Storia Del Cafè Chantant [PDF]

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Zitiervorschau

La storia del “Cafè – Chantant” di Vincenzo Porpiglia Le origini del Café-Chantant si perdono nella notte dei tempi, poiché fatti, misfatti e tradizioni provengono da una serie di aneddoti e notizie che danno la giusta misura della storia, a volte misteriosa e leggendaria, che avvolge questa parte dello spettacolo. Il termine “caffè” si udì per la prima volta a Marsiglia nel 1650, per indicare una bevanda importata dall’Oriente e che ben presto entrò in uso nelle abitudini dell’alta società. Non passò molto tempo che a qualcuno venne l’idea di sfruttare commercialmente il successo del caffè, e così l’armeno Pascal, nel suo ristorante a Foire Saint-Germain, offrì alla fine del pasto la degustazione della nuova bevanda. Il successo di questa iniziativa fu tale che ne seguirono molte altre in Francia, ma soprattutto a Parigi; ed è qui, in Rue des Fossés Saint-Germain, che il signor Procope aprì il primo “bar” d’Europa. La sua trasformazione in Café Chantant prima e Caffè Concerto poi, fu un caso. Infatti, nel 1729, a Parigi nacque la prima Società Letteraria, con la finalità di sviluppare la canzone come espressione culturale e il destino volle che la sede scelta fosse un Caffè, il “Caveau”, situato vicino a Palazzo reale. Nel 1806 il nome venne modificato in “Le Caveau Moderne”, ed il locale fu ampliato per poter così ospitare un maggior numero di spettacoli e attrazioni, sempre accompagnati dalla degustazione dell’ottima bevanda. In uno stesso luogo, venivano riuniti militari, impiegati, nobili, banchieri, tutti convenuti allo scopo di distrarsi e di ascoltare, ma soprattutto di vedere, la “sciantosa”, sempre disponibile al sorriso ed alla strizzatina d’occhio. Così, Parigi diventò il centro europeo della “belle-époque”, ma i locali adibiti a Caffè-Concerto diventarono numerosissimi anche in altre nazioni come in Austria, in Germania, in Inghilterra, in Spagna ed in Russia. In realtà i gestori dei Caffè usavano le attrazioni musicali solo come “specchietto per le allodole”, cioè per gli avventori, che gustavano bevande e gustosi cibi speciali in grande quantità. La poca attenzione per la scenografia era evidente: l’attrezzatura si limitava ad una semplice pedana su cui suonava un’orchestrina (CaffèConcerto) o accompagnata da una cantante (Café-Chantant). Visto il successo ottenuto e la concorrenza che si facevano i proprietari, ciascuno decise di arricchire lo spettacolo, offrendo al pubblico anche numeri con giocolieri,

illusionisti e comici. Questa mutazione del Caffè da “bar” a luogo di spettacolo avvenne nella seconda metà del XIX secolo, in tutta Europa e principalmente a Parigi, dove il Café Chantant raggiunse il suo massimo splendore in locali quali il mitico “Moulin Rouge”, “Le Chat Noire”, “Les Folies Bergère”. Con la Belle Epoque, il Caffè si fa spettacolo: nascono i “Caffè Chantant”. Il primo si inaugura a Parigi nel 1750, vi si avvicendano cantanti e attori, specializzati in un genere ora comico, ora grottesco, satirico e sentimentale. Trionfano le folies, tra tavoli e tazzine si ballano il can can e il tango. Artisti di grande fama, del calibro di Vincent Van Gogh, George Braques, Cezanne e Modigliani, prendono a decorare tali locali. I maggiori caffè-Concerto in Italia, che nulla avevano da invidiare a quelli parigini, furono il Caffè “Florio” a Torino, il “Greco” a Roma, il “Caffè della Scienza” a Bologna. A Napoli poi aveva il primato: il “Flora”, il “Diodato”, il “Veneziano”, “I Cavalieri”, tutti caffè frequentati da artisti, letterati e ricchi borghesi. Le figure tipiche rimasero sempre le “sciantose” e le “macchiette” . Quello della vita della sciantosa è un quadro tutto ombre e luci: “è una creatura giunta dai bassifondi, decisa a crearsi un proprio spazio nel mondo, attraverso lo spettacolo, gettandosi alle spalle tradizioni, luoghi comuni e tabù”. Probabilmente, uno dei fattori più importanti che spingevano le ragazze del popolo a questa scelta piena di pericoli e delusioni, era la necessità di sopravvivere a qualunque costo, in un mondo dove la miseria e la disoccupazione erano una piaga inguaribile, specie per le donne. Ma proprio queste donne avevano dentro di loro anche quell’istinto teatrale che le ha rese protagoniste della storia del Café Chantant. I nomi dei personaggi femminili sono numerosissimi, anche se la maggior parte poi spariva nel nulla. Quasi tutte le sciantose italiane usavano nomi francesi allo scopo di nobilitarsi, ed imbottiture nei punti giusti per accontentare gli sguardi indiscreti del pubblico. Con il passar del tempo il loro ruolo divenne più prestigioso e professionale, tanto da attrarre uomini di cultura e di spettacolo. Questa trasformazione di ruolo si avvertì anche nel vestire e nel comportamento. Così le signore, divenute anch’esse frequentatrici dei Caffè, imitavano i gesti e l’abbigliamenti di quelle donne che facevano impazzire qualsiasi uomo. Ecco trasformarsi perciò un elemento di spettacolo in un fatto di costume, inserendosi così nella storia della fine dell’Ottocento. Per citare solo alcuni personaggi possiamo ricordare Amalia Faraone, Olimpia Davigny, Rosa de Saxe, Ersilia Sampieri, Joly Fleur, Leda del Cigno, Lucy Charmante, anticipatrici del divismo cinematografico primo Novecento e delle celeberrime prime donne, quali: Anna Fougez, Lina Cavalieri, Elvira Donnaruma, Carolina Otero (la bella

Otero), Cleo de Merode. Dopo il lungo elenco femminile, ricco di immagini tristi, patetiche, ma anche romantiche e intense, possiamo parlare dei personaggi maschili, che tanta parte hanno avuto nello sviluppo di questa forma di spettacolo. Vista al maschile, la vita del “macchiettista” assomiglia a quella della chanteuse; stessi desideri, sacrifici e lotte. Furono molto amati dal pubblico perché mettevano in scena le abitudini e i difetti di ognuno, con quell’autoironia e parodia che trascinavano l’uomo a ridere di sé. Nomi quali Petrolini, Fregoli, Viviani sono rimasti nella storia dello spettacolo…….. Napoli, la più parigina delle città italiane In Italia quest’eredità viene raccolta prima di tutto da Napoli, la più parigina delle città italiane, dove per prima arriverà d’Oltralpe la moda del Caffè chantant, presto assurta a simbolo della Belle Époque. Ben presto, però, Napoli vanterà una sua autonoma invenzione: il “Caffè concerto” con un numero che sarà il prototipo del moderno spogliarello! Entrambe le invenzioni hanno lo stesso padre, Luigi Stellato, che in collaborazione col musicista Francesco Melber fu autore della celebre canzone ’A cammesella’, un duetto tra una coppia di sposini, in cui lui invita lei a denudarsi per mostrare le sue grazie. In poco tempo i “Caffè concerto”, tra i quali gli eleganti “Strasburgo”, “Birreria Monaco”, “Vermouth di Torino”, il “Gambrinus” e il “Caffè Turco”, spuntano come i funghi. In una decina d’anni Napoli poteva vantare locali come il “Circo del Varietà”, il “Salone Margherita”, l’“Eden”, l’“Eldorado”, teatri che ospitarono le maggiori “chantose” della Belle Époque, divenendo luogo preferito per il lancio delle nuove canzoni. Ma il Caffè storico più famoso di Napoli doveva diventare il “Gambrinus” che aprì i battenti nel 1890 e col tempo arrivò a rappresentare il principale luogo di convegno di Napoli. Le sue sale, impreziosite da dipinti, marmi, stucchi, divennero una piccola galleria d’arte illuminata ben presto dall’energia elettrica. Le sale del “Gambrinus” hanno visto passare tutti gli intellettuali e gli artisti della Napoli otto-novecentesca tra cui Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Benedetto Croce, Eduardo De Filippo ed Enrico De Nicola. Diretto concorrente del “Gambrinus” fu il “Caffè Turco”, aperto nel 1885, in cui si organizzavano intrattenimenti musicali durante i quali il proprietario, vestito alla turca con un fez rosso in testa, era solito sorvegliare che tutto procedesse per il meglio. Non ci volle molto perché il caffè diventasse la bevanda cittadina. Anzi quello napoletano divenne presto il caffè per antonomasia! Esso incarnò così bene lo spirito napoletano che fu anche oggetto di celebri canzoni popolari: da A tazz è cafè, in cui la tazzina di caffè – sotto dolce (per lo zucchero che vi si deposita) e sopra amara (prima di

girare col cucchiaino) – viene paragonata, in un confronto volutamente a doppio senso, alla donna da conquistare. A Napoli il caffè diventerà un vero e proprio rito, una cerimonia come quella del tè in Giappone; una cerimonia con i suoi tempi, i suoi ritmi, il suo officiante, i suoi strumenti “liturgici” e – perché no? – i suoi trucchi per riuscire meglio. Insomma la manifestazione di una vera e propria scuola di pensiero. Chi nell’immaginario comune sintetizza al meglio la filosofia partenopea del caffè è senz’altro Eduardo De Filippo, che nel suo Questi fantasmi la immortalò in un memorabile monologo. Ma il più celebre contributo partenopeo alla cultura del caffè in Italia è senza dubbio la “napoletana”, che fu la caffettiera più diffusa fin quando, nel 1933, la mente creativa dell’ingegnere milanese Alfonso Bialetti non partorì la prima Moka Express dai chiari tratti Art Decò. Il proverbiale senso di umanità e l’ospitale cordialità dei napoletani hanno lasciato tracce nella loro cultura del caffè. Fu infatti nei bar di Napoli che vide la luce quello che può essere ritenuto il tipo più “buono” di caffè: il “sospeso”, ossia un espresso non consumato da chi lo paga (consumazione “sospesa”, appunto) ma destinato a qualche avventore meno abbiente di passaggio, un piccolo-grande segno di solidarietà sociale. La Galleria Umberto I e più celebri Cafè-Chantant di Napoli La passeggiata per Via Toledo, magistralmente descritta dagli scrittori stranieri innamorati di Napoli,

costituiva

prima

del

aveva

il

l’antipasto

divertimento, suo

tempio

che nella

Galleria Umberto I dove si trovavano i più celebri CafèChantant della città. Alla fine del percorso possiamo immaginare che stia scendendo la sera, la luce dei lampioni a gas, le insegne dei negozi: si illumina la scena. E possiamo “vedere” la duchessa Caffarelli che passeggia con due gentiluomini, il conte Perrone che esce dalla pasticceria Pintauro, alcune donne che conversano allegramente concedendosi prolungate risate: sono le demi-mondaines, giovani donne che si concedono solo agli uomini facoltosi. Con le loro toilettes, ma più ancora con la loro bellezza, gareggiano con dame aristocratiche. Dai negozi si entra e si esce sorridenti, coppie di innamorati passeggiano scambiandosi sguardi languidi, schiocchi di frusta sollecitano i cavalli. E’ l’ora della vita, è l’ora del cicaleccio, è l’ora dell’amore, è l’ora in cui Toledo offre il gran finale del suo meraviglioso spettacolo. Sul finire del

XIX secolo, quando Parigi divenne il simbolo del divertimento e della vita spensierata, i cafè-chantant valicarono le Alpi per essere importati anche in Italia. La novità esplose a Napoli, dove l’epoca d’oro del caffè-concerto coincise con quella della canzone napoletana. Nel 1890 per merito dei fratelli Marino, che capirono l’importanza di un’attività commerciale redditizia da unire al fascino della rappresentazione dal vivo, venne infatti inaugurato l’elegante Salone Margherita, incastonato nella pittoresca Galleria Umberto I. L’idea fu vincente e ricalcò totalmente il modello francese, persino nella lingua utilizzata: non solo i cartelloni erano scritti in francese, ma anche i contratti degli artisti e il menu. I camerieri in livrea parlavano sempre in francese, così come gli spettatori: gli artisti, poi, fintamente d’oltralpe, ricalcavano i nomi d’arte in onore ai divi e alle vedettes parigine. In breve oltre al Salone Margherita sorsero altri cafè-concert come l’elegante Gambrinus, l’Eden, il Rossini, l’Alambra, l’Eldorado, il Partenope, la Sala Napoli ed altri ancora. Perfino i bar di Napoli, che in passato non presentavano spettacoli, si adattarono al gusto del momento presentando numeri di varietà misti a canzoni. Solitamente gli spettacoli proposti erano presentati in successione, con un intervallo tra primo e secondo tempo del susseguirsi di rappresentazioni. Solo verso la fine del primo tempo qualche personaggio noto appariva in scena ma il clou veniva raggiunto al termine, quando il divo eseguiva il suo numero. Importanti e famosi artisti che iniziarono la loro carriera proprio nei caffè-concerto furono Anna Fougez, Lina Cavalieri, Lydia Johnson, Leopoldo Fregoli, Ettore Petrolini, Raffaele Viviani. Il cafè-chantant divenne in Italia non solo un luogo ed un genere teatrale, ma anche qui, come in Francia, il simbolo della bella vita e della spensieratezza.

Al

successo

della

canzone

napoletana si accompagna la nascita del cafè-chantant con l’inaugurazione

del

Salone

Margherita, una settimana dopo l’apertura della Galleria Umberto I, che in breve diverrà il cuore pulsante della cultura e della mondanità cittadina. Il nuovo locale occuperà gli spazi sotterranei ed ottenne in breve lasso di tempo un successo internazionale, grazie al coraggio imprenditoriale dei fratelli Marino, che sul loro palcoscenico fecero sfilare le più celebri vedettes internazionali, come la Bella Otero o Cleo de Mérode, alle quali si

affiancarono non meno brave ed affascinanti prime donne indigene, che, pur sfoggiando modelli e pseudonimi francesi, in onore del paese dove era nato quel tipo di spettacolo, erano originarie del Vasto o del Pallonetto. Assursero a grande notorietà anche molti comici come Pasquariello e Maldacea o magnifiche cantanti, tra le quali spiccava il nome di Elvira Donnarumma, la prediletta di Libero Bovio. Il termine “Sciantosa” deriva dal francese chanteuse che vuol dire cantante, ma anche primadonna, attrazione, fantasia: quella che oggi si definirebbe una star. Sull’esempio del cafè-chantant di Parigi, negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, a Napoli furoreggiò il caffè-concerto, con protagonista, appunto, la sciantosa. Per essere il più possibile simili alle colleghe d’oltralpe, le indigene adottavano nomi d’arte francesizzanti e gli autori di canzoni ironizzavano volentieri su questa moda. Nacquero così “A frangesa” di Mario Costa nel 1894, “Lily Kangy” del 1905 (la macchietta di successo di Nicola Maldacea) e infine la famosa “Ninì Tirabusciò”, un nome ed un cognome certo più eleganti di Nina Cavatappi. Questa leggendaria figura fu creata nel 1911 da Califano e Gambardella e negli anni Sessanta il ritornello, che fu il cavallo di battaglia di Gennaro Pasquariello, venne rilanciato in televisione e al cinema da Monica Vitti in veste di sciantosa. In epoca più vicina a noi le gustose tiritere di Ninì Tirabusciò sono state rivisitate da Mirna Doris, autentica vedette dell’avanspettacolo, dalla dosata ironia e dal gustoso piglio popolaresco. Il successo del cinema fu tale che anche il mitico Salone Margherita fu costretto ad inserire, all’interno della programmazione serale, alcuni minuti di proiezione di un film. Il caffè Calzona Poco tempo dopo l’inaugurazione della Galleria Umberto I, al suo interno fu aperto, con una grande cerimonia, il Caffè Calzona. Ben presto i napoletani impararono a conoscerlo per le serate di gala e i luculliani banchetti ufficiali che vi si tenevano. Fu qui che, al ritorno da Parigi, fu festeggiata Matilde Serao per il successo raccolto in terra francese e fu al Calzona che, per la prima volta sul palcoscenico di un Cafè-chantant napoletano, ancor prima che al Salone Margherita, si esibirono le girls. Era la mezzanotte del 31 dicembre 1899, quando 12 bellissime ragazze, con il loro balletto, un po’ osé per quei tempi, salutarono l’Ottocento come il secolo d’oro appena concluso e diedero il benvenuto al neonato Novecento. Ma gli spettacoli di varietà nel Caffè della Galleria non costituivano un avvenimento eccezionale: erano in programma ogni sera.

Il piccolo palcoscenico, posto proprio al centro e rivolto verso Via Santa Brigida, fu calcato da personaggi dello spettacolo rimasti famosi, in particolare dalla coppia Scarano-Moretti, cioè il padre e la madre di Tecla Scarano. Gli spettacoli del Calzona avevano tale successo di pubblico che anche i giornali dell’epoca, spesso, ne pubblicavano le recensioni. Di solito, i critici dei quotidiani seguivano solo le prime dei lavori in scena nei numerosissimi teatri napoletani. Anche il Caffè della Galleria, per i prezzi particolarmente bassi che praticava e per gli spettacoli gratuiti e di buon livello, era divenuto un punto d’incontro tra le classi ricche e quelle meno abbienti. Con la spesa di soli tre soldini si prendeva il caffè seduto al tavolino e si poteva trascorrere l’intera serata a godersi lo spettacolo. C’era chi, più fortunato, poteva assistere dalle finestre del suo ufficio al primo piano. Era il caso di Matilde Serao che, dalla redazione del Il Giorno, tra uno scritto e l’altro, volgeva volentieri lo sguardo verso il piccolo palcoscenico del Calzona. Il Caffè, con la sua attività di spettacoli e con il suo pubblico eterogeneo, fornì lo spunto ad una macchietta, inventata dal cronista mondano del Mattino Ugo Ricci. La interpretò l’attore Nicola Maldacea nel vicinissimo Salone Margherita. Nel dialogo si magnificavano le caratteristiche del locale: “In fatto di cafè, presentemente, non v’è di meglio d’ ‘o Cafè-Calzona …” Col passare del tempo il Calzona perse la parte più consistente della sua clientela in favore di altri locali, in particolare, a beneficio dei soliti Gambrinus e Salone Margherita. In questi anni, dopo Ninì Tirabusciò, nata dalla penna prolifica di Aniello Califano, Ferdinando Russo firma il primo fascicolo della Piedigrotta e, grazie alla casa discografica Polyphon, annunzia l’ambizioso progetto di esportare la canzone napoletana in tutto il mondo. Giungeranno così per i siti più lontani la poetica del nostro animo sognante, l’idea di un mare divino, di un sole ammaliante, della nostre armonie gentili ed accattivanti. Il fenomeno dei cafè-chantant napoletani fu tale che in breve tempo cominciò ad espandersi nelle altre grandi città italiane. La prima città ad introdurli a sua volta fu Roma. Il perché di tale diffusione non deve stupire: così come a Napoli, anche a Roma, a Catania, a Milano, a Torino ed in molte altre città letterate d’Italia si riunivano spesso, nei bar e nelle trattorie, cantanti e poeti che, nel corso di riunioni semiprivate, si dedicavano al canto ed alla declamazione di poesie. Questa forma artigianale di spettacolo fu il fertile terreno su cui si basò il successo dei caffè-concerto, che negli ultimi anni del 1800 aprirono anche nella Capitale. Sempre i fratelli Marino, già proprietari del Salone Margherita di Napoli, inaugurarono nella Capitale due nuovi locali: un altro Salone Margherita e, successivamente, il Teatro Sala Umberto. A questi seguirono

numerosi altri cafè-chantant dai nomi altisonanti ed esotici: uno di questi portava il poco allegro nome di “Cassa da morto”. Lina Cavalieri

Il suo vero nome era Natalina Cavalieri (Viterbo, 25 dicembre 1874 – Firenze, 8 febbraio 1944). Cavalieri è stata soprano e attrice cinematografica italiana. Figlia di un architetto marchigiano e di una sarta di Onano di nome Teonilla Peconi, si trasferì fin dalla nascita a Roma con tutta la famiglia. Il padre, licenziato a causa delle molestie rivolte alla moglie del suo principale, era caduto in cattive condizioni economiche e Lina, così, fu costretta a dare un aiuto impiegandosi nei più diversi mestieri: fioraia, piegatrice di giornali presso una tipografia ed infine apprendista sarta. L’abitudine della ragazza a cantare durante il lavoro con una notevole voce spinge la madre a ricorrere ad Arrigo Molfetta, che si offre gratuitamente di insegnare qualche canzonetta alla oramai adolescente Lina. A quindici anni debuttò in un teatro di Piazza Navona e, di questo avvenimento, vi è un ricordo scritto di suo pugno nel memoriale “Le Mie Verità”. La popolarità di canzonettista della Cavalieri fu in continua ascesa grazie alla sua bellissima voce, ma anche grazie alla sua notevole bellezza e ad un temperamento focoso. Passò ad esibirsi al teatro Orfeo, per dieci lire al giorno, poi al teatro Diocleziano per quindici lire. Era arrivato il momento di approdare nel regno italiano dei cafè-chantant: Napoli. A ventun anni, al Salone Margherita, sicuramente il traguardo più prestigioso per una canzonettista del tempo, la Cavalieri raggiunse il primo successo di ampio respiro, ottenendo così il trampolino di lancio per l’Europa. A Parigi, trionfò alle Folies Bérgères cantando un programma di canzoni napoletane accompagnata da un’orchestra completamente femminile, tutte chitarre e mandolini. La Belle époque fu affascinata dalla sua bellezza e dalla sua grazia. Nonostante le sue origini modeste, aveva il portamento ed i modi della gran dama. Gabriele d’Annunzio le dedicò una copia del romanzo “Il piacere” (1899) definendola la vera testimonianza di Venere in Terra. È difficile distinguere tra verità e leggende il numero di proposte di matrimonio ricevute,

ben ottocentoquaranta secondo alcuni. I matrimoni effettivi raggiunsero il numero di cinque, senza durare a lungo. Il primo celebrato a Pietroburgo nel 1899 con il Granduca Eugenio di Luchtenberg, dal quale divorziò in fretta dopo la richiesta di lasciare la vita teatrale. Anche il secondo matrimonio, a Lisbona nel 1900 con il re del Kazan, finì in un divorzio in seguito all’identico rifiuto di Lina di rinunciare al canto e al teatro. Pare che il sovrano fosse disperato a tal punto che, sposata una sosia della Cavalieri, si diede all’alcool e morì a soli quarant’anni, dopo aver espresso la volontà di essere sepolto a Firenze, la città preferita dalla «sua» Lina. Il terzo marito fu Robert E. Chanler, un ricchissimo americano conosciuto nel 1907 durante le rappresentazioni di Fedora al Metropolitan. Chanler era convinto di tenere a sé l’artista per tutta la vita grazie alle sue ricchezze, ma anche lui venne liquidato in una settimana per aver pensato di trasformare la cantante in una moglie. Un’immensa quantità di beni, comprendente addirittura tre palazzi, trasmigrò prima del divorzio dal patrimonio dell’americano nelle mani della Cavalieri. Solo il compagno d’arte Pietro Muratore, sposato nel 1914, riuscì là dove altri avevano fallito, farle cioè abbandonare il teatro. Il 26 luglio del 1927 divorziò però anche da quest’ultimo per sposare Giuseppe Campari, che le fu accanto al momento del ritorno in Italia e nella vecchiaia. Ersilia Sampieri

Al secolo Ersilia Amorosi, fu la prima diva del cafè-chantant. Torinese di nascita (1877) e napoletana di adozione, usò la sua fama e la sua ricchezza per aiutare i bisognosi. Era orfana dei genitori, che le lasciarono un solo capitale: una prorompente bellezza ed una bella voce. Dopo aver lavorato in una compagnia di bambini, la Lillipuziana, in breve si trovò ad esibire nei locali del lungomare di Marsiglia. A Napoli si trasferì a 17 anni e, con il nome di Piccola Andalusa, si esibiva alla Birreria dell’Incoronata, cantando in napoletano, francese e spagnolo. Divideva il palco con giovani di grande talento come Elvira Donnarumma ed il macchiettista Davide Tatangelo. Alla fine girava col piattino per le offerte, facendo intravedere il seno. Passò poi al Caffè ScottoJonno e da lì spiccò il volo per esibirsi nei locali italiani con puntate anche all’estero. Nel 1901, quando i fratelli Marino la scritturarono al Salone Margherita, era già una diva. Vi rimase sei anni, alternando esibizioni a Parigi e Londra, dove venne definita la “Sarah Bernhard del caffè-concerto”, mentre Edoardo Scarfoglio preferiva l’epiteto di “la Fenice della Fenice”. Gli impresari le misero a disposizione un secondo camerino, dove procurava lavoro, trovava un letto in ospedale, facilitava permessi ed esoneri ai militari: tutto solo per umanità. Su di lei circolavano svariate leggende: amante di un rampollo di casa Savoia o membro della massoneria. Di lei si innamorò perdutamente Libero Bovio, che le dedicò una struggente poesia. Nel 1907 sposò Mister Muscolo, un lottatore acrobata gelosissimo, che le vietò le attività benefiche e la portò in breve alla separazione ed alla solitudine. A Parigi fece innamorare un petroliere e durante una tournée in Medio Oriente, conquistò un pascià disposto a follie pur di averla nel suo harem. Resse la scena fino ai 45 anni e piano piano, finiti i risparmi, per sopravvivere si improvvisò chiromante con studio a Roma. Resistette 12 anni, poi finì all’ospizio dove si spense a 78 anni nel 1955. La sua voce è giunta fino a noi grazie ai dischi della Phonotype, che ci permettono di riascoltare i suoi cavalli di battaglia: “ I te vurrìa vasà”, “Voglio siscà” e “Donna Fifì”. Elvira Donnarumma Nacque a Napoli nel 1883. ……”La chiamavano “Capinera”

pe’ i suoi ricci neri e belli: stava sempre fra i monelli, per le strade tutto il dì. Scalza, lacera, una sera, m’apprestavo a rincasar col visino suo di cera, me la vidi avvicinar. “Dammi un soldo… ho tanta fame”, “Ci hai la mamma?”, “Non ce l’ho!” “Ed il tuo babbo? La tua casa?” e lei triste… “non lo so!” … Provai una stretta al cuore e quella sera la mia casetta accolse “Capinera”……… Elvira Donnarumma è la regina indiscussa dei primi vent’anni del ‘900. I suoi dischi vanno a ruba e solo verso la metà degli anni ’20, quando la sua malattia ne fa rallentare l’attività artistica, è sorpassata dalle nuove promesse (future star internazionali) canore napoletane come Gilda Mignonette, Ria Rosa, Lina Resal, Teresa De Matienzo e Ada Bruges. Un manifesto del 1919 della “capinera napulitana” la presentava così: “……….Il cielo cristallino, il sole d’oro, la cerulea collina di Posillipo, il Vesuvio… Sono le glorie di Napoli; ma una delle glorie più fulgide di questa sognante città è Elvira Donnarumma, che ne canta così meravigliosamente le divine bellezze. Anima aristocratica, vibrante di alta e genuina poesia, ella non esercita la professione del canto, ella invece assolve una missione profondamente spirituale, e cioè rende visione (dolcissima per ogni cuore di napoletano) ciò che, nell’ardente vita di questo popolo, il sentimento. Nella sua nobile arte, che è insieme sintesi e analisi, ognuno trova rivelato se stesso, nelle passioni, nei palpiti più intensi che ne agitano e ne commuovono l’esistenza. E amore e spasimo e giocondità riproducono i suoi occhi, vividi d’intelligenza, quand’ella, attraverso le melodie dei nostri squisiti autori, ci ridà la melanconia del passato e l’ansia indefinibile del presente………” ……”Elvira Donnarumma è una grande e pura gloria nostra. Lo afferma tutto il popolo di Napoli, che ripete pei vicoli, per le piazze, nei dorati tramonti o nelle albe raggianti, le sue canzoni: quelle da lei battezzate con la fiamma splendidissima del genio.” Gilda Mignonette Gilda Mignonette, nome d’arte di Griselda Andreatini

nasce

a

Napoli il 28 ottobre 1886 e muore l’8 giugno 1953 durante la traversata da New York a Napoli dopo aver espresso il desiderio di morire nella propria città natale.

Non ci riuscì, morì a ventiquattro ore da Napoli sulla transoceanica “Homeland”. Sul certificato di morte vennero riportate le coordinate del punto in cui si spense: latitudine 37′ Nord, Longitudine 4′ Est. E’ stata una grande “sciantosa” nel teatro di varietà italiana. Le incisioni dei più bei Canti degli Emigranti interpretate da Gilda Mignonette sono state, negli anni ’20 e ’30 del ‘900, delle vere e proprie hits internazionali. La Mignonette è dotata di un talento formidabile che la pone ad un livello talmente alto da poter competere senza sfigurare sul piano internazionale. Spesso la “regina degli emigranti” (come fu battezzata dai suoi fans) è paragonata alla cantante di blues Bessie Smith, a dimostrazione di una statura artistica ancora tutt’oggi da definire. Gilda di stupefacenti qualità, si dimostra insuperabile specialista del genere drammatico. Nella canzone “Santa Lucia luntana” la Mignonette trova, come sempre, toni fortemente espressivi con accento meravigliosamente centrato, sfoggiando, oltre tutto, una dizione netta e chiara. Il brano, inoltre, si avvale delle sirene dei bastimenti che partono e del vocio degli emigranti, usato come atto di dolore e di nostalgia: “Partono ‘e bastimente pe’ terre assaje luntane, cantano a buordo: so’ napulitane. Cantano pe’ tramente, ‘o golfo già scumpare, e ‘a luna a mmiez’o mare ‘nu poco ‘e Napule le fa vedè.” (Partono le navi per terre assai lontane, cantano e a bordo sono napoletani. Cantano mentre il golfo di Napoli scompare dall’orizzonte e la luna, in mezzo al mare lascia con la sua luce intravedere un po’ di Napoli). La

canzone

“Mandulinata”

e

“l’emigrante”

sono

veri

capolavori

d’interpretazione. La Mignonette canta con enorme intensità emotiva e grande fraseggio drammatico. Ester Bijou Ester Bijou è il nome d’arte di Giovanna Santagata. Nasce a Capua (Napoli) il 19 luglio 1883 e muore a Napoli il 4 luglio 1912, all’età di 29 anni non ancora compiuti. Biondissima e con due occhi di colore azzurro, la

sciantosa

napoletana

è

definita, fin dall’inizio della sua carriera, il “Diavoletto biondo” per la sua capacità di scatenarsi sul palcoscenico e di coinvolgere e far scatenare il pubblico in sala. Ester debutta giovanissima nel varietà, insieme con i duettisti Trombetta e Mimì Albin, riesce in breve tempo a staccarsi da questi artisti per

volare verso una gloriosa quanto breve carriera. La grande occasione arriva nel 1904, quando è invitata a partecipare alla sua prima audizione di Piedigrotta dall’editore Capolongo. La giovane sciantosa raggiunge, grazie a questa partecipazione, tanta di quella popolarità, che, oltre a ricevere un’immediata scrittura per il prestigioso Salone Margherita, il giornale più importante dell’epoca, “l’Eldorado” (un mensile di teatro e musica), le dedica addirittura la copertina, con un ricco quanto interessante articolo: “Quando abbiamo notato, due o tre anni fa, quest’artista, ne abbiamo immediatamente intuito la prontezza di spirito che l’avrebbe portata ad un rapido successo che in poco tempo la rende, ora, una tra le “ètoiles” più famose del nostro campo artistico. Esterina Bijou di Capua presenta un repertorio piacevole con voce suggestiva (se non forte e bella) e con verve che sa tutto dello schioppettio parigino. Al nostro Salone Margherita è da più di un mese il numero che interessa a preferenza degli altri, e che riceve gli applausi sinceri e compatti, forse come nessun altro numero del programma. Il diavoletto biondo riesce a passare dal pur prestigioso palcoscenico del Teatro Eden a quello del Salone Margherita, eseguendo addirittura il cosiddetto numero di centro, prerogativa, fina a quel momento, soltanto delle sciantose straniere. Nel 1906, Ester lascia il Salone per approdare nei più prestigiosi salotti e Café Chantant di Parigi e di Malta (è stata la prima donna italiana a raggiungere questi luoghi, domìni di sole sciantose francesi, ungheresi e spagnole). Donna molto vanitosa, ha sempre amato circondarsi di gioielli, corteggiatori e del lusso in generale, spendendo la maggior parte dei suoi guadagni in preziosi, abiti, costumi di scena, quadri di valore e arredamenti d’epoca. Amatissima e nello stesso tempo molto odiata da uomini e donne, Ester, nonostante il suo temperamento vivace e la sua corazza indifferente ai continui attacchi di colleghe invidiose e giornalisti respinti, è stata una donna molto sensibile, soffrendo in silenzio per la sua promiscua vita privata, mai serena e sempre travagliata da dolorose relazioni d’amore e false amicizie. Nonostante il disagio nella sua vita privata, Ester continua a mietere successi teatrali e musicali, riuscendo ad arrivare là dove solo poche elette sono riuscite. Le richieste concertistiche, negli anni tra il 1905 ed il 1910, sono così numerose, che spesso la sciantosa partenopea le rimanda o, addirittura, non tiene parola ai suoi impegni, facendo impazzire gli impresari che continuamente annunciano un suo concerto o spettacolo teatrale, e che poi devono annullare per il disimpegno. La bella napoletana ha sempre amato esibirsi, trovando il suo vero orgasmo sul palcoscenico, ma ha saputo anche conciliare e coltivare i suoi spazi privati, fatti, comunque, sempre di vita mondana e di lusso in generale. Questa parte del suo carattere è confermata da una lettera che la stessa invia a Bel Amì, e nella quale si legge: “Caro Bel Amì, sono compiacente dell’autunno parigino. Credo che nulla val meglio

della Villa Lumière per una donna chic, soprattutto quando si possono fare ingenti acquisti negli ateliers de mode della Rue de Rivoli, nei grandi bijoutiers di Rue de la Pais e sfidare il vento a bordo di una Darracq 60 HP. Caro Bel Amì, così la vita è proprio bella! Tua affezionata Bijou”. Nel 1908, il diavoletto biondo svolge la sua attività in particolar modo all’estero: pagata profumatamente, Ester gestisce i suoi impegni soprattutto tra la Francia e l’isola di Malta, e solo raramente si esibisce in Italia e solo al Salone Margherita di Roma e di Napoli. La popolarità della sciantosa è tale che, in occasione di un suo concerto all’isola di Malta nell’agosto del 1907 (al Café du Commerce), il gestore del Salone, un certo Cav. Vincenzi, per contenere le prenotazioni, decide di aumentare il biglietto d’ingresso, e a grande sorpresa, nonostante ciò, trova il suo locale zeppo di pubblico brillante e rumoroso che quasi danneggia il suo ritrovo. Il grande afflusso di gente attira inevitabilmente la Stampa del luogo, la quale puntualizzerà, il giorno successivo al concerto, che la bella figura della Bijou, accompagnata dalla sua travolgente simpatia e dalle sue qualità interpretative, non sono pari alla sua voce, senz’altro gradevole, ma non sufficientemente estesa, come quella di altre sciantose. Ester Bijou canta fino a che, il 4 luglio del 1912, dopo uno spettacolo teatrale al Salone Margherita, è ritrovata morta in un albergo di Napoli, suicidatasi con un colpo di rivoltella al cuore. Ma è stato veramente un suicidio? La cronaca racconta che la tragedia nasce dal dolore per l’abbandono del suo amante, il Principe di Fondi, un elegante e aristocratico giovane napoletano, nel quale la cantante aveva riposto le sue illusioni. Ria Rosa Vero nome Maria Rosa Liberti, nasce a Napoli il 2 settembre 1899.

Esordisce

giovanissima

alla sala Umberto, mostrando una notevole voce calda e decisa. Si esibisce anche a New York dove viene proclamata “Cantante degli Emigranti” ed ironicamente “Nonna delle Femministe”. Nel 1922 sbarca a New York con la compagnia di Nicola Maldacea; qui dato il successo, fonda una sua Compagnia. Maria Rosa successivamente si dedica alla rappresentazione di particolarissime sceneggiate, quali “E’ Pentite”, storia

e sorte delle ragazze madri napoletane. Suscita scalpore anche per altre sue esibizioni; non si risparmia il travestimento da Guappo per cantare canzoni al “maschile” come “Guapparia”. E neppure ha timore di sfidare le autorità americane nel 1927, denunciando con “Mamma Sfortunata” (primo titolo A’ Seggia Elettrica) l’errore giudiziario per la condanna a morte di Sacco e Vanzetti, subendo minacce e rischiando l’espulsione dagli States. La sua vita fu un continuo viaggio Napoli – New York, dove si stabilì definitivamente nel 1937, anno in cui tornò per l’ultima volta in Italia in occasione della morte del grande compositore suo amico E. Tagliaferri, per il quale cantò per l’ultima volta in pubblico “Chitarra Nera” a lei dedicata e lasciata incompiuta. Ria Rosa torna così a New York, lascia le scene da quel fatidico 1937, muore in America nel 1988. Elio Ria dopo la morte della grande diva scrive: “Ora che non c’è più è come se il paese fosse stato privato di qualcosa. Un paese del sud, come tanti, con tanta gente di fatica, con i colori del sole e il grigio perla della luna. Rosa era una donna del sud, tutti in paese la conoscevano. Aveva i capelli neri ondulati, abbandonati alla bizzarria del vento. Il rossetto sulle labbra carnose ne risaltava l’indole trasgressiva. Amava passeggiare con il ventaglio nero con sottili righe di color rosso. I suoi abiti rigorosamente neri con il profilo di merletto, come a significare l’eleganza di altri tempi. I suoi occhi erano accesi di simpatia e fermezza. La sua bellezza di gioventù, consumata troppo in fretta per miseria, viveva nel suo cuore e amava parlarne con discrezione come solitamente sapevano fare le nobildonne. Il paese non badava alle sue stravaganze, ai suoi giochi di parole, alle continue burla e risate: preferiva tenerla a debita distanza, non godeva della stima degli altri, di coloro che in fondo erano sì brave persone ma non potevano accettare il suo modo di essere donna diversa. Il suo viso beffardo congelava le maldicenze e all’occasione sapeva imporre la sua autorità di donna. Abitava in via XXIV maggio, nel centro storico del paese, in una corte bianca, in una casa senz’acqua né luce. Eppure era felice, cantava le melodie dell’amore durante le notti d’estate, quando nella piazza principale ancora la gente sostava a chiacchierare e a spettegolare.

E

la

vita

scorreva

tra

un andirivieni

continuo

per

l’approvvigionamento di acqua dalla fontana della piazza e le lacrime sapientemente celate sul volto rugoso per la sua bellezza di donna svanita troppo in fretta. La sua voglia di amare era acciaio che dava prova di durezza e indistruttibilità. Conosceva gli incantesimi, sì un po’ era fattucchiera, maga, strega e degli uomini conosceva vizi e virtù. Avrebbe voluto avere, fare qualcosa d’importante: non gli fu mai data l’occasione e ingenuamente seppe perdersi nel labirinto dell’amore. Fu per lei una pena ingiusta, un lutto eterno.

Un destino irrevocabile per interpretare il senso della vita che sfugge ad ogni considerevole ragionamento, ma che esprime quella gioia incontenibile in ciò che si oppone: nel dolore e nel lutto. La sofferenza di non avere avuto amore nella giusta misura, nell’inesprimibile desiderio d’essere amata, fu per lei una prova da superare ad ogni costo, con la sapienza del riso e della capacità di dare conforto al dolore che torturava il suo cuore attraverso l’ironia e il sarcasmo. Era colpa e innocenza. Buio e luce. Ora non c’è più, ma è come se esistesse ancora. E la gente del paese faccia in modo di non dimenticarla, ora”. Anna Fougez

Anna Fougez, pseudonimo di Maria Annina Laganà Pappacena (Taranto, 9 luglio 1894 – Santa Marinella, 11 settembre 1966), è stata una cantante e attrice italiana. Nata a Taranto, figlia di Angelo Pappacena e di Teresa Catalano e rimasta prestissimo orfana di entrambi i genitori, fu adottata da Giuseppe Laganà e Giovannina Catalano, sua zia. Fu una stella del varietà che furoreggiò sui palcoscenici italiani fra la prima guerra mondiale e la marcia su Roma. Debuttò sul palcoscenico all’età di 8 anni, incoraggiata dagli zii. All’età di 15 anni si esibì in coppia con Petrolini, a 16 anni si cucì sui rammendi delle calze decine di strass, comprò per due lire due ventri di lepre, se li drappeggiò al collo come se fossero state volpi e cantò Bambola al Teatro Mastroieni di Messina. Fra il 1919 ed il 1925, la Fougez raggiunse il massimo del suo successo: guadagnava 500 lire a sera e, in alcuni casi, 2.000 lire a sera. Era il momento del varietà, che vide in lei e nelle sue rivali delle vere e proprie regine. La Fougez era la più elegante di tutte: le prime piume di struzzo, le prime scale in palcoscenico, le prime fontane d’argento furono per lei. Fu qualche cosa di più di una cantante di successo: era l’espressione dell’eleganza, della ricchezza e del lusso, la sciantosa per antonomasia. Il suo nome d’arte si ispirò a quello della celebre vedette internazionale delle Folies Bergère Eugénie Fougère. Era un’artista dotata di notevole talento. Legò il suo nome ai più bei motivi dell’epoca: Vipera, Abat-jour, Addio mia bella signora, Chi siete?, Passa la ronda, A tazza ‘e cafè. Nel 1940 si ritirò dalle scene e si chiuse in una villa piena di cimeli, a Santa Marinella, in provincia di Roma, dove continuò a vivere da grande Diva, assieme al secondo marito, il ballerino René Thano e alle amiche di sempre: Amelia De Fazi e Annamaria De Fazi.

Morì nel 1966 all’età di 72 anni. Margaretha Gregory

Margaretha, al secolo Margherita De Gregorio, nasce nella centralissima piazza Dante di Napoli il 3 settembre del 1923. La madre Rosa è una dama di compagnia della nobildonna Maria de las Mercedes di Borbone, Infanta di Spagna, che soggiorna a Napoli per lungo tempo. Per tale motivo, la piccola Margaretha, già dalla più tenera età, si trova a frequentare l’alta aristocrazia partenopea. Sovente è ospite della famiglia Ranieri e trascorre gli anni della sua gioventù con i figli di Alfonso e Maria Antonietta di Borbone. La giovane Margaretha ama il canto e la danza e, sollecitata dai parenti durante le feste familiari, si esibisce nel repertorio più famoso delle canzoni napoletane; lo fa anche in francese e spagnolo. Non calcherà mai per sua scelta le scene del teatro. Isa Landi Isa Landi è il nome d’arte di Concetta

Polidoro.

Nasce

a

Napoli il 28 Ottobre del 1925, figlia

di

(operaio

Pasquale di

un

Polidoro

calzaturificio

militare) e di Nunzia Fiorenti (orlatrice

di

una

ditta

d’abbigliamento). Isa coltiva la passione per il canto fin da piccola, quando, insieme con sua sorella minore Giustina (in arte Nina Landi) si esibisce in casa, per richiesta del nonno Edoardo, contro il pagamento di una lira. Dopo alcune frequentazioni nei teatri dell’epoca, Isa, nel 1942 riesce ad ottenere un provino di audizione con il Maestro Giuseppe Cioffi. La prova canora è superata brillantemente e la cantante debutta ufficialmente come nuova promessa napoletana all’audizione di Piedigrotta Cioffi del 1942 con il motivo “E stessi rrose” firmato da Gigi Pisano e lo stesso Cioffi. Nonostante la presenza di numerosi big della canzone (Nino Taranto, Mario Pasqualillo, Eva

Nova, Enzo Romagnoli, Carlo Buti e altri) la cantante riesce ad accaparrarsi l’attenzione del pubblico. Ella stessa tiene a ricordare che all’audizione si presentò con un abito lungo azzurro da alta moda acquistato e donato a lei dal Maestro Cioffi. La Landi, soprannominata “a guagliona”, inizia una brillante carriera, spesso ostacolata dalla sua giovane età (da qui il nomignolo “a guagliona”). In occasione dell’audizione di Piedigrotta Barbella, infatti, la cantante non riesce ad esibirsi perché i fascisti in tutte e tre le serate, controllarono il Teatro Trianon. Sposatasi a 18 anni con Mario D’Auria, suo futuro impresario, la Landi nel decennio 1945/1955 diventa la regina delle più importanti audizioni di Piedigrotta dell’epoca (La Canzonetta, Cioffi, Di Gianni, E.A.Mario e altre) lanciando al successo i motivi: “Speranza perduta”, “Suonno suonno”, “L’ultima chitarrata”, “Ddoje parole”, “Dille a Maria”, “Tutta colpa è d”a famiglia”, “O carusiello”, “Serenata capricciosa”, “Pecchè so malafemmena”, “Malombra mia”, “Famiglie ‘e marenare”, “Passiona luntana” e altre. In questi anni, inoltre, è tra le protagoniste della commedia musicale di E.A.Mario “A taverna d”o Cerrillo”. Dopo la vittoria della Medaglia d’oro con il motivo “Nuie nun ce amammo” in occasione dell’audizione di Piedigrotta Zanibon, nel 1957, un avvenimento stravolge la carriera di Isa. La sua popolarità, cresciuta a dismisura, arriva fino a New York dove il noto editore Edward Rossi, consigliato da Alfredo Bascetta (popolare cantante napoletano emigrato in America, autore d’altronde della celeberrima “Lacreme ‘e cundannate” dedicata a Sacco e Vanzetti), chiude con la Landi un contratto di tre mesi. Così la cantante, che affronta la sua prima tournee oltreoceano, ha modo di esibirsi già sulla nave Augustus. Succede che l’Ispettore d’Immigrazione, il Cav. Ferro, affronta la sua ultima fatica dopo 37 anni di navigazione. Per l’occasione chiede, dietro un congruo compenso, alla cantante napoletana di allietare, per tutti i nove giorni di navigazione, le sue serate. La notizia, riportata sui giornali dell’epoca, provoca tanta pubblicità che la Landi sbarca a New York già famosa. Così i tre mesi di contratto diventano due anni, durante i quali Isa si esibisce, con un repertorio melodico e di Café Chantant, a Brooklyn, Philadelphia, Chicago, New York, Boston, Montreal, Toronto, Niagara, ecc. Durante questi due anni, la Landi, che inserisce nel suo repertorio diversi canti di emigranti (“Napoli e Gennarino”, “Te manche Napule”, “Doppo vint’anne”, “Ll’America vene ccà”, “Nustalgia ‘e Napule”, ecc.) è soprannominata l’erede naturale di Gilda Mignonette, appellativo di cui la Landi è fierissima. Eppure “a guagliona” non ha mai conosciuto la Mignonette. Una volta, a Napoli, ed esattamente alla Sala Roma, la Landi corse ad ammirare il concerto della Mignonette con l’intento, dopo la serata, di presentarsi al mito vivente. Succede, invece, che nonostante

si presenti alla serata in incognito, numerose persone del pubblico riconoscono la Landi, causando disturbo al concerto della Mignonette. Alla fine della serata, per evitare un probabile rimprovero della regina degli emigranti, Isa scappa dalla Sala Roma con il rammarico di non aver potuto conoscere il mito vivente. Rammarico dovuto al fatto che questo concerto è anche l’ultimo della Mignonette a Napoli. La Bella Otero Next articlePrevious Depuratori article : Indagati Carnevale: i Sindaci festa di diAmalfi maschere e Praiano prima della Quaresima

Nacque a Ponte de Valga (GALIZIA), Spagna, il 4 novembre 1868. Il suo nome completo era Agustina Carolina Otero Iglesias (entrambi gli appellativi vennero a lei attraverso la madre, dal momento che mai il padre volle riconoscerla come figlia). Amata da principi e uomini comuni, fu la vera grande cortigiana della Belle Epoque parigina. Di carattere allegro e solare, pur avendo vissuto un’infanzia piena di disagi, ben presto mostrò il suo innato talento artistico ogni volta che ne aveva la possibilità. Dotata di una forte volontà, ribelle e ambiziosa, si innamorò a quattordici anni di un giovane di nome Paco, col quale fuggì una notte per andare a ballare in un locale notturno. Il proprietario di quel salone rimase affascinato, all’ istante, dalle movenze della giovane Carolina, fino al punto di offrirle un contratto e pagarla per le sue prestazioni danzatorie ben due pesetas (un sacco di soldi, allora). La coppia, incoraggiata da questo successo inaspettato, decise di cogliere l’occasione per fuggire a Lisbona, in cerca di miglior fortuna, e lì la Otero lavorò, per un breve periodo, come ballerina. Improvvisamente, però, il suo cuore venne spezzato dal tradimento di Paco con una collega ballerina. Carolina, non avendo alcuna intenzione di accettare la cosa, li inseguì fino a Barcellona, dove si erano trasferiti. Non ci fu niente da fare Paco non tornò mai fra le sue braccia Ormai del luogo, la danzatrice, iniziò a lavorare al Crystal Palace, prima di andare a Marsiglia e poi a Parigi. Carolina Otero arrivò a Parigi con il sogno di studiare danza e rappresentare i suoi primi spettacoli. La sua bellezza e il suo carattere aperto e solare però la portarono ad essere ammirata immediatamente dal pubblico parigino. Nonostante fosse di origine galiziana, divenne la regina danzatrice della capitale culturale

d’Occidente, com’era definita allora Parigi. Così, nel 1900, da tutti era stata eletta a sex symbol della “Belle Epoque”, trionfatrice sia sul palco che nell’amore, proprietaria di una immensa fortuna finanziaria, che spesso spendeva nel Casinò di Monte Carlo. Preziosissimi gioielli, quali il collier dell’ex imperatrice Eugenia e spettacolari orecchini dell’imperatrice d’Austria e una collana di diamanti proprietà, in precedenza, di Maria Antonietta le vennero regalati da ammiratori estasiati dal suo fascino. La sua ricchezza fu stimata, in quel periodo, essere oltre i 16 milioni di dollari. La passione che nutrivano gli uomini per lei, era indecifrabile. Il Granduca Nicola si innamorò pazzamente della ballerina. La caduta sul suolo innevato a schiena nuda, ad una temperatura di 20 gradi sotto zero, le causò una polmonite che la tenne a letto tre mesi, nel palazzo del principe Pedro. Molti altri candidati amanti si suicidarono per il grande amore, o dilapidarono intere fortune per attrarla a loro. Alcuni di essi furono l’ imperatore Guglielmo II, il barone de Ollstreder, il politico Aristide Briand e Edoardo VII d’Inghilterra. Morì a Nizza il 10 aprile 1965.à della navigazione tu