Storia del mal di vivere. Dalla malinconia alla depressione [PDF]

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Zitiervorschau

G e o r g e s M in o is

Storia del mal di vivere D alla m alinconia alla depression e

edizioni Dedalo

S to r ia e civ iltà 6 1

L a n ostra società rifiuta i pessim isti, i dep ressi, gli angosciati. Il m al di vivere è quindi una m alattia dei tem pi m oderni che bisogna cu rare a colpi di antidepressivi? O ppure, com e ci insegnano i grandi m alinconici della storia, è la sola ragione di in quanto segno del p ro gresso del pensiero e della coscienza? L a grandezza dell’uom o, in fondo, sta anche nelle sue ferite.

Il «m a l d i v iv e r e » r is a le al X V III secolo, m a il m alessere che d esign a e s is te d a q u a n d o l ’ u om o c e r c a d i d are un senso alla su a esisten za. Già n ell’A ntichità i m edici d escrivevan o pazien ti colpiti d a sin drom i d e p re s­ sive e p rop on ev an o rim edi a b a se di p ian te p e r g u arirli. I filosofi si in ter­ ro gavan o su ll’ am bivalen za di queste «affezion i d ell’ a n im a», c a ra tte riz z a ­ te d a stan ch e z za, ac c id ia , m alin co­ n ia , n o ia , in q u ietu d in e, sp le e n , n i­ ch ilism o, n a u se a , an g o sc ia, d e p re s­ sione. Il m al di vivere ha p reso fo r­ me d iv erse nel corso dei secoli, tutte sem pre legate al m alessere della con­ dizione u m an a. D a L u crezio a Sch o­ p en h au er, num erose m enti illum in a­ te hanno an alizzato la m alinconia e molti vi han no visto il tem peram en to p e r eccellenza dei «g ra n d i uom in i». D a E sc h ilo a C io ra n p a ssa n d o p e r S h ak e sp e are , il mal di vivere ha isp i­ rato i più gran d i au to ri della cultura occid en tale. D a ll’im p ossibile rivolta di Prom eteo contro il destin o, a ll’ an ­ goscia dell’ uomo contem poraneo che a f f r o n t a le t r a p p o le d e lla lib e r t à , questo libro svela come il m al di vive­ re sia il pegno d a p a g a re p e r i p ro ­ gressi della civiltà.

In co p e rtin a:

H einrich Vogeler, S e n su ch t , 1908, P rivatbesitz.

G eo rg e s M in o is, p r o fe s s o r e di sto ­ r ia , ha scritto nu m erose sintesi su lla sto r ia d e lla c u ltu ra occid en tale. In p a rtic o la re rico rd iam o : S to r ia delV ateism o (E d ito ri R iu n iti, 2 000), L a C h ie sa e la g u e r r a (D e d a lo 2 0 0 3 ), S t o r i a d e l r is o e d e l l a d e r is io n e (D edalo 2004).

Sto ria e civiltà

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Georges Minois

Storia del mal di vivere D alla m alinconia alla depressione

edizioni Dedalo

© 2003, Edition de la Mattinière Titolo originale: Histoire du mal de vivre. De la mélancolie à la dépression Traduzione di Manuela Carbone

Volume pubblicato con il contributo del Ministero degli Affari Esteri france­ se e il Ministero della Cultura francese - Centre National du Livre.

© 2005 Edizioni Dedalo srl, Bari www.edizionidedalo.it Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633 )

Capitolo primo In principio era la fatica d i vivere

Un Egizio, all’alba della civiltà di quattromila anni fa, disgustato dallo spettacolo del mondo, scrive le sue riflessioni sotto forma di dialogo della sua anima. Le sue parole superano i confini del tempo: La mia anima si affanna inutilmente a cercare di persuadere un infelice a restare in vita e a impedirmi di raggiungere la morte prima del dovuto. Mostrami piuttosto quanto è bello il tramonto! E forse così terribile? La vita ha una durata limitata: persino gli alberi finiscono per cadere. Potrebbero sparire i mali, ma non la mia infelicità. Colui che miete uomi­ ni mi porterà via comunque, senza riguardo, magari insieme a un crimi­ nale qualunque, dicendo: «Ti porto via, poiché il tuo destino è di morire, anche se il tuo nome continuerà a vivere.. ,»1 (papiro Berlino 3024). Questo testo, conosciuto con il titolo Ode del disperato , lunga litania di uno scriba anonimo che aspira alla propria mòrte, è la più antica espressione individuale del mal di vivere che ci sia stata tra­ smessa: La morte è oggi davanti a me come la salute per l’infermo Come uscire fuori da una malattia. La morte è oggi davanti a me

1 A. E rman, Gespräch eines Lebensmüden mit seiner Seele: aus dem Papyrus 3024 der Königlichen Museen, in Abhandlungen der königlichen preussischen Akademie der Wissenschaften, Verlag der Konigl., Berlino 1896.

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Come l’odore della mirra Come sedersi sotto la vela in un giorno di vento. La morte è oggi dinanzi a me Come il profumo del loto Come sedersi sull’orlo dell’ebbrezza. La morte è oggi dinanzi a me Come la fine della pioggia Come un uomo che ritorna a casa dopo una campagna oltremare. La morte è oggi dinanzi a me Come quando il cielo si rasserena Come il desiderio che è in un uomo di rivedere la propria casa dopo innumerevoli anni di prigionia2.

Questo Amleto del Medio Regno non è un caso unico di quel­ l’epoca. Papiri e geroglifici testimoniano che i disperati si suicida­ vano nella valle del Nilo: alcuni si gettavano in pasto ai coccodril­ li, altri si lasciavano annegare, altri ancora si sferravano un colpo d ’ascia o di spada34. Soffrire, invecchiare, morire, per cosa poi? Le prime manife­ stazioni del mal di vivere derivano dall’esperienza delle difficoltà dell’esistenza e ne conserviamo numerose testimonianze nell’anti­ co Vicino Oriente. A d Akkad, l’antica Mesopotamia, alcune tavo­ lette rinvenute fanno eco al tedio dello scriba egizio, come il Dialogo pessim ista fra il padrone e il suo servitore'*, colmo di osservazioni disincantate e il Dialogo sulla m iseria um ana, che stigmatizza l’in-

2 A.P. L e c a , La medicina egizia al tempo dei faraoni, Ciba-Geigy Edizioni, 1986, p. 320. 3 E . O t t o e W. H e l c k (a cura di), Lexikon der Ägyptologie, Harrassowitz, Wiesbaden 1984, voi. 5, col. 823. 4 È già in quest’ottica che, nel 1984, Jackie Pigeaud sosteneva la causa di una storia della malinconia (J. PlGEAUD, Prolégomènes à une histoire de la mélancolie, in «Histoire, Economie et Société», 1984 n. 4, pp. 501-510). Egli ha anche getta­ to le basi per uno studio della malinconia nell’antichità (J. PlGEAUD, Folies et cures de la folte chez les médecins de l’antiquité gréco-romaine. La manie, Les Belles Lettres, Parigi 1987, e J. PlGEAUD, La maladie de l’àme. Étude sur la relation de l’àme et du corps dans la tradition médico-philosophique antique, Les Belles Lettres, Parigi 1989). Nella stessa ottica si veda anche Y. HERSANT, Mélancolies, «Bulletin du frangais. Journal de la Comédie frangaise», Sur le rire et la folie, Rivages, Parigi 1991.

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«

giustizia universale: «L a folla loda la parola di un uomo premi­ nente, esperto in crimini, ma avvilisce l’essere umile che non ha com­ messo violenza alcuna. Il malfattore è giustificato, mentre il giusto viene cacciato. Il bandito riceve l’oro, il debole rimane affamato. La potenza del cattivo viene fortificata ancora di più, mentre l’in­ valido, il debole, viene schiacciato»5. Amara constatazione che porta a una visione dell’esistenza ben diversa dalle confortanti rassicurazioni fornite dalla saggezza tra­ dizionale. Questa giustizia immanente è una menzogna, ripetono i testi di saggezza babilonese: sono i più furbi a prosperare, non i più virtuosi. L’uomo che riflette non può che essere pessimista. Persino l’eroe Gilgamesh fallisce nella sua ricerca della «pianta della vita», che gli avrebbe permesso di sfuggire al dolore, alla vecchiaia e alla morte. Il male è ovunque e già se ne cercano le cause. I miti babilonesi attribuiscono le sofferenze dell’umanità a divinità misteriose. L a vita d ’oltretomba, negli inferi, non sarà migliore6. Davanti a simili pro­ spettive, come stupirsi del fatto che i Babilonesi abbiano sofferto di disturbi che ricordano la nostra depressione ansiosa? Un sacerdote descrive così la condizione di un penitente: «Malattia, languore, inde­ bolimento, sofferenza si sono impadroniti di lui. Lamenti e sospiri, oppressione, angoscia, paura, tremore si sono impossessati - stra­ ziandoli - dei suoi desideri»7. Presso i Persiani la stessa amarezza trapela dalla lettura di Erodoto, che riporta queste parole di Artaban in un dialogo con Serse, il quale, mostrandogli le sue armate, afferma: «Fra un secolo nessuno di quegli uomini sarà vivo». Artaban risponde: « E non v’è nessuno che non abbia desiderato, un giorno o l’altro, morire tanto i mali della vita prevalgono sui beni»8. Erodoto narra che per i Trausi la nascita era un’occasione di lutto e di tristezza e la morte un’occa­

5 J.B. PRITCHARD (a cura di), Anàent Near Eastern Texts Relating to the Old Testament, Princeton University Press, Princeton 1950, p. 438. 6 Ivi, p. 439. 7 Abbiamo studiato questi aspetti in G. MlNOIS, Histoire des enfers, Fayard, Parigi 1991; trad, it., Piccola storia dell’inferno, Il mulino, Bologna 1995, e Id ., Les origines du mal, Fayard, Parigi 2002. 8 A.D. S e r t il l a n g e s , Il problema del male, Morcelliana, Brescia 1951, p. 67.

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sione di tripudio: «Seduti intorno al neonato, i parenti piangono, deplorando tutti i mali che egli dovrà soffrire una volta nato, enu­ merando tutte le miserie umane; e invece lieti e scherzando seppelli­ scono chi è morto dicendo come spiegazione che, liberato da tanti mali, egli è in completa felicità»9.

«Vanità delle vanità...» Il m ondo ebraico non sfugge a queste cupe considerazioni: «M aledetto il giorno in cui nacqui», esclama Geremia (20, 14), che aggiunge: «Perché [Dio] non mi fece morire nel grembo materno; mia madre sarebbe stata la mia tomba e il suo grembo gravido per sempre. Perché mai sono uscito dal seno materno per vedere tor­ menti e dolore (...)? » (20,17-18). Diversi salmi, dagli accenti deci­ samente malinconici, evocano la brevità della vita (Sai 101), la mise­ ria della condizione umana (Sai 89) o rirrimediabile tristezza del regno dei morti (Sai 87). Ma sono due libri tardivi dell’Antico Testamento a esporre in tutta la sua ampiezza il mal di vivere nelle culture semitiche del Medio Oriente antico. Il primo, il libro di Giobbe, si inscrive nella stirpe di una tradizione molto antica di cui abbiamo rinvenuto le trac­ ce in Egitto e ad Akkad. Composto verso la fine del V secolo a.C., in un’epoca in cui gli Ebrei cominciavano a interrogarsi sui loro valo­ ri religiosi, ha fatto esplodere la rabbia impotente dell’uomo che si sente vittima di un arbitrio odioso e che si chiede perché gli sia stato dato di nascere: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un uom o!”» (3, 3); «Stanco io sono della mia vita! Darò Ubero sfogo al mio lamento» (10, 1); «L ’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio di inquietudine» (14,1); « E perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena usci­ to dal grem bo?» (3,11); «[Perché dare la luce] a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio da ogni parte ha sbarrato?» (3, 23). Contrariamente a Giobbe, prostrato daU’accumularsi di disgrazie, la schiera dei suoi amici ottimisti proclama che la vita è bella, che vale la pena di essere vissuta e che Dio è buono. Poiché Jahvé non ha mai

9 ERODOTO,

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Storie, V, 4, Bur, Milano 2001, p. 13.

punito degli innocenti, Giobbe è sicuramente colpevole di qualcosa, ma che egli conservi la speranza, poiché «D io non rigetta l’uomo inte­ gro» (8, 20). Davanti alla cecità dei fedeli che non riescono a capire la rivolta dell’uomo sofferente, G iobbe rimette in riga il branco di conformisti: « E vero, sì, che voi siete la voce del popolo e la sapien­ za morirà con voi! [...] Tacete! State lontani da me: parlerò io, mi capiti quel che capiti [...]. Mi uccida pure, non me ne d o lg o ...» (12, 2; 13, 13-15). Il dibattito è aspro; G iobbe è tentato dal suici­ dio ma tutto si conclude miracolosamente per il meglio. Tale opera è stata l’occasione per un’esposizione completa dello sconforto degli innocenti che soffrono. Attraverso la finzione, l’autore pro­ clama la sua indignazione contro una sorte ingiusta, la sua rivolta contro una vita miserabile. L’espressione del mal di vivere si spinge molto più lontano nel libro dell’Ecclesiaste, o Qoelet. Questo testo, composto nel III seco­ lo a.C., subisce l’influenza della filosofia greca: a tale riguardo si è parlato, a ragione, di epicureismo, di scetticismo. Il pessimismo inte­ grale che esprime ci rimanda alla nausea esistenziale, all’angoscia di Kierkegaard, alla disperazione di Schopenhauer. Scrive padre Sertillanges che «L’Ecclesiaste non comprende e non ammette la vita, fortemente scosso e accasciato dal suo mistero. Un profondo senti­ mento del circolo perpetuo delle cose, dei ritorni eterni, dà al suo pensiero una specie di terrificante monotonia. Si ha l’impressione che il poeta getti, con una lugubre tranquillità, fango sulle nostre illusioni [...]. Noi pensiamo che non si possa andare oltre questo pessimistico distacco»10. Nulla serve, afferma il Qoelet: «Vanità delle vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una gene­ razione viene, ma la terra resta sempre la stessa» (1, 2-4). H o pro­ vato tutto, ci racconta. La ricchezza, le donne, tutti i beni della terra: «ed ecco, tutto è vanità e un inseguire il vento» (1, 14). Il riso, la gioia: «Follia!». L a saggezza: «Chi accresce il sapere, aumenta il dolore» (1, 18). Mi guardo intorno: disgrazie, oppressioni, abusi, follia. L’esistenza è solo preoccupazione e noia: «H o preso in odio la vita, perché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole. Ogni cosa infat­ ti è vanità e un inseguire il vento» (2, 17). 10 A.D. S e r t il l a n g e s , Il problema del male, cit., pp. 135-136.

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Questo testo ha messo in imbarazzo le autorità cristiane che raramente lo hanno citato, se non per insistere sulla sua conclusione: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti» (12, 13). D opo dodici capitoli di lamentele sull’universale vanità dell’esistenza, questa lezione finale è una ben magra consolazione: il Qoelet è l’esito di una saggezza plurisecolare di cui abbiam o conservato qualche frammento eteroclita mostrando che dal Nilo all’altopiano dell’Iran, dal golfo Persico all’Asia Minore, le civiltà più antiche hanno cono­ sciuto una corrente di profondo pessimismo. Molto presto, quin­ di, gli uomini hanno considerato la vita come una maledizione: ciò ha fatto sì che alcuni di loro si siano spinti fino al suicidio. Certo, i casi di morte volontaria menzionati nella Bibbia - Abimelech, Sansone, Zimri, Achitòfel, Saul, Razis, Tolomeo, Macrone - trova­ no spiegazione nel fatto che sono avvenute in circostanze partico­ lari, ma anche diversi profeti, quali ad esempio Geremia, Elia e Giona, hanno pensato di uccidersi.

La spiegazione filosofica: il pessimismo greco Neanche la G recia antica può esattamente definirsi il paese della gioia di vivere. I Greci avevano un senso profondo della tra­ gicità dell’esistenza, come tanti miti cercano di spiegare. G li uomi­ ni sono nati dalle ceneri dei Titani, che Zeus ha fulminato poiché avevano divorato suo figlio Zagreus, pertanto recano in essi una tara originaria. D a quando Pandora ha aperto il famoso vaso, tutti i mali si sono riversati sull’umanità. Un destino implacabile segna la vita di ognuno, il cui filo è tessuto dalle Parche. G li esseri umani non sono che giocattoli fra le mani di dèi più inquietanti che ras­ sicuranti, come il grande Pan, che scatena il panico, e Dioniso, l’im­ prevedibile. Alla radice del pessimismo greco vi è il sentimento di un desti­ no ineluttabile su cui l’uomo non ha presa alcuna: siamo agli anti­ podi del disagio moderno che gli esistenzialisti attribuiranno all’an­ goscia dell’uomo di fronte alla sua totale libertà. Se l’uomo viene privato della sua libertà, allora rivoltarsi è inutile. Prometeo ne vive in prima persona l’esperienza. L a sua storia, che Eschilo ha insce­ nato verso il 450 a.C. in Prometeo incatenato , simboleggia infatti il fallimento della rivolta contro la condizione umana.

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I miti che impregnano la poesia e la tragedia diffondono una concezione fondamentalmente pessimistica dell’esistenza: E infinite tristezze vagano fra gli uomini e piena è la terra di mali, pieno n ’è il mare; i morbi fra gli uomini, alcuni di giorno, altri di notte da soli si aggirano, ai mortali mali portando.. .n ,

afferma Esiodo. «N on nascere è per gli uomini la miglior cosa, né vedere i raggi ardenti del sole»1112, scrive Teognide nelle sue elegie. Forse perché partecipi de’ mali Foste dell’uomo, di cui nulla al mondo, D i quanto in terra ha spiro e moto, eguaglia L’alta m iseria?13

leggiamo nell’Iliade; Bellerofonte, che «errava solitario sulla piana di Aleron, il cuore divorato dal dolore» è considerato da Julia Kristeva come uno dei primi depressi della cultura occidentale14. È ventura non essere. È gran gioia discendere, se alla vita s’emerse, là donde al m ondo si venne, presto15,

declama Γ Edipo a Colono di Sofocle, cui fa eco il Cresfonte di Euripide: «Bisogna compiangere il neonato che va verso tanti mali, rallegrarci invece per colui che muore e depone i suoi affanni, dire parole di buon augurio nello scortarlo alle dimore di A d e»16.

11 ESIODO,

Le opere e i giorni, 101-104, Garzanti, Milano 1985, p. 9. Elegie, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1989, II, 425-426,

12 TEOGNIDE,

p. 143. Iliade, XVII, 562-565. 14J. KRISTEVA, Soleil noir; dépression et mélancolie, Gallimard, Parigi 1987, p. 17; trad, it., Sole nero. Depressione e malinconia, Feltrinelli, Milano 1989. 15 SOFOCLE, Edipo a Colono, in Tutte le tragedie, Newton & Compton, Roma 1991, p. 336. 16 EURIPIDE, Cresfonte, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano 1974,5, 116-120, pp. 15-16. 15 O m e r o ,

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Le prime reazioni ponderate di fronte alla vita sono quindi grida di dolore e non inni alla gioia. Numerosi aneddoti illustrano que­ sto pessimismo innato, come la risposta data dal vecchio Sileno a re Mida: «M eglio di ogni cosa è non essere nati, e dopo di ciò mori­ re subito dopo la nascita». Erodoto narra di un famoso incontro fra il re Creso e il legislatore Solone: «Spinto dalla narrazione di Solone intorno alla felicità di Tello, Creso gli chiese chi avesse visto secondo dopo di quello, certo di ottenere almeno il secondo posto. Quello invece rispose: “Cleobi e Bitone. Essi, che erano Argivi di stirpe [...]. Addormentatisi nel tempio stesso, i giovani non si leva­ rono più, ma ebbero tal fine. [...] Ottennero la miglior fine della vita, e in essi il dio mostrò che meglio è per l’uomo morire piutto­ sto che vivere”» 17. Sin dal IV-V secolo a.C. Eraclito e Democrito affermano, cia­ scuno a modo proprio, che il mondo è disseminato di insidie; il primo lo ha detto piangendo, il secondo ridendo. Eraclito, che Diogene Laerzio e Teofrasto presentano come un misantropo malin­ conico, si lamenta della condizione umana. L e parole che Luciano gli fa pronunciare in Una vendita di vite a ll’incanto ricordano quel­ le del Qoelet: O forestiero, io credo che tutte le cose umane sono triste e deplorabili, e tutte sono soggette alla morte: però sento pietà di voi, e piango. Il pre­ sente non mi par bello; il futuro mi scuora assai, e vi dico che il mondo anderà in fiamme ed in rovine. Io piango che niente è stabile, tutto si rimescola e si confonde: il piacere diventa dispiacere; la scienza, ignoran­ za; la grandezza, piccolezza; tutto va sossopra, e gira, e cangia nel giuoco del secolo18.

Democrito concorda senz’altro sul fatto che la vita sia solo una pietosa commedia, tuttavia egli preferisce riderne che piangerne. Il mondo è per lui un universo infinito ed eterno, composto di atomi e sorretto da un rigido determinismo, nel quale gli uomini si agitano come burattini e si creano ogni sorta di problemi prima di morire miseramente. Un testo tardo lo vede in conversazione con

17 E r o d o t o ,

Storie, dt., 1,31, pp. 109-110. Una vendita di vite all'incanto, G iu sti, L ivorn o 1924.

18 L u c ia n o DI S a m o sa TA,

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Ippocrate: l’uomo è pazzo, gli spiega, poiché «non ha alcuna ver­ gogna di dirsi felice»19.

La spiegazione medica: la bile nera Se le religioni si accontentano di diffondere miti che esaltano la rassegnazione, le correnti filosofiche tentano di fornire spiegazio­ ni razionali. Sin dal V secolo a.C. esse cercano di comprendere il fenomeno del mal di vivere, che designano con il preciso termine di malinconia. Per i medici si tratta innegabilmente di una disposizione psico­ logica, come sostiene la teoria degli umori, proveniente a sua volta dalla teoria di Pitagora, elaborata da Empedocle, secondo la quale il corpo umano è composto da quattro elementi, corrispondenti a loro volta ai quattro elementi cosmici: sole, terra, aria e mare. L’equilibrio di ogni essere umano dipende dall’equilibrio interno di questi quattro elementi, cui corrispondono i quattro umori: la flemma, fredda e umida; il sangue, caldo e umido; la bile gialla, calda e secca; la bile nera, fredda e secca. L e proporzioni dei quattro umori determinano il temperamento della persona. Il malinconico è colui in cui predomina la bile nera (melaina cholé). Se in ecces­ so, la bile nera provoca sintomi fisiologici come pelle opaca, calvi­ zie, balbuzie, ma anche sintomi psicologici, in particolare « l’ansia e l’abbattimento costanti», secondo l’aforisma VI, 23 di Ippocrate. Sarà proprio il grande medico greco, intorno al 400 a.C., a fis­ sare nei secoli la teoria degli umori. Egli sostiene, infatti, che la malinconia sia «la condizione più vicina alla malattia», pur non essendo di per sé una malattia. Tale temperamento, che favorisce il pessimismo, sarebbe dunque legato a un eccesso di bile nera, che peraltro nessuno ha mai visto. Tale eccesso è dovuto a una dispo­ sizione naturale, la cui sede è localizzabile nel cervello, o a un avve­ nimento: un trauma psicologico, ad esempio, oppure un eccessivo e prolungato carico di lavoro. « È il cervello a provocare follia o deli­ rio, a ispirarci il timore e la paura, giorno e notte, a causare 1 in­

19 Pseudo Ippocrate, IV, XVII, 25.

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sonnia, a farci commettere errori, a renderci ansiosi senza motivo, distratti, a portarci ad agire in modo contrario rispetto a quanto di solito faremmo. Tutti questi stati di cui soffriamo provengono da un cervello non sano che diventa anormalmente caldo, freddo, umido o secco». L a malinconia è quindi un fenomeno sia fisiolo­ gico che psicologico. Il fatto che un eccesso di bile nera provochi una visione pessimistica deU’umanità viene confermato nel collo­ quio fittizio fra Ippocrate e Democrito inscenato nello Pseudo Ippocrate, romanzo epistolare del I secolo. Ippocrate associa inoltre lo stato malinconico sia all’autunno che alla vecchiaia. Se questo stato si aggrava, degenera in «tristezza, ansia, abbattimento morale, tendenza al suicidio», oltre che in «avversione per l’alimentazione, disperazione, insonnia, irritabi­ lità, agitazione». Occorre curarlo assumendo rimedi a base di man­ dragora ed elleboro, ma anche adottando una migliore igiene di vita. Il re di Macedonia Perdicca II sarebbe guarito dalla malinconia seguendo la raccomandazione di Ippocrate, che gli aveva consi­ gliato di sposare la donna che amava. Galeno, l’altro grande nome della medicina greca, insiste m ag­ giormente sull’aspetto psicosomatico della malinconia. Egli si ispi­ ra infatti al trattato Della melancolia del medico Rufo d’Efeso (prima metà del II secolo), che distingue due tipi di malinconia, una pro­ veniente da una «combinazione di umori innata» e l’altra da una «combinazione di umori dovuta a un cattivo regime»20. Secondo Rufo, la riflessione e l’afflizione causano la malinconia21. L e menti più fini sono le più soggette al male di vivere: «Coloro la cui intel­ ligenza è molto sottile e penetrante scivolano facilmente nella malin­ conia, poiché agiscono con rapidità e sono fervidi di premeditazione e immaginazione»22. Il malinconico si riconosce dai tratti somati­ ci: gonfio, esitante, la pelle scura; ma si tradisce anche per un certo tipo di comportamento, come lo sguardo basso, depresso, misan­ tropo. Egli è triste senza ragione, è soggetto a accessi di gioia immo­ tivati, ed è concupiscente. Agli occhi di Rufo, la causa fìsica di tale

20Rufo d ’E feso, CEuvres, a cura di Ch. Daremberg e Ch.-E. Ruelle, Parigi 1879 p. 357, 12. 21 Ivi, p. 455, 31. 22 Ivi, p. 457, 18.

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umore non è propriamente la bile, ma il sangue ispessito e raf­ freddato. Galeno modifica di poco questa teoria: le neuropatolo­ gie, afferma, sono la conseguenza di uno stato ipocondriaco, dovu­ to esso stesso alla secrezione di umor nero da parte del fegato, dello stomaco o dpll’intestino; questa bile provoca la formazione di un vapore cupo che sale al cervello e avviluppa l’immaginazio­ ne in una nebbia offuscante. Egli afferma anche che un’attività di riflessione intellettuale troppo intensa provoca svariate reazioni fisiologiche, poiché «le operazioni e le affezioni dell’anima dipen­ dono dal temperamento del corpo»23. Galeno, che un tempo esercitò la professione medica a Roma, testimonia dell’elevato numero di malinconici che la città contava nella seconda metà del II secolo. Egli parla di «adolescenti fragili e magri a causa dell’ansia e della depressione»; i suoi pazienti pre­ sentavano «un sonno raro, disturbato, interrotto, palpitazioni, ver­ tigini [...]; sono tristi, ansiosi, diffidenti, pensano di essere perse­ guitati, posseduti da un demone, odiati dagli dèi». Come Rufo, anche Galeno pensa che la malinconia possa spiegarsi con una mancan­ za di attività sessuale: ormai marcio, infatti, il fluido sessuale maschile o femminile - contamina il cervello. Infine Galeno trac­ cia un identikit del malinconico: magro, capelli scuri, peluria abbon­ dante e nera, pelle scura, vene prominenti, testa inclinata verso il suolo, viso spesso contratto in una smorfia. Il trattamento che pro­ pone ricorda quello di Ippocrate: igiene di vita (esercizio fisico, lavaggio delle mani prima dei pasti, attività sessuale regolare) e far­ maci a base di piante (preparazione di un insieme di pepe bianco, zafferano, coloquintide, mirra, miele, acqua salata e vinomele). D a queste descrizioni traspare il fatto che la medicina del­ l’Antichità sia pervenuta molto presto a una nosologia corretta della depressione, identificando in essa un tipo di temperamento di cui alcuni aspetti sono positivi, in particolare la lucidità intel­ lettuale. Solo i casi eccessivi, quelli che conducono a disturbi del comportamento, sono patologici.

23 Cf. J.-F r. G a u t ie r , L!Àme et les passions, Parigi 1995, p. 91: «La sottomis­ sione dell’anima ai mali del corpo che si manifestano durante le malinconie, le fre­ nesie e le manie».

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La malinconia, il temperamento dei grandi uomini Un famoso testo attribuito ad Aristotele, il Problema X X X , 1, afferma chiaramente: «Tutti gli uomini che furono eccezionali in filosofia, in politica, in poesia o nelle arti erano [...] manifesta­ mente malinconici»24. Bellerofonte, Aiace e altri personaggi stori­ ci come Empedocle, Socrate, Platone e, in varia misura, tutti i gran­ di uomini, erano malinconici per natura. Questi esseri ecceziona­ li, atipici, «sono condannati ad essere infelici»25, conferma Aristotele all’inizio della sua M etafisica. Questo temperamento «procura al cuore tristezze inesplicabili; da qui le impiccagioni, soprattutto fra i giovani, ma a volte anche fra i personaggi in età più avanzata»26. Il Problema X X X , 1, stabilisce una distinzione fondamentale fra i malinconici patologici e i malinconici per natura. Nei primi un’al­ terazione temporanea e accidentale dell’umore malinconico provoca un eccesso di calore o di freddo, provocando crisi di depressione, fobia, epilessia, furore, abbattimento completo o sovreccitazione. Nei secondi, che possono essere in perfetta salute, la sovrabbon­ danza di bile nera è permanente e naturale. I malinconici per natu­ ra hanno doti eccezionali: sono tristi, ma non necessariamente depressi; angosciati, ma non nevrotici. Sembra quindi che il pessi­ mista non sia un malato, ma un uomo fuori del comune, lucido, anche se non indenne dalle malattie malinconiche; sempre sul filo del pensiero sublime, il minimo passo falso rischia di farlo preci­ pitare negli abissi. L’uomo «normale», colui che presenta un basso livello di bile nera, vive senza porsi domande e trova che la vita sia bella, nonostante tutte le sofferenze. Come giustamente fa notare Julia Kristeva, «con Aristotele la malinconia, equilibrata dal genio, è coestensiva all’inquietudine dell’uomo nell’Essere. Abbiamo visto l’annuncio dell’angoscia heideggeriana come Stimmung del pen­ siero. In maniera analoga Schelling vi scopriva “l’essenza della

24 Problema XXX, 1, 953. L’autore ha u sato la traduzione dal francese appar­ in R. K l ib a n sk y , E. P ä NOFSKY e F. S a x l , Saturne et la mélancolie: études historiques et philosophiques: nature, religion, médecine et art, Gallimard, Parigi 1989, p. 52; trad. it. Saturno e la melanconia: studi di storia della filosofia naturale, reli­ gione, arte, Einaudi, Torino 1983. 25 A k is t o t e l e , Metafisica, I, 2. 26 Id ., Problema XXX, 1, 955a, 3. sa

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libertà umana” , l’indice della “simpatia dell’uomo con la natura” . Quindi il filosofo sarebbe “malinconico per eccesso di umanità”» 27. Il malinconico è dotato di caratteri secondari importanti, in par­ ticolare di forti bisogni sessuali: I malinconici sono per lo più dei lussuriosi, poiché lo slancio d ’amore è della stessa natura del soffio d’aria. Ne è un indizio il membro della vergogna, nel vedere come, nella sua piccolezza, si gonfia cre­ scendo rapidamente. Persino prima di essere in grado di emettere lo sperma, i ragazzi ancora giovani traggono un certo piacere quando, vicino alla pubertà e incapaci di trattenersi, si sfregano le parti ver­ gognose. Ebbene, è chiaro come sia il soffio d ’aria a passare e usci­ re dai canali da cui più tardi il fluido verrà emesso. Allo stesso modo, l’emissione di sperma nel commercio sessuale, e il suo getto, pro­ vengono evidentemente dalla spinta dell’aria28. L a natura aerea del loro umore si traduce anche nell’apparen­ za fisica: «L a maggior parte è magra e con le vene prominenti: la causa non è l’abbondanza di sangue, ma di aria»29. Che i malinconici abbiano personalità fuori dal comune Platone l’aveva già notato, ma a suo parere la causa era sovrannaturale: il malinconico è animato da un «furore» divino, un soffio che gli conferisce una maggiore lucidità. «S e infatti l’essere in preda a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino»30, dichiara Socrate nel Fedro. Come sempre, tuttavia, l’intervento degli dèi è ambiguo e pericoloso. L a malinconia non è lontana dalla follia e dalla mania, caratteristica della mantica, vale a dire del dono profetico, e può portare alla tirannia: «U n uomo diventa un tiranno quando, per natura, per abitudine, o per entram­ be le ragioni, egli è ebbro, sibarita e malinconico»31, osserverà Aulo Gelilo.

27 J. K r ist ev a , Sole nero, cit. 28 Aristotele, Metafisica, cit., 1 ,954a. 29 Ibidem. 30 PLATONE, Tutte le opere, Newton & Compton, Roma 1997; Fedro, 244a, p. 455. 31 P l a t o n e , La Repubblica, Libro Vili.

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Secondo gli astrologi, la cui scienza è all’epoca in piena espan­ sione, l’ambivalenza dei malinconici può essere spiegata con l’in­ fluenza del pianeta Saturno. Saturno è il vecchio dio Cronos, il divoratore di bambini, che Omero e Esiodo presentano come soli­ tario, esiliato in un luogo lontano dopo essere stato detronizzato da suo figlio Zeus; mangiatore di carne viva che vagabonda sotto terra, esso è l’essere mostruoso e sanguinario che Goya ha rappre­ sentato forse meglio di chiunque altro. Tuttavia è anche un dio caritatevole, inventore dell’agricoltura e delle tecniche, che regnò nell’età d ’oro su un’umanità allo stato di natura. L a sua assimila­ zione al pianeta più distante dal Sole, quindi il più freddo, sembra risalga all’epoca ellenistica. I saturnini, come li descrive ad esem­ pio Vettius Valens nel II secolo, sono generalmente inquieti, pes­ simisti e misantropi; hanno gli occhi e i capelli neri, spesso e volen­ tieri sono avari e a volte maleodoranti. Inoltre, a causa della len­ tezza di rivoluzione del pianeta Saturno, sarebbero portati all’in­ dolenza, se non persino all’inerzia, alla pesantezza, da cui il lega­ me con il piombo. Ciò nonostante, a volte essi posseggano le doti necessarie «alla gloria e all’alto rango». Se, nell’insieme, l’influen­ za di Saturno viene considerata nefasta, gli astrologi trovano rapi­ damente il modo di conciliare le contraddizioni delle loro previ­ sioni distinguendo fra le diverse fasi di Saturno: il pianeta può anche essere favorevole, significare la felicità, la ricchezza, lo spi­ rito di profezia, la vocazione di medico, di geometra o di filosofo. I neoplatonici sottolineano gli aspetti positivi di Saturno. Macrobio e Proclo considerano che i pianeti, in posizione inter­ media fra il mondo terrestre e il mondo divino, non possano che avere un’influenza benefica. Saturno corrisponde al pensiero razio­ nale e speculativo; esso simboleggia la contemplazione superiore, il pensiero ispirato, ma produce anche apatia e tristezza. Coloro che soggiacciono all’influenza di Saturno, essenzialmente i malinconi­ ci, sono esseri eccezionali, sia in positivo che in negativo. Nel perio­ do del Rinascimento, Marsilio Ficino ricorderà che la malinconia «è raramente il segno di un carattere o di un destino ordinario; essa indica piuttosto un uomo che vive separato dagli altri, divino o bestia­ le, felice o attanagliato dalla miseria più estrema»^2.32 32

1, 5 .

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MARSILIO F ic in o , De

vita triplici, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1991,

Tutte queste speculazioni mostrano come il mal di vivere fosse ampiamente diffuso nel mondo greco-romano. Coloro che i medi­ ci definiscono «malinconici» non hanno evidentemente niente a che vedere con gli «infelici» dell’epoca: schiavi, contadini, artigiani, troppo occupati a sopravvivere per permettersi stati d ’animo simi­ li. Il mal di vivere rimane un lusso relativo ancora per molto tempo e assume una connotazione positiva agli occhi degli intellettuali, che distinguono la malinconia patologica dal temperamento malin­ conico. L a prima è curabile con diversi rimedi; il secondo è una disposizione naturale che conferisce all’individuo capacità fuori dal comune.

Lucrezio e Seneca, testimoni del m al di vivere romano A partire dal I secolo a.C. il mondo romano viene pervaso da un vero e proprio disagio esistenziale. L e questioni religiose, spes­ so trattate in Grecia, iniziano a minare la grande forza corrosiva dei valori tradizionali, causando la diffusione della noia in una classe urbana ricca e oziosa. Prendiamo l’epicureismo, la filosofia nata dall’angoscia. Epicuro, all’inizio del III secolo a.C., sostiene che l’umanità è sofferenza: «Il mondo intero vive nel dolore; esso è più incline al dolore che a qual­ siasi altro sentimento, non c’è bisogno che ogni essere vivente lo dimostri, poiché la sorte stessa dell’essere superiore non contrad­ dice in alcun modo questa verità universale». Se vogliamo sfuggi­ re a questa angoscia, dobbiamo abbandonare le speranze illusorie diffuse dalle religioni e sfruttare la nostra dimora terrestre dosan­ done sapientemente i piaceri. L a morale epicurea, molto esigente, dà vita a due correnti contrapposte: lo spirito di puro godimento da un lato e la disperazione dall’altro, il cui più brillante rappre­ sentante è Lucrezio (98-55 a.C.). Lucrezio è un «m alinconico» di grande levatura, che corri­ sponde alla definizione del Problema X X X , 1, ma non è un mania­ co depressivo, contrariamente al ritratto che ne ha fatto il dottor Logre in un libro del 1947, L’A nxiété de Lucrèce. Angosciato, ma non squilibrato, poiché l’angoscia è più un segno di lucidità che di follia, egli è testimone del mal di vivere che si diffonde a Roma in questo difficile periodo del I secolo a.C. e che i Romani chiamano

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taedium vitae, la fatica di vivere. In effetti le circostanze sono favo­ revoli alla sua espressione. L e ripetute guerre civili, le violenze, la corruzione e gli omicidi provocano un distacco dai valori tradizio­ nali, mentre l’afflusso delle ricchezze provenienti dallo sfruttamento delle conquiste incoraggia l’ozio e la dissolutezza. Questo conte­ sto, di cui ci sono familiari molti elementi, fa nascere «un clima di depressione generale»33. «Davanti alla visione apocalittica di un mondo che minacciava di crollare in mezzo alle rovine di Roma e al massacro dei suoi cittadini più eminenti, uno scoramento senza limiti si impadronì delle anime e delle menti più illuminate», scri­ ve Yolande Grisé nel suo studio intitolato Le suicide dans la Rome antique. « E così che, delusi e scoraggiati dagli orrori delle prime guerre civili e preoccupati dalla prospettiva di guerre ancora più terribili, alcuni cittadini in cerca di evasione, di oblio e di riposo senza risveglio amaro né un domani temibile sprofondarono in una sorta di noia morbosa e ansiosa»34. Lucrezio fa parte di queste «menti più illuminate». N ato in un’illustre famiglia dalla tradizione consolare, ricco, amico di cele­ brità come Cicerone, Attico o Catullo, egli rifiuta di entrare nel­ l’arena dei combattimenti politici. Preferendo tenersi in disparte e riflettere sulla condizione umana, egli dedica il suo De rerum natu­ ra a un amico, Memmio, politico corrotto, ambizioso e senza scru­ poli. In questa superba testimonianza sulla noia e il mal di vivere che colpiscono i Romani agiati, egli spiega come essi cerchino di fuggire; ma aggiunge che «in questo modo si fugge soltanto se stes­ si, ma non ci si stacca da ciò che si vuole fuggire»35. Se l’uomo prova disgusto per se stesso è perché ignora il senso della propria esistenza e il destino che gli viene riservato dopo la morte. Come un malato che ignori la vera natura del male: se riuscisse a scoprirla pure tra grandi dolori

33 E. CoURBAUD, Horace, sa vie, sa pensée à l’époque des Épitres, Hachette, Parigi 1914, p. 139. 34 Y. G r is é , Le suicide dans la Rome antique, Les Belles Lettres, Parigi 1983, p. 70. 35 LUCREZIO, De rerum natura, L ib ro III, Newton & Compton, Roma 2000; 1068-1069, p. 191.

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riuscirebbe a curarsi e a vivere in m odo migliore. Questo è un problema di eterno e non solo di ore, di un futuro infinito, nel quale qualsiasi mortale trascorrerà tutto il tempo che segue la morte36.

Per dare un senso alla propria vita, l’uomo si è inventato dèi, miti, inferi, ma ora trema davanti alle sue creazioni; tutto è ora per lui oggetto d ’angoscia: paura della morte, degli dèi, delle punizio­ ni, della sofferenza, della malattia, dei tormenti della coscienza. Eppure Epicuro ha tentato di illuminarlo mostrando quale men­ zogna fossero gli dèi. Il De rerum natura vuole essere un libro di consolazione: spiegando «la natura delle cose», Lucrezio mira a rassicurare i suoi contemporanei. Dimenticate i miti inventati dai sacerdoti, consiglia; gli uomini non sono che effimeri insiemi di atomi che vagano senza scopo in un universo indifferente. Non bisogna aver paura della morte, poiché l’aldilà non esiste; anzi, bisogna accoglierla, la morte. Cosa c’è di più ridicolo, infatti, del cercare di prolungare di qualche anno una vita inutile e insensata? Anche se prolungassimo la vita oltre il dovuto mai ridurremmo quel tempo che appartiene alla morte: non si può restar morti per un tempo più breve. Potresti allungare la vita anche di molti secoli ma la morte, comunque, resterà sempre eterna: né sarà meno lunga - anche se oggi soltanto chiudessimo gli occhi - della morte di un altro che sia già m orto in passato, anche in tempi remoti37.

Secondo una tradizione consolidata, Lucrezio si sarebbe suici­ dato all’età di quarantatre anni. Tuttavia le sue idee non possono spiegarsi unicamente riferendosi all’epoca tormentata. I periodi di crisi non sono che un catalizzatore che favorisce la presa di coscien­ za dell’assurdità del mondo, il quale non è meno assurdo nei perio­ di di equilibrio o di apogeo delle civiltà, ma il sistema di valori esi­ stente, anche se effimero, fornisce un’illusione di spiegazione che soddisfa i più. Quando il decoro ufficiale dei valori civici, politici

De rerum natura, cit., 1070-1074, pp. 192-193. 37 Ivi, 1087-1094, p. 193.

36 LUCREZIO,

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e religiosi vacilla, i più lucidi si ritrovano di fronte al nulla dell’e­ sistenza: «Accogli questo dolore, poiché ti insegnerà molto», con­ siglia Ovidio. L a confisca del potere politico da parte dei dittatori e degli impe­ ratori accentuerà le frustrazioni. Provando un disagio esistenziale, alcuni si rivolgono alla riflessione filosofica pessimistica, mentre altri cercano di ingannare la noia con viaggi o svariati altri piaceri. L’opera di Seneca ne è testimone: nella Roma del I secolo, il taedium vitae ha la meglio sui patrizi al punto da diventare un vero e proprio pro­ blema sociale. Lo sviluppo dello stoicismo, a partire dalle guerre civi­ li e dal principato, è in se stesso un segno di pessimismo che si diffonde nelle élite colte. Fissare come ideale di condotta l’adesio­ ne all’ordine del mondo, mentre proprio quest’ordine sembra man­ care, non significa forse riconoscere l’inutilità di qualsiasi sforzo volto a cambiare le cose? Seneca afferma: Non giungo ancora a dire che è più fortunato chi cesserà ben presto di vivere. [...] Di questo tempo quanta parte è occupata dalle lacrime, dalle angosce? Quanta dalla morte prima che sopraggiunga pur desiderata, quanta dalla malattia, dalla paura? E gli anni dell’inesperienza e delle ste­ rili attività quanta ne consumano? Metà di tutto questo trascorre nel sonno. Aggiungi le fatiche, i lutti, i pericoli, e capirai che anche in un’e­ sistenza lunghissima è veramente poca la parte che si vive. [...] La vita non è né un bene né un male, è un luogo dove esistono il bene e il male38.

Non lamentiamoci però della brevità di questa vita: «N on è poco il tempo a nostra disposizione, è molto invece quello che per­ diam o»39. Per il suo amico Serenus che si lamenta di non riuscire a stare fermo un minuto e di non sentirsi soddisfatto in alcun luogo, Seneca scrive un trattato, L a serenità dello spirito, in cui osserva che que­ sta fatica di vivere che egli chiama fatica di se stessi, è divenuta molto comune. L a descrizione che ne fa ricorda quella di Lucrezio:

38 SENECA, Lettere morali a Lucilio, voi. II, Mondadori, Milano 1995; Lettera 99,10-12, p. 803. 39 SENECA, La brevità della vita, in La brevità della vita, La serenità dello spiri­ to, Gribaudo Editore, Cavallermaggiore 1989,1, 3, p. 81.

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Sono tutti nella stessa situazione, sia quelli afflitti dall’incostanza, dalla noia e dal cambiare continuamente idea - per essi è sempre preferibile ciò che hanno lasciato - sia quelli che marciscono nell’indolenza. [...] E tutto ciò risulta più grave quando, disgustati da qualche cocente insuccesso, ci si rifugia nella vita privata, nella solitudine degli studi - cose insopportabi­ li per un animo tutto preso dalla vita politica, amante dell’azione e irre­ quieto per natura, che in se stesso, si capisce, trova poche soddisfazioni, L...] Di qui ecco la ben nota noia, la scontentezza di sé, l’irrequietezza di uno spirito che non trova pace da nessuna parte, e l’amara e penosa sop­ portazione dell’inattività, soprattutto quando rincresce ammetterne le cause e la vergogna obbliga a tenersi dentro la pena, e la ambizioni, come impri­ gionate in uno spazio ristretto e senza sbocco, si soffocano da sole. Di qui la tristezza, l’abbattimento e le mille perplessità dell’animo indeciso, tenu­ to in ansia dalle speranze che si sono appena concepite e reso triste da quel­ le che sono state deluse. Di qui lo stato d’animo di chi odia la tranquillità del suo ritiro e si lamenta di non avere niente da fare [...]. Si passa da un viaggio all’altro e di spettacolo in spettacolo. Come dice Lucrezio: «Così cia­ scuno cerca sempre di sfuggire a se stesso». Ma con quale vantaggio, se non ci riesce? Sta sempre dietro e addosso a se stesso, come un compagno estre­ mamente fastidioso [...]. Certuni da ciò sono stati spinti al suicidio perché, pur cambiando continuamente, ricadevano negli stessi propositi e non ave­ vano lasciato spazio a nessuna novità: cominciò a disgustarli la vita e persi­ no il mondo, ed ecco affacciarsi la tipica domanda, frutto del piacere delu­ so: «Sempre le stesse cose! E fino a quando?»40.

Vana agitazione e abbattimento, disgusto di sé e del mondo: i sin­ tomi sono proprio quelli della depressione. Per combatterla, Seneca consiglia a Serenus di trovare un’occupazione che lo motivi, anche se per farlo bisognerebbe almeno credere che valga la pena di devol­ vere le proprie energie all’umanità. Ora, il taedium vitae non è solo scontentezza di sé, ma anche disgusto per gli altri: «N on basta allon­ tanare le cause personali di tristezza: a volte siamo colti dalla misan­ tropia [...]. Allora l’anima si perde nelle tenebre e una cupa notte la circonda, come se si trattasse di virtù che non le è permesso di spe­ rare che gli altri abbiano, né vantaggioso di avere in se stessa»41. Noia, disgusto, nausea: i testi di Seneca illustrano il carattere atemporale del taedium vitae. Continui a cambiare residenza, scri­

40 SENECA, La serenità dello spirito, cit., II, 6-15, pp. 17-21. 41 Ibidem.

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ve a Lucilio, a causa della «tristezza e il tormento del tuo cuore»; credi che i viaggi serviranno a distrarti, ma in realtà «ti chiedi per­ ché pur vagabondando da un luogo ad un altro non ti senti meglio»42. La vita è noiosa, ma paradossalmente si ha paura di perderla. Temiamo la vecchiaia, poiché «chi è condotto alla morte dalla vec­ chiezza, non ha alcun motivo di speranza». «N on volle vivere, chi non vuole morire. Infatti la vita ci è stata concessa colla limitazio­ ne della morte»43. Il rifiuto della morte non è forse un rifiuto della vita, una vita che ci è stata imposta e fatta passare come un privi­ legio e la cui sola certezza è che conduce alla morte? La paura della morte è un elemento fondamentale di questo stato d ’animo. Tale intuizione conduce Seneca ad analizzare un’altra componente del male di vivere: la presa di coscienza del tempo che passa. «Prima il tempo non mi pareva così veloce: ora mi sembra che esso passi con straordinaria rapidità, sia perché sento avvicinarsi la fine, sia perché comincio a porre attenzione e a fare il calcolo degli anni per­ duti», scrive nella Lettera 49. Questa nuova preoccupazione diven­ terà un tema classico nelle espressioni del mal di vivere.

I l taedium vitae come ragione legittima di suicidio Seneca osserva che il disgusto per la vita è all’origine di nume­ rosi suicidi in tutte le categorie sociali: «N on pensare che solo i gran­ di uomini abbiano avuto la forza di spezzare le catene della schia­ vitù umana; Catone strappò con le sue mani l’anima che non era riu­ scito a gittar fuori con la spada; non credere che possa farlo lui solo: uomini di infima condizione sociale si sono messi in salvo con straor­ dinario impeto e, non potendo morire a loro agio e nemmeno sce­ gliere il mezzo che volevano per darsi la morte, hanno afferrato quel­ lo che capitava sotto mano e con la loro violenza hanno tramutato in armi oggetti di per sé innocui»44.

42 SENECA, Lettere a Lucilio, UTET, Torino 1969; Libro III, Lettera 2 8 , 1 , 2, p. 179. 43 Id ., Lettera 30, 10, p. 191. 44 Id ., Libro Vili, Lettera 70.

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Tutti i mezzi sono buoni, compreso quello che consiste nel soffo­ carsi con la spugna per asciugare le parti intime ad uso collettivo nei bagni pubblici, come fece un gladiatore germanico: «Ognuno giudichi come crede l’azione di quest’uomo indomito, ma sia chia­ ro: alla schiavitù più pulita è preferibile la morte più sozza»45. Seneca cita anche altri esempi che approva. Se la vita diventa trop­ po dolorosa, l’uomo ha almeno la libertà di lasciarla: «Ti piace vive­ re? Vivi; se no, puoi tornare da dove sei venuto»46, proclama Seneca, pur deplorando il fatto che molti si tolgano la vita un po’ troppo alla leggera: «L ’uomo coraggioso e saggio non deve fuggire dalla vita, ma uscirne. Si eviti anzitutto quel sentimento che si è impa­ dronito di molti: il desiderio anelo di morire»47. Nel mondo greco-romano la morte volontaria è un’annosa que­ stione. Aristotele enumera le argomentazioni contro il suicidio, a suo parere atto di viltà di fronte alle proprie responsabilità, un’in­ giustizia perpetrata contro se stessi; le vicissitudini dell’esistenza vanno affrontate a qualunque costo, poiché ne va del buon fun­ zionamento della città. Anche i pitagorici si oppongono al suicidio, ma per ragioni completamente diverse: l’anima deve espiare fino alla fine poiché è caduta in un corpo in seguito a una sozzura ori­ ginaria; l’associazione dell’anima e del corpo è basata su rapporti numerici la cui armonia verrebbe spezzata dal suicidio. Secondo Eraclito, questa bella teoria non avrebbe comunque impedito a Pitagora di lasciarsi morire di fame per tedio di vivere. Platone è molto più esitante in proposito. Nelle Leggi egli dichia­ ra che bisogna rifiutare la sepoltura pubblica di coloro che si sui­ cidano, salvo in caso di malattia molto dolorosa e incurabile, di vita troppo miserabile e di condanna (Socrate). Nel Fedone il suo imba­ razzo è palese: pur affermando che il suicidio non è forse auspica­ bile nella città, Socrate ritiene che la morte sia talmente desidera­ bile che il filosofo non possa che aspirarvi, la sua «condanna» del suicidio manca pertanto di convinzione: «In base a questo, dun­ que, non è precetto irragionevole che nessuno debba uccidere se

45 SENECA, Lettere a Lucilio, cit. 46 Ibidem. 47 Id ., Lettere morali a Lucilio, cit., voi. I, Libro III, Lettera 24, p. 133.

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stesso prima che Dio non gli mandi un perentorio comando, come ha fatto ora con noi»48. Catone avrebbe letto due volte il Fedone prima di suicidarsi, fatto che può essere interpretato sia come una mancanza di chiarezza tale da richiedere una rilettura, sia come man­ canza di ammirazione. I neoplatonici della tarda Antichità saran­ no invece feroci avversari della morte volontaria: Plotino, Porfirio e Microbio dichiarano che, poiché il fine della vita è purificare l’a­ nima, 1 unione con il corpo non deve essere spezzata violentemen­ te prima della scadenza fissata dagli dèi. I detrattori del suicidio subordinano l’individuo a un ordine sovrannaturale e agli interessi della collettività. I sostenitori del libero suicidio pongono l’individuo come valore supremo, essere autonomo e Ubero, dotato del potere di decidere da solo della pro­ pria vita e della propria morte. All’interno di questo schema gene­ rale, ogni tipo di sensibilità accentua tale o talaltro aspetto. I cini­ ci professano un distacco completo nei confronti della vita, se que­ sta non può essere condotta secondo ragione: Antistene ritiene che coloro che non siano dotati di un’intelligenza sufficiente farebbe­ ro meglio a impiccarsi. Il suo discepolo Diogene spinge all’estre­ mo questo principio: per vivere bene occorre una ragione retta, oppure una corda. GU Epicurei ritengono che nel caso la vita diven­ ti insopportabile, sia saggio riflettere e andarsene in silenzio e senza precipitazione, «come se si uscisse da una stanza piena di fumo». Anche gh stoici suggeriscono un suicidio ponderato quando la ragione ci mostra che si tratta della soluzione più degna per confor­ marci all’ordine delle cose, o quando non possiamo più seguire la linea di condotta che ci eravamo prefissati. L a vita e la morte sono indifferenti, poiché tutto è travolto dall’universo panteista. «Il sag­ gio può a ragione dare la vita per la sua patria e i suoi amici, e anco­ ra uccidersi se soffre di dolori atroci, se ha perduto un arto o se ha una malattia incurabile». Così Diogene Laerzio riassume il pensie­ ro stoico sulla morte volontaria, illustrato dal suicida Zenone all’età di novantotto anni: «U scendo dalla sua scuola cadde e si ruppe un dito ma, battendo la mano per terra disse, rivolgendosi a Niobe: “Arrivo. Perché mi chiami?” , dopodiché si strangolò e morì». Che il suicidio sia un diritto fondamentale della persona umana lo scri­

48 P l a t o n e ,

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Fedone, Editrice La Scuola, Brescia 1984, VI, 62c.

ve anche Seneca a Lucilio: alcuni sostengono che occorra attende­ re il termine che la natura ha prescritto. Ma chi sostiene tale pen­ siero non si rende conto di precludersi la libertà. Questi dibattiti riguardano le élite colte, mentre nelle classi popolari il suicidio è circondato da un timore superstizioso. Diverse testimonianze indicano come ad Atene, nel IV secolo a.C., il corpo dei morti suicidi subisse un trattamento particolare. Secondo Aristotele l’uomo che si dà la morte viene colpito dal disonore, poiché commette un’ingiustizia contro la città4950.Egli utilizza qui il termine atim ia, il cui significato è abitualmente riconducibile alla perdita di diritti civici. Alla stessa epoca, il retore Eschine procla­ ma: «In caso di suicidio, seppelliamo lontano dal corpo la mano che causò la morte»59. Plutarco, nella sua biografia di Temistocle, evoca un luogo nel distretto ateniese di Melite, dove «gli addetti alle esecuzioni gettano i corpi dei condannati a morte e portano le vesti e i cappi degli impiccati e dei giustiziati»51. Nell’isola egea di Kos una legge del III secolo a.C. dispone che una maledizione col­ pisca le vesti e i cappi che siano serviti a un suicidio52. L a stessa ripugnanza esisteva certamente nel mondo ebraico. Flavio G iuseppe scrive: «Presso di noi è stabilito che i suicidi non possono aver sepoltura prima del calar del sole, e ciò nonostante si ritenga un dovere quello di seppellire anche i nem ici»53. Il Semahot, uno dei libri che commentano la Legge che cita i pareri di molteplici rabbini, conclude che in caso di suicidio «la regola generale è che il pubblico deve partecipare a tutto quanto rappre­ senti un segno di rispetto per i viventi; non deve partecipare a quanto rappresenti un segno di rispetto per la morte»54. Il Talmud contiene invece tradizioni diverse e contraddittorie.

Etica Nicomachea, Bur, Milano 1986, voi. I, V, 3. Contro Ctesifonte, Mondadori, Milano 1995, § 245, pag. 131. 51 P lu t a r c o , Vite, UTET, Torino 1992, voi. I, p. 413. 52 F. SOKOLOWSKI (a cura di), Lots sacrées des cités grecques, De Boccard, Parigi 1969, p. 267. 53 F lav io G iu s e p p e , La guerra giudaica, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1982, voi. 1,111,376-377. 54 The Tractate «Mourning» (Semahot). Regulations Relating to Death, Burial and Mourning, Yale University Press, Londra 1966. 49 ARISTOTELE, 50 ESCHINE,

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Nel mondo romano alcuni libri liturgici ordinano che il corpo di colui che si è impiccato venga «gettato senza sepoltura». Plinio narra che Tarquinio faceva crocifiggere i cadaveri dei suicidi. La maledizione si estende alle vigne vicine al luogo dell’impiccagione: il vino che verrà prodotto da tali vigneti non dovrà essere offerto agli dèi55. Il collegio funerario di Sarsina, in Umbria, rifiuta i suoi servizi a chi si uccide in maniera degradante, mentre quello di Lavinio è più draconiano: «Chiunque, per una qualunque ragione, abbia attentato alla propria vita, non ha diritto alla ratio funebris>Jb. L’immagine del suicidio nell’Antichità sembra dunque abba­ stanza confusa. Il suicida è inquietante, soprattutto l’impiccato, poiché si teme che, con il suo atto, disturbi gli altri morti e inqui­ ni i luoghi. Ma le pratiche discriminatorie nei confronti del suo cada­ vere non sono generalizzate. L a filosofia e la morale comune non condannano sistematicamente il fatto di uccidersi, la cui respon­ sabilità è a volte attribuita alle influenze astrologiche: quando Marte è opposto al Sole o alla Luna, scrive Tolomeo, questa costellazio­ ne «causa morte durante lotte civili o in guerra a opera di nemici, o per suicidio»57. Vettius Valens ritiene persino che gli astri deter­ minino le modalità di suicidio. Neanche il mondo romano condanna del tutto la morte volon­ taria, che ha fatto la gloria dei grandi uomini che incarnano i valo­ ri supremi: Catone, Bruto, Cassio, Caio Gracco, Antonio, Varo, Seneca, senza parlare della giovane Lucrezia58. Nessuna legislazio­ ne rifiuta sistematicamente il suicidio. L e leggi romane, elaborate nel corso dei secoli e così come le troviamo compilate nei codici della tarda Antichità, il Corpus ju ris e il Codex di Teodosio, sono molto esplicite: la preoccupazione del legislatore è di evitare che un individuo sfugga alla confisca dei beni prevenendo la sua con­ danna con un testamento seguito da suicidio, poiché tali beni pas-

A.J.L. Va n H o o f f , From Autothanasia to Suicide: Self-killing in Classical Antiquity, Routledge, Londra-New York 1990, pp. 164-165. 56 Ivi, p. 166. 57 T o l o m e o , Le previsioni astrologiche (Tetrabiblos), IV, 9, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1985, p. 339. 58 G. MlNOIS, Histoire iu suiäde, Fayard, Parigi 1995, pp. 61-74 e M . G r if f in , Philosophy, Cato, and Roman Suicide, «Greece and Rome», 33, 1986.

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serebbero ai suoi eredi, a detrimento del fisco. Tutte le leggi rico­ noscono la legittimità del suicidio provocato dal dolore, dalla fol­ lia, dalla vergogna, dall’ostentazione (iactatio), dal disgusto e dalla fatica di vivere (taedium vitae). Un rescritto di Antonino il Pio risa­ lente al II secolo prevede quanto segue: «Se viene provato che tuo fratello o tuo padre, non accusato di alcun crimine, si è impiccato per sfuggire a un qualche dolore fisico o al disgusto per la vita, oppu­ re per rabbia o follia o altre circostanze, allora i suoi beni vanno ai suoi eredi, che abbia redatto o meno un testamento»59. L o stoici­ smo è divenuto legge, consacrando la legittimità del suicidio a causa della fatica di vivere, riconoscenza indiretta della banalità del tae­ dium vitae nella società romana. Due elementi confermano che per i Romani il diritto al suici­ dio per taedium vitae è da considerare un diritto fondamentale. Da un lato, nell’esercito, il tentativo di suicidio viene assimilato alla diserzione e punito con la morte, ma è giudicato scusabile e puni­ to con una semplice destituzione infamante se causato da «un dolo­ re intollerabile, o da una malattia, o da qualche lutto o per un’al­ tra causa»60. Tale altra causa, precisa Adriano, può essere il taedium vitae, il furor o il pudor. Solo gli schiavi non possono godere di que­ sto diritto. Il suicidio causato dalla fatica di vivere è il segno del­ l’uomo libero. D all’altro lato, a partire dal III secolo, mentre il potere impe­ riale evolve verso il dispotismo, la legislazione sul suicidio si ina­ sprisce, ma la fatica di vivere resta l’ultimo motivo legittimo per con­ gedarsi dall’esistenza. Un testo del giurista Marzio (inizio VI seco­ lo) condanna senza ambiguità il suicidio «senza ragione» (sine causa): colui che tenta di uccidersi «deve essere punito, a meno che non sia stato condotto a tale atto dalla fatica di vivere o dall’impa­ zienza causata da qualche dolore. È assolutamente giusto che debba essere punito se ha attentato a se stesso senza ragione»61. Nei fatti, poi, è davvero il mal di vivere che porta a togliersi la vita? Difficile rispondere a questa domanda, poiché andiamo a scontrarci con la mancanza di statistiche sulle cause della morta­

59 Codex Juris, libro 9, titolo 50, § 1. 60 Digest, 48, 19, § 38. 61 Ivi, p. 23.

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lità nell’Antichità, oltre che con l’impossibilità di determinare le ragioni esatte dei suicidi e soprattutto dei casi di fatica di vivere. Il suicida, infatti, non è forse sempre colpito dalla fatica di vivere? Pur tenendo ben presenti questi limiti, tentiamo di stilare un bilan­ cio. Nella sua notevole opera From Autothanasia to Suicide. Self­ killing in Classical Antiquity 62, Anton Van H ooff ha studiato circa 960 casi di suicidio nel mondo grecoromano e ha dimostrato come tutte le classi ne fossero coinvolte, dagli schiavi ai patrizi più ric­ chi. Secondo le parole di Seneca, tutti i mezzi sono buoni per met­ tere fine ai propri giorni: il 4% si uccide indirettamente in segui­ to a un atto di provocazione; il 6% si uccide con il fuoco, l’8% smet­ tendo di alimentarsi (inedia), il 10% con il veleno (dalla cicuta all oppio), il 16% gettandosi nel vuoto, il 18% per impiccagione (proporzione certamente molto più elevata fra il popolino e gli schiavi), il 40% si uccide con il pugnale o con la spada, strumen­ to considerato nobile63. Secondo lo stesso studio, su 923 casi in cui sono indicati i motivi del suicidio, più della metà (54%) sono dovu­ ti alla vergogna o alla disperazione nel cercare scampo (pudor e desperatio salutis); il dolor rappresenta solo il 13 % dei casi, Yimpatientia il 5 % e il taedium vitae il 2 % . Se aggiungiamo queste ulti­ me tre cause, possiamo considerare che il male di vivere sia all’o­ rigine di un solo suicidio su cinque. I giovani e gli anziani sono i più colpiti. Per quanto riguarda le donne, Ippocrate spiega le loro tendenze suicide con un cattivo flus­ so sanguigno: accumulandosi, il sangue delle mestruazioni può esercitare una pressione sugli organi vitali e quindi diffondere nel corpo un umore cupo. L’unica soluzione è il matrimonio. «N ei casi in cui le giovani soffrano di tali affezioni, consiglio loro di vivere con degli uomini il prima possibile»64. Altri autori avanzano una spiegazione più verosimile: le giovani sono più soggette alla malin­ conia suicida poiché vengono confinate in casa e vengono loro vie­ tati i divertimenti: «N on ci è permesso vedere nemmeno la luce del giorno, siamo tenute nascoste nelle nostre stanze, in preda ai nostri pensieri»65. Quanto ai giovani, Aristotele ritiene che si impicchino 62 V a n H o o f f

63 Ivi, p. 23. 64 Ibidem. 65 Ibidem.

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A J.L ., From Autothanasia to Suicide, cit.

con maggior frequenza rispetto agli adulti poiché non hanno ancora acquisito il «calore vitale» che è la fonte della forza di carattere, tut(avia si suicidano raramente a causa del taedium vitae: secondo Anton Van Hooff, infatti, tale causa riguarderebbe solo l’l% di essi66. La proporzione è invece molto più elevata fra gli anziani: Γ 11 % si suicida per taedium vitae , l’l l % per dolor, il 23% per impatientia. Quasi la metà dei suicidi sono dovuti quindi al mal di vivere a livello generale. Non stupiamocene: gli Antichi non cercavano infat­ ti di presentare la vecchiaia sotto una buona luce, solo Cicerone tentò di riabilitarla nel suo De senectute. Secondo Diogene Laerzio la maggior parte dei filosofi greci, raggiunta una certa età, avreb­ be m esso fine ai propri giorni: Speusippo a sessantotto anni, Lpicureo a settantuno, Zenone lo stoico, Cleante e Anassagora a settantadue, Diogene a ottanta, Pitagora a ottantadue. Questi esem­ pi prestigiosi diffondono l’idea che il suicidio sia la realizzazione della vita da filosofo. Luciano, per una volta finalmente serio, rac­ conta infatti la fine del suo maestro Demonax all’età di cento anni: «Quando capì che non poteva più occuparsi di se stesso, citò a colo­ ro che erano con lui i versi che recitano gli araldi dei giochi: “I gio­ chi sono terminati, i premi sono stati assegnati; amici, è tempo di andare” . Quindi, astenendosi dal mangiare, lasciò la vita con lo stesso buon umore che lo aveva sempre contraddistinto»67. Gli epigrammi ellenistici riportano numerosi suicidi di perso­ ne anziane. Nel mondo latino alcune iscrizioni funerarie indicano a volte che il defunto, anziano, si era ucciso per taedium vitae. Una delle più esplicite è quella di un uomo di lettere, Marco Pomponio Bassulo, intorno al 120 d.C., che spiega sulla sua tomba: «Affranto dalle angosce di uno spirito oppresso e dai molti dolori del corpo, che mi fecero provare disgusto per entrambi, mi sono dato la morte che desideravo»68. Questo esempio è conforme alla concezione stoica enunciata da Seneca nella sua Lettera 58 a Lucilio·. «N on attaccherò me stesso spinto di mia mano, spinto dal dolore: morire in questo modo significa essere sconfitti. Se tuttavia mi sarò reso conto che dovrò sopportarlo per sempre, me ne andrò non a causa della soffe­ 66 VAN H o o f f A .J.L .,

From Autothanasia to Suicide, cit.

67 Ivi, p. 36. ω B e r l a g e J ., Ziekten en sterfgevallen in de brieven Van Plinius de Jongere, «I lermeneus», 9, 1938, pp. 66-73.

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renza di per se stessa, ma perché essa mi impedirà tutto ciò che rap­ presenta sostanza e ragione di vita. Debole e pavido è colui che muore per il dolore, ma stolto colui che vive allo scopo di soffrire»^. L insegnamento di questa lezione verrà raccolto da molti anziani patri­ zi romani della line del I secolo e dell’inizio del IL P linio il Giovane riporta nelle sue lettere diversi esempi di vecchi malati che hanno deci­ so di lasciare degnamente questa vita. Uno dei suoi amici, dell’età di sessantasette anni, paralizzato dalla gotta, sofferente « i dolori più incredibili e più immeritati», si è appena dato la morte, gesto che, nota Plinio, «solleva la mia ammirazione di fronte alla grandezza della sua anima». In un’altra lettera egli evoca Tito Aristo, che «soppesò deli­ beratamente le ragioni per vivere e per morire», dopodiché si diede la morte. Egli cita anche il caso di Arria, una Romana che, per incoraggiare suo marito vecchio e malato a suicidarsi, gli diede l’esempio uccidendosi davanti a lui. O ancora la commovente storia di una vec­ chia coppia di umili cittadini: poiché l’uomo era affetto da un’ulcera incurabile, la consorte «gli consigliò di mettere fine ai suoi giorni e, accompagnandolo, gli mostrò la via con il suo esempio trasfor­ mandosi nel mezzo della sua morte poiché, attaccandosi a suo marito, si gettò nel lago». Strabone ed Eliano non esitano a presentare il suicidio degli anziani come un sacrificio benefico per la comu­ nità evocando l’usanza di Ceos, un’isola in cui i più anziani si riu­ niscono periodicamente per bere «la cicuta, con una ghirlanda sulla testa, comprendendo che sono diventati inutili per la patria quan­ do le loro facoltà mentali iniziano a venire meno». Il numero degli uomini che si uccide per taedium vitae e per impatientia è tre volte superiore rispetto alle donne, tuttavia sono rari i casi di suicidio conosciuti negli adulti di mezza età. Tacito menziona Lucio Arrunzio, implicato in un processo per complicità con Albucilla, avversario di Tiberio: egli avrebbe potuto essere risparmiato, ma dichiarò che «era vissuto abbastanza», e «si aperse le vene»6970. Cedilo Cornuto si uccide nelle stesse circostanze71. Svetonio, dal canto suo, cita Cneio Lentulo, spinto al fastidio per la vita (ad fastidium vitae) da Tiberio. In tutti questi casi cdebri riportati dagli storici romani, ϋ

69 Seneca, Lettere morali a Lucilio, cit., voi. II, Lettera 58, 36, p. 299. 70 T a c it o , Annali, VI, 48, 1, 3, UTET, Torino 1969, p. 559. 71 Ivi, IV, 28, 2, p. 423.

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Medium vitae è determinato da circostanze particolari: accuse ingiu­ ste, malattie dolorose, lutti. Ma Luciano, consapevole più di chiun­ que altro dell’assurdità fondamentale del mondo, per il quale la vita c una commedia grottesca in cui il caso distribuisce i ruoli creando così gli schiavi e i padroni, i malati e i sani, i belli e i brutti, non è ten­ tato dall’idea di porre fine ai suoi giorni e raccomanda una saggezza disincantata: «Passare attraverso la maggior parte degli eventi riden­ do senza prendere nulla sul serio». Il pessimismo integrale può sfo­ ciare nella risata. In fin dei conti, osserva Yolande Grisé, «il suicidio per taedium vitae come descritto e analizzato da Lucrezio e Seneca era un caso più eccezionale di quanto si potesse credere: nella mag­ gior parte dei casi citati dagli Antichi il suicidio mirava ad uscire da una situazione particolare che paralizzava la voglia e il desiderio di vivere più che a riferirsi al disgusto per la vita stessa»72.

La malinconia come tara psicologica e morale Fino al I secolo a.C. la malinconia, al di fuori delle sue forme patologiche, ha m antenuto l’aura prestigiosa conferitale dal Problema X XX , 1 aristotelico: essa è la prerogativa dei grandi uomi­ ni. Per gli stoici è certo una malattia, ma una malattia considerata «come un privilegio negativo del saggio»73. Alcuni la rendono per­ sino una normale disposizione dell’uomo: «Sono un uomo, ecco una buona ragione per sentirmi triste», constatava Menandro. Nel I secolo a.C. il medico Asclepiade di Bitinia, trasferitosi a Roma, vede già negli stati depressivi un inizio di disordine mentale: il furo­ re (phrenesis) e la tristezza (tristizia) sono forme croniche di irre­ golarità dell’immaginazione che provocano tristezza o felicità. Le sue cure sono anzitutto di ordine psicologico: viaggi, musica, con­ versazioni gradevoli, ma anche bagni, massaggi, esercizio fisico moderato: si tratta della stessa terapia suggerita nel I secolo d.C. da Menodoto di Nicomedia, il quale raccomanda anche l’assunzione di elleboro, che ha fama di sviluppare l’intelligenza.

72 Y. G r is é , Le suicide..., cit., pp. 72-73. 75 R. K l ib a n sk y , E. P a n o f s k y e E S a x l , Saturno e la melanconia, cit.

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Nel II secolo l’immagine della malinconia è già decisamente appannata. Aulo Gelilo, nelle sue N otti attiche, si prende gioco di ciò che considera come un’affettazione alla moda, tipica degli intel­ lettuali: «Va detto però che questo stato depressivo chiamato “atra­ bile non colpisce i soggetti meschini o ignobili; è una malattia a suo modo eroica, che dà il coraggio di dire la verità, senza riguar­ do né delle circostanze, né della m isura»74. Il medico Areteo di Cappadocia fa una descrizione della malinconia che assomiglia molto a ciò che noi definiamo depressione ansiosa: «Il malinconi­ co si isola; ha paura di essere perseguitato e imprigionato; è tor­ mentato dalle superstizioni; è terrorizzato; crede che i suoi fanta­ smi siano reali; lamenta mali immaginari; maledice la vita e desi­ dera la morte. Egli si sveglia bruscamente e si sente molto affati­ cato. In alcuni casi, la depressione sembra essere quasi una mania: i pazienti sono sempre ossessionati dalla stessa idea e possono esse­ re al contempo depressi e pieni di energia»75. La malinconia è la malattia degli anziani, dei grassi, dei deboli, dei tristi, dei solitari, ^§§iunge Areteo, che pensa di poter aiutare i pazienti descrivendo il loro male e consigliando loro il consumo di more e di pere, oltre che un p o ’ di sesso. Alla stessa epoca un altro medico, Archigene da Apamea, vede nella malinconia anche una specie di malattia maniacale, un inizio di follia, con paure irragionevoli, visioni, ten­ denza al suicidio, alla misantropia, all’avarizia, alla golosità; il malin­ conico è magro; ha la pelle scura e l’alito pesante. Nel III secolo un trattato erroneamente attribuito a Sorano d ’Efeso definisce il malinconico «furbo, avido, depresso, misantropo e timido»76. Siamo insensibilmente passati dalla medicina alla morale; il mal di vivere è divenuto una tara sociale oltre che una grave deficienza psicofi­ siologica. Tutto è pronto per la demonizzazione della malinconia e la sua assimilazione al peccato.

Notti attiche, II, VII, 4, UTET, Torino 1992, p. 1307. 5 Citato da A . SOLOMON, The noonday demon: an atlas of depression, Scribner, New York 2001; trad, it., Il demone di mezzogiorno: depressione: la storia, la scien­ za, le cure, Mondadori, Milano 2002. 76 R. K l ib a n sk y , E. P a n OFSKY e E S a x l , Saturno e la melanconia, cit., p. 62. 74 A u l o G e l l i o ,

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Capitolo secondo La demonizzazione del mal di vivere: /'acedia medievale

Rivolto verso la vita futura, l’aldilà eterno, il cristianesimo è naturalmente portato a concepire l’esistenza terrestre come una prova purificatrice, una «valle di lacrime» la cui traversata ci con­ durrà alla felicità eterna. L a vita è il tempo dell’esilio, spiega San Paolo1; la morte segna la fine di tutte le prove e il buon cristiano non può che augurarsi che arrivi presto. Questo mondo è un mondo di perdizione, votato al demonio, dove lo spirito deve condurre un’eterna battaglia contro la carne, considerazione che porta Origene ad affermare che dovremmo piangere il giorno del nostro compleanno. Tuttavia la disperazione diventa repentinamente una colpa morale il cui responsabile designato è il diavolo il quale, sin dal peccato originale, turba la vita degli uomini. L a Chiesa dunque combatterà questo mal di vivere demonizzato che gli autori spiri­ tuali chiamano acedia.

Nascita dell’accidia negli ambienti eremitici (Sant’Evagrio Vomico e San Giovanni Cassiano) L’accidia sem bra com piere una vera e propria strage negli ambienti cenobitici e monastici del IV e V secolo. Evagrio Pontico (345-399), un cenobita nato nel Ponto e ritiratosi per sedici anni nel deserto egiziano, attira l’attenzione su questo strano malessere 12 Cor., 5,8.

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che coglie il solitario verso mezzogiorno. L’asceta, indebolito dalle privazioni, sfinito dal sole a picco, cade nel più completo stato di abbattimento; viene colto dal disgusto, dalla nausea; tutto gli sem­ bra immobile, persino l’implacabile sole che sembra fermarsi; la sua mente inizia a divagare; egli è assalito dalle visioni e attende la morte come una liberazione. Questa immensa tristezza e il lan­ guore provato dal solitario si accompagnano a una noia profonda, nel senso di inodiare (avere in odio): collera contro questo luogo, contro la decisione di esservici recato, contro coloro che hanno scelto l’esistenza stessa. «Alla fine, scrive Sant’Evagrio, [l’accidio­ so] scivola in un sonno poco profondo, poiché la fame risveglia la sua anima e la fa sprofondare nuovamente nelle sue ossessioni». Le tentazioni infatti si moltiplicano, in particolare i pensieri erotici. Secondo un suo discepolo, Sant’Evagrio aveva preso la via del deserto per sfuggire alla seduzione di una donna. Poco prima di morire, Sant’Evagrio stesso ammette che il desiderio carnale lo aveva abbandonato solo da poco. È evidente che dietro questo languore si celi il demone di mez­ zogiorno, che colpisce fra le dieci del mattino e le due del pom e­ riggio. Questo «diavolo meridiano», come viene anche chiamato, tenta di esasperare il cenobita, approfittando della sua debolezza fisica per ispirargli il disgusto della sua condizione. Sant’Evagrio Pontico stesso avrebbe sperimentato la visita del demone di mez­ zogiorno in un’allucinazione: «Tre diavoli un giorno gli andarono incontro sotto forma di ministri della Chiesa nel calore di mezzo­ giorno, e si conciarono in modo da non farsi riconoscere»2, narra una versione copta della Vie d ’Évagre. Altri testi lo descrivono con una precisione clinica: «Alla terza ora, il diavolo dell’accidia ci dà i brividi, il mal di testa e persino dolori alle viscere [...]. Quando è in preghiera, il diavolo lo fa ancora scivolare nel sonno e lacera ogni versetto con sbadigli intempestivi»3. Paul Bourget nel 1914 e Jean Guitton nel 1955 forniranno una versione laica del diavolo di mezzogiorno, assimilandolo all’insorgenza delle pulsioni sessuali

2 Citato da B. F okthomme, De l’acédie monastique à 1‘'anxio-dépression. Histoire philosophique de la transformation d’un vice en pathologie, Le Plessis-Robinson, Sanofi-Synthélabo, Parigi 2000, p. 528. 3 Apophtegmes e Scala paradisi, in B. F orthomme, op. cit., p. 582.

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nell’uomo che, entrando nell’autunno della vita, cerca di dar fuoco alle ultime micce mentre è contemporaneamente assalito da ten­ denze depressive4. Nel V secolo un altro cenobita egiziano, San Nilo, fornisce una descrizione pittoresca del monaco colpito da acedia, in cui ritro­ viamo i sintomi menzionati da Sant’Evagrio: Il malato ossessionato dall’accidia tiene gli occhi fissi sulla finestra e la sua immaginazione crea per lui un visitatore fittizio; al minimo cigolio della porta, egli scatta in piedi; al rumore di una voce corre a guardare dalla finestra; ma, invece di scendere in strada, toma a sedersi al suo posto, intor­ pidito e come colto da stupore. Quando legge viene interrotto dall’in­ quietudine e scivola quasi subito nel sonno; si strofina il viso con due mani, si stira le dita e, trascurando il suo libro, fissa gli occhi sulla pare­ te; quando li riporta sul libro percorre poche righe, farfugliando la fine di ogni parola che legge; allo stesso tempo si riempie la testa di calcoli ozio­ si, conta le pagine e i fogli dei quaderni, finisce per richiudere il libro per farne un poggiatesta; cade quindi in un sonno breve e leggero, da cui trae una sensazione di privazione e di fame imperiosa5.

L o studio dell’accidia monastica, tuttavia, resta legato soprat­ tutto al nome di San Giovanni Cassiano (365-435). D opo aver tra­ scorso lunghi anni nel deserto egiziano, dove incontra le celebrità della solitudine, Cassiano viaggia in Oriente; viene ordinato diacono da San Giovanni Crisostomo, si stabilisce a Marsiglia dal 410 al 435 dove fonda due monasteri, fra cui quello di Saint-Victor; redige tre opere, fra cui le Istituzioni cenobitiche (De institutis coenobiomm, 418), in cui descrive l’organizzazione della vita monastica. In que­ st’opera egli enumera la lista degli otto vizi che minacciano i mona­ ci; la golosità, la fornicazione, l’avarizia, la collera, la tristezza, l’ac­ cidia, la vanagloria e l’orgoglio6, e accosta l’accidia al taedium vitae pagano. Egli non la considera una malattia fisica legata alla bile,

4 P. BOURGET, Le démon de midi, Plon-Nourrit et C.ie, Parigi 1914; trad. it., U demone meridiano. Salani, Firenze 1956; J. GUITTON, ILAmour humain; suivi de deux essais sur les relations de famille et sur le démon de midi, Aubier, Parigi 1955; trad. it., Saggio sull'amore umano, Morcelliana, Brescia 1954. 5 S an N ilo , De octo spiritibus malitiae, cap. 14. 6 GIOVANNI C assiano , Le istituzioni Cenobitiche, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, Bresseo di Teoio (PD) 1989, libro V, p. 141.

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i

come la malinconia, ma un peccato ispirato dal diavolo, che riguar­ da anzitutto il disgusto per i beni spirituali. Ma se togliamo il con­ testo cristiano, l’accidioso somiglia molto al depresso: ecco infatti come Cassiano descrive l’azione del demone dell’accidia: Non appena questo male si è insinuato nell’animo del monaco vi produ­ ce l’avversione per il luogo, il fastidio per la cella e perfino la disconoscenza e il disprezzo per i fratelli che vivono presso di lui o lontani da lui, come se fossero dei negligenti e delle persone poco spirituali. Lo rende inope­ roso e inerte di fronte a tutti i lavori da eseguire dentro le pareti della sua cella, e non gli consente di risiedere nella cella e di attendere alla lettura. Egli si lamenta assai di frequente di non aver conseguito alcun profitto; deplora e si rammarica di non ricavare alcun frutto finché rimarrà legato a quella comunità. S ’affligge di trovarsi, in quel posto, del tutto privo di ogni profitto spirituale, proprio lui che, pur potendo reggere gli altri e gio­ vare a molti, non è stato in grado di edificare nessuno e neppure di gua­ dagnare qualcuno attraverso la sua condotta e la sua personale dottrina. Egli esalta i monasteri posti in regioni lontane e, in più, configura quei luo­ ghi come maggiormente vantaggiosi al progresso dello spirito e più effi­ caci per la salvezza; egli dipinge pure le comunità dei fratelli che vi dimo­ rano come viventi in piena cordialità e tutte introdotte in una conviven­ za spirituale. Al contrario, tutto ciò che gli viene per le mani gli diviene gravoso, e non solo non trova nessun lato di edificazione nei fratelli che vivono in quel luogo, ma va dicendo che neppure si può avere il vitto suf­ ficiente per sopravvivere, senza una dura fatica. Infine egli finisce per per­ suadersi di non potersi salvare, restando in quel luogo, a meno che, abban­ donata quella cella, con la quale, rimanendovi ancora, sarebbe destinato a perire, egli non si decide a liberarsene quanto prima. In seguito, le ore 11 e quelle del mezzogiorno producono in lui una spossatezza fisica e un’esigenza di cibo così intensa da procurargli la sensazione di essere ridotto allo stremo e alla stanchezza provocata da un lungo viaggio o da una gravissima fatica o come se egli avesse differito il momento di pren­ dere cibo per un digiuno durato per due o tre giorni. In quello stato egli si mette allora a guardare tutto ansioso qua e là, deplorando che nessuno dei fratelli venga a fargli visita, e così più esce dalla cella e vi rientra, e osser­ va frequentemente il sole, come se quello volgesse al tramonto troppo lentamente. E in realtà egli si sente sorpreso, senza rendersene ragione, da certa quale confusione di mente, come avvolto da tetra caligine, dive­ nuto ormai apatico e negato a ogni attività dello spirito7.

7 G iovanni C assiano , Le istituzioni, cit., X, 2, pp. 247-248.

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Se questa passione, in momenti alterni e con i suoi attacchi d’ogni giorno, variamente distribuiti secondo circostanze impreviste e diverse, riu­ scirà a prendere il dominio della nostra anima, ci separerà un po’ alla volta dalla visione della contemplazione divina fino a deprimere intera­ mente la stessa anima dopo averla distolta da tutta la sua condizione di purezza. [...] Questo vizio impedisce di essere tranquilli e miti con i pro­ pri fratelli e rende impazienti e aspri di fronte a tutti gli uffici dovuti ai vari lavori e alla religione. Perduta così ogni facoltà di buone decisioni e compromessa la stabilità dell’anima, quella posizione rende il monaco come disorientato e ebbro, lo infiacchisce e lo affonda in una penosa disperazione8.

A volte questa disperazione porta al suicidio: «Esiste anche un altro genere di tristezza, più detestabile, che non porta il colpevo­ le a redimere la propria vita o a correggere i vizi, ma a una dispe­ razione mortale: tale tristezza ha impedito a Caino di pentirsi dopo l’assassinio di suo fratello e ha spinto Giuda, dopo il tradimento, a impiccarsi per disperazione invece che a riparare al danno cau­ sato»9. L a causa può essere la collera, una speranza delusa, una fru­ strazione, o ancora l’azione del diavolo: «L a malizia del Nemico ci opprime repentinamente con un’afflizione tale per cui non riu­ sciamo nemmeno a ricevere, con la nostra affabilità naturale, le persone che ci sono care o che dobbiamo incontrare»10. Il rimedio esiste ed è il lavoro, ma senza eccessi, poiché anche in questo caso il diavolo è in agguato! Cassiano ha conosciuto un monaco che si dedicava anima e corpo ai lavori manuali: non smet­ teva mai di costruire case, con un etiope (vale a dire con un’im­ magine del diavolo) «che dava con lui colpi di martello, poi lo spin­ geva a continuare questo lavoro forsennato [...]. Il fratello, spos­ sato dalla fatica, voleva riposare, mettere fine al lavoro. Ma lo spi­ rito maligno lo incitava e lo animava»11.

8 G iovanni C assiano , Le istituzioni..., cit., IX, p. 240. 9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 I d ., Consolationes, IX , 6.

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L’accidia: la depressione dei monaci (alto Medioevo) Alla fine del IV secolo l’accidia è talmente diffusa che il poeta Ausonio descrive il monaco tipico come un «Bellerofonte triste, indigente, che abita luoghi deserti, che vaga taciturno [...] fuori di sé»12. Il mondo laico, ritornato a una certa barbarie, è all’epoca trop­ po occupato da questioni vitali di sopravvivenza per preoccuparsi dell’introspezione. M a diverse ragioni contribuiscono a rendere i monasteri veri e propri focolari di accidia: un genere di vita che favo­ risce un costante ritorno a se stessi, la presenza minacciosa dei demoni e la paura dell’inferno. L’ossessione per l’aldilà, la negazione al proprio corpo della minima soddisfazione dei suoi bisogni natu­ rali e il pesante senso di colpa portano i monaci dell’alto Medioevo a cadere facilmente nella trappola del mal di vivere, già considera­ to come una colpa morale, o della tristitia, la cattiva tristezza. L a distinzione fra accidia e tristezza sembra allora molto labi­ le, se non puramente formale, come testimoniano le opere di un monaco divenuto papa alla fine del VI secolo, Gregorio Magno. Egli, con il suo temperamento malinconico, inquieto, forse persi­ no paranoico13, affetto da dolori gastrici («G ià da molti anni sono tormentato da frequenti dolori intestinali, e il mal di stomaco mi colpisce ad ogni ora e in ogni istante», scrive a Leandro di Siviglia), si è naturalmente interessato al mal di vivere e ha dedicato una grossa opera, i M oralia, a Giobbe. L a tristezza, che egli conosce pale­ semente bene e che include nella sua lista personale dei sette vizi, è a suo parere un male di origine spirituale. Egli afferma che dalla tristezza derivano la disperazione, la pusillanimità, il torpore nei con­ fronti dei doveri, la debolezza di fronte alle tentazioni, il rancore, la malizia, la pesantezza del cuore, il languore, il taedium. Scrive Bernard Forthomme: «L a figura del cristianesimo cupo e contagioso [...] prende forse da qui la sua origine nascosta»14. Sono numerosi gli autori spirituali di quest’epoca oscura che si sono accostati alla tristezza e all’accidia, pur senza assimilarle com­ pletamente. G ià Sant’Evagrio riteneva che la tristezza rappresen­

12 AUSONIO, Epistola 22, 70, in Epistole, Il Cardo, Venezia 1995, p. 52. 13 B. F orthomme, De l’acédie..., cit., p. 449. M Ivi, p. 456.

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tasse un terreno favorevole all’accidia; nel V secolo, l’anonimo Vie de Synclétique afferma che il diavolo è responsabile di una tristez­ za assolutamente irragionevole che alcuni hanno denominato acci­ dia; neirV III secolo Teodolfo d ’Orléans utilizzerà l ’espressione «accidia oppure tristezza» e Alcuino parlerà di tedio del cuore. Tristezza senza causa apparente, languore e disgusto, l’accidia si manifesta allo stesso tempo con una propensione alla dispersi­ vità, alla distrazione superficiale e persino al riso, che non è meno pericoloso della tristezza, secondo le regole monastiche e gli scrit­ ti spirituali15. «Scoppiare a ridere e essere scossi dai singulti non fa parte dell’animo tranquillo», scrive San Basilio nelle sue G randi Regole. Nella Vita di Eutimio, padre del deserto nel IV-V secolo, un vecchio monaco riprende un compagno che è scoppiato a ride­ re: «Il demonio, fratello, si è preso gioco di te. Il tuo riso non ha senso né ragione. Sappi dunque che spettegolare o ridere fuori luogo è follia per un monaco». Nella presa di coscienza del mal di vivere, lo stile di vita ere­ mitico in Oriente ha certamente giocato un ruolo catalizzatore. Gli anacoreti si ritirano per anni in un vuoto immenso, in condizioni propizie alla noia e al disgusto di sé: «Aridità desolante del deser­ to, privazione estrema inflitta al proprio corpo, frugalità e m ono­ tonia dell’alimentazione, regolarità e uniformità inesorabile dei pro­ pri tempi di preghiera»16. Siamo qui in presenza del mal di vivere allo stato puro. N e Les hommes ivres de Dieu, Jacques Lacarrière sottolineava come gli uomini che vivevano nel deserto descrives­ sero esattamente le stesse caratteristiche dell’angoscia esistenziale riportate dai filosofi e dagli psicologi contemporanei17. Giorgio Agamben, in Stanze, osservava a sua volta nel 1994 che gli effetti dell’accidia (m alitia , o amore-odio del bene; rancor, o rivolta della cattiva coscienza contro coloro che predicano bene; pusillanim itas, o piccolezza d ’animo; desperatio, o certezza di essere condannati; evagatio mentis, o fuga dell’anima nelle fantasticherie; importuni-

15 G . MINOIS, Histoire du rire et de la dérision, Fayard, Parigi 2000, pp. 95134; trad. it., Storia del riso e della derisione, Dedalo, Bari 2004. 16 T.-M. HAMONIC, Lacédie et l’ennui spiritual selon saint Thomas, in Lennui: féconde mélancolie, a cura di D. Nordon, Autrement, Parigi 1998, p. 92. 17J. LACARRIÈRE, Les hommes ivres de Dieu, Arthaud, Parigi 1961.

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tas m entis, o incapacità di fissare il pensiero; curiositas\ verbositas; instabilitas loci) sono precisamente le caratteristiche che Heidegger attribuiva al sentimento della banalità quotidiana, alla noia diffu­ sa nella società di m assa e anche alla tristezza angosciata di Kierkegaard. Il solitario del deserto di milleseicento anni fa soffre dello stes­ so mal di vivere degli abitanti delle megalopoli sovraffollate e bru­ licanti del X X I secolo, osserva Bernard Forthomme nel 2002: «In cosa è moderna l’accidia? Nel fatto che colpisce persone che lavo­ rano su se stesse alla ricerca della propria identità. La nostra società, dove abbiamo più tempo per riflettere, si ricollega a ciò che, per il monaco d ’Egitto, rappresentava una rottura difficile da immaginare oggi, quella con il mondo del lavoro agricolo, cui rinunciava per votarsi al lavoro su se stesso, in pieno deserto. Nella nostra epoca è come se tutta la società avesse la tendenza a lavorare su se stes­ sa, e allo stesso tempo sperimentasse questa prova all’epoca cono­ sciuta solo dal m onaco»18.

Il vizio malinconico Sin dal Medioevo il mal di vivere viene considerato uno degli otto vizi principali di ispirazione diabolica. L a «tristezza malinco­ nica» è uno stato di cui approfitta il diavolo per indurci in tenta­ zione, come scrive San Giovanni Crisostomo intorno al 380 al suo discepolo, il monaco Stagirio, che disperava della propria salvez­ za, aveva tendenze suicide e presentava disturbi comportamentali: «Più nocivo di qualunque potenza diabolica è l’eccesso di athumia (scoramento); il demonio si impossessa delle sue vittime e le con­ trolla grazie a essa; ma, una volta eliminata, egli non potrà più susci­ tare nulla di funesto in alcuno»19. Isidoro di Siviglia (570-630) sta­ bilisce persino alcune analogie etimologiche di fantasia per spiegare che la melancholia viene da malus, il male, che a sua volta viene da mélan, la bile nera in greco: « M alus, cattivo, con riferimento al fiele nero che i Greci chiamano mélan: da qui anche il nome melanco­ 18 B. F orthomme, in «Magazine littéraire», n. 411, luglio-agosto 2002, p. 31. 19 S an G iovanni C risostomo , A Stagirio tormentato da un demone, Città Nuova, Roma 2002.

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nici dato a coloro che rifuggono dal vivere in comune con altri esseri umani e sospettano degli amici più cari»20. A partire dall’X I secolo, tutti i grandi pensatori scolastici si inte­ ressano all’accidia, che accostano sempre di più alla malinconia, poi­ ché i sintomi non riguardano più soltanto i monaci, ma anche i seco­ lari e i laici. Se la Chiesa si dimostra più flessibile rispetto al mal di vivere, prendendo in prestito i concetti medici e filosofici, è anche gra­ zie all’effetto del rinnovamento apportato dal pensiero naturalista del XIT secolo, epoca in cui viene gradualmente riscoperto Aristotele. L’accidia resta infatti una nozione abbastanza vaga. Alcuni la voglio­ no simile alla pigrizia, altri alla tristezza (come Adam thè Scot, che nel X II secolo, rivolgendosi ai monaci, descrive come segue gli acces­ si di accidia: «Spesse volte, quando siete soli nella vostra cella, vi coglie una sorta di inerzia, di languore dello spirito e di disgusto cor­ diale. . .»21), altri ancora al disgusto malinconico, se non persino alla collera. Se accostiamo l’accidia all’idea di pigrizia, di pesantezza, di len­ tezza, di inerzia, è certamente anche perché Saturno, il pianeta lento, è ancora associato alla malinconia. Ritroviamo qui tutti i cli­ ché negativi dell’Antichità riguardo a questa «trista stella», come la chiamerà Cecco d ’Ascoli nel 1327. Sembra che durante il IX secolo il legame fra Saturno e la malinconia si consolidi sotto l’in­ fluenza degli astrologi arabi. Scrive Abù Masar: La natura di Saturno è fredda, secca, amara, oscura, nera, violenta e ruvida; ma a volte è anche fredda, umida, pesante e fetida [...]. Saturno non vuole il bene di nessuno ed esercita il suo potere anche sugli anziani e sulle perso­ ne astiose; sulla paura, i rovesci di fortuna, le preoccupazioni, gli accessi di tristezza, la scrittura, la confusione [...], l’afflizione, le miserie della vita, lo sgomento, le perdite, le morti, le eredità, i canti funebri e gli orfani; su tutte le cose vecchie, i nonni, i padri, i fratelli maggiori, i servitori, i valletti delle scuderie, gli avari e tutti coloro di cui le donne reclamano l’attenzione, su coloro che sono coperti di obbrobrio, sui ladri, i becchini, i profanatori di cadaveri, i conciatori e i contabili22. 20 I sidoro di S iviglia , Etimologie o Origini, voi. I, UTET, Torino 2004, p. 843. 21 A dam THE S cot , De quadripartito exercitio cellae, cap. 24, Parigi, J.-P. Migne, t. 153, p. 842. 22 Citato da R. KLIBANSKY, E. PANOFSKY e E Saxl , Saturno e la melanconia: studi di storia della filosofia naturale, religione, arte, Einaudi, Torino 1983.

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Questa immagine poco lusinghiera del malinconico viene ripre­ sa da Alcabizio, che aggiunge una serie di dettagli poco piacevoli. L’uomo nato sotto il segno di Saturno è avaro, ingannatore, colle­ rico, crudele, perfido, ipocondriaco: Egli è cattivo, mascolino, durante il giorno è freddo, arido, malinconico, ha potere sui padri [...], sulla vecchiaia e il rimbambimento, i fratelli maggio­ ri e gli antenati, l’onestà nei discorsi e nell’amore, e l’assenza di slanci spon­ tanei Egli ha inoltre potere sull’odio, l’ostinazione, rinquietudine, il dolore, le lacrime, i lamenti, l’opinione sfavorevole, il sospetto fra gli uomi­ ni Si dice di lui che sia anche magro, timido, gracile, rigido, che abbia la testa grossa e il corpo piccolo, la bocca e le mani grandi, le gambe arcua­ te anche se belle da vedere quando cammina, la testa sporgente, il passo pesante e strascicato, in buona intesa con l’astuzia e l’inganno23. Queste idee astrologiche sono inizialmente combattute con forza nel nome del libero arbitrio dagli autori cristiani come Guillaume d ’Auvergne, vescovo di Parigi. M a la loro parvenza pseudoscien­ tifica finisce per sedurre anche il pensiero occidentale24. Nel X II secolo Alain de Lille, il «D ottore universale», tratteggia un’imma­ gine desolante di Saturno: In questo luogo Saturno percorre gli spazi del suo cammino avido, E avanza con passo pesante, attardandosi a lungo. [...] Qui regnano dolore e gemiti, lacrime, discordia, terrore; Si è tristi, si è lividi, ci si colpisce da soli e si è maltrattati25. Bernard Silvestre, nella sua cosmologia, conferisce a Saturno un’immagine di morte, di personaggio vecchio, crudele e distrut­ tore26. Sempre nel X II secolo, l’inglese Daniel de Morley, che rien­ tra dai suoi viaggi con alcuni libri arabi, associa a Saturno l’idea di pesantezza, di volgarità, di oscurità27. Per lui come per i prece23 R. K libansky, E. PANOFSKY e E Saxl, Saturno e la melanconia, cit. 24 G. MINOIS, Histoire de l’avenir. Des prophètes à la prospective, Fayard, Parigi 1996, pp. 199-228. 25 A lain de L ille , Anticlaudianus, IV, 8. 26 E. G ilson , La cosmologie de Bemardus Silvestris, Archivi di storia dottrina­ le e letteraria del Medioevo, t. Ili, Parigi 1928. 27 D. DE MORLEY, Liber de naturis inferiorum et superorum, a cura di K. Sudhoff, Lipsia 1917.

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(lenti autori, questo pianeta è grandemente responsabile dei tem­ peramenti malinconici. Nel X III secolo Bartolomeo Anglico è espli­ cito: «E cco perché, nato e concepito sotto i suoi auspici, il bam bi­ no muore oppure gli toccano in sorte le peggiori qualità. Secondo Tolomeo e il suo libro sugli astri, infatti, Saturno è la causa del­ l'uomo oscuro, brutto, autore di azioni inique, pigro, pesante, tri­ ste, raramente felice o sorridente»28. Michele Scoto, che Dante ha messo nel suo Inferno a causa delle pratiche astrologiche e magi­ che, delinea il saturnino come essere triste, pigro, astioso, timido, invidioso, avaro, misantropo; fisicamente brutto, con pelle scura e piccoli occhi fissi al suolo; ricurvo e sessualmente poco attivo. Guido Bonatti, ennesimo astrologo, rincara la dose: « E un essere disgustoso e maleodorante, intriso di puzza di caprone; si tratta poi di uomini che mangiano molto»29. Se l’astrologia assolve la malin­ conia dalla demonizzazione, dando a credere che certe forme di mal di vivere siano una fatalità, in compenso non vi vede più il tempe­ ramento degli uomini eccezionali. L a distinzione fra malinconici e accidiosi sembra riguardare essenzialmente gli aspetti fisici: solo i primi sono etichettati per la loro magrezza e per l’opacità della loro pelle. Per contro, la teoria degli umori si applica sia agli uni che agli altri: il diavolo, che pro­ voca l’accidia, agisce per mezzo della bile o del flegma; egli tenta «i malinconici di invidia e tristezza», scrive il domenicano Laurent d ’Orléans. In qualche modo la malinconia è una malattia da cui alcu­ ni sono afflitti indipendentemente dalla loro volontà, in particolar modo perché si trovano sotto l’influenza di Saturno; tuttavia que­ sta malinconia si trasforma in peccato, in vizio morale e in accidia in coloro che si lasciano andare: distinzione molto teorica però, poi­ ché gli autori spirituali riflettono soprattutto sulla malinconia in ter­ mini morali e le manifestazioni che prendono in considerazione sono la tristezza, la scontentezza del cuore, l’amarezza, la perdita di speranza. Per alcuni il temperamento malinconico è quindi una sorta di prova che conferisce loro dei meriti per aver combattuto contro di

28 B artolomeo A nglico , De proprietaribus rerum, V ili, 23. 29 G uido Bonatti, De astronomia, 1,3, in R. Klibansky, F. Panofsky e F. S axl , Saturno e la melanconia, cit.

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essa. Per altri la predominanza della bile nera è una conseguenza diretta del peccato originale30. Ildegarda di Bingen, nel X II seco­ lo, lo afferma chiaramente. Prima della caduta, scrive, «prima che Adamo trasgredisse il precetto divino, quello che adesso è la bile, riluceva in lui come cristallo e aveva in sé il gusto delle opere buone»31. Ma la malinconia «è per natura in ogni uomo, sin dalla prima tentazione del Diavolo, perché l’uomo trasgredì il precetto divino, mangiando la mela. E da questo cibo si sviluppò la malin­ conia in Adam o e in tutta la sua stirpe, e questa provoca negli uomini ogni sorta di malattia»32. I malinconici hanno un aspetto repellente; sono anche dei veri e propri bruti perversi, violentano le donne e impazziscono di rabbia se non riescono a soddisfare i propri bisogni. Ildegarda ne fa un ritratto avvincente nel capitolo «D e melancholicis» del suo trattato Causae et curae: [...] H loro colorito è forte, perché i loro occhi sono ignei e viperini, e le loro vene sono dure e forti e trasportano un sangue scuro e robusto, le loro carni sono grosse e dure, e grosse sono le loro ossa, dal midollo scar­ so, che tuttavia arde con vigore; infatti, con le donne sono come animali e incontinenti come vipere [...]; ma sono aspri, avari e insensati, eccessi­ vi nella passione e senza misura con le donne, come asini. Se abbandona­ no siffatta passione, incorrono facilmente nella follia, al punto di diven­ tare frenetici; e se appagano la loro passione nella relazione con le donne, non soffriranno della follia della mente t...]33. Ildegarda evoca con crudezza la violenza del desiderio che nasce nei testicoli del malinconico, «i due tabernacoli», e il rigonfiamento del pene riempito d ’aria. Ritroviamo qui l’antica concezione della natura aerea dell’umore malinconico: Il vento del piacere, che cade nei tabernacoli di questi uomini, arriva con grande smodatezza e con un moto talmente repentino, da essere simile al vento che d’improvviso scuote la casa con violenza. E la discendenza del-

50 G. M inois, Les origines du mal. Une histoire du péché originel, Fayard, Parigi 2002, cap. 2. 31 ILDEGARDA di B ingen , Cause e cure dell’infermità, Sellerio, Palermo 1997, p. 218. 32 Ivi, p. 82. 33 Ivi, p. 127.

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l'uomo viene educata con tale tirannia, che anche in questa, pur dovendo sbocciare in fiore, si ritorce per l’asprezza dei modi viperini [...]. Infatti, la tentazione del Diavolo in questi uomini infuria a tal punto, che se pos­ sono uccidono la donna durante l’unione, perché in loro non operano né carità né trasporto. H loro figlio o le loro figlie avranno una grande insa­ nia diabolica nei costumi e nei vizi, essendo stati concepiti senza amore34.

Senza scadere nella stravaganza, anche Guillaume de Conches, nel X II secolo, considera la malinconia una conseguenza del pec­ cato originale, m a la sua esigenza di razionalità lo spinge a darne una spiegazione «scientifica». Riconciliando teologia e biologia, egli spiega che l’uomo è stato creato caldo e umido; a causa del trau­ ma per l’espulsione dal paradiso e per le difficoltà della sua nuova vita, egli avrebbe perduto calore e umidità in proporzioni diverse, causando i temperamenti collerici (caldo e secco), flemmatici (fred­ do e umido) e malinconici (freddo e secco). Il temperamento idea­ le è quello sanguigno (caldo e umido), poiché si avvicina maggior­ mente alla condizione originaria. Ecco perché, afferma Guillaume, esistono animali malinconici, flemmatici e collerici, ma non esisto­ no animali sanguigni. Secondo Ildegarda, solo i sanguigni sarebbero in grado di ingravidare le femmine malinconiche, che descrive come esseri tristi, sterili, incostanti, soggetti a follia.

Una riabilitazione relativa Altri autori sembrano avere un’opinione meno negativa della malinconia, pur mantenendo com unque una certa ambiguità. Costantino l’Africano, fondatore della scuola di medicina di Salerno, dedica alla malinconia un trattato che influenzerà notevolmente il Medioevo. N ato intorno al 1015, egli vive per più di trent’anni nel mondo arabo, ciò porterebbe a pensare che fosse anche musulma­ no prima di convertirsi al cristianesimo. In seguito, verso il 1050, raggiunse il monastero di Monte Cassino, dove morì nel 1086. Buon conoscitore degli scritti arabi sulla medicina, egli si ispira a Ishàq ibn ‘Amràn, autore di un’opera sulla malinconia, che egli descrive,

34 I ldegarda di B ingen , Cause e cure, dt.

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a immagine degli Antichi, come «una malattia dello spirito avente cause psicologiche»35. Costantino l’Africano ha certamente letto le opere di Avicenna, il quale attribuiva cause puramente fisiologiche alla malinconia. Egli è stato certamente influenzato anche da Rufo d ’Efeso, che assimilava l’umore malinconico al «sangue ispessito e raffredato». Forse impressionato dal clima dei monasteri, egli afferma nel suo trattato che la malinconia è «particolarmente diffusa»36 nell’Italia cristiana. A Monte Cassino, in ogni caso, uno dei suoi compagni, il monaco Guaferio, compone il racconto miracoloso di un pelle­ grino che si dà la morte a causa della tentazione diabolica37. Per Costantino i malinconici presentano sintomi contradditto­ ri, poiché in effetti qualsiasi atteggiamento estremo può tradire malinconia: «Alcuni amano la solitudine, l’oscurità, la vita tagliata fuori dal resto del mondo; altri amano i luoghi spaziosi, la luce, i prati, i giardini dai frutti abbondanti e dai numerosi ruscelli. Alcuni amano montare il proprio cavallo, ascoltare musiche diverse, con­ versare con persone sagge o gradevoli [...]. Alcuni dormono trop­ po, altri piangono, altri ancora ridono»38. Il malinconico è sogget­ to a paure ingiustificate poiché la sua immaginazione non è più equi­ librata. Le cause sono varie quanto i sintomi e a quelle fisiche si aggiun­ gono quelle intellettuali: diventano malinconici coloro che cerca­ no di approfondire troppo le cose, di trovare le ragioni di tutto, di studiare troppo a fondo le scienze e la filosofia. Ritroviamo qui l’associazione tra il mal di vivere e le preoccupazioni intellettuali. « I pensieri ardui, il continuo rammentare, lo studio, l’esame approfondito, l’immaginazione, la ricerca del significato delle cose, così come le visioni e i giudizi, siano essi fondati o solo semplici sospetti [...] possono in poco tempo portare l’anima alla malinco­ nia, se questa si immerge troppo profondamente in siffatte atti­ vità»39; essi inoltre «incorporano la malinconia [...] nella coscien­

35 Avicenna , Liber canonis, III, 1,4, cap. XIX. 36 C ostantino Africano , Della melancolìa, Tip. E. Possidente, Roma 1959. 37 A. MURRAY, Suicide in thè Middle Ages, Oxford University Press, Oxford 1998,1.1, pp. 278-285. 38 C ostantino A fricano , Della melancolia, cit. 39 Ibidem.

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za della loro debolezza intellettuale e, nello sconforto provocato da tale debolezza, divengono malinconici. Il motivo per il quale la loro anima si ammala [...] risiede nella fatica e nell’abuso delle loro forze»40. Fra gli intellettuali cristiani la riscoperta progressiva di Aristotele, a partire dall’inizio del X III secolo, contribuisce ulteriormente ad attenuare la visione negativa della malinconia. Alexander Neckham, morto nel 1217, è il primo a ricordare che Aristotele «afferma che solo i malinconici sono intelligenti [...] a causa della fecondità della memo­ ria, fredda e secca, o a causa dell’astuzia». Alberto Magno tenta di riabilitare alcune forme di malinconia, ma solo a malincuore e per defe­ renza nei confronti di Aristotele. Egli ha difficoltà nel trovare un posto per il malinconico positivo e, nel suo ragionamento, non si preoccupa della psicologia. Egli distingue una malinconia naturale, dovuta alla contaminazione del sangue che restituisce esseri oscuri, diffidenti, misantropi e con impulsi suicidi, e una malinconia innatu­ rale, dovuta alla combustione (,adustio) degli umori naturali, che può contribuire a sviluppare qualità intellettuali ed eccezionalmente pro­ durre grandi uomini: «G li esseri così dotati avranno convinzioni ferme e passioni saldamente regolate; saranno anche assidui al dovere e pos­ siederanno le più grandi virtù. D i conseguenza Aristotele dichiara nel sui libro dei Problemi che tutti i grandi filosofi, come Anassagora e Talete di Mileto, e tutti coloro che si sono distinti per il coraggio eroi­ co, come Ettore, Enea, Priamo e altri, erano in questo senso degli eroi malinconici»41. Questi malinconici positivi sono alti e magri, dalla «carne soda», mentre i malinconici negativi sono esili e scuri. Alla stes­ sa epoca Guillaume d’Auvergne vede nella complessione malinconi­ ca almeno un grande vantaggio: quello di allontanare i piaceri terre­ stri e di favorire lo studio delle scienze religiose. Il malinconico rifug­ ge il mondo e si trova quindi portato per il lavoro intellettuale e la meditazione: «Per questi motivi, Aristotele pensava che tutti gli uomi­ ni eminentemente dotati fossero malinconici»42. In caso di eccesso, tale temperamento propizio può evidentemente degenerare in malattia, e sfociare nella follia. 40 C ostantino A fricano , Della melancolia, cit. 41 ALBERTO Magno , De animalibus libri XXVI nach der Cölner Urschrift, a cura di Stadler, Aschendorff, Münster 1916-1921, voi. I, p. 330. 42 G uillaume d ’A uvergne , De universo, II, 3,20.

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Poco tempo dopo il medico e filosofo Pietro d ’Albano, morto intorno al 1315, redige un commento al Problema X X X , 1 (Expositio problematum A ristotelis) in cui distingue a sua volta due forme di malinconia: il temperamento, che egli associa agli uomini eccezio­ nali, e la forma patologica.

Il peccato di accidia, mal di vivere colpevolizzante Più che alla malinconia, gli scolastici si interessano all’accidia. Peccato ispirato dal diavolo, l’accidia dà forma a descrizioni più pre­ cise, molto più vicine alla realtà poiché basate sulla pratica della con­ fessione, eccezionale strumento di studio della natura umana. Manuali di confessori e di morale sono fonti essenziali per com­ prendere le diverse concezioni medievali del mal di vivere. Nelle Somme destinate ai confessori l’accidia è intimamente legata alla pigrizia: l’accidioso fa fatica ad alzarsi al mattino, arriva in ritardo alla messa, dove si addormenta oppure chiacchiera. Egli trascura i suoi doveri, si perde in divertimenti vari, appare linfatico, о senza motivazione, diremmo noi oggi. Un simile atteggiamento tradisce manifestamente una mancanza di entusiasmo per la vita e per que­ sto mondo meraviglioso che Dio ha creato, ed è un segno di dispe­ razione che può denotare tendenza al suicidio. I libri sulla morale annoverano l’accidia fra i sette peccati capitali, la cui Usta diviene quasi ufficiale a partire dal Х1П secolo. L’accidia vi è spesso defi­ nita come causa di instabilità del monaco, che non porta a termi­ ne i suoi doveri e vorrebbe cambiare abbazia; essa è una condizio­ ne legata alla sonnolenza che si manifesta con pesantezza delle pal­ pebre e un sentimento d ’oppressione. Pier Damiano, nella sua De institutis ordinis eremitarum (1057), parla dell’«ora di punta del gior­ no, momento in cui l’accidia ci cade gravosamente addosso». Nella stessa epoca, Otloh di Sant’Emmeran descrive lo stato di indeci­ sione, di inquietudine, di pusillanimità, di scoraggiamento, di auto­ commiserazione che porta il monaco a dubitare dell’esistenza di Dio e a desiderare che manifesti chiaramente la sua presenza43.

43 O tloh di S ant ’E mmeran, Das Buch von seinen Versuchungen: e. geistl. Autobiographie aus. d. 11. J.h., Aschendorff, Münster 1977.

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Tutti i grandi autori scolastici del X III secolo hanno dedicato alcuni sviluppi all’accidia, accentuando determinati aspetti attor­ no al comune denominatore della pigrizia e della tristezza. Così Guglielmo d ’Auxerre, nella sua Summa aurea, verso il 1220, insi­ ste sulla mancanza di fiducia in se stesso dell’accidioso, in cui vede un’ulteriore mancanza di fiducia nell’aiuto divino. Egli sostiene che questo tipo di accidia produca la malizia (per eccesso di diffi­ denza), la disperazione, la pusillanimità, il rancore, il torpore, il vaga­ bondaggio intellettuale, vale a dire l’incapacità di fissarsi su un determinato oggetto (altri ritengono invece che i malinconici abbia­ no tendenza a fissarsi troppo su un unico oggetto di studio...). A metà del secolo il francescano David d ’Asburgo, che sostie­ ne l’esistenza di cause fisiche e morali, distingue diversi tipi di acci­ dia, gli uni di competenza del medico, gli altri di competenza del prete: «Il vizio di accidia è di tre generi. Il primo è una certa ama­ rezza dello spirito [...], incline alla disperazione, alla diffidenza, ai sospetti e porta a volte la sua vittima a darsi la morte quando viene attanagliata da un dolore inconsulto. H secondo genere di accidia è un certo torpore che porta sonnolenza e il conforto del corpo [...], il quale casca dal sonno di fronte al lavoro e si delizia nell’ozio. Si tratta della pigrizia vera e propria. Il terzo genere è un disgusto solo verso le cose che riguardano Dio, mentre nelle altre occupazioni la sua vittima è attiva e il suo spirito è sollevato»44. Tristezza, torpo­ re, disgusto delle cose spirituali: ritroviamo ancora la stessa trilo­ gia in Alessandro di Hales, verso il 1245. L’accidia è un peccato, ripete il teologo inglese, che tuttavia aggiunge: «Spesso l’accidia pro­ viene da una malinconia: tale è il motivo per cui non si tratta del peccato più grande, né di una colpa incurabile»45. Dieci anni dopo anche San Bonaventura, discepolo di Alessan­ dro, esita fra malinconia e accidia e affronta un problema crucia­ le: come distinguere l’accidia che conduce alla disperazione, e quin­ di alla tendenza suicida, dal desiderio di morte paoliniano e misti­ co in vista del ricongiungimento con Dio? Come spiegare che il desi­ derio di morire è peccato negli uni e virtù negli altri? L a differen­

44 D avid d ’A sbuRGO, Formula novitiorum. De interioris hominis reformatione, a cura di Bignè, t. 25, p. 893. 45 Alessandro di H ales , Somma teologica, in , 558b.

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za risiede nella motivazione, sostiene Bonaventura: i primi cerca­ no di sottrarsi alle prove della vita, mentre queste sono necessarie alla salvezza; i secondi aspirano a partecipare alla Passione di Cristo. M a è certo che sia gli uni che gli altri provano un forte disgusto per questa vita. L’idea della tendenza al suicidio è anche al centro della rifles­ sione del cistercense Cesario di Heisterbach. Nel suo Dialogus miraculorum, redatto intorno al 1223, troviamo una preziosa collezio­ ne di esempi attestanti la frequenza del suicidio nei monasteri, sia tra gli uomini che tra le donne, sia per la disperazione data dall’attesa della salvezza, sia per la perdita di fede in Dio. Appoggiandosi a eventi reali che verranno utilizzati anche dai medici e dagli psi­ chiatri del X IX secolo, egli descrive gli accidiosi come colpiti da sonnolenza durante l’ufficio, abitati da un demone di mezzogior­ no sotto forma di gatto o di serpente e come esseri balbuzienti che profferiscono parole incomprensibili somiglianti a versi di anima­ li, lo sguardo torbido come se avessero della paglia o del fango negli occhi, madidi di sudore: essi faticano ad alzarsi, sono sempre stanchi, hanno continuamente troppo caldo o troppo freddo e dubitano della loro legittimità. D a parte francescana, il celebre predicatore Jacques de Vitry compone verso il 1220 una H istoria occidentalis in cui spiega che l’accidia e la tristezza hanno un ruolo importante nella moltiplica­ zione delle eresie, degli scismi e delle dispute all’interno della Chiesa nel X II secolo: «G li uomini perdevano ogni coesione sotto l’in­ fluenza della tristezza e dell’accidia»46. Gli spiriti inquieti sono fat­ tori di divisione, di discordia, di ansia e disperazione. D i fronte a questa situazione sono spuntati vari riformatori e creatori di nuovi ordini per restaurare gioia spirituale e devozione. Fra di essi, sicuramente, Francesco d ’Assisi: «E gli non voleva vedere tristezza sui volti, poiché essa riflette spesso l’indifferenza, la cattiva disposizione d ’animo e il freno del corpo nell’intraprendere opere buone»; «si guardino [i fratelli] dal mostrarsi esterior­ mente tristi e oscuramente ipocriti, ma che gioiscano nel Signore, felici, amabili e gradevoli come si conviene»47. Francesco riprende

46 J acques DE Vitry, Historia Occidentalis, cap. V. 47 S an F rancesco d ’A ssisi, Gli scritti e i fioretti.

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i suoi fratelli quando li vede tristi e si sforza a sua volta di fuggire l’accidia: «Q uando cado in tentazione o nell’accidia, se considero la gioia del mio compagno, passo da tale tentazione e da tale acedia alla gioia interiore». A suo parere la tristezza è legata all’avari­ zia: povertà e gioia sono le sue antitesi. Per fuggirla occorre evita­ re l’ozio, che favorisce la scarsa lucidità dell’immaginazione. Un giorno, tentato dall’inquietudine, Francesco inizia a costruire un cestino in vimini, che getta poi nel fuoco poiché causa di distra­ zione dalla preghiera. I domenicani affrontano l’accidia da un’angolazione differente. Nella Stimma vitiorum (1236), Guilelmus Peraldus ne parla diffu­ samente, spiegando che la sua causa è l’ozio. Potremmo riassume­ re le sue parole con la famosa affermazione di Candido: «Il lavoro allontana da noi tre mali: la noia, il vizio e il bisogno». Il cattivo impiego del tempo è un tema relativamente nuovo, che presto si diffonderà parallelamente allo sviluppo delle attività commerciali. Esso è al contempo causa e conseguenza dell’accidia, poiché fra i sedici vizi provocati da questa, Peraldus vi inserisce la dilatio, cioè il fatto di rimandare sempre i doveri da portare a termine. Inoltre il domenicano mostra come la vita monastica sia propizia all’acci­ dia: il giovane monaco entusiasta e presuntuoso, confrontandosi con la monotonia, l’inerzia, il grigiore della ripetitività perpetua, cade nello scoraggiamento e nel torpore tipici dei monaci più anziani. Tale accidia si traduce in segni di insofferenza di fronte ai rimpro­ veri, in tristezza, disperazione e taedium vitae\ qui Peraldus si ispi­ ra chiaramente a Seneca. Soffermiamoci infine su Tommaso d ’Aquino, la cui analisi del­ l’accidia nella Somma teologica è di notevole finezza psicologica e rievoca i tratti caratteristici della depressione moderna: « E una tri­ stezza opprimente che produce nell’animo dell’uomo ima depres­ sione tale per cui egli non ha più voglia di fare nulla, alla stregua delle cose che, impregnate di acido, diventano completamente fred­ de. Ecco perché l’accidia procura un certo fastidio per l’azione. Alcuni dicono anche che l’accidia sia un torpore dell’anima che impedisce di cominciare a fare del bene»48.

48 S an T ommaso d ’A quino , Somma teologica, la, Iiae, Q37, a 1.

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Tristitia e desperatio, fattori di suicidio fra il clero Il mal di vivere del Medioevo, fortemente sentito presso gli intellettuali, ha rappresentato un’importante causa di suicidio. L a rilevanza insospettata di tale fenomeno è stata recentemente evi­ denziata da Alexander Murray in un’opera notevole in ogni suo punto e che può essere ritenuta esaustiva49. Considerata la povertà, l’eterogeneità e la rarità delle fonti medievali su questo tema, esse­ re riusciti a raccogliere 546 casi di suicidio nel Medioevo è stata una vera e propria impresa. L e statistiche stilate dall’autore rivelano che gli uomini si suicidano due volte più delle donne, ma che que­ ste ultime fanno tre o quattro volte più tentativi, secondo i dati conformi alle osservazioni contemporanee. Un p o ’ più della metà si impicca, il 30% si annega, il 15% usa un’arma da taglio. Ci si uccide preferibilmente durante tre periodi dell’anno, aprile, luglio e dicembre, di lunedì, solitamente al mattino o dopo le sei di sera. Fra i suicidi notiamo un’enorme predominanza del clero: circa un terzo del totale. Certo il termine «clero» ha un significato abba­ stanza generico, inoltre questa categoria viene maggiormente regi­ strata rispetto alle altre per ragioni di rivalità fra giurisdizioni civi­ li ed ecclesiastiche relativamente ai beni del suicida. Tuttavia, appa­ re innegabile che il tasso di suicidio fra il clero sia stato sensibil­ mente superiore al tasso globale, dato che tenderebbe a confermare l’importanza e la gravità della forma religiosa dell’accidia. Questa impressione è corroborata dai motivi per suicidarsi: un quarto è attribuito alla tristitia (o malinconia senza ragione) e alla desperatio religiosa. Nel 1170 gli esempi fioccano50, come nel caso di questo premostratense del Lincolnshire, a proposito del quale la cronaca racconta: «Il cuore di Henry era infranto dalla malin­ conia. Guidato dal diavolo, ha fatto un bagno caldo e si è tagliato le vene di entrambe le braccia; in questo modo, e di sua spontanea volontà, o piuttosto di sua libera follia, ha messo fine alla propria vita». Nel 1256 il cappellano dell’ospedale di Westgate, a Newcasde,

49 A. MURRAY, Suicide..., cit., 1.1: The Violent Against Themselves, 1998; t. II: The Curse o f Self-murder, 2000; t. Ill: The Mapping o f Mental Desolation, di pros­ sima pubblicazione. 50 Tutti gli esempi seguenti sono tratti da A. MURRAY, Suicide..., cit., t. I.

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si impicca; verso il 1300 un cistercense di Villers, in Belgio, si ucci­ de perché non sopporta più la solitudine. Il suicidio diventa prati­ ca comune tanto per molti monaci anonimi di San Gallo quanto per il cardinale Andreas Zamonetic, che si strangola nel 1483; per alcuni templari, per un alto dignitario della chiesa di Strasburgo nel 1484 e, nello stesso anno, per un monaco premostratense di SaintPierremont, vicino a Metz, o ancora per un francescano di Pisa che si getta in un pozzo attorno al 1280, come riporta la cronaca di Salimbene. Cesario di Heisterbach riporta numerosi casi, fra cui quelli di monaci portati al suicidio perché l’eccesso di devozione li aveva resi accidiosi, come il cistercense Baldwin nel 1220: «Alla fine, le veglie e il lavoro eccessivo surriscaldarono il suo cervello. Divenne così debole che una notte, prima che la comunità si alzasse per le mat­ tutine, si recò in chiesa, salì sul banco dei novizi, si fece un nodo attorno al collo con la corda della campana, e saltò». E anche come questa cistercense, nella stessa epoca, in un convento della Mosella: «Qualche mese fa, una religiosa di età avanzata e di santa reputa­ zione, fu colpita così pesantemente dal vizio di malinconia, con accessi di blasfemia, di dubbio e di miscredenza, che cadde nella disperazione. Iniziarono a crescere in lei i dubbi più gravi riguar­ do ciò in cui aveva sempre creduto sin dall’infanzia, e riguardo ciò in cui doveva credere». Si gettò così nella Mosella. Sempre attor­ no al 1220, un francescano, vecchio compagno di San Francesco, si impicca «per impazienza». Cesario di Heisterbach riporta anche la storia di un altro cistercense che aveva conosciuto, che «diven­ ne malinconico e timoroso (pusillanim is) . L’ansia per i suoi pecca­ ti divenne tale che perse ogni speranza nella vita eterna. Il suo pro­ blema non riguardava i dubbi sulla fede, ma solo il fatto di dispe­ rare della sua salvezza». Egli si annegò nello stagno del convento. Per Cesario, questo monaco «si dibatteva contro il vizio della malin­ conia e per tale ragione era pieno di accidia: questi fattori fecero nascere la disperazione nel suo cuore». Verso il 1240 Tommaso di Cantimpré narra la storia di un domenicano che si uccise perché il priore del convento era stato troppo severo. All’inizio del X IV secolo Ugo di Trimberg, insegnante nell’abbazia di Saint-Gangolf, vicino a Bamberg, scrive che i monaci che si dedicano eccessiva­ mente agli esercizi religiosi «si impiccano o si affogano».

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A volte il numero di suicidi raggiunge un livello tale che si può parlare di vero e proprio problema sociale. E quanto accade a Firenze verso il 1300. Tutte le testimonianze contemporanee con­ cordano in proposito. Boccaccio narra che molti in città iniziaro­ no a impiccarsi, come se fossero in preda a una maledizione divi­ na. Anche Jacopo della Lana osserva che il vizio tipico dei fioren­ tini fosse di impiccarsi, mentre quello degli aretini fosse di gettar­ si nei pozzi. Benvenuto da Imola afferma che, a quei tempi, molti fiorentini si impiccavano; secondo Pietro Alighieri, figlio di Dante, era molto frequente che gli uomini si impiccassero in quella città. Cino da Pistoia scrive che taluni si uccidevano per noia di vivere, per follia furiosa, o per vergogna, o per qualsiasi altra causa, come accadeva fra numerosi fiorentini. Un secolo più tardi, ancora, il poeta Saviozzo da Siena, autore dei poemi d ’amore Disperata, in cui l’innamorato ricorre al ricatto del suicidio con la sua bella, si uccide nel 1419, perpetuando la tradizione fiorentina51. Dante, il più illustre dei fiorentini di quest’epoca, riserva ai sui­ cidi una posizione di tutto rispetto nelYInferno. L a morte volonta­ ria, per ragioni sconosciute, sembra essere divenuta una vera e pro­ pria epidemia: Cino da Pistoia parla infatti di «noia di vivere». Questo passaggio in terra fiorentina ci dà l’occasione per ricorda­ re che Dante mette gli accidiosi nel Purgatorio (canto XV II); la loro colpa è stata la tiepidezza, la lentezza, la trascuratezza delle cose spirituali, ecco perché la loro punizione sarà di essere assillati da un amore giusto e da una volontà leale. Nel Purgatorio dantesco le anime si aggirano a gran velocità urlando di andare sempre più forte, senza stare a perdere tempo con l’amore, e gemendo di non poter restare, per quanto assalite dalla voglia di muoversi. Non perdere tempo: questa preoccupazione annuncia l’arrivo di una nuova epoca. L’ossessione per il buon impiego del tempo diverrà rapidamente una delle componenti del mal di vivere. G ià intorno al 1330, poco dopo la Divina Commedia, il domenicano Domenico Cavalca dedica una parte della sua Disciplina alla necessità di com­ battere la perdita di tempo, l’ozio e l’accidia52. Nel canto V II dell’Inferno di Dante, i collerici farfugliano:

51 A. M urray, Suicide..., cit., 1.1, pp. 85-91. 52 D. C avalca, Disciplina degli spirituali, Bottari, Roma 1838, cap. 19.

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Fitti nel limo, dicon: «Tristi fummo ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, portando dentro accidioso fummo: or ci attristiam nella belletta negra»53. Tristezza, asprezza, bassezza, brontolio: questi collerici costret­ ti per sempre nella loro condizione sono forse degli accidiosi? L a questione resta controversa. Forse Dante distingue due tipi di acci­ dia: quella legata alla tiepidezza spirituale, punita in purgatorio con un attività sfrenata e quella, più grave, legata alla collera, puni­ ta nell’inferno con lo sprofondamento nel fango: «Figlio, or vedi l’anime di color cui vinse l’ira» (Inferno , Canto VII, 115-116), dice Virgilio al poeta. Secondo Dante il suicidio è una violenza contro se stessi, e non una conseguenza dell’accidia e della malinconia. Egli riserva una puni­ zione terribile a coloro che si uccidono. E d è proprio un suicida illu­ stre come Pier della Vigna, consigliere di Federico II morto nel 1260, a descrivere a Dante il loro supplizio: le anime dei suicidi non pos­ sono essere riunite al loro corpo; esse vengono disseminate e diven­ tano arbusti dai rami taglienti, torturati dalle arpie che vi costruisco­ no il loro nido; i corpi vengono trascinati e appesi a questi rami. Il caso di Firenze nel 1300 resta eccezionale. Tuttavia è vero che per ogni epoca vi sono documenti attestanti la frequenza delle morti volontarie. Raban Maur, abate di Fulda dall’822 all’847, a propo­ sito della tristezza eccessiva dichiara in un sermone: «N e conosco molti che si sono allontanati così tanto dalla retta via, sia della mia epoca che di quelle dei miei predecessori». Il suo contemporaneo Christian de Stablo conferma, precisando che: « I vescovi sono responsabili di questa pratica, poiché non spiegano al popolo che coloro che si tolgono la vita non mettono fine alla sofferenza e all’infelicità, ma le aggravano, poiché passano dai mali attuali a mali ben peggiori»54. Nel X II secolo San Bernardo deplora in un sermone: «N e abbiam o conosciuti molti, caduti nelle mani del demonio, che si sono annegati o impiccati»55. Poco dopo Ildegarda

53 DANTE, Divina Commedia, Inferno, canto V II, 121-126.

54 C hristian de Stablo , Commentaire sur l’Évangile de Matthieu, cap. 43. 55 San BERNARDO, Sermone sui cantici, n. 66, § 13.

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di Bingen scriverà: «M a la tentazione del Diavolo spesso si ritorce nella malinconia e rende l’uomo triste e disperato; molti uomini soffocano e sono distrutti in tal m odo dalla disperazione»56. All’inizio del X III secolo, Jacques da Vitry constata che «la tri­ stezza causa la morte di numerose persone». San Bonaventura affer­ ma che «molti si uccidono e detestano la propria vita»; «davvero molto spesso» la disperazione porta al suicidio57. Si tratta certamente di un’impressione soggettiva, ma gli indizi sono troppo numerosi e le dichiarazioni troppo concordanti per­ ché se ne possa dubitare: il suicidio è una realtà per tutto il M edioevo. A lexander M urray cita ancora le testimonianze di Tommaso di Chobham, Alessandro di Hales, Johannis Walensis, David d ’Asburgo, che muovono tutte nella stessa direzione58. Sia le fonti giuridiche che canoniche e teologiche ne attribuiscono pre­ valentemente la responsabilità alla «disperazione». E questo può sembrarci un’evidenza. In effetti questo termine, pur denotando sempre un peccato grave, designa svariate situazioni.

Le autorità spirituali e il suicidio L a condanna del suicidio da parte della Chiesa non è stata imme­ diata; i teologi hanno esitato a lungo: la Bibbia, fonte principale dei precetti morali, non è chiara in proposito: come metter fine alla que­ stione dei martiri più o meno volontari e delle vergini che si ucci­ dono per evitare il disonore? Origene e Geremia sono i primi a pro­ nunciarsi chiaramente contro il suicidio, ma senza fornire solide motivazioni, per le quali occorre attendere Sant’Agostino che, ne L a città di Dio, formula un interdetto intangibile: Questo diciamo, questo affermiamo, questo in tutte le maniere dimo­ striamo, cioè che nessuno deve di propria volontà darsi la morte né per sottrarsi alle avversità temporali, per non cadere nelle pene eterne, né per

56 I ldegakda di B ingen , Cause e eure, cit., p. 216. 57 R. J eh l , Melancholie und Accedia, Schöningh, Paderborn e Monaco 1984, p. 235, 252. 58 A. M urray, Suicide..., cit., t. II, p. 365.

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i peccati di un altro, per non incominciare egli stesso a macchiarsi d’un peccato proprio e gravissimo, mentre il peccato altrui non lo macchiava; nessuno deve togliersi la vita per i suoi peccati passati, a cagione dei quali ha ancora più bisogno di vivere, per potersi meritare il perdono come la penitenza; nessuno deve farlo nemmeno per il desiderio d’una vita miglio­ re, che si spera dopo la morte, poiché per quelli che sono colpevoli di sui­ cidio non v’è speranza, dopo la morte, di una vita migliore59.

Tale interdetto assoluto è ancora soltanto un parere teologico. I canoni disciplinari dei concili lo trasformeranno gradualmente in legge per i cristiani. Il Concilio di Orléans (533), di Braga (561) e di Auxerre (fine del V I secolo) proibiranno ogni tipo di cerimonia religiosa e deposito di offerte per i suicidi. Secondo quanto dispo­ sto dal Concilio di Toledo (693), «il contagio della disperazione si è radicato così profondamente in certi uomini» che, quando ven­ gono sottomessi a punizioni, il diavolo li spinge a togliersi la vita; se riescono a scamparlo, dovranno subire una penitenza prima di essere reintegrati nella comunità. Progressivamente tutte le forme di morte volontaria vengono vietate. I penitenziali anglosassoni dei secoli V ili e IX giustificano esclusivamente il suicidio dei pazzi o «demoniaci»; occorre tuttavia che questi ultimi abbiano condotto un’esistenza onorevole prima di essere posseduti dal diavolo. H sui­ cidio per disperazione è considerato il più grave di tutti, poiché colui che lo commette crede che i suoi peccati vadano al di là di qua­ lunque perdono. Così facendo egli pecca sia contro Dio (poiché dubita della misericordia, come Giuda) che contro la Chiesa (poi­ ché dubita del potere di intercessione). Allo stesso tempo, la dispe­ razione si impone come uno dei peccati più gravi poiché torna a contestare il ruolo della Chiesa nel perdono delle colpe per mezzo dell’assoluzione, una Chiesa che afferma peraltro il suo statuto di intermediario universale e obbligato fra Dio e gli uomini. Il miglior rimedio contro la disperazione è la confessione, che diventa obbligatoria una volta l’anno a partire dall’inizio del X III secolo, ma che era comunque già molto diffusa. I manuali per con­ fessori insistono a lungo su questo punto. Q uello di Robert Grosseteste, ad eseihpio, indica che alcuni cristiani disperati non

59 S ant ’A gostino , La città di Dio, I, XXVI, SEI, Torino 1958, p. 132.

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si confessano perché pensano che D io non voglia perdonarli, o perché i loro peccati sono talmente enormi da non ritenersi capa­ ci di compiere la penitenza che verrà loro inflitta, o ancora perché sentono di non avere le forze per lottare contro le cattive tenden­ ze. G li autori spirituali si riferiscono qui all’esempio di Caino, che si dispera perché pensa che il suo peccato sia troppo grave per essere perdonato. La disperazione può quindi essere il risultato di qualunque pec­ cato. È ia mancanza di fiducia, ma anche una mancanza di fede che domina implicitamente la tentazione suicida. Questa idea si trova già in un penitenziale inglese dell’V III secolo, il D iscipulus Umbrensis, così come anche nel celebre M anuale di Dhuoda (IX secolo) e in numerose Vite di santi. L’accostamento fra deperatio e suicidio (o suicidia, poiché il termine compare per la prima volta nel 1178 nel De quatuor labyrinthis Franciae del canonico agosti­ niano di Parigi Guillaume de Saint-Victor) viene consacrato nel X III secolo da numerose autorità. Pertanto, la maggior parte delle volte, i suicidi sono attribuiti semplicemente alla disperazione. Un manuale inglese destinato ai preti cita un tipo di accidia caratte­ rizzata dalla «disperazione o fatica di vivere»; fonti francesi e ita­ liane menzionano numerosi casi di suicidio «p er disperazione»60. San Bonaventura scrive: «Esiste un’altra forma di disperazione, per cui un uomo che si dispera radicalmente si nasconde dalla vista del perdono divino, come fece Caino [...]. Un peccato di questo tipo si accompagna sempre alla malizia, poiché colui che si dispera in questo modo, per aver commesso un peccato o altra cosa, deside­ ra mettere fine alla propria vita; per questa ragione accade che tali desperatissim i si uccidano molto spesso»61. Dietro tale disperazione ritroviamo spesso il diavolo, incrimi­ nato dagli antichi penitenziali dei secoli VII-XI, come il Judicia Theodori, contenente le risposte date dall’arcivescovo di Canterbury Teodoro alle domande dei preti62 nel periodo compreso tra il 668 e il 690. Tale manuale, spesso copiato e imitato, distingue di fatto

60 A. M urray, Suicide..., cit, t. II, p. 382, pp. 387-391. 61 R. JEHL, Melancholie, cit., p. 252. 62 Councils and Ecclesiastical Documents relating to Great Britain and Ireland, Oxford 1869-1878, 3 voll., vol. 3, p. 197.

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diversi casi: se l’individuo si è ucciso «a causa della disperazione o per una qualche paura, o per cause sconosciute, lasciamo che sia Dio a giudicare e non osiamo pregare per lui». Ma, come abbiamo visto, presto viene introdotta una nuova e più severa legislazione, la quale giustifica solamente un tipo di suicidio: quello degli «inde­ moniati», vale a dire i pazzi. Le Somme dei confessori, che pren­ dono il posto dei penitenziali a partire dal X II secolo, adottano que­ sta posizione. Curiosamente, sia il diritto canonico che il diritto civile si mostra­ no molto indulgenti nei confronti dei tentativi di suicidio che non vanno a buon fine: «Chiunque tenti di uccidersi per impiccagione o con qualsiasi altro mezzo, e che non venga abbandonato da Dio al momento della morte, dovrà espiare le proprie colpe con cinque anni di penitenza»63, dichiara ad esempio il Poenitentiale vigilanum del IX secolo. Le sanzioni sono effettivamente molto leggere: si va dalla riprovazione al controllo. In compenso, il cadavere del suici­ da è sottoposto a pene infamanti. L e vittime del suicidio vengono sepolte fuori del cimitero, a volte all’incrocio dei cammini, con un piolo conficcato nel petto; i loro beni vengono confiscati e la loro casa distrutta. Simili pratiche si spiegano forse per la paura dell’inquinamento causato da un atto «contro natura» e alimentata dalla presenza di un cadavere, come nell’Antichità64. Talvolta si giungeva addirittura a pensare che un suicidio potesse provocare vere e proprie catastrofi naturali, come a Venezia, dove due cro­ nache affermano, a proposito della terribile tempesta che sconvol­ se la città nel 1342: « C ’era a Venezia un maestro di scuola che, per povertà e disperazione, si donò anima e corpo al Nemico, poiché si diede la morte per impiccagione. Per questa ragione si produs­ se qui a Venezia la più terribile tempesta che si fosse mai vista»65. Ritroviamo la stessa spiegazione alla fine del X V secolo nella Cronaca di Norimberga, a proposito di una tempesta che seguì il suicidio di un monaco.

63 J.T. M c N eill e H.M. G arner, Medieval Handbooks of Penance, Columbia University Press, New York 1938, p. 291. 64 A. M urray, Suicide..., cit., t. n , pp. 55-85. 65 Ivi, 1.1, p. 112.

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Ambiguità della disperazione cristiana Nell’arte e nella letteratura del Medioevo, G iuda è l’archetipo della disperazione. Alcune miniature lo rappresentano impiccato, con la scritta «G iu da che si disperò», di fronte alla virtù contrap­ posta, la speranza. Innumerevoli rappresentazioni di questa scena, scolpite, dipinte su vetro, come anche molti verbali di suicidi «per disperazione», riportano la menzione «come G iuda»66. Spesso il dia­ volo è nelle vicinanze. Sappiamo che le Scritture non sono chiare a proposito della sorte di Giuda. Se la tradizione dell’impiccagio­ ne ha finito con l’imporsi è perché sembrava la più verosimile psi­ cologicamente, moralmente e teologicamente: il peccato conduce alla disperazione e la disperazione al suicidio, schema meccanicamente applicato in numerosi processi per suicidio. I cristiani del Medioevo credevano peraltro che altri «cattivi» della Bibbia aves­ sero conosciuto la stessa sorte: circolano voci ad esempio sulla morte di Pilato e di Erode, propagate dalle Storie ecclesiastiche di Eusebio, La Leggenda aurea e i Chronica di O tto Von Freising. G li autori che scrivono in lingua volgare associano quasi sem­ pre il suicidio alla disperazione. Come spiega Alexander Murray, «essi utilizzano dei derivati vernacolari di desperatio in un conte­ sto di suicidio, sicché parole come desperazione e il francese désespoir potevano in realtà significare «suicidio», un uso che aveva il doppio vantaggio dell’eufemismo e dell’unione dell’atto inespri­ mibile con un peccato conosciuto ed esprimibile»67. I teologi si sforzano di andare ancora più a fondo nella questione. Se, in un primo tempo, si accontentano di riprendere la condanna senza appello di Agostino e di spiegarla con l’intervento del dia­ volo, a partire dal X II secolo iniziano a imbastire una teoria m ag­ giormente elaborata per condannare il suicidio sia in nome dei pre­ cetti religiosi che in nome della ragione. Abelardo è il primo a svi­ luppare ampiamente tale argomento nella sua Teologia cristiana. Nel 1159 Giovanni di Salisbury, nel suo Policratico, confuta l’idea di coraggio che circondava i prestigiosi suicidi dell’Antichità: «Q uesta morte è la morte delle persone completamente disperate. È la morte

66 A. M urray, Suicide..., cit., t. II, pp. 323-339. 67 Ivi, p. 321.

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ili coloro che, pur essendo ancora fisicamente vivi, sono già morti prematuramente nello spirito. In breve, si tratta della morte di chi è già morto, non di chi è vivo»68. Giovanni di Salisbury è consa­ pevole del paradosso cristiano: «O ccorre quindi attaccarsi alla vita in modo tale da arrivare a disprezzarla, e disprezzarla in maniera lale da meritare la salvezza». San Bernardo invita i suoi novizi ad un vero e proprio esercizio di equilibrismo esortandoli a praticare il disprezzo di se stessi69. L a regola cistercense è, ai suoi occhi, il miglior garante contro la depressione: se Giuda fosse stato un cister­ cense, non si sarebbe suicidato. Avvalendosi della ragione e della natura, i grandi teologi del XIII secolo riprenderanno le argomentazioni di Aristotele per giu­ stificare l’opposizione al suicidio. Tommaso d ’Aquino vede nel sui­ cidio sia un crimine contro Dio, contro la natura, che contro la società e contro se stessi: è quest’idea che spiega la punizione ori­ ginale inflitta da Dante nell’Inferno alle vittime del suicidio. Nel XIV secolo Giovanni X X II, papa dal 1316 al 1334 e fervente ammira­ tore di San Tommaso, da lui canonizzato, riprende e consacra la sua argomentazione in un sermone tenutosi ad Avignone70. Egli afferma che molte persone si uccidono perché credono in questo modo di sfuggire al mal di vivere: «Potreste pensare che il deside­ rio di San Paolo di venire preso per essere riunito a Cristo possa essere interpretato in questo modo, facendo della morte un bene, e in base a ciò chiedere perché, in questo caso, non dovreste ucci­ dervi». Riprendendo esplicitamente le teorie di Aristotele, il papa risponde: «Q uesto è chiaro, secondo quanto afferma l’Etica, capi­ tolo V », dichiara alla fine della sua formulazione. Il cristianesimo medievale demonizza tali angosce, in cui vede una mancanza di fiducia in Dio, e promette l’inferno a coloro che si disperano e che rifiutano le prove della vita. In questo modo non fa che aggravare il mal di vivere degli animi più fragili presi, da un

68 G iovanni di S alisbury, Policraticus, a cura di C.C.J. Webb, Oxford 1909, 2 voli., voi. 2, cap. 27, righe 7-10; trad, it., Policraticus: l’uomo di governo nel pen­ siero medievale, Jaca Book, Milano 1984. 69 S an B ernardo di C hiaravalle, S. Bernardi opera 4 sermones I [N. 1-17] / adfidem codicum recensverunt, a cura di J. Leclercq e H. Rochais, Ed. Cistercensi, Koma 1966, t. IV, p. 76. 70 B.N.F., ms latino 3290, f. 16-19.

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lato, dalle loro sofferenze terrestri ben reali e, dall’altro, dall’idea di sofferenze ancora peggiori che li attendono in caso non riesca­ no a sopportare la loro condizione. Il mal di vivere è un peccato e, pur vietando di soccombervi, la Chiesa lo alimenta aggiungendovi l’angoscia supplementare della dannazione. In questo modo viene a crearsi un cerchio infernale: l’accidia fa incombere la minaccia del­ l’inferno e la m inaccia dell’inferno alimenta l ’accidia; bisogna disprezzare la vita terrestre, ma allo stesso tempo trovarla bella e soprattutto non porvi fine.

Capitolo terzo Il secolo della malinconia ( 1480-1630)

L’incisione M elancholia I di Albrecht Diirer appare nel 1514, mentre nel 1621 viene pubblicata l’opera di Robert Burton Anatomia ch'ila malinconia. Fra queste due pietre miliari si colloca il secolo ilella malinconia, che è poi anche il secolo del Rinascimento, dell’Umanesimo e della Riforma. L a nascita dello spirito moderno non poteva che essere malinconica. Il fatto di rimettere in discussione certezze plurisecolari suscita meditazione, dubbio, spinge allo studio, al dibattito, alla contestazione. L’umanista che rivendica la propria autonomia è, almeno inizialmente, ottimista, ma certo non è felice, poiché si sente sempre più solo in un mondo via via più vasto. A par­ tire dall’epoca di Cristoforo Colombo la Terra è diventata più gran­ de; da Copernico in poi l’universo cresce incessantemente (Giordano Bruno azzarda persino che sia infinito); con Lutero Dio si allontana: niente più icone, niente più intercessori né indulgenze. L’umanista inizia a intravedere la solitudine dell’uomo nell’universo.

Umanesimo e individualismo come fattori di inquietudine Il nuovo intellettuale è un solitario, chiuso n d suo studio fra libri e mappe astronomiche, non divulga le sue scoperte, diffida dei suoi simili e delle reazioni che le autorità religiose potrebbero avere. Nel mondo scientifico il disagio diventa chiaramente percepibile: Copernico rivela solo a malincuore le sue ipotesi e altri sono mani­ festamente depressi, come Paracelso, Cornelio Agrippa o Geronimo

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Cardano, il matematico astrologo che si suicidò nel 1575, come già aveva fatto suo padre nel 1524. Alla solitudine si aggiungono le incertezze materiali. Molti intel­ lettuali vivono in condizioni precarie e spesso sotto l’egida di qual­ che ricco mecenate; alcuni mettono persino fine ai loro giorni, come l’umanista Bonaventure Despériers nel 1544. Spirito troppo libero, legato agli ambienti contestatari protestanti dell’entourage di Margherita di Navarra, ammiratore degli Antichi e in particola­ re di Seneca, di cui traduce le opere, questo intellettuale originale e pessimista, divenuto sospettoso di tutto, cade nella disperazione nel momento in cui viene abbandonato dalla sua protettrice. Si getta allora sulla sua spada e viene trovato trafitto da parte a parte. L’altra causa di disperazione che minaccia gli umanisti è la con­ quista impossibile del sapere universale. L a loro insaziabile fame di conoscenza porta i più ansiosi a misurare i limiti della mente umana. L a disillusione è amara per coloro che avevano creduto che la scienza universale fosse a portata di mano. Scrive Dùrer: «Vorremmo sapere molto e detenere la verità su tutte le cose. Ma la nostra intelligenza ottusa non può raggiungere la perfezione del­ l’arte, della verità e della saggezza. Al fondo delle nostre cono­ scenze non v’è che menzogna e le tenebre ci avviluppano così impie­ tosamente che, pur procedendo con prudenza, inciampiamo ad ogni passo». Faust incarna la frustrazione dell’intellettuale posto di fronte ai limiti della mente umana e il fatto che il suo mito nasca nel X V I secolo non è un caso. A Francoforte, nel 1587, al momento della sua pubblicazione, la Storia del Dottor Faust non è che la storia ano­ nima e semi-storica della vita di un avventuriero dissoluto, astro­ logo, mago e ciarlatano, che muore tragicamente nel 1540. L’autore illustra la tentazione della sapienza illecita ottenuta con un patto diabolico e sottolinea la smisuratezza di Faust: astrologo, matema­ tico, teologo e medico, egli volle sondare le fondamenta ultime del cielo e della terra, e sarà proprio la sua bulimia di conoscenza, chia­ mata «furore malinconico», a condurlo alla disperazione quando capisce che la conoscenza assoluta è fuori dalla sua portata e che deve abbandonare il sapere acquisito nel corso di tutta una vita di lavoro. Christopher Marlowe riprende la storia l’anno seguente e ne amplia il significato in una magnifica tragedia: Faust vuole ugua­ gliare D io e, davanti al suo fallimento, pensa di uccidersi. Secondo

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gli autori del X V I secolo, dietro questo mito si cela una della cause essenziali della malinconia: l’eccesso di lavoro intellettuale. Religione e umanesimo non sono però i soli temi in discussio­ ne, il disagio riguarda infatti anche i cambiamenti socioeconomici. Il capitalismo nascente inizia a rifiutare gli obblighi corporativi; le strutture tradizionali come la famiglia, le corporazioni, le comunità religiose vacillano, provocando il declino delle pratiche comunita­ rie. Questa progressione dell’individualismo, nella religione come nella cultura e nell’economia, si traduce in un interesse crescente di ognuno per la propria immagine. Studi di fisionomia, ritratti, autoritratti e autobiografie mostrano la nascita di un narcisismo che è esso stesso fonte di malinconia. L’interesse per l’aspetto fisico è dato dal fatto che, secondo la concezione platonica, il corpo è l’im­ magine dell’anima. Marsilio Ficino, uno dei grandi iniziatori di questo ritorno alla ribalta del platonism o, scrive nel 1484: «Ovviamente non possiamo vedere l’anima [...], ma possiamo vede­ re il corpo, che è ombra e immagine dell’anima e per similitudine possiamo supporre che in un bel corpo risieda una bella anima. Ecco perché preferiamo avere degli allievi belli»1. Poiché l’aspet­ to dovrebbe rivelare il carattere, numerosi trattati sulla fisionomia elaborano un sistema complesso di corrispondenze, come il De humana physiognomia di Giambattista della Porta (1586) o VExamen de ingenios para los ciencias di Juan Huarte (1575). L’uomo diventa il proprio oggetto di studio. Il ritratto diviene, infatti, un genere pittorico in pieno sviluppo. Nel X V secolo sono principalmente i personaggi dell’alta aristocrazia, ma anche la bor­ ghesia, a voler lasciare un’immagine di sé e gli artisti del X V I seco­ lo si cimentano sempre di più nell’arte dell’autoritratto. Oltre a un banale segno d ’orgoglio, bisogna vedere in questa tendenza il segna­ le di una crescente inquietudine. Ritratti e autoritratti sono altresì dei tentativi per fermare gli «irreparabili oltraggi» del tempo, per fissare la propria immagine e trasmetterla, immutabile, alle gene­ razioni future. Nel X V II secolo Rembrandt realizzerà più di un centinaio di autoritratti, dove è possibile ammirarlo man mano gio­ vane, vecchio, sorridente, serio, arrabbiato, mendico o nelle vesti

1 Citato da S. DAVIES, Renaissance Views o f Man, Manchester University Press, Manchester 1978, p. 38.

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di un principe. È fuor d ’ogni dubbio che vi sia in questo una forma ansiosa del desiderio di immortalità: «Rembrandt dipinge unica­ mente il presente del suo viso, il qui e ora. Ogni ritratto è una sospensione del tempo. Le opere successive di Rembrandt sono una serie di tempi fermati, non una durata»2, scrive Pascal Bonafoux. Victor Stoichita, da parte sua, ritiene che Rembrandt «affidi all’autorappresentazione periodica il suo desiderio di salvezza»3. Autoritratti, autobiografie, il procedimento è sempre il mede­ simo: si vuole plasmare la propria immagine, autogiustificarsi e immortalarsi nella posa scelta. All’origine dell’autobiografia vi è infatti spesso un’angoscia del tempo che passa e un’angoscia rispet­ to allo sguardo dell’altro. La prima autobiografia è datata 1542 ed è quella del matematico e filosofo Geronim o Cardano, grande depresso che finisce per suicidarsi4. Essa è seguita da quella di Benvenuto Cellini, turbolento artista avventuriero che tenterà il suicidio e narrerà tale episodio nelle sue Memorie5. I Saggi di Montaigne si ricollegano in un certo qual modo a questa corrente. Scrive Jean Starobinski: «L a riprovazione di Pascal [rispetto alle confessioni di Montaigne], mi sembra, non si rivolge solo a un atto di orgoglio ma, più profondamente, al peccato di disperazione commesso da Montaigne quando, invece di rispondere alla morte con un atto di fede nella promessa divina, ricorre alla letteratura, all’arte, per tracciare un’immagine della sua vita da affi­ dare alla posterità»6. Si può discutere della malinconia di Montai­ gne, come vedremo, ma la sua evoluzione si allinea all’insorgenza deH’inquietudine m oderna, cioè l’inquietudine dell’individuo incentrato su se stesso e con uno sguardo ansioso su un mondo che va pericolosamente alla deriva. Il mal di vivere di questi pre­ 2 P. BONAFOUX, Rembrandt, autoportrait, Skira, Ginevra 1985, p. 8 e I d ., Les peintres et l’autoportrait, Skira, Ginevra 1984. 3 V.I. STOICHITA, Feindre le passage: autoportrait et autobiographie dans l ’œu­ vre de Rembrandt, in Le Temps dans la peinture, Atti del colloquio dell’Institut l’hom­ me et le temps a La Chaux-de-Fonds, 26-28 novembre 1992, La Chaux-de-Fonds, L’Institut l’homme et le temps, 1994. 4 G. C ardano , Della mia vita, Serra e Riva, Milano 1982. 5 Mémoires de Benvenuto Cellini, a cura di G. Maggiora, Société Littéraire de France, Parigi 1953. 6 J ean Starobinski, Montaigne en mouvement, Gallimard, Parigi 1982, p. 50; trad. it., Montaigne: il paradosso dell’apparenza, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 53-54.

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cursori della modernità ha, come fonte prima, l’inadeguatezza fra sé e il mondo.

Sotto il segno di Crono Al centro del malessere degli umanisti c’è anche il tempo, per­ cepito come distruttore e non come mezzo per raggiungere la libe­ razione. Per questi uomini che riscoprono la bellezza del corpo e ilei viso, che cominciano a riabilitare la materia, che ammirano l’u­ manità e le sue realizzazioni artistiche e intellettuali, il tempo diven­ ta il nemico principale che viene a offuscare la bellezza, a indebo­ lire le capacità e ad annunciare la morte. Molto significativo, a que­ sto proposito, è il fatto che nel corso dei secoli X V e X V I si rea­ lizzi la fusione fra allegoria del Tempo e rappresentazione di Saturno. Il tempo e il temperamento malinconico sono ormai indis­ sociabili. Kronos diventa Crono e genera la malinconia. Fra il 1340 e il 1370, per illustrare l’opera II Trionfo del Tempo del Petrarca, alcuni artisti hanno inizialmente fissato l’immagine del Tempo rappresentandolo come un vecchio ricurvo appoggiato sulle stampelle e provvisto di uno o due paia di ali a raffigurare il sus­ seguirsi delle stagioni. Talvolta viene anche rappresentato con una falce per ricordare che è foriero di morte. Nel X V secolo tale imma­ gine si accompagna a una o due clessidre, come possiamo notare su una miniatura fiorentina del British Museum datata 1460-1470: canuto e barbuto, il vecchio figura su un carro trainato da due cervi; sotto si possono leggere questi versi del Petrarca: Che più d ’un giorno è la vita mortale? Nubil e brev’ e freddo e pien di noia, che pò bella parer, ma nulla vale. [...] Così, fuggendo, il m ondo seco volve, né mai si posa né s’arresta o torna, fin che v’à ricondotti in poca polve7.

La fusione di Saturno e del Tempo genera effetti ambigui. Il temi­ bile astro aveva una cattiva reputazione: arido e freddo, associato alla 7 F. PETRARCA, Triumphus Temporis, in Opere, Mursia, Milano 1968, pp. 311-313.

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vecchiaia, alla lentezza, all’invalidità, alla sofferenza, alla bile nera e alla malinconia, esso doveva teoricamente influenzare i becchini, i mendicanti, i criminali, coloro che esercitavano professioni infaman­ ti e provocare dissapori e infermità. I neoplatonici, Marsilio Ficino principalmente, nato egli stesso sotto il segno di Saturno, tentano di riabilitarlo. Più «elevato» di Giove, si dice che governi la mente, favo­ risca la meditazione e permetta di carpire i segreti più inaccessibili. Scrive Pico della Mirandola: «Saturno incarna la natura intellettuale votata esclusivamente ad amministrare e mantenere in movimento, attraverso le sue regole, quanto le viene sottoposto [...]. Si dice infat­ ti che Saturno produca uomini contemplativi, mentre Giove conferi­ sca loro le funzioni di principe, governatore e amministratore dei popoli»8. Insomma, i saturnini sono persone straordinarie. M a molti non ne sono convinti. Nel 1516 Baldung Grien rap­ presenta Saturno-Crono come un vecchio irsuto dallo sguardo per­ fido; un’incisione molto suggestiva di Marten Van Heemskerk lo raffigura con la falce del Tempo mentre divora la gamba di un bam ­ bino e regna sugli impiccati, sugli agrimensori e sugli storpi. L’umanista tedesco Konrad Celtis, nato anch’egli sotto il segno di Saturno, non perdona a questo pianeta di avergli arrecato «grandi dispiaceri» e lo supplica di smettere di scagliare le sue «frecce ammorbanti». Saturno-Crono diviene il distruttore della reputazione e della bellezza, come si evince, secondo Pieter Bruegel il Vecchio, da un’incisione di Philippe Galle intitolata Tempus omnia et singola consumens (1574), in cui Saturno siede su una grande clessidra intento a divorare un bambino e a tenere un serpente che si morde la coda. Una moltitudine di simboli fanno di quest’opera un vero e proprio ricettacolo di misfatti del tempo. Nella tradizione dei Trionfi di Petrarca, Saturno guida un carro trainato da due cavalli che raffigurano la Notte e il Giorno e viene seguito dalla Morte a cavallo, che prende le fattezze di uno scheletro, vestito di un suda­ rio, che brandisce la falce. In primo piano un ammasso di strumenti musicali, di utensili per la pittura e la scrittura e di simboli del

8 Citato da J. DELUMEAU, Le péché et la peur: la culpabilisation en Occident, X IIIe-XVIIIe siècles, Fayard, Parigi 1984, p. 194; trad. it., Il peccato e la paura: l ’i­ dea di colpa in Occidente dal X III a l X V III secolo, Il Mulino, Bologna 1987.

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potere, oggetti che rap p resen ta n o le van ità u m an e. S u llo sfo n d o n au fragio e in cen dio, m a an ch e festeggiam en ti p o p o la ri atto rn o all’alb ero d el m aggio: so n o gli eventi d ella vita che v e n go n o v e lo ­ cem ente su p e rati9.

Il X V I secolo vede la diffusione di questi tipi di incisioni e di pitture raffiguranti i danni del tempo. D a Dürer a Baidung Grien, da G eorg Pencz a Hermannus Posthumus, gli artisti rivaleggiano nel macabro, nell’atroce e nell’orrido. Il tempo è l’ossessione del XVI secolo: i pittori lo rappresentano, i poeti lo declamano, dai sonetti di Shakespeare alla rosa di Ronsard. Il tema delle Vanità ne è un ennesima illustrazione. Comparso nel X V secolo, questo stile pittorico, incentrato sul memento mori, si sviluppa dopo il 1500 in scene che associano cultura e morte, come un personaggio biblico o un Padre della Chiesa, San Geronimo in particolare, in uno stu­ dio circondato da libri e da strumenti scientifici e con di fronte un teschio. Il San Geronimo di Jo o s Van Cleve ad esempio, datato 1524-1530, è rappresentato di fronte a un libro aperto con l’indi­ ce appoggiato su un teschio. Quelli di Dürer, di Lucas Van Leyden e di Marinus Van Reymerswaele riproducono questo gesto. Il teschio è spesso presente nei dipinti del X V I secolo, presenza ossessiva che incombe anche sui potenti e che a volte si fonde nella scena, come nell’anamorfosi de G li ambasciatori di Hans Holbein, tal­ volta addirittura affermando la sua vittoria, come ne II trionfo della morte di Pieter Bruegel (1562). Una tale frequenza del tema della morte e del tempo distruttore non può che essere segno di una rifles­ sione malinconica sull’esistenza umana. Eppure le grandi calamità sono terminate. L’Europa, che sco­ pre e conquista nuove terre, conosce un forte slancio economico. Le conoscenze progrediscono, l’arte di vivere si raffina, almeno nella circoscritta élite protagonista della fortuna e della rinascita; la mente umana si libera e si sorprende di se stessa. Questa secon­ da rinascita sembra gioiosa, ma l’apparenza inganna: i progressi stessi della mente umana la rendono più lungimirante sulla sua miseria, e soprattutto, l’uomo comincia a rendersi conto di essere responsabile delle proprie sofferenze. Sotto l’effetto delle idee di

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Ph. J unod , Allégories du temps et temps de l ’allégorie, in L e Temps dans la

peinture, cit., p. 67.

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Lutero e Calvino, gli autori interiorizzano il peccato originale, pren­ dendo coscienza del loro stato di corruzione irrimediabile che annienta qualsiasi speranza di progresso morale10. L’uomo medie­ vale si sentiva vittima rassegnata dei castighi divini; l’uomo del Rinascimento trova conferma di essere la causa delle proprie disgra­ zie. Ci sono meno carestie, ma la guerra è endemica (si scatenano in particolare le guerre di religione); vi sono meno casi di peste, ma viene mandato al rogo un numero sempre maggiore di maghi, stre­ ghe ed eretici. Ci si vanta della ragione, ma ci si comporta in modo irrazionale; si rivendica più autonomia rispetto al Dio vendicatore, ma ci si rende conto di non valere più di lui. Fra l’uomo e Dio, chi è l’immagine l’uno dell’altro? Tutto ciò non può che alimentare cupe riflessioni.

M arsilio Vicino e Cornelio Agrippa: la riabilitazione della malinconia L a malinconia viene rivendicata come un segno di profondità e genio grazie al grande processo di riabilitazione operato da Marsilio Ficino. L a posizione del Fiorentino si spiega anzitutto con un fattore psicologico esistenziale, cui conferisce rispettabilità dandogli una parvenza di intellettualità platonica. Marsilio Ficino è un depres­ so, su questo non c’è dubbio; lo si evince anche dalle parole che scrive al suo amico Giovanni Cavalcanti: «In questo momento non so, per così dire, ciò che voglio; a meno forse che io non voglia ciò che so e voglia ciò che non so». Inquieto, febbrile e indeciso, egli si sente infelice senza ragione: Del resto, quale meraviglia? Tutte le volte che ce ne stiamo in ozio ci sen­ tiamo tristi come se fossimo in esilio, nonostante che non riusciamo a comprendere la causa della nostra tristezza o, addirittura, non ci pensia­ mo affatto. D a ciò deriva che l’uom o non può vivere in solitudine. Infatti riteniamo di poter scacciare la tristezza che si cela nel nostro animo tra­

10 2002 .

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G. M inois, Les origines du mal: une histoire du péché originel, Fayard, Paris

mite il commercio con gli altri uomini e per mezzo della molteplice varietà degli svaghi. Ma, ahimè, troppo ci sbagliamo! N el bel mezzo dei diverti­ menti spesso sospiriamo e, alla fine della festa, ce ne andiamo più tristi di come ci eravamo venuti11.

Diversamente dall’accidia medievale, che spesso veniva tradot­ ta in termini di letargia, Ficino si definisce sempre in movimento, irragionevolmente agitato. La novità è che questo è motivo di esal­ tazione per lui, che dà un’interpretazione lusinghiera della sua malinconia, elaborando una teoria in cui mette insieme Platone, Plotino (di cui traduce le opere), Aristotele, la medicina, l’astrologia e il cristianesimo. Bizzarra sintesi, che sedurrà una buona parte dell’élite intellettuale. L a mente umana, «vapore di sangue, pura, sottile, calda e chiara», subisce l’influenza dei pianeti, spiega Ficino nel primo volume dei suoi Libri de vita triplici. I nati sotto il segno di Saturno sono portati alla malinconia; è un segno di genialità, poi­ ché Saturno è il più potente e il più nobile dei pianeti ed eleva lo spirito fino alla contemplazione delle cose segrete, superiori, che permettono di accedere al mondo trascendente, inaccessibile agli altri uomini. Questa qualità è rafforzata dalla predominanza, nel malinconico, della bile nera che, «simile essa stessa al centro del mondo, spinge l’anima a ricercare il centro delle cose singolari. Essa si innalza fino alla comprensione delle cose più alte, tanto più che si accorda pienamente con Saturno, il più alto dei pianeti». Ma nel momento in cui il filosofo è in piena meditazione, il suo corpo viene sottoposto a una tensione insostenibile, come se la sua anima si dovesse staccare dal corpo: Ma tra tutti gli uomini di lettere sono infestati dalTumor nero specialmente quelli che, dediti allo studio assiduo della filosofia, astraggono la mente dal corpo e dalle cose corporee e la fissano sulle realtà senza corpo: sia perché questa è un’attività particolarmente difficile, che richiede anche una tensione mentale particolare; sia perché fintanto che tengono la mente a contatto con la verità incorporea, per tutto quel tempo sono costretti a tenerla disgiunta dal corpo; sicché il loro corpo si fa non di rado semivi­ vo e quasi soffocato dalla malinconia. E il nostro Platone descrive questa

11 MARSILIO F icino , Teologia platonica, Zanichelli, Bologna 1965, IV, Voi. 7, 2, p. 233.

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situazione nel Timeo, quando dice che l’animo, per frequente e intensa con­ templazione delle cose divine, a tal punto si fa vigoroso e potente, che si distacca dal proprio corpo al di là di ciò che la natura sopporta; e nei suoi movimenti più intensi talvolta o l’abbandona, in qualche modo, o non di rado dà l ’impressione di scompaginarlo12.

Ficino riconcilia dunque il concetto aristotelico del malinconi­ co brillante, l’ispirazione platonica del «furore divino», l’influenza astrologica saturnina e gli effetti fisiologici della bile nera. Si può essere malinconici dalla nascita, come Ficino stesso, nato nella fase ascendente di Saturno, e allora si è spinti naturalmente verso lo stu­ dio delle cose spirituali; oppure malinconici per deformazione, in un certo qual modo per adozione, e votarsi al lavoro intellettuale. Improvvisamente Saturno prende un’aura di immenso prestigio grazie a Platone, il quale viene arbitrariamente catalogato sotto il suo segno. A Firenze, l’Accademia platonica è il centro del suo culto, con un piccolo gruppo di saturnini, fra cui Lorenzo il Magnifico, il suo medico Pierleoni e Ficino, tutti malinconici e fieri di esserlo. Il prestigio di questo circolo va a contribuire grandemente alla riabilitazione della malinconia, fino a ergerla a «temperamen­ to obbligato» dell’intellettuale del X V I secolo. Ma ecco il rovescio della medaglia: la malinconia è sofferenza, mal di vivere, e Ficino deve esserne consapevole, poiché, pur esal­ tandone il carattere superiore, egli dedica lunghe digressioni al modo di combatterla. Saturno è ambivalente: esso innalza lo spiri­ to, ma può anche condurre alla follia o alla debolezza. Bisogna dunque diffidare della sua influenza e prendere le misure necessa­ rie per moderarla. Ficino prende quindi spunto dalla medicina e consiglia, sulla scia degli altri autori medievali, medicinali e inala­ zioni a base di piante. Il ricorso a questi veri e propri antidepres­ sivi deve essere completato dai talismani, che permettono di con­ centrare l’influenza di altri pianeti al fine di equilibrare quella di Saturno. Infine, una buona igiene di vita contribuirà ad alleviare gli effetti della malinconia. Anzitutto è consigliabile evitare tutti gli eccessi: l’intellettuale deve bere e mangiare con moderazione, fare l’amore raramente; è raccomandabile inoltre che si faccia fare dei

12 In., D e Vita, Edizioni dell’Immagine, Pordenone 1991,1, 4, p. 21.

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massaggi; che si alzi presto e che per prima cosa vada in bagno; inoll re è consigliabile che inizi lo studio all’alba, con una piccola pausa a ogni ora; che il pomeriggio legga preferibilmente gli Antichi; che non lavori la sera e la notte; che abiti in una casa gradevole e orien­ tata nella giusta direzione; che ascolti la musica e faccia passeggia­ te a piedi, di preferenza «nelle regioni alte, temperate, dove il cielo è sereno, poiché il contatto con i raggi del sole e delle stelle è più libero e più puro; essi colmano la mente e lo spirito del mondo, che sgorga abbondante attraverso di essi». I Libri de vita triplici hanno un grande successo. Con ventisei edizioni in latino nell’arco di un secolo e molteplici traduzioni, diffondono in tutta l’Europa dotta l’immagine dell’intellettuale malinconico. Ma la malinconia non rimane a lungo un privilegio dei filosofi. Molto presto anche artisti e scienziati rivendicheranno questo temperamento ispirato. Sin dal X III secolo il teologo Henri de Gand aveva riflettuto sui rapporti fra malinconia e attitudine alla matematica, distinguendo due tipi di uomini dal punto di vista delle capacità intellettuali: coloro che sono dotati per la specula­ zione metafisica, poiché la loro mente non è disturbata dall’imma­ ginazione, e coloro che non riescono a ragionare senza immagina­ re l’oggetto della loro riflessione. Fra questi ultimi, le menti mate­ matiche hanno l’intelligenza inquinata dall’immaginazione e la con­ sapevolezza di questo limite li rende malinconici: «Il loro intellet­ to non può superare la loro immaginazione [...]. Per quanto cogi­ tino, occorre che il pensiero si estenda o, come il punto geometri­ co, che occupi una posizione nello spazio. Per questo sono malin­ conici, e sono migliori nella matematica che nella metafisica, poi­ ché non possono estendere la loro intelligenza al di là della magni­ tudine su cui si fondano le matematiche»13. A ll’inizio del X V I secolo un pensatore tedesco, Agrippa di Nettesheim, più conosciuto sotto il nome di Cornelio Agrippa, rovescia le prospettive nel suo Occulta philosophia (1510). Per Agrippa, l’umore malinconico influenza le tre qualità del­ l’anima: lo spirito, il cui oggetto è la conoscenza dei segreti divini; la ragione, che studia gli esseri naturali e l’uomo; l’immaginazione, che dirige le attività meccaniche e artistiche. Ammiratore di Marsilio

13 H enri de G and , Quodlibeta, II, quest. 9.

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Ficino, egli applica a questi tre campi le sue idee riguardanti l’in­ fluenza saturnina: il furore saturnino stimola lo spirito dei grandi teologi e profeti; la ragione dei grandi dotti e filosofi e, in ultimo, l’immaginazione dei grandi artisti, anche se magari non hanno potu­ to compiere alcuno studio in tale campo. L’ispirazione artistica è un vero e proprio delirio malinconico: Si dice anche che l ’umore melanconico abbia tanto potere da costringere gli spiriti celesti a incarnarsi nel corpo umano, così che gli uomini melan­ conici parlano e agiscono sotto la loro ispirazione superiore [...]. L’anima, esaltata dall’umore melanconico, rompe le pastoie delle membra e del corpo e si diffonde tutta nel dominio della immaginazione, divenendo ricetto dei demoni di ordine inferiore, da cui spesso apprende le arti più sottili. Perciò spesso è dato vedere un uomo ignorante e grossolano tra­ sformarsi in abile pittore, in eccellente architetto, o in altro artista [ .. .] 14.

Come Marsilio Ficino, Cornelio Agrippa si ispira al contempo a Saturno, ad Aristotele e a Platone per mostrare che ogni uomo geniale è in realtà un malinconico: Saturno [...], essendo freddo e secco come lo stesso umore, vale ad aumen­ tarlo a conservarlo e a esaltarlo. Inoltre Saturno, essendo l’autore stesso della contemplazione arcana e alieno dagli affari pubblici e il più alto dei pianeti, storna le anime dalle occupazioni esteriori, le trascina verso le meditazioni interiori, le attira verso le cose future, come intende Aristotile nel suo libro dei Problemi. In virtù della malinconia, egli dice, molti uomi­ ni sono divenuti indovini e hanno presagito il futuro e altri hanno poetato. D i più dice che tutti coloro che si sono distinti nelle scienze erano per lo più melanconici. Democrito e Platone condividono tale opinione e asse­ riscono che molti melanconici hanno tanta spiritualità da sembrare più che uomini divinità. [...] E nei Problem i dice che le Sibille, le Baccanti, Nicerato di Siracusa hanno poetato e presagito il futuro per la forza del loro umore melanconico. [...] Alcuni melanconici, d ’ordinario grossola­ ni inabili e dotati di scarso spiritualismo, quali Esiodo, Ione di Chio, Tinnico il Calcifico, Om ero e Lucrezio, trasportati da improvviso furore, diventano poeti e creano opere tanto ammirevoli che appena essi stessi giungono a intenderle15.

14 E nrico C ornelio A grippa, L a filosofia occulta o la magia, Voi. I, I, 60, Edizioni Mediterranee, Roma 1991, p. 110. 15 Ivi, p. 109.

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Il legame fra genio artistico e malinconia si impone rapida­ mente, al punto da divenire un cliché che viene affibbiato d ’uffi­ cio a personaggi dalla reputazione di uomini sereni, equilibrati e felici di vivere, come Raffaello. Nel 1519 un incaricato d ’affari di Ferrara, tale Pauluzzi, scrive a riguardo di essere «portato alla malinconia, come tutti quelli che possiedono talenti così eccezio­ nali»16. Nel 1585 tale legame diventa evidente e la critica di Romano Alberti ne precisa le ragioni: I pittori divengono malinconici perché, volendo imitare, devono mante­ nere i fantasmi all’interno del loro intelletto: a questo fine, li esprimono in seguito nel m odo in cui li avevano visti inizialmente in presentia, nel momento stesso; e questo non una sola volta, ma continuamente, poiché è proprio in questo che consiste il loro esercizio: ecco perché il loro spi­ rito è tanto astratto e separato dalla materia e, di conseguenza, provoca la malinconia. Aristotele, peraltro, sostiene che significhi intelligenza e lun­ gimiranza, poiché, sempre secondo lui, quasi tutti gli esseri intelligenti e lungimiranti sono stati malinconici17.

ha moda della malinconia, dall’Italia all’Inghilterra I malinconici sono ovunque, scrive Robert Burton nel 1621: «Q uesta malattia crudele [...] sta attualmente flagellando, su quasi tutta l’Europa, le nostre persone di qualità»; essa è «così comune nella nostra epoca di stupidità che solo una persona su mille ne è indenne». Ma quanti sono gli autentici malinconici? E impossibi­ le saperlo, poiché per molti è solo un modo di apparire, «esatta­ mente come la Melancholia dipinta da Albrecht Dürer: una donna triste, appoggiata sul gomito, gli occhi fissi e i vestiti trascurati»18. In ogni caso i libri sulla malinconia si contano a decine. Citiamo, per la Francia, Le miroir du mélancholique di Meury Riflant (1543),

16 G. C ampori, Documents inédits sur Raphaël, «Gazette des Beaux-Arts», 14, 1863, p. 452. 17 R. A lberti, Trattato della nobiltà della pittura, Francesco Zannetti, Roma 1585, p. 17. 18 R. B urton , The Anatomy o f Melancholy, Tudor Publishing Company, New York 1948; trad, it., Lanatom ia della malinconia, Marsilio, Venezia 2003.

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il Second discours auquel est traicté des maladies mélancholiques et des moyens de les guérir di André D u Laurens (1595), il trattato De la mélancolie di Guibelet (1603), il Traité de l’essence et guérison d’amour ou de la mélancolie érotique di J. Ferrand (1612) e il Traité de la mélancolie di La Mesnardière (1635). Le opere del tardo Rinascimento danno prevalentemente un’im­ magine lusinghiera della malinconia. Certo, è una malattia, ma la malattia degli esseri eccezionali che, nel dolore, permette di acce­ dere a verità altrimenti nascoste ai comuni mortali, affermano sia l’olandese Lennio che gli spagnoli Q uarte de San Ju an e Luis Mercado, o l’italiano Giovanni Battista Silvatico. Se gli autori distinguono diverse varietà di malinconia - religiosa, amorosa, furiosa, cinica, misantropica e altre - restano comunque unanimi nell’affermare che provenga dall’Italia. Tuttavia anche l’Inghilterra viene invasa dal virus Melancholia. Sin dal 1532 un nobi­ le veneziano, dopo un soggiorno di due mesi a Londra, constata che in questa città «molti sono portati a impiccarsi o a gettarsi in un pozzo e a lasciarsi annegare»19; nel 1562 l’ambasciatore imperiale a Londra osserva che gli inglesi si suicidano spesso: «L a settimana scorsa quat­ tordici persone, fra uomini e donne, si sono uccise impiccandosi o get­ tandosi nel Tamigi»20. Nei castelli stile Tudor e in particolare elisabettiani, la galleria dei ritratti è estremamente rivelatrice: spesso emaciati, in un misto di tristezza e severità, i visi austeri dei personaggi vestiti di nero tra­ discono la volontà deliberata degli aristocratici di presentarsi come malinconici, come se vedessero in questo un segno di distinzione. A partire dagli anni 1580, la letteratura si impadronisce di que­ sto tema, ed è in Inghilterra che compaiono tutte le grandi opere sulla malinconia e il suicidio: A Treatise o f Melancholy di Timothie Bright (1586) e. Anatomia della malinconia di Robert Burton, su cui torneremo, ma anche il romanzo filosofico di Philip Sydney, The Countess o f Pembroke’s Arcadia (1580), il saggio di Francesco Bacone sulla morte (1607), il Biathanatos di John Donne (1610),

19 Citato da A. MURRAY, Suicide in thè Middle Ages, Oxford University Press, Oxford 1998,1.1, p. 376. 20 C. B arron , C. C olemen e C. G obi (a cura di), The London Journal o f Alessandro M agno 1562, «London Journal», 9, 1983, pp. 136-152.

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The City ofDreadful Night and otherpoems, dove Jam es Thomson descrive in versi la Melancholia I di Dürer, «che supera ogni intel­ ligenza». G li eroi depressi non si contano più a teatro: oltre ai sui­ cidi shakespeariani, un centinaio di opere di Robert Wilmot, Mary Sydeny, Samuel Daniel, Thomas Kyd, Ben Jonson, John Marston, Thomas Heywood, Thomas Dekker, Francis Beaumont, John Fletcher e William Rowley, fra il 1580 e il 1625, mettono in scena quasi duecento morti volontarie. Visibilmente in questo c’è più di una moda: il fatto che tanti eroi arrivino a preferire il suicidio come sola via onorevole di uscita tradisce un malessere socioculturale. «L o smarrimento morale dei giacobini appare qui in modo indiscutibi­ le», scrive Bernard Paulin, autore di un grande studio sull’argo­ mento21. Un personaggio di William Rowley si suicida persino senza motivo: «Poiché comunque dovrò morire, un giorno vale l’altro». Ma prendiamo in considerazione il maestro William Shakespeare, che da solo mette in scena ben cinquantadue suicidi. Tutta la sua opera è infatti una variazione sul tema «essere o non essere». La vita, con i suoi drammi spinti fino al parossismo, vale la pena di essere vissuta? Amleto è il principe dei malinconici, il modello dei depres­ si. Perseguitato dal proprio senso del dovere, velleitario, egli vaga ponendosi domande esistenziali; ora febbrile ora abbattuto, erra nei cimiteri, parla con un teschio, pensa di uccidersi e non si uccide, si rifugia nella follia simulata. E d è questo giovane infelice che Shakespeare onora con il più bel monologo della letteratura, l’inter­ rogativo che riassume tutta la condizione umana e anche tutto il mal di vivere: la riflessione ci paralizza, «il vigore delle nostre risoluzio­ ni arrugginisce all’ombra pallida del pensiero». Soffriamo, ma l’im­ maginazione ci impedisce di mettere fine a tali sofferenze con la morte. La vita è una grande storia folle, «è un racconto narrato da un idiota, pieno di grida, strepiti, furori», dice Macbeth. «A ppena nati, vedi, noi si piange perché ci si ritrova all’improvviso su que­ sto palcoscenico di pazzi», conferma un personaggio del Re Lear. Se sapesse la sorte che lo attende, «il più felice dei giovani d ’oggi

21 B. P aulin , D u couteau à la plume. Le suicide dans la littérature anglaise de la Renaissance (1580-1625), L’Hermès et Saint-Étienne, Università di Saint-Étien­ ne, Lione 1977, p. 533.

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mirando al corso della propria vita, ai pericoli corsi nel passato ed alle avversità dell’avvenire, chiuderebbe quel libro, ansioso sol di vivere adagiato nella supina attesa della morte», rincara la dose il re Enrico IV. Gli eroi shakespeariani illustrano le diverse sfaccet­ tature del mal di vivere, coronato dalla consapevolezza del tempo che passa. « E niente potrà far difesa contro la falce del Tempo», declama il Sonetto 12 - constatazione scoraggiante, ripresa indefi­ nitamente: Io penso allora al destino della tua bellezza Ché tu pure ne andrai tra i rifiuti del tempo.

L a soluzione è quindi lasciare questo mondo? Il problema di Amleto rimane irrisolto. Shakespeare studia la gamma completa dei motivi di morte volontaria: amore, gloria, rimorso, rovina, dispe­ razione, cui si aggiunge sempre una dose di qui prò quó, di illu­ sione, di errore, di grottesco. L’apice è il suicidio mancato del duca di Gloucester in Re Lear. Questo vecchio, cieco, infelice e disillu­ so dinanzi alla cattiveria del mondo, si fa guidare da suo figlio, che finge di essere pazzo, fino alle scogliere di Dover, per gettarsi poi nel vuoto. Conosciamo la storia: il pazzo conduce il cieco su una collinetta dall’altezza irrisoria, da cui il cieco spicca un salto da pulce da cui esce indenne. L a farsa può continuare. Alcuni hanno visto nell’aridità di questa scena un nichilismo molto moderno: tutto è vuoto, compreso il cielo; tutto è illusione, comprese la vita e la morte22. A immagine dei suoi egregi contemporanei, Jacopo, il malin­ conico di Come vi piace, è un uomo triste e contento di esserlo: «E bello essere tristi e taciturni», afferma. A ognuno la sua malinco­ nia: «L a mia malinconia non è quella dell’intellettuale ch’è solo invidia; né quella del musico ch’è un prodotto del suo fantastica­ re; né dell’uomo di corte, ch’è alterigia; né quella del soldato, ch’è ambizione; né dell’uomo di legge, ch’è scaltrezza; né della dama, ch’è civetteria; né infine quella dell’innamorato che le comprende tutte messe insieme. Una malinconia ch’è tutta mia, un amalgama di molti ingredienti, un distillato di molti elementi maturati nelle

22 J. K ott , Shakespeare nostro contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1983.

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meditazioni nei miei svariati viaggi per il mondo, il cui continuo ruminare interno m ’aw olge tutto, come in un mantello d ’una tri­ stezza molto variegata»23. Jacopo dimentica la malinconia del buffo­ ne, poiché neanche Falstaff sfugge allo spleen: «Però, perdio, son proprio giù di corda come un gatto castrato o un orso al laccio [...] ( ) come il mugular d ’una zampogna del Lincolnshire» - «o come la palude di Moor Ditch», aggiunge il principe Enrico24. Osserviamo come questi paragoni tradiscano un’estensione della qualità malin­ conica alle cose, ai paesaggi. L a malinconia tende a diventare un elemento indipendente, che può caratterizzare sia un luogo che una persona.

Le spiegazioni mediche Mentre i letterati disquisiscono sul mal di vivere dei loro con­ temporanei, i medici si chiedono se non sia semplicemente una questione di bile nera. Nel sangue, scrive Ambroise Paré, c’è «una certa proporzione e misura di tali umori che viene mantenuta all’in­ terno del corpo, aiutandolo a rimanere in salute: tuttavia, se si gua­ sta, essa è causa di malattia». Se predomina l’umore malinconico, esso provoca un temperamento che corrisponde al vento del nord, alla terra, all’autunno, alla vecchiaia, e coloro che ne sono colpiti sono «tristi, irritabili, duri, severi, rudi, invidiosi e timidi». Questa predominanza dell’umore nero si spiegherebbe con un cattivo fun­ zionamento dell’ipocondrio, un insieme di organi situati nell’ad­ dome, in particolare la milza, il cui ruolo sarebbe di assorbire l’ec­ cesso di bile nera; quando la milza non svolge più questo ruolo, la bile si diffonde nel corpo e il soggetto viene allora colpito dalla malinconia ipocondriaca. Inoltre, la bile in eccesso si modifica pro­ ducendo vapori caldi tossici per il cervello e causando idee «nere». A volte tali vapori esalano dalla bocca, con il rischio di contami­ nare i vicini. Un certo Allemand, «temendo di aspirare in chiesa una quantità troppo grande di vapori malinconici esalati dalla folla

23 SHAKESPEARE, Come vi piace, IV, 1. 24 I d ., Enrico IV, 1° parte, 1, 2.

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di fedeli contriti»25, preferì starsene a casa durante la settimana santa poiché, in quei tempi di penitenza e di rimorsi, l’aria di chiesa era satura di vapori malinconici contagiosi. Contro gli eccessi di bile nera vengono raccomandate medicine «evacuative» per purgare il corpo, «alterative» per diluire l’umore, «confortative» per ridare la gioia di vivere, insomma, gli antidepressivi del X V I secolo. Ambroise Paré sa che la malinconia può anche avere cause psi­ chiche, i «fastidi e le alterazioni della mente». Egli narra ad esem­ pio che, nel 1552, un cameriere del re si uccise per non essere stato abbastanza aggraziato. Per evitare paure e grosse preoccupazioni, egli suggerisce di condurre una vita equilibrata, di ascoltare la musi­ ca, di bere vino leggero. Alla fine del X V I secolo, anche un altro medico famoso, André Du Laurens, nel suo Discorso delle malattie malinconiche, insiste sul­ l’incidenza dello stile di vita, in particolare sull’eccesso di studio, pur avendo tutta un’altra idea delle cause fisiologiche. Se i malin­ conici vedono tutto nero è perché il loro cervello è offuscato dalle esalazioni di bile nera: «G li spiriti e i vapori neri passano conti­ nuamente, dai nervi, dalle vene e dalle arterie, dal cervello all’oc­ chio, questo provoca ombre e apparizioni ingannevoli nell’aria, e dall’occhio tali forme vengono riprodotte nell’immaginazione». Poiché, a suo parere, le immagini arrivano agli occhi dal cervello, egli raccomanda di circondarsi di luci vive e piacevoli, come il rosso, il giallo e il verde. Il medico olandese Lennio, dal canto suo, ritiene che l’umore malinconico sia particolarmente attivo fra le tre del pomeriggio e le nove di sera, quando «il fegato si purga e getta fuori la sua schiu­ ma e qualsiasi genere di escremento, che arriva fino alla milza: ciò causa, durante queste ore, l’ottenebramento deH’intendimento umano, mentre lo spirito, avvolto da una spessa coltre di fumo, si ritrova triste e abbattuto»26.

25 Citato da JEAN Starobinski, Histoire du traitement de la mélancolie des origi­ nes à 1900, J.R. Geigy, Basilea 1960, p. 40; trad, it., Storia del trattamento della malin­ conia dalle origini al 1900, Guerini e Associati, Milano 1990, p. 58. 26 L. L ennio, Les secrets miracles de nature et divers enseignemens de plusieurs chose, 1566, p. 249. Per tutti questi aspetti, si veda anche L. B abb, The Elizabethan Malady; A Study o f Melancholia in English Literature from 1580 to 1642, Michigan State College Press, East Lansing 1951, che contiene numerose citazioni.

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Tuttavia, intorno alla fine del secolo, i medici si orientano sem­ pre di più verso le spiegazioni psicologiche. Pierre Pigray, ripor­ tando alcuni eventi degli anni ’90 del 1500, racconta che aveva visi­ tato con i suoi colleghi Renard e Falaiseau quattordici poveri dia­ voli, fra uomini e donne, sospettati di stregoneria, ma che in realtà soffrivano di un’immaginazione malata. Li interrogarono «su diver­ si punti, riguardo a come si diventa malinconici; ma trovammo solo dei poveri stupidi dall’immaginazione distorta, gli uni che non temevano di morire, gli altri che lo desideravano: la nostra opinio­ ne fu di propinar loro dell’elleboro per purgarli»27. Nel 1620, Joseph du Chesne de La Violette fornisce una descri­ zione del paziente malinconico che ben corrisponde ai sintomi della depressione nervosa. Si vede il malato «camminare lentamente, la testa china, nei dintorni di cimiteri e luoghi deserti: gli occhi fissi a terra, tutti pieni di lacrime [...], la bocca che non proferisce verbo». Si tratta, scrive il medico, di una «passione che turba lo spirito, debi­ lita tutte le facoltà animali, corrompe tutti i nostri sensi interni ed ester­ ni [...], distorce le facoltà immaginative e cogitative». Egli la chiama «tristezza, afflizione, languore» e le attribuisce cause sia fisiologiche («umore o sangue malinconico e annerito») che dietetiche («carni malinconiche che causano sangue malinconico») e psicologiche (le sof­ ferenze e le difficoltà della vita). Tutto ciò rende il cervello «oscuro, tenebroso» e provoca «spavento e paura»28. Nello stesso periodo, l’i­ taliano Tomaso Garzoni effettua una descrizione clinica degli stati depressivi che ha potuto osservare in un ospedale veneziano29. Se la nosografia si rivela pertinente, la medicina invece non pro­ gredisce assolutamente sulle cause fisiologiche della depressione. Nel 1607 Fernel parla ancora dell’umore malinconico come di «un flui­ do spesso nella consistenza, freddo e secco nel temperamento»30, vale a dire un processo fisico molto materiale. Altri, al contrario, lasciano

27 P. PlGRAY, Epitome des préceptes de médecine et chirurgie, Pierre & Benoist Bailly, Lione 1643, libro VII, cap. X: Comment on doit rapporter d ’aucunes mala­ dies où il y a passion d ’esprits.

28 J. Du Chesne de la Violette, Le pourtraict de la Santé, où est représenté la reigle unique et particulière de bine sainement et longuement vivre, Parigi 1620, pp. 112-114. 29 T. G arzone, L ’Hospidale de’ Pazzi incurabili, Venezia 1617, pp. 43-47. 30 J. F ernel , Universa medica, Francoforte 1607, p. 121.

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da parte le teorie di Ippocrate e ragionano in termini di «qualità», che si trasmettono dal corpo all’anima senza alcun supporto materiale, quindi in termini psicologici più che medici. A metà del XV II seco­ lo Thomas Sydenham, noto medico inglese, ritiene che i malinconici siano «persone che, al di là di questo, sono molto sagge e sensate e che hanno un acume e ima sagacia straordinari». Anche Aristotele ha osservato a ragione che i malinconici hanno più presenza di spi­ rito degli altri31.

I teologi contro la malinconia diabolica Il mal di vivere diventa dunque una virtù? L’arte e la letteratura riabilitano la malinconia; la medicina le restituisce la sua dimensione psicologica; l’élite sociale modella su di essa i canoni di comporta­ mento. Tuttavia sia il clero che i teologi continuano a considerarla come pervasa da un’influenza diabolica e restano quindi fondamentalmen­ te ostili, contemplando nei loro sermoni accidia, pigrizia e malinco­ nia. Nel 1489 il carmelitano Battista Spagnoli ci restituisce il seguen­ te ritratto allegorico della pigrizia malinconica: E d ecco la madre di tutte le preoccupazioni, incapace della minima atti­ vità, inadatta a svolgere il minimo ufficio: Pigrizia, nutrita fra le com pa­ gne di M egera, saccente in apatia e maestra di nevrastenia. Seduta in disparte, gli occhi fissi al suolo, il ciglio arricciato dall’aria corrucciata, livi­ da, scapigliata, si gratta con un’unghia adunca la testa piena di pulci. H a il viso sporco, le mani grasse, la barba umida che gocciola di bava, dal naso una sempiterna goccia che cola. E ssa è rachitica, la sua schiena è ricurva e il petto è scavato; sotto il torace stretto la pancia somiglia a un otre, come se soffrisse di idropisia; le gam be sono gracili, le ginocchia sporgenti che ne rallentano il passo, le articolazioni logorate da una gotta maligna32.

Un secolo dopo il francescano Noël Taillepied fustiga più sobria­ mente, ma sempre con la stessa fermezza, i «malinconici e gli insen­ 31 T. SYDENHAM, Médecine pratique, Parigi 1784, p. 399; trad, it., Medicina pra­ tica, Co’ Tipi dell’Ed. Giuseppe Antonelli, Venezia 1841. 32 Musae reduces. Antologie de la poésie latine dans l’Europe de la Renaissance, a cura e traduzione di P. Laurens e C. Balavoine, E.T. Brill, Leida 1975,2 voli., voi. 1, p. 93.

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sati [...] saturnini che rimuginano e inventano innumerevoli chi­ mere»33. L e suddette chimere vengono suscitate dal diavolo, che sfrutta la tristezza malinconica per portare alla disperazione gli uomini che ne rimangono vittime. I demonologi ritengono che il temperamento malinconico sia un segnale sospetto, caratteristico dei maghi e delle streghe, e così lo concepiva II martello delle stre­ ghe. Jean Wier, medico, sosteneva che le visioni fantastiche fosse­ ro suscitate dall’eccesso di umor nero nel cervello. Egli scrive, negli anni ’60 del 1500, che «il diavolo, nemico subdolo, furbo e sornione, induce di buon grado la malinconia nel sesso femminile, incostan­ te a causa della sua complessione, ingenuo, malizioso, impaziente, malinconico per il fatto di non riuscire a controllare le proprie emozioni»34. Lucas Cranach ha magnificamente illustrato questo concetto riprendendo gli scritti di Lutero, secondo il quale «lo spirito afflitto dalla tristezza deve avere una paura estrema» di Satana. «L’umore malinconico è un bagno preparato dal diavolo», ripete il riformatore ai monaci medievali. I suoi Discorsi a tavola insistono: «L a tristezza, le epidemie e la malinconia vengono da Satana»; «colui che è tor­ mentato dalla tristezza, dalla disperazione o altri dispiaceri ha un verme nella coscienza»35. Lucas Cranach quindi, in una serie di dipin­ ti dal 1528 al 1532 intitolati Malinconia, mette in luce il legame con la stregoneria. La sua allegoria si presenta con i tratti di una giovane dal viso illuminato da un misterioso sorriso appena accennato. Non ha assolutamente la gravità della Malinconia tormentata dell’incisio­ ne di Dürer, ma è comunque più inquietante. Nel dipinto esposto al Museo Unterlinden di Colmar la giovane, con i suoi occhi a mandorla, accenna uno sguardo obliquo e diabolico, come quello di tutte le donne di Cranach. Con un coltello taglia un ramo per farne una bac­ chetta magica: bisognava infatti rimuovere la corteccia per evitare che gli spiriti non si insinuassero fra questa e il legno. Ai suoi piedi è accucciato il «cane della malinconia», mentre quattro piccoli putti gio­ cano sull’altalena - alcuni critici vi hanno riconosciuto dei simboli

33 N. Taillepied, Traité de l ’apparition des esprits, Rouen 1600, p. 19. 34 J. WlER, Histoire, disputes et discours des illusions et impostures des diables, Delahaye et Lecrosnier, Parigi 1885,1.1, p. 300. 35 M. LUTERO, Discorsi a tavola, n. 832 e 122.

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alchemici. Una grande finestra si apre su un paesaggio tormentato e, in una grossa nube nera, è rappresentata una corsa satanica di stre­ ghe che cavalcano un caprone, un maiale, un drago e un toro, che tra­ scina un cavaliere armato verso il sabba36. L a malinconia è oggetto di vasti dibattiti presso i mistici. Santa Teresa d ’Avila si è interessata da vicino a questo tema, su richiesta delle religiose del convento San Giuseppe di Salamanca. Le comu­ nità di clausura sembrano infatti conoscere anch’esse una forte recru­ descenza dei casi di malinconia, che non è ammessa nella religione, scrive la santa, ma la maggior parte delle volte, quando il male viene scoperto, è già troppo tardi: «Pur cercando con grande cura di evi­ tarlo, questo umore è così subdolo, nascosto e difficile da scoprire che ce ne accorgiamo solo quando ormai non possiamo più espelle­ re le sorelle che ne sono colpite»37. Come comportarsi allora con le sorelle malinconiche? Questione delicata, poiché il diavolo se ne serve per impadronirsi degli altri: «Se non stanno in guardia ci riu­ scirà, perché l’effetto della malinconia è di oscurare e disturbare la ragione, cui non riesce a far arrivare le nostre passioni»38. Santa Teresa d ’Avila è stata testimone dell’immensa sofferenza pro­ vata da coloro che sono «umili e temono di offendere il Signore [per­ tanto] si conformano in tutto all’obbedienza e sopportano il loro male facendo come le altre, nonostante le grandi lacrime che versa­ no e la lotta che devono interiormente sostenere. Certo che così il loro martirio si fa più grande, ma non meno grande sarà pure il loro premio: fanno il purgatorio in questa vita, ne saranno esenti nell’al­ tra»39. Nonostante possa contribuire alla salvezza, è meglio cercare comunque di eliminare questo male, anche a costo di impiegare rime­ di estremi, poiché potrebbe contaminare l’intera comunità: Siccome ho visto ed ho trattato a lungo con tali persone, ripeto che non v’è altro da fare che da ricorrere a tutti i mezzi e a tutte le vie possibili per ridur­

36 D. KOEPPLIN e T. Falk, Lukas Cranach: Gemälde, Zeichnungen, Druckgraphik, catalogo dell’esposizione del Kunstmuseum di Basilea, 15 giugno-8 settembre, Brikhäuser, Basilea 1974. 37 SANTA T eresa d ’Avila, Fondazioni, VII, in Opere, Postulazione Generale O.C.D., Roma. 38 Ibidem. 39 Ivi, p. 1127.

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le in soggezione. Se non bastano le parole, si ricorra ai grandi castighi; se non è sufficiente tenerle in carcere un mese, vi si tengano quattro, essendo que­ sto il più gran bene che si possa fare alle loro anime.

[...] Sembrerebbe un’ingiustizia castigare un’inferma come una sana, sotto pretesto di non poter fare altrimenti. - Ma allora sarebbe un’ingiustizia anche legare e fustigare i matti, e bisognerebbe lasciare che ammazzasse­ ro gli altri!... Mi credano, che l’ho provato per esperienza: fra tutti i rimedi che ho adoperato, non ve n’è uno più efficace di questo. Se la Priora, m ossa da compassione, lascerà che comincino a prendersi delle libertà, verrà gior­ no che non potrà più dominarle; e quando vorrà mettervi riparo, già tutte ne avran subito l’influsso40.

Per sradicare la malinconia, malattia «più pericolosa di quelle in cui ne va della vita», bisognerà fare in modo di tenere sempre occu­ pate le sorelle, imponendo «funzioni che non lasciano loro il tempo di sognare». Santa Teresa d ’Avila prova compassione per le sorelle che soffrono di depressione, ma osserva con irritazione che molti altri vengono colpiti da questa malattia alla moda e ne traggono un pre­ testo per esimersi dai doveri più faticosi: Temo che con la scusa di quest’umore il demonio cerchi di soggiogarsi molte anime. Oggi questo male è più che mai diffuso, tanto più che sotto il nome di melanconia si fa passare ogni capriccio e propria volontà. Sarebbe bene, secondo me, che i nostri conventi, come pure in ogni altro, non lo si designasse mai con questo nome che sembra importare libertà, ma lo si chiamasse grave malattia - e quanto grave! - e la si curasse come tale41.

Recrudescenza dei suicidi Il secolo della malinconia è anche quello in cui le autorità reli­ giose rafforzano la loro campagna di demonizzazione del suicidio. Come alla fine del Medioevo, i contemporanei hanno l’impressio­ ne di un forte aumento del numero di morti volontarie. Erasmo,

40 I d ., Le Inondazioni e opere minori, Edizioni Paoline, Alba 1977, pp. 11261128. 41 Ivi, p. 1128.

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nei suoi Colloqui, in ragione della velocità a cui gli uomini vi si pre­ cipitano, si chiede quale sarebbe la situazione se gli uomini non aves­ sero paura della morte. Un po’ più avanti, nel 1542, Lutero parla di un’epidemia di suicidi in Germania e nel 1548 l’arcivescovo di Magonza crede di svelarne un’altra, mentre a Norimberga nel 1569 ne vengono recensiti quattordici casi. Nella stessa epoca, Henri Estienne dichiara: «Quanto al nostro secolo, abbiamo le orecchie colme di esempi [di suicidio], sia di uomini che di donne», e Montaigne narra che, secondo suo padre, a Milano ci sarebbero stati venticinque suicidi in una settimana. Fantasia o realtà? In Inghilterra, presso gli archivi della giuri­ sdizione reale del King’s Bench, dove vengono giudicati i casi di morte sospetta, la progressione del numero di suicidi è regolare e spettacolare: da 61 casi fra il 1500 e il 1509 si passa a 940 dal 1570 al 157942, dati che confermano l’opinione di William Gouge, il quale scrive nel 1637: «Suppongo che non vi siano secoli dall’inizio del mondo che forniscano più esempi di questa umanità disperata quan­ to il nostro secolo attuale, e questo vale per tutti i tipi di persone, religiosi, laici, istruiti, ignoranti, nobili, plebei, ricchi, poveri, libe­ ri, asserviti, uomini, donne, giovani e vecchi»43. L a stessa constata­ zione vale per il mondo germanico: a Norimberga il numero di sui­ cidi registrati aumenta di dodici volte tra il 1500 e il 160044; nel ter­ ritorio di Zurigo si passa da 2 casi tra il 1500 e il 1550 a 35 fra il 1600 e il 165045. Le cronache municipali riportano un numero cre­ scente di suicidi, come a Metz. L’inasprimento della legislazione tradisce la preoccupazione delle autorità: nel X V I secolo, in Inghilterra, si iniziano a impala­ re i cadaveri dei morti per suicidio, ad appenderli per i piedi in Francia, a usare mezzi ancora più draconiani in Italia46. Iniziano poi a comparire le storie dei fantasmi delle vittime del suicidio che vengono ad assillare i vivi. Parlare di psicosi sarebbe certamente esa-

42 M. MacD onald e T. MURPHY, Sleepless Souls. Suicide in Early Modem England, Clarendon Press, Oxford 1990. 43 W. G ouge, introduzione al libro di J. Sym, Life’s Preservation, Londra 1637. 44 J. D ieselhorst, D ie Bestrafung der Selbstmörder im Territorium der Stadt Nürnberg, Norimberga 1953, pp. 186-189. 45 M. Schär, Seelennöte der Untertanen, Chronos, Zurigo 1985. 46 A. MURRAY, Suicide..., cit., 1.1, p. 373.

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aerato, ma le cronache, le memorie e i diari personali accordano sempre più spazio alla registrazione delle morti volontarie. Un arti­ giano tornitore londinese, Nehemiah Wallington, descrive accuraiamente tutti i suicidi nel suo diario e tiene un quaderno partico­ lare dedicato a coloro che hanno attentato alla propria vita. Per quanto buon puritano, egli stesso ha tentato undici volte di porre (ine ai suoi giorni: «Satana mi ha tentato di nuovo, e gli ho resisti­ to ancora. Allora mi ha tentato una terza volta e gli ho ceduto bran­ dendo il mio coltello e portandolo alla gola. Allora Dio, nella sua bontà, mi ha fatto riflettere su ciò cui sarei andato incontro se mi fossi tolto la vita [...]. Su questo pensiero mi sono sciolto in lacri­ me e ho gettato il coltello»47. John Dee annota diversi esempi simili nel suo diario48. Fra il 1597 e il 1634, il medico e astrologo Richard Napier riporta, dal canto suo, 139 tentativi di suicidio di cui annota accuratamente le circostanze. Tutti, certamente, attribuiscono i suicidi alla «disperazione». Ma quali sono le cause di tale disperazione? Principalmente, il diavolo. Lutero assimila i suicidi a un assassinio commesso da Satana: «A più di uno egli spezza il collo o fa perdere la ragione; alcuni li annega nell’ac­ qua, molti sono quelli che spinge al suicidio e molti altri a soffe­ renze atroci». Il suicida è posseduto dal demonio, ciò lo rende irre­ sponsabile. Il 1° dicembre 1544 Lutero, scrivendo a proposito di una posseduta che si era uccisa, dichiara che il pastore incaricato­ si di inumarla non deve essere biasimato, poiché questa donna può essere considerata una vittima di Satana. Ciò nonostante, aggiun­ ge, bisogna prendere seri provvedimenti, poiché il diavolo rischia di diventare sempre più audace: «Conosco molti esempi simili; ma il mio giudizio ordinario è che le persone siano semplicemente state uccise dal diavolo [...]; il magistrato fa bene a punire con la stes­ sa severità, per paura che Satana prenda coraggio e si manifesti. Il mondo deve essere messo in guardia poiché, nel suo atteggiamen­ to epicureo, crede che il diavolo non esista»49. I cattolici non hanno dubbi sul fatto che le persone che com­ mettono suicidio siano possedute dal diavolo. Noël Taillepied addu47 Citato da MacD onald e MURPHY, Sleepless..., cit., p. 50. 48 J. D ee , The Private Diary o f John Dee, a cura di J.O . Halliwell, Londra 1842. 49 Cl . Mettra e J. Michelet (a cura di), Mémoires de Luther écrits par luimème, Mercure de France, Parigi 1990, p. 272.

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ce come prova «eventi strani» che accompagnano sempre tali morti sospette50.1 «disperati» sono persone «che si donano al diavolo», scrive Pierre Le Loyer: «N on bisogna meravigliarsi se tutti i gior­ ni i diavoli si mostrano a qualche disperato [...], promettono loro aiuto, li convincono a uccidersi e a morire una volta per tutte per smettere di soffrire»51. Il teologo Ju de Serclier sostiene a sua volta come il diavolo produca «una grande e amara tristezza» che con­ duce al suicidio, e conferma che la pratica tende a diffondersi: «N el nostro secolo se ne vedono esempi in ogni momento, in qualunque luogo»52. Il diavolo approfitta di tutte le difficoltà dell’esistenza per spin­ gere al suicidio, in particolare delle disgrazie che affliggono i pove­ ri: Pierre de L’Estoile ne riporta numerosi esempi nel suo «Journal». Tuttavia c’è un motivo che richiama l’attenzione: la «noia di vive­ re». L’espressione ritorna spesso nella penna dei giuristi, come Jean Papon, che scrive: «Che sia per noia di vivere o per la gloria di sape­ re come sia l’altro mondo, colui che si toglie spontaneamente la vita, senza mania, senza malattia né tormento»53 merita le pene più seve­ re. Per modo di dire, poiché si tratterebbe di punire un morto. Allo stesso modo Louis Charondas L e Caron reclama la punizione del cadavere e la confisca dei beni contro coloro che si uccidono per «noia di vivere»54. Questa nuova insorgenza dell’antico taedium vitae corrisponde alla riscoperta dei valori greco-romani. Umanisti ed eruditi del Rinascimento sono infatti sensibili agli esempi di nobiltà rappresentati dai suicidi di Lucrezio, Catone o Bruto. Tali inquietudini e condanne non fanno che confermare l’im­ pressione generale: dagli anni 1480 agli anni 1630, un malessere si impadronisce delle élite intellettuali e sociali. Questa malinconia generale è sempre più diffusa, tanto più che, secondo Marsilio Ficino, è reputato segno di profondità. E pur vero che questa opi­ nione non è unanime, infatti le autorità religiose vedono sempre il diavolo dietro la malinconia e certi medici lo confermano, come il

50 N. TAILLEPIED, Traité de l’apparition..., cit., p. 138. 51 P. L e L oyer, Discours des spectres, Parigi 1608, p. 307. 52 J. Serclier, Anti-demon Historial, Parigi 1609, p. 293. 53 J. Papon, Recueil d’arrestz notables, Lione 1557, libro XX II, titolo 10. 54 L.C. L e C aron, Commentaire au titre X X X IX du livre I du somme rural de Jean Bouteiller, Parigi 1603.

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dottor Lennio, che scrive: «I demoni, vale a dire gli spiriti aerei, che hanno una grande conoscenza e scienza delle cose [...], non solo si confondono fra gli umori, ma spingono anche gli intendi­ menti dell’uomo a qualsiasi nefandezza [...]. E così che Satana ha esasperato la malinconia di Saul, spingendolo a commettere assassinii e tradimenti e molte altre cose ben infelici»55. A suo parere la malinconia può essere una punizione inviata da D io agli eretici56. Persino un saggio come Pierre Charron non condivide l’infatuazione dei suoi pari per la malinconia, in cui vede «passione codarda, bassa e vile», e che bisogna «odiare e fuggire con tutte le [nostre] forze»57. Nonostante queste riserve, la malinconia è tipica dell’e­ poca in esame. Il mal di vivere del Rinascimento non è più accidia medievale e peccato contro la speranza, ma una condizione men­ tale legata alla nascita della modernità. Se costituisce una sempli­ ce moda per i più superficiali, a corte ad esempio, nelle persona­ lità più sensibili è invece una prima presa di coscienza dei proble­ mi dell’Essere. Il mal di vivere del Rinascimento, come abbiamo appena visto, è anzitutto intellettuale. Nella cultura popolare la malinconia con­ serva una connotazione negativa, quando non è del tutto sempli­ cemente assimilata alla follia, come del resto testimoniano diversi proverbi del X V I secolo: «Fuggi la malinconia, tristezza e follia», «L a malinconia fa ammalare il sano e fa morire il malato», «Essere in preda alla malinconia significa seppellire la propria vita»58. Intellettuali e artisti sono affascinati dalla malinconia che resta, ciò nonostante, misteriosa: la studiano, la sezionano, la trattano come se fosse una persona. Albrecht Dürer ne trae ispirazione per crea­ re un celebre quadro allegorico e, un secolo dopo, Robert Burton ne descrive l’anatomia.

55 L. L ennio , Les secrets miracles, cit., p. 254. 56 L. L ennio , De habitu et constitutione corporis, Anversa 1561. 57 P. CHARRON, D e la sagesse, Parigi 1836, p. 59, 284. 58 Recueil des sentences notables, diets et dictons communs, Anversa 1568, e ripor­ tati da J. D elumeau , op. cit.

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Capitolo quarto Da Dürer a Burton: ritratto e anatomia della malinconia

1314: Melancholia I Quando, nel 1514, Albrecht Dürer realizza l’incisione Melan­ cholia I, ha trentotto anni e ha perduto le sue illusioni. Verso i trent’anni credeva ancora nella possibilità di raggiungere la bellezza assoluta e universale grazie alle scienze matematiche, ma poco a poco scivola in un oscuro scetticismo, aggravato da visioni e sogni e, nel 1512, afferma che «non esiste essere vivente sulla terra che possa dire o provare quale sia la più bella raffigurazione dell’uo­ mo». Molto prima di questa data, Dürer aveva già dato profondi segni di malinconia, come peraltro confermano sia il suo autori­ tratto, che un’osservazione del suo amico Melanchthon e alcune allusioni a una malattia della milza, che i medici dell’epoca classi­ ficano fra i morbi melancholia1. Nel 1502 egli rappresenta la malinconia con le sembianze di un vecchio su un’incisione destinata a ornare la copertina dell’opera di Conrad Celtes, Libri amorum. L’incisione riunisce i quattro tem­ peramenti, conformemente agli archetipi medievali, e raffigura un vecchio scarno, calvo, dall’aria imbronciata e misantropica, assi­ milato a Bora, il vento del nord freddo e secco: il vecchio soffia sulla vegetazione, da cui pendono pezzi di ghiaccio. Siamo ancora nella tradizione delle allegorie del XV secolo, in cui il temperamento

1 M.J. F riedländer , Albrecht Dürer, Lipsia 1921, pp. 146 sgg. 93

malinconico è fortemente disprezzato. All’epoca Dürer non sem­ bra conoscere gli scritti di Marsilio Ficino, pubblicati (1497) da Koberger, padrino del pittore. L’incisione del 1514, invece, è direttamente ispirata al De vita triplici dell’umanista fiorentino, come ha mostrato Raymond Klibansky2. Per cinque secoli la giovane alata assorta in una misteriosa meditazione in mezzo a un’improbabile confusione di oggetti ha affascinato numerosi poeti che l’hanno celebrata con accenti roman­ tici. James Thomson le dedica un lungo poema in cui le fa dono di amare riflessioni: The sense that every struggle brings defeat Because fate holds no prize to crown success; That all the oracles are dumb or cheat Because they have no secret to express; That none can pierce the vast black veil uncertain Because there is no light beyond the curtain: That is all vanity and nothingness3.

Théophile Gautier le si rivolge in questi termini: Toi, le coude au genou, le menton dans la main, Tu rèves tristement au pauvre sort humain: Que pour durer si peu la vie est bien amère, Que la science est vaine et que l’art est chimère4.

Non sorprende neanche il fatto che i pittori espressionisti siano stati attratti da un’incisione così evocativa della disperazione. Oskar

2 R. KLIBANSKY, E. PANOFSKY e E Saxl , Saturno e la melanconia: studi di sto­ ria della filosofia naturale, religione, arte, Einaudi, Torino 1983. 3J. THOMSON, The City ofDreadfulNightandotherPoem s,'W am , London 1934; trad. it., L a città della terribile notte, a cura di Mili Romano, Panozzo, Rimini 2000. Sentire che ogni lotta termina con una sconfitta, / Poiché il destino non pre­ mia i successi; / Che la voce degli oracoli è muta o ingannatrice, / poiché in essi non è custodito alcun segreto; / Che niente può strappare il misterioso velo nero, / oltre il quale, senza luce, nessuno può vedere, / E che tutto è sempre vanità e nulla [traduzione nostra]. 4 «Tu, il gomito sul ginocchio, il mento nella mano, / sogni tristemente il pove­ ro destino umano: / che la vita è assai amara per durare così poco, / che la scien­ za è vana e l’arte una chimera [traduzione nostra]. 94

Kokoschka ha visto in quest’opera «l’espressione più angosciante dell’assenza di speranza e della paura, che sono tuttavia profonda­ mente umane». Più vicino a noi Giorgio Agamben, nelle Stanze, pensa che l’angelo meditativo di Dürer sia piuttosto l’emblema del­ l’uomo che tenta di dare corpo ai propri fantasmi attraverso l’e­ spressione artistica. Già all’inizio del X X secolo il critico d’arte Heinrich Wölffin constatava: «Ogni anno nascono nuove spiega­ zioni, cosa naturale fintantoché gli autori non avranno la discipli­ na necessaria per evitare di attribuire a Dürer qualsiasi tipo di idea dell’uomo moderno». E Raymond Klibansky, dopo aver riportato tali testimonianze, scrive nel f988: «Oggi possiamo scegliere fra le diverse interpretazioni elaborate di carattere astrologico, psicana­ litico, alchemico, sociologico, teologico, teosofico, franco-massone, numerologico, magico e filosofico»5. Che questa incisione abbia suscitato così tante interpretazioni è la prova del genio umanista di Dürer. Come tutte le opere genia­ li, essa non gli appartiene più e va oltre le sue intenzioni persona­ li. Il senso esatto che Dürer le ha voluto dare è senz’altro di un certo interesse, ma deriva dall’erudizione storica. Raymond Klibansky ha proposto una spiegazione sensata di ogni simbolo. Il pugno chiuso del personaggio, che sostiene la testa, rafforza l’impressio­ ne di forte concentrazione, «L a concentrazione fanatica di una mente che ha realmente colto un problema, ma nello stesso momen­ to si sente incapace sia di risolverlo che di lasciarlo cadere»6. La mano destra tiene un compasso, ma è inerte: essa rappresenta l’i­ nanità del lavoro sensato. Sul viso, nell’ombra, risaltano gli occhi brillanti, animati da uno sguardo intenso che sconfina nell’invisi­ bile. La lunga capigliatura è trascurata, segno del disprezzo delle convenzioni umane. La testa riposa sulla mano sinistra, segno di stanchezza, di dolore, di fatica, ma anche di pensiero creatore. La donna sogna pur essendo sveglia: gli strumenti abbandonati evo­ cano la trascuratezza, la pigrizia e quindi l’accidia medievale: la sega, la mola, la pialla, il compasso, così come anche il libro sulle ginocchia, i cui fermagli non sono ancora stati aperti. Tuttavia le prospettive sono capovolte:

5 R. K libansky, E. Panofsky e E S axl , Saturno e la melanconia, cit. 6 Ivi, p. 299.

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L’inattività della Melanconia, da letargo dell’indolente e stato d ’incoscienza per chi dorme, si è trasformata nell’assillo cogente dell’uomo ipersensibi­ le. Entrambi sono indolenti, col suo com passo impugnato meccanica­ mente, che la sciatta Melancholia delle illustrazioni dei calendari col suo inutile fuso; però quest’ultima non sta facendo nulla perché dall’indolen­ za è scivolata nel sonno, l’altra perché il suo spirito è preso da visioni inte­ riori, per cui l’affaccendarsi con arnesi pratici le sem bra senza senso. L’«indolenza» in un caso è al di sotto dell’attività esteriore; nell’altro al di sopra7.

Ai piedi della Malinconia un cane, animale ritenuto serio, sem­ pre in caccia e che non dà tregua alle sue prede; un pipistrello, sim­ bolo dei malinconici, porta un filatterio su cui è inscritto il titolo del­ l’incisione. Il mare, in secondo piano, ricorda che Saturno è il pro­ tettore dei marinai. La Malinconia indossa una corona di ranuncoli d’acqua e di crescione, piante acquatiche che agiscono come antidoto alla secchezza terrea del temperamento malinconico. Al muro, un quadro magico, simbolo astrologico destinato a favorire l’influenza curativa di Giove. Numerosi strumenti per la geometria suggerisco­ no che Saturno è molto legato a questa scienza. Bilancia, clessidra, orologio, borsa, chiavi: tutti questi oggetti sono associati alla malin­ conia. Quanto al bambino alato, il putto occupato a scrivere in mezzo a questa improbabile babele, egli rappresenterebbe l’attività senza pensiero, per contrapposizione al pensiero senza attività della Melancholia. La forza di questa incisione si impone da sola per la sorpren­ dente e misteriosa concentrazione del personaggio. Concepita dopo la consacrazione letteraria di Marsilio Ficino, Melancholia I immor­ tala e rende universale il mal di vivere. Questa donna è una novel­ la Èva, e ogni essere umano può riconoscersi in lei. Un anno dopo, in un’acquafòrte intitolata L’Uomo disperato, Dürer definisce meglio il suo soggetto, raffigurando quattro tipi di malinconia. Questa incisione, molto enigmatica, mostra un giovane uomo dal sorriso vuoto che, con un boccale in mano, si avvicina a una donna nuda; egli rappresenterebbe il malinconico sanguigno, datosi a Bacco e Venere. Gli altri tre personaggi sarebbero i malinconici collerici, flemmatici e naturali. Dürer, le cui opere sono impregnate di una 7 R. Klib ANSKY, E. Panofsky E E Saxl , Saturno e la melanconia, cit., p. 298. 96

tragicità morbosa - si pensi ai Cavalieri dell’Apocalisse o al Cavaliere, la morie e il diavolo - è l’araldo del secolo della malinconia.

Michelangelo, Holbein e Montaigne: tre volti della malinconia Michelangelo è l’apoteosi artistica della malinconia. Il suo Pensieroso della cappella Medici di Firenze raffigura la malinconia sotto i tratti di Lorenzo de’ Medici: viso triste e dito sulla bocca indi­ cano il silenzio meditativo. Con Michelangelo la malinconia rompe gli argini. Nel suo Trattato di caratterologia (1946), René Le Senne lo descrive come la tipologia di persona malinconica ma appassio­ nata: «La melanconia profonda di Michelangelo infonde alla sua opera un’infinità irriducibile, inesauribile, da cui tutte le opere trag­ gono la caratteristica di rivelare la preponderanza definitiva dell’ani­ ma sull’azione»8. Questo artista geniale che soleva dire: «La mia gioia è la malinconia», si compiace visibilmente nell’amarezza. Nel suo studio psicanalitico, Marie-Claude Lambotte vi ha visto «la rimozione di una forza pulsionale il cui esubero aggressivo non ha potuto espri­ mersi»9. Anche la psicanalisi si è interessata a un altro grande pittore del XVI secolo, Hans Holbein, la cui opera rivela un temperamento profondamente malinconico. Julia Kristeva gli dedica una lunga dissertazione in Sole nero, in cui scrive quanto, per tutta la vita, egli tosse «un adepto della depressione disillusa, sino all’estinzione di ogni artificio sin all’interno dell’artificio tristemente, scrupolosa­ mente manierato»10. Holbein, che non si allinea ad alcun credo par­ ticolare, che ha servito Enrico V ili e che è stato amico della sua vittima Thomas More, ha meravigliosamente colto la personalità dei suoi modelli, pensiamo in particolare alla concentrazione serena di 8 R. L e S enne , Traité de caractérologie, PUF, Parigi 1957, p. 339; trad. it., trattato di caratterologia, SEI, Torino 1960, p. 340. 9 M.-C l . LAMBOTTE, Le discours mélancolique: de la phénoménologie à la méta­ psychologie, Anthropos, Parigi 2003, p. 66; trad. it., Il discorso melanconico: dalla fenomenologia alla metapsicologia, Boria, Roma 1999. 10 T. KRISTEVA, Sole nero. Depressione e malinconia, Feltrinelli, Milano 1989, p. 109. 97

Erasmo. Nei suoi ritratti, inoltre, è spesso presente la morte. Sotto le maschere di carne appare il teschio, simbolo dell’insensatezza di tutte le nostre realizzazioni. Il teschio è onnipresente, si pensi ad esempio alla Danza macabra; nascosto in anamorfosi, esso compa­ re persino ai piedi dei due importanti personaggi degli Ambasciatori. «Non vogliamo con ciò sostenere che Holbein fosse un melanco­ nico, né che abbia dipinto dei malinconici. Più profondamente ci sembra che a partire dalla sua opera [...] un momento malinconi­ co (una perdita reale o immaginaria del senso, una disperazione reale o immaginaria, una cancellazione reale o immaginaria dei valori simbolici, che investe persino i valori della vita) mobiliti la sua atti­ vità estetica, che trionfa su questa latenza melanconica pur con­ servandone la traccia»11. Il trionfo della morte, che rende vane e derisorie le nostre atti­ vità, esplode anzitutto nel Cristo morto del 1521-1522. Il dipinto non lascia più adito ad alcun dubbio: si tratta proprio di un cada­ vere, di un realismo tale che Dostoevskij farà dire a uno dei suoi personaggi: «Questo quadro! Ma più di uno, guardando questo quadro, può perdere la fede!»12. Questa morte sembra definitiva. Holbein non è il pittore della resurrezione, spiega Julia Kristeva: «La morte del Cristo offre un sostengo immaginario all’irrappresentabile angoscia catastrofica propria dei malinconici. [...] La depressione grave o la melanconia clinica parossistica rappresen­ tano un vero e proprio inferno per l’uomo, e più ancora, forse, per l’uomo moderno convinto di dovere e di potere realizzare tutti i suoi desideri di oggetti e di valori. La derelizione del Cristo offre un’elaborazione immaginaria a questo inferno. Per il soggetto essa offre come un’eco dei suoi istanti insopportabili di perdita di senso, di perdita del senso della vita»13. Dal Cristo morto di Holbein al Trionfo della morte di Bruegel, la disperazione del Rinascimento esplode alla luce del sole. Le più grandi menti del XVI secolo hanno percepito l’avvento di una nuova angoscia, ovvero il sentore che la morte potrebbe davvero

11J. K risteva, Sole nero, cit., p. 111. 12 F. DOSTOEVSKIJ, L'idiota, I taccuini per «l!idiota». Sansoni, Firenze 1961, p. 274. 13 J. K risteva, Sole nero, cit., p. 115. 98

essere definitiva. A quale altra conclusione potrebbe arrivare una mente razionale davanti allo spettacolo delle atrocità fanatiche cui si dedicano i cristiani? Se c’è un segno dell’assurdità del mondo, non è forse il fatto che una religione, nonostante sostenga di esse­ re basata sull’amore universale, possa provocare l’odio omicida fra i suoi adepti? Ed è in fondo ciò che afferma Montaigne. Questo significa che anche lui è un malinconico? Lo vediamo difendersi da tale defini­ zione nel suo capitolo «Della tristezza»: «Io non sono affatto esen­ te da questo stato d’animo, e non l’amo e non ne faccio conto, seb­ bene ci si sia mossi ad onorarlo di particolare favore, come cosa assai pregevole. Se ne vestono la saggezza, la virtù, la coscienza: orna­ mento sciocco e mostruoso. Gli Italiani hanno più propriamente battezzato col suo nome la cattiveria. E infatti una qualità sempre dannosa, sempre folle e, come qualità vile e bassa, gli Stoici la vogliono lontana dai saggi»14. Montaigne non è forse contraddi­ stinto da un temperamento triste, ma il semplice fatto che abbia potuto concepire il progetto di scrivere i Saggi - «il suo progetto» secondo Pascal, «affascinante progetto» secondo Voltaire - non è forse un segno di malinconia? Egli stesso, peraltro, ammette di darsi alla scrittura per scacciare la malinconia: «E un umor melan­ conico, e per conseguenza molto contrario alla mia indole natura­ le, derivata dal tormento della solitudine nella quale da qualche anno mi ero rifugiato, che mi ha messo, d’un tratto, in mente questa stra­ nezza di occuparmi a scrivere»15. Il fatto che si ritiri dalle attività umane è un altro segno di distac­ co malinconico: il vero saggio deve liberarsi da questa mischia assur­ da che è la vita pubblica; il solo ruolo che gli convenga è quello di spettatore della tragicommedia umana, dramma «pieno di rumore e di furore, che non significa nulla». Montaigne e Shakespeare si com­ pletano: l’uno mette in scena ciò che l’altro descrive. Quando mi sono ritirato dal mondo, spiega Montaigne, credevo di poter riposare: «Ultimamente mi sono ritirato in casa, deciso finché potrò a non occuparmi d’altro che di trascorrere in riposo e appartato quel poco che mi resta di vita. Mi pareva di non poter fare più grande favore al

14 M . DE MONTAIGNE, Saggi,

Edizioni Casini, Firenze 1965,1, 2, p. 7.

15 Ivi, II, 8, p. 389. 99

mio spirito che di lasciarlo in pieno ozio, a conversare con se stesso e a fermarsi e adagiarsi in sé»16. Tuttavia lo spirito ozioso «mi parto­ risce tante chimere e tanti mostri fantastici, gli uni sugli altri, senza ordine e senza motivo che, per considerarne a mio agio l’assurdità e la stranezza, ho cominciato a registrarli sperando col tempo di ver­ gognarmi di me stesso»17. «Montaigne ha vinto la malinconia con la malinconia», scrive Michael Andrew Screech18. Inattivo, spettatore del mondo, ma spet­ tatore intelligente, egli non può che essere malinconico. Dopo la morte del suo amico intimo La Boétie, egli cerca nella scrittura una «veemente distrazione» meditando, analizzando, strappando le maschere da commedianti dai volti di tutti gli uomini, intravedendo quindi la verità. Ma la verità non è che una chimera, la più pericolo­ sa che ci sia, poiché trasforma tutti coloro che credono di averla affer­ rata in fanatici distruttori degli altri e di se stessi. Sono quelli che ritengono di possedere la verità a rendere invivibile questo mondo. Lo scettico Montaigne sa bene che «la nostra condizione è tanto ridi­ cola quanto risibile», ma preferisce riderne piuttosto che piangerne: «Democrito e Eraclito sono stati due filosofi dei quali il primo, tro­ vando vana e ridicola la condizione umana, non usciva in pubblico che con una faccia beffarda e ridente; Eraclito, avendo pietà e com­ passione di questa stessa nostra condizione, teneva il viso continua­ mente triste, e gli occhi pieni di lacrime. [...] Io preferisco l’umore del primo, non perché è più piacevole ridere che piangere, ma per­ ché esso è più sdegno e perché ci condanna più dell’altro: e mi sem­ bra che noi non possiamo mai essere disprezzati abbastanza per quan­ to lo meritiamo»19. Il fatto che il riso possa essere una forma di disperazione è quel­ lo che afferma anche Agrippa d’Aubigné quando descrive gli orro­ ri dei massacri religiosi. Nei Tragici Coligny assiste, durante una visione, alla mutilazione del proprio cadavere, scena che lo fa ride­ re per quanto è «comico il successo della grande tragedia»20. Ne 16 M. D e Montaigne , Saggi, cit., I, 8, pp. 28-29. 17 Ivi, p. 29. 18 M.A. S creech , M ontaigne & melancholy: the wisdom o f the Essays, Duckworth, Londra 1983. 19 M. D e Montaigne , Saggi, cit., 1 ,50, pp. 309-310. 20 A. d ’A ubign É, I tragici, libro II, v. 1436. 100

La Primavera, nauseato dal secolo in cui vive, egli dichiara: «Cerco i deserti, le rocce lontane, le foreste senza sentieri, le querce marce». Luis de Camoens esprime la disperazione per essere nato, per essere «sfuggito alla sepoltura materna», per essere sottoposto a un destino implacabile. «Il mio cuore avvizzito dalla noia non aspetta che la sepoltura», scrive Mathurin Régnier, mentre Du Bellay compone una Complainte du désespéré e Ronsard osserva negli Inni: [...] N ous ne sommes rien Q u ’une terre animée, et qu’une vivante ombre, Le sujet de douleurs, de misères et d ’encombres [...] Tant nous sommes chétifs et pauvres journaliers, Recevant sans repos maux sur maux à milliers21.

Posa manierista? Moda letteraria? Luoghi comuni? Di tutto un po’, certo, ma anche molto di più. Se tutti questi poeti sfruttano il filone malinconico è perché sanno bene che avranno un qualche tipo di riscontro, poiché la malinconia impregna la società in cui vivono. Peraltro, quando una simile atmosfera persiste per un seco­ lo e mezzo, non si può più parlare di moda, quanto di una vera e propria tendenza culturale profonda, analizzata in particolare da due britannici, Timothie Bright e Robert Burton, le cui opere costi­ tuiscono documenti fondamentali della storia delle mentalità.

Timothie Bright e il Della melanconia (1586) Timothie Bright è medico al Saint Bartholomew’s Hospital di Londra ma, allo stesso tempo, è attratto dalla vocazione religiosa. Il suo approccio alla malinconia tenta quindi di conciliare la spie­ gazione psicosomatica e la spiegazione teologica. Come medico egli resta fedele alla tradizione ippocratica degli umori: l’umore malinconico prodotto dalla milza può offuscare il cervello con i suoi vapori; la mente genera visioni sgradevoli, le quali provocano rea­ zioni di tristezza nel cuore: 21 « [...] Non siamo null’altro / Se non una terra animata, e un’ombra viven­ te, / Oggetto di dolori, miserie e fardelli [...] / Per quanto siamo miseri e poveri giornalieri, / Che ricevono senza posa mali su mali a migliaia» [traduzione nostra]. 101

I disturbi melanconici sono soprattutto la tristezza e la paura, da cui deri­ vano la diffidenza, il dubbio, la mancanza di fiducia in se stessi, o la dispe­ razione. Il soggetto è a volte furioso, a volte apparentemente felice - a causa di una sorta di riso sardonico e falso - secondo la disposizione d ’animo che governa questi diversi atteggiamenti. I tristi e pensierosi dipendono dall’umore melanconico, la parte più grossolana del sangue, succo o escre­ mento che, quando non supera il suo grado normale di calore, viene desi­ gnato come freddo. L a sua sede principale si trova nella milza e disturba il cuore con i suoi vapori; poi, salendo al cervello, sottopone l’immagina­ zione al terrore dei falsi oggetti. Esso inquina sia la sostanza che gli spiri­ ti del cervello, portandolo a inventare, senza sollecitazioni esterne, imma­ gini fittizie mostruose che spaventano il pensiero: il giudizio, ricevendole come le vengono presentate dallo strumento fuori equilibrio, le trasmet­ te al cuore, il quale neanche lui possiede giudizio né discernimento e che, dando credito al falso rapporto del cervello, fa esplodere una passione smo­ data contro ogni ragionevolezza22.

La malinconia è anzitutto una patologia fisiologica dovuta all’ab­ bondanza di bile nera che influisce sulla mente, il male diventa allo­ ra psichico. È a questo punto che il diavolo può attaccare: approfit­ tando delle paure, delle angosce, dei dubbi, spinge il soggetto di fronte a problematiche che ne compromettono la fede e lo condu­ cono alla disperazione. Se l’anima cede alle suggestioni diaboliche durante le crisi di depressione, la malinconia diventa peccato. La malinconia, quindi, plasma contemporaneamente sia il corpo che la mente. Bright stila un ritratto psicofisiologico del soggetto malinconico: magro, occhi scavati, faccia imbronciata, «avvampan­ do di timidezza, tiene la testa bassa e china. Cammina a passi lenti, in silenzio, indifferente, fugge la luce e la folla, si chiude preferibil­ mente nell’isolamento e nell’oscurità». Ha il polso debole, la dige­ stione lenta e l’evacuazione difficoltosa. II malinconico è sospettoso, si applica nella meditazione, si mostra circo­ spetto, fa sogni terribili e spaventosi. Egli è triste, pieno di paure, diffi­ cilmente monta in collera, ma quando succede vi rimane per lungo tempo e non si riconcilia facilmente. E invidioso e geloso, incline a prendere male le cose, se stimolato mostra di poter essere estremamente appassio­

22 T. BRIGHT, A Treatise o f Melancholy, Theatrum orbis terrarum, Amsterdam 1969; trad, it., Della melanconia, Giuffré, Milano 1990.

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nato. Da queste due disposizioni del cervello e del cuore nasce una ten­ denza alla solitudine, al dolore, al pianto e al riso malinconico, ai sospiri, ai singhiozzi, ai lamenti23.

Bright dedica cinque capitoli alla malinconia religiosa generata dalla paura della dannazione, in seguito Burton svilupperà mag­ giormente questa idea. Egli studia anche gli effetti degli eccessi di lavoro intellettuale, che consuma gli spiriti sottili indispensabili al nostro calore e al nostro equilibrio naturali: Poiché se la persona ama questo studio, sia il cuore che la mente si pro­ digano con i loro spiriti, e con essi le parti più sottili del succo naturale e degli umori del corpo. Se invece non le piace e le viene imposto, la sepa­ razione della mente dall’inclinazione del cuore genera nella nostra natu­ ra una sofferenza tale cui in genere segue una grande perdita dello spiri­ to vitale e degli umori più rari e sottili del corpo, che sono per così dire la sede del nostro calore naturale, affinano tutti i nostri umori e purifica­ no i nostri spiriti24.

Bisogna quindi sapersi limitare, evitare lo studio di materie sco­ nosciute, fare esercizio fisico ma senza eccessi, ascoltare la musica, distrarsi. La cura sarà psicologica, nella tradizione delle «consolazioni», secondo Seneca. E malinconico ha bisogno di un «medico filosofo», professione diffusa durante il XVI secolo. Egli farà anche ricorso a trattamenti medici, in particolare agli infusi di elleboro per depura­ re la milza, favorire le evacuazioni, combattere il freddo e la sec­ chezza. Fra gli altri antidepressivi dell’epoca citiamo l’avorio, l’am­ bra, il miele e il corno del liocorno - prodotto raro, crediamo, e quin­ di molto costoso. E poi, certamente, anche le purghe e i salassi. L’opera di Timothie Bright riassume la concezione corrente della malinconia che circola verso la fine del XVI secolo. Il suo più grande risultato è di essere stata utilizzata da Shakespeare per crea­ re personaggi malinconici quali Jacopo, ma soprattutto Amleto, meditabondo e depresso, solitario, suicida e velleitario, il cui equi­ librio psicologico viene spezzato dalla morte brutale del padre e dal

23 T. Bright , Della melanconia, cit. 24 Ibidem. 103

nuovo matrimonio, ugualmente brutale, di sua madre25. Il libro di Robert Burton è invece di tutt’altra portata.

Robert Burton, un depresso nel XVII secolo Robert Burton nasce nel 1577, nel castello di famiglia di Lindley nel Warwickshire, nel cuore dell’Inghilterra. La sua infanzia di stu­ dente non gli lascia che brutti ricordi. Essendo egli il cadetto, deve intraprendere la strada della vita religiosa. Nel 1593 entra all’Uni­ versità di Oxford, nel collegio di Brasenose, poi, nel 1599, in quel­ lo di Christchurch. Avendo poche possibilità di diventare vescovo e non volendosi rinchiudere in una curia di campagna, resterà per tutta la vita un chierico di Christchurch. Questo eterno studente, come afferma egli stesso, conduce «una vita privata silenziosa, sedentaria e solitaria». Nessuno si accorge di lui poiché non fre­ quenta le celebrità di Oxford. Egli vive con i redditi di una o due proprietà e si ritiene soddisfatto: «Non sono né ricco né povero; possiedo poco, non desidero niente; tutto il mio tesoro è nella torre di Minerva». Il suo tesoro sono i libri, che ama teneramente: egli ha accesso alle immense biblioteche dell’università e la sua biblioteca perso­ nale è davvero considerevole, poiché corrisponde a un terzo della famosa biblioteca di Oxford, la Bodleian Library2627.Burton ci passa la vita, in biblioteca, accumulando così un’erudizione colossale su tutte le materie e tutte le epoche. Sempre al corrente delle ultime novità, egli cita Rabelais, Montaigne, Cervantès, Machiavelli, Bodin, Bruno, Campanella, Paracelso, Bacone, Galileo, Keplero, Grozio. «La passione per i libri, come quella per la lettura, è probabilmente un tratto tipico della malinconia», scrive Jackie Pigeaud nella post­ fazione all’edizione francese deli’Anatomia della malinconici1.

25 J. D over Wilson , Shakespeare’s Knowledge o f A Treatise o f Melancholy by Timothy Bright, in What Happens in Hamlet, Cambridge University Press, Cambridge 1935, pp. 309-320. 26 N.K. KlESSLING, The Library o f Robert Burton, Oxford Bibliographical Society, Oxford 1988. 27 R B urton, The Anatomy o f Melancholy, Tudor Publishing Company, New York 1948; trad, it., Lanatomia della malinconia, Marsilio, Venezia 2003. 104

Come Montaigne nella sua torre, Burton si rinchiude nel suo col­ legio in cui vive una vita filtrata dai libri, pur sapendo di farne sovente cattivo uso: «H o sfogliato alla rinfusa vari cantori nelle nostre biblioteche, con poco vantaggio per mancanza di sufficien­ te abilità, ordine, memoria e discernimento»28, confessa. Gli uma­ nisti, i retorici, i predicatori di quest’epoca ricorrono spesso alla cita­ zione per rafforzare le loro dimostrazioni. Burton si serve invece della loro autorevolezza come di uno scudo, poiché manca di fidu­ cia nel proprio pensiero: «Non puoi avere di me un’idea peggiore di quanto non l’abbia già io di me stesso»29, afferma. Depresso e consapevole di esserlo, Burton si lancia nella scrit­ tura per fuggire la propria malinconia, esattamente come Montai­ gne, per il quale prova un sentimento di vicinanza fraterna. La scrittura, tutti i malinconici lo sanno, permette alla mente di usci­ re dalla sue ossessioni fissandosi sulle questioni formali del lin­ guaggio. Ma il malinconico è instancabile. Il libro di Burton è com­ posto da non meno di duemila pagine. Nell’anno 2000 Bernard Hoepffner, che ha realizzato la prima traduzione francese integra­ le di quest’opera monumentale, confessa: «H o tradotto XAnatomia per cercare di evitare la malinconia»30. Curare il male con il male è senza dubbio l’unico rimedio per il malinconico. Burton presenta il suo libro come «un antidoto a ciò che fu la causa primordiale del mio male»31. Ma il malinconico non può che parlare di se stesso, anche quando parla degli altri, poiché la sua malinconia impregna la visione che ha del mondo. Montaigne lo fa apertamente e Burton indirettamente: quando sembra parlare d’al­ tro, è ancora e sempre lui ad essere in primo piano. Non è un caso se l’autobiografia appare nel XVI secolo. Come molti altri, Burton cerca di tranquillizzarsi ricostruendo la propria vita, spiegandola a se stesso, un modo come un altro per convincersi che non è stata totalmente vana. In molti si sono riconosciuti nel mal di vivere di cui Burton trat­ teggia l’anatomia: il fatto che un trattato così voluminoso sia stato oggetto di cinque edizioni mentre l’autore era ancora in vita è abba­ 28 R. BURTON, Uanatomia della malinconia, cit. 29 Ibidem. 30 Ibidem. 31 Ibidem. 105

stanza notevole; inoltre, al momento del suo decesso, si preparava a uscirne una sesta. Il suo successo va ben oltre la sua epoca, con quarantotto edizioni fino al X IX secolo, comprese le edizioni eco­ nomiche. Ancora nel 1989, ha visto la luce un’edizione critica in lingua inglese32. Dal XVII secolo quest’opera non ha mai smesso di ispirare gli autori; in Inghilterra tutti i grandi malinconici vi hanno fatto riferimento: Milton, Sterne, Lambs, Keats, Byron, il quale tuttavia non ne aveva una grande opinione, asserendo che fosse utile «per un uomo che desidera acquisire la reputazione di essere istruito senza fare sforzi». Quanto al celebre dottor Johnson, noto ipocondriaco, egli dichiarava che fosse il solo libro capace di farlo alzare due ore prima del solito. L'anatomia della malinconia è una raccolta confusa paragona­ bile a quella che circonda la raffigurazione della Melancholia I di Dürer, di cui è il «pendant» letterario a un secolo di distanza. Burton peraltro vi si riferisce esplicitamente nella descrizione del­ l’aspetto e del comportamento dei malinconici: Estremamente appassionati, essi vogliono intensamente ciò che desidera­ no, e cercano ciò che desiderano con grande ardore; sempre ansiosi e pre­ murosi, diffidenti e timorosi, invidiosi, cattivi, a volte generosi a profusione, altre volte molto risparmiatori, ma più spesso avidi di guadagno, bronto­ loni, insoddisfatti, inclini al lamento continuo, invidiosi, burberi, incapa­ ci di dimenticare un’offesa, portati alla vendetta, rapidamente fuori con­ trollo e di grande violenza in tutto ciò che immaginano, poco affabili nelle parole, né capaci dei complimenti più comuni, ma testardi, imbronciati, tristi, austeri, sempre in meditazione, fissati nelle loro idee; esattamente come la Melancholia dipinta da Albrecht Dürer33.

Per quanto riguarda l’apparenza fisica, Burton si accontenta di riportare ciò che già pensavano Ippocrate, Galeno, Rufo, Du Laurens e altri. Gli sarebbe bastato guardarsi allo specchio per descrivere la propria malattia, ma preferisce tratteggiarla attraver­ so le pagine dei libri. Magri, rugosi, i malinconici presentano barba

32 T.C. Faulkner , N.K. K iessling e R.L. B lair (a cura di), R. Burton, the Anatomy o f Melancholy, Clarendon Press, Oxford 1989. Un volume di commenti è apparso nel 1998. 33 R. BURTON, ldanatomia della malinconia, cit. 106

floscia, labbra spesse e vene gonfie; soggetti a diarrea secondo gli uni, a costipazione secondo gli altri, essi possono soffrire di mal di stomaco, insonnia, vertigini, palpitazioni, sudori freddi, pruriti, bal­ buzie, tremori, flatulenze; i loro disturbi digestivi provocano alito pesante, peti e rutti, urina acida, escrementi duri e neri. Questo rivol­ tante ritratto non è che l’accumulo di osservazioni disparate di diver­ si autori. Nella citazione seguente egli testimonia la svalutazione di sé che caratterizza spesso le persone malinconiche e che può spie­ gare, in parte, la loro timidezza: «Esse credono che tutti le guardino e si rendano conto dello stato in cui versano; la paura, il sospetto stes­ so bastano per farli precipitare in questa condizione»34. Più interessanti sono i tratti psicologici. Anzitutto, i malinconi­ ci sono paurosi. Diffidenti, hanno paura di tutto e di tutti, temo­ no di perdere i propri beni e il loro status, si allarmano per un non­ nulla. Non smettono di agitarsi, di digrignare i denti, di sospirare, di rattristar­ si, di lamentarsi, di criticare, di mormorare, di essere rancorosi, di pian­ gere [...], di sentirsi depressi; il loro animo è disturbato da pensieri inquie­ tanti e lancinanti, sono scontenti sia di se stessi che degli altri, o ancora delle vicende pubbliche, di quelle che non li riguardano, degli avveni­ menti passati, presenti o futuri; il ricordo di qualche disgrazia, di una per­ dita, di una ferita, di un’ingiuria, ecc., oggi che sono in pace, li tormenta ancora di più di quando l’avevano appena subita35.

Si saranno riconosciuti, qui, i sintomi della depressione. L’in­ quietudine perpetua porta i malinconici ad accarezzare l’idea della morte, che temono e desiderano contemporaneamente. Essi parla­ no di suicidio, ma non sono in grado di commetterlo. Qui Burton presenta reminiscenze di Seneca: Si autocommiserano, piangono, si lamentano e credono di condurre una vita delle più miserabili: mai un uomo è stato così mal ridotto, tutti i poveri infe­ lici che incontrano sono, rispetto a loro, estremamente fortunati; ogni men­ dicante che viene a bussare alla porta è più felice di loro, scambierebbero volentieri la propria vita con la sua, in particolare se sono soli, oziosi e sepa­

34 R. BURTON, Lanatomia della malinconia, cit. 35 Ibidem. 107

rati dai compagni abituali, straziati, scontenti o irritati; il dolore, la paura, l’ansia, lo scontento, la stanchezza, la pigrizia, il sospetto, o ancora qua­ lunque altra passione simile, s’impadronisce di loro con violenza36.

La malinconia porta a volte all’epilessia, alla cecità, alla follia, poiché colui che soffre non è più in grado di provare piacere nella vita. Come Giobbe, egli maledice il giorno della sua nascita; il malinconico è un vero Prometeo le cui viscere sono continuamen­ te divorate dall’angoscia. Se molti non osano suicidarsi, altri supe­ rano brillantemente l’ostacolo; «Siamo quotidianamente testimoni di un buon numero di tristi esempi». Burton li condanna, ma invi­ ta i suoi contemporanei a giudicare meno severamente «coloro che si fanno violenza o che, in stato di crisi, esercitano la violenza con­ tro gli altri [...], poiché alcuni sono pazzi, hanno momentanea­ mente perso lucidità, oppure sono malinconici da molto tempo e, essendo ormai arrivati a livelli estremi, non sanno più quello che fanno»37. Tuttavia Burton si mostra relativamente compiacente nei con­ fronti dei malinconici. Costoro, spiega, sono dotati di qualità che spes­ so fanno difetto negli altri uomini, ad iniziare dalla perspicacia: «Sono giudiziosi, saggi e ricchi di spirito: poiché sono della stessa opinio­ ne di questo aristocratico, la malinconia fa progredire le idee degli uomini più di qualsiasi altro umore, essa permette di meditare più profondamente di qualunque altre forte bevanda»38. Hanno molto senso dell’umorismo e sono laconici, poiché «preferiscono scrivere ciò che pensano invece che dirlo e amano la solitudine sopra ogni altra cosa», come Diogene e Timone. «Essi rifiutano di frequentare i propri compagni, persino la famiglia e gli amici più cari, poiché sono convinti che tutto il mondo li osservi, si prenda gioco di loro, li disprezzi, rida di loro o li maltratti»39. Qui Burton pensa evidente­ mente a se stesso: poiché sono modesti e timidi, «è raro che riesca­ no ad arrivare agli alti ranghi della società». In un primo tempo la malinconia è in generale uno «degli umori più piacevoli». Il malinconico ama «stare da solo, vivere solo, pas36 R. BURTON, Lanatomia della malinconia, cit. 37 Ibidem. 38 Ibidem. 39 Ibidem. 108

seggiare da solo, meditare, restare a letto per giornate intere, sogna­ re, per così dire, ad occhi aperti, e lasciarsi andare per concepire migliaia di fantasie. È questo il momento di massima felicità per loro, in un istante sono in paradiso»40. Poi passano dal paradiso all’in­ ferno: «Se esiste un inferno sulla terra, deve trovarsi nel cuore di una persona malinconica». La depressione viene già considerata, all’epoca, una malattia immaginaria, superabile a condizione di fare uno sforzo su se stessi e di non prendersi troppo sul serio: «Spesso accade che le persone in buona salute si facciano beffa della pusillanimità dovuta all’ab­ battimento e degli altri sintomi della malinconia, che ne sparlino e si stupiscano di simili quisquilie, futilità che, secondo loro, sono facil­ mente evitabili, basterebbe volerlo»41. La reazione dell’ambiente cir­ costante non è cambiata in quattro secoli. Già molto moderno, l’at­ teggiamento di Burton nei confronti del mondo alimenta consape­ volmente la sua malinconia. Egli dichiara subito di essersi messo comodamente a fare lo spettatore della commedia e di osservare, dalla sua torre d’avorio, la vana agitazione degli uomini. Sono un semplice spettatore delle avventurose vicende degli uomini, di come essi recitino le loro parti, che non si presentano con grande varietà come accade di solito sul palco di un teatro42.

Ciò che segue può sorprendere il lettore del XX I secolo, il quale tende a credere che la valanga di notizie catastrofiche e di crona­ che orribili sia un fenomeno contemporaneo reso possibile dai mezzi di comunicazione moderni: Sento delle novità tutti i giorni e le solite notizie di guerre, pestilenze, incen­ di, inondazioni, furti, assassinii, massacri, meteore, comete, prodigi, stra­ ne apparizioni: sento di borghi conquistati, città assediate in Francia, Germania, Turchia, Persia, Polonia, ecc. [...], sfilate di truppe ogni gior­ no, preparativi di guerra e così via, frutto di questi tempi burrascosi, bat­ taglie, uomini trucidati, duelli, naufragi, piraterie, battaglie navali, tratta­ ti di pace, alleanze, stratagemmi e sempre nuovi pericoli. [...] Ogni gior­

40 R. BURTON, Uanatomia della malinconia, cit. 41 Ibidem. 42 Ibidem. 109

no nuovi libri, opuscoli, notiziari, storie, interi cataloghi di volumi di tutti i tipi, nuovi paradossi, opinioni, scismi, eresie, controversie filosofiche, reli­ giose, ecc.43.

Dinanzi a tutti questi drammi, come non vedere «che il mondo intero è folle, malinconico, che sta vaneggiando»? Burton ricorda che il Qoelet affermava la stessa cosa, ma alla sua epoca è molto peggio: «Mai come oggi c’è stato un motivo tanto legittimo per ridere, mai così tanti stolti e pazzi». Su più di un centinaio di pagine egli ripe­ te, in tutte le forme, che il mondo è una «gabbia di pazzi». Come in Shakespeare, che Burton conosce bene, i pazzi guidano i ciechi. Guardate «la gente comune seguire come tante pecore uno di que­ sti tali, trascinati per le corna sopra un burrone, alcuni per zelo, altri per timore». Burton rimugina sui mali dell’umanità. Rinchiuso nella sua biblioteca come un leone in gabbia, egli alimenta la sua malin­ conia con tutte le notizie che gli arrivano, sentendosi solidale con i suoi simili, che non hanno chiesto di venire al mondo più di quan­ to lo abbia fatto lui: «Nessun uomo è felice in questa vita».

Le cause Le cause di questo male sono numerose. La prima è ovviamen­ te il peccato originale, a causa del quale il male si è riversato nel mondo: Adamo, infatti, sprofondò nella malinconia immediata­ mente dopo la caduta. Più interessanti sono le cause secondarie. Burton non sembra credere all’influenza astrale, che definisce «futilità» dopo avere esposto in alcune pagine le varie opinioni a riguardo. L’ereditarietà gli sembra un fattore molto più importante. Ricordando numero­ se idee della sua epoca, secondo cui i bambini concepiti durante le mestruazioni della madre, o da un vecchio, o da una donna dall’a­ nimo pesante, stupida o collerica, sono generalmente dei depressi, egli afferma che la razza umana è sulla via della degenerazione: «L’umanità starebbe molto meglio se solo le persone sane nel corpo e nello spirito fossero autorizzate a sposarsi»44, afferma, riportan43 R. B urton , Vanatomia della malinconia, cit. 44 Ibidem. 110

do le parole di Fernel. Burton è chiaramente favorevole all’eugenismo su larga scala. Egli infatti trova deplorevole che l’attività umana più importante, quella che consiste nel mettere al mondo altri esseri umani, non venga regolamentata. Oggi, a causa del nostro lassismo a questo proposito, poiché autorizziamo il matrimonio di tutti coloro che lo desiderano, poiché siamo troppo indul­ genti, liberali e tolleranti in tanti campi, subiamo la totale confusione delle malattie ereditarie, nessuna famiglia viene risparmiata, quasi tutti gli uomi­ ni vengono colpiti da una qualche grave infermità e, per quanto si faccia, sono sempre i più anziani a sposarsi, come se fossero stalloni di razza, o anco­ ra i ricchi, gli imbecilli, i tarati, gli zoppi o gli infermi, gli impotenti, gli intem­ peranti, i depravati e coloro che si sono consumati nelle orge45.

Un’altra causa di malinconia è la vecchiaia. A causa dell’affievolimento progressivo degli spiriti vitali, gli anziani sono di animo triste. La malinconia può inoltre risultare da un cattivo regime ali­ mentare. Burton è inesauribile a questo proposito, ma le sue inter­ minabili raccomandazioni hanno di che rendere tristi: egli infatti sconsiglia la carne di manzo, di maiale e di coniglio, il latte e i suoi derivati, la maggior parte dei volatili, del pesce, della frutta e della verdura, il pane integrale, tutti i vini di colore scuro e la birra; ban­ disce i pasti troppo abbondanti o troppo raffinati, ma anche i regi­ mi alimentari troppo inflessibili... La malinconia si spiega a volte con la mancanza di secrezioni corporee, come nel caso degli stitici, di coloro in cui cessa il flus­ so emorroidale e delle donne che non hanno più le mestruazioni. In questa categoria Burton accorda un ampio spazio alla mancan­ za di attività sessuale: «L’astinenza provoca un tipo particolare di malinconia nelle donne anziane, le suore e le vedove», nei monaci e nei preti, e in tutti coloro che sono troppo timidi per fare l’amo­ re abbastanza spesso46. E come sempre cita numerosi esempi, come «questo prete buono, onesto e devoto che, non volendo né sposarsi né finire per andare nei bordelli, venne colto da una grave malin­ conia». Il motivo è che il seme non utilizzato marcisce e diventa un vero e proprio veleno i cui vapori arrivano fino al cervello. La stes­

45 R. B urton , Uanatomia della malinconia, cit. 46 Ibidem. Ili

sa cosa vale per il fluido sessuale delle donne, ma attenzione: «La mancanza di temperanza in amore è nociva quanto l’eccesso con­ trario; Galeno dichiara che la malinconia fa parte delle malattie aggravate dalla copulazione». In verità la malinconia può essere generata da qualsiasi tipo di causa: la cattiva qualità dell’aria, un’esposizione prolungata al sole, la mancanza o l’eccesso di esercizio fisico, il troppo sonno, un gran­ de dolore, la paura improvvisa, una disgrazia, l’odio, l’invidia, la gelosia, la collera, una grave preoccupazione, desideri insoddisfat­ ti, la cupidigia, la passione sfrenata per il gioco, l’orgoglio, una gioia eccessiva, un lutto, l’esilio, un matrimonio infelice, la perdi­ ta della libertà, della bellezza o della salute, un terremoto, l’appa­ rizione di uno spettro, lo scherno, la miseria, le amicizie sgradevo­ li, i vicini cattivi, indossare biancheria sporca, avere «un alito puz­ zolente, membra deformi, una gobba, la perdita di un occhio, di una gamba, di una mano, un colorito pallido, la magrezza, il ros­ sore». Leggendo questo inventario sembra impossibile riuscire a evi­ tare la malinconia, che rischia di essere scatenata anche dalla caduta dei capelli, osserva Burton, il quale cita la frase immortale dell’illu­ stre Sinesio di Cirene: «La perdita di capelli da sola colpisce crudel­ mente il cuore»47. Il nostro autore non ha ancora finito con l’elenco delle cause: ci sono ancora i malinconici che hanno succhiato il mal di vivere attraverso il latte di una balia «folle o sciocca», quelli la cui edu­ cazione è stata troppo severa, quelli a cui sono state raccontate «storie di mendicanti, di orchi e di gobelin», quelli che sono stati raddrizzati a colpi di frusta e di minacce, quelli la cui educazione è stata invece troppo indulgente, quelli i cui difetti fisici hanno intaccato la mente per mezzo degli spiriti vitali, poiché «non esiste parte del corpo che, in condizione di disequilibrio, non possa pro­ vocare questa malattia». Soprattutto Burton dedica tutta la terza parte del suo libro, vale a dire trecentocinquanta pagine, a due tipi di malinconia che gli stanno particolarmente a cuore: la malinco­ nia amorosa e la malinconia religiosa. La prima, come abbiamo detto, gli viene ispirata dalle sue fru­ strazioni personali: quest’uomo solitario e timido riversa la sua stiz-

47 R. BURTON, Lanatomia della malinconia, cit. 112

za contro le donne, con accenti fortemente misogini, facendo del­ l’amore, che non ha potuto conoscere, la fonte di una moltitudine di mali che conducono alla malinconia, persino al suicidio. L’amore porta alla gelosia, la quale provoca tormenti senza fine. Ma Burton si rimprovera anche di dedicare tanto tempo a questo tema: «Cosa ho a che fare io con le suore, le ragazze, le vergini, le vedove? Già io sono celibe e conduco una vita monacale in un collegio». Per quanto riguarda la malinconia religiosa, si tratta di un vero e proprio flagello: «Niente al mondo provoca tanta follia, tanti sin­ tomi sbalorditivi quanto la superstizione, l’eresia, gli scismi, per ammettere che questo tipo di malinconia sia pari a tutti gli altri di cui ho già parlato, che è molto più comune e che i suoi effetti sono molto più stravaganti, che abbrutisce e domina gli umani più di tutti gli altri generi di malinconia già citati»48. Vengono presi di mira soprattutto i cattolici (Burton è un angli­ cano convinto), ma anche le altre religioni: Se Democrito fosse vivo e vedesse anche solo la superstizione della nostra epoca, la nostra follia religiosa [...] cosa direbbe? Tanti che si professa­ no cristiani e tuttavia ben pochi che imitano Cristo; tanto parlare di reli­ gione [...], tante cerimonie, assurde e ridicole. [...] Se avesse incontrato alcuni dei nostri devoti pellegrini che vanno a piedi scalzi a Gerusalemme, Loreto, Roma, Santiago di Compostela, Canterbury, per strisciare di fron­ te a quelle false reliquie mangiate dai vermi; se fosse stato presente ad una messa, e avesse visto tutto quel baciare santini, crocifissi, quel curvare di schiene, inchini, i loro vani abiti e cerimonie [...], battersi il petto [...], i loro breviari, balle, rosari, esorcismi, pitture, strane croci, favole e gingil­ li; se avesse letto la Leggenda d ’Org, il Corano dei Turchi, il Talmud degli Ebrei, i Commenti rabbinici, cosa avrebbe detto?49.

I cattolici sono inclini alla disperazione quando si rendono conto che le loro preghiere sono vane. Ma i predicatori puritani, «questi ministri tonanti del culto» non valgono tanto di più e hanno por­ tato al suicidio più di una persona. I preti papisti offuscano le menti parlando di visioni, apparizioni, possessioni. Non che il diavolo non abbia niente a che fare con la malinconia religiosa, anzi, ne

48 R. BURTON, L 'anatomia della malinconia, cit. 49 Ibidem. 113

approfitta per tentare gli animi fragili e spingerli fino all’ateismo, che Melancthon designa come «mostruosa malinconia» o «malin­ conia avvelenata». L’ateismo è un fattore di malinconia nocivo quasi quanto il cattolicesimo.

Le cure Ma veniamo al trattamento di questo flagello. Si tratta poi dav­ vero di un flagello? La questione è legittima poiché Burton sem­ bra dilettarsi nella sua tristezza, riconoscendole volentieri alcuni van­ taggi. I malinconici sono persone degne di stima, «raramente tanto ambiziosi, impudenti e importuni quanto gli altri; essi non sono né imbroglioni, né ingannatori, né scrocconi, né chiacchieroni, né tenutari di case chiuse, né parassiti, né depravati, né ubriaconi, né puttanieri; la necessità e i loro difetti li costringono all’onestà»50. Virtuosi per necessità: «Se noi, i malinconici, non siamo così per­ vertiti quanto i peggiori di noi, è grazie a nostra signora la Malinconia». I nostri difetti hanno infatti un lato positivo: l’amo­ re per la solitudine favorisce la meditazione, il sospetto rende pru­ denti, la paura incoraggia la sobrietà, la stanchezza della vita allon­ tana dai piaceri effimeri. In una parola, se non siamo felici, è lo scot­ to da pagare per la nostra intelligenza, la nostra lungimiranza e la nostra cultura: «L’ignoranza è un rimedio sovrano contro tutti i mali [...], i perfetti idioti se la cavano meglio, non sono né invasi dalle preoccupazioni, né tormentati dalle paure e dall’ansia come gli uomini assennati». Guardate quanto sono felici gli americani: «Vivremmo forse meglio se possedessimo la semplicità illetterata e la grossolana ignoranza degli abitanti della Virginia»51. Tuttavia Burton suggerisce alcuni rimedi contro la malinconia, che ritiene quindi essere soprattutto un male. E, nuova contraddi­ zione, egli non applica tali rimedi, anzi. Proprio lui che non è mai uscito da Oxford dichiara che «non c’è miglior rimedio per un uomo malinconico del cambiamento d’aria, della diversità di luo­ ghi e dei viaggi distanti dalla propria casa per scoprire modi diver-

50 R. BURTON, Uanatomia della malinconia, cit. 51 Ibidem. 114

si di vivere»52. Lui, che non tocca mai una donna, cita Velesco di Taranto per il quale «in mancanza di rapporti sessuali, lo spirito si carica di tristezza e il corpo diviene pesante e cupo»53. Lui che non frequenta nessuno è convinto che «il miglior rimedio sia di condi­ videre la nostra miseria con un amico invece che rinchiuderla in noi stessi»54, inoltre raccomanda di «mangiare spesso». Potremmo cita­ re molti altri esempi a testimonianza del fatto che Burton si com­ piacesse del suo male. In effetti poi, Burton consigliava soprattutto di condurre ima vita equilibrata e di evitare qualsiasi eccesso. Senza grandi illusioni, poi­ ché «chiedere a un malinconico di smettere di avere paura, di esse­ re triste, è come chiedere a un malato di smettere di soffrire». I suoi rimedi sono dunque semplici osservazioni dettate dal buon senso, che del resto sono fuori dalla portata della stragrande maggioran­ za dei suoi contemporanei. Ma la malinconia non è forse, a que­ st’epoca, una malattia di lusso? Quindi, se volete mantenerla entro limiti accettabili, fatevi costruire una bella casa, correttamente orien­ tata, dove l’aria sia sana; «Piantate rose, violette, fiori dal profumo gradevole sotto le finestre, bouquet fra le mani»; stabilitevi in una regione dal clima gradevole, nel paese di Montaigne, ad esempio: «Nel Périgord, in Francia, l’aria è sottile e salubre, le epidemie o le malattie contagiose sono rare, la regione è montagnosa e arida: gli uomini che vi abitano sono in buona salute, agili e vigorosi»55. Poi conducete una vita piacevole: ascoltate la musica, invitate gli amici, viaggiate, fate l’amore ogni tanto, dormite bene: setto o otto ore a notte, su un fianco «e a volte anche sulla pancia, ma mai sulla schiena». La sera, un bicchiere di vino dolce, poi «coricarsi in len­ zuola pulite e morbide», ascoltare una musica dolce prima di anda­ re a letto o una volta coricati. Non è male anche avere in giardini una vasca con un getto d’acqua, il cui «piacevole fruscio» placherà i vostri sensi. Un altro consiglio: «E molto salutare lavarsi spesso le mani e il viso, cambiarsi gli abiti, portare biancheria pulita, esse­ re vestiti in modo decente e armonioso, poiché la sporcizia intac-

52 R. B urton , Uanatomia della malinconia, cit. 53 Ibidem. 54 Ibidem. 55 Ibidem. 115

ca e deprime le persone che sono volontariamente trascurate o che lo sono per necessità; essa demoralizza»56. Insomma, bisogna occuparsi del corpo e dell’anima. E poi anda­ re agli spettacoli! Ce ne sono certamente nella vostra regione, «una processione, o una sfilata come durante le incoronazioni, i matri­ moni e altre solennità del genere, [...] il ricevimento di un amba­ sciatore o di un principe, mascherate, spettacoli, fuochi d’artificio, ecc.»57. E le battaglie! «Potete osservare una battaglia nel momen­ to dell’azione, come quelle di Crécv, di Azincourt o di Poitiers» vittorie, preferibilmente -, che pacchia! E se avete perso queste grandi occasioni, sappiate che ne verranno organizzate ancora. Se seguirete queste sane raccomandazioni, vi sentirete già meglio. Lasciatevi andare, e soprattutto non interrogatevi troppo sul senso dell’esistenza. A cosa serve chiedersi: «Cosa faceva Dio prima della creazione del mondo? Perché l’ha creato proprio in quel momento e non prima? Se l’ha creato dal nulla, o nell’ottica di un disegno par­ ticolare, allora com’è possibile che Dio sia immutabile e infinito? [...] se Dio è infinitamente e unicamente buono, perché dovrebbe tra­ sformare o distruggere il mondo? Se capovolge ciò che è buono, come può Egli stesso rimanere buono? Se annienta il mondo a causa del male, come può essere libero dal male che ha reso cattivo il mondo? ecc. [Tutte queste] domande [sono] una più assurda e folle dell’altra»58. Altre sane occupazioni permetteranno alle donne di scacciare la malinconia. La lista dà l’impressione che Burton, vecchio scapolo frustrato, non riesca decisamente a perdonare al gentil sesso il fatto di averlo lasciato in disparte: Quanto alle donne, per sostituire le attività di studio, hanno il loro curio­ so lavoro con l’ago, i loro ricami, i loro merletti a tombolo e tutta una serie di deliziosi oggetti che costruiscono da sole per decorare le case, i cusci­ ni, i tappeti, le sedie, gli sgabelli, [...] le confetture, le conserve, i distil­ lati, ecc., che mostrano agli stranieri [...]. Tutto ciò sostituisce studi labo­ riosi»59.

56 R. BURTON, Uanatomia della malinconia, cit. 57 Ibidem. 58 Ibidem. 59 Ibidem. 116

Per chi, nonostante tutto, fosse ancora afflitto dalla malinconia, esistono anche medicine e trattamenti farmaceutici. Burton cita alcu­ ni degli ottocento purgativi o alterativi conosciuti dalla medicina di allora, il cui fine era di favorire l’espulsione dell’umore malinconico che si accumula in alcuni punti del corpo. Il rimedio migliore è anco­ ra il salasso, per il quale Burton consiglia un metodo naturale: «Le sanguisughe sono molto apprezzate per curare la malinconia, parti­ colarmente sulle emorroidi»60. Oggi il libro di Robert Burton ci sembra un buon rimedio per la malinconia. La sua semplice lettura ci regala ore di divertimento, ed è a torto che egli teme di annoiarci: «Dopo questi discorsi noiosi...», scrive all’inizio della sotto-divisione 3 del membro 5 della sezione 2 della prima parte, dopo seicento pagine dedicate alle cause della malinconia e prima di iniziare le millequattrocento pagine di descri­ zione del trattamento. Nella sua epoca Burton dà prova di grande umanità. Ciò che descrive non è soltanto la malinconia, ma la con­ dizione umana, con i suoi limiti, le sue piccolezze, le sue illusioni, insomma, il mal di vivere. La sua epoca ignora il politichese, inven­ tato dai moderni per celare le sofferenze del mondo. Burton rivela l’anatomia della condizione umana: l’uomo è infelice, anche se tenta di persuadersi del contrario. «In questa vita sono numerosi i flagel­ li che possono abbattersi su un mortale: matrimonio, bambini, dome­ stici, maestri, compagni, vicini, i nostri difetti, l’ignoranza, gli erro­ ri, l’intemperanza, l’indiscrezione, le infermità, ecc»61. L’uomo passa il tempo a scontrarsi con i propri limiti, a sbatte­ re la testa contro i muri della sua prigione. Tuttavia ha paura di uscir­ ne, anche quando gli si apra la porta, di cui peraltro ha le chiavi: la morte lo solleverebbe, ma egli la rifiuta. Quando parla di que­ sta misteriosa contraddizione che è al centro della condizione umana, Burton è equiparabile a Montaigne, afferma persino Scho­ penhauer. Tutti i teorici del mal di vivere arriveranno alla medesi­ ma constatazione: La vita è fastidiosa e dolorosa anche per colui che vive al meglio; nascere è una sventura, vivere un dolore, morire una pena; la morte mette un

60 R. BlTRTON, Lanatomia della malinconia, cit. 61 Ibidem.

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punto finale alle nostre miserie, e tuttavia non riusciamo a pensarci [...]. Poiché non esiste piacere quaggiù cui non sia unito un po’ di dolore; il pentimento lo segue da vicino. Se mi nutro abbondantemente, spesso sono malato o scoraggiato; se vivo in modo frugale, la fame e la sete non saranno placate; non mi sento bene né quando sono pieno né quando sono a digiuno; se vivo onestamente brucio di concupiscenza; se mi lascio andare al piacere, mi affatico e affamo la mia anima, le causo pregiudizio, come anche al mio corpo. Per una così infima quantità di gioia, quanti dolo­ ri; dopo così poco piacere, una così grande miseria! Trovo sgradevole sia coricarmi che alzarmi, sia mangiare che guadagnarmi da vivere; le preoc­ cupazioni e i fastidi mi accompagnano per tutto il giorno, le paure e i sospetti per tutta la vita. Sono scontento. Perché allora desidero tanto vivere?62.

62 R. BURTON, Uanatomia della malinconia, cit. 118

Capitolo quinto Pessimismo cristiano e nascita della noia nel secolo XVII

La grande speranza erasmiana di veder nascere un’umanità ragionevole è naufragata nelle guerre di religione. Probabilmente l’umanesimo toccava solo un’infima minoranza di intellettuali, total­ mente incapaci di opporsi alle forze irrazionali dei credenti mani­ polati dai principi del Rinascimento. La fede nell’uomo si è rivela­ ta utopica quanto la fede in Dio e questa presa di coscienza spie­ ga in gran parte il pessimismo del XVII secolo, un pessimismo di ispirazione giansenista, generatore di un profondo mal di vivere che si traduce in diffidenza intellettuale nei confronti delle capacità umane. Il movimento si è spesso riproposto nel corso della storia, ogni volta che un ottimismo sconsiderato ha lasciato intravedere dei grandi domani. Gli umanisti avevano creduto nell’uomo, ma i fana­ tismi sfrenati avevano ben presto dissipato questa ingenuità. Il XVII secolo riporta brutalmente al realismo: a causa del peccato originale, non si può sperare in niente di buono nell’uomo.

La tristezza del Grand Siècle Gli artisti dell’inizio del XVII secolo hanno spesso rappresen­ tato malinconia e tristezza attraverso allegorie, come la Malinconia di Cesare Ripa (1611) o LAllegria e la malinconia di Abraham Janssens (1623). A partire dagli anni ’20 del 1600 predominano le vanités in cui i teschi, i pendoli, gli orologi e altri oggetti simboli­ ci illustrano il trascorrere del tempo e il carattere effimero dell’e119

sistenza. Il tempo, sempre lui, vecchio impietoso, viene quindi rap­ presentato in una moltitudine di allegorie: su questo tema sono state recensite settantadue rappresentazioni1. Persino gli orologi a volte appaiono a forma di teschio, come il magnifico esemplare del 1650 conservato all’Ashmolean Museum di Oxford. Nel 1656 l’introduzione del pendolo negli orologi da parte di Christian Huygens rende il tempo ancora più tangibile. In questo stesso anno Ludwig Pfanstill realizza una vanité dove, dietro una giovane ragazza dai seni nudi, appare nello specchio uno scheletro spoglio. Persino Jan Steen, dalla vena spesso satirica, si lancia in questo genere con II guardiano del libro della morte (1663) o II mondo è un palcoscenico (1667): innamorati, giocatori e nullafa­ centi se la spassano in un albergo, mentre dal fienile un ragazzo osserva con discrezione facendo bolle di sapone, un teschio al suo fianco. La vanité di Abraham Van der Schoor ci ricorda in modo più diretto il nostro destino: sei teschi e alcune ossa sparse alla rin­ fusa su un tavolo, con una clessidra, due rose, una candela accesa e alcuni carteggi. Pieter Claesz esegue, dal canto suo, una Vanità natura morta, dove un teschio sovrasta libri, papiri, penna, scrit­ toio e spartiti. In un Teschio con quadrante solare attribuito a Sebastian Stosskopf, il teschio si trova su un grosso libro. Harmen Van Steenwyck, nella sua Natura morta con pesce, lo colloca vicino a un orologio, a una conchiglia e a una sciabola da samurai. I suicidi continuano nel regno di Luigi XIV. San Simone parla di una dozzina di suicidi nell’alta nobiltà. In Inghilterra, un volan­ tino anonimo del 1647 dichiara che gli annegamenti e le impicca­ gioni sono divenuti talmente frequenti che non vi si fa neanche più caso23.Qualche anno più tardi William Denny scriverà che gli risuo­ nano nelle orecchie tutti i racconti di morte volontaria di cui si sente parlare a Londra5. In questa stessa città, dal 1629 al 1660, John Graunt conta da 15 a 36 suicidi all’anno secondo gli annunci fune­ rari pubblicati dalla stampa, cifre che ritiene essere ampiamente

1 F. S a x l , Veritas, filia temporis, in Philosophy & history: e Essays presented to E. Cassirer, Clarendon Press, Oxford 1936, pp. 197-222. 2 A Petition unto his Excellencie, Sir Thomas Fairfax, Occasioned by the Publishing o f the Late Remonstrance, Londra 1647. 3 W. D e n n y , Pelicanicidium, Londra 1652.

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inferiori alla realtà4. Il tribunale del King’s Bench giudica 780 casi di suicidio fra il 1620 e il 1629, e 720 fra il 1650 e il 1659. Alcuni casi di particolare richiamo alimentano la cronaca: il pittore italia­ no Domenico Zampieri, detto il Domenichino, nel 1641, poi il suo compatriota Francesco Borromini nel 1667. Tre anni prima, Nicolas Pierrot d’Ablancourt, scrittore dall’animo tormentato, disgustato dalla vita, si lascia morire di fame. Nel 1671 Lord North, persona­ lità malinconica, si uccide in seguito alla morte di sua moglie. Medici e filosofi cercano una spiegazione. I teologi continuano a incriminare il diavolo, ma i pensatori laici invocano sempre di più la follia. Il medico Willis, le cui opere complete saranno pubblica­ te a Lione nel 1681, definisce la malinconia «una follia senza feb­ bre né furore, accompagnata da paura e tristezza»5. Gli spiriti ani­ mali, travolti da una debole agitazione, divengono oscuri e tenebrosi, spiega Willis, e le immagini nel loro cervello si velano «d ’ombra e di tenebre». L’individuo diventa triste e può avere reazioni morbose e suicide. Per evitare tali reazioni, Cartesio raccomanda un accorgimen­ to dettato dal semplice buon senso: poiché non sappiamo cosa ci aspetta dopo la morte, restiamo in vita, anche se quaggiù il male ha la meglio sul bene. Egli stesso non sembra particolarmente inte­ ressato ai sentimenti di inquietudine e di malinconia che colpisco­ no così tanti uomini e donne. Questo intellettuale puro guarda con commiserazione i malinconici che lo circondano e che, ai suoi occhi, soffrono di una malattia di origine puramente fisiologica. Nel suo trattato Ifuomo, egli si limita a spiegare l’inquietudine come man­ canza di uguaglianza nell’agitazione degli spiriti animali. Ne Le Passioni dell’anima, Cartesio descrive più nel dettaglio gli effetti fisi­ ci della tristezza: «Nella tristezza [...] le aperture del cuore sono molto ristrette dal nervolino che le circonda, e il sangue delle vene, non essendo affatto agitato, va verso il cuore in misura scarsissima; tuttavia i passaggi per cui il succo dei cibi scorre dallo stomaco e dagli intestini verso il fegato restano aperti, e quindi l’appetito non 4 J. G r a u n t , Natural and Political Observations Mentioned in a Following Index, and Made upon the Bills o f Mortality, John Martyn and James AUestry, ( )xford; trad, it., Osservazioni naturali e politiche fatte sui bollettini di mortalità, a cura di Enzo Lombardo, La Nuova Italia, Firenze 1987. 5 T. WILLIS, Opera omnia, Lione 1681, t. Il, p. 238.

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diminuisce, a meno che l’odio, spesso accompagnato dalla tristez­ za, non chiuda quelle vie»6. Le persone tristi sono pallide, poiché il viso non è ben irrorato dal sangue, a meno che non vi siano in gioco sentimenti d’amore, odio o desiderio, nel cui caso il viso diventa rosso. Tristezza e inquietudine sono quindi guasti che si producono nella macchina umana, essi non potrebbero in alcun modo provenire dalla mente, che è guidata dalla sola ragione. Ma i difetti del corpo rica­ dono sul buon funzionamento della mente, generando «umori con­ fusi e inquietanti». Nel Discorso sul metodo, Cartesio se la prende con le «vane inquietudini e dissapori» che perturbano il comportamento razionale. Scartando ogni spiegazione psicologica del mal di vivere, egli afferma che l’uomo debba seguire la ragione, che ci permette di arrivare alla verità. A suo parere, quindi, il mal di vivere proviene dai difetti nella macchina corporea di alcuni uomini; è compito della medicina ripararli. Malebranche riprende i punti salienti di questa spiegazione, ma la ricolloca in un contesto religioso, unendo il fisico e il metafisi­ co. Lungi dall’avere la serenità del suo maestro, egli è un animo tor­ mentato che applica all’anima la legge di inerzia dei corpi e vede nel disagio dell’essere la presenza di un movimento non effettua­ to: Dio, infatti, ci infonde una certa quantità di movimento verso il bene, quindi verso di Lui; se l’anima si ferma durante questa ten­ sione, essa conserva «il movimento per spingersi oltre», generan­ do l’inquietudine. Ma Malebranche non si ferma a questa osservazione e ne fa un elemento centrale dell’apologetica: egli si spinge fino ad arrivare al cuore religioso di questo XVII secolo pessimista. Tutte le forme di inquietudine, del mal di vivere e della malinconia sono, da un lato, la conseguenza del peccato originale, che ha distrutto lo stato di integrità iniziale della natura umana, e dall’altro la prova che siamo chiamati a un bene superiore. Non proveremmo questa inquietu­ dine se non fossimo ossessionati dall’insoddisfazione della nostra condizione presente. E questo sentimento di mancanza fondamentale che il malabranchiano Bernard Lamy esprime chiaramen­

6 CARTESIO, Le passioni dell’anima, in Opere filosofiche, voi. 4, art. 105, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 62.

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te: «Tutte le nostre inquietudini provengono dalla sensazione di essere stati creati per qualcosa di grande, senza ben capire cosa sia questa grandezza [...]. Allo stesso tempo, poiché sentiamo che tutto ciò che incontriamo è piccolo, non siamo contenti, siamo disgustati da ciò che abbiamo [...]. È la causa di tutte le grandi rivo­ luzioni che leggiamo nelle storie»7. Malebranche stesso scrive: «Finché gli uomini avranno un’inclinazione per un bene che oltre­ passa il loro, forse, e che essi non posseggono, avranno sempre un’inclinazione segreta per tutto ciò che presenta i caratteri del nuovo e dell’eccezionale»8; «la nostra volontà, sempre riarsa da un’ardente sete, sempre agitata da desideri, sollecitudini e ansie per il bene che non possiede, non può tollerare se non molto a fati­ ca che lo spirito si soffermi per qualche tempo su verità astratte che non lo toccano e che essa giudica incapaci di renderla felice»9. L’inquietudine è quindi indissolubilmente legata alla decaden­ za dell’umanità ed è al contempo una punizione e uno sprono verso il bene. Con il suo abituale ottimismo, Leibniz ne contempla anzi­ tutto l’aspetto positivo: l’inquietudine tesse la trama dei nostri sen­ timenti, sia nella tristezza che nel piacere. Si tratta dunque della ten­ sione permanente verso «un bene più grande»: «Trovo ch’essa è indispensabile alla felicità delle creature, la quale felicità non con­ siste mai in un possesso congiunto, che le renderebbe insensibili e come stupide, sebbene in un continuo e non interrotto progresso verso beni sempre più grandi; progresso che non può mancare d’essere accompagnato da un desiderio o almeno da una irrequie­ tezza continua»10.

7 B. L a m y (padre), Entretiens sur les sciences dans lesquels on apprend comme l’on se doit servir des sciences pour se faire l’espritjuste et le cœur droit [avec la métho­ de d’étudier], a cura di Fr. Girbal e P. Clair, PUF, Parigi 1966, p. 120 [Lione 1694]; trad. it., Trattenimenti sopra le scienze del padre Bernardo Lami prete dell’Oratorio di Francia, nei quali s’insegna il metodo di studiare le scienze, e come valersi di que­ ste pel buon regolamento dell’intelletto, e del cuore, in Rovereto: nella stamperia di Pierantonio Berno librajo, 1734. 8 N. M a l e b r a n c h e , La ricerca della verità, IV, 3 , 1, Laterza, Bari 1983, p. 380. 9 Ivi, III, 1, IV, II, pp. 296-297. 10 G.G . L e ib n iz , Nuovi saggi sull’intelletto umano, vol. I, II, 21, § 36, Laterza, Bari 1909, p. 163.

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Il pessimismo giansenista Tuttavia, l’ottimismo del filosofo tedesco è decisamente mino­ ritario nel XVII secolo, che versa in un’atmosfera di profondo pes­ simismo religioso. Questo è anzitutto il secolo del giansenismo persino i suoi detrattori ne sono permeati - e del peccato origina­ le, un secolo in cui i teologi proclamano che, sin dal peccato di Adamo, siamo tutti criminali sul punto di essere giudicati e con­ dannati11. Certo, i gesuiti affermano che ci resta il libero arbitrio, ma per farne buon uso bisogna condurre una vita talmente asceti­ ca da scoraggiare anche le persone animate dalle migliori intenzioni. Peraltro i gesuiti e i giansenisti sono decisamente d’accordo su un punto: la maggior parte dell’umanità finirà all’inferno. «G li eletti, rispetto al resto del mondo, non formano che un piccolo gruppo che passa quasi del tutto inosservato», afferma Massillon; «E certo che il numero degli eletti sarà il più esiguo e che ci saranno incom­ parabilmente più dannati», conferma Bourdaloue; «Su mille per­ sone, neanche una ventina verrà effettivamente salvata» osserva Malebranche; «Non c’è verità più sorprendente nella dottrina cri­ stiana di quella che ci dimostra l’esiguo numero di eletti»12 rinca­ ra la dose Nicole. Per quest’ultimo, come per tutti i giansenisti, abbiamo perso la capacità di fare del bene, a meno che non siamo uno dei rari pri­ vilegiati predestinati cui Dio accorderà la grazia. Tutti gli altri si ritroveranno all’infemo: i non cristiani, chiaramente, ma anche l’im­ mensa maggioranza dei battezzati e i bambini morti senza essere stati battezzati. Una simile certezza non può che causare dispera­ zione; ma la disperazione è un peccato che porta dritti all’inferno! I giansenisti che diffondono questa dottrina sono combattuti fra due estremi inconciliabili poiché, secondo la formula pascaliana, biso­ gna «vivere nel mondo senza prendervi né parte né gusto». Questa esigenza radicale di assoluto non può accontentarsi dei valori umani, sempre imperfetti, che implicano sempre una scelta. Rifiutando di impegnarsi nelle imprese umane, il giansenista si ritira dal mondo

11 G. MINOIS, Les origines du mal: une histoire du péché originel, Fayard, Parigi 2002, capitolo 5: Le péché originel, fondement de la culture classique. 12 G . M in o is , Piccola storia dell’inferno, Il Mulino, Bologna 1995.

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pur restando in questa vita. Condannando senza appello questo mondo come brutto e non avendo alcuna speranza di poterlo cam­ biare prima della fine dei tempi, egli porta con sé una tentazione fon­ damentale di morte: «Vivere nel mondo significa vivere ignorando la natura dell’uomo, conoscerla significa comprendere che egli non può salvare i valori autentici se non rifiutando il mondo e la vita intramondana, scegliendo la solitudine e - al limite - la morte»13, scri­ ve Lucien Goldmann, che sottolinea anche la similitudine fra l’at­ teggiamento pascaliano e quello di Faust: la passione del sapere uni­ versale e la consapevolezza della sua totale vanità. Tale discordia porta il primo a sprofondare in una frustrante accettazione del miste­ ro di questo Dio inafferrabile, e il secondo a volersi suicidare. Il giansenismo autentico si spinge fino al limite della riflessio­ ne logica sulla condizione umana ma, così facendo, conduce ad una situazione di stallo: da un lato il mondo, radicalmente brutto, che nessuna azione potrà mai migliorare; dall’altro un Dio inaffer­ rabile che invia la sua grazia solo a un esiguo numero di eletti; in mezzo l’uomo, assetato di assoluto e consapevole di non poterlo avere. L’unica via d’uscita sarebbe il nulla, ma il giansenismo lo rifiu­ ta nel nome di Dio, padrone assoluto della vita. L’uomo è rinchiu­ so nella trappola terrestre, il solo ostacolo al suicidio è la fede, una fede che il giansenismo rende fragile facendo di Dio un essere la cui caratteristica principale è l’assenza. E pur vero che agli occhi dei giansenisti la paura è salutare. Questa «santa inquietudine», come la definisce l’abate Duguet, è un segno di predestinazione, ed è in ogni caso una condizione necessaria alla salvezza. «Tutti gli uomini del mondo sono obbli­ gati a credere, ma di una credenza mista a paura e non accompa­ gnata dalla certezza di far parte di quel piccolo numero di eletti che Dio vuole salvare», spiega Pascal negli Scritti sulla grazia. Noto giansenista, l’oratore Gilles Vauge osserva: «Questa paura che alber­ ga anche nei giusti e nei santi è uno dei mezzi attraverso cui Dio suole eseguire il decreto della sua predestinazione. Lungi dall’af­

13 L. G o l d m a n n , Le Dieu caché: étude sur la vision tragique dans les «Pensées» de Pascal et dans le théâtre de Racine, Gallimard, Parigi 1959, p. 241; trad. it., Il Dio nascosto: studio sulla visione tragica nei Pensieri di Pascal e nel teatro di Racine, Laterza, Bari 1971, pp. 325-326.

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fievolire la fiducia che ognuno di noi è obbligato ad avere al pen­ siero di far parte del numero di eletti, essa deve al contrario raffor­ zarla, in quanto strumento della nostra salvezza. Questo è lo stato in cui Dio vuole che restiamo per giungervi»14. Abbiate paura, quindi, per evitare l’angoscia, in qualche modo.

Una spiritualità morbosa Non è affatto facile essere cristiani nel XVII secolo: le correnti non gianseniste, infatti, non sono certo più rassicuranti. La spiri­ tualità berulliana, ad esempio, è una delle più sconfortanti che esi­ stano. Il cardinale de Bérulle (1575-1629) vede nella terra «una cloaca di sconcezze e di abomini, e una valle di lacrime, di morte e di miseria». L’uomo è schiavo del peccato, proclama: «Ecco la base da cui partiamo ed ecco la nostra eredità, la nostra potenza: nemi­ ci di Dio, prigionieri del diavolo, schiavi del peccato, eredi del­ l’inferno, ostaggi sacrificati alla morte, e alla morte eterna»15. Il cattolicesimo, quindi, è cultura di morte o cultura di vita? La lettura di Bérulle non lascia alcun dubbio: L’essere, la vita e l’eredità che riceviamo da Adamo non è che morte e per la morte. [...] Il mondo è la ghigliottina del nostro supplizio, non solo siamo obbligati a morire, ma siamo anche condannati a morire. Viviamo sulla terra come se fossimo in attesa della sentenza e dell’esecuzione: i nostri pen­ sieri, i consigli, le parole sono impotenti, inutili, nella deformità della morte. Non basta, in tutto questo, riconoscere il nostro stato di morte; poi­ ché il diavolo riconosce bene che si tratta di morte, egli non è migliore, né più virtuoso. Ma occorre che ci abituiamo all’idea che Dio tratta tutto que­ sto come morte, e dobbiamo in tutto e per tutto trattarci come morti [...]. L’ultimo giorno Dio farà morire nel fuoco Adamo e tutte le sue opere [...]. Ciò di cui abbiamo appena parlato è la morte che la natura reca con sé a causa del peccato: ma esiste anche la morte che riceviamo attraverso la grazia, che sopravviene nel momento in cui ci avviciniamo alle cose divine, volendo far morire la natura: ed esiste la morte persino nella luce

14 G . VAUGE, Traité de l’espérance chrétienne, contre l’esprit de pusillanimité et de défiance, et contre la crainte excessive, Butard, Parigi 1765, p. 218. 15 P. DE BÉRULLE (cardinale), Œuvres, Parigi 1665, p. 523.

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e nei sentimenti di grazia, in onore della morte di Gesù e della sua vita, che era così divinamente umana. La verità e la giustizia di Dio vogliono [...] che ci comportiamo, nel mondo, come dei morti-, e infine ci ridurranno come dei morti con la loro potenza, senza curarsi della nostra volontà. La grazia che il Figlio di Dio è venuto a portare nel mondo è una gra­ zia di morte, non di vita [...], ed egli stesso ha voluto morire, lui che è vita stessa, per salvarci e non farci consumare da questa morte. In Gesù ci sono sia la morte che la vita, ma la morte è manifesta, mentre la vita è nascosta16.

Simili passaggi si ritrovano in Charles de Condren, Jean-Jacques Olier, il fondatore del seminario, o ancora in padre Surin. Nel 1686, tuttavia, l’abate Claude Fleury continua a stupirsi del fatto che la devozione abbia fama di rendere malinconici: «La devozione viene ancora accusata di rendere tristi e, addirittura, infelici, perché in effetti è possibile vedere che molte fra le persone che si dicono devo­ te sono tristi, critiche e lamentose; ma nulla di tutto ciò è più distan­ te dallo spirito del cristianesimo, che è uno spirito di dolcezza, tranquillità e gioia; e la malinconia è annoverata, dai più antichi padri spirituali, fra le setto o otto fonti di tutti i peccati, come la gola e l’impudicizia»17. Il fatto è che Fleury è rimasto fermo alla concezione medievale dell’accidia, rigorosamente condannata dai teologi. Anche il recolletto Sporer o il francescano Lucien Ferraris assimilano la tristezza malinconica alla pigrizia spirituale. In quest’epoca in cui i cristiani si trovano ad affrontare molte­ plici contraddizioni teologiche, anche i più dotti corrono il grosso rischio di cadere nella disperazione. Così parla il dottore di cui Vincenzo de’ Paoli racconta la storia al fine di trarre una lezione morale contro l’ozio: Ho conosciuto un dottore famoso che per molto tempo aveva difeso la fede cattolica contro gli eretici, in qualità di teologo [...]. Poiché la defun­ ta regina Margherita lo aveva fatto chiamare presso di sé per via della sua scienza e della sua pietà, egli fu obbligato a lasciare i suoi impieghi; e poi­

16 P. D e BÈRULLE (cardinale), Œuvres, cit., pp. 662-663. 17 C. F l e u r y , Traité du choix et de la méthode des études, Parigi 1686, p. 126; trad. it., Trattato della scelta e del metodo degli studi del signor Claudio Fleury, in Padova: nella stamperia del Seminario appresso Giovanni Manfre, 1729.

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ché non predicava né catechizzava più, si trovò assalito, nel riposo in cui versava, da una rude tentazione contro la fede. Ciò ci insegna, tra l’altro, quanto sia pericoloso restare nell’ozio, sia del corpo che dello spirito [...]. Questo dottore dunque, vedendosi in uno stato vergognoso, si rivolse a me per rivelarmi di essere agitato da tentazioni assai violente contro la fede [...] e persino da disperazione, fino al punto di volersi gettare da una fine­ stra. Si era ridotto a estremi tali che fu necessario esentarlo dal recitare il suo breviario e dal celebrare la santa messa, e persino dalla preghiera; tanto più che non appena iniziava a recitare il Pater, gli sembrava di vede­ re mille spettri che lo turbavano profondamente; e la sua immaginazione era talmente inaridita, e il suo spirito talmente sfinito a forza di rinnega­ re le tentazioni, che non riuscì più a produrne alcuna18.

Noia e spirito classico L’altra faccia del mal di vivere è la noia, insidiosa minaccia di disgregazione della personalità. Gli uomini non hanno certo atte­ so il Grand Siècle per cominciare ad annoiarsi: la noia è una delle componenti del taedium vitae come anche dell’accidia e della malin­ conia. Essa ora diventa un male psicologico a pieno titolo, avver­ tito in quanto tale sia dagli autori laici che dagli autori religiosi. Uno scrittore del Grand Siècle, La Motte-Houdar (1672-1731), dichiara che «la noia nacque un giorno dall’uniformità». Ora, cosa c’è di più uniforme della cultura classica, che applica a tutti i campi il principio di unità: fede, letteratura, governo, arte, economia, tutto è regolato in maniera autoritaria e gerarchica in funzione di questo ideale unitario. La sua forma più evoluta è la monarchia asso­ luta, la quale prevede un sovrano e regi intendenti che devono fare applicare in modo uniforme le leggi in tutto il regno; una religio­ ne, ufficiale e obbligatoria; codici che regolano le attività econo­ miche; un’etichetta puntigliosa che rende la corte un balletto mec­ canico di precisione; una lingua depurata, strutturata, grammati­ calmente statica, rigido strumento di un pensiero rigorosamente

18 L. A b e l l y , La vie du vénérable Vincent de Paul, Parigi 1664, p. 116; trad. it., Della vita di S. Vincenzo de’ Paoli fondatore e primo superiore generale della Congregazione della missione e delle Pigile della carità, Stamperia di Francesco Tizzoni, Roma 1677.

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razionale; una letteratura basata su regole severe, dall’alessandrino alle tre unità del teatro; un’arte codificata dalle Accademie che impo­ ne convenzioni uniformi e la cui realizzazione più compiuta è forse un’architettura geometrica. In questa arte classica c’è una volontà di immobilità e di eternità, una negazione dell’evoluzione e del tempo: il palazzo classico e il suo giardino sono concepiti per essere visti in un solo colpo d’occhio, insieme compiuto la cui bellezza e armonia possono essere scoperte solo se guardate da una terrazza. Linea drit­ ta, simmetria, semplicità delle forme: non c’è posto per la scoperta progressiva e per la sorpresa come nel barocco. Questo ideale deve molto al pessimismo dell’epoca. Poiché il mondo è corrotto dalle conseguenze del peccato originale, poiché l’uomo lasciato alle proprie forze non può che fare del male, la libertà di creazione può sfociare solo nel caos, nell’anarchia delle concupiscenze sfrenate. Perché la vita sociale sia possibile occorre un potere assoluto, capace di imporre regole severe in tutti i campi e di soffocare tutti i dubbi, tutte le questioni, tutte le contestazio­ ni. Nell’ambito della morale, è il grande secolo della casistica, codi­ ficazione raffinata dei problemi di coscienza; tutto è previsto e cal­ colato, non ci sono più incertezze, generatrici di disagio. Lasciare affiorare i dubbi cartesiani è solo falsa apparenza, un metodo per affermare con maggiore certezza le evidenze di questo mondo. Neanche l’aldilà presenta più misteri, poiché i teologi ne rivelano tutti i segreti. Dopo la morte tutto è regolato come in un cerimo­ niale reale o in un processo criminale; ognuno può già consultare il catalogo delle pene che lo attendono all’inferno o al purgatorio. Quanto all’etichetta del Giudizio finale, essa viene ripetutamente descritta nei sermoni. Ogni cosa e ogni uomo al proprio posto, in un’armonia statica: la perfezione risiede nell’immobilità. Inquadrato, guidato e sorve­ gliato, l’uomo non deve più porsi alcuna domanda. L’ordine clas­ sico dovrebbe rassicurarlo, ma la ripresa delle redini culturali e politiche si traduce in un’esigenza di rigidità morale e in un for­ malismo freddo che generano la noia, forma tipica del mal di vive­ re nel XVII secolo in Francia e nei paesi che la ergono a modello. Il secolo di Luigi XIV non ha fiducia nell’uomo e ripone le sue spe­ ranze nell’aldilà. Per molti versi si tratta quindi di un secolo di divieti e frustrazioni. 129

Da parte sua, sin dalla Controriforma il barocco privilegia il movimento, la messa in discussione, il tempo, la sorpresa, la spon­ taneità: può per questo essere ritenuto più ottimista? Gli oggetti inanimati, tema barocco per eccellenza, mostrano che qualsiasi forma di agitazione è vana. Il barocco è parente stretto del grotte­ sco, e il mondo grottesco è inquietante: tutto è incerto, instabile e la morte è la vincitrice ultima. Nel Grand Siede l’inquietudine barocca e la noia classica rappresentano i due versanti del mal di vivere, di cui Saint-Simon fornisce l’illustrazione mondana e Pascal l’interpretazione religiosa. Le Memorie del duca di Saint-Simon rappresentano la comme­ dia umana. Il microcosmo della corte oscilla costantemente fra l’in­ quietudine e la noia. I cortigiani, sempre all’erta per evitare il mini­ mo passo falso, vivono in uno stato di estrema tensione nervosa. Non appena si sottraggono a questa tensione, cadono in un «vuoto insopportabile», come Gaspard de Fieubet (1627-1694), consi­ gliere di Stato in pensione: «Pontchartrain mandò suo figlio a tro­ varlo. Egli, con poca discrezione, si azzardò a chiedergli cosa faces­ se. “Cosa faccio?” gli rispose Fieubet, “mi annoio; è la mia peni­ tenza, mi sono divertito troppo”. Egli non si lasciava andare su niente, e si annoiava talmente che l’itterizia lo colse e morì di noia nel giro di pochi anni»19. Il maresciallo de Noailles, dimessosi dalla sua carica di capitano della guardia, cade in depressione: «Quel vuoto gli fu insopportabile», e Saint-Simon stesso, ritiratosi tem­ poraneamente a La Ferté nel 1714, scrive al duca di Orléans: «Il limbo è insopportabile, non resisto più [...]. Le mie tenebre mi fanno infuriare [...]. Non so quanto durerà l’esilio dalla corte e il distacco dal mondo, che mi tiene distante da tutto». In un Préambule alle Notes sur les duchés-pairies, Saint-Simon descrive la noia che assilla il cortigiano ritiratosi dalla corte: «Il tempo libero che improvvisamente si sostituisce alle occupazioni continue di tutti i diversi momenti della vita forma un grande vuoto che non è facile né da sopportare né da riempire. In questa condizione, la noia irrita e l’impegno in qualsiasi attività provoca disgusto. Anche i

19 L. DE R ouvroy (duca di Saint-Simon), Mémoires, Gallimard, Parigi 1983, t. II, p. 409; trad, it., Memorie, Einaudi, Torino 1973.

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divertimenti vengono disdegnati. Questo stato non può essere dura­ turo: alla fine si cerca, seppur controvoglia, di uscirne»20. I moralisti e i predicatori classici hanno ampiamente sfruttato il tema della noia. «La noia è entrata nel mondo attraverso l’ozio», scrive La Bruyère. Massillon adatta Pascal nei suoi sermoni: Niente è più triste per la maggior parte degli uomini del trovarsi soli con se stessi e di essere costretti a guardare nel proprio cuore. Come ci tra­ volgono le passioni vane; quali attaccamenti criminali ci insudiciano; quali mille desideri illegittimi occupano tutti i movimenti del nostro cuore; ritor­ nando in noi, troviamo solo un vuoto spaventoso, rimorsi crudeli, pensieri cupi e riflessioni tristi. Cerchiamo quindi nella varietà delle occupazioni e nelle distrazioni eterne l’oblio di noi stessi. Temiamo il tempo libero come segnale di noia e crediamo di trovare nello scompiglio e nella moltepli­ cità delle incombenze esterne l’ebbrezza gioiosa che ci fa camminare senza che ce ne accorgiamo, e che ci permette di non sentire più il peso di noi stessi21.

Per Massillon la noia non è in agguato solo in seguito al ritiro dalla vita di corte: «Tutta la vita dei grandi non è che una bieca pre­ cauzione contro la noia; la loro stessa vita non è che una triste noia. Ciò nonostante la portano avanti, affrettandosi a moltiplicare i pia­ ceri: tutto è già logoro, per loro, nel momento stesso in cui varca­ no le soglie della vita, nei loro primi anni provano già i fastidi e l’in­ sipidezza che la stanchezza e il logorio del tutto sembrano attribuire alla vecchiaia»22. Pascal ha esplorato questo aspetto particolare del mal di vive­ re con la sua abituale profondità per farne un’argomentazione apo­ logetica. Questo «passionale tormentato», secondo la Caratterologia di Le Senne, che lo considera come «il corrispondente simmetrico del sentimentale Kierkegaard»23, vede nella noia il segno per eccel­ lenza della miseria umana. In un libro sulla malinconia di Kierkegaard, Harvie Ferguson ha recentemente sviluppato que­

20 Citato da D. V a n d e r CRUYSSE, La mort dans les mémoires de Saint-Simon: Clio au jardin de Thanatos, Nizet, Parigi 1981, p. 96. 21 J.-B. MASSILLON, Sermon du lundi de la Passion, Parigi 1745. 22 I d ., Petit Carême, sermon du 3eme dimanche, Renouard, Parigi 1810. 23 R. L e SENNE, Trattato di caratterologia, SEI, Torino 1960, p. 334.

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st’idea: «Pascal è davvero il primo a definire la noia come l’espe­ rienza centrale della modernità. La noia è inerente all’individuali­ smo secolare, che è il solo fondamento morale della società moder­ na [...]. Lasciato a se stesso, l’uomo produce, nel più profondo della sua anima, un’immagine di perfezione che non può raggiungere. E la persistenza di questo desiderio di felicità che rende insulso e senza vita tutto ciò che non gli è legato; è il sentimento di perdita e di desiderio di una perfezione scomparsa che ci spinge costantemente a impegnarci in attività futili»24. Sappiamo che Pascal distingue due generi di noia, uno dei quali è la noia banale, generata dall’inoperosità, quella del personaggio di Saint-Simon: «Così scorre via tutta la vita. Si cerca riposo com­ battendo certe difficoltà; e, superate che siano, il riposo diventa insopportabile, perché si pensa alle miserie presenti oppure a quel­ le che ci minacciano»25. Noi cerchiamo di tenere la mente occu­ pata proprio contro questo tipo di noia, attività che comincia molto presto, poiché gli educatori sanno bene che per rendere felici i bambini occorre tenerli occupati, fissar loro degli obiettivi da rag­ giungere. Per renderli infelici, «basterebbe liberarli da tutte quel­ le cure: allora vedrebbero se stessi, penserebbero a quel che sono, dove vanno. [...] Appena hanno un momento di respiro, si consi­ glia loro di impiegarlo a divertirsi, a giocare e ad assorbirsi sempre per intero in qualche occupazione»26. Persino «un re privo di distra­ zioni è un uomo pieno di miserie». L’esperienza della noia banale è in sé positiva, poiché ci permette di prendere coscienza della vanità della nostra condizione: «Chi non la vede, a parte i giovani che sono tutti immersi nel chiasso, nelle distrazioni e nel pensiero dell’avvenire? Ma togliete loro la distra­ zione e li vedrete inaridirsi di noia. Avvertono allora il loro nulla senza conoscerlo, poiché è proprio infelice condizione quella di ritrovarsi in una tristezza insopportabile non appena si è ridotti alla considerazione di sé senza essere distratti da nulla»27. Pertanto tutti

24 H. FERGUSON, Melancholy and the Critique of Modernity: Soren Kierkegaard’s Religious Psychology, Routledge, Londra 1995, pp. 25-26. 25 B. PASCAL, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, p. 154. 26 Ivi, pp. 156-157. 27 Ivi, p. 35.

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i mezzi sono buoni per uscire da questa noia, compresi i più futi­ li, «come un biliardo e una palla da colpire». Tutte le occupazioni umane si riducono a passare il tempo cercando di dimenticare il nulla, si tratta semplicemente di distogliere il pensiero: «Gli uomi­ ni, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per viver felici, di non pensarci»28. «Il piacere della solitudine riesce incomprensibile»29. Ma correre da un piacere all’altro non basta a scacciare la vera noia, quella nel senso pascaliano del termine. Questa noia, infatti, è il tessuto stesso della coscienza, una forma di angoscia religiosa fondamentale, l’esatto equivalente dell’inquietudine malabranchiana: «L ’uomo dunque è così sventurato, che si annoierebbe anche senza alcun motivo di noia, semplicemente per la sua confor­ mazione»30. La noia aumenta sensibilmente nei periodi di riposo: «Nulla è così insopportabile all’uomo come essere in pieno ripo­ so, senza passioni, senza faccende, senza svaghi, senza occupazio­ ne. Egli sente allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insuf­ ficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. E subi­ to sorgeranno, dal fondo della sua anima il tedio, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione»31. In queste con­ dizioni è illusorio cercare la pace e la serenità rientrando in con­ tatto con se stessi attraverso la meditazione: si troverà solo un pre­ cipizio senza fine, invece del Dio che ci si aspettava. In fondo alla noia l’inquietudine, poi l’ansia e infine la disperazione: «Nel vede­ re l’accecamento e la miseria dell’uomo, nell’osservare tutto l’uni­ verso muto e l’uomo privo di luce, abbandonato a se stesso e come smarrito in questo angolo dell’universo, ignaro di chi ve l’ha messo, di cosa vi è venuto a fare, di cosa diverrà morendo, incapace di qual­ siasi conoscenza, io cado nel terrore [...]. E mi stupisco di come con tutto ciò non si cada nella disperazione per uno stato così mise­ rabile. [...] Ugualmente incapace di intravedere il nulla donde è tratto e l’infinito dov’è inghiottito. Cosa fare dunque, se non per­

28 B. PASCAL, Pensieri, cit., p. 150. 29 Ivi, p. 152. 30 Ivi, p. 111. 31 Ivi, pp. 150-151.

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cepire qualche parvenza del mezzo nelle cose, in un’eterna dispe­ razione di conoscere sia il principio sia la fine?»32. Persi fra due infiniti, in un angolo dell’universo, senza sapere perché: ecco precisamente la condizione umana. Pascal, colto da vertigini davanti a tali prospettive, o piuttosto davanti a questo vuoto, deperisce: «L’introversione pascaliana peggiora fino ad arri­ vare a un ritiro psicotico dal mondo»33, scrive Harvie Ferguson. Caduto in uno «stato di annientamento», Pascal muore nel 1662, all’età di trentanove anni. Non si può guardare il nulla negli occhi così impunemente. Nel 1690 Eustachio Manfredi fonda a Bologna l’Accademia degli Inquieti, «nome abbastanza opportuno per i filosofi moder­ ni che, non essendo più legati ad alcuna autorità, cercano e cer­ cheranno sempre»34, scrive Fontenelle. Tale evento ha una porta­ ta simbolica e segna il passaggio dall’inquietudine religiosa all’in­ quietudine secolare, un nuovo passo verso lo spirito moderno. La crisi di coscienza europea degli anni tra il 1680 e il 1715 fa vacillare il credo nel carattere irrimediabile del peccato originale. Il dubbio si insinua, dando vita a una nuova speranza. La genera­ zione del giovane Voltaire, nato nel 1694, non crede più che la feli­ cità sia davvero impossibile sulla terra; l’uomo può rendere vivibi­ le il suo soggiorno terrestre. Il primo umanesimo, quello del XVI secolo, affondava le sue radici in una fede illuminata, ma i due ter­ mini si erano rivelati inconciliabili e l’umanesimo era stato strito­ lato dal fanatismo. Questa volta l’uomo tenterà di cavarsela da solo. Il nuovo umanesimo sarà puramente secolare, e persino anticleri­ cale, se non addirittura antireligioso e materialista. L’avventura, tuttavia, non è priva di rischi. L’autonomia è una scommessa auda­ ce su un avvenire incerto, da cui nasce questa inquietudine, nuova forma di un mal di vivere secolarizzato al fondo del quale potreb­ be trovarsi la felicità, oppure un nuovo fallimento, generatore di una malinconia più profonda ancora di quella di Burton.

32 B. P a sc a l , Vernieri, cit., p p . 157, 163. 33 H . FERGUSON, Melancholy..., cit., p. 30. 34 B. L e BOVIER DE F o n t e n e l l e , Œuvres complètes, P arigi 1 8 1 8 , 1.1 , p. 446.

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Capitolo sesto Linquietudine degli Illuministi

Il XVIII secolo ha una reputazione ingannevole. Lo spirito, l’i­ ronia, la leggerezza, l’eleganza, la ragione, le scienze, il deismo accattivante, l’ottimismo, il progresso, la critica sociale e politica: tutto questo non è falso, ma nasconde il fondo malinconico di un’e­ poca segnata dall’inquietudine, come ha mostrato l’opera classica di Jean Deprun1. Un’inquietudine inizialmente avvertita come posi­ tiva, poiché indice di uno stato di insoddisfazione che spinge all’a­ zione per colmare tale mancanza e che può quindi costituire il motore del progresso.

l i inquietudine come spinta ad agire Nel 1690, anno in cui in Italia viene fondata l’Accademia degli Inquieti, John Locke scrive che l’inquietudine è lo sprone princi­ pale, se non l’unico, che spinga l’industria e l’attività degli uomi­ ni2: «L’inquietudine che l’uomo prova a causa dell’assenza di qual­ cosa che potrebbe dargli piacere se fosse presente è ciò che viene

1J. D e p r u n , La philosophie de l’inquiétude en France au XVIIe siècle, J. Vrin, Parigi 1979. 2 J. L o c k e , Drafts for the Essay Concerning Human Understanding and other Philosophical Writings, in The Clarendon Edition of the Works o f John Locke, a cura di P.H. Nidditch e G.A.J. Rogers, e successivamente di John W. Yolton, Clarendon Press, Oxford 1990.

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chiamato desiderio, che può essere più o meno grande, a seconda che tale inquietudine sia più o meno ardente». Soffermiamoci sul termine «inquietudine». Pierre Coste, il primo traduttore francese del libro di Locke, ha spiegato nel 1700 il moti­ vo per cui lo aveva scelto: «Uneasiness è il termine inglese di cui si serve l’autore in questo contesto e che ho deciso di rendere con inquiétude [inquietudine, N.d.T.], che non esprime esattamente la stessa idea. Ma, che io sappia, non abbiamo altri termini in fran­ cese che si avvicinino a questo. Per uneasiness, l’autore intende lo stato d’animo di un uomo che non si sente a suo agio, la mancan­ za di agio e di tranquillità dell’anima, che in questo caso è pura­ mente passiva»3. L’inquietudine è quindi uno stato psicologico, una sofferenza morale che provoca un desiderio. Questa sensazione di mancanza ha perso la sua dimensione religiosa per divenire una spinta ad agire, mentre il possesso del bene ambito, la soddisfazione, gene­ rano apatia e noia. Nel XVIII secolo l’Occidentale diviene un uomo inquieto, i cui bisogni non sono mai soddisfatti. La ricerca dolo­ rosa, l’inquietudine, oppure la noia: Schopenhauer vedrà in questi elementi i pilastri della nostra infelicità. I filosofi del XVIII secolo si riversano in massa nella breccia aperta da Locke, che contrappone due forme del mal di vivere: la forma dinamica e la forma apatica. In un’opera di Spinoza, Boulainvilliers definisce l’inquietudine come una «sensazione di disagio» legata al «desiderio intimo attraverso cui ogni essere sen­ sibile è portato a perseverare nel suo essere e nella sua modalità par­ ticolare»4. L’apologetica cristiana, spiega, definiva l’inquietudine come esperienza di una mancanza, l’espressione di un desiderio assoluto, il segno di una ricerca del divino. Dal canto suo, egli con­ sidera questo desiderio un fenomeno naturale: «Siamo esseri sen­ sibili, impegnati a creare continuamente nuove idee e nuovi desi­ deri all’affacciarsi di ogni nuova percezione»5. Qualche anno più tardi Vauvenargues scriverà a Mirabeau che «prova, spesso e nitidamente, questa inquietudine che è la fonte 3 J. L o c k e , Drafts for the Essay..., cit. 4 H. DE BOULAINVILLIERS, Réfutation des erreurs de Benoît de Spinoza, B ru xelles 1731, p. 191. 5 Ivi, p. 192.

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delle passioni», e gli descriverà l’«umore cupo» che spinge gli animi forti all’azione, mentre quelli deboli si accontentano di rimugina­ re sulla loro malinconia. Nella sua Introduction à la connaissance de l’esprit humain (1746), egli va ancora più in profondità, spiegando che l’inquietudine proviene dal «sentimento di imperfezione», espe­ rienza intima di una sconfitta del nostro essere, che confessa di provare frequentemente. Condillac analizza le diverse sfaccettatu­ re dell’inquietudine nel suo Traitédes sensations (1754), dal «males­ sere o lieve insoddisfazione», fino al tormento vero e proprio. Helvétius, in Dello spirito (1758), mostra che la paura della noia è la fonte di tutte le grandi azioni umane: «L a noia gioca il ruolo più importante soprattutto nelle società, in cui le grandi passioni ven­ gono frenate sia dai costumi che dalla forma di governo; per me diventa quindi il movente universale». L’oratore Bernard Lamy, discepolo di Malebranche, aveva già riflettuto su questa idea nei suoi Trattenimenti sopra le scienze, tut­ tavia egli pensava piuttosto all’inquietudine di origine religiosa, in cui vedeva una fonte di turbamento: «Tutte le nostre inquietudini provengono dalla sensazione di essere stati creati per qualcosa di grande, senza ben comprendere cosa sia questa grandezza. [...] Allo stesso tempo, poiché sentiamo che tutto ciò che incontriamo è piccolo, non ne siamo affatto contenti, siamo disgustati da quel­ lo che abbiamo, vogliamo qualcos’altro. E questo che ci fa amare il cambiamento, ed è la causa di tutte le grandi rivoluzioni di cui leggiamo nelle storie, in cui vediamo i tratti dell’ambizione e del­ l’inquietudine degli uomini»6. Un secolo e mezzo dopo il grande conservatore Chateaubriand considererà questa inquietudine collettiva come un pericoloso fat­ tore rivoluzionario; egli infatti afferma che si tratti di «un non so cosa, nascosto non so dove, e questo non so cosa sembra essere la ragione effettiva di tutte le rivoluzioni. Tale ragione segreta è tanto più inquietante poiché non si riesce a scorgere nell’uomo della società. Ma l’uomo della società non ha forse iniziato a essere l’uo­

6 B. L a m y (padre), Trattenimenti sopra le scienze del padre Bernardo Lami prete dell’Oratorio di Francia, nei quali s’insegna il metodo di studiare le scienze, e come valersi di queste pel buon regolamento dell’intelletto, e del cuore, in Rovereto: nella stamperia di Pierantonio Berno librajo, 1734.

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mo della natura? È quindi costui che bisogna interrogare. Questo principio sconosciuto non nasce forse dalla vaga inquietudine, tipi­ ca del nostro cuore, che crea in noi il disgusto sia per la felicità che per l’infelicità e ci spinge di rivoluzione in rivoluzione fino alla fine dei secoli?»7. Per la stragrande maggioranza dei filosofi, tuttavia, si impone una scelta. «O sbadigliare, o essere euforici», dice Diderot. «La vita è solo noia, oppure panna montata», afferma Voltaire. Il filosofo di Fernay è egli stesso un inquieto che «va in bestia», come scrive alla sua amica Madame du Deffand, la quale, dal canto suo, si con­ suma nella noia: «Mi scrivete che vi annoiate, e io vi rispondo che vado su tutte le furie. Ecco i due perni della vita, l’insipidezza o il vuoto». Il fatto che l’uomo sia «nato per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine, o nel letargo della noia», è l’idea espressa in modo pittoresco nella fine di Candido ovvero dell’ottimismo: «E quando non si disputava, era così eccessiva la noia che la vecchia osò un giorno dir loro: - Io vorrei sapere qual è la peggiore cosa, o l’es­ sere offesa cento volte dai pirati negri, il passare per le bacchette fra’ Bulgari, Tesser frustato e impiccato in un auto-da-fè, Tessere notomizzato, remare in galera, provare infine tutte le miserie che noi abbiamo passato, oppure il restar qui a non far niente. - Questa è una gran questione, disse Candido». Alla vigilia della Rivoluzione, Sénac de Meilhan formula quest’idea in modo più diretto ne L’émigré: «L’uomo viene attirato in senso contrario da due propensioni oppo­ ste: l’orrore della noia e l’amore del riposo; la grande arte è riuscire a sfuggire all’uno senza offuscare troppo violentemente l’altro, tro­ vare una via di mezzo fra il letargo e la convulsione».

Dell’inquietudine viscerale La domanda ora è se questa inquietudine collettiva, che secon­ do alcuni non ha più molto a che vedere con ciò che Locke chia­ mava «lo stato di un uomo che non si sente a proprio agio», per­

7 Fr.-R. D e C h a t e a u b r ia n d , Essai historique, politique et moral sur les révo­ lutions ancienne set modernes, considérées dans leurs rapports avec la Révolution française, libro I, 1° parte, cap. LX X.

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metta di trasformare il mondo. Rifiutando l’interpretazione reli­ giosa, i filosofi tentano di comprendere questa forma del mal di vive­ re, non senza una certa confusione. UEncycolopédie la descrive come «un sintomo di malattia più comunemente designato nel lin­ guaggio ordinario dai termini ansia, angoscia, iattazione, ecc.». L’ansia rimanda invece all’inquietudine e all’angoscia, che a sua volta è «una sensazione di soffocamento, di palpitazione e di tri­ stezza». La iattazione, invece, «si ha quando i malati, essendo estre­ mamente agitati, non riescono a mantenere lo stesso atteggiamen­ to a lungo [...]; presentano una fisionomia triste che li porta spes­ so a sospirare e gemere; [...essa] è pressappoco uguale all’ansia, all’inquietudine». Il dottor Louis de Lacaze cerca di chiarire le cose nel suo Tempie du bonheur, dove fornisce una curiosa spiegazione. Quando l’uo­ mo prova paura, il suo cervello si concentra sulle precauzioni da prendere e allenta il controllo sugli organi. Il diaframma, che in con­ dizioni normali comprime la massa intestinale, ne causa invece la dilatazione, provocando un effetto sgradevole: è così che «si forma e [...] si accresce la sensibilità, la delicatezza del centro diafram­ matico, e di conseguenza lo stato di agitazione, di tristezza, di timo­ re o diffidenza che si può spesso osservare nelle persone domina­ te dalla paura»8. Questo stato genera quindi una «sensazione abi­ tuale di inquietudine». Ci troviamo in un circolo vizioso: la paura produce agitazione, che a sua volta genera nuove paure, ecc. Da qui nasce l’espressione di «stampo delle paure» utilizzata da Lacaze: «Tale disposizione può essere vista come una specie di stampo delle paure che, a seconda dell’aggravamento della condizione fisica, ne produce continuamente di nuove, senza che esistano reali motiva­ zioni»9. I rimedi che propone Lacaze riguardano l’igiene di vita e ricordano i consigli di Burton: fare esercizio fisico, evitare la medi­ tazione eccessiva, avere ambizioni limitate. L’inquietudine, che in Pascal era un segno di vuoto spirituale e un desiderio di Dio, diventa quindi volgare paura con Lacaze. Questa perdita di dignità sarà confermata alla fine del secolo da Bichat, il quale sostiene, nelle sue Recherches physiologiques, che

8 L. DE L a c a z e , Le temple du bonheur, Bouillon, 1769, 1.1, p. 278. 9 Ivi, p. 280.

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«tutto ciò che attiene alle passioni appartiene alla vita organica», in particolare alle viscere10, e poco dopo da Pinel, il quale vede nel­ l’inquietudine, insieme alla tristezza e al dispiacere, uno dei sinto­ mi delle crisi maniacali11. Le persone che risultano essere maggiormente a rischio sono gli adolescenti, poiché turbati dalla pubertà e dalla costante ricerca di un oggetto di cui ignorano la natura. Tale oggetto, nella fattispe­ cie, è Dio, spiegano gli apologeti, che vedono in questa ricerca un segno, quasi una prova dell’esistenza dell’Essere assoluto. Tale oggetto è l’unione sessuale e non l’unione mistica, ribattono inve­ ce i filosofi più audaci. Scrive Diderot che arriva un momento «in cui quasi tutti i ragazzi e ragazze cadono nella malinconia; sono tor­ mentati da un’inquietudine sottile che coinvolge tutto e che non trova nulla che la plachi. Essi cercano la solitudine; piangono, il silenzio dei conventi li tocca; l’immagine della pace che sembra regnare nelle case religiose li seduce. Confondono i primi sintomi di un temperamento che si sta sviluppando con la voce di Dio che li chiama a sé, ed è proprio quando la natura li sollecita che essi abbrac­ ciano un genere di vita contrario al desiderio della natura»12. Ecco che l’inquietudine scende ancora di un livello, ci troviamo ora all’al­ tezza del basso ventre. Per Diderot, ma anche per Rousseau o per il cardinale de Bernis, il quale analizza la propria esperienza di voca­ zione religiosa, il cristianesimo ha snaturato, nel senso etimologico del termine, il subbuglio della pubertà, attribuendo a un richiamo divino ciò che è un semplice richiamo sessuale, e sfruttando questa sublimazione per reclutare il proprio clero. Le donne, a causa della loro complessione, sono ancora più sog­ gette a questo genere di inquietudine, afferma Pierre Roussel nel suo Sistema fisico e morale della donna-, «Un’altra qualità fisica con­ corre a rendere più mobili le parti sensibili della donna: è il loro

10 X . BlCHAT, Recherches physiologiques sur la vie et la mort, Parigi 1800; trad. it., Ricerche fisiologiche intorno alla vita ed alla morte, Co’ Tipi dell’ed. Giuseppe Antonelli, Venezia 1841. 11 Ph. PlNEL, Nosographie philosophique, Parigi, anno VI; trad. it., Nosografia filosofica o il Metodo dell’analisi applicato alla medicina, Napoli 1823. 12 D. DIDEROT, Jacques il fatalista e il suo padrone, Mondadori, Milano 1965.

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tipico grado di flaccidità»13. Ancora più del ragazzo, la giovane donna prova, durante la pubertà, delle «dolci inquietudini»: «Que­ sto nuovo stato causa nella giovane donna una sovrabbondanza di vita che cerca di espandersi e di comunicare. Ella avverte tale biso­ gno attraverso dolci inquietudini e slanci che sono la voce tiranni­ ca e dolce della voluttà»14. Le donne, scrive Diderot, «in età adul­ ta sono ridotte al silenzio, soggette a un malessere che le prepara a diventare mogli e madri: tristi, inquiete, malinconiche, al fianco di genitori allarmati non solo per la salute della loro figlia, ma anche per il suo carattere: poiché è in questo istante critico che una gio­ vane donna diventa ciò che resterà per tutta la vita»15. In Rousseau, l’inquietudine femminile diventa il tema delle dispute religiose. Precedendo Marx, egli attribuisce a M. de Wolmar la formula secondo la quale la religione è «l’oppio delle donne»16. L’inquietudine coinvolge anche le persone anziane. Passata una certa età, scrive Feucher d’Artaize, discepolo di Rousseau, «per quanto l’uomo si guardi intorno e cerchi affannosamente consola­ zione, nulla lo rassicura, tutto lo spaventa e lo dilania»17. I sintomi di tale inquietudine assomigliano molto alla descrizione che Burton faceva della malinconia, il termine stesso viene peral­ tro ancora utilizzato. Coloro che ne soffrono sono «tristi, sognato­ ri, inquieti, costanti nello studio e nella meditazione, capaci di sop­ portare il freddo e la fame; hanno il viso austero, il colorito scuro, bruno, il viso costipato», secondo YEncyclopédie; sono «ingegnosi, costanti, ostinati, pensierosi, inquieti, timorosi, taciturni, tristi, lenti ad agire»18 secondo Quesnay; sono «tristi, sognatori, agitati e timo­

13 P. ROUSSEL, Système physique et moral de la femme, Parigi, 5° ed. 1809, p. 15 [1775]; trad. it., Sistema fisico e morale della donna: con un frammento del Sistema fisico e morale dell’uomo, e un Saggio intorno alla sensibilità, Borroni e Scotti, Milano 1853. 14 Ìbidem. 15 D . D id e r o t , Sur les femmes, in Œuvres, Gallimard, Parigi 1946, p. 954. 16 J.-J. ROUSSEAU, Giulia o la Nuova Eloisa: lettere di due amanti, di una citta­ dina ai piedi delle Alpi, Rizzoli, Milano 1964. 17 FEUCHER d ’A r t a iz e , Réflexions d’un jeune homme, Londra, Parigi 1786, t. I, p. 169. 18 F r . QUESNAY, Essai physique sur l’économie animale, chez Guillaume Cavelier, Parigi 1747, p. 255.

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rosi»19 secondo Antoine Le Camus, che è anche il primo a osser­ vare che la malinconia non è necessariamente un handicap e che anzi favorisce persino una visione realistica delle cose: «Questa timidezza e questo dolore non sono poi quei grandi mali che ci si immagina. Perché l’anima, poco distratta dagli oggetti che la cir­ condano, si occupa solo delle fantasticherie utili e valuta tutto secondo il giusto valore»20. Nel 1770, Jean-François Dufour insi­ ste sempre sulla paura e la tristezza che si impadroniscono degli animi inquieti: «Ecco perché i malinconici amano la solitudine e rifuggono la compagnia, ciò li rende più attaccati all’oggetto del loro delirio o alla loro passione dominante, qualunque essa sia, mentre appaiono indifferenti rispetto al resto»21.

Cause e rimedi Le descrizioni non cambiano, ma in compenso le spiegazioni si evolvono. In questo secolo della ragione vedono la luce teorie dotte, e il loro numero lascia pensare che il mal di vivere si celi anche nei personaggi infiocchettati e imparruccati dell’epoca. Inoltre, tutte vengono elaborate da medici, e anche questo rientra nello spirito deH’Illuminismo. La chiave del comportamento umano si trova nel funzionamento della macchina fisiologica e delle relazioni sociali. Filosofi e teologi dipendono ora dalle scoperte mediche. La scien­ za progredisce, certo, ma attraverso una moltitudine di tentativi che aprono numerose piste false. Alla fine del XVII secolo, il medico Thomas Willis apre la strada alla teoria maniaco-depressiva, mostrando che la malinconia può dege­ nerare in furore e provocare crisi suicide. La causa sarebbe un movi­ mento disordinato degli spiriti animali, che va a colpire il corretto svol­ gimento delle funzioni del cervello facendolo fissare su un solo ogget­ to e portando quindi la persona a una forma di delirio22. All’inizio

19 A. L e C amus, Médecine de l’esprit, Parigi 1753,1.1, p. 299. 20 Ivi, 1.1, p. 300. 21 J.-F. D ufour , Essai sur les opérations de l’entendement et sur les maladies qui le dérangent, Amsterdam, Parigi 1770, p. 357. 22 T. WlLLIS, Opera omnia, Lione 1681, t. II, p. 238.

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del XVIII secolo l’olandese Hermann Boerhaave riprende l’idea che la malinconia sia «un delirio lungo, persistente e senza febbre, durante il quale il malato è continuamente pervaso dal medesimo pensiero»23. Secondo la sua teoria, detta «iatromeccanica», il corpo è una macchina diretta dal cervello, che invia agli organi un liqui­ do nervoso trasportato dal sangue. Se il sangue è troppo grasso, o se il liquido nervoso non è sufficientemente abbondante, la mac­ china non funziona correttamente e provoca malinconia. Boerhaave stabilisce quindi un legame fra malinconia e circolazione del san­ gue e sostiene che gli intellettuali siano particolarmente soggetti alla malinconia, poiché la riflessione intensa mobilita una grande quan­ tità di liquido nervoso e la mancanza di esercizio fisico disturba l’e­ quilibrio dei componenti del sangue. Il Dizionario universale di medicina di James, i cui sei volumi sono stati tradotti in francese tra il 1746 e il 1748, riprende una spiegazione simile: se il sangue e gli umori circolano in maniera irregolare, il cervello, sede di tutte le funzioni immaginative e intellettuali, viene intaccato nella sua regolarità. Ritroviamo la stessa teoria nel De melancholia et morbis melancholicis di Anne-Charles Lorry, pubblicato nel 1765, secon­ do il quale questo stato può provocare suicidi passivi per «sempli­ ce inerzia e tetro stupore». Anche Quesnay afferma che la malinconia sia la conseguenza di una scarsa circolazione del sangue attribuibile al cattivo stato dei vasi. Antoine Le Camus sostiene che provenga sia dal sangue catti­ vo che dal pessimo stato dei vasi: «I vasi stretti e rigidi, il sangue spes­ so e vischioso, da cui gli umori si separano con difficoltà»24. È per tale ragione che i malinconici sono caratterizzati da «un colorito scuro e giallo, dai capelli neri, la pelle ruvida e l’estrema magrezza». Nella sua Storia naturale, Buffon tira in ballo i «vapori». Parlando deli’Homo duplex, egli mostra come il suo umore venga guidato da due princìpi contraddittori: «Il primo è una luce pura accompagnata da calma e serenità, una fonte salutare da cui ema­ nano scienza, ragione e saggezza; l’altro è un falso chiarore che brilla solo con la tempesta e nell’oscurità, un torrente impetuoso

23 H . BOERHAAVE, Aphorismes de Monsieur Hermaan Boerhaave sur la con­ naissance et la cure des maladies, Parigi 1745, n. 1089. 24 A. L e CAMUS, Médecine..., cit., t. I, p. 299.

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che imperversa, trascinando con sé le passioni e gli errori». Quando è il secondo principio a dominare, vengono prodotti i cosiddetti «vapori». Mentre quando i due princìpi si affrontano con uguale potenza, l’individuo è colto dalla tentazione del suicidio: «Questo è il punto della noia più profonda, del disgusto di se stessi che non ci lascia altro desiderio se non quello di cessare di essere e che ci permette quel tanto di azione che basta per distruggerci, ritorcen­ do implacabilmente contro noi stessi le armi del furore». L’uomo diviene allora «il più infelice di tutti gli esseri», la sua volontà viene annientata ed è irresistibilmente spinto al suicidio. Ancora nel 1785 il dottor Andry, nelle sue Recberches sur la mélancolie, distingue tre tipi di stati malinconici, fra cui due conducono alla morte volon­ taria: il delirio maniacale e l’ipocondria acuta. L’ipocondria sarebbe responsabile delle tendenze suicide. Essa viene spesso chiamata in causa da Richard Blackmore che, nel suo Treatise of Spleen and Vapours, or Hypocondriacal and Hysterical Affections (1752) l’ha definita, al pari dell’isteria, una «costituzio­ ne morbifica degli spiriti». Nel 1755, il tedesco Alberti stabilisce il legame fra l’ipocondria e il desiderio di morte in De morbis imaginariis hypocondriacorum. Nel 1767, nel suo celebre Observations on thè Nature, Causes and Cure ofthose Diseases which bave been commonly called Nervous, Hypochondriac, or Hysterical (1767), Robert Whytt propone una classificazione dei disordini comportamentali e considera «lo scoramento, l’abbattimento, la malinconia o persi­ no la follia»25 sintomi dell’ipocondria. Per lottare contro queste malattie nervose esistono delle cure. Contro «la debolezza, lo scoramento e l’abbattimento», Whytt con­ siglia in particolare la china; il tartaro ha invece proprietà detergenti per sbloccare le vie circolatorie: «Per quanto ho avuto occasione di notare, il tartaro solubile è più utile nelle affezioni maniacali o malinconiche che dipendono dagli umori nocivi». Joseph Raulin, autore di un trattato sulle «affezioni vaporose», consiglia invece diversi ingredienti dai poteri, teoricamente, dissolventi, come la fuliggine dei camini, i decotti di onisco, la polvere delle zampe di

25 R. W h y t t , Traité des maladies nerveuses, hypocondriaques et hystériques, Parigi 1777, t. II, p. 132.

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gambero e il «bezoar gioviale»26. Altri medici vantano le virtù dei bagni doccia27. Per dissipare le idee fisse molti consigliano anche i soggiorni in campagna e la musica. Quanto agli spettacoli e ai romanzi, la loro efficacia è controversa, ma la maggior parte delle volte viene giudicata nefasta. Il teatro esalta l’immaginazione in modo sregolato, soprattutto nelle donne, che si infiammano facil­ mente per passioni immaginarie. Anche l’eccesso di lavoro intel­ lettuale, che indurisce il cervello, può avere effetti nefasti. Nel 1778 Tissot ammonisce i suoi colleghi sui pericoli che corrono nell’ope­ ra Avis aux gens de lettres sur leur santé. A queste diverse cause fisiologiche occorre ricollegare la spie­ gazione basata sul clima. L’inglese George Cheyne mostra come il clima oceanico, fresco, umido e instabile contribuisca alla penetrazione di goccioline d’acqua nelle fibre del corpo umano, cau­ sandone la perdita di stabilità e predisponendole alla follia suici­ da. La presupposta influenza della luna deve essere classificata tra lo stesso tipo di cause. Il tema del lunatismo, spesso evocato nei secoli XVI e XVII, più raro nel XVIII, riappare infatti negli anni ’80 del 1700 sotto una forma diversa legata alla meteorologia: i trattati di Toaldo (1784) e di Daquin (1792)28 presentano l’influenza della luna sull’atmosfera come una causa di deregolamentazione del cervello in alcuni soggetti predisposti. A livello generico tutti gli eccessi, che si tratti di attività men­ tali o fisiche, sono considerati fenomeni di disturbo per il cervello e in grado di generare malinconia e mania suicida. EEncyclopédie, al lemma «Mania», fornisce numerosi esempi: «Le passioni dell’a­

26 J. R a u l in , Traité des affections vaporeuses du sexe: avec l’exposition de leurs symptômes: de leurs différentes causes: et de la méthode de les guérir, Parigi 1758, p. 340. 27 F. DOUBLET e J. C o l o m b ie r , Instructions sur la manière de gouverner et de traiter les insensés, «Journal de médecine», agosto 1785. 28 G.G . C h e y n e , The English Malady, or a Treatise o f Nervous Diseases o f all Kinds, as Spleen, Vapours, Lowness o f Spirits, Hypocondriacal and Hysterical Distempers, etc., Londra 1733; J.V . TOALDO, Della vera influenza degli astri sulle stagioni e mutazioni di tempo, saggio meteorologico di Giuseppe Toaldo-, in Padova: nel Seminario appresso Tommaso Bettinelli, 1797. Su tutte queste interpretazioni, si veda J. S e n a , The English Malady: the Idea o f Melancholy from 1700 to 1760, Princeton University Press, Princeton 1967.

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nima, la concentrazione mentale, gli studi forzati, le meditazioni profonde, la collera, la tristezza, la paura, i dolori protratti e cocen­ ti, l’amore disdegnato».

La malinconia, dal disprezzo alla rinascita Sempre presente come una patologia, la malinconia ha perso il prestigio del quale aveva goduto alla fine del XVI secolo; essa è temuta persino perché considerata più o meno come una forma di follia dolce, che può condurre al suicidio. In Inghilterra gli ambien­ ti conservatori la attribuiscono al distacco dai valori religiosi, ai misfatti della vita moderna, al declino della morale. Molti vi vedo­ no un segno di depravazione, come il dottor Samuel Johnson, che ha conosciuto e superato in prima persona la malinconia. Sempre pronto a dare lezioni, egli è convinto che l’eccesso di comodità indebolisca la resistenza. «In Scozia, narra, dove la gente in gene­ rale non vive né nell’opulenza né nel lusso, so che la follia è molto rara». Il reazionario Edmund Burke è categorico: «La malinconia, la depressione, la disperazione e spesso il suicidio sono le conse­ guenze dalla tetra visione delle cose prodotte dal nostro stato di rilassamento. Il rimedio migliore a tutti questi mali è l’esercizio fisico o il lavoro». John Brown osserva: «La nostra vita effeminata e rilassata, unita al nostro clima insulare, ha provocato un aumen­ to della depressione e dei disturbi nervosi»29. George Cheyne, come abbiamo appena visto, pensa che il clima britannico abbia un’influenza nefasta, spiegazione peraltro alla moda nella prima metà del secolo, a cui si allineano Montesquieu e persino un autentico dotto, César de Saussure: nel 1727, disgu­ stato dal clima londinese, egli scrive che, se fosse stato inglese, si sarebbe suicidato da parecchio tempo. Cheyne aggiunge tuttavia anche altre ragioni per spiegare la malinconia ai suoi compatrioti: il riscaldamento a carbone, il consumo di carne di manzo poco cotta, il disordine morale, l’ateismo. Su quest’ultimo punto, tutti i detrattori deH’Illuminismo concordano: i popoli sono demoraliz­

29 Passaggi citati in A. SOLOMON, Il demone di mezzogiorno: depressione: la sto­ ria, la scienza, le cure, Mondadori, Milano 2002.

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zati dal progresso dello spirito filosofico. Sin dal 1699 la principessa Palatina scriveva: «La fede si è spenta in questo paese, al punto tale che non si trova più un solo giovane che non voglia essere ateo [...]; si sostiene persino che l’elevato numero di suicidi che stiamo cono­ scendo dipenda dall’ateismo [...]. Solo lunedì scorso, un avvoca­ to di Parigi si è suicidato nel proprio letto con un colpo di pisto­ la»30. Qualche anno più tardi padre Lamy osserva: l’aumento dei suicidi «è un effetto dell’epicureismo»31. E chiaro che le forze religiose e conservatrici diffidino della malinconia profonda, ma anche i sostenitori dell’Illuminismo la considerano come una forma di malattia mentale. Coloro che sof­ frono di gravi disordini mentali sono spesso rinchiusi e sottoposti a cure spaventose. Gli altri sono vittime del sospetto circostante. Certo, gli Illuministi preferiscono l’inquietudine alla malinco­ nia. Ciò nonostante, un filosofo tedesco, probabilmente il più gran­ de del secolo, già nel 1766 intona il più bell’inno alla malinconia che sia mai stato scritto, annunciando il male del secolo romanti­ co. Incarnazione della ragione, Immanuel Kant ne ha visto chiara­ mente i limiti, li ha analizzati e criticati, ed è sicuramente il più indi­ cato per acclamare la nuova stella. Solo il malinconico può rag­ giungere la vetta dell’estetica e della morale. Egli tende al sublime, anche se triste e stanco della vita, poiché la sua coscienza acuta del bene e del male gli conferisce gli strumenti adatti per misurare l’o­ diosa piccolezza della condizione umana: La persona il cui sentire tende al malinconico non viene così definita per­ ché, priva delle gioie della vita, si strugge in una oscura malinconia, ma perché le sue sensazioni, quando si dilatano oltre una certa misura, o imboccano una direzione errata, approdano a questa tristezza dell’anima più facilmente che ad altre condizioni di spirito. Il melanconico ha domi­ nante il sentimento del sublime. Persino la bellezza, alla quale egli è altret­ tanto sensibile, non tende soltanto ad affascinarlo ma, ispirandogli ammi­ razione, a commuoverlo. Il godimento del piacere è in lui più composto, non per questo meno intenso; ma ogni commozione suscitata dal sublime

30 Lettres de Madame duchesse d’Orléans née princesse palatine, a cura di O. Amiel, Mercure de France, Parigi 1981, p. 175. 31 B . L a m y (p ad re), Démonstrations ou preuves évidentes de la vérité de la reli­ gion, P arigi 1705, p. 150.

ha per lui maggiore attrattiva di tutti gli affascinanti allettamenti del bello. [...] E perseverante, e per questo subordina le sue sensazioni ai princìpi. [...] L’uomo di temperamento melanconico si cura poco di ciò che gli altri pensano o ritengono buono o vero, egli si basa soltanto sul suo criterio di giudizio; dal momento che i moventi delle sue azioni prendono in lui la natura di princìpi, non è facile fargli cambiare il suo modo di pensare; la sua fermezza si tramuta talvolta anche in ostinazione [...]. L’amicizia è sublime e perciò si addice al suo modo di sentire; può forse perdere un amico incostante, ma questi non perderà lui con altrettanta rapidità. Persino il ricordo di un’amicizia ormai spenta è per lui ancor degno di con­ siderazione. [...] Egli è un buon custode dei segreti propri e altrui. La vera­ cità è sublime ed egli odia le menzogne e la dissimulazione della natura umana [...]. Non prova indulgenza per alcun basso servilismo e la libertà spira nel suo nobile petto. Tutte le catene, da quelle dorate che si porta­ no a corte sino al pesante ferro dei galeotti, sono per lui odiose. E un seve­ ro giudice di se stesso e degli altri e non di rado avverte tedio di sé e del mondo32.

Questo testo introduce il trionfo della malinconia romantica che i pittori iniziano a personificare nei tratti di una donna languida e meditabonda, come nei quadri di François Lagrenée o nei ritrat­ ti aristocratici di Reynolds.

Il dolore di esistere Il secolo dei Lumi ha trascurato la malinconia a vantaggio del­ l’inquietudine, tuttavia anche quest’ultima è una forma di mal di vivere. Una delle grandi ossessioni di questo secolo è stata la ricer­ ca della felicità, che si rivelerà ben presto una chimera capace di ridurre alla disperazione i suoi adoratori. Alle radici della sua con­ quista e del suo raggiungimento vi è la forte convinzione che la vita sia anzitutto sofferenza. Quest’idea, che era verità teologica nel Grand Siècle, viene secolarizzata dagli Illuminsti, che in qualche modo la interiorizzano. Per la maggior parte degli intellettuali, di qualunque sensibilità, il mal di vivere costituisce il tessuto stesso dell’esistenza, sotto qualsiasi forma esso si manifesti: «Esistiamo di 32 I. K a n t , Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Fabbri, Milano 1996, pp. 95-97.

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un’esistenza povera, contenziosa, inquieta», scrive Diderot. La noia, questo «vuoto tremendo», è sempre in agguato sia per gli scritto­ ri che per i personaggi dei romanzi; la malinconia ne attanaglia molti, mentre i suoi «vapori» colpiscono in particolare le donne33. L’inquietudine non risparmia nessuno e non si esprime unicamen­ te nei romanzi, dove gli eroi si forgiano un destino di sventura che trasfigura le loro prove e dona loro la forza di amare: «Quale fonte inesauribile di sensibilità è la sofferenza!», leggiamo nelle Réflexions d’un jeune homme (1786). Le memorie e le cronache del bel mondo e degli ambienti equivoci traboccano di storie patetiche di perso­ naggi che si consumano nella malinconia in seguito a una disgra­ zia o a una malattia: M. de Pomereu, tubercolotico a venticinque anni, si rinchiude con «un’ossifraga34 viva che era sempre posata sulla sua scrivania; questo animale silenzioso e triste gli piaceva»; M. d’Argenson muore nel 1721 «della malattia del ministro cadu­ to in disgrazia, una specie di spleen da cui quasi tutti vengono colti e di cui la maggior parte perisce»35; la marchesa di Prie si spegne a ventinove anni, nel 1727, «dopo essersi trascinata per quindici mesi nel suo esilio»; Rousseau portava in giro la sua tristezza a Charmettes e, nel 1770, confessa: «Se quaggiù mi venisse chiesto di scegliere ciò che voglio essere, risponderei: morto». Questo secolo, considerato leggero, è invece ossessionato dalla morte e dal suo fornitore principale, il tempo. Robert Favre ha dedicato a questo tema un magnifico studio su come quest’epoca di piaceri sia stata in realtà un’epoca di paure36. Si potrebbero cita­

33 J. R a u l in , Traité des affections..., c i t ; P. POMME, Traité des affections vapo­ reuses des deux sexes: contenant une nouvelle méthode de traiter ces maladies fondée sur des observations, 1760; traci, it., Saggio sopra le affezioni vaporose de’ due sessi: contenente un nuovo metodo di trattar queste malattie fondato sopra delle osserva­ zioni: in Napoli, presso G. Raimondi, 1765. 34 Uccello che si nutre di carogne e animali marini e d ’estate diventa predato­ re di pinguini e altri uccelli antartici [N.d.T.]. 35 Mémoires secrets pour servir à l’histoire de la République des Lettres en France depuis 1762 jusqu’à nos jours. Memorie dette di Bachaumont, dal nome di Louis Petit de Bachaumont (1690-1771), la cui raccolta di curiosi aneddoti dal 1762 al 1771 è stata continuata da Pidansat de Mairobert, morto suicida, e in seguito da Moufle d’Angerville fino al 1787, t. IV, p. 37. 36 R. FAVRE, La mort au siècle des Lumières: dans la littérature et la pensée françaises, Presses Universitaires de Lyon, Lione 1978.

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re centinaia di esempi che denotano la sensazione di soffocamen­ to, come questo verso di d’Alembert: Un instant ici-bas nous venons pour souffrir, Jeter autour de nous un regard et mourir37.

Nella seconda metà del secolo il fascino per le rovine, le tombe, i monasteri e la solitudine conferisce uno stile crepuscolare a questa cultura, evocata da Loaisel de Tréogate nelle sue Soirées de mélancolie (1777), in cui l’eroe esclama: «Non posso più respirare sotto un cielo di piombo». Il fascino per i mostri, i cimiteri e il macabro in generale traduce un disagio descritto da Dorat nel suo Le malheureux imaginaire (1777): «E sufficiente gettare uno sguardo attento sul quadro della società per vedervi regnare questo tormento, questa agitazione, questo delirio inquieto di una fantasia malata che produce fantasmi, che non crede a nessuno dei beni di cui gode, che realizza tutti i mali che prevede, si agita dolorosamente in mezzo alle delizie e si avvelena alle stesse fonti da cui dovrebbe provenire l’antido­ to»38. Il principe di Ligne, apparentemente felice, sostiene di tra­ scorrere notti di tormento e agitazione, con sogni pieni di «lamen­ ti», di «urla», di «furore». Scrive Robert Mauzi: «Queste diverse forme di disagio dell’anima denotano una crisi profonda. L’esistenza e la coscienza si dissociano. L’esistenza pura viene messa a nudo e affiora prepotentemente. Essa diviene cupa, anarchica; la coscienza non riesce più a occuparsene, a stabilizzarla»39. Il tempo scorre, a scapito di Chénier, Ducis, Léonard, Diderot, Mme de Lambert e tanti altri, come Sébastien Mercier che, per que­ sto motivo, ha orrore degli orologi: «Su tutti i camini ci sono pen­ doli a sproposito, è una moda lugubre. Non c’è niente di più tri­ ste da contemplare che un pendolo: ci si vede scorrere dentro la propria vita»40. Alcuni precipitano nella nevrosi, come il figlio del Reggente, il duca d’Orléans, che arriva a negare la nascita e la morte, sospeso in una durata atemporale: «La sua mania non si limi­

37 Veniamo quaggiù un solo istante per soffrire / dare un’occhiata attorno e morire. 38 J. D o r â t , Le malheureux imaginaire, cit., Prefazione. 39 R. M a u z i , Uidee du bonheur au XVIIIe siècle, Albin Michel, Parigi 1994. 40 L.-S. M e r c ie r , Tableau de Paris, Amsterdam 1782, XII, 279.

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tava a credere che non si morisse, ma si estendeva persino alle nascite, cui non dava maggior credito»41. Egli rifiuta di accettare la morte della sua amante così come la nascita dei suoi bambini. Molti rimpiangono di essere nati, persino il vescovo Le Frane de Pompignan, fortemente contrario alle idee dei filosofi. Di segui­ to un esempio delle sue invettive: Que l’homme est malheureux! Que sa vie est cruelle! Il naît comme la fleur, il est foulé comme elle; Ses maux sont mille fois plus nombreux que ses jours [...] Dieu qui m’as condamné, pourquoi m’as-tu fait naître, Si je dois à jamais souffrir?42.

Il culto dell’infelicità si esprime in abbondanza nei romanzi, dove le decine di eroi deplorano il giorno della loro nascita. Ci si può chiedere, a questo punto, se si tratti di letteratura o posa. Si potrebbe pensare a un fenomeno di moda, a giudicare dall’eleva­ to numero di casi. E pur vero però che la moda cela sempre un piz­ zico di autenticità, tanto più che si aggiunge a altri segnali tipici, come ad esempio il rifiuto di mettere al mondo nuove vittime. Nella sua opera Loisirs philosophiques (1756), Jean Blondel narra che «quando gli venne proposto di sposarsi, il maresciallo de Gassion rispose che non aveva abbastanza stima della vita per con­ dividerla con qualcuno»43. Dorval, ne II figlio naturale di Diderot, rifiuta di diventare padre poiché ciò significherebbe gettare un essere umano «in un caos di pregiudizi, di stravaganze, di vizi e di miserie». Queste amare osservazioni non sono appannaggio dei soli intellettuali: stando al marchese di Argenson, i giovani conta­ dini della Turenna pensano «che non valga la pena di far nascere degli infelici come loro».

41 P.-V. DE BÉSENVAL, Mémoires, in Bibliothèque des mémoires relatifs à l’histoire de France pendant le XVIIIe siècle, Parigi 1857, t. IV, p. 40. 42 L e FRANC DE P o m p ig n a n , Hymne Vili, «Quanto è infelice l’uomo, quanto è crudele la sua vita! / Nasce come il fiore e come lui viene calpestato; / 1 suoi mali sono mille volte più numerosi dei suoi giorni [...] / Dio che mi hai condannato, perché mi hai fatto nascere, / Se devo soffrire per sempre?» [traduzione nostra]. 43 J. BLONDEL, Loisirs philosophiques, Parigi 1756, p. 84.

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Dio non c’è più, о quanto meno si è allontanato. I filosofi si tro­ vano ad affrontare un vuoto angosciante e a chiedersi quale sia il senso della vita, da dove provenga tutta questa infelicità umana. L’accumularsi delle catastrofi accresce lo sgomento, dimostrando che la natura non è decisamente migliore del Dio vendicatore. Sostenitori e detrattori delTUluminismo discutono sul significato da attribuire alle catastrofi naturali, della cui ampiezza e frequenza si prende coscien­ za forse per la prima volta. L’avvocato giansenista Le Paige (1712-1802) colleziona le relazioni sui cataclismi inviate dai mercanti e diplomati­ ci di tutta Europa. La cronaca pullula: maremoto nella valle del Gange nel 1737; distruzione di Lima e del porto di Callao a causa di un ter­ remoto nel 1746; sisma in Francia nel 1750; passaggio di meteore nel 1754; terremoto di Lisbona nel 1755 (che causa centomila morti e le cui ripercussioni si estendono fino al Marocco, con ottomila vittime a Meknès e tremila a Fès); inondazione del Danubio nel 1756; incen­ dio a La Fère-Champenoise nel 1776; terremoto in Sicilia nel 1783. Grazie al progresso della stampa e all’accelerazione delle comunica­ zioni, i contemporanei hanno l’impressione che le disgrazie si molti­ plichino; ciò porta La Paige ad aprire la sua raccolta con un inquie­ tante discorso sui «segni e i flagelli della giustizia di Dio». Persino le menti più razionali si mostrano colpite. Nel 1755 spade fiammeg­ gianti solcano i cieli di Germania, Svizzera e Francia; un mercante fran­ cese scrive allora al suo corrispondente di Lisbona: «In Germania sono tutti costernati e contriti, camminano tremebondi e temono che la col­ lera del Signore esploda, come è successo in Spagna, in Portogallo e in altri paesi. Pregate dunque senza posa, digiunate affinché rispar­ mi la nazione francese»44. Lo «spettacolo della natura» non potrebbe essere più diver­ tente. Invece di vedervi le meravigliose realizzazioni della Prov­ videnza, Nicolas Gilbert teme le foreste, «lugubri asili», con i loro «alberi tristi e votati alla morte». Alla fine del secolo, Senancour decanta nelle sue Rêveries i paesaggi selvaggi delle Alpi, ma solo per dire che l’autunno è l’immagine della nostra triste condizione, di «questa terribile necessità che crea per poi distruggere».

44 Citato da B. P longeron , Théologie et politique au siècle des Lumières, 17701820, Droz, Parigi 1973, p. 26.

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Il pessimismo dell’Illuminismo L’austero Maupertuis, inventore dell’espressione «mal di vive­ re», osserva che «nella vita ordinaria, la somma dei mali supera quel­ la dei beni». «Tutti i divertimenti degli uomini dimostrano l’infeli­ cità della loro condizione: qualcuno gioca a scacchi, altri vanno a caccia, ma è solo per evitare le percezioni più dolorose». Riscon­ triamo lo stesso pessimismo presso l’autore anonimo dei Dialogues des animaux ou le Bonheur (1762), che arriva ad affermare che gli animali sono più felici degli uomini. Le Réflexions d’un jeune homme (1786) accolgono lo sfogo emotivo di Feucher al pensiero di tutti i mali che affliggono la vita umana: «Invano l’orgoglio sussurra di essere il sigillo della mia grandezza, il principio della mia forza, la causa della mia regalità! Cosa mi importa del vano trono della natu­ ra se sono infelice! E la felicità che voglio, e se il bruto vive meno sofferenze, allora voglio essere al suo posto!»45. Meglio essere un animale in effetti: più siamo sensibili e intel­ ligenti, più soffriamo, osserva il principe di Ligne. L’uomo sempli­ ce soffre perché tale è la natura umana; ma l’uomo che pensa sof­ fre doppiamente poiché uomo e, in quanto tale, consapevole del­ l’umanità sofferente. Nessuna creatura ragionevole può dirsi feli­ ce, sostiene Nougaret, che esprime lo sconforto di colui che è appe­ na sfuggito alla morte: Eccomi gettato nuovamente su questo miserabile globo! Dovrò continuare a percorrere la penosa strada della vita; faccio parte della schiera degli esse­ ri sofferenti e infelici, quando mi rallegravo di veder distruggere la mia fra­ gile esistenza e di addormentarmi nella notte del nulla. Devo prepararmi a nuovi dolori, poiché è sufficiente esistere per provare la sventura e le soffe­ renze continue e per essere dilaniato dagli strali del dolore. Quale creatura ragionevole può dirsi realmente felice? L’indigente immerso nella miseria e il ricco che naviga nell’opulenza non hanno forse entrambi motivo di affli­ zione? Se esistesse un essere umano sempre felice per il proprio destino, la sua felicità verrebbe disturbata dallo spettacolo degli innumerevoli mali che tormentano i tristi abitanti della terra. Ahimè! Provavo così tanto piacere nel sentire arrivare poco a poco la distruzione del mio essere!46. 45 F e u c h e r d ’A r t a iz e , Réflexions..., cit., p. 13. 46 P.J.B. NOUGARET, Les méprises ou les illusions du plaisir, Berlino e Parigi 1780, t. I, p. 87.

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Chi meglio dei preti può conoscere lo sgomento umano? L’abate Trublet non tradisce il segreto della confessione quando racconta: «H o trovato meno felici o più infelici di quanto credessi la mag­ gior parte di coloro che mi hanno aperto il cuore, affidato le loro pene e narrato la storia della loro vita. I confessori sono a cono­ scenza di molti crimini e di infelicità segrete; benché a confessarsi non siano certo i più malvagi e i più tristi. [...] I rimorsi e i penti­ menti del passato, i desideri e le inquietudini per il futuro vengo­ no ad aggiungersi al disgusto e al malcontento per il presente. La vita trascorre così»47. Questo mal di vivere ha almeno il merito di aiutarci a soppor­ tare l’idea della morte. Troviamo in questa fase alcuni accenti già rile­ vati nei libertini del XVII secolo, che sostenevano un atteggiamen­ to di tranquillo pessimismo. «E bene stabilire qualche principio atto a diminuire il nostro attaccamento alla vita, e di conseguenza a ren­ derci indifferenti alla morte», scrive il barone d’Holbach. Di fronte alle disgrazie della vita, Diderot afferma: «Non esiste che una virtù: la giustizia; non esiste che un dovere: rendersi felici; non esiste che un corollario: non sopravvalutare la vita e non temere la morte». Alla fine del secolo Chamfort infrange un’ulteriore barriera: «I flagelli psichici e le calamità della natura umana hanno reso neces­ saria la società, la quale non fa che aggravare le disgrazie della natu­ ra. Gli inconvenienti della società hanno condotto alla necessità di un governo, e il governo accresce le sventure della società. Ecco la storia della natura umana». A questo stadio la disperazione è irri­ mediabile e porterà Chamfort a mettere in pratica una delle sue mas­ sime: «Vivere è una malattia, la cura è la morte». Nel XVIII secolo si può osservare un sorprendente punto di con­ vergenza tra credenti e non credenti: il disgusto per la vita terre­ stre. «Valle di lacrime» per gli uni, sogno assurdo per gli altri, la vita non vale la pena di essere vissuta e il più grande bene che pos­ siamo desiderare è la morte che, per gli atei, si affaccia sul nulla. La Mettrie è categorico: «La morte è la fine di tutto; dopo di lei,

47 T r u b l e t (abate), Essais sur divers sujets de littérature et de morale, Parigi 1735, t. Ili, p. 259; trad. it., Volgarizzamento di saggi sopra diverse materie di let­ teratura e di morale del sig. ab.e Trublet, in Firenze: nella stamperia Mouckiana, 1753.

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lo ripeto, un abisso, un nulla eterno; tutto è già stato detto e fatto [...], la farsa è stata recitata». Questa prospettiva non è forse molto allettante, ma la vita umana come la descrive Diderot in una lette­ re a Sophie Volland lo è forse di più? Nascere nell’imbecillità, in mezzo a grida e dolore; essere preda dell’i­ gnoranza, dell’errore, del bisogno, delle malattie, della cattiveria e delle passioni; ritornare man mano all’imbecillità, dal momento in cui balbet­ tiamo fino al momento in cui farnetichiamo, vivere fra bricconi e ciarla­ tani di ogni tipo; spegnersi fra un uomo che vi prende il polso e l’altro che vi annebbia la mente; non sapere da dove arriviamo, perché siamo arri­ vati qui, dove andiamo: ecco ciò che chiamiamo il presente più importante dei nostri genitori e della natura: la vita48.

Per sfuggire a un simile inferno, i più spaventati dalla morte hanno un valido sostituto, la droga. Il medico La Mettrie loda le virtù dell’oppio, che scopre nel XVIII secolo: «Getta l’uomo feli­ ce in uno stato tale che sembra dover essere la tomba del sentimento, per quanto diventa l’immagine della morte. Quale dolce letargo! L’anima non vorrebbe mai uscirne». L’abate Galiani, autore dei Dialoghi sul commercio dei grani, non ne è meno entusiasta. In una lettera del 1777, rassicura Madame d’Epinay riguardo a sua madre, che usa e abusa della sostanza: Ignorate forse che tutto l’Oriente, vale a dire almeno la metà del genere umano, vive con l’oppio, o per meglio dire nell’oppio, fino alla decrepi­ tezza? L’Occidente si serve del vino invece che dell’oppio, e ne trae lo stes­ so vantaggio. Non conoscete alcuna vecchia ubriacona? Ebbene, vostra madre sarà un’ubriacona d’oppio [...]. Mettetevi ben in testa che, poiché la vita non è altro che un ammasso di mali, di sofferenze e di dolore, «Dio fece dell’inebriarsi la virtù dei mortali». L’oppio, il vino e il tabacco, le tre droghe più inebrianti, sono il contravveleno della vita degli asiatici, degli europei, degli americani49.

La lista delle testimonianze sul pessimismo dei Lumi è davvero interminabile. Esse sono così numerose che ci si potrebbe chiede­ re da dove sia potuta arrivare la fama di leggerezza e di gioia di vive­ 48 Citato da R. FAVRE, ha mort..., cit., p. 463. 49 F. G A L IA N I (abate), Correspondance, Parigi 1881, 2 vol., t. Il, p. 267.

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re di questo periodo. Certo, c’è stato un primo XVIII secolo più ottimista, quando Leibniz, nel 1710, riteneva che «tutto è per il meglio nel migliore dei mondi possibili». Filosofi e teologi tenta­ no di giustificare e di minimizzare l’esistenza del male, integrandola nell’armonia dell’universo, con lo scopo di mostrare che il pecca­ to originale era un peccato felice, benefico, una felix culpa50. Sin dalla fine degli anni ’80 del 1600, Malebranche considerava il pec­ cato originale una parte necessaria del disegno divino: Dio l’ha per­ messo per poter ricreare un mondo migliore attraverso l’Incarna­ zione di suo Figlio che ha, in qualche modo, divinizzato la creazione: «Ad ogni modo Dio ha previsto e permesso il peccato. E suffi­ ciente questo. È una prova certa che l’Universo restaurato da Gesù Cristo valga di più del medesimo Universo nella sua primitiva costruzione, altrimenti Dio non avrebbe mai lasciato corrompere la propria opera. Questo è un segno sicuro che il disegno princi­ pale di Dio è l’Incarnazione del figlio»51. Leibniz aggiunge, riguar­ do a questo tema, che non solo il peccato originale ha effetti estre­ mamente positivi, ma era soprattutto inevitabile. Quando Dio crea, non può che creare un essere imperfetto, altrimenti creerebbe se stesso, e i diversi mali contribuiscono all’equilibrio globale. A quest’epoca in Inghilterra vi è la tendenza ad addolcire le conseguenze dalla caduta originaria: il peccato di Adamo scompa­ re, oppure viene ridotto a un incidente di percorso dagli effetti secondari molto leggeri nelle teodicee elaborate da Charles Blount, Mathew Tindal, John Taylor, Conyers Middleton, Bolingbroke, Shaftesbury. I platonici di Cambridge e i latitudinari, come l’arci­ vescovo di Canterbury John Tillotson, affermano che la nostra natu­ ra è intatta e che l’istruzione è in grado di ridurre le proporzioni del male. Nel 1702 il vescovo William King, nel De origine mali, dimostra che il male non è che una privazione, un’assenza neces­ saria all’esistenza degli esseri creati. Nel suo Essay on Man, Alexander Pope «ritocca» l’affermazione di Leibniz, riequilibran­ do il «tutto è bene» con «tutto è il male minore possibile». Anche se fra le due formule c’è ben più di una semplice sfumatura... 50 G . M in o is , Les origines du mal: une histoire du péché originel, Fayard, Parigi 2002 . 51 N. de MALEBRANCHE, Colloqui sulla metafisica la religione e la morte, E dizioni San P a o lo , M ilan o 1999, I X colloqu io, p. 286.

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Anche i gesuiti, a modo loro, contribuiscono al mantenimento di un certo grado di ottimismo, difendendo lo «stato di natura». A loro dire, il peccato originale non ci ha fatto perdere tutto. Dio ci ha tolto solo i doni sovrannaturali elargiti alla natura umana al momento della creazione; ci resta quindi il libero arbitrio. I filoso­ fi della prima generazione, quella del Mondain di Voltaire, invece non sanno che farsene di questa storia del peccato originale e sosten­ gono che l’uomo sia qui per trovare la felicità nei piaceri. L’Illumi­ nismo, YEnlightment e 1’Aufklärung si ritrovano in un ottimismo giovanile. La storia culturale ha preso in considerazione soprattut­ to questa prima parte del XVIII secolo. Nel 1755 tale ottimismo viene messo in discussione dall’Ac­ cademia di Berlino, la quale chiede di rivedere il sistema di Pope contenuto nell’affermazione: «Tutto è bene». Si tratta dunque, in primo luogo, di determinare il vero significato di quest’afferma­ zione, conformemente all’ipotesi del suo autore; poi di metterla a confronto con il sistema dell’ottimismo o della scelta migliore, per sottolinearne esattamente i rapporti e le differenze; infine di defi­ nire le ragioni ritenute più valide nello stabilire o nel distruggere il sistema. Nello stesso anno si verifica il terremoto di Lisbona che, secon­ do Paul Hazard, segna l’oscillazione del secolo dall’ottimismo al pes­ simismo: «A partire da Candido, la sentenza viene pronunciata e la causa perduta»52. Robert Mauzi ha contestato questa divisione cro­ nologica, mostrando che i due atteggiamenti coesistono lungo tutto il secolo, il quale vede apparire simultaneamente e parallelamente sia le opere più cupe che le più illuminate: Prévost racconta la vita piena di calamità di Cleveland nel 1732, nel momento in cui Voltaire decanta le gioie dell’esistenza; nel 1754 Savérien pubblica L'Heureux, tre anni prima di Le Spleen di Bésenval; l’euforia più beata del secolo, l’Essai sur le bonheur di Beausobre, è contempo­ ranea di Candido, e EHomme heureux di Le Prévost d’Exmes viene pubblicato nel 1776, lo stesso anno in cui Rousseau, l’uomo infe­ lice, scrive:

52 p. 163.

P. H a za r d , Le problème du mal au XVIIIe siècle, «Romanie Review», 1941,

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Gettato sin dall’infanzia nel vortice del mondo, apprendo di buon’ora con l’esperienza che non ero fatto per viverci e che non sarei mai riusci­ to a dare al mio cuore ciò di cui aveva bisogno. Avendo dunque smesso di cercare fra gli uomini la felicità che sentivo di non potervi trovare, la mia ardente immaginazione saltava già oltre lo spazio della mia vita, appe­ na cominiciata, come su un terreno che mi era sconosciuto, per posarsi su un piano tranquillo dove potermi fermare53.

«AU’inizio del secolo si crede nella felicità facile, raggiungibile seguendo la natura, cioè dando soddisfazione agli istinti e alle pas­ sioni. Ma le sensibilità cambiano e, alla fine del secolo, la felicità viene concepita come il risultato di una lotta perpetua contro la natura, contro le passioni e gli istinti: la felicità diventa virtù, e la virtù è difficile da raggiungere. Il capovolgimento è spettacolare e, in definitiva, rivela nonostante tutto un passaggio dall’ottimismo al pessimismo». Robert Mauzi parla di una «mitologia dell’infeli­ cità»54: «Tuttavia, alla domanda se l’uomo sia felice, sembra pro­ prio che la risposta sia stata la maggior parte delle volte negativa, poiché ci si continua a porre altre due domande: “Perché l’uomo non è felice se il suo desiderio di esserlo è così forte?” e “C’è forse, per mera ipotesi, un qualche modo per diventarlo?”»55.

Essere felici: un ossessione degli infelici La fama del XVIII secolo come periodo felice è dovuta in parte alla quantità di scritti dedicati alla felicità: più di una cinquantina di trattati nella sola lingua francese. Ma questa ossessione della feli­ cità non è piuttosto indice di una mancanza? Come non fare un parallelo con l’attuale proliferazione di opere per sconfiggere la depressione e sul dovere di essere dinamici e felici? L’ossessione della felicità uccide la felicità. Anche gli intellettuali dell’Illuminismo hanno sottolineato que­ sto punto: «Sragionare tristemente sulla felicità è il destino di quasi

53J.-J. R o u sse a u , Le passeggiate del pensatore solitario, Terza passeggiata, UTET, Torino 1968. 54 R. MAUZI, Lidee du bonheur..., cit., p. 24. 55 Ivi, p. 79.

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tutti coloro che hanno scritto qualcosa in proposito», commenta Grimm nel 1767, mentre nel 1772 l’abate Barthélémy confida a Madame du Deffand: «Siamo infastiditi da tutti questi trattati, da tutti questi poemi sulla felicità composti da uomini comuni tre­ mendamente tristi». Che utilità possono avere, si chiede Holbach: «Nulla di più vago, di più affliggente, di più impraticabile dei con­ sigli elargiti dalla maggior parte dei moralisti può portarci a esse­ re felici». Prendete Maupertuis, un uomo «cupo, irascibile, nemi­ co di tutti i talenti che non aveva», a detta di Delisle de Sales, ebbe­ ne, «Maupertuis, che ha creduto per tutta la vita e che probabil­ mente ha dimostrato di non essere felice, ha appena pubblicato uno scritto sulla felicità», nota ironicamente Montesquieu, egli stesso autore di alcuni paragrafi sul tema in Miei pensieri. Tuttavia il risul­ tato non è così probante: «Dopo avere letto Maupertuis, vorrete quasi essere morti», ironizza Madame de Puisieux. Quanto alla gente felice che scrive sulla felicità, i loro trattati, sostiene Diderot, «non sono che la storia della felicità di coloro che li hanno scritti». Nel suo Discours sur le bonheur, «Fontenelle ci dice solo come Fontenelle fosse felice», osserva Saint-Lambert. Delisle de Sales rincara la dose: «Quando scrive sulla felicità, tutto ciò che insegna ai suoi contemporanei è come fu felice nella sua fredda apa­ tia». Helvetius, «favorito anche dalla natura e dall’ordine sociale, bello, ricco, sensibile e sempre amato», compone un poema su Le bonheur: che vantaggio può trarre da una simile opera un uomo brutto, povero, inacidito, non amato, vecchio e malato? Ora, secondo il principio generalmente ammesso nel XVIII seco­ lo, l’uomo è fatto per essere felice. Lo diceva già Bossuet che il solo obiettivo dell’uomo era di essere felice; lo ripeteva Voltaire che la grande questione, e la sola che bisogna prendere in considerazione, è di vivere felici. Tutti ricercano la felicità, per poi accorgersi un gior­ no o l’altro che è irraggiungibile o, peggio ancora, che è un miraggio che svanisce appena lo si tocca, concetto che Madame de Puisieux riesce a esprimere con una bella immagine: «La felicità è una palla che rincorriamo quando rotola e che allontaniamo con i piedi quan­ do si ferma». La felicità risiede nella speranza della felicità, vale a dire che in realtà non esiste, o che è talmente ridotta che esitiamo a chia­ marla felicità: «La felicità è un momento che non vorremmo scam­ biare con il non-essere», scrive Montesquieu. E se la felicità consistesse semplicemente nel non essere infelici? «Non c’è altra felicità al 159

mondo se non quella del nostro corpo con i suoi cinque sensi in buono stato e, per la nostra anima, di avere un amico: tutto il resto è una chimera», confida Voltaire alla sua amica Madame du Deffand, la quale approva: «Per me la felicità consiste nel rifuggi­ re due mali, i dolori del corpo e la noia dell’anima». Persino il riso non è sempre divertente. Il XVIII secolo ha inven­ tato lo humor nero, come ha mostrato André Breton mettendo Jonathan Swift in vetta alla sua Anthologie. I più amareggiati sono proprio coloro che hanno la responsabilità di farci ridere, come i caricaturisti britannici: il sinistro George Cruikshank, l’acido Rowlandson, il cupo James Gillray che, stanco di questo mondo di folli, si suicida nel 1815. In Francia Figaro, frizzante plebeo che incarna la gioia di vivere, confessa: «Mi affretto a ridere di tutto per paura di ossere obbligato a piangerne»; e il riso di Senancour fa eco a quello di Democrito: «La vita mi annoia e mi diverte. Andare, alzarsi, fare tanto rumore, preoccuparsi di tutto, misura­ re l’orbita delle comete e, dopo qualche giorno, sdraiarsi là, sotto l’erba di un cimitero: mi sembra abbastanza burlesco per essere vis­ suto fino alla fine». Poiché la vita è solo una miserevole farsa, meglio riderne: «Trovare la comicità delle cose le rende già meno tristi», ed ecco perché «cerco in ogni cosa il carattere bizzarro e ambiguo che possa trasformarla in un rimedio per le mie miserie [...]. Rido di dolore e vengo considerato una persona allegra».

La felicità: una chimera? Ci sono quindi persone felici nel secolo dei Lumi? Probabil­ mente sì, a cominciare da Casanova. Ecco uno che non è triste: «Per alcune persone la vita non è altro che un insieme di sventure, scri­ ve. Ma chi parla così è sicuramente malato o povero, poiché se godesse di buona salute, se avesse la borsa ben piena, l’allegria nel cuore, se avesse una Cecilia o una Marina, e la speranza in qual­ cosa di sempre migliore, oh, certamente cambierebbe idea. Li con­ sidero dei pessimisti, che possono essere esistiti solo tra filosofi pezzenti e teologi disonesti o irascibili»56. Persino d’Holbach

56 G.G . C a sa n o v a , Memorie, Garzanti, Milano 1999.

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ammette che «per quanto ne dica una teologia triste o una filoso­ fia collerica, qualunque uomo che sappia gioire, pur non trovando una felicità completa in questo mondo, può almeno incontrarvi una torma di piccoli piaceri fatti per rendere felice la sua esisten­ za o per costituire, in qualunque momento, un potente diversivo alle sue pene»57. Entrambi hanno la vita facile, è vero. Ma, assicura Fromentin nel suo Traitidu bonheur (1706), tutti possono essere felici, i ricchi come i poveri. Secondo Blondel sarebbe persino più facile per i poveri, che non hanno bisogno di molto per essere felici; anzi, la maggior parte delle volte sono infelici, ma hanno la fortuna di non saperlo: Fatemi passare in rassegna questa gente grossolana e senza lumi, nata nelle condizioni più abiette. Presentatemi questi uomini che chiamate le infe­ lici vittime dei capricci del destino e che hanno conosciuto la miseria sin dal giorno in cui hanno aperto gli occhi. Trascorrono la vita a mangiare, lavorare, dormire e a rendere infelici gli altri. Siate certi che siete voi ad avere più pietà di loro di quanta ne abbiano loro per se stessi. Hanno meno passioni perché hanno meno idee, questo è ovvio. L’abitudine a soffrire fa loro perdere quella di credere che soffrono. E una specie di ignoranza della loro miseria; e se sanno di essere infelici, lo sanno più o meno quan­ to noi sappiamo di dover morire. Ecco un comportamento ammirevole della Natura: quando fa nascere le persone nella miseria, essa dona loro un carattere adatto a sostenere tale condizione e persino a dimenticarla58.

Inizialmente l’abate Trublet sembra accondiscendere: «Il nume­ ro di persone felici supera quello degli infelici? Credo di sì, perché sono abbastanza portato a pensare che vi siano più persone felici che infelici negli strati sociali più bassi, fra il popolo, gli artigiani, i contadini, i domestici, ecc. La maggior parte degli uomini si trova in queste condizioni. Se il padrone non è felice, lo sono i suoi servi, ed esistono più servi che padroni». Poi si domanda: tutti questi con­ tadini dall’aria felice, lo saranno poi veramente? Forse la penserei diversamente sulle condizioni disagiate, se le conosces­ si meglio [...]. Guardo il popolo, questa folla di uomini costretti ai lavo­

57 P.H . d ’H o l b a c h , Système social, Londra 1773, t. I, p. 181. 58 J. B l o n d e l , Loisiris..., cit., p. 38.

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ri più duri, questi contadini che portano il peso del giorno e del caldo, e scorgo segni di gioia, sento i loro canti. Il mio cuore se ne rallegra, poi­ ché mi rendo conto che, nonostante tutto, sono felici. Mi avvicino e mi congratulo per la loro allegria. Ma essi mi rispondono che cantano solo per aiutarsi a sopportare il lavoro, ad addolcirlo e a distrarsi, per sentire meno le loro pene. Non cantano perché sono felici, ma per rallegrarsi un poco, se possibile, o almeno per non abbattersi del tutto59.

Allo stesso modo gli schiavi neri cantano i blues nei campi di cotone, ma questo non significa per forza che siano felici. Trublet ha almeno il merito di essere consapevole del proble­ ma, in questo tempo in cui la classe elitaria non pensa a fare la rivo­ luzione. La maggior parte dei filosofi, illuministi e detrattori deirilluminismo non si pongono il problema, poiché la felicità non può che provenire dallo spirito. I contadini, grezzi e incolti, sono necessariamente infelici. «In qualche modo potremmo dire che il popolo provi solo sensazioni e che il sentimento gli sia sconosciu­ to» (Madame Thiroux d’Arconville); «Il popolo è raramente feli­ ce, poiché confonde gli strumenti della felicità con la felicità stes­ sa» (Delisle de Sales). L’infelice delle città è ancora più infelice degli infelici dei campi, spiega Sébastien Mercier: «Essere felici a Parigi è quasi impossibile, poiché i godimenti altezzosi dei ricchi si svolgono troppo vicino agli sguardi dell’indigente, il quale ha motivo di sospirare vedendo questi sperperi rovinosi che non arri­ vano mai fino a lui. Per quanto riguarda la felicità, egli è ben al di sotto del contadino»60. Diderot è forse il più lucido e il più onesto. Non sa se gli ope­ rai siano felici, ma non vorrebbe essere al loro posto: Crederei di più alle delizie della giornata di un carpentiere, se a parlar­ mene fosse il carpentiere e non un fermiere generale, le cui braccia non hanno mai provato la durezza del legno o la pesantezza dell’ascia. Questo carpentiere beato, lo vedo asciugarsi il sudore dalla fronte, portarsi le mani sui fianchi per alleviare la fatica delle reni, ansimare in ogni momen­ to, misurare con il suo compasso lo spessore della trave. Forse è assai dolce essere carpentiere o segatore di pietre, ma francamente, non voglio

59 T r u b l e t (abate), Essau..., cit., t. I l i , p. 255. 60 L.-S. M e r c ie r , Tableau..., cit., 1.1, p. XV.

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quel tipo di felicità, neanche se accompagnata da un ricordo gradevole, ad ogni colpo di scure o di sega, del pagamento che mi spetterebbe a fine giornata61.

E i ricchi sono felici? Le grandi menti rispondono in massa in modo negativo. Le ragioni non mancano: la ricchezza moltiplica i desi­ deri, le vanità e le frustrazioni (Trublet ed Elvezio); i ricchi provano «l’inquietudine nella ricerca», il «disgusto nel godimento», la «dispe­ razione nella privazione»62 (Lévesque de Pouilly). Si tratta di «per­ sone sfaccendate, che trovano difficile ammazzare il tempo delle ven­ tiquattro ore e che impiegano tutti gli artifici immaginabili per arri­ vare fino in fondo alla giornata»; «questi oziosi che vegetano e cre­ dono di vivere [...] per ripagarsi della noia che li coglie fanno due toelette al giorno» (Mercier). Sono attanagliati da una doppia con­ traddizione che fa sì che la loro ricchezza, dando loro tutti i mezzi di essere felici, li privi di ogni tendenza alla felicità. L’accumularsi dei piaceri smussa la loro sensibilità e diventano disillusi e letargici; l’e­ stensione dei loro affari ne accresce la vulnerabilità e quindi ne mol­ tiplica le inquietudini (Guillaume Dubois de Rochefort)63. Rousseau mostra quanto i ricchi, avendo esteso artificialmente il loro essere, diano origine a una serie di mali, senza contare la cattiva coscienza che li perseguita subdolamente: l’evangelico «Guai a voi, ricchi», è uno dei temi familiari dei sermoni. La felicità è dunque inaccessibile? Vietata sia ai ricchi che ai pove­ ri, essa sembra riservata alla condizione intermedia cui tutti sembra­ no ambire: la «mediocrità». Vi è un accordo unanime impressionan­ te su questo punto: «La mediocrità è un parapetto» (Montesquieu); «Lelice mediocrità! Solo tu puoi fare la felicità del genere umano» (Madame Thiroux d’Arconville); «Ah! Troppo felice mediocrità!» (Beausobre); «E nello stato di beatitudine della mediocrità che ci si può preparare alla filosofia senza tanti sforzi» (Mably). Questo ideale ha un modello, un eroe modesto come conviene: Lontenelle, il centenario felice. Certo la sua felicità non ha niente 61 D . DIDEROT, Œuvres complètes, a cura di J. Assézat e M. Tourneux, Parigi 1875-1877, 20 voli., t. II, p. 427. 62 L .-J. LÉVESQUE DE P o u il l y , Théorie des sentiments agréables, Barillot & fils, Genève 1747. 63 G. D u b o is d e R o c h e f o r t , Histoire critique des opinions des anciens et des systèmes des philosophes sur le bonheur, Knapen & fils, Parigi 1778.

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di spettacolare, ma ha un merito incomparabile: esiste, mentre tutte le altre sono solo chimere. Inoltre egli adotta uno stile di vita mode­ rato e prudente, ben lungi dagli estremi e dagli eccessi. L’uomo si crea delle chimere e passa il tempo a volerle realizzare. Tutti i nostri dolori vengono daU’immaginazione, ciò è fonte di molteplici fru­ strazioni. Invece di questo, considerate freddamente i vostri limi­ ti; bandite tutto ciò che è mito e convinzione irrazionale; credete a ciò che vedete; intraprendete solo progetti alla vostra portata; vive­ te nella concretezza, nella realtà, nella ragionevolezza. Fontenelle sa bene che le «grandi menti» disprezzano la sua tecnica della feli­ cità a piccole dosi. I «grandi uomini» sono quelli che sognano e per­ mettono di sognare. «Convengo sul fatto che a questa felicità man­ chi una cosa che, secondo i comuni modi di pensare, sarebbe neces­ saria: non ha alcun fulgore». Addirittura! Il fulgore è forse neces­ sario alla felicità? «Chi vuole essere felice si contenga e si rafforzi il più possibile». In un secolo che sogna di cambiare la società, Fontenelle ha poca risonanza. La maggior parte dei filosofi sostengono che i suoi con­ sigli siano validi solo per lui. La condizione «mediocre» è solo un equilibrio instabile fra due pericoli: la povertà e la ricchezza. Per evitare di cadere nella prima, è necessario mirare alla seconda, andandosi quindi a cercare molte preoccupazioni. Due opere pubblicate a metà del secolo illustrano quanto il pro­ blema della felicità sia divenuto un caso scolastico ossessionante. Nel 1754 Savérien, ne L’Heureux, inventa una sorta di Giobbe delMluminismo: Félix, uomo onesto, va in rovina; sua moglie viene assassinata; viene tradotto in giudizio per il suo omicidio, di cui peraltro è innocente; viene imprigionato e condannato a morte. Contrariamente al personaggio biblico, egli accetta di buon grado queste prove e trova persino un modo per trarne godimento, mostrando così che il saggio è in grado di vedere il lato positivo di tutte le circostanze della vita. Ma, come nel libro di Giobbe, non è che una messa in scena: il re aveva voluto mettere alla prova il suo incrollabile ottimismo. Nel 1757 Bésenval, nell’opera Le Spleen, arriva più o meno alla stessa conclusione. Un personaggio attira su di sé tutte le catastro­ fi: tradito da tutti, vedovo sconsolato, si rompe un braccio duran­ te la caccia e perde le sue preziose collezioni. Tuttavia non si ina­ cidisce né si amareggia, poiché ritiene che la sua sventura faccia 164

parte della condizione umana: «Riconosco che sia raro trovare nella vita di un solo uomo un accumularsi tanto funesto di fatti spiace­ voli. Ma in fondo, signore, non ho fatto che provare le sventure lega­ te ai diversi generi di vita che avevo sposato, per poi soccombere ai pericoli cui ognuno è esposto». Dimostrazione ambigua, poiché significa anche che l’esistenza umana «normale» è un tessuto di sventure e di catastrofi. La felicità consiste semplicemente nel saper incassare i colpi... Alla domanda: «Dunque non esiste alcuna feli­ cità?», egli risponde: «Non la felicità perfetta. Per felicità si inten­ de una condizione di godimento permanente: dove può esistere qualcosa di simile? Le nostre situazioni dipendono da talmente tante circostanze che è impossibile che si combinino in modo da procurare una condizione stabile; da qui derivano le privazioni, le contrarietà e, di conseguenza, l’infelicità. Se, per un rarissimo caso, questa condizione desiderabile non dovesse venire meno, allora la sazietà e il disgusto prendono velocemente il posto del disagio e pro­ ducono lo stesso effetto. Ciò che vi dico sembra affliggervi, signo­ re: cercate di non riflettere, sarete meno infelice»64. L’esame delle opere rivela un XVIII secolo inquieto, alla ricer­ ca di nuovi valori. Il distacco religioso apre alcune prospettive, ma apre soprattutto una finestra su quanto è sconosciuto. Gli autori esprimono in modo ancora sporadico e dispersivo i loro interro­ gativi, le loro incertezze e paure. Nell’espressione del mal di vive­ re non c’è ancora niente di sistematico: esso appare come una serie di problematiche individuali dove si mescolano speranze e paure. La filosofia dei Lumi non è propriamente una filosofia del mal di vivere, come sarà invece nel secolo seguente, quanto piuttosto una filosofia dell’inquietudine, fatta di reazioni individuali sempre più pessimistiche, che ha creato una chimera chiamata felicità e ha cer­ cato i mezzi per trasformarla in realtà, rendendosi poi conto della sua illusione. Toccherà al X IX secolo trarre le dovute lezioni da que­ sta esperienza, dando il via alla costruzione dei sistemi della dispe­ razione. Se vi è un criterio inconfutabile del mal di vivere, quello è sicu­ ramente il suicidio. Togliersi la vita in completa cognizione di causa è la dimostrazione suprema del disgusto per la vita, qualunque ne

64 P.-V. DE BÉSENVAL, Le Spleen, F lam m arion , P arigi 1899, p. 37 [1757].

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sia l’origine. Viaggiando a ritroso nelle epoche più antiche, la man­ canza di statistiche e i tabù riguardanti questa pratica tanto con­ dannata ci hanno costretto a limitarci a osservazioni sommarie. Nel XVIII secolo non c’è più spazio per il dubbio: il suicidio entra nel costume sociale, se ne parla senza più esitare, gli vengono dedica­ ti interi trattati e si pubblicano persino le lettere delle sue vittime. La morte volontaria forza il muro del silenzio.

La malinconia suicida Così come in molti altri ambiti culturali, gli inglesi anche in questo si ergono a precursori, tanto da far considerare - a torto la malinconia suicida quale carattere distintivo del loro tempera­ mento. In tal senso gli indizi abbondano, a partire dalle impressioni personali: «Il numero di suicidi e pazzi malinconici di cui si sente parlare in Inghilterra nell’arco di un anno è più elevato rispetto a quello di tutta una larga parte dell’Europa»65, afferma William Congreve già nel 1698. Nel 1705 il memorialista John Evelyn osser­ va che non si era mai conosciuto un così alto numero di persone che si sono tolte la vita come in quegli ultimi anni, sia fra le classi di livello più alto che fra le altre66. Si comincia già a parlarne nel continente, dove la principessa Palatina scrive: «I suicidi sono molto comuni fra gli inglesi: la nostra regina d’Inghilterra mi ha detto che, per tutto il tempo in cui è rimasta in quel paese, non è passato un solo giorno senza che qualcuno, uomo o donna, si impiccasse, si accoltellasse o si facesse saltare il cervello»67. Il dottor George Cheyne, personaggio già incontrato nel capitolo precedente e a sua volta depresso, è preoccupato «per la recente frequenza e l’au­ mento quotidiano di suicidi strani e straordinari», e pubblica nel 1733 The English Malady per spiegare questo fenomeno. A suo

65 W. CONGREVE, The Complete Works, a cura di M. Summers, Londra 1923, t. Ili, p. 206. 66 J. E v e l y n , The Diary o f John Evelyn, a cura di E .S . de Beer, Clarendon Press, Oxford, 1955, p. 593. 67 Lettres de Madame duchesse d’Orléans née princesse palatine, a cura di O. Amiel, Mercure de France, Parigi 1981, p. 129.

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parere, un quarto degli inglesi delle classi medie e superiori soffri­ rebbero di malinconia. Le sue impressioni sono confermate dai sondaggi sulla morta­ lità pubblicati dai giornali londinesi, che danno prova di un aumen­ to costante del numero annuale dei suicidi nella capitale: si passa da una media di 18 fra il 1680 e il 1690 a più di 50 fra il 1730 e il 1740. Sin dal 1711 William Withers suggeriva di scrivere un manua­ le pratico sull’arte del suicidio68 e nel 1756 Edward Moore propone ironicamente di costruire un «albergo del suicidio», offrendo i mezzi più raffinati per mettere fine ai propri giorni69. Spesso è la rovina a spingere gli aristocratici a suicidarsi: secondo le cifre ripor­ tate dal conte di Buckinghamshire, nel corso del secolo si uccido­ no 21 membri del Parlamento e 35 personaggi della nobiltà fra il 1750 e il 1798. La notorietà delle vittime amplifica evidentemente l’eco della loro morte, ma anche alcuni casi di suicidio dovuti al sem­ plice disgusto per la vita vengono ampiamente commentati: nel 1700 un rilegatore londinese e sua moglie, Richard e Briget Smith, si impiccano dopo avere ucciso la loro bambina; essi lasciano tre lettere in cui spiegano il gesto adducendo come causa la tristezza della loro esistenza. Anche i filosofi vogliono dire la loro. Così Berkeley si appiglia alla miscredenza mentre, intorno al 1755, Hume compone un Saggio sul suicidio, trattato in cui giustifica la libertà del gesto estremo, pub­ blicato in Inghilterra solo nel 1777. Nel 1732 Radicati, piemonte­ se esiliato a Londra, pubblica una Dissertazione filosofica sulla morte, in cui afferma che abbiamo la libertà totale di lasciare la vita quando questa diventa un fardello. Dal canto suo lo storico Edward Gibbon glorifica, dopo un viaggio a Roma, la morte volontaria degli antichi Romani. I trattati favorevoli o contrari al suicidio si moltiplicano70. A Londra, intorno al 1780, vengono organizzati alcuni dibattiti pubblici; il «Times» del 27 febbraio 1786 annuncia il tema di uno di essi: «Il suicidio come atto di coraggio?», cui si può assistere per sei pence. Nel 1789, lo stesso giornale dichiara

68 W. W it h e r s , Some Thoughts concerning Suicide or Self-killing, Londra 1711, p. 3. 69 «World», 16 settembre 1756, p. 1161. 70 Si veda G. MINOIS, Histoire du suicide, Fayard, Paris 1995.

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che il suicidio è «ora un soggetto generico di conversazione in tutte le classi sociali».

Il caso francese In Francia la censura vigila, ma la questione preoccupa i filo­ sofi, che sono divisi sull’argomento. Secondo il barone d’Holbach, ciò che spinge gli uomini a darsi la morte «è un temperamento ina­ cidito dalle sofferenze, una costituzione biliosa e malinconica, è un vizio dell’organizzazione, un problema negli ingranaggi [...]. La morte è l’unico rimedio alla disperazione, momento in cui la spada è l’unica vera amica, la sola rimasata a consolare l’infelice [...]. Quando più niente sostiene l’amore per se stessi, vivere è il più gran­ de dei mali e morire è un dovere per chi vuole fuggirlo». Voltaire osserva che l’uomo è fatto in modo da sopportare tutte le sofferenze piuttosto che sopprimerle: «Gli apostoli del suicidio ci dicono che è ampiamente permesso lasciare la propria dimora quando se ne diventa stanchi. D ’accordo, ma la maggior parte degli uomini amano di gran lunga di più dormire in una catapecchia che all’addiaccio». Poiché le tendenze suicide sono favorite dall’ozio, «un mezzo quasi del tutto sicuro per non cedere alla voglia di ucci­ dervi è avere sempre qualcosa da fare». Per questo ci si uccide di più nelle città: «Il lavoratore non ha il tempo di essere malinconi­ co, sono gli oziosi che si uccidono [...]. Come rimedio basterebbe un po’ di esercizio fisico, la musica, la caccia, la commedia, una bella donna». A ogni modo, se decidete di uccidervi, lasciate sempre trascorrere otto giorni prima di passare all’azione; sarebbe alquan­ to sorprendente che l’istinto di conservazione non avesse la meglio. Voltaire moltiplica inoltre le esortazioni nei confronti dei suoi amici tentati di metter fine ai loro giorni: «Uccidersi non appartiene alle persone amabili, ma solo agli spiriti insocievoli come Catone, Bruto [...], tuttavia è necessario che la gente di buona compagnia viva», scrive all’inglese Crawford. Anche Rousseau appare esitante nella Nuova Eloisa e decide di non pronunciarsi, facendo invece parla­ re Saint-Preux con parole a favore del suicidio, e Milord Edouard con argomentazioni a sfavore. I filosofi francesi non tranciano giudizi, ma il fenomeno li tocca da vicino, tanto più che hanno l’impressione che vi sia un aumen­ 168

to delle morti volontarie. Nel 1771 Grimm dichiara di vivere in «un tempo in cui la mania di uccidersi è diventata cosa comune e fre­ quente»71. Nel 1772 Hardy conferma: «Gli esempi di suicidio si moltiplicano giorno dopo giorno nella nostra capitale, dove sem­ bra venga adottato tutto il carattere e il genio della nazione ingle­ se»72. Nel 1773 Feller, nel suo Catechismo filosofico, cita i suicidi, «così frequenti in questo secolo», e vede in essi un «effetto dato dall’incredulità»73. Nel 1777 le Mémoires philosophiques du baron de X riprendono la stessa idea, mentre Voltaire pensa che i fran­ cesi si uccidano tanto quanto gli inglesi, soprattutto in città. Queste cifre sono ovviamente solo delle stime. Alcune sono infe­ riori alla realtà, come la cinquantina di morti volontarie a Parigi nel 1764 riferite da Voltaire, mentre altre sono ampiamente esagerate, come i 1.300 suicidi annuali attribuiti alla capitale nel 1781 dall’a­ bate Barruel, il quale ritiene anche che la Francia abbia perduto per questa ragione 130.000 persone nell’arco di mezzo secolo74. La cifra sostenuta da Sébastien Mercier nel suo Tableau de Paris del 1782 sem­ bra più sensata: egli parla infatti di 150 suicidi all’anno nella capita­ le75, vale a dire una media che oscilla fra 18 e 25 ogni 100.000 abi­ tanti, equivalente a quella francese del 1990 (21 ogni 100.000 abi­ tanti). Secondo Mercier questa cifra è in crescita dal 1760, ma «la polizia ha cura di nascondere i suicidi all’opinione pubblica». Alcuni casi celebri alimentano le conversazioni, come quello del 1° febbraio 1723, quando l’abate Raguenet si taglia la gola con un rasoio. Autore di una Vita di Cromie eli, questo ecclesiastico ricco e istruito, perfettamente sano di mente, sembra avere messo fine ai propri giorni perché stanco di vivere. Il suo è uno dei primi suicidi filosofici del secolo, che in seguito però si moltiplicheran­ no, con tanto di commenti di gazzettieri e memorialisti. Le famo­ se Mémoires secrets di Bachaumont, che contengono una cronaca

71 F. GRIMM, Correspondance littéraire philosophique et critique, a cura di M . Tourneux, Nendeln, Liecht, t. IX, p. 231. 72 S.-P. H a rd y , Mes loisirs, Parigi 1772, p. 323. 73 Fr.-X. DE F e l l e r , Catéchisme philosophique, Parigi 1773, p. 139; trad. it., Catechismo filosofico, ossia Raccolta di osservazioni proprie a difendere la religione cri­ stiana contro de’ suoi nemici, presso Domenico Sangiacomo, Napoli 1805. 74 BARRUEL (abate), Les Helviennes, Parigi 1781, t. IV, p. 272. 75 L.-S. M e r c ie r , Tableau..., cit., t. Ili, p. 193.

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di tutti gli eventi del mondo letterario e della società alla moda dal 1762 al 1787, citano fra numerosi avvenimenti mondani e semi-mon­ dani molte morti volontarie dettate dalla disperazione, dal dolore o dalla stanchezza per la vita, che vengono ricollegate alla moda inglese dell’epoca. La curiosità manifestata in questo campo dagli autori successi­ vi alle Mémoires secrets è indicativa del fatto che, dietro una ripro­ vazione formale, si esprime un interesse non privo di ammirazio­ ne, ma soprattutto curioso e in qualche modo affascinato. Il 21 maggio 1762 leggiamo che, da qualche anno, molte persone muoio­ no di «consunzione», cioè di suicidio commesso per disperazione: «Le persone che hanno interesse a nascondere quest’infelicità dome­ stica hanno fatto credere che fosse un incidente. Da due mesi si è a conoscenza di più di dieci persone conosciute che sono state vit­ time di una tale frenesia. Questo taedium vitae è il seguito della sedi­ cente filosofia moderna, che ha intaccato menti troppo deboli per essere veramente filosofiche»76. Il 5 maggio 1769, le Mémoires lan­ ciano un nuovo grido d’allarme riguardo al suicidio di un giovane impiccatosi perché non aveva avuto successo agli inizi della sua carriera teatrale: «Non era pensabile che questa moda britannica avrebbe influenzato i cittadini fino a questi livelli. Da qualche tempo simili eventi si moltiplicano e, oltre a quelli che non vengono resi pubblici, ve ne sono molti che vengono nascosti per riguardo delle famiglie e per evitare il progresso funesto di questa cosiddetta men­ talità filosofica, contraria, oltretutto, anche alla politica, alla ragio­ ne e al vero eroismo»77. Il 26 settembre 1770, le Mémoires secrets commentano come segue il suicidio di un barone tedesco: «Sembra che la scontentezza di vivere, che colpisce a livelli considerevoli in questa capitale, sia stata la causa di tale suicidio»78. Alcuni giorni dopo, il 5 ottobre, un tale Guillemin, primo violino del re, indebi­ tato fino al collo, si uccide a coltellate, «in un accesso di dispera­ zione». Il 26 febbraio 1772, le Mémoires secrets citano il suicidio di un uomo che si è ucciso in provincia con un colpo di pistola per ragioni puramente filosofiche, dopo aver lasciato un biglietto in cui

76 Mémoires secrets..., cit., t. XVI, p. 153. 77 Ivi, t. IV, p. 234. 78 Ivi, t. V, p. 171.

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«dichiara che, non essendo stato consultato per essere stato dato alla luce, crede di poterne anche fare a meno senza chiedere l’opi­ nione di nessuno»79. Il 16 giugno 1775, sempre secondo le Mémoires secrets, «in que­ sto paese due inglesi si sono recentemente uccisi e sembrano venu­ ti a corroborare la mania che i francesi hanno attinto proprio da loro e di cui oggi danno l’esempio»80. Non è che uno scambio di favori, poiché i giornali britannici segnalano, alla stessa epoca, che numerosi nobili del continente si sono recati in Inghilterra per sui­ cidarsi, in una sorta di pellegrinaggio nel paese della morte volon­ taria. Essi riportano infatti il suicidio di un nobile francese a Greenwich e quello del figlio di un generale tedesco a Hyde Park nel 1789; nel 1797 il figlio del «re di Corsica» si spara un colpo in testa a Westminster Abbey; l’anno seguente, in un caffè, il duca di Sorrentino decide di imitarlo. Nel 1789 ha luogo un altro suicidio altisonante, quello del figlio cadetto del cancelliere Maupeou, il quale sbarca in Inghilterra con una grossa somma di denaro e si uccide con un colpo di pistola a Brighton, lasciando un laconico biglietto di cui nessuno capisce il senso: «Muoio innocente, il Cielo mi è testimone». L’Inghilterra e la Francia non sono gli unici paesi toccati dal­ l’aumento dei suicidi. In Germania, dal 1742, Süssmilch se ne occu­ pa in un’opera che precede gli studi demografici, Dìe göttliche Ordnung. Ciò che è ancora solo un abbozzo si concretizza negli anni ’80 del 1700 con i primi dati concreti. Un cronista, che attinge informazioni dalle autorità di Berlino, tra il 1781 e il 1786 conta un totale di 239 suicidi nella capitale prussiana (vale a dire l’8% dei decessi), così suddivisi: 136 annegamenti, 56 impiccagioni, 42 morti per arma da fuoco e 8 per sgozzamento. Vengono inoltre fornite ulteriori cifre allarmanti riguardo a Francoforte sul Meno. Persino in una piccola borgata come Kuenzelsau-am-Kocherfluss si contano quattro morti volontarie in tre anni. A causa della rapi­ da urbanizzazione, il tasso di suicidio aumenta in Prussia, ciò accen­ tua l’indebolimento dei legami tradizionali della famiglia e della reli­ gione, destrutturando una società in piena mutazione, vittima della

79 Mémoires secrets..., cit., t. VI, p. 101. 80 Ivi, t. V ili, p. 79.

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crescita demografica e della crisi economica. L’aumento della popo­ lazione, una situazione più precaria, individui spesso lasciati a se stessi senza poter contare sulla solidarietà quotidiana: tutte le cir­ costanze favorevoli sembrano essere riunite81. I suicidi diventano più numerosi anche nei paesi scandinavi. In Svezia, secondo il professor Arne Jarrick, che ha studiato gli archi­ vi della corte criminale di Stoccolma dal 1700 al 1788 e della pro­ vincia meridionale di Vàstergàtland dal 1635 al 182182, le ragioni più frequentemente invocate riguardano la nozione di malinconia, termine che ricopre «tristezza, malinconia, depressione, nervosismo, paura, angoscia, afflizione», cui occorre aggiungere i casi di «dispe­ razione», di «fatica del mondo e di se stessi». Il professor Jarrick attribuisce un ruolo importante al pessimismo religioso che con­ traddistingue il luteranesimo svedese e di cui dà testimonianza l’o­ pera di Johann-Christian Arndt, Quattro libri sul vero cristianesi­ mo. Illustrazione dello «spirito suicida della dottrina cristiana, per non dire di Cristo stesso», Arndt sostiene che «un buon cristiano deve odiare la propria vita», poiché essa è un vero e proprio infer­ no. Lo svedese Johann Robeck, autore di uno dei suicidi più cele­ bri del secolo, è certamente un luterano convertito al cattolicesi­ mo, ma è soprattutto un animo fragile. Nel 1735 compone un trat­ tato in latino che giustifica il suicidio, il De morte voluntaria philosophorum vivorum et honorum vivorum. Terminato il suo libro, si veste con i suoi abiti migliori, affitta una barchetta a Brema, si allontana dalla costa e scompare; il suo corpo si arena sulla costa qualche giorno dopo. Il suo trattato sarà pubblicato l’anno suc­ cessivo. L’anno 1770 inaugura una nuova epoca del mal di vivere suici­ da. A Lione due giovani amanti, il maestro d’armi Faldoni, afflit­ to da un male incurabile, e la sua amata che non vuole sopravvi­ vergli, si uccidono in una cappella. Nella commozione generale gli «amanti di Lione» divengono gli eroi di un racconto intitolato Histoire tragique des amours de Thérèse et de Faldoni; Léonard e Pascal de Lagouthe ne traggono ispirazione per i loro romanzi;

81 H. B r u n sc h w ig , La crise de l'état prussien à la fin du XVIIIe siècle et la genè­ se de la mentalité romantique, PUF, Parigi 1947. 82 Informazioni gentilmente fomite dal professor Jarrick.

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Delisle de Sales ammira i nuovi Romeo e Giulietta, e Rousseau scrive: «Il sentimento ammira e la ragione tace». Nasce così il sui­ cidio romantico. Lo stesso anno un poeta inglese diciassettenne, genio incompreso che aspira a una rapida gloria, ridotto alla povertà, si avvelena nella sua stanza di Holborn, a Londra. Nel giro di qualche anno, Thomas Chatterton diventa un mito: poesie, dipinti, statue, fazzoletti con la sua effigie gli conferiscono una gloria postuma. Keats, Coleridge, Wordsworth e Vigny ne celebrano i componimenti. Nel 1774 il suicidio letterario del giovane Werther conosce un successo prodigioso. Traduzioni e riedizioni del libro di Goethe vedono la luce a ripetizione. Presto Chatterton e Werther creano veri e propri emuli. Il «Times» riporta numerosi casi, come quello della bella diciassettenne Eleanor Johnson; mentre Grimm ne cita altri. La werthermania prende proporzioni inquietanti: ragazzi e ragazze, con una copia del libro in tasca, si annegano, si sparano in testa, si buttano dalla finestra. Scrive Madame de Staël: «Werther ha causato più suicidi della più bella donna del mondo». Goethe viene presto accusato: il professor Schlettwein lo definisce «avve­ lenatore pubblico»; il suo libro è considerato «infame», declama il pastore Goeze; «immorale e riprovevole», si scaglia il vescovo di Bristol; «Goethe è imperdonabile», sostiene il «Mercure de France». Reazioni assurde, evidentemente, ma significative: da secoli i romanzieri raccontavano storie di suicidi senza suscitare la minima condanna, mentre negli anni 1770 e 1780 l’opinione pubblica molto sensibilizzata al problema - si dichiara turbata: nel 1761 Rousseau ne discute nella Nuova Eloisa-, nel 1770 viene pubblica­ to il libro di Hume e nel 1773 appare la storia dei soldati di SaintDenis. I giornali pubblicano nuovi casi ogni settimana. Il fatto che Werther abbia avuto una tale risonanza rappresenta un indice rive­ latore, non una causa. Probabilmente si potrebbe sostenere la mede­ sima constatazione oggi a proposito della pedofilia. Il romanziere che sfrutta al momento giusto un fatto sociale innesca un’eco spro­ porzionata. Queste reazioni, siano esse di ammirazione o di ostilità, tradu­ cono il malessere crescente della fine del XVIII secolo. Il mal di vivere, che prefigura il male del secolo definito in seguito da Musset, fa da cornice all’episodio rivoluzionario e imperiale. Esso riguarda essenzialmente i giovani, annoiati in questo periodo crepuscolare 173

dell’Ancien Régime dove tutto sembra essere bloccato. La genera­ zione successiva di giovani, non appena passato l’entusiasmo rivo­ luzionario, si annoierà nuovamente. Il mal di vivere della gioventù preromantica è il malessere di una generazione che cresce in un mondo sclerotizzato, le cui strutture sono ormai solo schemi rigidi mentre i valori che le sostenevano hanno perso molto della loro credibilità. Questa gioventù cerca un nuovo senso da dare all’esistenza, ma si trova di fronte solo le rispo­ ste stereotipate di un regime ormai logoro.

Luigi X V il depresso e Voltaire l’inquieto Il secolo dei Lumi trabocca di inquieti e di malinconici, specie fra gli intellettuali, ma non solo. Il re Luigi XV era «di una tristezza e di un’inquietudine da far pietà», scrive d’Argenson, il quale rac­ conta anche che nel 1741, ad esempio, durante una cena da Madame de Mailly, «non mangiò che un morso, bevve una coppa e disse che non avrebbe mangiato di più. Dopodiché cadde in una malinconia nera simile a vapori e da cui non fu mai possibile farlo uscire, per quanta felicità si potesse portare». Il duca di Luynes ha descritto il carattere depressivo del sovrano: «Il carattere del re non è né vita­ le, né allegro; esso ha piuttosto dell’irascibile [...]. Spesso è sog­ getto a momenti di tristezza e a un umore che occorre conoscere per non urtarlo; inoltre coloro che gli si avvicinano studiano que­ sti momenti con cura e, quando li scorgono, rimandano a tempi migliori, se possibile, i suoi ordini». Luigi XV, come molti altri, è affascinato dalla morte. Quando passa vicino ai cimiteri, invia qual­ cuno a contare le tombe più recenti. Il sovrano è in armonia con il suo secolo: con la sua apatia, egli incarna il concetto di noia. Il suo turbolento contemporaneo Voltaire incarna, invece, il versante inquieto. Infaticabile, sempre sulla breccia, egli reagisce a qualsiasi stimolo con una sorprendente capacità di indignazione e di denuncia; egli è l’uomo affaccendato che cerca di fuggire da se stesso per evitare la noia, ed è consapevole di questo quando scri­ ve a Madame Denis: Mais que ferai-je? Où fuir loin de moi-même? Il faut du monde; on le condamne, on l’aime:

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On ne peut vivre avec lui ni sans lui. Notre ennemi le plus grand, c’est l’ennui83.

Questo awersario di Pascal è l’illustrazione stessa dei Vernieri, nella sua vita, la quale è una fuga perpetua per evitare la noia, come nella sua opera, lunga variazione sul tema enunciato in Candido: l’uomo è «nato per vivere fra le agitazioni dell’inquietudine e nel letargo della noia», o ne Les Adorateurs ou la Louange de Dieu (1769): l’uomo è «continuamente in preda a due flagelli che gli ani­ mali ignorano: l’agitazione e la noia [...], le quali equivalgono alla scontentezza di sé». L’atteggiamento di Voltaire varia a seconda delle circostanze, ma è nettamente orientato verso il pessimismo. In un certo modo la sua vita e la sua opera sono un grande grido di indignazione contro la stupidità umana, contro le ingiustizie e i pregiudizi non sradicata­ li di questo animale sociale. L’intera storia non è che il racconto delle infelicità e delle atrocità dell’uomo; gli episodi si accumulano fino alla nausea. Solo la derisione permette di sopportare una consape­ volezza così acuta dell’umana infelicità. «Mi corico sempre nella spe­ ranza di potermi svegliare prendendomi gioco del genere umano», scrive. Voltaire ha conosciuto una fase ottimistica all’epoca del Mondain, negli anni ’30 del 1700, ma i lutti, i fallimenti, le delu­ sioni, in poche parole la vita, l’hanno convinto della vera natura del­ l’esistenza. Sin dal 1746 il suo ottimismo perde terreno, nell’opera Le monde comme il va\ «Se non tutto è bene, tutto è passabile». Nel 1748, in Zadig, egli scrive che gli uomini sono «insetti che si divo­ rano a vicenda su un piccolo atomo di melma». Il loro parente più vicino è la formica: «Siamo formiche che vengono continuamente schiacciate e che continuamente si rinnovano; e perché queste for­ miche ricostruiscano le loro case, e perché inventino qualcosa che assomigli a una polizia o a una morale, quanti secoli di barbarie ancora!». Queste formiche sono anche preda delle catastrofi natu­ rali: dopo il terremoto di Lisbona, «dovete sentire che il tutto è bene di Pope è solo uno scherzo che non è bene fare agli sventurati; ora, 83 Cosa farò? Dove fuggirò lontano da me stesso? / Il mondo è necessario; lo condanniamo, lo amiamo: / Non si può vivere né con lui né senza di lui / Il nostro nemico più grande è la noia.

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su cento uomini, ce ne sono almeno novanta che sono da commi­ serare. Tutto è bene non è quindi fatto per il genere umano». Non rimane che concludere, come ha fatto magistralmente Candido nel 1759: «Che cos’è quest’ottimismo? [...] è la maniera di sostenere che tutto va bene quando si sta male». Certo, possiamo sempre col­ tivare il nostro giardinetto aspettando la vecchiaia e la morte. Ma è certo poi che questo «allontana da noi tre mali: la noia, il vizio e il bisogno»? Fra i due mali, poi, bisogna scegliere il minore. La solu­ zione di Candido, scrive Robert Mauzi, «significa: accettiamo la noia per sfuggire l’angoscia. Perché è proprio la noia che troverà Candido nella sua fattoria, con la sua amata avvizzita e la sua governante orba. E non può che rassegnarvisi, ritornando al ricordo delle sue espe­ rienze passate, o abdicando a qualsiasi coscienza»84. Voltaire lascia i vari Candido locali a occuparsi dei giardini di Fernay ed egli stesso partecipa alle lotte del secolo. Gli scontri poli­ tici e giudiziari sono il suo divertissement, gli permettono di fuggi­ re la noia, vale a dire, secondo Pascal, la sensazione di tristezza. Ripetiamo che Pascal e Voltaire condividono profondamente lo stesso pessimismo. Il giovane Voltaire, quando nel 1728 scrive le Remarques sur les Pensées de M. Pascal, finge di non capire, ma è già d’accordo sul principio di base: gli uomini ricercano il divertisse- • ment, strumento della nostra felicità più che reazione alla nostra tri­ stezza; essi detestano l’inerzia e grazie a questo l’economia risulta pro­ sperosa. L’osservazione è identica, anche se differisce l’interpretazione: Pascal vi intravede un motivo di malinconia, Voltaire di soddisfazione, ma di una soddisfazione molto limitata. Per mostrare che l’uomo urbano è felice, Voltaire cita una lettera di uno dei suoi amici, che scrive: «Godo di una salute perfetta, ho tutto ciò che rende grade­ vole la vita, senza amore, senza avarizia, senza ambizione e senza invidia; e fino a quando tutto questo durerà avrò l’ardore di consi­ derarmi un uomo felice». Sin da quest’epoca, Voltaire sembra avere un’idea molto modesta della felicità, che, per come la intende lui, suona un po’ come una sorta di rassegnazione: Tutti gli uomini sono fatti, come gli animali e le piante, per crescere, per vivere per un certo tempo, per produrre loro simili e per morire. In una

84 R. M a u z i , L’idee du bonheur..., cit., p . 176

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satira si potrà anche mostrare il cattivo lato dell’uomo, ma appena ci si serve della ragione, si dovrà ammettere che di tutti gli animali l’uomo è il più perfetto, il più felice e il più longevo. Pertanto, invece che meravigliarci e lamentarci dell’infelicità e della brevità della vita, dobbiamo meravi­ gliarci e compiacerci della nostra felicità e della sua durata.

In seguito Voltaire si avvicina al pessimismo pascaliano, tranne che nella dimensione religiosa. Nel 1728 egli si prende gioco di Pascal, che vede «l’universo come una prigione e tutti gli uomini come criminali che saranno giustiziati», concezione non molto diversa dall’«assemblaggio orribile di criminali sfortunati», secon­ do la sua formula del 1769. E cosa dire di «questo globo che con­ tiene solo cadaveri», di «questo penoso sogno che è la vita», di questo «incubo perpetuo», che lo portano a scrivere nel 1753: «Desidero la morte»? Ovviamente Voltaire attraversa anche momenti felici, soprat­ tutto quando si trova a dover risollevare il morale dei suoi amici dalle allarmanti tendenze suicide. Quante volte ha dovuto conso­ lare la malinconica Madame du Deffand, una sorta di dovere di soli­ darietà fra condannati a morte: «Far sentir loro che non sono solo vittime della morte, che devono almeno consolarsi a vicenda», scri­ ve nel Précis du siècle de Louis XV. I pessimisti sono così: come se temessero di contaminare chi sta loro intorno, sono i primi a vie­ tar loro la disperazione, che tuttavia è la conseguenza della conce­ zione del mondo che li pervade.

La noia al femminile Madame du Deffand si trascina dietro una noia implacabile. L’amica dei filosofi, nonostante ami i circoli mondani, non arriva a colmare «il vuoto spaventoso» dell’esistenza e detesta la morte quanto la vita. Pochi hanno avuto la sensazione di essere presi in trappola come lei. Madame du Deffand, nella sua ricca corrispondenza con le gran­ di menti del secolo, mette in piazza il suo sentimento di noia: «La noia è un male da cui non ci si può liberare, è una malattia dell’animà con cui la natura ci affligge facendoci dono dell’esistenza; è il verme solitario che assorbe tutto e che non ci fa godere di nien­ 177

te», scrive a Horace Walpole. «Non potete immaginare cosa signi­ fichi pensare senza avere alcuna occupazione. Aggiungete a que­ sto un gusto difficile da soddisfare e un grande amore della verità, e posso affermare che sarebbe meglio non essere nata». E poi anco­ ra: «Ditemi perché, pur detestando la vita, continuo a temere la morte»85. Con Voltaire Madame du Deffand forma la coppia infer­ nale noia/inquietudine. A una delle sue lettere il filosofo risponde: «Mi comunicate che vi annoiate, io invece vi rispondo che mi viene rabbia. Ecco i due perni della vita, l’insipidezza o il vuoto». Penso, dunque soffro, dice in sostanza Madame du Deffand, cui, per vincere la noia, manca il senso della derisione, deH’umorismo. Al contrario la sua amica Madame de Choiseul non pensa affatto e sfoggia quindi una felicità insolente, animale. Fate come me, con­ siglia a Madame du Deffand, «vivete alla giornata, prendete la vita come viene, approfittate di tutti i momenti»; «quando si tratta di felicità, non bisogna cercare di capire né come né perché»; abbia­ te pregiudizi, è «il solo freno ai costumi»; accettate i luoghi comu­ ni, smettete di riflettere e sarete felice come me: «Senza sapere né come né perché, io sono felice, molto felice». Vale a dire: vivete da idioti e sarete felici; riflettete e sarete infelici. Ma non c’è idiota che tenga: una volta che si inizia a pensare, non si può tornare indie- . tro. Il mal di vivere degli intellettuali del XVIII secolo è una malat­ tia inseparabile dal progresso del pensiero. Man mano che Dio si allontana e diventa più impercettibile, più incerto, i filosofi pren­ dono consapevolezza della vera tragedia che è l’esistenza. Il mal di vivere del XVIII secolo si è esteso anche alle donne. Nel secolo dei Lumi la donna, nella ristretta cerchia dell’élite, può finalmente pensare da sola, scoprendo quindi l’inquietudine che esprime con la sua tipica sensibilità, spesso più fine di quella degli uomini, i quali hanno peraltro ben recepito il pessimismo femmi­ nile di questo secolo, come testimoniano le eroine della letteratu­ ra, quelle dell’abate Prévost come anche quelle di Rousseau. Mademoiselle de Lespinasse non scrive forse: «Io avrei dovuto figurare solo nei romanzi di Prévost»? In altre occasioni si para­ gona a Fedro e, come Madame du Deffand, si sente in trappola:

85 Sulla noia di Madame du Deffand, si veda M. HuGUET, llennui et ses discours, PUF, Parigi 1984.

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«La morte è il bisogno più pressante della mia anima e io mi sento incatenata alla vita»86. Ossessionata dalla sua passione, esclusiva, ella si rinchiude nella sua vocazione all’infelicità: «Sono stata for­ mata dal grande maestro dell’uomo, l’infelicità»87. In Madame Rolland, nata nel 1754, il risveglio della malinconia è precoce. Ha infatti solo diciassette anni, l’età dei vari Chatterton e Werther, quando scrive: La dolce malinconia che difendo non è mai triste, essa non è che una variazione del piacere, di cui prende tutto il fascino. Simili alle nuvole dora­ te che abbelliscono un sole al tramonto, i vapori leggeri della malinconia intercettano i raggi del piacere [...], è una moderazione salutare della vivacità della gioia; la addolcisce, la rende più penetrante e più duratura [...]. Essa conferisce una qualche sfumatura di grandiosità e meraviglia a una prospettiva selvaggia, a una foresta solitaria88.

Altra celebre vittima della noia è Madame de Staël. Nata nel 1766, ha solo otto anni quando viene pubblicato Werther, ma si avvi­ cina ben presto alla «riflessione inquieta» grazie a un padre e a una madre malinconici89. Il lungo soggiorno in esilio a Coppet aggra­ va il suo spleen: «Mi annoio qui», scrive al suo amante del momen­ to; «sono sempre stata molto portata alla noia»90. E ancora: «Mi annoio, amo fortemente mio padre, ma è un culto, e in chiesa si sbadiglia»91. L’anziano Necker è un vecchio imbronciato che non accetta di buon grado la propria vecchiaia. Scrive sua figlia: «Non sopportava di essere vecchio e grasso; la sua stazza, che era dive­ nuta molto grossa e che gli rendeva difficili i movimenti, gli cau­ sava un sentimento di timidezza che lo allontanava dal mondo. Non saliva quasi mai in carrozza: non passeggiava mai quando sapeva di poter essere visto [...]. A volte mi diceva: “Non so per­ ché mi sento umiliato dalle infermità dell’età, ma cosa posso farci, 86 J. DE LESINASSE, Lettres de Mademoiselle de Lesinasse, Parigi 1811, p. 60. 87 Ivi, p. 91. 88 M a d a m e R o l l a n d , De la mélancolie, 1771. 89 J.-D. BREDIN, Une singulière famille, Jacques Necker, Suzanne Necker et Germaine de Staël, Fayard, Parigi 1999. 90 G.N. DE S t a ë L-H o l s t e i n , Dix années d’exil, a cura di S. Balayé e M.-V. Bonifacio, Fayard, Parigi 1996, p. 313. 91 Ibidem, lettera a suo marito del 5 febbraio 1796.

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sento che lo sono”» 92. Da parte sua, la signora Necker aveva spes­ so parlato del decadimento provocato dalla vecchiaia, che degra­ da sia il corpo che lo spirito, e Madame de Staël è stata visibilmente traumatizzata da questi due esempi. Ella infatti non accetta alcun tipo di osservazione sull’anzianità del padre: «Un giorno qualcuno le disse che il signor Necker era invecchiato, [...] ed ella rispose che avrebbe considerato suo più grande nemico chi avesse osato ripetere simili parole». Madame de Staël ha nutrito la sua malinconia con le letture di Rousseau, il cui fantasma abita luoghi molto vicini, l’isola di SaintPierre si trova infatti nel vicino lago di Bienne. Ella è una creatu­ ra ipersensibile: «I suoi occhi si riempivano di lacrime alla minima parola severa o sensibile, e si potevano scorgere i battiti del suo cuore sotto gli abiti al minimo moto di piacere o di pena»93. Nel 1790, a ventiquattro anni, delinea pressappoco il suo autoritratto nel Portrait de Mêlante, una giovane donna malinconica il cui «cuore avvizzisce, la vita perde colore». La malinconia, «ingrediente della tristezza», è causata dal sentimento doloroso di incompletezza del destino dell’uomo. Ritrovando l’intuizione del Problema XXX, Madame de Staël la erge a emblema del talento: «Nell’epoca in cui viviamo, la malinconia è la vera e propria ispirazione del talento: chi non si sente invaso da questo sentimento non può aspirare a una grande gloria come scrittore». Questa grande malinconica è anche la prima donna ad avere scritto sul suicidio94. Nel 1796, a trent’anni, ne LUnfluenza delle pas­ sioni sulla felicità, Madame de Staël distingue tre tipi principali di morte volontaria. Il suicidio d’amore è, ai suoi occhi, il più facil­ mente comprensibile, poiché «è la morte meno temibile di tutte: come sopravvivere all’oggetto che ci ha amato?». Il suicidio filo­ sofico, più raro, presuppone «riflessioni profonde, lunghi lavori su se stessi». Solo anime d’élite, in grado di analizzare serenamente la

92 G.N. DE STAËL-HOLSTEIN, D u caractère de Monsieur Necker et de sa vie privée, in J. N e c k e r , Manuscrits, a cu ra di G.N. de Staël-H olstein , G in evra, anno VIII, p. 122. 93 B. d e A n d l a u , La jeunesse de Madame de Staël de 1766 à 1786, Droz, Ginevra 1970, p. 115. 94 M. OzoUF, Germaine ou l’inquiétude, in Les Mots des femmes. Essai sur la singularité française, Fayard, Parigi 1995.

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vita umana, possono arrivare a questo autentico disgusto per resi­ stenza. Il terzo caso riguarda il colpevole, per il quale il suicidio è un inizio di riscatto, poiché questa «sublime risorsa» non è alla portata del miserabile assoluto. «C ’è qualcosa di sensibile o di filo­ sofico nell’uccidersi che è completamente sconosciuto all’essere umano depravato». Diciassette anni dopo, Madame de Staël ritorna su questa materia in un piccolo trattato intitolato Réflexions sur le suicide, dove ne contempla gli aspetti psicologici e persino sociolo­ gici: gli inglesi si uccidono per impulsività e per senso dell’onore, i tedeschi per «entusiasmo metafisico», i francesi per ardimento. Molte sono le ragioni avanzate per spiegare il malessere fem­ minile di quest’epoca, comprese le cause fisiche: la moda, che chiu­ de la donna in una corazza; le stecche di balena e i lacci stretti che la opprimono; l’uso di creme e di fondotinta a base di prodotti peri­ colosi per la pelle e i polmoni (bismuto, cerussa, cinabro, zolfo, minio, piombo, mercurio); l’impiego di profumi aggressivi; il con­ sumo smodato di caffè, di liquori e di cibi acidi. Mal di testa, vapo­ ri, malattie nervose sarebbero in parte legate a queste abitudini nocive. E poi c’è lo stile di vita: bisogna apparire, brillare nei salo­ ni, avere degli amanti. A immagine di Madame de Pompadour e delle concubine reali, la donna partecipa al gioco del potere e degli intrighi, e ne paga così le spese: «Il gioco incessante di tutte le facoltà, l’ambizione, la gelosia, la guerra delle rivalità, l’eccitazio­ ne dello spirito, dell’amabilità, il lavoro della grazia, le delusioni, le mortificazioni, le vanità che logorano, le passioni che bruciano, quale altra febbre per minare e far vacillare il delicato organismo della donna!»95. Queste righe sono dei fratelli Goncourt che, nel 1882, nel loro studio sulla Donna nel Settecento, hanno finemente tratteggiato «l’anima femminile» di quest’epoca, divorata dall’in­ quietudine e soprattutto dalla noia: La sua vivacità, la sua affettazione, la sua sollecitudine nelle fantasie, sem­ brano un’inquietudine; e l’impazienza di un malessere appare in questa continua ricerca del gradimento, in questo famoso appetito per il piace­ re. La donna si prodiga in ogni direzione come se volesse uscire fuori da

95 E. e J. DE GONCOURT, La femme au XVIIIe siècle, Flammarion, Parigi 1982, p. 321; trad. it., La donna nel Settecento, Feltrinelli, Milano 1983.

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se stessa [...]. Tuttavia finisce sempre per fermare il suo slancio: si ritro­ va a voler fuggire, e sussurra a se stessa la sofferenza che la logora. Riconosce il male segreto che ha dentro, il male incurabile che questo secolo porta con sé e che trascina ovunque sorridendo: la noia [...]. Più dell’uomo, per l’esigenza dei suoi istinti, per la finezza della sua sensibi­ lità morale, per il capriccio di tutto il suo essere, la donna doveva soffri­ re molto di questo malessere del secolo [...]. Ella si getta nelle letture, divora la storia, i romanzi, i racconti del giorno, e la noia le chiude il libro fra le dita [...]. Corrispondenze, memorie, confessioni, tutti i documen­ ti, tutte le rivelazioni familiari del tempo tradiscono e testimoniano que­ sto malessere interiore delle donne. Non v’è sfogo, non v’è lettera in cui il lamento della noia non ritorni come un ritornello, come un gemito [...]. La noia, per le donne dell’epoca, è il grande male, è, come esse stesse dico­ no, «il nemico» [...]. Le più corteggiate, le più circondate lanciano grida di disgusto simili a quelle del morente che gira la testa contro il muro: «Tutti i vivi mi annoiano! La vita mi annoia!»96.

A partire dagli anni ’60 del 1700, le donne ergono a proprio idolo Jean-Jacques Rousseau. La spiccata sensibilità di questo autore, la sua tenerezza, la sua propensione per i sogni a occhi aperti e per l’amore, la sua inclinazione per la natura e la solitudine ridanno un senso alla loro vita. Come i Goncourt fanno nuovamente notare, Voltaire è stato lo scrittore degli uomini, Rousseau quello delle donne. Questo timido ammaliatore è stato un gran Don Giovanni sentimentale, un Casanova della tenerezza, il più grande seduttore del suo secolo e ha trascinato stuoli di donne nella malinconia romantica. Secondo Madame de Genlis, una delle sue più ferven­ ti ammiratrici, «non esisteva donna veramente sensibile che non avesse avuto bisogno di una virtù superiore per non consacrare la propria vita a Rousseau, se solo avesse potuto avere la certezza ch’egli l’avrebbe amata appassionatamente».

Boswell e Johnson: il dialogo di due depressi Due britannici in particolare incarnano questo clima culturale e permettono, grazie ai documenti autobiografici, alle memorie e alla voluminosa corrispondenza che hanno lasciato, di disquisire 96 E. e J. D e G o n c o u r t , La femme..., cit.

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sulle varie componenti e modalità: si tratta del dottor Samuel Johnson, celebre autore del Dizionario, e soprattutto del suo bio­ grafo, James Boswell. Questi è un curioso e affascinante perso­ naggio, inquieto, egoista, caratterizzato da un orgoglio puerile («sono chiaramente un genio e merito che la gente si interessi a me»), ubriacone e soprattutto profondamente depresso. Nato a Edimburgo nel 1740, egli lascia alla sua morte un imponente dia­ rio personale in cui racconta senza il minimo pudore gli episodi della sua vita dal 1762, segno evidente di uno spirito malinconico, inte­ ramente autocentrico. Si tratta di un documento eccezionale: que­ sto personaggio di secondo piano si è infatti introdotto senza com­ plessi di sorta al cospetto di una moltitudine di personalità, da Giorgio III a William Pitt, da David Hume ad Adam Smith, da Voltaire a Rousseau, da Samuel Johnson a Joshua Reynolds, tra­ scinando la sua malinconia per tutta Europa. Boswell ha seri precedenti familiari: un nonno, due zii e una madre, tutti depressi. La sua educazione di base è traumatizzante: il calvinismo terroristico dei genitori, lo sguardo inquisitore di un padre che non lascia mai il suo lavoro di giudice, un precettore seve­ ro e dogmatico, ed ecco la prima crisi depressiva all’età di dodici anni. Durante l’adolescenza egli è ossessionato dalla paura della dan­ nazione a causa del conflitto tra la sua sessualità e il rigore delle credenze calviniste. La questione del libero arbitrio e della neces­ sità lo logora e scatena la sua seconda crisi a sedici anni. Egli divie­ ne quindi metodista, poi cattolico, scelta che gli costa la rottura dei rapporti con suo padre. Per tutta la vita sarà dilaniato fra i bisogni sessuali, che lo condurranno alla depravazione, e il rimorso persi­ stente suscitato dal puritanesimo dell’educazione ricevuta. Nel 1762, divenuto avvocato, si trasferisce a Londra e inizia a frequentare le celebrità, fra cui l’attore Garrick. Poi incontra Samuel Johnson che, all’epoca, ha cinquantaquattro anni. Brutto, burbe­ ro, pieno di disprezzo per gli scozzesi, egli è un uomo dai giudizi perentori e tuttavia dall’intelligenza superiore, seppur priva di qual­ siasi considerazione per i suoi simili. Ma dietro la sua facciata fasti­ diosa, questo «orso» nasconde una profonda malinconia, di cui ha subito i primi attacchi a vent’anni. Boswell, che soffre della stessa afflizione, gli dedicherà una biografia in cui scrive: «Samuel Johnson, che era dotato di tutti i poteri del genio e dell’intelligen­ za assai oltre il livello medio della natura umana, era contempora183

neamente afflitto da un disturbo così terribile che coloro che hanno avuto la triste esperienza non invidieranno i suoi doni superiori. In un certo qual modo, sembra molto probabile che ciò sia dovuto a un difetto del nostro sistema nervoso, parte oscura della nostra costituzione»97. Ritroviamo qui il legame fra genio e malinconia. Boswell aggiunge che Johnson «si sentiva invaso da un’orribile ipo­ condria, perpetuamente irritato, agitato, impaziente, con un fasti­ dio, una tristezza e una disperazione che gli rendevano miserevo­ le l’esistenza». Boswell intrattiene spesso Johnson con discorsi sulla sua malin­ conia. Durante un dialogo, parlando della costituzione malinconica [Johnson] osserva: «Un uomo che ne venga colpito, signore, deve evitare i pensieri deprimenti, e non affrontarli di petto. Boswell: - Non deve quindi affrontarli, signore? Johnson: - No, signore. Affrontarli sarebbe follia pura. Egli deve tene­ re una lampada sempre accesa di notte nella sua camera e, se soffre di un’in­ sonnia irrequieta, deve prendere un libro e leggere, e quindi acquietarsi. Dirigere il proprio spirito è una grande arte, che si padroneggia solo con un alto grado di esperienza e di esercizio Boswell: - Ma non dovrebbe forse distrarsi? Non gli farebbe bene, ad esempio, seguire un corso di chimica? Johnson: - Che segua un corso di chimica o un corso di salto con la corda, o qualunque altro corso gli interessi. Che si sforzi di avere quanti più rifugi possibili per la sua mente, quante più cose possibili in cui possa fuggire da se stesso. L’Anatomia della malinconia di Burton è un buon libro, anche se forse eccede in citazioni. Ma c’è molto spirito e molta forza in ciò che dice quando esprime il suo pensiero personale»98.

Curate dunque il male con il male: quando siete malinconici, leg­ gete libri sulla malinconia. Johnson pensa che tutti siano più o meno malinconici. Coloro che hanno un carattere equilibrato sono rari e felici, come il pittore Reynolds: «Parlando della malinconia, disse: “Alcuni, peraltro uomini di alta levatura intellettuale, non hanno questi pensieri dolorosi. Sir Joshua Reynolds non ha sbalzi 97J. B oswell , The Life o f Samuel Johnson, Londra 1924, 3 voli., t. I, p. 30; trad. it., Vita di Samuel Johnson, Garzanti, Milano 1954. 98 Ivi, t. IL 184

d’umore lungo tutto il corso dell’anno [...]. Ma credo che la mag­ gior parte delle persone ne siano colpite a seconda delle loro capa­ cità. Se vivessi in campagna e soffrissi di questa malattia, mi sfor­ zerei di prendere in mano un libro; e ogni volta ne troverei di migliori. In verità, bisogna allontanare la malinconia con tutti i mezzi, eccetto 1’alcol”» 99. Johnson riesce a superare la propria malinconia con un accani­ to lavoro: scrivere un dizionario è un antidepressivo meraviglioso; se non si diventa pazzi, si guarisce. Ma Boswell si dà sempre di più al bere e il dottore, che teme l’insorgenza della follia, gli consiglia di impegnare la mente: «L’occupazione, signore, e le privazioni, impediscono l’insorgenza della malinconia. Credo che, in tutto il nostro esercito in America, non un solo uomo diventi pazzo»100. Boswell cita il caso di un commerciante che, ritiratosi dagli affari, precipita nella malinconia a causa della noia. Egli accoglie le sof­ ferenze della malattia dell’infelicità come un sollievo, rispondendo così a qualcuno che lo compativa: «No, no signore, non mi com­ patite: ciò che sento ora è il benessere, rispetto alla tortura dello spirito da cui mi sono sollevato». Johnson tenta di scuotere il suo giovane amico che parla conti­ nuamente della sua malinconia, e nel 1776 gli scrive: «Leggete La malattia inglese di Cheyne, ma non lasciatevi influenzare da que­ sta folle idea che la malinconia sia prova di lungimiranza. Sono molto deluso nel sapere che non avete aperto le vostre scatole di libri. Lo studio e la classificazione di tanti volumi vi avrebbero pro­ curato una distrazione che in queste circostanze sarebbe stata la ben­ venuta, oltre che utile per tutta la vostra vita. Confesso che sono assai in collera nel vedere che vi organizzate così male»101. L’8 mag­ gio 1780, esasperato, scrive ancora: «Vi lamentate sempre della malinconia, e da tali lamenti devo concludere che l’amate. Nessuno parla di ciò che vuole nascondere, e tutti vogliono nascondere ciò di cui hanno vergogna. Non negatelo; manifestum habemus furem\ imponetevi la regola invariabile e obbligatoria di non fare mai men­ zione delle vostre malattie mentali. Se non ne parlerete mai, ci pen­

99J.

B oswell , The Life..., cit. 100 Ibidem. 101 Ibidem.

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serete poco, e se ci penserete poco, vi disturberanno raramente. Quando ne parlate è chiaro che cercate delle lodi, o della pietà; ma non c’è posto per le lodi, e la pietà non vi sarà di alcun beneficio. Quindi, a partire da ora, non parlatene e non pensateci più»102.

l ì internazionale della malinconia Boswell è un depresso incurabile. Nel frattempo, nel 1763, intra­ prende un viaggio in Europa per chiarirsi le idee. Tuttavia sarà un giro nell’Europa malinconica, durante il quale incontrerà tutti i grandi depressi dell’epoca e scambierà impressioni sul mal di vive­ re. Nel racconto del suo viaggio distinguiamo una sorta di inter­ nazionale della malinconia, un clima di malessere ampiamente dif­ fuso negli ambienti intellettuali. Il viaggio inizia in Olanda, dove Boswell intraprende alcuni studi giuridici e subisce un grave attacco di ipocondria, durante il quale teme di diventare pazzo. Il secondo attacco esplode quando gli viene comu­ nicata la morte del figlio naturale che aveva avuto da una serva e che non aveva mai visto. Si sposta poi in Prussia. A Brunswick incontra l’abate Jérusalem, che lo mette a parte delle sue tentazioni suicide: si tratta del padre di Karl Wilhelm Jerusalem, che si suiciderà nel 1772, ispirando Goethe per il suo Werther. Boswell raccoglie anche la sto­ ria di Gualteri, un nevrastenico che si getta dalla finestra durante un pasto con un principe ereditario, e quella di un ministro francese ipo­ condriaco che ogni notte si faceva legare al letto perché aveva paura di suicidarsi. A Lipsia incontra il poeta Christian Gellert, che crede di morire ogni notte da vent’anni; a Cassel incontra il «grande ipo­ condriaco» Landgrave. Le lettere che scrive a Johnson esprimono i suoi timori di una ricaduta depressiva, timori accresciuti dalle osser­ vazioni dei suoi interlocutori: «Fate attenzione, rischiate di diventa­ re ipocondriaco! Bevete molta acqua e fate dell’esercizio fisico», gli consiglia Madame Kircheisen; «Avete una tendenza alla malinconia che vi rende molto instabile», osserva Madame de Froment, che insi­ ste: «Dovete essere davvero malato per avere pensieri simili!»; «Fate attenzione agli incubi», lo ammonisce il generale Wylich.

102J. 186

B oswell , The Life ..., cit.

Dopo la Prussia, Boswell si reca in Svizzera. Qui, a pochi chi­ lometri l’uno dall’altro, vivono i due grandi maestri del pensiero europeo, Voltaire e Rousseau. Boswell è alla ricerca di un’autorità intellettuale e morale, di un direttore spirituale, di un padre sosti­ tutivo che sia in grado di guidarlo, di rassicurarlo, di indicargli la strada. Perché il mal di vivere significa non trovare il senso della vita. Forse il grande Jean-Jacques ha la risposta? Avvicinandosi a Mòtiers, Boswell inizia a sentirsi agitato e «splenetico». Egli si pre­ para al colloquio con una vera e propria ascesi: giura che non toc­ cherà più una sola donna prima di aver visto Rousseau, vale a dire per tre giorni, forse quattro. Il filosofo ha cinquantadue anni ed è fisicamente mal ridotto; Thérèse Le Vasseur, che gli ha dato cin­ que figli, tutti finiti all’ospizio di Parigi, veglia su di lui. Nonostante la stanchezza, egli accorda comunque cinque colloqui, calcolati al minuto, al giovane scozzese, che gliene è riconoscente: «Mi avete dimostrato molta bontà, che peraltro merito». Boswell, che si pre­ senta a Rousseau come visitatore, gli fa dono di una breve autobiografia in cui delinea le cause della sua malinconia e si definisce un Eros ipocondriaco: ereditarietà, inquietudine religiosa aggrava­ ta dal calvinismo familiare, che entra in conflitto con i suoi forti bisogni sessuali. Egli ha preparato una lista di domande e di temi di conversazione: «suicidio; ipocondria, male reale; follia eredita­ ria; gesti estremi; le vostre argomentazioni». Egli chiede persino al filosofo se riuscirebbe ad avere trenta donne alla volta, seguendo l’esempio dei suoi patriarchi. Rousseau fa la sua parte, è prodigo di consigli. Boswell, così pieno di sé, gli confessa candidamente il suo sgomento: «Mi considero continuamente un essere miserabi­ le, un buono a nulla che dovrebbe sopprimersi». Tuttavia resto in vita: «E ciò che ognuno di noi non può trattenersi dal fare», rispon­ de Rousseau divertito103. Qualche giorno dopo, Boswell si reca a Femay, dove riesce a ottenere diversi colloqui con Voltaire. Si parla molto di Shakespeare, che Voltaire detesta, e dell’Essere supremo, che invece venera. Il filosofo è sempre uguale a se stesso, sarcastico e affascinante, cosa che perlomeno distrae Boswell. Egli è al settimo cielo: «Sono pro­

103 C.H. K ullman , Boswell interviews Rousseau: A Theatrical Production, «The South Carolina Review», 21, n. 2, 1989, pp. 30-45.

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prio un personaggio sorprendente! Vengo accolto ovunque dal plauso e dal consenso di tutti, e le personalità più eminenti mi riser­ vano l’accoglienza migliore. E per quale motivo poi? Non sono né un grande erudito né un uomo dal giudizio sovrano. Ma il mio animo è nobile e ciò traspare in tutto ciò che dico o faccio. Ho fan­ tasia, umorismo e una buona conoscenza della natura umana»104. Ecco un esempio del toccante egocentrismo del malinconico. Da Fernay Boswell arriva in Italia: Torino, Parma, Modena, Roma, dove incontra varie celebrità: il naturalista Needham, il filo­ sofo Condillac. Poi, sempre mosso dalla sua malinconia, eccolo in Corsica, dove stringe amicizia con Paoli. Ovunque si fermi, la sua curiosità morbosa lo spinge a visitare le prigioni per andare a tro­ vare i condannati a morte, o assistere alle esecuzioni. Egli interro­ ga i malcapitati, vuole sapere ciò che provano prima d morire e cerca di leggere gli stati d’animo sui loro volti. «Provo un impulso irre­ sistibile a essere presente a ogni esecuzione, perché così posso osservare i diversi effetti dell’approccio della morte sugli infelici con­ dannati, in funzione dei loro diversi comportamenti. E studiando­ ne gli atteggiamenti, imparo a placare e a fortificare la mia anima»105. Boswell rientra dal suo viaggio con un accresciuto bagaglio di esperienze in svariati campi. Egli incontra a Londra Benjamin Franklin e William Pitt, ritrova Paoli esiliato, poi si reca in Irlanda per un breve soggiorno e ritorna a Edimburgo, dove inizia a eser­ citare la professione di avvocato. Nel 1769 sposa sua cugina Margaret Montgomery. La poverina non sa cosa l’aspetta. I primi due anni trascorrono felici, in questo lasso di tempo Boswell smet­ te di tenere il suo diario privato, cosa significativa come sottolinea il suo recente biografo Maurice Lévy: «Il diario è uno strumento contro la depressione, il mezzo per esteriorizzare o tenere lontani i demoni intimi: un’arma per i momenti di crisi o di ipocondria»106. Poi inizia la discesa negli inferi. Boswell cade nuovamente in depressione: alcol, donne, violenze, noia, gioco, angosce metafisi­ che. Estremamente consapevole del suo decadimento, egli ne descri­

104 Citato da M. LÉVY, Boswell, un libertin mélancolique: sa vie, ses voyages, ses amours et ses opinions, EL LU G , Grenoble 2001, p. 102. 105 Ivi, p. 265. 106 Ivi, p. 180.

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ve le tappe nel suo diario. Nel 1774 suo fratello diventa pazzo; Boswell teme che lo stesso male incomba su di lui e affoga la sua «malinconia nera» nell’alcol. Egli alterna i soggiorni a Londra, dove conduce una vita dissoluta, con quelli a Edimburgo, dove muore di noia. I suoi scrupoli religiosi sono sempre ben presenti, così come lo è anche l’ossessione della morte: quando uno dei suoi clienti, John Reid, viene condannato a morte, ebbene, egli fa ese­ guire il suo ritratto in prigione da un pittore scozzese al fine di con­ servare i tratti di un uomo che sta per morire. Mentre l’artista lavo­ ra, Boswell intrattiene il condannato sulla sua imminente esecuzione. Egli annota sul suo diario: «Volevo che il ritratto fosse eseguito men­ tre incombeva su di lui la minaccia della pena capitale. Se dovesse essere graziato, non dovrebbe esserne informato prima che il qua­ dro sia terminato»107. Egli non perde mai occasione per interrogare coloro che stanno per morire, a questo riguardo ne ha giusto uno illustre a due passi da casa sua: si tratta di David Hume, un ateo dei più convinti. Il 7 luglio 1776, Boswell lo va a trovare e lo subissa di domande: - «Vicino alla morte, continuate a negare qualunque tipo di vita futura? - Certo... L’idea che possiamo esistere per sempre mi sembra del tutto irragionevole. - Il pensiero del nulla vi spaventa? - Per niente: il nulla dopo la morte non è più spaventoso di quel­ lo che precede la nascita». Boswell vacilla: «Non ho potuto fare a meno di sentirmi assali­ to da dubbi estemporanei davanti allo spettacolo di un uomo così eminente, così colto, che accettava l’idea del nulla»108. Allo stesso modo importunerà il vecchio Johnson morente e un vicino ottantaseienne, Lord Kames. Boswell è in attesa di rivelazioni, pone ansiosamente le domande più insidiose, spia i volti; vorreb­ be che i morenti confessassero il proprio terrore, e quasi scanda­ lizzato dalla loro calma, osserva indispettito a proposito di Lord 107 M. L éVY, Boswell..., cit., p. 221. 108 R.B. S chwartz, Boswell and Hume: The Deathbed Interview, in New Tight on Boswell: Criticai and Historical Essays on thè Occasion ofthe Bicentenary of thè Life o f Johnson, a cura di Greg Clingham, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 16-25.

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Kames: «Nulla che ispirasse il rispetto, nulla di edificante, nessun pensiero pio, nulla di solenne in questo vecchio giunto alla fine della sua vita!». Quando tocca a suo padre nel 1782, viene colto dalla stessa sorpresa. Nella malinconia di Boswell ci sono tutte le domande dei filo­ sofi: «Perché esisto? Perché questo mondo è stato creato?»; per­ ché la morte, la sofferenza? Tutto è vano, qual è il significato del tutto? Questi interrogativi lo torturano, egli cerca risposte nelle letture, in particolare in Fénelon e Bourdaloue, e si reca ad ascol­ tare i sermoni in varie chiese: egli va dai presbiteriani, dagli angli­ cani, dai glasiti (setta scozzese di John Glas), e persino dai cattoli­ ci, nella cappella portoghese di Edimburgo. Tutte queste campane contraddittorie non fanno che accrescere la sua confusione. Nel 1781 pensa al suicidio, mentre le sue ossessioni proseguono nei sogni. Dice di essere «lugubremente triste», «in una specie di dispe­ razione», «tristemente depresso», «di umore funebre». Visita poi la prigione di Newgate, studia il volto degli impiccati. Dal 1777 al 1783, Boswell trova un modo per esorcizzare la malinconia, almeno in una certa misura: egli pubblica una crona­ ca dedicata ai suoi argomenti preferiti, la morte, l’angoscia, il bere, la verità, nel «London Magazine», sotto lo pseudonimo de «L’Ipocondriaco». In questa rubrica riversa i suoi interrogativi, dà consigli a coloro che soffrono di questa depressione dello spirito, che egli descrive da vero intenditore: stato di apatia, irrisolutezza, incapacità di prendere una decisione persino nei campi più insi­ gnificanti, disprezzo per se stessi, pensieri cupi, pessimismo, fan­ tasie funebri, irritabilità, crisi d ’angoscia. Sin dal suo primo articolo si riferisce naturalmente ad Amleto, il cui comportamento riflette questi sintomi, e ammette che scrivere gli procura sollievo. Il suo iter ricorda quello del suo malinconico predecessore Robert Burton, che scriveva, anche lui, per guarirsi. Nella ricerca di tutti i rimedi possibili, si rivela essere estremamente contraddittorio: egli infatti raccomanda la pratica religiosa, ma anche quella dei piaceri terre­ stri, a suo avviso prefigurazione dei piaceri celesti: il vino e le donne. Nel 1786, dopo molte esitazioni, Boswell si trasferisce a Londra con la sua famiglia, ricadendo nell’ipocondria, nell’alcolismo e nella dissolutezza. La sua sposa deperisce; nel suo diario Boswell si ana­ lizza lucidamente, dilaniato da un lato dai rimorsi e, dall’altro, dal bisogno di giustificarsi: «Mia moglie sta molto male ed è molto 190

depressa [...], sono turbato, nel mio intimo, da questa ricerca sfre­ nata del piacere che mi ha fatto lasciare una sposa precipitata nello sconforto, proprio lei che non mi avrebbe mai abbandonato, nem­ meno nella minima indisposizione [...]. In verità sono convinto di avere fatto bene: poiché ho aggiunto al mio bagaglio alcune espe­ rienze gradevoli, che più avanti diventeranno ricordi felici; se fossi rimasto a casa, mi sarei tormentato e avrei fatto più male che bene a mia moglie». La sua povera moglie muore il 4 giugno 1789. Sommerso dai problemi finanziari, Boswell si mette al servizio di Lord Lonsdale, che lo usa per i compiti subalterni più umilian­ ti. Gli resta un’ultima ragione per vivere: ha iniziato a scrivere La vita di Samuel ]ohnson. Ma ecco arrivare la nuova disillusione: Sir John Hawkins ne pubblica una giusto pochi mesi prima della sua. Immensa frustrazione per uno scrittore, soprattutto per un bio­ grafo: l’opera di Hawkins non è ben fatta, ma per il grande pub­ blico un Johnson è un Johnson, perché scriverne un secondo? Boswell pubblica comunque la sua voluminosa opera (millecento pagine in quarto) nel 1791. Il libro è avvincente, commovente, molto poco convenzionale. Quando un malinconico, arrivato quasi alla fase terminale della disperazione, racconta la vita di un altro malinconico, le due vite si confondono. La biografia è al contem­ po autobiografia e ci racconta sia di Boswell che di Johnson. Il suc­ cesso dell’opera è anche dovuto al fatto che si trova in linea con questo XVIII secolo che volge al termine e che vede sorgere il sole nero della malinconia romantica. Dopo lunghi anni di lavoro dedicati a questa enorme opera, Boswell si ritrova di fronte a un vuoto spaventoso. Riecco affiora­ re il triste dilemma: alle sofferenze della scrittura segue la temibi­ le noia del riposo. Boswell non ha più alcuno scopo nella vita. Scrive: «Finito, finito, il sogno è finito. Le ingannevoli illusioni della vita sono finite», e al suo amico Malone: «Se solo potessi avere un obiettivo nella vita!». Nell’autunno del 1792, in questa sta­ gione lugubre, il suo diario diventa una litania disperata: «Nessuna voglia di vivere [...], depresso e nervoso [...], non sono più me stes­ so [...], tristemente abbattuto [...], il ghiaccio ipocondriaco con­ tinua a non sciogliersi [...], di umore lugubre e iroso [...], dispe­ razione e ozio...»109. Boswell si trascina fino al 1795. 109 M. L évy , Boswell..., cit., p. 372.

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La vita patetica di questo personaggio illustra l’inquietudine delle élite nel secolo dei Lumi. Boswell spinge fino alla patologia il mal di vivere di un’epoca che si nutre del vuoto creato dal dub­ bio religioso. Immerso in un mondo vitaiolo e decadente, egli è tor­ mentato fino alla fine dagli scrupoli legati alla sua educazione cal­ vinista. Combattuto fra due paradisi, quello promesso dalla religione nell’aldilà e quello offerto dai piaceri terrestri, egli non ha cono­ sciuto che l’inferno. Il godimento dei piaceri terrestri è annientato dal pensiero dei piaceri celesti che forse si sta perdendo. Il mal di vivere dei Lumi è quello delle epoche di transizione, in cui lo spi­ rito esita fra due sistemi di valori: la vecchia religione non è morta, poiché continua ad assillare le coscienze, mentre le promesse della ragione si fanno sempre più concrete. Fluttuante e irrisolto, lo spi­ rito ha una sola certezza: il tempo passa, non utilizzato, sprecato, perduto fra inquietudine e noia.

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C a p ito lo settim o

II male del secolo romantico: dal furore di vivere allo sp le e n (X IX secolo)

Nel 1836, nelle Confessioni di un figlio del secolo, il ventisettenne Alfred de Musset tenta di definire il malessere della sua generazione. Egli lo chiama «male del secolo» e lo presenta come l’immensa disillusione di tutti i giovani nati, come lui, fra il 1800 e il 1810, che hanno avuto un’infanzia cullata nell’eco dell’epoca napoleonica e che si ritrovano ora sotto la cappa di piombo della Santa Alleanza: «Appena apparve nel cielo l’astro algido della ragione, e i suoi raggi, simili a quelli della fredda dea delle notti che riversa luce priva di calore, avvilupparono il mondo in un sudario livido [...], una sen­ sazione di malessere inesprimibile iniziò a fermentare in tutti i gio­ vani cuori».

La noia dei giovani I giovani si annoiano: è stata loro sottratta ogni prospettiva esal­ tante, ogni sogno politico di grandezza. Dal 1815 svaniscono le speranze, o le illusioni, di libertà, di uguaglianza e di fraternità. Ritornano i vecchi, e con loro l’antico ordine viene restaurato. Che fare dunque, se non rinchiudersi in se stessi, esplorare il proprio mondo interiore, coltivare i sentimenti leggendo gli scritti prero­ mantici? La generazione precedente ha preparato il terreno: Goethe, nato nel 1749; Chateaubriand, cui la madre «inflisse la vita» nel 1768; Senancour, venuto in questo triste mondo nel 1770; Kleist, strappato al nulla nel 1777, e tutta la schiera degli inglesi malinco193

Capitolo settimo II male del secolo romantico: dal furore di vivere allo spleen (X IX secolo)

Nel 1836, nelle Confessioni di un figlio del secolo, il ventisettenne Alfred de Musset tenta di definire il malessere della sua generazione. Egli lo chiama «male del secolo» e lo presenta come Timmensa disillusione di tutti i giovani nati, come lui, fra il 1800 e il 1810, che hanno avuto un’infanzia cullata nell’eco dell’epoca napoleonica e che si ritrovano ora sotto la cappa di piombo della Santa Alleanza: «A ppena apparve nel cielo l’astro algido della ragione, e i suoi raggi, simili a quelli della fredda dea delle notti che riversa luce priva di calore, avvilupparono il mondo in un sudario livido [...], una sen­ sazione di malessere inesprimibile iniziò a fermentare in tutti i gio­ vani cuori».

La noia dei giovani I giovani si annoiano: è stata loro sottratta ogni prospettiva esal­ tante, ogni sogno politico di grandezza. Dal 1815 svaniscono le speranze, o le illusioni, di libertà, di uguaglianza e di fraternità. Ritornano i vecchi, e con loro l’antico ordine viene restaurato. Che fare dunque, se non rinchiudersi in se stessi, esplorare il proprio mondo interiore, coltivare i sentimenti leggendo gli scritti prero­ mantici? La generazione precedente ha preparato il terreno: Goethe, nato nel 1749; Chateaubriand, cui la madre «inflisse la vita» nel 1768; Senancour,.venuto in questo triste mondo nel 1770; Kleist, strappato al nulla nel 1777, e tutta la schiera degli inglesi malinco­ 193

nici, Coleridge (1772), Byron (1788), Shelley (1792), Keats (1795), già autori di migliaia di poesie e romanzi atti ad alimentare i pen­ sieri oscuri. Prosegue Musset: «Q uando le idee inglesi e tedesche passarono quindi sulle nostre teste, fu come un disgusto tetro e silen­ zioso seguito da una terribile convulsione [...]. Fu come la nega­ zione di tutte le cose del cielo e della terra che può essere definita disincanto o, volendo, disperazione». Il mal di vivere preromantico e romantico è anzitutto tipico dei giovani, la cui energia non trova sfogo e la cui necessità di sposa­ re grandi cause viene doppiamente frustrata. L a prima generazio­ ne, delusa dalla fredda ragione in cui gli Illuministi avevano ripo­ sto tutte le loro speranze, si volge ora verso i sentimenti. Per que­ sti giovani i sentimenti si sintetizzano nell’amore, e l’amore è tra­ gico, sempre minacciato dal tempo, dal tradimento, dalla morte. Gli eroi romantici, Werther, René e O berm an, sono tutti infelici. Oberman, ad esempio, pubblicato nel 1804 da Senancour, è il pro­ totipo del giovane romantico. Assetato di assoluto, di verità e di eter­ nità, non fa che incontrare sulla sua strada grettezza, falsità ed effi­ mero. «C osa mi importa di ciò che può finire?» si chiede. Deluso dalla vita, egli si trascina nella noia, indifferente nei riguardi del futu­ ro, da cui non si aspetta nulla, «e disposto a dimenticare senza fati­ ca il passato di cui non ho goduto. Ma c’è in me un’inquietudine che non mi lascerà mai; è un bisogno che non conosco, che non concepisco, che mi comanda, mi assorbe, mi travolge al di là degli esseri perituri»1. Triste, stanco, non può tuttavia fare a meno di godere della propria sofferenza: «D a dove viene all’uomo la più duratura fra le gioie del suo cuore, la voluttà della malinconia, l’in­ canto pieno di segreti che lo abbevera dei suoi dolori e fa sì che egli continui, cosciente della propria rovina, ad amarsi?»2. Oberman è in tutto e per tutto fratello del Childe H arold di Byron e del René di Chateaubriand, per il quale la vita è permeata da un «profondo sentimento di noia», dell’Adolphe di Benjamin Constant, che deplo­ ra i danni causati dall’introspezione, «quest’analisi perpetua per la quale esiste una ragione recondita per tutti i sentimenti, e che in questo modo vengono corrotti all’origine». Leggendo Oberman nel

1 É. PlVEKT DE S enancour , Oberman, Rizzoli, Milano 1983, p. 66. 2 Ivi, p. 83.

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1833, Sainte-Beuve ha visto chiaramente come questo libro fosse l’espressione del male del secolo. L a seconda generazione, che vede la luce negli anni tra il 1800 e il 1810, subisce una seconda frustrazione. Scrive infatti Musset nelle Confessioni·. «Tutti questi bambini erano nati durante la guer­ ra, per la guerra. Avevano sognato per quindici anni le nevi di M osca e il sole delle Piramidi [...]. Avevano tutto un mondo nella testa; guardavano la terra, il cielo, le strade e i sentieri; tutto era vuoto, e le campane delle loro parrocchie risuonavano solitarie in lontananza». Poi, nel 1830, in Francia si passa di male in peggio con l’avvento della monarchia borghese. Che ideale possono pro­ porre ai giovani i vari Laffitte e Guizot se non quello di arricchir­ si? D opo il naufragio dell’idea di progresso razionale degli Illuministi, dell’ideale di libertà del 1789, di gloria militare impe­ riale, di uguaglianza fraterna delle «Tre G loriose», non resta che la prospettiva di un’austera esistenza da borghese. In altri paesi la situazione non è migliore: la Santa Alleanza massacra tutto ciò che si muove sul continente europeo, mentre in Inghilterra, dopo le fol­ lie della Reggenza, s’instaura l’èra vittoriana, la quale impone i pro­ pri valori dalle catapecchie del proletariato ai saloni soffocanti dell 'Establishm ent. L a scienza comincia sin da ora la sua opera di disincanto sul mondo. Ernest Renan constaterà nel 1848 che la scienza, «applica­ ta alla naturai ne ha distrutto il fascino e il mistero, adducendo forze matematichedaddove l’immaginazione popolare vedeva vita, espres­ sione morale e libertà [...], ed è possibile che di fronte a questa natu­ ra sedera .e inflessibile creata dal razionalismo alcuni inizino a rim­ piangere il miracolo e il fatto che l’esperienza lo abbia bandito dal­ l’universo». Il mondo è un insieme di leggi fisiche e di reazioni chi­ miche, dove tutto si sussegue inesorabilmente in un determinismo perfetto. Tutto ciò è triste? Forse, ma «chissà se la verità non è anch’essa triste», si chiede Renan. Determinismo scientifico, immobilismo politico, sociale e reli­ gioso: come ci si può stupire della noia che colpisce queste gene­ razioni? «Più vado avanti, più mi accorgo che di tempo, il nostro grande nemico, ne abbiamo sempre troppo [...]. Che fare? Questo è il problem a», scrive Vigny. Persino Chateaubriand confessa: «Tutto mi stanca: trascino con difficoltà la noia dei miei giorni e vado dappertutto sbadigliando la mia vita». «C o s’è la vita? Esilio, 195

noia, sofferenza», sospira Lamartine, mentre Théophile Gautier sostiene di essere ridotto allo stato vegetativo: «N on sono nulla, non faccio nulla; non vivo, vegeto [...]. A parte i gatti non amo niente, non ho voglia di niente; ho solo una sensazione e solo un’idea: che ho freddo e che mi annoio». Anche Leopardi e Büchner esprimo­ no la loro nausea. I romantici si annoiano, ciò nonostante sono anche convinti che il tempo passi troppo in fretta: «Tempo, sospendi il tuo volo!». Tutti i giovani vedono profilarsi la morte, che li terrorizza e li affa­ scina allo stesso tempo. In Italia, Leopardi scrive che il destino ha fatto un solo dono alla nostra razza, vale a dire la morte. Ma anche in questo caso gli inglesi occupano un posto d ’onore con Thomas Gray, il poeta dei cimiteri; John Keats, per il quale la malinconia «dim ora insieme alla bellezza, bellezza che svanisce»; Wordsworth, che vede la vita del poeta come un passaggio dalla gioia all’o p ­ pressione e alla follia; e Shelley che, sempre sul tema dell’oppres­ sione, declama: Temo i tuoi baci, fanciulla gentile, ma tu non hai motivo di temere i miei; troppo profondamente il mio spirito è oppresso perché io possa opprimere anche il tuo3.

Tutti questi giovani hanno un incredibile furore di vivere e, poi­ ché hanno i minuti contati, cercano di vivere in ogni istante le sen­ sazioni più forti possibile. Vivere intensamente dunque, per non arrivare all’orribile vecchiaia. Essere giovane e morire sembra diven­ tare il loro motto. Molti non fanno che una breve apparizione, per poi sentirsi immediatamente braccati dalla morte. Shelley sposa un’adolescente di sedici anni, l’abbandona e lei si suicida; sua figlia Clara muore nel 1818; si risposa; il suo secondo figlio muore nel 1819; colpito dalla tubercolosi, egli muore in un naufragio a trent’anni, nel 1822. Keats, anche lui tisico, lo precede, morendo all’età di ventisei anni nel 1821. Byron li segue, egli morirà in Grecia nel 1824. Questa meteora ha avuto il tempo di assaporare tutto e di essere anche disgustato da tutto: pubblicato a diciannove anni,

3 P.B. SHELLEY, Poesie e lettere, Longanesi, Milano 1996, p. 65.

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membro della Camera dei Lord a ventuno, incestuoso solo un p o ’ più avanti, dissoluto, abbandona la sua sposa, partecipa alle cospi­ razioni dei Carbonari, si risposa, perde la figlia di soli cinque anni, poi spira sulle rovine di Missolonghi all’età di trentasei anni. L a sua vita è l’illustrazione dei suoi versi: «I giorni della giovinezza sono i giorni della nostra gloria», poiché «il tempo scolorisce le illusio­ ni». Anche il poeta scozzese Robert Burns muore dopo una vita di stravizi, all’età di ventisette anni. E che dire dei quattro fratelli e sorelle Bronté: Anne, morta a ventiquattro anni nel 1844, Branwell, morto a trentun’anni nel 1846, Emily, morta a trent’anni nel 1848 e Charlotte, morta a trentanove anni nel 1855! Anche i tedeschi muoiono in piena giovinezza. Novalis, la cui gio­ vane fidanzata Sophie muore a soli sedici anni nel 1797, perde suo fratello nel 1798 e passa a miglior vita a ventinove anni; Christian Grabbe a trentacinque anni; Georg Büchner a ventitré anni. Nel 1806 Fichte, testimone delle ecatombi dei giovani romantici, sostiene che le morti premature siano in qualche modo preferibili: «Passati i trent’anni, fu necessario augurar loro che morissero, per la felicità e per il bene del mondo, poiché a partire da quel momento vivevano solo per corrompere ulteriormente se stessi e il loro entourage»4. In Italia, Giacomo Leopardi ha solo ventidue anni quando scri­ ve che l’entusiasmo, compagno e alimento della sua vita, si era tal­ mente spento in lui da farlo rabbrividire di paura: è quindi tempo di morire. Il giovane Leopardi è un vero e proprio concentrato di infelicità: gobbo/ follemente innamorato senza speranza, segrega­ to in casa daLgenitori, mezzo cieco e ridicolizzato da tutti, egli si dedica a urr lavoro intellettuale forsennato sin dall’età di dodici anni, precipitando nplla disperazione più completa. Il rifiuto della vecchiaia viene sottolineato nel 1819 da PierreSimon Ballanche, che si rivolge simbolicamente ai giovani della sua epoca: «Si direbbe che, scontenti di tutto, la vita non abbia più nien­ te da offrirvi. Avete ancora così pochi ricordi, e già vi bastano [...]. Cercate la solitudine come lo sventurato che ha conosciuto mille mali, che ha provato tutte le illusioni»5.

4 Citato da J.-P. Bois, Les vieux, Fayard, Paris 1989, p. 271. 5 P.-S. B allanche , Le vieillard et le jeune homme, Alcan, Parigi 1928.

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Esitazioni e contraddizioni di fronte alla morte I rari romantici che raggiungono la terza età non fanno venire voglia di imitarli. Chateaubriand, idolo della generazione del male del secolo, si pente amaramente per aver vissuto tanto a lungo: «L a vecchiaia imbruttisce fino alla felicità», scrive. Sordo, paralizzato dai reumatismi, scosso da accessi di tosse, egli affida la sua deriva all’amica di vecchia data Madame Récamier, a sua volta diventata cieca: «H o vergogna di fare qualsiasi cosa con le mie vecchie ossa [...]. Arrossisco all’idea di occuparmi di due gambe logore quanto le idee caduche che ronzano come penosi ratti nel mio cervello»6. H a settantaquattro anni e dovrà trascinare le sue vecchie ossa anco­ ra per sei. Egli evoca «la noia delle ore ultime e abbandonate, che nessuno vuole e nessuno desidera. La fine della vita è un’età amara». Raramente si è avuta tanta paura di invecchiare e si è detestata così tanto la vecchiaia come in quest’epoca. Verso i sessant’anni, Colerdige, in Youth and Age, si lamenta: «W hen I was young? Ah, woeful W hen!». I pittori prendono le distanze da questi orridi vecchi, quasi del tutto assenti nella pittura di Girodet, David, G ros e Gérard. Solo Goya li rappresenta, ma unicamente per mostrarne la rivoltante bruttezza: I Vecchi (1812), contrapposti ai G iovani, puzzano di morte e di marcio; Il vecchio errante tra i fantasm i evoca l’angoscia dell’autore, e il suo Saturno divoratore di bambini è l’orrore allo stato puro. Goya, come Chateaubriand, vive molto male la sua vec­ chiaia. Nel 1816, a settantanni, si ringiovanisce su un autoritratto, poi, divenuto sordo e gravemente malato, capitola e mostra il suo vero volto a settantatre anni, assistito dal dottor Arrieta7. Nel 1832, all’età di ottantatre anni, muore invece il vecchio Goethe. L’uomo che ha lanciato il Romanticismo con il suo Werther non ha mai smesso di analizzare ogni singolo aspetto della vecchiaia; il mito di Faust, infatti, lo accompagnerà tutta la vita. Egli rimaneggia costan­ temente quest’opera, dalla prima versione del 1773 all’ultima, incom­

6 F.-R DE CHATEAUBRIAND, Lettres à Madame Récamier, a cura di M. Levaillant eE.BeaudeLoménie, Flammarion, Parigi, seconda ed., 1998, p.467 (prima ed. 1951). 7 Goya assistito dal dottor Arrieta, 1820, Institute of Arts, Minneapolis.

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piuta, del 1832. Il fine ultimo è dunque ritrovare la giovinezza, a costo di pagarla con la salvezza eterna: La vecchiaia è così, una febbre fredda [...] Passata la trentina, un uomo è come morto8.

Ma perché questi vecchi infelici non mettono fine ai propri gior­ ni? Se la vita dopo i trent’anni diventa insopportabile, perché non imi­ tare Werther e Chatterton? Qualcuno lo fa, ma sono casi rari: Jacopo Ortis, deluso nel suo amore e nel suo patriottismo9; Schumann, che fa un tentativo; Heinrich von Kleist, giovane soldato ansioso e soli­ tario che, dilaniato fra la ricerca della felicità e il patriottismo, ribel­ latosi alla «cattiva organizzazione del mondo», si uccide nel 1811 all’età di trentaquattro anni insieme alla sua amata, colpita da un male incurabile. E pur vero che molti altri si suicidano indiretta­ mente conducendo una vita dissoluta e cercando le avventure più esaltanti e pericolose; mentre la tubercolosi si occupa di coloro che tentano di fuggirla. Solo pochi sfortunati, come Chateaubriand, sopravvivono abba­ stanza a lungo per pentirsene, solo un rimasuglio di spirito religioso li trattiene. Scrive infatti Lamartine: «Per quanto mi riguarda sarei già morto mille volte della morte di Catone se fossi stato della sua stessa religione. Ma non lo sono, io adoro Dio e i suoi disegni. Credo che la morte paziente in miseria dell’ultimo dei mendicanti sia più sublime della morte affrettata di Catone sulla sua spada. Morire è ima fuga, e non si deve fuggire»10. Se la vita è un suppli­ zio, bisogpa accettarla come l’espiazione dei nostri peccati, ma que­ sto non impedisce al poeta di confessare, nelle sue Confidenze, il fatto cW ci pensasse continuamente una volta in pensione; in Raphael, ipoltre, Julie dice al suo amante: «O h! Moriamo! Non vedi come tutto intorno a noi è preparato perché le nostre due vite sva­ niscano? [...] Oh! Moriamo in questa ebbrezza dell’anima e della

8 J.W. von G oethe , Faust, w. 6785-6789. 9 U. FOSCOLO, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, 1799. 10 A. de L amartine, Cours familier de littérature: un entretien par mois, Parigi 1856-1869, p. 73.

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natura che della morte ci farà sentire solo la sua voluttà! Più avan­ ti vorremo morire, e forse moriremo meno felici!». L e esitazioni dei romantici riguardo al suicidio rispecchiano Pimmagine della loro vita ricca di contraddizioni. Questi giovani che si annoiano e che non hanno abbastanza tempo per approfit­ tare della vita, che magnificano la morte e rifiutano di darsela, ricer­ cano la solitudine gettandosi a capofitto nelle agitazioni del seco­ lo. L’uomo smarrito nella solitudine tenta di placare le passioni rifugiandosi nella natura e alimenta la malinconia al contatto con essa: «L a natura è coperta da un velo di tristezza [...] e da una profonda e irreprimibile malinconia [...]. Il livello più oscuro e insondabile della natura umana è la malinconia, ecco ciò che uni­ sce l’uomo alla natura, poiché anche in essa il livello più profondo è malinconico. Anche la natura soffre per un bene perdu to»11. Queste parole di Schelling raccontano lo sconforto del romantico, il quale sente che, nonostante la sua retorica, Dio si allontana irri­ mediabilmente e che ormai egli è solo in una natura anch’essa rima­ sta orfana. Johann Friedrich Richter, più conosciuto con il nome di Jean-Paul, lo dice ancor più chiaramente: «N essuno nell’uni­ verso è più sol di un ateo. Il suo cuore orfano, che ha perduto il più grande dei padri, piange sul cadavere immenso della natura, che nessuno spirito anima né unifica»12. Tuttavia, la prima generazione romantica, quella degli anni fra il 1800 e il 1830, mantiene la speranza di poter cambiare il mondo e si precipita nell’azione con un’incredibile ingenuità. Questi gio­ vani in piena crisi d ’identità si considerano araldi di una nuova era che indicano la strada verso un ideale di libertà. L a loro arma è la poesia, il poeta ispirato che illumina il mondo, la poesia che guida i popoli. Ergendo la solitudine e la malinconia a emblema di gran­ dezza, essi credono di gettare luce sull’oscura realtà. Come se le parole, le rime, le sonorità commoventi potessero contrapporsi ai cannoni! Nefasta illusione in cui si cullano i sognatori, eterne anime candide, giocattoli alla mercé delle forze politiche ed economiche.

11 Citato da G. PRICE, The Narrow Pass: A Study o f Kierkegaard’s Concept o f Man, Hutchinson, Londra 1963, p. 45. 12 Citato da H. F erguson , Melancholy and the Critique o f Modernity: Soren Kierkegaard’s Religious Psychology, Routledge, Londra 1995, pp. 17-18.

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Decimati sulle barricate, annientati in Grecia, a Napoli, in Polonia, in Spagna, lasciati morire nelle carceri della Santa Alleanza, i poeti recupereranno il senso della realtà solo a metà del secolo, quando i loro più prestigiosi rappresentanti, smarriti nella politica, usciranno precipitosamente di scena: Lamartine, con 18.000 voti alle elezio­ ni presidenziali del 1848 rispetto ai 5.454.000 di Luigi Napoleone Bonaparte, e Victor H ugo, costretto all’esilio, nel 1851, dallo stes­ so Luigi Napoleone. Persino gli apparenti successi non sono che uno specchietto per le allodole: non è Byron che ha liberato i Greci, ma i cannoni impe­ rialisti francobritannici a Navarin; le barricate del 1830, immortala­ te da Delacroix, ben lungi dall’essere il trionfo dei giovani «scapi­ gliati, lividi», sono il prodotto dell’avvento dei banchieri orleanisti; e non sono i Castighi di H ugo ad aver fatto cadere l’Impero nel 1870, ma la temibile armata prussiana.

I romantici e l’analisi del malessere Questo insieme di esaltazione irrealistica e di disillusione, di noia e di impazienza, di solitudine e di bisogno di azione, di sentimenti mor­ bosi e di fame di vita contribuisce al carattere di originalità del mal di vivere del primo Romanticismo. I poeti ne sono stati i portavoce privilegiati, i loro predecessori, infatti, non avevano mai beneficiato di un tale pubblico, inoltre credono di dover svolgere un ruolo di primo piano. Essi esprimono il malessere di un’intera generazione, ana­ lizzato peraltro da molti intellettuali di quest’epoca. Maine de Biran (1766-1824) è molto sensibile all’inquietudine dei suoi contemporanei, che anch’egli certamente condivide, ponen­ dola al centro delle sue riflessioni nel ]ournal, dove cerca una spie­ gazione^he vada oltre il quadro storico dell’epoca. All’inizio, nel n Sir-egli sembra orientarsi verso l’interpretazione pascaliana: Tuttavia, volendo tornare in noi, dobbiamo convenire che l’argomentazione di Pascal è forte. In queste materie le prove originate dalle sensazioni inti­ me sono le più forti. Questa inquietudine dell’anima, la mancanza del vero bene e l’incostanza che ne consegue, questa attività indeterminata che sfiora tutti gli oggetti senza trovare nulla che la soddisfi pienamente e che trascina tutti gli uomini, sia selvaggi che civili, attraverso tante follie e biz­

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zarrie, la noia, funesta caratteristica della nostra specie, sconosciuta agli animali: non so, ma mi sembra che tutto questo annunci qualcosa di par­ ticolare e proverebbe (forse non ai freddi filosofi, ma agli animi sensibili che amano riflettere su se stessi) che forse non siamo al nostro posto13.

La risposta non è definitiva. Tornando più avanti su questo pro­ blema, Maine de Biran tende a fornire una spiegazione di stampo psi­ cologico: «Il fastidio, il disagio, l’inquietudine, il desiderio» proven­ gono dalla differenza delle nostre due nature, quella animale e quel­ la spirituale. Lo spirito ha aspirazioni immense che la nostra natura animale non può soddisfare. Pascal ha quindi torto: «L a causa del malessere o del fastidio interiore nell’immobilità totale dei sensi e dello spirito non è intellettuale o mistica come la intende Pascal, ma piut­ tosto psicologica»14. Maine de Biran si riferisce in particolar modo al mal di vivere romantico che, deluso dalla società, trova solo malinconia nella solitudine. A suo avviso nella vita ci sono più piaceri che disgrazie. «N on esistono stati in cui si preferisca l’annientamento all’esisten­ za», scrive, poiché «anche nei mali più grandi, l’immaginazione sa trovare delle compensazioni». Tuttavia siamo logorati dal mal di vivere, che proviene dal dilemma tipico della natura umana: il disgu­ sto del mondo esterno oppure il vuoto del mondo interiore. «Amori tristi, una gravosa concezione dell’esistenza ci allontanano da noi stessi e ci fanno sentire il bisogno di distrazioni o persino di diver­ sivi esterni. Ma il male che ci tormenta aumenta proprio con que­ ste distrazioni e soffriamo doppiamente per il fastidio che provia­ mo verso le cose del mondo esterno o di un mondo che ci repelle, e per la scontentezza o il vuoto che ci ritroviamo dentro quando siamo obbligati a ritornarci»15. Benjamin Constant (1767-1830), suo contemporaneo, ha ana­ lizzato il male del secolo nel suo Adolfo, storia di un giovane che dimentica di vivere a causa dell’eccesso introspettivo. Nella sua corrispondenza Constant sostiene che il malessere della sua gene­

13 P.G. M aine DE B iran, Premier journal, «D e l’homme», in (Euvres, a cura di P. Tisserand, 14 voli., Parigi 1920-1949,1.1, p. 26. 14 I d ., journal, La Baconnière, Neuchàtel 1954-1957, 3 voll., t. Ili, p. 225. 15 Ibidem, in data 30 ottobre 1816.

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razione derivi dalla sensazione che la morte di Dio sia stata pre­ matura e che sia sopraggiunta mentre la sua opera non era stata ancora terminata. Dio ci ha quindi abbandonato in un universo che non sappiamo perché sia stato creato, da qui l’impressione di «fina­ lità senza fine»: il fatto è che «D io, vale a dire il creatore nostro e di ciò che ci circonda, è morto prima di completare la sua opera; Egli aveva già dispiegato molti dei suoi mezzi, come si innalzano le impalcature per costruire, e a metà del lavoro è morto; tutto ora si ritrova fatto con uno scopo che non esiste più e noi, in partico­ lare, ci sentiamo destinati a qualcosa di cui non abbiamo la mini­ ma idea»16. Constant è consapevole della tragica differenza fra le nostre aspirazioni smisurate e la piccolezza del nostro destino, rin­ chiusi in una scatola di un metro e ottanta per cinquanta centime­ tri: «Sento più che mai il nulla del tutto, come tutto promette e non mantiene mai, quanto le nostre forze siano al di sopra del nostro destino e quanto questa sproporzione ci debba rendere infelici»17. Chateaubriand (1768-1848), anche lui contemporaneo dei due autori precedenti, grande malinconico, insiste sulle frustrazioni generate dai nostri limiti. Come osservava Durkheim, René è un insoddisfatto: «M i accusano di essere incostante nei miei gusti, di non riuscire a goder troppo tempo d ’una chimera, d ’essere alla mercé d ’una fantasia che precorre la fine dei piaceri, come se non potesse resistere alla loro durata; mi accusano di sorpassare sem­ pre il fine cui posso arrivare: e io non cerco, ahimè! che un bene sconosciuto, avvertito per istinto. Non è colpa mia se trovo limiti dappertutto, e se quello che è finito non ha per me alcun valore»18. Q uesta insoddisfazione è destinata ad aumentare, pensa Chateaubriand. Essa è stata anzitutto generata dal cristianesimo, che «ha creato un uomo pieno di sogni, tristezza, disgusto e inquietu­ dine che trovano sollievo solo nell’eternità». Mostrando all’uomo la sua vera vocazione, la quale supera i limiti della sua misera esi­ stenza terrena,yQ cristianesimo ha instillato in lui la scontentezza per la condizione/presente. Ma a ogni modo l’insoddisfazione cresce

16 Lettera del 4 giugno 1790 a Madame de Charrière, citata in G. R udler , La jeunesse de Benjamin Constant, Colin, Parigi 1909, p. 376. 17 Ibidem. 18 F.R. D e C hateaubriand, René, Mondadori, Milano 1982, p. 171.

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con il grado di civiltà, poiché i progressi materiali e culturali sti­ molano l’immaginazione; il progresso suscita i sogni e moltiplica le necessità, ciò rende sempre più dolorosa la consapevolezza dei nostri limiti: «Q uanto più i popoli procedono nella civiltà, e tanto più questo stato di vacuità delle passioni s’accresce [...], l’imma­ ginazione è ricca, copiosa, meravigliosa, [ . . Gli antichi non conob­ bero affatto questa segreta inquietudine, quest’acerbità delle pas­ sioni soffocate che fermentano tutte in un gruppo: un grand’esse­ re politico, i giuochi del Ginnasio e del Campo Marzio, le bisogne del foro e della piazza pubblica li occupavano di continuo, né mai davan luogo in essi alla noia dell’anim a»19. Ciò significa tenere in poco conto il taedium vitae. Tuttavia sopraggiunge qui un’intuizione importante, che aiuta a compren­ dere il rapido sviluppo del mal di vivere moderno. Di fronte a un agio di vita che aumenta con progressione aritmetica, le aspirazio­ ni aumentano di conseguenza, poiché decuplicate dall’immagina­ zione, come conferma l’evoluzione degli ultimi due secoli. Chateaubriand aggiunge un’altra riflessione, più congiunturale e forse più discutibile: se ci sono tanti inquieti e angosciati nella nostra epoca, scrive nel 1802 nel Genio del Cristianesim o, è perché i malinconici, prima, erano reclusi nei monasteri, e la Rivoluzione, chiudendo i monasteri, li ha rimessi in libertà: Ma ai giorni nostri, mancati i monasteri, odsen anco le virtù che ad essi conduce, a quest’anime ardenti, elle si son trovate, come a dir, forestiere in mezzo agli uomini; perocché disgustate dal secolo, sbigottite dalla reli­ gione, son rimase nel mondo, senza darsi al mondo, e allora le son cadu­ te in balia di mille chimere; e allora nascer si vide quella colpevol maniconia che s’ingenera dalel passioni, quand’elle son senza obbietto, e si van di per sé consumando in un cuore solingo20. I periodi di crisi raddoppiano le energie vitali negli uomini. In una società che si dissolve e si ricompone, [...] l’urto del passato con l’avve­ nire, la confusione dei vecchi costumi coi nuovi, formano una combina­ zione che non lascia un minuto solo alla noia. Le passioni e i caratteri in

19 F.R. D e C hateaubriand , Genio del Cristianesimo, Libro III, Cap. IX, Stabilimento Tipografico Fontana, Torino 1843, p. 221. 20 Ivi, p. 222.

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libertà si mostrano con un’energia che non hanno nella società bene ordi­ nata. Il genere umano in vacanza passeggia per le strade, Ubero dai suoi pedagoghi, tornato per un momento allo stato di natura e disposto a sen­ tire il bisogno del freno sociale solo quando porterà il giogo dei nuovi tiran­ ni creati dalla licenza21.

L’argomento è ambiguo: è la malinconia che spinge il monaco a entrare nel monastero, o è il monastero che rende malinconico il monaco? Il dibattito viene nuovamente aperto dai filosofi, dai teo­ logi e dai medici. Kierkegaard afferma che i conventi fossero i rifu­ gi dei depressi, ma Montalembert sostiene che si tratti di una gros­ solana distorsione della verità: «Presentare la tesi generale della vita religiosa come asilo per la debolezza e la tristezza, come luogo di rifu­ gio per questa malinconia, che nella vita claustrale era peraltro vie­ tata e perseguita come vizio chiamato acedia, significa opporsi ai fatti e alla ragione»22. Tra il 1789 e il 1790, il dottor Philippe Pinel aveva portato il suo appoggio scientifico alla soppressione dei voti monastici e degli ordi­ ni regolari da parte dell’Assemblea costituente, affermando, nelle sue Réflexions médicales sur l’état monastique, che il monastero rappre­ sentasse un fattore di follia suicida. Appoggiandosi alle testimonian­ ze di accidia e tristitia, scriveva: «Un isolamento eterno e senza spe­ ranza, la dura costrizione di tutte le tendenze del cuore portano nel­ l’anima il disgusto e l’amarezza [...]. Una malinconia cupa, triste frut­ to dell’intorpidimento delle facoltà fisiche e morali, spesso gli acces­ si della malinconia più profonda, e altre volte le infermità provocate dalla vita sedentaria, avvelenano tutti i momenti dell’esistenza. La fol­ lia spesso si affianca al disordine dell’intelletto, e non vi è monastero che non ne offra puntalmente tristi esempi ogni giorno»23. Riferendosi alla «malinconia bigotta», Pinel accusa in effetti tutte le forme di vita religiosa di essere responsabili del disequilibrio psichico. Nel suo scritto La mania: trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale, egli si scaglia contro le predicazioni terrorizzanti e le stravaganze

21 F.R. D e C hateaubriand, Genio..., cit., p. 63. 22 C h . F orbes, conte di Montalembert, Les Moines d’Occident depuis saint Benoit jusqu’à Saint Bernard, Parigi, seconda ed. 1863,1.1, ρ. XXXI. 23 P h . P inel , Réflexions médicales sur l’état monastique, «Journal gratuit», 1970, p. 81 [1790],

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degli ispirati, fonte di gravi stati di malinconia e bigotteria: «Il mio progetto sarebbe stato [...] di togliere dalla loro vista ogni ogget­ to relativo al culto religioso, ogni dipinto o ogni libro che ne potes­ se rievocare l’immagine; di spingerli, in alcune ore del giorno, a let­ ture filosofiche; di accostare abilmente alcuni episodi della vita di antichi saggi, oppure alcuni atti di umanità e patriottismo con la più pia nullità ed i bizzarri deliri degli anacoreti»24. La tradizione scientista e anticlericale riprende il tema per tutto il X IX secolo, da Esquinol, discepolo di Pinel, fino a Huysmans, il quale descrive le religiose che «languono, muoiono all’improvviso come quando il cero si spegne con un soffio. E Γ acedia dei conventi di clausura che le spegne»25. Nel 1903, un secolo dopo Pinel e in pieno conflitto di separazione della Chiesa dallo Stato, Émile Tardieu, in una classificazione dei generi di noia, cita la «noia per monotonia», o «noia del monaco»: Ha rinunciato alla famiglia, all’amore, alle ricchezze, all’ambizione, ai pia­ ceri, alla libertà, alla sua volontà, a tutto [...], ma non possiede il cielo più di quanto possieda la terra, si trova nel bel mezzo [...]. È pieno di rispo­ ste imbarazzate e contraddittorie da dare a proposito della noia; a volte giura di non saperne niente, altre confessa di sentirsi soffocare [...]. La noia del monaco è un fatto evidente: la sua vita, così come è istituita, non è che un automatismo incolore, una prova di mummificazione [...], si sospetta in lui infantilismo mentale e, per dirla tutta, incapacità. Egli si accanisce sulla sua distruzione, sul suicidio [...]. La noia monacale riveste innume­ revoli forme26.

L a noia e il clericalismo andrebbero dunque di pari passo. Ancora una volta la malinconia e la tristezza vengono utilizzate nel dibattito ideologico, ciò dimostra la persistenza di questi tratti psico­ logici. Negli anni fra il 1800 e il 1830, anche Sainte-Beuve è stato vit­ tima di questo malessere tipico della generazione romantica, di que­ sta gioventù che brucia la propria vita per non vederla marcire nella vecchiaia perché, osserva, «la metà di una vita è la tomba dell’altra». 24 P h . P in el , ha mania: trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale, Marsilio, Venezia 1987, pp. 63-64. 25 J.-K. HUYSMANS, En route, Parigi 1895, I, 7; trad, it., Per strada, Rizzoli, Milano 1961. 26 É. Tahdieu, Lennui. Étudepsychologique, Alcan, Parigi 1903, pp. 107-113.

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Tutti gli ideali finiscono per sprofondare nel pantano delle «relazio­ ni umane». Studiando la spiritualità di Port-Royal e dei solitari, SainteBeuve riscopre l’accidia e la paragona alla noia dei romantici, che anche lui sembra condividere: «Li'acedia è la noia tipica del conven­ to, soprattutto nel deserto dove il religioso vive in solitudine; una tri­ stezza sottile, oscura, dolce, la noia dei pomeriggi. Il bisogno dell’in­ finito ci coglie; ci perdiamo in desideri indefinibili: è il momento in cui vorremmo smarrirci nel vortice di Faran, o in cui vorremmo gri­ dare insieme a René: «Temporali agognati, alzatevi in fretta»27.

Le varianti nazionali del malessere Il mal di vivere non era mai stato avvertito in modo così una­ nime. Il concerto dei lamenti poetici è fonte di ispirazione per la verve dei caricaturisti e il sarcasmo dei conservatori ma, come nel X V I secolo, un movimento di tale portata non può essere una sem­ plice moda, e la vita stessa delle persone estremamente sensibili è la prova dell’autenticità del loro malessere. E stato detto di Lord Byron, il cui stato d ’animo si esprime appieno in questi versi: Conta le ore di gioia che ti furono concesse, Conta i giorni che passasti senza soffrire, E apprendi, qual che tu sia stato, «Che sempre meglio è il non essere»28.

Il suicida Shelley, il triste Keats nella sua Ode alla malinconia, e il sognatore Gray, arrivano alla medesima constatazione. I poeti, tuttavia, non sono i soli ad avvertire il male del secolo. Più inatte­ so, ma anche più significativo, è il profondo pessimismo di un pen­ satore come John Stuart Mill, peraltro fondatore con Bentham della dottrina utilitaristica, il quale professa «che la felicità è auspicabi­ le, e che in fin dei conti è persino la sola cosa auspicabile». Tuttavia, questo edonista è un depresso, come spesso accade a coloro che sono preda dell’ossessione della felicità. Nel 1826, all’età di vent’an­ 27 C h .-A. S ainte -Beuve , Port-Royal, 1.1, libro 1, cap. 8. 28 L ord B yron , Euthanasia, trad, di Carlo Rusconi, Unione Tipografico-editrice, Torino, voi. V, p. 183.

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ni, Mill attraversa una grave crisi depressiva. Nella sua Autobiografia egli ricorda che: In questo stato d’animo, decisi di pormi direttamente la domanda: «Supponi che tutti gli obiettivi della tua vita vengano raggiunti; che tutte le riforme delle istituzioni e delle opinioni che desideravi si possano rea­ lizzare istantaneamente: raggiungeresti così la gioia, la felicità?». E den­ tro di me, una voce incontenibile rispose: «N o!». In quel momento il mio cuore sprofondò: tutte le basi su cui avevo fondato la mia vita crollarono. Tutta la mia felicità risiedeva nella ricerca di questo fine. E il fine aveva perduto il suo fascino: come potrei mai provare interesse nei mezzi per raggiungerla? Mi sembrava di non avere più alcuna ragione per vivere29.

L’idea tedesca di Weltschmerz, la tristezza del mondo, è essen­ ziale nello Sturm und. Drang e nel romanticismo tedesco. Werther ha stimolato lo spirito creativo ispirando autori malinconici come Johann Miller (1750-1814) o Jacob Lenz (1751-1792), impazzito nel 1778. Faust ispira invece la disperazione di Nicolaus Lenau (18021850). La vita di questo dandy che perde la fede in seguito alla morte di sua madre, ma che non riesce a rassegnarsi al materialismo, somi­ glia a un lungo suicidio. Il suo Faust esprime la disperazione di una generazione che non può realizzare i propri sogni senza chiedersi, come Mill, se tale realizzazione porterà la felicità. Il teatro romantico tedesco degli anni fra il 1800 e il 1840 è segnato dalla figura dell’eroe tragico segnato da un destino impla­ cabile, ma che alla fine ne avrà ragione per mezzo di un atto di volontà, riconciliando quindi il destino e la libertà. Con la sua morte, accettata o deliberatamente provocata, egli rende la sua vita un successo, ma non è forse proprio in questo il culmine della con­ traddizione che caratterizza la condizione umana? '--A lcun i autori propendono già per l’idea del fallimento dell’es­ sere fino alla sua logica conseguenza finale, vale a dire il nichilismo. «C osa c’è di più assurdo del mondo? E la demenza onnipotente che sorregge l’orbe dell’universo e lo distrugge», afferma un per­ sonaggio di Herzog Theodor von Gothland, un dramma di Christian G rabbe (1801-1836). A ventun anni costui aveva messo in scena la

29 Citato da L. WOLPEKT, Malignant Sadness. The Anatomy of Depression, The Free Press, Londra 1999, pp. 7-8 [traduzione nostra].

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I stupidità universale in una commedia-farsa, Scherz, Satire, Ironie und tiefere Bedeutung: ein Lustpiel in drei Aufzugen (Scherzo, satira, iro­ nia e significato nascosto). In Herzog Theodor l’uomo affronta l’as­ surdità del mondo; la sola condotta degna è la rivolta e il rifiuto disperato, destinato al fallimento. Più o meno contemporanea­ mente a Stendhal, G rabbe lancia questo grido di rabbia impoten­ te: «L a sola scusa di D io è che non esiste». G rabbe muore a trentacinque anni. G eorg Büchner, a ventiquattro, muore di tifo (1813-1837). Solitario e angosciato, egli vede nell’uomo un fantoccio piagnucoloso sballottato da un inesorabi­ le destino anonimo. Egli scrive alla sua fidanzata: «M i sono senti­ to come schiacciato sotto il peso dell’orribile fatalismo della storia [...]. L’individuo non è che schiuma sull’onda, la grandezza è un puro caso, il regno del genio uno spettacolo per marionette». Ed è questo spettacolo che mette in scena nella sua M orte di Danton, dramma totalmente riassumibile in quanto segue: «Siam o tutti marionette, i cui fili sono tirati da potenze sconosciute». Questi automi infelici si credono padroni del loro destino, ma non appe­ na prendono coscienza della loro vera situazione, sono attratti dal nulla, ma neanche il nulla esiste più. «N essun vuoto in nessun luogo, è tutto un brulicare: il nulla si è ucciso da sé, la creazione è la sua ferita, noi siam le sue gocce di sangue, e il mondo è la tomba in cui esso marcisce»30. Ritroviamo poi gli uomini di Woyzeck (1836), fantocci fatti con lo stampino che recitano la loro patetica commedia, mentre un pover’uomo, schernito da tutti, cerca disperatamente il senso del tutto. Eccoci nel grottesco esistenziale, causa di un riso amaro. Il registro è il medesimo con L e Veglie di Bonaventura, testo anoni­ mo del 1804 che passa in rassegna i grandi problemi dell’umanità e le conferisce l’immagine di un mondo di pazzi. Una sorta di Elogio della Follia in versione noir, « l’opera, che spesso evoca il grottesco del mondo, è grottesca grazie all’amalgama dei toni, delle pro­ spettive e per via di quel suo cinismo disperato che sfocia conti­ nuamente nel nulla»31. «In fondo, tutto è la stessa cosa», esclama un altro personaggio di Büchner, osservazione che potrebbe, peraltro, essere stata anche 30 G. BÜCHNER, La morte di Danton, Rizzoli, Milano 1955, p. 83. 31 D. I eh l , Le grotesque, PUF, Parigi 1997, p. 66.

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di Johann Friedrich Richter (1763-1825). Il suo romanzo Siebenkäs, pubblicato nel 1796, è un’altra illustrazione del malessere roman­ tico: l’eroe è un artista impregnato di infinito, di assoluto, tor­ mentato dai grandi interrogativi sul senso del mondo. L a sua gio­ vane moglie, Lenette, è una sposa affettuosa, semplice, preoccupata solo dell’immediata quotidianità. Entrambi si amano sinceramen­ te, ma non riescono a capirsi. G li sforzi di Lenette per rendere feli­ ce suo marito sono destinati a fallire, poiché non basta essere una buona massaia e una buona sposa per fare la felicità di Siebenkäs, continuamente irritato dai dettagli materiali della vita di tutti i gior­ ni: la spazzola e la scopa sono per lui veri e propri «strumenti di passione». Ritroviamo qui il problema dei limiti della condizione umana, della tensione tra il finito e l’infinito. E per completare il quadro, ecco che Cristo rivela che D io non esiste: «Siam o tutti orfani, voi e io, non abbiamo un padre». Incomunicabilità degli esse­ ri, marionette perdute e manipolate in un mondo assurdo che Dio ha definitivamente lasciato. Difficile eguagliare i limiti della dispe­ razione del Romanticismo tedesco. Per trovare un Romanticismo più cupo di quello tedesco nella prima metà del X IX secolo, occorre spostarci in Italia, sederci allo stesso tavolo di Leopardi (1798-1837) e ascoltare le sue parole: «G li uomini verso la vita sono come i mariti in Italia verso le mogli: biso­ gnosi di crederle fedeli benché sappiano il contrario. Così chi deve vivere in un paese, ha bisogno di crederlo bello e buono; così gli uomini di credere la vita una bella cosa. Ridicoli agli occhi miei, come un marito becco, e tenero della sua moglie»32. Così parla nel suo dia­ rio intellettuale, lo Zibaldone, che comprende le sue riflessioni di uomo solitario. La disperazione di Leopardi è dovuta in parte alla sua situazione personale, come abbiamo già visto, ma l’autore dei Canti estende la sua infelicità individuale a tutta l’umanità, poiché la nutre dell’humus della malinconia romantica. Certamente egli riconosce che esistano anche persone felici: si tratta dei sognatori più o meno illuminati e ingenui che attribuiscono un significato spirituale imma­ ginario a tutto ciò che vedono, barricandosi così in un ottimismo euforico dai tratti schizofrenici. Ci sono anche persone ordinarie, che

32 G. L eopardi, Zibaldone, Newton Compton, Roma 1997, p. 4526.

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sono in effetti la maggioranza e che sopportano l’esistenza perché vivono «volando basso», senza porsi domande sul significato. E poi ci sono i tormentati, come lui, consapevoli dell’universale vanità delle cose: ciò che è spirituale è impalpabile come il vento e ciò che è mate­ riale è destinato a morire. Intrappolato fra le illusioni e la morte, la vita non è che un tessuto di dolore e di noia; ci si riposa da queste sofferenze solo cadendo in altre ancora. Che tragedia è la vita umana per Leopardi. Sin dall’inizio biso­ gna consolare e rassicurare il bambino: Vergine luna, tale è la vita mortale. Nasce l’uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell’essere nato.

[...] Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, perché da noi si dura?

[...] in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale33;

mentre alla fine la vecchiaia rappresenta «il più grande di tutti i mali». Fra i due si situa l’infelicità. In mancanza di un Dio, Leopardi accusa la natura, macchina infernale che produce vite solo per con­ durle alla morte: Madre temuta e pianta Dal nascer già dell’animal famiglia, natura, illaudabil meraviglia, che per uccider partorisci e nutrì,

33 G. L eopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia , in Poesie.

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se danno è del mortale immaturo perir, come il consenti, in quei capi innocenti? Se ben, perché funesta, perché sovra ogni animale, a chi si parte, a chi rimane in vita, inconsolabil fai tal dipartita? [...] Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre Di strappar dalle braccia All’amico l’amico, al fratello il fratello, la prole al genitore, all’amante l’amore: e l’uno estinto, l’altro in vita serbar?34.

Tutto è una trappola; l’amore potrebbe essere la salvezza, ma più amiamo più la morte della persona cara sarà crudele... Leopardi ironizza in modo amaro su tutti gli incoscienti che dicono di amare la vita, cornuti che non vedono che la loro amante li tradisce quo­ tidianamente con la morte. E, come sempre, i più consapevoli sono i più infelici, mentre gli imbecilli felici portano in giro la loro spen­ sieratezza. Leopardi invidia questi «animali felici». Egli se la prende anche con i cantori del progresso e della civiltà, veri e propri mercanti di illusioni a suo modo di vedere. La storia delle civiltà non è che un passo ulteriore verso un’infelicità sempre più grande. Il «progresso» si traduce con l’accrescersi delle forze del male, che permettono agli uomini di dilaniarsi con sempre più odio e potenza. E quando non porta alla distruzione dell’uomo, la civilità genera superficialità e nuovi bisogni, fonti di ulteriori frustrazioni, mentre pretende di voler fare la felicità collettiva di un’umanità com­ posta da individui tristi. Leopardi trova rivoltante questo raggiro; neanche la natura inerte ha più un senso; ecco infatti come Leopardi si rivolge alla luna: O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l’anno, sovra questo colle Io venia pien d’angoscia a rimirarti:

[...]. 34 G. L eopardi, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, in Poesie.

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Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparta, che travagliosa Era mia vita: ed è, né cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l’etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanti, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l’affanno duri!35.

Alfred de Musset ha riconosciuto in Leopardi uno spirito affi­ ne, cui dedica questa quartina nel 1842: Tu marchais en chantant dans ta route isolée; L’heure dernière vint tant de fois appelée; Tu la vis arriver sans crainte et sans remords, Et tu goùtas enfin «le charme de la mort»36.

Musset è forse il più oscuro dei romantici francesi della prima generazione. Osserva Paul Bénichou che «una cosa può sorpren­ dere nella maniera in cui Musset evoca questa disperazione: il modo in cui, ben lungi dall’idealizzarla o dall’esaltarla - com’è tipico del Romanticismo noir - e dal dare il rifiuto lugubre della speranza di una sorta di privilegio spirituale, egli detesta lo stato d ’animo che descrive e maledice coloro che ne sono stati gli iniziatori»37. G li altri romantici, in effetti, traggono dalla malinconia un sen­ timento di superiorità non dissimulato, prova di un manifesto godi­ mento nel praticare la loro malinconica introspezione. Lamartine ne è una buona illustrazione per mezzo del suo eroe Raphael, che infatti svolge un ruolo di portavoce: Il languore di tutte le cose intorno a me era una meravigliosa consonan­ za con il mio. Esso cresceva, affascinandola. Mi tuffavo in abissi di tristezza. 35 G. L eopardi, Alla luna, in Poesie. 36 «Camminavi cantando nella tua strada isolata; / Venne l’ultima ora, tante volte chiamata; / La vedesti arrivare senza paura e senza rimorsi, / Gustando final­ mente “il fascino della morte”» [traduzione nostra]. 37 P. BÉNICHOU, L’école du désenchantement: Sainte-Beuve, Nodier, Musset, Nerval, Gautier, Gallimard, Parigi 1992, p. 179.

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Ma questa tristezza era viva, abbastanza piena di pensieri, sensazioni, di comunicazioni con Tinfinito, di chiaro-scuro nella mia anima perché non desiderassi di fuggirla. Malattia dell’uomo, ma malattia il cui sentimento stesso seduce invece di essere un dolore, e in cui la morte somiglia a un voluttuoso dileguamento nell’infinito.

Dolcezza della tristezza, compiacimento di una meditazione sul nulla. Nel 1897 Émile Durkheim riprenderà questo passaggio per illu­ strare la malinconia moderna, fonte, secondo la sua classificazione, di suicidi dettati dall’egoismo. L’individuo tende ad allontanarsi dalla società, come Lamartine, deluso dalla vita politica dopo il suo cocen­ te fallimento all’elezione presidenziale. Egli si chiude in se stesso, medita su se stesso, ma il suo io non è più alimentato dagli eventi e dalle cose del mondo esterno: «Per spiegare il suo distacco dall’esi­ stenza, il soggetto se la prende con le circostanze che lo circonda­ no più da vicino; trova la vita triste, perché è triste. La sua tristezza gli viene dall’esterno [...], dal gruppo di cui fa parte»38. La stessa analisi potrebbe essere applicata ad Alfred de Vigny, un altro deluso dalla vita attiva, militare e politica. Dell’esercito ha conosciuto solo l’incolore vita di guarnigione a Pau; in politica col­ leziona delusioni su delusioni, come la rivoluzione del 1830 e l’u­ miliante sconfitta alle elezioni del 1848 in Charente. Vulnerabile e pieno di contraddizioni, solitario, ansioso, esitante, discreto, ambi­ zioso, egli rifiuta gli obblighi sociali della celebrità: errore imper­ donabile nella società moderna, già divenuta una società di comu­ nicazione. A Parigi egli conduce una vita da eremita, nella «santa solitudine» che tante volte ha esaltato nei personaggi di Mosé, di Gesù, del pastore, del lupo. L’esempio di Chatterton lo affascina, così come gli eroi shakespeariani, mentre considera la natura una matrigna. N e l D estini è infatti la natura stessa a parlare: vengo chia­ mata madre, afferma, mentre in realtà sono una tomba: Non lasciarmi mai solo con la Natura. La conosco fin troppo per non temerla39.

38 É. DURKHEIM, Le suicide. Étude de sociologie, Quadrige/PUF, Paris 1991, p. 315; trad, it., Il suicidio: studio di sociologia, Rizzoli, Milano 1997, p. 288. 39 A. DE VlGNY, I destini, in Poemi antichi e moderni, I destini, Garzanti, Milano 1991; «La casa del pastore», III, w. 279-280, p. 287.

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Vigny è un grande solitario e la solitudine è per lui causa di noia, uno dei grandi mali dell’esistenza, come più volte ha espresso: «L a noia è il grande male della vita, di cui malediciamo la brevità; comun­ que sempre troppo lunga per sapere cosa farne»; «C o s’è l’uomo? Un essere creato per vivere di noia e un bel giorno morirne»; «L a vita mi stanca e non mi dà alcun piacere». Egli è «nato serio fino alla tri­ stezza»: detesta i ricevimenti, le mondanità, le formalità e vive nel­ l’ascetismo senza alcuno sforzo, semplicemente perché non prova alcun piacere nell’approfittare delle «gioie della vita». Personalità vulnerabile e affettuosa, Vigny incarna al meglio la malinconia romantica, questo mal di vivere degli animi appassio­ nati costretti in un’epoca propizia alle frustrazioni, che tarpa le ali agli slanci e ai sogni di una generazione che, in giovinezza, aveva creduto che tutto fosse possibile. La presa di coscienza di questa realtà ha provocato tristezza, malinconia e depressione. Ciò porta Shelley ad affermare che la malinconia faccia parte integrante dello psichismo umano; latente e potenziale in tutti, essa si rivela nelle epoche e nelle situazioni in cui i desideri, i sogni, le speranze sono troppo elevati rispetto alle facoltà e alle capacità reali. Forgiare un ideale fuori portata è il modo più sicuro per rendere il terreno fer­ tile al mal di vivere.

La generazione maledetta L a prima ondata romantica, soprattutto in Francia, conserva comunque una certa fiducia nel futuro, coltivando il dolore in quan­ to fonte di ispirazione e di grandezza. Il poeta può indicare la stra­ da, mantenere in vita l’ideale; egli ha un ruolo culturale, sociale e per­ sino politico da svolgere. Il dolore gli conferisce una lungimiranza superiore che gli permette di essere una guida. Questa illusione è già morta in Germania, mentre in Francia viene mantenuta viva dal fer­ mento politico fino al 1848-1850. Poi il crollo, la caduta di Icaro. La generazione nata dopo il 1820, quella che avrà vent’anni fra il 1840 e il 1850, ha perso tutte le illu­ sioni. L’avvenire non è né dei poeti né degli utopisti, ma è della lotta di classe e del nazionalismo. Cosa può fare il poeta di fronte alla rivo­ luzione industriale? I suoi sogni non hanno la consistenza dei fumi delle fabbriche. I proletari hanno bisogno di capi rivoluzionari; i bor­ 215

ghesi di economisti e i politici della Realpolitik, dei cannoni. La prima generazione romantica soffriva per la differenza fra idealismo e realtà; la seconda invece non ha più ideali. Paul Bénichou ha analizzato come segue questa mutazione: «Non si crede più, non si vuole più credere a un futuro provvidenziale di umanità ascendente, né a un ruolo pri­ vilegiato dei poeti [...]. Era questa la fiducia che aveva animato lo slan­ cio originario del romanticismo poetico; per coloro che l ’h an n o per­ duta, tutto è cambiato. Mentre l’umanità si trasformava, agli occhi dei poeti, in una folla stupida e crudele, e la sua storia diventava un non­ senso permanente, la Provvidenza ha fatto spazio a un “nulla vasto e nero”, e Dio a un “Ideale” nemico»40. Droga, diavolo, inferno, dannazione, paradiso perduto, blasfe­ mia, disperazione: ecco quali sono ormai i temi poetici: la malin­ conia cede il posto alla disperazione. L a nuova generazione è quel­ la dei «poeti maledetti»: spesso e volentieri abietta e cinica, essa non può nemmeno sentir parlare dell’ottimismo, che considera una vera e propria oscenità, una prova di imbecillità. «Il romanticismo disin­ cantato, che ribalta le proporzioni, trovò terreno fertile nell’uso predominante di un’amarezza senza scampo, e fece di tale ingre­ diente, reso nobile dall’arte, la condizione dell’eccellenza poetica e l’emblema stesso della modernità. H a voluto vedere in ogni spe­ cie di ottimismo un segno di volgarità, se non addirittura di stupi­ dità. H a fatto brillare il male nelle sue creazioni e diffamato come menzogna o stupidaggine la speranza nel bene»41. O gnuno esprime la disperazione con la propria sensibilità. Stéphane Mallarmé, che si accontenta di una banale carriera da pro­ fessore d ’inglese, è ossessionato dalla ricerca di un ideale poetico fuori portata. Egli soffre come gli altri [...] al profumo della tristezza Che pur senza rimpianto lascia e senza amarezza La vendemmia d ’un sogno al cuore che l’ha colto42.

Paul Verlaine esprime in maniera sublime la sua tristezza ansio­ sa, quintessenza del mal di vivere assoluto poiché immotivata, nei 40 P. B énichou , L’école..., cit., p. 581. 41 Ivi, p. 585. 42 S. M allarmé, Poesie e Prose, Garzanti, Milano 1992, Apparizione, p. 17.

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suoi Poem i saturnini, nei Rom anzi senza parole e nella Saggezza. Egli porta in giro la sua malinconia, il suo «languore monotono»: Si piange e non v’è cagione Nel cuore che si accora. Che? Forse delusione?... È un lutto e non v’è ragione. Non v’è pena peggiore Di non saper perché Senz’odio e senza amore Tanta pena ha il mio cuore43.

Jean Moréas aspira a lasciare «tutte le preoccupazioni inutili e la volgare noia dell’orribile città». Arthur Rimbaud vive il proprio inferno personale: «Io mi credo all’inferno, dunque ci sono. [...] Genitori, avete fatto la mia sventura e avete fatto la vostra! [...] Muoio di stanchezza [ ,..] » 44. «Riuscii a cancellare dal mio spirito ogni speranza umana. Su ogni gioia per strangolarla feci il balzo sordo della bestia feroce. [...] L a sciagura fu la mia dea»45. Sceso negli inferi a ventun anni, Rimbaud rimane in seguito silenzioso, un silenzo che Albert Camus ha severamente giudicato come «un consenso al peggior nichilismo che possa darsi»46. Lautréamont, prima di morire a ventiquattro anni nel 1870, lancia le imprecazioni blasfeme dei Canti di M aldoror, manifestando la propria rabbia nell’«attaccare con tutti i mezzi l’uomo, bestia feroce, e il creato­ re». Leconte de Lisle chiede la morte: «Rendici il riposo che la vita ha disturbato». Sully-Prudhomme osserva amaramente che nella storia del mondo, come in quella di ogni uomo, «per un giorno di calma si paga il prezzo di un’èra di disastri». Catulle Mendès si dispera persino dei suoi oblìi:

43 Tratto da Romanze senza parole, in M. L andi (a cura di), Antologia della poe­ sia francese, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2004, p. 515. 44 A. Rimbaud, Una stagione all’inferno. Newton Compton, Milano 1995, pp. 43-44. 45 Ivi, p. 29. 46 A. CAMUS, L'uomo in rivolta, in Opere, Bompiani, Milano 2000, p. 717.

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Après l’angoisse et la folie, Comme la nuit après le soir, L’oubli m’est venu. Car j’oublie, Et c’est mon demier désespoir47.

Louise Ackermann accusa: questo mondo di tristezza è opera di D io? Allora, «Colui che voleva tutto ha voluto il dolore». È opera della natura? Allora la natura non è che una macchina che produce vita inutile: Elle n’a qu’un désir, la maratre immortelle, C ’est d ’enfanter toujours, sans fin, sans trève, encor. Mère avide, elle a pris l’éternité pour elle Et vous laisse la mort. Toute sa prévoyance est pour ce qui va naìtre; Le reste est confondu dans un suprème oubli. Vous qui avez aimé, vous pouvez disparaìtre, Son voeu est accompli48.

Gérard de Nerval, mentalmente fragile, in bilico fra sogno e realtà, perseguitato dai sogni della giovinezza e dai fallimenti amo­ rosi, è vittima di una crisi di follia nel 1853 e si suicida nel 1855. Nel frattempo pubblica E l Desdichado, tradotto in francese sia con «Il diseredato» che con «L ’infelice»: Io sono il tenebroso, il vedovo, lo sconsolato, E principe d’Aquitania dalla torre abolita: La mia unica stella è morta, e il mio liuto E stellato del sole nero della malinconia49.

Julia Kristeva ha fornito un’interpretazione psicanalitica di que­ sto poema in cui, spiega, si può intravedere la sensazione della pri­

47 Dopo l’angoscia e la follia, / Come la notte dopo la sera, / L’oblio è giunto. Poiché io dimentico, / Ed è la mia ultima disperazione [traduzione nostra]. 48 Non ha che un desiderio, rimmortale matrigna, / Partorire sempre, senza fine, senza tregua, ancora. / Madre avida, si è presa l’eternità per sé / E a voi lascia la morte. / Si cura solo di ciò che nascerà; / Il resto è confuso in un supremo oblio. / Voi che avete amato, voi potete sparire, / Il suo desiderio è esaudito [traduzio­ ne nostra]. 49 Tratto da Le Chimere, « E lDesdichado», in M. L andi (a cura di), Antologia..., cit., p. 437.

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vazione di un bene sconosciuto, di uno stato indefinibile: «O riz­ zonte segreto e intoccabile dei nostri amori e dei nostri desideri, esso assume per rimmaginario la consistenza di una madre arcai­ ca che tuttavia nessuna immagine precisa riesce a inglobare»50. Soffrire senza sapere perché, senza causa definibile, è infatti il segno distintivo dei poeti maledetti. Rifiutando di aggrapparsi a surroga­ ti del sacro come le ideologie e i nazionalismi, molti intuiscono la falsità di questi nuovi valori, mentre quelli antichi, religiosi, si sono ormai dissolti. I poeti maledetti si sentono privati di un assoluto, senza nemmeno sapere se esista o se stiano vagando in un’esisten­ za inconsistente. Nerval ha anche tentato di uscirne attraverso il riso, utilizzan­ do il burlesco come un rifugio nei suoi Contes et facéties : «Il bur­ lesco nervaliano converte il fallimento sociale in scelta etica. Prevenendo l’autosoddisfacimento, costituisce una forma di distac­ co che permette di rimediare a qualsiasi paralisi o mummificazio­ ne dello spirito [...]. Sorriso in contrappunto, il burlesco si sovrap­ pone agli accenti lirici della disperazione [...]. Esso maschera la malinconia di uno scrittore sempre deluso nelle sue speranze poli­ tiche, che colleziona fallimenti sulla scena come nella vita, incapa­ ce di rinunciare all’immagine materna»51. Il suo è stato un tentativo simile a quello di Théophile Gautier ne L es grotesques (1831-1833). Il romanziere ha espresso fre­ quentemente amarezza, rancore, rabbia potremmo persino dire, contro il mondo in generale. Egli ha la sensazione di un vero e pro­ prio tradimento, rispetto alle sue speranze giovanili: «A vedere una qualche calamità colpire il mondo, provo lo stesso sentimen­ to di voluttà acre e amara che si prova quando ci si vendica final­ mente d ’un vecchio insulto. O mondo, che mi hai fatto da indur­ mi a odiarti tanto? [...] Che mi aspettavo da te, da serbarti ora tanto rancore per avermi ingannato? A quale ambiziosa speranza hai

50 J. KRISTEVA, Sole nero. Depressione e malinconia, Feltrinelli, Milano 1989, p. 127. 51 F. S ylvos, La référence au burlesque dans l’oeuvre de Gérard de Nerval, in Poétiques du burlesque: actes du colloque international du Centre de recherches sur les littératures modernes et contemporaines de l'Université Blaise Pascal, 1996, a cura di D. Bertrand, Champion, Parigi 1998, pp. 439, 443.

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mentito?»52. Queste parole vendicatrici, che attribuisce all’eroina del suo romanzo La signorina di Maupin, rivelano lo stato d ’a n im o di questa generazione di intellettuali. Nato nel 1811 e amico di Nerval, anche Gautier è passato attraverso la prima fase romantica, la quale nutriva ancora delle illusioni, un ideale: «Sfido ima qualsiasi calamità che si abbatta sul mondo a provocare lo stesso sentimento di acre e amara voluttà che si prova quando finalmente ci si vendica di un vec­ chio insulto. Oh mondo! Cosa mi hai fatto? Perché ti odio tanto? [...] Cosa mi aspettavo da te per serbarti ora tanto rancore per il tuo ingan­ no? Quale mia alta speranza hai deluso?»53. La generazione del secondo Romanticismo non ha più ideali: si ritrova di fronte alla triste realtà senza alcuna speranza di poterla migliorare. Théophile G autier ironizza sugli anni del primo Romanticismo: «A ll’epoca era di moda nella scuola romantica appa­ rire pallidi, lividi, verdastri, un p o ’ cadaverici se possibile, perché dava un’aria fatale, byroniana, [...] divorata dalle passioni e dai rimorsi». Ormai le passioni sono finite, come anche i rimorsi, per lasciar spazio all’abbattimento, all’apatia amara di coloro che sono stati ingannati dalla vita. Paul Bénichou commenta: «S i tratta di un nichilismo assolutamente nefasto per la comunicazione umana, in cui la differenza tra il bene e il male tende a sfumare e la misan­ tropia a invadere l’esistenza sociale»54. Cadetto di Gautier di dieci anni, anche Gustave Flaubert, nato nel 1821, ha conosciuto una fase di romanticismo appassionato prima di accedere a un realismo pessimista più conforme allo spi­ rito degli ambienti del secolo, quando evoca la noia di vivere in un mondo inutile, puramente gratuito, in un paese governato dalla «stupidità borghese». Sistematosi in una proprietà nei pressi di Rouen, in una Normandia dal cielo grigio e senza l’incombenza di doversi guadagnare da vivere (la fortuna di famiglia lo priva della distrazione del lavoro necessario), egli osserva la vanità delle cose, l’immensa stupidità di tutti coloro che credono che tutto ciò abbia un senso: «Soffriamo per una cosa soltanto: la Stupidità, che tut­ tavia è formidabile e universale».

52 T. GAUTIER, La signorina di Maupin, Rizzoli, Milano 1958, p. 179. 53 Ibidem. 54 P. B énichou , L’école..., dt., p. 532.

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Nel corso degli anni Flaubert ha analizzato la società per scri­ vere i suoi romanzi e non vi ha trovato che noia e sudiciume dap­ pertutto. Nessuna azione vale l’energia che viene impiegata per essere compiuta: «Mangiare, vestirmi, stare in piedi è un supplizio: sono azioni che mi sono trascinato dappertutto, in tutto, attraver­ so tutto», scrive a Maxime D u Camp. Contrariamente a quanto affermano i trattati sulla malinconia, i viaggi non sono di alcun aiuto. Nel 1850 Flaubert si reca in Egitto e, il giorno 14 aprile, annota quanto segue: «Accam pati a Philae, sabato, domenica e lunedì - non mi muovo dall’isola e mi annoio - cos’è dunque, mio Dio, questa noia, questa stanchezza permanente che mi trascino dappertutto! Mi ha seguito in viaggio! L’ho riportata a casa! Il vestito di Deianira non era incollato alla schiena di Ercole quanto la noia lo è alla vita, alla mia vita! Solo che la divora più lentamente, ecco tutto!»55. La noia è l’intuizione del nulla che si infiltra dappertutto, che fa sbiadire l’esistenza e conferisce ai discorsi umani il carattere insi­ pido dei luoghi comuni e delle insulsaggini. G ià a diciotto anni il giovane Flaubert esprimeva la sua nausea della vita in un’opera satirica, Smarh (1839), in cui Satana porta in giro un eremita per una visita guidata del mondo, che si presenta come un triste car­ nevale: «L a vita? Ah! Per Dio o per il diavolo, è assai strana, assai divertente, assai allegra, assai vera; la farsa è buona, ma la comme­ dia è lunga. L a vita è un sudario macchiato di vino, è un’orgia in cui tutti si ubriacano, cantano e vomitano».

Diversità dello spleen: Baudelaire, Wilde, Berlioz, Tolstoj e Poe Charles Baudelaire, contemporaneo di Flaubert, è uno spirito gemello. La noia descritta con precisione chirurgica dal romanziere, viene evocata dal poeta con sonorità ineguagliabili:

55 Citato da P.-M. DE BlASI, Baudelaire/Flaubert. La chute d’Adam et du haromètre, «Magazine littéraire», n. 400, luglio-agosto 2001, p. 37.

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Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio Sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando finterò giro dell’orizzonte, una luce diurna più triste della notte; [...] - E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano lentamente nella mia anima, vinta; la Speranza, piange; e l’atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato, il suo nero vessillo56.

Quante volte lo ha ripetuto! «Questo paese ci annoia»; lasciamo «le pianure della noia», «la noia e i vasti dolori». La noia è l’essenza della condizione umana, poiché all’origine Èva, «morsa dalla noia», ha trasmesso questo veleno alla sua immensa discendenza. [...] ridurrebbe volentieri la terra a ima rovina e in un solo sbadiglio ingoierebbe il mondo; È la N oia!57 [...] la noia, frutto della cupa indifferenza, prende le proporzioni dell’immortalità58.

La noia è la fonte dello spleen , angoscia sia fisica che metafisica, soffocamento e scoramento, apatia e disgusto, che egli descrive a sua madre in una lettera datata 30 dicembre 1857: «Ciò che sento è un immenso scoramento, una sensazione di isolamento insopportabile, una paura perpetua di un’infelicità dai contorni vaghi, una sfiducia completa nelle mie forze, un’assenza totale di desideri, un’impossi­ bilità di trovare un divertimento qualsiasi [...]. Mi domandavo con­ tinuamente: a che pro questo? A che pro quello? È questa la vera essenza dello spleen». La noia dissolve tutto ciò che tocca, alimen­ tando la grande fatica universale, e si nutre del tempo, la cui relati­ vità poetica ha preceduto la relatività scientifica, questo tempo di cui non si vorrebbe sprecare un solo secondo, e che si dilata rispetto all’e­ ternità:

56 C h . B audelaire, I fiori del male, LXXVIII, Spleen, La Stampa, Torino 2003, p. 133. 57 Ivi, A l lettore, p. 7. 58 Ivi, LXXVI, Spleen, p. 131.

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O dolore, ο dolore, il Tempo si mangia la vita e l’oscuro Nemico che ci divora il cuore cresce e si fortifica del sangue che perdiamo59. Vero è che Baudelaire si rinchiude nella sua infelicità. Sin dal liceo mostra di essere un allievo cinico e difficile, convinto che lo attenda un «destino eternamente solitario». Geniale e troppo con­ vinto di esserlo, egli si isola, disprezzando la stupidità universale, coltivando l’ironia e l’umorismo, ciò lo porta a temibili paradossi: «Accoppiam o i poveri!»60. Dal 1841 al 1844, egli dilapida l’eredità paterna e conduce un’esistenza da dandy, tendenza in cui intrave­ de il «sim bolo della superiorità aristocratica del suo spirito». Ma il dandismo può anche esprimere un mal di vivere che egli cerca di combattere a oltranza, la provocazione nell’apparenza e la cura eccessiva dei dettagli. Il dandy, scrive Albert Camus, «trae la garan­ zia della sua esistenza unicamente dal volto degli altri». Costringen­ dosi a un rigore di vita quasi monastico, egli rovescia le prospetti­ ve accordando la priorità all’inutile, al superfluo, al dettaglio, pur di esprimere il suo disprezzo per il mondo ordinario, banale, su cui getta uno sguardo cinico. «Il dandismo, grido di noia»61, è una forma di disperazione, una maniera di affermare la superiorità del­ l’inutile e l’inutilità dell’azione. Lo spleen si esprime quindi in modi molto diversi, ma tutti illu­ strano un disgusto per la vita che impregna il mondo intellettuale e artistico della metà del X IX secolo. Ben pochi vi sfuggono, qua­ lunque sia la loro nazionalità e la loro disciplina. L a creazione trae ispirazione dalla depressione malinconica, fonte di creatività. Anche fra i compositori predomina l’atmosfera tragica, dal tormentato Schumann al depresso Ciaikovskij, che poteva restare anche due o tre anni senza produrre alcunché. Berlioz sognava, a volte, di far saltare in aria l’intero pianeta. Egli scrive nelle sue M em orie: «Esistono due specie di spleen : uno è ironico, beffardo, irascibile, violento, astioso; l’altro, taciturno e cupo, non chiede che l’inazio-

59 C h . B audelaire, X, Il nemico, p. 29. 60 Si veda G. MlNOIS, Storia del riso e della derisione, Dedalo, Bari 2004, p. 654: Baudelaire: «il riso è satanico, dunque umano». 61F. COBLENCE, Le dandysme, obligation d’incertitude, PUF, Parigi 1988, p. 223.

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ne, il silenzio, la solitudine e il sonno. Chi ne viene colpito diven­ ta indifferente a tutto; la rovina del mondo lo potrebbe commuo­ vere appena. Vorrei allora che la terra fosse una bom ba piena di polvere, a cui darei fuoco solo per divertirmi». Anche la pittura e la scultura hanno un ruolo di rilievo, dalle strane composizioni di William Blake alle opere tormentate di Rodin, fra le quali II Pensatore è come l ’eco m oderna della Melancholia I di Dürer. Ma gli scrittori sono evidentemente i più chiacchieroni a riguardo. Riserveremo per il capitolo seguente la storia di coloro che hanno elaborato un vero e proprio sistema della disperazione, e terminiamo con un parallelo che illustra l’internazionalismo della depressione post romantica. Il romanziere russo Lev Tolstoj e l’americano Edgar Allan Poe hanno entrambi descritto il loro stato d ’animo, che stranamente si assomiglia. Il primo scrive: La verità era questa: che la vita è non-senso. Era come se avessi vissuto molto a lungo e, cammina cammina, fossi arrivato a un abisso e avessi visto chiaramente che davanti a me non c’era nulla, se non la rovina: e fermarsi non si può, e tornare indietro non si può e neppure si può chiudere gli occhi per non vedere che davanti non c’è nulla se non Tinganno della vita e della felicità e le sofferenze vere e la vera morte: l’annientamento completo. La vita mi aveva disgustato; una forza invincibile mi trascinava a sbarazzarme­ ne in un modo qualsiasi62.

E d ecco la lettera di Edgar Allan Poe a un amico: In questo momento sono in preda a sensazioni sgradevoli. Soffro di una depressione dell’animo che non avevo mai provato prima. Ho combattu­ to invano gli effetti di questa malinconia. Mi crederai se ti dico che sto ancora male nonostante il miglioramento del mio stato. Dico che mi cre­ derai per la buona ragione che un uomo che scrive in modo lezioso non scrive così. Ti apro il mio cuore; se troverai che ne valga la pena, leggi. Sto male e non so il perché. Consolami, tu puoi farlo. Ma presto, o sarà troppo tardi. Scrivimi subito. Convincimi che vale la pena vivere, che è necessario, e avrai dimostrato la tua amicizia. Convincimi a fare ciò che è giusto. Non credere che sia uno scherzo; compatiscimi! Perché sento che

62 L ev T olstoj, Confessioni, Marietti, Genova 1996, p. 42.

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le mie parole sono prive di coerenza, tuttavia cercherò di riprendermi. Soffro di una depressione mentale che, se continua, mi distruggerà63.

Due uomini infelici, che esprimono il loro sgomento, la loro sof­ ferenza morale apparentemente senza causa, e quindi senza rimedio. L a malinconia romantica era congiunturale. Il mal di vivere era divenuto uno stato depressivo autonomo ed endemico che colpi­ va gli individui al di fuori di qualsiasi contesto culturale o socio­ politico, dalla Russia zarista agli Stati Uniti d ’America, passando per l’Inghilterra vittoriana e la Francia imperiale. Non si trattava più del «m ale del secolo», dell’agitazione dei giovani annoiati e animati dal furore di vivere, ma del male della modernità, più grave e durevole.

63 Citato da L. WOLPERT, Malignant Sadness..., cit., p. 9 [traduzione nostra].

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