti come quello preconizzato da Lautréamont (”bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”). 369
XIII. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
Manifesto futurista Filippo Tommaso Marinetti Manifesto Futurista (Figaro, 20 febbraio 1909) Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. La letteratura esaltò, fino ad oggi, l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli! (...) Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente. Noi vogliamo glorificare la 370
guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore del liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le marce multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. È dall’Italia che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il FUTURISMO perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri. L’orgoglio del brutto Filippo Tommaso Marinetti Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912) Ci gridano: «La vostra letteratura non sarà bella! Non avremo più la sinfonia verbale, dagli armoniosi dondolii, e dalle cadenze tranquillizzanti!». Ciò è bene inteso! E che fortuna! Noi utilizziamo, invece, tutti i suoni
brutali, tutti i gridi espressivi della vita violenta che ci circonda. Facciamo coraggiosamente il «brutto» in letteratura, e uccidiamo dovunque la solennità. Via! Non prendete di queste arie da grandi sacerdoti, nell’ascoltarmi! Bisogna sputare ogni giorno sull’Altare dell’Arte! Noi entriamo nei dominii sconfinati della libera intuizione. Dopo il verso libero, ecco finalmente le parole in libertà! Facciamo coraggiosamente il brutto Dai manifesti futuristi italiani e russi Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.(…) Non vi sono categorie d’immagini, nobili o grossolane o volgari, eccentriche o naturali. L’intuizione che le percepisce non ha né preferenze né partiti presi (…) Nostro scopo è sottolineare la grande importanza per l’arte di tutte le asprezze, dissonanze e della pura rozzezza primordiale (…) Oggi i brandelli delle insegne sono più belli di un abito da ballo, il tram sfreccia lungo i segni d’acciaio di uguaglianza matematica, la notte erutta dalle sue fauci schiumanti gli espressi infuocati delle réclames luminose, le case si tolgono i cappelli di ferro per crescere e inchinarsi davanti a noi (…) La macchina ha trafitto con il suo ruggito ogni secondo di tempo… Io rispecchio tutto e tutto si rispecchia in me, il canto dei cantieri e delle fabbriche, i ventri delle stazioni, il volante del disco solare che ruota tra i denti delle nuvole, le locomotive che come canuti professori hanno perso durante la loro corsa ciocche di capelli di fumo e hanno lunghi baffi di candido vapore, i grattacieli con i foruncoli gonfi dei balconi…
Umberto Boccioni, Antigrazioso, 1912-1913, Torino, Finlega Spa
Zang tumb tuuum Filippo Tommaso Marinetti Bombardamento (1912) forza che gioia vedere udire fiutar tutto tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare a perdifiato sotto morsi schiaffffi traak traak frustate pic-pac-pum-tumb bizzzzarrie salti altezza 200 m. della fucileria Giù giù in fondo all’orchestra stagni diguazzare buoi buffali pungoli carri pluff plaff impennarsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack
L’orribile si bemolle Eric Satie Memorie di un amnesiaco quale sono io (1912) La prima volta che mi sono servito di un fonoscopio, ho esaminato un si bemolle di media grandezza. Vi assicuro che non ho mai visto una cosa più ripugnante. Ho chiamato il mio domestico per farglielo vedere.
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XIII. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
Amare la guerra Giovanni Papini “Amiamo la guerra!” (in Lacerba, 1 ottobre 1914) La guerra, infine, giova all’agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s’ammucchiarono i fanti tedeschi e che grasse patate si caveranno in Galizia quest’altro anno! E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza pulita tra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono saranno rifatti più igienici. E rimarranno anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei viaggiatori e dei professori. Dopo il passo dei barbari nasce un’arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo a una moda diversa. Ci sarà sempre da fare per tutti se la voglia di creare verrà, come sempre, eccitata e ringagliardita dalla distruzione. Amiamo la guerra e assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa – e appunto perché e spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi. Contro l’amore Filippo Tommaso Marinetti Guerra sola igiene del mondo (1915) Ma ciò che scava un fossato ancor più profondo tra la concezione futurista e la concezione anarchica è il gran problema dell’amore, la grande tirannia del sentimentalismo e della lussuria, dalla quale noi vogliamo liberare l’umanità. Quest’odio, appunto, contro la tirannia dell’amore, noi esprimiamo con una frase laconica: “il disprezzo della donna”. Noi disprezziamo la donna, concepita come unico ideale, divino serbatoio d’amore, la donna veleno, la donna ninnolo tragico, la donna fragile, ossessionante e fatale, la cui voce, greve destino, e la cui chioma 372
sognante si prolungano e continuano nei fogliami delle foreste bagnate di chiaro di luna. Noi disprezziamo l’orribile e pesante Amore che ostacola la marcia dell’uomo, al quale impedisce d’uscire dalla propria umanità, di raddoppiarsi, di superare sé stesso, per divenire ciò noi chiamiamo l’uomo moltiplicato. Disprezziamo l’orribile e pesante Amore, guinzaglio immenso col quale il sole tiene incatenata nella sua orbita la terra coraggiosa che certo vorrebbe balzare a casaccio, per correre tutti i suoi rischi siderali. Noi siamo convinti che l’amore – sentimentalismo e lussuria – sia la cosa meno naturale del mondo. Non vi è di naturale e importante che il coito il quale ha per scopo il futurismo della specie. Educazione futurista al brutto Aldo Palazzeschi Il controdolore (1914) Fissate bene in viso la morte, ed essa vi fornirà tanto da ridere per tutta la vita. Io affermo essere nell’uomo che piange, nell’uomo che muore, le massime sorgenti della gioia umana. Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente (…) Gli forniremo giocattoli educativi, fantocci gobbi, ciechi, cancrenosi, sciancati, etici, sifilitici, che meccanicamente piangano, gridino, si lamentino, vengano assaliti da epilessia, peste, colera, emorragie, emorroidi, scoli, follia, svengano, rantolino, muoiano. Poi la loro maestra sarà idropica, ammalata di elefantiasi, oppure secca secca, lunga, con collo di giraffa. (…) Un maestro piccolino piccolino, gobbo rachitico, ed uno gigantesco dalla faccia impubere, dalla voce esilissima, e dal pianto come un filo di vetro (…) Giovani, la vostra compagna sarà gobba, orba, sciancata, calva, sorda, sganasciata, sdentata, puzzolente, avrà gesti da scimmia, voce da pappagallo (…) Non vi attardate sulla sua bellezza, se disgraziatamente per voi ella vi sembra bella, approfonditela, e ne avrete la deformità. Non vi adagiate mollemente sull’onda del suo
profumo; una spira acuta di quel puzzo ch’è la verità profonda della sua carne che adorate, potrebbe un giorno sorprendervi, sfasciare d’un tratto il vostro fragile sogno, farvi prigionieri del dolore. Non vi attardate sull’ora breve della vostra e della sua giovinezza, rimarrete per forza a galla sul dolore umano. Approfonditela e ne avrete la vecchiaia, verità che altrimenti vi rimarrà sconosciuta quando la possederete e sarete preda della nostalgia. Non vi fermate a nessun grado del deforme, del vecchio, essi non hanno come il bello e il giovane un limite; essi sono infiniti. Voi godrete di più a veder correre tre carogne, rassicuratevi, che tre puro-sangue. Il puro sangue ha in sé la carogna che sarà; cercatela, scopritela, non attardatevi sulle sue linee di fugace splendore (…) Pensate alla felicità di vedervi crescere attorno tanti piccoli gobbettini, orbiciattoli, nanerelli, zoppuncoli, esploratori divini di gioia. Invece di far mettere la parrucca alla vostra compagna, se non è calva del tutto voi la farete radere fino alla lucidità, e fatele imbottire la schiena, se non è proprio gobba. Noi futuristi vogliamo guarire le razze latine, e specialmente la nostra, dal dolore cosciente, luce passatista aggravata dal romanticismo cronico, dall’affettività mostruosa e dal sentimentalismo pietoso che deprimono ogni italiano (…) sostituire l’uso dei profumi con quello dei puzzi. Fate invadere un salone da ballo da un odore fresco di rose e voi lo cullerete in un vano passeggero sorriso, fatelo invadere da quello più profondo della merda (profondità umana stupidamente misconosciuta) e voi lo farete agitare nell’ilarità, nella gioia. (…) Istituire società ricreative nelle stanze mortuarie, dettare epitaffi a base di bisticci, calembours e doppi sensi. Sviluppare perciò quell’istinto utile e sano che ci fa ridere di un uomo che cade per terra e lasciarlo rialzare da sé comunicandogli la nostra allegria (…) Trasformare i manicomi in scuole di perfezionamento per le nuove generazioni.
1. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
Carlo Carrà, Funerale dell’anarchico Galli, 1910-11, New York, Museum of Modern Art
Enrico Prampolini, Ritratto di Marinetti. Sintesi plastica, 1924-25, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea
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XIII. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
Marcel Duchamp, Torture-Morte, 1959, Parigi, Musée national d’Art moderne, Centre Georges Pompidou
a fronte 13_8 Raoul Hausmann, Il critico d’arte, 1919-20, Londra, Tate Gallery
Dada Tristan Tzara Manifesto dada (1918) L’opera d’arte non deve rappresentare la bellezza, che è morta: né gaia né triste, né chiara né oscura, non deve divertire né maltrattare le singole personalità servendogli i pasticcini delle sante aureole o i sudori di una corsa inarcata attraverso le atmosfere. Un’opera d’arte non è mai bella per decreto legge, obbiettivamente, all’unanimità (…) Strappiamo, come un vento furioso, il bucato delle nuvole e delle preghiere, e prepariamo il grandioso spettacolo di un cataclisma, l’incendio, la decomposizione (…) Io proclamo l’opposizione di tutte le facoltà cosmiche alla blenorragia del putrido sole che viene fuori dalle fabbriche del pensiero filosofico, la lotta accanita, con tutti i mezzi, de DISGUSTO DADAISTA (…) Libertà: DADA DADA DADA, urlo di colori contratti, groviglio degli opposti e di tutte le contraddizioni, del grottesco e dell’incongruenza: La vita. Disgusto dadaista Tristan Tzara Manifesto dada (1918) Qualsiasi prodotto del disgusto suscettibile di trasformarsi in negazione della famiglia, è Dadà; protesta a suon di pugni di tutto il proprio essere teso nell’azione distruttiva: DADÀ; presa di coscienza di tutti i mezzi repressi finora dal sesso pudibondo del comodo compromesso e della buona educazione: DADÀ; abolizione della logica, balletto degli impotenti della creazione: DADÀ; di ogni gerarchia ed equazione sociale di valori stabilita dai servi che bazzicano tra noi: DADÀ; ogni oggetto, tutti gli oggetti, i sentimenti e il buio, le apparizioni e lo scontro inequivocabile delle linee parallele, sono armi per la lotta: DADA; abolizione della memoria: DADÀ; abolizione dell’archeologia: DADÀ; abolizione dei profeti: DADÀ; abolizione del futuro: DADÀ; fede assoluta irrefutabile in ogni dio che sia il prodotto immediato della spontaneità: DADÀ; salto elegante e senza pregiudizio da un’armonia all’altra sfera; (...) sputare come una cascata luminosa l’idea scortese o amorosa, oppure accarezzarla - con la sensazione altamente compiaciuta che tanto è lo stesso - con uguale intensità nel cespuglio, non contaminato da insetti per il sangue nobile e dorato dai corpi degli arcangeli, dalla sua anima. Libertà: DADÀ DADÀ DADÀ, urlo di colori contratti, groviglio degli opposti e di tutte le contraddizioni, del grottesco e dell’incongruenza: LA VITA.
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1. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
DUCHAMP
Francis Picabia, Il bacio, 1923-1926, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea
Marcel Duchamp, La Gioconda coi baffi, 1930, Collezione privata
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XIII. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
L’alluce Georges Bataille L’alluce (1929) La forma dell’alluce non è specificamente mostruosa: in ciò è differente dalle altre parti del corpo, per esempio dall’interno di una bocca spalancata. Solo delle deformazioni secondarie (ma comuni) hanno potuto dare alla sua ignominia un valore burlesco eccezionale. (…) Siccome, per la sua posizione fisica, la specie umana si allontana tanto quanto può dal fango terrestre, ma d’altra parte un riso spasmodico porta la sua gioia al culmine ogni volta che lo slancio più puro finisce nella melma con la sua arroganza, si può pensare che un alluce sempre più o meno tarato e umiliante sia analogo, psicologicamente, alla caduta brutale di un uomo, quindi alla morte. (…) L’aspetto orridamente cadaverico e nello stesso tempo prepotente e orgoglioso dell’alluce corrisponde a questa derisione e dà un’espressione acutissima al disordine del corpo umano, opera di una discordia violenta degli organi.
Jacques-André Boiffard, Alluce di uomo di trent’anni, 1929, Parigi, Musée National d’Art moderne, Centre Georges Pompidou
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Prevale un gusto anarchico per l’insostenibile, come accade in Roussel, o in film come Un chien andalou di Buñuel (1929), dove si assiste a ripugnanti operazioni come la vivisezione di un occhio. Artaud lancia nel 1932 il suo “teatro della crudeltà”, come “peste” e “flagello vendicatore”, in cui la vita “supera ogni limite e si mette alla prova nella tortura e nel calpestamento di tutte le cose”; Dalí si esercita in operazioni di “paranoia critica” come la sua analisi del celebre Angelus di Millet, Bataille celebra l’alluce e i fiori come oggetti di disgusto. Più tardi l’Informale rivaluterà ciò che sino ad allora era stato considerato irrapresentabile, vale a dire le pieghe più remote della materia, le muffe, la polvere e il fango; il Nuovo Realismo riscoprirà i detriti del mondo industriale e i lacerti di oggetti distrutti e poi riassemblati in nuove forme, con la pop art si ha l’appello di Warhol a un riciclaggio estetico dello scarto. Di fronte a tutte queste provocazioni si possono comprendere reazioni moralistiche come quella di Sedlmayr; ma le avanguardie storiche non intendevano realizzare alcuna Armonia, e perseguivano proprio la rottura di ogni ordine e di ogni schema percettivo istituzionalizzato, la ricerca di nuove forme di conoscenza capaci di penetrare sia nei recessi dell’inconscio che in quelli della materia allo stato brado, la denuncia dell’alienazione della società contemporanea.
1. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
André Breton, Man Ray, Emmanuel Radnitzky, Max Morise, Yves Tanguy, Cadavre exquis, 17 maggio 1927, Parigi, Musée National d’Art moderne, Centre Georges Pompidou
Fermenti di critica sociale agitavano gli espressionisti tedeschi; rivoluzionari erano stati i futuristi italiani, il cui proto-fascismo anarcoide nasceva in polemica con quel mondo borghese con cui si sarebbero poi tranquillamente riconciliati; vicini agli ideali della rivoluzione sovietica erano stati all’inizio i futuristi russi, e molti dei surrealisti avevano aderito al comunismo, con agitati dibattiti e feroci reciproche scomuniche tra stalinisti e trotskisti. Adorno, nella sua Teoria estetica, ricorda che correnti come il Surrealismo e l’Espressionismo “le cui irrazionalità risultarono sgradite sorprese, attaccavano il potere, l’autorità, l’oscurantismo”, che il rifiuto delle “norme della vita bella nella società brutta” non può che essere fatalmente sfigurato dal risentimento, e che l’arte deve “far proprio ciò che è bandito come brutto, non più per integrarlo, per mitigarlo, o per fargli accettare di esistere ricorrendo all’umorismo (…) bensì per denunciare, nel brutto, il mondo che lo crea e lo riproduce secondo la propria immagine (…) L’arte accusa il dominio (…) e rende testimonianza per ciò che da quel dominio è rimosso e rinnegato”. Oggi tutti (compresi i borghesi che avrebbero dovuto essere stupiti e scandalizzati) riconoscono come “bellissime” (artisticamente) quelle opere che avevano orripilato i loro padri. Il brutto dell’avanguardia è stato accettato come nuovo modello di bellezza, e ha dato origine a un nuovo circuito mercantile. 379
XIII. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
Salvador Dalí, Costruzione molle con fagioli bolliti. Premonizione della guerra civile, 1936, Philadelphia Museum of Art
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Il Surrealismo André Breton Manifesto del Surrealismo (1924) Surrealismo: Automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, o verbalmente, o per iscritto, o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza d’ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori d’ogni preoccupazione estetica o morale (…) Il surrealismo si fonda sull’idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme di associazione finora trascurate, sull’onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita (…) Fatevi portare di che scrivere, dopo esservi sistemato nel luogo che vi sembra più favorevole alla concentrazione del vostro spirito in sé stesso. Ponetevi nello stato più passivo, o ricettivo, che potete (...) Scrivete rapidamente senza un soggetto prestabilito, tanto in fretta da non trattenervi, da non avere la tentazione di rileggere. La prima frase verrà da sola” “Ecco dei personaggi dai modi un po’ disparati (...) Così provvisti di un piccolo numero di caratteristiche fisiche e morali, quegli esseri che in verità vi devono tanto poco non si scosteranno più da una certa linea di condotta, della quale non dovete occuparvi. Ne risulterà un intreccio più o meno sapiente in apparenza, a giustificare punto per punto un finale commovente o rassicurante di cui vi disinteressate
Contro il surrealismo Hans Sedlmayr Perdita del centro, V (1948) Il surrealismo ha gettato via le maschere. Apertamente oltraggia Dio e l’uomo, i morti e i vivi, la bellezza e la morale, la struttura e la forma, la ragione e l’arte: “L’arte è una sciocchezza” (…) Crede di essere in possesso di un punto di vista, “in base al quale vita e morte, realtà e immaginazione, comunicabilità e incomunicabilità, ‘sopra’ e ‘sotto’ non debbano più essere sentiti come opposti e contraddittori”. Questa definizione, apparentemente scientifica, non è altro che la definizione del caos. Neppure il surrealismo lo nega; esso riconosce anzi apertamente di cercare “la sistematizzazione della confusione” (S. Dalí) e la disorganizzazione. “Non esiste un ordine rivoluzionario, esiste solo disordine e follia”. E con soddisfazione esso annuncia che “un nuovo vizio è appena nato e con esso si offre all’uomo un’altra illusione: il surrealismo, il figlio della frenesia e dell’oscurità” (Aragon). (…) La comparsa delle sue avanguardie è il potente segnale che serve ad indicare la marcia già avanzante delle forze irrazionali, o meglio, sub-razionali. Ad esse aprono le porte quegli ingenui (o anche complicati) contemporanei che vedono nel frainteso nome di surrealismo – che, in realtà, è subrealismo – la promessa di essere sollevati al di sopra della banale vita di tutti i giorni (…) Non vale considerare un tale fenomeno come una bagatella (…) Il surrealismo è, in sostanza, l’ultimo frettoloso passo verso lo sfacelo dell’arte e dell’uomo, sfacelo che Nietzsche aveva già sperimentato quando, nel 1881, scrisse il suo frammento “L’uomo pazzo”: “Non seguitiamo forse a precipitare? All’indietro, di fianco, in avanti, da tutte le parti? Esiste ancora il ‘sopra’ e il ‘sotto’? Non andiamo forse vagando attraverso l’infinito nulla? Non ci alita forse in faccia il freddo spazio? Non si è fatto forse ancora più freddo?”.
1. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
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Salvador Dalí, Atavismo al crepuscolo, 1933-34, Berna, Kunstmuseum Jean François Millet L’Angelus, 1858-59, Parigi, Muée d’Orsay a fronte Un chien andalou, 1929, regia di Luis Buñuel pagine seguenti Paul Klee, Commediante, 1904, New York, Museum of Modern Art Francis Bacon, Autoritratto, post-1945, Londra, Marlborough Gallery
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1. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
Deformare il passato Salvador Dalí Indagine “paranoico-critica”dell’ Angélus di Millet La paranoia non si limita sempre ad essere “l’illustrazione”; essa costituisce ancora la vera ed unica “illustrazione letterale” conosciuta, cioè “l’illustrazione interpretativa delirante” (…) Nessun tipo di immagine mi sembra più adatta a rappresentare in modo più “letterale” e delirante, Lautréamont in generale e Les chants de Maldoror in particolare, di quella eseguita circa settant’anni fa dal pittore del tragico atavismo cannibale, degli ancestrali incontri di carni dolci, molli e di prima scelta: io parlo di Jean-Francois Millet. Questo pittore spaventosamente incompreso. È proprio il famosissimo Angélus di Millet che potrebbe essere l’equivalente pittorico del tanto conosciuto quanto sublime “incontro casuale su di un tavolo anatomico di una macchina da cucire e di un ombrello” (…) L’Angélus è l’unico quadro al mondo che io conosca che comporti la presenza immobile, l’incontro e l’attesa di due esseri in un ambiente solitario, crepuscolare e mortale. Questo ambiente solitario, crepuscolare e mortale, gioca, nel dipinto, il ruolo del tavolo anatomico del testo poetico poiché non solamente la vita si spegne all’orizzonte, ma per di più il forcone si pianta in quella viva e sostanziale carne che da sempre, per l’uomo, è stata la terra coltivata. Esso si conficca, voglio dire, con quell’ingordo desiderio di fecondità, proprio delle squisite incisioni del bisturi che, come tutti sanno, non fa altro che cercare in segreto, con
diversi pretesti analitici, nel sezionare ogni cadavere, il sintetico fecondo, nutriente frutto della morte. Da ciò deriva il costante dualismo, presente in tutte le epoche, della terra coltivata (…), dualismo che ci porta infine a considerare la terra coltivata, soprattutto con l’aggravante del crepuscolo, come un tavolo anatomico ben fornito, quello fra tutti i tavoli anatomici che ci può offrire il cadavere più perfetto e appetitoso, farcito con quel tartufo fine e imponderabile che si trova solo nei sogni nutrienti costituito da carne di spalle rammollite di balie hitleriane e ataviche, e condito con quel sale incorruttibile ed eccitante composto dal frenetico e vorace brulichìo delle formiche che implica automaticamente un’autentica “putrefazione insepolta” veramente rispettabile e degna di questo nome. Se, come abbiamo detto, la “terra coltivata” è il più fedele e opportuno tavolo anatomico che esista, l’ombrello e la macchina da cucire saranno trasposti, nell’Angélus, nella figura maschile e in quella femminile e tutto il disagio e l’enigma dell’incontro deriverà sempre (…) dalle caratteristiche autentiche dei due personaggi, dei due oggetti da cui deriva tutto lo sviluppo degli argomenti, tutta la tragedia latente dell’incontro, dell’attesa e dei preliminari. L’ombrello, tipico oggetto surrealista a funzione simbolica (conseguentemente al suo flagrante e ben noto fenomeno di erezione) non può essere altro che la figura maschile dell’Angé/Lus che, come mi userete la cortesia di ricordare, nel dipinto fa il possibile per mascherare riuscendo soltanto a mettere in
evidenza questo suo stato di erezione, considerata la posizione vergognosa e compromettente del suo cappello. Davanti a lui, la macchina da cucire, simbolo femminile conosciuto da tutti ed estremamente caratterizzato, arriva fino a rivendicare l’attributo mortale e cannibale del suo ago da cucito, il cui lavoro si identifica con quella delicatissima perforazione che la mantide religiosa esegue per “svuotare” il suo maschio, come dire per svuotare il suo ombrello, trasformandolo in quella vittima martirizzata flaccida e depressa, in cui infatti si trasforma ogni ombrello quando si chiude dopo la magnificenza del suo funzionamento amoroso, parossistico e teso al massimo. È evidente che dietro alle figure tese dell’Angé/Lus, e cioè dietro alla macchina da cucire e all’ombrello, le spigolatrici non possono che continuare a raccogliere con indifferenza, convenzionalmente, le uova al tegame (senza tegame), i calamai, i cucchiai, e tutta l’argenteria che gli ultimi momenti del crepuscolo rendono esibizionista in quest’ora scintillante. E non appena una cotoletta cruda, presa come campione medio dei simboli commestibili si è posata sulla testa del maschio, già si viene formando e si disegna improvvisamente nelle nuvole all’orizzonte, la silhouette di Napoleone I, l’”affamato” e già lo si vede avvicinarsi impaziente alla testa del suo squadrone per venire a cercare la cotoletta in questione, che in realtà è adatta soltanto a parlare all’ago, acutissimo. terrificante, bellissimo, della spettrale macchina da cucire clandestina e benportante. 383
Il brutto dell’avanguardia Georges Bataille Il “gioco lugubre” (1929) Le pitture di Picasso sono orrende, che quelle di Dalí sono di una bruttezza spaventosa (…) Se i movimenti violenti arrivano a liberare un essere da una noia profonda, è perché essi possono fare accedere, per non si sa quale oscuro errore, a una orribile bruttezza che appaga. Bisogna dire, d’altronde, che la bruttezza può essere odiosa senza alcun appello e, diciamo così, per disgrazia, ma niente è più comune della bruttezza equivoca che dà, in maniera provocante, l’illusione del contrario. Quanto alla bruttezza irrevocabile, essa è detestabile esattamente come certe bellezze: la bellezza che non dissimula niente, che non è la maschera dell’impudicizia perduta, che non si smentisce mai e resta eternamente sull’attenti come un vigliacco. Ingiurioso Raymond Queneau Esercizi di stile (1947) Dopo un’attesa repellente sotto un sole ignobile, sono finito su di un autobus immondo infestato da una banda di animali puzzolenti. Il più puzzone tra questi puteolenti era un foruncoloso dal collo di pollastro 384
che metteva in mostra una coppola grottesca con uno spago al posto del nastro. Questo pavone si mette a ragliare perché un puzzone del suo stampo gli pesticcchiava gli zoccoli con furore senile. Ma si è sgonfiato presto ed è andato a defecarsi su di un posto ancora sbagnazzato del sudore delle natiche di un altro puzzone. Due ore dopo, quando si dice la scalogna, mi imbatto ancora nello stesso puzzolente puzzone che sta ad abbaiare con un puzzone più puzzone di lui, davanti a quel monumento ributtante che chiamano Gare Saint Lazare. E tutti e due i puzzoni si sgocciolavan saliva addosso a proposito di un merdosissimo bottone. Ma che quel suo foruncolo salisse o scendesse su quella mondezza di cappotto, puzzone era e puzzone rimaneva. La trasvalutazione del brutto Raymond Roussel Locus Solus, 2, 4 (1914) Su una vasta estensione erano sparsi da ogni lato denti umani, offrendo una grande varietà di forme e di colori. Alcuni di un biancore smagliante contrastavano con gli incisivi di fumatori che fornivano la gamma completa dei bruni e degli avana. In quel bizzarro stock, figuravano tutte le gradazioni di
giallo, dai più vaporosi toni paglierini fino alle più atroci sfumature rossicce. Denti blu, ora tenui, ora carichi, davano il loro contributo a quella ricca policromia, completata da una quantità di denti neri e dai rossi pallidi o squillanti di numerose radici sanguinolente. Sagome e proporzioni differivano all’infinito: molari immensi e canini mostruosi s’affiancavano a denti di latte quasi impercettibili. Qua e là spuntavano frequenti riflessi metallici, provenienti da piombature o da capsule dorate. Nel posto occupato in quel momento dalla mazzeranga, i denti, fittamente raggruppati, davano origine, con la sola alternanza delle loro tinte, ad un vero e proprio quadro per il momento incompiuto. L ‘insieme evocava un raitro addormentato in una cripta tenebrosa, mollemente riverso sul bordo di uno stagno sotterraneo. Un’esile spira di fumo, generata dal cervello del dormiente, mostrava a guisa di sogno, undici giovani nell’atto di inchinarsi soggiogati dallo sgomento loro ispirato da una bolla d’aria quasi diafana, mèta apparente del volo sicuro d’una bianca colomba, che tracciava per terra una leggera ombra proiettata intorno ad un uccellino morto. A fianco del raitro giaceva un vecchio libro chiuso che una torcia, piantata dritta sul fondo della cripta, illuminava debolmente. In questo singolare mosaico dentario dominavano il giallo e il bruno. Gli altri toni, più rari, vi gettavano note di colore vivaci e seducenti. La colomba, fatta di splendidi denti bianchi, era atteggiata a rapido e aggraziato slancio; accordate alla acconciatura del raitro, alcune radici sapientemente disposte componevano, da un lato, una piuma rossa, ornamento d’un cappello scuro abbandonato presso il libro; dall’altro, un gran mantello porporino agganciato da un fermaglio di rame ottenuto con ingegnosi assembramenti di capsule dorate; un complicato amalgama di denti bluastri dava luogo ad una calzamaglia azzurrina, che finiva entro larghi stivali di denti neri. (...)
1. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
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XIII. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
Alberto Martini, Nascita – Il dolore umano, da “Misteri”, sei litografie, 1923 Milano, Bottega di Poesia a fronte Jean Fautrier, Studio per grande nudo, 1926, collezione privata
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Il teatro della crudeltà Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio (1938) Il teatro, come la peste, è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione. E se la peste è una malattia superiore perché è crisi totale dopo la quale non rimane altro che la morte o la purificazione assoluta, anche il teatro è una malattia, perché è l’equilibrio supremo, non raggiungibile senza distruzione. (...) Può darsi che il veleno del teatro, iniettato nel corpo sociale, lo disintegri, come dice Sant’Agostino, ma lo fa come una peste, come un flagello vendicatore.
La corruzione dei fiori Georges Bataille Il linguaggio dei fiori (1929) Dopo un periodo molto breve di splendore la meravigliosa corolla marcisce impudicamente al sole, divenendo per la pianta una vergogna obbrobriosa. Raggiunto il fetore del letame, benché avesse dato l’impressione di sfuggirvi in uno slancio di purezza angelica e lirica, il fiore sembra bruscamente tornare alla sua sozzura primitiva: il più ideale è rapidamente ridotto ad un brandello di letamaio aereo. Perché i fiori non invecchiano onestamente come le foglie che non perdono niente della loro bellezza, anche dopo che sono morte; i fiori appassiscono come delle smorfiose invecchiate e troppo incipriate e muoiono ridicolmente sugli steli che sembravano portarli alle stelle.
Andy Warhol, Cinque morti su sfondo arancione, 1963, New York, The Andy Warhol Foundation a fronte Arman, Piccoli rifiuti borghesi, New York, collezione Philippe Arman
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L’estetica dello scarto Andy Warhol La filosofia di Andy Warhol (1975) Mi è sempre piaciuto lavorare con gli scarti. Cose che vengono scartate, che non sono buone e tutti lo sanno: ho sempre pensato che hanno un grande potenziale di divertimento. È un lavoro di riciclaggio. Ho sempre pensato che ci fosse più humour negli scarti. (…) Non voglio dire che il gusto popolare sia cattivo e che tutto ciò che viene scartato dal cattivo gusto sia buono: ciò che
voglio dire è che gli scarti sono probabilmente brutte cose, ma che se riesci a lavorarci un po’ sopra e renderle belle o almeno interessanti, c’è molto meno spreco. Fai un lavoro di riciclaggio e ricicli persone e mandi avanti i tuoi affari, che sono i prodotti secondari di altri affari. Altri affari che in realtà sono direttamente competitivi. Come si capisce è una procedura operativa molto economica. Ed è anche la più divertente perché, come ho già detto, gli scarti sono intrinsecamente divertenti.
1. L’AVANGUARDIA E IL TRIONFO DEL BRUTTO
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Capitolo
XIV
Il brutto altrui, il kitsch e il camp
1. Il brutto altrui
Scultura greca nella sala della musica della casa del poeta Gabriele D’Annunzio, nota con il nome de “Vettoriale”
Si è detto sin dall’inizio che il concetto di bruttezza, come peraltro quello di bellezza, è relativo, non solo alle diverse culture ma anche al tempo. La storia è ricca di esempi in questo senso. Un autore settecentesco come Saverio Bettinelli, un dotto gesuita certamente di buon gusto, almeno secondo il gusto dei tempi suoi, nelle sue Lettere virgiliane (che egli immagina scritte da Virgilio) accusava di rozzezza e oscurità la Divina Commedia. Napoleone, per potere far entrare comodamente in Notre Dame di Parigi il corteo della sua incoronazione a imperatore, aveva fatto tagliare il timpano del portale centrale della cattedrale, distruggendo un capolavoro di quell’arte gotica che a inizio Ottocento (malgrado il romanzo gotico e forse proprio a causa di quella temperie) era considerata come barbara e primitiva. Noi guardiamo increduli le foto delle attrici del film muto senza comprendere come mai i contemporanei le trovassero affascinanti, né peraltro faremmo partecipare una donna rubensiana a una sfilata di moda. Non è solo il passato a risultare spesso incomprensibile: il più delle volte i contemporanei sono incapaci di apprezzare il futuro, vale a dire le proposte sovente provocatorie avanzate dagli artisti. E non bisogna pensare solo ai rifiuti piccolo borghesi o popolari dell’arte d’avanguardia. Per il divertimento del lettore, e ad ammonimento per ogni critica futura, si veda nella pagina seguente Per loro erano brutti, una incredibile raccolta di stroncature dovute a esperti del tempo riguardo alle opere di artisti che noi consideriamo grandissimi. 391
Mae West, 1950 ca.
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Come è brutta la Divina Commedia! Saverio Bettinelli Lettere virgiliane (1758) Pur de’ bellissimi versi, che a quando a quando incontravansi, mi facean tal piacere che quasi gli perdonava… Oh che peccato, gridai, che sì bei pezzi in mezzo a tanta oscurità e stravaganza sian condannati! (...) Oh che sfinimento non fu per noi lo strascinarci, per cento canti e per quattordici mille versi, in tanti cerchi e bolge, tra mille abissi e precipizi con Dante, il qual tramortiva ad ogni paura, dormiva ad ogni tratto, e mal si svegliava, e noiava me, suo duca e condottiere, delle più nuove e più strane dimande che fosser mai! (...) Mille grottesche positure e bizzarri tormenti non fanno certo gran credito a quell’Inferno né all’immaginazione del poeta. Tutti poi quanti sono ciarlieri e loquacissimi di mezzo ai tormenti, o alla beatitudine, e non mai stanchi in raccontare le strane loro venture, in risolvere dubbi teologici o in
domandar le novelle di mille toscani loro amici o nemici, e che so io… E questo è un poema, un esemplare, un’opera divina? Poema tessuto di prediche, di dialoghi, di quistioni, poema senza azioni o con azioni soltanto di cadute, di passaggi, di salite, di andate e di ritorni, e tanto peggio quanto più avanti ne gite? Quattordici mille versi di tai sermoni, chi può leggerli senza svenir d’affanno o di sonno? (…) A Dante null’altro mancò che buon gusto, e discernimento nell’arte. Ma grande ebbe l’anima, e l’ebbe sublime, l’ingegno acuto e fecondo, la fantasia vivace e pittoresca, onde gli cadono dalla penna de’ versi e de’ tratti mirabili (…) E di tali interi ternari ve n’ha sino ad un centinaio, se ben gli ho contati, tra cinque mille, che formano tutto il poema. I versi poi soli, or sentenziosi, or dilicati, or piagnenti, or magnifici e senza difetto, ardisco dire, che vanno a mille (...) Dunque, restano tredici mille difettosi e cattivi.
1. IL BRUTTO ALTRUI
Per loro erano brutti Rapporti di lettura e recensioni * Le composizioni di Johann Sebastian Bach sono totalmente prive di bellezza, di armonia e, soprattutto, di chiarezza. (Johann Adolph Scheibe, Der critische Musikus, 1737) * Un’orgia di frastuono e di volgarità. (Louis Spohr per la prima esecuzione della Quinta di Beethoven) * Se (Chopin) avesse sottoposto le sue musiche al giudizio di un esperto, questi le avrebbe stracciate... Comunque vorrei farlo io. (Ludwig Rellstab, Iris im Gebiete der Tonkunst, 1833) *Il Rigoletto è carente sul piano melodico. Quest’opera non ha nessuna possibilità d’inserirsi nel repertorio. (Gazette Musicale de Paris, 1853) * Ho studiato a lungo la musica di quel furfante. È un bastardo privo di qualità. (Ciaikowskij nel suo Diario, su Brahms) * Fra cent’anni Les fleurs du mal verranno ricordati solo come una curiosità. (Émile Zola, in occasione della morte di Baudelaire) * Avrà avuto anche le doti di un grande pittore, ma gli è mancata la volontà di diventarlo. (Émile Zola su Cezanne) * È l’opera di un pazzo. (Ambroise Vollard nel 1907 su Les Demoiselle d’Avignon di Picasso) * Sarò forse duro di comprendonio, ma non riesco proprio a capacitarmi del fatto che un signore possa impiegare trenta pagine per descrivere come si giri e rigiri nel letto prima di prendere sonno. (rapporto di lettura per la Recherche di Proust) * Signore, avete seppellito il vostro romanzo in un cumulo di dettagli che sono ben disegnati ma del tutto superflui. (Lettera di un editore a Flaubert, per Madame Bovary) * Nei suoi romanzi non c’è
niente che riveli particolari doti immaginative, né la trama, né i personaggi. Balzac non occuperà mai un posto di rilievo nella letteratura francese. (Eugène Poitou, Revue des deux mondes 1856) * In Cime tempestose i difetti di Jane Eyre [della sorella Charlotte] vengono moltiplicati per mille. A pensarci bene, l’unica consolazione che ci resterà è il pensiero che il romanzo non diventerà mai popolare. (James Lorimer, North British Review, su Emily Brontë 1849). * L’incoerenza e la mancanza di forma delle sue poesiole – non saprei definirle altrimenti – sono spaventose (Thomas Bailey Aldrich, The Atlantic Monthly, su Emily Dickinson 1982). * Moby Dick è un libro triste, squallido, piatto, addirittura ridicolo... Quel capitano pazzo, poi, è di una noia mortale. (The Southern Quarterly Review 1851) * Walt Withman ha lo stesso rapporto con l’arte che un maiale con la matematica. (The London Critic 1855). * Poco interessante per il lettore comune e non abbastanza approfondito per il lettore scientifico. (Rapporto di lettura su H.G. Wells, La macchina del tempo 1895) * La storia non arriva a una conclusione. Né il carattere né la carriera del protagonista sembrano arrivare a un punto che giustifichi il finale. In breve, mi pare che la storia non concluda. (Rapporto di lettura su Francis Scott Fitzgerald, Al di qua del Paradiso 1920) * Dio mio, Dio mio, non possiamo pubblicarlo. Finiamo tutti in prigione. (Rapporto di lettura su Faulkner, Santuario 1931) * Impossibile vendere storie di animali negli USA. (Rapporto di lettura su George Orwell, La fattoria degli animali 1945) * Questa ragazza non sembra
avere una speciale percezione ovvero il sentimento di come si possa portare questo libro al di sopra di un livello di semplice curiosità. (Rapporto di lettura sul Diario di Anna Frank 1952) * Dovrebbe essere raccontato a uno psicoanalista, e probabilmente è stato fatto, ed è stato trasformato in un romanzo che contiene alcuni passi di bella scrittura, ma è eccessivamente nauseante... Raccomando di seppellirlo per mille anni. (Rapporto di lettura su Nabokov, Lolita 1955) * I Buddenbrook non sono altro che due volumoni in cui l’autore racconta storie insignificanti di gente insignificante in uno stile insignificante. (Eduard Engel su I Buddenbrook di Thomas Mann 1901). * Ho appena terminato di leggere lo Ulysses e lo giudico un insuccesso... È prolisso e sgradevole. È un testo rozzo, non solo in senso oggettivo, ma anche dal punto di vista letterario. (Dal Diario di Virginia Wolf) * Quel ragazzo non ha il minimo talento. (Manet a Monet su Renoir) * Nessun film sulla guerra civile ha mai reso un soldo. (Irving Thalberg della Metro, sconsigliando di acquistare i diritti di Via col vento) * Via col vento sarà il fiasco più clamoroso nella storia di Hollywood. Sono proprio contento che a trovarsi nei guai sarà Clark Gable e non Gary Cooper. (Gary Cooper, dopo aver rifiutato il ruolo di Retth Butler) * Che me ne faccio di un tipo con delle orecchie simili? (Jack Warner dopo un provino di Clark Gable 1930) * Non sa recitare, non sa cantare ed è calvo. Se la cava un po’ con la danza. (dirigente della Metro, dopo un provino di Fred Astaire 1928) 393
XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
2. Il kitsch
Il brutto è anche fenomeno sociale. È sempre accaduto che i membri delle classi “alte” giudicassero sgradevoli o ridicoli i gusti delle classi “basse”. Si potrebbe certo dire che in queste discriminazioni hanno sempre giocato fattori economici, nel senso che l’eleganza è sempre stata associata all’uso di tessuti, colori e gemme costosissimi. Ma spesso la discriminante non è stata economica bensì culturale; è esperienza consueta rilevare la rozzezza del nuovo ricco che, per ostentare la sua ricchezza, va oltre i limiti che la sensibilità estetica dominante assegna al ”buon gusto”. È peraltro imbarazzante definire la sensibilità estetica dominante: non è necessariamente quella di chi detiene il potere politico ed economico, ed è piuttosto quella fissata dagli artisti, dalle persone colte, da chi viene ritenuto (dal mondo letterario, artistico e accademico o dal mercato dell’arte e della moda) esperto di “cose belle”. Ma si tratta di un concetto molto volatile. Così potrà accadere che alcuni lettori possano stupirsi di trovare in questo capitolo di un libro sulla bruttezza immagini che essi giudicheranno forse bellissime. Queste immagini vengono proposte perché la sensibilità estetica dominante, spesso a posteriori, le ha definite riprovevoli, nel senso che le ha poste sotto la categoria del kitsch. Secondo alcuni la parola kitsch risalirebbe alla seconda metà dell’Ottocento, quando i turisti americani a Monaco, volendo acquistare un quadro, ma a poco prezzo, chiedevano uno schizzo (sketch). Di lì sarebbe venuto il termine per indicare volgare paccottiglia per acquirenti desiderosi di facili esperienze estetiche. Tuttavia, in dialetto meklemburghese esisteva già il verbo kitschen per “raccogliere fango sulla strada”. Un’altra accezione dello stesso verbo sarebbe anche “truccare mobili per farli apparire antichi”, mentre si ha il verbo verkitschen per “vendere a poco prezzo”. Ma per chi la paccottiglia è tale? La cultura “alta” definisce kitsch i nanetti da giardino, le immaginette devozionali, i falsi canali veneziani dei casino di Las Vegas, il falso grottesco del celebre Madonna Inn californiano, che intende fornire un’esperienza “estetica” eccezionale al turista. E Kitsch senza remissione è stata definita l’arte celebrativa (che si voleva popolare) delle dittature staliniana, hitleriana o mussoliniana, che definivano l’arte contemporanea come “degenerata”. 394
2. IL KITSCH
Le buone cose di pessimo gusto Guido Gozzano L’amica di Nonna Speranza (1850) Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone – i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto), – il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, – i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, – un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, – gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco, –
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi, – le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici, – le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, – i dagherottipi: figure sognanti in perplessità, – il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone – e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, – il cucù dell’ore che canta, le sedie parate a damasco – chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!
I coniugi Arnolfini. Riproduzione in cera. XX sec., Buena Park, California, Palace of Living Art, Movieland WaxMuseum
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XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
Foto della stanza 206 “Vecchio Mulino” del Madonna Inn di San Luis Obispo, California
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Il Madonna Inn Umberto Eco Dalla periferia dell’impero (1976) Le povere parole di cui è dotato il linguaggio naturale degli uomini non possono bastare a descrivere il Madonna Inn. (…) Diciamo che Piacentini, mentre sfogliava un libro di Gaudì, abbia ingerito una dose esagerata di LSD e si sia messo a costruire una catacomba nuziale per Liza Minnelli. Ma non rende l’idea. Diciamo, l’Arcimboldi che costruisca per Orietta Berti la Sagrada Familia. Oppure: Carmen Miranda che disegna una locale Tiffany per i motel Motta. Ancora, il Vittoriale immaginato da Fantozzi, le Città Invisibili di Calvino descritte da Liala e realizzate da Leonor Fini per la Fiera del Panno Lenci, la Sonata in si bemolle minore di Chopin cantata da Claudio Villa su arrangiamento di Valentino Liberace ed eseguita dalla banda dei Pompieri di Viggiù. Ma non ci siamo ancora. Proviamo a raccontare le latrine. Sono una immensa caverna sotterranea, tra Altamira e Postumia, con colonnine bizantine su cui poggiano putti barocchi in gesso. I lavabi sono grandi conchiglie madreperlacee, il pisciatoio è un camino scavato nella roccia, ma come il getto dell’orina (mi spiace, ma bisogna
spiegare) tocca il fondo, dalla parete della cappa trasuda acqua che poi cade a cascatella a mo’ di sciacquone delle Caverne del Pianeta Mongo. E al piano terra, nel quadro di chalet tirolesi e castelletti rinascimentali, una cascata di lampadari a forma di cesti di fiori, cascate di vischio sormontate da bolle opalescenti, violacee e soffuse tra cui fanno altalena bambole vittoriane, mentre le pareti sono rotte da vetrate art nouveau coi colori di Chartres e tappezzerie Reggenza (…) Il tutto tra invenzioni che fanno dell’insieme un mantecato multicolore, una scatola di canditi, una cassata alla siciliana, una Bengodi per Hansel e Gretel. Poi ci sono le camere, circa duecento, ciascuna con una caratteristica diversa: per un modico prezzo potete avere la camera preistorica, tutta caverna e stalattiti, la Safari Room (tutta tappezzata a zebra col letto a forma di idolo Bantu), la camera Hawaiana, la California Poppy, la Old Fashioned Honeymoon, la Collina Irlandese, la Cime Tempestose, la Guglielmo Tell, la Tall and Short, per coniugi di due lunghezze diverse, col letto a poligono irregolare, la Camera con Cascata lungo la Parete di Roccia, l’Imperiale, la Vecchio Mulino Olandese, la Camera con Effetto di Giostra.
2. IL KITSCH
Sacro cuore di Gesù, cartolina, 1903
pagine seguenti Dmitrij Nalbandjan, Al Cremlino, 24 maggio 1945, Mosca, Musei di Stato Hubert Lanzinger, Il portabandiera, 1937, Washington D.C., National Museum of the U.S. Army, Army Art Collection Statue del Foro Italico, Roma, 1927-1934 ca.
Però chi si compiace del Kitsch ritiene di stare godendo di una esperienza qualitativamente alta. Basterebbe dire che esiste un’arte per gli incolti così come esiste un’arte per i colti, e che bisogna rispettare la differenza tra questi due “gusti” così come si rispettano le differenze di credenze religiose, o le preferenze sessuali. Però, mentre i cultori di un’arte “colta” trovano kitsch il Kitsch, i cultori del Kitsch (tranne che di fronte a opere intese proprio a “stupire il borghese”) non trovano disprezzabile la grande arte dei musei (i quali, peraltro, spesso espongono opere che la sensibilità colta giudica Kitsch). Anzi, ritengono le opere Kitsch “simili” a quelle della grande arte. Infatti, se una delle definizioni del Kitsch lo vede come qualcosa che mira a provocare un effetto passionale invece di consentire una contemplazione disinteressata, l’altra ritiene Kitsch quella pratica artistica che, per nobilitarsi, e nobilitare l’acquirente, imita e cita l’arte dei musei. Clement Greenberg ha affermato che, mentre l’avanguardia (intendendola in generale come l’arte nella sua funzione di scoperta e invenzione) imita l’atto dell’imitare, il Kitsch imita l’effetto dell’imitazione; l’avanguardia nel fare arte pone in evidenza i procedimenti che portano all’opera, ed elegge questi a oggetto del proprio discorso, mentre il Kitsch pone in evidenza le reazioni che l’opera deve provocare, ed elegge a fine della propria operazione la reazione emotiva del fruitore. 397
2. IL KITSCH
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XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
L’interessante Arthur Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, III, 40 (1819) Con questo nome io designo ciò che stimola la volontà promettendole diretto appagamento. Il sentimento del sublime nasce dal fatto che una cosa decisamente ostile alla volontà diventa oggetto di pura contemplazione, la quale poi si conserva solo mediante un permanente distacco dalla volontà stessa, e un levarsi al di sopra del suo interesse, il che appunto costituisce la sublimità di tale disposizione di spirito; l’attraente, al contrario, fa discendere lo spettatore dalla pura contemplazione, necessaria alla comprensione del bello, seducendo a forza la sua volontà con oggetti che immediatamente la lusingano, così che lo spettatore non rimane più puro soggetto del conoscere, ma si trasforma in soggetto del volere, bisognoso e dipendente (…) Nella pittura storica e nella scultura, l’attraente consiste nel rappresentare figure ignude, che per le pose, i mezzi vestimenti e l’insieme della composizione, tendono a destare libidine nello spettatore; e questo distrugge la contemplazione estetica ed opera in opposizione al fine dell’arte.
William Adolphe Bouguereau, Nascita di Venere, 1879, Parigi, Musée d’Orsay Sir Lawrence Alma-Tadema, L’abitudine preferita, 1909, Londra, Tate Gallery
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Una definizione indiretta di Kitsch è quella di Schopenhauer quando delinea la differenza tra l’artistico e l’interessante, inteso quest’utimo come arte che sollecita i sensi del fruitore. Schopenhauer criticava per questo la pittura olandese secentesca, che rappresentava frutta e tavole imbandite, capaci di stimolare l’appetito piuttosto che invitare alla contemplazione. Nel secolo scorso, con maggiore sdegno moralistico, ha scritto contro questa stimolazione programmata dell’effetto Hermann Broch. E certamente sotto la rubrica del Kitsch cade tutta quell’arte di fine Ottocento definita art pompier, fatta di procaci odalische, nudi di divinità classiche e iperboliche rievocazioni storiche. Per quanto riguarda l’imitazione dell’arte “alta”, in un suo celebre saggio Dwight MacDonald ha opposto alle manifestazioni di un’arte di élite sia la cultura di massa (masscult) che quella piccolo borghese (midcult). Egli non rimproverava tanto al masscult la diffusione di ciò che oggi chiameremmo trash (o “spazzatura” televisiva), bensì al midcult di banalizzare le scoperte della vera arte per fini commerciali – accanendosi contro Il vecchio e il mare di Hemingway, e denunciandone il linguaggio artificiosamente liricizzante e la tendenza a raffigurare personaggi apparentemente “universali” (non “quel vecchio” bensì “Il Vecchio”).
XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
Giacomo Grosso, La nuda (Nuda), 1896, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea
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Stilistica del Kitsch Pastiche elaborato da Walther Killy in Deutscher Kitsch, 1962, utilizzando brani di sei autori tedeschi, tra cui Rilke Sussurra lontano il mare e nel silenzio fatato il vento muove teneramente le rigide foglie. Una veste opaca di seta, ricamata in bianco avorio ed oro, fluttua intorno alle sue membra e lascia scorgere un tenero collo sinuoso, sul quale gravano le trecce color di fuoco. Ancora non era accesa la luce nella stanza solitaria di Brunilde – le palme snelle si levavano come ombre scure e fantasiose dai preziosi vasi di Cina: al centro biancheggiavano i corpi marmorei delle statue antiche, come fantasmi, e sulle pareti appena si intravedevano i quadri nelle loro larghe cornici d’oro dai sommessi riflessi. Brunilde era seduta al pianoforte e faceva scivolare le mani sulla tastiera, immersa in un dolce fantasticare. Un ‘largo’ fluiva in un cupo ricercare, come veli di fumo si sciolgono dalle ceneri incandescenti e vengono sfilacciati dal vento, vorticando in lembi bizzarri, separati dalla fiamma senza essenza. Lentamente la melodia cresceva
maestosa, rompeva in accordi potenti, ritornava su se stessa con voci infantili, supplicanti, incantate, indicibilmente dolci, con cori d’angeli, e sussurrava sopra foreste notturne e forre solitarie, ampie, rosso ardenti, dalle steli antiche, giocando intorno a cimiteri campestri abbandonati. Prati chiari si aprono, primavere giocano con figure leggiadramente mosse, e davanti all’autunno sta seduta una donna vecchia, una donna malvagia, intorno alla quale cade ogni foglia. Inverno sarà, grandi angeli luccicanti, che non sfiorano la neve, ma alti come i cieli, si inclineranno verso i pastori in ascolto e canteranno loro del bambino favoloso di Betlemme. L’incanto celeste, sazio di segreti del santo Natale, tesse intorno alla forra invernale che dorme in profonda pace, siccome suonasse da lungi un canto d’arpa, stranito nel rumore del giorno, siccome il segreto stesso della tristezza cantasse l’origine divina. E fuori il vento notturno carezza col tocco delle sue tenere mani la casa d’oro, e le stelle vagano per la notte invernale.
2. IL KITSCH
La tecnica dell’‘effetto’ Hermann Broch Il male nel sistema dei valori dell’arte (1933) L’essenza del Kitsch consiste nello scambio della categoria etica con la categoria estetica; esso impone all’artista non un “buon” lavoro ma un “bel” lavoro; ciò che gli importa è il bell’effetto. Malgrado si atteggi spesso in senso naturalistico, e cioè malgrado il suo abbondante impiego di vocaboli della realtà, il romanzo Kitsch illustra il mondo non “come è” ma “come lo desidera o lo teme” e analoga tendenza rivela il Kitsch delle arti figurative; nella musica poi il Kitsch vive esclusivamente di effetti (si pensi alla cosiddetta musica di intrattenimento borghese, e non si dimentichi che l’industria musicale di oggi è, sotto molti aspetti, la sua ipertrofizzazione). Come non concluderne che nessun’arte può fare a meno di una goccia di effetto, di una goccia di Kitsch? (…) Come sistema di imitazione, il Kitsch è infatti obbligato a copiare l’arte in tutti i suoi tratti specifici. Non si può però imitare metodologicamente l’atto creativo da cui nasce l’opera d’arte: si
possono imitare solo le forme più semplici. È assai significativo e caratterizzante il fatto che, data la mancanza di una fantasia propria, il Kitsch debba costantemente richiamarsi ai metodi più primitivi (il che risulta con estrema chiarezza nella poesia, ma anche, in parte, nella musica). La pornografia, in cui vocaboli della realtà consistono notoriamente in atti sessuali, è per lo più un semplice allineamento seriale di questi atti; il romanzo poliziesco non presenta che sequele di vittorie sempre eguali sui criminali; il romanzo rosa allinea l’uno in fila all’altro atti sempre eguali di bontà ricompensata e di punita malvagità (il metodo che presiede a questa monotona articolazione dei vocaboli della realtà è quello della sintassi primitiva, del ritmo costante del tamburo).
Se si accetta la proposta di MacDonald, un buon esempio di midcult sono i ritratti femminili di Boldini, un pittore a cavallo tra XIX e XX secolo, ritrattista di fama, noto presso la buona società della propria epoca come “il pittore delle signore”. I committenti dei suoi ritratti volevano un’opera d’arte che fosse certamente fonte di prestigio ma che celebrasse anche in modo inequivocabile le grazie della signora. A questo scopo, Boldini costruiva i suoi ritratti secondo le migliori regole della provocazione dell’effetto. Se si osservano i suoi ritratti muliebri si nota come il viso e le spalle (le parti scoperte) obbediscano a tutti i canoni di un sensuoso naturalismo. Le labbra di queste donne sono carnose e umide, le carni evocano sensazioni tattili; gli sguardi sono dolci, provocanti, maliziosi o sognanti, sempre capaci di sedurre lo spettatore. Le donne di Boldini non evocano l’idea astratta della bellezza, non prendono la bellezza muliebre a pretesto per divagazioni plastiche coloristiche; rappresentano quella donna, e al punto tale che lo spettatore è portato a desiderarla. Non appena, però, passa a dipingere la veste, quando dal corsetto scende alle falde della gonna, e dalla veste trapassa allo sfondo, ecco che Boldini abbandona la tecnica “gastronomica” che Schopenhauer imputava ai pittori olandesi: i contorni rinunciano alla precisione, i materiali si sfaldano in pennellate luminose, le cose diventano grumi di colore, gli oggetti si fondono in esplosioni di luce... 403
XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
Il fascino del cattivo gusto Marcel Proust Dalla parte di Swann (1913) Sentendo che spesso non riusciva a realizzare quel che lei sognava, Swann, cercava almeno di fare in modo che stesse bene con lui, non contrastando quelle idee volgari, quel cattivo gusto chela caratterizzavano in ogni cosa e che, d’altronde, egli amava come tutto ciò che veniva da lei, addirittura trovava affascinanti perché erano altrettanti aspetti particolari grazie ai quali l’essenza di quella donna gli si manifestava, diventava visibile. Così, quando Odette si mostrava felice perché doveva andare alla Reine Topaze, o il suo sguardo si faceva serio, inquieto e determinato perché temeva di perdere la festa dei fiori o semplicemente l’ora del tè, con muffins e toast, al Thé de la Rue Royale, la cui assidua frequentazione pensava fosse indispensabile per consacrare la fama d’eleganza di una donna, Swann, in preda a un trasporto simile a quello che proviamo per la naturalezza di un bambino o per la verità di un ritratto che sembra sul punto di parlare, sentiva l’anima della sua amante affiorarle sul viso con tanta evidenza che non poteva trattenersi dal toccarla proprio lì con le labbra. “Ah! vuole che la si porti alla festa dei fiori, la piccola Odette, Giovanni Boldini, Fuoco d'artificio, 1891, Ferrara, Museo Giovanni Boldini
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vuole farsi ammirare, ebbene, noi la porteremo, non possiamo far altro che inchinarci”. Avendo la vista un po’ debole, Swann dovette rassegnarsi a usare gli occhiali a casa, adottare, per lavorare, e ad adottare il monocolo, che los figurava meno, per andare in società. La prima volta che gliene vide uno, Odette non poté contenere la sua gioia: “Non c’è che dire, trovo che per un uomo è una cosa molto chic! Come stai bene! Hai l’aria di un vero gentleman! Ti manca solo un titolo!” aggiunse con una sfumatura di rimpianto A lui piaceva che Odette fosse così, allo stesso modo che, se si fosse stato innamorato di una bretone, sarebbe stato felice di vederla con la cuffia e di sentirle dire che credeva ai fantasmi. Prima d’allora, come molti uomini nei quali il gusto artistico si sviluppa indipendentemente dalla sensualità, aveva coltivato una bizzarra disparatezza tra gli appagamenti che concedeva all’uno e all’altra, abbandonandosi, in compagnia di donne sempre più grossolane, alle seduzioni di opere sempre più raffinate, portando una piccola cameriera in un palchetto munito di una grata, alla rappresentazione di una pièce decadente cui aveva voglia di assistere o a qualche mostra di pittura impressionista, persuaso, per altro, che una colta dama del gran mondo non ne avrebbe capito di più e non sarebbe stata capace di tacere con tanta grazia.
La parte inferiore dei quadri di Boldini evoca una cultura impressionistica, Boldini fa dell’arte, cita dal repertorio della pittura che ai suoi tempi rappresentava l’avanguardia. Così i suoi busti e i suoi volti (da desiderare) emergono dalla corolla di un fiore pittorico che invece è solo da guardare. Queste donne sono delle sirene stilematiche, in cui al capo e al busto consumabile si uniscono vesti contemplabili. La dama ritratta non potrà avvertire disagio per essere stata pubblicizzata carnalmente come una cortigiana: il resto della sua figura è diventato stimolo per degustazioni estetiche e dunque godimento d’ordine superiore. L’utente midcult consuma così la sua menzogna – e non conta se e quanto cosciente. Se il termine Kitsch ha un senso, non è dunque perché designi un’arte che tende a suscitare effetti, perché in molti casi l’arte si propone anche questo fine, né un’arte che utilizzi stilemi apparsi in altro contesto, perché questo può verificarsi senza che si cada nel cattivo gusto: Kitsch è l’opera che, per farsi giustificare la sua funzione di stimolatrice di effetti, si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze, e si vende come arte senza riserve.
XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
Alexandre Cabanel, Nascita di Venere, 1863, Parigi, Musée d’Orsay a fronte Jean Broc, La morte di Giacinto, 1801, Poitiers, Musée des Beaux Arts
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Il Kitsch come male Hermann Broch Il Kitsch Questa soddisfazione degli impulsi ottenuta con mezzi finiti e razionali, questa patetizzazione del finito ad infinito, questo mirare al “bello”, conferisce al Kitsch un che di falso dietro al quale si intuisce il “male” etico (…) Chi produce Kitsch non è uno che produca arte deteriore, non è un artista dotato di facoltà creatrici inferiori o addirittura nulle. Il produttore di Kitsch non può essere valutato secondo criteri estetici, ma, più semplicemente, deve essere giudicato come un essere e abbietto, come un malfattore che vuole il male dalla radice. E poiché è il male radicale quello che si manifesta nel Kitsch, quel male in sé che è in rapporto con ogni sistema di valori (come assoluto polo negativo), il Kitsch deve essere considerato un male non solo per l’arte ma per ogni sistema di valori che non sia sistema di imitazione. Chi lavora per amore del bell’effetto, chi non cerca nient’altro che quella soddisfazione degli affetti che gli fa parer
“bello” l’attimo in cui trae il sospiro di sollievo, insomma l’esteta radicale, si ritiene autorizzato ad utilizzare, e in effetti utilizza senza alcun freno, qualsiasi mezzo pur di giungere alla produzione di questo genere di bellezza. Ecco l’elefantiasi del Kitsch, spettacolo inscenato da Nerone nel suoi giardini imperiali con il fuoco d’artificio dei corpi ardenti dei cristiani per poter cantare la scena suonando il liuto (né è un caso che l’ambizione fondamentale di Nerone sia stata quella dell’istrione). Tutti i periodi storici in cui i valori subiscono un processo di disgregazione sono periodi di grande fioritura del Kitsch. La fase terminale dell’impero romano ha prodotto Kitsch e l’epoca attuale che si trova al termine del processo dissolutivo della concezione del mondo medievale, non può non essere rappresentata anch’essa dal male estetico. Le epoche caratterizzate da una definitiva perdita di valori poggiano infatti sul male e sull’angoscia per il male, e un’arte che voglia esserne espressione adeguata deve essere anche espressione del male che agisce in esse.
XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
3. Il camp
The Rocky Horror Picture Show, 1975 regia di Jim Sharman
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Si sono citati come esempi di Kitsch i quadri pompiers. Ma oggi queste opere non solo sono esposte nei musei; esse vengono anche vendute a carissimo prezzo a raffinati collezionisti. Questo potrebbe semplicemente confermare che il brutto di ieri diventa il bello di oggi, come è sempre accaduto con il recupero che la cultura alta ha fatto di prodotti dell’arte popolare – e persino dei prodotti della cultura di massa, quali i fumetti che, prodotti a fini d’intrattenimento, sono ora rivisitati non solo come reperti nostalgici ma come prodotti di notevole qualità artistica. Tuttavia nel recupero dell’arte pompier ha giocato anche un altro elemento, che è il gusto detto camp, e nessuno ha analizzato questo fenomeno meglio di Susan Sontag nel suo “Note sul Camp” del 1964. Il camp è una forma di sensibilità che, più che trasformare il frivolo in serio (come potrebbe essere avvenuto con la canonizzazione del jazz, nato come musica da postribolo), tramuta il serio in frivolo. Il gusto Camp nasce come segno di riconoscimento tra i membri di una élite intellettuale, così sicuri del loro gusto raffinato da poter decidere la redenzione del cattivo gusto di ieri, sulla base di un amore per l’innaturale e l’eccessivo – e il richiamo è al dandismo di Oscar Wilde per cui “essere naturali è un atteggiamento così difficile da mantenere”, come scriveva in Un marito ideale. Il camp non si misura sulla bellezza di qualcosa bensì sul suo grado di artificio e di stilizzazione, e non si definisce tanto come stile quanto come una capacità di guardare allo stile altrui. Ci deve essere nell’oggetto camp qualche esagerazione e qualche marginalità (si dice “è troppo buono o troppo importante per essere camp”), nonché qualche volgarità, anche quando pretende raffinatezza. L’elenco delle cose che Sontag definisce oggetto dello sguardo camp è indubbiamente eterogeneo e va dalle lampade Tiffany a Beardsley, da Il lago dei cigni e le opere di Bellini alle regie di Visconti per Salomè, da certe cartoline fine secolo, a King Kong, i vecchi fumetti di Gordon, gli abiti femminili degli anni Venti, sino a quelli che la critica cinematografica più raffinata definisce i “dieci migliori brutti film che io abbia mai visto”.
3. IL CAMP
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XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
Carlo Crivelli, Madonna con Bambino, 1480 ca., New York, The Metropolitan Museum of Art
Sono definiti camp una donna che passeggia con un vestito fatto di tre milioni di piume e i quadri di Carlo Crivelli, con inseriti gioielli autentici, insetti trompe-l’oeil e finte fessure nei muri – senza trascurare il fatto che il gusto camp è attratto dall’ambiguità sessuale (vedi Camp e sessualità). Ma certamente il camp non gode dell’interessante nel senso di Schopenhauer, e se guarda a un nudo pompier non è per compiacenza erotica, bensì per godere della sua patetica mancanza di pudore contrabbandata come ritorno alla sovrana impudicizia della grande arte classica. Non si può negare che le scelte di Sontag rispecchino i gusti del mondo intellettuale newyorkese degli anni sessanta (perché sono camp Jean Cocteau ma non André Gide, Richard Strauss ma non Wagner?), e a rendere ancor più volatile la definizione si ammette che molti esempi di camp sono Kitsch, ma il Camp non viene necessariamente identificato con la “cattiva arte”, perché nella lista di Sontag appaiono anche grandi artisti come appunto Crivelli, Gaudí, o un artista minore ma raffinato come Erté (e, per certi motivi non chiari, persino alcune opere di Mozart). 410
3. IL CAMP
Niki de Saint-Phalle, Hon (Lei), 1966, Stoccolma, National Museet
In ogni caso tutti gli oggetti e le persone camp debbono presentare un elemento di estremismo contro natura (non c’è nulla in natura che possa essere campy). Camp è l’amore per l’eccentrico, per le cose–che–sono–come–non–sono e l’esempio migliore ne è l’Art Nouveau, in quanto i suo oggetti trasformano gli impianti di illuminazione in piante fiorite, il soggiorno in una grotta o viceversa, gli steli d’orchidea in ghisa, come nelle entrate del Metro parigino di Guimard. Il camp è anche, se pure non sempre, l’esperienza del Kitsch di chi sa che quello che vede è Kitsch. In tal senso è manifestazione di gusto aristocratico e comunque snobistico: “come il dandy era nell’Ottocento il surrogato dell’aristocratico nelle faccende della cultura, così camp è il dandismo contemporaneo. È una soluzione al problema di come essere dandy nell’epoca della cultura di massa”. Però mentre il dandy cercava sensazioni rare, non ancora profanate dal gradimento delle masse, l’intenditore di camp si realizza “nei piaceri più rozzi e più comuni, nelle arti di massa (…) Il dandy teneva un fazzoletto profumato alle narici ed era soggetto agli svenimenti; l’intenditore di camp annusa il fetore e si vanta di avere uno stomaco forte”. Come dice Sontag, “l’estrema dichiarazione Camp è: è bello perché è orribile…”. 411
XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
Adolf de Mayer, Nijinski nel ruolo di un fauno che tiene un grappolo d’uva, Album di Pomeriggio di un fauno, 1912, Parigi, Musée d’Orsay a fronte Aubrey Beardsley, Illustrazione da Salomé, 1894, collezione privata pagine seguenti La regina Loana, elaborazione da Lyman Young, La misteriosa fiamma della regina Loana, 1935, Firenze, Nerbini Erté, Adorazione, 1986, collezione privata
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Camp e sessualità Susan Sontag Note sul Camp (1964) L’androgino è certo una delle grandi immagini della sensibilità Camp. Esempi: le figure svenevoli, sottili e sinuose della pittura e della poesia preraffaellite; i corpi esili, fluidi, asessuati delle stampe e dei manifesti Art Nouveau presentati in rilievo su lampade e portacenere; l’ossessionante vuoto androgino dietro la bellezza perfetta di Greta Garbo. Su questo punto, il gusto Camp tocca una delle verità più misconosciute del gusto: la forma più raffinata dell’attrazione sessuale (nonché del piacere sessuale) consiste nell’andar contro l’inclinazione del proprio sesso. Ciò che c’è di più bello negli uomini virili è qualcosa di femminile; ciò che c’è di più bello nelle donne femminili è qualcosa di maschile (…) Accanto al gusto per l’androgino, c’è in Camp qualcosa che sembra molto diverso ma non lo è: una predilezione per l’esagerazione delle caratteristiche sessuali e delle affettazioni della personalità. Per ragioni ovvie, i migliori esempi che si
possono citare concernono i divi del cinema. La femminilità banale e vistosa di Jayne Mansfield, Gina Lollobrigida, Jane Russell, Virginia Mayo (…) Camp è il trionfo dello stile ermafrodita. (La convertibilità tra “uomo” e “donna”, tra “persona” e “cosa”). Ma lo stile, cioè l’artificio, in fondo è sempre ermafrodita. La vita non ha stile. E neanche la natura (…) Non è vero che il gusto Camp sia gusto omosessuale, ma tra i due esiste senza dubbio una singolare affinità e molti punti in comune. (…) Non tutti gli omosessuali hanno gusto Camp, ma gli omosessuali, in genere, costituiscono l’avanguardia – e il pubblico più articolato – di Camp. (…) L’insistenza Camp sul non essere “seri”, sul giocare, ha anche un certo rapporto con il desiderio dell’omosessuale di rimanere giovanile. S’intuisce tuttavia che se gli omosessuali non avessero più o meno inventato Camp, ci avrebbe pensato qualcun altro. Perché l’atteggiamento aristocratico nei confronti della cultura non può morire, anche se può sopravvivere solo in modi sempre più arbitrari e ingegnosi.
3. IL CAMP
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XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
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3. IL CAMP
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XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
Divine in Pink Flamingos, 1972, regia di John Waters
L’indagine di Sontag fa risalire il gusto camp ad ascendenze remote, ai manieristi, alle poetiche barocche del wit, del witz, dell’agudeza e della meraviglia, ai romanzi gotici, alla passione per le cineserie o per i ruderi artificiali – e in tal senso potrebbe diventare la definizione di un gusto più vasto, di una forma permanente di manierismo o di neo-barocco. In ogni caso questa analisi mette in luce un punto interessante: noi “valutiamo un’opera d’arte sulla base della serietà e della dignità che riesce a raggiungere”, e nell’apprezzarla identifichiamo un giusto rapporto tra l’intenzione e l’esecuzione, anche se esistono altre forme di sensibilità artistica i cui caratteri distintivi sono l’angoscia e la crudeltà, per cui “accettiamo una disparità tra intenzioni e risultati”. Sontag cita Bosch, Sade, Rimbaud, Jarry, Kafka, Artaud e molte altre opere dell’arte del XX secolo, il cui fine non era di creare armonia bensì di affrontare temi sempre più violenti e insolubili. 416
3. IL CAMP
Joel-Peter Witkin, Ritratto di nano, Los Angeles, 1987, Seattle Art Museum
Ed ecco che da questa analisi emergono due punti importanti per una storia della bruttezza. Sontag ci ricorda che l’estrema manifestazione del gusto camp è l’espressione “è bello perché è orribile” – e non è un caso se aveva dedicato uno scritto a Diane Arbus, la fotografa degli esseri sgraziati. Il canone del camp può cambiare e il tempo può valorizzare ciò che oggi ci ripugna perché troppo vicino a noi: “ciò che era banale può, col trascorrere del tempo, diventare fantastico”. In tal senso il Camp trasforma in oggetto di compiacimento estetico il brutto di ieri – in un gioco ambiguo in cui non è chiaro se il brutto venga redento come bello o il bello (come “interessante”) si riduca al brutto. Il gusto camp “rifiuta la distinzione tra bello e brutto tipica del normale giudizio estetico (…) Non sostiene che il bello sia brutto o viceversa. Si limita a offrire all’arte (e alla vita) un insieme di criteri di giudizio diversi, e complementari”. 417
XIV. IL BRUTTO ALTRUI, IL KITSCH E IL CAMP
L’estetica trash Andy Warhol La filosofia di Andy Warhol (1975) La cosa più bella di Tokyo è McDonald. La cosa più bella di Stoccolma è McDonald. La cosa più bella di Firenze è McDonald. Il riciclo dello scarto altrui Andy Warhol La filosofia di Andy Warhol (1975) Mi è sempre piaciuto lavorare con gli scarti. Cose che vengono scartate, che non sono buone e tutti lo sanno: ho sempre pensato che hanno un grande potenziale di divertimento. È un lavoro di riciclaggio. Ho sempre pensato che ci fosse più humour negli scarti. Quando vedo un vecchio film di Esther Williams, con le solite cento ragazze che si tuffano dall’altalena, penso a come dovevano essere le audizioni, e a tutte le riprese nelle quali poteva capitare che una delle ragazze non avesse il coraggio di saltare quando doveva, e penso a lei, scartata, sull’altalena. La ripresa diventava uno scarto sul pavimento della sala di montaggio – una scena tagliata – e a quel punto anche la ragazza diventava uno Paul McCarthy, Basement Bunker: Painted Queen Small Blue Room, 2003, © Paul McCarthy, Courtesy the artist and Hauser & Wirth Zürich London
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scarto: era probabilmente silurata. La scena senza tagli sarebbe stata molto più divertente della scena dove le cose erano tutte a posto. La ragazza che non aveva fatto il tuffo, era la star della scena tagliata. Non voglio dire che il gusto popolare sia cattivo e che tutto ciò che viene scartato dal cattivo gusto sia buono: ciò che voglio dire è che gli scarti sono probabilmente brutte cose, ma che se riesci a lavorarci un po’ sopra e renderle belle o almeno interessanti, c’è molto meno spreco. Fai un lavoro di riciclaggio e ricicli persone e mandi avanti i tuoi affari, che sono i prodotti secondari di altri affari. Altri affari che in realtà sono direttamente competitivi. Come si capisce è una procedura operativa molto economica. Ed è anche la più divertente perché, come ho già detto, gli scarti sono intrinsecamente divertenti. La vita a New York fornisce molti incentivi a volere ciò che gli altri non vogliono: a volere tutta la roba di scarto. C’è tanta gente con cui competere qui, che l’unica speranza di avere qualcosa sta nel cambiare i propri gusti e volere ciò i che gli altri non vogliono.
Va detto, comunque, che non tutto il brutto (di ieri o di oggi) può essere visto come camp. Lo è solo quando l’eccesso è innocente e non calcolato. Gli esempi puri di camp non sono intenzionali, sono estremamente seri: “l’artigiano Art Nouveau che fabbrica una lampada con un serpente avvolto intorno non lo fa per scherzo, e neanche cerca di affascinarci. Dice soltanto, con tutta serietà: ‘Ecco l’Oriente!’”. Tra gli esempi di ciò che consideriamo oggi camp c’è l’opera lirica, dove i compositori hanno preso assolutamente sul serio le incontinenze melodrammatiche dei loro librettisti (vengono in mente passi celebri come “odo l’orma dei passi spietati!”). In questi casi la reazione deliziata del degustatore del camp si manifesta con “è troppo, non posso crederci!”. Non si può decidere di fare una cosa camp. Il camp non può essere intenzionale, poggia sul candore con cui si mette in opera l’artificio (e, diremo, sulla malizia di chi lo riconosce come tale). C’è nel camp una serietà che fallisce il suo scopo per eccesso di passione, e comunque qualcosa di smisurato nelle intenzioni, per cui ”gli sgargianti e magnifici edifici di Gaudí a Barcellona”, e in particolare la Sagrada Familia rivelano “l’ambizione di un uomo di fare da solo ciò che per essere realizzato richiederebbe gli sforzi di tutta una generazione”. Nel capitolo seguente vedremo molti aspetti di un brutto intenzionale a cui mira (in parte ispirata proprio al concetto di camp) molta arte e molto costume contemporaneo. Ma si tratterà appunto di una bruttezza perseguita senza innocenza, anzi, per consapevole progetto. Se il Kitsch era una menzogna pronunciata in riferimento all’arte “alta”, il neobrutto intenzionale sarà una menzogna pronunciata nei confronti di un “orribile” che il gusto camp aveva tentato di redimere.
Capitolo
XV
Il brutto oggi
Fernando Botero, Donna, 1979, collezione privata
L’orecchio degli antichi percepiva come dissonanti certi intervalli musicali e li considerava spiacevoli, e l’esempio classico di brutto musicale è stato per secoli l’intervallo di quarta aumentata, o eccedente, come per esempio do-fa diesis. Il medioevo era talmente disturbato da questa dissonanza da definirla come diabolus in musica. Tuttavia, gli psicologi hanno spiegato che le dissonanze hanno un potere eccitante, ed è accaduto che molti musicisti, sin dal XIII secolo, le abbiano impiegate per produrre determinati effetti in un contesto appropriato. Così il diabolus è sovente servito a ottenere effetti di tensione o di instabilità che attendono una risoluzione, ed è stato usato da Bach, da Mozart nel Don Giovanni, da Liszt, Musorgskij, Sibelius, Puccini (nella Tosca), sino a West side story di Bernstein, oppure, spesso, per suggerire apparizioni infernali, come accade a Berlioz nella Dannazione di Faust. Il caso del diabolus in musica potrebbe essere un eccellente esempio conclusivo per questa storia della bruttezza, perché ci ispira alcune riflessioni. Tre di esse dovrebbero essere risultate evidenti dai capitoli precedenti: il brutto è relativo ai tempi e alle culture, l’inaccettabile di ieri può diventare ciò che sarà accettato domani, e ciò che viene avvertito come brutto può contribuire, in contesto adeguato, alla bellezza dell’insieme. La quarta osservazione induce a correggere la prospettiva relativistica: se il diabolus è sempre stato impiegato per creare tensione, allora ci sono reazioni basate sulla nostra fisiologia che rimangono più o meno inalterate attraverso i tempi e le culture. Il diabolus è stato via via accettato non perché fosse diventato piacevole, ma proprio a causa di quell’odore di zolfo che non ha mai perduto. 421
XV. IL BRUTTO OGGI
Guerre stellari, II episodio, Attacco dei cloni, 2002 regia di George Lucas
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Per questa ragione il diabolus oggi appare in molta musica heavy metal (per esempio con Jimi Hendrix in Purple Haze), e talora come esplicita provocazione “satanistica” (vedi un disco come Diabolus in musica degli Slayer). George Romero, il regista di La notte dei morti viventi e altri film dell’orrore, in una sua dichiarazione di poetica, mentre si diffonde sulla toccante tenerezza del mostro di Frankenstein, King Kong o Godzilla, ricorda che i suoi zombi hanno la pelle rugosa e putrescente, denti e unghie neri, ma sono individui con passioni ed esigenze come le nostre. E aggiunge: “Nei miei film sugli zombie, i morti riportati in vita rappresentano una sorta di rivoluzione, una svolta radicale nel mondo che molti dei miei personaggi umani non riescono a comprendere, preferendo bollare i morti viventi come il Nemico quando, in realtà loro sono noi. Io utilizzo il sangue in tutta la sua orrenda magnificenza per far capire al pubblico che i miei film sono più una cronaca socio-politica dei tempi che delle stupide avventure in salsa horror”. Il ricorso al brutto è dunque un mezzo per denunciare la presenza del Male? Eppure lo stesso Romero ammette che l’orrore “fa salire le vendite alle stelle”, ed ammette quindi che l’orrore è apprezzato in quanto interessante ed eccitante. Per non dire di quando esso diventa celebrazione del Male, sia pure in casi marginali come il satanismo degli psicopatici.
1. IL BRUTTO OGGI
Marina Abramovic, “Tomas Lips”, Seven Easy Pieces, 2005; New York, Guggenheim Museum
Ci troviamo quindi di fronte a una selva di contraddizioni. Mostri forse brutti ma certamente amabilissimi come ET o gli extraterrestri di Star Wars non affascinano solo i bambini (peraltro conquistati da dinosauri, pokemons ed altre creature difformi) ma anche gli adulti, i quali dal canto proprio si rilassano guardando film splatter dove le cervella si spappolano e il sangue schizza sui muri, mentre la letteratura li intrattiene con storie del terrore. Non si può parlare soltanto di “degenerazione” dei mass media, perché anche l’arte contemporanea pratica il brutto e lo celebra, ma non più nel senso provocatorio delle avanguardie di inizio Novecento. In certi happenings non solo si esibisce la sgradevolezza di una mutilazione o di un handicap, ma è l’artista stesso che si sottopone a una violazione cruenta del proprio corpo. Anche in questi casi gli artisti dichiarano che vogliono denunciare molte atrocità del nostro tempo, ma è con spirito ludico e rasserenato che gli appassionati d’arte si recano ad ammirare queste opere e queste performances in galleria. E sono gli stessi utenti che non hanno smarrito il senso tradizionale del bello, e provano emozioni estetiche di fronte a bel paesaggio, a un bel bambino, a uno schermo piatto che ripropone i canoni della Divina 423
2. Cin cin
La notte dei morti viventi, 1969, regia di George Romero a fronte E.T., 1982, regia di Steven Spielberg
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Morti viventi Stephen King Parto in casa (1989) Non fu granché fino al giorno in cui cominciarono a spuntare un po’ dappertutto. Non fu granché fino al giorno in cui il primo notiziario televisivo (“Forse vorrete fare uscire dalla stanza i vostri figli più piccoli” annunciò cupamente Dan Rather) mostrò creature con le ossa che si intravedevano attraverso la pelle rinsecchita, vittime di incidenti stradali, il sapiente lavoro dei truccatori delle pompe funebri cancellato dall’oscura passività del terreno o dalla frenetica risalita alla superficie (mostrando così i visi maciu1lati e i crani sfondati), donne dai capelli trasformati in alveari sporchi di terriccio dove ancora si muovevano vermi e insetti, e sempre visi che oscillavano fra un’espressione vacua e una specie di orribile intelligenza calcolatrice. Non fu granché fino alle prime spaventose fotografie in un
numero della rivista People che fu posto in vendita sigillato in una busta di plastica come le riviste porno, un numero sul quale spiccava un grosso adesivo arancione con la scritta Vietata la vendita ai minori. Allora sì la faccenda si fece grave. Quando si vedeva un uomo in via di putrefazione che, con ancora addosso i resti infangati dell’abito Brooks Brothers nel quale era stato sepolto, dilaniava il seno di una donna urlante con una Tshirt con la scritta Proprietà dei Petrolieri di Houston, ci si rendeva improvvisamente conto che poteva essere una faccenda davvero grave. Poi erano iniziate le accuse e le minacce reciproche, e per tre settimane il mondo intero era stato distratto dalle creature che fuggivano dalle loro tombe come grottesche falene da bozzoli malati grazie allo spettacolo delle due maggiori superpotenze nucleari apparentemente avviate lungo una rotta di collisione.
1. IL BRUTTO OGGI
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XV. IL BRUTTO OGGI
Marilyn Manson nel marzo 2005
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Lo stesso soggetto accetta oggi le proposte del design di arredamento, dell’architettura alberghiera e dell’intera industria del turismo che vende forme classicamente piacevoli (si veda la riproposta che Las Vegas fa dei palazzi veneziani, dei triclini dei Cesari o dell’architettura moresca), e al tempo stesso sceglie ristoranti o hotel nobilitati da quadri dell’avanguardia novecentesca (autentici o riprodotti) che ai suoi nonni apparivano come la negazione di ogni ideale dell’antichità classica. Ci viene ripetuto da molte parti che oggi si convive con modelli opposti perché ormai l’opposizione brutto/bello non ha più valore estetico: brutto e bello sarebbero due opzioni possibili da vivere in modo neutro. Questo sembra confermato da molti comportamenti giovanili. Cinema, televisione e riviste, pubblicità e moda propongono modelli di bellezza che non sono così diversi da quelli antichi, tanto che potremmo immaginare i volti di Brad Pitt o di Sharon Stone, di George Clooney o di Nicole Kidman ritratti da un pittore rinascimentale. Ma gli stessi giovani che si identificano in questi ideali (estetici o sessuali) poi vanno in visibilio per cantanti rock le cui fattezze, a un uomo del Rinascimento, sarebbero apparse repellenti. E sempre gli stessi giovani spesso si truccano, si tatuano, si traforano le carni con spilli in modo da assomigliare più a Marilyn Manson che a Marilyn Monroe.
1. IL BRUTTO OGGI
Un gruppo di punk
Gothick William Gibson Giù nel cyberspazio (1986) C’erano almeno una ventina di Gothick in posa nella sala, come piccoli dinosauri, con le creste di capelli laccati che ondeggiavano. La maggioranza si avvicinava all’ideale del Gothick: alti, magri, muscolosi, ma con un tocco di desolata inquietudine, come giovani atleti nei primi stadi della decadenza. Il pallore cimiteriale era d’obbligo, e i capelli dei Gothick erano neri per definizione. Hobby sapeva che i pochi che non potevano adattare i loro corpi allo standard della loro sub-cultura era meglio evitarli: un Gothick tappo significava guai, un Gothick grasso morte sicura. Li osservò flettersi e luccicare nella sala, come una creatura composita, una forma limacciosa con la superficie a mosaico di pelle scura e borchie di acciaio inossidabile. La maggior parte aveva facce quasi identiche, rielaborate per conformarsi ad antichi archetipi estratti dalle banche kino.
La città apocalittica Angela Carter La passione della nuova Eva (1977) Mi stupì la vista di tanti accattoni in strade luride e caotiche, dove ubriachi e vecchie megere disputavano ai topi il diritto ai bocconi migliori di spazzatura. Era quel clima torrido che i topi amavano. Non potevo scivolare fino al chiosco sull’angolo a comprare un pacchetto di sigarette senza essere costretto a farmi strada tra dozzine di quei viscidi mostri neri che mi strisciavano intorno alle caviglie. E li avrei ritrovati ad attendermi come guardie d’onore, al mio ritorno all’appartamento a piano terra, senza acqua calda, che avevo preso in affitto nell’East Side da un giovanotto che era partito alla volta dell’India per andare a salvarsi l’anima. Prima di andarsene costui mi aveva informato dell’imminente apocalisse universale dovuta al gran caldo consigliandomi di preoccuparmi di cose spirituali, nel breve tempo che mi restava da vivere. 427
XV. IL BRUTTO OGGI
Hieronimus Bosch, Particolari di persecutori di Cristo portacroce, 1510-1535, Gand, Museum voor Schone Kunsten a fronte Rocker punk, maggio 1998
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Cindy Sherman, Untitled # 250, 1992, New York Courtesy dell’artista e Metro Pictures
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Nelle due pagine precedenti sono stati messi a confronto un esempio contemporaneo di piercing e due volti di Hieronymus Bosch, anch’essi perforati da anelli di vario genere. Ma Bosch voleva rappresentare i persecutori di Gesù, e li rappresentava così come all’epoca si concepivano i barbari e i pirati (si ricordi che ancora nell’Ottocento gli psichiatri consideravano il tatuaggio come segno di degenerazione). Oggi piercing e tatuaggio possono essere sentiti al massimo come sfida generazionale ma certo non vengono intesi (dalla maggioranza) come scelta delinquenziale – e una fanciulla con un monile sulla lingua o un drago tatuato sul ventre scoperto può partecipare a una manifestazione per la pace o per i bambini africani affamati. Né giovani né anziani sembrano vivere queste contraddizioni in modo drammatico. L’esteta di fine Ottocento che privilegiava la bellezza cadaverica, come gesto di sfida e rifiuto del gusto della maggioranza, sapeva di coltivare quelli che Baudelaire aveva chiamato “i fiori del male”. Sceglieva l’orrendo proprio perché aveva deciso di fare una scelta che lo ponesse al sopra della folla dei benpensanti. Invece i giovani che ostentano un’epidermide illustrata o capelli blu irti sul capo lo fanno per sentirsi simili agli altri e i loro genitori, che vanno a godere al cinema scene che una volta erano visibili solo negli anfiteatri anatomici,
1. IL BRUTTO OGGI
Freaks, 1932, regia di Tod Browning
Né diverso è il modo con cui ci si compiace (o ci si accontenta) del cosiddetto trash televisivo. Non per atteggiamento snob, come faceva e fa ancora il cultore del camp (sempre pronto a rivisitare in spirito collezionistico i film di Ed Wood, definito il peggiore regista che mai sia vissuto a Hollywood), ma per spirito gregario. Un altro caso in cui si riscontra la dissoluzione dell’opposizione brutto/bello è quello della filosofia cyborg. Se all’inizio l’immagine di un essere umano in cui vari organi sono stati sostituiti da apparati meccanici o elettronici, risultato di una simbiosi tra uomo e macchina, poteva ancora rappresentare un incubo della fantascienza, con l’estetica cyberpunk il vaticinio si è avverato. Non solo, ma femministe radicali come Donna Haraway propongono di superare le differenze di genere attraverso la realizzazione di corpi neutri, post-organici o “trans-umani”. Tuttavia, è davvero scomparsa la distinzione netta tra brutto e bello? E se certi comportamenti dei giovani o degli artisti (anche se generano tante discussioni filosofiche) fossero fenomeni marginali praticati da una minoranza (rispetto alla popolazione del pianeta)? Se cyborg, splatter e morti viventi fossero manifestazioni di superficie, enfatizzate dai mass media, attraverso le quali esorcizziamo una bruttezza ben più profonda che ci assedia, ci atterrisce e vorremmo ignorare? 431
1. IL BRUTTO OGGI
Frida Kahlo, La colonna distrutta, 1944, Città del Messico, Museo Dolores Olmeto Patiño
pagine seguenti Maurizio Cattelan, Bambini impiccati, 2004, Milano
La donna cyborg Donna Haraway Manifesto cyborg (1991) I mostri cyborg della fantascienza femminista delineano possibilità e confini politici piuttosto diversi da quelli proposti dalla finzione terrena dell’Uomo e della Donna (…). Un corpo cyborg non è innocente, non è nato in un giardino, non cerca un’identità unitaria e quindi non genera antagonistici dualismi senza fine (o fino alla fine del mondo) (…) L’intenso piacere della tecnica, la tecnica delle macchine, non è più un peccato, ma un aspetto dello stare nel corpo. La macchina non è un quid da animare, adorare e dominare; la macchina siamo noi, i nostri processi, un aspetto della nostra incarnazione (…) Fino a ora (sembra un secolo) avere un corpo femminile sembrava scontato, organico, necessario, e consisteva nella capacità di fare da madre e nelle sue estensioni metaforiche (…) Il mito dei cyborg considera più seriamente l’aspetto parziale, a volte fluido, del sesso e dell’abitare sessualmente il corpo. Il genere in fondo potrebbe non essere l’identità globale, pur avendo un respiro e una profondità radicati nella storia (…) I cyborg hanno più a che fare con la rigenerazione e guardano con sospetto alla matrice riproduttiva e alla nascita in genere. Per le salamandre, dopo una ferita, come per esempio la mutilazione di un arto, c’è una rigenerazione che comporta la ricrescita di una struttura e il recupero di una funzione, con la possibilità costante di una gemellazione o di altre strane produzioni topografiche al posto della mutilazione. L’arto ricresciuto può essere mostruoso, doppio, potente (…). Abbiamo bisogno di rigenerazione, non di rinascita, e le possibilità della nostra ricostituzione includono il sogno utopico della speranza in un mondo mostruoso senza il genere (...) Anche se entrambe sono intrecciate nella danza a spirale, preferisco essere cyborg che dea.
Il paesaggio cyberpunk William Gibson Monna Lisa Cyberpunk (1988) Aveva paura che tornasse il Korsakov, di dimenticarsi dov’era e bere l’acqua cancerogena delle pozzanghere rosse e melmose della piana arrugginita. Vedeva il marciume rosso, gli uccelli morti che galleggiavano con le ali aperte. Il camionista del Tennessee gli aveva detto di lasciare l’autostrada e camminare in direzione ovest: dopo un’oretta avrebbe trovato una strada asfaltata a due corsie dove avrebbe potuto farsi dare un passaggio fino a Cleveland. Ma gli sembrava che fosse passata ben più di un’ora, e non era poi così sicuro di stare andando verso ovest, e quel posto metteva i brividi, sembrava una discarica appiattita dal pugno di un gigante. A un certo punto aveva visto qualcuno in lontananza, su un’altura, e aveva agitato le braccia. La figura era svanita, ma lui aveva continuato a camminare in quella direzione senza più curarsi di evitare le pozzanghere, trascinandovi dentro i piedi, finché non era arrivato sull’altura e aveva visto che si trattava della carcassa senza ali di un aereo semisepolto tra le lattine arrugginite. Era riuscito ad arrampicarsi sul pendio, salendo un sentiero di lattine appiattite dal passaggio che terminava di fronte a un’apertura quadrata, un’uscita di sicurezza. Vi aveva infilato la testa e aveva visto centinaia di minuscole teste che pendevano dal soffitto concavo. Raggelato, aveva cercato di vedere meglio nell’improvvisa oscurità, finché non era riuscito a trovare un senso in ciò che aveva davanti agli occhi. Rosee teste di bambola che penzolavano come frutti, con i capelli di nylon annodati in fondo e i nodi incollati a uno spesso strato di catrame. Nient’altro, solo qualche pannello logoro e sporco di espanso verde. L’unica cosa certa era che non aveva nessuna voglia di star li a scoprire chi ne era il proprietario. (…) Si studiò il dorso delle mani. Cicatrici, croste di sudiciume, mezzelune nere di grasso sotto le unghie spezzate. Il grasso penetrava e le ammorbidiva, per questo si spezzavano facilmente.
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The Thing, 1982, regia di John Carpenter
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Nella vita quotidiana siamo circondati da spettacoli orribili. Vediamo immagini di popolazioni dove i bambini muoiono di fame, ridotti a scheletri dalla pancia gonfia, di paesi dove le donne vengono stuprate dagli invasori, di altri dove corpi umani vengono torturati, così come ci tornano continuamente davanti agli occhi le visioni non molto remote di altri scheletri viventi che stanno per entrare in una camera a gas. Vediamo membra dilaniate dall’esplosione di un grattacielo o di un aereo in volo, e viviamo nel terrore che ciò possa accadere anche a noi. Ciascuno sa che queste cose sono brutte, non solo in senso morale, ma in senso fisico, e lo sa perché gli stimolano disgusto, spavento, ripulsa – indipendentemente dal fatto che possano ispirare pietà, sdegno, istinto di ribellione, solidarietà, persino se le si accetta col fatalismo di chi crede che la vita altro non sia che il racconto detto da un idiota, pieno di urla e furore. Nessuna coscienza della relatività dei valori estetici elimina il fatto che in questi casi noi riconosciamo senza esitazioni il brutto e non riusciamo a trasformarlo in oggetto di piacere. Allora comprendiamo perché l’arte dei vari secoli è tornata con tanta insistenza a raffigurarci il brutto. Per marginale che fosse la sua voce, ha cercato di ricordarci che, malgrado l’ottimismo di alcuni metafisici, a questo mondo c’è qualcosa di irriducibilmente e tristemente maligno.
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Copertina di Barry Godber per il disco dei King Crimson, In the Court of the Crimson King,1969
pagina seguente Diego Velázquez, Ritratto del ragazzo di Vallecas, Francisco Lezcano, 1642, Madrid, Museo del Prado
Per questo molte voci e immagini di questo libro ci hanno invitato alla comprensione della deformità come dramma umano. Il testo conclusivo di Italo Calvino è tratto da un racconto, ma nasce da una esperienza reale. Il Cottolengo di Torino è il ricovero dove vengono raccolti malati incurabili, creature spesso incapaci di nutrirsi da sole, molte nate come mostri, come tanti di cui abbiamo sinora parlato, ma non mostri leggendari, bensì mostri che vivono ignorati accanto a noi. Il protagonista della storia va come scrutatore nel seggio elettorale costituito in quell’ospedale, perché anche quei mostri sono cittadini e, secondo la legge, hanno diritto di votare. Sconvolto dallo spettacolo di quella sub-umanità, l o scrutatore capisce che moltissimi ricoverati non si rendono conto di che cosa dovranno fare, e voteranno secondo la volontà di chi li assiste. Vorrebbe opporsi a quello che gli appare un raggiro, ma alla fine (contro ogni sua convinzione civile e politica) conclude che chi ha il coraggio di dedicare la propria vita al sollievo di quegli sventurati, ha acquisito il diritto di parlare per loro. Alla fine di questo libro, dopo tanti compiacimenti sulle varie incarnazioni 437
XV. IL BRUTTO OGGI
Il Cottolengo Italo Calvino La giornata di uno scrutatore (1963) Un certo numero degli iscritti a votare del “Cottolengo” erano malati che non potevano lasciare il letto e la corsia. La legge prevede in questi casi che tra i componenti del seggio se ne scelgano alcuni per costituire un “seggio distaccato” che vada a raccogliere i voti dei malati nel “luogo di cura” cioè là dove si trovano (…) L’occhio, uscendo dall’ombra della scala, provava un senso d’abbagliamento, doloroso, che forse era soltanto una difesa, quasi un rifiuto di percepire in mezzo al bianco d’ogni monte di lenzuola e guanciali la forma di colore umano che ne affiorava; oppure una prima traduzione, dall’udito nella vista, dell’impressione d’un grido acuto, animale, continuo: ghiii... ghiii... ghiii... che si levava da un qualche punto della corsia, a cui rispondeva a tratti da un altro punto un sussultare come di risata o latrato: gaa! gaa! gaa! gaa! Il grido acuto proveniva da una minuscola faccia rossa, tutta occhi e bocca aperta in un fermo riso, d’un ragazzo a letto, in camicia bianca, seduto, ossia che spuntava col busto dall’imboccatura del letto come una pianta viene su da un vaso, come un gambo di pianta che finiva (non c’era segno di braccia) in quella testa come un pesce, e questo ragazzo-pianta-pesce (fino a dove un essere umano può dirsi umano? si chiedeva Amerigo) si muoveva su e giù inclinando il busto a ogni “ghiii... ghiii...” E il “gaa! gaa!” che gli rispondeva era d’uno che nel letto prendeva meno forma ancora, eppure protendeva una testa boccuta. avida, congestionata, e doveva avere braccia – o pinne – che si muovevano sotto le lenzuola in cui era come insaccato, (fino a che punto un essere può dirsi un essere, di qualsiasi specie?), e altri suoni di voci gli facevano eco, eccitate forse dall’apparire di persone nella corsia, e anche un ansare e gemere, come d’un urlo che stesse per levarsi e subito si 438
soffocasse, questo d’un adulto (...) Uno era un gigante con la smisurata testa da neonato tenuta ritta dai cuscini: stava immobile, le braccia nascoste dietro la schiena, il mento sul petto che s’alzava in un ventre obeso, gli occhi che non guardavano nulla, i capelli grigi sulla fronte enorme, (un essere anziano, sopravvissuto in quella lunga crescita di feto?), impietrito in una tristezza attonita (…) Amerigo in quel momento non pensava più all’insensato motivo per cui si trovava lì; gli pareva che il confine di cui ora gli si chiedeva il controllo fosse un altro: non quello della “volontà popolare”, ormai perduto di vista da un pezzo, ma quello dell’umano (…) Un letto alla fine della corsia era vuoto e rifatto; il suo occupante, forse già in convalescenza, era seduto su una seggiola da una parte del letto, vestito d’un pigiama di lana con sopra una giacca, e seduto dall’altra parte del letto era un vecchio col cappello, certamente suo padre, venuto quella domenica in visita. Il figlio era un giovanotto, deficiente, di statura normale ma in qualche modo – pareva – rattrappito nei movimenti. Il padre schiacciava al figlio delle mandorle, e gliele passava attraverso al letto, e il figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo guardava masticare (...) Ogni cosa che accadeva nella corsia era separata dalle altre, come se ogni letto racchiudesse un mondo senza comunicazione col resto, salvo per i gridi che s’incitavano uno con l’altro, in crescendo, e comunicavano un’agitazione generale, in parte come un chiasso di passeri, in parte dolorosa, gemente. Solo l’uomo con la testa enorme stava immobile, come non sfiorato da nessun suono. Amerigo continuava a guardare il padre e il figlio. Il figlio era lungo di membra e di faccia, peloso in viso e attonito, forse mezzo impedito da una paralisi. Il padre era un campagnolo vestito anche lui a festa, e in qualche modo, specie nella lunghezza del viso e
delle mani, assomigliava al figlio. Non negli occhi: il figlio aveva l’occhio animale e disarmato, mentre quello del padre era socchiuso e sospettoso, come nei vecchi agricoltori. Erano voltati di sbieco, sulle loro seggiole ai due lati del letto, in modo da guardarsi fissi in viso, e non badavano a niente che era intorno. Amerigo teneva lo sguardo su di loro, forse per riposarsi (o schivarsi) da altre viste, o forse ancor di più, in qualche modo affascinato. Intanto gli altri facevano votare uno in un letto. In questo modo: gli mettevano intorno il paravento, col tavolino dietro, e per lui la suora, perché era paralitico, votava. Tolsero il paravento, Amerigo lo guardò: era una faccia viola, riversa, come un morto, a bocca spalancata, nude gengive, occhi sbarrati. Più che quella faccia, nel guanciale affossato, non si vedeva; era duro come un legno, tranne un ansito che gli fischiava al fondo della gola. Ma cosa hanno il coraggio di far votare? si domandò Amerigo, e solo allora si ricordò che toccava a lui impedirlo (...) Si strappò con sforzo dai suoi pensieri, da quella lontana zona di confine appena intravista – confine tra che cosa e che cosa? – e tutto quello che era al di qua e al di là sembrava nebbia. – Un momento, – disse, con una voce senz’espressione, sapendo di ripetere una formula, di parlare nel vuoto, – è in grado l’elettore di riconoscere la persona che vota per lui? È in grado di esprimere la sua volontà? (…) La Madre sorrise, ma d’un sorriso che era per tutti e per nulla. Il problema d’esser riconosciuta, pensò Amerigo, per lei non esisteva; e gli venne da confrontare lo sguardo della vecchia suora con quello del contadino venuto a passare la domenica al Cottolengo per fissare negli occhi il figlio idiota. Alla Madre non occorreva il riconoscimento dei suoi assistiti, il bene che ritraeva da loro – in cambio del bene che loro dava – era un bene generale, di cui nulla andava perso.3
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* In assenza di indicazione, si intenda che i brani sono stati tradotti dal curatore. 443
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Indice degli autori e altri fonti
Acta santorum, 93 Adso di Montier-en-Der, 186 Agostino, 47, 48, 50, 114 Alessandro di Hales, 48 Alfonso Maria de’ Liguori, 88 Alighieri, Dante, 86, 87, 163, 180, 204 Allende, Isabel, 333 Angiolieri, Cecco, 163 Apocalisse, 91 Apocalisse di Elia, 186 Apocalisse di san Giovanni Teologo, 186 Apuleio, 204 Aristofane, 134 Aristotele, 33 Artaud, Antonin, 388 Attanasio di Alessandria, 96 Bachtin, Michail, 147 Balzac, Honoré de, 286 Barbey d’Aurevilly, Jules-Amédée, 307 Bataille, Georges, 223, 355, 378, 384, 386 Baudelaire, Charles, 68, 129, 252, 304, 305, 342, 352, 360, 362 Baum, L. Frank, 319 Beckford, William, 282 Berni, Francesco, 166 Bettinelli, Saverio, 392 Blackwood, Algernoon, 330 Blake, William, 276, 335 Boccaccio, Giovanni, 164 Brandano, 85 Breton, André, 380 Broch, Hermann, 403, 406 Brontë, Emily, 286 Buonarroti, Michelangelo, 177 Burchiello, 163 Burton, Robert, 173 Byron, George, 284 Calvino, Italo, 438 Canon Episcopi, 206 Cardano, Gerolamo, 208 Carducci, Giosue, 340 Carter, Angela, 318, 427 Catullo, 160 Cazotte, Jacques, 183 Céline, Louis-Ferdinand, 268 Chaucer, Geoffrey, 266 Chrétien de Troyes, 138 Clemente Alessandrino, 40 Collodi, Carlo, 314, 315 Conte di Lautréamont, 366 Conrad, Joseph, 235 Corbière, Tristan, 352 Croce, Giulio Cesare, 147 Cursor mundi, 180 Dalí, Salvador, 383 D’Annunzio, Gabriele, 353 Daniele, 186 De Amicis, Edmondo, 264
DeLillo, Don, 69, 348 Della Porta, Giovan Battista, 258 Dickens, Charles, 335, 336 Dionigi Areopagita, 126 Doyle, A.C., 129 Dostoevskij, Fëdor Michajloviè, 183, 320, 360 Du Bellay, Joachim, 166 Eco, Umberto, 233, 396 Eliot, TS, 337 Encyclopaedia Britannica, 196 Eschilo, 108 Esiodo, 37 Esopo, 30, 134 Fabri, Felix, 189 Fasano, Tommaso, 189 Fisiologo, 115 Flaubert, Gustave, 96 Fleming, Ian, 198, 239 Foucault, Michel, 262 Freud, Sigmund, 312 Gautier, Théophile, 320 Gazzetta di Amsterdam, 226 Gibson, William, 427, 433 Giobbe, 108 Giulio Ossequente, 109 Giusti, Giuseppe, 192 Goethe, Wolfgang, 182, 212 Gogol’, Nikolaj, 320 Gozzano, Guido, 296, 395 Grégoire, Baptiste-Henri, 268 Gringore, 140 Gryphius, Andreas, 177 Guerrini, Olindo, 357 Haggard, Rider Henry, 291 Haraway, Donna, 433 Hegel, G. W. Friedrich, 53, 54 Hélinand de Froidmont, 64 Hitler, Adolf, 268 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 316 Hugo, Victor, 281, 286, 288, 294, 304 Hurtado de Mendoza, Diego, 166 Huysmans, Joris-Karl, 219, 290, 360 Innocenzo VIII, 206 Ippocrate, 250 Isaia, 51, 91 Isidoro di Siviglia, 41, 121 James, Montagne Rhodes, 322, 331 Kafka, Franz, 236, 305, 328 King, Stephen, 424 Lando, Ortensio, 167 Landucci, Luca, 242 Lessing, Gotthold Ephraim, 272 Lettera del Prete Gianni, 117 Levitico, 204 Levino Lemnio, 247 Lewis, Matthew, G., 284 Libro della Scala, 87
Liutprando di Cremona, 188 Lo scroto nero, 136 Lombroso, Cesare, 196, 260 London, Jack, 336 Lovecraft, Howard Phillips, 200, 214, 290 Mandeville, John, 95 Manifesti futuristi italiani e russi, 370 Mann, Thomas, 183 Manoscritto del Monastero di Mont Saint Michel, 186 Marchelli, Romolo, 88 Marco Aurelio, 33 Marinelli, Lucrezia, 167 Marinetti, Filippo Tommaso, 370, 371, 372 Marino, Giovan Battista, 170, 180 Marot, Clement, 166 Marziale, 160 Mastriani, Francesco, 263 Matheson, Richard, 299 Maturin, Charles Robert, 228 Maupassant, Guy de, 322 McGrath, Patrick, 214 Meyrink, Gustav, 288 Milton, John, 181 Mirbeau, Octave, 230 Montaigne, Michel de, 170, 244 Montandon, Giorgio, 269 Niceta Coniate, 226 Nietzsche, Friedrich, 262 Omero, 30, 36, 40 Orazio, 132, 160, 204 Orwell, George, 238 Ovidio, 221 Palazzeschi, Aldo, 372 Paoli, Sebastiano, 65 Papini, Giovanni, 183, 230, 374 Paré, Ambroise, 242, 246 Pastiche da Walther Killy, 402 Petrarca, 64 Plath, Silvia, 69 Platone, 26, 30, 33, 108 Plinio, 121 Plotino, 26 Poe, Edgar Allan, 129, 234, 320, 338 Priapea, 133 Proust, Marcel, 362, 404 Pulci, Luigi, 118 Queneau, Raymond, 384 Quevedo, Francisco Goméz de, 173 Rabelais, François, 142, 143, 144 Rapporti di lettura e recensioni, 393 Regola di san Benedetto e altri,134 Rilke, Rainer Maria, 355 Rimbaud, Arthur, 358, 366 Rocco, Antonio, 149 Rodolfo il Glabro, 81, 93 Rohmer, Sax, 197
447
Romanzo di Alessandro, 110 Ronsard, Pierre de, 166 Rosenkranz, Karl, 138, 154, 256, 263, 303, 312 Roussel, Raymond, 384 Rustico di Filippo, 163 Rutebeuf, 137 Sade, Marchese de, 150, 228 Salmi, 84 Salomoni, Giuseppe, 170 Sartre, Jean-Paul, 88, 300 Satie, Eric, 371 Schiller, Friedrich, 220 Schlegel, Friedrich, 274 Schopenhauer, Arthur, 274, 400 Sedlmayr, Hans, 157, 342, 380 Segneri, Paolo, 61 Shakespeare, William, 69, 127, 149, 176, 177, 209 Shelley, Mary, 294 Shelley, Percy B., 276, 304 Sontag, Susan, 412 Sprenger e Kramer, 208 Stevenson, Robert Louis, 288 Stoker, Bram, 324, 325 Sue, Eugène, 286 Surin, Jean-Joseph, 101 Swift, Jonathan, 127 Tarchetti, Igino Ugo, 296, 358 Tasso, Torquato, 180 Tennyson, Alfred, 61 Teocrito, 133 Tertulliano, 58, 160 Testamento siriaco, 186 Tzara, Tristan, 374 Valéry, Paul, 352 Vangeli, 84 Vasari, 64 Villon, François, 225 Vincenzo di Beauvais, 79 Virgilio, 36 Vivien Renée, 307 Wagner, Richard, 268 Warhol, Andy, 390, 418 Wilde, Oscar, 298, 340, 356 Zola, Émile, 342
448
Indice degli artisti
Abramovic, Marina “Tomas Lips”, Seven Easy Pieces, 423
Boiffard, Jacques-André Alluce di uomo di trent’anni, 378
Cattelan, Maurizio Bambini impiccati, 434-435
Adams, Joseph Observations on morbid poisons…, 256
Boldini, Giovanni Fuochi d’artificio, 405
Chassériau, Théodore Macbeth e le tre streghe, 209
Albright, Ivan Le Lorraine Il ritratto di Dorian Gray, 298
Bosch, Hieronymus L’arresto di Cristo, 55 Trittico delle tentazioni di sant’Antonio, 102, 103, 104-105 La barca dei folli, 147 Il giardino delle delizie, 227 Cristo portacroce, 428
Cornelisz van Oostsanen, Jacob Saul e la strega di Endor, 210-11
Aldovrandi., Ulisse Monstrorum Historia, 106, 243, 244, 248, 249 Alma-Tadema, Lawrence L’abitudine preferita, 401 Arcimboldo, Giuseppe L’inverno, 168
Botero, Fernando Donna, 420
Courcelles, D.C. Icones muscolorum capitis, 241 Couture, Thomas Il pazzo, 262
Bouguereau, William Adolphe Nascita di Venere, 400
Cranach, Lucas La fontana della giovinezza, 174-175
Boutet de Monvel, Louis Maurice La lezione prima del Sabbah, 208
Crane, Walter Bella e la Bestia, 318
Bouts, Aelbrecht Cristo sofferente, 52
Crivelli, Carlo Madonna con Bambino, 410
Balthus La camera, 313
Breton, André; Man Ray; Radnitzky, Emmanuel; Morise, Max ; Tanguy, Yves Cadavere squisito, 379
Beardsley, Aubrey Salomé, 413
Broc, Jean La morte di Giacinto, 407
Dalí, Salvador Le tentazione di sant’Antonio, 99 Gala e l’Angelus di Millet precedono…, 321 Costruzione molle con fagioli bolliti, 381 Atavismo al crepuscolo, 382
Beato Angelico Cristo deriso, 55 Trittico di san Pietro martire, 59 Giudizio Universale, 87
Bronzino, Agnolo Il nano Morgante di schiena con un gufo sulla spalla, 14
Daumier, Honoré Due avvocati e la Morte, 155 Il vagone di terza classe, 342
Bruegel, Pieter, il vecchio Trionfo della morte, 70-71 Combattimento fra Carnevale e Quaresima, 148
David, Gérard Lo scorticamento di Sisamnes, 251
Arman Piccoli rifiuti borghesi, 389 Bacon, Francis Autoritratto, 385 Baldung Grien, Hans Le morte e le età dell’uomo, 162
Beato di Burgo de Osma La meretrice di Babilonia, 75 Gog e Magog, 81 Blake, William Satana colpisce Giobbe con le piaghe, 180 Boccasile, Gino Cartolina di propaganda antiamericana, 196 Cartolina antisemita di propaganda fascista, 267 Boccioni, Umberto Antigrazioso, 371 Böcklin, Arnold Sirene, 128 Peste, 277 Autoritratto con la Morte che suona la viola, 287
Bruegel, Pieter (scuola di) La parabola dei ciechi, 305 Cabanel, Alexandre Nascita di Venere, 406 Callot, Jacques Le miserie della guerra, 224 Caravaggio Giuditta taglia la testa a Oloferne, 234 Carrà, Carlo Funerale dell’anarchico Galli, 373 Carracci, Agostino Arrigo Peloso Pietro Matto e Amor Nano, 259
De Mayer, Adolph Nijinski nel ruolo di un fauno…, 412 Delacroix, Eugène La battaglia di Giaurro e Hassan, 283 Del Cairo, Francesco Martirio di sant’Agnese, 228 Della Porta, Giovan Battista De humana physiognomonia, 258 Diamond, Hugh Welch Ritratto di folle, 262 Dix, Otto Sylvia von Harden, 297 Cartoon for Metroplis (trittico), 344-345 Salon I, 369
449
Doré, Gustave Gerione, 86 Gargantua, 143 Illustrazione per la fiaba di Pollicino, 316 Londra, 337
Giotto Deposizione, 51
Klimt, Gustav Pesci d’argento, 291
Gould, Chester Personaggi di Dick Tracy, 199
Klinger, Max La Morte, 353
Duchamp, Marcel Torture-Morte, 374 La Gioconda coi baffi, 377
Goya, Francisco Il Sabbah delle streghe, 202
Koch, Joseph Anton L’inferno, 181
Griebel, Otto Disoccupato, 332 L’Internazionale, 338
Kubin, Alfred Creatura di Marte, 361
Dürer, Albrecht I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 75 El Greco San Sebastiano, 60 Ensor, James Il giudice rosso, 367 Erté Adorazione, 415 Fabbrica di Volterra Pigmeo e gru, 109 Fautrier, Jean Studio per grande nudo, 387 Ferrari, Gaudenzio Martirio di santa Caterina, 237
Gros, Jean-Antoine Bonaparte visita gli appestati di Jaffa, 303 Grosso, Giacomo Studio di Supremo convegno, 218 La nuda, 402 Grosz, George Giornata grigia, 156 Lo scrittore Max Harmann-Neisse, 301 Grünewald, Mathias Tentazioni di Sant’Antonio, 17, 189 Crocifissione, 42
Lanzinger, Hubert Il portaandiera, 399 La Tour, George de Suonatore di ghironda, 176 Lavater, Gaspar L’art de connaître les hommes par la physionomie, 260 Ledermueller, Martin Frobenius Amusement microscopique tant pour l’Esprit…, 328 Lee, Daniel Giurato n. 4, 323
Fontana, Lavinia Ritratto di Antonietta Gonzales, 240
Hamilton. John Mortimer Caricatura di un gruppo, 154 Mosso, Francesco La moglie di Claude, 306
Frazetta, Frank La bella e la bestia, 201
Hausmann, Raoul Il critico d’arte, 375
Friedrich, David Caspar Monaco davanti al mare, 273
Heartfield, John Have no fear, he’s a vegetarian, 194
Füssli, Heinrich Macbeth consulta l’apparizione di una testa armata, 21 Satana emerge dal caos, 178 Titania accarezza Bottom con la testa d’asino, 217 L’incubo, 290 La follia di Kate, 310
Hogarth, William La ricompensa della crudeltà, 253 David Garrick come Riccardo III, 280 La strada del gin, 334
Géricault, Théodore Studio di arti troncati, 278
Hone, William San Simeone stilita, 61
Ghirlandaio, Domenico Ritratto di vecchio con nipote, 18
Hopper, Edward Casa vicino alla ferrovia, 330
Maestro del Reno superiore Gli amanti trapassati, la Morte e la Lussuria, 66
Gillray, James Una famiglia di sanculotti si ristora, 191
Ildegarda di Bingen L’universo in forma di uovo, 45
Maestro del Sacro Sangue Lucrezia, 229
Giordano, Luca (attr.) Ritratto di Carlo II di Spagna, 13
Kahlo, Frida La colonna distrutta, 432
Maestro di Boucicaut Livre des Merveilles, 122, 123
Giorgione La vecchia, 171
Klee, Paul Commediante, 384
Maestro di Caterina da Clèves La bocca dell’inferno, 84
450
Holbein, Hans Cristo deriso, 54 Trittico di san Sebastiano, 60
Le Grant, Jacques Le livre des bonnes moeurs, 94 Lehmann, Henri Ritratto di Carlo VII detto il Vittorioso, 13 Leonardo da Vinci Caricatura della testa di un vecchio, 153 Liceti, Fortunio De monstris, 248 Lochner, Stefan Il martirio degli Apostoli, 58 Luca di Leida Giudizio finale, 89 Maestro della Leggenda di sant’Orsola Il massacro dei vandali, 57
Maestro ispano-fiammingo Sepoltura di Cristo, 53
Parentino, Bernardo Le tantazioni di sant’Antonio, 96
Rodin, Auguste L’inverno, 304
Maestro Teodorico Imago pietatis, 50
Passerotti, Bartolomeo Caricatura, 130 Mangiatore del braccio, 176
Rops, Félicien Le tentazioni di sant’Antonio, 97 Pornocrati, 151
Pericoli, Tullio Albert Einstein, 157
Rosa, Salvator Le tentazioni di sant’Antonio, 98 La strega, 213
Man Ray Ritratto del Marchese De Sade, 366 Manet, Edouard Il bevitore di assenzio, 351 Mantegna, Andrea San Sebastiano, 60 Martini, Alberto Nascita – Il dolore umano, 386 Martini, Arturo Ritratto della marchesa Luisa Casati, 231 Mayer, Adolf de Nijinski nel ruolo di un fauno, 412
Picabia, Francis Il bacio, 378 Picasso, Pablo Donna che piange, 9 Donna in camicia in poltrona, 364 Pierre de Beauvais Bestiaire, 115 Pisano, Nicola L’inferno, 85 Pittore del pigmeo Kelebe volterrana con trombettiere, 41
McCarty, Paul Basement Bunker: Painted Queen Small Blue Room, 419
Pittore di Digione La nascita prodigiosa di Venere, 134
Medardo Rosso Bambino malato, 265
Prampolini, Enrico Ritratto di Marinetti, 373
Memling, Hans Cristo alla colonna, 53 Giudizio universale, 83
Quidu, Noel Testa di un membro del movimento armato LURD, 235
Metsys, Quentin Il contratto di vendita, 153 Donna grottesca, 172
Raymond, Alex Ming da Flash Gordon, 197
Millet, Jean-François L’Angelus, 382 Moreau, Gustave La Chimera, 37 San Sebastiano, 60 Morbelli, Angelo S’avanza, 307 Il Natale dei rimasti, 308-309 Venduta, 354 Munch, Edward Eredità I, 245 Vampiro, 325 Arpia II, 357 Nalbandjan, Dmitrij Al Cremlino, 398 Paré Ambroise Opera chirurgica, 243 Des monstres et prodiges, 246
Raffaello Sanzio San Michele e il drago, 119 Redon, Odilon Il polipo difforme, 218 Il ciclope, 299 Reiner, Rudolf L’uomo che ride, coi grandi occhi spalancati, 300
Rosenheim, Petrus von Ars memorandi, 126 Rubens, Pieter Paul La testa di Medusa, 24-25 Saturno divora i figli, 41 Saint Phalle, Niki de Hon (Lei), 411 Salviati, Francesco Le tre parche, 215 Savinio, Alberto Roger et Angélique, 329 Autoritratto, 331 Schad, Christian Autoritratto con modella, 363 Scheffer, Ary Morte di Géricault, 281 Schiele, Egon Giovane seduta, 296 Schott, Caspar Physica curiosa, 248 Scuola francese Ritratto di Luigi XI, 13 Preparativi per il Sabbah delle streghe, 205 Serrano, Andres Budapest (The Model), 165 Settala, Manfredo Lo schiavo in catene, 184
Rembrandt, La lezione di anatomia del Nicolaes Tulp, 252
Sheeler, Charles Paesaggio classico, 348
Reni, Guido San Sebastiano, 60
Sherman, Cindy Untitled # 250, 430
Repin, Ilija Ivan il terribile con il cadavere del figlio Ivan, 279
Signorelli, Luca Predicazione dell’Anticristo, 187
Ribera, Jusepe de San Sebastiano, 60
Sironi, Mario Paesaggio urbano con ciminiere, 347 451
Soutine, Chaim Bue macellato, 343
Witkin, Joel-Peter Ritratto di un nano, 417
Fotogrammi cinematografici (in ordine progressivo di pagina)
Soyer, Isaac Agenzia di collocamento, 349
Wollheim, Gert Il ferito, 368
Stella, Joseph Fuochi nella notte, 349
Zumbo, Gaetano La peste, 254-55
Strozzi, Bernardo Vanitas, 158
Zwintscher, Oskar Madreperla e oro, 362
La Passione di Cristo, di Mel Gibson, 53 King Kong, di Merian Cooper e Ernest B. Schoedsalk, 129 La beauté du diable, di René Claire, 183 Biancaneve e i sette nani, di Walt Disney, 215 Salò e le 120 giornate di Sodoma, di Pier Paolo Pasolini, 238 Re-animator, di Stuart Gordon, 239 Il fantasma dell’Opera, di Rupert Julian, 289 L’uomo che ride, di Paul Leni, 295 Frankestein, di James Whale, 295 Il meraviglioso mago di Oz, di Victor Fleming, 319 Nosferatu, di Friedrich Wilhelm Murnau, 324 Dracula, di Francis Ford Coppola, 326 Un chien andalou, di Luis Buñuel, 383 The Rocky Horror Picture Show, di Jim Sharman, 409 Pink Flamingos, di John Waters, 416 Guerre stellari, di George Lucas, 422 La notte dei morti viventi, di George Romero, 424 E.T., di Steveb Spielberg, 425 Freaks, di Tod Browning, 431 The Thing, di John Carpenter, 436
Susini, Clemente Statua di giovane donna... (La Venerina), 250 Thole, Karel Strisciava sulla sabbia, 200 Toulouse-Lautrec Donna che tira su la calza, 355 Tiziano Vecellio La punizione di Marsia, 221 Turner, William Il passaggio del san Gottardo visto nel mezzo del ponte del Diavolo, 274 Van Dyck, Antonie Sileno ebbro, 29 Van Dongen, Kees I viveurs, 341 Velázquez, Diego Ritratto di Filippo IV di Spagna, 13 Esopo, 31 Ritratto del ragazzo di Vallecas, Francisco Lezcano, 439 Vesalio, Andrea De humani corporis fabrica, 252 Von Stuck, Franz Lucifero, 285 Il peccato, 292 Il bacio della sfinge, 356 Fauno che porta una ninfa, 358 Warhol, Andy Cinque morti su sfondo arancione, 388 Waterhouse, John William Ulisse e le Sirene, 38-39 Miranda, 275 Whistler, James Abbott Tamigi. Notturno in blu e argento, 335 Wildt, Adolfo Il Prigione, 359 452
Illustrazioni senza indicazioni d’autore (in ordine progressivo di pagina) Maschera per la danza, 11 Giovanni senza paura, 13 Ritratto di Enrico IV, 13 Statua in bronzo di un satiro, 22 I centauri alla corte del re Piritoo, 27 Terracotta raffigurante un sileno, 28 Ritratto di Socrate, 28 Ritratto di Esopo, 30 Perseo sgozza Medusa alla presenza di Atena, 32 Ulisse e le sirene, 35 Chimera di Arezzo, 40 Gargouilles di Notre-Dame, 46 Les heures de Croy, 47 Crocifissione, 48 La danza dei morti, 63 Trionfo della morte, 64 Corpi mummificati nella catacomba dei Cappuccini a Palermo, 65 Teschio del sarcofago dell’imperatore Carlo VI…, 65 Trionfo della morte, 68 Apocalisse di san Severo, 72 Apocalisse di Angers, 76 Apocalisse di Bamberga, 76 Inferno - Conques, 79 Lucifero, dal Codex Altonensis, 91 Il prete Teofilo - Souillac, 93 Demonio che porta via una religiosa Chartres, 95 Dictionnaire infernal, da J. Collin de Plancy, 100 Il papa come principe dei demoni, 101 Le livre et la vraye histoire du bon roi Alexandre, 110 Book of Kells, 112 Mostro della chiesa di Saint Pierre Chauvigny, 113 Licorno, 115 Monstrous races of Ethiopia, 117 Mostre, da P. Boistuau, Storie prodigiose, 118 Chiesa di santa Maddalena - Vezelay, 120 Lucifero ermafrodito, 124 Invocazione a Priapo, 133 Tricouillard, 136 Cacare nella ciambella, 138 La bandiera della madre folle, 139 Le Charivari, 141 Les songes drôlatiques de Pantagruel, 144-45 Tavola dittica, 146 Statua di vecchia del mercato, 161 Faust di Lewis Morrison. Locandina, 183 Sarcofago dell’imperatore Ostiliano, 188 Il pastore della chiesa luterana…, 190
Gli eserciti alleati contro il kaiser, 191 Vignetta anticlericale, 193 Manifesto elettorale anticomunista, 193 Il capitalista italiano assume il volto di Mussolini, 195 Tre streghe, da U. Molitor, Von den Unholden oder Hexen, 204 Histoire de Merlin, 206, 207 Il « famigerato » Gilles de Rais, 223 Vlad III Dracula, 225 Sam, vincitore del concorso per il cane più brutto del mondo, 232 Mostro di Ravenna, 242 Céeature monstrueuse, in P. Boistuau, Storie prodigiose, 244 Bambino idrocefalo, 247 Bouches d’hommes audacieux, téméraires…, 257 Diversi tipi di criminale, in Cesare Lombroso, 261 I sodomiti nella Divina Commedia, 263 Mattia, da Senza famiglia, 264 Pogrom, di Josef Fenneker. Locandina, 269 Laocoonte, 270 Fantomas, 289 Le avventure di Pinocchio, illustrato da Attilio Mussino, 314-315 Struwwelpeter, 317 Orco, dal parco dei mostri di Bomarzo, 327 Incidente alla Gare Montparnasse, 339 Tour Eiffel in costruzione, 346 Scultura greca nella sala della musica del Vittoriale, 390 Mae West, 392 I coniugi Arnolfini, riproduzione in cera, 395 Foto della stanza 206 “Vecchio mulino” del Madonna Inn, 396 Sacro cuore di Gesù, 397 Statue del Foro Italico, 399 La regina Loana, 414 Marylin Manson, 426 Un gruppo di punk, 427 Rocker punk, 429 Copertina di B. Godber, per il disco dei King Crimson, 437
453