SPQR - Storia Dell'antica Roma - Mary Beard [PDF]

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Zitiervorschau

Il libro

Nel 212 d.C., con un decreto dell’imperatore Caracalla, veniva concessa la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero. Una decisione rivoluzionaria, che tuttavia portava a termine un processo avviato quasi mille anni prima da Romolo, il leggendario fondatore di Roma, il quale, con un gesto inconsueto per le civiltà antiche, aveva invitato gli stranieri, i diseredati, i profughi e gli esiliati a unirsi a lui, trasformandoli di fatto in cittadini romani. Fu questa straordinaria apertura, questa disponibilità ad accogliere nuovi arrivati a fare di un piccolo e insignificante villaggio sorto sulle rive del Tevere una potenza in grado di dominare un territorio che si estendeva dalla Spagna alla Siria, dalla Germania al Sahara? A partire da questo interrogativo, Mary Beard, docente a Cambridge, in SPQR ci offre una nuova visione della storia di Roma, una storia caratterizzata da incredibili miti fondativi e grandi istituzioni politiche e sociali, da straordinarie conquiste militari e stupefacenti opere architettoniche, nonché, naturalmente, dalle gesta delle personalità più celebri del mondo romano: da Cicerone impegnato a sventare la congiura di Catilina a Giulio Cesare che oltrepassa il Rubicone, a Ottaviano trionfatore su Marco Antonio. Ma anche una storia che le innumerevoli testimonianze, non solo letterarie, ci consentono di conoscere fin nei minimi dettagli, rendendoci partecipi della vita quotidiana – quasi sempre difficile – della gente comune, degli intrighi e delle lotte per il potere, delle atroci violenze che accompagnavano le imprese belliche, come pure dell’estrema vitalità e grandezza di un mondo globalizzato e in perpetuo movimento, dove uomini e merci, libri e idee, mode e religioni circolavano liberamente da una regione all’altra dell’impero. Una brulicante miscela di lusso sfrenato e sporcizia, malattie impossibili da debellare e orrende carneficine nelle arene, amore per la libertà e sfruttamento servile, orgoglio civico e spietata guerra civile. Ma soprattutto un melting pot culturale da cui sono scaturiti temi, riflessioni e idee che ancora oggi riverberano una luce capace di illuminare

le nostre discussioni sui diritti civili e gli abusi del potere, la democrazia e le controversie religiose, le migrazioni e i pregiudizi xenofobi. Se, come scrive Mary Beard, «dall’incontro dialettico con la storia di Roma, la cultura occidentale ha raccolto un’eredità variegata e molteplice», il dialogo continuo e fruttuoso con gli antichi romani rimane un punto di riferimento imprescindibile per il modo in cui giudichiamo noi stessi.

L’autrice

Mary Beard insegna al Newnham College di Cambridge ed è curatrice per l’antichità classica del «Times Literary Supplement». Accademica di fama internazionale, è fellow della British Academy e membro dell’American Academy of Arts and Sciences. Tra i suoi numerosi libri, molti dei quali tradotti in italiano, ricordiamo Il Partenone (2006), Il Colosseo. La storia e il mito (2008) e Prima del fuoco. Pompei, storie di ogni giorno (2011).

Mary Beard

SPQR Storia dell’antica Roma

SPQR

LA ROMA DELLE ORIGINI E I SUOI VICINI

IL SITO DI ROMA

L’ITALIA ROMANA

LA ROMA IMPERIALE

IL MONDO ROMANO

Prologo

LA STORIA DI ROMA

La storia dell’antica Roma è importante. Ignorare i romani non significa semplicemente chiudere gli occhi di fronte a un passato remoto. Roma ci aiuta ancora a definire il modo in cui comprendiamo il nostro mondo e pensiamo a noi stessi, dai massimi sistemi fino alle commedie umoristiche. Dopo duemila anni, costituisce ancora il fondamento della cultura e della politica occidentali, di ciò che scriviamo e del modo in cui vediamo il mondo e il posto che in esso occupiamo. L’assassinio di Giulio Cesare, alle idi di marzo del 44 a.C., ha costituito fino a oggi il modello, e talvolta l’ambigua giustificazione, per l’uccisione dei tiranni. I confini e le suddivisioni territoriali dell’impero romano determinano la geografia non solo dell’Europa odierna ma anche di diverse regioni al di fuori del continente. Se Londra è la capitale del Regno Unito lo si deve principalmente al fatto che i romani ne fecero la capitale di una loro provincia, la Britannia, un luogo pericoloso che, nella loro concezione, si trovava oltre il grande Oceano che circondava il mondo civilizzato. Roma ci ha lasciato in eredità idee di libertà e di cittadinanza, ma anche sistemi di sfruttamento imperiale, oltre a gran parte del lessico della politica moderna, da «senatore» fino a «dittatore». Ci ha prestato i suoi slogan, come timeo danaos et dona ferentes («temo i Dànai, e più quando offrono doni»), panem et circences e dum anima est spes est («finché c’è vita c’è speranza»). E ha suscitato, quasi nella stessa misura, soggezione, derisione e orrore. I gladiatori continuano a sbancare i botteghini come hanno sempre fatto. Il grande poema epico di Virgilio sulla fondazione di Roma, l’Eneide, ha avuto certamente più lettori nel XX secolo di quanti ne abbia avuti nel I secolo a.C. La storiografia dell’antica Roma, tuttavia, ha subìto profonde trasformazioni nel corso degli ultimi cinquant’anni, e ancor più nei quasi duecentocinquanta trascorsi dalla pubblicazione del capolavoro di Edward Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, una pionieristica ricerca che ha dato avvio allo studio moderno della storia romana nel

mondo di lingua anglosassone. Queste trasformazioni si devono, almeno in parte, a nuovi modi di considerare le vecchie testimonianze, e alle diverse domande che ci poniamo su di esse. La convinzione di essere storici migliori dei nostri predecessori non è altro che un mito pericoloso. Non lo siamo affatto. Ma ci accostiamo alla storia di Roma con priorità e obiettivi differenti (come l’identità di genere o i problemi del rifornimento alimentare), che permettono a quel lontano passato di parlarci in una lingua nuova. Numerose e straordinarie scoperte (nel terreno, sott’acqua, e persino nelle biblioteche) ci forniscono informazioni sull’antica Roma che nessuno storico moderno avrebbe mai potuto conoscere. Possediamo, per esempio, il manoscritto con un commovente testo composto da un medico romano che aveva perduto tutti i propri beni in un incendio, ritrovato nel 2005 in un monastero greco. Abbiamo relitti di navi naufragate nel Mediterraneo prima di giungere a Roma, con il loro carico di sculture, mobili e vetri destinati alle case dei ricchi, nonché di anfore di vino e olio d’oliva per tutti gli abitanti della città. Proprio mentre scrivo queste pagine, gli archeologi stanno esaminando i ghiacciai della Groenlandia per rintracciare, persino lassù, i segni dell’inquinamento prodotto dalle miniere romane. Altri studiosi stanno analizzando al microscopio gli escrementi umani trovati in una latrina di Ercolano, per individuare la dieta dei romani. Si è così accertato, per esempio, che si mangiavano moltissime uova e ricci di mare. La storia di Roma è sempre stata riscritta, e continua a esserlo; per certi aspetti, oggi sappiamo più cose dell’antica Roma di quante ne sapessero gli stessi romani. La sua storia, in altre parole, è un work in progress, un progetto in costruzione: questo libro, che ha per titolo la celebre sigla SPQR (Senatus PopulusQue Romanus), è il mio contributo a tale progetto, ed espone le ragioni per cui lo ritengo importante. È nato da un interesse personale per la storia romana, dalla convinzione che un dialogo con l’antica Roma sia ancora utile e fruttuoso, e dal desiderio di capire come un minuscolo e insignificante villaggio dell’Italia centrale sia riuscito a diventare una potenza dominante su un immenso territorio, esteso su tre continenti. In questo libro si esaminano lo sviluppo e l’ascesa di Roma, nonché i fattori che le hanno permesso di mantenere così a lungo la sua posizione egemone; non si trattano invece il suo declino e la sua caduta, sempre ammesso che si possa davvero parlare di declino e caduta nel senso inteso da Gibbon. Ci sono diverse possibilità di individuare un momento

appropriato per concludere una storia di Roma: alcuni hanno scelto la conversione al cristianesimo di Costantino, sul suo letto di morte, nel 337 d.C.; altri il sacco della città nel 410 d.C., a opera di Alarico e dei suoi visigoti. La mia termina con un momento culminante nel 212 d.C., quando l’imperatore Caracalla decise di concedere la piena cittadinanza romana a ogni libero abitante dell’impero, iniziando ad annullare la differenza tra conquistatori e conquistati e portando a compimento un processo di estensione dei diritti e dei privilegi propri dei cittadini di Roma avviato quasi mille anni prima. In SPQR , tuttavia, non c’è solo ammirazione. Nel mondo classico (romano e greco) ci sono molte cose che suscitano il nostro interesse e richiedono la nostra attenzione. Il nostro mondo sarebbe incomparabilmente più povero e rozzo se non continuassimo a confrontarci con l’epoca classica. Ma l’ammirazione è una cosa diversa. Felice di essere una figlia del mio tempo, mi irrito quando sento parlare di «grandi» conquistatori romani o persino del «grande» impero di Roma. Ho cercato di vedere le cose anche dalla prospettiva opposta. Perciò, in questo libro si affrontano alcuni miti e alcune mezze verità su Roma con cui io stessa, al pari di molti altri, sono cresciuta. I romani non hanno concepito fin dal principio un ambizioso piano di conquista mondiale. Benché in seguito abbiano presentato il proprio impero come l’esito di una sorta di destino manifesto, le ragioni che stanno all’origine della loro espansione militare nel bacino del Mediterraneo e al di là di esso rimangono ancora oggi uno dei più complessi interrogativi della storia. Nella creazione dell’impero, i romani non hanno assalito e schiacciato popolazioni innocenti che vivevano in pacifica armonia prima che apparissero all’orizzonte le legioni di Roma. I romani erano senza dubbio brutali e spietati. La conquista della Gallia a opera di Giulio Cesare è stata paragonata, non senza motivo, a un genocidio, e già allora fu criticata dagli stessi romani in questi termini. Ma Roma non si espanse in un mondo di comunità che vivevano in pace l’una con l’altra, bensì in un mondo di endemica violenza, rivalità fra centri di potere sostenuti dalla forza militare (non vi erano in effetti alternative) e mini-imperi. La maggior parte dei nemici di Roma era altrettanto militarizzata; ma, per ragioni che cercherò di spiegare nelle prossime pagine, non riuscì a vincere. Roma non fu semplicemente la rozza sorella minore della Grecia classica, interessata solo alle necessità pratico-organizzative, all’efficienza militare e all’assolutismo, in contrapposizione all’amore dei greci per la ricerca

intellettuale, il teatro e la democrazia. Ad alcuni romani faceva comodo fingere che fosse così, e anche molti storici moderni hanno avuto la tendenza a presentare il mondo classico nei termini di una dicotomia tra due culture profondamente diverse. Come vedremo, è una scelta sbagliata, da entrambe le prospettive. Le città-stato greche desideravano vincere le proprie battaglie esattamente come i romani, e la maggior parte di esse non conobbe il breve esperimento democratico realizzato da Atene. Ben lungi dall’essere irriflessivi difensori della potenza imperiale, parecchi autori romani figurano tra i più tenaci e severi critici dell’imperialismo. «Dove hanno fatto il deserto, dicono d’aver portato la pace»: queste parole, spesso ripetute per stigmatizzare le conseguenze della conquista militare, sono state scritte nel II secolo d.C. dallo storico Tacito, a proposito del potere romano in Britannia. La storia di Roma pone una sfida difficile. Non c’è una sola storia di Roma, soprattutto dopo che il mondo romano si fu espanso ben oltre l’Italia. La storia di Roma non equivale alla storia della Britannia romana o dell’Africa romana. La mia attenzione si concentra in particolare sulla città di Roma e sull’Italia romana, ma cercherò anche di osservare Roma da un punto di vista esterno, dalla prospettiva di coloro che vivevano nei vasti territori dell’impero, come soldati, ribelli o ambiziosi collaboratori. Inoltre, si deve scrivere un diverso tipo di storia a seconda del momento trattato. Per le vicende della Roma più antica e per il periodo in cui da piccolo villaggio si trasformò in una delle principali potenze della penisola italiana, non disponiamo di resoconti coevi scritti da romani. La storia risulta quindi una coraggiosa opera di ricostruzione, costretta a spremere quanto più possibile da ogni singola testimonianza, che si tratti di un frammento di ceramica o di poche lettere incise sulla pietra. Appena tre secoli più tardi il problema appare rovesciato: come ordinare una gigantesca massa di testimonianze spesso contraddittorie, che rischiano di saturare e confondere una narrazione chiara e comprensibile? La storia romana richiede poi un particolare tipo di immaginazione. In un certo senso, indagare l’antica Roma dalla prospettiva del XXI secolo è come camminare su una corda da funambolo: un esercizio di delicato equilibrismo. Se si guarda giù da una parte, tutto sembra rassicurante e familiare: si sentono chiacchierate alle quali potremmo facilmente prendere parte, su argomenti come la natura della libertà o i problemi sessuali; vediamo edifici e monumenti che possiamo riconoscere e assistiamo a una vita familiare non dissimile dalla nostra, con tanto di adolescenti difficili; ascoltiamo battute

che possiamo ancora «cogliere». Dall’altra parte, invece, tutto sembra estraneo e diverso. Non si tratta soltanto della schiavitù, della sporcizia (nell’antica Roma non esisteva nulla di anche lontanamente paragonabile alla raccolta dei rifiuti), delle carneficine di esseri umani nelle arene o delle stragi provocate da malattie che oggi curiamo senza la minima difficoltà; si tratta altresì dei neonati gettati giù da una rupe, delle spose-bambine e degli appariscenti sacerdoti eunuchi. Inizieremo a esplorare questo mondo a partire da un momento particolare della storia di Roma, sul quale i romani non hanno mai cessato di interrogarsi e gli scrittori moderni – dagli storici ai drammaturghi – non hanno mai smesso di discutere. Esso ci offre la migliore introduzione ad alcuni personaggi chiave dell’antica Roma, alla profondità delle riflessioni dei romani sul proprio passato, ai diversi modi in cui noi stessi continuiamo a riviverlo cercando di dargli un senso, nonché alle ragioni per cui la storia di Roma, il suo Senato e il suo Popolo sono ancora oggi importanti.

L’ORA DI GLORIA DI CICERONE

SPQR:

63 a.C.

La nostra storia dell’antica Roma inizia verso la metà del I secolo a.C., più di seicento anni dopo la sua fondazione. Inizia con promesse di rivoluzione, con una cospirazione terroristica per distruggere la città, con operazioni segrete e arringhe pubbliche, con una battaglia combattuta da romani contro altri romani, e con cittadini (innocenti o no che fossero) arrestati e sommariamente giustiziati in nome della sicurezza della patria. L’anno è il 63 a.C. Da una parte troviamo Lucio Sergio Catilina, un insoddisfatto aristocratico in bancarotta, che, a quanto si credeva, aveva architettato un piano per assassinare i magistrati eletti di Roma e bruciare la città stessa, cancellando nel contempo tutti i debiti, dei ricchi come dei poveri. Dall’altra parte Marco Tullio Cicerone, il celebre oratore, filosofo, sacerdote, poeta, politico e arguto narratore, una delle vittime designate della congiura; un uomo che, per tutta la vita, non smise mai di sfruttare le proprie doti oratorie per vantarsi di come aveva smascherato il terribile complotto di Catilina e salvato lo stato. Fu il suo momento di massima gloria. Nel 63 a.C. Roma era una metropoli con oltre un milione di abitanti, più vasta di qualsiasi altra città d’Europa prima del XIX secolo; e, sebbene non avesse ancora imperatori, dominava su un impero che si estendeva dalla Spagna alla Siria, dalla Francia meridionale al Sahara. Era una caotica miscela di lusso e sporcizia, di libertà e sfruttamento, di orgoglio civico e spietata guerra civile. Nei capitoli seguenti torneremo molto indietro nel tempo, fino ai primi giorni della città e alle prime imprese, belliche e non solo, del popolo romano. Rifletteremo su ciò che si cela dietro alcune storie della Roma arcaica che ancora oggi ci colpiscono, come quella di «Romolo e Remo» o quella dello «stupro di Lucrezia». E ci porremo domande che gli storici si sono fatti fin dall’antichità. Come, e perché, una piccola e insignificante città dell’Italia centrale è riuscita a diventare più grande di ogni altra città dell’antico Mediterraneo e a dominare un impero così esteso? C’era per caso qualcosa di speciale nei romani? Con la storia di Roma, però, non è opportuno iniziare il racconto dal principio. È soltanto a partire dal I secolo a.C. che possiamo esplorare Roma nei più vividi dettagli attraverso gli occhi degli stessi contemporanei. Un numero straordinariamente elevato di testi proviene da quest’epoca, dalle lettere private ai discorsi pubblici, dalla filosofia alla poesia: epica ed erotica, erudita e di strada. Grazie a tutto ciò, possiamo ancora seguire il tran-tran quotidiano e gli affari dei grandi uomini politici. Possiamo ascoltare le loro

trattative e spiare i loro compromessi, osservare i loro tradimenti e le loro pugnalate alla schiena, reali o metaforiche. Possiamo persino assaporare la loro vita privata: i bisticci coniugali, i problemi finanziari, il dolore per la morte di figli amatissimi o talvolta di uno schiavo particolarmente apprezzato. Nessun periodo nella precedente storia dell’Occidente può essere conosciuto altrettanto bene o così in profondità (l’Atene classica non ci ha lasciato testimonianze ugualmente ricche e diversificate). Soltanto più di un millennio dopo, nella Firenze rinascimentale, troviamo un luogo che possiamo conoscere in modo così dettagliato. Per di più, è proprio nel I secolo a.C. che gli autori romani iniziarono a studiare sistematicamente i primi secoli della loro città e del loro impero. L’interesse per il passato di Roma risale senza dubbio a un periodo ancora precedente: possiamo leggere, per esempio, un’analisi dell’ascesa di Roma scritta da un greco residente nella capitale attorno alla metà del II secolo a.C. Ma è soltanto a partire dal I secolo a.C. che gli studiosi e i critici romani cominciarono a porsi gran parte delle domande che ci facciamo ancora oggi. Affiancando alla ricerca erudita una buona dose di immaginazione ricostruttiva, delinearono un quadro della Roma arcaica dal quale ancora oggi dipendiamo. Ai nostri giorni vediamo la storia romana, almeno in parte, attraverso gli occhi del I secolo a.C. In altre parole: la storia di Roma, come noi la conosciamo, comincia qui.

1. I possenti archi e le colonne del Tabularium, incorporati nel Palazzo di Michelangelo, si stagliano ancora a un’estremità del Foro romano. Eretto soltanto un paio di decenni prima del consolato di Cicerone nel 63 a.C., deve essere sembrato allora una delle più splendide opere architettoniche di Roma. La sua funzione è meno chiara. Era senz’altro un edificio pubblico, ma non necessariamente l’«archivio di stato» (tabularium), come si ritiene spesso.

Il 63 a.C. è una data rilevante in questo secolo cruciale. Fu l’anno in cui la città si trovò sull’orlo della catastrofe. Negli oltre mille anni che percorreremo in questo libro, Roma dovette affrontare numerose sconfitte e gravi pericoli. Attorno al 390 a.C., per esempio, una banda di predatori galli occupò la città. Nel 218 a.C. il condottiero cartaginese Annibale attraversò le Alpi con i suoi trentasette elefanti e inflisse terribili perdite ai romani, che riuscirono a sconfiggerlo solo dopo grandissimi sforzi. Le stime romane dei caduti nella battaglia di Canne, nel 216 a.C. (settantamila morti in un

solo pomeriggio), fanno di questo scontro una carneficina pari a quella di Gettysburg o del primo giorno della Somme, se non addirittura maggiore. Nel terzo decennio del I secolo a.C., lasciando un ricordo quasi altrettanto terribile nell’immaginario romano, un esercito improvvisato composto da ex gladiatori ed evasi, sotto il comando di Spartaco, si dimostrò un osso davvero duro per alcune mal addestrate legioni romane. I romani non furono mai così invincibili in battaglia come tendiamo a credere o come essi volevano far credere. Nel 63 a.C., comunque, dovevano affrontare un nemico interno, un complotto terroristico nel cuore stesso dell’establishment cittadino. Possiamo ripercorrere la storia di questa crisi fin nei minimi dettagli, giorno per giorno, addirittura ora per ora. Sappiamo perfettamente dove si è svolta gran parte degli eventi, e in certi casi possiamo ancora osservare gli stessi monumenti che dominavano la scena nel 63 a.C. Possiamo seguire le operazioni segrete con cui Cicerone ottenne le sue informazioni sul complotto, e come Catilina fu costretto a lasciare la città e a riunirsi con il suo esercito improvvisato per affrontare le legioni romane in una battaglia che gli costò la vita. Possiamo anche ascoltare una parte delle discussioni, delle polemiche e degli interrogativi che la crisi sollevò e che a distanza di oltre duemila anni ripropone. La dura risposta di Cicerone (comprese le esecuzioni sommarie) esprime in forma particolarmente chiara questioni che ci preoccupano ancora oggi. È legittimo eliminare dei «terroristi» scavalcando le giuste procedure di legge? Fino a che punto si possono sacrificare i diritti civili in nome della sicurezza nazionale? I romani non smisero mai di discutere sulla «congiura di Catilina», come venne chiamata. Catilina era un uomo assolutamente malvagio, oppure si può dire qualcosa in sua difesa? A quale prezzo si evitò la rivoluzione? Gli eventi del 63 a.C., e gli slogan allora coniati, hanno continuato a riecheggiare per tutto il corso della storia dell’Occidente. Alcune delle parole pronunciate durante gli infuocati dibattiti che seguirono la scoperta del complotto sono ancora impiegate nella nostra retorica politica e, come vedremo, continuano a comparire sui volantini, sugli striscioni, e persino nei tweet, dell’odierna protesta politica.

2. La sigla S PQR si trova ancora oggi incisa per tutta la citta di Roma, dai tombini ai cestini per la spazzatura. Risale già ai tempi di Cicerone, ed è quindi uno dei più duraturi acronimi della storia. Come prevedibile, ne sono state fatte anche numerose parodie; la più famosa è: «Sono Pazzi Questi Romani».

Giusta o sbagliata che fosse, la «congiura» ci catapulta nel centro pulsante della vita pubblica romana del I secolo a.C., nelle sue convenzioni, nelle sue polemiche e nei suoi conflitti. Ci permette così di osservare in azione il «Senato e il Popolo Romano», le due istituzioni il cui nome rientra nella sigla che costituisce il titolo di questo libro: SPQR (Senatus PopulusQue Romanus). Sebbene talvolta in aspra opposizione, sono queste le due fonti principali dell’autorità politica nella Roma del I secolo a.C. Insieme, formavano una sintetica definizione del legittimo potere dello stato, che è rimasta in uso per tutta la storia romana e continua a esserlo nell’Italia del XXI secolo. In modo ancora più estensivo, il Senatus (senza l’aggiunta di PopulusQue Romanus) ha dato il proprio nome a numerose assemblee

legislative in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Ruanda. Tra i protagonisti di questa crisi figurano alcuni dei personaggi più celebri della storia di Roma. Gaio Giulio Cesare, allora trentenne, diede un deciso contributo al dibattito sul modo in cui dovevano essere puniti i congiurati. Marco Licinio Crasso, il plutocrate famoso per avere detto che non ci si poteva definire ricchi se non si possedeva denaro sufficiente per assoldare un esercito privato, ebbe un ruolo piuttosto misterioso dietro le quinte. Ma al centro del palcoscenico, come principale avversario di Catilina, stava l’uomo che possiamo conoscere meglio di chiunque altro in tutto il mondo antico. I discorsi, i saggi, le lettere, le battute e i componimenti poetici di Cicerone riempiono le pagine di decine di volumi in moderni caratteri di stampa. Fino ad Agostino (santo cristiano, prolifico teologo e insaziabile indagatore di se stesso), vissuto quattrocentocinquant’anni dopo Cicerone, non c’è nessun altro uomo la cui vita pubblica e privata sia documentata così bene da consentirci di ricostruire una biografia plausibile secondo i parametri moderni. Ed è in larga misura attraverso gli occhi, gli scritti e i pregiudizi di Cicerone che possiamo osservare il mondo romano del I secolo a.C. e buona parte della storia di Roma fino alla sua epoca. Il 63 a.C. fu il momento di svolta della sua vita: le cose per lui non andarono mai più così bene. La sua carriera si concluse vent’anni dopo, con una catastrofe. Ancora fiducioso nella propria importanza – sebbene il suo nome, evocato di tanto in tanto, fosse meno illustre di un tempo –, Cicerone fu ucciso nel corso delle guerre civili che seguirono all’assassinio di Giulio Cesare nel 44 a.C.: la sua testa e la sua mano destra vennero appese nel centro di Roma perché tutti le vedessero e ne facessero ulteriore scempio. La morte raccapricciante di Cicerone annunciava una rivoluzione ancora più profonda, che iniziò con una forma di potere politico popolare, anche se non esattamente una «democrazia», e terminò con un autocrate seduto sul trono di Roma e l’impero romano sotto il comando di un solo uomo. Sebbene Cicerone nel 63 a.C. possa avere «salvato lo stato», la verità è che lo stato, nella forma in cui egli lo conosceva e lo concepiva, non era destinato a vivere ancora a lungo. All’orizzonte si profilava un’altra rivoluzione, che avrebbe avuto ben più successo di quella di Catilina. Al «Senato e il Popolo Romano» si aggiunse ben presto la figura dominante dell’«imperatore», incarnata in una serie di autocrati che, adulati o maltrattati, obbediti o ignorati, hanno caratterizzato per diversi secoli la storia dell’Occidente. Ma di queste vicende ci occuperemo in seguito. Ora dobbiamo addentrarci in

uno dei momenti più memorabili, cruciali e rivelatori di tutta la storia romana.

Cicerone contro Catilina Il conflitto tra Cicerone e Catilina era in parte uno scontro tra due differenti ideologie e ambizioni politiche, ma era altresì lo scontro tra due uomini con un retroterra sociale e culturale profondamente diverso. Entrambi stavano al vertice, o quasi, della politica romana; ma la somiglianza finisce qui. Anzi, le loro contrapposte carriere costituiscono un esempio illuminante di quanto fosse multiforme e variegata la vita politica nella Roma del I secolo a.C. Catilina, l’aspirante rivoluzionario, era partito da una posizione più tradizionale, privilegiata e apparentemente più sicura, tanto nella vita quanto nella politica. Proveniva da un’illustre e antica famiglia le cui origini risalivano ai tempi mitici dei padri fondatori di Roma. Si raccontava che il suo antenato Sergestus fosse scappato dall’Oriente in Italia insieme a Enea dopo la fine della guerra di Troia, prima ancora che la città di Roma fosse fondata. Tra i suoi nobili antenati, il bisnonno era stato un eroe delle guerre puniche, rimasto celebre anche per essere stato il primo uomo ad avere partecipato a una battaglia con una mano artificiale (probabilmente una sorta di uncino di metallo per rimpiazzare la mano destra, persa in una precedente battaglia). Lo stesso Catilina aveva avuto un brillante inizio di carriera ed era stato eletto a diverse magistrature minori; ma nel 63 a.C. si trovava sull’orlo della bancarotta. Una serie di crimini era stata associata al suo nome, dall’assassinio della sua prima moglie e di suo figlio fino a presunti rapporti sessuali con una sacerdotessa vergine. Comunque, quali che fossero i suoi costosi vizi, i problemi finanziari derivavano in parte dai suoi ripetuti tentativi di assicurarsi l’elezione al consolato, la massima carica dello stato. A Roma, le elezioni potevano essere un affare alquanto oneroso. Nel I secolo a.C. si richiedeva una forma di munifica generosità che non sempre è facile distinguere dalla corruzione. La posta in gioco era molto alta. Chi vinceva le elezioni aveva l’opportunità di recuperare le proprie spese, legalmente o illegalmente, sfruttando le prerogative della carica ottenuta. Chi perdeva (e, come nel caso degli scontri militari, anche su questo terreno le sconfitte furono assai più numerose e gravi di quanto si ammetta di solito) sprofondava ancora di più nei debiti. Proprio in tale situazione si trovava Catilina dopo essere uscito sconfitto

dalle elezioni al consolato per gli anni 64 e 63 a.C. Sebbene la versione tradizionale della storia sostenga che già prima avesse imboccato quella direzione, ora non aveva altra scelta che ricorrere alla «rivoluzione», all’«azione diretta» o al «terrorismo», o comunque preferiate chiamarla. Unendo le proprie forze a quelle di altri aristocratici che si trovavano in analoghe ristrettezze, cercò di conquistare l’appoggio dei poveri e degli scontenti all’interno della città, mentre nel frattempo reclutava al suo esterno un esercito improvvisato. E non sembrava esservi limite alle sue sconsiderate promesse di annullamento dei debiti (una delle forme di radicalismo più disprezzabili agli occhi della classe dei proprietari terrieri romani) o alle sue roboanti minacce di far fuori gli uomini politici più importanti e di dare alle fiamme l’intera città. Così almeno Cicerone, che riteneva di essere tra le vittime designate della congiura, riassunse le motivazioni e gli obiettivi del suo avversario. Cicerone aveva un retroterra completamente diverso da quello di Catilina. Come tutti i politici romani di primo piano apparteneva a una ricca famiglia di proprietari terrieri. Ma non era originario della capitale, bensì della piccola città di Arpino, ad almeno un giorno di viaggio – all’epoca – da Roma. Prima di lui nessun membro della sua famiglia, per quanto importante a livello locale, aveva rivestito un ruolo di primo piano sulla scena politica romana. Privo dei vantaggi e dei privilegi sui quali poteva contare Catilina, Cicerone dovette affidarsi alle proprie doti naturali, alle sue relazioni altolocate – assiduamente coltivate – e alla sua capacità di affermarsi e raggiungere il successo grazie alla propria eloquenza. In altre parole, il suo diritto alla fama si fondava sul fatto di essere una stella di prima grandezza fra gli avvocati delle corti romane: la celebrità e gli importanti sostenitori che ciò gli assicurava garantirono allo stesso tempo la sua facile elezione a tutte le magistrature minori, esattamente com’era avvenuto nel caso di Catilina. Ma nel 64 a.C., mentre Catilina usciva sconfitto, Cicerone riuscì a vincere le elezioni al consolato per l’anno successivo. Questo prestigioso successo non era stato affatto scontato. Nonostante la celebrità, Cicerone doveva superare lo svantaggio di essere un homo novus, come i romani chiamavano chi non poteva vantare una patente di antica nobiltà politica; e sembra che a un certo punto abbia addirittura considerato la possibilità di siglare un patto elettorale con Catilina, malgrado la sua poco raccomandabile reputazione. Alla fine, però, gli elettori più influenti gli fecero cambiare idea. Il sistema elettorale romano

concedeva apertamente e sfrontatamente un peso maggiore al voto dei ricchi; e molti di costoro devono aver pensato che Cicerone fosse una scelta migliore di Catilina, nonostante il loro snobistico disprezzo per le sue origini. Alcuni avversari lo definirono un semplice «inquilino» a Roma, «un cittadino a metà»; ma uscì vincitore dalle urne elettorali. Catilina arrivò soltanto terzo. Al secondo posto, e quindi anch’egli eletto al consolato, si piazzò Gaio Antonio Ibrida, zio di un ben più famoso Antonio (vale a dire, Marco Antonio), la cui reputazione risultò essere non particolarmente migliore di quella di Catilina. A quanto pare, verso l’estate del 63 a.C. Cicerone era già stato informato di una precisa minaccia rappresentata da Catilina, che si era di nuovo candidato alle elezioni per il consolato. Sfruttando la sua autorità di console, Cicerone rinviò la successiva tornata elettorale e, quando infine lasciò che si svolgesse, si presentò ai seggi accompagnato da una guardia armata e indossando, ben visibile sotto la toga, una corazza da legionario. Fu un gesto teatrale, e la combinazione di indumenti civili e militari era un’allarmante incongruenza, come se un politico di oggi entrasse in parlamento in giacca e cravatta ma con un mitra in spalla. Ottenne però il risultato voluto. Queste tattiche di intimidazione, combinate al programma smaccatamente populista di Catilina, ne assicurarono la nuova sconfitta elettorale. Presentarsi come uno squattrinato che si impegnava in difesa di altri squattrinati non gli poteva certo ingraziare gli elettori dell’aristocrazia romana. Poco dopo le elezioni, all’inizio dell’autunno, Cicerone iniziò a ricevere informazioni ben più concrete e chiare riguardo a un violento complotto. Già da parecchio tempo aveva raccolto vari indizi attraverso le confidenze dell’amante di uno dei «complici» di Catilina, una donna chiamata Fulvia, che era diventata una sorta di agente doppiogiochista. Ora, grazie a un ulteriore tradimento nello schieramento avversario, e con l’intermediazione del ricco Marco Crasso, Cicerone era entrato in possesso di un pacco di lettere che incriminavano direttamente Catilina e alludevano alla spaventosa carneficina che era stata architettata; e queste informazioni furono presto confermate dalla notizia che a nord della città si stava raccogliendo un esercito a sostegno dell’insurrezione. Infine, dopo essere sfuggito, grazie all’avvertimento di Fulvia, a un attentato pianificato per il 7 novembre, Cicerone convocò il Senato per il giorno seguente al fine di denunciare formalmente Catilina e costringerlo a fuggire da Roma con la coda fra le gambe.

Già in ottobre i senatori avevano emanato un decreto con cui esortavano Cicerone (o lo autorizzavano), in qualità di console, «a garantire che allo stato non occorresse alcun danno», grosso modo l’equivalente antico dei moderni «poteri d’emergenza» volti a «prevenire il terrorismo». Un provvedimento, comunque, non meno controverso. L’8 novembre ascoltarono Cicerone esporre l’intero caso contro Catilina, con un attacco impetuoso e perfettamente informato. Fu una mirabolante combinazione di rabbia, indignazione, autocritica e prove circostanziate. Prima ricordò all’assemblea il ben noto passato di Catilina; poi si rammaricò astutamente di non avere reagito con sufficiente rapidità alla minaccia; e per finire descrisse il complotto in tutti i dettagli: in quale casa si erano riuniti i cospiratori, in quali giorni, l’identità dei partecipanti e i loro piani precisi. Catilina si presentò davanti all’assemblea per difendersi in prima persona. Chiese ai senatori di non credere a nulla di quanto era stato detto e fece qualche battuta sulle modeste origini di Cicerone, confrontandole con i propri illustri antenati e le loro splendide imprese. Ma probabilmente si rese conto che la sua posizione era senza speranza. Nella notte fuggì dalla città.

In Senato Lo scontro tra Catilina e Cicerone in Senato è il momento culminante di tutta la vicenda: i due avversari si trovano uno di fronte all’altro nell’istituzione che rappresenta il cuore pulsante della politica romana. Ma come dobbiamo immaginarci questo scontro? Il più celebre tentativo moderno di raffigurare ciò che accadde quel giorno è un quadro dell’Ottocento di Cesare Maccari (si vedano la tavola 1 e la figura 3 a). Un’immagine che si accorda perfettamente con la nostra concezione tradizionale dell’antica Roma e della sua vita pubblica: ampia e solenne, formale ed elegante. Un’immagine che avrebbe di certo deliziato Cicerone: Catilina se ne sta seduto in disparte, con la testa piegata, come se nessuno volesse parlargli o anche soltanto avvicinarglisi. Cicerone, invece, è il protagonista della scena: in piedi, accanto a quello che sembra un braciere fumante davanti a un altare, declama il suo discorso di fronte all’attento pubblico dei senatori togati. Gli indumenti indossati dai romani nella vita di tutti i giorni (tuniche, mantelli e talvolta persino calzoni) erano assai meno variati e variopinti. La toga, tuttavia, era l’abito formale e ufficiale: i romani stessi si definivano orgogliosamente gens togata, «la gens che indossa la toga», benché qualche straniero talvolta potesse sorridere alla vista di questo strano e ingombrante indumento. La toga era bianca, con l’aggiunta di una striscia di porpora (in latino, trabea) per distinguere chi rivestiva una carica pubblica. La nostra parola candidato deriva dal latino candidatus, in riferimento alle toghe di un bianco immacolato che i romani indossavano durante le campagne elettorali per fare maggiore impressione sugli elettori. In un mondo in cui bisognava mettere in mostra il proprio rango, le raffinatezze del codice vestiario si spingevano ben oltre: sulla tunica che i senatori portavano sotto la toga era cucita una larga fascia di porpora, mentre una più stretta distingueva quella dei membri del gradino immediatamente inferiore della società romana, i «cavalieri». Calzature particolari caratterizzavano queste due classi. Maccari ha raffigurato in modo efficace le toghe eleganti dei senatori, per quanto sembri avere dimenticato di indicare le importanti bordature di porpora. Per quasi tutto il resto, il quadro non è altro che un’affascinante fantasia dell’evento e della sua ambientazione. Innanzitutto, Cicerone è presentato come un anziano uomo di stato dai capelli bianchi, e Catilina come un giovane e tetro

mascalzone, quando invece erano entrambi sulla quarantina (Catilina aveva solo un paio d’anni in meno di Cicerone). In secondo luogo, nell’assemblea sono presenti troppo poche persone; a meno che non ne immaginiamo altri fuori dalla scena, ci sono appena una cinquantina di senatori ad ascoltare il decisivo discorso.

3. In questo quadro di Cesare Maccari, Cicerone è nel pieno della sua arringa, e parla apparentemente senza l’aiuto di appunti. La scena coglie alla perfezione una delle principali aspirazioni dell’aristocratico romano, quella di essere un vir bonus dicendi peritus, un «uomo abile nel parlare».

Alla metà del I secolo a.C. il Senato era composto da circa seicento membri, i quali avevano tutti precedentemente rivestito cariche pubbliche (e si deve intendere persone solo di sesso maschile, in quanto nell’antica Roma nessuna donna rivestì mai una carica pubblica). Chiunque avesse ricoperto il ruolo di questore (e ne venivano eletti venti ogni anno) otteneva automaticamente un seggio a vita nell’assemblea. I senatori si riunivano regolarmente per dibattere, dare consigli ai consoli ed emanare decreti, che venivano in genere seguiti e applicati, per quanto, non avendo forza di legge, rimanesse sempre aperta la questione di ciò che sarebbe potuto

accadere se un decreto del Senato fosse stato cassato o semplicemente ignorato. Senza dubbio la partecipazione alle sedute del Senato oscillava, ma in questa particolare occasione doveva essere stata altissima. Quanto all’ambientazione del quadro, appare certamente romana, ma la gigantesca colonna che si eleva fino a scomparire dalla vista e gli sfarzosi e colorati marmi che rivestono le pareti sono senz’altro esagerati e fuori luogo per la città di allora. La nostra immagine moderna dell’antica Roma come un abbagliante e sconfinato sfavillio di marmo non è del tutto sbagliata; ma appartiene a un periodo successivo, iniziato con l’avvento degli imperatori e il primo sfruttamento sistematico delle cave di marmo di Carrara, più di trent’anni dopo la congiura di Catilina. La Roma del tempo di Cicerone contava oltre un milione di abitanti, era ancora costruita per la gran parte in mattoni o pietre locali, e si estendeva in un labirinto di strade tortuose e vicoli bui. Un visitatore proveniente da Atene o da Alessandria d’Egitto, dove molti edifici erano realmente come quelli raffigurati da Maccari, avrebbe giudicato il luogo tutt’altro che imponente, per non dire squallido. Era un tale focolaio di malattie che un medico di un’epoca successiva scrisse che per studiare la malaria non c’era bisogno di leggere i manuali di medicina: bastava fare un giro per la città. Nei quartieri più malfamati il mercato immobiliare offriva miserabili abitazioni per i poveri ma lauti guadagni per proprietari privi di scrupoli. Lo stesso Cicerone aveva investito ingenti somme in questo mercato, e una volta, scherzando, disse, mosso non dall’imbarazzo ma da un senso di superiorità, che persino i topi avevano fatto i bagagli e avevano abbandonato uno dei suoi fatiscenti e pericolanti condominii con appartamenti in affitto. Alcuni ricchi avevano iniziato ad attirare l’attenzione di passanti e visitatori con le loro lussuose case private, colme di pitture raffinate, eleganti statue greche, mobili alla moda (i tavolini a una sola gamba erano un oggetto che destava particolare invidia e preoccupazione), persino colonne di marmo importate. C’era anche un certo numero di imponenti edifici pubblici, costruiti (o rivestiti) in marmo, che lasciavano presagire la futura grandiosità di Roma. Ma l’edificio in cui si svolse la riunione dell’8 novembre non aveva nulla di particolarmente spettacolare. Cicerone aveva convocato i senatori, come spesso avveniva, in un tempio; in questo caso una vecchia e modesta costruzione dedicata al dio Giove, vicino al Foro, nel cuore della città, di consueta pianta rettangolare (e non la struttura circolare immaginata da Maccari), probabilmente piccolo e mal

illuminato, con lanterne e torce a compensare solo in parte la mancanza di finestre. Dobbiamo figurarci parecchie centinaia di senatori ammassati in uno spazio estremamente esiguo, alcuni seduti su sedie o panche provvisorie, altri in piedi che, senza dubbio, cercavano di farsi spazio sgomitando sotto una veneranda statua di Giove. Fu certamente uno dei momenti più drammatici della storia romana, ma, altrettanto certamente, privo di quell’atmosfera di eleganza con la quale siamo abituati a immaginarlo.

Trionfo e umiliazione Gli eventi successivi non sono diventati tema dei quadri di appassionati pittori. Catilina lasciò la città per ricongiungersi con i suoi sostenitori, che avevano messo insieme un esercito raccogliticcio fuori Roma. Nel frattempo, Cicerone organizzò una brillante operazione segreta per smascherare i cospiratori ancora presenti nella capitale. I quali, mal consigliati, come poi risultò, avevano cercato di coinvolgere nel complotto una delegazione di galli venuti a Roma per lamentarsi dello sfruttamento cui erano sottoposti dai governatori provinciali romani. Questi galli, quale che fosse la vera ragione (forse null’altro che un fiuto istintivo per riconoscere il vincitore), decisero di collaborare segretamente con Cicerone e gli fornirono informazioni decisive su nomi, luoghi e piani, nonché un’altra serie di lettere incriminanti. Seguirono degli arresti, e le solite scuse poco convincenti. Quando la casa di uno dei cospiratori fu trovata piena di armi, il suo proprietario protestò la propria innocenza affermando di essere un collezionista. Il 5 dicembre Cicerone convocò nuovamente il Senato per discutere quel che si dovesse fare con le persone arrestate. Questa volta i senatori si riunirono nel tempio della dea Concordia, chiaro segno del fatto che gli affari dello stato erano tutt’altro che concordi e armoniosi. Giulio Cesare propose audacemente che i cospiratori fossero imprigionati: o, come sostiene una versione, fino a quando, terminata la crisi, potessero essere adeguatamente processati, oppure, secondo un’altra versione, per tutta la vita. Nel mondo antico le pene detentive non erano la scelta normale, e le prigioni non erano altro che luoghi in cui venivano custoditi i criminali prima di essere giustiziati. Multe, esilio e morte rappresentavano le pene abitualmente comminate dai romani. Se nel 63 a.C. Cesare propose veramente il carcere a vita, sarebbe stata probabilmente la prima volta nella storia dell’Occidente in cui l’ergastolo veniva chiesto quale alternativa alla pena capitale, sebbene senza successo. Fondandosi sui poteri d’emergenza che gli aveva concesso il decreto del Senato, nonché sull’aperto sostegno di parecchi senatori, Cicerone fece giustiziare sommariamente i cospiratori, senza accordare loro nemmeno un processo dall’esito già predeterminato. Con atteggiamento trionfale, ne annunciò la morte alla folla acclamante con un eufemismo condensato in una sola parola: vixere, «sono vissuti»; vale a

dire, «sono morti». Nel giro di poche settimane le legioni di Roma sconfissero nell’Italia settentrionale l’esercito di scontenti guidato da Catilina, il quale combatté coraggiosamente alla testa dei suoi uomini. Il comandante romano, il console collega di Cicerone Antonio Ibrida, il giorno della battaglia finale sostenne di avere dolori ai piedi e affidò il comando al suo vice, suscitando sospetti circa le sue vere simpatie. E non fu il solo a vedere messa in dubbio la propria posizione. Fin dall’antichità, si sono fatte le più sfrenate e senza dubbio inconcludenti speculazioni su quali e ben più importanti uomini possano avere segretamente appoggiato Catilina. Fu davvero l’agente del subdolo Marco Crasso? E quale fu la reale posizione di Cesare? La sconfitta di Catilina fu comunque una grande vittoria per Cicerone; e i suoi sostenitori gli conferirono l’appellativo di pater patriae, «padre della patria», uno degli onori più ambiti in una società estremamente patriarcale come quella romana. Ma la gioia del successo durò poco. Già nel suo ultimo giorno da console, due avversari politici gli impedirono di pronunciare il consueto discorso di commiato davanti al popolo romano, sostenendo che «chi ha punito altre persone senza permettere loro di essere ascoltate non ha il diritto di essere egli stesso ascoltato». Pochi anni dopo, nel 58 a.C., il popolo romano avrebbe votato una legge che prevedeva l’espulsione di chiunque avesse condannato a morte un cittadino romano senza processo. Cicerone partì da Roma appena prima che fosse approvato un altro decreto che lo condannava espressamente all’esilio. Fino a questo punto della vicenda il popolo romano non aveva avuto un ruolo prominente. Il «popolo» (la P della sigla SPQR ) era un organismo ben più ampio e indefinito del Senato, formato, in termini politici, da tutti i cittadini romani maschi; le donne non avevano diritti politici ufficialmente riconosciuti. Nel 63 a.C. a Roma c’erano circa un milione di cittadini, oltre a pochi altri fuori di essa. In pratica, il popolo si riduceva alle poche migliaia, o poche centinaia, che decidevano di presentarsi in città per elezioni, votazioni o altri appuntamenti politici. Quale fosse l’influenza esercitata dal popolo è sempre stata, fin dall’antichità, una delle questioni più controverse e dibattute della storia romana; ma due cose sono certe. Primo, in questo periodo, soltanto il popolo poteva eleggere i magistrati dello stato; anche l’appartenenza alla più alta aristocrazia non consentiva di assumere una carica pubblica (come, per esempio, il consolato) senza l’elezione popolare. Secondo, soltanto il popolo, e non il Senato, poteva fare le leggi. Nel 58 a.C. i nemici di Cicerone sostennero che, nonostante l’autorità di cui si era

ritenuto investito in virtù del decreto senatoriale sullo stato d’emergenza, l’esecuzione dei seguaci di Catilina aveva violato il diritto fondamentale di ogni cittadino romano a un regolare processo. Il popolo aveva tutto il diritto di esiliarlo. Colui che un tempo era stato chiamato «padre della patria» trascorse un anno infelice nel nord della Grecia (la sua poco onorevole autocommiserazione non suscita alcuna simpatia), finché il popolo votò il suo ritorno. Fu accolto dalle acclamazioni dei suoi sostenitori, ma la sua casa romana era stata demolita e, a confermare il senso politico del gesto, al suo posto era stato eretto un santuario alla Libertà. Cicerone non si riprese mai completamente da questo smacco.

Scrivere la storia Possiamo raccontare questa storia in modo così dettagliato per una ragione molto semplice: gli stessi romani ne hanno scritto moltissimo, e buona parte di ciò che hanno scritto si è conservato. Gli storici moderni spesso si lamentano di quanto poco sappiamo su certi aspetti del mondo antico: «Pensate soltanto a ciò che non conosciamo circa la vita dei poveri, o riguardo al punto di vista delle donne». È un atteggiamento anacronistico e fuorviante. Gli autori della letteratura romana furono quasi esclusivamente di sesso maschile; o, perlomeno, ci sono giunte solo pochissime opere di donne (la perdita dell’autobiografia di Agrippina, la madre dell’imperatore Nerone, deve essere annoverata tra le più tristi per la letteratura classica). Questi scrittori erano quasi tutti benestanti, anche se alcuni poeti romani, proprio come fanno ancora oggi diversi poeti, fingevano di soffrire la fame nelle soffitte. Per di più, i lamenti di questi storici fanno perdere di vista il punto veramente essenziale. La cosa più straordinaria a proposito del mondo romano è proprio il fatto che così tanta parte di ciò che i romani hanno scritto sia sopravvissuto per oltre due millenni. Possediamo la loro poesia, le loro lettere, i loro saggi, discorsi e opere storiche, cui ho già precedentemente accennato, ma anche novelle, trattati geografici, satire e montagne di scritti tecnici sui più svariati argomenti, dalle malattie e la medicina alle macchine ad acqua. La conservazione di questo patrimonio si deve in gran parte alla dedizione dei monaci medievali, che hanno copiato e ricopiato a mano quelle che ritenevano le opere più importanti, o utili, della letteratura classica, cui si aggiunge un significativo, ma spesso dimenticato, contributo degli studiosi islamici medievali, che tradussero in arabo un certo numero di testi filosofici e scientifici. E grazie agli sforzi degli archeologi – nei cui scavi sono emersi innumerevoli papiri dalle sabbie e dalle antiche discariche dell’Egitto, tavolette lignee per scrittura dagli accampamenti militari romani nell’Inghilterra settentrionale e stele tombali iscritte da tutti i territori dell’impero – possiamo leggere le lettere e osservare la vita quotidiana di abitanti molto più ordinari del mondo romano. Abbiamo biglietti inviati a casa, liste della spesa, libri contabili e iscrizioni incise sulle tombe. Sebbene si tratti soltanto di un’esigua parte di ciò che un tempo era esistito, abbiamo comunque accesso a un patrimonio di letteratura romana

(e, più in generale, di fonti scritte romane) più ampio di quanto una singola persona sarà mai in grado di conoscere a fondo e padroneggiare nel corso della sua vita. Quali sono dunque le fonti che ci permettono di conoscere così bene il conflitto tra Cicerone e Catilina? La storia ci è pervenuta attraverso diverse vie, ed è proprio questa varietà a renderla tanto ricca. Ci sono brevi resoconti nelle opere di diversi storici romani (compresa una biografia dello stesso Cicerone), tutti scritti almeno un centinaio d’anni dopo gli eventi narrati. Ben più importante, e rivelatore, è un lungo trattato (di circa una cinquantina di pagine nella traduzione in una moderna lingua europea) che contiene una descrizione e un’analisi dettagliate del Bellum Catilinae (La guerra contro Catilina), per citare quello che fu, quasi certamente, il suo titolo antico, scritto negli anni Quaranta del I secolo a.C. (ossia solo vent’anni dopo la cosiddetta «guerra») da Gaio Sallustio Crispo. Anch’egli, come Cicerone, homo novus, nonché amico e alleato di Giulio Cesare, Sallustio godeva di una reputazione tutt’altro che immacolata: la sua attività di governatore in Africa era stata segnata da un livello intollerabile di corruzione ed estorsione, anche per i parametri romani. Ma, nonostante la sua non del tutto onorevole carriera, o forse proprio a causa di ciò, il saggio di Sallustio costituisce una delle analisi politiche più profonde e penetranti che ci siano giunte dal mondo antico. Sallustio non ha soltanto narrato nei dettagli la storia della progettata ribellione, le sue cause e il suo esito. Ha fatto della figura di Catilina il simbolo emblematico dei più diffusi difetti della Roma del I secolo a.C. Secondo Sallustio, la tempra morale dei romani era stata distrutta dal successo e dalla ricchezza che la città aveva ottenuto, dall’avidità e dalla brama di potere cresciuta dopo la conquista del Mediterraneo e l’annientamento di tutti i possibili rivali. La svolta cruciale era avvenuta ottantatré anni prima della congiura di Catilina, quando, nel 146 a.C., le legioni romane avevano distrutto Cartagine, la città natale e base operativa di Annibale sulla costa settentrionale dell’Africa. Dopo questo evento, così pensava Sallustio, non era rimasta più alcuna seria minaccia al dominio romano. Catilina, ammetteva Sallustio, aveva forse posseduto qualità positive, come il coraggio dimostrato in battaglia o le sue straordinarie doti di resistenza («la sua capacità di sopportare la fame, il freddo o la mancanza di sonno era stupefacente»). Ma incarnava gran parte di ciò che c’era di marcio e sbagliato nella Roma del suo tempo. Oltre al saggio di Sallustio possediamo altri documenti interessanti, che,

in sostanza, derivano dallo stesso Cicerone e riportano la sua versione dei fatti. Alcune lettere indirizzate al suo amico più caro, Tito Pomponio Attico (un uomo molto ricco che non entrò mai direttamente nell’agone politico ufficiale, ma spesso ne tirò le fila da dietro le quinte), fanno riferimento alle sue relazioni, all’inizio amichevoli, con Catilina. Nel 65 a.C., per esempio, tra notizie di carattere familiare, come la nascita di suo figlio («Voglio comunicarti che sono diventato padre...»), e l’allusione all’arrivo di nuove statue dalla Grecia per abbellire la sua casa, Cicerone riferisce che stava prendendo in considerazione la possibilità di difendere Catilina in tribunale, nella speranza che in seguito potessero collaborare. Come sia stato possibile che lettere così private siano poi diventate di pubblico dominio rimane per molti aspetti un mistero. Molto probabilmente, un membro della famiglia di Cicerone ne mise a disposizione dopo la sua morte alcune copie, che subito circolarono nelle mani di lettori curiosi, sostenitori e avversari. Nel mondo antico non fu mai pubblicato nulla, almeno nel nostro senso stretto del termine. Ci restano in tutto quasi mille lettere, scritte o ricevute dal grande oratore nel corso degli ultimi vent’anni della sua vita. Queste missive, che rivelano la sua autocommiserazione durante l’esilio («Tutto quello che posso fare è piangere!») e il suo dolore per la morte della figlia subito dopo il parto, e che trattano i temi più svariati – da ruberie di vario genere e divorzi eccellenti fino alle ambizioni di Giulio Cesare –, costituiscono uno dei più interessanti corpus di scritti che ci siano giunti dall’antica Roma. Altrettanto interessante, e forse ancora più sorprendente, è un lungo poema che lo stesso Cicerone compose per celebrare le imprese del proprio consolato. Non si è conservato in modo completo; ma all’epoca era, lodato o denigrato, ben noto, tanto che una settantina di versi viene citata da altri autori antichi o dal medesimo Cicerone in opere successive. Contiene uno dei più celebri, e scadenti, versi di poesia latina, passato attraverso i Secoli Bui: O fortunatam natam me consule Romam («O Roma fortunata, nata sotto il mio consolato»), con una rima piuttosto zoppicante. Come se non bastasse, sembra che – con un’altra sfacciata, anche se leggermente ridicola, caduta di modestia – vi figurasse un’«assemblea degli dèi» nella quale il nostro sovrumano console discuteva con il divino consesso riunito sul monte Olimpo come affrontare la congiura di Catilina. Nel I secolo a.C. a Roma la fama e la reputazione non dipendevano soltanto dal semplice passaparola, ma soprattutto da una vera e propria propaganda, talvolta orchestrata in modo alquanto complesso e perfino

bizzarro. Sappiamo che Cicerone cercò di convincere un suo vecchio amico, Lucio Lucceio, a scrivere un resoconto celebrativo della sconfitta di Catilina e degli eventi immediatamente successivi («Sono divorato da una brama incredibile» scrisse in una lettera «di vedere il mio nome illustrato e glorificato da un’opera tua»); e sperava inoltre che un poeta greco allora di moda, del quale aveva assunto la difesa in un complesso caso relativo al suo permesso di residenza, avrebbe composto un poema epico sul medesimo tema. Alla fine, fu costretto a scrivere di propria mano un poetico tributo a se stesso. Un esiguo gruppo di critici moderni ha cercato, senza riuscire a dimostrarsi convincente, di difendere la qualità letteraria dell’opera, e persino del verso che ne è diventato il simbolo riassuntivo (O fortunatam natam...). La maggior parte dei critici romani di cui ci è nota l’opinione in proposito derideva tanto la vanità dell’impresa quanto la pomposità del suo linguaggio. Perfino uno dei più grandi ammiratori di Cicerone, appassionato studioso delle sue tecniche oratorie, si rammaricava che «avesse superato a tal punto il limite». Altri scrittori ridicolizzarono allegramente il poema o ne fecero una parodia. Ma la fonte più diretta per gli eventi del 63 a.C. è costituita dalle trascrizioni dei discorsi che Cicerone tenne proprio in quei giorni. Due di essi furono pronunciati in occasione di riunioni pubbliche del popolo romano, il primo per aggiornarlo sul progresso delle indagini sulla congiura di Catilina e il secondo per annunciare la vittoria contro i dissidenti. Un altro rappresenta il contributo dato da Cicerone al dibattito svoltosi in Senato il 5 dicembre per decidere la pena appropriata da comminare alle persone arrestate. Infine, il discorso più celebre di tutti, quello pronunciato in Senato l’8 novembre, nel quale denunciava Catilina con parole che possiamo immaginare declamate come nel quadro di Maccari. Lo stesso Cicerone fece probabilmente circolare copie di questi discorsi poco dopo averli pronunciati, scrupolosamente trascritti da un piccolo esercito di servitori. E, al contrario dei suoi tentativi poetici, divennero rapidamente ammirati e spesso citati classici della letteratura latina, nonché esempi incomparabili di grande retorica, che, sino alla fine dell’antichità, gli scolari romani e tutti gli aspiranti oratori dovevano imparare a memoria e imitare. Erano letti e studiati persino da chi non conosceva perfettamente la lingua latina. Questo almeno accadeva nell’Egitto romano ancora quattrocento anni più tardi. Le più antiche copie pervenuteci di questi discorsi si trovano su papiri risalenti al IV o V secolo d.C., oggi soltanto piccoli frammenti di rotoli un tempo ben più lunghi. Uno di essi contiene il

testo originale latino e una traduzione parola per parola in greco. Possiamo facilmente immaginarci un greco d’Egitto che si affatica sul papiro per comprendere la lingua e lo stile di Cicerone. Anche molti altri studenti successivi si sono affaticati su questi testi. I quattro discorsi In Catilinam (Contro Catilina), o Catilinarie, come oggi vengono spesso chiamati, sono entrati a far parte delle tradizioni educative e culturali dell’Occidente. Copiati e diffusi dai monasteri medievali, sono stati utilizzati per far esercitare generazioni di studenti nella lingua latina, e sono stati scrupolosamente analizzati come opere letterarie dagli intellettuali e dai professori di retorica del Rinascimento. Ancora oggi mantengono il proprio posto nei manuali di insegnamento del latino e continuano a costituire un modello di persuasività oratoria, sulle cui tecniche si fonda gran parte dei più celebri discorsi moderni, compresi quelli di Tony Blair e Barack Obama. Le prime parole del discorso pronunciato da Cicerone l’8 novembre (la Prima Catilinaria) sono diventate tra le più citate e immediatamente emblematiche del mondo romano: Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? («Fino a quando, Catilina, continuerai ad abusare della nostra pazienza?»). E a queste segue, poco oltre nello stesso testo, il solenne e altrettanto celebre motto O tempora, o mores («Oh tempi, oh costumi»). In effetti, la frase Quo usque tandem... doveva essersi già saldamente impiantata nella coscienza letteraria romana quando Sallustio scriveva il suo resoconto della «guerra», appena vent’anni dopo gli eventi. Anzi, lo era così tanto che, con salace o scherzosa ironia, Sallustio poteva metterla in bocca a Catilina: Quae quo usque tandem patiemini, o fortissimi viri? («Fino a quando lo sopporterete, o uomini di grande coraggio?»), parole con cui il rivoluzionario Catilina sallustiano sprona i suoi seguaci, ricordando loro le ingiustizie subite da parte dell’élite. Sono, naturalmente, pura invenzione. Gli autori antichi mettevano sempre in bocca ai propri protagonisti discorsi scritti da loro stessi, proprio come gli storici di oggi tendono ad attribuire determinati sentimenti o motivazioni ai propri personaggi. L’ironia qui sta nel fatto che a Catilina, il più acerrimo nemico di Cicerone, vengono fatte pronunciare proprio le più celebri parole del suo avversario. Questa è soltanto una delle numerose ironie e paradossali «citazioni errate» che hanno caratterizzato la storia della celebre frase ciceroniana. Sono riaffiorate spesso nella letteratura latina, ogni volta che entravano in scena progetti rivoluzionari. Pochi anni dopo Sallustio, Tito Livio intraprese la stesura di una storia di Roma dalle origini, suddivisa in 142 «libri»

(un’opera monumentale, benché un «libro» comprendesse quanto poteva stare su un singolo rotolo di papiro e corrispondesse piuttosto alla lunghezza di un moderno «capitolo»). Ciò che Livio aveva da dire su Catilina è purtroppo andato perduto. Ma quando cerca di descrivere precedenti conflitti civili, come in particolare la «cospirazione» di un certo Marco Manlio, che nel IV secolo a.C. avrebbe incitato i poveri di Roma a ribellarsi contro l’oppressivo dominio dei patrizi, Livio offre una versione modificata delle parole di Cicerone, facendo dire a Manlio, il quale cercava di convincere i propri seguaci che, pur essendo poveri, avevano la forza per ottenere la vittoria: Quo usque tandem ignorabitis vires vestras? («E fino a quando misconoscerete le vostre forze?»). Il punto essenziale qui non è semplicemente la ripresa di una celebre frase, né l’uso della figura di Catilina come simbolo della peggiore scelleratezza, sebbene gli sia spesso riservato questo ruolo nella letteratura romana: il suo nome finì per diventare l’epiteto preferito per indicare un imperatore impopolare; e, circa mezzo secolo dopo la sua morte, Publio Virgilio Marone gli riservò un posto nella sua Eneide, mostrandolo mentre viene torturato nell’Aldilà, «spettri di Furie temente». Ben più importante è il modo in cui lo scontro tra Catilina e Cicerone divenne un modello efficace per comprendere i fenomeni di disobbedienza civile e di insurrezione all’interno della storia romana, e anche in senso più generale. Quando gli storici romani parlano di rivoluzione, alla base del loro racconto si cela sempre l’immagine di Catilina, obbligandoli persino a qualche strana inversione cronologica. Come rivelano le sue accuratamente scelte parole, il Marco Manlio di Livio, un nobile postosi alla guida di una rivoluzione predestinata al fallimento e sostenuta da una plebe impoverita, è in gran parte una proiezione della figura di Catilina nelle vicende della Roma più antica.

L’altra versione della storia Non esiste per caso un’altra versione della storia? Grazie alle dettagliate informazioni fornite dalla sua penna, il punto di vista di Cicerone risulterà sempre quello predominante. Ma ciò non significa necessariamente che sia vero in senso assoluto, o che sia l’unico modo di considerare la vicenda. Gli studiosi si sono domandati per secoli quanto sia prevenuta la versione offertaci da Cicerone, e hanno individuato prospettive e interpretazioni alternative sotto la superficie della versione ciceroniana. Ce lo conferma lo stesso Sallustio. Infatti, sebbene il suo resoconto si basi in gran parte sugli scritti di Cicerone, mettendo le celebri parole Quo usque tandem in bocca a Catilina anziché a Cicerone, ha probabilmente voluto ricordare ai suoi lettori che i fatti e la loro interpretazione erano, come minimo, fluttuanti. Una prima e ovvia domanda da porsi è se il discorso noto come Prima Catilinaria riproduca realmente ciò che Cicerone disse l’8 novembre ai senatori riuniti nel tempio di Giove. È difficile immaginare che sia tutta un’invenzione. Come avrebbe potuto, altrimenti, mettere in circolazione una versione che non aveva nulla a che fare con quanto aveva detto? Ma, quasi certamente, non è nemmeno una trascrizione letterale. Se pronunciò il proprio discorso con l’aiuto di una qualche forma di appunti scritti, il testo che ci è giunto si colloca presumibilmente a metà strada tra ciò che ricordava di avere detto e ciò che avrebbe voluto dire. E, anche se avesse parlato leggendo un testo sostanzialmente completo, quello che fece poi circolare tra amici, colleghi e persone sulle quali voleva fare particolare impressione sarà stato di sicuro ricorretto e migliorato, dandogli maggiore compattezza e inserendo qualche brillante frase a effetto, che durante il discorso poteva essergli sfuggita di mente. Molto dipende anche dal momento preciso e dal motivo per cui venne fatto circolare. Da una delle sue lettere ad Attico sappiamo che Cicerone stava predisponendo la trascrizione di copie della Prima Catilinaria nel giugno del 60 a.C., ossia quando doveva ormai essere ben consapevole che le polemiche per l’esecuzione dei «cospiratori», da lui ordinata, non si sarebbero spente. A Cicerone potrebbe essere sembrato desiderabile e opportuno usare il testo scritto del discorso a propria difesa, anche se ciò imponeva alcune strategiche correzioni e aggiunte. In effetti, i ripetuti riferimenti a Catilina come se si trattasse di un nemico straniero (hostis, in

latino) potrebbero essere uno dei modi in cui Cicerone intendeva replicare ai propri avversari: definendo i cospiratori come nemici dello stato affermava implicitamente che non meritavano la protezione della legge romana in quanto avevano perduto i propri diritti civili (compreso quello a un regolare processo). Questo, naturalmente, potrebbe essere stato un punto ricorrente anche nella versione orale del discorso pronunciato l’8 novembre. Non possiamo saperlo. Ma sono convinta che tale definizione assunse un’importanza molto maggiore nella versione scritta e definitiva. Questi problemi ci spingono a cercare con rinnovato sforzo altre versioni della storia. Una volta esclusa la prospettiva di Cicerone, è forse possibile farsi un’idea di quale fosse il punto di vista di Catilina e dei suoi sostenitori? Le parole e i giudizi di Cicerone dominano in modo preponderante il corpus delle nostre testimonianze relative alla metà del I secolo a.C. Ma è sempre utile cercare di leggere la sua versione, o qualsiasi altra versione della storia romana, andando, per così dire, «controcorrente», per penetrare nelle sue più piccole crepe utilizzando i frammenti di altre testimonianze da essa indipendenti, e domandarci se altri osservatori possano aver visto le cose in modo diverso. Coloro che Cicerone descrisse quali mostruose canaglie erano davvero così malvagi come ci vuole far credere? In effetti, ci sono sufficienti elementi per sollevare alcuni concreti dubbi su quanto stava realmente accadendo. Cicerone presenta Catilina come un fuorilegge con spaventosi debiti di gioco, dovuti esclusivamente alla sua immoralità. Ma la situazione non può essere stata così semplice. A Roma, nel 63 a.C., era in atto una sorta di crisi debitoria e permanevano problemi economici e sociali ben maggiori di quanto Cicerone fosse pronto a riconoscere. Altra notevole impresa del suo «grande consolato» era stata la revoca di una proposta che prevedeva la distribuzione di terre della penisola a un certo numero di poveri della città. In altre parole, se Catilina si comportava come un fuorilegge, aveva probabilmente una buona ragione per farlo, e poteva contare sul sostegno di molte persone comuni spinte da analoghe difficoltà ad accettare provvedimenti disperati. Come possiamo accertarlo? Ricostruire un quadro dell’economia di oltre duemila anni fa è ancora più difficile che ricomporre quello della politica; ma possiamo cogliere alcuni inaspettati indizi. Le informazioni che si possono ricavare dalle monete coniate in questo periodo sono particolarmente rivelatrici, sia per quanto riguarda la situazione di allora sia per quanto riguarda la capacità degli storici e archeologi moderni di

combinare il materiale in loro possesso nei modi più ingegnosi. Le monete romane possono essere spesso datate con estrema precisione, perché, proprio in questo periodo, erano ridisegnate ogni anno e «firmate» dai magistrati annuali responsabili della loro emissione. Erano coniate utilizzando una serie di stampi incisi singolarmente a mano, di cui si possono ancora riconoscere minime differenze di dettaglio sulle monete in nostro possesso. Siamo così in grado di calcolare la quantità di monete che si potevano mediamente produrre con un singolo stampo (prima che fosse troppo consumato per incidere un’immagine ben delineata); e se disponiamo di un numero sufficiente di monete possiamo calcolare quanti stampi sono stati impiegati per realizzare una determinata emissione. In questo modo possiamo farci un’idea abbastanza precisa di quante monete fossero coniate ogni anno: maggiore era il numero degli stampi, maggiore era anche quello delle monete, e viceversa. In base a questi calcoli, il numero di monete coniate alla fine degli anni Sessanta del I secolo a.C. appare subire una contrazione talmente drastica da determinare una netta riduzione del numero complessivo di monete in circolazione in confronto agli anni subito precedenti. Le ragioni di questa contrazione non possono essere accertate. Come la maggior parte degli stati prima del XVIII secolo (o anche dopo), Roma non seguiva alcun tipo di politica monetaria, né disponeva di istituzioni finanziarie capaci di svilupparla e metterla in pratica. Le conseguenze di questo fatto sono ovvie. Avesse o non avesse dilapidato le sue ricchezze con il gioco d’azzardo, Catilina (e molti altri insieme a lui) avrebbe potuto comunque trovarsi a corto di denaro; mentre chi aveva già dei debiti doveva affrontare le pressanti richieste dei creditori, anch’essi a corto di soldi.

4. Questa moneta d’argento fu coniata nel 63 a.C. Raffigura un cittadino romano che getta una scheda elettorale dentro un’apposita giara. Le differenze di dettaglio tra i due esempi riprodotti illustrano perfettamente le differenze tra i vari stampi dai quali erano ricavati. Sulla moneta è inciso anche il nome del magistrato responsabile della zecca per quell’anno: Longinus.

Tutto ciò si aggiungeva agli altri tradizionali fattori che potevano spingere gli strati più umili e indigenti alla protesta o a schierarsi con chi faceva promesse di radicali cambiamenti: l’enorme disparità tra i ricchi e i poveri, le squallide condizioni in cui viveva gran parte della popolazione e la malnutrizione, per non dire l’inedia, cui era ridotta. Anche se Cicerone presenta con disprezzo i seguaci di Catilina come reprobi, criminali e indigenti, la stessa logica interna del suo resoconto, come pure di quello di Sallustio, fa sorgere dei dubbi. Infatti, l’uno e l’altro affermano esplicitamente o implicitamente che il sostegno di cui godeva Catilina si dissolse non appena si diffuse la notizia che intendeva dare alle fiamme la città. Se questo è vero, non abbiamo a che fare con squattrinati e gente disperata che non aveva nulla da perdere nel caso di una completa e catastrofica conflagrazione. È ben più probabile che tra i suoi sostenitori figurassero gli strati più umili e poveri, che avevano tuttavia un certo interesse per la sopravvivenza della città. Cicerone, naturalmente, doveva fare apparire il più grave possibile la minaccia costituita da Catilina. Nonostante il suo successo politico,

occupava una posizione precaria al vertice della società romana, circondato da famiglie aristocratiche che vantavano, proprio come Catilina, una discendenza diretta dai padri fondatori di Roma o addirittura dagli dèi. La famiglia di Giulio Cesare, per esempio, faceva orgogliosamente risalire la propria stirpe alla dea Venere; un’altra famiglia, più sorprendentemente, pretendeva di discendere dall’altrettanto mitica Pasifae, la moglie del re Minosse, dal cui straordinario accoppiamento con un toro era nato il mostruoso Minotauro. Per assicurare la propria posizione all’interno di queste cerchie, Cicerone aveva cercato senza dubbio di riportare qualche spettacolare successo durante il suo consolato. Una decisiva vittoria militare contro un nemico barbaro sarebbe stata l’ideale, e ciò che la maggior parte dei romani avrebbe auspicato. Roma fu sempre uno stato militare, e la vittoria in guerra rappresentava la via più sicura alla gloria. Cicerone, però, non era un soldato: si era affermato e distinto nelle corti dei tribunali, non guidando l’esercito in battaglia contro nemici pericolosi, o semplicemente sfortunati. Aveva bisogno di «salvare lo stato» in qualche altro modo. Alcuni attenti osservatori romani notarono che la crisi giocava nettamente a vantaggio di Cicerone. Un anonimo opuscolo, nel quale viene sferrato un duro attacco contro l’intera carriera del celebre oratore, e conservato unicamente perché un tempo si riteneva a torto che fosse uscito dalla penna di Sallustio, dichiara esplicitamente che Cicerone «sfruttò i problemi dello stato per la propria gloria», giungendo persino a sostenere che il suo consolato fu «la causa della congiura» anziché la sua soluzione. Senza tanti giri di parole: la vera questione per noi non è se Cicerone abbia esagerato i pericoli della congiura, bensì fino a che punto lo abbia fatto.

5. Questa stele funeraria romana, del IV secolo a.C., ci mostra un semplice modo per battere moneta. La moneta da incidere è collocata tra due stampi, poggiati su un’incudine. L’uomo raffigurato a sinistra sta per sferrare un colpo con un pesante martello per imprimere lo stampo sulla moneta. Come indicano le tenaglie tenute in mano dall’aiutante a destra, la moneta era stata precedentemente scaldata per agevolare l’operazione.

I critici moderni più integralisti ritengono che l’intera congiura non sia altro che il frutto dell’immaginazione di Cicerone: nel qual caso, l’uomo che

affermava di essere un «collezionista d’armi» diceva la verità, le lettere incriminanti erano dei falsi, la delegazione dei galli si era fatta beffe del console e i presunti tentativi di assassinio erano soltanto fantasie paranoiche. Un giudizio così radicale non sembra tuttavia plausibile. Ci fu, dopotutto, uno scontro tra gli uomini di Catilina e le legioni romane, che non può certo essere considerato una finzione. È alquanto più probabile che, quali che fossero le sue originarie motivazioni, Catilina – radicale lungimirante o terrorista privo di scrupoli – fosse stato spinto a misure estreme, almeno in parte, da un console che voleva la rissa ed era in cerca di gloria. Cicerone potrebbe essersi sinceramente convinto, a prescindere dalle informazioni in suo possesso, che Catilina rappresentasse una grave minaccia per la sicurezza di Roma. Come sappiamo da molti esempi più recenti, è proprio in questo modo che agiscono la paranoia politica e l’interesse personale. Non potremo mai esserne certi. La «congiura» resterà sempre un esempio perfetto del classico dilemma interpretativo: c’era davvero un «complotto contro lo stato», oppure la crisi, almeno in parte, era un’invenzione dei conservatori? Serve inoltre a ricordarci che nella storia romana, come nella storia di qualsiasi altra civiltà, dobbiamo sempre tenere desta la nostra attenzione per cogliere le tracce dell’altra versione della storia: che è anche il punto di partenza di questo libro.

Il nostro Catilina? Lo scontro tra Cicerone e Catilina ha sempre fornito un modello esemplificativo dei conflitti politici. Non è certo una semplice coincidenza che il quadro raffigurante gli eventi dell’8 novembre fosse stato commissionato a Maccari, insieme ad altri dipinti con episodi di storia romana, per la sala di Palazzo Madama che solo alcuni anni prima era diventata la sede del Senato italiano; presumibilmente, si volevano ricordare ai moderni senatori una vicenda e una lezione esemplare della storia. E, nel corso dei secoli, le giustificazioni e le colpe della «congiura», i difetti e le virtù rispettivamente di Catilina e Cicerone, e il difficile rapporto tra sicurezza nazionale e libertà civili sono stati aspramente discussi, e non soltanto da parte degli storici. Talvolta la storia è stata del tutto riscritta. Secondo una tradizione medievale toscana, Catilina sarebbe sopravvissuto alla battaglia contro le legioni romane e, diventato un eroe locale, avrebbe avuto una complicata storia d’amore con una donna chiamata Belisea. Un’altra versione gli attribuisce un figlio di nome Uberto, facendone così l’antenato della dinastia degli Uberti a Firenze. In modo ancora più fantasioso, la tragedia intitolata Catilina di Prosper de Crébillon, rappresentata per la prima volta attorno alla metà del XVIII secolo, immagina una relazione amorosa tra Catilina e Tullia, la figlia di Cicerone, con tanto di segreti convegni amorosi in un tempio romano. Quando è stata riproposta in romanzi o sul palcoscenico, la congiura di Catilina è stata adattata in base all’orientamento politico dell’autore e alla situazione politica del tempo. Il primo dramma di Henrik Ibsen, scritto all’indomani delle rivoluzioni europee degli anni Quaranta dell’Ottocento, ha come tema proprio gli eventi del 63 a.C. Qui, un Catilina rivoluzionario è contrapposto alla corruzione del mondo nel quale vive, mentre Cicerone, il quale non avrebbe potuto immaginare cosa peggiore, è lasciato quasi totalmente fuori dagli eventi, senza mai apparire sulla scena e a malapena menzionato. Al contrario, per Ben Jonson, che scrive all’indomani della Congiura delle polveri, b Catilina è un sadico antieroe sotto le cui grinfie sono cadute così tante vittime che, nella fervida immaginazione dell’autore, è necessaria un’intera flotta per condurle nell’Aldilà attraversando il fiume Stige. Anche il suo Cicerone non è un personaggio gradevole, quanto

piuttosto un fastidioso scocciatore; anzi, talmente noioso che, in occasione della prima messa in scena dell’opera, nel 1611, molti spettatori lasciarono il teatro durante la sua interminabile denuncia di Catilina.

6. Nel 2012, alcuni manifestanti ungheresi che protestavano contro il tentativo del partito Fidesz di riscrivere la costituzione mostrarono striscioni con la celebre frase di Cicerone, in latino. Ma queste parole non sono state impiegate soltanto in campo politico. In una famosa polemica fra intellettuali, Camille Paglia sostituì il nome di Catilina con quello del filosofo francese Michael Foucault: «Fino a quando, o Foucault...?».

Jonson non rendeva giustizia alle doti persuasive dell’oratoria ciceroniana, almeno a giudicare dal perdurante uso delle sue parole, continuamente citate e riadattate. Infatti, la Prima Catilinaria, e in particolare il suo celebre incipit (Quo usque tandem...), continuano ad aleggiare sulla retorica politica del XXI secolo, stampati sugli striscioni o condensati nei 140 caratteri di un tweet. Basta soltanto inserire il nome del proprio specifico obiettivo, e il gioco è fatto. Anzi, proprio mentre stavo

scrivendo questo libro, è stata postata una lunga serie di tweet e di altri messaggi in cui il nome Catilina stava a rappresentare, per citare solo qualche esempio, i presidenti degli Stati Uniti, della Francia e della Siria, il sindaco di Milano e lo stato di Israele: Quo usque tandem abutere, François Hollande, patientia nostra? È impossibile accertare quanti di coloro che oggi citano queste parole sappiano effettivamente da dove provengano, o quale fosse il vero significato dello scontro fra Cicerone e Catilina. Alcuni possono forse essere dei classicisti animati da una passione politica; ma è alquanto improbabile che ciò possa valere per tutti i contestatori e i manifestanti. Il modo in cui queste parole vengono usate rimanda a qualcosa di diverso dall’erudizione classica, e probabilmente di più importante. È il segno che, sotto la superficie della politica occidentale, il vago ricordo del conflitto tra Cicerone e Catilina serve ancora da modello esplicativo per le nostre lotte politiche. L’eloquenza di Cicerone, anche se compresa solo in parte, continua a plasmare il linguaggio della politica moderna. Cicerone ne sarebbe deliziato. Quando scrisse al suo amico Lucceio per chiedergli di celebrare le imprese del proprio consolato, sperava di raggiungere una fama eterna: «L’idea di essere menzionato dai posteri mi spinge ad avere qualche speranza nell’immortalità», come scrisse egli stesso con un tocco di affettata modestia. Lucceio, come abbiamo visto, non accolse la richiesta. Forse ne fu dissuaso dalla sfacciata pretesa di Cicerone di «trascurare le regole della storia» al fine di presentare gli eventi in modo glorioso ancor più che accurato. Alla fine, però, Cicerone si è conquistato da sé una ben maggiore immortalità per le sue imprese del 63 a.C. di quella che gli avrebbe mai potuto assicurare Lucceio, e le sue parole sono ancora vive oggi, a oltre duemila anni di distanza. Nei prossimi capitoli incontreremo molti altri analoghi conflitti politici, con tanto di interpretazioni contrastanti e, talvolta, scomodi echi nella nostra stessa epoca. Ma ora è giunto il momento di lasciare il terreno relativamente solido del I secolo a.C. e addentrarci nelle meno illuminate profondità della storia romana. Come ricostruivano Cicerone e i suoi contemporanei i primi anni della propria città? Perché consideravano importanti le proprie origini? Che cosa significa domandare: «Dove inizia Roma?». Che cosa possiamo veramente sapere noi, o i contemporanei di Cicerone, della Roma più antica?

a. Il richiamo alle tavole rimanda all’inserto e quello alle figure alle immagini nel testo. b. Complotto fallito dei cattolici inglesi contro il re Giacomo I (1605). [NdT]

II

IN PRINCIPIO

Cicerone e Romolo Secondo una tradizione romana, il tempio di Giove, dove Cicerone l’8 novembre del 63 a.C. pronunciò la sua orazione contro Catilina, era stato innalzato settecento anni prima da Romolo, il padre fondatore della città. Romolo e i nuovi membri della sua minuscola comunità stavano combattendo contro i loro vicini, un popolo noto con il nome di sabini, sul luogo che poi divenne il Foro, il centro politico della Roma ciceroniana. Le cose si stavano mettendo male per i romani, ormai costretti alla ritirata. In un ultimo tentativo di cogliere la vittoria, Romolo rivolse la propria preghiera a Giove (in realtà non semplicemente a Giove, bensì a Giove Stator, vale a dire «Giove che rende saldi gli uomini»): promise alla divinità che, se i romani avessero resistito alla tentazione di darsi alla fuga e avessero tenuto il terreno contro il nemico, avrebbe costruito un tempio in suo onore. Così avvenne, e sul luogo stesso della battaglia venne eretto il Tempio di Giove Statore, il primo di una lunga serie di templi e santuari edificati per celebrare l’aiuto divino che contribuiva ad assicurare la vittoria militare di Roma. Questa almeno è la storia raccontata da Tito Livio e da molti altri autori romani. Gli archeologi non sono ancora riusciti a identificare con certezza i resti di questo tempio, che, in ogni caso, all’epoca di Cicerone doveva avere subìto numerose ricostruzioni, soprattutto se le sue origini risalgono realmente ai tempi della fondazione di Roma. Ma non c’è alcun dubbio che, quando vi convocò il Senato, Cicerone sapeva esattamente ciò che stava facendo. Aveva in mente il precedente di Romolo e aveva scelto quel luogo per ribadire un punto essenziale. Voleva che i romani restassero «saldi» di fronte al loro nuovo nemico, Catilina. Infatti, è esattamente questo che disse alla fine del suo discorso, quando (senza dubbio indicando con un gesto della mano la statua del dio) fece appello a Giove Statore e ricordò al suo pubblico la fondazione del tempio: E tu, Giove, che qui fosti posto da Romolo con gli stessi auspicii con i quali fondò la città, tu, che ben a ragione invochiamo con il nome di Statore dell’Urbe e dell’Impero, tieni lontano quest’uomo e questi sgherri dal tuo tempio e dagli altri dell’Urbe, dalle case dei romani, dalle mura, dalle vite, dai beni di tutti i suoi abitanti.

Ai suoi concittadini non sfuggì naturalmente l’implicita deduzione che

Cicerone si presentava come un nuovo Romolo; anzi, gli si poté sarcasticamente rinfacciare questo collegamento: alcuni colsero l’opportunità per deridere la sua provenienza da un piccolo municipio chiamandolo «il Romolo di Arpino». Quello di Cicerone era un richiamo tipicamente romano ai padri fondatori, alle emozionanti storie della Roma arcaica e al momento stesso della sua fondazione. Ancora oggi, l’immagine della lupa che allatta il piccolo Romolo e il suo fratello gemello Remo simboleggia le origini di Roma. La celebre statua bronzea che raffigura questa scena è una delle opere d’arte romana più copiate e immediatamente riconoscibili, riprodotta su migliaia di cartoline, tovagliolini, portacenere, calamite e altri souvenir, nonché presente su tutti i muri della città e come emblema della squadra di calcio della Roma. Poiché ci è così familiare, siamo facilmente spinti a considerare per così dire scontata la storia di Romolo e Remo (o piuttosto di Remo e Romolo, per seguire l’ordine di solito stabilito dai romani stessi) e ci dimentichiamo che si tratta di una delle «leggende storiche» di fondazione più strane che si conosca per qualsiasi epoca e località del mondo intero. Ed è certamente un mito o una leggenda, sebbene i romani ritenessero che fosse, in sostanza, storia. La lupa che allatta i gemelli è, in una vicenda già molto peculiare, un episodio talmente bizzarro che anche gli stessi autori antichi hanno talvolta espresso un sano scetticismo sulla provvidenziale presenza di questo animale pronto a salvare con il suo latte la coppia dei bambini abbandonati. Il resto del racconto è una strabiliante miscela di dettagli sconcertanti: non soltanto l’inconsueta idea di due fondatori (Romolo e Remo), ma anche una serie di fatti ed eventi tutt’altro che eroici (omicidi, stupri e rapimenti), e la stessa composizione della città, i cui primi cittadini erano in gran parte criminali e disertori. Alcuni storici moderni sono stati talmente colpiti da questi sgradevoli particolari da supporre che l’intera storia fosse stata concepita come una forma di contro-propaganda a opera dei nemici e delle vittime di Roma, minacciate dalla sua aggressiva espansione. È un tentativo estremamente ingegnoso, per non dire disperato, di spiegare le incongruenze del racconto, ma non coglie il punto essenziale. Quale che sia il momento o il luogo in cui è nata, gli scrittori romani non hanno mai cessato di raccontare, analizzare e discutere la storia di Romolo e Remo. Qui era in gioco ben più che la mera questione di come fosse sorta in origine la città. Affollandosi nel vecchio tempio di Romolo per ascoltare il nuovo «Romolo di Arpino», i senatori

sapevano perfettamente che la storia della fondazione di Roma suscitava domande molto più vaste e profonde, le quali riguardavano il significato stesso dell’essere romano, le caratteristiche specifiche del popolo romano e, questione altrettanto urgente, i difetti e gli errori ereditati dai propri antenati.

7. Quale che sia la vera data della lupa, i due gemelli sono certamente un’aggiunta posteriore del XV secolo, fatta per dare espressione più concreta al mito di fondazione. Copie di questa scultura sono disseminate in tutto il mondo, in gran parte per volere di Benito Mussolini, che ne fece dono a moltissimi paesi come simbolo di «romanità».

Per comprendere gli antichi romani è necessario comprendere da dove essi stessi ritenevano di provenire e analizzare sino in fondo il significato della storia di Romolo e Remo, nonché dei temi essenziali di altre storie di fondazione, con tutte le loro finezze e ambiguità. Infatti, i due gemelli non erano gli unici candidati all’onore di rappresentare i primi romani. Nel corso dell’intera storia dell’Urbe, la figura dell’eroe troiano Enea, fuggito in Italia per fondare Roma come nuova Troia, ha aleggiato sulla scena. Ed è

altrettanto importante cercare di capire cosa si celi dietro queste storie. «Dove è sorta Roma?»: ecco una domanda che si è rivelata altrettanto affascinante e stimolante per gli storici antichi come per i loro moderni successori. L’archeologia ci offre un quadro della Roma più antica molto diverso da quello che ci presentano i miti romani. Ed è un quadro sorprendente, spesso labirintico e controverso. Persino la celebre statua bronzea della lupa è oggetto di intense discussioni. Si tratta, come si è generalmente pensato, di una delle più antiche opere d’arte romana giunte fino a noi? Oppure, come si è sostenuto in una recente analisi, si tratta in realtà di un capolavoro del Medioevo? In ogni caso, gli scavi effettuati nel corso degli ultimi cento anni al di sotto della città odierna hanno portato alla luce alcune tracce, risalenti probabilmente al 1000 a.C., del minuscolo villaggio sul fiume Tevere destinato a diventare infine la Roma di Cicerone.

Assassinio Non c’è una sola storia di Romolo. Ce ne sono diverse versioni, talvolta incompatibili. Cicerone, un decennio dopo il suo scontro con Catilina, ne ha presentata una nel suo trattato De re publica. Come molti altri politici dopo di lui, proprio quando il suo potere stava tramontando, Cicerone trovò rifugio nella teoria politica (e in un atteggiamento alquanto pomposo e sentenzioso). In questo trattato, nel contesto di una più ampia discussione filosofica sulla natura del buon governo, si occupa della storia della «costituzione» romana fin dai suoi inizi. Tuttavia, dopo un conciso resoconto sull’avvio della vicenda (nel quale evita goffamente la questione relativa al fatto se Romolo fosse davvero figlio del dio Marte, e solleva dubbi su altri elementi fantastici della storia), si impegna in un’approfondita discussione sui vantaggi geografici offerti dal sito scelto da Romolo per il suo nuovo insediamento. Scrive Cicerone: In quale altro modo dunque Romolo avrebbe potuto mostrarsi più ispirato, nel mettere insieme i vantaggi delle città marittime e nell’evitarne gli svantaggi, se non col porre l’abitato lungo la riva di un fiume dal corso costante e dall’ampia foce?

Il Tevere, spiega, rendeva agevole l’importazione di merci dall’estero e l’esportazione di qualsiasi surplus locale; e i colli sui quali si ergeva la città fornivano non soltanto una difesa perfetta dagli attacchi nemici ma anche un ambiente salubre e sano nel mezzo di una «regione pestilenziale». Era come se Romolo avesse saputo che un giorno la sua fondazione sarebbe diventata il centro di un grande impero. Cicerone dimostra qui una buona sensibilità geografica, e molti altri autori hanno in seguito sottolineato l’importanza della posizione strategica del sito, che garantiva un concreto vantaggio sui rivali locali. Ma evita patriotticamente di ricordare che, per tutta l’antichità, il «fiume dal corso perenne» fece di Roma anche la vittima regolare di disastrose inondazioni, e che, malgrado le colline, la «pestilenza» (o malaria) fu una delle principali cause di morte per gli abitanti della città (e fu così fino alla fine del XIX secolo). La versione ciceroniana della storia della fondazione non è la più famosa. Quella che sta alla base di quasi tutti i resoconti moderni risale in sostanza

a Livio. Considerando che si tratta di un autore la cui opera risulta ancora fondamentale per la nostra comprensione della Roma arcaica, si sa sorprendentemente poco dell’«uomo Livio»: era originario di Padova (Patavium), iniziò a scrivere il suo compendio di storia romana negli anni Venti del I secolo a.C. ed era in rapporti sufficientemente stretti con la famiglia imperiale da incoraggiare il futuro imperatore Claudio a dedicarsi alla storiografia. Inevitabilmente, la vicenda di Romolo e Remo ha un posto importante nel suo Primo libro, con un racconto senz’altro meno dettagliato sul piano geografico rispetto a quello di Cicerone ma narrativamente più vivace e variopinto. Livio inizia con i due gemelli, e segue la storia in modo rapido e vivace fino alle successive imprese del solo Romolo, quale fondatore e primo re di Roma. I due bambini, racconta Livio, erano nati da una sacerdotessa vergine di nome Rea Silvia nella città italica di Alba Longa, sui Colli albani, poco a sud del luogo in cui poi sorse Roma. Rea Silvia non aveva assunto questa carica votata alla castità di propria volontà, ma vi era stata costretta in seguito a una lotta intestina per il potere, nella quale suo zio, Amulio, era riuscito a impadronirsi del trono di Alba Longa dopo averne cacciato il padre di lei, Numitore. Amulio aveva poi sfruttato la copertura del sacerdozio (un evidente onore) per impedire la scomoda comparsa di un possibile erede del fratello e quindi suo rivale. Ciononostante, questa precauzione non ebbe successo, perché Rea Silvia ben presto rimase incinta. Secondo Livio, disse di essere stata violata dal dio Marte. Livio sembra condividere in proposito gli stessi dubbi di Cicerone, e suggerisce che Marte avrebbe potuto essere una conveniente dissimulazione per nascondere un rapporto esclusivamente umano. Ma altri scrittori parlavano con convinzione di un fallo uscito dalle fiamme del sacro fuoco che Rea Silvia stava curando. Non appena la sacerdotessa ebbe partorito i gemelli, Amulio ordinò ai suoi servi di gettarli nel Tevere e lasciarli affogare. Ma i due bambini sopravvissero. Infatti, come spesso avviene in questo genere di storie presenti anche in altre culture e civiltà, gli uomini ai quali era stato affidato l’ingrato compito non vollero o non ebbero il coraggio di seguire alla lettera gli ordini ricevuti. Perciò, anziché lasciarli dentro una cesta in mezzo al fiume, li posero vicino al punto in cui era arrivata l’acqua, straripata dal suo letto. Prima che i due gemelli fossero travolti dalla corrente verso una sicura morte, giunse a salvarli la celebre lupa. Livio fu uno di quegli storici romani scettici che cercarono di razionalizzare questo episodio particolarmente inverosimile della storia. La parola latina per «lupa» (lupa) era usata anche

come termine colloquiale per «prostituta» (lupanare era il nome consueto del «bordello»). Non poteva forse darsi che una prostituta locale, anziché una bestia selvaggia, avesse trovato e allattato i gemelli? Quale che fosse la vera identità della lupa, ben presto un buon pastore trovò i ragazzi e li prese con sé. Sua moglie era forse una prostituta?, domandava ancora Livio. Romolo e Remo crebbero insieme alla sua famiglia, restando ignari della propria identità per parecchi anni, finché, quando erano ormai adulti, vennero fortuitamente riuniti al proprio nonno, il deposto re Numitore. Dopo averlo rimesso sul trono di Alba Longa, decisero di fondare una propria città. Ma presto cominciarono a litigare, con conseguenze disastrose. Livio sostiene che la stessa rivalità e ambizione che aveva guastato le relazioni tra Numitore e Amulio si era tramandata per generazioni fino a Romolo e Remo. I due gemelli si trovarono in disaccordo sul luogo preciso nel quale stabilire la loro nuova fondazione: in particolare, su quale dei diversi colli che in seguito comporranno la città (ce ne sono, infatti, ben più dei celebri sette) si dovesse costruire il centro del primo insediamento. Romolo scelse quello chiamato Palatino, dove poi sorse la residenza principale degli imperatori e da cui deriva il nostro termine palazzo. Durante la litigata, Remo (che aveva optato per il colle dell’Aventino) in segno di offesa oltrepassò con un salto il perimetro difensivo che Romolo stava tracciando per definire il sito da lui prescelto. Circolavano diverse versioni su quanto avvenne dopo, ma la più nota e comune (secondo Livio) era che Romolo avesse reagito uccidendo suo fratello, diventando così l’unico capo del luogo che da lui prese il nome. Mentre sferrava il terribile colpo fratricida, avrebbe gridato (per citare le parole di Livio): «Così d’ora in poi perisca chiunque altro varcherà le mie mura». Era un motto perfetto per una città che si sarebbe successivamente presentata come uno stato bellicoso, ma le cui guerre erano sempre combattute in risposta alle aggressioni altrui, e quindi sempre «giuste».

Il ratto delle sabine Remo era morto. La città che aveva contribuito a fondare era formata da un esiguo pugno di amici e compagni di Romolo. Aveva bisogno di nuovi cittadini. Perciò Romolo dichiarò Roma un asylum («asilo») e incoraggiò la plebaglia e i diseredati di tutto il resto d’Italia a unirsi a lui: schiavi in fuga, criminali già condannati, esiliati e profughi. Si raccolse in questo modo un numero più che sufficiente di uomini. Ma per procurarsi delle donne, così racconta Livio, i romani dovettero ricorrere a uno stratagemma... e a un rapimento. Invitarono i popoli confinanti, i sabini e i latini, a prendere parte, insieme a tutte le loro famiglie, a una festività religiosa con accompagnamento di divertimenti. Nel bel mezzo della cerimonia, Romolo diede ai suoi uomini il segnale convenuto per rapire le giovani donne dei loro invitati e farne le proprie mogli. Nel XVII secolo il pittore Nicolas Poussin, famoso per le sue ricostruzioni di episodi dell’antica Roma, ha colto perfettamente la scena: Romolo, in piedi su un alto podio in atteggiamento solenne, osserva le violenze che vengono compiute sotto di lui, su uno sfondo di architetture monumentali non ancora ultimate. I romani del I secolo a.C. avrebbero facilmente riconosciuto quest’immagine della Roma arcaica. Pur raffigurandola talvolta come un villaggio di capanne e paludi, pieno di pecore, spesso trasformavano la Roma delle origini in una splendida e già completa città di stile classico. L’episodio del rapimento è stato riproposto in varie forme artistiche e letterarie nel corso della storia. Per esempio, il musical Sette spose per sette fratelli, del 1954, ne offre una parodia (in questo caso le mogli vengono rapite durante un tipico barn raising americano). E nel 1962, come diretta risposta al terrore suscitato dalla crisi dei missili cubani, Pablo Picasso rielaborò in modo ancora più cruento la versione di Poussin in un dipinto facente parte di una serie dedicata a questo tema (si veda la tavola 3). Gli autori romani continuarono incessantemente a discutere questa parte della storia. Un drammaturgo vi dedicò un’intera tragedia, che purtroppo, tranne un singolo frammento, non è giunta fino a noi. Si interrogavano sui suoi particolari, chiedendosi, per esempio, quante donne erano state rapite. Livio non si pronuncia, ma le stime vanno da trenta fino alla artificiosamente precisa e inverosimilmente alta cifra di 683 (a quanto pare

proposta dal principe africano Giuba, che fu condotto a Roma da Giulio Cesare e vi trascorse buona parte della sua giovinezza studiando ogni genere di argomento erudito, dalla storia romana alla grammatica latina). Più di ogni altra cosa, comunque, ciò che maggiormente li turbava era l’evidente criminalità e violenza dell’episodio. Si trattava, dopotutto, del primo matrimonio romano, e a esso si richiamavano gli studiosi quando cercavano di spiegare alcune complicate caratteristiche ed espressioni tipiche delle forme tradizionali della cerimonia nuziale: il grido celebrativo «O Talassio», per esempio, si diceva derivare dal nome di uno dei giovani romani protagonisti dell’evento. Si doveva quindi concludere che l’istituzione romana del matrimonio traesse la propria origine da uno stupro? Qual era la linea di confine tra un rapimento e uno stupro? E, più in generale, che cosa rivelava questo episodio sulla bellicosità di Roma?

8. Questa moneta d’argento, dell’89 a.C., raffigura, su un lato, due cittadini romani che rapiscono due donne sabine. Il nome del magistrato responsabile della coniatura di questa serie, a malapena leggibile sotto la scena figurata, era Lucio Titurio Sabino, cosa che probabilmente spiega la scelta del motivo iconografico. Sull’altro lato è riprodotta la testa del re sabino Tito Tazio.

Livio difende questi primi romani. Ribadisce che avevano rapito soltanto donne non sposate; qui era l’origine del matrimonio, non dell’adulterio. E

sottolineando il fatto che i romani non avevano scelto le proprie donne ma le avevano prese a caso, sostiene che stessero semplicemente ricorrendo a uno stratagemma necessario per garantire il futuro della loro comunità, e che gli uomini avessero fatto seguire al rapimento discorsi amorevoli e promesse d’affetto alle loro nuove consorti. Presenta inoltre l’iniziativa dei romani come una reazione all’irragionevole comportamento dei loro vicini. I romani, afferma Livio, avevano inizialmente fatto la cosa più giusta, chiedendo ai popoli confinanti un trattato che gli avrebbe dato il diritto di sposarsi con le loro figlie. Livio si riferisce qui esplicitamente (e del tutto anacronisticamente) al diritto legale del conubium o «matrimonio misto», che in un’epoca molto più tarda era un elemento normale dei trattati di alleanza di Roma con gli altri stati. I romani erano ricorsi alla violenza soltanto dopo che la loro richiesta era stata irragionevolmente rifiutata. In altre parole, si trattava di un ulteriore caso di «guerra giusta». Altri scrittori presentavano le cose in modo diverso. Alcuni individuarono alle origini stesse della città tutti i segnali rivelatori della successiva bellicosità romana. Il conflitto, sostenevano, non era stato provocato; e il fatto che i romani avessero preso soltanto trenta donne (se questo è il numero reale) dimostrava che la guerra, e non il matrimonio, era il loro obiettivo fondamentale. Sallustio accenna a questa possibile lettura. Nella sua Storia di Roma (una trattazione di ambito più generale rispetto alla sua Guerra contro Catilina, di cui rimangono solo alcune brevi citazioni in opere di altri autori), si immagina una lettera (ed è naturalmente soltanto immaginata) scritta da uno dei più fieri nemici di Roma, nella quale si denuncia il comportamento predatorio mantenuto dai romani per tutto il corso della loro storia: «Fin dal principio non hanno posseduto altro che quello che hanno rubato: la loro casa, le loro mogli, le loro terre, il loro impero». Forse l’unica via d’uscita era attribuire la colpa agli dèi. Che altro ci si poteva aspettare, sostenne un altro scrittore romano, visto che il padre di Romolo era Marte, il dio della guerra? Il poeta Publio Ovidio Nasone vedeva le cose in modo ancora diverso. Grosso modo coetaneo di Livio, era tanto irriverente e sovversivo quanto Livio era rispettoso e tradizionalista, e finì per essere bandito nell’8 a.C., in parte per lo scandalo suscitato dal suo licenzioso poema sull’arte amatoria. In quest’opera Ovidio ribalta completamente la storia liviana del rapimento e descrive l’episodio come un primitivo modello di corteggiamento: un esempio di ars amatoria, non un mero stratagemma. I romani di Ovidio, per prima cosa, «scegliendo ciascuno con gli occhi la ragazza che vuole»,

quando viene dato il segnale si lanciano su di essa con «mani bramose». Subito iniziano a sussurrare dolci paroline nelle orecchie delle proprie prede, il cui terrore non fa che aumentare il loro fascino erotico. Le festività e gli spettacoli di intrattenimento, come ricorda spiritosamente il poeta, sono sempre stati ottimi posti per trovare una ragazza, fin dai primi giorni di Roma. Detto altrimenti: Romolo ebbe davvero un’idea eccezionale per ricompensare i suoi fedeli soldati. «Se mi darai vantaggi come questi» scherza Ovidio «sarò soldato anch'io.» Ma i genitori delle ragazze, così continua la storia, non trovarono affatto divertente o romantico il rapimento. Entrarono in guerra contro Roma pretendendo la restituzione delle loro figlie. I romani riuscirono a sconfiggere facilmente i latini, ma non ebbero lo stesso successo con i sabini, e il conflitto proseguì, fino a quando gli uomini di Romolo si trovarono esposti a un pesante attacco nella loro città. A quel punto Romolo fu costretto a chiedere l’aiuto di Giove Statore affinché i suoi concittadini non si dessero alla fuga, come Cicerone ricordava al proprio pubblico, senza tuttavia menzionare che quella guerra era scoppiata a causa del ratto delle sabine. Le ostilità infine cessarono grazie all’intervento di quelle medesime donne, ormai soddisfatte della propria sorte di mogli e madri romane. Si presentarono coraggiosamente sul campo di battaglia e pregarono i propri mariti e padri nei due rispettivi schieramenti di deporre le armi. «Preferiamo morire noi stesse» proclamarono «piuttosto che vivere senza di voi, come vedove o come orfane.» La loro iniziativa ebbe successo. Non soltanto venne stipulata la pace, ma, a quanto pare, la stessa Roma divenne una città romano-sabina, una singola comunità sotto il comando condiviso di Romolo e del re sabino Tito Tazio. Condiviso, in realtà, solo per pochi anni, perché (con una morte violenta che divenne una tipica caratteristica della politica di potere romana) Tazio fu assassinato in una città vicina durante una ribellione in parte scatenata per sua stessa iniziativa. Romolo tornò a governare da solo: primo re di Roma, regnò per oltre trent’anni.

Fratello contro fratello, nuovi arrivati e antichi cittadini Sotto la superficie di queste storie si celano alcuni dei temi più importanti della successiva storia di Roma, come pure alcune delle più profonde ansie culturali dei suoi abitanti. Gli uni e le altre possono rivelarci molte cose sui valori e le preoccupazioni dei romani, o almeno di quelli sufficientemente ricchi e indipendenti per avere del tempo libero; le ansie culturali sono spesso un privilegio dei ricchi. Uno di questi temi, come abbiamo visto, era la natura del matrimonio. Quanto brutale era destinato a essere, considerate le sue origini? Un altro, già individuabile nelle parole delle donne sabine che cercavano di riconciliare i propri padri e mariti, era la guerra civile. Uno degli enigmi più difficili da sciogliere di questa leggenda di fondazione riguarda la presenza di due fondatori, Romolo e Remo. Gli storici moderni hanno proposto ogni genere di soluzione per spiegare la ridondante presenza dei due gemelli. Potrebbe rimandare a un qualche fondamentale dualismo nella cultura romana, per esempio tra classi diverse di cittadini o tra differenti gruppi etnici. Oppure potrebbe riflettere il fatto che in seguito a Roma vi furono sempre due consoli. O ancora, potrebbero essere coinvolte ben più profonde strutture mitiche, e Romolo e Remo sarebbero una versione dei gemelli divini che si ritrovano nelle mitologie di tutto il mondo, dalla Germania all’India vedica, nonché nel racconto biblico di Caino e Abele. Tuttavia, quale che sia la soluzione prescelta (e le speculazioni moderne non sono molto convincenti), rimane il fatto che uno dei due gemelli è effettivamente superfluo, e infatti Remo viene ucciso da Romolo, oppure, secondo un’altra versione, da un suo scagnozzo, il giorno stesso in cui viene fondata Roma. Per molti romani, che non risolvevano il problema definendo la storia un «mito» o una «leggenda», questo era l’aspetto più sgradevole della fondazione della città. Per Cicerone doveva esserlo certamente, tanto che nella sua versione delle origini di Roma esposta nel De re publica non lo menziona neppure; Remo appare all’inizio della vicenda, insieme a Romolo, ma in seguito sparisce semplicemente dalla scena. Un altro scrittore, lo storico Dionigi di Alicarnasso (una città sulla costa dell’odierna Turchia), residente a Roma nel I secolo a.C., preferì descrivere Romolo come inconsolabilmente afflitto per la morte del fratello («aveva perduto la

volontà di vivere»). Un altro ancora, chiamato Egnazio, aggirava il problema in modo persino più audace. La sola cosa che sappiamo a proposito di questo autore è che avrebbe completamente rovesciato la storia dell’omicidio, affermando che Remo visse addirittura più a lungo di Romolo. Era un tentativo disperato, e senza dubbio non convincente, di sottrarsi al cupo messaggio del racconto: ossia che il fratricidio era profondamente radicato nella politica romana, e che le terrificanti guerre civili che segnarono la storia di Roma fin dal VI secolo a.C. (l’assassinio di Giulio Cesare nel 44 a.C. è solo un esempio fra i tanti) erano in qualche modo già scritte nel suo destino. Infatti, come avrebbe potuto una città fondata sul fratricidio sfuggire alle faide e agli omicidi tra cittadini? Il poeta Quinto Orazio Flacco fu uno dei molti autori che risposero a questa domanda nel modo più ovvio. Scrivendo attorno al 30 a.C., all’indomani del decennio di scontri che erano seguiti alla morte di Cesare, si lamentava con queste parole: È la necessità, feroce, intendo, che agita questo popolo di Roma, il delitto, la morte di un fratello. È quel sangue innocente di Remo che colò su questa terra a maledire i figli e i loro figli.

9. La storia di Romolo e Remo raggiunse i più remoti angoli dell’impero romano. Questo mosaico del IV secolo d.C. proviene da Aldborough, nell’Inghilterra settentrionale. La lupa è raffigurata come una creatura dolce e mansueta. I due gemelli, che galleggiano pericolosamente a mezz’aria, sembrano un’aggiunta posteriore, proprio come quelli della lupa capitolina.

La guerra civile, potremmo dire, scorreva nel sangue dei romani. Senza dubbio, Romolo poteva essere presentato, e spesso lo fu, come un

eroico padre fondatore. Il disagio provato da Cicerone per la sorte toccata a Remo non gli impedì di indossare il mantello del primo re di Roma nel suo scontro con Catilina. E, malgrado l’ombra dell’assassinio, le immagini dei gemelli allattati dalla lupa erano diffuse in tutto il mondo romano, a partire dalla capitale (dove un tempo si trovava nel Foro un gruppo statuario che li raffigurava, mentre un altro ornava il Campidoglio) fino agli angoli più remoti dell’impero. Infatti quando, nel II secolo a.C., gli abitanti dell’isola greca di Chio vollero dimostrare la propria fedeltà a Roma, una delle loro prime iniziative fu quella di erigere un monumento che ritraeva, per citare le loro stesse parole, «la nascita di Romolo, fondatore di Roma, e di suo fratello Remo». Questo monumento, purtroppo, non è sopravvissuto. Ma ne abbiamo notizia perché gli abitanti di Chio fecero eternare la loro decisione su una lastra di marmo, che invece ci è pervenuta. In ogni caso, Romolo restava un personaggio di indubbia tensione morale e politica. Audace, sebbene in modo diverso, era anche l’idea dell’asylum, dell’accoglienza che Romolo, al fine di trovare nuovi abitanti per la sua città, era disposto a offrire a tutti: stranieri, criminali e disertori. Questa scelta presentava degli aspetti positivi. In particolare, rifletteva la straordinaria apertura della cultura politica romana e la sua disponibilità ad accogliere nuovi arrivati, una caratteristica che la distingue da quella di ogni altra antica civiltà occidentale a noi nota. Nessuna città greca fu mai altrettanto ricettiva; Atene, in particolare, limitò rigidamente l’accesso alla cittadinanza. Questo non significa tributare omaggio a un presunto temperamento «liberale» dei romani nel senso moderno del termine. Essi conquistarono estesi territori dentro e fuori l’Europa, talvolta con spaventosa brutalità; e spesso mostrarono xenofobia e disprezzo nei confronti dei popoli definiti «barbari». Ciononostante, nel corso di un processo unico in tutti gli imperi dell’epoca preindustriale, agli abitanti dei territori conquistati (o «province», per usare la terminologia latina) venne gradualmente concessa la piena cittadinanza romana, con tutti i diritti e le protezioni giuridiche che essa comportava. Un processo che culminò nel 212 d.C., quando l’imperatore Caracalla la concesse a ogni abitante libero dell’impero. Già prima di allora, molte delle élite provinciali erano riuscite a inserirsi nella gerarchia politica della capitale. Il Senato si trasformò gradualmente in quello che oggi definiremmo un organismo decisamente multiculturale, e molti degli imperatori romani non erano di origine italiana: il padre di Caracalla, Settimio Severo, fu il primo imperatore di origine africana;

Traiano e Adriano, che regnarono mezzo secolo prima, provenivano dalla provincia romana della Spagna. Quando, nel 48 d.C., l’imperatore Claudio (la cui paterna immagine deriva piuttosto dal romanzo Io, Claudio di Robert Graves che dal suo autentico aspetto) sostenne davanti a un Senato leggermente riluttante che ai cittadini della Gallia doveva essere concesso il diritto di diventare senatori, non mancò di ricordare che Roma si era aperta agli stranieri fin dai suoi primi giorni. Il testo del suo discorso, comprese le interruzioni che a quanto pare persino un imperatore doveva sopportare, fu iscritto su una lastra di bronzo ed esposto nella stessa provincia, in quella che è l’odierna città di Lione, dove si è conservato sino a oggi. Claudio, a quanto pare, non ebbe, come Cicerone, la possibilità di apportare correzioni in vista della pubblicazione. Uno sviluppo analogo si ebbe anche con la schiavitù. A Roma essa era, per certi aspetti, brutale quanto i metodi impiegati dai romani nelle conquiste militari. Ma per molti schiavi romani, specialmente per coloro che lavoravano entro un contesto domestico urbano anziché con la schiena piegata nei campi o nelle miniere, non si trattava per forza di una condizione immutabile. Gli veniva concessa abbastanza regolarmente la libertà, oppure potevano acquistarla con il denaro che erano riusciti a mettere da parte; e, se il loro padrone era un cittadino romano, ottenevano anch’essi la piena cittadinanza, senza alcuna particolare discriminazione rispetto a quanti erano nati liberi. La differenza con l’Atene classica è, ancora una volta, netta e profonda: nella città greca ben pochi schiavi venivano liberati, e quei pochi non ottenevano in tal modo la cittadinanza ateniese, ma restavano relegati in una sorta di limbo giuridico. Questa pratica di emancipazione degli schiavi (o «manomissione») era una peculiarità così caratteristica della cultura romana che già allora gli osservatori ne furono profondamente colpiti e la considerarono un elemento decisivo del successo di Roma. Come notò un re macedone nel III secolo a.C., era proprio in questo modo che «i romani avevano ingrandito il loro paese». L’ampiezza di questo processo di emancipazione era tale che, nel II secolo d.C., alcuni storici scrissero che la maggior parte della popolazione libera della città di Roma aveva almeno uno schiavo tra i propri antenati. La storia dell’asylum concesso da Romolo è un chiaro indizio di quest’apertura, e suggerisce come la multiforme e diversificata composizione di Roma risalga proprio alle sue stesse origini. Anche tra i romani vi era chi condivideva l’opinione del re macedone a proposito della

politica inclusiva di Romolo quale chiave del successo della città, ed era orgoglioso dell’istituzione dell’asylum. Non mancavano tuttavia voci dissonanti, che sottolineavano un aspetto assai meno lusinghiero della storia. Non erano soltanto i nemici di Roma a cogliere l’ironia di un impero che faceva risalire le proprie origini a criminali e furfanti italici. La riconoscevano anche parecchi romani. Alla fine del I o all’inizio del II secolo d.C., il poeta satirico Decimo Giunio Giovenale, che amava ridicolizzare le vanterie dei romani e biasimare lo snobismo che era un altro aspetto della vita della capitale, derise gli aristocratici che mostravano orgogliosamente un albero genealogico antico di secoli. E terminò uno dei suoi componimenti con una frecciata maligna sulle origini di Roma. Su cosa si basava tutta quella vanagloria? Roma era stata fin dall’inizio una città formata da schiavi e disertori («Chiunque fosse il vostro più antico antenato, era o un pastore o qualcosa che preferisco non menzionare»). Cicerone potrebbe alludere alla stessa cosa quando, in una lettera al suo amico Attico, si mette a scherzare sulla «feccia» di Romolo. Stava facendosi beffe di un suo contemporaneo, il quale, a suo dire, «prende la parola in Senato come se operasse nella Repubblica di Platone» (riferendosi allo stato ideale del filosofo greco) «e non tra il fecciume della città di Romolo». In breve, i romani, nel bene o nel male, si potevano sempre considerare avviati sulle orme di Romolo. Quando Cicerone si atteggiò a nuovo Romolo nel suo discorso contro Catilina, fu ben più che un autoglorificante appello al padre fondatore di Roma (pur essendo anche questo); fu soprattutto un richiamo a una storia che scatenava ogni genere di discussioni e dibattiti fra i suoi contemporanei su chi fossero veramente i romani, su ciò che Roma rappresentava e su quali fossero le sue spaccature interne.

Storia e mito Le orme di Romolo erano scolpite nel paesaggio romano. Al tempo di Cicerone, si poteva fare ben più che una semplice visita al tempio romuleo di Giove Statore; si poteva entrare nella grotta in cui si pensava che la lupa avesse allattato e accudito i gemelli, e si poteva ammirare l’albero (ripiantato nel Foro) presso il quale si diceva che i due bambini fossero stati depositati dal fiume. Si poteva addirittura vedere la sua stessa casa, una piccola capanna di legno e canne sul colle Palatino: un resto visibile della Roma primitiva in quella che era diventata una metropoli brulicante. Si trattava, naturalmente, di una ricostruzione, come osserva tra le righe un visitatore del I secolo a.C.: «Non vi aggiungono nulla per renderla più venerabile; ma se una qualche parte di essa risulta danneggiata, dal cattivo tempo o semplicemente per la sua antichità, viene riparata e restaurata nella forma più somigliante possibile all’originale». Di questa capanna non sono stati trovati resti archeologici, cosa niente affatto sorprendente, visti i materiali con cui era costruita. Ma si conservò in qualche modo, come monumento commemorativo delle origini della città, almeno fino al IV secolo d.C., epoca in cui viene citata in un elenco dei luoghi più caratteristici di Roma. Questi «resti» concreti (il tempio, l’albero di fichi e la capanna scrupolosamente restaurata) erano simbolo e prova della storicità della figura di Romolo. Come abbiamo visto, gli autori romani non erano degli sciocchi creduloni, e mettevano in dubbio parecchi dettagli delle storie tradizionali pur continuando a narrarle (il ruolo della lupa, l’ascendenza divina ecc.). Ma non espressero mai il minimo dubbio sul fatto che Romolo fosse realmente esistito, che avesse preso decisioni cruciali per lo sviluppo futuro di Roma (come la scelta del luogo dove sarebbe sorta la città) e che avesse creato in modo sostanzialmente autonomo alcune delle sue istituzioni fondamentali. Lo stesso Senato, secondo alcuni racconti, era stato creato da Romolo, così come la cerimonia del «trionfo», la sfilata della vittoria con cui si celebravano i più grandi (e sanguinosi) successi in battaglia. Quando, alla fine del I secolo a.C., su una serie di lastre di marmo esposte nel Foro venne iscritto un elenco di tutti i generali romani che avevano celebrato un trionfo, il nome di Romolo figurava in cima: «Romolo, il re, figlio di Marte, nell’anno primo, il primo di marzo, per una vittoria sul

popolo di Caenina». Si commemorava così la rapida sconfitta di una vicina città latina da cui erano state rapite alcune donne, e senza alcuno scetticismo circa la parentela divina del re. Gli studiosi romani si sforzarono di definire con precisione le imprese di Romolo e stabilire una cronologia accurata delle prime fasi della storia di Roma. Una delle controversie più dibattute al tempo di Cicerone riguardava il momento esatto in cui era stata fondata la città. Quanti anni aveva esattamente Roma? Le menti più brillanti ed erudite si impegnarono con tutto il proprio ingegno a contare a ritroso partendo dalle date che conoscevano per stabilire quelle che non conoscevano e sincronizzare gli eventi della storia romana con la cronologia della storia greca. In particolare, cercarono di ancorare la propria storia al ciclo quadriennale dei Giochi Olimpici, che offriva una precisa e fissa intelaiatura di riferimento (sebbene, come viene oggi riconosciuto, fosse esso stesso, almeno in parte, il frutto di precedenti speculazioni erudite). Era un dibattito complesso e assai specializzato. Ma le diverse opinioni confluirono progressivamente su una data attorno alla metà dell’VIII secolo a.C., raggiungendo altresì la conclusione che la storia greca e quella romana erano «iniziate» grosso modo nello stesso periodo. La data, divenuta poi canonica e ancora riportata in molti manuali moderni, deriva in parte da un trattato di argomento cronologico scritto nientemeno che da Attico, il grande amico e corrispondente epistolare di Cicerone. Non ci è pervenuto, ma si suppone assegnasse la fondazione della città al terzo anno del sesto ciclo delle Olimpiadi, vale a dire al 753 a.C. Altri calcoli erano ancora più precisi, fissando anche il giorno esatto: il 21 aprile, giornata in cui i romani celebrano ancora oggi l’anniversario della città, con sfilate pacchiane e finti combattimenti di gladiatori.

10. Trovato in territorio etrusco, questo specchio (la parte riflettente si trovava sul lato opposto), risalente al IV secolo a.C., sembra presentare una raffigurazione dell’allattamento di Romolo e Remo da parte della lupa. Se questa interpretazione è corretta, sarebbe una delle più antiche attestazioni del celebre mito. Tuttavia, alcuni studiosi moderni, forse troppo scettici, hanno preferito riconoscervi una scena tratta da un mito etrusco, oppure due divinità romane, i gemelli Lares Praestites.

Il confine tra mito e storia è spesso incerto (basti pensare a personaggi

come re Artù o Pocahontas), e, come vedremo, lo è in modo particolare nella cultura romana. Comunque, malgrado tutto l’acume storico profuso dai romani a proposito di questa vicenda, abbiamo molte e decisive ragioni per considerarla, dalla nostra prospettiva, sostanzialmente come un puro mito. In primo luogo, non vi fu un unico momento fondativo della città di Roma. Ben poche città sono state fondate con un singolo atto, da un solo individuo. Sono di solito l’esito di lunghi e graduali mutamenti nella popolazione, nei modelli di insediamento, nell’organizzazione sociale e nel senso di identità. Quasi tutte le storie di «fondazione» sono costruzioni a posteriori, che proiettano in un remoto passato un microcosmo, o una versione considerata primitiva, di una fase successiva della città. Lo stesso nome «Romolo» è un indizio rivelatore. Sebbene i romani ritenessero generalmente che avesse dato il proprio nome alla nuova città, possiamo affermare con una certa sicurezza che è vero il contrario: «Romolo» è un’ingegnosa costruzione derivata da «Roma». «Romolo» non era altro che l’archetipico «Signor Roma». Per di più, gli scrittori e gli studiosi del I secolo a.C. che ci hanno tramandato la loro versione delle origini della città non disponevano, in merito alle fasi più antiche della storia romana, di testimonianze dirette maggiori o più precise di quelle in nostro possesso; anzi, per certi aspetti, ne avevano probabilmente meno. Non vi erano archivi o documenti superstiti. Le poche iscrizioni arcaiche su pietra, per quanto di notevole valore, non erano così antiche come spesso immaginavano gli storici romani, che, come scopriremo alla fine di questo capitolo, talvolta non erano in grado di comprendere il latino arcaico. È pur vero che avevano accesso ad alcune precedenti opere storiche per noi perdute, ma la più antica di esse era stata scritta attorno al 200 a.C. Tra questa data e quella delle origini della città restava quindi un abisso, che poteva essere colmato soltanto con l’aiuto di un eterogeneo corpus di storie, canti, rappresentazioni drammatiche popolari e di quel mutevole e talvolta contraddittorio amalgama che compone la tradizione orale, costantemente adattata nella sua infinita ripetizione al mutare delle circostanze e del pubblico. Della storia di Romolo si possono riconoscere poche labili tracce fino al IV secolo a.C.; poi, a meno che non si faccia rientrare in scena la bronzea lupa, le orme svaniscono. Naturalmente, proprio perché è, a rigor di termini, di natura mitica anziché storica, la vicenda di Romolo sintetizza in modo perfetto alcune questioni culturali centrali dell’antica Roma e risulta di fondamentale

importanza per comprendere la storia romana, nel suo senso più ampio. I romani, diversamente da quanto essi stessi pensavano, non avevano soltanto ereditato le priorità e gli interessi del fondatore della loro città. Proprio il contrario: nel corso di una secolare rinarrazione e riscrittura della vicenda, avevano essi stessi costruito e ricostruito la figura fondante di Romolo come possente simbolo delle loro inclinazioni, dei loro dibattiti, delle loro ideologie e delle loro preoccupazioni. In altre parole, e per tornare alle riflessioni di Orazio, la guerra civile non era stata la maledizione e il destino di Roma fin dalla sua fondazione; Roma stessa aveva proiettato sul suo fondatore la propria angosciosa ossessione di un ciclo apparentemente infinito di conflitti civili. A ogni modo, restava sempre la possibilità di adattare o riconfigurare il racconto, anche quando aveva ormai raggiunto una forma letteraria relativamente fissa. Abbiamo già visto, per esempio, come Cicerone preferisse stendere un velo sull’assassinio di Remo, e come Egnazio lo negasse categoricamente. Ma la narrazione della morte di Romolo offertaci da Livio illustra perfettamente come la storia delle origini di Roma potesse essere facilmente plasmata per farne l’immagine riflessa di eventi assai più recenti. Il re, scrive Livio, regnava ormai da trent’anni quando, nel corso di una violenta tempesta, fu improvvisamente coperto da una nuvola e poi scomparve. Gli sconsolati romani ne dedussero immediatamente che il re era stato loro sottratto per essere trasformato in un dio (il sistema religioso politeistico romano permetteva in certi casi di oltrepassare il confine tra l’umano e il divino, anche se ciò ci può sembrare piuttosto ingenuo). Ma, come ammette lo stesso Livio, alcuni all’epoca raccontavano una storia diversa, ossia che il re era stato assassinato, massacrato a morte dai senatori. Livio non inventò di sana pianta queste parti della sua storia: già prima di lui, per esempio, Cicerone aveva menzionato l’apoteosi di Romolo, sebbene con un certo scetticismo; e negli anni Sessanta del I secolo a.C. un politico troppo ambizioso era stato minacciato di dover subire «il destino di Romolo», cosa che, presumibilmente, non significava essere trasformato in un dio. Tuttavia, scrivendo a pochi decenni di distanza dall’assassinio di Giulio Cesare, anch’egli ucciso a coltellate dai senatori e poi elevato allo stato di divinità (con un proprio tempio nel Foro), Livio ci offre un racconto particolarmente tendenzioso ed enfatico. Se si ignorano questi echi dell’omicidio di Cesare, non si riesce a cogliere il più profondo significato del testo.

Enea e altro ancora La storia di Romolo e Remo è di volta in volta affascinante, enigmatica e profondamente rivelatrice dei più essenziali interessi romani, o almeno di quelli dell’aristocrazia. E, a giudicare dalle iconografie delle monete o dai temi dell’arte popolare, la conoscenza di queste vicende era molto diffusa, anche se i contadini affamati non passavano certo il tempo a occuparsi delle particolarità del ratto delle sabine. Ma un ulteriore problema, che si aggiunge a questo già intricato quadro della leggenda sulle origini di Roma, è rappresentato dal fatto che quella di Romolo e Remo non era l’unica storia di fondazione della città. Ce n’erano molte altre, che convivevano una di fianco all’altra. Alcune erano semplici varianti dello schema standard, altre presentavano alternative che a noi sembrano francamente stravaganti. Una versione di origine greca, per esempio, introduceva nella vicenda il celebre Ulisse e altri echi dell’Odissea di Omero, sostenendo che il vero padre fondatore di Roma fosse un uomo chiamato Romus, frutto della relazione di Ulisse con la maga Circe, la cui mitica isola veniva talvolta immaginata in un qualche punto al largo delle coste italiane. Era un ben architettato, benché poco plausibile, sfoggio di imperialismo culturale, che dava a Roma un’ascendenza greca. La leggenda alternativa, altrettanto profondamente radicata nella storia e nella letteratura romana, è quella dell’eroe troiano Enea, fuggito da Troia dopo la mitica guerra tra greci e troiani che fa da sfondo all’Iliade. Scappato dalla città in fiamme con il figlioletto per mano e l’anziano padre sulle spalle, e dopo lunghe peripezie, Enea alla fine approdò in Italia, giacché era destinato a rifondare la sua città natale sulla penisola. Portava con sé le tradizioni della madrepatria e persino alcuni preziosi cimeli che era riuscito a salvare dalla distruzione.

11. Mosaico del IV secolo d.C., dal pavimento delle terme della villa romana di Low Ham, nel sud dell’Inghilterra, decorato con una serie di scene tratte dall’Eneide di Virgilio: Enea che arriva a Cartagine, Didone ed Enea a caccia e, nella scena qui riprodotta, la passione amorosa tra la regina cartaginese e l’eroe troiano.

Questa storia suscita altrettanti problemi, difficoltà e incertezze di quella di Romolo, e le medesime irrisolte domande su quando, dove e perché sia stata creata. Tali interrogativi sono ulteriormente complicati, ma anche enormemente arricchiti, dall’Eneide, il grande poema in dodici libri di Virgilio, scritto durante il regno del primo imperatore romano, Augusto, una delle opere più conosciute della letteratura mondiale. La sua è

diventata la storia di Enea per antonomasia. E ha lasciato in eredità al mondo occidentale alcuni dei suoi più potenti motivi letterari e artistici, come la tragica storia d’amore fra Enea e Didone, la regina di Cartagine, dove Enea approda nel corso del suo lungo viaggio da Troia verso l’Italia. Quando Enea decide finalmente di seguire il proprio destino e partire per l’Italia, abbandonando la regina, Didone si suicida gettandosi nelle fiamme di una pira. «Ricordati di me, ricordati di me», recita la sua ossessiva aria nella versione musicale composta da Henry Purcell nel XVII secolo. Il principale problema sta nel fatto che spesso risulta molto difficile capire quali elementi della storia dobbiamo a Virgilio (compresa, quasi certamente, buona parte dell’incontro con Didone) e quali invece appartengono a un substrato più tradizionale. Non c’è dubbio che la figura di Enea come fondatore di Roma aveva assunto veste letteraria (lasciando anche il proprio segno sul paesaggio) già prima del I secolo a.C. Vi sono alcuni fugaci riferimenti a Enea in questo ruolo negli autori greci del V secolo a.C. Nel II secolo a.C., gli ambasciatori dell’isola greca di Delo che chiedevano un’alleanza con Roma sembrano essersi curati di ricordare ai romani, per riuscire più convincenti, che Enea si era fermato a Delo durante il suo viaggio verso occidente. In Italia, Dionigi di Alicarnasso era convinto di avere visto la tomba di Enea, o almeno un antico monumento a lui dedicato, nella città di Lavinio, non lontano da Roma: «senz’altro degna di visita», come osservò lui stesso. Esisteva anche una storia piuttosto diffusa secondo la quale tra i preziosi oggetti conservati nel tempio della dea Vesta, nel Foro romano (dove alcune sacerdotesse vergini, come la Rea Silvia della leggenda romulea, curavano un fuoco sacro che non si doveva mai spegnere), vi fosse la statua di Pallade Atena che Enea aveva portato con sé da Troia. O almeno questo è ciò che raccontavano i romani. C’erano numerosi altri candidati rivali all’onore di avere salvato questa celebre immagine, e quasi ogni città del mondo greco pretendeva di possedere l’autentica reliquia. Non c’è nemmeno bisogno di dire che la storia di Enea è altrettanto mitica di quella di Romolo. Ma gli studiosi romani si interrogavano sul rapporto tra queste due leggende di fondazione e si sforzarono di accordarle sul piano storico. Romolo era il figlio, o magari il nipote, di Enea? E, se Romolo era il fondatore di Roma, come poteva esserlo anche Enea? La difficoltà maggiore stava nella scomoda discrepanza fra la data che i romani assegnavano alle origini della propria città (nell’VIII secolo a.C.) e quella comunemente assegnata alla caduta di Troia (anch’essa considerata un evento storico), nel XII secolo a.C. Nel I

secolo a.C. si era ormai raggiunta una certa coerenza elaborando un complesso albero genealogico, che collegava Enea e Romolo, rispettando le «giuste» date: Enea era considerato il fondatore non di Roma, bensì di Lavinio; e suo figlio Ascanio il fondatore di Alba Longa, la città dalla quale in seguito Romolo e Remo vennero cacciati prima di fondare Roma. E venne creata una fantomatica e smaccatamente fittizia dinastia di re albani per colmare il vuoto temporale tra Ascanio e la magica data del 753 a.C. Questa è appunto la versione tramandata da Livio. Il punto centrale della storia di Enea riecheggia, o meglio esagera, il soggiacente tema dell’asylum di Romolo. Se Romolo aveva accolto chiunque arrivasse nella sua nuova città, la storia di Enea si spinge addirittura al punto di affermare che i «romani» in realtà erano originariamente «stranieri». È un carattere per certi aspetti paradossale dell’identità nazionale, in netto contrasto con i miti di fondazione di molte città dell’antica Grecia, come per esempio Atene, orgogliosamente convinte che la propria originaria popolazione fosse spuntata per miracolo dalle profondità della loro stessa terra. Anche altre versioni della fondazione di Roma sottolineano ripetutamente questa origine straniera. Così, in un episodio dell’Eneide, Enea visita il sito della futura città di Roma e lo trova già occupato da primitivi predecessori dei romani. Chi sono costoro? Sono un gruppo di coloni al comando di un certo re Evandro, esiliato dall’Arcadia, nel Peloponneso greco. Il messaggio è chiaro: per quanto si risalga indietro nel tempo, gli abitanti di Roma sono sempre giunti da un qualche altro luogo. Questo messaggio è riassunto in modo estremamente elegante in una strana etimologia riportata da Dionigi e altri autori. Gli intellettuali greci e romani erano affascinati dalle ricerche etimologiche, convinti che fornissero la chiave per comprendere non soltanto l’origine di una parola ma anche il suo significato più profondo. Le loro analisi sono talvolta corrette, ma in altri casi completamente sbagliate e fantasiose. Ma anche i loro errori sono spesso rivelatori, come in questo caso specifico. Dionigi, all’inizio del suo racconto, esamina un altro gruppo di abitanti ancora più primitivi del sito che sarebbe poi diventato Roma: gli Aborigeni. L’etimologia di questa parola avrebbe dovuto essere ovvia ed evidente: si trattava di uomini che abitavano il luogo «fin dall’inizio» (ab origine). Dionigi, in effetti, cita questa possibile spiegazione, ma (come molti altri autori) assegna un pari o persino maggiore valore all’idea, davvero improbabile, che la parola derivi non da origo, bensì da errare («errare, vagabondare»), e inizialmente sarebbe

stata scritta Aberrigines. Queste genti, conclude Dionigi, erano dunque «vagabondi senza fissa dimora». Che serissimi studiosi antichi potessero chiudere gli occhi di fronte all’ovvia etimologia e accogliere la sciocca tesi che faceva derivare Aborigenes da errare per mezzo di una grafia alternativa non deve essere considerata la prova di una loro ottusità. Dimostra invece quanto fosse radicata l’idea che «Roma» fosse sempre stata un concetto etnicamente mobile e malleabile, e che i «romani» fossero sempre stati in movimento.

Archeologia di Roma arcaica Le storie di Romolo e degli altri fondatori ci dicono molte cose su come i romani vedevano la propria città, ma anche sui loro valori e i loro difetti. Ci mostrano inoltre come gli autori latini discutevano il proprio passato e studiavano la propria storia. Ma non ci dicono nulla, o al massimo molto poco, su ciò che pretendono di descrivere, vale a dire l’aspetto della Roma più antica, e il momento e i modi attraverso i quali è diventata una comunità urbana. Un fatto appare ovvio. Roma era già una città molto antica quando Cicerone rivestì il consolato nel 63 a.C. Se quindi non rimangono testimonianze scritte del periodo fondativo e le leggende tradizionali non sono affidabili, come possiamo ricavare informazioni concrete sulle origini della città? Esiste un modo per gettare un po’ di luce sui primissimi anni del piccolo villaggio presso il Tevere che divenne in seguito la capitale di un impero mondiale? Per quanto ci si sforzi, è impossibile ricostruire un quadro narrativo coerente, in grado di sostituire le leggende di Romolo o di Enea. Estremamente difficile – benché troppo spesso si affermi il contrario – è anche stabilire datazioni precise per le più antiche fasi della storia romana. Ma possiamo lo stesso farci un’idea più accurata del contesto generale entro il quale la città si è sviluppata e ricavare da questo mondo qualche immagine sorprendentemente viva (e altre ancora più seducentemente sfuggenti). Un modo per raggiungere questo obiettivo è lasciare da parte le storie di fondazione e cercare indizi nascosti nelle pieghe della lingua latina o nelle istituzioni romane più antiche in grado di riportarci alla realtà della Roma arcaica. In questo ambito, la chiave di volta è costituita da quello che spesso viene semplicemente, ma erroneamente, definito il «conservatorismo» della cultura romana. Roma non fu più conservatrice della Gran Bretagna del XIX secolo. In entrambe, la spinta innovatrice radicale fiorì in dialettico rapporto con ogni genere di tradizione e retorica conservatrice. Ciononostante, la cultura romana era effettivamente caratterizzata da una certa riluttanza a sbarazzarsi completamente dei suoi antichi costumi, tendendo invece a preservare ogni genere di «fossile» (religioso, rituale, politico o di qualsiasi altro tipo) persino quando il suo significato originario era ormai perduto e dimenticato. Come ha acutamente osservato uno

scrittore moderno, i romani erano come quelle persone che acquistano ogni nuovo elettrodomestico da cucina ma non sanno disfarsi dei loro vecchi apparecchi, che continuano ad ammucchiarsi sul banco senza però essere mai utilizzati. Gli studiosi, antichi e moderni, hanno spesso sospettato che in alcuni di questi fossili si celino importanti testimonianze per ricostruire l’aspetto della Roma più antica. Un esempio illuminante è offerto da un rito che si celebrava ogni anno nel mese di dicembre, noto con il nome di Septimontium. Che cosa accadesse durante questo rito non è del tutto chiaro, ma un erudito romano osserva che Septimontium era il nome dell’insediamento prima che assumesse quello di «Roma». Un altro studioso fornisce un elenco dei «colli» (montes) coinvolti nello svolgimento del rito: Palatino, Velia, Fagutale, Suburra, Cermalo, Oppio, Celio e Cispio. Il fatto che ne vengano menzionati otto indica che nel corso della trasmissione di questa tradizione si deve essere prodotta qualche confusione. Cosa ancora più importante, la peculiarità di questo elenco (Palatino e Cermalo fanno entrambi parte del colle generalmente chiamato Palatino), insieme all’idea che Septimontium fosse il precedente nome di Roma, ha fatto supporre che questi nomi riflettessero l’esistenza di villaggi separati anteriori allo sviluppo della città vera e propria. E la mancanza nell’elenco di due colli altrimenti sempre presenti, il Quirinale e il Viminale, ha spinto alcuni storici a compiere un ulteriore passo. Gli scrittori romani di solito parlano di queste due colline definendole con il termine colles anziché con il più consueto montes (il significato dei due termini è pressoché lo stesso). Tale distinzione è forse l’indizio della presenza di due separate comunità linguistiche in un qualche momento della più antica storia di Roma? E per spingere il ragionamento ancora più in là: nella storia di Romolo si riflettono e si fondono le versioni di due diversi gruppi, uno sabino (collegato ai colles) e uno romano (associato ai montes)? È possibile. Non c’è dubbio che il Septimontium sia connesso al passato più remoto di Roma. Ma esattamente a quale passato, e in quale modo, è difficile dirlo. Le ipotesi che si possono fare non sono più solide di quanto io stessa le abbia fatte apparire, e probabilmente ancor meno. Perché, dopotutto, dovremmo credere all’asserzione degli eruditi romani, secondo i quali Septimontium era il più antico nome della città? Forse non era altro che una soluzione dettata dalla disperazione di dover spiegare una cerimonia arcaica che li lasciava frastornati esattamente come lo siamo noi. E l’insistenza sulle due comunità fa nascere il sospetto che sia dettata dal

desiderio di salvare come «storia» almeno una parte della leggenda di Romolo. Ben più concrete e tangibili sono le testimonianze archeologiche. Se si scava nelle profondità della città di Roma, sotto i monumenti ancora visibili, emergono tracce di insediamenti molto più antichi e primitivi. Al di sotto del Foro sono stati trovati i resti di un antico cimitero, la cui scoperta, all’inizio del XX secolo, destò un’eccitazione enorme. Alcuni defunti erano stati cremati, e le loro ceneri deposte in semplici urne vicino a brocche e vasi che originariamente contenevano cibi e bevande (un uomo aveva accanto a sé una piccola quantità di pesce, montone e maiale, e forse anche di zuppa). Altri erano stati inumati, talvolta in semplici bare ricavate da un tronco di quercia. Una bambina di circa due anni era stata sepolta con indosso un vestito ornato di perline e un braccialetto d’avorio. Analoghi ritrovamenti sono stati fatti in altre zone della città antica. In uno strato molto al di sotto delle grandi dimore poi costruite sul Palatino, per esempio, sono state rinvenute le ceneri di un giovane uomo, sepolto con una lancia in miniatura, forse come simbolo di ciò che era stato in vita. L’archeologia ci offre spesso testimonianze più ricche e dettagliate per i morti che per i vivi. Ma i cimiteri implicano l’esistenza di una comunità, e se ne possono presumibilmente ritrovare i resti in alcuni gruppi di capanne del cui perimetro resta ancora qualche leggera traccia negli strati più antichi di diverse zone della città, compreso il colle Palatino. Non possiamo dire nulla di preciso sul loro aspetto (a parte il fatto che erano costruite in legno, argilla e paglia), e ancor meno sul genere di vita che vi si conduceva. Ma possiamo colmare qualche lacuna gettando uno sguardo appena fuori Roma. Uno degli esempi meglio conservati e più accuratamente scavati di questo tipo di strutture è stato trovato a Fidene, pochi chilometri a nord del centro della città, negli anni Ottanta del XX secolo. È una costruzione rettangolare, di circa sei metri per cinque, in legno (di quercia e di olmo) e terra pressata (realizzata con il metodo detto pisé de terre, ancora in uso ai nostri giorni), circondata da un portico approssimativo, formato dal tetto sporgente. Al suo interno si trovavano un focolare centrale, alcune grandi giare di terracotta (più una di minori dimensioni, che sembra essere stata un contenitore per argilla modellabile), nonché resti di cibi (cereali e fagioli) e di animali domestici (pecore, capre, mucche e maiali). La scoperta più sorprendente è stata quella di un gatto, morto (forse era legato a una catena) in un grande incendio che distrusse l’intero edificio: si tratta della più antica testimonianza nota di gatto domestico in Italia.

Dalla bambina sepolta con il suo vestitino migliore al povero «acchiappatopi» che nessuno si preoccupò di liberare dalla catena quando scoppiò l’incendio, possiamo trarre vivaci immagini della vita di quei tempi remoti. Il problema sta nel quadro che queste molteplici immagini ci permettono di comporre. I resti archeologici dimostrano con chiarezza che, dietro la Roma che conosciamo, c’è una lunga e ricca preistoria; ma è molto difficile stabilire precisamente quanto lunga.

12. Tipica urna cineraria, di cui si sono trovati numerosi esempi nelle necropoli arcaiche di Roma e dell’area circostante. Con la forma di una semplice capanna, queste case dei morti sono una delle nostre migliori guide per ricostruire l’aspetto delle abitazioni dei vivi.

Il problema nasce in parte dalle stesse condizioni dello scavo archeologico al centro della città. Il sito di Roma è stato così intensamente costruito e ricostruito nel corso dei secoli che si ritrovano tracce dell’occupazione più antica soltanto nei luoghi che risultano non essere stati toccati. Le fondazioni create nel I e II secolo d.C. per sostenere i giganteschi templi marmorei del Foro hanno cancellato gran parte di ciò che stava sotto la superficie; in altre zone di Roma, le cantine dei palazzi rinascimentali produssero i medesimi effetti, se non addirittura peggiori. Perciò possiamo soltanto cogliere qualche istantanea, ma non il quadro generale. Qui l’archeologia diventa una materia estremamente difficile, e l’interpretazione dei dati, sebbene continuino a emergere costantemente nuove testimonianze, rimane quasi sempre discussa e controversa. Per fare solo un esempio, si dibatte ancora se i piccoli pezzi di cannicciato ricoperto di argilla trovati in scavi effettuati nel Foro verso la metà del XX secolo indichino che anche qui si trovasse un insediamento di capanne, o se invece vi furono inavvertitamente scaricati insieme ad altri calcinacci qualche secolo più tardi per ottenere una nuova superficie livellata dell’intera zona. Si deve osservare che, pur essendo appropriata per un cimitero, quest’area era piuttosto umida e paludosa come sito di un villaggio. La datazione precisa di questi resti archeologici è ancora più controversa; ciò spiega l’uso intenzionalmente vago del termine arcaico nel corso delle ultime pagine. Non si può mai sottolineare abbastanza il fatto che non possediamo alcuna data sicura per tutto il materiale proveniente dagli strati più antichi di Roma e delle zone circostanti, né si può ignorare che la datazione di quasi ogni ritrovamento importante continua a essere aspramente dibattuta. Ci sono voluti decenni di paziente lavoro – attraverso l’analisi di elementi diagnostici come la ceramica lavorata a tornio (ritenuta posteriore a quella lavorata a mano) e l’occasionale presenza nelle tombe di ceramica greca (la cui datazione risulta relativamente più chiara) nonché l’accurato confronto tra i materiali dei diversi siti – per stabilire uno schema cronologico approssimativo relativo al periodo dal 1000 al 600 a.C. Sulla base di questo schema, le più antiche sepolture nel Foro risalirebbero all’incirca al 1000 a.C., e le capanne sul Palatino al 750-700 a.C. (data prossima al 753 a.C., come molti hanno notato). Ma anche queste datazioni sono tutt’altro che certe. Recenti metodi di datazione scientifica (compresa quella al «radiocarbonio», che calcola l’età dei materiali organici misurando la quantità residua dell’isotopo radioattivo del carbonio) sembrano indicare che siano tutte troppo «basse», almeno di un centinaio

d’anni. La capanna di Fidene, per esempio, secondo i criteri archeologici tradizionali, si dovrebbe datare alla metà dell’VIII secolo a.C.; ma la datazione al radiocarbonio ci riporta indietro verso la fine del IX secolo a.C. Attualmente, le datazioni sono oscillanti, persino più del consueto: nel complesso, Roma sembra diventare più vecchia. Quel che è certo è che, nel VI secolo a.C., era ormai una comunità urbana, con un centro e alcuni edifici pubblici. Prima di allora, per le fasi più antiche, possediamo sufficiente materiale appartenente al periodo noto come Bronzo Medio (1700-1300 a.C.) per affermare che un certo numero di individui già abitava il sito, anziché semplicemente «passarvi attraverso». Per il periodo successivo, possiamo supporre con buona dose di sicurezza che si sviluppassero villaggi di maggiori dimensioni, con gruppi familiari dominanti capaci di acquisire una crescente ricchezza (come si può dedurre dai corredi funerari), e che a un certo punto questi villaggi si fondessero in una sola comunità, il cui carattere urbano nel VI secolo a.C. appare ormai definito. Non possiamo sapere con certezza quando gli abitanti di questi insediamenti separati iniziarono a considerarsi appartenenti a un’unica città. E non abbiamo la benché minima idea su quando iniziarono a chiamarla Roma. L’archeologia, però, non si limita a date e origini. Il materiale scavato nella città, nell’area a essa circostante e in altre zone più lontane, può dirci cose molto importanti sul carattere del più antico insediamento. Innanzitutto, ci rivela che Roma aveva intensi contatti con il mondo esterno. Ho già menzionato il braccialetto d’avorio della bambina sepolta nel cimitero e la ceramica greca (corinzia o ateniese) venuta alla luce durante gli scavi. Ci sono anche indicazioni di contatti con il Nord, nella forma di gioielli e altri oggetti decorativi di ambra importata: non sappiamo come questi manufatti abbiano raggiunto l’Italia centrale, ma sono indubbiamente la prova di un contatto, diretto o indiretto, con la regione del Baltico. Fin dai tempi più remoti la Roma arcaica aveva dunque ampi contatti, come suggerisce lo stesso Cicerone quando ne sottolinea l’ottima posizione strategica. In secondo luogo, c’erano parecchie somiglianze, ma anche alcune fondamentali differenze, tra Roma e i suoi vicini. Tra il 1000 e il 600 a.C. la penisola italiana appare estremamente variegata. Vi risiedevano molte popolazioni indipendenti, con origini, lingue e tradizioni culturali diverse. Meglio documentati sono gli insediamenti greci dell’Italia meridionale: città come Cuma, Taranto e Napoli, fondate a partire dall’VIII secolo a.C. da

immigrati delle principali città della Grecia, chiamate comunemente «colonie» (senza avere però caratteri «coloniali» nel senso moderno del termine). Sotto ogni aspetto, gran parte dell’Italia meridionale e la Sicilia erano parte integrante del mondo greco, con tradizioni artistiche e letterarie degne della madrepatria. Non è un caso che alcuni dei più antichi esempi di scrittura greca, se non addirittura i più antichi in assoluto, siano stati scoperti proprio qui. Alquanto più difficile è ricostruire la storia degli altri abitanti della penisola: a nord gli etruschi, a sud, quasi alle porte di Roma, i latini e i sabini, più oltre gli osci, che formavano la popolazione originaria di Pompei, e, al di là di essi, i sanniti. Della letteratura di questi popoli, se ne possedevano una, non si è conservato nulla; e per le nostre informazioni dipendiamo interamente dai ritrovamenti archeologici, dalle iscrizioni su pietra e bronzo (talvolta comprensibili, in altri casi indecifrabili) e da opere romane scritte molto più tardi, spesso ammantate da un orgoglioso senso di supremazia; si spiega così l’immagine tradizionale dei sanniti, presentati come rozzi, barbari, non urbanizzati e pericolosamente primitivi. I ritrovamenti archeologici dimostrano, comunque, che nelle sue fasi più antiche Roma era un insediamento tutt’altro che fuori dall’ordinario. Lo sviluppo da villaggi sparsi a singola comunità urbana, che possiamo vedere a Roma, sembra essersi verificato grosso modo nello stesso periodo in tutta la regione a sud di essa. Anche il materiale archeologico rinvenuto nelle necropoli, con ceramiche locali e spille bronzee, nonché oggetti di importazione, offre un quadro coerente. Semmai, ciò che è stato trovato a Roma appare meno ragguardevole e meno indicativo di ricchezza di quanto è stato scoperto in altre zone. Per fare solo un esempio, qui non è stato rinvenuto nulla di paragonabile agli straordinari ritrovamenti fatti in alcune tombe della vicina Palestrina, anche se ciò potrebbe dipendere dalla sfortuna o, come hanno sospettato alcuni archeologi, dal fatto che parte delle più eccezionali scoperte del XIX secolo sono state rubate e sono finite immediatamente sul mercato clandestino. Una domanda che dovremo continuare a porci nei prossimi due capitoli è dunque la seguente: quando Roma ha cessato di essere una città qualsiasi?

L’anello mancante L’ultima questione che dobbiamo affrontare in questo capitolo, però, è se il materiale archeologico debba essere considerato separatamente dalle tradizioni mitiche su Romolo e Remo esaminate nelle pagine precedenti. È forse possibile collegare il frutto delle nostre ricerche sulla più antica storia di Roma con le storie raccontate dagli stessi romani, o con le loro complesse speculazioni sulle origini della città? Possiamo forse rintracciare una certa dose di storia all’interno del mito? È una tentazione seducente, che ha influenzato buona parte delle ricerche moderne su Roma arcaica, tanto degli storici quanto degli archeologi. Abbiamo già esaminato il tentativo di individuare nella storia del Septimontium un riflesso della duplice natura della città (romana e sabina), particolarmente evidenziata nel mito di Romolo. La recente scoperta di una struttura difensiva in forma di terrapieno ai piedi del Palatino ha scatenato ogni sorta di fantasiose speculazioni sulla possibilità che fosse stato trovato l’autentico muro che Remo aveva scavalcato, andando per questo incontro alla propria morte, il giorno stesso della fondazione di Roma. Questa, naturalmente, non è altro che una fantasia archeologica. Non c’è dubbio che siano stati trovati antichissimi terrapieni, e questa è di per sé una scoperta importante (anche se rimane da stabilire la loro precisa relazione con l’arcaico insediamento di capanne sulla cima del Palatino). Ma non hanno nulla a che fare con Romolo e Remo, figure del mito e non della storia. E i tentativi di «accomodare» la datazione della struttura e dei ritrovamenti associati per farla coincidere con il 21 aprile 753 a.C. (sto esagerando soltanto un po’) appaiono particolarmente ingenui se non addirittura frivoli. In tutta la città di Roma c’è un solo luogo in cui è possibile stabilire un collegamento diretto tra i resti materiali arcaici e la tradizione letteraria. E questo collegamento non compone un armonico accordo tra i primi e la seconda, ma apre un problematico baratro. Il luogo si trova a un’estremità del Foro, vicino alle pendici del Campidoglio, a pochi minuti di distanza dal tempio di Giove Statore (dove Cicerone aveva denunciato la congiura di Catilina), e accanto alla piattaforma (rostra) dalla quale gli oratori si rivolgevano al popolo. Qui, prima della fine del I secolo a.C., venne inserita nella pavimentazione del Foro una serie di lastre di una particolare pietra

nera (lapis niger) a formare un rettangolo di circa 4 per 3,5 metri, segnato lungo il perimetro da un basso bordo di pietra. Tra il XIX e il XX secolo l’archeologo Giacomo Boni (a quel tempo una celebrità capace di rivaleggiare con Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia, e senza la macchia della dubbia fama di frode che circondava quest’ultimo) effettuò degli scavi sotto lo strato di pietra nera e trovò i resti di alcune strutture molto più antiche: un altare, parte di una grande colonna a sé stante e un piccolo cippo di pietra con un’iscrizione in latino arcaico praticamente indecifrabile, con ogni probabilità uno dei più antichi documenti che possediamo di questa lingua. Il sito era stato intenzionalmente ricoperto di terra, e nel riempimento si sono trovati oggetti di ogni genere, di carattere straordinario e anche di uso quotidiano, da coppe in miniatura, perline e astragali, fino a raffinate ceramiche decorate ateniesi del VI secolo a.C. La spiegazione più ovvia per questi ritrovamenti, che sembrano includere dediche di tipo religioso, è che si tratti di un arcaico santuario, forse del dio Vulcano. Venne poi ricoperto quando, nel I secolo a.C., il Foro fu ripavimentato; ma per preservare la memoria del sacro sito sottostante venne posta sopra di esso la pietra nera.

13. Ricostruzione del santuario arcaico trovato da Giacomo Boni sotto il lapis niger nel Foro. Sulla sinistra si vede un altare (a forma di U quadrata, attestata in questo periodo anche in altre zone d’Italia); sulla destra quel che rimane di una colonna e, appena riconoscibile dietro di essa, il cippo iscritto.

Gli autori romani delle epoche successive conoscevano perfettamente la pietra nera e avevano diverse idee sul suo significato. «La pietra nera» scrisse uno di loro «segna un punto sfortunato.» E sapevano che sotto di essa c’era qualcosa, antico di secoli: non un santuario religioso, come oggi sostengono con relativa sicurezza gli archeologi, bensì un monumento associato a Romolo o alla sua famiglia. Molti erano convinti che fosse la tomba del padre fondatore; altri, forse disturbati dal fatto che, se Romolo era diventato un dio, non poteva certo avere una tomba, pensavano si trattasse di quella di Faustolo, il padre adottivo dei due gemelli; altri ancora ne facevano la tomba di uno dei compagni di Romolo, Ostilio, nonno di uno dei successivi re di Roma. Sapevano anche, o per averla vista prima che venisse interrata o semplicemente per tradizione orale, che là sotto c’era un’iscrizione. Dionigi ne riporta due versioni: l’epitaffio di Ostilio, «che attestava il suo coraggio», oppure un’iscrizione eretta dopo una delle vittorie di Romolo «che ricordava le sue imprese». Ma non era certamente né l’una né l’altra cosa. Né tantomeno era, come asserisce Dionigi, «scritta in lettere greche»; doveva trattarsi invece, bona fide, di una forma arcaica di latino. Ma ci offre uno splendido esempio di quanto gli storici romani sapessero o non sapessero del loro passato sepolto, e altresì di quanto amassero immaginare le tracce di Romolo ancora presenti sulla superficie della propria città, o appena al di sotto di essa. Ciò che ci dice questo testo (per quanto riusciamo a comprenderlo) ci conduce alla fase successiva della storia romana e alla serie di quasi altrettanto mitici re che sarebbero succeduti a Romolo.

III

I RE DI ROMA

Inciso nella pietra L’iscrizione scoperta nel 1899 sotto la pietra nera nel Foro contiene la parola re, in latino rex: RECEI , come appare nell’arcaica forma linguistica qui attestata. Questa sola parola spiega la celebrità dell’iscrizione e ha radicalmente trasformato il modo in cui da allora in poi si è concepita la storia della Roma arcaica. Il testo dell’iscrizione è per molti aspetti alquanto frustrante. È incompleto, dato che almeno un terzo della parte superiore del cippo non si è conservato. Ed è di fatto incomprensibile. Il latino impiegato qui è già particolarmente difficile, ma la sezione mancante rende quasi impossibile comprenderne appieno il significato. Anche se possiamo affermare con certezza che non contrassegna la tomba di Romolo (o di chiunque altro), la maggior parte delle interpretazioni è poco più che un coraggioso tentativo di ricavare un qualche senso dalle poche singole parole riconoscibili sulla pietra. Secondo una ragguardevole teoria moderna, si tratterebbe di una sorta di avviso che vietava di lasciare che gli animali aggiogati depositassero letame vicino al santuario, cosa che avrebbe costituito un cattivo presagio. È estremamente difficile anche assegnargli una data precisa. Il solo modo di datarlo consiste nel confrontare il testo e la scrittura con i pochi altri esempi di latino arcaico a noi noti, per la gran parte di altrettanto incerta datazione. Le varie proposte si dispongono su un arco di oltre trecento anni, da circa il 700 fino al 400 a.C. Stando al pur fragile consenso attuale, l’iscrizione risalirebbe alla seconda metà del VI secolo a.C. Malgrado queste lacune, gli archeologi hanno riconosciuto immediatamente che la parola RECEI (declinata nel caso dativo, significando «al/per il re») conferma ciò che sostengono gli scrittori romani: ossia, che per due secoli e mezzo, e precisamente fino alla fine del VI secolo a.C., Roma fu comandata da «re». Livio, e moltissimi altri autori insieme a lui, elenca una serie canonica di sei re successivi a Romolo, a ognuno dei quali viene attribuito un certo numero di specifiche imprese e realizzazioni. Le pittoresche storie di questi re (con il loro sfondo di eroici guerrieri romani, rivali assassini e regine cospiratrici) occupano la seconda parte del Primo libro delle Storie di Livio. Dopo Romolo salì al trono Numa Pompilio, una figura pacifica alla quale era attribuita la creazione di quasi tutte le istituzioni religiose di Roma; a Numa seguì Tullo Ostilio, celebre per la sua bellicosità, e poi Anco Marzio, il fondatore del porto marittimo di Roma, Ostia («foce del fiume»). Il trono passò quindi a Tarquinio Prisco (o

«Tarquinio il Vecchio»), che edificò il Foro e il Circo Massimo, poi a Servio Tullio, riformatore politico e creatore del censo romano, e infine a Tarquinio il Superbo (o piuttosto «l’Arrogante»). Fu il comportamento tirannico di quest’ultimo, e della sua famiglia, a scatenare una rivoluzione che portò al rovesciamento della monarchia e all’affermazione della «libertà» e della «libera Repubblica di Roma». Tarquinio era un autocrate paranoico che eliminava spietatamente tutti i suoi rivali, e un crudele sfruttatore del popolo romano, che costringeva a spezzarsi la schiena lavorando per i suoi fanatici progetti edilizi. Ma, come sarebbe avvenuto più e più volte nella storia di Roma, uno stupro fu la goccia che fece traboccare il vaso: nel caso specifico, quello della virtuosa Lucrezia, di cui si rese colpevole uno dei figli del re.

14. L’iscrizione arcaica sul cippo trovato sotto il lapis niger poteva essere facilmente scambiata per greca, e in effetti alcuni antichi osservatori caddero in questo errore. Si tratta invece di latino arcaico, scritto con lettere molto simili a quelle greche, e ad andamento bustrofedico (le linee si leggono alternativamente da sinistra a destra e da destra a sinistra).

Prudenti studiosi del XIX secolo hanno espresso fortissimi dubbi sul valore storico di queste storie, sostenendo che non vi sono per questi re

testimonianze più solide e concrete di quelle che possediamo per il leggendario Romolo: l’intera tradizione si fondava su confusi ricordi orali e miti in gran parte fraintesi, per non parlare delle successive fantasie propagandistiche sponsorizzate da molte delle più importanti famiglie di Roma, che manipolavano o inventavano regolarmente la «storia» più antica della città per attribuire ai propri antenati un ruolo glorioso nel suo svolgimento. Mancava ormai soltanto un breve passo (concretamente compiuto da molti illustri storici ottocenteschi) per arrivare alla conclusione che a Roma non c’era mai stata una «fase monarchica», che i suoi celebri sette re erano soltanto creazioni dell’immaginazione dei suoi abitanti, e che l’autentica storia della Roma arcaica era completamente perduta. Questo scetticismo fu spazzato via dal RECEI dell’iscrizione sul cippo scoperto da Boni. Nessuna argomentazione (come, per esempio, il fatto che qui rex si riferisce non a un re nel senso consueto, bensì a una successiva carica religiosa indicata con il medesimo termine) poteva più negare ciò che ormai appariva inconfutabile, ossia che Roma un tempo era stata caratterizzata da un qualche genere di monarchia. La scoperta trasformò la natura del dibattito sulla storia di Roma arcaica e, naturalmente, sollevò nuove domande e nuovi problemi. Ancora oggi, questa iscrizione pone al centro la questione dei re romani e ci spinge a domandarci cosa possa significare il concetto di monarchia nel contesto di una piccola comunità arcaica formata da poche migliaia di abitanti che vivevano in capanne di paglia e canne costruite sulla cima di alcuni colli nei pressi del fiume Tevere. La parola re implica quasi certamente qualcosa di più formale e solenne di quanto potremmo immaginarci. Ma i romani di epoca successiva vedevano, o immaginavano, i loro primi governanti in molti modi diversi. Da un lato, dopo la drammatica caduta di Tarquinio il Superbo, i re rimasero, per tutto il corso della storia di Roma, oggetto di odio e disprezzo. L’accusa di aspirare a farsi rex equivaleva, per qualsiasi romano, a una condanna a morte; e nessun imperatore avrebbe mai tollerato di essere chiamato re, anche se qualche cinico osservatore poteva chiedersi quale fosse la differenza. Dall’altro lato, gli scrittori romani facevano risalire gran parte delle loro più importanti istituzioni politiche e religiose proprio al periodo monarchico: se, nel racconto leggendario, la città era stata concepita sotto Romolo, la sua gestazione avvenne sotto la guida dei re, da Numa fino al secondo Tarquinio. Per quanto detestati, ai sovrani veniva riconosciuto l’onore di avere creato Roma.

15. In questo quadro del 1784, intitolato Il giuramento degli Orazi, Jacques-Louis David raffigura una leggenda sul regno di Tullo Ostilio, quando Roma era in guerra con la vicina Alba Longa. Due coppie di tre gemelli, in entrambi gli schieramenti, decidono di affrontarsi in nome delle loro comunità. David immagina il momento in cui gli Orazi romani ricevono le spade dal proprio padre. Solo uno di essi tornerà vittorioso, e subito ucciderà sua sorella (qui ritratta piangente), per essere stata fidanzata con un nemico. Era una storia, tanto per gli antichi romani quanto per i francesi del XVIII secolo, che celebrava il patriottismo ma ne metteva anche in discussione il costo.

Il periodo monarchico è intrappolato in quell’indefinibile territorio in cui si incrociano e si dissolvono i confini tra mito e storia. Indubbiamente, i re successivi a Romolo hanno una consistenza ben più reale di quella del loro capostipite. Se non altro, hanno nomi all’apparenza autentici, come «Numa Pompilio», in netto contrasto con il fittizio «Romolo» o «Signor Roma»,

come lo si potrebbe tradurre. Ciononostante, le storie di cui sono protagonisti sono piene di elementi palesemente mitici. Si diceva, per esempio, che Servio Tullio, proprio come Romolo, era stato concepito da un fallo emerso da un fuoco. È sempre davvero difficile individuare quali fatti concreti si possano celare nelle narrazioni letterarie giunte fino a noi. Eliminare solo gli elementi più palesemente di fantasia per considerare quanto rimane come il nucleo storico significa riprodurre proprio quell’approccio ingenuo contro il quale si erano schierati a ragione gli studiosi scettici del XIX secolo. Il mito e la storia sono connessi in modo molto più profondo e inestricabile. Tra i due punti estremi si apre un vasto arco di possibilità e rimane un ampio spazio ignoto. L’uomo chiamato dalle nostre fonti Anco Marzio è forse effettivamente esistito, ma non ha mai compiuto alcuna delle cose che gli sono attribuite? E queste ultime sono forse opera di una o più persone di cui non conosciamo il nome? E si potrebbe facilmente continuare. È chiaro, tuttavia, che verso la fine del periodo monarchico (diciamo attorno al VI secolo a.C., anche se una datazione precisa rimane difficile come sempre) iniziamo a muoverci su un terreno più solido. Come indicano le spettacolari scoperte di Boni, diventa per la prima volta possibile stabilire un legame tra le storie che i romani raccontavano sul proprio passato e i ritrovamenti archeologici, e comporre una narrazione storica nel senso moderno del termine. Inoltre, ed è un fatto di notevole importanza, possiamo persino osservare qualche frammento di questa storia dal punto di vista dei vicini e dei nemici di Roma. Le imprese di Servio Tullio sono quasi certamente raffigurate in una serie di pitture scoperte in una tomba della città etrusca di Vulci, circa centodieci chilometri a nord di Roma. Datate attorno alla metà del IV secolo a.C., queste pitture rappresentano la più antica testimonianza diretta che possediamo su Servio, precedente di parecchi secoli a ogni altra a noi nota. Per comprendere questa fase della storia di Roma è necessario sfruttare al massimo le poche preziose testimonianze in nostro possesso. Ed è ciò che faremo nelle prossime pagine.

Re o capi? Gli scettici del XIX secolo avevano ottime ragioni per mettere in dubbio i racconti relativi al periodo monarchico. A proposito dei re, gli elementi contraddittori sono davvero troppi, e, com’è ovvio, questo vale soprattutto per la loro cronologia. Anche se gli concediamo una vita inconsuetamente sana e lunga, rimane impossibile che soltanto sette re (incluso Romolo) occupino gli oltre duecentocinquant’anni (dalla metà dell’VIII secolo alla fine del VI secolo a.C.) che gli assegnano gli scrittori romani. Altrimenti, bisognerebbe attribuire a ognuno di essi un regno di oltre trent’anni in media. Nessuna monarchia moderna ha mai vantato un simile grado di longevità dei suoi rappresentanti. La soluzione più semplice è ipotizzare che il periodo monarchico sia durato in realtà molto meno di quanto asserito dai romani, oppure che vi siano stati più re di quelli ricordati dalle fonti (in effetti ci sono, come vedremo, un paio di potenziali candidati per questi «re dimenticati»). Ma è altresì possibile che la tradizione scritta sul periodo in esame sia molto più distorta e fuorviante di quanto facciano supporre queste semplici soluzioni, e che, quale che sia l’esatta cronologia, la natura stessa della monarchia romana sia radicalmente diversa rispetto a quella che possiamo ricavare dalle opere di Livio e di altri autori. Il problema principale sta nel fatto che gli storici romani tendevano sistematicamente a modernizzare il periodo monarchico e a esagerarne le imprese, come se lo osservassero attraverso una sorta di patriottica lente d’ingrandimento. Stando ai loro racconti, i primi romani possedevano già istituzioni come il Senato e le assemblee popolari, caratteristiche della struttura politico-istituzionale che la città aveva circa mezzo millennio più tardi; e per la successione al trono (che non era ereditaria) avrebbero seguito complesse procedure legali che comportavano la nomina di un interrex (un «re provvisorio»), il voto del popolo per la scelta del nuovo re e infine la ratifica senatoriale. Allo stesso modo, le lotte di potere e le rivalità che immaginavano caratterizzare questi momenti di transizione potrebbero perfettamente descrivere l’atmosfera che si respirava alla corte dell’imperatore di Roma nel I secolo d.C. Così, il resoconto che ci offre Livio dei maneggi e degli intrallazzi successivi all’assassinio di Tarquinio Prisco (la sua astuta moglie Tanaquil ne aveva tenuto nascosta la morte fino a

quando era riuscita ad assicurare il trono al suo favorito, Servio Tullio) ricorda fin troppo chiaramente ciò che fece Livia dopo la morte dell’imperatore Augusto nel 14 d.C.. Anzi, le somiglianze tra i due episodi sono così stringenti che alcuni studiosi hanno supposto che Livio, il quale aveva iniziato a scrivere la propria opera negli anni Venti del I secolo a.C., non possa avere terminato questa parte prima del 14 d.C. e che debba essersi ispirato agli eventi di quell’anno per il suo racconto. Anche le relazioni con i popoli vicini sono presentate sotto questa luce grandiosa, con tanto di trattati, ambasciatori e formali dichiarazioni di guerra. Parimenti, i conflitti sono descritti come scontri tra possenti legioni romane e altrettanto possenti eserciti nemici; leggiamo di cariche della cavalleria contro i rispettivi fianchi, di falangi di fanteria costrette a indietreggiare, della confusione e del panico scoppiato tra le forze nemiche... e di molti altri cliché (o verità) dell’antica tecnica bellica. Anzi, questo stile narrativo si insinua persino tra le pagine di molti manuali moderni, nei quali si parla tranquillamente di cose come la «politica estera» di Roma nel VII e VI secolo a.C. A questo punto è necessario un richiamo alla realtà. In qualsiasi modo decidiamo di descriverla, la comunità urbana dei primi romani rimane, quanto a dimensioni, in un ambito che va dal minuscolo al piccolo. Come noto, stabilire la consistenza demografica di siti preistorici è alquanto difficile; l’ipotesi più probabile è che la popolazione «originaria» di Roma (quale che sia il momento preciso in cui il gruppo di piccoli insediamenti iniziò a pensarsi come «Roma») ammontasse a poche migliaia di individui. Secondo calcoli moderni, quando venne cacciato l’ultimo re, verso la fine del VI secolo a.C., la regione ospitava tra i ventimila e i trentamila abitanti. Si tratta soltanto di un’ipotesi, basata sulle dimensioni dell’area, la quantità di territorio allora probabilmente controllata da Roma e il numero di individui che possiamo ragionevolmente supporre fosse in grado di sostenere. È comunque assai più verosimile delle cifre esagerate riportate dagli autori antichi. Livio, per esempio, cita il più antico storico romano, Quinto Fabio Pittore (vissuto attorno al 200 a.C.), secondo il quale alla fine del periodo monarchico vi erano ottantamila cittadini adulti di sesso maschile, il che indica una popolazione complessiva di oltre duecentomila persone. Si tratta di una cifra assolutamente impossibile per una nuova comunità dell’Italia arcaica (si osservi che è di poco inferiore a quella della popolazione complessiva dei territori di Atene e Sparta all’apice della loro potenza, verso la metà del V secolo a.C.), e non si possiede alcuna

testimonianza archeologica di una città di simili dimensioni in questo periodo; l’unico merito di tale cifra è di corrispondere alla grandiosa visione che tutti gli antichi scrittori avevano della Roma arcaica. Non c’è bisogno di dire che è impossibile farsi un’idea precisa delle istituzioni di questo piccolo insediamento protourbano. Tuttavia, a meno che non fosse radicalmente diversa da ogni altra arcaica città del Mediterraneo antico (o di qualsiasi altro luogo), Roma dev’essere stata caratterizzata da una struttura molto meno complessa e articolata di quella suggerita dalla tradizione. Nel contesto storico della fase più antica della città, procedure elaborate come la temporanea reggenza di un interrex, le votazioni popolari e la ratifica senatoriale appaiono davvero inverosimili; tutt’al più, vi si può riconoscere una drastica riscrittura della storia arcaica in un linguaggio alquanto posteriore. L’attività militare ci offre un altro esempio illuminante. Qui è sufficiente un’occhiata alla geografia per farci fermare a riflettere. Osserviamo semplicemente la collocazione di queste eroiche battaglie: sono tutte combattute entro un raggio di circa una ventina di chilometri dalla città di Roma. Nonostante il modo in cui sono raccontate, come se fossero versioni in miniatura delle guerre contro Annibale, furono probabilmente più simili, in termini moderni, a razzie di bestiame. Potrebbero persino non essere state imprese «romane» nel senso più ristretto del termine. Nella maggior parte delle comunità arcaiche, ci volle molto tempo prima che le varie forme di violenza privata, da una giustizia sommaria fino alla vendetta e alle faide armate, fossero pienamente sottoposte al controllo statale. Conflitti dei generi più diversi erano di solito guidati da singoli individui con il proprio seguito, per così dire antichi equivalenti dei nostri «signori della guerra»; e non vi era una distinzione precisa tra ciò che veniva compiuto in nome dello «stato» e ciò che si realizzava in nome di un qualche potente capo. Questa doveva essere certamente la situazione nella Roma arcaica.

16. Questa iscrizione della fine del VI o dell’inizio del V secolo a.C., trovata nel 1977

quaranta chilometri a sud di Roma, è una delle migliori testimonianze sull’uso di milizie private nella città arcaica. È una dedica al dio Marte (l’ultima parola della seconda linea, che, nel latino di allora, è scritta MAMARTEI ) da parte dei SUODALES di Publio Valerio (POPLIOSO VALESIOSO, nella seconda parte della prima linea), forse da identificare con uno dei consoli semileggendari del primo anno della repubblica, Publio Valerio Publicola. I suoi SUODALES (sodales, in latino classico) potrebbero essere, eufemisticamente, i suoi «compagni», o, più realisticamente, i membri della sua «banda».

Che cosa rimane dunque dei re e della parola rex nell’iscrizione trovata nel Foro? Rex può senz’altro significare «re» nel senso moderno del termine, un senso grosso modo simile a quello che aveva per i romani del I secolo a.C. I quali, proprio come noi, avrebbero avuto in mente non soltanto l’immagine di un potere autocratico e dei suoi simboli, ma anche una concezione teorica della monarchia come forma di governo, da contrapporre, per esempio, a quella della democrazia o dell’oligarchia. È alquanto improbabile che qualcosa di analogo fosse invece nella mente di coloro che, parecchi secoli prima, fecero incidere quell’iscrizione. Per questi ultimi, la parola rex avrebbe ugualmente significato un potere e un predominio individuale, ma in un modo meno strutturato, meno «costituzionale», per così dire. Quando ci riferiamo alla realtà concreta, piuttosto che ai miti, di questa fase arcaica della storia di Roma, appare più opportuno considerarla in termini di capi e leader carismatici anziché di re, ipotizzando una forma di organizzazione di tipo chiefdom a piuttosto che una struttura di tipo monarchico.

Storie di fondazione: religione, tempo e politica Per gli scrittori latini, i re che succedettero a Romolo furono parte integrante del lungo processo di fondazione della città. Come Romolo, anche questi sovrani erano considerati figure storiche (sebbene certi autori mettessero in dubbio alcune delle incredibili storie che su di essi venivano raccontate). Ma, ancora una volta, appare chiaro che buona parte delle tradizioni giunte fino a noi, ben lungi dal corrispondere alla realtà, sono un’affascinante proiezione nel più remoto passato delle priorità e delle preoccupazioni dei romani di un’epoca posteriore. Non è difficile individuare molti dei temi e degli interessi che abbiamo già incontrato nella storia di Romolo. Di questi re, per esempio, si diceva che avessero origini assai diverse: Numa, come Tito Tazio, era sabino; Tarquinio Prisco proveniva dall’Etruria ed era figlio di un esiliato della città greca di Corinto; Servio Tullio era, secondo coloro che rifiutavano la storia del fallo miracoloso, figlio di uno schiavo o almeno di un prigioniero di guerra (le dispute sulla sua parentela erano talmente accese che, di tutti i generali ricordati sugli elenchi del Foro per avere celebrato un trionfo, il suo è l’unico nome che non sia accompagnato da quello del padre). Anche se talvolta vediamo dei romani (di solito i personaggi «cattivi» delle storie tradizionali) lamentarsi del fatto che stranieri e gente di umile origine stessero impadronendosi dei loro diritti di nascita, il messaggio generale è assolutamente chiaro: persino al vertice massimo dell’ordinamento politico, i «romani» potevano essere originari di altri luoghi; e anche chi aveva umili origini, persino un ex schiavo, poteva salire al gradino più alto. Anche durante la monarchia Roma continuò a essere lacerata da violente guerre civili e da aspri conflitti familiari. La successione al trono era particolarmente pericolosa e cruenta. Su sette re, tre sarebbero stati assassinati, uno fu colpito da un fulmine divino come punizione per una colpa religiosa, mentre Tarquinio il Superbo venne rovesciato e cacciato dalla città; soltanto due morirono nei propri letti. Furono i figli di Anco Marzio, infuriati per essere stati scavalcati nella successione al trono, ad assoldare gli assassini di Tarquinio Prisco. Servio Tullio fu ucciso per analoghe ragioni da Tarquinio il Superbo, in combutta con la stessa figlia del re. In un finale davvero raccapricciante, la figlia aveva deliberatamente calpestato con il proprio carro il cadavere del padre «portando le tracce del

parricidio sul carro insanguinato, imbrattata essa pure e spruzzata di sangue, fino ai Penati suoi e del suo sposo». Questo tema riprende e ribadisce l’idea che i conflitti civili siano un fattore inestinguibile della politica romana, ma mette in luce un’altra linea di frattura della cultura politica romana: il modo in cui il potere era trasmesso da una persona a un’altra, o da una generazione all’altra. È opportuno notare a questo proposito che, mezzo millennio dopo, la prima dinastia dei nuovi autocrati di Roma, gli imperatori da Augusto a Nerone, ebbe un’analoga, se non peggiore, storia di morti violente, per assassinio o presunto assassinio, all’interno della propria famiglia. Il periodo monarchico, comunque, non si limitò a rimettere in scena le questioni sollevate da Romolo. Per seguire la logica del racconto, alla fine del suo regno la fondazione della città era ancora tutt’altro che conclusa. Ciascuno dei suoi successori diede il proprio specifico contributo, assicurando in questo modo che, quando infine la monarchia venne rovesciata, Roma era ormai dotata di quasi tutte le sue istituzioni più caratteristiche e distintive. Di queste, le più importanti erano attribuite a Numa Pompilio e Servio Tullio. Servio Tullio aveva ideato il sistema di conteggio e suddivisione per rango del popolo romano chiamato census. Tale sistema rimase per secoli alla base dell’ordinamento politico romano, garantendone un fondamentale principio gerarchico: vale a dire, che i ricchi avevano per diritto più potere dei poveri. Ma, prima di lui, Numa aveva definito e stabilito, praticamente da solo, la struttura della religione ufficiale romana, con la creazione di istituzioni destinate a lasciare la propria impronta, e il proprio nome, in tempi e spazi che vanno ben oltre i limiti di questo libro. Così, per fare un solo esempio, ancora oggi il titolo ufficiale del papa cattolico (pontifex, «pontefice») deriva da quello di uno dei sacerdozi la cui istituzione era attribuita a Numa. Riflettendo sull’ascesa della propria città al dominio su tutto il Mediterraneo e su molte altre regioni ancora più lontane, alcuni storici romani attribuirono questo straordinario successo non solo al suo talento militare. A loro giudizio, i romani avevano trionfato perché avevano avuto gli dèi al proprio fianco: la loro devota fedeltà religiosa fu la garanzia del loro successo. Rovesciando i termini dell’assioma, ogni fallimento da essi subìto poteva essere attribuito a qualche colpa nei loro rapporti con gli dèi: probabilmente avevano trascurato dei cattivi presagi, condotto in modo sbagliato un importante rituale o violato qualche regola religiosa. Il loro sentimento di pietà divenne un vanto nelle loro relazioni con il mondo

esterno. All’inizio del II secolo a.C., per esempio, quando un ufficiale romano scrisse alla città greca di Teo, sulla costa occidentale dell’odierna Turchia, per garantire ai suoi abitanti l’indipendenza politica (perlomeno nel breve periodo), fu proprio questo il messaggio che ribadì. Possiamo ancora leggere le sue alquanto enfatiche parole, incise su un blocco di marmo esposto nella città greca: Il fatto che noi romani abbiamo ritenuto, in modo assoluto e consistente, che la devozione verso gli dèi sia di primaria importanza è dimostrato dal favore che essi ci hanno proprio per questo concesso. Inoltre, siamo certi anche per molte altre ragioni che il nostro grande rispetto nei confronti delle cose divine sia apparso evidente a tutti.

Insomma, la religione avallava la potenza romana. Di ciò si trovano già alcuni indizi nella storia di Romolo. Ancor prima dell’erezione del tempio di Giove Statore, egli aveva consultato gli dèi per decidere il punto esatto su cui fondare la nuova città; fu in parte un disaccordo su come interpretare i segni divini osservati nel volo degli uccelli a scatenare il fatale litigio tra Romolo e Remo. Ma è al suo successore, il pacifico Numa Pompilio, che spettava l’onore di essere l’autentico «fondatore della religione romana». Questo non fa però di Numa una figura sacra del tipo di quelle di Mosè, Buddha, Gesù o Maometto. La religione tradizionale romana era molto diversa da ciò che oggi intendiamo generalmente con il termine religione. Gran parte del lessico religioso moderno (comprese le stesse parole religione e pontefice) deriva dal latino, e proprio questa circostanza ci impedisce di riconoscere alcune delle profonde differenze che distinguono la religione romana dalla nostra. Essa non era definita da una particolare dottrina, rivelata in un libro sacro, e nemmeno ordinata in quello che definiremmo un sistema di credenze. I romani sapevano che gli dèi esistevano; non credevano in essi nel senso interiorizzato caratteristico di quasi tutte le moderne religioni universali. Allo stesso modo, la religione romana non mostrava un interesse particolare per l’etica e la salvezza individuale. Suo principale campo d’azione era invece l’esecuzione di rituali che avevano lo scopo di mantenere in perfetto e stabile equilibrio i rapporti tra Roma e gli dèi, al fine di assicurarne il successo e la prosperità. Il sacrificio di animali era un elemento fondamentale di quasi tutti questi riti, che per il resto erano estremamente diversificati. Alcuni erano così strani e

bizzarri che smentiscono meglio di qualsiasi altra testimonianza lo stereotipo moderno sul carattere rigidamente formale e composto dei romani: per esempio, in occasione della festa dei Lupercali, celebrata a febbraio, giovani completamente nudi correvano per la città colpendo con un frustino qualsiasi donna in cui si imbattessero (è la festa ricreata nella scena d’apertura del Giulio Cesare di Shakespeare). Nel complesso, era una religione basata più sulla prassi che sulla fede, ossia fondata più su un sistema di pratiche rituali che su un sistema di credenze. Conformemente a ciò, l’opera di fondazione religiosa di Numa si esplicò in due ambiti diversi, ma reciprocamente connessi. In primo luogo, creò una serie di collegi sacerdotali per eseguire o supervisionare i riti principali, compreso, in un settore per il resto quasi esclusivamente maschile, quello delle vergini vestali, le quali avevano il compito di tenere accesa la fiamma del sacro focolare cittadino che si trovava nel Foro. In secondo luogo, stabilì un calendario di dodici mesi, che forniva l’intelaiatura per il ciclo annuale di festività, giorni sacri e vacanze. Un aspetto di fondamentale importanza per qualsiasi comunità organizzata è la capacità di dare una struttura al tempo, e a Roma questo onore è assegnato a Numa. Per di più, malgrado tutte le successive innovazioni e perfezionamenti, il moderno calendario occidentale rimane un discendente diretto di questa antichissima versione romana, come dimostrano gli stessi nomi dei nostri mesi. Di tutte le cose che ci immaginiamo di avere ereditato dall’antica Roma, dalle reti fognarie alla toponomastica e alle cariche della Chiesa cattolica, il calendario è probabilmente la più importante e spesso dimenticata. Ma costituisce un sorprendente anello di congiunzione tra il più antico periodo monarchico di Roma e il nostro mondo. È impossibile sapere se un uomo chiamato Numa Pompilio sia effettivamente esistito, e ancor meno se abbia compiuto tutte le cose che gli sono attribuite. Gli studiosi romani dedicarono una notevole attenzione al suo regno, accettando alcuni aspetti della tradizione e negandone categoricamente altri. Per esempio, non avrebbe potuto essere il discepolo del filosofo greco Pitagora, come sosteneva una ben consolidata tradizione popolare; infatti, ribadivano, secondo ogni plausibile cronologia, Pitagora era vissuto più di un secolo dopo Numa (o, secondo la datazione moderna, nel VI anziché nel VII secolo a.C.). In ogni caso, indipendentemente dal carattere leggendario o almeno fantomatico di Numa, una cosa sembra certa: una qualche forma di calendario a lui attribuita è il prodotto di un periodo molto antico nella storia di Roma.

17. Testa della statua di una vergine vestale, riconoscibile dal suo caratteristico copricapo, risalente al II secolo d.C. Le vestali erano uno dei pochissimi collegi sacerdotali femminili della religione pubblica romana. Erano anche uno dei pochi collegi religiosi «a tempo pieno», che viveva in una casa accanto al tempio della dea Vesta, con il suo focolare sacro, all’interno del Foro. Le vestali erano votate alla castità, pena la morte.

La più antica versione scritta a noi nota di calendario romano (sebbene anch’essa non anteriore al I secolo a.C.) ce ne offre una conferma. È un

documento straordinario, dipinto sulla parete di un edificio nella città di Anzio, circa cinquantasei chilometri a sud di Roma, e ci fornisce un’immagine concreta, anche se in parte sorprendente, di come i romani del tempo di Cicerone concepivano e strutturavano il proprio anno. Nulla di altrettanto complesso avrebbe potuto essere presente nella Roma arcaica. Si possono individuare tracce di profondi e molteplici sviluppi nel corso dei secoli, compresi alcuni mutamenti radicali nell’ordine di successione dei mesi e nel punto prescelto come inizio dell’anno: infatti, in quale altro modo i mesi di novembre e dicembre (il cui nome significa rispettivamente «nono mese» e «decimo mese») avrebbero potuto essere collocati in questo calendario, e nel nostro, come undicesimo e dodicesimo mese? Ma ci sono anche tracce di un’origine antica in questa versione del I secolo a.C. Si fonda sostanzialmente su un sistema di dodici mesi lunari, con l’inserzione di un mese aggiuntivo (lontano predecessore del nostro giorno in più in un anno bisestile) a determinati intervalli per accordare questo calendario con il ciclo dell’anno solare. La principale difficoltà con cui si scontrano i calendari primitivi di tutte le civiltà consiste nel fatto che i due sistemi più ovvi e naturali per il computo del tempo sono reciprocamente incompatibili: dodici mesi lunari, da luna nuova a luna nuova, equivalgono a poco più di 354 giorni, cifra che non può essere accordata con i 365 giorni e un quarto dell’anno solare, corrispondente al periodo che la terra impiega per completare un’orbita attorno al sole, da un equinozio di primavera a quello successivo. L’inserzione di un mese aggiuntivo dopo un certo numero di anni rappresenta un metodo pratico e immediato per risolvere questo problema, utilizzato da molte civiltà arcaiche. Non meno eloquente è il ciclo di feste religiose riportato nel calendario. Il suo nucleo essenziale potrebbe effettivamente risalire al periodo monarchico. Senza dubbio, la maggior parte di queste feste, nella misura in cui siamo in grado di ricostruirne la forma, riguarda il sostegno degli dèi nelle attività stagionali dell’allevamento e dell’agricoltura: semina, raccolto, immagazzinamento ecc.; in altre parole, proprio le preoccupazioni che ci aspetteremmo avere la massima importanza in una piccola comunità arcaica del Mediterraneo. Quale che sia il significato che queste feste potessero avere assunto nella metropoli del I secolo a.C. (la maggioranza dei cui abitanti aveva ben poco a che fare con greggi, mandrie o raccolti), esse ci forniscono probabilmente un’istantanea delle priorità dei romani più antichi. Un diverso genere di priorità si riflette invece nelle istituzioni politiche

di cui si attribuiva la creazione a Servio Tullio, alle quali ora si conferisce talvolta, ma impropriamente, il sontuoso nome di «Costituzione Serviana», in parte perché ebbero un ruolo fondamentale nei successivi sviluppi della politica romana. Servio sarebbe stato il primo a organizzare un censo dei cittadini romani, registrandoli ufficialmente nell’organismo civico e classificandoli in diverse categorie sulla base della loro ricchezza. Fatto ancora più importante, collegò questa classificazione a due ulteriori istituzioni: l’esercito romano e l’organizzazione del popolo per lo svolgimento di votazioni ed elezioni. I dettagli precisi sono di una complessità praticamente inestricabile, e sono stati dibattuti fin dall’antichità. Intere carriere accademiche si sono costruite, o distrutte, nell’inutile ricerca delle specifiche disposizioni introdotte da Servio Tullio e del loro successivo sviluppo. Ma le linee principali sono sufficientemente chiare. L’esercito doveva essere formato da 193 «centurie», suddivise in base al tipo di equipaggiamento dei soldati. Tale equipaggiamento era strettamente correlato alla classificazione secondo il censo, sulla base del seguente principio: «Quanto più si è ricchi, tanto più sostanzioso e costoso è l’equipaggiamento che ci si può procurare». Partendo dall’alto, c’erano ottanta centurie di uomini appartenenti alla prima classe, quella dei più ricchi, che combattevano con un armamento pesante in bronzo; a questa seguivano altre quattro classi, che portavano un armamento progressivamente più leggero, fino alla quinta classe, composta da trenta centurie, che combatteva armata soltanto di fionde e pietre. C’erano poi altre diciotto centurie di cavalleria scelta, più alcune squadre speciali di genieri e di suonatori. Al fondo di questa gerarchia stava una singola centuria formata dai cittadini più poveri, esentati dal servizio militare.

18. Il mese di aprile, dal più antico calendario romano giunto sino a noi, dipinto sulla parete di un edificio di Anzio, poco a sud di Roma. Si tratta di un testo con una impaginazione alquanto complessa, con ventinove giorni dall’alto in basso. Nella colonna di sinistra, una sequenza di lettere (A-H) indica una serie regolare di giorni feriali. Nella seconda colonna, altre lettere (C, F, N ecc.) indicano la tipologia del giorno considerato (per esempio, C, abbreviazione di comitialis, significa che in quel dato giorno si poteva tenere un’assemblea). Le parole nella colonna di destra designano le singole festività, la maggior parte delle quali sono di carattere agricolo. I ROBIG(ALIA) , per esempio,

proteggevano i raccolti dalla ruggine delle piante; i VINAL(IA) si celebravano in occasione della nuova vendemmia. Sebbene questa versione risalga soltanto al I secolo a.C., i suoi princìpi essenziali sono molto più antichi.

Servio Tullio avrebbe utilizzato queste medesime strutture come base per la creazione della principale assemblea elettorale del popolo romano: i comizi centuriati, che al tempo di Cicerone si riunivano per eleggere i magistrati superiori, consoli compresi, per votare le leggi e per decidere l’entrata in guerra. Ogni centuria disponeva di un unico voto, per cui alle centurie dei ricchi venne (intenzionalmente?) assegnata una schiacciante e intrinseca superiorità politica. Infatti, se rimanevano unite, le ottanta centurie della prima classe, più le diciotto della cavalleria scelta, potevano superare con il proprio voto tutte le altre classi messe insieme. In altre parole, gli elettori ricchi avevano un potere di voto nettamente maggiore di quello dei loro concittadini poveri. Questo si doveva al fatto che, nonostante il loro nome (il quale farebbe supporre che erano composte ciascuna da cento uomini), le centurie avevano dimensioni molto diverse l’una dall’altra. I cittadini più ricchi erano effettivamente inferiori per numero rispetto ai poveri, ma erano suddivisi in ottanta centurie, in confronto alle sole venti o trenta delle classi meno abbienti, o all’unica centuria della classe più povera. Il potere era radicato nella ricchezza, tanto sul piano individuale quanto su quello cittadino.

19. Il censimento romano. In questo dettaglio di un bassorilievo della fine del II secolo a.C. è raffigurata la registrazione dei cittadini. Sulla sinistra, un funzionario seduto annota le informazioni sulla ricchezza dell’uomo che gli sta di fronte. Sebbene i termini esatti della procedura non ci siano interamente chiari, il rapporto con l’organizzazione militare è qui indicato dalla presenza di un soldato sulla destra.

Nello specifico, questa ricostruzione non è soltanto estremamente complicata ma anche anacronistica. Mentre, come abbiamo visto, alcune innovazioni attribuite a Numa potrebbero non essere fuori posto nella Roma più arcaica, questa è una palese proiezione nel passato di usi e istituzioni appartenenti a un’epoca nettamente posteriore, alle quali è stato assegnato un padre fondatore nella persona di Servio Tullio. L’elaborato metodo di valutazione dei beni implicato dal sistema del censo è assolutamente inconcepibile per la città arcaica; e le complesse strutture dell’organizzazione centuriata nell’esercito e nelle assemblee appaiono totalmente sproporzionate per l’organismo cittadino del periodo monarchico e il tipo di guerre che allora si combattevano (non è infatti questo il modo in cui si effettuavano razzie sul villaggio più vicino). Quali che fossero i mutamenti introdotti da «Servio Tullio» nel sistema di

votazione e nelle tecniche di combattimento, non potevano certamente essere quelli che gli attribuisce la tradizione romana. Riproiettando tutto ciò nel periodo formativo della propria città, gli autori romani sottolineavano però l’importanza di alcune istituzioni e rapporti fondamentali nella cultura politica romana, come essi stessi la concepivano. Nel sistema del censo riconoscevano il riflesso del potere dello stato sul singolo cittadino, nonché la caratteristica cura riposta dai magistrati romani nel lavoro di documentazione, conteggio e classificazione. Ponevano inoltre in risalto un tradizionale legame tra i compiti politici e militari del cittadino, nella misura in cui, per molti secoli, i cittadini romani furono anche, per definizione, soldati romani, e in ossequio a un assioma caro a buona parte dell’aristocrazia: la ricchezza portava con sé privilegi ma anche responsabilità politiche. Nel De re publica Cicerone ce ne offre una conferma quando riassume gli obiettivi politici di Servio Tullio con parole d’approvazione: Distribuì il resto della popolazione in cinque classi ... e tali classi distinse in modo che i voti venissero a trovarsi non in potere della massa, ma dei possidenti terrieri, e, ciò che va tenuto sempre presente nell’ordinamento di uno stato, si dette cura che la maggioranza non avesse anche il maggior potere.

Di fatto, questo principio finì per essere aspramente contestato nel mondo politico romano.

Re etruschi? Servio Tullio fu il penultimo re di Roma, schiacciato fra Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo. Gli studiosi romani ritenevano che questi ultimi tre sovrani avessero regnato sulla città nel VI secolo, finché il Superbo venne infine deposto nel 509 a.C. (secondo la datazione più comunemente accettata). Come abbiamo visto, alcune narrazioni relative a questo periodo non erano meno mitologizzate della storia di Romolo. In più, ci sono delle circostanze impossibili sul piano cronologico (o, perlomeno, una longevità davvero improbabile). Persino alcuni storici antichi facevano fatica ad accettare l’idea che ci fosse un intervallo di circa centocinquant’anni tra la nascita di Tarquinio Prisco e la morte di suo figlio Tarquinio il Superbo, e sostennero talvolta che il secondo Tarquinio non fosse il figlio, bensì il nipote, del primo. Comunque, da questo punto in poi, diventa più facile collegare ciò che leggiamo in Livio e altri autori con ciò che è stato rinvenuto negli scavi archeologici. Così, per esempio, sono state riportate alla luce le tracce di un tempio (o di più templi) che sembra risalire al VI secolo a.C. proprio nel luogo in cui gli storici romani di epoche successive affermavano che Servio Tullio avesse fondato due importanti santuari. Questo non vuol dire che possiamo proclamare di avere trovato i templi di Servio Tullio (qualsiasi cosa ciò possa davvero significare), ma semplicemente che c’è una maggiore e crescente convergenza tra le diverse testimonianze in nostro possesso. Agli occhi dei romani, comunque, due cose in particolare distinguevano questo gruppo di re dai loro predecessori. In primo luogo, la storia particolarmente sanguinosa che li caratterizzava: Tarquinio Prisco fu assassinato dai figli del suo predecessore; Servio Tullio fu posto sul trono da un colpo di stato architettato da Tanaquil e poi ucciso da Tarquinio il Superbo. In secondo luogo, la loro origine etrusca. Per i due Tarquini, si tratta di discendenza diretta. Si riteneva infatti che Tarquinio Prisco fosse emigrato a Roma dalla città etrusca di Tarquinia, insieme alla moglie etrusca, Tanaquil, in cerca di fortuna, in quanto temeva che il suo sangue straniero, ereditato dal padre greco, gli avrebbe impedito di fare carriera nella città natale. Quanto a Servio Tullio, sembra che fosse piuttosto il protetto di Tarquinio Prisco e Tanaquil. Tra le molteplici versioni che si tramandavano sulle origini di questo re, Cicerone è uno dei pochi a

insinuare che fosse un figlio illegittimo di Tarquinio Prisco. Come spiegare tale ascendenza etrusca è un interrogativo che ha fatto spesso scervellare gli storici moderni. Perché a questi re viene attribuita tale origine? Ci fu forse un periodo in cui a Roma regnarono sovrani etruschi? Finora abbiamo rivolto la nostra attenzione ai vicini meridionali di Roma, che figurano nelle storie di fondazione di Romolo e di Enea: i sabini, per esempio, o la piccola città di Alba Longa, fondata dal figlio di Enea e luogo di nascita di Romolo e Remo. Ma, poco a nord di Roma, estesa su quella che è l’odierna Toscana, si trovava la patria degli etruschi, il popolo più ricco e più potente d’Italia nel periodo in cui prese forma la prima comunità urbana di Roma. L’uso del plurale (etruschi) ha qui un valore preciso: questo popolo, infatti, non costituiva un singolo stato bensì un gruppo di città e cittadine indipendenti, che condividevano la medesima lingua e cultura artistica. L’estensione della loro potenza mutò nel corso del tempo, ma al loro apice gli insediamenti etruschi, nonché una chiara influenza etrusca, sono riconoscibili nell’Italia meridionale fino a Pompei e oltre. I visitatori moderni dei siti archeologici etruschi sono rimasti spesso incantati dal loro fascino. Le spettrali necropoli delle città etrusche, con le loro tombe riccamente dipinte, hanno catturato la fantasia di generazioni di scrittori, artisti e turisti, da D.H. Lawrence allo scultore Alberto Giacometti. Anzi, gli stessi studiosi romani di epoche successive (dopo che le città etrusche erano cadute una a una sotto il dominio di Roma) considerarono l’Etruria sia un affascinante ed esotico oggetto di studio, sia la terra d’origine di alcune loro consuetudini nel cerimoniale, nel vestiario e nelle pratiche religiose. Comunque, al tempo della Roma più antica, questi «paesi etruschi», per riprendere il titolo del libro di Lawrence, erano ben più potenti, ricchi e influenti della stessa Roma. Avevano intensi rapporti commerciali in tutto il Mediterraneo e anche oltre, come dimostrano i ritrovamenti archeologici di ambra, avorio e persino di uova di struzzo, nonché i numerosissimi vasi di ceramica ateniese classica provenienti dalle tombe etrusche (ne sono stati rinvenuti più in Etruria che nella stessa Grecia). Questa ricchezza e questa influenza poggiavano sulla presenza di importanti risorse minerarie. Nelle città etrusche c’erano così tante opere bronzee che, ancora nel 1546, nel solo sito di Tarquinia ne fu trovata una quantità tale che, una volta fusa, produsse tremila chili di bronzo da impiegare per la decorazione della chiesa di San Giovanni in Laterano a Roma. Per scendere a una scala ben più piccola, ma non per questo meno significativa, recenti analisi hanno dimostrato che un frammento di ferro

scoperto sull’isola di Ischia (l’antica Pithecusa), nel golfo di Napoli, proveniva da un centro etrusco dell’isola d’Elba; per esprimerci in termini moderni, si trattava verosimilmente di un elemento del loro commercio «d’esportazione».

20. Frammenti di statue in terracotta a grandezza naturale da un tempio del VI secolo a.C. spesso associato al nome di Servio Tullio. Raffigurano Minerva e il suo protetto Ercole (riconoscibile dalla pelle di leone sulle sue spalle). Gli etruschi erano noti per la loro

grande perizia nella statuaria in terracotta; qui è evidente anche l’influenza dell’arte greca, a dimostrazione dei contatti di Roma con il mondo esterno.

La vicinanza all’Etruria fu certamente un fattore che contribuì all’ascesa di Roma, all’accrescimento della sua ricchezza e della sua potenza. Ma dietro l’immagine di questi re etruschi non si cela per caso qualcosa di più sinistro? Si potrebbe sospettare che i legami tra gli etruschi, i due Tarquini e Servio Tullio nascondano un’invasione e una conquista etrusca di Roma, probabilmente nel corso della loro espansione verso la Campania. In altre parole, la tradizione patriottica romana riscrisse questo periodo inglorioso della storia romana, presentandolo non come la conseguenza di una conquista bensì del semplice trasferimento di Tarquinio Prisco e della sua successiva ascesa al trono. La scomoda verità era invece che Roma era diventata un dominio etrusco. È una tesi acuta e brillante, ma alquanto improbabile. Innanzitutto, sebbene vi siano chiare tracce di arte e di altri prodotti etruschi a Roma, nonché alcune iscrizioni nella loro lingua, non è stata trovata alcuna testimonianza archeologica che confermi l’ipotesi di una conquista in grande scala. Insomma: stretti rapporti tra le due culture sono indubbi, ma parlare di una conquista appare fuori luogo. In realtà, lo stesso modello di «conquista statuale» risulta inappropriato per descrivere il genere di relazioni che dobbiamo immaginare tra queste comunità confinanti; o almeno non è il solo modello valido. Come ho già detto, era un mondo di grandi uomini e signori della guerra: potenti individui che si muovevano con una certa libertà tra le varie città della regione, talvolta in forma pacifica e in altri casi presumibilmente no. Accanto a questi vi erano gli altrettanto mobili membri delle loro milizie, e poi mercanti, artigiani itineranti e migranti di ogni sorta. È impossibile sapere con certezza chi fosse il «Fabius» romano, il cui nome è iscritto nella tomba in cui fu sepolto nella città etrusca di Caere (l’odierna Cerveteri); e lo stesso vale per il «Titus Latinus» a Veio o l’ibrido «Rutilus Hippokrates» a Tarquinia, con un primo nome latino e un secondo greco. Ma ci dimostrano chiaramente che si trattava di comunità abbastanza aperte. È tuttavia la storia di Servio Tullio a fornirci la testimonianza più viva e diretta sui signori della guerra, le milizie private e le diverse forme di migrazione, pacifiche o meno, che devono avere caratterizzato queste comunità arcaiche. Ma tale testimonianza non ha nulla a che fare con

l’immagine di Servio Tullio come riformatore della costituzione romana e creatore del censo. Al contrario, sembra offrire un punto di vista etrusco, e proviene dalle labbra dell’imperatore Claudio, in occasione di un discorso pronunciato in Senato nel 48 d.C. per esortarne i membri a concedere l’ingresso nel loro consesso ai più illustri uomini della Gallia. Per sostenere la sua posizione Claudio ricordò che persino i primi re appartenevano a una «stirpe straniera». Quando arriva a Servio Tullio, le cose si fanno ancora più interessanti. Claudio era un profondo conoscitore della storia etrusca. Tra le sue numerose ricerche erudite figuravano uno studio in venti libri sugli etruschi, scritto in greco, e un dizionario di etrusco. In questa specifica occasione, non riuscì a resistere alla tentazione di spiegare ai senatori riuniti (i quali forse iniziarono a sentirsi come il pubblico di una conferenza) che, fuori da Roma, circolava un’altra storia su Servio Tullio. Non era quella di un uomo giunto al trono grazie all’aiuto, o ai complotti, del suo predecessore Tarquinio Prisco e della moglie di questi, Tanaquil. A detta di Claudio, Servio Tullio era un avventuriero armato, che i nostri autori latini dicono nato dalla schiava Ocresia e che gli autori etruschi descrivono come sodale di Celio Vibenna e compagno di ogni sua avventura. Dopo alterne vicende con i resti delle milizie di Celio lasciò l’Etruria e occupò il colle Celio al quale egli stesso diede il nome, prendendolo da quello del suo capo; dopo avere mutato come già dissi il proprio nome con quello di Servio Tullio (in etrusco si chiamava Mastarna) ottenne il regno con grande beneficio per lo stato.

Le notizie riferite da Claudio sollevano innumerevoli domande. La prima riguarda il nome Mastarna. Si tratta di un nome proprio, oppure del corrispondente etrusco del latino magister, che in questo contesto significherebbe qualcosa di simile all’inglese boss? E chi è il Celio Vibenna che avrebbe dato il proprio nome al colle Celio? Costui, insieme a suo fratello Aulo Vibenna, ricompare spesso nelle antiche trattazioni sulla storia della Roma arcaica, sebbene, ahimè, in forme contraddittorie e tipicamente mitiche: talvolta Celio è considerato un amico di Romolo, in altri casi i due Vibenna sono collocati al tempo dei Tarquini; un autore romano di epoca tarda riteneva persino che Aulo fosse diventato re di Roma (era dunque uno dei re dimenticati?). Dal discorso di Claudio sembrerebbe che Celio non fosse giunto mai a Roma. Ma ciò che appare chiaro è il

carattere generale del quadro da lui descritto: milizie rivali, signori della guerra itineranti, fedeltà personali, identità mutevoli; un quadro molto diverso da quello che ci si potrebbe immaginare sulla base delle riforme costituzionali attribuite a Servio Tullio dalla maggior parte degli autori romani. Ricaviamo la stessa impressione dalle pitture che un tempo decoravano una grande tomba nei pressi di Vulci. Oggi nota come Tomba François (dal nome dell’archeologo che la scoprì nell’Ottocento: si veda la tavola 7), deve essere stata la cripta di una ricca famiglia locale, almeno a giudicare dalle sue dimensioni e dalla sua pianta, con dieci camere funerarie sussidiarie che si aprono lungo un passaggio d’entrata e attorno a un atrio centrale, nonché dalla notevole quantità di oro che vi è stata ritrovata. Per chi si occupa della storia più antica di Roma, però, ciò che rende eccezionale questa tomba è il ciclo pittorico nell’atrio centrale (databile probabilmente alla metà del IV secolo a.C.), il cui tema principale è costituito da scene tratte da episodi bellici della mitologia greca, soprattutto la guerra troiana. A queste fanno da contrappunto quelle relative a scontri di carattere più locale. Tutti i personaggi sono identificati accuratamente con il proprio nome, e di una metà di essi è indicata anche la città di provenienza (dell’altra metà si può supporre che siano uomini di Vulci, origine che non era necessario indicare in modo esplicito). Sono presenti i due fratelli Vibenna, Mastarna (l’unico altro riferimento certo che possediamo su questo personaggio) e un certo Gneo Tarquinio «da Roma».

21. Un altro campo in cui gli etruschi erano particolarmente esperti era la lettura dei segni inviati dagli dèi nelle viscere degli animali sacrificati. Questo fegato di bronzo (risalente al III secolo a.C.) era un modello per l’interpretazione di quelli delle vittime. Il fegato è accuratamente suddiviso in settori, e sono indicate le divinità associate a ciascuno di essi, per aiutare a comprendere il significato delle particolari caratteristiche o difetti che vi si potevano riscontrare.

Nessuno è finora riuscito a individuare con esattezza che cosa sia raffigurato in queste scene, ma non è difficile cogliere lo spirito che le permea. Ci sono cinque coppie di combattenti: in quattro di queste, un personaggio locale (tra cui Aulo Vibenna) sta trafiggendo con la spada uno «straniero». Tra le vittime figurano Lares Papathnas di Bolsena e il già citato Gneo Tarquinio di Roma. Quest’ultimo deve essere senza dubbio legato in qualche modo ai due Tarquini re di Roma, anche se, secondo la tradizione letteraria romana, il prenome di entrambi era Lucio e non Gneo. L’ultima coppia raffigura Mastarna che con la sua spada taglia i lacci che legano i polsi di Celio Vibenna. Un fatto curioso (e probabilmente un indizio per comprendere la storia) è che tutti i vittoriosi personaggi locali, tranne uno, sono nudi, mentre i loro nemici sono vestiti. Secondo la spiegazione più frequente, le pitture raffigurano qualche celebre bravata locale, nel corso della quale i fratelli Vibenna e i loro amici erano stati presi prigionieri, denudati e legati, ma erano poi riusciti a fuggire e a vendicarsi dei loro nemici. Questa è la più antica testimonianza diretta che ci sia giunta sui personaggi protagonisti delle storie di Roma arcaica. E ci giunge dall’esterno, o almeno dai margini della tradizione letteraria romana. Ciò, naturalmente, non la rende a tutti i costi vera: la tradizione mitica di Vulci potrebbe essere stata altrettanto mitica di quella di Roma. Ciononostante, i dati che da essa ricaviamo ci forniscono un quadro del mondo guerriero di queste arcaiche comunità urbane ben più verosimile della grandiosa immagine tratteggiata dagli autori romani e da alcuni loro epigoni moderni. Era un mondo di chiefdoms e bande guerriere, non di eserciti organizzati e di politica estera.

Archeologia, tirannia... e stupro Nel VI secolo a.C. Roma era ormai una piccola comunità urbana. È spesso difficile stabilire quando un semplice agglomerato di case e capanne diventa una città, che percepisce se stessa come una comunità, con un’identità comune e aspirazioni condivise. Ma la concezione di un calendario romano, che implica una cultura religiosa e un ritmo di vita comuni e condivisi, risale molto probabilmente al periodo monarchico. Anche i resti archeologici confermano che nel VI secolo a.C. Roma si era dotata di edifici pubblici, di templi e di un «centro cittadino»: chiare indicazioni di una vita urbana, sebbene, secondo i nostri parametri, ancora su scala modesta. La cronologia di questi resti rimane controversa: non vi è una sola testimonianza sulla cui datazione tutti gli archeologi siano d’accordo; e le nuove scoperte modificano in continuazione il quadro generale (anche se non così profondamente come sperano gli autori di tali scoperte!). In ogni caso, oggi soltanto il più ostinato e accecato degli scettici negherebbe il carattere urbano di Roma in questo periodo. Questi resti archeologici sono disseminati in diverse aree della città, sepolti sotto costruzioni successive; ma è nella zona del Foro che possiamo farci un’immagine più chiara dell’aspetto della Roma arcaica. Nel VI secolo a.C. il livello del Foro era stato artificialmente alzato ed erano state eseguite alcune opere di drenaggio, in entrambi i casi per proteggere l’area dalle inondazioni del Tevere, e vi erano state sovrapposte almeno due successive pavimentazioni di pietrisco, in modo che potesse fungere da spazio centrale comune per l’intera comunità. L’iscrizione citata all’inizio di questo capitolo è stata rinvenuta a un’estremità del Foro, sotto le pendici del Campidoglio, in quello che doveva essere stato un antico santuario, con un altare esterno. Quale che sia il significato preciso del testo, si trattava certamente di una comunicazione pubblica, il che implica la presenza di una comunità strutturata e di un’autorità riconosciuta. All’estremità opposta del Foro, gli scavi nei livelli più profondi, sotto un intricato complesso di successivi edifici religiosi, compresi quelli associati alle sacerdotesse di Vesta, sembrano riportare al VI secolo a.C. o persino a un periodo precedente. Poco più lontano sono state trovate alcune tracce di una serie di grandi case private appartenenti grosso modo alla stessa epoca. Sono tracce molto vaghe, ma ci offrono ugualmente la possibilità di intravedere la vita che

conducevano alcuni cittadini piuttosto benestanti nelle loro dimore costruite vicino al centro civico della città. È difficile stabilire fino a che punto si possano accordare queste testimonianze archeologiche con la tradizione letteraria sugli ultimi re di Roma. È senza dubbio esagerato sostenere, come vorrebbero farci credere gli archeologi, che una delle case del VI secolo a.C. costruite vicino al Foro fosse realmente la «Casa dei Tarquini», anche ammettendo che essa sia mai esistita. Ma non è neppure probabile che sia soltanto un caso se le narrazioni romane sull’ultima fase dell’epoca monarchica mettono in risalto le imprese edilizie promosse dai re. A entrambi i Tarquini era attribuita l’inaugurazione del grande tempio di Giove sul colle del Campidoglio (gli scrittori romani confondevano facilmente questi due re), nonché la costruzione del Circo Massimo e l’apertura di negozi e portici intorno al Foro. A Servio Tullio, oltre la fondazione di parecchi templi, era attribuita l’edificazione di un muro difensivo che circondava tutta la città. La costruzione delle mura sarebbe un segno irrefutabile di un’identità condivisa, ma i resti più antichi di quelle che oggi sono chiamate Mura Serviane non risalgono a prima del IV secolo a.C. L’espressione coniata in Italia negli anni Trenta del XX secolo per indicare questo periodo, «La Grande Roma dei Tarquini», non è probabilmente così fuorviante come sembra (sebbene tutto dipenda, è ovvio, da ciò che si intende esattamente con il termine grande). Roma era, in termini tanto assoluti quanto relativi, tutt’altro che «grande». Ma era una comunità ben più estesa e urbanizzata di quanto non fosse stata cent’anni prima, avendo senza dubbio tratto vantaggio dalla sua ottima posizione per gli scambi commerciali e dalla sua prossimità alla ricca Etruria. Per quanto possiamo giudicare dalle testimonianze in nostro possesso, nella metà del VI secolo a.C. Roma aveva un’estensione senz’altro maggiore rispetto agli insediamenti latini a sud di essa e almeno pari a quella delle principali città etrusche a nord, con una popolazione probabilmente attorno a venti o trentamila abitanti, sebbene non potesse vantare nulla di anche lontanamente paragonabile allo splendore di alcune città greche dell’Italia meridionale e della Sicilia, e fosse molto più piccola di queste. In altre parole, Roma doveva essere uno dei principali protagonisti a livello regionale, ma non si distingueva ancora in modo particolare. Non tutti gli sviluppi urbani che i romani ascrivevano ai Tarquini furono «splendidi» nel senso più stretto del termine. Fu la preoccupazione tipicamente romana per le infrastrutture della vita urbana a spingere gli

autori latini a magnificare la loro costruzione di un impianto fognario: la Cloaca Maxima. Quanta parte di ciò che ancora sopravvive di questa celebre struttura risalga effettivamente al VI secolo a.C. è tutt’altro che chiaro: le sezioni in muratura oggi visibili, e che continuano a trasportare parte delle acque di scolo della città moderna e degli scarichi dei suoi bagni, sono di parecchi secoli più recenti; appare inoltre probabile che i primi tentativi di realizzare un sistema fognario siano ancora più antichi, e risalgano al VII secolo a.C. Ma nell’immaginario romano la Cloaca Maxima rimase sempre una meraviglia degli ultimi re: «un’opera straordinaria, che le parole non sono in grado di descrivere», afferma entusiasta Dionigi, il quale con ogni probabilità aveva in mente ciò che si poteva vedere ai suoi tempi, nel I secolo a.C. Ma c’era anche un lato oscuro: non era soltanto una meraviglia, ma altresì un ricordo materiale della crudele tirannia che secondo i romani contrassegnò la fine del periodo monarchico. Con toni particolarmente foschi e immagini sfolgoranti, Plinio il Vecchio (il prodigioso enciclopedista romano oggi famoso soprattutto per essere rimasto vittima dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.) descrive come la popolazione della città fosse talmente prostrata dal lavoro di costruzione della fognatura che molti preferivano togliersi la vita. Il re, per tutta risposta, faceva inchiodare i corpi dei suicidi su delle croci, nella speranza che la vergogna della crocifissione servisse come deterrente per chi avesse intenzione di fare la stessa cosa. La vera causa che portò al rovesciamento della monarchia, tuttavia, non fu lo sfruttamento del lavoro dei poveri, bensì una violenza sessuale: lo stupro di Lucrezia compiuto da uno dei figli del re. Questo stupro è probabilmente altrettanto mitico del ratto delle sabine: due episodi di violenza contro le donne che contrassegnano l’inizio e la fine del periodo monarchico. Per di più, gli scrittori romani che narrarono questa storia furono quasi di certo influenzati dalla tradizione letteraria greca, che spesso legava il culmine e la caduta delle tirannie a crimini di tipo sessuale. Si raccontava, per esempio, che ad Atene, nel VI secolo a.C., le avances del fratello più giovane del tiranno nei confronti dell’amante di un altro uomo avessero provocato il rovesciamento della dinastia dei Pisistratidi. Comunque, mitico o no che fosse, lo stupro di Lucrezia segnò una svolta nella politica romana, e il suo significato etico è stato alquanto dibattuto. La vicenda è stata continuamente ricreata e immaginata nella cultura occidentale, da Botticelli a Tiziano, Shakespeare e Benjamin Britten; Lucrezia ha persino il suo piccolo posto tra circa mille eroine della storia mondiale nell’installazione femminista di Judy Chicago The Dinner Party.

Livio ci offre un racconto molto vivace di questi ultimi momenti della monarchia. Inizia con un gruppo di giovani romani che cercano di trovare un modo di passare il tempo durante l’assedio della vicina città di Ardea. Una sera, mentre, piuttosto ubriachi, stavano facendo una sfida su chi avesse la moglie migliore, uno di loro, Lucio Tarquinio Collatino, propose di tornare in città (che si trovava a pochi chilometri di distanza) per controllare ciò che stavano facendo le donne: in tal modo, proclamò, si sarebbe provata la superiorità della sua Lucrezia. E così avvenne: infatti, mentre le altre mogli vennero sorprese a gozzovigliare in assenza dei loro mariti, Lucrezia stava facendo esattamente ciò che ci si aspettava da una virtuosa donna romana: lavorava al telaio, in compagnia delle sue domestiche. E subito si adoperò per preparare la cena a suo marito e ai suoi ospiti. Ma ci fu un terribile epilogo. Infatti, così leggiamo, in quell’occasione Sesto Tarquinio fu afferrato da una fatale passione per Lucrezia, e poco tempo dopo si ripresentò una sera nella sua casa. Dopo essere stato gentilmente ricevuto, si recò nella stanza da letto della donna e, minacciandola con un coltello, pretese di avere un rapporto sessuale con lei. Poiché il timore della morte non serviva a nulla, Tarquinio fece leva su quello del disonore e minacciò di ucciderla insieme a uno schiavo (visibile nel quadro di Tiziano; si veda la tavola 4), facendo sembrare che fosse stata colta nella più odiosa forma di adulterio. Di fronte a questa possibilità, Lucrezia si piegò; ma, quando Tarquinio rientrò ad Ardea, la donna inviò un messaggero per informare il marito e suo padre di quanto era accaduto. Quindi si uccise.

22. Un segmento ancora esistente della Cloaca Maxima. L’impianto originario non poteva essere nulla di paragonabile all’imponente struttura di questa più tarda ricostruzione, ma proprio questa è l’immagine che avevano in mente gli scrittori latini quando parlavano del progetto di Tarquinio. Alcuni romani si vantavano di percorrerla con una barca a remi.

La storia di Lucrezia rimase sempre un’immagine straordinariamente potente per la cultura etica romana. Per molti romani essa rappresentava un caso illustre ed esemplare di virtù femminile. Lucrezia aveva volontariamente pagato con la propria vita la perdita, come dice Livio, della sua pudicitia, della sua «castità», o meglio della «fedeltà» che, almeno da parte della donna, definiva la relazione tra marito e moglie. Tuttavia, altri autori antichi trovavano più difficile accettare questa storia. C’erano poeti e scrittori satirici che, piuttosto prevedibilmente, mettevano in dubbio l’idea che la pudicitia fosse davvero ciò che un uomo desiderava in una moglie. In un epigramma piuttosto licenzioso, Marco Valerio Marziale – autore, alla fine del I secolo d.C., di una serie di acuti, brillanti e sconvenienti versi –, afferma scherzosamente che sua moglie di giorno poteva fare la Lucrezia

finché voleva, purché di notte si fosse trasformata in una puttana. In un altro motto di spirito, si domanda se le varie Lucrezie sono davvero quel che sembrano; persino la celebre Lucrezia, continua Marziale, si allietava con la lettura di poesie erotiche quando suo marito non guardava. Ben più seria era la questione della sua colpevolezza e delle ragioni del suo suicidio. Secondo alcuni, si poteva sospettare che fosse preoccupata più per la sua reputazione che per un’autentica pudicitia, che certamente riguardava la colpevolezza o l’innocenza della sua anima, non del suo corpo, e non sarebbe stata affatto toccata da false accuse di rapporti sessuali con uno schiavo. All’inizio del V secolo d.C. sant’Agostino, che aveva una conoscenza approfondita dei classici pagani, si chiedeva se Lucrezia fosse stata realmente violentata: dopotutto, alla fine non aveva forse acconsentito? Non ci vuole molto per riconoscere qui alcune delle nostre stesse argomentazioni sulla violenza sessuale e sulle questioni di responsabilità che ancora solleva. Allo stesso tempo, questa vicenda era considerata un momento politico di fondamentale importanza, perché conduceva direttamente all’espulsione dei re e alla creazione della libera repubblica. Non appena Lucrezia si fu accoltellata, Lucio Giunio Bruto, che aveva accompagnato il padre di lei, estrasse il pugnale dal suo corpo e, mentre i parenti della donna erano ancora troppo sconvolti per proferire parola, giurò di liberare per sempre Roma dai re. Questa era, naturalmente, almeno in parte, una profezia ex eventu, in quanto il Bruto che nel 44 a.C. aveva guidato il colpo di stato contro Giulio Cesare per le sue ambizioni monarchiche pretendeva di discendere direttamente da questo Bruto. Dopo essersi assicurato il sostegno dell’esercito e del popolo, che era disgustato dallo stupro e stanco del lavoro per la costruzione della fognatura, Lucio Giunio Bruto costrinse Tarquinio e i suoi figli ad andare in esilio. Ma i Tarquini non abbandonarono il campo senza combattere. Secondo il racconto di Livio, inverosimilmente movimentato, Tarquinio il Superbo cercò di organizzare una controrivoluzione a Roma; poi, fallito questo tentativo, unì le proprie forze a quelle di Lars Porsenna, re della città etrusca di Chiusi, che mise sotto assedio Roma per riportarvi la monarchia. Ma venne sconfitto dall’eroismo dei suoi abitanti, fieri della propria nuova libertà. Leggiamo, per esempio, del coraggioso Orazio Coclite, che da solo difese il ponte sul Tevere per fermare l’avanzata dell’esercito etrusco (alcuni dicevano che avesse sacrificato la propria vita, altri che fosse tornato in patria accolto come un eroe); o dell’audacia di Clelia, una giovane presa in

ostaggio insieme ad altre donne da Porsenna, che era riuscita a fuggire attraversando a nuoto il fiume. Livio sostiene che gli etruschi rimasero così colpiti dalla tempra dei romani che alla fine abbandonarono semplicemente Tarquinio al suo destino. Circolavano tuttavia anche versioni meno patriottiche. Plinio il Vecchio non era l’unico studioso a credere che Lars Porsenna fosse divenuto re di Roma per almeno un certo tempo; in tal caso, potrebbe essere un altro dei re dimenticati, e la fine della monarchia potrebbe essere stata molto diversa.

23. La pudicitia, intesa come virtù fondamentale della donna, era promossa in numerosi contesti. Questa moneta argentea dell’imperatore Adriano, coniata negli anni Venti del II secolo d.C., mostra la Pudicitia personificata, compostamente seduta come ci si aspettava da una brava moglie romana. Attorno alla sua figura, le parole COS III celebrano il terzo consolato di Adriano, alludendo a uno stretto legame tra il prestigio pubblico degli uomini e il corretto comportamento delle donne.

Abbandonato da Porsenna, così continua il racconto, Tarquinio cercò aiuto altrove. Fu definitivamente sconfitto negli anni Novanta del V secolo a.C. (le date precise variano), insieme ad alcuni alleati che era riuscito a procurarsi nelle vicine città latine, nella battaglia del lago Regillo, poco lontano da Roma. Fu un momento trionfante della storia romana, e senza dubbio almeno in parte avvolto nel mito: si suppose infatti che gli dèi

Castore e Polluce fossero stati visti combattere nello schieramento romano e poi strigliare i propri cavalli nel Foro. In ringraziamento del loro aiuto, venne eretto nel Foro un tempio a essi dedicato. Questo edificio, ricostruito più volte, è ancora oggi uno dei monumenti più distintivi del Foro, a eterna memoria di come i romani rovesciarono la monarchia.

La nascita della libera repubblica romana La fine della monarchia fu anche la nascita della libertà e della libera repubblica romana. Nei secoli successivi la parola rex mantenne una connotazione estremamente negativa, di autentico insulto, nella politica romana, sebbene si ritenesse che molte delle istituzioni più caratteristiche avessero avuto origine proprio nel periodo monarchico. Si possono così citare numerosi casi in cui l’accusa di ambire alla regalità condusse a rapida conclusione la carriera di un uomo politico. Il suo stesso nome regale ebbe conseguenze disastrose per lo sfortunato vedovo di Lucrezia, il quale, essendo imparentato con i Tarquini, fu ben presto mandato in esilio. Anche nelle guerre esterne i re rappresentavano i nemici più desiderabili. Nei secoli seguenti si ebbe sempre un fremito d’eccitazione quando, in occasione di una processione trionfale, un re nemico veniva condotto in tutta la sua maestosità per le strade della città ed esposto al dileggio e al disprezzo della popolazione. Inutile dirlo, erano oggetto di abbondanti sarcasmi anche quei romani che portavano casualmente il cognomen di Rex. La caduta di Tarquinio (attorno alla fine del VI secolo, secondo la tradizione) significò per Roma un nuovo inizio: la città ripartì dal principio, questa volta come «repubblica» (in latino res publica, letteralmente «cosa pubblica») e con un’intera serie di nuovi miti di fondazione. Secondo una ben consolidata tradizione, per esempio, il grande tempio di Giove sul colle del Campidoglio, edificio che diventò uno dei simboli principali della potenza romana e venne poi imitato in molte città romane all’estero, venne dedicato nel primo anno della nuova repubblica. Senza dubbio era stato consacrato e in gran parte costruito all’epoca dei re da artigiani etruschi; ma il nome del suo dedicante ufficiale, inciso sulla facciata, era quello di uno dei capi della nuova repubblica. Comunque, quale che sia la cronologia esatta della sua costruzione (che, bisogna riconoscerlo, non si può accertare), la nascita di questo tempio venne fatta coincidere con quella della repubblica e il tempio stesso divenne un simbolo della storia repubblicana. Anzi, per diversi secoli si mantenne l’uso di piantare ogni anno un chiodo nello stipite della sua porta, non soltanto per segnare lo scorrere del tempo dell’epoca repubblicana ma anche per ancorare fisicamente questo tempo nella stessa struttura del tempio. Anche di alcune caratteristiche apparentemente naturali del paesaggio di

Roma si pensava che avessero avuto origine nel primo anno della repubblica. Molti romani sapevano, proprio come i moderni geologi, che l’isoletta in mezzo al Tevere era, in termini geologici, una formazione relativamente recente. Ma come, e quando, era emersa? Ancora oggi non si è data una risposta definitiva a questa domanda; una tradizione romana, comunque, la datava all’inizio stesso della repubblica, affermando, per spiegarne l’origine, che si era formata gettando nel fiume il grano coltivato nelle terre private dei Tarquini. Poiché il livello dell’acqua era molto basso, il grano si accumulò sul letto del fiume e gradualmente, con l’aggiunta dei depositi salini e di altri detriti, formò un’isola. Insomma, sembrerebbe quasi che la città avesse potuto prendere forma concreta soltanto con la rimozione della monarchia.

24. Le tre colonne sopravvissute di una tarda ricostruzione del tempio di Castore e Polluce si stagliano ancora con grande evidenza nel Foro romano. Il resto del tempio è quasi completamente distrutto, ma la base inclinata dei suoi gradini, spesso utilizzati dagli oratori per rivolgersi al popolo, è ancora visibile (in basso a sinistra). La piccola porta ci ricorda che le fondamenta dei templi erano usate per ogni sorta di funzioni. In questo caso

specifico, gli scavi hanno mostrato che qui un tempo si trovava il negozio di un barbiere/dentista.

Nacque anche una nuova forma di governo. Subito dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo, Bruto e, anteriormente al suo già imminente esilio, Collatino, marito di Lucrezia, divennero i primi consoli di Roma. Questi sarebbero stati i più importanti e caratteristici magistrati della nuova repubblica. Assumendo gran parte dei compiti dei re, i consoli dirigevano la politica della città e guidavano i suoi soldati in guerra: a Roma non ci fu mai una separazione ufficiale tra ruoli militari e quelli civili. Sotto questo aspetto, malgrado fossero presentati come l’antitesi dei re, i consoli rappresentavano la continuazione del potere monarchico; nel II secolo a.C. un acuto analista greco riconobbe nei consoli l’elemento «monarchico» del sistema politico romano, e Livio ribadisce che le loro insegne erano praticamente uguali a quelle dei re che li avevano preceduti. Ma i consoli erano anche l’incarnazione di parecchi princìpi essenziali, decisamente non monarchici, del nuovo sistema politico. In primo luogo, erano eletti interamente dal voto popolare; in secondo luogo, restavano in carica per un solo anno, e tra i loro doveri figurava quello di presiedere (come sappiamo che fece Cicerone nel 63 a.C.) alle elezioni dei loro successori. Terzo, detenevano la propria carica congiuntamente. I due pilastri fondamentali del governo repubblicano erano che le cariche dovevano sempre rimanere temporanee e che, tranne in casi eccezionali in cui era necessario affidare per un breve periodo tutta l’autorità a un solo uomo, il potere doveva essere sempre condiviso, tenuto in modo collegiale. Come vedremo, nei secoli seguenti questi due pilastri vennero sempre più incessantemente ribaditi e, allo stesso tempo, diventarono sempre più difficili da mantenere. I consoli davano il proprio nome all’anno in cui svolgevano il proprio mandato. È ovviamente inutile ricordare che i romani non avrebbero potuto impiegare il moderno sistema occidentale di datazione utilizzato in questo libro. «VI secolo a.C.» per loro non avrebbe significato nulla. Talvolta i romani datavano gli eventi partendo, come punto di riferimento iniziale, «dalla fondazione della città» (ab urbe condita), almeno da quando ebbero raggiunto un certo accordo su quest’ultima data. Ma normalmente si riferivano agli anni con i nomi dei consoli in carica. Per esempio, l’anno che noi definiamo 63 a.C. era per i romani quello del «consolato di Marco Tullio Cicerone e Gaio Antonio Ibrida»; analogamente, il vino fatto «quando era

console Optimio» (cioè il 121 a.C.) era noto per la sua ottima qualità. Al tempo di Cicerone, i romani avevano compilato una lista di consoli sostanzialmente completa risalente fino agli inizi della repubblica, che venne ben presto esposta nel Foro accanto a quella dei generali che avevano celebrato il trionfo. Fu per lo più questa lista a permettere ai romani di fissare la data precisa della fine della monarchia, in quanto doveva necessariamente coincidere con quella del primo consolato. La repubblica, in altre parole, non era soltanto un sistema politico. Era una complessa rete di relazioni incrociate fra politica, tempo, geografia e panorama urbano. Lo svolgersi del tempo era direttamente ancorato al susseguirsi dei consoli eletti anno per anno; gli anni stessi erano contrassegnati dai chiodi piantati nel tempio di Giove, la cui dedicazione era fatta risalire al primo anno della repubblica; persino l’isola in mezzo al Tevere era letteralmente un frutto dell’espulsione dei re. E alla base di tutto stava un unico e supremo principio: la libertas. L’Atene del V secolo a.C. ha donato al mondo moderno l’idea della democrazia, dopo la deposizione dei «tiranni» e la creazione delle istituzioni democratiche alla fine del VI secolo a.C.: una coincidenza cronologica con il rovesciamento della monarchia a Roma che non passò inosservata agli antichi, desiderosi di presentare la storia di queste due città come se corresse in parallelo. La Roma repubblicana ci ha lasciato in eredità l’altrettanto importante idea della libertà. La prima parola del Secondo libro delle Storie di Livio, con cui inizia la storia di Roma dopo la caduta della monarchia, è libero; e le parole libero e libertà sono ripetute otto volte nelle prime righe. L’idea che la repubblica fosse stata fondata sulla libertas risuona fortemente in tutta la letteratura romana, e ha continuato a echeggiare nei movimenti radicali dei secoli successivi, in Europa e in America. Non è certo un caso se il motto della Rivoluzione francese (Liberté, egalité, fraternité) pone la «libertà» al primo posto; se George Washington proclamò di restaurare «il sacro fuoco della libertà» in Occidente; se gli estensori della Costituzione degli Stati Uniti la firmarono con lo pseudonimo di «Publius», preso dal nome di Publio Valerio Publicola, uno dei primi consoli della repubblica. Ma come doveva essere definita la libertà romana? Questa rimase una questione controversa nella cultura politica di Roma per i successivi ottocento anni, dalla repubblica fino all’impero, quando il dibattito politico ruotò spesso attorno al problema se, e fino a che punto, la libertas potesse davvero essere compatibile con l’autocrazia. Era in gioco la

libertà di chi? Come si poteva efficacemente difenderla? Come si potevano ricomporre le contrastanti concezioni della libertà del cittadino romano? Praticamente tutti i romani si sarebbero dichiarati difensori della libertas, proprio come oggi la maggior parte di noi si dichiara a sostegno della «democrazia». Ma attorno al suo significato vi furono scontri costanti e feroci. Abbiamo già visto che, quando Cicerone venne condannato all’esilio, la sua casa venne abbattuta e al suo posto innalzato un santuario dedicato a Libertas. Non tutti lo avrebbero approvato. Lo stesso Cicerone racconta che, durante la rappresentazione di una commedia su Bruto, il primo console della repubblica, il pubblico scoppiò in applausi quando uno dei personaggi recitò queste parole: «Tullio, che consolidò la libertà dei cittadini». Esse si riferivano a Servio Tullio e insinuavano che la libertà potesse avere avuto a Roma una preistoria prima della repubblica, grazie all’opera di un «buon re»; ma Marco Tullio Cicerone, per chiamarlo con il suo nome completo, era convinto – forse a ragione – che gli applausi fossero indirizzati a lui. Conflitti di questo genere saranno trattati dettagliatamente nei prossimi capitoli. Ma, prima di raccontare la storia dei secoli iniziali della repubblica romana (le guerre in patria, le vittorie per la «libertà» e quelle militari sulle popolazioni italiche vicine), dobbiamo esaminare più da vicino la storia della nascita della repubblica e la creazione del consolato. Come si può immaginare, non fu il processo lineare che la versione ufficiale, sopra riferita, lascia supporre.

a. Chiefdom, o, in francese, chefferie, talvolta tradotto in italiano con il termine potentato, indica, nel linguaggio etnologico e archeologico, l’ordinamento politico-territoriale e il complesso delle funzioni politiche esercitate dal capo nelle società tradizionali prestatuali. [NdT]

IV

IL GRANDE BALZO IN AVANTI

Due secoli di mutamenti: dai Tarquini a Scipione Barbato Com’è realmente nata la repubblica? Gli antichi storici romani erano maestri nel trasformare un magmatico caos storico in una narrazione coerente e compatta, ed erano sempre pronti a immaginare che le proprie istituzioni più peculiari fossero ben più antiche di quanto erano in realtà. Ai loro occhi, la transizione dalla monarchia alla repubblica fu un processo tanto lineare quanto può esserlo qualsiasi rivoluzione: i Tarquini fuggirono; la nuova forma di governo emerse già pienamente formata; il consolato venne immediatamente istituito, dando al nuovo ordinamento un sistema cronologico fin dal primo anno. In realtà, l’intero processo deve essere stato molto più graduale, e confuso, di quanto la tradizione faccia supporre. La «repubblica» nacque lentamente, attraverso uno sviluppo durato decenni, se non secoli. E fu più volte reinventata. Anche lo stesso consolato non risale all’inizio del nuovo regime. Livio ricorda che la più alta carica dello stato, il cui compito originario era quello di piantare ogni anno il chiodo nel tempio di Giove, era inizialmente costituita dal «pretore massimo» (praetor maximus), benché il termine pretore fosse in seguito utilizzato per indicare un magistrato di grado inferiore sottoposto all’autorità dei consoli. Si conoscono per questo primo periodo anche altre cariche al vertice della gerarchia politica, che complicano ulteriormente il quadro generale. Tra queste vi sono quella di «dittatore», di solito definita come un incarico temporaneo per affrontare un’emergenza militare (priva della moderna connotazione negativa data a questa parola), e quella dei «tribuni militari con potere consolare», espressione appropriatamente tradotta da uno storico moderno con il termine colonnelli. Rimangono ancora molti punti interrogativi: quando esattamente fu inventata la carica più importante della repubblica? O, viceversa, quando e perché a una carica già esistente venne dato il nuovo nome di «consolato»? O ancora: quando venne definito il fondamentale principio repubblicano secondo cui il potere dev’essere sempre collegiale? «Pretore massimo» fa pensare a una struttura gerarchica, non a un sistema paritario. A ogni modo, quali che siano le date precise, la lista di consoli su cui si fonda la cronologia della repubblica (risalendo con una serie ininterrotta fino a Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino nel 509 a.C.) era, almeno nelle sue parti più antiche, il frutto di un esteso lavoro di adattamento, di ardite deduzioni, di acute ipotesi e, molto probabilmente, di pura

invenzione. Lo stesso Livio, alla fine del I secolo a.C., ammise che era quasi impossibile stabilire con sicurezza la cronologia della successione dei consoli per questo primo periodo. Era, concludeva Livio, semplicemente troppo distante e remoto. Un altro interrogativo riguarda la violenza del processo che portò alla caduta della monarchia. I romani immaginavano un cambio di regime sostanzialmente incruento. Lucrezia era stata la vittima più illustre e tragica; tuttavia, sebbene in seguito vi fossero stati degli scontri, a Tarquinio fu consentito di fuggire sano e salvo. Le testimonianze archeologiche fanno supporre che entro la città il cambio di regime non fu invece così pacifico. Nel Foro e anche in altre aree sono stati portati alla luce alcuni strati di macerie bruciate verosimilmente databili attorno al 500 a.C. Potrebbero essere soltanto le tracce di una sfortunata serie di incendi accidentali. Ma la loro consistenza giustifica anche l’ipotesi che il rovesciamento dei Tarquini possa essere stato piuttosto cruento, e che gran parte degli episodi di violenza sia stato patriotticamente eliminato dalla versione tradizionale. La prima attestazione conosciuta della parola console, infatti, è posteriore di due secoli. Compare nel primo esempio giunto fino a noi delle migliaia e migliaia di espressivi epitaffi incisi nelle tombe di tutto l’impero, a un tempo pretenziosi e umili, che ci forniscono ricche e preziose informazioni sulla vita dei loro intestatari: le cariche che avevano rivestito, i mestieri che avevano fatto, i loro obiettivi, le loro aspirazioni e le loro preoccupazioni. Il nostro epitaffio commemora un uomo chiamato Lucio Cornelio Scipione Barbato ed è inciso sul lato anteriore del suo enorme sarcofago, che un tempo si trovava nella tomba di famiglia degli Scipioni poco fuori Roma (non era di solito concesso erigere tombe all’interno della città). Barbato fu console nel 298 a.C., morì attorno al 280 a.C. e quasi certamente fu il fondatore di questo imponente mausoleo, smaccata esibizione della potenza e del prestigio della sua famiglia, una delle più illustri di Roma. La sua sembra essere la prima di oltre una trentina di sepolture presenti all’interno del mausoleo, e il suo sarcofago fu collocato nella posizione più prestigiosa, proprio di fronte alla porta d’ingresso. L’epitaffio fu composto poco dopo la sua morte. Si dispone su quattro linee e rappresenta il più antico testo narrativo di carattere storico e biografico che ci sia giunto dall’antica Roma. Per quanto breve, segna un fondamentale punto di svolta per la nostra comprensione della storia romana. Ci fornisce infatti informazioni sostanzialmente contemporanee alla carriera di Barbato, ben diverse dalle sottili ricostruzioni e dai vaghi

indizi sepolti nel suolo o dalle moderne supposizioni su «ciò che dev’essere accaduto» di cui è ammantata la storia della caduta della monarchia. Ci offre un riflesso eloquente dell’ideologia e della visione del mondo dell’aristocrazia romana di quell’epoca: Cornelio Lucio Scipione Barbato, generato da Gnaeus suo padre, uomo forte e saggio, il cui aspetto era pari alla sua virtù, che fu console, censore ed edile fra voi – catturò Taurasia Cisaunia nel Sannio – soggiogò tutta la Lucania e ne tradusse ostaggi.

Chiunque sia l’autore di questo epitaffio (probabilmente uno degli eredi di Barbato) ha saputo individuare alla perfezione i momenti salienti della carriera del defunto. A Roma (apud vos, «fra voi») era stato eletto console e censore (al quale spettava il compito di registrare i cittadini e stabilire la loro ricchezza); era anche stato edile (carica di minore importanza la cui funzione principale, nel I secolo a.C., e probabilmente già prima, era il mantenimento della città e il suo rifornimento, nonché l’organizzazione di giochi e spettacoli pubblici). Sul campo, poteva vantarsi dei suoi successi militari nell’Italia meridionale, a oltre trecento chilometri di distanza da Roma: aveva conquistato due città dei sanniti, una popolazione con la quale i romani furono ripetutamente in guerra all’epoca di Barbato; e aveva sottomesso la regione della Lucania, prendendo diversi ostaggi al nemico (sistema regolarmente utilizzato dai romani per avere la garanzia di un «buon comportamento»). Queste imprese confermano l’importanza della guerra nell’immagine pubblica dell’élite romana, ma sono anche l’indizio dell’espansione militare di Roma all’inizio del III secolo a.C., ben oltre i territori limitrofi alla città. In una battaglia combattuta nel 295 a.C., tre anni dopo il consolato di Barbato e alla quale egli stesso prese parte, i romani sconfissero un esercito di italici a Sentino, non lontano dall’odierna Ancona. Fu la più grande e sanguinosa battaglia combattuta fino ad allora sulla penisola italiana, e di rilevanza tutt’altro che regionale, tanto che se ne diffuse la notizia molto rapidamente ed estesamente, anche per i rudimentali mezzi di comunicazione di quel tempo (messaggeri, passaparola e, in rare occasioni, un sistema di fuochi di segnalazione). Seduto nel suo studio sull’isola greca di Samo, a centinaia di chilometri di distanza, lo storico del III secolo a.C. Duride la ritenne un evento degno di essere ricordato, e possediamo un breve frammento del suo racconto.

25. Il maestoso sarcofago di Barbato dominava la grande tomba degli Scipioni. La sua grezza pietra locale (tufo) e il suo aspetto semplice, quasi rustico, sono in netto contrasto con i sarcofagi di marmo raffinatamente scolpiti usati dall’élite romana nei secoli successivi. Ma nel III secolo a.C. questo era il meglio che si poteva acquistare.

Ugualmente rivelatrici sono le altre caratteristiche che l’epitaffio mette in risalto come meritevoli di lode: il coraggio e la saggezza di Barbato, e la perfetta coincidenza tra il suo aspetto esteriore e la sua virtus. Questa parola può significare «virtù» nel senso moderno del termine, ma era spesso usata con un senso più specifico, per indicare la serie di qualità che definivano un «uomo» (vir): dal punto di vista romano, quindi, virtus equivale piuttosto a «virilità, coraggio». In ogni caso, Barbato era un uomo che mostrava queste qualità nel suo stesso volto. Sebbene l’immagine tipica dell’uomo romano non sia certamente quella di una persona che si cura del proprio aspetto esteriore, in questa società aperta, competitiva e di scontri personali ci si attendeva che un personaggio pubblico avesse un’apparenza degna del suo ruolo. Quando camminava per il Foro o si alzava per rivolgersi al popolo, le sue qualità interiori erano rivelate dal suo stesso aspetto e portamento. Quanto a Barbato, a meno che non avesse semplicemente ereditato il soprannome dal padre, doveva sfoggiare una splendida barba, fatto che al tempo doveva essere sempre più inconsueto.

Secondo una tradizione, i barbieri avevano iniziato a lavorare a Roma nel 300 a.C., e da allora in poi, per molti secoli, i romani tenevano il volto rasato. La Roma di Barbato era molto diversa dalla Roma dei primi giorni della repubblica, ben due secoli prima, e non era più una città come tutte le altre. Piuttosto estesa anche per i canoni di allora, ospitava una popolazione che, in base a una stima ragionevole, si aggirava tra le sessantamila e le novantamila persone. Ciò la poneva grosso modo allo stesso livello dei più grandi centri urbani del mondo mediterraneo: Atene, a quest’epoca, aveva una popolazione nettamente inferiore alla metà di quella di Roma, e in tutta la sua storia non aveva mai superato la cifra di quarantamila abitanti all’interno delle mura cittadine. Inoltre, Roma controllava direttamente una vasta distesa di territorio che si estendeva da una costa all’altra della penisola italiana, con una popolazione complessiva di oltre mezzo milione di abitanti, e, indirettamente (attraverso una serie di accordi e alleanze), un territorio ancora più vasto, preannuncio del suo successivo impero. La Roma di allora era organizzata in un modo che Cicerone e i suoi contemporanei, oltre due secoli dopo, avrebbero facilmente riconosciuto. Oltre ai due consoli annuali, c’era un’articolata serie di cariche inferiori, comprese quelle dei pretori e dei questori (i romani erano soliti chiamare queste cariche «magistrature», ma la loro funzione non era principalmente di tipo giuridico). Il Senato, composto in larga misura da coloro che avevano in precedenza rivestito una carica pubblica, agiva come un consiglio permanente, e l’organizzazione gerarchica dei cittadini e i comizi centuriati, falsamente attribuiti a Servio Tullio ed elogiati da Cicerone, formavano l’ossatura della macchina politica romana. Si potevano riconoscere altri aspetti familiari, come un esercito suddiviso in legioni, i rudimenti di un sistema ufficiale di coniazione e la costruzione di infrastrutture capaci di rispondere alle dimensioni e all’importanza della città. Nel 312 a.C. venne realizzato il primo acquedotto per il rifornimento idrico urbano, con un percorso in gran parte sotterraneo di circa quindici chilometri dalle vicine colline (nulla di paragonabile alle straordinarie e altissime costruzioni a cui ci fa spesso pensare la parola acquedotto). Esso fu opera di un contemporaneo di Barbato, il solerte Appio Claudio Cieco, che nello stesso anno inaugurò anche la prima importante strada romana, la Via Appia, che conduceva da Roma a Capua. Per quasi tutta la sua lunghezza la pavimentazione era, nel migliore dei casi, fatta di acciottolato, e non con i grandi blocchi di pietra su cui ancora camminiamo. Ma era un’utile strada per gli eserciti romani, una comoda via di comunicazione in periodi più

pacifici e un simbolo concreto della potenza e del controllo di Roma sul territorio italiano. Non fu certo un caso se Barbato decise di costruire il suo grande mausoleo di famiglia proprio su un fianco di questa via, appena fuori dai confini cittadini, affinché tutti i viaggiatori che entravano o uscivano da Roma potessero ammirarlo. Fu nel corso di questo periodo cruciale, dalla caduta dei Tarquini fino all’epoca di Scipione Barbato (circa 500-300 a.C.), che prese forma gran parte delle più caratteristiche istituzioni di Roma. I romani non si limitarono a definire i princìpi fondamentali della politica e delle libertà repubblicane, ma iniziarono anche a sviluppare i presupposti, le strutture e, per così dire, un modus operandi per la futura espansione imperiale. Ciò comportò una formulazione rivoluzionaria dell’identità romana, che fissò per secoli la sua concezione della cittadinanza, differenziò Roma da ogni altra città-stato dell’antichità e influenzò profondamente la visione moderna dei diritti e delle responsabilità del cittadino. Non è certo un caso se tanto Lord Palmerston quanto John F. Kennedy hanno orgogliosamente utilizzato l’espressione Civis Romanus sum come slogan per la propria epoca. In poche parole, Roma iniziò allora a essere e apparire «romana» come noi la intendiamo, e come gli stessi romani la intendevano. La grande domanda è: come, quando e perché ciò è avvenuto? E quali testimonianze possediamo per spiegare, o anche soltanto descrivere, il «grande balzo in avanti» compiuto da Roma? La cronologia rimane incerta, e risulta del tutto impossibile ricostruire una narrazione storica coerente e affidabile. Ma si possono comunque individuare le tracce di fondamentali mutamenti tanto all’interno della città quanto nelle sue relazioni con il mondo esterno. Gli storici romani di epoche successive ci offrono un quadro molto chiaro e drammatico della storia del V e del IV secolo a.C. Da un lato, raccontano una serie di violenti conflitti sociali all’interno della stessa Roma: tra un gruppo ereditario di famiglie «patrizie», che avevano il monopolio del potere politico e religioso, e la massa dei cittadini, o «plebei», che ne erano del tutto esclusi. Gradualmente (con una complessa e appassionata serie di vicende, in cui figurano scioperi, ammutinamenti e ancora un altro stupro) i plebei riuscirono a ottenere il diritto o, come essi avrebbero detto, la libertà di condividere il potere con i patrizi in grado quasi paritario. Dall’altro lato, descrivono una serie di fondamentali vittorie in battaglia grazie alle quali quasi tutta la penisola italiana era stata sottoposta al controllo romano. La prima di esse fu riportata nel 396 a.C., quando la grande rivale locale di Roma, la città etrusca di Veio, cadde dopo decenni di guerra, e l’ultima circa

un secolo dopo, quando la sconfitta dei sanniti fece di Roma la principale potenza dell’Italia, attirando l’attenzione dello storico Duride di Samo. Non fu tuttavia una storia di vittorie ed espansione senza ostacoli. Poco dopo la sconfitta di Veio, nel 390 a.C., una banda di predatori «galli» mise a sacco la città. Chi fossero esattamente questi «galli» è impossibile dire; gli autori romani non si preoccupavano di fare precise distinzioni tra coloro che appariva più conveniente raccogliere insieme sotto la definizione di «tribù barbare» del Nord, né si mostravano interessati ad analizzare i motivi che le spingevano a muoversi. Secondo Livio, comunque, gli effetti del sacco di Roma furono così devastanti che la città dovette essere nuovamente fondata (ancora una volta), sotto la guida di Marco Furio Camillo: condottiero, dittatore, «colonnello», vittima di «esilio» e «secondo Romolo». In questo caso ci troviamo su un terreno ben più solido di quello su cui abbiamo camminato finora. Senza dubbio, nel 300 a.C. dovevano passare ancora molti decenni prima della nascita della più antica letteratura romana, e i successivi resoconti su questo periodo sono zeppi di miti, abbellimenti e pure invenzioni. Camillo è probabilmente una figura non meno fittizia di Romolo, e abbiamo già visto come lo stesso Catilina usò le proprie parole come se fossero state quelle di un antico rivoluzionario repubblicano, la cui memoria non avrebbe mai potuto sopravvivere. Ciononostante, la fine di questo periodo si trova ormai sulla soglia della storia e della storiografia come noi stessi la intendiamo, a un livello nettamente superiore rispetto a quello di un semplice epitaffio in quattro linee. Per esprimerci in termini più precisi, quando il senatore Quinto Fabio Pittore, nato attorno al 270 a.C., decise di scrivere il primo resoconto dettagliato del passato di Roma, avrebbe potuto benissimo ricordarsi di avere chiacchierato in giovinezza con testimoni oculari degli eventi della fine del IV secolo a.C. o con uomini appartenenti alla generazione di Barbato. L’opera di Fabio Pittore non ci è giunta, fatta eccezione per qualche citazione in autori successivi, ma era ben nota nel mondo antico. Il nome di Fabio Pittore e una breve sinossi del suo testo sono stati ritrovati dipinti sui muri di una delle pochissime biblioteche antiche scavate dagli archeologi, a Taormina, in Sicilia: una sorta di combinazione tra una pubblicità e un catalogo librario. Duemila anni dopo, possiamo ancora leggere Livio, che aveva letto Fabio Pittore, il quale aveva parlato con uomini che ricordavano per esperienza diretta com’era il mondo attorno al 300 a.C.: una fragile catena che ci riporta fino alla più remota antichità. Ci restano anche, in misura sempre maggiore, frammenti di

testimonianze coeve, che possiamo confrontare con i dati fornitici dagli storici romani o utilizzare per tracciare un quadro diverso e alternativo. L’epitaffio che riassume la carriera di Barbato è uno di essi. Trattando questo periodo, Livio afferma che i romani stipularono un’alleanza con la Lucania (anziché soggiogarla) e ricorda gli scontri guidati da Barbato in un’altra zona dell’Italia settentrionale, peraltro senza grandi successi. Ovviamente, è probabile che l’epitaffio esagerasse le imprese di Barbato, e che l’élite romana preferisse presentare un’«alleanza» nei termini di una «sottomissione»; ma può comunque servirci a correggere il resoconto, leggermente confuso, fornitoci da Livio. Possediamo un certo numero di altre simili testimonianze frammentarie, tra cui una serie di sorprendenti pitture databili a questo periodo, che raffigurano episodi relativi alle guerre in cui aveva combattuto Barbato. La testimonianza più straordinaria e più rivelatrice è tuttavia offerta dall’ottantina di brevi sentenze riunite nella prima raccolta scritta di regole e prescrizioni (o «leggi», per usare il pomposo termine impiegato da quasi tutti gli scrittori antichi), composta verso la metà del V secolo a.C. e faticosamente ricostruita grazie al secolare e scrupoloso lavoro degli studiosi moderni. Questa raccolta è nota con il nome di «Leggi delle Dodici Tavole», dalle dodici tavole di bronzo sulla quale era stata incisa ed esposta al pubblico. Ci permette di aprire una finestra sulle preoccupazioni dei romani dei primi tempi repubblicani, dai timori per i sortilegi magici fino a intricate questioni come, per esempio, se fosse lecito seppellire un uomo al quale non fossero ancora stati levati i denti d’oro che gli erano stati impiantati (fornendoci un’indiretta informazione sulle capacità degli antichi dentisti, confermata dall’archeologia). Dobbiamo perciò rivolgere la nostra attenzione alle Dodici Tavole prima di esaminare i successivi radicali mutamenti, interni come esterni. Ricostruire la storia di questo periodo è un lavoro affascinante e talvolta eccitante, e parte del divertimento sta proprio nel domandarsi come si possano comporre alcune tessere di questo puzzle incompleto e nello scoprire la differenza tra realtà e fantasia. A ogni modo, è già stato ricollocato al proprio posto un numero sufficiente di tessere per lasciarci affermare con sicurezza che a Roma la svolta decisiva si ebbe nel IV secolo a.C., durante la generazione di Barbato e Appio Claudio Cieco e quella dei loro immediati predecessori, e che quel che allora accadde, per quanto sia difficile da ricostruire nei dettagli, ha stabilito un modello per la politica romana, sia interna che estera, destinato a durare per secoli.

Il mondo delle Dodici Tavole Il regime repubblicano iniziò piuttosto in sordina che con il botto. Gli storici romani avevano numerosi e appassionanti episodi da raccontare sul nuovo ordinamento politico, su grandiose guerre combattute nei primi decenni del V secolo a.C. e su straordinari eroi e malvagie canaglie, che sono diventati tema anche di molte leggende moderne. Lucio Quinzio Cincinnato, per esempio, che più di duemila anni dopo la sua morte ha dato il proprio nome alla città americana di Cincinnati, sarebbe rientrato da un esilio temporaneo attorno alla metà del V secolo a.C., venendo poi nominato dittatore e guidando le armate romane alla vittoria contro i propri nemici; dopodiché, si sarebbe nobilmente ritirato nella sua fattoria senza aspirare a una maggiore gloria politica. Viceversa, Gaio Marcio Coriolano, che ha ispirato l’omonima tragedia di Shakespeare, era, a quanto pare, un eroe di guerra, che, attorno al 490 a.C., aveva tradito la propria patria passando al nemico; e avrebbe invaso la sua stessa città natia se la madre e la moglie non fossero intervenute per dissuaderlo. Ma la realtà storica ci appare alquanto diversa, e di ben minori proporzioni. Quale che fosse stata l’organizzazione politica di Roma al momento della caduta dei Tarquini, gli scavi archeologici dimostrano chiaramente che, per la gran parte del V secolo a.C., la città non poteva certo dirsi prospera e fiorente. Un tempio del VI secolo a.C., talvolta collegato al nome di Servio Tullio, fa parte del gruppo di edifici bruciati in una serie di incendi attorno al 500 a.C., e non venne ricostruito per vari decenni. Si osserva anche una netta riduzione nelle importazioni di ceramica greca (un affidabile indicatore del livello di prosperità). In poche parole, se la fine del periodo monarchico può essere giustamente condensata nell’espressione «La Grande Roma dei Tarquini», i primi anni della repubblica furono caratterizzati da un’atmosfera molto meno grandiosa. Le eroiche guerre che figurano in modo così preminente nelle pagine degli storici romani possono anche avere avuto una grande importanza nell’immaginario romano, ma rimangono comunque dei conflitti di carattere locale, combattuti entro un raggio di pochi chilometri dalla città. La cosa più probabile è che si trattasse di tradizionali razzie tra comunità vicine, poi anacronisticamente presentate come scontri militari veri e propri. Senza dubbio, erano perlopiù spedizioni condotte ancora su iniziativa semiprivata, e guidate da

condottieri indipendenti. Questo, almeno, è ciò che ci fa supporre un celebre episodio avvenuto all’inizio degli anni Settanta del V secolo a.C., quando 306 romani erano caduti vittime di un’imboscata. Si diceva che tutti costoro erano membri di una sola famiglia, quella dei Fabi, accompagnati dai loro dipendenti, tirapiedi e clienti; insomma, più una grossa gang che un vero e proprio esercito.

26. Il contadino che salvò lo stato. Questa statua del XX secolo, che si trova a Cincinnati, in

Ohio, mostra Cincinnato che restituisce le insegne della sua carica pubblica e torna all’aratro. Molte storie romane lo presentavano secondo questa immagine di patriota severo, ma c’era anche un’altra immagine, quella di irriducibile avversario dei diritti della plebe e dei poveri di Roma.

Le Dodici Tavole ci offrono il miglior antidoto contro questi successivi racconti eroicizzanti. Le originarie tavole bronzee non sono giunte fino a noi. Ma il loro contenuto è stato almeno parzialmente conservato, perché i romani continuarono a considerare questa eterogenea collezione di regole il punto iniziale della loro illustre tradizione giuridica. Ciò che era stato inciso nel bronzo venne ben presto ricopiato in forma manoscritta e, come ci racconta Cicerone, continuava a essere imparato a memoria dagli studenti del I secolo a.C. Anche quando avevano ormai perduto da tempo ogni valore pratico, le leggi delle Dodici Tavole seguitarono a essere ripubblicate, e vennero scritti numerosi saggi eruditi sul significato delle singole sentenze, sulla loro importanza giuridica e sulla loro forma linguistica (con grande irritazione di alcuni avvocati del II secolo d.C., che ritenevano i loro fin troppo colti colleghi eccessivamente interessati alle difficoltà linguistiche delle più antiche leggi romane). Di questa voluminosa letteratura non ci è pervenuto quasi nulla in modo completo. Ma ne rimangono varie citazioni o parafrasi nelle opere di altri autori che si sono invece conservate; ed esaminando approfonditamente queste frammentarie testimonianze, sparse negli angoli più remoti della letteratura latina, gli studiosi sono riusciti a individuare le circa ottanta sentenze contenute nelle celebri tavole del V secolo a.C. È stato un lavoro estremamente tecnico, e ci sono ancora feroci discussioni sulla forma precisa delle sentenze, sulla misura in cui possano essere considerate una selezione rappresentativa del documento originale e sull’accuratezza delle citazioni riportate dagli autori romani. È indubbio che si sia operata una certa modernizzazione: il latino appare arcaico, ma non abbastanza per corrispondere a quello del V secolo a.C., e in certi casi le parafrasi degli autori romani rivelano il tentativo di accordare il senso originario con le procedure legali a loro contemporanee. In altri casi, anche i giuristi più eruditi fraintendevano ciò che leggevano nelle Dodici Tavole. L’idea che un debitore insolvente rispetto a diversi creditori potesse essere condannato a morte, e il suo corpo spartito tra questi in porzioni stabilite in base alla cifra dovuta, sembra appunto il frutto di un simile

fraintendimento (o almeno questa è la speranza di molti studiosi moderni). Allo stesso tempo, tali citazioni ci offrono la via più diretta per entrare nella società della metà del V secolo a.C., osservare le sue case e le sue famiglie, ascoltare le sue preoccupazioni e conoscere i suoi orizzonti intellettuali. È una società assai più semplice, e con orizzonti ben più ristretti, rispetto a quella che farebbe immaginare la descrizione di Livio. Ciò risulta chiaramente tanto dalla lingua e dalle forme espressive quanto dal contenuto delle sentenze. Anche se le traduzioni moderne si sforzano di far sembrare tutto abbastanza chiaro e preciso, l’originaria formulazione latina è ben lungi dall’esserlo. In particolare, la mancanza di sostantivi concreti e di una chiara distinzione del referente pronominale rende spesso quasi impossibile capire chi sia attore e chi destinatario dell’azione. Facciamo un esempio concreto. Il testo latino della prima sentenza [1,1] recita: Si in ius vocat ito ni it antestamino igitur em capito (in latino classico: Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino: Igitur quem capitur), che, tradotto letteralmente, suona: «Se egli chiama in giudizio, egli deve andare. Se egli non va, egli deve chiamare dei testimoni, poi lo si catturi», e significa presumibilmente, come viene reso di solito: «Se uno è chiamato in giudizio, vada. Se non va, si prendano testimoni: poi lo si catturi». Ma questo non è ciò che dice letteralmente il testo. Insomma, tutto indica che chi ha redatto questa e molte altre sentenze delle Dodici Tavole stava ancora lottando con la difficoltà di dare formulazione scritta a precise regolamentazioni, e che le convenzioni dell’argomentazione logica e dell’espressione razionale erano ancora allo stato nascente. Ciononostante, lo stesso tentativo di una registrazione formale di questo tipo rappresenta un passo fondamentale di quel processo che oggi spesso definiamo formazione statale. In molte società arcaiche un punto di svolta cruciale è proprio la codificazione della legge, per quanto ancora in forma molto rudimentale e parziale. Nell’Atene del VII secolo a.C., per esempio, l’opera compiuta da Dracone, sebbene oggi sia diventata sinonimo di severità e durezza («draconiano»), costituisce per la Grecia il primo tentativo di mettere per iscritto disposizioni che si erano tramandate oralmente; e già mille anni prima, a Babilonia, il codice di Hammurabi aveva avuto lo stesso scopo. Le Dodici Tavole si inseriscono sostanzialmente in questo schema. Non rappresentano in alcun modo un codice legale completo e integrale, e con ogni probabilità non sono mai state intese in questo senso. A meno che le citazioni che ci sono pervenute non distorcano radicalmente il quadro, non risulta essere presente alcuna disposizione

inerente al diritto pubblico e costituzionale. Ciò che vi appare presupposto è piuttosto il rispetto di procedure condivise e pubblicamente riconosciute per risolvere controversie di vario genere, con l’aggiunta di qualche riflessione su come affrontare gli eventuali ostacoli pratici e teorici che si potevano presentare. Che cosa si doveva fare, per esempio, se l’imputato era troppo anziano per recarsi di persona a sostenere le accuse della parte lesa? Risposta: quest’ultimo doveva fornire un animale per il suo trasporto. Come ci si doveva comportare se il colpevole era un bambino? In tal caso, la pena, anziché l’impiccagione, poteva essere ridotta a una semplice bastonatura, una distinzione che preannuncia le nostre concezioni sulla non responsabilità criminale dei minori. I temi trattati da queste regolamentazioni ci mostrano un mondo di molteplici disuguaglianze. C’erano diversi tipi di schiavi, dai debitori insolventi caduti in una sorta di asservimento per debiti fino ai veri e propri schiavi, probabilmente (sebbene sia soltanto un’ipotesi) catturati nel corso di guerre o razzie. E la loro inferiorità era esplicitamente codificata: la pena per un’aggressione contro uno schiavo è solo la metà di quella stabilita per l’aggressione contro un uomo libero; uno schiavo poteva essere condannato a morte per un reato che a un uomo libero non sarebbe costato più di una bastonatura. Ma alcuni schiavi potevano ottenere infine la libertà, come risulta chiaro dal riferimento a un ex schiavo, o «liberto» (libertus). C’era una precisa gerarchia anche all’interno della popolazione di condizione libera. Una sentenza stabilisce la distinzione tra patrizi e plebei, un’altra quella tra assidui (coloro che possedevano delle proprietà) e proletarii (coloro che erano privi di proprietà), il cui unico contributo alla città era la produzione di figli (proles). Un’altra ancora allude a «patroni» e «clienti» e a un rapporto di dipendenza e reciproci obblighi tra cittadini ricchi e poveri, che rimase fondamentale per tutto il corso della storia romana. Il principio essenziale è che il cliente dipendeva dal suo patrono per protezione e assistenza, finanziaria o di altro genere, in cambio di una serie di servizi, tra i quali il sostegno nelle elezioni. La letteratura latina di epoche successive è piena dell’altisonante retorica dei patroni sulle virtù di questo rapporto, come anche delle tristi lamentele dei clienti per le umiliazioni che devono subire per procurarsi un misero pasto. La sentenza delle Dodici Tavole dichiara soltanto: Patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto («Se il patrono inganna il suo cliente, sia consacrato alla divinità» [8,21], qualsiasi cosa ciò effettivamente significhi). Nella maggior parte dei casi, le Dodici Tavole si occupano di problemi

domestici, con particolare attenzione alla vita familiare, ai difficili rapporti di vicinato, e alle questioni relative alla proprietà privata e alla successione dei beni. Sono stabilite precise procedure per l’abbandono o l’uccisione di bambini deformi (una pratica comune in tutta l’antichità, eufemisticamente chiamata «esposizione» dagli studiosi moderni), per l’appropriata esecuzione dei funerali e per la trasmissione dell’eredità. Vi sono disposizioni che proibiscono alle donne di ferirsi il volto nelle manifestazioni di lutto, oppure di erigere le pire funerarie troppo vicino alla casa di qualcuno, o ancora di seppellire oggetti d’oro (tranne le protesi dentali) insieme al cadavere. Un altro tema importante sono i danni causati volontariamente o per caso. Era un mondo in cui la gente voleva sapere come doveva comportarsi se per caso l’albero del vicino faceva troppa ombra sulla sua proprietà (soluzione: doveva essere tagliato fino a una specifica altezza), o se gli animali di costui entravano sul suo terreno facendone scempio (soluzione: il danno doveva essere ripagato oppure si dovevano consegnare gli animali). Si aveva paura delle effrazioni dei ladri notturni (che dovevano essere puniti in modo più severo di quelli diurni), delle devastazioni dei propri campi compiute da bande di vandali, e ci si preoccupava dell’eventualità che un innocente potesse rimanere accidentalmente ferito da colpi vaganti. E, se tutto questo suona troppo familiare, era anche un mondo in cui la gente temeva la magia. Che cosa si doveva fare se qualche nemico o rivale operava una stregoneria sul tuo raccolto o ti lanciava contro una maledizione? Purtroppo, il rimedio previsto in tal caso è andato perduto. A giudicare dalle Dodici Tavole, attorno alla metà del V secolo a.C. Roma era una città agricola, abbastanza sviluppata e articolata per stabilire distinzioni fondamentali tra liberi e schiavi e tra diverse classi di cittadini, e sufficientemente evoluta per definire una serie di procedure formali atte a risolvere le controversie, regolare i rapporti sociali e familiari e imporre alcune regole essenziali su determinate pratiche, come la sepoltura dei morti. Ma non c’è nulla più di questo. La formulazione estremamente rudimentale delle disposizioni, in certi casi ambigua o addirittura fuorviante, ci spinge a mettere in dubbio, almeno in parte, i riferimenti di Livio e altri autori antichi a complicate leggi e trattati emanati e stipulati in quest’epoca. Anche l’assenza, almeno dalla selezione di sentenze giunta fino a noi, di qualsiasi riferimento a un magistrato pubblico, fatta eccezione per una vergine vestale (la quale, in quanto sacerdotessa, era sottratta all’autorità del proprio padre), non avvalora l’idea di un apparato statale

complesso ed efficiente. Per di più, non si fa praticamente alcuna allusione al mondo esterno a Roma, a parte un paio di clausole su come debbano essere applicate determinate regole nel caso di un hostis (ossia di uno «straniero» o di un «nemico»: il medesimo termine latino, significativamente, può indicare entrambe le cose) e un possibile riferimento alla vendita come schiavi «in un paese straniero al di là del Tevere» quale punizione massima per i debitori. È probabile che questa raccolta fosse deliberatamente indirizzata a questioni di natura interna piuttosto che esterna. Allo stesso modo, nelle Dodici Tavole non si rintraccia alcun indizio che ci faccia pensare a una comunità che dava particolare importanza alle relazioni esterne, che fossero di dominio, sfruttamento o amicizia. È l’immagine di un mondo e di una città lontanissimi da quelli dell’epoca di Cicerone, o anche di Scipione Barbato e Appio Claudio Cieco, poco più di un secolo dopo, con i suoi edifici pubblici, la nuova strada che conduceva a Capua e le vanterie sugli ostaggi lucani. Che cosa era mutato, e quando?

Il conflitto delle classi Innanzitutto, che cosa era avvenuto nella politica romana? Le Dodici Tavole furono una delle conseguenze di ciò che oggi è spesso definito il conflitto delle classi, o «ordini» (la parola latina ordo ha, tra i suoi vari significati, quello di «rango sociale»), che, secondo gli autori latini, dominò la politica interna di Roma nei due secoli successivi alla caduta della monarchia. Questo conflitto fu la lotta dei plebei per l’ottenimento dei pieni diritti politici e dell’uguaglianza rispetto ai patrizi, i quali si mostrarono sempre piuttosto restii a rinunciare al proprio monopolio ereditario del potere. Nei secoli successivi i romani videro in tale conflitto un’eroica difesa della libertà politica del comune cittadino, ed esso ha lasciato il proprio segno anche sulla politica e il vocabolario politico del mondo moderno. Il termine plebeo continua ad avere per noi un significato particolarmente forte: ancora nel 2012, un politico conservatore inglese, accusato di avere insultato un poliziotto chiamandolo pleb (abbreviazione di plebeian), è stato costretto a rassegnare le dimissioni dal governo. Fu soltanto pochi anni dopo la fondazione della repubblica, all’inizio del V secolo a.C., che i plebei cominciarono a protestare per la loro esclusione dal potere e per lo sfruttamento cui erano sottoposti dai patrizi. Per quale motivo combattere le guerre di Roma – continuavano a domandare – se tutti i frutti e i guadagni del loro servizio finivano nelle tasche dei patrizi? Come potevano considerarsi cittadini a pieno titolo, quando erano vittime di punizioni casuali e arbitrarie e condannati addirittura alla schiavitù se non riuscivano a pagare i propri debiti? Che diritto avevano i patrizi di tenere sottomessi i plebei come una classe inferiore? O, per citare le parole che Livio mette in bocca a un riformatore plebeo, con toni che ricordano sorprendentemente l’opposizione del XX secolo all’apartheid: Perché non fate approvare una legge per proibire ai plebei di vivere vicino ai patrizi, di camminare nella stessa strada, di andare alle stesse feste o di stare fianco a fianco nel Foro?

Oppressi dal problema dei debiti, nel 494 a.C. i plebei misero in atto la prima di una lunga serie di secessioni di massa dalla città, una sorta di combinazione tra un ammutinamento e uno sciopero, sperando di

costringere i patrizi ad accettare un processo di riforme. Fu una mossa vincente, perché diede avvio a un’altrettanto lunga serie di concessioni che eliminarono progressivamente le più sostanziali differenze tra patrizi e plebei, e diedero un nuovo assetto alla struttura del potere politico della città. Due secoli più tardi, dei privilegi patrizi non restava altro che il diritto di detenere qualche veneranda carica sacerdotale e di indossare un particolare tipo di calzature. La prima riforma approvata nel 494 a.C. fu la nomina dei tribuni della plebe (tribuni plebis), cui spettava il compito di rappresentare e difendere gli interessi dei plebei. Quindi fu costituita un’assemblea speciale riservata esclusivamente ai plebei (comizi tributi). Come i comizi centuriati, anche i comizi tributi votavano per gruppi, ma il loro sistema di composizione era profondamente diverso: non si fondavano su una gerarchia definita dalla ricchezza. Al contrario, le circoscrizioni elettorali erano definite su base geografica, con gli elettori distribuiti in tribù (tribus), o suddivisioni regionali del territorio romano (il concetto latino non ha nulla a che fare con il significato di raggruppamento etnico che il termine tribù ha assunto nell’uso moderno). Infine, dopo un’ultima secessione, con una riforma approvata nel 287 a.C., e alla quale avrebbe potuto assistere personalmente lo stesso Scipione Barbato, alle decisioni prese da questa assemblea fu conferito automatico valore di legge per tutti i cittadini romani. In altre parole, a un’istituzione plebea venne concesso il diritto di legiferare in nome dello stato e anche su di esso. Tra il 494 e il 287 a.C., in un clima turbolento intriso di retorica, scioperi e minacce di violenza, tutte le magistrature e le cariche sacerdotali più importanti furono una dopo l’altra aperte ai plebei e la loro condizione di inferiorità venne smantellata. I plebei riportarono una delle loro più celebri vittorie nel 326 a.C., allorché venne abolita la schiavitù per debiti, stabilendo il principio che la libertà era un diritto inviolabile di ogni cittadino romano. Un’altra decisiva pietra miliare, anche se più strettamente politica, era stata posta quarant’anni prima, nel 367 a.C. Dopo decenni di ostinati rifiuti e inflessibili pretese dei patrizi più irriducibili, secondo i quali «sarebbe stato un crimine contro gli dèi permettere a un plebeo di diventare console», si decise di aprire ai plebei uno dei due posti di console. A partire dal 342 a.C. si accettò che entrambi i consoli potessero essere plebei, se così decretato dalle elezioni. Gli eventi senza dubbio più drammatici dell’intero conflitto si legano alla stesura delle Dodici Tavole, verso la metà del V secolo a.C. Le «leggi» che si

sono preservate possono anche apparire estremamente brevi, allusive e persino un po’ aride, ma, almeno secondo la storia narrata dai romani, furono redatte in un’atmosfera tragica, intrisa di inganni, accuse di tirannia, tentati stupri e omicidi. Per molti anni, così si raccontava, i plebei avevano richiesto che le «leggi» cittadine fossero rese pubbliche, sottraendole al monopolio dei patrizi, che ne avevano fatto uno strumento segreto a vantaggio dei propri interessi. Nel 451 a.C. si decretò la sospensione delle normali magistrature politiche e la nomina di dieci uomini (decemviri), ai quali era affidato il compito di raccogliere, sistemare e pubblicare le leggi. Nel primo anno di lavoro, i decemviri riuscirono a completare dieci tavole di leggi, ma l’opera non era ancora terminata. Di conseguenza, venne nominato un nuovo comitato per l’anno successivo, che tuttavia si dimostrò di orientamento molto diverso, decisamente conservatore. Questo secondo comitato redasse le ultime due tavole, introducendo una famigerata clausola che proibiva i matrimoni tra patrizi e plebei. Sebbene l’iniziativa che aveva portato alla stesura delle leggi fosse stata in origine mossa da uno spirito riformista, si trasformò nel più radicale tentativo di mantenere rigidamente separati i due gruppi: «la legge più disumana», come la definisce Cicerone, del tutto contraria allo spirito di apertura romano. Ma il peggio doveva ancora venire. Il secondo decemvirato (i Dieci Tarquini, come è talvolta definito) iniziò a comportarsi come una banda di tiranni, senza escludere nemmeno la violenza sessuale. In una sorta di replica dello stupro di Lucrezia (che aveva portato alla fondazione della repubblica), un membro del comitato, il patrizio Appio Claudio (un antenato del costruttore della celebre Via Appia) pretese di unirsi sessualmente con una giovane donna plebea, opportunamente chiamata Virginia, non ancora sposata ma già promessa. Poi venne architettato un piano di inganno e corruzione. Appio costrinse uno dei suoi tirapiedi a sostenere che costei fosse una sua schiava e che fosse stata rapita dal suo sedicente padre. Il giudice preposto al caso era lo stesso Appio, il quale si espresse naturalmente in favore del suo complice, e iniziò ad attraversare il Foro per catturare Virginia. Nella confusione che ne seguì, il padre della ragazza, Lucio Virginio, afferrò un coltello che si trovava nella vicina bottega di un macellaio e la trafisse a morte esclamando: «Figlia mia, con l’unico mezzo che mi è consentito io ti restituisco la libertà».

27. Una carica che rimase quasi sempre riservata ai patrizi era quella del flaminato (antichi sacerdoti di alcune delle divinità principali). Un gruppo di questi sacerdoti, riconoscibili grazie al loro strano copricapo, è raffigurato sull’Ara Pacis di Augusto (cfr. fig. 65).

La storia di Virginia è sempre apparsa ancora più inquietante di quella di Lucrezia. Non soltanto mette insieme l’omicidio di ambito familiare con la brutalità del conflitto di classe ma solleva anche, inevitabilmente, la questione del prezzo che si deve pagare per la castità. Che modello di genitorialità paterna è mai questo? Chi era il vero colpevole? I princìpi più elevati dovevano essere fatti valere anche a un prezzo così spaventoso? In ogni caso, il tentato stupro si rivelò ancora una volta la scintilla per un nuovo mutamento politico. L’esposizione del cadavere di Virginia e un appassionato discorso rivolto dal padre ai commilitoni provocarono lo scoppio di rivolte, ammutinamenti, lo scioglimento del tirannico decemvirato e infine, come scrive Livio, portarono al recupero della libertà. Nonostante la macchia di tirannia, le Dodici Tavole vennero conservate, e vennero ben presto considerate il venerando modello della legislazione romana, fatta eccezione per il divieto di matrimonio fra patrizi e plebei, che fu quasi subito abrogato. La storia del conflitto fra patrizi e plebei rappresenta uno dei più radicali

e coerenti manifesti del potere e della libertà del popolo che ci siano giunti dal mondo antico, ben più radicale di qualsiasi cosa giuntaci dalla democratica Atene d’epoca classica, i cui principali scrittori, quando non avevano nulla di esplicito da dire sul tema, si mostravano comunque generalmente ostili alla democrazia e al potere popolare. Considerate nel loro complesso, le richieste dei plebei compongono un programma sistematico di riforma politica, fondato su diversi aspetti della libertà del cittadino, dalla libertà di partecipare al governo dello stato e di condividerne i vantaggi fino alla libertà dallo sfruttamento e alla libertà di informazione. Non sorprende affatto che, in molti paesi, i movimenti della classe operaia del XIX e dell’inizio del XX secolo abbiano trovato un memorabile precedente, e una retorica vincente, nella storia del conflitto fra patrizi e plebei, nel modo in cui il popolo romano riuscì a ottenere concessioni dall’aristocrazia ereditaria dei patrizi e ad assicurarsi pieni diritti politici. Né tantomeno sorprende che i primi sindacati abbiano guardato alle secessioni della plebe come a un efficace modello per l’organizzazione di scioperi. Ma la storia di questo conflitto, così come ci viene narrata dai romani, è davvero corretta? E in quale luce pone il «grande balzo in avanti» di Roma? Qui diventa molto più difficile ricomporre le tessere del mosaico, anche se il quadro generale, e alcune date particolarmente importanti, appaiono abbastanza certi. Molti elementi della storia, come ci è pervenuta, devono essere sbagliati, profondamente modernizzati da autori successivi o, specie per le prime fasi del conflitto, ancora avvolti più dal mito che dalla storia. Virginia è probabilmente una figura non meno leggendaria di Lucrezia. Inoltre c’è un’imbarazzante contraddizione tra le sentenze delle Dodici Tavole e la complessa vicenda dei decemviri. Se questa raccolta è il frutto diretto degli scontri tra patrizi e plebei, perché, nei frammenti che ci sono pervenuti, si ha soltanto un solo riferimento a questa contrapposizione (relativamente al divieto di matrimonio fra membri delle due classi)? Gran parte delle argomentazioni, e ancor più della retorica, dei primi riformisti plebei rappresenta di sicuro una fantasiosa ricostruzione degli scrittori del I secolo a.C., influenzata dai sofisticati dibattiti della loro epoca, anziché essere il riflesso del mondo delle Dodici Tavole, e costituisce probabilmente una testimonianza importante più per l’ideologia politica popolare di un periodo successivo che per il conflitto fra patrizi e plebei. Per di più, sebbene i romani fossero convinti che l’esclusione dei plebei dal potere risalisse alla caduta della monarchia, ci sono diverse ragioni per supporre

che essa si sia determinata soltanto nel corso del V secolo a.C. La lista canonica dei consoli, per esempio, pur essendo in parte fittizia, contiene, per l’inizio del V secolo a.C., diversi nomi di origine chiaramente plebea (compreso quello del primo console, lo stesso Lucio Giunio Bruto), che invece scompaiono del tutto nella seconda metà del secolo. Detto questo, non c’è dubbio che il V e il IV secolo a.C. furono a lungo caratterizzati da scontri sociali e politici tra una minoranza privilegiata ereditaria e il resto della popolazione. Più di cinquecento anni dopo, la distinzione formale tra famiglie patrizie e plebee esisteva ancora, come uno di quei «fossili» di cui ho parlato prima, con un sentore di snobismo e nulla più. Sarebbe difficile spiegare la persistenza di tale distinzione se la differenza tra i due gruppi non fosse stata in precedenza un segno caratteristico di potenza politica, sociale ed economica. Ci sono altre valide ragioni per ritenere il 367 a.C. un anno di svolta, sebbene non nel senso in cui si immaginavano gli storici romani. A loro giudizio, si produsse allora quella svolta rivoluzionaria in cui si decise non soltanto che il consolato doveva essere aperto ai plebei, ma anche che uno dei due consoli doveva essere sempre un plebeo. Se questo è vero, la legge fu violata nel momento stesso in cui venne emanata, visto che, negli anni successivi, parecchie volte due nomi patrizi sono registrati come consoli. Livio riconobbe il problema e sostenne, in modo poco convincente, che i plebei si accontentavano di avere ottenuto il diritto al consolato e non si davano molto pensiero di essere eletti. È assai più probabile che non vi fosse alcuna disposizione relativa all’obbligatorietà di un console plebeo, e che il 367 a.C. sia l’anno in cui venne stabilito su base permanente il consolato come più importante carica dello stato, presumibilmente aperta sia ai patrizi che ai plebei. Questa ricostruzione si accorda con altri due indizi importanti. In primo luogo, anche secondo la tradizione storica romana, per la maggior parte degli anni tra il 420 e il 367 a.C. come supremi magistrati dello stato figurano i misteriosi «colonnelli». Le cose cambiano definitivamente nel 367: da questo momento in poi i consoli rappresentano la norma per tutto il resto della storia romana. In secondo luogo, è molto probabile che il Senato raggiungesse la sua forma definitiva proprio in questo periodo. Gli autori romani davano quasi per scontato che le origini del Senato risalissero ai tempi di Romolo, come consiglio degli «anziani» (senes), e che nel V secolo a.C. fosse ormai un’istituzione pienamente sviluppata, che operava in sostanza come ai tempi di Cicerone. Una voce estremamente tecnica di un

antico dizionario romano sottintende una versione molto diversa, facendo supporre che soltanto verso la metà del IV secolo a.C. il Senato sia stato costituito come organismo permanente con membri nominati a vita, cessando di essere semplicemente un gruppo di amici e consiglieri riunito ad hoc per aiutare i magistrati in carica (quali che essi fossero), senza mantenere una propria continuità di anno in anno, o persino di giorno in giorno. Se questa versione è corretta (e, naturalmente, non tutte le informazioni fornite da testi di natura tecnica lo sono), confermerebbe l’idea che il sistema politico romano abbia assunto la propria forma caratteristica verso la metà del IV secolo a.C. Anche se elementi precorritori come le assemblee e il censo potevano essere già da lungo presenti, Roma, per almeno un secolo dopo il 509 a.C., non ebbe ancora una forma tipicamente «romana». Quindi ciò che troviamo descritto sulla tomba di Barbato non è la carriera tradizionale di un membro tradizionale dell’aristocrazia romana, anche se in seguito venne considerata proprio in questo modo. Sepolto all’inizio del III secolo a.C., Barbato fu in realtà il rappresentante dell’ancora relativamente nuovo ordinamento repubblicano tanto in patria quanto, come ora vedremo, all’esterno di essa.

Il mondo esterno: Veio e Roma L’espansione della potenza romana in Italia fu un processo straordinario. È facile restare abbagliati, o sbigottiti, dal successivo impero romano d’oltremare, che, al suo apice, arrivò a estendersi su oltre tre milioni di chilometri quadrati, e dare per scontato che l’Italia fosse romana. Ma la trasformazione, avvenuta tra il 509 a.C. e gli anni Novanta del III secolo a.C., della piccola città sul Tevere in un organismo politico esteso su oltre 7500 chilometri quadrati, capace di esercitare un effettivo controllo su almeno metà della penisola italiana, appare almeno altrettanto stupefacente. Come si è prodotta? E quando? Per quanto ne sappiamo, attorno al 400 a.C. le relazioni di Roma con il mondo esterno erano praticamente irrilevanti. I suoi rapporti commerciali con il mondo mediterraneo non si differenziavano da quelli di una qualsiasi città italica. Le sue relazioni dirette erano prevalentemente locali, soprattutto con le comunità latine a sud, con le quali Roma aveva in comune la medesima lingua e l’idea di una medesima origine, nonché parecchie festività religiose e luoghi sacri. Si può soltanto dire che, alla fine del VI secolo a.C., i romani esercitassero già qualche tipo di controllo su alcune comunità latine. Cicerone e Polibio (uno storico greco acuto osservatore di Roma, del quale riparleremo più dettagliatamente nel prossimo capitolo) affermano di avere visto documenti, o «trattati», risalenti a questo periodo, lasciando supporre che Roma fosse allora il centro guida di questo piccolo mondo latino, dagli orizzonti ancora alquanto limitati. Come abbiamo visto, anche la storia del V secolo a.C. mostra un quadro di scontri militari di cadenza grosso modo annuale, ma di portata limitata, malgrado i grandiosi tratti con i quali sono stati poi dipinti e lodati. Molto semplicemente, la piccola città di Roma non sarebbe sopravvissuta se per diversi decenni di seguito avesse subìto perdite ingenti. La svolta si ebbe all’inizio del IV secolo a.C., con due eventi che hanno un ruolo fondamentale, e profondamente mitologizzato, in tutte le antiche narrazioni sull’espansione di Roma: la distruzione della vicina città di Veio sotto la guida dell’eroico Camillo, nel 396 a.C., e la distruzione di Roma per mano dei galli nel 390 a.C. I motivi dello scontro tra Roma e Veio ci sono completamente ignoti, ma esso fu descritto come se fosse l’equivalente italiano della guerra di Troia: i dieci anni di assedio che occorsero per

conquistare la città (che corrispondono ai dieci anni dell’assedio di Troia) e la penetrazione dei romani dentro la città attraverso un tunnel scavato sotto il tempio di Giunone (che corrisponde al trucco del cavallo di Troia). La portata di questa conquista (termine probabilmente eccessivo) dev’essere stata assai più modesta. Non fu uno scontro tra superpotenze: Veio era una città fiorente, poco più piccola di Roma, appena quindici chilometri al di là del Tevere. Le conseguenze della vittoria romana furono però significative, anche se non nel senso suggerito dagli autori romani, i quali mettevano in risalto la riduzione in schiavitù della popolazione, la requisizione di tutti i suoi beni come bottino di guerra e la completa distruzione della città. Trecentocinquant’anni dopo, il poeta Properzio evocò una desolante immagine di Veio, abitata soltanto da poche pecore e qualche «ozioso pastore». Tuttavia, poiché è possibile che Properzio non abbia mai visitato il luogo, si tratta più di una lezione morale sui pericoli della sconfitta che di una descrizione accurata, anche perché le testimonianze archeologiche mostrano una realtà molto diversa. Benché ci possano essere stati crudeli saccheggi, asservimento della popolazione al momento della vittoria romana e insediamento di nuovi coloni, la maggior parte dei santuari continuò a sussistere come in precedenza e la città non venne del tutto abbandonata; le stesse informazioni riguardo alla condizione delle fattorie indicano un quadro di continuità piuttosto che di rottura. Il vero cambiamento avvenne su un altro piano. Roma annesse Veio e il suo territorio, aumentando in un sol colpo il proprio di quasi il 60 per cento. Poco dopo, furono create quattro nuove tribù geografiche di cittadini romani, per includere Veio, i suoi abitanti originari e i nuovi coloni. Abbiamo vaghe tracce di altri importanti sviluppi avvenuti circa nello stesso periodo, forse a questo connessi. Secondo Livio, fu proprio in vista dell’assedio di Veio che i soldati romani vennero pagati per la prima volta, utilizzando i proventi della tassazione. Vero o no che sia (e quale che fosse il metodo di pagamento, che non era certamente in moneta, dato che a Roma ancora non esisteva), può senz’altro essere considerato l’indizio dello sviluppo verso un’organizzazione più centralizzata dell’esercito romano e del declino della guerra privata. Ma alla vittoria fece presto seguito la sconfitta. Nel 390 a.C. un gruppo di galli (forse una tribù messasi in movimento alla ricerca di terre, oppure, più probabilmente, una ben addestrata banda di mercenari in cerca di occupazione più a sud) sbaragliò un esercito romano nei pressi del fiume

Allia, non lontano dalla città. A quanto pare, i romani si diedero semplicemente alla fuga, e i galli si misero in marcia per conquistare Roma. Un racconto apocrifo descrive come un virtuoso plebeo, appropriatamente chiamato Marco Cedicio («annunciatore di disastri»), avesse sentito la voce di un dio sconosciuto che lo avvertiva dell’arrivo dei galli; ma le sue parole furono ignorate perché era un uomo di bassa condizione. Fu una dura e severa lezione per i patrizi, i quali impararono così che gli dèi comunicavano anche con i plebei. La tradizione avvolse la conquista della città in una strana atmosfera, inserendovi diversi atti di eroismo per mitigare l’onta della vasta distruzione. Un altro plebeo diede prova della pietas della propria classe facendo scendere dal suo carro moglie e figli per farvi salire le vergini vestali, che stavano evacuando la città per portare in salvo i loro sacri emblemi e amuleti nella vicina città di Cerveteri. Molti anziani aristocratici decisero di affrontare l’ineluttabile e rimasero tranquillamente seduti davanti alle loro case ad aspettare i galli, i quali all’inizio credettero che fossero delle statue e poi si misero a massacrarli. Nel frattempo, Camillo, che era stato mandato temporaneamente in esilio per una presunta appropriazione di spoglie di guerra, fece ritorno in patria appena in tempo per impedire ai romani di pagare un enorme riscatto ai galli, dissuadendo i suoi concittadini dall’idea di abbandonare la città e trasferirsi a Veio, e convincendoli a rifondare la città. O almeno questa è una versione della storia. Secondo una versione meno onorevole, i galli se ne erano andati via da Roma in trionfo con il riscatto.

28. Un disegno dell’inizio del XX secolo (ricavato da una più antica fotografia) dei resti delle Mura Serviane vicino alla stazione ferroviaria di Roma Termini. Alcuni segmenti di queste fortificazioni accolgono ancora i turisti che escono dalla stazione, pur essendo tristemente nascoste da alcune inferriate.

È questo un altro tipico caso di esagerazione romana. Le varie storie entrate a far parte della memoria culturale romana erano il serbatoio inesauribile di fondamentali lezioni di patriottismo: il dovere verso la patria superiore persino a quello verso la famiglia, il coraggio di fronte a una sicura sconfitta, il rischio di misurare il valore della città a peso d’oro. La catastrofe si radicò così saldamente nell’immaginario popolare romano che, nel 48 d.C., alcuni irriducibili vi si richiamarono ancora come argomentazione (o come ultimo disperato tentativo) contro la proposta dell’imperatore Claudio, che voleva aprire le porte del Senato ai galli. Non c’è tuttavia alcuna testimonianza archeologica che confermi l’enorme

distruzione immaginata dai romani di epoche successive, a meno che le tracce di incendio oggi datate attorno al 500 a.C. siano in realtà, come pensavano un tempo gli archeologi, i resti di una scorreria gallica avvenuta circa un secolo più tardi. L’unico segno concreto del «sacco» dei galli sul paesaggio romano fu la vasta cinta di mura, di cui alcune possenti sezioni sono visibili ancora oggi, che venne eretta, dopo la partenza dei nemici, con la pietra ricavata dai nuovi territori di Roma attorno a Veio. C’erano tuttavia molte ragioni per cui questa sconfitta appariva agli storici romani un utile episodio sul quale richiamare l’attenzione. Creava lo sfondo per le paure di invasori calanti dalle Alpi, di cui Annibale fu senza dubbio il più pericoloso, ma non certo l’unico. Contribuiva a spiegare perché sopravvivessero così poche informazioni sulla Roma arcaica (tutti i documenti erano andati in fiamme), e quindi, nella prospettiva antica, segnava l’inizio della «storia moderna». E serviva anche a spiegare perché, persino alla fine del periodo repubblicano, la città, malgrado la sua fama mondiale, avesse ancora l’aspetto, per così dire, di una disordinata tana di coniglio, con un dedalo di caotiche viuzze: i romani erano stati costretti a ricostruire in fretta la città dopo la partenza dei galli. Infine, aveva aperto un nuovo capitolo nelle relazioni di Roma con il mondo esterno.

I romani contro Alessandro Magno Quel che seguì fu un’autentica rivoluzione nelle dimensioni, nella portata, nella localizzazione geografica e negli effetti delle «guerre» combattute da Roma. Senza dubbio, il sistema delle campagne militari su ritmo annuale rimase inalterato. Gli scrittori antichi fornivano una lunga ed esaltante lista di battaglie combattute nel IV secolo a.C., celebrando, e certamente esagerando, eroici successi e ammettendo solo qualche vergognosa disfatta e alcune poco onorevoli vittorie a tavolino. La battaglia delle Forche Caudine, nel 321 a.C., nella quale i sanniti dell’Italia meridionale avevano sonoramente sconfitto i romani, rimase quasi altrettanto celebre della battaglia sul fiume Allia o del sacco di Roma settant’anni prima, per quanto non fosse stata affatto una battaglia. I romani erano rimasti intrappolati in una stretta gola di montagna, senza riserve d’acqua, e si erano semplicemente arresi. Tuttavia, tra il sacco di Roma nel 390 a.C. e la battaglia di Sentino nel 295 a.C., il numero di uomini impiegato in questi scontri aumentò in misura notevolissima. E le campagne militari erano condotte in zone sempre più lontane da Roma. Mentre Veio sorgeva ad appena quindici chilometri di distanza, Sentino si trovava a oltre duecento chilometri, al di là degli Appennini. Anche gli accordi stabiliti tra Roma e la città sconfitta ebbero conseguenze di grande portata per il futuro. Alla fine del IV secolo a.C. la potenza militare di Roma era ormai tale che Livio ritenne opportuno confrontarla con quella del conquistatore del mondo Alessandro Magno, il quale, tra il 334 e il 323 a.C., aveva guidato l’esercito macedone in una inarrestabile marcia di vittorie dalla Grecia fino all’India. Livio si domandava chi avrebbe vinto se, per pura ipotesi, i romani e i macedoni si fossero dati battaglia: un dilemma militare che i generali da salotto ancora oggi cercano di risolvere. In questo periodo in Italia ci furono due conflitti particolarmente importanti. Il primo fu la cosiddetta «guerra latina», combattuta contro il vicino popolo dei latini dal 341 al 338 a.C. Poco dopo si ebbero le «guerre sannitiche» (nelle quali Barbato ottenne le sue vittorie), combattute, in diverse fasi, tra il 343 e il 290 a.C. contro un gruppo di comunità che risiedevano sulle montagne dell’Italia meridionale; si trattava di comunità di sanniti, che erano certo meno rozzi e primitivi di quanto piacesse

raffigurarli ai romani, ma indubbiamente meno urbanizzati di quelli che abitavano in altre regioni della penisola. Entrambe queste «guerre» sono costruzioni in certo modo artificiali, in cui vengono isolati due particolari nemici, e il loro nome viene usato per conferire una precisa determinazione ai ben più diffusi ed endemici conflitti dell’epoca, a partire da un punto di vista decisamente romanocentrico (nessun sannita combatté mai una «guerra sannitica»). Detto questo, non c’è dubbio che essi rivelino alcuni importanti cambiamenti. Secondo la versione tradizionale, la guerra latina fu provocata da una rivolta dei latini contro la supremazia esercitata dai romani nella regione. Fu un conflitto di natura locale, ma ebbe una portata considerevole, anzi rivoluzionaria, per gli accordi stabiliti alla sua conclusione tra i romani e alcune comunità latine. Infatti si concedeva la cittadinanza romana a un vasto numero di sconfitti, in parecchie città disseminate in tutta l’Italia centrale, in una proporzione che superava di gran lunga il precedente stabilito a Veio. Che fosse un gesto di generosità, come affermavano molti scrittori romani, o un meccanismo di oppressione, come potrebbero avere giudicato coloro che si ritrovavano imposta la cittadinanza romana, si trattò comunque di un passo decisivo nella trasformazione di ciò che voleva dire essere «romano». E determinò, come vedremo fra poco, radicali cambiamenti nella struttura del potere. Una cinquantina d’anni dopo, i lunghi decenni delle guerre sannitiche si conclusero con più della metà della penisola italiana sottomessa a Roma in varie forme, dai trattati di «amicizia» al controllo diretto. Gli scrittori romani descrissero queste guerre presentandole come il conflitto tra due stati per il predominio sull’Italia. Certamente non furono questo, ma le nuove dimensioni del conflitto stabilirono il parametro per il futuro. Nella battaglia di Sentino i romani dovettero affrontare un vasto raggruppamento di nemici (alleanza è un termine probabilmente troppo formale): oltre ai sanniti, gli etruschi e i galli giunti dal Nord della penisola. Il numero dei combattenti sembra avere attirato l’attenzione di Duride di Samo, il quale forniva l’implausibile cifra di centomila caduti tra i sanniti e i loro alleati. Gli autori romani la consideravano una vittoria particolarmente eroica e gloriosa. Divenne persino, due secoli più tardi, il tema di una sciovinistica tragedia romana, con un coro tragico di soldati e il sacrificio della propria vita da parte di un comandante romano per assicurare il successo del suo esercito. Ma anch’essi discussero, esattamente come gli storici moderni, sulla reale dimensione di questa gigantesca battaglia. Livio non aveva

tempo da perdere con le cifre di Duride o con quelle ancora più esagerate incontrate nelle sue ricerche. È impossibile accertare se la cifra di sedicimila uomini per l’esercito romano (più altrettanti alleati), da lui fornita, sia corretta. Ma una cosa è certa: questo, dal punto di vista militare, era un mondo ormai diverso da quello delle piccole schermaglie del V secolo a.C. È un mondo sul quale possiamo aprire una finestra grazie a una straordinaria scoperta fatta durante gli scavi condotti negli anni Settanta dell’Ottocento in un’area che all’epoca doveva rappresentare l’estrema propaggine dell’antica Roma: un affascinante frammento di pittura proveniente da una tomba, da datare probabilmente all’inizio del III secolo a.C. Originariamente doveva essere ben più estesa e coprire un’intera parete: è suddivisa in una serie di registri sovrapposti, che si ritiene raffigurino episodi di questi conflitti tra Roma e i sanniti. Se questa interpretazione è corretta, si tratterebbe della prima pittura, nella storia dell’arte occidentale, che raffigura una concreta e identificabile campagna militare (a meno che una scena di combattimento piuttosto generica, dipinta in una tomba dell’Italia meridionale, sia in realtà, come hanno ottimisticamente sostenuto alcuni archeologi, un’orgogliosa rappresentazione della vittoria sannita alle Forche Caudine; si veda la tavola 6). L’interpretazione di questa pittura parietale è molto controversa; oggi appare purtroppo estremamente erosa, ma le linee essenziali del disegno sono chiare. Il registro più basso raffigura un combattimento corpo a corpo in cui campeggia un uomo con un elaborato elmo, che sfonda nel registro superiore; in alto a sinistra è ancora visibile un imponente muro merlato. Le due scene meglio conservate mostrano entrambe un uomo con una corta toga che tiene in mano una lancia. Uno di essi (e forse entrambi) è identificato come «Q. Fabius», probabilmente quel Quinto Fabio Massimo Rulliano che fu ufficiale comandante a Sentino e diede a Barbato il compito prestigioso (l’unico a noi noto) di «far avanzare le riserve dalle retrovie». Qui, a quanto sembra, è raffigurato (con un seguito di accompagnatori rappresentati in proporzioni nettamente più piccole) mentre discute con un certo «Fannius», un guerriero privo di armi, ma in abito militare, con tanto di pesanti schinieri e, in un caso, con un elmo piumato, il quale stende la propria mano destra, vuota. Si tratta del sannita Fannius, che si arrende a un rappresentante della gens togata (già qui, nel III secolo a.C., raffigurata proprio in questo modo?). Osservati in queste semplici e stilizzate immagini, i romani non

sembrano in grado di sostenere un confronto con Alessandro Magno. Ma proprio questa è la domanda che solleva Livio nella lunga digressione che inserisce subito dopo il racconto dello straordinario recupero operato dai romani a seguito dell’umiliazione delle Forche Caudine. Non gli sfuggì che le guerre sannitiche si svolsero in Italia più o meno nello stesso periodo in cui il re macedone era impegnato nelle sue campagne in Oriente. All’epoca di Livio, i generali romani avevano già da tempo cercato di emulare Alessandro. Avevano imitato il suo caratteristico taglio di capelli, si erano proclamati «Magno», e tanto Giulio Cesare quanto Augusto, il primo imperatore, avevano compiuto un pellegrinaggio alla tomba di Alessandro in Egitto; Augusto, così si diceva, aveva accidentalmente rotto il naso della mummia mentre le rendeva omaggio. Perciò non sorprende che Livio abbia posto una questione di classico genere controfattuale: chi avrebbe vinto se Alessandro avesse diretto il proprio esercito a occidente e attaccato i romani anziché i persiani? Alessandro, ammette Livio, fu un grande generale, benché non privo di difetti, come, tra gli altri, la smodatezza nel bere. Ma i romani avevano il vantaggio di non dipendere da un unico capo carismatico. La loro catena di comando si articolava in profondità ed era sostenuta da una straordinaria disciplina militare. Inoltre, continua Livio, potevano contare su un numero ben maggiore di truppe ben addestrate e, grazie alle alleanze stipulate in tutta Italia, ottenere rinforzi praticamente a volontà. In poche parole, la risposta di Livio è questa: se avessero dovuto affrontarlo, i romani avrebbero battuto Alessandro.

Espansione, soldati e cittadini Pur se in modo tortuoso, Livio, che talvolta appare piuttosto lento e laborioso nelle sue analisi, offre una puntuale risposta a due essenziali domande: che cosa rese, in questo periodo, gli eserciti romani così vincenti, e com’è riuscita Roma a estendere tanto rapidamente il proprio controllo su gran parte dell’Italia? Questo è uno dei rari casi in cui Livio scava al di sotto della superficie del racconto, per mettere in luce fattori sociali e strutturali, dall’organizzazione del comando romano alle risorse umane su cui Roma poteva contare. Può essere utile spingere innanzi il ragionamento di Livio, per riflettere più a fondo, e in retrospettiva, sui momenti formativi dell’impero romano. Due fatti sono chiari, che smentiscono alcuni fuorvianti miti moderni sulla potenza e sul «carattere» dei romani. In primo luogo, essi non erano per natura più bellicosi dei loro vicini e contemporanei, proprio come non erano per natura più bravi di loro nel costruire strade e ponti. È vero che la cultura romana attribuiva un valore altissimo (e, per noi, piuttosto difficile da accettare) al successo in battaglia. Coraggio, audacia e brutale violenza in combattimento erano ripetutamente celebrati: a partire dal generale vittorioso che sfilava per le strade acclamato dalla folla nella sua trionfale processione fino ai semplici soldati che esibivano le cicatrici delle ferite riportate in battaglia nella speranza di dare maggior peso alle loro posizioni durante i dibattiti politici. Verso la metà del IV secolo a.C. la base della tribuna per gli oratori che si trovava nel Foro fu decorata con gli arieti bronzei delle navi da guerra nemiche catturate dalla città di Anzio durante la guerra latina, a simboleggiare il fondamento militare della potenza politica romana. Rostra, il termine latino per «arieti», divenne il nome della tribuna ed è stato ereditato da gran parte delle lingue europee (it. rostro, ingl. rostrum). Sarebbe però ingenuo immaginarsi che le altre popolazioni dell’Italia fossero sostanzialmente diverse. Erano gruppi molto eterogenei, ben più diversificati (per lingua, cultura e organizzazione politica) di quanto faccia pensare la definizione di «italici». Comunque, sulla base di quel poco che sappiamo della maggior parte di essi – dall’equipaggiamento militare trovato nelle loro tombe o dagli occasionali riferimenti letterari ai loro bottini di guerra, ai loro sistemi di combattimento e alle loro atrocità –,

risultano altrettanto militarizzati dei romani e probabilmente anche altrettanto avidi di guadagno. Era un mondo di endemica violenza, in cui le schermaglie con i vicini si ripetevano di anno in anno, i saccheggi rappresentavano una significativa fonte di guadagno per tutti e la maggior parte delle controversie era risolta con la forza. L’ambivalenza semantica della parola latina hostis coglie perfettamente il confondersi della distinzione tra «straniero» e «nemico». Lo stesso vale per l’espressione latina che traduciamo di solito «in patria e all’estero»: domi militiaeque, in cui il termine reso «all’estero» significa in realtà «in campagna militare». Essere fuori dal territorio della propria patria significava sempre (almeno potenzialmente) essere in guerra. In secondo luogo, i romani non pianificarono la conquista e il controllo dell’Italia. Nessuna cricca romana si riunì, in qualche momento del IV secolo a.C., davanti a una mappa per progettare una conquista nel senso territoriale che associamo agli stati-nazione imperialisti dell’Ottocento e del Novecento. Innanzitutto, per quanto banale possa sembrare, non avevano mappe. Che cosa questo significhi per il modo in cui i romani, o qualsiasi altro popolo «precartografico», hanno concepito il mondo che li circondava, o quello al di là del proprio orizzonte, rimane uno dei grandi misteri della storia. Ho ripetutamente parlato dell’espansione della potenza romana attraverso la penisola italiana, ma non sappiamo quanti (o, per essere più realistici, quanto pochi) romani a quest’epoca concepissero la propria patria come parte di una penisola, in modo sostanzialmente simile a noi. Una versione ancora rudimentale di tale concezione si riflette probabilmente in alcune testimonianze letterarie del II secolo a.C., le quali parlano dell’Adriatico come del Mare Superiore e del Tirreno come Mare Inferiore; si osservi tuttavia che l’asse d’orientamento è diverso dal nostro, essendo quello Est-Ovest anziché quello Nord-Sud. I romani di quest’epoca consideravano la propria espansione nei termini di un mutamento nelle relazioni con altri popoli piuttosto che in quelli di un controllo del territorio. Certo, la crescente potenza di Roma trasformò in modo radicale il paesaggio italiano. E non c’era nulla che potesse stimolare questa trasformazione più profondamente di una nuova strada romana che si allungava attraverso campi deserti, o dell’annessione e distribuzione di terre a nuovi coloni. È comodo e conveniente misurare la potenza romana in Italia sulla base dell’area geografica dominata. Ma il dominio romano si esercitava innanzitutto sulle persone, non sui luoghi. Come Livio vide perfettamente, le relazioni stabilite dai romani con queste popolazioni

furono la chiave per l’impulso della prima espansione. A tutti coloro che venivano sottomessi i romani imponevano un solo dovere: fornire truppe all’esercito. In effetti, per la maggior parte delle comunità sconfitte da Roma e accolte, o costrette, in una qualche forma di «alleanza», l’unico obbligo di lungo termine sembra essere stato quello di fornire un certo numero di soldati e provvedere al loro mantenimento. Queste popolazioni non erano sottoposte ad altre forme di dominio: non c’erano forze di occupazione romane né governi imposti dai romani. Non possiamo sapere perché venne scelto tale sistema di controllo, ma è improbabile che fosse l’esito di un calcolo strategico particolarmente meditato. Era un’imposizione che dimostrava in modo adeguato il dominio di Roma, ma che richiedeva pochi uomini e poche strutture amministrative per la sua gestione. Le truppe fornite dagli alleati erano arruolate, equipaggiate e in parte anche comandate da loro stessi. Qualsiasi altra forma di tassazione sarebbe stata per i romani ben più difficile e faticosa da imporre; e il controllo diretto delle popolazioni sconfitte ancora di più. Il risultato finale può essere stato certamente inatteso, ma fu di enorme importanza. Infatti, questo sistema di alleanze divenne un efficace strumento per integrare i nemici sconfitti nella sempre più possente macchina militare di Roma; allo stesso tempo, offriva agli alleati una vantaggiosa partecipazione nelle imprese romane, in virtù del bottino e della gloria che avrebbero ottenuto in caso di successo. Una volta messa in moto questa invincibile macchina da guerra, i romani seppero renderla autosufficiente, in un modo mai messo in atto così sistematicamente da nessun’altra città antica. Infatti, in quest’epoca, il fattore più decisivo non stava nella strategia, nell’equipaggiamento, nelle capacità o nel valore, bensì nel numero di uomini che si era in grado di schierare. Alla fine del IV secolo a.C. i romani avevano a propria disposizione quasi mezzo milione di soldati (si confronti questa cifra con i circa cinquantamila uomini su cui poteva contare Alessandro Magno nelle sue campagne orientali, o con i forse centomila persiani che invasero la Grecia nel 481 a.C.). Questo li rendeva praticamente invincibili in Italia: potevano perdere una battaglia, ma non una guerra. Come disse un poeta romano negli anni Trenta del I secolo a.C.: «Il popolo romano è stato spesso battuto e schiacciato in molte battaglie, ma mai in una guerra decisiva». Il modo in cui i romani definivano le proprie relazioni con le varie popolazioni italiche ebbe anche altre conseguenze di vasta portata. Gli «alleati», il cui unico obbligo era fornire soldati, erano certamente la

categoria più numerosa, ma non l’unica. Ad alcune comunità dell’Italia centrale i romani concessero la cittadinanza romana. Talvolta ciò comportava i pieni diritti e privilegi del cittadino romano, compreso il diritto di votare o candidarsi alle elezioni, pur rimanendo cittadino di una comunità locale. In altri casi si limitava alla concessione di una forma più limitata di diritti, alla quale venne dato il nome di civitas sine suffragio, «cittadinanza senza voto». Erano sottoposte a questa formula popolazioni che vivevano nei territori conquistati in insediamenti chiamati colonie (coloniae). Nonostante il nome, questi insediamenti non avevano nulla in comune con le colonie nel senso moderno del termine, e si trattava piuttosto di città nuove (o ingrandite) abitate da una popolazione mista di residenti locali e coloni provenienti da Roma. Pochi di loro godevano della piena cittadinanza romana. La maggior parte era sottoposta al cosiddetto «diritto latino». Quest’ultimo non corrispondeva a una cittadinanza vera e propria, ma era costituito da una serie di diritti che si ritenevano essere stati condivisi dalle città latine fin da tempi immemorabili, e in seguito formalmente definiti come diritto di matrimonio con romani, diritto di stipulare contratti, diritto di libero movimento e così via. Era una posizione intermedia tra quella di cittadino a pieno titolo e quella di hostis, «straniero». Ancora una volta, è difficile sapere come sia nato questo complesso meccanismo. Gli autori romani del I secolo a.C., seguiti dai moderni studiosi di diritto, lo consideravano di solito parte di un sistema estremamente specializzato e scrupolosamente calibrato di diritti e responsabilità civiche. Ma questo è per certo il frutto di una più recente razionalizzazione giuridica. È davvero inverosimile che gli uomini del IV secolo a.C. si siano fermati a discutere le precise conseguenze della civitas sine suffragio o quali specifici privilegi si dovessero accordare a una colonia «latina». Molto più probabilmente, improvvisarono le nuove relazioni che instauravano con i diversi popoli del mondo esterno usando, e adattando, i loro concetti, ancora rudimentali, di cittadinanza e di appartenenza etnica. Le conseguenze, però, furono ancora una volta rivoluzionarie. Estendendo la cittadinanza a popolazioni che non avevano connessioni territoriali dirette con la città di Roma, i romani spezzarono e superarono il vincolo, dato per scontato da quasi tutte le civiltà del mondo antico, tra la cittadinanza e una singola città. In modo sistematico e senza precedenti, resero possibile non soltanto diventare romani, ma anche essere cittadini di due luoghi allo stesso tempo: la propria città natale e Roma. Inoltre,

fondando nuove colonie latine in tutta Italia, ridefinirono lo stesso termine latino, che non indicò più un’identità etnica ma uno status politico non connesso alla razza o alla geografia. Si creò così un modello di cittadinanza e «appartenenza» di enorme importanza per la concezione romana del governo, dei diritti politici, dell’identità etnica e dell’idea di «nazionalità». Questo modello fu ben presto esteso oltremare e divenne il fondamento dell’impero romano.

Cause e spiegazioni Il simbolo più concreto e palpabile delle mutate relazioni di Roma con il mondo esterno nel IV secolo a.C. è rappresentato dalle imponenti mura con cui fu circondata la città dopo la partenza dei galli, che avevano un perimetro di undici chilometri e, in certi punti, uno spessore di quattro metri. La loro costruzione fu un progetto monumentale (per il quale occorsero oltre cinque milioni di ore lavorative, secondo un calcolo recente) e un orgoglioso simbolo della preminenza di Roma e della sua posizione nel mondo. Fu senza dubbio in questo periodo, come affermano unanimemente storici antichi e moderni, che iniziò l’espansione di Roma oltre il territorio a essa immediatamente limitrofo. Né vi sono dubbi sul fatto che l’espansione, una volta iniziata, fu sostenuta soprattutto con le risorse di uomini garantite dalle alleanze che Roma stipulava dopo avere ottenuto la vittoria. Ma è molto difficile individuare la causa che ha messo in moto il mutamento. Che cosa accadde all’inizio del IV secolo a.C. per dare avvio a questa nuova fase di iniziativa militare romana? Nessun autore antico si azzarda a dare una risposta, a parte l’improbabile idea che nei romani stessi era stato impiantato il seme del dominio mondiale. Forse l’invasione dei galli produsse nei romani la determinazione a non lasciar mai più ripetere una simile catastrofe, spingendoli a prendere l’iniziativa anziché rimanere costretti sulla difensiva. Forse furono sufficienti un paio di fortunate vittorie negli endemici conflitti che caratterizzavano la regione, e il numero maggiore di uomini garantito dalle alleanze stipulate dopo tali vittorie, a dare la scintilla al processo di espansione. Quale che sia la causa effettiva, appare probabile che i drammatici mutamenti nella vita politica interna abbiano avuto un ruolo tutt’altro che insignificante. Finora, nell’esame di questo periodo, ho trattato separatamente la storia interna di Roma e quella della sua espansione. Ciò permette di presentare un quadro più chiaro, ma rischia di oscurare l'influenza che ebbe la politica interna sulle relazioni esterne, e viceversa. Nel 367 a.C. il conflitto delle classi aveva ormai prodotto qualcosa di ben più profondo e significativo che la fine della discriminazione politica nei confronti dei plebei. Aveva sostituito una classe di governo definita dalla nascita con un’altra, definita dalla ricchezza e dai risultati ottenuti. Qui ritroviamo, almeno in parte,

anche un elemento essenziale dell’epitaffio di Barbato: nonostante la famiglia degli Scipioni fosse patrizia, ciò che conta sono le cariche rivestite, le qualità personali dimostrate e le battaglie vinte. Nessuna impresa era più visibile e celebrata della vittoria in battaglia, e il desiderio di gloria della nuova élite fu certamente un fattore decisivo nell’intensificazione dell’attività militare e nell’incitamento alla guerra. Allo stesso modo, furono il dominio su popolazioni sempre più distanti e le esigenze di un esercito conquistatore a suscitare gran parte delle innovazioni che rivoluzionarono la vita della stessa Roma. Un esempio illuminante ci è fornito dalla monetazione. Fin dai primi tempi della sua storia, Roma aveva elaborato un sistema standard per determinare il valore monetario mediante il peso del metallo: questo risulta evidente dalle Dodici Tavole, che stabiliscono l’entità della pena in unità bronzee. Ma una vera e propria monetazione non si ebbe sino alla fine del IV secolo a.C., quando vennero emesse per la prima volta delle monete «romane», nell’Italia meridionale, probabilmente per pagare le spese di guerra o la costruzione di strade. In termini più generali, se ci domandassimo che cosa ha trasformato il mondo relativamente semplice delle Dodici Tavole nel mondo relativamente complesso del 300 a.C., il fattore più decisivo sarebbero senza dubbio le dimensioni del dominio romano e le esigenze organizzative di una guerra condotta su vasta scala. I problemi logistici del trasporto, del rifornimento e dell’equipaggiamento per una campagna militare di sedicimila soldati romani (per attenerci alle cifre liviane), più gli alleati, richiedevano un’infrastruttura assolutamente impensabile nella metà del V secolo a.C. Anche se, parlando delle iniziative romane nel V secolo a.C., ho cercato di evitare termini troppo modernizzanti come alleanza e trattato, alla fine del secolo seguente la rete dei rapporti romani in tutta la penisola italiana e le diverse forme di tali rapporti con le varie comunità rendono meno inappropriato l’uso di questi termini. L’espansione militare di Roma determinò lo sviluppo e il raffinamento delle sue strutture organizzative. La tomba di famiglia di Scipione Barbato oggi ci appare grandiosamente arcaica e – con la sua ruvida pietra locale, la decorazione ancora piuttosto rozza e le grafie leggermente antiquate (consol al posto di consul, per esempio) – può essere sembrata altrettanto pittoresca a qualsiasi romano l’avesse visitata nel I secolo a.C. Ma, al tempo in cui visse, Barbato faceva parte di una nuova generazione che definì un nuovo modo di essere romano e un nuovo posto per Roma nel mondo. I suoi discendenti si spinsero

ancora più in là, ed è a loro che ora ci dobbiamo rivolgere.

UN MONDO PIÙ VASTO

I discendenti di Scipione Barbato Scipione Barbato costruì la sua tomba in proporzioni grandiose, e nei successivi centocinquant’anni vi fu sepolta una trentina di suoi discendenti. La famiglia degli Scipioni vantava alcuni dei più illustri nomi della storia romana, ma anche la sua giusta dose di perdenti e buoni a nulla. Ci sono giunti più o meno intatti otto epitaffi, molti dei quali commemorano personaggi normalmente trascurati dalla storia: coloro che non erano riusciti ad affermarsi o che erano morti troppo giovani, e le donne. «Colui che qui si trova sepolto non è mai stato superato per virtù. Appena ventenne, fu consegnato alla tomba – casomai vi domandaste perché non abbia rivestito alcuna carica politica», si legge, con un tono leggermente difensivo, su un sarcofago databile alla metà del II secolo a.C. In un altro ci si richiama alle imprese compiute dal padre del giovane defunto: «Suo padre sconfisse il re Antioco». Ma alcuni hanno cose ben maggiori di cui vantarsi. L’epitaffio del figlio di Barbato proclama: «Conquistò la Corsica e la città di Aleria e dedicò per grazia ricevuta un tempio alle Tempeste». Una tempesta aveva quasi distrutto la sua flotta, e questa era l’offerta di ringraziamento che aveva dedicato alle divinità responsabili della sua fortunata salvezza. Altri membri della famiglia potevano vantare imprese ancora più gloriose. Nel 202 a.C. Publio Cornelio Scipione Africano, un pronipote di Barbato, inflisse ad Annibale la sconfitta definitiva: invase il territorio cartaginese in Nordafrica, e nella battaglia di Zama, vicino a Cartagine, sbaragliò l’esercito di Annibale, aiutato involontariamente anche dagli elefanti del generale cartaginese, i quali, presi dal panico, si misero a correre calpestando i suoi stessi soldati. Scipione Africano fu sepolto nella sua tenuta nell’Italia meridionale, e la sua tomba divenne una sorta di meta di pellegrinaggio per i romani di epoche successive. Ma è praticamente certo che, tra i monumenti commemorativi del mausoleo di famiglia, si trovavano un tempo quelli di suo fratello Lucio Cornelio Scipione Asiatico, colui che «sconfisse il re Antioco» di Siria nel 190 a.C., di suo cugino Gneo Cornelio Scipione Ispanico, console nel 176 a.C., e di suo nipote Publio Cornelio Scipione Emiliano. Quest’ultimo, un membro adottivo della famiglia, invase il Nordafrica e portò a termine l’opera iniziata da Scipione Africano: nel 146 a.C. rase al suolo l’antica città di Cartagine e vendette come schiavi gli abitanti ancora rimasti. Le carriere di questi uomini ci mostrano il nuovo mondo della politica e

dell’espansione romana, sviluppatosi nel corso del III e del II secolo a.C. Sono tra i principali protagonisti, nel bene o nel male, di quella serie di campagne militari che assicurarono alla repubblica romana il controllo su tutto il Mediterraneo e in territori ancora più lontani. I loro nomi piuttosto complicati rispecchiano e riassumono alla perfezione questo nuovo mondo. Barbatus si riferisce presumibilmente all’aspetto di colui che lo portava, ed Aemilianus al padre naturale di costui, Lucius Aemilius Paullus, ma Africanus, Asiaticus e Hispallus (derivante dal servizio prestato dal padre in Hispania, vale a dire in Spagna) riflettono il nuovo orizzonte della potenza romana. Si potrebbe a ragione parafrasare Scipio Africanus «Scipione, martello dell’Africa». Erano tutti uomini d’arme. Ma gli Scipioni non erano soltanto questo. Come si può facilmente comprendere osservando la statua del poeta Quinto Ennio, esposta orgogliosamente accanto a quelle di Africano e di Asiatico, sulla facciata della tomba di famiglia, gli Scipioni furono protagonisti anche della rivoluzione letteraria romana, patrocinatori e sostenitori della prima generazione di autori latini. Non era certo un caso. Le origini della letteratura romana sono infatti strettamente legate all’espansione oltremare di Roma: «Con passo alato entrò la Musa in Roma bellicosa e fiera», scrisse un autore del II secolo a.C. La creazione dell’impero e la nascita della letteratura sono le due facce di una stessa medaglia. Già da secoli i romani utilizzavano la scrittura per diversi scopi: documenti e avvisi pubblici, leggi e regolamentazioni, certificati di proprietà scarabocchiati su cocci di ceramica. Furono i crescenti contatti con le tradizioni del mondo greco, a partire dalla metà del III secolo a.C., la vera scintilla per la creazione e la conservazione di una letteratura nel senso proprio del termine. La quale nacque nell’imitazione dei predecessori greci, e nel dialogo, nella competizione e nella rivalità con loro, in un momento davvero rivelatore: nel 241 a.C., proprio mentre i soldati e i marinai romani stavano per vincere la loro prima guerra oltremare, nella Sicilia di cultura greca, a Roma un uomo chiamato Livio Andronico si impegnava a adattare in latino, da un originale greco, la prima tragedia rappresentata nell’Urbe, messa in scena l’anno successivo, il 240 a.C. Il retroterra culturale e la produzione scritta di Livio Andronico sono un esempio tipico del mix culturale di questa prima letteratura e dei suoi autori. Andronico produsse versioni latine non solo delle tragedie greche ma anche dell’Odissea di Omero; era stato fatto schiavo come prigioniero di guerra, probabilmente dalla città di Taranto, e in seguito liberato. Un

diverso background aveva invece Fabio Pittore, il senatore romano che scrisse la prima storia di Roma: nato e cresciuto nell’Urbe, compose la sua opera in greco (fu tradotta in latino solo in un’epoca successiva). Le prime opere letterarie concretamente sopravvissute in forma grosso modo completa, le ventisei commedie di Tito Maccio Plauto e Publio Terenzio Afro, scritte tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C., sono versioni accuratamente romanizzate di copioni greci, con sventurate storie d’amore e grottesche vicende di scambi d’identità, spesso ambientate ad Atene, ma ricche altresì di battute su toghe, bagni pubblici e parate trionfali. Anche Terenzio, vissuto all’inizio del II secolo a.C., era ritenuto un ex schiavo, originario di Cartagine. Come suggerisce la statua sulla facciata della tomba, Scipione Africano era uno dei patrocinatori di Ennio, celebre soprattutto per il suo monumentale poema epico sulla storia di Roma, dalla fine della guerra troiana fino ai suoi giorni, all’inizio del II secolo a.C.: anch’egli proveniente dall’Italia meridionale, parlava fluentemente in latino, greco e nella sua lingua madre, l’osco (cosa che ci aiuta a non dimenticare la diversità linguistica della penisola italiana). Scipione Emiliano sfoggiava interessi letterari ancora più profondi, tanto in latino quanto in greco. I suoi rapporti con Terenzio erano talmente stretti che a Roma circolava la voce che fosse lui il vero autore di alcune commedie. Il latino non era forse troppo raffinato per un uomo come Terenzio? E tutti sapevano che Emiliano conosceva a memoria i classici greci. Nel 146 a.C., mentre Cartagine bruciava, un testimone oculare lo vide versare una lacrima e lo sentì recitare un verso dell’Iliade sulla caduta di Troia e meditare che un giorno lo stesso destino sarebbe potuto toccare a Roma. Fossero o no lacrime di coccodrillo, le sue parole coglievano perfettamente nel segno.

29. Piatto romano del III secolo a.C. raffigurante un elefante, con una torretta da combattimento sul dorso, accompagnato dal suo cucciolo. Quale che fosse il reale vantaggio militare che assicuravano, gli elefanti entrarono presto nell’immaginario popolare romano.

Quel testimone oculare era il più stretto degli amici letterati di Emiliano, uno storico greco, residente a Roma, chiamato Polibio. Acuto e profondo osservatore della politica romana, sia domestica che estera, con una prospettiva unica su Roma, allo stesso tempo interna ed esterna, Polibio

occuperà un posto di primo piano nel resto di questo capitolo, perché è il primo scrittore che abbia posto alcune delle fondamentali domande alle quali cercheremo di rispondere. Come e perché i romani sono riusciti a ottenere in così breve tempo la supremazia su gran parte del Mediterraneo? Quali erano gli elementi distintivi del sistema politico romano? O, come dice solennemente Polibio: Chi mai, infatti, può essere tanto sciocco o pigro da non voler conoscere come e con quale sistema di governo i romani abbiano vinto e ridotto sotto il proprio esclusivo dominio quasi tutte le regioni della terra abitata, cosa che non risulta essere avvenuta in precedenza?

Conquiste e conseguenze delle conquiste I «trentacinque anni» indicati da Polibio coprono la fine del III e l’inizio del II secolo a.C.; ma già sessant’anni prima i romani avevano dovuto affrontare il loro primo nemico d’oltremare: Pirro, sovrano di un regno della Grecia settentrionale, che nel 280 a.C. sbarcò in Italia in soccorso della città di Taranto. Le vittorie contro i romani, sosteneva Pirro, gli erano costate talmente tanti uomini che non avrebbe più potuto permettersene un’altra: da questa celebre battuta è nata l’espressione «vittoria di Pirro», per indicare una vittoria così dispendiosa da equivalere praticamente a una sconfitta. La frase è senza dubbio conciliante con la versione romana dei fatti, poiché Pirro rappresentò una minaccia molto seria per Roma. Annibale, a quanto sembra, lo considerava il più grande condottiero militare dopo Alessandro Magno; fu, almeno a giudicare da un ampio numero di affettuosi aneddoti, un uomo affascinante ma anche leggermente spaccone. Fu il primo a portare degli elefanti in Italia, e si dice che una volta avesse cercato, benché senza successo, di spaventare un romano che era andato a trovarlo facendo comparire improvvisamente da una tenda una delle sue bestie. È anche il primo personaggio della storia di Roma al quale possiamo attribuire un volto con una certa sicurezza. Dall’invasione di Pirro al 146 a.C. – quando gli eserciti romani, al termine della terza guerra punica (dal latino punicus, «cartaginese»), distrussero Cartagine e, quasi simultaneamente, la ricca città greca di Corinto – Roma e i suoi avversari furono coinvolti in guerre più o meno continue sulla penisola italiana e oltremare. Uno storico antico individuò nell’anno «in cui furono consoli Gaio Atilio e Tito Manlio» (235 a.C.) l’unico momento di questo periodo nel quale non vi furono ostilità. I conflitti più celebrati, e devastanti, furono le prime due guerre contro Cartagine. La prima durò oltre vent’anni (dal 264 al 241 a.C.) e fu combattuta per lo più in Sicilia e sui mari che la circondano, fatta eccezione per una disastrosa spedizione romana in territorio cartaginese, in Nordafrica. Si concluse con la sottomissione della Sicilia al controllo romano, alla quale pochi anni dopo si aggiunsero la Sardegna e la Corsica, sebbene l’epitaffio del figlio di Barbato esageri leggermente le sue imprese nella «conquista» dell’isola. Un’eccezionale scoperta recente ha portato alla luce dal fondo del Mediterraneo alcuni resti dell’ultima battaglia navale

combattuta fra i romani e i cartaginesi. Poco al largo della costa siciliana, nel punto in cui si ritiene che le due flotte si siano scontrate, gli archeologi che esplorano la zona fin dal 2004 hanno recuperato diversi rostri di bronzo appartenenti alle navi affondate (per lo più romane, ma si è trovata anche un’imbarcazione cartaginese), insieme ad almeno otto elmi di bronzo, uno dei quali conserva tracce di una scritta in punico, probabilmente incisa dal suo proprietario annegato, e numerose anfore che dovevano contenere i rifornimenti delle navi (si veda la tavola 8).

30. Questo ritratto di Pirro, scolpito più di due secoli dopo la sua morte e proveniente da una lussuosa villa appena fuori Ercolano, riproduce probabilmente un’immagine realizzata quando era ancora vivo. Ci sono numerosi «ritratti» più antichi di romani o di loro nemici, ma nessuno di essi può essere riferito con certezza a un preciso personaggio storico. Questo è il primo caso in cui vediamo il vero volto di un protagonista della storia romana.

La seconda guerra punica, che si protrasse dal 218 al 201 a.C., ebbe una dimensione geografica ben più vasta. È oggi ricordata soprattutto per l’eroica disfatta di Annibale, che attraversò le Alpi con i suoi elefanti (più una mossa propagandistica che un vero vantaggio militare) e inflisse durissime perdite ai romani in Italia sconfiggendoli in ripetute battaglie, la più catastrofica delle quali fu quella di Canne, nel 216 a.C. Soltanto dopo oltre un decennio di inconcludente guerriglia, il governo cartaginese, sempre più dubbioso sull’utilità dell’impresa e ora minacciato dall’esercito invasore di Scipione Africano, si decise a richiamare Annibale a Cartagine. Non fu però semplicemente una guerra italiana e nordafricana. Era iniziata con uno scontro fra romani e cartaginesi in Spagna, il che spiega le continue guerre che Roma vi dovette sostenere per quasi tutto il II secolo a.C. Inoltre, la possibilità che Annibale ricevesse aiuto dalla Macedonia spinse i romani in una serie di scontri nella Grecia settentrionale, che si conclusero con la sconfitta del re macedone Perseo nel 168 a.C. per opera di Emilio Paolo, il padre naturale di Scipione Emiliano, e poco dopo con la sottomissione di tutta la penisola greca al controllo romano. Come se non bastasse, negli anni Venti del III secolo a.C. i romani si impegnarono anche in una serie di intensi conflitti con i galli nell’Italia settentrionale. Fecero altresì periodiche incursioni al di là dell’Adriatico, in parte per risolvere il problema dei cosiddetti «pirati» (un termine con cui si indicava qualsiasi «nemico a bordo di navi»), i quali erano sostenuti dalle tribù e dai regni disseminati sulla costa opposta all’Italia, o almeno così si diceva. E nel 190 a.C., al comando di Scipione Asiatico, i romani inflissero una sconfitta decisiva al re di Siria Antioco «il Grande», il quale non soltanto si ispirava al modello di Alessandro Magno e cercava di estendere conseguentemente il suo regno, ma aveva addirittura dato ospitalità ad Annibale, che, esiliato da Cartagine, si riteneva fornisse al re preziosissimi consigli su come affrontare i romani. Le campagne militari erano un elemento caratteristico della vita romana,

e gli autori romani, proprio come ho fatto anch’io, articolarono il racconto della storia di questo periodo seguendo la successione delle guerre, alle quali diedero nomi brevi e concisi (spesso utilizzati ancora oggi). Quando Sallustio intitolò il proprio saggio sulla congiura di Catilina Bellum Catilinae (La guerra contro Catilina), non faceva che riflettere, forse con un leggero tono di parodia, la tradizione romana, che concepiva la guerra come il principio strutturante della storia. Era una tradizione dalle origini molto antiche. Del poema epico di Ennio sulla storia di Roma ci è rimasto un frammento nel quale si fa esplicito riferimento alla «seconda guerra punica», a cui l’autore aveva preso parte come alleato romano; il poema fu scritto ancor prima che scoppiasse la terza guerra punica. I romani destinavano un’enorme quantità di risorse alla guerra e, anche da vincitori, pagavano un alto tributo in vite umane. Nel corso di questo periodo, tra il 10 e il 25 per cento della popolazione adulta di sesso maschile prestò servizio nell’esercito ogni anno, una proporzione nettamente maggiore di quella di qualsiasi stato dell’epoca preindustriale e grosso modo confrontabile con il tasso di leva della prima guerra mondiale. A Canne combatté un numero di legioni doppio rispetto a quello che aveva combattuto nella battaglia di Sentino, appena ottant’anni prima: un preciso indizio della dimensione crescente di questi conflitti e della sempre più complessa ed elaborata logistica per l’equipaggiamento, il rifornimento e il trasporto. Un esercito come quello schierato dai romani e dai loro alleati a Canne, per esempio, aveva bisogno di almeno cento tonnellate di grano al giorno. I rapporti con le comunità locali che ciò implicava, il movimento di centinaia di animali da soma, i quali complicavano ulteriormente le cose consumando necessariamente una parte di quel che trasportavano, e le difficoltà di raccolta e distribuzione sarebbero stati inconcepibili all’inizio del secolo.

31. La disastrosa spedizione romana in Nordafrica durante la prima guerra punica fu rivestita di un tratto eroico con la storia di Marco Attilio Regolo. Dopo la sconfitta subita dai romani nel 255 a.C., i cartaginesi gli permisero di rientrare in patria per negoziare una tregua, a patto che facesse ritorno a Cartagine. A Roma, Regolo esortò i suoi concittadini a non stipulare alcun trattato di pace; poi, fedele alla sua promessa di romano, fece ritorno a Cartagine per affrontare la morte. Questo dipinto del XIX secolo raffigura la sua partenza da Roma, nonostante i disperati appelli della sua famiglia.

È difficile stabilire l’entità delle perdite: non esistevano conteggi sistematici dei caduti sui campi di battaglia; e le cifre fornite dai testi antichi devono essere considerate con estrema cautela, data la possibilità di esagerazioni, fraintendimenti e di gravi errori di copiatura da parte dei monaci medievali. Ciononostante, il novero complessivo delle perdite romane indicato da Livio per tutte le battaglie combattute nei primi trent’anni del II secolo a.C. (escludendo quindi le spaventose perdite subite negli scontri contro Annibale) ammonta a poco più di cinquantacinquemila

uomini: una cifra troppo bassa. C’era probabilmente la tendenza patriottica a diminuire l’entità delle perdite romane; non è chiaro se, oltre ai cittadini romani, sono inclusi anche gli alleati; ed è alquanto probabile che alcune battaglie e schermaglie non siano state registrate nell’elenco di Livio. Infine, il numero di chi moriva soltanto in seguito per le ferite riportate in battaglia deve essere stato estremamente alto (in generale, le armi antiche ferivano più che uccidere sul colpo; la morte sopraggiungeva in seguito, di solito per infezione). Ma ci fornisce un indizio sul costo umano di questa guerra esclusivamente per i romani. Il prezzo pagato dagli sconfitti è ancora più difficile da stabilire, ma fu probabilmente ancora maggiore. Bisogna però guardare al di là di questa carneficina, per quanto spaventosa possa essere stata, e indagare più a fondo la realtà e l’organizzazione della guerra ed esaminare gli sviluppi della politica interna che sta alla base dell’espansione romana, come pure le ambizioni romane e il più ampio quadro geopolitico dell’antico Mediterraneo, che può averla favorita. Polibio è la nostra guida più importante, ma possediamo altre interessanti testimonianze coeve (spesso iscrizioni su pietra) che ci consentono di delineare, almeno in parte, i rapporti tra i romani e il mondo esterno. Ci sono giunte testimonianze che descrivono di prima mano lo sbigottimento provato dagli inviati di piccole città greche al loro arrivo a Roma; e possiamo ancora leggere i testi dei trattati stipulati tra i romani e gli stati esteri. Il frammento più antico, datato al 212 a.C., fa parte di un accordo ben più ampio tra Roma e un gruppo di città greche, e stabilisce delle regole precise per la spartizione dei bottini di guerra: in sostanza, città e case ai greci e beni mobili ai romani. I successi militari d’oltremare ebbero importanti conseguenze anche per la stessa Roma. La rivoluzione letteraria è soltanto una di esse. Alla metà del II secolo a.C. i profitti di guerra avevano reso la popolazione dell’Urbe la più ricca del mondo allora conosciuto. Migliaia e migliaia di prigionieri di guerra fornivano la manodopera schiavizzata costretta a lavorare nei campi, nelle miniere e negli opifici romani, che sfruttavano risorse su una scala senza precedenti e alimentavano la produzione e la crescita economica romana. Montagne di lingotti di metallo prezioso, presi (o rubati) alle ricche città e ai regni d’Oriente, si riversarono nei ben protetti forzieri del tempio di Saturno nel Foro, che aveva la funzione di «tesoro» (Aerarium) di stato. E ne restava ancora abbastanza per riempire le tasche dei militari, dai grandi generali fino al soldato semplice. I romani avevano abbondanti motivi per festeggiare. Parte di questa

enorme ricchezza venne utilizzata per creare nuove infrastrutture pubbliche e monumenti civici: dalle installazioni portuali e i giganteschi magazzini sul Tevere ai nuovi templi eretti per celebrare l’aiuto degli dèi, i quali avevano garantito le vittorie che avevano portato tale ricchezza. Ed è facile immaginare le manifestazioni di gioia che si diffusero quando, nel 167 a.C., Roma divenne una città esentata dalle tasse: il tesoro traboccava (grazie, in particolare, al bottino che aveva fruttato la recente vittoria sui macedoni) al punto che si poté sospendere la tassazione diretta dei cittadini romani tranne che in casi di emergenza, sebbene restassero sottoposti a una serie di altre imposte, come i dazi doganali o una tassa speciale sulla liberazione o «manomissione» degli schiavi. Ma questi mutamenti avevano anche ripercussioni destabilizzanti. Non si trattava soltanto della preoccupazione di qualche stizzoso moralista per i pericolosi effetti di tutta questa ricchezza e di questo «lusso» (come allora si diceva). L’espansione della potenza romana suscitò intensi dibattiti e paradossi sulla posizione di Roma nel mondo, su cosa significasse il termine romano ora che gran parte del Mediterraneo era sottomessa al controllo di Roma, su dove passasse il confine tra barbarie e civiltà, e su quale lato di questo confine si trovasse Roma. Quando, per esempio, alla fine del III secolo a.C., le autorità accolsero la divinità della Grande Madre adorata sugli altipiani dell’odierna Turchia e la fecero insediare in un tempio a lei dedicato sul Palatino, con il suo seguito di sacerdoti castrati, autoflagellanti e dai lunghi capelli, quanto c’era di veramente romano in tutto questo? Le vittorie, in altre parole, recavano con sé una serie di problemi e paradossi. Ma la stessa definizione di «vittoria», e di «sconfitta», può essere incerta. Tale incertezza appare in modo particolarmente chiaro nella storia della battaglia di Canne. Se, da un lato, essa ci offre un’immagine della strategia, delle tattiche e del concreto svolgimento delle battaglie antiche, dall’altro, agli occhi di Polibio (e forse anche a quelli di Annibale), sollevava la domanda se proprio la più celebre sconfitta subita da Roma non fosse in qualche modo la più decisiva prova della sua potenza.

Canne e il volto sfuggente delle battaglie antiche Nel 216 a.C. le autorità romane eseguirono un rito che Livio definisce «assolutamente non romano». Seppellirono vive nel centro della città due coppie di vittime umane, due greci e due galli. Fu la cosa più vicina ai sacrifici umani cui i romani mai ricorsero, e l’imbarazzo di Livio nel raccontare l’episodio è evidente. Ma non fu l’unica volta che vi fecero ricorso: lo stesso rito era stato eseguito nel 228 a.C. in seguito a un’invasione gallica dal Nord, e ancora nel 113, quando si era profilata una nuova minaccia di invasione. Nel 216 a.C. l’esecuzione del rito fu determinata dalla vittoria di Annibale a Canne, trecento chilometri a sudest di Roma, che, in un solo pomeriggio di scontri, aveva causato spaventose perdite tra i romani (le stime oscillano fra quarantamila e settantamila, vale a dire circa cento morti al minuto). Innumerevoli enigmi avvolgono l’esecuzione di questo rito brutale. Perché sono state scelte vittime di origine gallica e greca? C’è forse un rapporto, e quale, con l’analogo seppellimento che subivano le vergini vestali colpevoli di avere violato il loro voto di castità (cosa che pure avvenne nel 216 e nel 113 a.C.)? In ogni caso, il sacrificio dimostra chiaramente il terrore e il panico che si diffusero a Roma dopo la schiacciante vittoria di Annibale. La battaglia di Canne, e l’intera storia della seconda guerra punica, hanno sempre attirato l’attenzione di generali, esperti e storici. Forse nessun’altra guerra è stata pensata e ripensata in così tanti studi e ricerche, o scrupolosamente analizzata dagli strateghi militari del mondo moderno, da Napoleone Bonaparte al feldmaresciallo Montgomery e a Norman Schwarzkopf. Le cause che l’hanno scatenata restano ancora avvolte nell’incertezza, che nessuna acuta ricostruzione o ardita ipotesi è riuscita a dissolvere. A posteriori, per i romani divenne un altro scontro tra superpotenze, degno di essere celebrato da poemi epici. L’Eneide di Virgilio gli attribuisce addirittura un’origine mitica nella preistoria romana, quando la regina cartaginese Didone, abbandonata dal suo amante Enea (ripartito per quel viaggio che lo avrebbe portato a fondare Roma), si era suicidata gettandosi su una pira funeraria e maledicendo lui e tutta la sua stirpe. In realtà, è molto difficile individuare gli autentici obiettivi delle parti in campo. Cartagine, grazie alla sua eccezionale posizione sulla costa nordafricana, con gigantesche infrastrutture portuali e un’estensione

urbana maggiore di quella della Roma di allora, aveva vasti interessi commerciali nel Mediterraneo occidentale e potrebbe avere avuto valide ragioni per diffidare della crescente potenza della sua rivale. Gli autori antichi e moderni hanno sottolineato, in diversi modi e gradi, le provocazioni romane nei confronti di Annibale in Spagna e il rancore del generale nemico nei confronti di Roma per la sconfitta nella prima guerra punica. Secondo la stima più recente, ci sono più di trenta versioni diverse sulle «vere» cause del conflitto. Le scelte strategiche dei romani e dei cartaginesi sono state considerate da molti studiosi particolarmente interessanti e rivelatrici. Per quanto riguarda Annibale, non si tratta semplicemente dei consueti interrogativi sulla via percorsa per far attraversare le Alpi alle sue truppe e ai suoi elefanti, o se il sistema che avrebbe utilizzato per spaccare le rocce delle montagne (quello di versarvi sopra dell’aceto) possa avere effettivamente funzionato (con ogni probabilità, no). La vera questione è sempre stata questa: perché mai, dopo la strabiliante vittoria di Canne, Annibale non abbia proseguito la marcia per conquistare la città di Roma finché ne aveva l’opportunità, e abbia invece lasciato ai romani il tempo per riprendersi dalla sconfitta. Livio, nella sua rielaborazione letteraria, immagina che un ufficiale di Annibale, chiamato Maarbale, gli abbia detto: «Tu sai vincere, Annibale, ma non sai come sfruttare la vittoria». Montgomery è solo uno dei tanti generali che si sono dichiarati d’accordo con Maarbale. Annibale era un brillante soldato e un audace stratega che aveva avuto la vittoria finale a portata di mano, ma, per qualche inspiegabile ragione (crollo nervoso o qualche difetto caratteriale), non aveva saputo coglierla. Da qui nasce il suo tragico fascino. La vittoria finale dei romani evidenzia uno scontro ben più materiale e pratico tra due diverse strategie e approcci militari: da una parte Quintus Fabius Maximus Verrucosus Cunctator (gli ultimi tre nomi, «Massimo, Verrucoso, Temporeggiatore», sono una tipica combinazione romana di vanteria e realismo) e dall’altra Scipione Africano. Fabio, che prese il comando subito prima della disfatta di Canne, evitò di affrontare Annibale in battaglia campale e adottò una tattica attendista, che univa forme di guerriglia e politica della terra bruciata, allo scopo di logorare l’avversario (da qui il soprannome di «Temporeggiatore»). Secondo alcuni osservatori, fu proprio questa astuta strategia a dare la vittoria finale ai romani. Malgrado i suoi stretti rapporti con Scipione Africano, Ennio attribuiva a Fabio l’onore di avere garantito la sopravvivenza di Roma: «un solo uomo ci

ha restituito lo stato temporeggiando [cunctando]». George Washington, il «Fabio americano», com’è stato talvolta chiamato, scelse un’analoga strategia all’inizio della guerra d’indipendenza americana, stuzzicando piuttosto che affrontando direttamente il nemico; e persino la Fabian Society della sinistra britannica ha adottato il suo nome e seguito il suo esempio, per inviare questo messaggio: «Se vuoi che la rivoluzione abbia successo, devi, proprio come Fabio, concederle tempo». Ma c’è sempre stato chi lo ha ritenuto un indolente o un indeciso anziché un intelligente stratega, in netto contrasto con il ben più audace Scipione Africano, che alla fine riuscì a ottenere il comando e persuase il Senato a permettergli di spostare la guerra in Africa e assestare qui il colpo finale ad Annibale. Per descrivere questa riunione del Senato, Livio inscena un dibattito, in gran parte immaginario, tra l’anziano e prudente Fabio e Scipione Africano, l’energica stella nascente. Questo dibattito non individua semplicemente i loro diversi atteggiamenti nei confronti della guerra, ma anche due diversi modi di concepire la virtus romana. Virtus, «virtù» ma anche «virilità, coraggio», significava necessariamente rapidità e vigore? Si può essere eroici temporeggiando? L’analisi strategica a posteriori può essere però fuorviante, specie quando cerca di ricreare lo svolgimento di una determinata battaglia. Le discussioni tattiche, con tutti gli splendidi schemi e diagrammi militari che normalmente le accompagnano, offrono una versione assai addolcita della guerra romana, avallando la nostra impressione di conoscere la realtà di quelle battaglie ben più precisamente di quanto in effetti ne sappiamo, e questo vale anche per una battaglia così celebre come quella di Canne. Senza dubbio, Polibio (che potrebbe avere consultato dei testimoni oculari), Livio e altri storici ce ne danno lunghi resoconti, che tuttavia sono reciprocamente incompatibili in molti particolari, difficili da comprendere e in certi casi quasi del tutto privi di senso. Non sappiamo neppure dove esattamente abbia avuto luogo la battaglia, e le diverse localizzazioni proposte sono soltanto il frutto del tentativo di accordare le contrastanti informazioni degli autori antichi con la conformazione del territorio, secondo l’aspetto che avrebbe dovuto avere a quel tempo, senza dimenticare i mutamenti di corso del vicino fiume. Per di più, nonostante la quasi mistica ammirazione moderna per la tattica di Annibale a Canne (che è ancora descritta sui manuali delle accademie militari), essa non fu molto più di un abile adattamento della strategia di accerchiamento delle retrovie nemiche; una manovra che i generali dell’antichità cercavano sempre di

effettuare, se ne avevano l’opportunità, perché era il sistema più efficace per circondare gli avversari e il solo modo affidabile per ucciderne o catturarne il maggior numero possibile. In effetti, è difficile immaginare che si potessero adottare tattiche più complesse in una battaglia con oltre centomila uomini schierati in campo. Come i comandanti possano avere impartito e fatto eseguire i propri ordini agli eserciti, o persino come abbiano potuto essere informati di quel che stava accadendo nelle varie zone in cui avvenne lo scontro, rimane un mistero insolubile. Se a ciò si aggiunge la molteplicità delle lingue parlate all’interno dell’esercito (si trattasse di mercenari di varia origine o di alleati che non conoscevano il latino), la presenza di stravaganti protagonisti (alcuni galli a quanto pare combattevano nudi), il fatto che la cavalleria fosse costretta a manovrare e combattere senza l’ausilio delle staffe (un’invenzione successiva) e, in alcune battaglie (ma non in quella di Canne, visto che Annibale non ne aveva più nessuno a disposizione), il panico degli elefanti feriti che si voltavano in fuga scompigliando le proprie stesse linee, il quadro che se ne ottiene è quello di un completo caos. Emilio Paolo aveva forse in mente qualcosa di simile quando osservò: Una persona capace di schierare un esercito a battaglia contro il nemico come si addice a un vero generale, sa anche organizzare con abilità e gusto dei giochi e provvedere all’allestimento di un banchetto con la dovuta magnificenza.

Si ritiene generalmente che Paolo alludesse al nesso tra vittoria militare e spettacoli; ma potrebbe anche aver voluto sottintendere che le doti di un generale vittorioso non andavano molto oltre quelle di una competenza organizzativa di base. Ciononostante, la battaglia segnò effettivamente una svolta cruciale nella seconda guerra punica, e altresì nella più ampia storia dell’espansione militare romana, proprio perché i romani riportarono perdite gravissime e rimasero quasi completamente privi di riserve monetarie. La principale moneta bronzea, l’asse (as), subì una progressiva riduzione di peso nel corso della guerra, da quasi 300 grammi ad appena poco più di 50. E Livio racconta che nel 214 a.C. si richiese ad alcuni singoli romani di finanziare a proprie spese l’equipaggiamento della flotta: illuminante prova del patriottismo che alimentava lo sforzo bellico, dell’esaurimento del tesoro pubblico, ma anche del denaro che ancora si trovava in mani private, malgrado la crisi. Nelle stesse circostanze, quasi ogni altro stato

dell’antichità sarebbe stato costretto ad arrendersi. Nulla dimostra l’importanza delle enormi riserve di cittadini e di rinforzi alleati su cui poteva contare Roma meglio del fatto che abbia continuato a combattere. A giudicare da ciò che fece dopo Canne, forse anche Annibale se ne rese conto. Potrebbe non essere stata una perdita del proprio autocontrollo a dissuaderlo dalla marcia sulla capitale. Sapendo che la riserva di uomini garantita dagli alleati contribuiva in modo decisivo alla forza di Roma, si impegnò nel lento e faticoso tentativo di persuadere gli alleati italici di Roma a passare dalla sua parte; ottenne qualche successo, ma non riuscì mai a creare una compagine sufficientemente grande per minacciare la compattezza e la solidità romane. Lo stesso pensiero deve avere avuto in mente Polibio quando decise di inserire nelle sue Storie una lunga digressione sulla forza e la solidità del sistema politico romano, nella forma che aveva al tempo della battaglia di Canne. Lo scopo più generale della sua opera era spiegare perché i romani avevano conquistato il mondo; e la spiegazione stava anche nella forza e nella stabilità delle strutture politiche romane. La sua trattazione rappresenta la prima descrizione grosso modo contemporanea della vita politica romana giunta fino a noi (Polibio trattava un periodo da cui lo separava un cinquantennio, ma vi inserisce anche osservazioni relative alla sua epoca); ed è il primo tentativo di analisi teorica del funzionamento della politica romana, che definisce ancora oggi i parametri della ricerca.

Polibio e la politica romana Polibio, che conosceva Roma tanto da nemico quanto da amico, si trovava in una posizione eccezionalmente favorevole per riflettere sull’ascesa della città e sulle sue istituzioni. Nato da una famiglia appartenente all’aristocrazia politica di una città del Peloponneso, era poco più che trentenne quando, nel 168 a.C., Emilio Paolo aveva sconfitto il re Perseo; e si ritrovò così tra i mille ostaggi greci portati a Roma nell’ambito delle successive epurazioni politiche, o comunque per misure precauzionali. La maggior parte di loro venne sottoposta a un leggero regime di arresti domiciliari e dispersa in diverse città della penisola. Polibio, che era già conosciuto come scrittore, fu più fortunato. Strinse presto rapporti amichevoli con Scipione Emiliano e ottenne il permesso di rimanere a Roma, dove divenne de facto il tutore del giovane con cui ebbe la stessa intimità di «un padre con il figlio». Brani del consiglio dato da Polibio a Emiliano venivano ancora citati, o distorti, più di duecento anni dopo: «Non tornare mai dal Foro» lo avrebbe esortato «senza prima esserti fatto almeno un nuovo amico». Questi ostaggi vennero liberati attorno al 150 a.C. Ne rimanevano in vita soltanto trecento, e si dice che un romano senza troppi peli sulla lingua si sia lamentato che il Senato perdesse tempo a «discutere, a proposito di alcuni poveri vecchietti greci, se debbano essere condotti alla tomba da becchini romani oppure achei!». Ma Polibio si riunì ben presto ai suoi amici nell’Urbe, seguendo l’esercito a Cartagine e fungendo da intermediario nei negoziati che seguirono la distruzione di Corinto nel 146 a.C. Era ancora impegnato nella stesura delle sue Storie, che alla fine costituirono un’opera in quaranta libri, dedicata principalmente agli anni 220-167 a.C., con un breve excursus sulla prima guerra punica e un epilogo per aggiornare la narrazione fino al 146 a.C. Quale che fosse il pubblico al quale Polibio intendeva rivolgersi, greco o romano, la sua opera divenne un riferimento importante per i romani di epoche successive che cercavano di comprendere l’ascesa della loro città. Quando scrisse la sua monumentale storia di Roma, Livio la teneva di sicuro sulla propria scrivania. Come si può facilmente comprendere, gli storici moderni si sono trovati in difficoltà quando hanno dovuto decidere dove fissare il confine tra il Polibio ostaggio e critico del dominio romano e il Polibio collaboratore dei

romani. Talvolta dovette senza dubbio trovare un delicato equilibrio tra le sue diverse fedeltà, come quando diede sotto banco consigli a un illustre ostaggio siriano su come sfuggire alla sua prigionia, e nelle sue Storie ribadisce con forza che il giorno della fuga lui si trovava in casa, «a letto malato». Comunque, quale che fosse la sua posizione politica, Polibio aveva il vantaggio di conoscere la storia di Roma da un punto di vista sia interno che esterno, ed ebbe inoltre l’opportunità di interrogare alcuni dei principali protagonisti romani. Dissezionò l’organizzazione politica di Roma (che, a suo giudizio, stava alla base del suo successo all’estero), mettendo a frutto un paio di decenni di esperienze personali e tutta la profondità della teoria politica greca, che aveva studiato in patria. La sua opera, in effetti, è uno dei più antichi saggi di antropologia politica comparata che siano giunti fino a noi.

32. Questa immagine di Polibio fu realizzata nel II secolo d.C., in una piccola città della Grecia, da un uomo che affermava di essere un discendente del celebre storico. Unico suo «ritratto» sopravvissuto, non può naturalmente riprodurre le sue vere fattezze. Si ispira invece al modello dei guerrieri della Grecia classica del V secolo a.C., trecento anni prima della sua epoca. A complicare ulteriormente le cose, l’originale è andato perduto e ne è rimasto soltanto questo calco in gesso.

Così, le sue pagine sono una straordinaria combinazione di acute

osservazioni, perplessità e talvolta disperati tentativi di formulare un’autonoma teorizzazione della politica. Sottopose a un’accurata analisi il mondo romano in cui si trovò catapultato e i suoi nuovi amici romani. Riconobbe, per esempio, la grande importanza della religione, o «timore degli dèi», come fattore di controllo del comportamento dei romani, e rimase molto colpito dall’efficienza sistematica dell’organizzazione romana; questo spiega la sua importante (ma oggi spesso tralasciata) discussione dei preparativi e dei dispositivi militari, con le loro regole fai da te sull’allestimento di un accampamento, sul punto in cui doveva essere piantata la tenda del console, su come predisporre le salmerie per le legioni e sulla loro ferrea disciplina. E seppe anche rintracciare, al di sotto della superficie di numerosi costumi e passatempi favoriti dai romani, il loro vero significato sociale. Tutte le storie che deve avere ascoltato sul valore, l’eroismo e lo spirito di sacrificio dei romani, continuamente rinarrate attorno ai fuochi degli accampamenti, non erano raccontate soltanto a fini di intrattenimento, sosteneva Polibio. La loro funzione era quella di incoraggiare i giovani a imitare le valorose imprese dei propri antenati: erano un elemento essenziale di quello spirito di emulazione, ambizione e competizione che lo storico greco vedeva incarnato nell’aristocrazia romana. Un altro riflesso di questo spirito, al quale dedica un lungo ma leggermente macabro excursus, era visibile nei funerali degli «uomini illustri». Anche in questo caso, Polibio deve avere assistito personalmente a un certo numero di queste cerimonie, riuscendo così a coglierne il significato più profondo. Il corpo del defunto, scrive, veniva portato nel Foro e collocato sui rostra, di solito in posizione eretta, in modo che fosse visibile a tutta la folla riunita. Nella processione che faceva seguito a questa esposizione, i membri della famiglia del defunto indossavano maschere che riproducevano le fattezze dei suoi antenati e abiti conformi alle cariche che avevano detenuto (toga trabea ecc.), come se fossero tutti presenti «in carne e ossa». L’orazione funebre, pronunciata da uno di loro, si apriva con l’elogio delle imprese compiute dal defunto, e poi passava in rassegna quelle di tutti gli altri personaggi, che ora stavano accanto a lui seduti su sedie d’avorio, o perlomeno intarsiate d’avorio. «Ma quel che più importa» conclude Polibio «è il fatto che i giovani vengono incitati a sopportare qualsiasi cosa nell’interesse dello stato, al fine di ottenere la gloria che accompagna gli uomini valorosi.» È probabilmente una visione alquanto ottimistica dell’elemento competitivo che caratterizzava la cultura romana. Una competizione fuori

da ogni controllo, però, contribuì piuttosto a distruggere che a preservare la repubblica. Ma, anche prima del suo tramonto, si può supporre con una certa sicurezza che, per ogni giovane romano ispirato a vivere emulando il modello dei suoi antenati, ce ne fosse un altro oppresso dal peso della tradizione e delle aspettative che lo circondavano, come lo stesso Polibio avrebbe potuto notare se avesse scelto di tenere conto di tutte le storie che parlavano di figli che uccidevano i propri padri. È tuttavia una visione che troviamo perfettamente sintetizzata nelle parole di un altro epitaffio proveniente dalla tomba degli Scipioni, che ci piace pensare Polibio possa avere visto: Ho procreato figli. Ho cercato di eguagliare le imprese di mio padre. Mi sono meritato gli elogi dei miei antenati, soddisfatti che io appartenga alla loro stirpe. La mia carriera ha nobilitato la mia linea familiare.

Al centro della discussione di Polibio, comunque, stavano questioni di più vasta portata. Come si poteva definire e caratterizzare il sistema politico romano nel suo complesso? Come funzionava? Roma non ebbe mai una costituzione scritta, ma Polibio riconobbe nell’Urbe un perfetto e concreto esempio di un antico ideale filosofico greco: quello della «costituzione mista», capace di combinare i migliori aspetti della monarchia, dell’aristocrazia e della democrazia. I consoli – che avevano il supremo comando militare, potevano convocare le assemblee popolari e impartire ordini a tutti gli altri magistrati (tranne ai tribuni della plebe) – rappresentavano l’elemento monarchico. Il Senato, al quale, nell’epoca di Polibio, spettavano il controllo delle finanze romane, la responsabilità dei rapporti diplomatici con le altre città e, de facto, la supervisione della legge e della sicurezza su tutto il territorio romano e alleato, rappresentava l’elemento aristocratico. L’elemento democratico, infine, era rappresentato dal popolo. I termini democrazia e popolo vanno intesi in un senso che non coincide completamente con quello moderno; nel mondo antico non esisteva il suffragio universale: donne e schiavi non avevano diritti politici ufficialmente riconosciuti. Polibio si riferiva esclusivamente al gruppo dei cittadini maschi nel suo complesso. Come nell’Atene classica, essi – e soltanto essi – eleggevano i magistrati dello stato, approvavano o respingevano le leggi, prendevano la decisione finale sull’entrata in guerra e fungevano da corte giuridica per i reati più gravi. Il segreto, sosteneva Polibio, stava in un delicato equilibrio di reciproco

controllo tra consoli, Senato e popolo, in modo che non potesse prevalere né la monarchia, né l’aristocrazia, né la democrazia. I consoli, per esempio, potevano avere un comando assoluto, per così dire monarchico, nelle campagne militari, ma dovevano essere stati prima eletti dal popolo, e dipendevano dal Senato per le sovvenzioni finanziarie; ed era il Senato a decidere se a un generale vittorioso dovesse essere concessa la celebrazione del trionfo al termine della campagna, così come era necessario un voto del popolo per ratificare un trattato. Era proprio questo meccanismo di reciproco controllo tra i vari elementi del sistema politico romano a garantire, secondo Polibio, la stabilità interna su cui si fondava il successo esterno di Roma. È un’analisi molto acuta, capace di cogliere le più piccole differenze e sfumature che distinguono un sistema politico dall’altro. Senza dubbio, per certi aspetti Polibio cerca di ricondurre la vita politica romana a un modello analitico greco che tuttavia non riesce a contenerla interamente. Attribuire alla sua analisi termini come democrazia, per esempio, rischia di essere davvero molto fuorviante. «Democrazia» (demokratia) era un concetto indissolubilmente legato, nella sua origine linguistica e nei suoi risvolti politici, al mondo greco. Non rappresentò mai un richiamo politico a Roma, anche nel suo senso antico e più limitato, neppure per i politici romani più radicali. Nella maggior parte dei testi che ci sono giunti, di orientamento conservatore, il termine significa pressappoco «dominio della massa». Non ha senso domandarsi quanto «democratica» fosse la politica della Roma repubblicana: i romani combattevano e lottavano per la libertà, non per la democrazia. Tuttavia, per altri aspetti, richiamando i suoi lettori a non perdere di vista il popolo nella propria raffigurazione della politica romana e a oltrepassare la superficie dell’autorità di cui erano investiti i magistrati eletti e il Senato aristocratico, Polibio ha avviato un importante dibattito, ancora oggi in pieno corso di svolgimento. Quale era la reale influenza del popolo nella politica della Roma repubblicana? Chi aveva il vero controllo di Roma? Come dobbiamo caratterizzare, secondo la nostra prospettiva moderna, il sistema politico romano? È piuttosto facile delineare un quadro della vita politica repubblicana completamente dominato da una ricca minoranza. Il conflitto di classe ebbe come esito non la rivoluzione popolare bensì la creazione di una nuova classe di governo, formata da patrizi e plebei ricchi. Il primo requisito per potere rivestire la maggior parte delle cariche politiche era la ricchezza. Nessuno poteva permettersi di candidarsi alle elezioni senza superare un

esame finanziario che escludeva la maggior parte dei cittadini; non sappiamo quale fosse la cifra richiesta, ma si può ragionevolmente supporre che fosse posta al vertice della gerarchia censitaria, ossia al livello equestre. Quando il popolo si riuniva per votare, lo stesso sistema di votazione era concepito in modo da favorire i ricchi. Ne abbiamo già osservato il funzionamento nel caso dei comizi centuriati, che eleggevano i magistrati superiori: se le centurie dei ricchi si muovevano unite e compatte, potevano determinare il risultato delle elezioni indipendentemente dal voto delle centurie più povere. L’altra principale assemblea di Roma, organizzata secondo la ripartizione geografica delle tribù, aveva in teoria una struttura più egualitaria, ma, con il passare del tempo, nella pratica non fu necessariamente così. Delle trentacinque suddivisioni geografiche che vennero infine stabilite nel 241 a.C. (fino a quel momento il numero delle tribù era aumentato man mano che la cittadinanza romana veniva estesa a nuove regioni e comunità dell’Italia), soltanto quattro si trovavano entro la città di Roma. Le altre trentuno si distribuivano sull’ormai molto esteso territorio rurale romano. Poiché il voto doveva essere espresso personalmente a Roma, il peso di coloro che si potevano permettere il lusso di un viaggio in città era naturalmente schiacciante; il voto della popolazione residente nell’Urbe aveva rilevanza soltanto per la minuscola minoranza delle tribù urbane. Inoltre, a rigor di termini, queste assemblee si riunivano unicamente per votare su una lista di candidati o su una proposta avanzata da un magistrato superiore. Non si svolgeva alcuna discussione generale; nessuna proposta di legge o emendamento poteva provenire dal basso; in quasi tutti i casi di proposte di legge di cui siamo a conoscenza, il popolo votò a favore di ciò che gli veniva indicato. Insomma, non si trattava di potere popolare nel senso in cui lo intendiamo noi. Ma questo non è il solo aspetto della questione. Oltre alle prerogative ufficiali del popolo sottolineate da Polibio, possediamo chiare tracce di una più ampia cultura politica nella quale la voce popolare aveva un ruolo di primo piano. Il voto dei poveri contava, ed era avidamente corteggiato. I ricchi di solito non erano uniti, e le elezioni erano aperte alla competizione. Chi aspirava a cariche politiche o le rivestiva faceva ogni sforzo per persuadere il popolo a votare in suo favore o ad approvare le sue proposte di legge, e studiava a fondo le tecniche retoriche che consentivano di raggiungere questo obiettivo. Chi ignorava o umiliava il popolo lo faceva a proprio rischio e pericolo. Una delle peculiarità della scena politica repubblicana consisteva nelle riunioni semiufficiali (contiones), spesso

tenute immediatamente prima delle assemblee elettorali, in cui magistrati rivali cercavano di convincere il popolo ad appoggiare la loro posizione (Cicerone, per esempio, pronunciò la seconda e la quarta orazione contro Catilina in queste contiones). Non sappiamo con certezza quanto frequentemente si tenessero o quale consistenza avessero. Ma numerose testimonianze ci mostrano che erano animate da forti passioni politiche, rumorosa partecipazione e gran baccano. Si raccontava che in un’occasione, nel I secolo a.C., le grida erano talmente assordanti che una cornacchia, alla quale era toccata la disgrazia di svolazzare sopra quell’assembramento, fosse caduta a terra tramortita dal rumore. Si raccontavano anche innumerevoli aneddoti sull’importanza e l’intensità della propaganda, e su come si potevano conquistare o perdere i voti del popolo. Polibio riferisce una curiosa storia sul re siriano Antioco IV Epifane (che significa «rinomato» o meglio «dio manifesto»), figlio di Antioco il Grande, che era stato «sbaragliato» da Scipione Asiatico. Da giovane aveva vissuto a Roma per oltre dieci anni come ostaggio, per poi essere scambiato con un parente più giovane (si trattava della stessa persona alla quale Polibio diede in seguito consigli su come fuggire). Al suo ritorno in Oriente, Antioco iniziò a sfoggiare una serie di abitudini che aveva assunto durante la sua permanenza a Roma, il cui elemento comune era un certo tocco popolare: chiacchierare con chiunque incontrasse, offrire regali alla gente semplice e fare il giro delle botteghe degli artigiani. Ma, cosa più stupefacente di tutte, indossava la toga e andava nella piazza del mercato come se fosse un candidato alle elezioni, stringendo la mano ai passanti e chiedendo il loro voto. Questo comportamento lasciò stupefatti gli abitanti della sua elegante capitale Antiochia, che non erano abituati a simili esibizioni da parte di un monarca e lo soprannominarono Epimanes («matto», con gioco di parole sull’epiteto Epifanes). Ma dimostra una cosa: che a Roma Antioco aveva imparato quanto fosse importante il voto del popolo. Altrettanto illuminante è un aneddoto che ha come protagonista un altro membro della famiglia degli Scipioni vissuto nel II secolo a.C., Publio Cornelio Scipione Nasica. Un giorno, mentre stava promuovendo la propria candidatura alla carica di edile ed era indaffarato a stringere le mani degli elettori (una prassi comune, allora come oggi), gli capitò di toccare quella di un uomo che recava nelle dita e nel palmo i segni del lavoro nei campi. «Accidenti!» disse scherzando il giovane aristocratico. «Forse che ci camminate sopra?» Le sue parole furono udite, e il popolino si convinse che

stesse deridendo la loro povertà e le loro fatiche. Il risultato, naturalmente, fu che perse le elezioni. Che tipo di sistema politico era dunque? L’equilibrio tra i diversi interessi non era certamente così perfetto come lo fa apparire Polibio. I poveri non avevano la minima possibilità di salire al vertice della politica romana, la gente comune non poteva assumere iniziative politiche e si dava per scontato che, quanto più ricco era un singolo cittadino, tanto maggiore doveva essere il suo peso politico. Ma questa forma di squilibrio è ben nota anche in molte cosiddette «democrazie» moderne: anche a Roma i ricchi e i privilegiati rivaleggiavano per cariche e potere politico che potevano essere garantiti soltanto da elezioni popolari e con l’appoggio della gente comune, che non avrebbe mai avuto i mezzi finanziari per rappresentarsi da sola. Come il giovane Scipione Nasica scoprì a proprie spese, il successo dei ricchi era un dono elargito dai poveri. I ricchi dovevano imparare che dipendevano dal popolo nella sua interezza.

Un impero fondato sull’obbedienza Polibio non aveva il minimo dubbio che alla base del successo di Roma vi fosse, fra le altre cose, la sua stabile «costituzione». Egli però aveva conosciuto per esperienza diretta il lato tagliente della guerra romana, e vedeva in Roma anche una potenza aggressiva, animata dall’ambizione imperialistica di conquistare il mondo. Come ribadisce alla fine del suo racconto della prima guerra punica, i romani «non soltanto concepirono l’audace progetto di sottomettere e dominare il mondo intero, ma riuscirono anche a portarlo a compimento». Non tutti erano d’accordo con Polibio. Come riconosce lui stesso, c’erano persino alcuni greci convinti che le conquiste di Roma erano avvenute «per puro caso» o «per circostanze meramente fortuite». Molti romani sostenevano che la loro espansione oltremare era stata l’esito di una serie di guerre giuste, nel senso di guerre intraprese con il necessario appoggio degli dèi, per autodifesa o in soccorso di loro alleati, che avevano ripetutamente chiesto l’aiuto di Roma. Non si trattava mai di un’aggressione. Se Polibio avesse potuto vedere, meno di cento anni dopo la sua morte, le statue colossali dei generali romani che reggevano in mano un globo, avrebbe senz’altro ritenuto che la storia gli aveva dato ragione. Un’idea di predominio mondiale si cela dietro molte manifestazioni della potenza romana nel I secolo a.C. e anche in seguito («un impero senza confini», come profetizza Giove nell’Eneide di Virgilio). Ma Polibio si sbagliava, come dimostra chiaramente il suo stesso racconto degli eventi, nell’immaginare che già in questo remoto periodo i romani fossero guidati da quella ideologia imperialistica o da un qualche sentimento di destino manifesto. C’erano sete di gloria, desiderio di conquista e pura brama dei profitti economici assicurati dalle vittorie a tutti gli strati della società romana. Non c’è nulla di cui sorprendersi se la prospettiva di un ricco bottino fu fatta balenare davanti agli occhi del popolo quando, alla vigilia dello scoppio della prima guerra punica, gli venne chiesto di votare a favore del conflitto contro Cartagine. Ma, qualsiasi fantasia possa essere stata concepita negli incontri degli Scipioni, nessuna di esse si spingeva al punto di elaborare un piano di dominio mondiale. Proprio come l’estensione del controllo sulla penisola italiana, anche l’espansione oltremare nel III e II secolo a.C. fu più complessa di quanto

faccia supporre il consueto mito delle legioni romane che marciano vittoriose alla conquista di territori stranieri. In primo luogo, i romani non furono i soli attori di questa vicenda. Non invasero un mondo di popoli amanti della pace, che pensavano esclusivamente ai propri affari fino al giorno in cui giunsero questi famelici criminali. Per quanto scettici possiamo giustamente dichiararci a proposito delle pretese romane di entrare in guerra soltanto in risposta alle richieste di aiuto di amici e alleati (questa è stata la giustificazione per molti dei conflitti più aggressivi della storia), non c’è dubbio che parte della pressione per l’intervento romano giungeva dall’esterno. Il mondo del Mediterraneo orientale, dalla Grecia all’odierna Turchia e oltre, fu il contesto in cui si svolse gran parte delle operazioni militari condotte da Roma in questo periodo. Era un mondo di conflitti politici, di alleanze mutevoli e di continua e spietata violenza fra stati rivali, non diversamente dall’Italia arcaica, ma su una scala molto più grande. Questa era l’eredità lasciata dalle fulminee conquiste di Alessandro Magno, che era morto nel 323 a.C., prima di potere affrontare il problema di cosa fare con i paesi che aveva sconfitto. I suoi successori, i cosiddetti «diadochi», crearono dinastie rivali che si impegnarono in una serie più o meno ininterrotta di guerre e controversie reciproche e con i più modesti stati e coalizioni che si trovavano ai loro confini. Pirro fu solo uno di questi dinasti. Antioco Epifane un altro: dopo la sua detenzione a Roma e i tentativi di politica popolare intrapresi al suo rientro in patria, riuscì, nel corso di un regno di dieci anni (dal 175 al 164 a.C.), a invadere l’Egitto (due volte), Cipro, la Giudea (provocando tra l’altro la rivolta dei maccabei), la Partia e l’Armenia. Più cresceva la percezione della potenza di Roma, più questi stati rivali guardavano ai romani come a utili alleati nelle lotte di potere locali e ne corteggiavano l’amicizia. Delegati dei paesi dell’Oriente si presentavano continuamente a Roma nella speranza di ottenere sostegno morale o aiuti militari. Questo è un tema ricorrente nelle trattazioni storiche su questo periodo: si ricordava, per esempio, un infinito numero di delegati giunti a Roma nei mesi precedenti la campagna di Emilio Paolo contro Perseo, al fine di convincere i romani a fare qualcosa per contenere le ambizioni della Macedonia. Ma l’esempio più vivo e illuminante di questi «corteggiamenti» proviene da Teo, una città sulla costa occidentale dell’odierna Turchia. È un’iscrizione della metà del II secolo a.C. nella quale si descrivono i tentativi compiuti per coinvolgere i romani in una controversia locale – della quale null’altro sappiamo – relativa a certi diritti territoriali tra la città

di Abdera, nella Grecia settentrionale, e un re locale chiamato Kotys. Il testo è una sorta di «lettera di ringraziamento» incisa nella pietra, indirizzata alla città di Teo dal popolo di Abdera. Gli abitanti di Teo, a quanto sembra, avevano accettato di inviare a Roma due propri uomini, quasi dei veri lobbisti nel senso moderno del termine, per ottenere il sostegno romano alle ragioni di Abdera contro il re. Gli abderiti descrivono dettagliatamente il modus operandi di questi due uomini, fino alle loro regolari visite a domicilio ai più importanti membri del Senato. Si diedero così tanto da fare che «si sfiancarono nel corpo e nella mente, passando l’intera giornata a incontrare i romani più importanti e cercando di persuaderli tributandogli continuamente omaggio»; e, quando andavano a trovare qualcuno che sembrava essere schierato dalla parte di Kotys (il quale pure aveva inviato delegati a Roma), «riuscivano a conquistare la sua amicizia esponendo i fatti e facendogli ogni giorno visita nel suo atrio di casa», vale a dire quella che era la sala centrale delle case romane. Il silenzio dell’iscrizione sull’esito di questi tentativi fa supporre che le cose non siano andate nel senso desiderato da Abdera. Tuttavia questo vivido squarcio su delegati rivali che non si limitano a presentarsi in Senato, ma perorano quotidianamente la propria causa andando nelle stesse case dei senatori, ci permette di farci un’idea dell’insistenza con cui veniva cercata l’assistenza romana. E le statue di singoli romani raffigurati come «salvatori e benefattori», erette letteralmente a centinaia nelle città del mondo greco, mostrano altrettanto bene con quale sfarzo potesse essere celebrato l’intervento, se vittorioso. Oggi non possiamo più rintracciare la doppiezza che si cela dietro queste parole: senza dubbio, non c’era soltanto sincera gratitudine, ma anche paura e adulazione. Ma servono a ricordarci che la semplice espressione «conquista romana» può nascondere un ampio spettro di prospettive, di motivazioni e di aspirazioni in entrambe le parti dell’equazione. Inoltre, i romani non cercarono di annettere territori d’oltremare in modo sistematico o di imporre meccanismi di controllo rigidamente standardizzati. Questo spiega, almeno in parte, perché il processo di espansione sia stato così rapido: non prevedeva la creazione di alcuna infrastruttura di governo. Naturalmente, Roma traeva ricompense materiali da coloro che aveva sconfitto, ma in modi ogni volta diversi, stabiliti ad hoc. Nella sola prima metà del II secolo a.C. i romani imposero ad alcuni stati il pagamento di indennità in denaro per un ammontare complessivo di oltre seicento tonnellate di lingotti d’argento. In altri casi adottarono il sistema di

tassazione già impiegato dai precedenti sovrani del luogo. Talvolta si inventavano nuovi modi per rastrellare rendite enormi. Per esempio, le attività estrattive nelle miniere d’argento spagnole, un tempo parte del dominio di Annibale, furono incrementate così intensamente che l’inquinamento ambientale provocato dai processi di lavorazione può essere ancora individuato nei carotaggi profondi dei ghiacciai groenlandesi. E Polibio, il quale visitò la Spagna nella metà del II secolo a.C., parla di quarantamila minatori, senza dubbio quasi tutti schiavi, impegnati in un solo settore del territorio minerario (la cifra non deve probabilmente essere intesa alla lettera: «quarantamila» era un modo comune per indicare «un numero davvero grande», un po’ come il nostro «milioni»). Anche le forme del controllo politico variavano: dai trattati di «amicizia», basati su una politica di non ingerenza ma con la presa di ostaggi come garanzia di buon comportamento, fino alla presenza più o meno permanente di truppe e funzionari romani. Quanto avvenne dopo la sconfitta del re macedone Perseo è soltanto un esempio di queste disposizioni. La Macedonia venne divisa in quattro stati indipendenti e autonomi: pagavano le tasse a Roma, ma in proporzione dimezzata rispetto a quelle imposte da Perseo; e, in questo particolare caso, le miniere macedoni vennero chiuse per evitare che le loro risorse potessero essere usate per costruire una nuova base di potere nella regione. Era, effettivamente, un impero coercitivo, nel senso che i romani ne ricavavano un guadagno e si preoccupavano di assicurare che la loro volontà potesse essere imposta ogni qualvolta lo ritenevano necessario, sempre con la minaccia della forza sullo sfondo. Non era un impero fondato sull’annessione territoriale, come gli stessi romani lo avrebbero in seguito concepito. Non esisteva alcuna precisa intelaiatura giuridica di controllo e regolamentazione, né alcun genere di ambiziosa visione. In quest’epoca, persino la parola imperium, che alla fine del I secolo a.C. poteva significare «impero» per indicare l’intera area sottoposta al governo diretto di Roma, definiva ancora una nozione che si potrebbe riassumere come «il potere di emanare ordini cui si obbedisce». E provincia, che divenne il termine ufficiale per indicare una suddivisione precisamente definita dell’impero posta sotto il controllo di un governatore, non era un termine geografico, ma indicava una responsabilità di cui erano investiti i magistrati romani. Responsabilità che poteva essere, e spesso era, un incarico di natura militare o amministrativa in un luogo particolare. A partire dalla fine del III secolo a.C. la Sicilia e la Sardegna iniziarono a essere regolarmente

designate come provinciae, e dall’inizio del II secolo a.C. due provinciae militari in Spagna divennero un elemento fisso, anche se i loro confini rimanevano fluidi. Ma poteva indicare altrettanto efficacemente, per esempio, una responsabilità affidata al tesoro romano; nelle sue commedie Plauto ricorre alla parola provincia per riferirsi scherzosamente ai doveri degli schiavi. A quell’epoca, non veniva ancora inviato alcun romano a fare il «governatore di provincia», come invece avvenne in seguito. Quel che contava per i romani era se fossero in grado di vincere in battaglia, e poi se fossero in grado, con la persuasione, l’intimidazione o la forza, di imporre la propria volontà dove e quando volessero. Lo stile di questo imperium è brillantemente riassunto nella storia dell’ultimo scontro fra Antioco Epifane e i romani. Il re stava invadendo l’Egitto per la seconda volta, e gli egizi avevano chiesto aiuto ai romani. Un inviato romano, Gaio Popilio Lenate, si incontrò con Antioco fuori da Alessandria. Data la sua lunga familiarità con i romani, il re si aspettava un incontro piuttosto formale e civile. Invece, Lenate gli consegnò un decreto del Senato che gli intimava di ritirarsi immediatamente dall’Egitto. Quando Antioco chiese un po’ di tempo per consultarsi con i suoi consiglieri, Lenate raccolse un bastone da terra e disegnò sulla sabbia un cerchio attorno al re, dicendogli che non avrebbe potuto uscirne fino a quando non avesse dato la propria risposta. Stupefatto, Antioco dovette suo malgrado acconsentire alle richieste del Senato. Questo era un impero fondato sull’obbedienza.

L’impatto dell’impero Era anche un impero della comunicazione, della mobilità, di fraintendimenti e mutevoli prospettive, come rivela chiaramente un esame più approfondito della storia della delegazione da Teo. È piuttosto facile simpatizzare per la critica situazione dei più sfavoriti. I due uomini avevano dovuto attraversare mezzo mare Mediterraneo con un viaggio che richiedeva dalle due alle cinque settimane, a seconda della stagione dell’anno e della qualità della nave, nonché della scelta di procedere anche dopo l’oscurità (la navigazione notturna poteva far risparmiare una settimana di viaggio, ma era alquanto pericolosa). Quando arrivarono a Roma, si trovarono di fronte una città più grande, ma molto meno elegante e sfarzosa, di parecchie altre da cui erano passati nel corso del loro viaggio. Ci è giunta notizia di uno sfortunato ambasciatore greco al quale, più o meno nello stesso periodo, capitò la disgrazia di cadere in una fogna romana a cielo aperto fratturandosi una gamba; trascorse la maggior parte della sua convalescenza facendo conferenze di teoria letteraria davanti a un pubblico molto incuriosito. Roma aveva anche strani e bizzarri costumi. È interessante osservare che chi compose il testo dell’iscrizione non provò neppure a tradurre alcuni termini tipicamente romani (come atria e patronus) e li trascrisse semplicemente in grafia greca. E, quando tentò una traduzione, il risultato può suonare alquanto improbabile. Per esempio, era detto che gli inviati avevano fatto ogni giorno «obbedienza» ai romani: la parola greca qui utilizzata, proskynesis, significa letteralmente «prosternarsi a terra» o «baciare i piedi». Il riferimento è quasi di certo alla pratica romana della salutatio, in cui clienti e dipendenti andavano a fare un saluto mattutino al loro patrono, che tuttavia non prevedeva nessun bacio dei piedi, anche se questi visitatori stranieri potrebbero avere riconosciuto in questa pratica l’umiliazione che effettivamente implicava. Possiamo avanzare soltanto ipotesi sul modo in cui stabilirono contatti o esposero il proprio caso. Molti ricchi romani parlavano un po’ di greco, certamente meglio di quanto gli inviati di Teo sapessero parlare latino, ma comunque non in modo fluente. Era risaputo che i greci deridessero pesantemente i romani per il loro terribile accento. Tuttavia, quando i due delegati arrivarono in città, alcuni romani

potrebbero essersi sentiti a disagio. Infatti, anche se l’attenzione e il riconoscimento della potenza romana erano gratificanti, questo era un mondo nuovo, che forse li lasciava altrettanto perplessi dei loro visitatori. Quale sensazione avranno provato vedendo questo interminabile fiume di stranieri che giungevano dai luoghi più remoti, che parlavano troppo velocemente in una lingua da loro compresa soltanto a malapena, e che si mostravano profondamente inquieti per un piccolo e sconosciuto fazzoletto di terra e pericolosamente pronti a inchinarsi e baciare i loro piedi? Se, come dice Polibio, i romani avevano conquistato quasi tutto il mondo conosciuto in appena cinquantatré anni, in quel medesimo periodo anche Roma, e la cultura romana, erano state profondamente trasformate da questa enorme espansione dei loro orizzonti. Questa trasformazione comportò grandi movimenti di popoli e individui, tanto in direzione di Roma quanto da Roma verso l’esterno, su una scala che non aveva precedenti nel mondo antico. Quando schiavi provenienti da tutto il Mediterraneo iniziarono a riversarsi in Italia e nella stessa Roma, fu senz’altro una storia di sfruttamento, ma anche di coatte migrazioni di massa. Le cifre fornite dagli autori antichi sui prigionieri catturati dai romani in certe guerre possono essere certamente esagerate (per fare solo un paio di esempi: centomila nella prima guerra punica e centocinquantamila presi da Emilio Paolo da una sola regione del regno di Perseo); e, in ogni caso, molti di essi non venivano trasportati direttamente a Roma ma venduti a intermediari più vicini al luogo di cattura. Eppure si può stabilire con una certa sicurezza che, all’inizio del II secolo a.C., il numero dei nuovi schiavi che arrivavano sulla penisola come conseguenza diretta delle vittorie oltremare superava mediamente le ottomila unità all’anno, in un periodo in cui il numero totale dei cittadini romani adulti di sesso maschile, dentro e fuori la città, si aggirava intorno a trecentomila. Col passare del tempo, moltissimi di questi schiavi avrebbero ottenuto la libertà e sarebbero diventati nuovi cittadini romani. Le conseguenze, non soltanto per l’economia ma anche per la diversità culturale ed etnica del corpo dei cittadini, furono enormi: la separazione tra romani e stranieri si fece sempre più indistinta. Allo stesso tempo, i romani si riversarono oltremare. Viaggiatori, mercanti e avventurieri romani solcavano il Mediterraneo già da secoli. «Lucio figlio di Gaio», un mercenario che, alla fine del III secolo, lasciò un’iscrizione con il proprio nome sull’isola di Creta, non fu certo il primo romano a guadagnarsi la vita facendo una delle professioni più antiche del

mondo. Ma, a partire dal II secolo a.C., migliaia di romani iniziarono a trascorrere lunghi periodi lontano dalla penisola italiana. I mercanti romani sciamarono nel Mediterraneo orientale per sfruttare le opportunità commerciali che si aprivano in seguito alla conquista, dal commercio degli schiavi e delle spezie ad ancora più lucrativi contratti per la fornitura di armi. Antioco Epifane assunse addirittura un architetto romano, Decimo Cossuzio, per affidargli la direzione di alcuni lavori edilizi ad Atene, e, diversi decenni più tardi, possiamo rintracciare i discendenti e gli ex schiavi di quest’uomo ancora attivamente impegnati nel mercato edilizio in Italia e in Oriente. Ma furono i soldati, che ora prestavano servizio oltremare per diversi anni, anziché essere richiamati per la tradizionale campagna estiva nelle vicinanze di Roma, a costituire la maggioranza dei romani all’estero. Dopo la seconda guerra punica, c’erano regolarmente più di trentamila cittadini romani che prestavano servizio nell’esercito al di fuori dell’Italia, dalla Spagna fino al Mediterraneo orientale. Questo stato di cose sollevò un’intera serie di nuovi dilemmi. Nel 171 a.C., per esempio, il Senato ricevette una delegazione dalla Spagna che veniva in rappresentanza di oltre quattromila persone, figli di soldati romani e donne iberiche. Poiché non esisteva un diritto ufficiale di matrimonio tra romani e ispanici, questi uomini erano, per utilizzare una terminologia moderna, privi di cittadinanza. Non devono certamente essere stati gli unici ad avere tale problema. In seguito, quando giunse in Spagna per assumere il comando dell’esercito, si dice che Emiliano avesse cacciato fuori dall’accampamento romano duemila «prostitute» (sospetto però che le donne stesse potessero definirsi in tutt’altro modo). Nel caso presentato al Senato nel 171 a.C. la delegazione si considerò in diritto di chiedere ai romani la concessione di una città che quelle persone potessero considerare come la propria, e probabilmente anche qualche chiarimento sulla loro posizione giuridica. Furono insediate nella città di Carteia, sulla punta meridionale della Spagna, alla quale, con il loro usuale talento per l’improvvisazione, i romani conferirono lo status di colonia latina, definita «una colonia di ex schiavi». Non possiamo naturalmente sapere quante ore di discussione occorsero ai senatori per decidere che la bizzarra combinazione di «latino» ed «ex schiavo» rappresentava la migliore approssimazione disponibile per definire lo status giuridico di questi figli di soldati romani, tecnicamente illegittimi. Ma l’episodio serve comunque a mostrarci come i senatori dovettero affrontare il problema di stabilire che cosa volesse dire essere un romano (almeno in parte) fuori dall’Italia.

Si può dire che, verso la metà del II secolo a.C., una larga maggioranza dei romani adulti di sesso maschile aveva visto qualcosa del mondo esterno, spesso lasciando un indefinito numero di figli nei luoghi dove si recava. Insomma, i romani erano improvvisamente diventati la popolazione che viaggiava di più nel Mediterraneo, più di quella di qualsiasi altro grande stato, passato o presente, a eccezione dei macedoni di Alessandro Magno o dei mercanti di Cartagine come possibili rivali. E, anche per chi non aveva mai messo piede all’estero, si aprivano comunque nuovi orizzonti, nuove visioni di località d’oltremare e nuovi modi di concepire e comprendere il proprio posto nel mondo. Le processioni trionfali dei generali vittoriosi erano, per così dire, una spettacolare finestra sul mondo. Quando i romani si ammassavano lungo le strade della città per ammirare e acclamare il ritorno dei loro eserciti conquistatori, che sfilavano adorni dei guadagni e dei bottini riportati, non era soltanto la loro stupefacente ricchezza a colpirli, anche se in certi casi avrebbe lasciato comunque di stucco chiunque in qualsiasi epoca. Quando, nel 167 a.C., Emilio Paolo ritornò dalla sua vittoria su Perseo, ci vollero addirittura tre giorni per fare sfilare sui carri il bottino attraverso la città, inclusi duecentocinquanta pieni di sculture e dipinti, e una tale quantità di argento che occorsero tremila uomini per trasportarla, in settecentocinquanta enormi vasi. Non stupisce, quindi, che Roma si poté permettere di sospendere ogni tipo di tassazione diretta. Però, ciò che catturava l’immaginazione popolare era anche l’abbagliante esibizione di paesi e costumi stranieri. Nelle processioni, infatti, i generali facevano mostrare elaborati dipinti e modelli tridimensionali, da loro stessi commissionati, raffiguranti le loro eroiche battaglie e le città che avevano conquistato, affinché il popolo potesse vedere con i propri occhi ciò che gli eserciti romani avevano compiuto all’estero. Gli sguardi della folla si fissavano sugli sconfitti re dell’Oriente, con il loro «abito nazionale» e i loro strani paramenti regali, su meravigliose curiosità come la coppia di globi costruiti dallo scienziato greco Archimede, rimasto ucciso nella seconda guerra punica, e sugli animali esotici che talvolta diventavano le vere star di tutto lo spettacolo. Il primo elefante a percorrere le strade di Roma apparve nella parata per la vittoria su Pirro nel 275 a.C. C’era un abisso, come osservò un autore successivo, rispetto al «bestiame dei volsci e alle greggi dei sabini», che, appena un secolo prima, erano stati gli unici bottini. Le commedie di Plauto e di Terenzio presentavano un quadro di genere diverso, con qualche sottile e forse allarmante riflessione. È vero che i

copioni di argomento amoroso di tutte queste commedie, adattate da originali greci, non sono oggi conosciuti soprattutto per la loro raffinata sottigliezza. Il «lieto fine» di alcune storie di stupro può lasciare sbigottiti i lettori moderni: «Buone notizie: lo stupratore era lo stesso fidanzato della ragazza», per riassumere il dénouement di una di esse. È anche chiaro che le rappresentazioni originali, in celebrazioni pubbliche di ogni genere, dalle festività religiose agli afterparty dei trionfi, erano esibizioni turbolente e rumorose, che attiravano un ampio settore della popolazione cittadina, donne e schiavi compresi. Vi è qui una netta differenza rispetto all’Atene di epoca classica, dove il pubblico teatrale, turbolento o no che fosse, anche se più numeroso che a Roma era probabilmente limitato ai cittadini maschi. Ciononostante, tutte queste commedie romane erano accomunate dal fatto di esigere una medesima cosa dal pubblico che veniva a guardarle: diventare consapevole della complessità culturale del mondo in cui viveva. Questo si doveva, almeno in parte, al fatto che le commedie erano ambientate in Grecia. Si dava per scontato che il pubblico avesse una qualche idea concreta di questi luoghi stranieri, o perlomeno che ne riconoscesse il nome. Le trame spesso toccano temi di grande diversità. Una commedia di Plauto mette in scena un cartaginese che balbetta qualche parola di punico, probabilmente in modo accurato ma comunque incomprensibile. Un’altra presenta una coppia di personaggi travestiti da persiani (e il fatto di ridere di attori che si suppone malamente travestiti da persiani è più divertente che ridere di attori semplicemente definiti persiani). Ma, con una raffinatezza davvero sorprendente in una fase così precoce della letteratura romana, Plauto sfrutta ancora più a fondo il carattere ibrido della sua opera e del suo mondo. Una delle sue battute preferite, che ripete, in diverse varianti, nel prologo di parecchie commedie, è la seguente: «Demofilo lo ha scritto, e Plauto lo ha barbarizzato», riferendosi alla sua traduzione latina (lingua «barbara») di un’opera del commediografo greco Demofilo. Questa battuta apparentemente insignificante era, in realtà, un’intelligente sfida lanciata agli spettatori. Per quelli di origine greca, offriva senza dubbio l’opportunità di qualche risata a denti stretti a spese dei nuovi, barbari, reggitori del mondo. A tutti gli altri, richiedeva lo sforzo concettuale di immaginarsi come potevano apparire quando erano osservati da fuori. Per cogliere la comicità delle situazioni, dovevano comprendere, anche se soltanto in forma di battuta, che, agli occhi dei greci, i romani potevano sembrare dei barbari.

33. Molti ritratti romani del II e del I secolo a.C. raffigurano i propri soggetti come anziani, con il volto profondamente segnato e pieno di rughe. Oggi spesso definiti di stile «veristico» (o iperrealistico), sono in realtà una forma di rappresentazione estremamente «idealizzata», che celebra una particolare versione dell’aspetto che doveva avere un autentico romano, in contrapposizione alla perfezione giovanile di gran parte della scultura greca.

I sempre più vasti orizzonti dell’impero, in altre parole, incrinarono la

semplice gerarchia del «noi sopra loro», «la civiltà sopra la barbarie», su cui si era fondata la cultura greca classica. I romani erano altrettanto capaci di disprezzare e deridere i barbari sconfitti, contrapponendo la propria immagine di uomini civili e raffinati a quella dei rozzi galli, capelloni e con il corpo dipinto di guado, o di altre popolazioni ritenute inferiori. E lo fecero spesso. Ma, da questo momento in poi, ci fu sempre un’altra corrente di scrittori che meditarono in modo più sovversivo sulla posizione occupata dai romani nel mondo e su dove pendesse l’ago della bilancia nell’equilibrio fra ciò che era romano e ciò che era straniero. Quando, tre secoli più tardi, lo storico Tacito sostenne che l’autentica virtù «romana» non si trovava più a Roma bensì fra i «barbari» della Scozia, non faceva che sviluppare una tradizione di pensiero che risaliva a questi primi giorni dell’impero e della letteratura.

Come essere un romano I nuovi orizzonti dell’impero contribuirono anche a creare (o almeno a definire in modo più netto e ideologicamente significativo) l’immagine del «romano all’antica». Quel carattere di persona terra terra e schietta che è tuttora parte del nostro stereotipo della cultura romana. Ma ci sono buone probabilità che anche tale carattere sia una creazione proprio di questo periodo. Alcune delle voci più schiette del III e del II secolo a.C. rimasero celebri per i loro strali contro l’influenza corruttrice che la cultura straniera in generale, e quella greca in particolare, avevano su tradizionali costumi e princìpi etici romani; oggetto di questi strali erano la letteratura e la filosofia, ma anche gli esercizi ginnici da effettuare nudi, certi cibi alla moda e la depilazione. In prima linea c’era Marco Porcio Catone (detto Catone il Vecchio), un contemporaneo e rivale di Scipione Africano, da lui criticato perché, tra le altre cose, si esibiva in danze presso ginnasi e teatri greci in Sicilia. Si dice che avesse anche definito Socrate un «terribile chiacchierone», che avesse raccomandato un regime alimentare terapeutico esclusivamente romano a base di verdure fresche e carne di anatra e piccione (anziché qualsiasi cosa avesse a che fare con i dottori greci, che erano capaci di ucciderti) e che avesse proclamato che la potenza romana poteva essere annientata dalla passione per la letteratura greca. Secondo Polibio, una volta Catone osservò che un evidente segno del deterioramento della repubblica era visibile nel fatto che ormai un bel giovinetto costava più di un terreno agricolo, qualche giara di pesce in salamoia più di un paio di braccianti agricoli. Non era l’unico a pensarla così. Verso la metà del II secolo a.C. un altro illustre personaggio riuscì a ottenere la demolizione di un teatro costruito a Roma secondo il modello greco, sostenendo che per i romani fosse più opportuno e formativo guardare le commedie stando in piedi, come avevano sempre fatto, anziché da seduti, in ossequio alla decadente moda orientale. In breve, questo era il ragionamento, ciò che passava per «raffinatezza» greca non era altro che una pericolosa «mollezza» (mollitia), capace di infiacchire la forza del carattere romano. Si trattava semplicemente di una reazione conservatrice contro le idee progressiste che venivano introdotte a Roma dall’esterno, uno scoppio di «guerre culturali» fra tradizionalisti e modernizzatori? In parte,

probabilmente, sì. Ma era anche qualcosa di ben più complesso e interessante. Nonostante tutto il suo brontolare, Catone aveva insegnato il greco a suo figlio, e ciò che ci rimane dei suoi scritti (in particolare, un saggio tecnico sull’allevamento e la gestione agricola, nonché sostanziosi estratti dei suoi discorsi e della sua opera sulla storia dell’Italia) mostra che era ben versato in quei trucchi retorici greci che proclamava di disprezzare. Alcune delle affermazioni che si facevano sulla «tradizione romana», poi, erano poco più che fantasie. Non c’è alcuna ragione per supporre che i romani del venerando tempo antico avessero assistito agli spettacoli teatrali stando in piedi. Le testimonianze in nostro possesso indicano esattamente il contrario. La verità è che la versione catoniana degli antichi e pragmatici valori romani, se era una difesa di radicate tradizioni, era anche un’invenzione del suo tempo. L’identità culturale costituisce sempre un concetto ambiguo, e non abbiamo la minima idea di come i primi romani concepissero il proprio peculiare carattere e ciò che li distingueva dai loro vicini. Ma quello specifico e forte senso di austerità romana (che in epoche successive i romani riproiettarono indietro sui loro padri fondatori e che è rimasto un’efficace immagine della «romanità» ancora ai nostri giorni) fu il prodotto di un profondo scontro culturale, svoltosi proprio in questo periodo di espansione all’estero, su quel che significava essere romano in questo nuovo e più vasto mondo imperiale, e nel contesto di un così ampio spettro di alternative. In altre parole, la «grecità» e la «romanità» erano due poli allo stesso tempo diametralmente opposti e inestricabilmente intrecciati. È proprio ciò che vediamo, sotto una forma particolarmente vorticosa, nella storia che Livio e altri autori raccontano a proposito dello sfarzo con cui la Grande Madre dell’Asia Minore fu introdotta a Roma nel 204 a.C., verso la fine della seconda guerra punica. Fu un avvenimento tipicamente romano. Un libro di oracoli romani che si riteneva risalire al regno dei Tarquini raccomandava che Cibele, come la dea era anche chiamata, fosse incorporata nel pantheon di Roma. La serie delle divinità adorate in città era deliberatamente aperta ed elastica, e la Grande Madre era la dea della patria ancestrale dei romani, la Troia di Enea: quindi, in un certo senso, apparteneva all’Italia. Fu inviata una delegazione per prendere l’immagine cultuale della dea e riportarla a Roma; per accoglierla fu scelto, come richiesto dall’oracolo, «l’uomo migliore dello stato», che risultò essere ancora un altro Scipione. Lo accompagnava una nobile donna romana (secondo alcune versioni si trattava di una vergine vestale); l’immagine

venne fatta sbarcare dalla nave e poi trasportata dalla costa fino alla città da una lunga fila di donne, che se la passarono di mano in mano. La dea fu temporaneamente alloggiata nel santuario della Vittoria finché la costruzione del suo tempio non fosse terminata. Per quanto ne sappiamo, fu il primo edificio di Roma realizzato usando una delle più caratteristiche tecniche edilizie romane, alla quale si devono molti dei successivi capolavori architettonici di questa civiltà: l’opera cementizia.

34. Monumento del II secolo d.C. in memoria di un sacerdote della Grande Madre. La sua

immagine è molto diversa da quella dei tipici sacerdoti romani in toga (cfr. fig. 61): ha i capelli lunghi, indossa pesanti gioielli ed è accompagnato da strumenti musicali «stranieri», mentre il frustino e la verga sono un’allusione alle pratiche di autoflagellazione.

Nulla avrebbe potuto deliziare maggiormente Catone, tranne che non tutto era proprio come sembrava. L’immagine della dea non corrispondeva affatto a ciò che i romani avrebbero potuto supporre. Era un grosso meteorite nero, non una statua in forma umana. E il meteorite arrivava accompagnato da un seguito di sacerdoti. I quali erano eunuchi autoevirati, che portavano lunghi capelli, suonavano tamburelli e avevano la passione dell’autoflagellazione. Era la cosa meno romana che ci si potesse immaginare. E sollevò continuamente scomode domande su ciò che era «romano» e ciò che era «straniero» e su dove passava il confine tra l’uno e l’altro. Se era questo il genere di cose che arrivavano dalla patria ancestrale di Roma, che cosa comportava per la definizione di «romano»?

VI

UNA NUOVA POLITICA

Distruzione Il lungo assedio di Cartagine e la sua distruzione finale nel 146 a.C. furono un episodio raccapricciante anche per la sensibilità antica, con spaventose atrocità commesse da entrambi gli schieramenti. Gli sconfitti potevano essere altrettanto spietati e crudeli dei vincitori. Una volta, si diceva, i cartaginesi avevano fatto sfilare dei prigionieri romani sulle mura cittadine e poi li avevano bruciati vivi e fatti a pezzi davanti agli occhi dei loro camerati. Cartagine sorgeva sulla costa mediterranea, vicino all’odierna Tunisi, ed era difesa da un possente circuito di mura con un perimetro di quasi trenta chilometri (le mura di Roma, costruite dopo l’invasione dei galli, avevano una lunghezza inferiore alla metà di quelle cartaginesi). Fu soltanto quando, dopo due anni di assedio, Scipione Emiliano riuscì a tagliarla fuori dal mare, e quindi dall’accesso alle risorse, che i romani poterono costringere il nemico alla resa per fame e conquistare così la città. L’unica descrizione antica che ci sia giunta di questi ultimi momenti è zeppa di impressionanti esagerazioni, ma rivela anche quanto doveva essere difficile distruggere una città così solidamente costruita come Cartagine, e ci offre altresì qualche dettaglio probabilmente realistico sulle carneficine che accompagnarono la sconfitta. Nell’assalto finale, i soldati romani si aprirono il varco risalendo strade fiancheggiate da edifici a più piani, saltarono da un tetto all’altro, gettandone gli occupanti giù sul marciapiede e dandoli alle fiamme man mano che avanzavano, finché le macerie così prodottesi non gli bloccarono il passaggio. Vennero chiamate delle squadre di apripista che liberarono la via per la nuova ondata d’attacco, facendosi largo tra cumuli di rovine e di cadaveri: si potevano vedere le gambe dei moribondi ancora in convulso movimento spuntare dalle macerie, mentre il corpo e la testa erano sepolti sotto di esse. Le ossa trovate dagli archeologi in questi strati di macerie (per non parlare delle migliaia di proiettili da fionda in pietra e argilla che sono venuti in luce) indicano che questa descrizione non è così esagerata come vorremmo sperare. Si ebbe la consueta corsa al bottino, e non si trattava soltanto di oro e argento. Scipione Emiliano si assicurò che il celebre trattato sull’agricoltura scritto dal cartaginese Magone fosse salvato dalle fiamme. Riportato a Roma, il Senato affidò a una commissione di linguisti l’eccezionale compito di tradurre in latino i suoi ventotto volumi, in cui era trattato ogni possibile argomento, dal modo di conservare le melagrane fino a quello di scegliere i

manzi migliori. E non mancavano riecheggiamenti mitici. La malinconica citazione omerica pronunciata da Emiliano mentre osservava la distruzione della città aveva il suo lato struggente. Ma era anche un vanto. Roma reclamava ormai il proprio posto in quel ciclo di grandi potenze e altrettanto grandiosi conflitti che era iniziato con la guerra di Troia. Quanto a Cartagine, la sua parabola si era conclusa nello stesso modo in cui era cominciata, ossia con un uomo che abbandonava la propria amata in favore di Roma. Si raccontava che, proprio come l’eroe virgiliano Enea aveva abbandonato Didone quando la città era ancora in fase di costruzione, così, quando stava per essere distrutta, Asdrubale, il comandante dei cartaginesi, si era infine consegnato ai romani, abbandonando la propria moglie. La quale, dopo averlo denunciato e maledetto, si era gettata, novella Didone, tra le fiamme di una pira funeraria. Altrettanto devastante, pochi mesi dopo, fu il sacco di Corinto, che distava da Cartagine quasi 1500 chilometri ed era la città più ricca della Grecia. La sua prosperità si fondava sulla sua posizione geografica, perfetta per il commercio, con porti alle due estremità della stretta striscia di terra che separava il Peloponneso dal resto della Grecia. Al comando di Lucio Mummio Acaico (come venne in seguito chiamato per la sua vittoria sugli «achei»), le legioni romane ne saccheggiarono le magnifiche opere d’arte e ne ridussero la popolazione in schiavitù, poi la rasero al suolo e la diedero alle fiamme. Fu una devastazione talmente spaventosa che la massa di metallo fuso da essa prodotta si diceva fosse all’origine di un materiale molto apprezzato e costoso chiamato «bronzo corinzio». Gli esperti antichi non credevano affatto a questa storia, ma l’immagine dell’eccezionale calore sviluppato dall’incendio, capace di fondere prima il bronzo, poi l’argento e infine l’oro, e legarli in un unico composto, è senza dubbio molto potente e costituisce un illuminante esempio dello stretto legame che esisteva nell’immaginario romano tra arte e conquista. Mummio era un personaggio molto diverso da Emiliano, l’appassionato ammiratore di Omero, ed è passato alla storia assumendo i caratteri quasi caricaturali del tipico romano incolto. Polibio, che giunse a Corinto poco dopo la sconfitta greca, rimase scioccato quando vide i soldati romani usare il lato posteriore di pregiati dipinti come tavoli da gioco, probabilmente con l’assenso del loro comandante. E quasi settecento anni dopo circolava ancora una battuta su come, mentre controllava le operazioni di carico delle preziose antichità, Mummio avesse detto ai capitani delle navi che ogni pezzo danneggiato avrebbe dovuto essere sostituito con uno nuovo!

Insomma, era così ridicolmente rozzo da non rendersi conto che, in tal caso, «nuovo in cambio del vecchio» non aveva alcun senso. Ma anche questa storia, al pari di molte altre, era a doppio taglio. Almeno un severo commentatore romano prese una posizione simile a quella di Catone, sostenendo che per Roma sarebbe stato meglio se molte più persone avessero seguito l’esempio di Mummio e si fossero tenute a debita distanza dal lusso greco. Forse la famiglia di Mummio si era distinta per una tradizione di particolare austerità, dato che un suo lontano discendente fu l’imperatore Galba, celebre per la sua parsimonia e il suo pragmatismo, che regnò per pochi mesi nel 68-69 d.C., subito dopo la caduta dello stravagante Nerone. Comunque, quali che fossero le sue vere opinioni, Mummio dispose delle spoglie corinzie con notevole cura. Alcune furono esposte in templi in Grecia (come esempio di pietà e sottile avvertimento per gli altri greci), molte vennero esposte a Roma o donate a diverse città dell’Italia. Ne continuano ad affiorare testimonianze archeologiche. A Pompei, nel recinto del tempio di Apollo, poco distante dal Foro, è stato trovato nel 2002 il plinto di una statua su cui, sotto un più tardo rivestimento di stucco, è stata scoperta un’iscrizione in osco, la lingua locale: vi si proclama che ciò che (un tempo) poggiava su di esso era un dono di L Mummis L kusul, ossia di «Lucio Mummio, figlio di Lucio, console». Doveva essere qualche prezioso pezzo preso a Corinto. Per quale motivo, nel giro di pochi mesi, i romani abbiano adottato misure così brutali e spietate contro queste due grandi e celebri città è stato fin da allora argomento di acceso dibattito. Dopo la vittoria di Africano nella battaglia di Zama (202 a.C.), ultimo capitolo della guerra con Annibale, Cartagine aveva accettato di ottemperare alle richieste romane. Cinquant’anni più tardi, aveva appena terminato di pagare la gigantesca indennità in denaro che i romani le avevano imposto. Questa finale campagna di annientamento fu semplicemente un atto di vendetta, compiuto con qualche scusa pretestuosa? Oppure i romani avevano fondate ragioni per temere una nuova affermazione della potenza cartaginese, economica o militare che fosse? Catone ne fu il più accanito avversario e, come sappiamo, concludeva tutti i suoi discorsi, con noiosa ma in definitiva persuasiva ripetitività, pronunciando le parole Carthago delenda est, «Cartagine deve essere distrutta». Una volta, mentre si trovava in Senato, mostrò alcuni fichi deliziosamente maturi che aveva tenuto raccolti nella sua toga. Poi spiegò che arrivavano da una città ad appena tre giorni di distanza: era una deliberata sottovalutazione della distanza tra Cartagine e

Roma (il viaggio più rapido non sarebbe potuto durare meno di cinque giorni), ma era un simbolo perfetto della pericolosa vicinanza, e della ricchezza agricola, di una possibile rivale; un gesto fatto apposta per suscitare nuovi sospetti nei confronti di un antico nemico. Corinto deve avere avuto un posto alquanto diverso nei piani romani. Era stata una delle tante città greche che, perseguendo i propri obiettivi di politica regionale, avevano ignorato alcune disposizioni, peraltro piuttosto fiacche e niente affatto chiare, che i romani avevano emanato negli anni Quaranta del I secolo a.C. per cercare di limitare le alleanze entro il mondo greco. Cosa ancora più grave, i corinzi avevano bruscamente rispedito a casa una delegazione di inviati romani. Nessun’altra città greca subì lo stesso trattamento. Corinto fu punita per dare un esempio della sorte che sarebbe toccata a chi commetteva atti di pubblica disobbedienza, anche se nel caso specifico si era trattato di un’infrazione di piccolo conto? Oppure si aveva l’autentico sospetto che sarebbe potuta diventare una base di potere alternativa e concorrenziale nel Mediterraneo orientale? O ancora, come insinua Polibio al termine delle sue Storie, i romani stavano semplicemente iniziando a ricorrere al metodo dello sterminio? Quali che fossero le vere motivazioni alla base della violenza del 146 a.C., gli eventi di quell’anno vennero presto considerati un punto di svolta. Da un lato, segnarono l’apice del successo militare romano. Roma aveva ormai annichilito tutti i suoi più antichi, ricchi e potenti rivali nel mondo mediterraneo. Più di cento anni dopo, Virgilio, nell’Eneide, presentò Mummio come colui che, conquistando Corinto, aveva infine vendicato la sconfitta subita dai troiani di Enea per mano dei greci nella guerra di Troia. Ma, dall’altro lato, gli eventi del 146 a.C. furono anche considerati l’inizio del collasso della repubblica e la scintilla che diede avvio a un secolo di guerre civili, di violenze e assassinii indiscriminati, che si conclusero con il ritorno a un governo autocratico. La paura del nemico, così si sosteneva, era stata un’ottima cosa per Roma; eliminata ogni concreta minaccia esterna, «il cammino della virtù fu abbandonato in favore di quello della corruzione». Sallustio si espresse al riguardo con molta eloquenza. Nell’altro suo saggio che ci è giunto, dedicato alla guerra combattuta contro il re nordafricano Giugurta alla fine del II secolo a.C., lo storico riflette sulle amare conseguenze della distruzione di Cartagine: dall’avidità che si era insinuata in tutti i settori della società romana («ognuno per se stesso»), alla frantumazione del consenso tra ricchi e poveri e alla concentrazione del potere nelle mani di pochi uomini. Tutto ciò era il segno della fine della repubblica. Sallustio fu

un acuto osservatore del potere romano, ma il collasso della repubblica, come vedremo, non si spiega così facilmente.

L’eredità di Romolo e Remo? Il periodo che va dal 146 a.C. all’assassinio di Giulio Cesare nel 44 a.C., e in particolare gli ultimi trent’anni, segna uno dei vertici della letteratura, dell’arte e della cultura romane. Il poeta Catullo scriveva quelle che ancora oggi sono considerate tra le più intense poesie d’amore, indirizzate alla moglie di un senatore romano, la cui identità, molto saggiamente, Catullo nascose sotto lo pseudonimo di «Lesbia». Cicerone redigeva discorsi che sono divenuti pietre miliari dell’arte oratoria, nonché trattati teorici sui princìpi della retorica, del buon governo e persino della teologia. Giulio Cesare componeva una descrizione elegantemente autocelebrativa delle sue campagne in Gallia, che va annoverata tra i rarissimi resoconti di operazioni militari scritti dai loro stessi comandanti che ci sono giunti dal mondo antico. E la città di Roma, da disordinato e labirintico agglomerato, stava trasformandosi nell’imponente capitale che tutti noi abbiamo in mente. Il primo teatro permanente in pietra fu inaugurato nel 55 a.C.: aveva un palcoscenico largo novantacinque metri, collegato a un vasto e nuovo complesso di camminamenti, giardini adorni di sculture e portici sostenuti da colonne di marmo (fig. 44). Oggi sepolto sotto la moderna piazza di Campo de’ Fiori, un tempo occupava un’area nettamente più vasta di quella su cui si estese poi il Colosseo.

35. Statua colossale, ora conservata a palazzo Spada a Roma, generalmente considerata un ritratto di Pompeo; il globo che tiene nella mano sinistra lo rappresenta come conquistatore del mondo. Nel XVIII e nel XIX secolo era un’opera assai celebrata, e addirittura creduta erroneamente la stessa statua di Pompeo ai piedi della quale Giulio Cesare era stato assassinato. Alcune macchie nel marmo furono ingenuamente credute le tracce del sangue di Cesare.

Comunque, l’attenzione di molti autori romani era attirata più dal

progressivo declino politico e morale che da queste scintillanti imprese. All’estero, le armate romane continuavano a riportare vittorie estremamente lucrative, e talvolta altrettanto sanguinose. Nel 61 a.C. Gneo Pompeo Magno («Pompeo il Grande», come egli stesso si definiva, in imitazione di Alessandro) celebrò il trionfo per la sua vittoria sul re del Ponto Mitridate VI, che un tempo occupava vasti territori attorno alle coste del mar Nero e aspirava a conquistarne altri ancora. Fu uno spettacolo ancora più strabiliante del trionfo celebrato da Emilio Paolo un secolo prima. Gli oltre «75 milioni di dracme in monete d’argento» trasportati in processione equivalevano alla rendita annuale complessiva delle tasse riscosse nell’impero. Era una cifra sufficiente a nutrire due milioni di persone per un anno, e buona parte di essa servì a finanziare la costruzione di quel primo sfarzoso teatro. Alla metà del I secolo a.C. le campagne in Gallia, condotte e raccontate da Cesare, sottomisero al controllo di Roma parecchi milioni di persone, per non parlare di circa un altro milione di uomini che Cesare sembra avere lasciato senza vita sul campo. Tuttavia, le armi romane iniziavano a rivolgersi in misura sempre maggiore non contro nemici stranieri bensì contro altri romani. Qui i troiani di Enea non contavano più nulla; questa era l’eredità di Romolo e Remo, i gemelli fratricidi. Il «sangue innocente di Remo», come scrisse Orazio nel terzultimo decennio del I secolo a.C., stava prendendosi la propria vendetta. Quando riflettevano su quest’epoca, gli storici romani lamentavano la progressiva erosione di una politica fondata su princìpi di correttezza e metodi non violenti. La violenza fu data sempre più per scontata come strumento politico. La moderazione e le convenzioni tradizionali si frantumarono, una dopo l’altra, finché mazze, spade e rivolte si sostituirono quasi completamente alle urne elettorali. Allo stesso tempo, sempre secondo Sallustio, pochi individui dotati di enorme potere, ricchezza e sostegno militare iniziarono a dominare lo stato, finché Cesare venne ufficialmente nominato «dittatore a vita», e poche settimane dopo assassinato in nome della libertà. Ridotta ai suoi elementi più essenziali e brutali, questa storia si articola in una serie di conflitti e momenti culminanti che portarono alla dissoluzione del libero stato, una sequenza di svolte che segnarono le fasi di una progressiva degenerazione della vita politica, e una successione di atrocità che rimasero impresse per secoli nell’immaginario romano. Il primo di questi conflitti si aprì nel 133 a.C., quando Tiberio Sempronio Gracco, un tribuno della plebe con progetti radicali di ridistribuzione della

terra ai poveri di Roma, decise di ricandidarsi per un secondo mandato consecutivo. Per impedirlo, una banda priva di avallo ufficiale di senatori e loro tirapiedi interruppe le elezioni, bastonò a morte Gracco e centinaia di suoi sostenitori e gettò i loro cadaveri nel Tevere. Dimenticando opportunamente le violenze che avevano contrassegnato il conflitto delle classi, molti romani lo ritennero il primo scontro politico dalla caduta della monarchia a essere risolto con il sangue e la morte di cittadini. E presto ce ne fu un altro. Poco più di un decennio dopo, il fratello di Tiberio, Gaio Sempronio Gracco, subì la stessa sorte. Aveva fatto approvare un programma di riforme ancora più radicale, compresa una distribuzione gratuita di grano per i cittadini romani, ed era riuscito a farsi eleggere tribuno della plebe per due volte di seguito. Ma nel 121, mentre cercava di impedire che la sua legge fosse smantellata, cadde vittima di un’altra e più ufficiale banda di senatori. E questa volta si ammucchiarono nel fiume i corpi di migliaia di suoi sostenitori. E accadde nuovamente nel 100 a.C., quando altri politici riformisti vennero picchiati a morte nello stesso Senato e gli assalitori usarono come armi alcune tegole prese dal tetto dell’edificio. Altre tre cruente guerre civili, o sollevazioni rivoluzionarie (il confine tra le une e le altre è spesso incerto), si susseguirono nel corso di vent’anni, componendo così un unico conflitto intermittente. Nel 91 a.C. una coalizione di alleati italici, chiamati socii (da cui deriva il curioso, e ingannevolmente armonioso, nome di «guerra sociale»), dichiarò guerra a Roma. I romani riuscirono a sconfiggerli nel giro di un paio d’anni, concedendo alla maggior parte di essi la piena cittadinanza. Ciononostante, il numero delle vittime, tra uomini che un tempo avevano combattuto fianco a fianco nelle guerre d’espansione di Roma, fu, secondo le stime dell’epoca, di circa trecentomila. Per quanto possa essere esagerata, questa cifra indica comunque un numero di perdite non lontano da quello del conflitto contro Annibale. Prima ancora che la guerra sociale fosse terminata, uno dei suoi protagonisti, Lucio Cornelio Silla, console nell’88 a.C., divenne il primo romano, fin dai tempi del mitico Coriolano, a guidare l’esercito contro la propria città. Silla costrinse il Senato ad affidargli il comando della guerra in Oriente e, quando, quattro anni dopo, ne tornò vincitore, marciò nuovamente su Roma e si fece nominare dittatore. Prima di dimettersi, nel 79 a.C., attuò un programma di riforme profondamente conservatore e presiedette alla prima purga organizzata di nemici politici di cui si abbia notizia nella storia romana. In queste liste di «proscrizione» (vale a dire «notificazioni», come erano chiamate con gelido eufemismo),

distribuite per tutta l’Italia, figuravano i nomi di migliaia di uomini, compreso circa un terzo di tutti i senatori, con una lauta taglia sulla loro testa per chiunque fosse abbastanza crudele, avido o disperato da essere pronto a ucciderli. Infine, le ripercussioni di questi due conflitti scatenarono la celebre «guerra servile» di Spartaco, iniziata nel 73 a.C., che rimane uno dei conflitti più celebrati di tutta la storia romana. Visto il loro coraggio, questo piccolo pugno di schiavi-gladiatori in fuga deve essere stato rinforzato da molti disaffezionati cittadini romani d’Italia; altrimenti non sarebbero riusciti a tenere impegnate le legioni romane per quasi due anni. Era, per così dire, una combinazione tra ribellione di schiavi e guerra civile. Negli anni Sessanta del I secolo a.C. l’ordine politico si stava ormai frantumando anche nella stessa Roma, rimpiazzato da una violenza di strada che divenne parte normale della vita quotidiana. La «congiura» di Catilina fu soltanto uno dei tanti incidenti di questo genere. In ripetute occasioni le sommosse cittadine impedirono lo svolgimento delle elezioni, la corruzione dilagante condizionò le decisioni dell’elettorato e delle giurie nei tribunali, e l’assassinio fu l’arma preferita per sbarazzarsi di un avversario politico. Publio Clodio Pulcro, fratello della «Lesbia» di Catullo e principale architetto dell’esilio di Cicerone nel 58 a.C., fu poi ucciso da una banda paramilitare di schiavi al soldo di uno degli amici di Cicerone durante una squallida rissa in un sobborgo di Roma (la cosiddetta «battaglia di Bovillae», come venne esageratamente e ironicamente chiamata). Chi fosse l’autentico responsabile della sua morte non fu mai accertato, ma Clodio ricevette un’improvvisata cremazione nell’edificio del Senato, che andò in fiamme insieme a lui. In confronto, un altro console contestato, nel 59 a.C., fu più fortunato: venne semplicemente bersagliato di escrementi e trascorse il resto del suo mandato barricato in casa. In tale atmosfera, tre uomini (Pompeo, Giulio Cesare e Marco Licinio Crasso) conclusero un patto informale mettendo insieme la loro influenza, le loro conoscenze e il loro denaro al fine di guidare il processo politico a proprio vantaggio. Questa «banda dei tre» o «mostro a tre teste», come lo definì uno scrittore satirico di allora, pose per la prima volta la responsabilità delle decisioni pubbliche in mani private. Con una serie di accordi, corruzioni e minacce, i tre fecero in modo che le nomine al consolato e ai comandi militari fossero destinate a uomini di loro gradimento e che le decisioni fondamentali si accordassero alla loro volontà. Questo patto durò circa un decennio, a partire grosso modo dal 60

a.C. (i patti privati non sono precisamente databili). Poi Giulio Cesare, deciso a consolidare la propria posizione personale, scelse di seguire l’esempio di Silla e prese Roma con la forza. Ciò che avvenne in seguito è abbastanza chiaro, anche se i particolari sono di una complessità quasi impenetrabile. Lasciata la Gallia all’inizio del 49 a.C., Cesare, come noto, attraversò il fiume Rubicone, che segnava il confine dell’Italia, e marciò verso Roma. In quarant’anni le cose erano molto cambiate. Quando Silla aveva rivolto il proprio esercito contro la città, tutti i suoi alti ufficiali, tranne uno, si erano rifiutati di seguirlo. Quando Cesare fece lo stesso, tutti, tranne uno, rimasero con lui. Era un simbolo perfetto di quanto profondamente, e in così breve tempo, si fosse perso ogni scrupolo. La successiva guerra civile, in cui Cesare e Pompeo, un tempo alleati, si trovarono contrapposti, si estese per tutto il mondo mediterraneo. La battaglia decisiva fu combattuta nella Grecia centrale, e Pompeo venne ucciso poco tempo dopo sulla costa egizia, decapitato da qualche doppiogiochista egizio che si era finto suo alleato. È una potente storia di crisi politica e cruenta disintegrazione, anche nella sua forma narrativa più concisa ed essenziale. Alcuni problemi di fondo appaiono ovvi. Le istituzioni politiche romane, di scala ancora relativamente modesta, poco mutate fin dal IV secolo a.C., non erano più sufficienti per governare la penisola italiana. E ancor meno per controllare e pattugliare un vasto impero. Come vedremo, Roma si affidò sempre più all’impegno e al talento di singoli individui, la potenza, i guadagni e le rivalità dei quali minacciavano però le stesse fondamenta su cui la repubblica poggiava. E non esisteva alcun modo – neppure nella forma di una forza di polizia – per impedire che i conflitti politici sfociassero in violenza omicida in una gigantesca metropoli che, alla metà del I secolo a.C., contava un milione di abitanti, e dove la fame, lo sfruttamento e le enormi disparità di ricchezza non facevano che alimentare ulteriormente le proteste, le rivolte e i crimini. Ed è una storia che gli studiosi, antichi e moderni, raccontano con tutti i vantaggi e gli svantaggi che comporta una visione in retrospettiva. Se già si conosce l’esito finale, è facile presentare questo periodo come una serie di bruschi e inevitabili passi verso la crisi o come un lento conto alla rovescia tanto per la fine del libero stato quanto per il ritorno al dominio di un sovrano assoluto. Ma l’ultimo secolo della repubblica non fu soltanto un bagno di sangue. Come dimostra la fioritura della poesia, dell’arte e della riflessione teorica, fu anche un periodo in cui i romani affrontarono le

questioni che stavano incrinando il loro sistema politico e formularono alcune delle loro più brillanti soluzioni, compreso il principio, allora estremamente radicale, secondo il quale lo stato aveva la responsabilità di garantire la sussistenza dei propri cittadini. Per la prima volta, cercarono una soluzione al problema di come si dovesse governare e amministrare un impero, ed elaborarono un complesso codice procedurale per il dominio romano. In altre parole, questo fu un periodo di straordinaria innovazione e analisi politica. I senatori romani non rimasero ad assistere inerti alla frantumazione delle loro istituzioni politiche, né si limitarono ad alimentare le fiamme della crisi per un proprio vantaggio di breve termine (benché vi fosse anche questo). Molti di loro, pur partendo da posizioni politiche diverse, cercarono di trovare un rimedio efficace. Non dobbiamo permettere che il nostro senno di poi, il loro finale insuccesso o la semplice sequela di guerre civili ci impediscano di vedere l’importanza dei loro sforzi, che sono il tema principale di questo e del prossimo capitolo. Esamineremo più a fondo alcuni dei più celebri conflitti e personaggi di questo periodo per scoprire quali fossero gli autentici motivi per cui i romani discutevano e combattevano. Una parte delle risposte ci riporterà al manifesto popolare di libertà incapsulato nei resoconti e nelle ricostruzioni del conflitto di classe. Ma vedremo anche l’affiorare di nuove questioni, dalle conseguenze della concessione generale della piena cittadinanza agli alleati italici fino al problema di come si dovessero suddividere i profitti dell’impero. Tutti questi temi sono inestricabilmente intrecciati: la vittoria (o la sconfitta) degli eserciti impegnati all’estero aveva dirette ripercussioni sul fronte interno; le ambizioni politiche di uomini come Pompeo e Cesare erano la causa profonda di alcune guerre di conquista; non si ebbe mai una netta separazione tra i ruoli politici e militari dell’élite romana. Ciononostante, al fine di presentare un quadro più chiaro di questi cruciali ma complessi sviluppi, il capitolo VII è dedicato alla politica estera di Roma e all’ascesa di potentissimi dinasti, in particolare Pompeo e Cesare, nella fase finale del periodo. In questo capitolo ci occuperemo invece soprattutto delle vicende che riguardano Roma e l’Italia, concentrando l’attenzione sulla parte iniziale del periodo, grosso modo (per ancorare la cronologia a nomi celebri, che dominano ancora oggi la narrazione) da Tiberio Gracco a Silla e Spartaco.

Tiberio Gracco Nel 137 a.C. Tiberio Gracco (nipote di Scipione Africano, cognato di Emiliano, ed eroe di guerra nell’assedio di Cartagine, dove era stato il primo a scalare le mura nemiche) partì da Roma per unirsi alle legioni stanziate in Spagna. Risalendo l’Etruria, rimase scioccato dallo stato delle campagne, perché la terra era coltivata su scala industriale da schiavi stranieri che lavoravano all’interno di grandi proprietà; i piccoli contadini, che avevano costituito l’ossatura tradizionale dell’agricoltura italiana, erano scomparsi. Secondo un opuscolo scritto dal fratello minore Gaio, citato in una biografia di epoca molto più tarda, fu proprio questo il momento in cui Tiberio si convinse della necessità di una riforma. Come poi disse lui stesso al popolo romano, gran parte degli uomini che avevano combattuto nelle guerre di Roma «sono detti padroni del mondo, ma non possiedono neppure una zolla di terra». Per Tiberio, questo non era giusto. Gli storici moderni, a differenza dei loro colleghi antichi, si sono insistentemente domandati fino a che punto la scomparsa dei piccoli proprietari terrieri corrispondesse alla realtà. Non è difficile immaginare che una rivoluzione agricola di questo tipo possa essere stata una logica conseguenza della guerra e dell’espansione romana. Durante il conflitto contro Annibale, alla fine del III secolo a.C., eserciti rivali avevano percorso avanti e indietro la penisola italiana per due decenni, con effetti devastanti sulle campagne e le coltivazioni. Il servizio militare all’estero sottraeva gli uomini all’agricoltura per lunghi anni, lasciando le famiglie dei contadini senza manodopera. Entrambi questi fattori resero probabilmente i piccoli proprietari particolarmente esposti alla possibilità di fallimento, bancarotta o svendita totale ai ricchi, che sfruttavano la ricchezza acquisita grazie alle conquiste oltremare per creare enormi proprietà terriere, coltivate come grandi fattorie agricole da una vasta schiera di schiavi. Uno storico moderno ha riecheggiato i sentimenti di Tiberio Gracco riassumendo la situazione con queste scoraggianti parole: per quanto ricco potesse essere il bottino che riportavano a casa, molti soldati avevano in realtà «combattuto per il proprio dislocamento». Buona parte di essi si riversò a Roma o in altre città cercando di tirare avanti in qualche modo, andando così a ingrossare le file del proletariato urbano. È uno scenario verosimile. Ma non ci sono testimonianze sicure per

confermarlo. A parte il tono propagandistico del viaggio rivelatore di Tiberio attraverso l’Etruria (possibile che non si fosse mai allontanato prima da Roma più di una sessantina di chilometri?), ci sono ben poche tracce archeologiche del nuovo tipo di aziende agricole di cui parla, e molte, invece, che attestano una diffusa sopravvivenza della piccola proprietà. Non è neppure certo che le devastazioni della guerra o la mancanza di manodopera maschile abbiano avuto gli effetti così catastrofici che spesso ci immaginiamo. I terreni agricoli si riprendono abbastanza rapidamente da questo genere di devastazioni, e alle famiglie contadine non mancavano certo altre braccia per sostituire quelle degli uomini impegnati nel servizio militare; e, se anche non fosse stato così, persino una famiglia di contadini di condizioni relativamente umili avrebbe avuto i mezzi per assumere qualche bracciante schiavo. In effetti, oggi molti storici ritengono che, se le sue motivazioni erano sincere, Tiberio fraintese gravemente la situazione. Comunque, quale che fosse la concreta realtà economica, Tiberio vide certamente il problema secondo la prospettiva del trasferimento dei poveri dalle loro modeste proprietà agricole. Così la pensavano anche i più indigenti, se dobbiamo credere ai graffiti elettorali che lasciarono nelle strade di Roma, in cui esortavano Tiberio a restituire «la terra ai poveri». E fu proprio questo il problema che Tiberio decise di risolvere quando venne eletto tribuno della plebe per il 133 a.C. Propose immediatamente all’assemblea popolare una legge per ridare slancio alla piccola proprietà distribuendo ai poveri alcuni lotti dell’ager publicus romano. Questa «terra pubblica» faceva parte del territorio che i romani avevano occupato nel corso della loro conquista della penisola. In teoria era a disposizione di un ampio numero di persone, ma in pratica era stata in gran parte accaparrata dai romani e dagli italici più ricchi, che ne avevano fatto, a tutti gli effetti, una loro proprietà privata. Tiberio propose di restringere i loro possedimenti a un massimo di 500 iugeri (circa 120 ettari) ciascuno, affermando che questo era l’antico limite legalmente stabilito, e di suddividere il resto in piccole unità da distribuire a chi non aveva terra o ne era stato espropriato. Fu una riforma di stile tipicamente romano, che giustificava un’azione radicale presentandola come un ritorno a costumi del passato. La proposta di Tiberio scatenò controversie sempre più accese e feroci. Innanzitutto, dopo che uno dei suoi colleghi tribuni, Marco Ottavio, ebbe ripetutamente posto il veto su di essa (questi «rappresentanti del popolo» avevano ottenuto il diritto di veto già parecchi secoli prima), Tiberio

scavalcò la sua opposizione facendo votare dal popolo la sua destituzione dalla carica. Tale mossa consentì l’approvazione della legge; venne nominata una commissione di tre membri, piuttosto favorevole poiché vi cui figuravano lo stesso Tiberio, suo fratello e suo suocero, con il compito di presiedere alla riassegnazione delle terre. Subito dopo, quando il Senato, i cui interessi coincidevano generalmente con quelli dei ricchi, accettò di accordare solo una insignificante sovvenzione di denaro per finanziare l’operazione (un metodo ben noto nella politica moderna), Tiberio si rivolse nuovamente al popolo e lo persuase a votare l’utilizzo di un recente e inaspettato tesoro entrato nelle casse dello stato per foraggiare la commissione. Per una fortunata coincidenza, il re di Pergamo Attalo III, poco prima della sua morte, nel 133 a.C., con una realistica valutazione della potenza romana nel Mediterraneo orientale e un’astuta mossa per difendersi dalle minacce di assassinio a opera di rivali interni, aveva reso il «popolo romano» erede delle sue proprietà e di un vasto regno, nell’odierna Turchia. Questa eredità garantì tutto il denaro necessario per il complesso lavoro della commissione, che comportava l’indagine, la misurazione e la rilevazione dei terreni, nonché la selezione dei nuovi locatari e la fornitura degli strumenti essenziali per il lavoro agricolo. Infine, quando si vide attaccato in modo sempre più minaccioso e persino accusato di aspirare alla monarchia (secondo una voce tendenziosa, aveva fissato bramosamente il diadema regale e l’abito in porpora di Attalo), Tiberio decise di ricandidarsi al tribunato della plebe anche per l’anno successivo; in tale veste, infatti, non avrebbe potuto essere messo sotto processo. Ma questo fu davvero troppo per alcuni dei suoi più preoccupati avversari, e una banda composta da senatori e delinquenti di ogni risma, con armi improvvisate e senza alcuna autorità ufficiale, interruppe le elezioni. Le elezioni, a Roma, erano una procedura lunga e complessa. Nell’assemblea popolare, che nominava i tribuni, gli elettori si riunivano in un unico luogo, e le tribù votavano a turno, ciascun membro votando individualmente, uno dopo l’altro (e si trattava, in tutto, di varie migliaia di persone). Talvolta occorreva più di un giorno per completare le operazioni di voto. Nel 133 a.C. le votazioni si stavano lentamente svolgendo sul colle del Campidoglio, quando intervenne la banda senatoria. Si scatenò uno scontro, nel corso del quale Tiberio venne malmenato e colpito a morte con la gamba di una sedia. L’uomo che aveva organizzato questo linciaggio era suo cugino, Publio Cornelio Scipione Nasica Serapione, ex console e capo di

uno dei principali collegi sacerdotali romani, quello dei pontefici. Si dice che si fosse gettato in questa rissa mortale dopo essersi coperto il capo con la toga, come facevano i sacerdoti romani quando sacrificavano animali agli dèi. Cercava, probabilmente, di presentare l’assassinio come un atto religioso. La morte di Tiberio non fermò l’opera di ridistribuzione della terra. Un altro tribuno prese il suo posto nella commissione, la cui attività negli anni successivi è ancora rintracciabile grazie a una serie di pietre di confine che delimitavano le intersezioni delle nuove unità territoriali, ciascuna incisa con il nome dei commissari responsabili. Ma ci furono anche altre vittime, in entrambi gli schieramenti. Alcuni sostenitori graccani furono messi sotto processo da una corte speciale nominata dal Senato (non è chiaro con quale accusa), e almeno uno di essi fu condannato a morte: fu chiuso in un sacco pieno di serpenti velenosi; si tratta con ogni probabilità di una tradizione ingegnosamente inventata per mascherare un arcaico e orribile rito romano di punizione. Scipione Nasica venne ben presto opportunamente inviato con una delegazione a Pergamo, dove morì un anno dopo. Scipione Emiliano, che aveva reagito alla notizia dell’assassinio di Tiberio citando un altro verso di Omero, attraverso il quale aveva insinuato di essere stato lui stesso la causa della propria fine, rientrò in Italia dalla Spagna per appoggiare la causa dei ricchi alleati italici che venivano espulsi dall’ager publicus. Fu trovato senza vita nel suo letto nel 129 a.C., la stessa mattina in cui avrebbe dovuto pronunciare un discorso in loro favore. Queste morti inspiegate – e ce ne furono molte – suscitavano i sospetti dei cittadini. In entrambi i casi appena citati si parlò di omicidio. Alcuni romani, come facevano spesso quando non era disponibile alcuna testimonianza, allusero a maligne influenze femminili dietro le quinte: il trionfante conquistatore di Cartagine, sostenevano, era caduto vittima di un sordido omicidio domestico per mano di sua moglie e di sua suocera, decise a impedire che smantellasse l’opera di Tiberio Gracco, rispettivamente fratello e figlio delle due donne.

36. Questa moneta d’argento della fine del II secolo a.C. mostra le procedure di votazione nelle assemblee romane, con scrutinio segreto. L’uomo a destra sta depositando la sua scheda elettorale nell’urna, collocata su una tavola rialzata o «ponte» (pons). A sinistra, un altro uomo sta salendo sul «ponte» mentre riceve la sua scheda da un assistente che si trova più in basso. La scritta «Nerva», sopra questa scena, fornisce il nome del funzionario responsabile della coniazione.

Perché la riforma agraria di Tiberio incontrò un’opposizione così tenace? Senza dubbio, entravano in gioco innumerevoli interessi personali. Alcuni

osservatori contemporanei (e parecchi altri dopo di loro) hanno sostenuto che, ben lungi dall’essere sinceramente preoccupato per la triste condizione in cui versavano i poveri, Tiberio era animato da un profondo risentimento nei confronti del Senato, che lo aveva umiliato rifiutandosi di ratificare un trattato da lui negoziato mentre prestava servizio in Spagna. Molti ricchi proprietari devono avere provato grande rabbia per la perdita di terre che da tempo consideravano parte delle loro proprietà private; viceversa, i beneficiari delle distribuzioni appoggiavano appassionatamente la riforma. Ne è chiara dimostrazione il massiccio afflusso in città di uomini da tutto il territorio romano per votare in suo favore. Ma il conflitto non si limitava soltanto a questo. Lo scontro del 133 portò in primo piano due concezioni radicalmente diverse del potere del popolo. Quando Tiberio lo persuase a votare la deposizione del tribuno che si opponeva alla sua legge, la sua giustificazione fu di questo tenore: «Se un tribuno della plebe non fa più ciò che il popolo desidera, allora deve essere deposto». Si sollevò così una questione che ci è ancora ben nota nei sistemi elettorali moderni. I membri del parlamento, per esempio, devono essere considerati delegati degli elettori, vincolati a seguire la volontà del loro elettorato, oppure sono dei rappresentanti, designati per esercitare il proprio personale giudizio nelle mutevoli circostanze di governo? Questa fu la prima volta, per quanto ne sappiamo, in cui tale questione venne esplicitamente posta a Roma, e trovarvi una risposta non era meno difficile di quanto lo sia oggi. Per alcuni, le iniziative di Tiberio Gracco rendevano giustizia ai diritti del popolo; per altri, minavano i diritti di un magistrato regolarmente eletto. Analoghi dilemmi stavano al fondo della questione se Tiberio dovesse essere rieletto al tribunato della plebe. Rivestire una carica per due anni consecutivi non era un fatto senza precedenti, ma molti ritennero senza dubbio che costituisse un pericoloso aumento dell’autorità individuale e fosse un ulteriore indizio di ambizioni monarchiche. Altri sostenevano che il popolo romano avesse il diritto di eleggere chi voleva, senza tenere conto di quali fossero i regolamenti di voto. Per di più, se Attalo aveva lasciato il proprio regno al «popolo romano» (populus romanus), non spettava forse a esso, anziché al Senato, decidere come dovesse essere utilizzato il lascito? I profitti dell’impero non dovevano andare a beneficio anche dei poveri oltre che dei ricchi? Scipione Nasica, con i suoi scagnozzi, le mazze e le gambe spezzate delle sedie, non ne esce certo come una figura attraente, e il soprannome Vespillo

(«becchino») affibbiato al senatore che fece gettare i cadaveri nel Tevere è una battuta sgradevole per qualsiasi sensibilità, antica come moderna. Ma l’argomentazione nei confronti di Tiberio era di cruciale importanza, e determinò il dibattito politico romano per tutto il resto del periodo repubblicano. Cicerone, alla metà del I secolo a.C., definì il 133 a.C. un anno decisivo proprio perché aveva aperto nella politica e nella società romana una spaccatura che ai suoi tempi non si era ancora richiusa: «La morte di Tiberio Gracco,» scrisse «e già prima la sua condotta politica durante il tribunato, divise il popolo che era uno in due fazioni [partes]». Questa è una semplificazione retorica. L’idea che a Roma avesse regnato un pacifico consenso tra ricchi e poveri fino a quando Tiberio non era intervenuto a frantumarlo è, nella migliore delle ipotesi, null’altro che una nostalgica invenzione. Appare probabile, da quel poco che sappiamo dei dibattiti del decennio precedente il 133 a.C., che altri politici avessero già affermato i diritti della plebe sostanzialmente negli stessi termini. Nel 139 a.C., per esempio, un tribuno della plebe di orientamento radicale aveva fatto approvare una legge che introduceva il voto segreto nelle elezioni. Non abbiamo sufficienti testimonianze per dare maggiore consistenza all’uomo responsabile di questa legge o esaminare più a fondo l’opposizione che deve avere scatenato, per quanto Cicerone ci fornisca un indizio quando scrive che «tutti sanno che la legge sul voto a scrutinio segreto ha privato gli aristocratici di tutta la loro influenza» e tratteggia il promotore come «un sudicio nessuno». Ma fu una riforma di cruciale importanza e costituì una garanzia fondamentale di libertà politica per tutti i cittadini, sconosciuta nei sistemi elettorali delle città greche classiche, democratiche o no che fossero. Ciononostante, furono gli eventi del 133 a.C. a cristallizzare l’opposizione tra coloro che si facevano paladini dei diritti, della libertà e dei benefici del popolo e coloro che, per esprimerci con le loro stesse parole, ritenevano più prudente che lo stato fosse guidato dall’esperienza e dalla saggezza degli «uomini migliori» (optimi), i quali, in pratica, coincidevano con i ricchi. Cicerone usa la parola partes per indicare questi due gruppi (populares e optimates, come venivano anche chiamati), ma non si trattava di partiti nel senso moderno del termine: non avevano iscritti, leader ufficiali o programmi condivisi. Rappresentavano due concezioni radicalmente diverse dei fini e dei metodi di governo, che vennero di continuo a cozzare l’una contro l’altra per quasi un intero secolo.

Gaio Gracco Alla fine del I secolo a.C. lo scrittore satirico Giovenale scaricò tutto il proprio disprezzo per la «masnada di Remo» che, come sentenziò con parole rimaste celebri, voleva soltanto due cose: panem et circenses, «pane e spettacoli». Come dimostra la frequenza con cui questa espressione viene usata ancora oggi, era un brillante rifiuto dei limitati orizzonti della plebe urbana, presentata da Giovenale come se fosse la discendenza del gemello assassinato: non le interessavano altro che le corse dei carri e le distribuzioni di cibo con le quali gli imperatori erano riusciti a corromperla e quindi a depoliticizzarla. Era una cinica distorsione della tradizione romana di approvvigionamento a spese dello stato degli alimenti primari alla popolazione, prassi introdotta dal fratello minore di Tiberio, Gaio Sempronio Gracco, tribuno della plebe per due anni consecutivi, il 123 e il 122 a.C. Gaio non introdusse la distribuzione gratuita di grano o frumentatio. Per essere precisi, propose al concilio della plebe una legge in virtù della quale lo stato doveva vendere ogni mese una determinata quantità di grano a un prezzo agevolato fisso ai singoli cittadini di Roma. Anche così, la portata e l’ambizione di questa iniziativa erano enormi. E sembra che Gaio avesse previsto e progettato la complessa infrastruttura necessaria per attuarla: acquisti pubblici, centri di distribuzione, qualche tipo di controllo d’identità (come si sarebbe potuta altrimenti limitare la legge ai soli cittadini?), nonché deposito in nuovi magazzini pubblici costruiti presso il Tevere e in spazi appositamente affittati in altri magazzini. I magistrati pubblici di Roma potevano contare sull’assistenza soltanto di un ristrettissimo numero di scribi, messaggeri e guardie del corpo. Quindi, come per quasi tutte le altre responsabilità statali (fino a mansioni estremamente specializzate, come ridipingere il volto della statua del dio Giove nel suo tempio in cima al Campidoglio), la maggior parte del lavoro di gestione e di distribuzione del grano fu probabilmente lasciata nelle mani di appaltatori privati, che traevano i propri profitti dalla fornitura di servizi pubblici. L’iniziativa di Gaio Gracco nasceva in parte da un reale interesse per i poveri della città. In anni di buon raccolto, il grano della Sicilia e della Sardegna era più o meno sufficiente per nutrire circa

duecentocinquantamila persone; stima ragionevole, anche se leggermente per difetto, della popolazione di Roma alla fine del II secolo a.C. Ma, a quell’epoca, la resa dei raccolti poteva variare drammaticamente, e talvolta i prezzi aumentavano ben oltre quanto molti comuni romani (negozianti, artigiani, lavoratori giornalieri) potevano permettersi. Anche prima di Gaio Gracco, lo stato in certi casi dovette prendere misure preventive per evitare carestie nella città. Un’illuminante iscrizione trovata in Tessaglia, nel nord della Grecia, ricorda la visita di un magistrato romano nel 129 a.C. Era giunto, con il berretto in mano, «perché il suo paese in quel momento era afflitto da una grave penuria», e andò via con la promessa di oltre tremila tonnellate di frumento e dopo avere organizzato le complesse operazioni per il loro trasporto. Nella mente di Gaio, comunque, non c’erano soltanto fini caritatevoli, né tantomeno la rigida logica, talvolta sostenuta a Roma, secondo cui una popolazione affamata era una popolazione pericolosa. Il suo progetto prevedeva anche un programma di condivisione delle risorse di stato. Questo fu certamente il nodo di uno scontro fra Gaio e uno dei suoi più implacabili avversari, il ricco ex console Lucio Calpurnio Pisone Frugi (quest’ultimo nome significa, molto appropriatamente, «taccagno»). Dopo l’approvazione della legge, Gaio vide Frugi fare la coda per ricevere la sua assegnazione di grano e gli chiese perché stesse lì, visto che aveva disapprovato così tenacemente il provvedimento. «Non vorrei» rispose Frugi «che ti saltasse in mente di spartire i miei beni fra i singoli cittadini, ma, nel caso lo facessi, pretenderei la mia parte.» Stava probabilmente ritorcendo contro Gaio la sua stessa retorica. La discussione verteva su chi potesse rivendicare un diritto sulla proprietà di stato e dove passasse il confine tra ricchezza pubblica e ricchezza privata. La distribuzione di grano a basso prezzo fu la riforma più importante e influente di Gaio Gracco. Anche se nei decenni successivi venne emendata e occasionalmente sospesa, il suo principio fondamentale rimase saldo per secoli: Roma fu la sola città del Mediterraneo in cui lo stato garantiva ai suoi cittadini una regolare distribuzione di derrate alimentari di prima necessità. Il mondo greco, al contrario, aveva contato normalmente su occasionali donazioni in periodi di carestia, o su sporadici gesti di generosità da parte di ricchi cittadini. Ma le distribuzioni di cibo furono soltanto una delle molte innovazioni di Gaio. A differenza di tutti i precedenti riformisti romani, egli non si limitò a proporre una sola iniziativa, ma ne sponsorizzò almeno un’altra dozzina. Fu il primo politico

romano, tralasciando i mitici padri fondatori, ad avere un vasto e coerente programma, che contemplava provvedimenti specifici sul diritto di appello contro la pena di morte, sull’illegalità della corruzione e su un piano di distribuzione terriera molto più ambizioso di quello già proposto da suo fratello Tiberio. Questo piano prevedeva il trasferimento in massa dei cittadini in sovrannumero in diverse «colonie», non solo in Italia ma, per la prima volta, anche oltremare. Appena un paio di decenni dopo essere stata rasa al suolo e maledetta, Cartagine venne prescelta come nuova città da ripopolare. Ma la memoria romana non era così corta, e questo particolare progetto dovette essere presto cancellato, sebbene alcuni coloni vi fossero già emigrati. Non è più possibile rintracciare tutte le leggi che Gaio propose nello spazio di appena due anni, e ancor meno determinare con esattezza quali fossero la loro struttura e i loro obiettivi. Fatta eccezione per una sostanziosa sezione del testo di una legge che definiva quale comportamento dovessero mantenere i magistrati romani all’estero e forniva uno strumento per risarcire coloro che erano stati vittime di loro abusi (ne faremo un’analisi più approfondita nel prossimo capitolo), i dati in nostro possesso derivano in larga misura da digressioni occasionali o da ricostruzioni molto più tarde. Ma in questo caso quel che conta è l’ampiezza del programma. Per gli avversari di Gaio, tutto ciò puzzava pericolosamente di ambizione al potere personale. Nel complesso, il suo piano sembra indubbiamente costituire un tentativo sistematico di riconfigurare le relazioni tra il popolo e il Senato. Così almeno lo intese più di duecento anni dopo il suo biografo greco Plutarco, quando raccontò quello che deve essere stato un plateale gesto compiuto da Gaio mentre parlava in pubblico nel Foro. Prima di lui gli oratori avevano pronunciato i propri discorsi rivolti verso l’edificio del Senato, con gli ascoltatori ammassati nel piccolo spazio chiamato comitium, proprio davanti a esso. Gaio ruppe le convenzioni dando la schiena al Senato quando parlava al popolo, che ora poteva ascoltarlo nella piazza aperta del Foro. Era, ammette Plutarco, soltanto una «lieve deviazione» rispetto all’uso comune, ma fu una mossa rivoluzionaria. Non soltanto permetteva la partecipazione di una massa di individui molto maggiore, ma segnalava anche l’emancipazione e la libertà del popolo dal controllo del Senato. Gli autori antichi, in effetti, attribuiscono a Gaio una sensibilità eccezionale per l’ambientazione scenica della politica. Ecco un’altra storia: in vista di un’esibizione di gladiatori nel Foro (uno dei luoghi preferiti per questo tipo di spettacoli prima della costruzione del Colosseo, due secoli

dopo), alcuni romani d’alto rango fecero allestire dei posti a sedere temporanei da affittare agli spettatori. La notte prima dello spettacolo, Gaio li fece smontare, in modo che il popolo comune avesse sufficiente spazio per guardare l’esibizione, senza dover pagare nulla.

37. Cornelia, madre dei Gracchi, insieme ai suoi giovani figli, in un quadro dipinto nel 1875 da Angelica Kauffmann. Cornelia è una delle poche donne romane a cui è attribuita una profonda influenza sulla carriera politica dei figli. Si diceva che vestisse in modo meno vistoso della maggior parte delle altre matrone: «I miei figli sono i miei gioielli», come lei stessa usava dire. Qui Kauffmann la immagina mentre presenta Tiberio e Gracco (sulla sinistra del quadro) a un’amica.

A differenza di suo fratello, Gaio riuscì in qualche modo a farsi eleggere tribuno della plebe per due volte consecutive. Ma, per oscure circostanze,

non ci riuscì per una terza volta nel 121 a.C. In quel medesimo anno si oppose strenuamente ai tentativi con cui il console Lucio Opimio, un irriducibile che divenne una sorta di eroe per i conservatori, cercava di annullare buona parte della sua legislazione. Nel corso di questi turbinosi eventi Gaio fu ucciso – o si suicidò per prevenire un assassinio – da una banda armata al comando di Opimio. La violenza non proveniva però da un solo schieramento. Si era scatenata dopo che un assistente del console (a quanto pare andando avanti e indietro con le interiora di un animale appena sacrificato, cosa che aggiunse un macabro tocco a tutta la scena) aveva gridato alcuni generici insulti ai sostenitori di Gaio («Lasciate passare questi illustri cittadini, mascalzoni») e fatto un gesto ancora più volgare e offensivo. I seguaci di Gaio lo avevano assalito e pugnalato a morte con i loro stili per scrivere, e questo ci dimostra non soltanto che non erano già armati ma anche che, pur essendo un gruppo di letterati, non erano esclusivamente delle vittime innocenti. Per tutta risposta, il Senato emanò un decreto che esortava i consoli a «garantire che allo stato non occorresse alcun danno», concedendogli gli stessi poteri d’emergenza che furono poi concessi a Cicerone in occasione dello scontro con Catilina, nel 63 a.C. Opimio, cogliendo al volo l’opportunità, assoldò una milizia di suoi sostenitori e mise a morte circa tremila graccani, alcuni direttamente sul posto e altri dopo un processo improvvisato. Fu così stabilito un precedente ambiguo e fatale. Nei secoli successivi, infatti, si ricorse parecchie volte a questo decreto per affrontare varie crisi, dai disordini civili ai presunti tradimenti. È possibile che sia stato pensato come strumento per imporre una regolamentazione sull’uso ufficiale della forza. In quest’epoca Roma non possedeva ancora alcun tipo di polizia, né aveva i mezzi per tenere sotto controllo la violenza, a parte quanto riuscivano a ottenere alcuni uomini estremamente potenti. La disposizione atta a «garantire che allo stato non occorresse alcun danno» potrebbe, in teoria, avere avuto lo scopo di tracciare una linea di demarcazione tra le azioni non autorizzate di uno Scipione Nasica e quelle sanzionate dal Senato. In pratica, fu un modo per autorizzare i linciaggi della folla, una giustificazione partigiana per sospendere le libertà civili e una foglia di fico giuridica per una premeditata violenza contro i riformisti radicali. È ben difficile credere, per esempio, che gli «arcieri cretesi» unitisi ai sostenitori locali di Opimio si trovassero a portata di mano per puro caso. Ma il decreto rimase sempre controverso e sempre suscettibile di ripercuotersi anche su chi lo aveva sostenuto, come

Cicerone scoprì in prima persona. Opimio fu debitamente messo sotto processo; pur essendo stato prosciolto, la sua reputazione era ormai incrinata. Quando ebbe il coraggio, o l’ingenuità, di celebrare la sua eliminazione dei graccani restaurando sfarzosamente il tempio della dea Concordia, nel Foro, qualcuno dallo spirito particolarmente realista ricapitolò tutta la sanguinosa e triste vicenda incidendo sulla facciata le seguenti parole: «Un atto di folle discordia ha prodotto un tempio della Concordia».

Cittadini e alleati in guerra Poco prima delle rivoluzionarie riforme di Gaio Gracco, attorno al 125 a.C. un console romano in viaggio attraverso l’Italia insieme alla moglie si fermò nella piccola città di Teanum (l’odierna Teano, circa centocinquanta chilometri a sud di Roma). Sua moglie voleva riposarsi nelle terme urbane, normalmente riservate agli uomini: il governatore della città le fece perciò preparare in modo adeguato, cacciando fuori i clienti abituali. Ma la moglie del console si lamentò, sostenendo che non erano state sistemate in tempo e che non erano abbastanza pulite. «Perciò venne piantato un palo nel foro, e lì fu portato Marco Mario, il più nobile personaggio del paese. Gli furono tolti i vestiti, fu battuto con le verghe.» Questa storia ci è pervenuta perché figura in un discorso di Gaio Gracco che fu citato alla lettera da uno studioso del II secolo d.C. per analizzarne lo stile oratorio. Era uno scioccante esempio di abuso di potere, menzionato a sostegno di un’altra iniziativa politica di Gaio: l’estensione della cittadinanza romana a un più vasto settore della popolazione dell’Italia. Non era stato il primo a pensarla: la sua proposta si inquadrava all’interno di un crescente e acceso dibattito sullo status degli alleati di Roma e delle comunità latine in Italia. Ma il dibattito sfociò in aperto conflitto: molti alleati si schierarono contro Roma nella cosiddetta «guerra sociale», uno dei più cruenti ed enigmatici conflitti della storia romana. L’enigma consiste innanzitutto nell’individuare quali fossero i veri obiettivi degli alleati. Ricorsero alla violenza per costringere Roma a concedere loro la piena cittadinanza? Oppure cercavano di rendersi indipendenti da Roma? Insomma, volevano stare dentro oppure uscire fuori?

38. Palestrina (l’antica Praeneste). Le gigantesche strutture architettoniche della fine del II secolo a.C. furono incorporate nel successivo palazzo rinascimentale, che conserva ancora il tracciato fondamentale dell’antico santuario. Le rampe e i terrazzamenti inferiori sono chiaramente riconoscibili.

Le relazioni tra Roma e le altre popolazioni dell’Italia si erano sviluppate lungo direzioni diverse dal III secolo a.C. in poi. Gli alleati avevano senza dubbio tratto notevoli benefici dalle campagne militari combattute al fianco di Roma, nella forma dei bottini che si ottenevano con la vittoria e delle opportunità commerciali che ne derivavano. Una famiglia della cittadina di Fregelle, tecnicamente una colonia latina novantacinque chilometri a sud di Roma, era così orgogliosa di queste campagne da decorare la propria casa con fregi in terracotta che raffiguravano le lontane battaglie alle quali alcuni suoi membri avevano partecipato. Su una scala ben più vasta, lo spettacolare sviluppo architettonico di molte città italiane offre una testimonianza concreta e tangibile della ricchezza accumulata dagli alleati. A Praeneste, l’odierna Palestrina, distante soltanto una trentina di

chilometri da Roma, per esempio, venne costruito un nuovo e gigantesco santuario dedicato alla dea Fortuna, un autentico capolavoro di architettura scenografica – con una cavea teatrale, una serie di terrazzamenti, portici e colonnati – capace di reggere il confronto con qualsiasi altro monumento del mondo mediterraneo. Non è certo un caso se i nomi di molte famiglie di questa città figurano tra quelli dei mercanti romani e italici che operavano sull’isola di Delo, nell’Egeo, uno dei più grandi snodi commerciali del tempo e importantissimo mercato di schiavi.

39. Ricostruzione dell’antico santuario di Praeneste, dalla quale risulta chiaro come la forma semicircolare del palazzo rinascimentale rifletta quella del soggiacente tempio della Fortuna. È interessante notare che fu costruito più di cinquant’anni prima del teatro di Pompeo (cfr. fig. 44), quando nella stessa Roma non esisteva ancora nulla di proporzioni così grandiose.

Per chi li vedeva in posti come Delo, c’era ben poca differenza tra romani e italici, e i due termini erano usati in modo più o meno interscambiabile per riferirsi a entrambi. Persino in Italia i confini si erano erosi e fatti incerti e confusi. All’inizio del II secolo a.C. tutti coloro che erano stati «cittadini senza suffragio» ottennero il diritto di voto. In un qualche momento precedente alla guerra sociale, i romani potrebbero avere accettato il principio secondo il quale chiunque avesse rivestito una carica pubblica in una comunità di diritto latino poteva accedere alla piena cittadinanza romana. In pratica, si chiuse sovente un occhio sugli italici che rivendicavano semplicemente la cittadinanza o riuscivano a ottenerla iscrivendosi nelle liste di censimento romano. Ma questo genere di più stretta integrazione era soltanto un lato della medaglia. La storia dell’umiliazione subita dal governatore di Teano raccontata da Gaio è solo una delle numerose causes célèbres in cui singoli romani, in un arco che va dalla mancanza di tatto alla pura crudeltà, furono accusati di avere maltrattato o umiliato importanti membri delle comunità alleate. Di un altro console si diceva che avesse fatto spogliare e frustare un gruppo di dignitari locali per un semplice intoppo nelle disposizioni per i suoi rifornimenti. Veri o no che siano, questi aneddoti (che, in definitiva, derivano tutti da non comprovati attacchi di romani contro altri romani) rivelano un’atmosfera dominata da recriminazioni, risentimenti e velenosi pettegolezzi, ulteriormente alimentati da alcuni autoritari interventi dello stato centrale e da un senso di esclusione politica, di status inferiore, nei principali alleati. Il Senato iniziò a dare per scontato che poteva dettar legge in tutta la penisola. La riforma agraria di Tiberio Gracco, per quanto possa avere incontrato il favore dei romani più indigenti, era un’autentica provocazione nei confronti dei ricchi italici che erano stati privati di parte della loro terra (quella che apparteneva all’ager publicus), come anche di quelli più poveri, che erano esclusi dalle assegnazioni. Gli stretti rapporti personali che una fetta dell’aristocrazia italica aveva intessuto con illustri cittadini romani (in quale altro modo avrebbe potuto ottenere l’aiuto di

Scipione Emiliano nella battaglia contro la riforma di Tiberio?) non compensavano il fatto che essa continuava a non avere alcun ruolo riconosciuto nella politica romana e nei suoi meccanismi decisionali. Negli anni Venti del II secolo a.C. la «questione italica» si fece sempre più scottante e divisiva, provocando numerosi scoppi di violenza. Nel 125 a.C. la popolazione di Fregelle cercò di staccarsi da Roma, ma venne schiacciata da un esercito romano al comando di quel medesimo Lucio Opimio che pochi anni dopo eliminò Gaio Gracco. I resti dei fregi scolpiti che un tempo commemoravano orgogliosamente queste campagne congiunte sono stati portati alla luce più di duemila anni dopo la distruzione di Fregelle. Allo stesso tempo, a Roma, i timori sulle fiumane di stranieri che avrebbero potuto inondare la città venivano eccitati in modi che ci sono ben noti dalle moderne campagne xenofobe. Un avversario di Gaio, nel corso di una contio (adunanza del popolo), adombrò visioni di una Roma sommersa da ondate di immigrati. «Una volta che avrete concesso la cittadinanza ai latini,» così si rivolse al suo pubblico «credete che rimarrà qualche spazio per voi, come adesso, nelle assemblee, nei giochi o nelle feste? Non vi rendete conto che si prenderanno tutto?» Vi furono anche occasionali tentativi ufficiali di rimpatriare gli immigrati o di impedire che gli italici si spacciassero per autentici cittadini romani. Sostenere troppo apertamente la causa degli italici poteva rivelarsi pericoloso. Nell’autunno del 91 a.C. Marco Livio Druso, che aveva proposto di estendere i diritti di cittadinanza a un più ampio settore dell’Italia, venne assassinato nella sua stessa casa, accoltellato mentre stava salutando un gruppo di visitatori. Questo omicidio fu il preludio di una guerra vera e propria, di spietata violenza. La svolta si ebbe alla fine del 91 a.C., quando un inviato romano insultò gli abitanti di Ascoli, nell’Italia centrale. Per tutta risposta, costoro uccisero l’inviato e tutti gli altri romani che lo accompagnavano. Questo brutale atto di pulizia etnica stabilì il tono per ciò che accadde in seguito, che non fu molto diverso da un’autentica guerra civile: «Può essere chiamata, per ridurne l’odiosità, una guerra contro i socii; ma la verità è che si trattò di una guerra civile, contro i cittadini», come riassunse poi uno storico romano. E costrinse i romani a combattere in quasi tutta la penisola italiana, inclusa Pompei, dove i segni lasciati dai colpi dell’artiglieria romana, nell’89 a.C., sono ancora oggi visibili sulle mura della città. I romani impegnarono un’enorme quantità di forze per sconfiggere gli italici e ottennero la vittoria soltanto a caro prezzo e dopo che si era diffuso il panico. Quando il corpo di un console che era rimasto ucciso in battaglia

venne riportato in città, Roma sprofondò in un cordoglio talmente disperato da spingere il Senato a decretare che, in futuro, i caduti avrebbero dovuto essere sepolti nel luogo in cui erano morti (una decisione presa anche da alcuni stati moderni). Ma, nel complesso, il conflitto si concluse abbastanza rapidamente, nel giro di un paio d’anni. La pace fu raggiunta grazie a una semplice soluzione: i romani offrirono la piena cittadinanza a tutti gli italici che non avevano preso le armi contro Roma o che erano pronti a deporle. Questo dà senza dubbio l’impressione che l’obiettivo bellico di molti alleati fosse stato quello di ottenere la piena cittadinanza romana, ponendo fine alla loro esclusione dalla vita politica e alla loro condizione di inferiorità. È così che la maggior parte degli autori antichi ha spiegato il conflitto. «Chiedevano infatti di essere parte di quella città della quale difendevano con le armi il dominio», come scrisse uno di essi, il cui bisnonno era un italico che aveva combattuto al fianco di Roma. La riuscita trasformazione degli italici in romani era brillantemente riassunta da una storia molto popolare, che raccontava la carriera di un uomo proveniente dalla regione del Piceno, nell’Italia centrale: ancora bambino, aveva fatto parte della processione dei prigionieri in uno dei trionfi celebrati a Roma per la vittoria sui nemici un tempo alleati; cinquant’anni dopo, divenuto generale romano, aveva egli stesso celebrato un trionfo per la propria vittoria contro i parti: il solo uomo ad avere partecipato a una parata trionfale in entrambe le vesti, prima come vinto e poi come vincitore. Ma gli autori romani possono essere stati troppo pronti a equiparare l’esito della guerra con i suoi obiettivi o ad assegnare agli italici uno scopo che si adattava ben più agevolmente alla successiva unità di Roma e dell’Italia. Infatti, la propaganda e l’organizzazione dello schieramento italico indicano che si trattò di un movimento di secessione, che aspirava a una completa indipendenza da Roma. Sembra che gli alleati avessero già fatto i primi passi in direzione della costituzione di uno stato rivale, chiamato «Italia», con una città rinominata «Italica» come capitale e persino la parola Itali incisa sui loro proiettili di piombo. Iniziarono a coniare monete che raffiguravano la memorabile immagine di un toro, simbolo dell’Italia, che incornava una lupa, simbolo di Roma. E un capo italico capovolse astutamente la storia di Romolo e Remo bollando i romani come «lupi pronti a strappare la libertà all’Italia». Questo non suona affatto come un appello all’integrazione. La soluzione più ragionevole dell’enigma consiste nel supporre che gli alleati fossero una coalizione piuttosto eterogenea, con molteplici obiettivi

e una sostanziale divisione tra chi era deciso a resistere ai romani fino alla morte e chi era più disposto a scendere a patti. Questo è senza dubbio vero. Ma bisogna tenere conto anche di altri più sottili fattori, e soprattutto dell’indicazione che – piaccia o non piaccia – era ormai troppo tardi per l’indipendenza dell’Italia da Roma. La monetazione esibiva senza dubbio un’iconografia antiromana; ma si fondava interamente sul sistema monetario romano, e molti altri motivi iconografici utilizzati erano tratti direttamente dalle emissioni romane. Insomma, era come se il solo linguaggio culturale con cui gli italici potevano attaccare Roma fosse ormai quello romano: prova illuminante di quanto fosse progredita l’integrazione o, se si preferisce, la supremazia romana sull’Italia. Quali che fossero state le cause della guerra sociale, le conseguenze delle leggi approvate nel 90 e nell’89 a.C., con le quali venne concessa la piena cittadinanza romana agli abitanti di quasi tutta la penisola, furono di enorme portata: l’Italia divenne così quel che il mondo classico ebbe di più simile a uno stato-nazione, e il principio che abbiamo visto all’opera già secoli prima, ossia che i «romani» potevano avere doppia cittadinanza e due identità civiche (quella di Roma e quella della loro città natale), divenne la norma. Se le cifre riportate dagli autori antichi sono accurate, il numero dei cittadini romani si triplicò in un sol colpo, superando il milione. I possibili effetti e i problemi di questo incremento erano ovvi. Si aprì un feroce dibattito, per esempio, su come si dovessero distribuire i nuovi cittadini nelle tribù elettorali, compresa la proposta, che non ebbe successo, di limitare l’influenza degli italici nelle assemblee registrandoli in un piccolo numero di tribù extra, che avrebbero sempre votato per ultime. Ma i romani non adattarono mai le loro istituzioni politiche e amministrative tradizionali al fine di gestire il nuovo panorama politico. Non fu mai elaborato alcun sistema per votare fuori da Roma, per cui, in pratica, soltanto gli italici che avevano sufficiente tempo e denaro per viaggiare potevano esercitare davvero i loro nuovi diritti politici. E le difficoltà di registrare regolarmente questo elevato numero di cittadini sembrano essere state quasi superiori alle loro capacità, sebbene si facesse qualche tentativo per affidare parte del lavoro a funzionari locali. Un censimento completo venne effettuato nel 70 a.C. (è dai suoi dati che si ricava la stima di circa un milione sopra citata); ma non se ne fecero più fino al 28 a.C., all’inizio del regno dell’imperatore Augusto. Questo vuoto è normalmente attribuito all’instabilità politica, ma anche la difficoltà e la portata del compito devono avere avuto senza dubbio una parte.

40. La moneta più aggressivamente antiromana coniata dagli alleati italici durante la guerra sociale. La lupa romana è soggiogata dal toro italico, e il nome del funzionario responsabile della coniazione è scritto in osco, una lingua italica. Sull’altro lato di questa moneta d’argento è raffigurata la testa del dio Bacco, accompagnata dal nome, pure in osco, di uno dei più importanti generali italici.

Un illuminante riflesso di alcuni spinosi problemi che restavano ancora da risolvere quasi trent’anni dopo la guerra sociale si trova in un discorso che Cicerone pronunciò nel 62 a.C. in difesa del poeta Archia, che aveva già celebrato in versi le imprese di alcuni illustri romani (sfortunatamente o no, nessun verso è sopravvissuto) e che, secondo quanto sperava Cicerone, avrebbe composto un poema in lode della sua vittoria su Catilina. Archia era nato ad Antiochia, in Siria, ma si considerava un cittadino romano, con il nome di Aulo Licinio Archia, in quanto era emigrato in Italia ed era diventato cittadino di Eraclea, e quindi, dopo la guerra sociale, aveva diritto alla cittadinanza. Ma questa posizione gli fu contestata in tribunale. La difesa, tuttavia, si trovò in difficoltà. Non c’era alcuna documentazione scritta che Archia fosse un cittadino di Eraclea, perché gli archivi locali erano andati bruciati durante la guerra sociale. Né vi era prova della sua cittadinanza romana, in quanto il suo nome non figurava su alcuna lista di censimento; in occasione dei due precedenti censimenti si trovava all’estero, forse non casualmente, come potremmo pensare. Perciò Cicerone dovette affidarsi ad alcuni testimoni pronti a fare da garanti e ai registri privati del pretore, nel frattempo deceduto, che aveva originariamente accettato le

rivendicazioni di Archia. Non sappiamo quale fu la decisione della giuria. Ritenne insufficienti le giustificazioni addotte per la mancanza di documenti? Oppure comprese che questo smarrimento di identità era esattamente il tipo di problemi che si presentano spesso dopo una guerra civile? In ogni caso, la difesa pronunciata da Cicerone fornisce una preziosa testimonianza delle controversie e degli incubi amministrativi che devono essersi celati dietro questa semplice e lapidaria frase: «La cittadinanza fu concessa agli alleati». Fu una decisione straordinariamente coraggiosa da parte dei romani, anche se erano stati in sostanza costretti a prenderla; ma ci furono probabilmente molte altre persone che, come Archia, si trovarono intrappolate in complessi intrichi legali, senza tuttavia avere le risorse o l’influenza per assumere un avvocato del livello di Cicerone a sostenere la propria difesa.

Silla e Spartaco Il comandante romano nell’assedio di Pompei (89 a.C.), dove il giovane Cicerone aveva prestato servizio come ufficiale di grado minore, era Lucio Cornelio Silla, detto Felix o, in modo ancora più pomposo, «il favorito della dea Venere». Doveva affrontare un’opposizione ben organizzata all’interno della città, almeno a giudicare da una serie di scritte, trovate sotto un più recente strato di gesso sui muri delle strade, che, a quanto pare, contengono istruzioni per la milizia locale sul posto dove adunarsi. Gli abitanti di Pompei sembrano avere resistito ancora qualche tempo dopo che Silla si era rivolto a obiettivi più importanti; ma Silla era comunque riuscito a lasciare una forte impressione, tanto da spingere un graffitaro locale a scarabocchiare il suo nome su un bastione delle mura. Silla fu la figura più dominante e controversa di quasi un decennio di guerra aperta dentro e fuori dalla città di Roma, nonché di un breve ma sanguinoso periodo di regime autocratico. Nato da una famiglia patrizia caduta in disgrazia, fu eletto console nell’88 a.C., all’età di circa cinquant’anni. Gli scontri iniziarono quel medesimo anno, quando Silla invase Roma con le truppe che aveva guidato nelle ultime fasi della guerra sociale – che si preannunciava potenzialmente molto gloriosa e remunerativa – per reclamare il comando nel conflitto contro Mitridate, già in precedenza conferitogli e ora improvvisamente affidato a un suo rivale. E continuarono quando ritornò vittorioso in Italia, nell’83 a.C., dove fu costretto a combattere quasi due anni interi per strappare Roma agli avversari che ne avevano ripreso il controllo durante la sua assenza. Mentre Silla era via, a Roma le discordie interne erano state affrontate con la violenza, gli assassinii e la guerriglia. Ed erano stati inviati generali rivali ad assumere il comando nella guerra contro Mitridate, i quali erano più ostili uno nei confronti dell’altro di quanto lo fossero nei confronti del nemico. Era una situazione davvero grottesca e persino ridicola, se non fosse stata anche fatalmente pericolosa.

41. Moneta argentea di Silla, coniata nell’84-83 a.C., che celebra la protezione divina di cui godeva. Su un lato è raffigurata la testa della dea Venere, con, appena visibile sulla destra, il figlio Cupido che regge un ramo di palma (simbolo di vittoria). Sul lato opposto, gli oggetti riprodotti e l’iscrizione alludono ai successi garantiti da questa protezione: IMPER(ATOR) ITERUM indica che Silla era stato pubblicamente salutato due volte (iterum) come condottiero vittorioso (imperator) dalle sue truppe; e i due simboli al centro sono racchiusi da altrettante armature, utilizzate come trofei di vittoria.

Di questo periodo, gli autori antichi dipingono un quadro dai toni foschi, cruenti e confusi. In entrambe le invasioni di Silla si scatenarono feroci scontri nel cuore stesso di Roma. Nella seconda, andò in fiamme il tempio di Giove sul Campidoglio, il simbolo fondante della Roma repubblicana, e i senatori non trovarono salvezza nemmeno all’interno del Senato. Quattro di essi (compreso un antenato dell’imperatore Nerone) furono massacrati, mentre erano ancora seduti sui loro scranni, dai nemici di Silla. Nel frattempo, nella guerra contro Mitridate, un comandante dell’esercito venne ucciso dal suo secondo, che poi si suicidò dopo che quasi tutte le sue truppe avevano disertato. La gran parte dei disertori si unì alle forze di Silla, tranne un paio di ufficiali che preferirono schierarsi con Mitridate, vale a dire con il nemico che erano in teoria venuti a combattere. I racconti più sinistri e raccapriccianti, però, riguardano le spietate esecuzioni e il terrore scatenato dalle liste di proscrizione, redatte con precisione burocratica. Il sadismo di Silla si sfogava a briglie sciolte. Se,

pochi anni prima, i suoi nemici avevano dato inizio alla macabra pratica di appendere le teste delle proprie vittime ai rostri del Foro, Silla, si diceva, era stato ancora più crudele, facendole apporre come trofei nell’atrio della sua casa: un’odiosa parodia della tradizione che avevano le famiglie patrizie romane di esibire in questo spazio di rappresentanza i ritratti dei propri antenati. E denigrò ulteriormente l’uso di citare passi della letteratura greca quando, essendogli stata mostrata la testa di una vittima molto giovane, riprese un verso di Aristofane in cui si derideva un bambino che cercava di correre prima ancora di avere imparato a camminare. «Non c’è stato nessuno che mi abbia fatto un torto, che io non abbia ripagato in pieno»: sono alcune delle parole che egli stesso scrisse per l’epitaffio della sua tomba, davvero lontanissime da quelle degli epitaffi degli Scipioni. Ma questa è soltanto una parte della storia. Bisogna anche riconoscere il desiderio di molti di unirsi ai massacri per risolvere vecchi attriti o semplicemente per reclamare la taglia sulle vittime. Uno dei più famigerati e feroci fu Catilina, intento a persuadere Silla a inserire i nomi dei suoi nemici personali nelle liste di proscrizione; dopo aver compiuto le sue odiose nefandezze, si lavava delle tracce delle carneficine immergendo le mani in una fontana sacra. Come si spiega una simile violenza? Non basta sostenere che fosse meno spaventosa rispetto a come è stata dipinta. Questo è vero, ma non in tutto e per tutto. La gran parte delle narrazioni che ci sono giunte si fonda su resoconti faziosi fatti da persone interessate a esagerare la crudeltà dei propri nemici. È probabile, per esempio, che la denigrazione di Catilina derivi dalla propaganda ciceroniana. Ma solo fino a un certo punto: le due invasioni di Roma compiute da Silla, l’incendio del tempio di Giove, le legioni schierate una contro l’altra e le liste di proscrizione non possono essere considerati semplici invenzioni della guerra di propaganda. Né è sufficiente domandarsi che cosa abbia spinto Silla a fare quel che fece. Le sue motivazioni sono state immediatamente oggetto di dibattito. Era un autocrate spietato e calcolatore? Oppure stava facendo un ultimo, disperato, tentativo per restaurare l’ordine a Roma? Il punto è che, qualsiasi cosa si celasse dietro le azioni di Silla (ed è impossibile saperlo oggi come già allora), la violenza era molto più diffusa di quanto possa essere ragionevolmente imputato all’influenza di un solo uomo. I conflitti di questo periodo furono, per diversi aspetti, una prosecuzione della guerra sociale: una guerra civile tra ex alleati e amici degenerata in una guerra civile tra cittadini. E in questo processo si erose la fondamentale

distinzione tra romani e nemici stranieri (hostes). Nell’88 a.C. Silla proclamò hostes i suoi rivali all’interno della città: era la prima volta che questo termine veniva impiegato pubblicamente (come poi lo impiegò Cicerone) contro un concittadino romano. Per tutta risposta, non appena Silla lasciò la città, i suoi avversari lo dichiararono immediatamente un hostis. Questo dissolvimento di distinzioni si riflette nei rovesci militari subiti nel Mediterraneo orientale: le antiche certezze si ribaltarono così profondamente che i soldati, una volta disertato dal proprio comandante romano, potevano apparentemente vedere in Silla e in Mitridate due possibili candidati per la loro nuova lealtà. E un distaccamento di forze romane distrusse addirittura la città di Troia, la progenitrice di Roma. Era l’equivalente mitico di un matricidio. Conseguenza della guerra sociale fu anche la presenza di una numerosa manodopera militare immediatamente a disposizione vicino a Roma, formata da soldati con notevole esperienza nel combattere i loro amici e parenti italici. Le recenti esplosioni di violenza all’interno della città, per quanto controverse e brutali, erano state di portata relativamente piccola e di breve durata. Ma, quando legioni armate alla perfezione presero il posto delle bande di scagnozzi che avevano assassinato i sostenitori dei Gracchi, Roma cadde facile preda di quella lunga e aperta guerra che contrassegnò l’epoca sillana. Fu quasi un ritorno alle armate private della Roma arcaica: singoli comandanti, appoggiati dal voto popolare o da decreti del Senato, usavano le loro legioni per condurre le proprie lotte personali dove e quando volevano. Ma da questa vorticosa situazione emerse un eccezionale tentativo di riscrivere la politica romana in senso radicalmente conservatore: un completo rivolgimento mascherato da ritorno al passato. Nell’82 a.C., subito dopo essersi reinsediato in città, Silla predispose la propria elezione a dittatore legibus scribundis et rei publicae constituendae («per scrivere le leggi e ricostituire la repubblica»). La dittatura era un’antica magistratura d’emergenza che conferiva il potere assoluto a un singolo individuo per un periodo determinato con il compito di risolvere gravi crisi, spesso, ma non sempre, di carattere militare. L’ultima persona a rivestire questa carica era stata nominata più di un secolo prima, nel 202 a.C., per controllare lo svolgimento delle elezioni, mentre entrambi i consoli erano fuori Roma. La dittatura di Silla era di diversa natura per due motivi: primo, non prevedeva un limite di tempo; secondo, contemplava un’amplissima serie di poteri assoluti per promulgare o abrogare leggi, con garanzia di immunità da

azioni penali. Ed è esattamente ciò che fece per tre anni, per poi rassegnare le dimissioni e ritirarsi nella sua villa sul golfo di Napoli, dove morì di morte naturale nel 78 a.C. Se si pensa alla storia della sua vita, fu una fine sorprendentemente tranquilla, per quanto molti scrittori antichi abbiano raccontato con piacere quanto sia stata raccapricciante: la carne del suo corpo fu invasa dai vermi, che si moltiplicarono con tale rapidità da non poter essere più rimossi. Silla fu il primo dittatore nel senso moderno del termine. Giulio Cesare fu il secondo. Questa particolare versione del potere politico è una delle più dannose e corrosive eredità di Roma. Silla avviò un programma di riforme di portata ancora maggiore di quello di Gaio Gracco. Abrogò alcune recenti misure di carattere popolare, comprese le distribuzioni di frumento a prezzo agevolato. Introdusse inoltre una serie di procedure legali e regolamentazioni per l’eleggibilità alle cariche pubbliche, molte delle quali ribadirono la posizione centrale del Senato in quanto istituzione di stato. Vi fece entrare centinaia di nuovi membri, portandone il numero da 300 a 660 (ma il totale non fu mai rigidamente fissato), e con saggia decisione mutò il metodo del loro reclutamento al fine di garantire il mantenimento delle sue nuove dimensioni. Mentre in precedenza i senatori erano scelti individualmente dai censori, da questo momento in poi chiunque avesse rivestito la carica di questore sarebbe automaticamente entrato in Senato; allo stesso tempo, il numero dei questori fu aumentato da otto a dieci: questo assicurava un numero sufficiente di nuove reclute per sostituire i membri che morivano di anno in anno. Silla stabilì inoltre un’età minima per l’eleggibilità alle cariche politiche (nessuno, per esempio, poteva diventare questore prima di avere compiuto trent’anni) e un preciso ordine nella loro successione; nessuna carica poteva essere rivestita una seconda volta prima che fossero passati dieci anni. Era un sistema ideato per impedire proprio quell’accumulo di potere personale di cui egli stesso si era avvalso. Queste riforme furono presentate come un ritorno ai tradizionali costumi romani. In realtà, molte di esse erano tutt’altra cosa. Erano già stati fatti alcuni tentativi per regolarizzare il sistema di assunzione delle cariche, ma, in generale, più si risale indietro nel tempo, più queste norme appaiono vaghe e fluide. Si ebbero anche alcune conseguenze inattese. L’aumento dei questori risolse un problema (quello del reclutamento dei senatori), ma ne creò immediatamente un altro. Poiché il numero dei consoli rimase fisso a due, una quantità sempre maggiore di coloro che entravano nell’agone politico non avrebbe mai potuto raggiungere il vertice. Senza dubbio, alcuni

non lo desideravano, e altri morirono prima di arrivare all’età minima per l’elezione al consolato (di solito quarantadue anni). Ma era praticamente garantito che questo sistema intensificasse la competizione politica e producesse falliti pieni di risentimento, proprio come Catilina un paio di decenni più tardi. Una delle più famigerate riforme di Silla ci offre una vivida immagine del suo modo di pensare. Fin dal tempo dei Gracchi, quasi tutte le riforme più radicali erano state introdotte da uomini che rivestivano la carica di tribuno della plebe. Perciò Silla, che ne doveva essere ben consapevole, decise di limitare drasticamente l’autorità dei tribuni. Al pari della dittatura, anche questa magistratura era stata in larga misura reinventata, probabilmente nei decenni immediatamente precedenti a Silla. Era stata creata nel V secolo a.C. per rappresentare gli interessi della plebe, ma alcuni dei suoi diritti e dei suoi privilegi la resero nei secoli successivi molto ambita per chiunque cercasse di conquistare potere politico. In particolare, dava il diritto di proporre leggi all’assemblea popolare e il diritto di opporre il veto su questioni di interesse pubblico. Questo diritto di veto deve avere avuto originariamente una portata alquanto limitata. Non è pensabile, infatti, che agli inizi del conflitto di classe i patrizi permettessero ai rappresentanti della plebe di bloccare a loro piacimento qualsiasi decisione. Ma, quando Marco Ottavio pose ripetutamente il proprio veto sulle leggi proposte da Tiberio Gracco nel 133 a.C., si doveva ormai essere già affermato il principio che i tribuni avevano un diritto di intervento praticamente illimitato. I tribuni avevano appartenenze politiche assai diverse: Marco Ottavio e lo scherano che uccise Tiberio Gracco con la gamba di una sedia erano suoi colleghi al tribunato. In quest’epoca erano generalmente ricchi, e di sicuro non erano i portavoce dei ceti inferiori. Ma la carica di tribuno conservava un suo fascino popolare. Per il momento era ancora aperta soltanto ai plebei, anche se i patrizi più decisi potevano sempre aggirare l’ostacolo facendosi adottare da una famiglia plebea. Perciò Silla decise scaltramente di renderla inappetibile per chiunque nutrisse ambizioni politiche; tolse ai tribuni il diritto di promulgare leggi, ne ridusse il potere di veto e stabilì che chi avesse rivestito il tribunato non poteva essere più eletto ad altre cariche: un metodo perfetto per farne un binario morto. L’abrogazione di tali restrizioni divenne il grido di battaglia dell’opposizione a Silla, e meno di dieci anni dopo il suo ritiro dalla scena furono tutte annullate, aprendo la via a una nuova generazione di potenti e illustri tribuni. Anche gli stessi imperatori si vanteranno in seguito di possedere la «potestà tribunizia»

(tribunicia potestas), per sottolineare la loro cura verso il popolo di Roma. A posteriori, tuttavia, il tribunato non costituisce il vero problema. Era il disaccordo sulla natura stessa del potere politico a spaccare la politica romana, non le prerogative di una carica specifica. Nel medio periodo, ben più importanti, anche se meno visibili e apertamente controverse, furono alcune decisioni pratiche di Silla circa lo smantellamento delle sue legioni, che avevano prestato un lunghissimo servizio. Silla insediò molti ex soldati nelle città italiche che avevano combattuto contro Roma nella guerra sociale, e requisì le terre circostanti per garantire loro una possibilità di sostentamento. Deve essere sembrato un facile modo di punire i ribelli, ma spesso a perdere erano entrambe le parti: alcuni residenti locali vennero privati dei loro possedimenti, mentre alcuni veterani erano più bravi a fare i soldati che gli agricoltori e non riuscirono a vivere con il lavoro della terra. Nel 63 a.C. si disse che questi ex soldati divenuti piccoli contadini falliti ingrossavano le file dei seguaci di Catilina. Ma, già prima di allora, le varie vittime delle disposizioni di Silla ebbero un ruolo di primo piano in quella che, grazie anche a Stanley Kubrick e Kirk Douglas, era destinata a diventare una delle più celebri guerre di tutta l’antichità. Nel 73 a.C., al comando di Spartaco, una cinquantina di schiavi gladiatori, fabbricandosi delle armi improvvisate con utensili da cucina, fuggirono da una scuola per gladiatori di Capua e si diedero alla macchia. Per due interi anni riuscirono a raccogliere nuovi sostenitori e a resistere alle armate romane, e furono sconfitti soltanto nel 71 a.C.: i sopravvissuti furono crocifissi lungo la Via Appia, in un raccapricciante spettacolo. Oggi è difficile riconoscere, dietro tutte le passioni e le distorsioni propagandistiche, tanto antiche quanto moderne, ciò che stava realmente accadendo. Gli scrittori romani, per i quali le rivolte degli schiavi erano probabilmente il segnale più allarmante di un mondo ribaltato, esagerano enormemente il numero dei seguaci di Spartaco, giungendo persino a parlare di centoventimila insorti. Le interpretazioni moderne hanno spesso cercato di fare di Spartaco un eroe ideologico, che combatteva addirittura la stessa istituzione della schiavitù. Questo è praticamente impossibile. Molti schiavi volevano conquistarsi la libertà; ma tutte le testimonianze che ci giungono dall’antica Roma indicano che lo schiavismo, in quanto istituzione, era dato per scontato, anche dagli stessi schiavi. Se mai si prefissero uno scopo preciso, l’ipotesi più probabile è che Spartaco e i suoi seguaci intendessero rientrare nelle proprie rispettive patrie: nel suo caso verosimilmente la Tracia, nella Grecia settentrionale; per molti altri la

Gallia. Un fatto, però, è certo: riuscirono a opporsi alle forze di Roma per un tempo davvero troppo lungo. Come si spiega questo successo? Non si trattava semplicemente del fatto che le armate romane inviate contro Spartaco erano male addestrate. Né tantomeno del fatto che i gladiatori avevano una disciplina e una capacità di combattimento a lungo esercitata nelle arene, ed erano esaltati dal desiderio di libertà. Le forze ribelli vennero quasi certamente rafforzate da scontenti cittadini italici di condizione libera, che erano stati privati dei propri beni, inclusi alcuni ex soldati di Silla, che probabilmente si sentivano più a proprio agio nelle campagne militari – persino contro le legioni nelle quali un tempo avevano prestato servizio – che in una fattoria. Osservata in questa prospettiva, la rivolta di Spartaco non fu semplicemente una tragica ribellione di schiavi: fu anche l’ultimo atto di una serie di guerre civili cominciate vent’anni prima con il massacro dei romani ad Ascoli, che aveva dato inizio alla guerra sociale.

Vite comuni La storia dei conflitti politici di questo periodo tende a diventare la storia dello scontro fra princìpi politici contrapposti e tra concezioni radicalmente diverse del modo in cui Roma doveva essere governata. È una storia di grandi idee, e quasi inevitabilmente diventa una storia di grandi uomini, da Scipione Emiliano fino a Silla. Giacché è proprio così che gli autori romani, dai cui racconti noi dipendiamo, l’hanno narrata, concentrandosi sugli eroi e gli antieroi, le personalità eccezionali che hanno determinato il corso della guerra e della politica. Si basarono inoltre su materiale, oggi in gran parte perduto, proveniente dalla penna di quegli stessi protagonisti: i discorsi di Gaio Gracco o (una delle più tristi perdite di tutta la letteratura classica) l’autobiografia sfacciatamente autogiustificativa di Silla – in ventidue volumi, che egli scrisse dopo il suo ritiro dalla scena –, consultata e citata di tanto in tanto dagli autori successivi. Ci manca invece la prospettiva di coloro che non facevano parte di questo gruppo esclusivo: le idee e le aspirazioni dei semplici soldati o dei comuni elettori, delle donne o (eccettuando le fantasiose descrizioni di Spartaco) degli schiavi. Gli uomini che balzarono sui tetti di Cartagine, la gente che incise i graffiti di incitamento a Tiberio Gracco e di sostegno alla riforma agraria, il servitore dalla lingua sciolta che insultò i seguaci di Gaio, o le cinque mogli di Silla, rimangono sullo sfondo o, tutt’al più, recitano una piccola parte. Anche quando parlano in prima persona, le parole della gente comune tendono a essere brevi e non impegnative: «A Lucio Cornelio Silla Felix, dittatore, figlio di Lucio, dai suoi ex schiavi», come riporta un’iscrizione incisa su un piedistallo in pietra; ma chi fossero precisamente i dedicanti, che cosa stesse sopra il piedistallo e il motivo della dedica rimangono oggetto di pura ipotesi. Analogamente, non sappiamo dire fino a che punto, nel corso di questo periodo, la vita quotidiana di molti uomini e donne comuni continuò a scorrere in modo più o meno normale, mentre i potenti si scontravano con le proprie legioni. Oppure la violenza e la dissoluzione dell’ordine civile hanno oppresso quasi costantemente la maggior parte della popolazione? Talvolta è possibile vedere gli effetti di questi conflitti sulla vita quotidiana. Pompei fu una delle piccole città ribelli che dopo la guerra sociale ottennero la cittadinanza romana, ma fu presto costretta ad

accogliere un paio di migliaia di ex soldati, ai quali vennero assegnate terre che appartenevano alla popolazione locale. Non fu una combinazione felice. Benché in numero nettamente inferiore rispetto ai cittadini originari, i veterani fecero ben presto sentire la propria presenza in modo piuttosto aggressivo. Un piccolo gruppo di costoro, molto ricchi, finanziò la costruzione di un nuovo grande anfiteatro, sebbene quest’opera possa essere stata apprezzata, più ancora che dagli abitanti originari della città, dagli scagnozzi sillani, prevedibilmente appassionati di spettacoli gladiatorii. Il registro delle cariche pubbliche di questo periodo mostra che i nuovi coloni talvolta riuscirono a mettere fuori gioco le vecchie famiglie locali. E negli anni Sessanta del I secolo a.C. Cicerone parla di antiche e ormai croniche dispute a Pompei su temi come, per esempio, i diritti di voto. Parecchi decenni dopo l’assedio di Silla, la città risentiva ancora degli effetti a catena che esso aveva provocato.

42. Questa pittura di Pompei mostra un uomo che combatte a cavallo, e, sopra di lui, il nome, in lingua osca e in scrittura con andamento sinistrorso, «Spartaks», ossia Spartaco.

Gli studiosi più prudenti hanno probabilmente ragione nel ritenere che questa scena raffiguri un combattimento di gladiatori anziché uno scontro avvenuto durante la rivolta di Spartaco. Ma, anche così, potrebbe essere l’unica raffigurazione coeva conservata del celebre gladiatore.

La testimonianza più nitida dei rischi e dei dilemmi che tormentavano la gente comune coinvolta in questi conflitti, comunque, ci è offerta da una storia sullo scoppio della guerra sociale ad Ascoli nel 91 a.C. Un pubblico appassionato, composto da romani e locali, stava assistendo a uno spettacolo quando improvvisamente il dramma si spostò fuori dal palcoscenico. Gli spettatori romani non avevano gradito l’atteggiamento antiromano di un attore comico e lo avevano assalito con tale violenza da lasciarlo morto per terra. L’attore che doveva esibirsi dopo questo sventurato era un comico ambulante di origine latina, molto apprezzato dal pubblico romano per le sue battute e le sue doti mimiche. Pur terrorizzato dal pensiero che gli spettatori non romani ora si potessero scagliare contro di lui, non poté fare altro che salire sul palco dove era appena stato ucciso il suo collega e cercare di togliersi dai guai con una battuta. «Infatti non sono romano,» esclamò «vado per l’Italia e cerco di catturare piaceri e risate vendendo la mia abilità. Risparmiate perciò la rondine ... che ha avuto dagli dèi il privilegio di fare senza pericolo il suo nido nelle case di tutti.» Queste parole ottennero l’effetto voluto, e gli spettatori si rimisero a sedere per guardare il resto dello spettacolo. Ma fu soltanto una breve pausa di allegria: poco dopo, tutti i romani presenti in città furono uccisi. È una storia toccante e rivelatrice, che ci trasmette il punto di vista di un semplice attore comico di fronte a un pubblico normale, che in questa particolare occasione non era soltanto animato dalla consueta ostilità, ma potenzialmente pronto a uccidere. E ci ricorda ancora una volta quanto, in tutto questo periodo, fosse sottile la linea di demarcazione tra normale vita cittadina (andare a teatro per assistere a qualche esibizione comica) e terribili carneficine. Talvolta le rondini non venivano risparmiate.

VII

DALL’IMPERO AGLI IMPERATORI

Cicerone contro Verre Nel 70 a.C., un anno dopo la definitiva sconfitta dell’esercito di Spartaco, mentre le lugubri croci dei suoi ultimi seguaci ancora punteggiavano la Via Appia, Cicerone sostenne in un tribunale romano l’accusa contro Gaio Verre per conto di un gruppo di ricchi siciliani. Scopo di Cicerone era assicurare a questi ultimi un adeguato risarcimento per i furti e le depredazioni compiuti da Verre quando era stato governatore dell’isola. Questa causa fu il trampolino di lancio per la carriera di Cicerone, che riportò una spettacolare vittoria sugli illustri avvocati e oratori che sostenevano la difesa di Verre. Anzi, il suo successo fu talmente strepitoso che, dopo appena due settimane di un processo che si era immaginato lungo e tortuoso, Verre decise che l’esito era per lui senza speranza e, prima che la corte si potesse nuovamente riunire dopo una pausa di festa, andò in esilio volontario a Marsiglia, portandosi dietro buona parte dei suoi loschi guadagni. Qui visse fino al 43 a.C., quando venne ucciso in una serie di proscrizioni seguite all’assassinio di Giulio Cesare. La ragione della sua condanna, a quanto pare, era di essersi rifiutato di consegnare a Marco Antonio parte del suo prezioso bronzo corinzio. Concluso il processo, Cicerone, non volendo che il suo duro lavoro andasse sprecato, fece circolare in forma scritta ciò che aveva detto all’apertura del processo, più gli altri discorsi che avrebbe pronunciato se la causa fosse proseguita. Ne possediamo ancora il testo completo, copiato e ricopiato per tutta l’antichità e il Medioevo come perfetto modello per la denuncia di un avversario. È una lunga litania (che occupa parecchie centinaia di pagine in una moderna edizione a stampa) di impressionanti esempi del crudele sfruttamento cui Verre aveva sottoposto gli abitanti della Sicilia, con diversi flashback su altre nefandezze che aveva compiuto prima di arrivare sull’isola nel 73 a.C. È il più completo resoconto giunto sino a noi dei crimini che i romani potevano commettere all’estero, sotto il mantello protettivo del loro incarico ufficiale. Per Cicerone, il comportamento di Verre, in Sicilia e nei suoi precedenti incarichi d’oltremare, era una grottesca miscela di crudeltà, avidità e lussuria, si trattasse di donne, di denaro o di opere d’arte. Cicerone descrive, con estrema dovizia di dettagli, la seduzione di vergini innocenti, le frodi fiscali, l’accaparramento delle riserve di frumento e il sistematico furto dei più celebri capolavori artistici dell’isola, il tutto corredato dai commoventi racconti delle vittime di Verre. Si dilunga, per

esempio, sulla triste condizione di un certo Heius, un tempo orgoglioso proprietario di statue scolpite dai più famosi artisti della Grecia classica, tra cui Prassitele e Policleto, preziosi cimeli che teneva in un «santuario» all’interno della propria casa. Già altri romani le avevano ammirate, e se le erano addirittura fatte prestare. Ma Verre lo obbligò a vendergliele a un prezzo ridicolmente basso. Ancora peggiore, secondo l’aneddoto culminante di questa antologia del crimine, fu la sorte di Publio Gavio, un cittadino romano residente in Sicilia. Verre aveva fatto incarcerare, torturare e crocifiggere Gavio, con la pretestuosa ragione che fosse una spia di Spartaco. La cittadinanza romana avrebbe dovuto dispensarlo da tale degradante punizione. Così, mentre veniva frustato, il disgraziato si mise a urlare Civis Romanus sum, «sono un cittadino romano», ma senza esito. Quando decisero di ripetere questa frase, tanto Palmerston che Kennedy devono essersi dimenticati che il suo più antico e famoso utilizzo fu per l’inutile appello di una vittima innocente condannata a morte da un governatore romano farabutto. Giudicare una causa giudiziaria antica duemila anni, di cui rimangono soltanto le ragioni di una parte, molte delle quali scritte assai più tardi, è un compito davvero impossibile. Come quasi tutti gli avvocati dell’accusa, Cicerone esagerò senz’altro la perfidia di Verre, con una memorabile ma talvolta fuorviante combinazione di oltraggi morali, mezze verità, autoincensazione e sarcastiche battute (in particolare sul nome Verre, che letteralmente significa «maiale» o forse «intrallazzatore»). E la sua argomentazione è piena di falle, che un qualsiasi buon collegio difensivo avrebbe potuto facilmente sfruttare. Per quanto spaventosa possa essere stata la punizione riservata a Gavio, per esempio, nessun giudizioso magistrato romano in Sicilia, in quel momento, avrebbe potuto tralasciare di tenere gli occhi aperti su possibili agenti di Spartaco; il quale, secondo una voce piuttosto diffusa, aveva intenzione di sbarcare sull’isola. Per quanto Heius possa essersi rammaricato per la separazione dalle sue statue, e a un prezzo così irrisorio, Cicerone concede almeno che esse furono vendute, e non semplicemente rubate (in ogni caso, erano davvero quei capolavori originali di cui si cantavano le lodi?). Ciononostante, la frettolosa partenza dell’imputato dimostra che si riteneva sufficientemente colpevole delle accuse rivoltegli per considerare una ritirata tattica in un comodo esilio la soluzione migliore. Questo è soltanto l’esempio più tristemente celebre dei numerosi contrasti e dilemmi sulla natura del dominio romano oltremare esplosi

nell’ultimo secolo della repubblica. Attorno agli anni Settanta del I secolo a.C., dopo che due secoli di guerre, negoziati, aggressioni e buona sorte avevano sottomesso vasti territori al controllo di Roma, la natura stessa del suo potere, come anche la concezione che avevano i romani dei loro rapporti con il mondo di cui ora avevano il dominio, stavano mutando profondamente. In termini generali, il rudimentale impero dell’obbedienza si era almeno in parte trasformato in un impero dell’annessione. Il termine provincia, anziché significare semplicemente «responsabilità» o «mestiere», ora iniziò a indicare una specifica regione posta sotto il controllo diretto di Roma; e il termine imperium cominciò a essere usato di tanto in tanto nel nostro senso moderno. Questa evoluzione semantica è il riflesso di una nuova concezione del territorio romano e di una nuova struttura organizzativa, che sollevò nuove domande su come dovesse essere inteso il governo all’estero. Come si doveva comportare il governatore romano di una provincia? Come erano definiti i suoi compiti? Quanta voce in capitolo potevano avere le popolazioni provinciali, soprattutto per ottenere riparazione in caso di malgoverno? E che cosa si intendeva per malgoverno? Le questioni relative al governo provinciale arrivarono al cuore del dibattito politico. Una testimonianza particolarmente preziosa, a questo proposito, è il testo della legge in forza della quale Verre fu processato. Non ha la stessa celebrità della sfavillante retorica di Cicerone, ma ci consente di osservare più da vicino il modo con cui i romani cercarono di elaborare una struttura giuridica e alcune disposizioni pratiche per garantire i diritti dei provinciali. Ancora più controverso, e di cruciale importanza per il collasso finale del governo repubblicano, era il problema di stabilire a chi dovessero essere affidati il comando, il controllo e l’amministrazione dell’impero. Chi doveva governare le province, riscuotere le tasse, prestare servizio negli eserciti romani o comandarli? La tradizionale classe di governo, strutturata secondo i princìpi del potere collegiale e temporaneo, sarebbe stata capace di affrontare e risolvere i complessi problemi, amministrativi e militari, che l’impero ora le sottoponeva? Alla fine del II secolo a.C., Gaio Mario, un homo novus, attribuì pubblicamente la responsabilità di una serie di sconfitte militari alla corruzione dei comandanti romani, sempre pronti ad accettare una lauta bustarella. Egli stesso basò la propria carriera politica sulla sua capacità di riportare sorprendenti vittorie proprio là dove costoro avevano disastrosamente fallito, riuscendo a farsi eleggere console per ben sette volte, di cui cinque di seguito. Questo sistema di iterazione delle cariche fu poi proibito da Silla con le

riforme emanate alla fine degli anni Ottanta del I secolo a.C. Ma il problema che ne stava alla base non scomparve. L’esigenza di difendere, pattugliare e talvolta estendere l’impero incoraggiò, o costrinse, i romani ad affidare enormi risorse finanziarie e militari a singoli comandanti per diversi anni di seguito, minando le strutture tradizionali dello stato in modo ancora più profondo di quanto avessero mai fatto le dispute interne tra optimates e populares. Alla metà del I secolo a.C., sull’onda delle conquiste d’oltremare, Pompeo il Grande e Giulio Cesare si erano sfidati per ottenere il potere autocratico: al comando di quelli che erano in pratica eserciti privati, avevano ignorato i princìpi repubblicani in modo ancora più completo di Silla o Mario. E avevano aperto le porte al dominio di un solo uomo, che l’assassinio di Cesare non riuscì a impedire. In breve, come dimostra l’ultima parte di questo capitolo, fu l’impero a creare gli imperatori, e non il contrario.

Governatori e governati Verre è spesso considerato un esempio emblematico del dominio romano all’estero durante questo periodo, anche ammettendo una vistosa esagerazione da parte di Cicerone: una mela senz’altro bacata, ma cresciuta su un albero anch’esso già malato. L’assioma tradizionale secondo il quale la vittoria militare comportava necessariamente per il vincitore il bottino o il pagamento di un indennizzo da parte dello sconfitto (come aveva fatto Cartagine quando Roma aveva preteso esose riparazioni dopo la seconda guerra punica) era duro a morire. Diversi governatori scoprirono che un incarico oltremare poteva essere una facile opportunità per recuperare parte delle spese sostenute per farsi eleggere a una carica pubblica a Roma, per non parlare del facile accesso a piaceri di ogni genere, lontano dagli sguardi dei propri colleghi a Roma. In un appassionato discorso pronunciato dopo il suo ritorno da un incarico minore in Sardegna, Gaio Gracco aveva avuto parole di fuoco nei confronti dei suoi colleghi che vi si recavano con «anfore piene di vino e le riportavano a casa piene d’argento»: una critica aperta dei loro arricchimenti indebiti, e un’allusione al loro disprezzo per il vino locale. Il dominio romano era generalmente alquanto blando rispetto agli standard dei più recenti regimi imperiali: le popolazioni locali conservavano i propri calendari, la propria monetazione, i propri dèi, i propri sistemi giuridici e di governo. Ma, ogniqualvolta e ovunque si facesse più diretto, diventava uno sfruttamento spietato e negligente, spesso inefficiente e privo di risorse adeguate. L’esperienza di Cicerone quale governatore della Cilicia alla fine degli anni Cinquanta del I secolo a.C., descritta in tutti i più vividi particolari nelle sue lettere ai familiari, sta in netto contrasto con le depredazioni compiute da Verre in Sicilia, ma mostra comunque la caotica realtà del governo provinciale, con i suoi endemici e cronici metodi di sfruttamento. La Cilicia era una vasta regione di circa 64.000 miglia quadrate nelle foreste dell’odierna Turchia meridionale, e a essa era congiunta l’isola di Cipro. Le comunicazioni all’interno della provincia erano talmente carenti che, quando Cicerone vi giunse per la prima volta, non riuscì neppure a sapere dove si trovasse il suo predecessore, e tre distaccamenti delle due legioni romane qui stazionate, sotto organico, sottopagate e leggermente sediziose,

sembravano essere «scomparsi». Si trovavano forse insieme al precedente governatore? Nessuno lo sapeva. A questo punto, Cicerone, che non aveva alcuna esperienza nell’esercito fatta eccezione per un breve periodo di servizio giovanile durante la guerra sociale, colse l’opportunità di conquistarsi un po’ di gloria militare. Dopo una vittoriosa schermaglia contro alcuni ribelli locali nelle montagne, si prese addirittura il gusto di porre il proprio accampamento nello stesso luogo in cui l’aveva piantato Alessandro Magno quasi duecento anni prima. «Un generale non inconsiderabilmente migliore di me o te», scrisse ad Attico, con sottile ironia o altrimenti come semplice ovvietà. Ma, a parte questa breve parentesi militare, Cicerone dedicò quasi tutto il resto del suo tempo ad ascoltare cause giudiziarie che coinvolgevano cittadini romani, a risolvere controversie tra provinciali, a controllare il comportamento del suo esiguo personale, che sembrava essersi specializzato nell’offendere i residenti locali e nell’accontentare le richieste di vari amici e conoscenti. Un suo giovane collega di Roma lo assillò con la richiesta di far catturare alcune pantere e inviarle nella capitale, perché fossero esibite, e massacrate, negli spettacoli che vi stava allestendo. Cicerone rispose in modo evasivo, sostenendo che vi era penuria di animali: avevano probabilmente deciso di emigrare nella provincia vicina per sfuggire alle trappole, concluse scherzando. Molto meno leggero fu il problema suscitato dai prestiti contratti da Marco Giunio Bruto. L’uomo che sei anni più tardi si sarebbe messo alla testa degli assassini di Cesare era in questo momento un indaffaratissimo usuraio: prestava denaro alla popolazione di Salamina, sull’isola di Cipro, con un tasso d’interesse del 48 per cento, del tutto illegale. Cicerone simpatizzava chiaramente per i cittadini di Salamina e ritirò il distaccamento di soldati romani che il suo predecessore aveva «prestato» agli agenti di Bruto per aiutarli a riscuotere quanto era loro dovuto; si diceva che avessero assediato la camera del consiglio di Salamina e fatto morire di fame cinque consiglieri locali. Poi, però, per non offendere l’altolocato creditore, Cicerone preferì chiudere gli occhi sull’intera faccenda. La sua priorità fondamentale, comunque, era lasciare la provincia e il posto di governatore non appena la legge glielo avesse consentito («questo lavoro mi annoia»). Terminato il suo anno di mandato, abbandonò tutto, lasciando questa vasta regione nelle mani di un suo sottoposto, che, per sua stessa ammissione, era «soltanto un ragazzo, probabilmente stupido, privo di autorità e di autocontrollo»: ecco a cosa si riducevano tutti gli ideali di un governo responsabile.

Questo lugubre quadro, tuttavia, non esaurisce la storia dell’amministrazione provinciale romana. Per quanto possano avere pesato le richieste romane su molti provinciali (e, con ogni probabilità, più sui poveri – le cui tristi condizioni sono ignorate da quasi tutti gli autori antichi – che sui ricchi, di cui si portò il caso all’attenzione di Cicerone), lo sfruttamento non era del tutto fuori controllo. È fin troppo facile dimenticare che l’unica ragione per cui ci è giunta notizia delle malversazioni di Verre è che fu messo sotto processo, e disonorato, per come si era comportato con i siciliani. E l’allusione di Gaio Gracco all’avidità dei funzionari romani aveva lo scopo di mettere in risalto l’integerrimo comportamento che lui stesso aveva mantenuto in Sardegna, come un uomo che «riportava indietro vuote le borse piene d’argento con cui era partito» e che non aveva mai allungato le mani su una prostituta o su un giovane schiavo di bella presenza. La corruzione, l’accaparramento di denaro e il turismo sessuale erano oggetto di pubbliche critiche: accuse regolarmente scagliate contro rivali politici, e armi perfette per l’assassinio dei propri avversari. Non erano, per quanto ne sappiamo, materia di celebrazione pubblica o addirittura di tronfia vanteria. Questi racconti di malefatte rientravano in un più vasto dibattito, apertosi verso la fine del II secolo a.C., su quali dovessero essere le regole e i princìpi etici del governo d’oltremare o, per esprimerci in termini più generali, su come Roma dovesse rapportarsi con il mondo esterno ora che si trattava non più soltanto di combattere contro popoli stranieri ma anche di governarli. Questo fu un contributo nuovo e specificamente romano alla teoria politica del mondo antico. Il primo trattato filosofico di Cicerone, scritto nel 59 a.C. sotto forma di una lettera a suo fratello, è dedicato in gran parte a mettere in risalto l’importanza dell’onestà, dell’integrità, dell’imparzialità e della costanza nel governo delle province. E un secolo prima, nel 149 a.C., era stato creato a Roma un tribunale penale permanente, con il compito specifico di garantire agli stranieri risarcimenti e il diritto di adire le vie legali contro le estorsioni subite a opera dei loro governanti romani. Nessun antico impero mediterraneo aveva mai fatto prima tentativi sistematici in questo senso. Lo si può considerare un segno del fatto che la corruzione nel governo delle province si fosse diffusa piuttosto precocemente; ma dimostra altresì che, quasi altrettanto presto, c’era stata la volontà politica di affrontare la corruzione. La legge in forza della quale venne condannato Verre, originariamente parte del programma di riforma di Gaio Gracco, illustra molto bene quanta cura, precisione e

raffinata riflessione giuridica erano state dedicate a questo problema già negli anni Venti del II secolo a.C. Undici frammenti della legge di Gaio Gracco sui risarcimenti per i reati di concussione (Lex Acilia repetundarum), incisi su lastre di bronzo, sono stati scoperti attorno al 1500 nei pressi di Urbino. Due sono andati perduti e ci sono noti solo da copie manoscritte, ma un altro frammento è stato portato alla luce nel XIX secolo. Ricomposti grazie a un complesso lavoro che ha tenuto occupati gli studiosi per mezzo millennio, questi frammenti ci restituiscono circa la metà del testo originario, che definiva gli strumenti legali a disposizione dei provinciali per recuperare il valore di ciò che era stato loro estorto dai funzionari romani. È un documento di straordinaria importanza per la comprensione delle pratiche e dei princìpi del governo romano, e allo stesso tempo serve a ricordarci come le nostre informazioni, in mancanza di analoghe casuali scoperte, siano irrimediabilmente filtrate dalla tradizione storica romana. Infatti, benché gli autori romani menzionino di tanto in tanto questa legge, non ci consentono di farcene un’idea realmente corrispondente a quanto possiamo ricavare dalla lettura del testo. Il quale si è preservato esclusivamente perché, alla fine del II secolo a.C., i membri del consiglio di una città italica decisero di fare incidere la legge di Gracco su lastre bronzee esposte al pubblico; nonché grazie alla scoperta fortuita dei frammenti nel Rinascimento e al riconoscimento della loro importanza. Abbiamo qui un esempio estremamente accurato e preciso di legge romana, che ci dimostra una raffinata capacità di formulazione giuridica, quasi senza precedenti nel mondo classico, e una qualità che la distingue radicalmente dai tentativi pionieristici ma ancora rozzi delle Dodici Tavole. Il testo latino occupa circa dieci pagine a stampa moderna e considera ogni aspetto della procedura di risarcimento, dalla definizione di chi aveva il diritto di adire le vie legali («ogni uomo di diritto latino o di nazione straniera, o entro la discrezione, il dominio, il potere o l’amicizia del popolo romano») fino agli indennizzi che spettavano a chi vinceva la causa (i risarcimenti sono valutati al doppio del valore della perdita subita, e viene offerta la piena cittadinanza romana a un querelante vittorioso). È contemplato ogni tipo di problemi. Viene promessa assistenza nella conduzione della causa (una semplice forma di aiuto giuridico) a chi ne aveva bisogno, come doveva essere certamente il caso degli stranieri. Sono previste specifiche misure per recuperare denaro da uomini che, come Verre, si davano alla fuga prima che fosse emesso il verdetto. Regole molto

rigide riguardavano i conflitti d’interesse: chiunque appartenesse allo stesso «club» dell’imputato non poteva figurare tra i cinquanta giurati assegnati a ciascun caso. È specificata persino la procedura esatta di votazione. Ogni giurato doveva scrivere il proprio voto su una tavoletta di legno di particolari dimensioni, e gettarla in un’apposita urna coprendo il voto con le dita, e a braccio nudo, probabilmente per impedire qualsiasi genere di contraffazione che potesse essere nascosta nelle maniche della toga. È difficile accertare quanto efficacemente funzionasse in pratica. Tra l’approvazione della legge, negli anni Venti del II secolo a.C., e il processo contro Verre, nel 70 a.C., ci sono noti soltanto poco più di trenta casi, quasi la metà dei quali conclusasi con una condanna. Ma queste statistiche incomplete sono solo una parte della storia. In realtà, persino la promessa assistenza nella conduzione della causa non avrà particolarmente incoraggiato le vittime ad attraversare mezzo mare Mediterraneo per cercare di ottenere una riparazione, in una lingua poco conosciuta e secondo l’altrettanto poco conosciuto sistema giuridico della potenza regnante. Inoltre, i risarcimenti erano previsti soltanto per perdite di carattere finanziario, non per altre forme di maltrattamento (non c’era alcuna compensazione per atti di crudeltà o violenza sessuale, per esempio). Ciononostante, questa legge ci mostra in maniera chiara che politici radicali come Gaio stavano iniziando a preoccuparsi del mondo esterno nella sua più vasta ampiezza, e a curarsi della difficile situazione dei più svantaggiati e deboli non soltanto tra i cittadini romani ma anche tra i sudditi dell’impero.

Senatori nel mirino Alla base della Lex Acilia repetundarum, comunque, non c’erano soltanto questioni umanitarie. Conformemente al suo programma, Gaio cercava anche di sorvegliare le attività dei senatori. La sua riforma riguardava tanto la sofferenza dei provinciali quanto la politica interna di Roma. Secondo i regolamenti vigenti, soltanto i senatori e i loro figli potevano essere messi sotto processo in quanto responsabili di fronte alla legge, sebbene molti altri romani all’estero avessero l’opportunità di arricchirsi a spese dei locali. E le giurie preposte a giudicarli potevano essere formate esclusivamente da persone non appartenenti all’ordine senatorio, e scelte invece da quello dei «cavalieri» (equites). Era una distinzione di natura tecnica, ma di cruciale importanza. Gli equites stavano al vertice della gerarchia romana della ricchezza: erano grandi possidenti, in una misura che li separava nettamente dalla maggior parte dei comuni cittadini, e avevano spesso stretti rapporti sociali e culturali con i senatori, con i quali erano talvolta legati anche per nascita. Costituivano un gruppo assai più ampio dei senatori (soltanto poche centinaia), che attorno alla fine del II secolo a.C. contava diverse migliaia di individui. Infatti, in termini strettamente giuridici, i senatori erano soltanto il sottogruppo di cavalieri che erano stati eletti a cariche pubbliche ed erano così entrati in Senato. Ma gli interessi dei due gruppi non sempre coincidevano, e i cavalieri formavano una categoria molto più variegata al proprio interno rispetto a quella dei senatori. Tra di essi vi erano molti ricchi uomini di diverse città dell’Italia (il loro numero aumentò in modo vertiginoso dopo la guerra sociale) che non si sarebbero mai sognati di candidarsi alle elezioni a Roma, o uomini come Attico, l’influente amico di Cicerone, che preferivano tenersi distanti dalla politica. Molti cavalieri si dedicavano a quelle attività finanziarie e commerciali che erano formalmente proibite ai senatori. Sebbene ci fossero, come sempre, parecchi modi per aggirare questo ostacolo, una legge della fine del III secolo a.C. proibiva ai senatori di possedere grandi navi commerciali in grado di trasportare più di trecento anfore. Alcuni cavalieri, grazie a un’altra legge di Gaio Gracco, si erano dedicati al settore, potenzialmente molto remunerativo, della tassazione provinciale. Era stato Gaio, infatti, il primo a stabilire che la riscossione delle tasse nella

nuova provincia d’Asia dovesse, al pari di molte altre responsabilità, essere appaltata a imprese private, spesso di proprietà equestre. Questi appaltatori erano chiamati publicani, ossia «fornitori di servizi pubblici» (questo medesimo nome è utilizzato per indicare i riscossori delle tasse nelle vecchie traduzioni del Nuovo Testamento, con grande confusione per i lettori moderni). Era un sistema semplice, che richiedeva poco personale allo stato romano, e rappresentò un modello per la riscossione delle tasse in altre province nel corso dei successivi decenni (ed era già diffuso in altri più antichi sistemi di riscossione). A Roma si tenevano periodiche aste di specifici diritti di tassazione in singole province. La compagnia che faceva l’offerta più alta otteneva la riscossione delle tasse, e tutto ciò che riusciva a racimolare al di sopra della cifra stabilita andava a suo guadagno. Per dirlo in altri termini, quanto più i publicani riuscivano a spremere i provinciali, tanto maggiore era il loro profitto; e non potevano essere citati in giudizio grazie alla Lex Acilia repetundarum di Gaio Gracco. Questa legge aprì una spaccatura tra senatori ed equites. L’intento originario era stato quello di garantire la protezione dei sudditi di Roma attraverso il controllo sul comportamento dei senatori. Imponendo una giuria esclusivamente equestre, intendeva assicurare che non vi fosse alcuna possibile collusione tra un imputato di rango senatorio e una giuria composta di suoi amici; a scanso di qualsiasi equivoco, ai cavalieri con parenti stretti fra i senatori era proibito partecipare a questi processi. Ma il risultato finale fu di mettere senatori e cavalieri gli uni contro gli altri e talvolta persino di colpire, in questo fuoco incrociato, gli stessi provinciali che la legge avrebbe dovuto proteggere. Si asseriva spesso, per esempio, che, ben lungi dall’agire come arbitri imparziali della corruzione senatoriale, i giurati equestri erano talmente compiacenti nei confronti degli appaltatori delle tasse da formulare regolarmente un verdetto di colpevolezza contro qualsiasi innocente governatore provinciale avesse cercato di opporsi alle loro depredazioni. Un caso tristemente celebre ebbe come protagonista un senatore, condannato per estorsione da una giuria equestre corrotta, il quale aveva tale fiducia nella propria onorevole reputazione e popolarità che andò in esilio nella stessa provincia in cui era stato accusato di avere compiuto i suoi reati. Si può riconoscere qui una punta di orgoglio senatorio. Ma, anche così, storie di questo tipo sono il riflesso di una lunga controversia su chi dovesse avere la responsabilità di giudicare il comportamento dei romani all’estero: i senatori o i cavalieri? Nei decenni successivi all’approvazione della legge di Gaio Gracco,

riformatori di diversa convinzione politica riassegnarono di volta in volta la composizione delle giurie a uno di questi due gruppi. Era un problema ancora scottante quando Cicerone sostenne l’accusa contro Verre nel 70 a.C., e diede a questo processo una sfumatura politica ancora più intensa. Dieci anni prima, Silla, com’era prevedibile, aveva affidato a giurie di rango senatorio la competenza non soltanto sui casi relativi alla Lex Acilia repetundarum ma anche su altri reati come il tradimento, l’appropriazione indebita e l’avvelenamento. All’epoca del processo di Verre, la reazione contro questo orientamento stava facendosi più forte e (almeno nel testo scritto) Cicerone esorta ripetutamente la giuria a condannare l’imputato anche per dimostrare che i senatori sapevano esprimere giusti verdetti nei confronti dei membri del proprio ordine. Ma questo appello giungeva troppo tardi. Poco dopo la conclusione del processo, una nuova legislazione, che fu di modello per il futuro, divideva la composizione delle giurie tra senatori e cavalieri. Il processo di Verre fu l’ultima volta in cui, in quel tribunale per i reati di concussione, una giuria di senatori processò un senatore: un altro dei suoi titoli di gloria.

Roma in vendita L’evidente corruzione, l’incompetenza e lo snobistico esclusivismo dei più importanti senatori furono scottanti argomenti di dibattito nella vita politica dell’ultimo secolo della repubblica: e sono il tema centrale del saggio di Sallustio sulla guerra giugurtina, una spietata analisi dei prolungati fallimenti di Roma nella disputa con il sovrano nordafricano che, a partire dal 118 a.C., grazie a una combinazione di assassini dinastici, intrighi e massacri indiscriminati, aveva iniziato a estendere il proprio controllo sulla costa mediterranea dell’Africa. Il saggio è una trattazione violentemente di parte, scritta circa settant’anni dopo la guerra, animata da un forte spirito moralista, che presenta una ricostruzione degli eventi molto drammatica e, almeno in termini moderni, parzialmente rielaborata in forma letteraria. È un formidabile attacco contro i privilegi, la venalità e l’altezzosità della classe senatoria, uscito dalla penna di un «uomo nuovo» del Senato. Alla fine del II secolo a.C. il territorio romano in Nordafrica era suddiviso tra la provincia d’Africa (la regione circostante il sito di Cartagine, amministrata direttamente secondo il nuovo modello da un governatore romano) e le altre regioni, ancora inserite entro il quadro dell’antico impero dell’obbedienza, compreso il vicino regno di Numidia. Dopo la morte di un obbediente re numida nel 118 a.C., si aprì una lunga lotta per il potere tra suo nipote Giugurta e un erede rivale, terminata nel 112 a.C., quando Giugurta riuscì a uccidere il suo avversario, insieme a un grande numero di mercanti romani e italici che avevano avuto la sfortuna di trovarsi nella medesima città proprio in quel momento: sono stati generalmente considerati vittime del tutto innocenti, sebbene il racconto di Sallustio lasci supporre che possano avere partecipato agli eventi come una sorta di milizia armata. Fu un illuminante esempio dell’instabilità che caratterizzava il vecchio metodo di controllo, sempre vulnerabile alla disobbedienza da parte di alleati a cui i romani chiedevano fedeltà; una disobbedienza che nasceva anche dal lungo contatto con Roma. Nel caso specifico di Giugurta, un precedente periodo di servizio presso l’esercito di Scipione Emiliano in Spagna, in qualità di comandante di un distaccamento di arcieri numidi, gli aveva assicurato un’utile esperienza delle tattiche militari romane e altrettanto utili conoscenze nella società romana.

Per vari anni, le risposte di Roma alle azioni di Giugurta erano state caute da un lato e inconcludenti dall’altro. Il Senato aveva inviato diverse delegazioni in Africa e aveva cercato, per quanto in modo piuttosto discontinuo, di arbitrare un accordo tra Giugurta e il suo rivale. Fu soltanto dopo il massacro dei mercanti che Roma si decise a dichiarare guerra, nel 111 a.C., mandando un esercito, il cui comandante ben presto riuscì a stipulare un trattato di pace. Giugurta fu convocato a Roma, ma fu quasi immediatamente rispedito in patria quando si scoprì che aveva architettato l’assassinio di un cugino in Italia, nel timore che anche questi potesse trasformarsi in un potenziale rivale. Le armate romane gli diedero la caccia nuovamente in Africa, con risultati alterni. Nel 107 a.C. Giugurta era stato in qualche modo ridimensionato, ma era ancora libero di muoversi. I mediocri risultati ottenuti in Nordafrica sollevavano grandi domande. Il Senato era davvero in grado di gestire l’impero e di proteggere gli interessi di Roma oltremare? Se la risposta era negativa, quali doti erano necessarie, e dove si potevano trovare? Per molti romani, la debolezza dei senatori di fronte alle tentazioni della corruzione era una delle cause principali dei loro insuccessi: «Città venale, destinata a una fine prematura, se troverà un compratore!», come si raccontava che Giugurta avesse sentenziato lasciando la città. Un’altra causa era la generale incompetenza della classe dirigente. Secondo Sallustio, questa incompetenza era la conseguenza del suo angusto elitarismo e del suo rifiuto di riconoscere il talento al di fuori del proprio piccolo gruppo. L’esclusione dei plebei dalle cariche pubbliche era stata superata già da molto tempo, ma, duecento anni dopo, così si sosteneva, la nuova aristocrazia mista di patrizi e plebei era diventata in pratica quasi altrettanto esclusivista. Le medesime famiglie monopolizzavano l’elezione alle cariche più alte e ai comandi più prestigiosi, di generazione in generazione, e non erano disposte a lasciare spazio a «uomini nuovi». Il Senato era dominato dall’equivalente antico delle associazioni di ex compagni di scuola. Il saggio di Sallustio mette in risalto la storia di Gaio Mario, un «uomo nuovo» ed esperto soldato, che prestò servizio in Africa nella guerra contro Giugurta come secondo in comando di un aristocratico, Quinto Cecilio Metello. Nel 108 a.C., Mario, che aveva raggiunto la carica di pretore, decise di tornare a Roma e candidarsi alle elezioni per il consolato, nella speranza di ottenere un importante comando militare, e chiese l’appoggio di Metello. La risposta di Metello, almeno nella versione riportata da Sallustio, fu un tipico esempio di altezzoso snobismo. La carica di pretore era già un ottimo

risultato per un uomo del suo rango, e Mario non doveva mettersi troppi grilli per la testa, sogghignò Metello. Sallustio riassume questo atteggiamento in modo ancora più tagliente nel saggio sulla congiura di Catilina: «La maggior parte dell’aristocrazia riteneva che il consolato venisse quasi profanato se un uomo nuovo, anche se di valore, l’avesse conseguito». Mario era infuriato, ma non si lasciò persuadere. Tornò a Roma per candidarsi al consolato. Eletto console (carica che, fatto senza precedenti, avrebbe rivestito per ben sette volte), un voto dell’assemblea popolare gli affidò il comando della guerra contro Giugurta. Il racconto di Sallustio non può essere preso interamente alla lettera. Giugurta può essere stato abilissimo a far scivolare denaro nelle tasche dei senatori (fu una condanna decretata dai tribunali romani per avere accettato una bustarella durante una delegazione in Africa a costringere infine Opimio, l’assassino di Gaio Gracco, a ritirarsi in esilio). Ma i romani tendevano a usare corruzione e bustarelle come comoda scusa ogniqualvolta la guerra, le elezioni o i verdetti dei tribunali non andavano nella direzione sperata. Un’aperta corruzione di questo genere era probabilmente meno frequente di quanto essi stessi asserivano. Inoltre, malgrado tutto lo snobismo della classe dirigente, c’era in pratica ben più spazio per nuovi talenti di quanto facciano supporre le acide parole di Sallustio. Le liste di nomi rimasteci (che per questo periodo risultano alquanto accurate) indicano che circa il 20 per cento dei consoli eletti alla fine del II secolo a.C. proveniva da famiglie che non avevano contato nei propri ranghi nemmeno un console nei precedenti cinquant’anni, e forse nemmeno prima. La carriera di Mario ebbe un formidabile effetto sul corso della storia repubblicana, in modi che lui stesso avrebbe ben difficilmente potuto pianificare. Per prima cosa, quando tornò dall’Africa per assumere il comando della guerra contro Giugurta, arruolò nel proprio esercito ogni cittadino pronto a partire volontario. Fino ad allora, tranne in casi di emergenza, i soldati romani erano stati reclutati soltanto tra famiglie di possidenti. A causa di ciò, per qualche tempo si erano avuti problemi di reclutamento, che potrebbero spiegare le preoccupazioni di Tiberio Gracco per i poveri privi di terra: infatti, se non avevano terra, non potevano prestare servizio nelle legioni. Arruolando chiunque si presentasse volontario, Mario risolse il problema, ma, in questo modo, creò un esercito dipendente, quasi professionale, che destabilizzò la politica interna per un’ottantina d’anni.

Questi legionari di nuovo tipo dipendevano in misura sempre maggiore dai propri comandanti non soltanto per ottenere una fetta del bottino ma anche per assicurarsi, al termine del servizio militare, una liquidazione, preferibilmente sotto forma di terra, che avrebbe loro garantito i mezzi per iniziare una nuova vita. Le conseguenze di questo sistema si fecero sentire in molti ambiti. I conflitti esplosi nella piccola città di Pompei dopo che Silla vi ebbe installato i propri veterani nell’80 a.C. furono soltanto uno dei numerosi casi di controversie, sfruttamento e risentimento locali. Da dove si dovesse prendere la terra per questi soldati, e a spese di chi, divenne un problema cronico. Ma fu la relazione creatasi tra i singoli generali e le loro truppe a determinare le ripercussioni più profonde. In sostanza, i soldati concedevano la loro assoluta fedeltà al proprio comandante in cambio della promessa di una liquidazione: un compromesso che, nel migliore dei casi, scavalcava l’interesse dello stato e, nel peggiore, trasformava le legioni in un nuovo tipo di milizia privata fedele esclusivamente agli interessi del proprio generale. Fu proprio in forza della nuova relazione tra legioni e comandanti creata da Mario che i soldati di Silla, e poi di Giulio Cesare, seguirono il proprio comandante e invasero la città di Roma. Altrettanto decisivo per il futuro fu il ruolo assunto dal popolo nell’assegnazione del comando militare a Mario: fu un voto dell’assemblea, proposto da un tribuno, che, rovesciando la nomina fatta dal Senato, diede a Mario il comando della guerra contro Giugurta. Questa procedura era stata utilizzata precedentemente soltanto in rarissimi casi di emergenza. Ma nel 108 a.C. si impose come una formidabile affermazione del diritto che aveva il popolo nel suo complesso, ben più che il Senato, di decidere chi doveva comandare gli eserciti di Roma. Mario non aveva quasi fatto in tempo a ottenere la vittoria in Africa e a tornare a Roma con Giugurta in catene, che un altro generale venne costretto alle dimissioni dal voto popolare, dopo avere subìto una terribile sconfitta a opera di invasori germanici d’oltralpe. In un’atmosfera di panico, in cui si ricorse persino a riti propiziatori con sacrifici umani, il comando delle operazioni venne assegnato di nuovo a Mario, il quale soddisfece le speranze del popolo ricacciando indietro gli invasori. Mario ebbe una triste fine. Aveva già quasi settant’anni quando, nell’88 a.C., un tribuno della plebe cercò di utilizzare il voto dell’assemblea per fargli assegnare ancora una volta il comando militare di una nuova guerra; ma non ebbe successo. Infatti, si trattava della guerra contro il re Mitridate e il comandante rivale era Silla, che marciò su Roma per impedire che ciò

avvenisse. Mentre Silla si trovava ancora in Oriente, Mario morì, soltanto poche settimane dopo avere iniziato il suo settimo consolato, al quale era stato eletto come candidato «antisillano». Alcuni affermarono che, nel delirio immediatamente precedente il decesso, Mario si fosse convinto di avere ottenuto il comando contro Mitridate e avesse impartito ordini ai suoi inservienti come se fossero soldati pronti a lanciarsi in battaglia. Era la patetica fine di un vecchio in preda alle sue illusioni; ma il principio del controllo popolare sulle nomine per gli incarichi esteri, di cui si era fatto paladino, fu spesso riasserito nei successivi decenni. Le assemblee popolari votarono ripetutamente l’assegnazione di enormi risorse a coloro che ritenevano più adatti a garantire la difesa, o l’espansione, dell’impero di Roma. In effetti, decretarono con il loro voto l’ascesa al potere di autocrati, come dimostra perfettamente il caso di Pompeo; Pompeo il Grande, come egli stesso si chiamava, o il Macellaio, come altri preferivano chiamarlo.

Pompeo il Grande Nel 66 a.C., appena quattro anni dopo il processo di Verre, Cicerone si rivolse al popolo romano in una contio sulla sicurezza dell’impero. Divenuto nel frattempo pretore, e con gli occhi già puntati sul consolato, si espresse in sostegno della proposta, avanzata da un tribuno, di affidare a Pompeo il comando della prolungata e intermittente guerra contro il medesimo re Mitridate con cui i romani combattevano, con risultati altalenanti, da ormai più di vent’anni. I poteri conferiti a Pompeo prevedevano un controllo quasi assoluto su una vasta fascia del Mediterraneo orientale per un periodo di tempo illimitato, con più di quarantamila soldati a propria disposizione, e il diritto di dichiarare guerra o concludere la pace e di stabilire trattati in modo del tutto indipendente. Cicerone potrebbe essere stato sinceramente convinto che Mitridate rappresentasse una minaccia reale per la sicurezza di Roma e che Pompeo fosse l’unica persona in grado di affrontare e risolvere il problema. Dal centro del suo regno nel mar Nero il re aveva certamente riportato alcune terrificanti vittorie sugli interessi romani nel Mediterraneo orientale, compreso, nell’88 a.C., un tristemente celebre, e molto mitizzato, massacro di decine di migliaia di romani e italici in un solo giorno. Sfruttando un odio piuttosto diffuso per la presenza romana e offrendo ulteriori incentivi (ogni schiavo che uccideva un padrone romano avrebbe ottenuto la libertà), organizzò una serie di attacchi simultanei contro i residenti romani in varie città della costa occidentale dell’attuale Turchia, da Pergamo, a nord, fino a Cauno, la «capitale dei fichi» dell’Egeo, nel sud, uccidendo (secondo le esagerate stime romane) tra ottantamila e centocinquantamila uomini, donne e bambini. Anche tralasciando la realtà di queste cifre, fu comunque un massacro pianificato e spietato; ma è difficile sfuggire all’impressione che, negli anni Sessanta del I secolo a.C., dopo le campagne condotte da Silla vent’anni prima, Mitridate rappresentasse più un elemento di disturbo che un’autentica minaccia, e che per i circoli politici romani fosse diventato un comodo nemico: uno spauracchio per giustificare campagne militari potenzialmente remunerative, e un pungolo per criticare l’incapacità dei propri rivali. Anche Cicerone ammise sostanzialmente di essere stato condizionato da interessi commerciali a Roma, preoccupato dagli effetti della prolungata instabilità (reale o immaginaria) in Oriente tanto sui suoi

guadagni privati quanto sulle finanze dello stato. Il confine tra i primi e le seconde fu accuratamente cancellato.

43. Moneta argentea con la testa di Mitridate VI. I capelli mossi e gettati all’indietro ricordano, senza dubbio intenzionalmente, la tipica acconciatura di Alessandro Magno. Nel conflitto tra Mitridate e Pompeo il Grande si scontravano due nuovi aspiranti Alessandro.

Sostenendo l’opportunità di questo comando speciale, Cicerone ricordò gli strepitosi successi riportati da Pompeo un anno prima nella liberazione del Mediterraneo dalle scorrerie dei pirati, proprio grazie ai notevoli poteri che gli erano stati conferiti da un voto dell’assemblea popolare. Nel mondo antico la pirateria rappresentava una minaccia endemica e, allo stesso tempo, un simbolo di paura convenientemente indistinto, non molto diverso dall’odierna espressione «terrorismo», nel quale si poteva far rientrare qualsiasi cosa, dalla flotta di uno stato canaglia fino a piccoli trafficanti di schiavi. Pompeo riuscì a sbarazzarsi dei pirati nel giro di appena tre mesi (facendoci supporre che si trattasse di un obiettivo più facile di come veniva dipinto) e, dopo la vittoria, attuò una politica di reinsediamento, sorprendentemente illuminata per il mondo antico come per quello moderno. Concesse agli ex pirati piccole proprietà terriere a debita distanza dalla costa, nelle quali potevano condurre una vita onesta. Anche se alcuni non se la passarono meglio dei veterani di Silla, uno di quelli che invece si adattarono benissimo alla nuova vita è il protagonista di un lirico cammeo nel poema virgiliano sull’agricoltura, le Georgiche, scritto alla fine degli anni Trenta del I secolo a.C. Il vecchio uomo ora vive pacificamente vicino a Taranto ed è diventato un esperto di orticoltura e apicoltura. I suoi giorni da pirata sono solo un ricordo lontano: «Eppure, piantando qualche legume fra gli sterpi e intorno gigli candidi, verbena e gracili papaveri in cuor suo si sentiva ricco come un re». L’argomentazione implicita di Cicerone, tuttavia, era che nuovi problemi richiedevano nuove soluzioni. La minaccia che Mitridate rappresentava per le entrate commerciali di Roma, per le sue rendite fiscali e per la stessa vita dei romani residenti in Oriente esigeva un diverso approccio. Nel corso degli ultimi due secoli, parallelamente all’espansione dell’impero si erano già attuati profondi mutamenti nel sistema tradizionale delle magistrature pubbliche, per affrontare più efficacemente le esigenze del governo d’oltremare e per incrementare il personale disponibile. Il numero dei pretori, per esempio, all’epoca di Silla era stato portato a otto; e si era elaborato un sistema regolare in base al quale i magistrati eletti assumevano, al termine del loro mandato, incarichi provinciali all’estero per uno o due anni (in qualità di pro-consoli o pro-pretori). Tuttavia questi incarichi restavano frammentari e di breve durata, mentre ciò di cui Roma aveva bisogno per affrontare un nemico come Mitridate era un generale di grande esperienza, investito di un comando duraturo sull’intera area che poteva essere coinvolta nella guerra, e fornito di tutti i finanziamenti e i

soldati necessari per portare a termine il compito, senza essere ostacolato dai consueti controlli. Ci fu una prevedibile opposizione. Pompeo era un anticonformista radicale e ambizioso, che aveva già violato quasi tutte le convenzioni della politica romana a cui i tradizionalisti cercavano di rimanere sempre più saldamente ancorati. Figlio di un «uomo nuovo», era salito ai vertici della gerarchia militare sfruttando i sovvertimenti degli anni Ottanta del I secolo a.C. Poco più che ventenne, era riuscito ad arruolare tre legioni formate da suoi clienti e scagnozzi per combattere al fianco di Silla, e aveva ben presto celebrato un trionfo per avere inseguito e annientato i rivali di Silla e altri piccoli principi nemici in Africa. Fu allora che ricevette il soprannome di adulescentulus carnifex, «giovane macellaio» piuttosto che enfant terrible. Non era stato ancora eletto ad alcuna carica quando il Senato gli conferì il comando in Spagna con il compito di sconfiggere un generale romano che si era «nativizzato» con un grosso esercito (un altro tipico rischio per un impero molto esteso). Di nuovo vittorioso, fu eletto console per il 70 a.C., a soli trentacinque anni e scavalcando tutte le magistrature minori, in aperta violazione delle regole stabilite di recente da Silla. Era talmente ignaro del concreto funzionamento del Senato, cui doveva presiedere in qualità di console, da essere costretto a chiedere a un amico erudito di scrivergli un manualetto di procedura senatoriale. Qualche traccia delle obiezioni sollevate contro l’affidamento di questo nuovo comando a Pompeo può essere ricavata dallo stesso discorso di Cicerone. Per esempio, l’enorme risalto che l’oratore dà al pericolo immediato rappresentato da Mitridate («ogni giorno arrivano lettere che riferiscono come i villaggi delle nostre province siano dati alle fiamme») indica chiaramente che qualcuno lo ritenesse assurdamente esagerato come pretesto per affidare nuovi e quasi illimitati poteri a Pompeo. Questi oppositori non ebbero successo, anche se devono essersi convinti che i loro timori non erano infondati. Nel corso dei successivi quattro anni, con l’autorità conferitagli dal suo nuovo comando, Pompeo ridisegnò la mappa della parte orientale dell’impero romano, dal mar Nero, a nord, fino alla Siria e alla Giudea, a sud. Naturalmente, non può aver fatto tutto questo da solo, ma deve essersi avvalso dell’aiuto di centinaia di amici, funzionari, schiavi e consiglieri. Ma questa particolare riscrittura della geografia all’epoca fu sempre ascritta a Pompeo. Il potere di Pompeo era, almeno in parte, il frutto delle operazioni militari. Mitridate fu presto cacciato dall’Asia Minore e costretto a ritirarsi

nei suoi territori in Crimea, dove venne in seguito rovesciato da un colpo di stato organizzato da uno dei suoi figli, e poco dopo si suicidò. Anche l’assedio della fortezza di Gerusalemme, dove due rivali si contendevano l’alto sacerdozio e il trono, venne portato a termine con successo. Ma, soprattutto, il suo potere derivava da una sapiente combinazione di diplomazia, intimidazione e appropriata esibizione della forza romana. Pompeo trascorse parecchi mesi a trasformare la parte centrale del regno di Mitridate in una provincia governata direttamente da Roma, a ridefinire i confini di altre province, a fondare decine di nuove città e ad assicurarsi che numerosi sovrani e dinasti locali fossero ridimensionati e ridotti all’obbedienza secondo il vecchio stile di dominio imperiale. Nel trionfo che celebrò nel 61 a.C., dopo il suo ritorno a Roma, proprio nel giorno del suo compleanno (senza dubbio una coincidenza pianificata), Pompeo avrebbe indossato un mantello appartenuto un tempo ad Alessandro Magno. Dove mai avesse trovato questo falso non è dato sapere; e non ingannò molti romani, che erano non meno scettici di noi sull’autenticità di quell’indumento. Lo scopo doveva comunque essere non soltanto quello di giustificare l’epiteto di «Grande» che aveva ripreso da Alessandro, ma anche di paragonarne le ambizioni di gigantesca conquista imperiale. Alcuni romani rimasero profondamente colpiti da questo sfoggio, mentre altri ne furono altrettanto perplessi. Plinio il Vecchio, vissuto poco più di un secolo dopo, ricorda con severa disapprovazione un ritratto, commissionato dallo stesso Pompeo, fatto di madreperla: «la sconfitta dell’austerità e il trionfo del lusso». Ma c’era un punto ancora più importante. Questa celebrazione era la più formidabile manifestazione finora mai vista dell’impero romano in termini territoriali, e persino dell’ambizione romana alla conquista del mondo. Uno dei trofei portati in processione, probabilmente nella forma di un grosso globo, recava la seguente iscrizione: «Questo è un trofeo del mondo intero». E su un elenco delle imprese di Pompeo, esposto in un tempio di Roma, si proclamava, con tono rivelatore anche se troppo ottimistico, che costui «aveva esteso le frontiere dell’impero fino ai confini della terra».

Il primo imperatore Ci sono fondati motivi per definire Pompeo il primo imperatore di Roma. Senza dubbio, è passato alla storia come l’uomo che alla fine sostenne la causa della repubblica contro il potere sempre più indipendente di Cesare, e quindi come un avversario del dominio imperiale. Ma il trattamento e gli onori che gli furono riservati (o che pretese) in Oriente prefiguravano concretamente molti degli elementi tipici dell’immagine e dello status dell’imperatore romano. È quasi come se le forme e i simboli del dominio imperiale – che pochi decenni dopo, sotto Giulio Cesare e ancor più sotto il suo pronipote, l’imperatore Augusto, divennero elemento fisso in Italia e a Roma – avessero avuto il proprio prototipo nel dominio di Roma all’estero. Giulio Cesare, per esempio, fu il primo ad avere la propria testa riprodotta su una moneta coniata a Roma. Fino a quel momento, le monete romane avevano mostrato soltanto immagini di eroi da tempo defunti, e questa innovazione fu una lampante esibizione del potere personale di Cesare, seguita da tutti i successivi sovrani romani. Ma già un decennio prima diverse città dell’Oriente avevano fatto coniare monete con la testa di Pompeo. A quest’onore si aggiungevano altre stravaganti onorificenze e addirittura varie forme di culto religioso. Ci è noto un gruppo di «adoratori di Pompeo» (pompeiastae) sull’isola di Delo. Nuove città presero il suo nome: Pompeiopolis, Magnopolis (dall’epiteto Magno). Venne acclamato come «pari a un dio», «salvatore» e persino come «dio» tout court. A Mitilene, sull’isola di Lesbo, un mese del calendario venne rinominato in suo onore, proprio come, a Roma, furono successivamente rinominati dei mesi in onore di Giulio Cesare e di Augusto. C’erano dei precedenti per buona parte di questi riconoscimenti, presi singolarmente. I re successivi ad Alessandro Magno, in territori estesi dalla Macedonia fino all’Egitto, avevano frequentemente manifestato il proprio potere in forma più o meno divina. Le antiche religioni politeistiche consideravano il confine tra divino e umano in modo più flessibile e permeabile rispetto ai moderni monoteismi. Diversi comandanti romani nel Mediterraneo orientale erano stati talvolta onorati con l’istituzione di festività religiose in loro nome, e Cicerone, in una lettera scritta ad Attico dalla Cilicia, lascia intuire di avere rifiutato l’offerta di un tempio in suo onore. Ciononostante, presi nel loro complesso, gli onori accordati a

Pompeo si collocavano su un livello di portata completamente nuova. È difficile immaginarsi come, dopo questo genere di elevazione in Oriente e dopo il potere indipendente che aveva esercitato riorganizzando vasti territori, Pompeo sarebbe potuto tornare a Roma e diventare un semplice senatore, alla pari di tutti gli altri. In apparenza, questo è proprio ciò che fece. Non ci fu nessuna marcia sulla città nello stile di Silla. Ma, sotto la superficie, si potevano riconoscere indizi di cambiamento anche a Roma. Il grandioso progetto edilizio di Pompeo, con un teatro, dei giardini, dei portici e delle sale riunioni, riccamente adornati di celebri opere scultoree, fu un’innovazione di stile affatto imperiale. Era un progetto ben più vasto dei singoli templi normalmente fatti erigere dai precedenti generali come ringraziamento per l’aiuto ricevuto dagli dèi sul campo di battaglia. Dedicato nel 55 a.C., fu il primo di una serie di giganteschi programmi architettonici che divennero una caratteristica distintiva dei successivi imperatori, i quali cercarono di lasciare la propria impronta, in marmo sfavillante, sul panorama urbano di Roma, e a cui si deve la nostra odierna immagine dell’antica città. Ci sono anche alcuni indizi che persino a Roma Pompeo venisse presentato, proprio come i successivi imperatori, in veste divina. Questo tema figurava già nel discorso pronunciato da Cicerone nel 66 a.C., nel quale questi si riferiva ripetutamente alle doti di Pompeo definendole «divine» o «concesse dagli dèi», e metteva in risalto la sua incredibilis ac divina virtus, «la sua straordinaria e divina virtù». Non è certo quanto alla lettera si debba prendere l’espressione divina; ma nella cultura romana non si ridusse mai a quella morta metafora che è oggi d’uso piuttosto frequente. Come minimo, si riconosceva in Pompeo qualcosa di più che semplicemente umano. Questo è senz’altro sottinteso anche in un onore concessogli su proposta di due tribuni nel 63 a.C., in vista del suo ritorno dall’Oriente: a Pompeo era permesso indossare l’abito di un generale in trionfo quando assisteva alle gare nel circo. Era una cosa ben più rilevante di quanto ci possa sembrare, e di certo non soltanto una questione di dress code. Infatti, il costume tradizionalmente indossato dal generale vittorioso durante la sua processione trionfale era identico a quello della statua del dio Giove nel suo tempio sul Campidoglio. Era come se la vittoria militare permettesse al generale di entrare letteralmente negli abiti del dio, almeno per quel giorno, e questo spiega perché lo schiavo che stava dietro di lui sul carro trionfale doveva sussurrargli continuamente all’orecchio: «Ricordati che sei (soltanto) un uomo». Permettere a Pompeo di indossare la regalia trionfale

anche in altre occasioni equivaleva a concedergli uno status divino al di fuori di quel contesto rituale rigidamente definito. Deve essere sembrato un passo alquanto rischioso, perché si diceva che Pompeo avesse goduto del suo nuovo privilegio soltanto una volta; e, come osservò in maniera sarcastica uno scrittore romano circa settant’anni dopo, «era già stata una volta di troppo». Come bilanciare le imprese e la celebrità del singolo individuo con la teorica uguaglianza interna dell’aristocrazia e con i princìpi della collegialità del potere era stato uno scottante dilemma per tutto il corso della storia repubblicana. Molte storie mitiche sulla Roma arcaica pongono il problema di audaci eroi che escono dai ranghi per affrontare da soli il nemico. Dovevano essere puniti per disobbedienza oppure onorati per avere dato a Roma la vittoria? Ma c’erano anche figure storiche che, già prima di Pompeo, per la loro posizione di preminenza erano entrate in conflitto con la tradizionale struttura di potere dello stato. Mario e Silla sono gli esempi più ovvi. Ma, più di cento anni prima di loro, Scipione Africano, malgrado tutte le sue strepitose vittorie, o piuttosto proprio a causa di esse, aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita in virtuale esilio, dopo che i tribunali romani avevano cercato ripetutamente di ridimensionarlo; si spiega così la sua sepoltura nell’Italia meridionale e non nella grande tomba di famiglia degli Scipioni a Roma. Si diceva addirittura che si proclamasse ispirato dagli dèi e che trascorresse la notte nel tempio di Giove per sfruttare la sua speciale relazione con la divinità. Tuttavia, alla metà del I secolo a.C., la posta in gioco si era fatta ben più alta, la sfera delle operazioni e dei vincoli tanto più grande e le risorse di denaro e uomini disponibili tanto più vaste, che l’ascesa di uomini come Pompeo risultò praticamente inarrestabile.

44. Recente tentativo di ricostruzione del teatro di Pompeo, con la sua complessa scena e una platea che poteva ospitare circa quarantamila spettatori, ossia poco meno della capienza del Colosseo. Dietro la platea si trovava un piccolo tempio della dea Venus Victrix («datrice di vittoria»), a memoria del favore concesso dagli dèi a Pompeo e della vittoria militare che aveva permesso di finanziare la costruzione.

A fermare Pompeo fu infine un rivale, nella persona di Giulio Cesare, membro di un’antica famiglia patrizia, con un programma politico nel solco della tradizione radicale dei Gracchi e animato da ambizioni che portarono direttamente al regime autocratico. Prima, però, questi due uomini fecero parte di una famigerata alleanza a tre.

La Banda dei Tre Nel 60 a.C., due anni dopo il suo rientro a Roma, Pompeo appariva piuttosto irritato dal fatto che il Senato non aveva ancora ratificato ufficialmente la sua sistemazione dell’Oriente, e anzi la procrastinava confermandola pezzo per pezzo, anziché in blocco. E, come doveva fare allora ogni generale, era in cerca di terre sulle quali collocare i suoi ex soldati. Marco Licinio Crasso, che aveva guidato le truppe romane alla vittoria contro Spartaco ed era considerato l’uomo più ricco di Roma, aveva da poco assunto la causa di un’impresa di appaltatori statali in difficoltà, che avevano fatto un’offerta troppo alta per ottenere il diritto di riscossione fiscale per la provincia d’Asia, e ora stava cercando di fare avere loro il permesso di rinegoziare la cifra pattuita. Giulio Cesare, che, dei tre uomini, era quello meno ricco e con meno esperienza, voleva assicurarsi l’elezione al consolato per il 59 a.C. e un importante comando militare al termine del mandato, anziché i semplici compiti di pattugliamento sulle bande di briganti scorrazzanti per l’Italia che il Senato aveva intenzione di affidargli. Una reciproca collaborazione sembrò il modo migliore per raggiungere questi vari obiettivi. Perciò, con un patto del tutto ufficioso, i tre unirono le loro forze, i loro contatti e le loro ambizioni per ottenere ciò che volevano, a breve come a lungo termine. Per molti osservatori dell’antichità questo fu un altro passo cruciale nella frantumazione del governo repubblicano. Uno di essi fu il poeta Orazio, quando, seguendo il tradizionale metodo di datazione romano, menzionò «la guerra civile che iniziò l’anno in cui fu console Metello». Catone «il Giovane» – pronipote di Catone «il Vecchio» –, uno dei più acerrimi nemici di Cesare, sosteneva che la città era stata messa a soqquadro non quando Cesare e Pompeo avevano litigato, bensì quando erano diventati amici. L’idea che lo sviluppo politico fosse stato pilotato da dietro le quinte sembrava, per certi aspetti, persino peggiore dell’aperta violenza che aveva tormentato i precedenti decenni. Cicerone colse perfettamente la situazione quando osservò che nel taccuino di Pompeo c’era un elenco non soltanto dei consoli passati ma anche di quelli futuri. Non fu tuttavia un’assunzione di potere così completa come farebbero supporre queste osservazioni. Fra i tre uomini correva ogni genere di tensioni, disaccordi e rivalità: e, se Pompeo possedeva veramente un taccuino con l’elenco dei nomi preferiti dai tre per il consolato degli anni

ancora a venire, il meccanismo elettorale talvolta riusciva a scavalcarli portando all’elezione di qualcun altro, niente affatto di loro gradimento. Ciononostante, riuscirono a realizzare i loro obiettivi immediati. Cesare fu eletto console per il 59 a.C. e, insieme a una serie di provvedimenti che ricordavano fortemente i programmi di precedenti tribuni di orientamento radicale, fece approvare leggi che favorivano Crasso e Pompeo. Si assicurò anche il comando militare della Gallia meridionale, alla quale fu presto aggiunta una vasta area sul versante opposto delle Alpi. Per quasi tutto il decennio centrale del I secolo a.C. le macchinazioni dei tre protagonisti di questo sodalizio restarono una delle forze principali nella politica romana, anche se Cesare fece soltanto periodiche visite in Italia e Crasso non ritornò mai dalla campagna che guidò nel 55 a.C. contro l’impero partico, che aveva il proprio centro nell’attuale Iran e, per molti aspetti, aveva preso il posto di Mitridate nelle paure dei romani. La sua precoce morte rende più difficile stabilire il ruolo e l’importanza di Crasso all’interno del trio. Ma la tragedia della sua sconfitta e della sua cruenta decapitazione, cui si aggiungeva l’umiliazione della cattura delle insegne cerimoniali dell’esercito, continuò a riecheggiare per anni. La vittoria decisiva fu riportata dai parti nel 53 a.C. nella battaglia di Carre, presso l’attuale confine tra la Turchia e la Siria. La testa di Crasso venne spedita come trofeo alla residenza del re partico, dove venne immediatamente utilizzata per fare le veci della testa di Penteo, decapitato da sua madre, in una rappresentazione della tragedia Le baccanti di Euripide (ed è interessante notare come rientrasse nel repertorio teatrale del pubblico partico). Le insegne rimasero a fare orgogliosamente parte del bottino partico fino al 19 a.C., quando l’imperatore Augusto, con un’abile iniziativa diplomatica mascherata da successo militare, riuscì a riportarle a Roma. Le polemiche e le controversie di questo periodo sono vivacemente documentate, fin nei più piccoli dettagli, grazie soprattutto alle lettere di Cicerone, talvolta scritte giorno per giorno e piene di voci incontrollate, di presentimenti, indizi di complotti, mezze verità, pettegolezzi, riflessioni ipotetiche e premonizioni. «La situazione politica mi allarma ogni giorno di più» e «c’è puzza di dittatura nell’aria» sono tipici ritornelli, in mezzo a più pratici riferimenti a prestiti e debiti e a trionfalistiche notizie sull’audace, benché soltanto temporaneo, sbarco di Cesare in Britannia. Ci offrono una straordinaria testimonianza sulla politica romana nel suo concreto svolgimento, assolutamente unica per tutta l’antichità classica e probabilmente per qualsiasi altra epoca storica fino al XV secolo della

nostra èra. Ma tendono anche a esagerare l’impressione di confusione e di frantumazione politica; o almeno presentano un quadro che appare difficilmente confrontabile con quello di periodi precedenti. Quanto disordinato e spietato sarebbe potuto apparire il mondo di Scipione Africano e Fabio il Temporeggiatore se si fossero conservate le loro note e lettere private, e non soltanto il racconto retrospettivo di Livio e altri storici? Per di più, l’enorme quantità di materiale uscito dalla penna di Cicerone può ostacolare gravemente la nostra capacità di vedere oltre il suo punto di vista e i suoi pregiudizi.

45. Moneta argentea coniata sotto il regno di Augusto per commemorare la restituzione delle insegne romane catturate dai parti nella battaglia di Carre. Il personaggio partico che in atto di sottomissione riconsegna le insegne indossa i tradizionali calzoni orientali. Sull’altro lato è raffigurata, significativamente, la dea «Onore». In realtà, si trattò più di un accordo negoziato che di una vittoria militare dei romani.

La carriera di Publio Clodio Pulcro è un esempio illuminante. Clodio si scontrò per la prima volta con Cicerone in uno scandalo scoppiato alla fine del 62 a.C., dopo che si era scoperto che un uomo si era intrufolato in una solenne cerimonia religiosa riservata esclusivamente alle donne, cui presiedeva la moglie di Giulio Cesare. Alcuni sospettavano che si fosse trattato di un segreto appuntamento amoroso anziché di un semplice scherzo, e Cesare si cautelò con un rapido divorzio, con la celebre

giustificazione che «la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto». Molti puntarono il dito contro Clodio, che fu processato, con Cicerone tra i principali testimoni dell’accusa. Il processo si concluse con l’assoluzione, e con un’eterna ostilità tra Clodio e Cicerone, il quale, prevedibilmente, ma forse a torto, sostenne che una massiccia corruzione aveva garantito il verdetto di non colpevolezza. La fama di assoluta malvagità e scelleratezza che ha poi circondato Clodio è quasi interamente il risultato dell’inimicizia di Cicerone. È passato alla storia come il folle patrizio che non soltanto si era fatto adottare da una famiglia plebea per potersi candidare al tribunato, ma aveva anche messo in ridicolo l’intero procedimento scegliendo un padre adottivo addirittura più giovane di lui. Una volta eletto, nel 58 a.C., architettò l’esilio di Cicerone per il rigido atteggiamento che quest’ultimo aveva assunto nei confronti dei seguaci di Catilina, introdusse una serie di leggi che colpivano al cuore la base stessa del governo romano, e seminò il terrore nelle strade con la sua milizia privata. Roma venne salvata da questo mostro soltanto quando venne ucciso, nel 52 a.C., dopo avere scatenato una rissa con gli schiavi di un amico di Cicerone, nella cosiddetta «battaglia di Bovillae». Non ci è giunta alcuna descrizione alternativa di Clodio. Ma, senza dubbio, un’altra versione della storia lo avrebbe dipinto come un riformista radicale nella tradizione dei Gracchi (una delle sue leggi rese completamente gratuite le distribuzioni di grano a Roma), linciato da un mascalzone reazionario e dai suoi scagnozzi. Neppure la difesa sostenuta da Cicerone riuscì a ottenere l’assoluzione dall’accusa di omicidio per il suo amico, che finì a fare compagnia a Verre in esilio a Marsiglia. La politica degli anni Cinquanta del I secolo a.C. è una curiosa combinazione di business as usual, pericolose scissioni e ingegnosi, o disperati, tentativi di adeguare le tradizionali regole politiche alle nuove crisi che si dovevano affrontare. È difficile esprimere un giudizio su Cicerone alla fine di questo decennio, chiuso al sicuro del suo studio, impegnato a scrivere trattati teorici sulla politica romana in uno stile che sarebbe stato familiare a Polibio, mentre a qualche centinaio di metri dalla sua casa sul Palatino scoppiavano rivolte sempre più frequenti nel Foro e si ripetevano episodi di violenza e incendi dolosi, compreso l’incendio della sede del Senato per la pira funeraria di Clodio. Forse questo fu il suo tentativo di ripristinare l’ordine, almeno nella sua mente. Altri preferirono provvedimenti più pratici ed elaborarono audaci innovazioni. Nel 52 a.C., per esempio, dopo l’assassinio di Clodio, Pompeo venne eletto console

unico. Ancora fresco del ricordo della dittatura di Silla, il Senato, piuttosto che nominare un dittatore al quale affidare la responsabilità di risolvere la sempre più grave crisi, decise di conferire a un solo uomo una carica che per sua stessa definizione era sempre stata esercitata in modo collegiale. Questa volta la scommessa fu vinta. Nel giro di pochi mesi Pompeo non solo riuscì a prendere il saldo controllo della città ma si affiancò anche un collega, per quanto scelto nella cerchia della sua famiglia: era il suo nuovo suocero. Più problematiche furono le tattiche che adottò il console collega di Giulio Cesare nel 59 a.C., Marco Calpurnio Bibulo, un accanito oppositore di quasi tutte le nuove leggi che Cesare intendeva introdurre. Minacciato dai seguaci di Cesare, bersagliato con il fin troppo classico simbolo del disprezzo romano (gli escrementi) e sostanzialmente costretto a rimanere confinato nella sua casa, non poté esprimere la sua opposizione in modo aperto e regolare. Perciò rimase chiuso in casa e inviò messaggi in cui annunciava di «osservare i cieli» in cerca di segni e presagi. Questa dichiarazione aveva un preciso peso religioso e politico. Il sostegno degli dèi era il fondamento della politica romana: suo assioma imprescindibile era che non si poteva prendere nessuna decisione politica finché non fosse stato accertato che non vi fossero auspici contrari. Tuttavia «osservare i cieli» non era mai stato uno strumento per ostacolare a tempo indefinito l’azione politica, e i seguaci di Cesare sostennero che Bibulo stesse illegittimamente manipolando la prassi religiosa. La questione non fu mai risolta. Tipico delle incertezze di quest’epoca, come anche delle difficoltà con cui si scontravano i romani cercando di usare vecchie regole per risolvere nuovi dilemmi, è il fatto che lo status di tutti gli affari pubblici condotti nel 59 a.C. rimase non chiarito per diversi anni. Alla fine del decennio Cicerone era ancora dubbioso circa la legalità dell’adozione di Clodio e la sistemazione dei veterani di Pompeo. Le leggi erano state approvate in modo regolare oppure no? Erano possibili risposte molto diverse. La questione politica più scottante di questo periodo, tuttavia, non nacque direttamente a Roma bensì in Gallia, dove operava Cesare. Il quale, dopo aver lasciato l’Italia nel 58 a.C. con un comando quinquennale, aveva ottenuto nel 56 a.C. il rinnovo del comando per altri cinque anni, con il caloroso sostegno, in pubblico almeno, di Cicerone, che sottolineò il pericolo rappresentato dai galli proprio come un tempo aveva paventato la minaccia costituita da Mitridate. Il resoconto che Cesare diede delle sue

campagne militari, pubblicato in sette libri con il titolo di Commentarii de bello gallico, una versione corretta e rielaborata dei dispacci ufficiali che inviava annualmente a Roma dal fronte, inizia con celebri parole di matematica chiarezza: Gallia est omnis divisa in partes tres («La Gallia nel suo complesso è divisa in tre parti»). Costituisce, insieme all’Anabasi di Senofonte, scritta nel IV secolo a.C., il solo resoconto dettagliato di una guerra scritto dal suo stesso protagonista che ci sia giunto dal mondo antico. Non lo si può definire tuttavia un documento ideologicamente neutro. Cesare era molto attento alla sua immagine pubblica, e il De bello gallico fornisce una giustificazione scrupolosamente congegnata della sua azione e uno sfoggio delle sue doti militari. Ma è anche uno dei primi esempi di un genere che potremmo definire etnografia imperiale. A differenza di Cicerone, le cui lettere dalla Cilicia rivelano un totale disinteresse per l’ambiente locale, Cesare aveva una profonda curiosità per i costumi stranieri che osservava, dal modo di bere dei galli, compresa la barbarica proibizione del vino tra alcune tribù, fino ai rituali religiosi dei druidi. È una magnifica descrizione, in prospettiva romana, di popolazioni che Cesare stesso non era in grado di comprendere interamente, ma rappresenta ancora oggi il punto di partenza essenziale per qualsiasi trattazione moderna sulle culture dell’Europa settentrionale preromana: una vera ironia della storia, giacché erano culture che egli avrebbe cambiato per sempre. Chiunque legga con attenzione il De bello gallico riconoscerà facilmente come il decennio di guerra in Gallia fu originato tanto dalle autentiche preoccupazioni romane per i nemici del Nord quanto dal desiderio che aveva Cesare di superare per gloria militare tutti i suoi rivali. Alla fine, Cesare sottomise al controllo romano un territorio ancora più vasto di quello conquistato da Pompeo in Oriente, e attraversò addirittura quello che i romani chiamavano «l’Oceano», la distesa d’acqua che separava il mondo conosciuto dall’ignoto infinito, mettendo brevemente piede sulla remota e quasi mitica isola della Britannia. Fu una vittoria simbolica che fece enorme impressione a Roma, e che gli valse persino un’allusione in una poesia di Catullo, nella quale si parla di andare «a vedere i trofei di Cesare il Grande, / o in Gallia, sul Reno, presso il mare / selvaggio, i Britanni estremi». Con le sue imprese Cesare pose le fondamenta della geografia politica dell’Europa moderna, oltre a lasciare quasi un milione di morti nell’intera regione. Sarebbe sbagliato immaginare che i galli fossero innocenti pacifisti brutalmente schiacciati dalle forze di Cesare. Un greco che visitò la regione

all’inizio del I secolo a.C. rimase scioccato alla vista delle teste dei nemici disordinatamente appese all’ingresso delle case dei galli, pur concedendo che, dopo qualche tempo, ci si faceva l’abitudine; e i mercenari gallici avevano fatto buoni affari in Italia prima che la potenza di Roma ne chiudesse il mercato. Ciononostante, le uccisioni di massa di tutti coloro che ostacolavano il cammino di Cesare erano troppo persino per una parte degli stessi romani. Catone, senza dubbio almeno parzialmente animato dalla sua inimicizia verso di lui e mosso da motivazioni partigiane più ancora che umanitarie, sostenne che Cesare dovesse essere processato dalle tribù di cui aveva messo a morte donne e bambini. Plinio il Vecchio, che cercò di stabilire il numero delle vittime di Cesare, ci appare sorprendentemente moderno quando lo accusa di «crimini contro l’umanità». La questione principale era cosa sarebbe accaduto quando Cesare avesse lasciato la Gallia, e come, dopo quasi dieci anni di assenza dalla capitale, con tutto il potere e la ricchezza che aveva accumulato, potesse essere reintegrato nella vita politica ordinaria. Come in molti altri casi, i romani dibatterono questo problema in termini squisitamente giuridici. Ci furono feroci discussioni tecniche sulla data precisa in cui si riteneva dovesse concludersi il suo comando militare, nonché sulla possibilità, o meno, che si ricandidasse direttamente, senza alcuna interruzione, per un altro consolato. Infatti, se fosse tornato a essere un privato cittadino, senza rivestire alcuna carica pubblica, avrebbe potuto essere messo sotto processo, anche, tra le altre cose, per la dubbia legalità delle sue azioni nel 59 a.C. Da una parte erano schierati coloro che, per qualsiasi ragione, personale o di principio, volevano ridimensionare Cesare; dall’altra Cesare e i suoi seguaci, i quali sostenevano che questo trattamento era umiliante, che la sua stessa dignitas (una combinazione tipicamente romana di autorità, prestigio e diritto al rispetto) era attaccata. La domanda essenziale era brutalmente chiara: Cesare, con più di quarantamila soldati a propria disposizione e a soltanto pochi giorni di marcia dall’Italia, avrebbe seguito l’esempio di Silla o quello di Pompeo? Pompeo stesso si tenne prudentemente defilato quasi fino alla rottura finale, e nel 50 a.C. cercava ancora di trovare un’onorevole via di uscita per Cesare. Nel dicembre di quell’anno il Senato decretò, con 370 voti a favore e 22 contrari, che Cesare e Pompeo avrebbero dovuto lasciare contemporaneamente i propri comandi. In quel momento Pompeo si trovava a Roma; ma fin dal 55 a.C., grazie a un’altra geniale mossa, era stato

nominato governatore della Spagna, ed esercitava la propria funzione da lontano, per mezzo di delegati: una soluzione senza precedenti, che divenne poi un elemento standard del dominio degli imperatori. Il segno più evidente dell’impotenza in cui era caduto il Senato in questo periodo è offerto dal fatto che, di questo voto a schiacciante maggioranza, Pompeo non tenne alcun conto, e Cesare, dopo qualche ulteriore e inutile negoziato, decise di marciare sull’Italia.

Il dado è tratto Attorno al 10 gennaio del 49 a.C., Giulio Cesare, con soltanto una delle legioni che aveva comandato in Gallia, attraversò il Rubicone, il fiume che segnava il confine settentrionale dell’Italia. La data esatta non è nota, e neppure la collocazione precisa di questo fiume di storica importanza. Si trattava, probabilmente, di un piccolo ruscello piuttosto che del furioso torrente dell’immaginazione popolare; e, malgrado tutti gli sforzi compiuti dagli autori antichi per abbellirla con spettacolari apparizioni di divinità, misteriosi presagi e sogni profetici, la concreta realtà dell’episodio fu probabilmente piuttosto ordinaria e banale. Per noi, «attraversare il Rubicone» vuol dire «oltrepassare il punto di non ritorno». Ma non significava la stessa cosa per Cesare. Secondo uno dei suoi compagni di viaggio, Gaio Asinio Pollione (senatore, storico e fondatore della prima biblioteca pubblica di Roma), quando, dopo qualche esitazione, giunse in prossimità del Rubicone, Cesare citò, in greco, due parole del commediografo ateniese Menandro, le quali, nel lessico del gioco d’azzardo, significavano letteralmente: «che i dadi siano gettati». Malgrado la consueta traduzione «il dado è tratto», che allude di nuovo al compimento di un passo irrevocabile, la citazione di Cesare era da intendersi piuttosto come un’espressione di incertezza, come la percezione che ora tutto restava nelle mani degli dèi: lanciamo i dadi in aria e vediamo dove vanno a cadere! Chi sa cosa accadrà dopo? Quel che accadde furono quattro anni di guerra civile. Alcuni sostenitori di Cesare a Roma si precipitarono nell’Italia settentrionale per unirsi a lui, mentre Pompeo, posto al comando degli «anticesariani», decise di lasciare l’Italia e proseguire la lotta dal suo centro di potere in Oriente. Nel 48 a.C. le armate di Pompeo vennero sconfitte nella battaglia di Farsalo, nel nord della Grecia, e lo stesso Pompeo venne assassinato poco dopo, mentre cercava di trovare rifugio in Egitto. Comunque, nonostante la sua celebre rapidità (celeritas era uno dei suoi motti preferiti), a Cesare occorsero altri tre anni (fino al 45 a.C.) per sconfiggere definitivamente i suoi avversari romani in Africa e Spagna, nonché per neutralizzare i problemi creati da Farnace, figlio e usurpatore di Mitridate. Dal passaggio del Rubicone alla sua morte, nel marzo del 44 a.C., Cesare fece solo brevi soggiorni a Roma; il più lungo furono i cinque mesi che vi trascorse a partire dall’ottobre del 45

a.C. Agli occhi dei cittadini, divenne un dittatore quasi sempre assente.

46. Un ritratto di Giulio Cesare? Trovare un’autentica riproduzione del volto di Cesare, a parte le minuscole immagini delle monete, è stato un obiettivo dell’archeologia moderna. Ci sono centinaia di «ritratti» scolpiti dopo la sua morte, ma esempi contemporanei non sono altrettanto frequenti o facili da individuare. Questo ritratto, conservato al British Museum, era un tempo considerato uno dei principali esempi coevi, ma oggi si sospetta che sia un falso.

Per certi aspetti, la guerra civile tra Pompeo e Cesare fu altrettanto peculiare della guerra sociale. Quanti individui coinvolse direttamente è impossibile dire. La priorità di molti abitanti dell’Italia, e dell’impero, era probabilmente quella di evitare di farsi inavvertitamente intrappolare nelle lotte tra armate rivali e tenersi fuori da quell’ondata di criminalità che la guerra aveva scatenato in Italia. Solo occasionalmente la gente comune, di solito ai margini della storia, ha l’opportunità di salire alla ribalta: così, per esempio, il capitano di una nave mercantile, Gaio Peticio, che accolse gentilmente a bordo un malridotto Pompeo sulla costa greca dopo la battaglia di Farsalo; oppure un certo Soteride, un sacerdote eunuco che lasciò incisi su una pietra i suoi timori per il proprio «partner», che si era imbarcato insieme a un gruppo di volontari locali ed era stato preso prigioniero. Quanto a coloro che partecipavano alla lotta, da una parte c’erano i seguaci di Cesare, il quale promuoveva un programma politico di orientamento popolare e tendeva chiaramente verso un regime autocratico. Secondo Cicerone, questa era la direzione verso cui si indirizzavano naturalmente le simpatie e gli interessi dei poveri. Dalla parte opposta stava un eterogeneo gruppo di persone, che, per diverse ragioni, non gradiva ciò che Cesare intendeva realizzare o temeva comunque il potere che stava accumulando. Altri ancora, ma certamente pochi, rimanevano irrealisticamente ancorati ad alti princìpi; come disse una volta Cicerone a proposito di Catone, «prende la parola in Senato come se operasse nella Repubblica di Platone e non tra il fecciume della città di Romolo». Soltanto in seguito, nell’atmosfera di romantica nostalgia che caratterizzò l’epoca dei primi imperatori, questi personaggi vennero completamente reinventati nella veste di combattenti e martiri per la libertà, uniti dalla lotta contro l’autocrazia. Per paradossale ironia, il loro capo rappresentativo, Pompeo, era un autocrate altrettanto convinto di Cesare. Qualsiasi dei due schieramenti avesse vinto, come osservò ancora Cicerone, il risultato sarebbe stato sostanzialmente lo stesso: la schiavitù di Roma. Quella che venne poi considerata una guerra tra la libertà e la monocrazia fu in realtà una guerra tra due imperatori rivali.

47. La famiglia del Peticio che salvò Pompeo fu attiva per secoli nel commercio nel Mediterraneo. Questa stele funeraria di un suo discendente, trovata in Italia settentrionale, mostra un cammello carico di merce, che doveva essere un simbolo – quasi un marchio di fabbrica – dei suoi affari oltremare.

Un profondo cambiamento era tuttavia evidente: ora la guerra civile coinvolgeva quasi tutto il mondo conosciuto. Mentre nelle guerre tra Silla e i suoi avversari si erano avuti solo occasionali episodi e sviluppi in Oriente, il

conflitto tra cesariani e pompeiani fu combattuto in tutto il Mediterraneo, dalla Spagna fino alla Grecia e all’Asia Minore. Celebri uomini incontrarono la morte in luoghi lontanissimi. Bibulo, lo sfortunato collega di Cesare nel 59 a.C., morì in mare nei pressi di Corfù, mentre cercava di imporre un blocco navale sulla costa greca. L’assassino di Clodio, Tito Annio Milone, abbandonò il suo esilio per unirsi a una rivolta pompeiana e morì nell’Italia meridionale, colpito da un proiettile di pietra. Catone, non appena risultò chiaro che Cesare sarebbe stato l’inevitabile vincitore, si uccise nella città di Utica, sulle coste dell’odierna Tunisia, nel modo più cruento immaginabile. Secondo il suo biografo, che scrisse centocinquant’anni dopo gli eventi, si trafisse con la sua spada, ma la ferita non fu mortale. Malgrado gli amici e i familiari cercassero di salvarlo, Catone cacciò via il dottore che avevano chiamato e si estrasse le viscere dalla ferita ancora aperta. L’Egitto aveva avuto una parte di primo piano nella vicenda. Fu qui che Pompeo, l’uomo che un tempo aveva dominato il mondo romano, incontrò la sua ignominiosa fine nel 48 a.C. Sbarcando sulle sue coste, si aspettava di essere accolto a braccia aperte. Invece, fu decapitato dagli scagnozzi di un dinasta locale, convinto che eliminare il capo dei nemici gli avrebbe fatto ottenere i favori di Cesare. Ripensando a quel momento, molti romani, compreso Cicerone, conclusero che per Pompeo sarebbe stato molto meglio morire un paio d’anni prima, quando, nel 50 a.C., si era gravemente ammalato. Invece, «la sua vita era durata più del suo potere». L’assassinio, però, si rivelò una mossa completamente sbagliata per i suoi autori. Cesare, giunto in Egitto pochi giorni più tardi, quando gli fu mostrata la testa mozzata di Pompeo, a quanto si dice, scoppiò in lacrime, e poco dopo diede il suo appoggio a un altro pretendente al trono d’Egitto. Si trattava della regina Cleopatra VII, che diverrà celebre soprattutto per la sua alleanza, politica e amorosa, con Marco Antonio in una fase successiva delle guerre civili romane. Ma ora gli interessi della regina si concentravano su Cesare, con il quale ebbe una relazione e – se dobbiamo credere alle sue affermazioni – un bambino. Tornato a Roma, Cesare celebrò trionfi in cui sfilarono in processione spoglie, animate e inanimate, provenienti da tutto il mondo romano (cfr. tavola 9). Nel trionfo del 46 a.C., celebrato durante uno dei suoi brevi soggiorni in città, venne esibito non soltanto il ribelle gallico Vercingetorige ma anche la sorellastra di Cleopatra, che si era schierata dalla parte sbagliata durante le lotte per il trono egizio: fu fatta sfilare accanto a un modello funzionante del faro di Alessandria. La vittoria di Cesare sul figlio

di Mitridate, Farnace, che era morto in battaglia nei pressi del mar Nero, fu commemorata in questa medesima occasione con un unico cartello sul quale era inciso uno dei più celebri motti di tutta la storia mondiale: veni, vidi, vici. Ma nelle immagini delle vittime romane di Cesare si potevano scorgere anche segnali allarmanti. Le processioni trionfali dovevano celebrare le vittorie sui nemici stranieri, non sui cittadini di Roma. Cesare fece mostrare scioccanti dipinti della morte di illustri figure dello schieramento pompeiano: da Catone che si estraeva le viscere con le proprie mani a Metello Scipione che si gettava nel mare. Il disgusto che molti provarono di fronte a questo brutale trionfalismo si manifestò nelle lacrime della folla mentre sfilavano quelle immagini. In retrospettiva, fu un inquietante preannuncio della violenta fine di Cesare meno di due anni dopo.

Le idi di marzo Giulio Cesare fu assassinato il 15 marzo del 44 a.C., ossia, secondo il sistema di datazione romano, nelle idi del mese. In diverse zone del Mediterraneo la guerra civile non era affatto terminata. Sesto, il figlio di Pompeo, comandava ancora almeno sei legioni in Spagna e continuava a combattere per la causa del padre. Ma Cesare stava radunando una gigantesca armata di quasi centomila soldati con lo scopo di attaccare l’impero partico, per vendicare l’ignominiosa sconfitta subita da Crasso a Carre e procurarsi una nuova opportunità di gloria militare, contro un nemico straniero anziché romano. Fu proprio pochi giorni prima della sua partenza per l’Oriente, fissata al 18 marzo, che venne ucciso da un gruppo di circa venti senatori malcontenti, sostenuti, attivamente o passivamente, da un’altra decina di membri del Senato. Molto appropriatamente, l’evento si svolse nel nuovo palazzo del Senato, che Pompeo aveva fatto erigere all’interno del suo grande complesso teatrale, di fronte a una statua dello stesso Pompeo, che rimase imbrattata del sangue di Cesare. Grazie, almeno in parte, alla rielaborazione fattane da Shakespeare nella sua tragedia Giulio Cesare, l’assassinio del dittatore romano nel nome della libertas è diventato il modello per l’estrema opposizione alla tirannia e per tutti gli assassinii compiuti in nome di un ideale. Non fu un caso, per esempio, se John Wilkes Booth usò la parola Ides come nome in codice per il giorno in cui aveva progettato di uccidere Abraham Lincoln. Basta però ripercorrere a ritroso la storia romana per riconoscere immediatamente che questo fu soltanto l’ultimo di una serie di omicidi di politici popolari e radicali, ma probabilmente ritenuti troppo potenti, iniziata con il linciaggio di Tiberio Gracco nel 133 a.C. La domanda da porsi è perciò la seguente: che cosa stava cercando di fare Cesare e che cosa lo rese così inaccettabile a questo gruppo di senatori da fare apparire l’assassinio la sola soluzione possibile? Nonostante le sue rare visite a Roma, Cesare aveva avviato un vasto programma di riforme, di portata ben superiore persino a quello di Silla. Una di esse regola ancora oggi la nostra vita. Infatti, Cesare, con l’aiuto di alcuni scienziati incontrati ad Alessandria, introdusse a Roma quello che è poi diventato il moderno sistema occidentale di datazione. L’anno tradizionale romano era di soli 355 giorni, e per secoli i sacerdoti romani

avevano avuto il compito di aggiungere a intervalli regolari un mese in più per mantenere il calendario civico in accordo con il naturale scorrere delle stagioni. Per qualche ragione (probabilmente una combinazione di mancanza di esperienza e mancanza di volontà), non avevano saputo fare calcoli corretti, con la conseguenza che l’anno calendariale e l’anno naturale talvolta erano squilibrati di parecchie settimane: le feste per il raccolto venivano a cadere quando le spighe stavano ancora crescendo e ad aprile il clima sembrava piuttosto quello di febbraio (come in effetti era). Bisogna quindi riconoscere che è sempre rischioso, relativamente al periodo repubblicano, assumere che una certa data ci fornisca un’indicazione corretta per dedurre la stagione dell’anno. Grazie alle conoscenze degli scienziati alessandrini, Cesare corresse l’errore e fece introdurre un anno di 365 giorni, con un giorno aggiuntivo alla fine di febbraio ogni quattro anni. Fu un risultato della sua visita in Egitto ben più importante e duraturo di qualsiasi flirt con Cleopatra. Altri provvedimenti si riallacciavano a temi già familiari nel secolo precedente. Cesare promosse, per esempio, un grande numero di nuove colonie d’oltremare, nelle quali collocò i poveri di Roma, inserendosi nel solco dell’iniziativa di Gaio Gracco con il progetto di una prosperosa fondazione a Cartagine. Ciò, probabilmente, gli consentì di far accettare la riduzione dei beneficiari delle distribuzioni gratuite di grano, restringendone il numero a centocinquantamila (quasi la metà rispetto a quello precedente). Estese inoltre la cittadinanza romana a coloro che vivevano nell’estremo settentrione d’Italia, al di là del Po, e propose la concessione del diritto latino alla popolazione della Sicilia. Ma aveva piani ancora più ambiziosi per una completa revisione del governo romano, che prevedeva una generale regolamentazione (persino microgestione) di ogni aspetto dell’organizzazione civica, a Roma e in tutta l’Italia. Si andava dalla questione di chi potesse rivestire cariche nelle comunità locali italiche (nessun becchino, lenone, attore o banditore d’asta, a meno che non si fosse ritirato dal mestiere) alla manutenzione delle strade (i proprietari erano responsabili della manutenzione del marciapiede davanti alla propria casa) e alla gestione del traffico (nessun veicolo per il trasporto di merci pesanti poteva circolare a Roma durante il giorno, fatta eccezione per le necessità della costruzione o riparazione dei templi, o per la rimozione delle macerie). Cesare non si limitò a riscrivere il calendario, ma vi entrò a far parte in prima persona. È possibile che il mese Quintilis sia stato rinominato Julius

(da cui il nostro luglio) soltanto dopo il suo assassinio; gli scrittori romani non sono sempre precisi in termini di cronologia. Ma furono proprio onori eccessivi di tal genere, approvati durante la sua vita da un Senato compiacente, insieme alla sua più o meno ufficiale monopolizzazione del processo democratico, a scatenare la fatale opposizione. Ci si era spinti ben oltre la riproduzione della sua testa sulle monete. Gli fu permesso di indossare il costume trionfale quasi ogni volta che lo volesse, compresa la corona d’alloro, che trovava molto conveniente per nascondere la calvizie. Sembra che gli fossero stati promessi anche dei templi e un apposito sacerdozio in suo onore, e sue statue vennero collocate in tutti i templi esistenti a Roma. La sua casa privata fu addirittura ornata con un timpano (o frontone) triangolare, per farla assomigliare a un tempio, la casa di un dio. Ancora più gravi, nella prospettiva romana, erano i chiari indizi del fatto che aspirasse a farsi re. In una celebre ma oscura occasione, appena un mese prima del suo assassinio, il suo fedele luogotenente e console di quell’anno, Marco Antonio, sfruttò il pretesto della festa dei Lupercalia per offrire a Cesare una corona regale. Fu, ovviamente, un atto di propaganda accuratamente coreografato, e potrebbe essere stato concepito per sondare l’opinione pubblica. La folla che assisteva alla festa avrebbe acclamato o no all’offerta della corona a Cesare? Già allora, la risposta di Cesare e il vero significato dell’episodio furono oggetto di discussione. Cesare chiese ad Antonio, come riteneva Cicerone, di mandare la corona al tempio di Giove, il dio che – ribadì Cesare – era l’unico re di Roma? Oppure la corona fu gettata alla folla e solo in seguito posta sulla statua di Cesare? Rimase sospettosamente incerto se avesse detto «No grazie» oppure «Sì grazie». Anche se la risposta fu «No grazie», la sua posizione di dittatore, riconfermata in varie forme a partire dal 49 a.C., era ritenuta da alcuni estremamente perniciosa. Fu nominato a tale carica per la prima volta per un breve periodo, al fine di condurre le elezioni al consolato per l’anno successivo: procedura perfettamente tradizionale, tranne per il fatto, del tutto senza precedenti, che presiedette all’elezione di se stesso. Nel 48 a.C., dopo la vittoria nella battaglia di Farsalo, il Senato lo nominò nuovamente dittatore per un anno, e poi, nel 46 a.C., per altri dieci anni. Infine, all’inizio del 44 a.C., divenne dittatore a vita: per un comune osservatore, la differenza tra la sua posizione e quella di un re doveva essere piuttosto difficile da riconoscere. Grazie alle prerogative della dittatura, Cesare aveva il diritto di nominare alcuni candidati per l’«elezione», e controllava le altre

elezioni da dietro le quinte, in modo ancor più efficiente di quanto avesse fatto Pompeo con il suo taccuino di futuri consoli. Alla fine del 45 a.C. ci fu un grande trambusto quando, proprio l’ultimo giorno dell’anno, venne annunciata la morte del console in carica. Cesare convocò immediatamente un’assemblea per fare eleggere uno dei suoi amici, Gaio Caninio Rebilo, al posto vacante per appena mezza giornata. La cosa ispirò a Cicerone un vero fiume di battute: Caninio era stato un console così vigile che «non era mai andato una sola volta a dormire per tutta la durata del suo mandato»; «Durante il consolato di Caninio puoi star sicuro che nessuno ebbe il tempo di fare colazione»; «Chi erano i consoli quando fu console Caninio?». Ma Cicerone era anche infuriato, come molti altri conservatori. Questa, infatti, era una cosa ancora peggiore che pilotare le elezioni: significava non prendere sul serio le magistrature elettive della repubblica romana. La caratteristica di Cesare che oggi può sembrare la sua migliore qualità era, per una vera ironia, quella più smaccatamente in contrasto con la tradizione repubblicana. Egli dava grande risalto alla sua clementia («clemenza»). Preferiva perdonare i propri nemici anziché punirli, e faceva sfoggio della propria rinuncia a punire crudelmente concittadini romani, a patto che abbandonassero ogni forma di opposizione nei suoi confronti (Catone, Metello Scipione e la maggior parte dei galli erano una questione diversa, e si meritavano ciò che capitò loro). Cesare aveva perdonato parecchi dei suoi futuri assassini, compreso lo stesso Bruto, che si erano schierati con Pompeo durante la guerra civile. Per molti aspetti, la clementia fu lo slogan politico della dittatura di Cesare. Ma suscitò più opposizione che gratitudine, per la semplice ragione che, pur essendo per certi aspetti una virtù, era comunque una virtù decisamente monarchica. Soltanto chi ha l’autorità di poter fare altrimenti può esercitare la clemenza. La clementia, in altre parole, era l’antitesi della libertas repubblicana. Si raccontava che Catone, pur di sfuggirle, aveva preferito suicidarsi. Perciò, non fu semplicemente ingratitudine quando Bruto e i suoi compagni si lanciarono contro l’uomo che aveva dato loro una seconda chance. In parte fu anche questo. In parte fu interesse personale e malcontento, alimentato dal senso di dignitas degli assassini. Ma fu anche la difesa di una certa concezione della libertà e dell’importanza delle tradizioni repubblicane che risalivano, nella mitologia di Roma, fino al momento in cui il lontano antenato di Bruto aveva contribuito al rovesciamento dei Tarquini ed era diventato uno dei due primi consoli. Questo punto è ribadito su una moneta d’argento fatta successivamente

coniare dagli assassini, che raffigura il pileus, o copricapo della libertà, che gli schiavi indossavano quando venivano affrancati. Il messaggio era chiaro: il popolo romano era stato liberato. Era davvero così? Come vedremo, risultò essere una forma di libertà alquanto strana. Se l’assassinio di Giulio Cesare divenne un modello archetipico per il rovesciamento dei tiranni, ricordava allo stesso tempo che rovesciare un tiranno non significava necessariamente abbattere la tirannia. Nonostante tutti gli slogan, le spavalderie e i nobili princìpi, ciò che gli assassini scatenarono, e il popolo subì, fu una lunga guerra civile e l’imposizione definitiva del regime autocratico. Ma questa storia sarà trattata nel capitolo IX. Prima dobbiamo occuparci di alcuni aspetti altrettanto importanti della storia romana, che si celano dietro il palcoscenico della politica e delle grandi notizie.

48. Moneta d’argento coniata dai «liberatori» di Roma un anno dopo l’assassinio di Cesare (43-42 a.C.). Su un lato è celebrata la riconquista della libertà: il pileus, copricapo indossato dagli schiavi di fresca liberazione, è fiancheggiato dalle spade che avevano compiuto l’impresa; sotto è incisa la celebre data: EID MAR («idi di marzo», vale a dire 15 marzo). Sull’altro lato, la testa dello stesso Bruto sottintende un messaggio piuttosto diverso: il ritratto di una persona vivente su una moneta romana era considerato un segno di potere autocratico.

VIII

IL FRONTE INTERNO

Pubblico e privato La storia di Roma è una storia di politica, di guerra, di vittoria e di sconfitta, di cittadinanza e di tutto ciò che accadeva in pubblico tra un certo numero di uomini prominenti. Nelle pagine precedenti ho presentato una versione drammatica di questa storia, in cui Roma, da piccola e insignificante città sulle rive del Tevere, si trasformò prima in un centro di potere locale e infine in una potenza internazionale. Praticamente ogni aspetto di questa trasformazione fu oggetto di aspre contese e in certi casi persino di veri e propri scontri armati: i diritti del popolo rispetto al Senato, il significato concreto della libertà e il modo in cui doveva essere garantita, il controllo che si doveva esercitare, o meno, sui territori conquistati, l’impatto dell’impero sulla politica e sui valori tradizionali di Roma. Nel corso di questo vorticoso processo, venne in qualche modo creata una forma di cittadinanza assolutamente nuova nel mondo antico. I greci avevano in alcune occasioni condiviso la cittadinanza tra due città, ma sempre come soluzione ad hoc. Ma l’idea che, come sostenevano i romani, essere cittadini di due luoghi contemporaneamente fosse la norma rappresentò una delle più importanti chiavi del successo romano sui campi di battaglia e in molti altri campi, e continua ad avere rilevanza ancora oggi. Questa fu un’autentica rivoluzione, e noi ne siamo gli eredi. Ciononostante, in questa storia ci sono alcuni aspetti sfuggenti. Solo in rari casi, nel grandioso racconto della storia romana fino al I secolo a.C., possiamo riconoscere la parte svolta dalla gente comune, dalle donne, dai poveri o dagli schiavi. Nei capitoli precedenti abbiamo potuto osservare solo qualche cammeo: il terrorizzato attore sul palco del teatro di Ascoli, il servitore spaccone che, poco saggiamente, maltrattò i seguaci di Gaio Cracco, il sacerdote eunuco preoccupato per il suo partner nella guerra civile, e persino il povero gatto intrappolato nell’incendio che distrusse la capanna di Fidene. Per i secoli successivi possediamo molte più testimonianze su queste categorie di individui, che infatti avranno un posto maggiore nella restante parte del libro. Invece, ciò che ci rimane per le fasi più antiche della storia romana tende a darci una visione unilaterale delle priorità anche degli stessi membri dell’élite. È facile farsi l’impressione che i principali protagonisti fossero preoccupati soltanto dalle grandi questioni del potere politico romano, a esclusione di ogni altra cosa, come se le orgogliose conquiste, il valore militare e l’elezione alle magistrature pubbliche di cui si vantano nei loro epitaffi fossero l’unico e assoluto scopo

della loro esistenza. Non era affatto così. Abbiamo già conosciuto qualche altro aspetto delle loro vite e dei loro interessi: li abbiamo visti divertirsi alle commedie di argomento amoroso, scrivere e imparare poesie, e ascoltare conferenze letterarie date da ambasciatori greci in visita a Roma. Non è difficile immaginarsi, almeno in parte, la vita quotidiana di Polibio a Roma: possiamo vederlo riflettere mentre assiste al funerale di un illustre cittadino, o decidere astutamente di darsi malato il giorno in cui un suo amico in ostaggio tenta di fuggire. Né è difficile cogliere il divertito piacere con cui l’anziano Catone deve avere ripensato al suo exploit con i fichi cartaginesi tenuti nascosti nella toga. Ma soltanto nel I secolo a.C. iniziamo ad avere ricche testimonianze su tutte le cose che preoccupavano e interessavano l’élite romana oltre alla guerra e alla politica. Si va dalla curiosità per la lingua che parlavano (un prolifico studioso dedicò venticinque libri alla storia del latino, alla sua grammatica ed etimologia) fino a profonde riflessioni sull’origine dell’universo e a dibattiti teologici sulla natura degli dèi. L’eloquente discussione di Tito Lucrezio Caro sulla follia di temere la morte, nel suo poema filosofico De rerum natura (La natura delle cose), è uno dei massimi vertici della letteratura classica e un faro di buon senso ancora oggi (coloro che non esistono non possono rammaricarsi della loro non esistenza, per riassumerne il tema di fondo). Ma, senza dubbio, la testimonianza più significativa sugli interessi, le preoccupazioni, i piaceri, i timori e i problemi di un illustre romano è offerta dal migliaio di lettere della corrispondenza privata di Cicerone, edite e pubblicate dopo la sua morte, nel 43 a.C., e da allora continuamente lette e studiate. Come abbiamo visto, sono piene di pettegolezzi sulle più alte sfere della politica romana, e aprono un raro squarcio sulla prima linea del governo provinciale, nell’esperienza fattane dallo stesso Cicerone in Cilicia. Ma, cosa altrettanto importante, ci illuminano sulle altre preoccupazioni che aveva Cicerone mentre era impegnato ad affrontare Catilina, a barcamenarsi con la Banda dei Tre, a progettare raid militari contro popolazioni locali particolarmente moleste, o a decidere da che parte stare durante la guerra civile. Per tutto il corso di queste crisi politiche e militari, Cicerone si preoccupava allo stesso tempo di questioni finanziarie, di doti e matrimoni (il proprio e quello di sua figlia), si addolorava per la morte di persone amate, divorziava dalla moglie, si lamentava per il mal di stomaco dopo avere mangiato cibi insoliti a cena, cercava di rintracciare schiavi fuggiti e

acquistava splendide statue con cui ornare le sue numerose case. Per la prima, e quasi unica volta in tutta la storia romana, queste lettere ci permettono di osservare direttamente ciò che accadeva dietro la porta di una casa romana. In questo capitolo analizzeremo alcuni di questi molteplici temi attraverso le lettere di Cicerone. Inizieremo con la sua esperienza della guerra civile e della dittatura di Giulio Cesare, di volta in volta caotica e cupamente divertente, e quanto più lontana si possa immaginare dagli squillanti slogan sulla libertas e la clementia; poi passeremo ad alcune questioni essenziali che rischiano di essere trascurate nel vortice delle controversie politiche, dei negoziati diplomatici e delle campagne militari. Quanto si aspettavano di vivere i romani? A quale età ci si sposava? Quali diritti avevano le donne? Da dove arrivava il denaro che permetteva ai ricchi e privilegiati di mantenere un tenore di vita di lusso sfarzoso? E come vivevano gli schiavi?

L’altra faccia della guerra civile Nel 49 a.C., dopo molte incertezze e malgrado la sua realistica percezione che non ci fosse molta scelta tra Cesare e Pompeo, Cicerone decise di non rimanere neutrale nella guerra civile ma di schierarsi con i pompeiani, e si imbarcò per raggiungere il loro accampamento nella Grecia settentrionale. Sebbene non facesse più parte della cerchia dei protagonisti, né in un campo né nell’altro, era ancora una figura abbastanza importante, che nessuno dei due schieramenti desiderava avere come nemico dichiarato. Ma i suoi modi irritanti ne fecero un membro piuttosto impopolare della cerchia di Pompeo. I suoi commilitoni non potevano sopportare il modo in cui si aggirava per le caserme con piglio severo, cercando di placare la tensione con fiacche battute; quando un candidato decisamente inadeguato venne promosso a una posizione di comando per la sola ragione che era «sensibile e mite», commentò acidamente: «Allora perché non lo assumiamo come guardiano dei tuoi figli?». Il giorno della battaglia di Farsalo, Cicerone adottò la tattica di Polibio e si dichiarò malato. Dopo la sconfitta, anziché seguire i più irriducibili in Africa, tornò direttamente in Italia in attesa di un’amnistia di Cesare. Le lettere scritte da Cicerone in questo periodo, circa quattrocento in tutto, aprono uno squarcio sullo squallore e il terrore della guerra civile, nonché sulla disorganizzazione, i fraintendimenti, i tradimenti, le ambizioni personali e persino il degrado di questo conflitto e delle sue conseguenze. Rappresentano un utile antidoto agli abilmente congegnati Commentarii de bello civili, che Cesare scrisse sul modello dei suoi Commentarii de bello gallico, all’altisonante retorica e ai solenni princìpi che lo scontro tra cesariani e pompeiani evoca ancora oggi. La guerra civile ebbe anche il suo lato squallido. Nel 49 a.C. l’indecisione di Cicerone era dovuta, almeno in parte, non a un’ambivalenza politica ma a un’ambizione quasi grottesca. Era appena rientrato dalla Cilicia e desiderava che il Senato gli accordasse la celebrazione di un trionfo per la sua vittoriosa schermaglia di un anno prima, e la procedura gli impediva di entrare in città o di congedare il suo staff personale fino a quando non fosse stata presa la decisione. Era preoccupato per la sua famiglia e incerto se sua moglie e sua figlia dovessero rimanere a Roma. Potevano essergli di qualche utilità laggiù?

Avrebbero avuto cibo a sufficienza? Avrebbero dato una cattiva impressione restando in città proprio mentre altre ricche donne se ne stavano andando? In ogni caso, se voleva celebrare un trionfo, non aveva altra scelta che trascorrere qualche mese girovagando fuori Roma, sempre più infastidito e imbarazzato dal suo distaccamento di guardie del corpo ufficiali, che portavano ancora le ormai afflosciate foglie dell’alloro che aveva ricevuto per celebrare la sua piccola vittoria. Alla fine accettò l’inevitabile: i senatori avevano in mente questioni ben più preoccupanti del suo «fronzolo», come egli stesso talvolta lo definiva; rinunciò ai suoi sogni di trionfo e si unì a Pompeo. Anche quando fece rientro da quei poco gloriosi mesi passati in prima linea, si trovava ancora di fronte alle rotture personali, le incertezze e la diffusa violenza che erano parte integrante e quotidiana della grande storia della guerra civile. Ci fu qualche contrasto con suo fratello Quinto, il quale sembrava intenzionato a fare la pace con Cesare parlando male di Cicerone. Ci furono sospetti sull’uccisione in Grecia di un suo amico, tenace avversario di Cesare, che in una rissa scoppiata dopo una cena era stato accoltellato a morte allo stomaco e dietro l’orecchio. Si trattava, come sospettava Cicerone, semplicemente di una disputa personale per questioni di denaro, essendo ben noto che l’assassino era a corto di soldi? Oppure dietro questa morte c’era stata la mano di Cesare? Anche tralasciando la violenza, riuscire a giocare bene le proprie carte e mantenere buoni rapporti con lo schieramento vincente poteva rivelarsi alquanto increscioso e seccante. E lo fu ancora di più quando, un paio d’anni dopo, Cicerone dovette ospitare a cena Cesare in una delle sue ville prospicienti il golfo di Napoli, dove molti ricchi romani avevano i propri lussuosi rifugi dalla frenesia della città. In una lettera scritta all’amico Attico verso la fine del 45 a.C. descrive ironicamente tutte le difficoltà e i fastidi che ciò comportò, fornendoci anche una delle immagini più vive rimasteci di Cesare non in veste ufficiale (e un momento particolarmente favorevole della carriera di Cicerone, secondo Gore Vidal). Cesare viaggiava con un battaglione di almeno duemila soldati di guardia e di scorta, un onere davvero pesante anche per il più generoso e tollerante dei padroni di casa: «Eccoti spiegata una visita, ovvero una sorta di acquartieramento di truppe in una casa privata», come scrisse lo stesso Cicerone. E a questo si aggiungeva il largo seguito di schiavi ed ex schiavi che accompagnavano Cesare. Cicerone racconta di avere fatto allestire tre sale da pranzo per il solo personale di rango più alto e di avere preso speciali disposizioni per accogliere tutti gli

altri, scendendo progressivamente di rango. Cesare fece un bagno e una seduta di massaggi, poi si distese sul triclinio per cenare, secondo la tipica moda romana. Cesare aveva molto appetito, anche perché si era appena sottoposto a un ciclo di emetici (un consueto metodo di disintossicazione tra i ricchi romani, che includeva regolari vomitate); e preferì discorrere piacevolmente di letteratura piuttosto che impegnarsi in argomenti di carattere più «serio» (cfr. tavola 14). Cicerone non ci dice, e forse nemmeno comprese, come i suoi stessi schiavi e il suo personale domestico abbiano gestito questa invasione, ma si congratula con se stesso per la serata ben riuscita, anche se non si augurava certo una replica: «Il mio ospite non era tale da potergli dire: “Ti prego di venire di nuovo a casa mia, quando ritornerai da queste parti”. Una sola volta è già abbastanza». L’unica cosa che si può osservare è che intrattenere un Pompeo vittorioso sarebbe stato quasi certamente un impegno altrettanto oneroso. Le lettere di Cicerone ci rivelano che le difficoltà della guerra e l’onere di ospitare un dittatore erano soltanto una parte dei suoi problemi in quel tempo. Nel periodo che va dall’attraversamento del Rubicone all’assassinio di Cesare nelle idi di marzo del 44 a.C., la famiglia di Cicerone si frantumò. In quei cinque anni, Cicerone divorziò da Terenzia, sua moglie da trent’anni, e si risposò poco dopo. Cicerone aveva sessant’anni e la sua nuova sposa, Publilia, appena quindici: la relazione durò solo qualche settimana, e poi Cicerone la rimandò da sua madre. Nel frattempo, sua figlia Tullia aveva divorziato dal suo terzo marito, Publio Cornelio Dolabella, un fedele sostenitore di Cesare. Al momento del divorzio, Tullia era incinta, e morì all’inizio del 45 a.C., poco dopo avere partorito un figlio, che non le sopravvisse a lungo. Anche il figlio che aveva avuto precedentemente da Dolabella era nato prematuro ed era morto dopo appena qualche settimana di vita. Cicerone sprofondò nel dolore, cosa che non aiutava certo la relazione con la sua nuova sposa, e si ritirò in solitudine in una delle sue ville più isolate per decidere come commemorare sua figlia, impegnato quasi da subito a pensare al modo migliore per accordarle una sorta di status divino: come scrisse lui stesso, voleva assicurarle una «apoteosi».

Mariti e mogli Il matrimonio romano era, in sostanza, una procedura semplice e privata. A differenza di quanto accade oggi, lo stato vi svolgeva soltanto un piccolo ruolo. Nella maggior parte dei casi, un uomo e una donna erano ritenuti sposati se dichiaravano di esserlo, e cessavano di essere sposati se entrambi (o anche solo uno dei due) dichiaravano di non esserlo più. Questo, più qualche festicciola per celebrare l’unione, era probabilmente tutto quanto serviva per la maggior parte dei cittadini romani. Per i più ricchi, si organizzavano spesso cerimonie più formali e dispendiose, che avevano uno svolgimento piuttosto consueto per questi riti di passaggio: abiti particolari (la sposa tradizionalmente vestiva di giallo), canti e processioni, e il trasporto della nuova consorte oltre la soglia della casa del marito. Nel caso dei ricchi avevano grande importanza anche considerazioni economiche, in particolare la dote che doveva fornire il padre della sposa, e che doveva essere restituita in caso di divorzio. Uno dei problemi di Cicerone in questo periodo fu proprio il fatto di dovere rimborsare la dote di Terenzia, mentre lo squattrinato Dolabella, a quanto pare, non aveva restituito quella di Tullia, o almeno non integralmente. In compenso, il matrimonio con la giovane Publilia gli avrebbe assicurato una cospicua fortuna. A Roma, come in tutte le altre civiltà del passato, lo scopo essenziale del matrimonio era la procreazione di figli legittimi, che ereditavano automaticamente lo status di cittadini romani se entrambi i genitori lo erano o se soddisfacevano le molteplici condizioni che regolavano il matrimonio con stranieri. È proprio questo ciò che sta al fondo della storia del ratto delle sabine, che presenta il primo matrimonio avvenuto nella nuova città come una forma di «legittimo rapimento» a scopo di procreazione. Lo stesso messaggio è continuamente ripetuto sulle stele funerarie di mogli e madri per tutto il corso della storia romana. Un epitaffio scritto verso la metà del II secolo a.C., per commemorare una donna chiamata Claudia, descrive perfettamente questa immagine tradizionale: «Qui sta la non graziosa tomba di una donna graziosa ... Amò suo marito con tutto il suo cuore e gli diede due figli. Parlava in modo aggraziato e aveva un portamento elegante. Amministrò la casa e filò la lana. Questo è tutto quel che c’è da dire». Il ruolo della donna, in altre parole, era quello di essere devota al proprio marito, di amministrare con

cura la casa e di contribuire all’economia domestica con lavori di filatura e tessitura. Altri epitaffi elogiano donne che erano rimaste fedeli per tutta la vita al proprio unico marito, ed esaltano le virtù «femminili» della castità e della fedeltà. È evidente il contrasto con gli epitaffi di Scipione Barbato e dei suoi discendenti maschi, nei quali figurano in primo piano le gesta militari, le magistrature rivestite e l’importanza nella vita pubblica. È impossibile stabilire con certezza fino a che punto questa immagine della moglie romana sia più un pio desiderio che un’accurata riproduzione della realtà sociale. A Roma c’era senza dubbio molta nostalgia, spesso espressa a gran voce, per la severità dei tempi andati, quando le mogli erano fatte rimanere al proprio posto. «Egnazio Metello prese una mazza e bastonò a morte sua moglie perché aveva bevuto del vino» scrive, con evidente approvazione, un autore del I secolo d.C. riferendosi a un episodio completamente mitico che risaliva ai tempi del regno di Romolo. Persino l’imperatore Augusto sfruttò a proprio vantaggio l’immagine tradizionale della lavorazione della lana, in una sorta di equivalente antico delle foto di rappresentanza, facendo posare sua moglie Livia davanti al telaio nella sala frontale della loro casa, alla vista di tutti. Ma è molto più probabile che questa severità dei tempi antichi fosse, almeno in parte, il frutto dell’immaginazione dei moralisti di epoche successive, nonché un utile appiglio per i romani che cercavano di affermare le loro tradizionali credenziali. Non meno problematica è l’immagine concorrente, affermatasi nel I secolo a.C., di una nuova donna emancipata, che apparentemente poteva condurre una libera vita sociale e sessuale, spesso adultera, senza particolari vincoli da parte del marito, della famiglia o della legge. Alcune di queste nuove figure femminili erano convenientemente relegate nel mondo separato delle attrici, delle accompagnatrici e delle prostitute, come nel caso di una celebre ex schiava, Volumnia Citeride, della quale si diceva che fosse stata l’amante sia di Bruto sia di Marco Antonio, andando così a letto con l’assassino di Cesare e con il suo più fedele sostenitore. Ma molte altre erano mogli o vedove di illustri senatori romani.

49. Pittura murale romana che raffigura una scena idealizzata di un antico matrimonio, mescolando figure umane e divine. Al centro si trova la sposa velata, sul suo nuovo letto coniugale, incoraggiata dalla dea Venere, seduta accanto a lei. Al letto si appoggia un’equivoca figura del dio Hymen, una delle divinità preposte alla protezione del matrimonio. A sinistra, alcune donne preparano il bagno per la novella sposa.

La più tristemente celebre di tutte fu Clodia, sorella di Clodio, l’acerrimo nemico di Cicerone, moglie di un senatore morto nel 59 a.C. e amante del poeta Catullo, e di molti altri ancora. Girava voce che persino la stessa Terenzia avesse avuto qualche sospetto sulle relazioni di Cicerone con la sorella di Clodio. Clodia è stata di volta in volta criticata o ammirata come una promiscua tentatrice, una diabolica manipolatrice, un’eroina divinizzata e una folle criminale. Per Cicerone era «la Medea del Palatino», formula che collegava astutamente la strega omicida della tragedia greca con il luogo di residenza di Clodia a Roma. Catullo, nelle sue poesie, si riferisce a lei chiamandola Lesbia, non solo per celarne l’identità ma anche per richiamarsi alla poetessa greca Saffo, originaria dell’isola di Lesbo: «Viviamo, Lesbia mia, ed amiamoci, / e i brontolii dei vecchi austeri / valutiamoli, tutti insieme, due soldi / ... / Dammi mille baci, e poi cento...», per citare l’inizio di una sua celebre poesia. Per quanto vivaci e variopinte, queste testimonianze non possono essere prese alla lettera. Si tratta, da un lato, di semplici fantasie erotiche e, dall’altro, di un riflesso classico di comuni ansie patriarcali. Per tutto il corso della storia, alcuni uomini hanno giustificato il proprio dominio sulle donne alimentando e allo stesso tempo denunciando un’immagine di

donna pericolosa e trasgressiva, i cui crimini, promiscuità sessuale (con i conseguenti scomodi interrogativi sulla paternità dei figli) e irresponsabile ubriachezza, in larga misura immaginari, dimostrano la necessità di un severo controllo da parte degli uomini. La storia dell’inflessibile comportamento di Egnazio Metello con la moglie leggermente brilla e le voci sulle selvagge feste di Clodia sono due facce della stessa medaglia. Inoltre, in molti casi le fosche descrizioni di criminalità, potere ed eccessi femminili spesso non riguardavano in realtà le donne che affermano di descrivere, ma diventavano veicoli per un dibattito su qualcosa di alquanto diverso. Quando descrive alcune donne che avrebbero avuto un ruolo di primo piano nella congiura di Catilina, Sallustio le presenta come spaventosi simboli dell’immoralità decadente della società che aveva prodotto Catilina. «Nessuno era in grado di dire se facesse meno caso del denaro o della reputazione», dice a proposito della moglie di un senatore, e madre di uno degli assassini di Cesare, come a esemplificare ciò che lo storico considerava lo spirito dell’epoca. Quanto a Cicerone, sfruttò con successo Clodia come bersaglio diversivo in una complicata causa in cui difendeva dall’accusa di omicidio uno dei suoi più loschi giovani amici, il quale era anche un ex amante della matrona. È proprio dal discorso che pronunciò in quell’occasione che proviene la maggior parte dei dettagli più riprovevoli sul comportamento di Clodia: dai suoi innumerevoli tradimenti alle scatenate feste degenerate in orge. Cicerone cercava di discolpare il suo cliente discreditando una gelosa Clodia, facendo di lei uno zimbello e la principale responsabile. È senz’altro difficile immaginarsi Clodia nei panni di una moglie e poi vedova di immacolata fedeltà e sempre chiusa tra le mura domestiche; ma non è affatto detto che, se avesse letto la descrizione che di lei aveva fatto Cicerone, vi si sarebbe davvero riconosciuta. È chiaro, comunque, che le donne romane, nel complesso, godevano di un’indipendenza nettamente maggiore rispetto alle donne della Grecia classica o del Vicino Oriente, per quanto possa oggi sembrare limitata. Il contrasto è particolarmente netto con l’Atene classica, dove le donne delle famiglie ricche dovevano condurre una vita reclusa, lontana da qualsiasi sguardo, di fatto segregata dagli uomini ed esclusa dalla vita sociale maschile (i poveri, inutile dirlo, non avevano i soldi o lo spazio per una tale separazione). C’erano, senza dubbio, fastidiose restrizioni per le donne anche a Roma: l’imperatore Augusto, per esempio, le relegò nelle file posteriori dei teatri e delle arene gladiatorie; nelle terme pubbliche, le zone

per le donne erano di solito molto più anguste di quelle riservate agli uomini; e, in pratica, le attività maschili occupavano probabilmente le aree più eleganti di una casa romana. Ma le donne non erano costrette a essere pubblicamente invisibili, e la vita domestica non sembra essere stata formalmente separata in spazi maschili e spazi femminili, con zone reciprocamente interdette. Di norma le donne cenavano insieme agli uomini, e non soltanto le prostitute, le accompagnatrici e le intrattenitrici che facevano compagnia agli uomini nei banchetti dell’Atene classica. Così, uno dei primi misfatti di Verre nacque proprio da questa differenza tra costumi greci e romani. Negli anni Ottanta del I secolo a.C., più di un decennio prima del suo governatorato in Sicilia, mentre prestava servizio in Asia Minore, Verre e il suo staff si fecero invitare a cena da uno sfortunato greco, e dopo aver bevuto una notevole quantità di alcol gli chiesero di chiamare la figlia. L’uomo si scusò dicendo che in Grecia le donne rispettabili non cenavano in compagnia degli uomini, ma i romani si rifiutarono di credergli e si misero a cercarla. Scoppiò una rissa, nel corso della quale una delle guardie del corpo di Verre rimase uccisa e il padrone di casa fu colpito con dell’acqua bollente; poco tempo dopo, venne condannato a morte e giustiziato per omicidio. Cicerone racconta questo incidente in toni alquanto bizzarri, quasi come una replica dello stupro di Lucrezia. Ma era stato causato anche da una serie di fraintendimenti, ulteriormente aumentati dall’ebbrezza, sulle convenzioni del comportamento femminile attraverso i confini culturali dell’impero. Una parte dei regolamenti giuridici che in questo periodo definivano il matrimonio e i diritti delle donne è il riflesso di questa relativa libertà. C’erano, effettivamente, alcune dure misure affermate sulla carta. Che un tempo un uomo avesse il diritto di bastonare a morte sua moglie per il «reato» di avere bevuto un bicchiere di vino può non essere stato altro che un mito nostalgico. Ma diverse testimonianze indicano che un marito aveva tecnicamente il diritto giuridico di mettere a morte la moglie colta in flagrante adulterio. Tuttavia, non si conosce nemmeno un solo esempio di una simile decisione, e i dati in nostro possesso ci portano in un’altra direzione. La donna non assumeva il nome del marito, e non era interamente sottoposta alla sua autorità giuridica. Dopo la morte del proprio padre, una donna adulta poteva possedere legalmente proprietà, comprare e vendere, ereditare, fare testamento e liberare schiavi: diritti che in Gran Bretagna le donne hanno conquistato soltanto negli anni Settanta

del XIX secolo. L’unica restrizione riguardava la presenza obbligatoria di un tutore (tutor), incaricato di approvare ogni decisione o transazione che la donna avesse intenzione di fare. È impossibile verificare se Cicerone, quando attribuì questa disposizione alla intrinseca «debolezza di giudizio» delle donne, fosse animato da un sentimento paternalistico o misogino o se invece (come gli concedono generosamente alcuni critici) stesse soltanto scherzando. Ma non c’è sicuramente il benché minimo indizio che ciò abbia mai creato ostacoli a sua moglie: che fosse impegnata a vendere una serie di case per raccogliere soldi da mandare a Cicerone in esilio o a riscuotere le rendite delle sue proprietà, non viene mai menzionato alcun tutor. Infatti, una delle riforme attuate da Augusto verso la fine del I secolo a.C. (o all’inizio di quello successivo) fu proprio quella di esentare dalla supervisione del tutor le cittadine di nascita libera che avevano avuto almeno tre figli (le donne ex schiave dovevano averne avuti quattro per ottenere lo stesso diritto). Fu un’intelligente applicazione di tradizionalismo radicale: concedeva alle donne nuove libertà, ma soltanto se avevano adempiuto al loro dovere tradizionale. Stranamente, le donne godevano di molta meno libertà quando si trattava del matrimonio. In primo luogo, non avevano la possibilità di scegliere se sposarsi o rimanere nubili. La regola fondamentale era che tutte le donne di nascita libera dovevano sposarsi. Non esistevano zitelle, e soltanto dei gruppi speciali, come quello delle vergini vestali, potevano scegliere di rimanere nubili (o vi erano costretti). Cosa ancora più importante, la libertà nella scelta del marito poteva essere molto limitata, sicuramente tra i ricchi e i potenti, i cui matrimoni erano regolarmente combinati per cementare alleanze, di carattere politico, sociale o finanziario. Ma sarebbe davvero ingenuo immaginarsi che la figlia di un contadino intenzionato a fare un affare con un suo vicino, o la schiava che veniva liberata per essere data in moglie al proprio ex proprietario (una pratica piuttosto diffusa), avessero molta voce in capitolo. Nel tardo periodo repubblicano le alleanze matrimoniali furono alla base di alcuni decisivi sviluppi della politica romana. Nell’82 a.C., per esempio, Silla cercò di assicurarsi la fedeltà di Pompeo «dandogli» in moglie la sua figliastra, benché fosse allora già sposata con un altro uomo e incinta; ma l’affare non andò in porto, perché la povera donna morì poco dopo durante il parto. Vent’anni più tardi, Pompeo sigillò il suo accordo con Cesare nella Banda dei Tre sposandone la figlia Giulia. Per Cicerone e sua figlia Tullia la

posta in gioco non era altrettanto alta, ma è chiaro che il consolidamento e le buone relazioni della famiglia rimasero sempre una preoccupazione di Cicerone, sebbene le cose non andassero necessariamente nel senso da lui sperato. Trovare un marito per Tullia era, per sua stessa ammissione, la cosa che più lo preoccupava quando, nel 51 a.C., lasciò Roma per recarsi nella provincia della Cilicia. Dopo due brevi matrimoni senza figli con uomini di illustri famiglie, il primo finito per il decesso del marito e il secondo per divorzio, bisognava trovarle un terzo marito. In questo caso le lettere di Cicerone ci offrono un quadro vivace dei negoziati, con un’ampia lista di candidati più o meno appetibili. Uno non sembrava essere intenzionato a fare una proposta seria; un altro era di buone maniere; di un terzo scrisse sconsolatamente «dubito che la nostra figliola possa essere persuasa», riconoscendo che Tullia aveva qualche voce in capitolo. Ma le comunicazioni erano un grave problema. Poiché occorrevano circa tre mesi per recapitare una lettera dalla Cilicia fino a Roma e altrettanti per il viaggio inverso, Cicerone aveva grosse difficoltà a controllare lo sviluppo delle contrattazioni e fu sostanzialmente costretto a lasciare la decisione finale nelle mani di Terenzia e Tullia. Le quali non scelsero nessuno dei suoi candidati preferiti, ma il recentemente divorziato Dolabella, uomo con impeccabili credenziali aristocratiche, nonché, secondo i racconti romani, un’affascinante canaglia, un seduttore inveterato e particolarmente basso di statura. «Chi ha legato mio genero alla sua spada?», è una delle più celebri battute di Cicerone. Questo tipo di matrimoni combinati non significava necessariamente un’unione grigia e senza sentimenti. Si è sempre ripetuto che Pompeo e Giulia fossero molto legati l’uno all’altra, che nel 54 a.C. Pompeo fu dilaniato dal dolore per la sua morte durante il parto, e che proprio questa morte fu una delle cause della rottura politica fra Pompeo e Cesare. Il matrimonio, in altre parole, ebbe fin troppo successo rispetto allo scopo per cui era stato contratto. Molte delle prime lettere scritte da Cicerone a Terenzia, che probabilmente aveva sposato con un analogo matrimonio combinato, sono piene di espressioni di appassionata devozione e di amore, qualsiasi sentimento vi si potesse nascondere dietro: «Vita mia, mia sola nostalgia, a cui tutti solevano rivolgersi per avere un aiuto! E ora, Terenzia mia, saperti così tormentata, così afflitta nel pianto e nell’umiliazione!» le scrisse nel 58 a.C. dal suo esilio. Viceversa, non mancano neppure ricche testimonianze di dispute

coniugali, risentimenti e delusioni. Tullia scoprì presto che Dolabella era più canaglia che affascinante, e nel giro di appena tre anni la coppia si separò. Ma, nella cerchia di Cicerone, il matrimonio senza dubbio più disgraziato di tutti fu quello di suo fratello Quinto con Pomponia, sorella di Attico, il grande amico di Cicerone. Prevedibilmente, e forse ingiustamente, le lettere di Cicerone gettano quasi tutta la colpa sulla moglie, ma ci offrono anche un’immagine affatto moderna dei motivi di dissidio. Una volta, quando, di fronte a tutti gli invitati, Pomponia improvvisamente sbraitò: «Io, per l’appunto la padrona di casa, qui sono un’invitata!», Quinto replicò con la più classica delle lamentele: «Eccoci al punto: io ogni giorno devo sopportare di questi scatti». Dopo venticinque anni di simili strazi, decisero finalmente di divorziare. Quinto avrebbe osservato: «Non esiste nulla di più piacevole di un letto “celibe”». La reazione di Pomponia non ci è nota. A ogni modo, è il secondo, breve, matrimonio di Cicerone con Publilia, allora nemmeno quindicenne, a risaltare più di ogni altro. Cicerone e Terenzia avevano divorziato, probabilmente all’inizio del 46 a.C. Quali che fossero le principali ragioni della separazione (e gli scrittori romani si lanciarono in ogni sorta di fantasiose speculazioni in proposito), l’ultima lettera a lei indirizzata a noi nota, scritta da Cicerone nell’ottobre del 47 a.C., indica che i loro rapporti erano cambiati. Appena poche scarne righe a una moglie che non vedeva da due anni (in parte perché si era unito alle forze di Pompeo in Grecia), ridotte a un paio di istruzioni relative al suo imminente arrivo. «Se nel bagno non c’è una vasca, che si provveda» è il nocciolo essenziale. Appena un anno più tardi, dopo avere considerato altre possibilità (compresa la figlia di Pompeo e una donna che reputava «la più brutta che abbia mai visto»), Cicerone sposò una ragazza che aveva almeno quarantacinque anni meno di lui. Era una cosa consueta? Un matrimonio all’età di quattordici o quindici anni non era cosa fuori dal comune per una ragazza romana. Tullia fu promessa al suo primo marito quando aveva undici anni e lo sposò quando ne aveva quindici: quando, nel 67 a.C., Cicerone scrive di avere promesso «la cara piccola Tullia a Gaio Calpurnio Pisone», la parola piccola va intesa alla lettera. Attico pensava già a un futuro marito quando sua figlia aveva appena sei anni. Ci si può aspettare che l’aristocrazia abbia combinato alleanze matrimoniali tra giovanissimi membri delle proprie famiglie. Ma anche gli epitaffi della gente comune ci fanno conoscere molte ragazze date in spose quando avevano quindici anni, e talvolta addirittura dieci o undici. Se questi

matrimoni venissero consumati o meno è una domanda inquietante, alla quale non siamo in grado di rispondere. Analogamente, sembra che gli uomini si sposassero per la prima volta tra i venticinque e i trent’anni, generalmente con una differenza d’età di circa dieci anni per il primo matrimonio; e alcune giovani spose si saranno trovate maritate a uomini ancora più anziani al loro secondo o terzo matrimonio. Malgrado la relativa libertà di cui godevano le donne romane, la loro sottomissione era senza dubbio garantita da questo squilibrio tra un uomo adulto e quella che oggi chiameremmo una sposa-bambina. Detto questo, una differenza di quarantacinque anni suscitava perplessità persino a Roma. Perché Cicerone aveva fatto questa scelta? Era soltanto una questione di denaro? Oppure, come sosteneva Terenzia, c’era anche la sciocca infatuazione di un uomo anziano? In effetti, dovette rispondere a domande molto dirette su perché mai avesse deciso di sposare una giovane vergine. Si diceva che, il giorno stesso del matrimonio, rispose così a una di queste domande: «Non preoccupatevi, domani sarà una donna adulta [mulier]». L’antico autore che citò questa risposta la ritenne un modo brillante di allontanare le critiche e degna di ammirazione. Noi la collocheremmo più probabilmente a metà strada fra spiacevolmente grossolana e dolorosamente cupa: in ogni caso, segna in profondità la grande distanza che separa il nostro mondo da quello dell’antica Roma.

50. Lapide funeraria romana di marito e moglie (I secolo a.C.), entrambi ex schiavi. Sulla sinistra, il marito, Aurelius Hermia, si presenta come un macellaio del Viminale; sulla destra, sua moglie, Aurelia Philematium, è definita «casta, modesta, e non toccata da pettegolezzi». Colpisce la loro differenza di età: si erano incontrati quando lei aveva appena sette anni, e, come dice il testo, il suo futuro marito «l’aveva presa sulle sue ginocchia».

Nascita, morte e lutto La tragedia colpì quasi immediatamente il nuovo matrimonio di Cicerone. Tullia morì subito dopo avere partorito il figlio concepito con Dolabella. Cicerone sembra essere stato talmente paralizzato dal dolore da non poter fare altro che ritirarsi, senza Publilia, nella sua villa sull’isoletta di Astura, poco a sud di Roma. Aveva sempre avuto un rapporto molto stretto con Tullia, anzi, fin troppo intimo, se si crede ai selvaggi pettegolezzi messi in circolazione da alcuni suoi nemici, i quali applicavano la tipica tattica romana di attaccare i propri avversari puntando il dito sulla loro vita sessuale. Era senz’altro un rapporto più stretto di quello che aveva con il fratello minore di Tullia, Marco, il quale, in aggiunta ad altre debolezze di minor conto, sembra non avere mai atteso alle conferenze filosofiche o partecipato alla vita intellettuale di Atene, dove suo padre lo aveva mandato a istruirsi. Con la morte di Tullia, Cicerone sentiva di avere perduto la sola cosa che lo teneva legato alla vita. La procreazione era un dovere pericoloso. Il parto rimase sempre la principale causa di morte per le giovani donne romane, dalle mogli dei senatori fino alle schiave. Conosciamo migliaia di casi, da persone di alto rango come Tullia e Giulia, la moglie di Pompeo, a donne comuni commemorate dai loro addolorati mariti e familiari su stele funerarie provenienti da tutto l’impero. Un uomo residente in Nordafrica ricorda sua moglie, che «visse per trentasei anni e quaranta giorni. Era al suo decimo parto. Tre giorni dopo la nascita del bambino morì». Un altro uomo, in quella che è oggi la Croazia, eresse un semplice monumento in memoria della «sua compagna di schiavitù» (e probabilmente sua amante), che «rimase in agonia quattro giorni per partorire, ma non vi riuscì e perse la vita». Per inserire questi dati in una prospettiva più ampia, possiamo osservare che le statistiche relative a periodi più recenti indicano che circa una donna su cinquanta aveva la probabilità di morire durante il parto, e la percentuale aumentava se si trattava di una ragazza molto giovane. Morivano per tutti i diversi problemi connessi al parto che la moderna medicina occidentale ha quasi completamente eliminato, dalle emorragie alle occlusioni e alle infezioni (sebbene la mancanza di ospedali, dove, come nel caso dell’inizio dell’età moderna in Europa, le infezioni si trasmettono facilmente da una donna all’altra, avesse ridotto in qualche

modo quest’ultimo rischio). La maggior parte delle donne si affidava all’aiuto di levatrici. Al di là di questo, l’intervento di un’ostetrica probabilmente non faceva altro che aumentare i rischi. I parti cesarei, che, nonostante un mito ancor oggi persistente, non hanno nulla a che fare con Giulio Cesare, si eseguivano soltanto per estrarre un feto ancora vivo da una donna morta o sul punto di morire. Nel caso in cui il nascituro fosse rimasto bloccato all’interno dell’utero, alcuni dottori raccomandavano di inserirvi un coltello e fare a pezzi il feto: procedimento al quale ben poche donne sarebbero riuscite a sopravvivere. La gravidanza e il parto devono avere dominato la vita di quasi tutte le donne, comprese quelle che gli scrittori romani decisero di presentare come spensierate libertine. Qualcuna sarà stata particolarmente angosciata dalla sua incapacità di rimanere incinta o di portare a termine una gravidanza. I romani attribuivano sempre alla donna la colpa della mancanza di figli in una coppia, e questa era una delle più tipiche ragioni di divorzio. Si può supporre (ma non è altro che un’ipotesi moderna) che proprio per questo motivo il suo secondo marito abbia voluto divorziare da Tullia, che non riuscì a dare alla luce un figlio fino a quando non fu quasi trentenne. Per la maggior parte delle donne, comunque, era normale affrontare decenni di gravidanze, senza alcun modo affidabile per evitarle, fatta eccezione per l’astinenza sessuale. Esistevano alcuni rozzi e pericolosi metodi per abortire. Un prolungato allattamento poteva ritardare la possibilità di una nuova gravidanza per le donne che non si servivano di nutrici, come invece facevano molte benestanti. E si consigliava una grande varietà di preparati e strumenti contraccettivi, alcuni del tutto inutili (farsi ricoprire da vermi che si trovano nella testa di una particolare specie di ragno peloso) e altri in qualche modo efficaci (inserzione nella vagina di qualsiasi sostanza appiccicosa). Ma quasi tutti gli sforzi contraccettivi erano neutralizzati dal fatto che, secondo la scienza antica, i giorni successivi alla conclusione del ciclo mestruale erano quelli più fertili, mentre è vero esattamente il contrario.

51. Una levatrice romana del porto di Ostia è raffigurata all’opera su una lastra di terracotta proveniente dalla sua tomba. La donna partorisce su una sedia, e la levatrice è inginocchiata davanti a lei per prendere il neonato.

I bambini partoriti con successo andavano subito incontro a rischi ancora più fatali di quelli che minacciavano le loro madri. I neonati che sembravano deboli o disabili venivano «esposti», che spesso significava essere abbandonati su un mucchietto di spazzatura. I figli non desiderati subivano la stessa sorte. Alcune testimonianze fanno supporre che, in generale, le femmine fossero meno desiderate dei maschi, in parte a causa del costo della dote, che costituiva un onere gravoso per il bilancio di una famiglia relativamente modesta. In una lettera su papiro proveniente dall’Egitto romano, un marito scrive alla moglie incinta, dicendole di allevare il nascituro se maschio, ma di sbarazzarsene se femmina. Con

quale frequenza ciò avvenisse, e quale fosse la precisa proporzione delle vittime di sesso femminile rispetto a quelle di sesso maschile, è materia di ipotesi, ma era comunque una pratica abbastanza frequente, visto che i cumuli di rifiuti erano considerati un luogo dove procurarsi gratuitamente degli schiavi. I pericoli non terminavano nemmeno per i bambini che si decideva di allevare. Secondo la stima più verosimile (basata principalmente su statistiche relative a popolazioni di epoche successive con condizioni di vita analoghe), circa la metà dei bambini moriva entro il decimo anno d’età, per ogni genere di malattie e infezioni, comprese le comuni malattie infantili oggi non più mortali. Questo significa che, sebbene alla nascita l’aspettativa media di vita non dovesse superare i venticinque anni, un bambino che oltrepassava la soglia dei dieci anni poteva attendersi una durata di vita non molto diversa dalla nostra. In base a questa medesima stima, un ragazzo di dieci anni avrebbe avuto in media ancora quarant’anni da vivere, e un uomo di cinquant’anni poteva aspettarsi di viverne altri quindici. Nell’antica Roma gli anziani non erano così rari come ci potremmo immaginare. Ma l’elevato tasso di mortalità fra i più giovani aveva anche concrete conseguenze per le gravidanze delle donne e le dimensioni della famiglia. Soltanto per mantenere costante il livello della popolazione, ogni donna doveva partorire in media cinque o sei figli. In pratica, questo porta il numero quasi a nove, non appena si tenga conto di altri fattori, come la sterilità e la vedovanza. Non erano certo condizioni favorevoli a una diffusa emancipazione femminile. Quali erano le ripercussioni di questi tassi di nascita e mortalità sugli affetti all’interno della famiglia? Si è talvolta sostenuto che, data l’elevata mortalità nei bambini, i genitori evitavano un profondo coinvolgimento emotivo nei loro confronti. Una tipica, e agghiacciante, immagine del padre nella letteratura romana pone in risalto il controllo esercitato sui figli, non il suo affetto, dilungandosi sulle terribili punizioni che poteva infliggere per la loro disubbidienza, fino al punto di metterli a morte. Non c’è, tuttavia, quasi nessun indizio concreto in tal senso. È vero che un bambino appena nato poteva non essere considerato una vera e propria persona fino a quando non fosse stata presa la decisione di allevarlo e fosse stato ufficialmente accolto entro la famiglia; si spiega così, almeno in parte, l’atteggiamento apparentemente indifferente nei confronti di quello che noi chiameremmo infanticidio. Ma le migliaia e migliaia di commoventi epitaffi fatti incidere da genitori in memoria di loro giovani figli morti

prematuramente non mostrano affatto una mancanza di affetto. Ecco le parole incise su una lapide trovata in Nordafrica: «La mia piccola bambola, la mia adorata Mania, giace sepolta qui. Solo per pochi anni ho potuto darle il mio amore. Ora suo padre piange continuamente per lei». Anche Cicerone, nel 45 a.C., pianse a lungo per la morte di Tullia, sfogando il proprio dolore ed esponendo i propri progetti per la sua commemorazione in una straordinaria serie di lettere indirizzate ad Attico.

52. Un antico divaricatore vaginale romano, straordinariamente simile a quelli moderni. Ma le concezioni che avevano i romani del corpo femminile e del suo ciclo riproduttivo erano completamente diverse dalle nostre, dal modo in cui avveniva il concepimento a quello con cui poteva essere evitato (o favorito).

Non sappiamo nulla di preciso sulla morte di Tullia, tranne che avvenne nella villa di Cicerone a Tuscolo, appena fuori Roma; e nulla sappiamo del suo funerale. Cicerone si ritirò quasi immediatamente nella solitudine del suo rifugio sull’isola di Astura, dove si mise a leggere tutti i testi filosofici che riusciva a procurarsi sul tema del dolore e della consolazione per la perdita di propri cari, e scrisse persino un trattato sul lutto per se stesso, prima di decidere, dopo un paio di mesi, che sarebbe dovuto tornare nella casa dove Tullia era morta («Penso che vincerò me stesso ... e mi dirigerò nella villa di Tuscolo. Il fatto sta così: o devo fare a meno per sempre di quella proprietà terriera ... o non so quale differenza passi tra l’andare ora colà oppure di qui a dieci anni»). Ormai aveva già iniziato a incanalare il suo dolore nel progetto del monumento commemorativo, che non sarebbe stato una «tomba» bensì un «santuario» o un «tempio» (fanum, che in latino ha un significato esclusivamente religioso). Le principali preoccupazioni di Cicerone riguardavano il luogo in cui doveva sorgere, la sua rilevanza e il suo futuro mantenimento; ben presto progettò di acquistare una proprietà alla periferia della città, vicino a dove oggi si trova il Vaticano, e fece un preordine per alcune colonne. Il suo scopo, ribadiva, era l’apoteosi di Tullia. Con questo termine, Cicerone intendeva probabilmente l’immortalità in senso generico, senza pretendere una sua vera e propria assunzione tra le divinità; ma è comunque un’altra prova degli indistinti confini tra mortali e immortali che caratterizzavano il mondo romano, e di come i poteri e gli attributi divini fossero utilizzati per esprimere il prestigio e l’importanza di singoli individui. C’è, tuttavia, una certa ironia nel fatto che, pur essendo sempre più preoccupato, come molti suoi colleghi, per gli onori divini che venivano concessi a Cesare, Cicerone si desse da fare per conferire una sorta di status divino alla propria figlia defunta. Ma, alla fine, il progetto del santuario sfumò nel nulla, perché l’intera area del Vaticano venne prescelta per realizzare una parte ragguardevole del piano di sviluppo urbano concepito da Cesare, e il sito individuato da Cicerone non poté più essere utilizzato.

L’importanza del denaro Le ville di Astura e Tuscolo erano soltanto due delle circa venti proprietà che Cicerone possedeva in Italia attorno al 45 a.C. Alcune erano residenze molto eleganti. A Roma aveva una grande casa sulle pendici più basse del Palatino, ad appena un paio di minuti dal Foro, e tra i suoi vicini figuravano molti dei più illustri e ricchi rappresentanti dell’aristocrazia romana, compresa la stessa Clodia. Le altre sue case erano sparse per tutta la penisola, da Pozzuoli, nel golfo di Napoli, dove aveva ospitato Cesare in una cena piuttosto affollata, sino a Formia, più a nord, dove possedeva un’altra villa sul mare. Alcune erano piccole abitazioni o alloggi, strategicamente disposti sulle strade che conducevano alle sue più grandi e lontane residenze, dove poteva pernottare durante il viaggio senza essere costretto ad andare in qualche ostello poco raccomandabile o a importunare i propri amici. Altre, come la sua proprietà di famiglia ad Arpino, erano fattorie produttive, anche quando vi era annessa una lussuosa residenza. Altre ancora erano proprietà immobiliari date in affitto, come il fatiscente edificio da cui erano fuggiti persino i topi, che gli fruttavano notevoli guadagni; altri due grandi caseggiati di alloggi da affittare, nel pieno centro di Roma, ancora più redditizi, avevano fatto parte della dote di Terenzia e, nel 45 a.C., in seguito al divorzio, Cicerone dovette restituirli. Il valore complessivo delle sue proprietà si aggirava attorno ai tredici milioni di sesterzi. Agli occhi di un comune cittadino romano, era un patrimonio considerevole, sufficiente per sostenere venticinquemila famiglie povere per un intero anno o per garantire a più di trenta individui la ricchezza minima necessaria per essere eleggibile a una carica pubblica. Ma non poneva Cicerone nel Gotha dei super-ricchi. In un interessante brano sulla storia del lusso e delle esagerate spese di questi nuovi ricchi, Plinio il Vecchio ricorda che, nel 53 a.C., Clodio aveva comprato, per quindici milioni di sesterzi, la casa di Marco Emilio Scauro, un amico di Cicerone che, negli anni Sessanta del I secolo a.C., era stato un funzionario di Pompeo in Giudea, lasciando un ricordo di dubbia reputazione. Se ne sono ipoteticamente individuate le fondamenta, sempre sulle pendici del Palatino, vicino al punto dove oggi sorge l’arco di Tito: contiene circa una cinquantina di piccole stanze e un bagno, presumibilmente per gli schiavi; precedenti generazioni di archeologi le hanno fiduciosamente (ed

erroneamente) identificate come camere di un bordello nel pieno centro della città. A un livello ancora più alto, la casa di Crasso valeva duecento milioni di sesterzi: con una tale somma, avrebbe potuto finanziare senza problemi un proprio esercito. Nonostante qualche immaginoso tentativo, nessuna delle proprietà di Cicerone è stata identificata con certezza sul terreno. Ma possiamo farci comunque un’idea del loro aspetto dai suoi stessi racconti (inclusi i suoi progetti di miglioramenti) e dalle testimonianze archeologiche contemporanee. Le ricche residenze costruite dall’aristocrazia tardorepubblicana sul colle del Palatino sono perlopiù in pessimo stato di conservazione, per la semplice ragione che, nel corso del I secolo d.C., sopra di esse venne eretto il palazzo imperiale, presto destinato a dominare l’intero colle. Alcune delle tracce maggiormente ragguardevoli del periodo più antico provengono dalla cosiddetta «Casa dei Grifi». Sono conservate parecchie stanze di quello che doveva essere il piano terra di una imponente casa dell’inizio del I secolo a.C., ancora parzialmente visibili sotto le fondamenta delle posteriori strutture palaziali, con tanto di pareti dipinte con brillanti colori e semplici mosaici pavimentali. Nella pianta e nella decorazione, questa e altre case del Palatino non erano probabilmente molto diverse da quelle di Pompei ed Ercolano, assai meglio conservate. A proposito di queste residenze dell’aristocrazia romana, si tratti di senatori romani o di pezzi grossi locali in altre città, è importante sottolineare che non erano case private nel senso moderno del termine; non erano (o almeno non esclusivamente) un luogo in cui fuggire dagli sguardi pubblici. C’erano, senza dubbio, alcuni tranquilli rifugi, come quello di Cicerone ad Astura, e certe parti della casa avevano un carattere più privato di altre. Ma, per molti aspetti, l’architettura domestica serviva a promuovere la reputazione e l’immagine pubblica dei più illustri romani, ed era all’interno delle loro case che si svolgeva la maggior parte degli affari pubblici. L’atrium, o grande sala in cui entrava di solito un visitatore subito dopo avere superato la porta d’ingresso, era un punto di primaria importanza. Normalmente di volume doppio rispetto agli altri ambienti, a cielo aperto, sfarzosamente decorato con stucchi, pitture, sculture e prospiciente su magnifici panorami, faceva da sfondo a numerosi incontri tra il padrone di casa e una variegata moltitudine di subordinati, postulanti e clienti: da ex schiavi bisognosi di aiuto a rappresentanti di delegazioni straniere, come quella di Teo, che passavano da una casa all’altra per adulare i loro proprietari e persuaderli alla propria causa. Oltre all’atrio, una tipica casa romana

comprendeva altre stanze di ricevimento, sale da pranzo, stanze da letto (cubicula), passaggi coperti e giardini, se vi era spazio sufficiente; le pareti delle varie stanze erano decorate in conformità alla loro funzione, da grandi pannelli in pubblica vista fino a scene di carattere più intimo o erotico. Quanto più era accolto nelle parti meno pubbliche della casa, tanto più onorato era il visitatore. Gli affari con i colleghi e gli amici più stretti si potevano svolgere, come dicevano i romani, in cubiculo, ossia in una di quelle piccole e intime camere in cui si poteva anche dormire, ma che non corrispondono perfettamente alla nostra camera da letto. Era in una di queste stanze, possiamo supporre, che la Banda dei Tre stringeva i propri accordi.

53. Le fondamenta di un più recente edificio soprastante (visibili sulla destra) hanno sfondato quella che un tempo era stata una splendida stanza di una casa di epoca repubblicana, la «Casa dei Grifi», sul Palatino. Il nome deriva dalle figure di grifoni in stucco, una delle quali è visibile sul fondo. Il pavimento è decorato da un mosaico con un semplice motivo a losanga. Le pareti sono articolate in pannelli colorati, a imitazione del marmo. A lungo gli archeologi hanno pensato che questa fosse stata la casa di Catilina.

54. La pianta della «Casa del poeta tragico», a Pompei, fornisce una buona idea dell’aspetto di una casa romana di moderata ricchezza, tra il II e il I secolo a.C. L’entrata, piuttosto stretta, si incunea tra due negozi (a) che si affacciano sulla strada e conduce nella sala principale, chiamata atrium (b). Al di là della sala di ricevimento ufficiale (c) si trovavano una sala da pranzo (d) e un piccolo giardino colonnato (e). Tra le altre stanze, alcune delle quali al piano superiore, vi erano i cubicula, dove venivano accolti gli ospiti più importanti, per affari come per piacere.

La casa e la sua decorazione contribuivano a promuovere l’immagine del proprietario. Ma questo sfoggio doveva essere accuratamente equilibrato per evitare la possibile accusa di lusso eccessivo. Si alzarono molte sopracciglia, per esempio, quando Scauro decise di utilizzare per l’atrio della sua casa sul Palatino parte delle trecentottanta colonne che aveva fatto trasportare a Roma per decorare un teatro provvisorio che egli stesso aveva fatto allestire per alcuni spettacoli pubblici. Erano alte più di undici metri e in marmo luculleo, una varietà greca particolarmente preziosa, così chiamata dal nome di colui che per primo l’aveva fatta importare a Roma, Lucio Licinio Lucullo (l’immediato predecessore di Pompeo nella guerra contro Mitridate). Molti romani ritennero che Scauro avesse commesso un grave sbaglio facendo adornare la sua casa in uno stile eccessivamente lussuoso, più adeguato a monumenti pubblici. Sallustio non fu il solo a pensare che questa immorale stravaganza fosse in qualche modo all’origine di molti problemi di Roma. Nelle sue lettere, in molte occasioni, Cicerone appare preoccupato su come decorare appropriatamente le sue ville, su come proiettare un’immagine di sé quale uomo raffinato, colto e conoscitore della cultura greca, nonché, sebbene non sempre con successo, su come procurarsi le opere d’arte che gli servivano a tal fine. Un intricato problema che dovette affrontare nel 46 a.C. rivela alcune delle sue preoccupazioni. Un suo agente aveva acquistato a suo nome in Grecia una piccola collezione di statue, che, tuttavia, risultò troppo costosa (per lo stesso prezzo, spiega, avrebbe potuto comprare un appartamento) e non adatta a ciò che aveva in mente. Innanzitutto, c’era una statua del dio della guerra Marte, mentre Cicerone voleva presentarsi come il grande difensore della pace. Peggio ancora, c’era un gruppo di baccanti, le sfrenate, estatiche e ubriache seguaci del dio Bacco, che non potevano certamente essere utilizzate per decorare una biblioteca come Cicerone intendeva: in una biblioteca, spiegava, ci vogliono delle Muse, non delle baccanti. Non sappiamo se Cicerone sia riuscito a vendere queste statue, come si augurava, o se siano invece finite in un magazzino in qualcuna delle sue proprietà. Ma la vicenda è indicativa di come, a Roma, tanto gli spazi privati quanto quelli pubblici fossero affollati di opere d’arte, originali o copie, alimentando così un vivace commercio con il mondo greco. I resti materiali di questo commercio sono documentati dai carichi non giunti a destinazione, naufragati insieme alle navi romane che li trasportavano e ritrovati dagli archeologi sul fondo del Mediterraneo. Una delle scoperte più

stupefacenti è quella di una nave affondata, probabilmente attorno al 60 a.C. (a giudicare dalle monete ritrovate), tra Creta e la punta meridionale del Peloponneso, vicino all’isola di Antikythera (da cui deriva il nome moderno della scoperta: «il relitto di Antikythera»). Trasportava sculture di bronzo e di marmo, compresa una magnifica figurina di bronzo collocata su una base girevole a molla, mobilio di lusso, eleganti coppe di vetro e, soprattutto, il celebre «meccanismo di Antikythera»: un complicato strumento di bronzo con un meccanismo a orologio, apparentemente per calcolare i movimenti dei pianeti e altri eventi astronomici. Benché appaia eccessivo definirlo, come talvolta è stato fatto, il primo computer del mondo, doveva probabilmente essere destinato alla biblioteca di qualche appassionato scienziato romano.

55. Alcune sculture recuperate dal relitto di Antikythera trasmettono l’impressione di parziale disfacimento. Come nel caso di questo – un tempo magnifico – esempio, in alcune parti il marmo si è corroso, mentre in altre si è preservato in perfette condizioni, a seconda

di come si erano depositate sul fondo del mare e se erano state protette o meno da uno strato di sabbia.

Comunque, il rapporto fra i ricchi romani della tarda età repubblicana e le loro proprietà era, per certi aspetti, piuttosto curioso. Cicerone e i suoi amici si identificavano profondamente con le proprie case. Oltre alla disposizione attentamente curata di sculture e altre opere d’arte, nell’atrio delle case delle famiglie aristocratiche erano esposte le maschere in cera (imagines) degli antenati che venivano indossate durante le processioni funerarie. Sulle pareti dell’atrio di solito era dipinto l’albero genealogico della famiglia, e vi potevano essere appese anche le spoglie che il proprietario (o un suo antenato) aveva conquistato in battaglia, il simbolo supremo della gloria romana. Viceversa, se la fortuna politica girava, anche la casa poteva diventare un bersaglio. Quando, nel 58 a.C., Cicerone fu costretto ad andare in esilio, Clodio e i suoi scagnozzi distrussero la sua abitazione sul Palatino, e gravi danni subirono anche le sue ville di Formia e Tuscolo. E non era certo il primo ad avere subìto questo genere di punizione. In prossimità dell’inizio mitico di una lunga serie di tali casi, un politico radicale chiamato Spurio Melio, verso la metà del V secolo a.C., venne condannato a morte e giustiziato e la sua casa abbattuta dopo che – con una classica deduzione tipica dei conservatori romani – la sua generosità verso i poveri aveva destato il sospetto che ambisse alla tirannia. Per un altro aspetto, invece, il legame tra casa e famiglia era sorprendentemente blando. A differenza, per esempio, dell’aristocrazia britannica, che assegna tradizionalmente grande valore alla continuità nel possesso delle proprie residenze di campagna, l’élite romana comprava, vendeva e traslocava quasi in continuazione. È vero che Cicerone rimase legato ad alcune proprietà di famiglia ad Arpino; ma acquistò la sua casa sul Palatino soltanto nel 62 a.C., da Crasso, il quale l’aveva probabilmente comprata come investimento e non per farne la propria residenza. In precedenza, sul medesimo sito, sorgeva la casa di Livio Druso, nella quale era stato assassinato nel 91 a.C. La villa di Tuscolo, nei venticinque anni precedenti all’acquisto di Cicerone (all’inizio degli anni Sessanta del I secolo a.C.), era passata da Silla a un senatore molto conservatore, Quinto Lutazio Catulo, e infine a un ricco ex schiavo, chiamato Vettio. Al momento della vendita, le maschere che si trovavano nell’atrio erano probabilmente imballate e trasportate nella nuova abitazione. Curiosamente, le spoglie di

vittoria rimanevano invece nella casa in cui erano state appese e non seguivano la famiglia di colui che le aveva conquistate. In uno degli attacchi che poi lancerà contro di lui, Cicerone lamenta che Marco Antonio vivesse e gozzovigliasse ubriaco nella casa che un tempo era appartenuta a Pompeo, con ancora appesi alle pareti dell’ingresso i rostri catturati dalle navi nemiche probabilmente nella campagna contro i pirati. Questo volume di acquisti e vendite di proprietà immobiliari solleva diverse domande. Le somme in gioco erano estremamente elevate. Nel 62 a.C. Cicerone dovette pagare più di tre milioni e mezzo di sesterzi per la sua nuova casa sul Palatino; ma non abbiamo praticamente alcuna informazione su come venissero effettuati simili pagamenti. Non è affatto probabile che gli schiavi di Cicerone guidassero carri carichi di denaro per le strade di Roma sotto scorta armata. L’intera transazione fa supporre invece o l’uso di lingotti d’oro, che avrebbe almeno richiesto un minor numero di carri, o, più verosimilmente, una qualche forma di certificazione o obbligazione cartacea, presupponendo quindi un sistema bancario e creditizio relativamente raffinato, di cui abbiamo però soltanto vaghe testimonianze. Domanda di importanza ancora più essenziale e preliminare: da dove arrivava tutto questo denaro? Subito dopo avere comprato la casa sul Palatino, Cicerone, in una lettera al suo amico Publio Sestio, racconta in maniera scherzosa di essere talmente pieno di debiti da essere «pronto a unirmi a una cospirazione, se soltanto ce ne fosse una che mi voglia accettare»: una salace allusione alla congiura di Catilina, appena un anno prima. I prestiti avevano senz’altro un ruolo notevole, ma dovevano essere saldati, spesso con molta rapidità. Cicerone, per esempio, era sul punto di saldare a Giulio Cesare un prestito di quasi un milione di sesterzi, ma lo scoppio della guerra civile rese la cosa imbarazzante. Quali erano, dunque, le fonti di reddito di Cicerone? Come era riuscito, da un retroterra locale relativamente benestante, a diventare uno dei grandi ricchi di Roma, anche se non certamente il più ricco? Alcuni indizi e allusioni nelle sue lettere ci aiutano a ricostruire parte del quadro. Innanzitutto, un fatto di segno negativo: non c’è alcuna testimonianza che Cicerone avesse concreti interessi di tipo commerciale. A rigor di termini, ai senatori era impedito l’esercizio del commercio oltremare, e la ricchezza dell’élite politica romana fu sempre ufficialmente definita dalla terra, e in essa radicata. Ciononostante, alcune famiglie senatorie partecipavano indirettamente a imprese commerciali, o attraverso relazioni di parentela con famiglie non di rango senatorio o usando un proprio ex

schiavo come prestanome. La famiglia di Publio Sestio, il senatore con il quale Cicerone scherzava a proposito dei propri debiti, ce ne fornisce un esempio perfetto. Migliaia di anfore di vino con stampata la scritta «S ES » o «S ES T» sono state rinvenute in tutto il Mediterraneo, dalla Spagna fino ad Atene, con particolare concentrazione nella Gallia meridionale, dove un relitto al largo di Marsiglia ha restituito circa millesettecento anfore. Sono la concreta testimonianza di una vasta attività commerciale di esportazione associata ad alcuni membri della famiglia dei Sestii, che sappiamo avere posseduto alcune proprietà vicino alla città di Ansedonia, nell’Italia settentrionale, dove è venuta alla luce un’altra concentrazione dello stesso tipo di anfore con il medesimo stampo. Chiunque fosse ufficialmente a capo di questa attività, i profitti giungevano senz’altro fino ai livelli senatoriali della famiglia dei Sestii. Ma non si ha alcuna prova che Cicerone fosse coinvolto in attività di questo genere, a parte qualche vaga e snobistica diffamazione da parte dei suoi avversari sul fatto che suo padre aveva lavorato nel settore delle lavanderie. Parte del denaro di Cicerone arrivava, in modo del tutto tradizionale, dalle rendite e dai prodotti dei suoi terreni agricoli, notevolmente incrementati dalle proprietà che facevano parte della dote di Terenzia. Ma Cicerone poteva contare su altre due primarie fonti di notevoli risorse. La prima era costituita da lasciti ricevuti da persone che non appartenevano alla cerchia dei suoi parenti più stretti. Nel 44 a.C. affermò di avere ricevuto in questo modo la somma complessiva di venti milioni di sesterzi. Non siamo in grado di identificare tutti i suoi benefattori; ma molti di questi lasciti devono essere stati rimborsi ottenuti da coloro che aveva aiutato in varie circostanze, ex schiavi che si erano arricchiti o clienti particolarmente soddisfatti di come erano stati difesi in tribunale. Agli avvocati romani era espressamente proibito ricevere compensi per i loro servizi; e si ripete giustamente che il vero guadagno ottenuto da Cicerone per le cause di alto profilo da lui sostenute fosse il prestigio pubblico. Ma spesso c’era anche un ritorno economico, in qualche forma indiretta. Publio Silla, nipote del celebre dittatore, non fece certamente cosa inusitata ricompensando Cicerone per la sua difesa in un processo. Gli prestò due milioni di sesterzi per l’acquisto della casa sul Palatino, e sembra che non sia stato mai chiesto il saldo del debito.

56. Il sito del relitto di Marsiglia fu esplorato negli anni Cinquanta da una squadra di subacquei in collaborazione con Jacques Cousteau. La fotografia mostra soltanto una parte del carico di anfore provenienti dall’Italia che la nave stava trasportando.

La seconda fonte di ricchezza di Cicerone era la provincia che gli fu assegnata. Pur vantandosi, forse giustamente, di non avere mai infranto la legge per estorcere denaro ai provinciali, nel 50 a.C. egli lasciò la Cilicia con le sacche piene di oltre due milioni di sesterzi in valuta locale. Non ci è dato sapere in che modo li avesse accumulati: probabilmente una combinazione tra spilorceria sul proprio fondo di spesa e guadagni ottenuti dalla sua piuttosto insignificante vittoria, compresa la vendita dei prigionieri come schiavi. Al termine del mandato, anziché portare il denaro con sé in Italia, lo depositò presso una compagnia di publicani a Efeso, ricorrendo evidentemente a qualche forma di trasferimento dei fondi non in contanti. Ma la guerra civile fece ben presto naufragare qualsiasi progetto a lungo termine egli avesse in mente su come utilizzarlo. All’inizio del 48 a.C. Pompeo aveva bisogno per la guerra di tutto il denaro che si poteva

raccogliere, e Cicerone accettò di prestargli quei due milioni di sesterzi, cosa che probabilmente contribuì ad aumentare la sua irritazione mentre si trovava nell’accampamento. Non abbiamo alcun indizio per farci supporre che abbia avuto mai indietro il suo denaro. I guadagni tratti da una guerra combattuta contro un nemico straniero finirono, come già molti altri, per finanziare una guerra tra romani.

«Proprietà umane» Tra le proprietà di Cicerone c’erano anche esseri umani. Nelle sue lettere egli menziona soltanto poco più di una ventina di schiavi in tutto: un gruppo di sei o sette ragazzi usati come messaggeri, alcuni segretari, soprintendenti e «lettori» (che leggevano per il loro padrone libri o altri documenti a voce alta), nonché un attendente, un artigiano, un cuoco, un domestico e uno o due contabili. In realtà, il personale di famiglia doveva essere ben più numeroso. La gestione di venti proprietà presuppone un personale minimo di almeno duecento individui, sebbene alcune di esse non fossero che modeste casette e altre rimanessero inutilizzate per vari mesi all’anno: bisognava curare i giardini, eseguire varie riparazioni, rifornire di combustibile le fornaci, garantire la sicurezza; per non parlare dei campi da coltivare nelle fattorie agricole. L’indifferenza dei padroni nei confronti dei propri schiavi è ben rilevata dal fatto che Cicerone non si curi affatto della maggior parte di essi; quelli che menziona nelle sue lettere, come messaggeri e segretari, sono direttamente collegati alla scrittura e alla consegna di queste ultime. Secondo una stima alquanto approssimativa, alla metà del I secolo a.C. in Italia potevano esserci tra un milione e mezzo e due milioni di schiavi, che costituivano probabilmente circa il 20 per cento della popolazione totale. In comune avevano la caratteristica essenziale di essere proprietà umane di un altro essere umano; ma, a parte questo, avevano retroterra culturali e stili di vita altrettanto diversificati di quelli dei liberi cittadini. Non esistevano un’immagine e una realtà tipiche dello schiavo. Alcuni degli schiavi di Cicerone, per esempio, erano stati probabilmente ridotti a tale condizione dopo la sconfitta in guerra. Altri erano il frutto di uno spietato commercio che lucrava sul traffico di individui provenienti dai margini dell’impero. Altri ancora erano stati forse «salvati» dall’esposizione o nati da donne schiave già di sua proprietà. Nel corso dei secoli successivi, parallelamente al ridursi delle guerre romane di conquista, questo «allevamento interno» divenne, in misura sempre maggiore, la principale fonte di rifornimento, obbligando le schiave a un ciclo di gravidanze sostanzialmente identico a quello delle donne libere. In termini più generali, le condizioni di vita e di lavoro degli schiavi andavano da semplicemente atroci e disperate fino a quasi agiate e lussuose. I numerosi e angusti cubicoli ricavati sotto

l’imponente casa di Scauro non erano la peggiore sistemazione che uno schiavo poteva temere. Alcuni, impiegati in grandi produzioni industriali o agricole, erano tenuti di fatto in prigionia. Molti venivano picchiati. In effetti, la possibilità di subire punizioni corporali era proprio ciò che contraddistingueva uno schiavo (mastigia era uno dei soprannomi più comuni). C’era tuttavia una piccola minoranza di schiavi (che dominano nelle testimonianze sopravvissute) il cui stile di vita quotidiano deve essere sembrato più che invidiabile ai poveri e affamati liberi cittadini romani. Ai loro occhi, gli schiavi che facevano da assistenti ai ricchi uomini nei lussuosi palazzi, i loro dottori o consiglieri letterari, di solito schiavi colti di origine greca, conducevano una vita comoda e agiata. Anche l’atteggiamento della popolazione libera nei confronti dei propri schiavi e della schiavitù in quanto istituzione era estremamente vario e ambivalente. Nei proprietari, disprezzo e sadismo si univano a un certo grado di timore e preoccupazione per la loro dipendenza e vulnerabilità, come rivelano numerosi aneddoti e detti popolari. «Tutti gli schiavi sono nemici»: ecco un tipico esempio di saggezza romana. Durante il regno dell’imperatore Nerone, quando qualcuno ebbe la brillante idea di fare indossare agli schiavi delle uniformi, la proposta fu rifiutata perché avrebbe rivelato agli stessi schiavi quanto fossero numerosi. Tuttavia, ogni tentativo di tracciare una chiara e coerente linea di demarcazione tra schiavi e liberi, o di definire l’inferiorità degli schiavi (erano cose o persone?, come si domandavano alcuni antichi teorici), era necessariamente ostacolato e impedito dalla prassi sociale. In molti contesti, gli schiavi e i liberi lavoravano a stretto contatto. Nelle officine, per esempio, gli schiavi potevano essere amici e confidenti, oltre che un bene mobile. E facevano parte della famiglia romana: la parola latina familia include costantemente i suoi membri liberi e non liberi (cfr. tavole 16 e 17). Per molti, la schiavitù era comunque una condizione soltanto temporanea, cosa che aumenta ulteriormente la confusione concettuale. L’abitudine romana di liberare un numero molto elevato di schiavi può essere stata motivata da ogni genere di fredde considerazioni pratiche: per esempio, era senza dubbio più economico dare agli schiavi la libertà anziché mantenerli in vecchiaia, quando ormai non erano più produttivi. Ma questo era un aspetto cruciale della diffusa immagine di Roma come cultura aperta, e rese il corpo cittadino romano il più etnicamente diversificato di tutto il mondo premoderno (e fu un’altra causa di preoccupazione). La domanda era: i romani liberavano un numero eccessivo

di schiavi? Li liberavano per ragioni sbagliate? E quale ne era la conseguenza per una certa idea della romanità? Nella maggior parte dei casi in cui Cicerone cita non semplicemente di sfuggita i suoi schiavi, il motivo è che qualcosa era andato storto, e le sue reazioni rivelano parte delle ambiguità e delle tensioni del vivere quotidiano. Nel 46 a.C. scrisse a un suo amico, allora governatore della provincia dell’Illirico, sulla costa orientale dell’Adriatico, per confidargli un problema. Il suo bibliotecario, uno schiavo di nome Dionisio, gli aveva rubato alcuni libri e poi, temendo di essere scoperto, se l’era svignata. A quanto pare, Dionisio era stato visto nell’Illirico (forse vicino alla sua casa natale), dove aveva apparentemente affermato che Cicerone gli aveva concesso la libertà. «Il danno materiale non è molto,» ammise Cicerone «ma il mio dispetto è vivo.» Chiedeva al suo amico di tenere gli occhi aperti, ma, a quanto sembra, inutilmente. Un anno dopo fu informato dal nuovo governatore che il fuggitivo si era nascosto tra una popolazione locale, i vardei, e che di lui non si sapeva più nulla, anche se Cicerone si immaginava fantasiosamente di vederlo ricondotto a Roma ed esibito come prigioniero in una processione trionfale. Pochi anni prima aveva avuto lo stesso problema con un ex schiavo, anch’egli bibliotecario, come racconta in una lettera ad Attico. Questo ex schiavo, chiamato Crisippo (elegante e colto nome greco, reso famoso soprattutto da un filosofo del III secolo a.C.), aveva ricevuto l’incarico di accompagnare il figlio di Cicerone, Marco, allora circa quindicenne, e un suo cugino poco più grande di lui dalla Cilicia a Roma. Ma a un certo punto del viaggio Crisippo aveva abbandonato i due ragazzi. Chi se ne importa dei suoi furtarelli, si lamentava Cicerone; la cosa insopportabile era la fuga, dato che si riteneva che gli ex schiavi, anche dopo la concessione della libertà, avessero degli obblighi nei confronti dei propri ex padroni. Cicerone reagì ricorrendo a un cavillo legale per annullare la libertà di Crisippo e riportarlo alla condizione di schiavo. Ma, naturalmente, ormai era troppo tardi: Crisippo si era già dileguato. È difficile giudicare quanto sia accurata la versione ciceroniana di queste vicende. Era facile vendere libri rubati a Roma? Dionisio li aveva usati per pagarsi la fuga? Cicerone credeva che li avesse ancora con sé (il mercato dei libri non sarà stato certo molto fiorente tra i vardei)? Oppure questo furto era il parto della paranoia e dell’ossessione di Cicerone per la sua biblioteca? Quale che sia la verità, questi racconti ci offrono un utile antidoto all’immagine del risentimento e della resistenza dello schiavo

personificata da Spartaco. Ben pochi schiavi arrivarono a uno scontro frontale con le autorità romane, e ancor meno con le loro legioni. La maggior parte reagiva ai propri padroni nello stesso modo dei due casi citati, vale a dire fuggendo, dandosi alla macchia e, se interrogata, rispondendo di essere stata già liberata, quasi sempre senza che vi fosse la possibilità di controllare la veridicità dell’affermazione. Per quanto riguarda Cicerone, se ne ricava l’immagine di un uomo per il quale il suo personale di schiavi poteva realmente diventare una sorta di nemico interno, anche se ciò per lo più si riduceva a piccoli furtarelli, e per il quale la differenza tra schiavi che aveva liberato e schiavi ancora in suo possesso era ben meno concreta di quanto molti storici moderni vorrebbero farci credere. Non deve quindi sorprendere che, sebbene libertus (schiavo emancipato) sia il termine consueto per un ex schiavo, in molte occasioni sia utilizzata la parola servus (schiavo) anche per uno schiavo liberato. La sola eccezione significativa in questo quadro è offerta dal rapporto di Cicerone con il suo schiavo segretario Tirone, l’uomo al quale l’immaginario medievale attribuiva l’invenzione di una ben nota forma di stenografia. Le origini di Tirone sono completamente ignote, a meno che non si dia ragione ai pettegolezzi romani, secondo i quali, dato il profondo affetto che Cicerone aveva per lui, doveva essere un suo figlio naturale. Fu liberato con una sfarzosa cerimonia nel 54 o nel 53 a.C., e divenne cittadino romano con il nome di Marco Tullio Tirone. Il rapporto di Tirone con la famiglia di Cicerone è stato spesso considerato il «volto accettabile» dello schiavismo romano. Molte lettere di membri della famiglia a lui indirizzate (non ci rimane nessuna risposta) sono colme di affetto, confidenze e spesso preoccupazione per la sua salute. «Sono molto preoccupato per la tua salute» scrive Cicerone nel 49 a.C. «Ma quantunque desideri intensamente di rivederti ... non cimentarti ad una navigazione e ad un viaggio così lunghi ... se non ti senti bene in forze.» La concessione della libertà fu salutata da gioiose felicitazioni e autocongratulazioni. Quinto Cicerone, scrivendo al fratello dalla Gallia, dove stava prestando servizio nell’esercito di Giulio Cesare, coglie il valore di questo cambiamento di status: Come sono lieto di quello che hai fatto per Tirone: immeritevole qual era di quella condizione, tu ha voluto che fosse per noi un amico e non uno schiavo. Leggendo la tua lettera, credilo, ho fatto un salto di gioia: te ne ringrazio e mi congratulo.

Tirone sembra quasi incarnare il ruolo di una sorta di figlio sostitutivo attorno al quale la famiglia, talvolta incrinata da dissensi, poteva felicemente riunirsi. Ma, anche così, rimane una certa ambiguità, e la schiavitù di Tirone non fu mai del tutto dimenticata. Parecchi anni dopo la concessione della libertà, Quinto scrisse a Tirone per lamentarsi del fatto che, ancora una volta, non gli era arrivata alcuna lettera da lui: «Ti ho dato una bella bastonata, o almeno una silenziosa sgridata nella mia mente». Solo un’innocua e bonaria presa in giro? Una battuta di cattivo gusto? O invece un chiaro indizio che, agli occhi di Quinto, Tirone rimase sempre qualcuno al quale si poteva comunque dare una bastonata?

Verso una nuova storia, di imperatori Tirone sopravvisse al suo padrone. Cicerone, come vedremo nel prossimo capitolo, incontrò una fine violenta nel dicembre del 43 a.C., e la stessa sorte subì anche suo fratello Quinto. Tirone, a quanto sembra, visse fino al 4 a.C., e morì all’età di novantanove anni. Aveva trascorso gli anni successivi alla morte di Cicerone promuovendo e curando la sua memoria, contribuendo alla pubblicazione della sua corrispondenza e dei suoi discorsi e scrivendo una biografia che, sebbene non si sia conservata, divenne una fonte di informazione primaria per gli storici romani posteriori. Pubblicò anche una vasta raccolta di sue battute. Un successivo ammiratore di Cicerone affermò che la sua fama di persona spiritosa sarebbe stata meglio servita se Tirone fosse stato un po’ più attento e selettivo. Tirone visse abbastanza a lungo per vedere l’affermazione di un nuovo regime autocratico, con imperatori saldamente insediati sul trono di Roma, mentre l’antica repubblica diventava un ricordo sempre più distante e sfocato. Questo nuovo regime sarà il tema degli ultimi quattro capitoli del nostro libro, che esaminano i circa duecentocinquant’anni che vanno dall’assassinio di Cesare nel 44 a.C. fino al III secolo d.C., e più precisamente alla svolta del 212 d.C., quando l’imperatore Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero. E sarà una storia molto diversa da quella dei primi sette secoli che abbiamo studiato finora. La storia romana di questo periodo è, per certi aspetti, molto più familiare di tutta quella precedente. Fu nel corso di questi secoli che fu edificata la maggior parte dei più celebri monumenti ancora ammirabili nella città di Roma: dal Colosseo, eretto negli anni Settanta del I secolo d.C. come sede di spettacoli di intrattenimento popolare, al Pantheon, innalzato cinquant’anni dopo, sotto l’imperatore Adriano, il solo tempio antico ancora visibile grosso modo nel suo stato originario (fu risparmiato grazie alla sua trasformazione in chiesa cristiana senza significative ricostruzioni). Persino nel Foro, dove si svolsero quasi tutte le grandi battaglie politiche della repubblica, la maggior parte di quanto vediamo oggi fu costruita sotto gli imperatori, non nell’età dei Gracchi, di Silla o di Cicerone. Nel complesso, possediamo molte più testimonianze sul mondo dei

primi due secoli dell’èra cristiana, anche se nessun individuo può essere conosciuto così a fondo come Cicerone. E questo non solo per la sopravvivenza di una notevole mole di nuove opere letterarie, poetiche o storiche, benché sia certamente molto voluminosa e di forme sempre più diversificate. Ci rimangono biografie di singoli imperatori piene di pettegolezzi; ciniche satire, dalla penna di Giovenale e altri autori, che scaricano tutta la loro derisione sui pregiudizi romani; e fantasmagoriche novelle, compreso il celebre Satyricon di Gaio Petronio Arbitro, prima amico e poi vittima dell’imperatore Nerone, che – duemila anni dopo – Federico Fellini ha trasposto in un altrettanto celebre film. È la boccaccesca storia di un gruppo di bricconi che girano per l’Italia meridionale, con tanto di orge, ostelli malfamati con i letti pieni di pulci, e un memorabile ritratto-parodia di un ricco e volgare ex schiavo, Trimalcione, che, molti secoli dopo, per poco non diede il proprio nome a un altro classico: il titolo provvisorio de Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald era Trimalchio at West Egg. Il vero e più profondo mutamento riguarda invece i documenti incisi su pietra. Ne abbiamo già esaminati alcuni risalenti ai secoli precedenti, come l’epitaffio di Scipione Barbato o l’iscrizione quasi indecifrabile del cippo del Foro, con la menzione del termine rex. Ma nei secoli più antichi questo tipo di documenti era piuttosto raro. A partire dal I secolo a.C., per ragioni che nessuno è mai riuscito a spiegare per davvero, assistiamo a un’esplosione delle iscrizioni su pietra e bronzo. In particolare, ci rimangono migliaia e migliaia di epitaffi da tutte le regioni dell’impero, commemoranti persone relativamente comuni, o almeno con mezzi sufficienti per permettersi di commissionare un monumento a propria eterna memoria, per quanto modesto. Queste iscrizioni talvolta si limitano a menzionare il nome e la professione del defunto («venditore di perle», «pescivendolo», «levatrice», «panettiere»), e in altri casi raccontano le vicende di una vita intera. Una stele particolarmente espressiva commemora una donna dalla pelle candida, con splendidi occhi e seni minuti, la quale faceva parte di un ménage à trois interrotto dalla sua morte. Ci sono anche migliaia di brevi biografie di illustri cittadini incise sui plinti delle loro statue disseminate in tutti gli angoli del mondo romano, nonché lettere di imperatori e decreti del Senato orgogliosamente esposti in forma monumentale nelle più remote comunità dell’impero. Se compito dello storico della Roma più antica è spremere fino in fondo ogni singola testimonianza per ricavare tutto quanto può dire, a partire dal I secolo a.C. il problema diventa come selezionare le testimonianze che possono fornirci le informazioni più interessanti.

Una differenza ancora maggiore, tuttavia, nella ricostruzione di questa fase della storia romana sta nel fatto che ora dobbiamo in larga misura fare a meno del lusso, o del vincolo, della cronologia. Questo si deve in parte all’espansione geografica del mondo romano. Non c’è una singola trama narrativa che colleghi, in modo utile o rivelatore, la storia della Britannia romana con quella dell’Africa romana. Ci sono innumerevoli microstorie e numerose storie di diverse regioni che non si fondono in un insieme coerente e che, esposte una per una, comporrebbero un libro tutt’altro che chiaro e illuminante. Ma si deve anche al fatto che, dopo l’affermazione del regime autocratico alla fine del I secolo a.C., per oltre due secoli a Roma non ci furono mutamenti significativi. L’autocrazia rappresentava, in un certo senso, la fine della storia. Ci fu, naturalmente, ogni genere di eventi: battaglie, assassinii, fasi di stallo politico, nuove iniziative e invenzioni; e i partecipanti avevano innumerevoli ed eccitanti storie da raccontare e argomenti su cui dibattere. Ma, a differenza delle vicende della repubblica e dell’affermazione del potere imperiale, che rivoluzionarono quasi ogni aspetto del mondo romano, tra la fine del I secolo a.C. e la fine del II secolo d.C. non si verificarono fondamentali cambiamenti nella struttura della politica, dell’impero o della società romana. Quindi, nel prossimo capitolo, inizieremo esaminando come, dopo l’assassinio di Giulio Cesare, l’imperatore Augusto riuscì a fondare e imporre saldamente un regime autocratico (forse la rivoluzione più decisiva nella storia di Roma) e poi analizzeremo le strutture, i problemi e le tensioni che sostennero e minarono quel sistema nel corso dei due secoli successivi. Il variegato cast di personaggi include senatori dissidenti, clienti ubriaconi delle taverne romane e cristiani perseguitati (e, agli occhi dei romani, piuttosto seccanti). La grande domanda è: qual è il modo migliore per comprendere il mondo dell’impero romano sotto il comando di un imperatore?

IX

LE TRASFORMAZIONI DI AUGUSTO

L’erede di Cesare Le idi di marzo del 44 a.C., quando Cesare venne assassinato, Cicerone era probabilmente seduto in Senato, testimone oculare di un caotico e quasi fallito omicidio. Una banda di una ventina di senatori si accalcò attorno a Cesare con il pretesto di consegnargli una petizione. Un senatore di minor conto diede il segnale per l’attacco inginocchiandosi ai piedi del dittatore e tirandogli la toga. Gli assassini non furono molto precisi nei loro colpi, o forse rimasero come storditi dal terrore. Uno dei primi fendenti sferrati con la daga mancò l’obiettivo e diede a Cesare la possibilità di difendersi con la sola arma che aveva a portata di mano: lo stilo appuntito della sua penna. Secondo uno dei più antichi resoconti che ci siano pervenuti, scritto una cinquantina d’anni dopo da Nicola Damasceno, uno storico greco di Siria che si basava probabilmente su descrizioni di testimoni oculari, diversi assassini rimasero colpiti da «fuoco amico»: Gaio Cassio Longino si lanciò contro Cesare ma finì per ferire Bruto; un altro colpo non andò a segno, prendendo invece la coscia di un congiurato. Crollando a terra, Cesare gridò in greco a Bruto: «Anche tu, figlio?», che era una minaccia («Ti prenderò, ragazzo!») oppure un amaro rimorso per la slealtà di un giovane amico, o persino, come insinuò qualche sospettoso contemporaneo, la finale rivelazione che Bruto era in realtà il figlio naturale di Cesare e che quindi non commetteva semplicemente un assassinio ma un parricidio. La celebre frase latina Et tu, Brute? («Anche tu, Bruto?») è un’invenzione di Shakespeare. I senatori se la diedero a gambe; quanto a Cicerone, se era davvero presente, non si sarà probabilmente comportato più coraggiosamente degli altri. Ma la fuga era impedita da una folla di migliaia di persone che, proprio in quel momento, stavano uscendo dal vicino teatro di Pompeo, al termine di uno spettacolo di gladiatori. Quando la folla ebbe notizia di quel che era accaduto, cercò di tornarsene al sicuro della propria casa il più in fretta possibile, malgrado Bruto provasse a rassicurarla che non c’era alcun motivo di preoccuparsi e che le notizie erano buone, non cattive. La confusione aumentò ulteriormente quando Marco Emilio Lepido, uno dei più stretti collaboratori di Cesare, lasciò il Foro per adunare alcuni soldati stazionati appena fuori dalla città, e poco mancò che si imbattesse in un gruppo di assassini provenienti dalla direzione opposta per annunciare la loro vittoriosa impresa, seguiti a breve distanza da tre schiavi che stavano portando su una lettiga il corpo di Cesare a casa sua. Essendo soltanto in tre, la cosa non risultò facile, e si

raccontava che le braccia ferite del dittatore pendessero lugubremente fuori dalla lettiga. Quella sera Cicerone incontrò Bruto e altri «liberatori» sul Campidoglio, dove si erano asserragliati. Cicerone non aveva fatto parte del complotto, ma alcuni dissero che Bruto aveva gridato il suo nome mentre affondava la spada nel corpo di Cesare; in ogni caso, come anziano e illustre statista, poteva essere un’utile figura di rappresentanza da avere al proprio fianco all’indomani dell’attentato. Il consiglio di Cicerone fu molto chiaro: dovevano subito convocare il Senato sul Campidoglio. Ma costoro esitarono, lasciando così l’iniziativa ai seguaci di Cesare, che seppero sfruttare l’umore popolare, certamente non a favore degli assassini, nonostante le successive fantasie di Cicerone, secondo il quale la maggior parte dei comuni romani in definitiva era convinta che il tiranno dovesse essere abbattuto. La maggioranza continuava a preferire le riforme di Cesare (assistenza ai poveri, insediamenti oltremare e occasionali distribuzioni di denaro) alle altisonanti idee di libertà, che avrebbero potuto benissimo non essere altro che un alibi per gli interessi personali dell’aristocrazia e il perdurante sfruttamento delle classi inferiori, come avrebbero facilmente potuto confermare le vittime delle estorsioni di Bruto a Cipro. Pochi giorni dopo, Antonio organizzò un impressionante funerale per Cesare, che includeva anche un modello di cera sospeso sopra il suo corpo, per permettere al pubblico di vedere più facilmente tutte le ferite che aveva ricevuto e il loro punto preciso. Scoppiò una rivolta, che si concluse con un’improvvisata cremazione del cadavere nel Foro: il combustibile venne fornito in parte dalle panche di legno prese dalle vicine aule di tribunale, in parte dai vestiti che i musicisti si strapparono di dosso e scagliarono nelle fiamme, e in parte dai gioielli che le donne gettarono in cima alla pira insieme alle toghe dei loro fanciulli. Non ci furono, almeno all’inizio, rappresaglie. Dopo le dimostrazioni che avevano accompagnato il funerale di Cesare, Bruto e Cassio ritennero più sicuro lasciare la città, ma non furono privati delle loro cariche politiche (erano entrambi pretori). A Bruto fu persino concesso, nella sua qualità di pretore, di allestire una festività in absentia; ma i cesariani sostituirono quasi immediatamente la commedia che aveva intenzione di presentare (dedicata al primo Bruto e alla cacciata dei Tarquini) con un’altra che aveva un tema meno scottante, tratto dalla mitologia greca. Accogliendo una proposta di Cicerone, il Senato aveva precedentemente stabilito che si dovessero ratificare tutte le decisioni di Cesare, in cambio di un’amnistia per gli assassini. Era certamente una

tregua alquanto fragile, ma per il momento riuscì a evitare lo scoppio di ulteriori violenze. Le cose cambiarono quando, nell’aprile del 44 a.C., giunse a Roma l’erede designato di Cesare, che fino a quel momento era rimasto sull’altra sponda dell’Adriatico, impegnato nei preparativi per l’invasione della Partia. Nonostante tutte le voci e le accuse, e quale che fosse il reale status del ragazzino che Cleopatra aveva astutamente chiamato Cesarione, Cesare non aveva riconosciuto nessun figlio legittimo. Perciò, nel testamento, aveva preso l’inconsueta decisione di adottare il proprio pronipote, dichiarandolo figlio suo nonché principale beneficiario della sua fortuna. Gaio Ottavio aveva allora appena diciotto anni e quasi immediatamente cominciò a sfruttare il celebre nome che aveva acquisito grazie all’adozione facendosi chiamare Gaio Giulio Cesare, anche se i suoi avversari, e, per evitare confusioni, quasi tutti gli scrittori moderni, lo chiamavano Ottaviano (vale a dire «ex Ottavio»). Lui stesso non adoperò mai questo nome. Perché Cesare lo abbia prescelto rimarrà sempre un mistero; ma Ottaviano aveva certamente interesse ad assicurare che gli assassini dell’uomo che adesso era ufficialmente suo padre non la passassero liscia e che nessuno dei suoi numerosi possibili rivali, in primis Marco Antonio, indossasse i panni del dittatore defunto. Cesare era per Ottaviano il passaporto per il potere: dopo che, nel gennaio del 42 a.C., un Senato compiacente decretò che Cesare era diventato un dio, Ottaviano iniziò a sfoggiare il suo nuovo titolo e rango: «figlio di un dio». Ne seguì un decennio di guerra civile. Ottaviano – o Augusto, come venne ufficialmente chiamato dopo il 27 a.C. (un titolo appositamente coniato, che significa grosso modo «venerato») – dominò la vita politica romana per più di cinquant’anni, fino alla sua morte nel 14 d.C. Superando di gran lunga i precedenti di Pompeo e Cesare, fu il primo imperatore romano a mantenere il comando sino alla fine: il suo è stato il regno più lungo di tutta la storia romana, sorpassando perfino quello dei mitici Numa Pompilio e Servio Tullio. In qualità di Augusto, trasformò la struttura della politica romana e dell’esercito, il governo dell’impero, l’aspetto di Roma e il senso profondo di ciò che rappresentava la potenza, la cultura e l’identità romana. Nel corso di questa acquisizione e conservazione del potere, si trasformò anche lo stesso Augusto, con una stupefacente metamorfosi da ribelle e spietato signore della guerra a responsabile statista, simboleggiata proprio dall’astuto mutamento di nome. Il suo passato in qualità di Ottaviano era stato contrassegnato da crudeltà, scandali e illegalità. Si era aperto la strada

nella politica romana nel 44 a.C., usando un esercito privato e tattiche quasi da colpo di stato. Poi, insieme ad altri, aveva messo in atto un terribile pogrom sul modello delle proscrizioni sillane, e, se dobbiamo credere alla tradizione romana, le sue mani erano letteralmente lorde di sangue. Secondo una storia particolarmente raccapricciante, aveva personalmente strappato gli occhi a un senatore sospettato di complottare ai suoi danni. Non molto meno scioccante per la sensibilità romana era la storia di come avesse impersonato, con noncurante atteggiamento, il dio Apollo durante uno sfarzoso banchetto – seguito da una festa in costume – svoltosi mentre la popolazione era ridotta alla fame per le devastazioni della guerra civile. Come sia riuscito a lasciarsi alle spalle tutto ciò e diventare il padre fondatore di un nuovo regime, nonché, agli occhi di molti, l’imperatore modello e il termine di confronto per giudicare i suoi successori, è una domanda che si posero già parecchi osservatori romani. E gli storici vi hanno riflettuto e discusso fin da allora, dissentendo tanto sulla radicale trasformazione da lui operata e sulla natura del suo nuovo regime quanto sul fondamento stesso del suo potere e della sua autorità. Come riuscì a realizzare i suoi obiettivi?

Il volto della guerra civile Alla fine del 43 a.C., in poco più di diciotto mesi dal ritorno di Ottaviano in Italia, la politica romana era stata completamente ribaltata. Bruto e Cassio erano stati assegnati a province orientali e avevano abbandonato l’Italia. Ottaviano e Antonio si erano prima affrontati in una serie di scontri militari nell’Italia settentrionale, poi avevano nuovamente raggiunto un accordo stipulando con Lepido un «triumvirato per la costituzione del governo». Si trattava di un accordo ufficiale, con durata quinquennale, che assegnava a ognuno di essi un potere pari a quello dei consoli, assicurando loro la possibilità di scegliere la provincia che preferivano e il controllo delle elezioni. Roma era caduta nelle mani di una junta. E Cicerone era morto. Aveva commesso l’errore di parlare troppo apertamente contro Antonio, e, nella nuova serie di massacri che fu il principale risultato del triumvirato, il suo nome, insieme a quello di altre centinaia di senatori e cavalieri, finì sulle temutissime liste di proscrizione. Nel dicembre del 43 a.C. venne raggiunto e decapitato da una banda di scherani, mentre, portato su una lettiga, cercava di fuggire da una delle sue ville di campagna nell’inutile tentativo di darsi alla macchia (inutile perché uno dei suoi ex schiavi aveva rivelato i suoi spostamenti). Fu un altro simbolico finale per la repubblica romana, appassionatamente discusso nei secoli successivi. In effetti, gli ultimi istanti di Cicerone furono incessantemente reinterpretati nelle scuole oratorie di Roma, nelle quali la domanda se avrebbe dovuto implorare misericordia da Antonio oppure (in modo ancora più scaltro) offrire di distruggere tutti i suoi scritti in cambio della propria vita era un classico tema di discussione nel programma di studio. In realtà, quel che accadde dopo la sua morte fu molto più macabro e sinistro. La sua testa e la sua mano destra furono inviate a Roma e appese ai rostri del Foro. Fulvia, moglie di Antonio, e precedentemente sposata con Clodio, altro acerrimo nemico di Cicerone, corse ad ammirare il trofeo. Si raccontava che, nella sua selvaggia esaltazione, avesse staccato la testa dai rostri e vi avesse sputato sopra, e poi ne avesse estratto la lingua trafiggendola più volte con uno spillone che teneva nei capelli. Ogni fragile tregua venne ora dimenticata. Nell’ottobre del 42 a.C. le forze riunite dei triumviri sconfissero Bruto e Cassio nei pressi della città di Filippi, nell’estremo nord della Grecia (uno dei temi principali del Giulio

Cesare di Shakespeare); dopodiché i vincitori iniziarono a volgersi ancora più accanitamente uno contro l’altro. Così, quando da Filippi rientrò in Italia per supervisionare un massiccio programma di confische terriere con lo scopo di fornire una liquidazione a migliaia di soldati in congedo pericolosamente insoddisfatti, Ottaviano si trovò ben presto costretto ad affrontare l’opposizione armata di Fulvia e di Lucio Antonio, fratello di Marco Antonio. I quali si erano fatti paladini della causa dei proprietari terrieri espropriati ed erano persino riusciti a ottenere il controllo della città di Roma, anche se solo per breve tempo. Ottaviano li assediò rapidamente nella città di Perugia. All’inizio del 40 a.C. furono costretti ad arrendersi per fame; ma si era ormai preparata la scena per più di un decennio di ulteriori guerre, inframmezzate da brevi tregue, tra due schieramenti opposti che pretendevano entrambi di rappresentare gli eredi di Cesare. È spesso difficile dare un senso coerente alle mutevoli coalizioni e agli altrettanto mutevoli obiettivi dei vari protagonisti nelle diverse fasi di questo conflitto. Si possono azzardare soltanto ipotesi su quale particolare combinazione di indecisione, riallineamento politico e interesse personale abbia spinto Dolabella, già genero di Cicerone, a cambiare schieramento per ben due volte nel giro di pochi mesi, e ad assumere infine un comando militare contro i liberatori in Oriente, ingannando, torturando e giustiziando lo sfortunato governatore d’Asia, e trovando la morte nel 43 a.C., mentre cercava senza successo di affrontare Cassio in Siria. «Qualcuno avrà mai il talento necessario per mettere tutto questo per iscritto in modo che assomigli alla verità dei fatti e non alla finzione?», si domandò successivamente uno scrittore romano, sottintendendo chiaramente che la risposta era no. Ma per quanto confusi siano i ruoli impersonati dai principali protagonisti, questo conflitto ci offre, più di ogni altro della precedente storia romana, l’opportunità di comprendere cosa significasse questo tipo di guerra per il resto della popolazione d’Italia, civile e militare, e persino di ascoltare la voce di alcune vittime innocenti.

57. Un frammento dell’epitaffio della moglie fedele. Sfortunatamente, i nomi dei due coniugi non sono conservati, ma è chiaro che il marito era un importante senatore. XORIS , in alto a sinistra, è ciò che rimane di UXORIS («moglie»). Nel testo sottostante è raccontato l’aiuto prestato dalla moglie durante la fuga del marito; nella seconda linea, per esempio, AURUM MARGARITAQUE allude all’«oro e le perle» da lei inviatigli.

I poveri contadini che avevano perduto la propria terra nelle confische ordinate dai triumviri sono descritti nella prima opera importante di Virgilio, le Egloghe. Anche se in seguito divenne uno dei «poeti laureati» del regime augusteo, alla fine degli anni Quaranta del I secolo a.C. mise in risalto le ripercussioni della guerra civile sulla vita un tempo idilliaca e innocente dei pastori dell’Italia rurale, con sullo sfondo la figura potente e spesso minacciosa di Ottaviano. Pur cantando della vita e degli amori del loro mondo pastorale, alcuni di questi rustici personaggi risultano essere risentite vittime di espropri. «Un empio soldato possederà maggesi così coltivati? Un barbaro queste messi?» si lamenta uno di essi. «Ecco dove la discordia ha trascinato gli sventurati cittadini; per costoro seminavamo i

campi.» Altri scrittori posero l’accento sul risvolto umano delle proscrizioni in una serie di storie su astuti nascondigli, commoventi suicidi e la coraggiosa fedeltà o la crudele slealtà di amici, parenti e schiavi. Una moglie particolarmente ingegnosa aveva salvato la vita di suo marito infilandolo in un sacco per la biancheria sporca; un’altra aveva gettato il proprio in una fogna, il cui fetore aveva fermato i suoi aspiranti assassini. Due fratelli erano riusciti a nascondersi dentro un grande forno; ma alla fine i loro schiavi li avevano trovati e ne avevano immediatamente ucciso uno (per vendicarsi della sua crudeltà, possiamo supporre), mentre l’altro era fuggito, cercando di darsi la morte gettandosi nel Tevere: ma era stato tratto in salvo da un gentile pescatore, che aveva creduto che vi fosse caduto accidentalmente. Questi racconti letterari sono quasi certamente conditi da abbellimenti di vario genere e grandi atti d’eroismo. Ma non sono molto diversi dalla descrizione che una moglie fedele ci ha lasciato sul suo epitaffio, nel quale racconta di essersi presentata di persona da Lepido a implorarlo per la vita del marito e di essersene ritornata, dopo essere stata brutalmente maltrattata, «piena di lividi, come se fosse una schiava»: prova non soltanto del coraggio della donna ma anche della quasi automatica connessione tra schiavitù e punizioni corporali. Abbiamo anche qualche traccia per ipotizzare cosa pensassero i semplici soldati. Nella città di Perugia e attorno a essa sono state portate alla luce decine di piccoli proiettili di piombo che le forze assedianti di Ottaviano e quelle di Lucio Antonio e Fulvia all’interno della città si scagliarono reciprocamente contro. Molti di questi proiettili erano prodotti in stampi su cui erano incisi brevi messaggi per il nemico. Non era cosa inconsueta: alcuni più antichi proiettili greci recano scritte come «Beccato» o «Ahia», e altri risalenti all’epoca della guerra sociale frasi come «Per Pompeo» (si intende il padre di Pompeo il Grande) o «Dritto nelle vostre budella». Ma i proiettili trovati a Perugia sono molto più eloquenti. Alcuni sono particolarmente irridenti: «Siete ridotti alla fame e fate finta di non esserlo», si legge su un proiettile sparato dentro la città, che proprio dalla fame fu poi costretta ad arrendersi. Molti altri contengono messaggi con allusioni volgarmente oscene a prevedibili parti anatomiche dei loro nemici, maschili o femminili: «Lucio Antonio, crapa pelata, e anche tu, Fulvia, aprite il vostro buco di culo»; «Sto andando dritto nel culo della signora Ottavio»; «Vado dritto nel clitoride di Fulvia» (landica, «clitoride», l’esempio più antico di questo termine in latino). Questa inquietante sovrapposizione

di violenza militare e sessuale, nonché il luogo comune romano per indicare la calvizie, sono probabilmente un tratto caratteristico dell’umorismo sconcio e dissacrante diffuso tra i legionari al fronte: un misto di spavalderia, aggressività, misoginia e malcelata paura.

58. Proiettili di piombo, lunghi solo qualche centimetro, che uccidevano il nemico inviandogli contemporaneamente un messaggio. Per ESUREIS ET ME CELAS («Siete ridotti alla fame e fate finta di non esserlo») sono state proposte anche traduzioni diverse, tra cui alcune con un senso esplicitamente erotico («Mi desiderate ardentemente...»). Sulla destra, si legge la prima attestazione del termine landica, qui scritto al rovescio.

Lucio Antonio e Fulvia riconobbero la propria sconfitta all’inizio del 40 a.C. Non possiamo sapere quale ruolo abbia avuto Fulvia nel comando militare: infatti, per i suoi avversari, uno dei modi più semplici di attaccare Lucio, proprio come in seguito attaccarono suo fratello, era sostenere che stesse condividendo il comando con una semplice donna. In ogni caso, Fulvia ritornò da Marco Antonio in Grecia e poco dopo morì. Per qualche tempo il triumvirato fu in qualche modo rimesso in piedi, e, come impegno per il futuro, il vedovo Antonio si risposò con Ottavia, la sorella di Ottaviano. Fu, tuttavia, una vuota promessa, perché ormai Antonio era già stato travolto da quella relazione che lo ha reso celebre: viveva sostanzialmente insieme a Cleopatra, regina d’Egitto, che gli aveva appena dato due gemelli. A ogni modo, la coalizione a tre si ridusse presto a due soltanto, perché Lepido, che era sempre rimasto in posizione subordinata,

ne fu escluso nel 36 a.C. Quando, nel 31 a.C., si giunse alla resa dei conti finale, non c’erano dubbi su quale fosse la posta in gioco: chi avrebbe dominato sul mondo romano? Ottaviano oppure Antonio, con Cleopatra al suo fianco? Quando Cesare era stato assassinato, Cleopatra si trovava a Roma, ospite in una villa del dittatore poco fuori città. Era quanto di più lussuoso si poteva acquistare a Roma, anche se probabilmente non all’altezza del magnifico scenario della sua residenza ad Alessandria. Dopo le idi di marzo, fece in fretta i bagagli e rientrò in Egitto («La fuga della regina non mi dà fastidio» scrisse Cicerone ad Attico, con evidente sottovalutazione). Ma non si allontanò dalla politica romana, per ovvie e pressanti ragioni: aveva ancora bisogno di appoggi esterni per consolidare la propria posizione di sovrana d’Egitto, e aveva denaro e altre risorse a sufficienza per ricompensare chiunque fosse pronto ad aiutarla. Prima ebbe una relazione con Dolabella, l’ex genero di Cicerone; poi, dopo la sua morte, mise gli occhi su Marco Antonio. La loro relazione è stata sempre presentata in termini erotici, come una fatale infatuazione da parte di Antonio o come una delle più grandi storie d’amore della storia dell’Occidente. La passione può avere avuto un ruolo; ma il loro rapporto si fondava su qualcosa di ben più prosaico: necessità militari, politiche e finanziarie. Nel 40 a.C. Ottaviano e Antonio si erano in pratica divisi tra loro l’intero mondo mediterraneo, lasciandone soltanto una piccola fetta a Lepido. Così, per buona parte del decennio successivo Ottaviano operò in Occidente, sbarazzandosi dei suoi nemici romani che ancora restavano in circolazione (compreso il figlio di Pompeo il Grande, principale collegamento ancora vivente con le guerre civili del decennio precedente) e conquistando nuovi territori al di là dell’Adriatico. Nel frattempo, in Oriente, Antonio condusse campagne militari di più alto profilo contro la Partia e l’Armenia, con risultati oscillanti, malgrado le notevoli risorse di cui disponeva Cleopatra. A Roma giungevano notizie sempre più strabilianti sulla vita di lusso che la coppia conduceva ad Alessandria. Circolavano storie fantasiose sui loro decadenti banchetti e sulla loro famigerata scommessa su chi sarebbe riuscito a organizzare la cena più costosa di tutte. Secondo un racconto particolarmente critico, vinse Cleopatra, apparecchiando una tavola del valore di dieci milioni di sesterzi (praticamente pari a quello della villa più lussuosa di Cicerone), compreso il costo di una perla favolosa che, in uno sfoggio di sfarzo esagerato ma del tutto inutile, fece sciogliere nell’aceto e

poi bevve. Altrettanto preoccupante, agli occhi dei tradizionalisti romani, era la percezione che Antonio stesse iniziando a trattare Alessandria come se fosse Roma, fino al punto di celebrarvi la cerimonia tipicamente romana del trionfo, dopo avere riportato qualche vittoria di poca importanza in Armenia. «Per il piacere di Cleopatra concesse agli egizi le venerande e solenni cerimonie del suo stesso paese», come scrive Plutarco, riferendo la principale critica che gli venne rivolta. Ottaviano sfruttò queste paure nel 32 a.C., con un gesto molto drammatico. L’anno prima Antonio aveva divorziato da Ottavia; Ottaviano rispose impadronendosi del testamento di Antonio e leggendone in Senato le parti più incriminanti. Si scoprì così che Antonio riconosceva Cesarione come figlio di Giulio Cesare, che aveva intenzione di lasciare grandi quantità di denaro ai figli che aveva avuto da Cleopatra e che voleva essere sepolto ad Alessandria al fianco della regina, anche se fosse morto a Roma. Nelle strade di Roma si diffuse la voce che fosse deciso ad abbandonare la città di Romolo e a trasferire la capitale in Egitto. È su questo sfondo che scoppiò di nuovo la guerra. All’inizio del conflitto, nel 31 a.C., il denaro avrebbe probabilmente potuto garantire la vittoria ad Antonio: aveva a propria disposizione una quantità nettamente maggiore di truppe e di denaro. Ma Antonio e Cleopatra persero la prima battaglia navale, presso Azio (il nome latino Actium significa «promontorio»), nella Grecia settentrionale, e non riuscirono più a riprendere in mano l’iniziativa. Di fatto, la battaglia di Azio, nel settembre del 31 a.C., una delle più decisive per la storia mondiale, che sancì la fine della repubblica romana, fu uno scontro piuttosto modesto, leggermente banale (anche se probabilmente proprio gli scontri più decisivi sono più modesti e banali di quanto tendiamo a immaginare). La facile vittoria di Ottaviano fu merito del suo secondo in comando, Marco Agrippa, che riuscì a tagliare le linee di rifornimento dei nemici, e di alcuni disertori ben informati che rivelarono i piani avversari; ma vi contribuirono anche gli stessi Antonio e Cleopatra, che scomparvero semplicemente dalla scena. Non appena si convinsero che le forze di Ottaviano stavano prevalendo, si diedero frettolosamente alla fuga, ritirandosi dalla Grecia in Egitto con una piccola squadra di navi e abbandonando il resto dei propri soldati e marinai, che, comprensibilmente, rinunciarono a combattere. L’anno seguente Ottaviano fece vela su Alessandria per portare a termine il lavoro. In quella che è stata spesso presentata come una tragica farsa, Antonio, credendo che Cleopatra fosse già morta, si pugnalò, ma morì solo

dopo avere scoperto che era ancora viva. A quanto si dice, qualche giorno dopo si suicidò anche la regina, facendosi mordere da un serpente che era stato fatto entrare nei suoi alloggiamenti nascosto in un cestino di frutta. Secondo la versione ufficiale, si tolse la vita per non dare a Ottaviano la soddisfazione di esibirla nella sua processione trionfale: «Non sarò mai costretta a subire un trionfo», avrebbe mormorato più e più volte. Ma le cose non furono probabilmente così semplici o shakespeariane. Il suicidio per morso di serpente non è cosa che si compia con facilità, e, in ogni caso, i serpenti più velenosi sarebbero stati troppo pesanti e vistosi per essere nascosti in un cestino di frutta, seppure di fattura regale. Anche se in pubblico Ottaviano si rammaricò di avere perso il pezzo più prezioso per il suo trionfo, in privato potrebbe avere pensato che la regina avrebbe creato meno problemi da morta che da viva. Come hanno sospettato molti storici moderni, potrebbe senz’altro avere facilitato la sua morte. Di certo non volle correre alcun rischio con Cesarione, data la sua presunta paternità: il ragazzo, che a quel tempo aveva sedici anni, venne fatto uccidere. Nel trionfo che Ottaviano celebrò nell’estate del 29 a.C. venne mostrata una replica a grandezza naturale della regina al momento della sua morte, e anche in questa forma catturò l’attenzione della folla. «Era come se lei fosse lì insieme agli altri prigionieri» scrisse uno storico di epoca successiva. La processione fu uno spettacolo scrupolosamente coreografato che si protrasse per tre giorni, ufficialmente per celebrare le vittorie di Ottaviano nell’Illirico e contro Cleopatra ad Azio e in Egitto. Si evitò qualsiasi menzione esplicita di Antonio o di ogni altro nemico delle guerre civili, né si mostrarono le lugubri immagini di morti romani che Giulio Cesare aveva inopportunamente sfoggiato nelle sue celebrazioni quindici anni prima. Ma non poteva sussistere il minimo dubbio su chi fosse il vero sconfitto, o su quali sarebbero state le conseguenze della vittoria di Ottaviano. Fu allo stesso tempo una parata di vittoria e un rituale di incoronazione.

Vincitori e vinti La storia della guerra tra Antonio e Ottaviano cela ben più di quanto appaia. Quel che ci rimane è la versione autocelebrativa e autogiustificativa scritta dai vincitori, ossia Ottaviano e i suoi amici. Ma la poca verosimiglianza del suicidio con un serpente è soltanto uno dei tanti momenti di questa storia a destare sospetti. Anche per quanto riguarda lo stile di vita di Antonio e Cleopatra, era davvero così stravagante e immorale, o antiromano? I racconti che ci sono giunti non sono tuttavia complete invenzioni. Tra le fonti usate da Plutarco per la biografia di Marco Antonio, scritta centocinquant’anni dopo la sua morte e piena dei più foschi aneddoti sulla sua vita lussuriosa, c’era il discendente di un uomo che aveva lavorato nelle cucine di Cleopatra e che avrebbe potuto benissimo conservare un ricordo delle preferenze culinarie della corte. Ma è assolutamente certo che, già allora e ancor più a posteriori, Augusto (come iniziò ben presto a essere chiamato) sfruttò l’idea di una contrapposizione tra le sue radicate tradizioni romane e occidentali e gli eccessi «orientali» di Antonio e Cleopatra. Nella guerra delle parole, e nelle successive giustificazioni che Augusto diede della sua ascesa al potere, fu uno scontro tra le virtù di Roma e i pericoli e la decadenza dell’Oriente. Il lusso della corte di Cleopatra fu sfrenatamente ingigantito, ed episodi piuttosto innocenti ad Alessandria furono distorti fino all’inverosimile. Per esempio, per quanto Antonio avesse deciso di celebrare la sua vittoria in Armenia ad Alessandria, non c’è alcuna prova che si trattò di alcunché di simile a un trionfo romano (le vaghe descrizioni che ci sono giunte sembrano indicare semmai un riferimento a qualche rituale del dio Dioniso). E i passi incriminati del testamento di Antonio dovevano essere certamente stati selezionati ad hoc, a meno che non si trattasse di pure invenzioni. Anche la battaglia di Azio ebbe un posto significativo nelle successive raffigurazioni. Fu presentata come uno scontro ben più grandioso di quello che fu in realtà, e come il momento fondante del regime augusteo, che ancora oggi si considera generalmente iniziato nel 31 a.C.; uno storico di epoca successiva giunse addirittura a sostenere che «il 2 settembre», giorno esatto dello scontro, era una delle poche date della storia romana degne di essere ricordate. Una nuova città chiamata Nicopolis («città della vittoria»)

fu fondata vicino al luogo della battaglia, e venne eretto un grandioso monumento prospiciente il mare, ornato con i rostri delle navi catturate e con un fregio che raffigurava la processione trionfale del 29 a.C. Anche Roma fu inondata di monumenti di ogni genere, da grandiose sculture a preziosi cammei (cfr. tavola 19); e molti soldati che avevano combattuto dalla parte vincente si fregiarono orgogliosamente dell’epiteto di Actiacus. Per di più, nell’immaginario romano la battaglia di Azio fu quasi immediatamente trasfigurata in uno scontro tra solide e disciplinate truppe romane e orde selvagge di orientali. Sebbene Antonio avesse ricevuto l’appoggio di parecchie centinaia di senatori, tutta l’attenzione si concentrò su quella stravagante massa, con «truppe barbariche ed armi sgargianti», come scrive Virgilio, e su Cleopatra, che impartiva gli ordini agitando un sistro egizio. Cleopatra era l’elemento cruciale di questo quadro. È difficile dire se, come Fulvia, abbia realmente guidato le operazioni militari, come affermano gli scrittori antichi. Ma era un bersaglio perfetto. Mettendo al centro la regina egizia anziché Antonio, Ottaviano poteva presentare lo scontro come parte di una guerra contro un nemico straniero e non romano, il cui comandante, per di più, era non soltanto pericoloso, regale e seducente, ma anche non naturale, agli occhi dei romani, in quanto assumeva le funzioni maschili della guerra e del comando. Antonio poteva addirittura sembrare la sua vittima, distolta dalla retta via del dovere romano da una regina straniera. Quando Virgilio, nell’Eneide, scritta pochi anni dopo la vittoria di Ottaviano, immagina la regina Didone «folle d’amore» nel suo regno africano di Cartagine, che cerca di sedurre Enea e sottrarlo al suo destino di fondatore di Roma, si riconosce ben più che una pallida eco di Cleopatra.

59. Questo frammento del monumento alla vittoria recentemente scoperto nel sito della battaglia di Azio mostra il carro trionfale di Ottaviano durante la processione del 29 a.C. Due bambini, protetti dal suo braccio, lo accompagnano. Sono, con ogni probabilità, sua figlia Giulia e Druso, figlio che la moglie Livia aveva avuto da un precedente matrimonio, oppure i figli di Cleopatra e Marco Antonio.

Possiamo ricostruire una versione alternativa dell’intera vicenda? Nel dettaglio, certamente no. Il problema, in questo caso, è che la prospettiva dei vincitori è talmente predominante che è più facile sospettare la veridicità della versione ufficiale che sostituirla con un’altra. Alcuni indizi, tuttavia, suggeriscono prospettive diverse. Non è difficile prefigurare quale sarebbe stata l’immagine di Ottaviano se ad Azio avesse vinto Antonio: un giovane e sadico delinquente, con una pericolosa tendenza all’autoincensazione. In effetti, alcuni dei più sgradevoli aneddoti sulla sua giovinezza potrebbero derivare dalla propaganda di Antonio, compresa la storia del banchetto in costume in cui Ottaviano aveva impersonato il dio Apollo; il suo biografo Gaio Svetonio Tranquillo afferma in modo esplicito

che questa combinazione di sacrilegio e stravaganza era una delle principali accuse rivoltegli da Antonio. Allora alcuni furono abbastanza fatalisti, o realistici, da ritenere che non avrebbe fatto molta differenza chi avrebbe vinto. Un curioso aneddoto su dei corvi parlanti riassume piacevolmente quest’idea. Ottaviano, si racconta, stava tornando a Roma dopo la battaglia di Azio quando si imbatté in un semplice lavoratore che aveva addestrato un corvo a dire «Salute, Cesare, nostro vittorioso comandante». Ottaviano rimase talmente colpito che diede all’uomo una sostanziosa ricompensa in denaro. Ma si scoprì che l’addestratore aveva un socio, il quale, non avendo ricevuto la sua parte di denaro, si recò da Ottaviano e gli suggerì di chiedere al primo uomo di mostrare anche l’altro suo corvo. I due opportunisti avevano astutamente cercato di tenere i piedi in due staffe. Quando gli venne portato davanti, il secondo corvo gracchiò: «Salute, Antonio, nostro vittorioso comandante». Fortunatamente, Ottaviano riconobbe il lato comico e ordinò semplicemente che il primo uomo dividesse il denaro con il suo socio.

60. Stele funeraria di Marcus Billienus, che, nella battaglia di Azio, prestò servizio nell’XI legione e assunse il nome di ACTIACUS per commemorare la sua partecipazione alla vittoria. Sebbene la parte inferiore del testo sia perduta, ciò che rimane, insieme al luogo di ritrovamento, indica che Billienus divenne consigliere locale (DECURIO) in un insediamento di veterani nell’Italia settentrionale.

Scopo di questo aneddoto era dimostrare l’umanità di Ottaviano e la sua generosità nei confronti di una coppia di innocui imbroglioni. Ma c’era anche un messaggio politico. I due uccelli identici, con le loro frasi

praticamente identiche, sono un’allusione al fatto che tra Ottaviano e Antonio c’era molto meno da scegliere di quanto faccia credere la versione ufficiale della storia. La vittoria del secondo anziché del primo avrebbe richiesto solo lo scambio di un corvo parlante con l’altro.

L’enigma di Augusto È impossibile anche soltanto ipotizzare come Antonio avrebbe governato il mondo romano se mai ne avesse avuto l’opportunità. Ma non c’è il minimo dubbio che, chiunque fosse uscito vincitore dai lunghi anni di guerre civili, il risultato non sarebbe stato un ritorno al modello tradizionale del potere collegiale bensì una qualche forma di autocrazia. Già nel 43 a.C. lo stesso Bruto, il «liberatore», faceva coniare monete con la riproduzione della sua testa, inequivocabile prova della direzione in cui stava muovendosi (fig. 48). Non era invece altrettanto chiaro quale forma avrebbe assunto il regime autocratico o come avrebbe potuto imporsi con successo. Quasi di sicuro Ottaviano non rientrò in Italia dall’Egitto con un piano autocratico già perfettamente concepito e pronto da realizzare. Ma, attraverso una lunga serie di esperimenti pratici, di improvvisazioni, false partenze, piccoli insuccessi e, molto presto, un nuovo nome ideato per consegnare al passato le associazioni violente del nome «Ottaviano», riuscì col tempo a creare un modello di imperatore romano destinato a durare nei suoi dettagli più significativi per i successivi duecento anni, e nel suo complesso ancora più a lungo. Alcune sue innovazioni sono ancora oggi date per scontate come elementi fondamentali dei meccanismi del potere politico. Comunque, è sempre stato difficile dare una caratterizzazione precisa del padre fondatore di tutti gli imperatori romani. Del resto, il nuovo nome Augustus, che adottò subito dopo il suo ritorno dall’Egitto (e che useremo anche noi nel resto del libro), riflette perfettamente questa evasività. È una parola che evoca idee di autorità (auctoritas) e di appropriata osservanza religiosa, riecheggiando il titolo di uno dei principali collegi sacerdotali romani, quello degli augures. Aveva un tono solenne ed era priva delle connotazioni sfortunate, fratricide o regali di Romulus, altro possibile nome che si dice abbia rifiutato. Nessuno era mai stato chiamato in questo modo, anche se il titolo era già stato utilizzato come epiteto altisonante nel significato, grosso modo, di «santo». Tutti i successivi imperatori assunsero «Augusto» come parte della propria titolatura. Ma la verità è che esso non significava in realtà nulla. La traduzione «Venerato» ne coglie sostanzialmente il senso. Già al momento del suo funerale la gente discuteva su che cosa si fosse fondato esattamente il regime di Augusto. Era una versione moderata di

autocrazia, basata sul rispetto del cittadino, sullo stato di diritto e sul patrocinio delle arti? Oppure era qualcosa di non molto dissimile da una tirannia macchiata di sangue, sotto il giogo di un capo spietato che non era granché cambiato dai tempi delle guerre civili, accompagnata dall’esecuzione di figure di alto rango, giustiziate per avere complottato contro il capo o per essere andate a letto con sua figlia Giulia? Amato o odiato, fu Augusto comunque, per molti aspetti, un rivoluzionario dai tratti enigmatici e contraddittori. Fu uno dei più radicali innovatori che Roma abbia mai visto. Esercitò un’influenza così forte sulle elezioni che lo stesso processo democratico si dissolse: il nuovo e imponente edificio terminato nel 26 a.C. per ospitare le assemblee venne ben presto utilizzato per spettacoli gladiatorii anziché per le operazioni di voto; e uno dei primi atti del successore di Augusto fu quello di trasferire ciò che ancora rimaneva delle elezioni nel Senato, lasciando il popolo completamente escluso. Tenne sotto controllo l’esercito arruolando e licenziando direttamente i comandanti e assumendo egli stesso il governo generale di tutte le province con una presenza militare. Cercò di gestire anche il comportamento dei singoli cittadini in un modo interamente nuovo e capillare – a cominciare dalla vita sessuale delle classi superiori, i cui membri fino ad allora erano condannati all’insuccesso politico se non procreavano un numero sufficiente di figli –, stabilendo persino che cosa si dovesse indossare nel Foro: soltanto la toga, mentre tuniche, calzoni e caldi mantelli erano proibiti. E, a differenza di chiunque altro prima di lui, convogliò i meccanismi tradizionali del patrocinio letterario romano in un programma concertato e ufficialmente sponsorizzato. Cicerone si era sforzato di trovare poeti ai quali fare celebrare i suoi successi. Augusto, a tutti gli effetti, aveva sul proprio libro paga scrittori come Virgilio e Orazio, e le opere da essi prodotte ci offrono una memorabile ed eloquente immagine di una nuova età dell’oro per Roma e il suo impero, con Augusto al centro del palcoscenico. «Ho dato loro un impero senza fine» (imperium sine fine), profetizza Giove per i romani nell’Eneide di Virgilio: epica nazionale, immediatamente assurta al rango di classico e di parte essenziale del curriculum scolastico della Roma augustea. E, duemila anni dopo, continua a figurare in quello dell’odierno Occidente. Tuttavia, Augusto non sembra avere abolito nulla. La classe dirigente rimase la stessa (non si trattò di una rivoluzione nel senso ristretto del termine), i privilegi del Senato furono per molti aspetti non rimossi ma aumentati, e le antiche magistrature pubbliche (consolato, pretura ecc.)

continuarono a essere ambite ed esercitate. Gran parte delle leggi che sono generalmente attribuite ad Augusto furono ufficialmente promulgate, o almeno sponsorizzate, da questi funzionari regolari. Circolava la battuta che i due consoli che avevano proposto una delle «sue» leggi per favorire il matrimonio fossero entrambi scapoli. Quasi tutti i poteri ufficiali gli furono conferiti da un voto formale del Senato, e vennero formulati in conformità al tradizionale modello repubblicano, con la sola eccezione del titolo di «figlio di un dio». Non viveva in un grandioso palazzo, ma in una casa sul colle Palatino dove ci si sarebbe aspettati di trovare un semplice senatore, e nella quale poteva capitare di vedere la moglie Livia lavorare al telaio. Il termine più frequentemente utilizzato dai romani per definire la sua posizione era princeps, che significa «primo cittadino» piuttosto che «imperatore», come noi abbiamo scelto di chiamarlo, e uno dei suoi motti più famosi era civilitas: «siamo tutti insieme cittadini».

61. Due diverse immagini di Augusto. A sinistra, è raffigurato nel ruolo di sacerdote, con la toga tirata sopra la testa, com’era abituale quando si offriva un sacrificio. A destra, è

mostrato come un guerriero eroico e semidivino. Ai suoi piedi c’è una piccola immagine di Cupido, a ricordare la discendenza dell’imperatore, attraverso Enea, dalla stessa dea Venere.

Anche quando sembra essere al massimo della visibilità, la figura di Augusto rimane sfuggente, e questo faceva probabilmente parte del suo segreto. Una delle sue innovazioni più significative e durature fu quella di inondare il mondo romano di suoi ritratti: il volto inciso sulle monete tenute in tasca dalla gente, statue a grandezza naturale o di dimensioni colossali in marmo e in bronzo collocate nelle piazze pubbliche e nei templi, miniature sbalzate o incise su anelli, gemme e argenteria da tavola. Fu un progetto attuato su una scala ben più vasta di quanto mai avvenuto in precedenza. Non c’è nessun altro precedente uomo romano del quale si conosca più di qualche possibile ritratto, e la gran parte di essi sono comunque di incerta identificazione (la tentazione di dare un nome a teste altrimenti anonime, o di trovare un volto per Cicerone, Bruto o altri celebri personaggi, spesso risulta irresistibile, nonostante la mancanza di concrete testimonianze). Anche per lo stesso Giulio Cesare, fatta eccezione per le monete, abbiamo soltanto un paio di esempi di ritratto alquanto dubbi. Viceversa, circa duecentocinquanta statue, senza contare le immagini incise su gioielli e gemme, trovate in tutto il territorio romano, dalla Spagna alla Turchia e al Sudan, raffigurano Augusto in diversi atteggiamenti, da quello dell’eroico conquistatore a quello del sacerdote devoto. Queste riproduzioni mostrano caratteristiche facciali talmente simili da farci supporre che venissero inviati da Roma modelli ufficiali, allo scopo di diffondere l’immagine dell’imperatore tra i suoi sudditi. Sono tutte realizzate in uno stile idealizzante e con un aspetto giovanile, che riecheggia l’arte classica dell’Atene del V secolo a.C., e stanno in netto contrasto con l’esagerato «realismo» caratteristico dei ritratti di anziani grinzosi e solcati di rughe dell’aristocrazia romana agli inizi del I secolo a.C. (fig. 33). Sono tutte intese a mettere in contatto diretto con il proprio sovrano una popolazione lontana e remota, che nella maggioranza dei casi non lo avrebbe mai visto in carne e ossa. E, tuttavia, quasi certamente non assomigliavano affatto al vero Augusto. Non soltanto non corrispondono alla sola descrizione giuntaci del suo aspetto, che, fedele o no, ne mette in risalto i capelli disordinati, i denti malridotti e le calzature rialzate che, come molti altri autocrati di epoche successive, Augusto utilizzava per

nascondere la sua bassa statura; ma sono praticamente tutte uguali per l’intero corso della sua vita, tanto che, all’età di oltre settant’anni, egli continuava a essere raffigurato come un uomo nel pieno della giovinezza. Era, tutt’al più, un’immagine ufficiale (o, per dirlo con parole meno accomodanti, una maschera del potere), e il divario tra questa immagine e l’imperatore reale, l’uomo celato dietro la maschera, è sempre rimasto pressoché impossibile da colmare. Cosa niente affatto sorprendente, parecchi ben informati osservatori antichi decisero che proprio l’enigma di Augusto era il punto essenziale. Quasi quattrocento anni dopo, alla metà del IV secolo d.C., l’imperatore Giuliano scrisse una brillante parodia dei suoi predecessori, immaginandoli riuniti per uno sfavillante banchetto in compagnia degli dèi. Si adunano tutti insieme, incarnando perfettamente quelle che erano ormai diventate le loro caricature. Giulio Cesare ha una tale brama di potere che sembra intenzionato a spodestare il re degli dèi e organizzatore del banchetto. Tiberio appare terribilmente lunatico. Nerone non tollera di essere privato della sua lira. Augusto figura come una sorta di camaleonte impossibile da definire in una sola immagine, un astuto vecchio rettile che muta di continuo colore, passando da giallo a rosso e a nero, ora tetro e tenebroso, e un attimo dopo sfoggiante tutto il fascino della dea dell’amore. Gli dèi non possono fare altro che consegnarlo a un filosofo per farne una persona saggia e moderata. Scrittori precedenti lasciano supporre che Augusto si compiacesse di questo genere di canzonature. Per quale altro motivo avrebbe scelto per il suo anello-sigillo, con il quale autenticava la propria corrispondenza (l’antico equivalente di una firma), l’immagine della creatura più enigmatica di tutta la mitologia greco-romana: la sfinge? Alcuni dissidenti romani, seguiti da un certo numero di storici moderni, si sono spinti ancora più in là, sostenendo che il regime augusteo fosse fondato sull’ipocrisia e la menzogna, e si fosse abusivamente appropriato delle forme e del linguaggio tradizionale repubblicano per mascherare una rigida e severa tirannia. Senza dubbio c’è qualcosa di vero in queste affermazioni. L’ipocrisia è un’arma comunemente sfruttata dal potere. E in molti casi potrebbe essere stato utile ad Augusto essere proprio come lo dipingeva Giuliano: enigmatico, ingannevole ed evasivo, e dire una cosa intendendone un’altra. Ma, altrettanto indubbiamente, non può esserci solo questo. Alle fondamenta del nuovo regime doveva stare qualcosa di ben più solido di una serie di enigmi, duplicità e inganni. Quali erano, quindi, queste

fondamenta? Come riuscì Augusto a imporle e consolidarle? Questo è il vero problema. È di fatto impossibile gettare lo sguardo dietro le quinte del regime augusteo, malgrado tutte le testimonianze in nostro possesso. Questo è uno dei periodi meglio documentati della storia romana. Possediamo numerosi testi poetici coevi, la maggior parte dei quali, ma non tutti, cantano le lodi dell’imperatore. La spiritosa parodia di Ovidio su come conquistare un partner, giuntaci sotto il titolo di Ars amatoria, apparve così in contrasto con il programma morale di Augusto da rappresentare uno dei motivi dell’esilio del poeta nel mar Nero; ma lo fu anche la sua relazione con Giulia. E quasi tutti gli storici e gli antiquari successivi considerarono Augusto un interessante oggetto di studio, sia che riflettessero sul suo stile imperiale sia che raccogliessero le sue battute e i suoi bon mots. Il botta e risposta con gli addestratori di corvi è soltanto un esempio fra i tanti di una miniantologia delle sue prese in giro, che include anche qualche bonario e paterno sfottò sull’abitudine che aveva sua figlia di strapparsi i capelli grigi («Dimmi, preferiresti avere i capelli grigi o essere calva...?»). Un altro memorabile documento è la gustosa e aneddotica biografia scritta da Svetonio un centinaio d’anni dopo la morte dell’imperatore: è la fonte delle notizie sui suoi denti e i suoi capelli, come anche di molti più o meno affidabili aneddoti e frammenti d’informazione, fino alla sua mediocre ortografia, alla sua paura dei temporali e alla sua abitudine di indossare, in inverno, quattro tuniche e una canottiera sotto la toga. In questo mare di storielle, non abbiamo quasi alcuna testimonianza, e nessuna di esse coeva, sugli aspetti pratici, le dispute e le decisioni che guidarono la nuova politica di Roma. Le poche lettere private di Augusto di cui Svetonio cita qualche passo ci offrono soltanto le sue osservazioni sulla propria sfortuna al tavolo da gioco o sul menu del pranzo («Abbiamo gustato, in carrozza, pane e datteri»), e nulla sulla sua strategia politica. Gli storici romani si lamentavano sostanzialmente dello stesso problema che tormenta gli storici moderni: quando cercavano di scrivere la storia di questo periodo, si accorgevano che quasi tutte le cose più importanti si erano svolte in privato e non, come un tempo, pubblicamente all’interno del Senato o nel Foro, e che risultava molto difficile sapere cos’era realmente accaduto, e ancor più darne una spiegazione. Ciò che rimane, comunque, è il testo del curriculum vitae di Augusto, scritto dallo stesso imperatore al termine della sua vita, nel quale riassume le sue imprese (Res Gestae, titolo con cui è normalmente noto in latino e che

significa pressappoco «ciò che ho compiuto»). È un documento autocelebrativo, fazioso e spesso edulcorato, che ammorbidisce scrupolosamente, o ignora del tutto, le violente illegalità dell’inizio della sua carriera. È altresì un resoconto unico, in circa dieci pagine a stampa moderna, di ciò che il vecchio camaleonte voleva che i posteri sapessero dei lunghi anni del suo principato, del modo in cui concepiva il proprio ruolo e di come asseriva di avere trasformato Roma. È opportuno ascoltare le sue sorprendenti parole prima di provare a scoprire ciò che si cela dietro di esse.

«Res Gestae» Una fortunata scoperta archeologica ci ha restituito questa versione della vita di Augusto. Nel suo testamento, lo stesso imperatore richiese che fosse incisa su due pilastri di bronzo posti all’entrata della sua grande tomba di famiglia, a perenne memoria di ciò che aveva compiuto e quasi come modello di riferimento per i suoi successori. I pilastri originari sono da lungo tempo scomparsi, probabilmente fusi nel Medioevo per farne cannoni o qualche altra arma; ma il testo venne inciso su pietra in altre regioni dell’impero, per commemorare le imprese di Augusto anche al di fuori di Roma. Sono stati ritrovati frammenti di quattro copie di questo testo, di cui uno quasi completo scoperto ad Ankara. Questa versione era stata incisa sulle mura di un tempio in onore di «Roma e Augusto», sia nell’originale latino sia in una traduzione greca, a beneficio della popolazione della zona, in larga maggioranza di lingua greca, e si è conservata perché nel VI secolo d.C. il tempio venne trasformato in chiesa cristiana e successivamente divenne parte di una moschea. Si conoscono innumerevoli storie sugli eroici sforzi compiuti a partire dalla metà del XVI secolo per copiare e decifrare le parole dell’imperatore, finché, negli anni Trenta del Novecento, il presidente della Turchia Kemal Atatürk fece orgogliosamente recuperare e conservare l’intera iscrizione per commemorare l’anniversario dei duemila anni dalla nascita di Augusto. Ma il semplice fatto che il testo meglio conservato delle parole dell’imperatore si trovi a migliaia di chilometri di distanza da Roma (equivalente, nel mondo antico, a oltre un mese di viaggio) ci dice molto sul regime imperiale e sul suo volto pubblico.

62. Il mausoleo di Augusto a Roma, davanti al quale un tempo erano collocati i pilastri bronzei con il resoconto delle sue imprese. Era di proporzioni ben più grandiose anche delle più ricche tombe dell’aristocrazia repubblicana e fu uno dei più imponenti monumenti di Roma per quasi tutto il lungo regno di Augusto. Il suo precoce completamento fu in parte una misura precauzionale (la salute di Augusto destava molte preoccupazioni) e in parte un’aggressiva affermazione del potere dell’imperatore, delle sue aspirazioni dinastiche e della sua promessa di essere seppellito a Roma.

Le Res Gestae sono una ricca fonte di notizie sulla carriera di Augusto e sul mondo romano di allora. Iniziano con una descrizione sostanzialmente idealizzata della sua ascesa al potere, che omette del tutto qualsiasi menzione dei pogrom («restituii a libertà la repubblica oppressa da una fazione» sono le concise parole con cui si riferisce allo scontro con Antonio o con Bruto e Cassio). Continua riferendo brevemente fatti come le sue splendide processioni trionfali («nove re o figli di re» sfilavano prigionieri

davanti al suo carro, come si vanta lui stesso, con classico compiacimento romano per la cattura di personaggi di rango regale) e la sua gestione delle riserve romane di grano quando si stava profilando una carestia. Per alcuni storici moderni la parte più importante del testo è quella in cui si riportano i risultati dei censimenti dei cittadini romani ordinati da Augusto: il totale era di 4.063.000 nel 28 a.C., salito a 4.937.000 nel 14 a.C. Questi sono i dati più affidabili che possediamo sull’entità della popolazione di cittadinanza romana lungo tutto il corso della storia di Roma, soprattutto perché, essendo incisi su pietra, non sono esposti ai tipici errori che possono facilmente commettere copisti negligenti nei manoscritti. Ciononostante, si discute ancora aspramente se le cifre riportate includano soltanto gli uomini o anche le donne e i bambini: se, in altre parole, la popolazione di cittadinanza romana ammontava a circa cinque milioni (con una certa approssimazione per difetto) o invece a più di dodici milioni.

63. Il tempio di Roma e Augusto ad Ankara, da cui proviene il testo più completo delle Res Gestae (sullo sfondo si riconosce il minareto della moschea che fu in seguito costruita parzialmente al suo interno). Il testo latino era iscritto su entrambi i lati dell’ingresso

principale, quello greco su uno dei muri esterni. Nessuna delle due versioni si è conservata in modo completo, ma le parti mancanti della versione latina possono essere integrate con quelle della versione greca e viceversa.

Non era questo, comunque, l’oggetto principale dello scritto di Augusto. E molti altri possibili temi non sono minimamente trattati. Non c’è nulla sulla sua famiglia, fatta eccezione per un riferimento agli onori tributati a due suoi figli adottivi morti in giovane età. Non c’è nulla sul suo programma di legislazione morale o sul suo tentativo di incrementare il tasso di natalità, sebbene le cifre dei censimenti possano avere avuto il fine di dimostrare i successi ottenuti in questo campo: forse erroneamente, essendo alquanto più probabile che la creazione di nuovi cittadini e migliori tecniche di conteggio siano la vera causa dell’incremento demografico, anziché il monito imperiale alla classe superiore che non procreava abbastanza. Si trova solo qualche vaga allusione a singole leggi o riforme politiche. Circa due terzi del testo sono invece dedicati a tre specifici temi: le vittorie e le conquiste di Augusto, i benefici che concesse al popolo romano e gli edifici che fece costruire. Circa due pagine del testo moderno delle Res Gestae elencano i territori che aggiunse all’impero, i sovrani stranieri che sottomise a Roma e le delegazioni che giungevano a riconoscere la potenza dell’imperatore. «Ampliai il territorio di tutte le province del popolo romano con le quali confinavano popolazioni riottose al nostro comando» proclama, con leggera esagerazione, prima di passare a elencare, con quella che oggi può apparire pedante lunghezza, i suoi successi imperiali e le sue vittorie militari in tutto il mondo: l’Egitto reso un possedimento romano; i parti costretti a riconsegnare le insegne militari romane perdute nel 53 a.C.; un esercito romano arrivato fino alla città di Meroe, a sud del Sahara, e una flotta giunta fino al mare del Nord; delegazioni che arrivavano da paesi remoti come l’India, per non parlare di uno svariato gruppo di re spodestati che imploravano misericordia, con nomi dal suono esotico che affascinavano l’orecchio dei latini: «Artavasde re dei Medi, Artassare degli Adiabeni, Dumnobellauno e Tincommio dei Britanni». E questo è soltanto un piccolo frammento. C’è qualcosa di molto tradizionale in tutto questo. Il successo militare era stato un presupposto fondamentale del potere politico fin dai primordi della storia romana. In questo ambito, Augusto superò tutti i suoi possibili

rivali, sottomettendo al proprio dominio un territorio più vasto di quanto ne riuscì ad acquisire qualsiasi suo predecessore o successore. Tuttavia, era anche una nuova forma di imperialismo. L’intestazione del testo iscritto (ciò che più si avvicina al nostro concetto di titolo) recita: «Delle imprese del divino Augusto, con le quali sottomise il mondo all’impero del popolo romano». Pompeo, più di un secolo prima, aveva soltanto alluso a un simile tipo di ambizione. Augusto trasformò esplicitamente la conquista globale (e una visione territoriale «coerente» di un impero centrato su Roma, anziché il vecchio mosaico di stati ubbidienti) in un fondamento razionale per il suo dominio. Non ci è possibile sapere in che modo tutto questo sarebbe stato recepito dal pubblico provinciale di Ankara. Ma è un’idea riflessa anche in altri monumenti che Augusto promosse nella città di Roma, come la celebre «carta» del mondo che fece commissionare insieme al suo collega Marco Agrippa e poi fece esporre in pubblica vista. Non ne rimane alcuna traccia, e l’ipotesi più probabile è che si tratti di qualcosa di più simile a una pianta annotata delle strade romane che a una realistica proiezione geografica nel senso odierno del termine (si veda la tavola 21). Quale che fosse il suo aspetto preciso, era perfettamente in linea con la visione augustea dell’impero. Come scrisse in seguito Plinio, scopo della carta era rendere «il mondo [orbis] qualcosa di visibile per la città [urbs]», o esibire il mondo come territorio romano sotto il comando dell’imperatore. Nelle Res Gestae la generosità di Augusto nei confronti della gente comune in patria occupa altrettanto spazio delle sue conquiste all’estero. La sua ricchezza era quasi senza precedenti. Combinando l’eredità ricevuta da Cesare con le ricchezze dell’Egitto, ottenute dopo la sconfitta di Antonio e Cleopatra, e con l’occasionale mancanza di confine tra i fondi statali e i suoi beni privati, poteva superare di gran lunga chiunque altro come benefattore del popolo. Sono scrupolosamente elencate le sue regolari elargizioni di denaro: la data della distribuzione, la cifra precisa assegnata a ciascuno (spesso equivalente al salario di parecchi mesi per un lavoratore ordinario) e il numero dei beneficiari: «Di queste mie elargizioni beneficiarono non meno di duecentocinquantamila persone», come sottolinea lui stesso. Vengono menzionati anche altri tipi di donativi e altre forme di patrocinio, soprattutto spettacoli gladiatorii, «esibizioni atletiche», cacce a bestie selvagge, con animali appositamente importati dall’Africa (un autore successivo parla di quattrocentoventi leopardi in una sola occasione), e persino una finta battaglia navale che divenne poi leggendaria. Fu infatti un eccezionale trionfo di capacità ideativa e ingegneristica, perché, come

spiega orgogliosamente Augusto, fu inscenata su un lago artificiale di 500 per 350 metri, specificamente allestito «sull’altra sponda del Tevere» (l’area dell’odierna Trastevere), e vi parteciparono trenta grandi navi da guerra e un numero ancora maggiore di navi più piccole, con tutti i propri rematori e tremila combattenti. Come afferma lui stesso, il popolo romano poteva contare su almeno un grande spettacolo all’anno a spese dell’imperatore. Non fu certo il solito bagno di sangue per il godimento popolare immaginato dai film moderni sull’antica Roma, ma comportava comunque un ampio investimento di tempo, denaro e impegno organizzativo, nonché di vite umane e animali. Il messaggio è chiaro. Era un assioma del regime augusteo che l’imperatore esibisse la propria generosità verso la gente comune di Roma e che questa, a propria volta, guardasse a lui come al suo patrono, protettore e benefattore. Ribadì la medesima cosa quando assunse (o, più tecnicamente, quando gli venne conferita) la «potestà tribunizia» a vita. Si collegava in questo modo alla tradizione dei politici popolari, risalente come minimo fino ai Gracchi, che difendevano i diritti e il benessere degli abitanti più poveri della città. La parte finale delle Res Gestae è dedicata alle sue costruzioni architettoniche. Si trattava in parte di un gigantesco programma di restauri, dalle strade agli acquedotti e al tempio di Giove sul Campidoglio, il monumento fondativo della repubblica. Con straordinario sfoggio, Augusto proclama di avere ristrutturato ottantadue templi in un singolo anno: cifra non molto distante da quella totale dei templi di Roma, chiaramente intesa a sottolineare la sua fervida devozione, benché faccia supporre che i lavori concreti effettuati su ciascuno di essi non dovevano essere di notevole portata. Ma, al pari di molti tiranni, sovrani e dittatori prima e dopo di lui, Augusto si impegnò anche a costruire quella che divenne in pratica una nuova Roma, edificando letteralmente il proprio potere. Le Res Gestae descrivono un’integrale ristrutturazione del centro cittadino, per il quale vennero sfruttate per la prima volta le cave di marmo dell’Italia settentrionale e tutte le più lucenti, variopinte e costose pietre che l’impero avesse da offrire. Trasformò la fatiscente vecchia città in un’autentica capitale imperiale. Venne eretto un nuovo gigantesco Foro che rivaleggiava con l’antico (se addirittura non lo superava), una nuova sede per il Senato, un teatro (cui venne dato il nome di Teatro di Marcello, ancora ammirabile oggi), portici, vaste sale pubbliche (chiamate basiliche) e strade pedonali, nonché più di una dozzina di nuovi templi, uno dei quali in onore del suo

padre adottivo Giulio Cesare. Quando Augusto proclama, nelle parole citate da Svetonio, di «avere trovato una città costruita di mattoni e di lasciarla di marmo», è precisamente questo che intendeva. Le Res Gestae forniscono una sorta di indice delle trasformazioni operate nel panorama urbano di Roma. E rappresentano allo stesso tempo un chiarissimo modello per la monocrazia. Il potere di Augusto, come egli stesso lo ha formulato, è contrassegnato dalla conquista militare, dal suo ruolo di protettore e benefattore del popolo di Roma e da costruzioni e ricostruzioni di vasta portata; ed era sostenuto da enormi riserve di denaro, congiunte allo sfoggio di un profondo rispetto per le antiche tradizioni romane. Fu sulla base di questo modello che venne giudicato ogni imperatore dei successivi duecento anni. Persino gli imperatori meno militaristici potevano sfruttare il tema della conquista per affermare il proprio diritto al comando, come fece l’anziano Claudio nel 43 d.C., quando esaltò la «sua» vittoria sull’isola di Britannia, conseguita interamente da suoi subordinati. E ci fu una sorta di costante competizione tra i successivi imperatori su chi potesse vantarsi di essere il più generoso nei confronti della popolazione romana o su chi avesse iscritto in modo più imponente la propria storia nello stesso tessuto architettonico della città. La svettante colonna dell’imperatore Traiano, che celebra le sue conquiste al di là del Danubio all’inizio del II secolo d.C., e che riesce a ottenere il massimo impatto con la minima occupazione di spazio, è un’ovvia vincitrice. Il Pantheon di Adriano è un altro esempio. Terminato negli anni Venti del II secolo d.C., la superficie della sua cupola è rimasta la più ampia al mondo fino al 1958 (quando è stata superata dal palazzo del Centre des nouvelles industries et technologies a Parigi), e dodici delle colonne originali del suo portico erano alte dodici metri ciascuna, ricavate da un singolo blocco di granito grigio e trasportate dal deserto egiziano con un viaggio di quattromila chilometri. In definitiva, tutto questo risaliva ad Augusto.

64. Ricostruzione immaginaria del nuovo Foro di Augusto, di cui rimangono solo parziali resti (oggi ammirabili soprattutto dalla via voluta da Mussolini, via dei Fori Imperiali, che sovrasta quasi tutta la piazza del Foro). Per quanto inaccurato nei dettagli, questo disegno restituisce il carattere elaborato e attentamente pianificato della nuova costruzione, in netto contrasto con l’aspetto per certi versi fatiscente del vecchio Foro repubblicano.

Politica di potenza Le Res Gestae furono sempre intese come una storia di successo, una carrellata retrospettiva di imprese che avrebbe anche stabilito un modello per il futuro. Evitano qualsiasi riferimento a difficoltà, conflitti o contrasti, tranne che per sbarazzarsi brevemente degli avversari della guerra civile da tempo defunti. Con la loro martellante serie di verbi e pronomi in prima persona (ci sono quasi un centinaio di «me» e «mio») costituiscono il più egocentrico di tutti i documenti pubblici romani prodotti fino ad allora, composto nello stile di un autocrate che sembra dare per scontato il proprio potere. Questa, però, è soltanto una parte della storia di Augusto, considerata dalla prospettiva della sua gloriosa fine, dopo oltre quarant’anni al potere. Appariva molto diversa quando egli era rientrato in Italia nel 29 a.C., ancora con il nome di Ottaviano, e ancora con la figura di Giulio Cesare che incombeva pesantemente sulla scena. Cesare fu la sua principale via d’accesso al potere e alla legittimazione, nonché al titolo di «figlio di un dio», ma rappresentava anche un avvertimento del destino che poteva attenderlo. Essere il figlio di un dittatore assassinato era benedizione a metà. La grande domanda, in quel momento, era semplice: come sarebbe riuscito Augusto a creare una forma di governo capace di vincere i cuori e le menti, di disinnescare l’opposizione ancora non completamente neutralizzata al termine della guerra e tale da consentirgli di restare in vita? Parte della risposta riguardava il linguaggio del potere. Per ovvie ragioni, Augusto non si definì con il titolo di re. Rifiutò con ostentazione anche il titolo di «dittatore», distanziandosi dall’esempio di Cesare. La storia secondo cui una volta una folla inferocita costrinse i senatori a barricarsi nella sede del Senato, minacciandoli di darla alle fiamme con loro dentro se non avessero nominato Augusto dittatore, diede ulteriore lustro al suo rifiuto. Volle invece inquadrare tutti i suoi poteri nei termini delle regolari magistrature repubblicane. Innanzitutto, questo significava essere eletto ripetutamente console: complessivamente undici volte tra il 43 e il 23 a.C., più altre due volte negli anni successivi. Poi, a partire dalla metà degli anni Venti del I secolo a.C., egli si fece accordare una serie di poteri formali modellati su quelli delle tradizionali magistrature politiche romane ma non coincidenti con essi: assunse la potestà tribunizia, ma non la carica di tribuno, e «i diritti di un console» senza essere nominato al consolato. Si era

ormai ben lontani dalla tradizionale prassi repubblicana, soprattutto per l’accumulo di molteplici titoli e cariche: non si era mai vista la potestà tribunizia unita contemporaneamente all’autorità consolare; lo stesso vale per l’assunzione nella sua persona di tutti i più importanti sacerdozi romani e non di uno solo. Malgrado le successive accuse di ipocrisia, ben difficilmente Augusto avrà sfruttato questi comodi e antichi titoli per pretendere che questo fosse un ritorno alla politica del passato. I romani, com’è naturale, non erano così indifferenti da non accorgersi che, dietro la foglia di fico dei «diritti di un console», si celava un regime autocratico. Il punto era che Augusto sapeva intelligentemente adattare il lessico tradizionale al servizio di una nuova politica, giustificando e rendendo comprensibile una nuova forma di potere attraverso la sistematica riconfigurazione di un’antica terminologia. Il suo regime fu inoltre presentato come un fatto inevitabile, come parte integrante dell’ordine naturale e storico: in breve, come parte della realtà effettiva. Nell’8 a.C. il Senato decise (chi può dire sulla base di quale suggerimento?) che il mese di Sextilis, immediatamente seguente al mese di luglio, dedicato a Giulio Cesare, fosse rinominato Augustus, agosto: l’imperatore entrò nell’ingranaggio del regolare trascorrere del tempo, e continua a restarvi. Appena un anno prima, il governatore della provincia d’Asia aveva ragionato nei medesimi termini quando aveva persuaso la popolazione locale ad accordare il proprio calendario con il ciclo vitale dell’imperatore e di fare iniziare il proprio anno civico con il compleanno di Augusto. Il 23 settembre, proclamò il governatore (le cui parole sono ancora preservate su un’iscrizione), poteva «giustamente essere considerato equivalente all’inizio di tutte le cose ... perché [Augusto] aveva dato un aspetto diverso al mondo intero, un mondo che sarebbe andato incontro alla rovina se ... egli non fosse nato». A Roma si usava forse un linguaggio meno pomposo, ma anche qui mito e religione potevano essere sfruttati per consolidare la posizione di Augusto. La sua pretesa di discendere direttamente da Enea contribuì a raffigurare l’imperatore come il compimento del destino di Roma, come il suo predestinato rifondatore. Questo è senz’altro un elemento essenziale dell’Eneide di Virgilio, con i suoi chiari riecheggiamenti tra la figura dell’imperatore e quella del leggendario eroe fondatore. Ma può essere visto concretamente anche nel programma scultoreo del nuovo Foro di Augusto. Vi figuravano imponenti statue di Enea e di Romolo, e una statua di Augusto sul carro trionfale era posta al centro della piazza. I portici e le arcate adiacenti ospitavano

dozzine di altre statue, che ritraevano «gli uomini illustri della repubblica», ognuna accompagnata da un breve testo che ne riassumeva i titoli di gloria: da Camillo agli Scipioni, a Mario e a Silla. Il messaggio era chiaro: l’intero corso della storia romana conduceva ad Augusto, che ora si poneva al centro della scena. La storia della repubblica non era stata cancellata: era stata trasformata in un innocuo sfondo per il potere augusteo, le cui radici affondavano nelle stesse origini di Roma. Per dirlo in altre parole: Augusto subentrò nel punto stesso in cui era crollata la precedente politica romana. Era noto che fosse nato nel 63 a.C., l’anno della congiura di Catilina. Svetonio afferma addirittura che suo padre fosse stato trattenuto dalla sua nascita e non fosse perciò riuscito a giungere in tempo al Senato per ascoltare una delle sfolgoranti orazioni di Cicerone. Ma, per quanto ne sappiamo, il 23 settembre non vi fu nessuna seduta del Senato. Che la storia fosse un’invenzione o meno, il punto decisivo era presentare il medesimo giorno come la fine della politica repubblicana, dimostrata dalla corruzione di Catilina, e l’inizio della vita dell’imperatore. C’era, tuttavia, anche una ben più spietata Realpolitik. L’arte, la religione, il mito, i simboli e il linguaggio, dalla poesia di Virgilio alla spettacolare esibizione di sculture nel nuovo Foro, avevano un ruolo fondamentale nel consolidamento del nuovo regime. Ma Augusto prese anche dei provvedimenti più pratici per rafforzare la propria posizione, assicurandosi la fedeltà esclusiva dell’esercito, escludendo i potenziali avversari dalle loro reti di sostegno tra i soldati e il popolino e trasformando il Senato, che era rimasto fino ad allora un’aristocrazia di dinasti concorrenti e possibili rivali, in un’aristocrazia del servizio e dell’onore. Tipico caso di contestatore diventato parte del sistema, Augusto si assicurò che nessuno potesse facilmente seguire l’esempio della sua giovinezza: vale a dire, arruolare un esercito privato e prendere il controllo dello stato. Assunse il monopolio della forza militare, ma il suo regime non ebbe nessuna somiglianza con le dittature militari dell’età moderna. In base ai nostri parametri, in questo periodo Roma e l’Italia appaiono sorprendentemente libere dalla presenza di militari. Quasi tutti i trecentomila soldati romani erano stanziati a debita distanza di sicurezza, vicino ai confini dell’impero e in aree di attivo impegno militare; soltanto un esiguo numero di truppe, compresa la famigerata forza di polizia chiamata «guardia pretoriana», era presente a Roma, che a tutti gli effetti costituiva una zona demilitarizzata. Ma Augusto assunse un ruolo che nessun romano aveva mai avuto prima: quello di comandante in capo di

tutte le forze armate, che nominava i suoi alti ufficiali, decideva dove e contro chi combattere e reclamava per definizione come proprie tutte le vittorie, chiunque avesse avuto l’effettivo comando sul campo di battaglia. Consolidò la propria posizione anche spezzando i legami di dipendenza e fedeltà personale tra gli eserciti e i loro singoli comandanti, grazie soprattutto a un semplice e pratico sistema di riforma pensionistica. Questa deve essere considerata una delle più significative innovazioni del suo intero regime. Stabilì termini e condizioni uniformi di impiego nell’esercito, con un periodo di servizio fissato a sedici anni (presto portato a venti) per i legionari, ai quali, dopo il congedo, era assicurata a spese pubbliche una liquidazione equivalente a dodici volte la loro paga annuale o un’assegnazione di terreno di pari valore. Questo pose definitivamente fine alla dipendenza dei soldati dai loro generali per la garanzia della propria pensione, che, nell’ultimo secolo della repubblica, aveva ripetutamente indotto i legionari ad anteporre la fedeltà verso il proprio comandante a quella verso la stessa Roma. In altre parole, dopo secoli di milizie semipubbliche, o semiprivate, Augusto nazionalizzò integralmente le legioni romane e le escluse dalla politica. Anche se la guardia pretoriana continuò a rappresentare una problematica forza politica, per la semplice circostanza della sua vicinanza al centro di potere in Roma, nel corso dei due secoli successivi soltanto in occasione di due brevi periodi di guerra civile, rispettivamente negli anni 68-69 e 193 d.C., le legioni stanziate fuori dalla città ebbero un ruolo di primo piano nell’insediare i propri candidati sul trono di Roma. Questa riforma fu una delle iniziative più costose affrontate da Augusto, e anzi quasi insostenibile. A meno che non avesse commesso gravi errori di calcolo, il semplice costo dell’operazione dimostra la massima priorità che le assegnava. Secondo una stima approssimativa sulla base dei salari militari a noi noti, la spesa annuale per le paghe regolari e per le liquidazioni dell’intero esercito doveva ora ammontare a circa 450 milioni di sesterzi. Questa cifra, secondo una stima ancora più approssimativa, equivaleva a oltre la metà del gettito fiscale annuale dell’impero. Abbiamo chiare testimonianze del fatto che, nonostante le enormi riserve dello stato e dell’imperatore, fu alquanto difficile reperire il denaro necessario. Questa è sicuramente una delle ragioni delle lamentele dei soldati ammutinatisi sulla frontiera germanica subito dopo la morte di Augusto, i quali protestavano per essere stati tenuti in servizio più a lungo dei vent’anni stabiliti o per aver ricevuto un miserabile acquitrino anziché una dignitosa

fattoria. Allora come oggi, il metodo più semplice che aveva un governo per ridurre la spesa pensionistica era quello di alzare l’età del pensionamento. Sul piano interno, una medesima logica si celava dietro il graduale declino e la successiva fine delle elezioni popolari. Non si trattava principalmente di un attacco contro ciò che rimaneva della democrazia romana, per quanto ciò ne fosse un’inevitabile conseguenza. Era, soprattutto, un astuto modo di inserire un cuneo tra i potenziali rivali dell’imperatore e qualsiasi tipo di ampio sostegno popolare o settario sul quale avrebbero potuto contare all’interno della città. Le libere elezioni avevano costituito il collante per la reciproca dipendenza tra i politici più prominenti e il popolo nel suo complesso. Non appena iniziarono a contare sull’assenso dell’imperatore e non sul voto popolare per ottenere cariche pubbliche o altri tipi di promozione, gli individui più ambiziosi non furono più costretti a conquistare il sostegno della popolazione e a costruirsi un seguito personale, né ebbero più a disposizione una struttura istituzionale entro la quale farlo. Lo scopo, come dichiarano più o meno esplicitamente le Res Gestae, era che Augusto monopolizzasse il sostegno popolare, tenendo i senatori debitamente fuori dal quadro. Tuttavia, malgrado il suo eccezionale potere autocratico, Augusto aveva ancora bisogno del Senato. Nessun sovrano assoluto regna veramente da solo. L’impero romano aveva un’intelaiatura e una capillarità burocratica molto leggere in confronto alla burocrazia di tutti gli stati moderni e anche di alcuni antichi. Anche così, qualcuno doveva comandare le legioni, governare le province, amministrare i rifornimenti di grano e acqua e, più in generale, agire per conto di un imperatore che non poteva fare tutto. Come avviene spesso nei casi di cambiamento di regime, la nuova guardia è più o meno costretta a fondarsi su una versione accuratamente riformata di quella vecchia, altrimenti – come abbiamo visto nella storia più recente – si rischia di sfociare nell’anarchia. In termini generali, Augusto ottenne l’acquiescenza e l’appoggio senatoriale in cambio della concessione di onorificenze, prestigio e, in certi casi, anche di nuovi poteri. Molte antiche incertezze vennero risolte, di solito in favore del Senato. Fino ad allora i decreti senatoriali avevano avuto soltanto valore consultivo e, se necessario, potevano essere ignorati o trasgrediti, come avevano fatto Cesare e Pompeo nel 50 a.C., quando il Senato aveva ordinato a entrambi di sciogliere i propri eserciti. A questi decreti venne ora data forza di legge, ed essi, insieme ai pronunciamenti dell’imperatore, divennero via via la principale forma di legislazione

romana. La spaccatura tra senatori e cavalieri che Gaio Gracco aveva aperto negli anni Venti del II secolo a.C. era ormai completa. I due gruppi vennero formalmente separati, e una nuova qualifica censuaria di un milione di sesterzi, in confronto a quella di quattrocentomila richiesta ai cavalieri, venne ora applicata a una «classe senatoria». Il rango senatorio venne inoltre reso ereditario per tre generazioni. Questo significava che il figlio e il nipote di un senatore potevano mantenere tutti i privilegi senatoriali senza mai rivestire una carica pubblica. E questi privilegi aumentarono, come anche i vincoli che dovevano contrassegnare la superiorità senatoria: da una parte la garanzia di un posto in prima fila in tutti gli spettacoli pubblici, dall’altra l’assoluta proibizione di fare l’attore. In cambio, il Senato divenne qualcosa di più simile a un ramo dell’amministrazione al servizio dell’imperatore. L’introduzione, voluta da Augusto, di un’età di pensionamento per i senatori ne è soltanto uno dei molti indizi. I senatori persero anche alcuni dei loro più importanti e tradizionali simboli di gloria e prestigio. Per secoli, il vertice supremo dell’ambizione romana, il sogno di ogni comandante, persino del poco marziale Cicerone, era stato quello di celebrare un trionfo, sfilando per le strade di Roma abbigliato come il dio Giove e accompagnato dal corteo delle spoglie, dei prigionieri e delle truppe esultanti. Quando, il 27 marzo del 19 d.C., Lucio Cornelio Balbo, un tempo scagnozzo di Giulio Cesare, celebrò alcune vittorie che aveva riportato per conto di Augusto sulle potenti popolazioni berbere presso le propaggini del Sahara, questa fu l’ultima processione trionfale che vide come protagonista un comune generale di rango senatorio. Da quel momento in poi, la cerimonia fu riservata agli imperatori e ai loro parenti più stretti. Non era negli interessi del regime autocratico condividere la fama e la gloria che un trionfo conferiva: un’altra prova lampante che la vecchia repubblica era definitivamente tramontata. Fu anche un altro di quei casi in cui un mutamento radicale di pratiche e abitudini venne fatto sembrare in qualche modo inevitabile. Come parte della sua celebrazione del passato – e in quanto passato – Augusto ordinò che nel Foro romano fosse esposto un elenco di tutti i generali che avevano celebrato un trionfo, da Romolo fino a Balbo. Ne sopravvive una gran parte, ritrovata in piccoli frammenti di un enorme puzzle marmoreo che furono ricomposti, a quanto si dice, da Michelangelo nel XVI secolo per decorare il nuovo Palazzo dei Conservatori che aveva riprogettato per il colle del Campidoglio. L’opera era suddivisa in quattro pannelli, e, grazie alla

scrupolosa impaginazione prevista dai suoi incisori, il trionfo di Balbo è registrato al fondo dell’ultimo pannello, senza lasciare nessuno spazio vuoto per altri nomi. Qui non si trattava soltanto di simmetria del disegno, e il messaggio era evidente: l’istituzione del trionfo non era stata interrotta a metà strada; era giunta alla sua fine naturale. Non c’era più posto per nessun altro.

Problemi di successione Non tutto però andò per il verso voluto da Augusto. Anche attraverso l’antica patina celebrativa che venne stesa sul suo regno, è possibile cogliere un barlume di quello che avrebbe potuto essere un racconto alquanto più torbido e tumultuoso. Nel 9 d.C., cinque anni prima della sua morte, Roma subì uno spaventoso disastro militare in Germania per mano di ribelli locali e combattenti per la libertà, che distrussero quasi per intero tre legioni. Ciò non impedì ad Augusto di vantare orgogliosamente la pacificazione della Germania nelle Res Gestae, ma la gravità della sconfitta sembra averlo indotto a interrompere i progetti di conquista mondiale. Sul fronte interno, l’opposizione al suo regno era più aperta e consistente di quanto appaia a prima vista: circolavano opere letterarie offensive, che venivano requisite e messe al rogo, e ci furono congiure alle quali scampò probabilmente tanto grazie alla sua fortuna quanto alla sua accortezza. Svetonio cita diversi dissidenti e cospiratori, ma, come sempre accade nel caso di complotti falliti, è difficile determinare quali fossero le loro autentiche ragioni, tra la politica e i rancori personali. La vittima designata non ha mai alcun interesse a concedere ai suoi attentatori una versione imparziale. In un caso appare probabile che il fattore principale del malcontento fosse il mutato ruolo politico dell’aristocrazia e il controllo esercitato da Augusto sulle elezioni. La storia di Marco Egnazio Rufo, nella forma che ci è giunta, è prevedibilmente confusa nei dettagli, ma la trama essenziale è sufficientemente chiara. Egnazio, in primo luogo, sfidò Augusto facendo personali elargizioni al popolo. In particolare, quando rivestì la carica di edile nel 22 a.C., utilizzò il proprio denaro per organizzare una rudimentale squadra di pompieri per la città di Roma. Augusto disapprovò, ma decise di battere in volata Egnazio mettendo a disposizione seicento schiavi di sua proprietà. Pochi anni dopo, mentre Augusto si trovava all’estero, Egnazio cercò di assumere il consolato senza avere ottenuto l’approvazione dell’imperatore e quando non aveva ancora raggiunto l’età legale per questa magistratura. Non si trattava certo di un complotto contro l’imperatore, il quale, in ogni caso, non trovandosi a Roma, non avrebbe potuto essere eliminato; e questa potrebbe essere la ragione per cui Egnazio pensava di riuscire nel suo tentativo. Ma quando la sua candidatura fu rifiutata, scoppiarono delle rivolte popolari. Egnazio fu giustiziato, per decisione del

Senato, presumibilmente con il benestare dell’assente imperatore. Non ci è dato sapere quanti fra i suoi colleghi senatori abbiano simpatizzato per Egnazio, e possiamo fare solo delle ipotesi. Non sappiamo nulla del suo background e possiamo soltanto supporre quali fossero le sue ragioni e i suoi obiettivi. Alcuni storici moderni ne hanno voluto fare una sorta di paladino del popolo sul modello di Clodio e di altri tribuni della tarda repubblica. Ma appare più probabile che protestasse contro l’erosione dell’indipendenza dei senatori e affermasse il loro diritto a mantenere i tradizionali legami con il popolo romano. A parte la politica di prima linea, erano indubbiamente diffuse visioni sovversive del mondo simbolico che Augusto cercava di promuovere, e della sua nuova immagine di Roma. Il poeta Ovidio, vittima del lato più crudele del regime augusteo, ci fornisce illuminanti indizi su quali potessero essere le lagnanze mormorate dalla gente comune. Scrivendo dal suo infelice esilio sulle coste del mar Nero, in una serie di poemi intitolati Tristia, spesso più salaci che tristi, Ovidio si lancia in una spiritosa invettiva contro la decorazione del tempio che dominava il nuovo Foro di Augusto, che conteneva statue di Marte e Venere. Al pari del padre di Romolo e della madre di Enea, Marte e Venere erano due divinità fondatrici di Roma. Ed erano i due più celebri adulteri divini della mitologia classica. Fin dai tempi di Omero si raccontava la storia di come il marito cornuto di Venere, Vulcano, dio della metallurgia, avesse colto in flagrante gli imbarazzati amanti, intrappolandoli astutamente in una rete di metallo che aveva appositamente preparato. Non certo il simbolo più appropriato per la moraleggiante nuova Roma di Augusto, dove l’adulterio era considerato un crimine, insinuava il poeta. Anche alcuni dei più sofisticati sfoggi di civilitas potrebbero essersi ritorti contro lo stesso imperatore. Se è vero che Augusto, ogni volta che entrava o usciva dal Senato, salutava ogni senatore per nome, l’intera procedura (ipotizzando dieci secondi per senatore e un Senato relativamente pieno) avrebbe richiesto circa un’ora e mezzo tanto all’ingresso quanto all’uscita. A qualcuno può essere apparsa più un’esibizione di potere che di eguaglianza civica. Persino l’Eneide di Virgilio, il poema epico promosso dallo stesso imperatore, solleva inquietanti questioni. Enea, mitico antenato di Augusto e chiaramente tratteggiato come una sorta di suo riflesso, appare come un eroe tutt’altro che franco e leale. I lettori moderni sono probabilmente più turbati di quelli antichi dal modo in cui Enea abbandona la sfortunata Didone, provocando il suo spaventoso suicidio tra le fiamme della pira: il messaggio è che la mera

passione non deve ostacolare il perseguimento del proprio dovere patriottico, e la minacciosa immagine di Cleopatra ribadisce l’assioma celandosi dietro quella della regina di Cartagine. Ma la scena finale del poema, nella quale Enea, ora stabilmente insediato in Italia, lascia esplodere la sua rabbia e uccide brutalmente un nemico che si era arreso, è sempre apparsa una conclusione inquietante. Queste ambiguità, naturalmente, hanno reso l’Eneide un’opera ben più possente di quanto avrebbero potuto fare migliaia di versi di sciovinistiche lodi. Ma continuano a sollevare domande sul rapporto di Virgilio con il suo mecenate e con il regime augusteo. Che cosa avrà pensato Augusto quando lesse, o ascoltò, per la prima volta questi versi? Virgilio non poté mai saperlo né dirlo. Morì nel 19 a.C., prima, a quanto si dice, di avere completato la revisione finale del suo poema. Il principale problema di Augusto, comunque, era quello di trovare un successore. È certo che avesse intenzione di trasmettere il proprio potere. La sua gigantesca tomba a Roma, già terminata nel 28 a.C., era la prova lampante che lui, a differenza di Antonio, si sarebbe fatto seppellire sul suolo italiano e che gli sarebbe succeduta una dinastia di imperatori. Promosse anche l’idea di una famiglia imperiale, che includeva sua moglie Livia. Il dominio autocratico spesso porta alla ribalta le donne, non perché siano investite di qualche potere ufficiale, bensì perché, quando una persona prende fondamentali decisioni per lo stato in privato, chiunque viva a stretto contatto con quella persona viene ritenuto capace di esercitare su di essa una notevole influenza. La donna che può sussurrare consigli e suggerimenti nelle orecchie di suo marito detiene (o spesso si ritiene che detenga) de facto più autorità del collega che può soltanto inviargli richieste e rapporti ufficiali. In un’occasione, Augusto riconobbe in una lettera indirizzata alla città greca di Samo che Livia aveva messo una buona parola in suo favore da dietro le quinte. Ma lo stesso Augusto sembra avere promosso ancora più attivamente il ruolo di Livia, facendone il cardine delle proprie ambizioni dinastiche. Livia aveva un’immagine ufficiale per la scultura romana (si veda la tavola 12), esattamente come Augusto, e le era stata accordata una serie di speciali privilegi legali, tra cui un posto in prima fila a teatro, l’indipendenza finanziaria e, a partire dagli anni della guerra civile, il diritto alla sacrosantitas («inviolabilità»), analoga a quella di cui godevano i tribuni. Il concetto di sacrosantitas era stato elaborato al tempo della repubblica e serviva a proteggere i rappresentanti del popolo da ogni possibile attacco.

Non appare altrettanto chiaro da cosa dovesse proteggere Livia, ma il fatto nuovo e importante è che tale diritto era espressamente fondato sui diritti attribuiti a un magistrato pubblico uomo. Questo significava introdurla ufficialmente al centro della scena, più di quanto fosse mai accaduto a qualsiasi altra donna prima di lei. In un poema dedicatole dopo la morte di suo figlio Druso nel 9 a.C. viene addirittura chiamata Romana princeps: era l’equivalente femminile di un titolo regolarmente attribuito ad Augusto, Romanus princeps, ossia «primo cittadino di Roma», e significava pressappoco first lady. Probabilmente un bizzarro quanto iperbolico componimento scritto da un adulatore, e certamente non l’indizio di una crescente emancipazione delle donne in generale, ma che dimostra comunque l’importanza pubblica della moglie dell’imperatore all’interno di un’aspirante dinastia imperiale. Il problema stava nel fatto che la coppia non aveva figli. Quando si sposarono, nel 37 a.C., Augusto aveva già una figlia da un precedente matrimonio, mentre Livia aveva già partorito Tiberio e aspettava un altro figlio, al quale venne dato il nome Druso. Malgrado tutta la loro successiva rispettabilità, il loro matrimonio iniziò sotto un velo scandaloso, bollato da Antonio come un indegno atto da donnaiolo. Presumibilmente per vendicarsi di tutte le infamanti voci diffuse sulla sua immoralità, Antonio ripeteva che i due si incontravano alle feste del marito di lei, a metà della cena si appartavano in una vicina camera da letto e poi tornavano con i capelli arruffati. Scandaloso o rispettabile che fosse, il matrimonio non produsse prole: da Augusto, secondo Svetonio, Livia ebbe soltanto un feto nato prematuro. Perciò l’imperatore fece tutto il possibile per assicurarsi degli eredi che potessero essere presentati, nel caso, come legittimi successori. Giulia, in quanto sua figlia naturale, fu il principale strumento dei suoi piani. Fu data in sposa prima a suo cugino Marcello, morto quando Giulia aveva appena sedici anni; poi a un amico e collega del padre, Marco Agrippa, di oltre vent’anni più anziano; infine, in quella che doveva sembrare un’unione perfetta, a Tiberio, figlio di Livia. E se la presenza di un coniuge impediva la realizzazione dei suoi piani matrimoniali, Augusto imponeva il divorzio. Soltanto in rare occasioni ci resta qualche traccia delle sofferenze personali che questi piani producevano. A quanto pare, Tiberio fu devastato dall’obbligo di separarsi da sua moglie Vipsania Agrippina, figlia che Agrippa aveva avuto da un precedente matrimonio, per poter sposare Giulia, che ora era la vedova di Agrippa (un classico esempio di confusione dinastica). Si diceva che una volta, dopo il loro divorzio, Tiberio

avesse intravisto per caso Vipsania e che i suoi occhi si fossero riempiti di lacrime; gli addetti alla sua sorveglianza fecero in modo che non la vedesse mai più. Quanto a Giulia, è possibile che questa serie di matrimoni combinati avesse qualcosa a che fare con la sua ben nota promiscua vita sessuale. Una scioccante storia la vede organizzare sfrenate feste sui rostra del Foro: per una compiaciuta, o piuttosto orribile, simmetria, era lo stesso luogo da cui suo padre aveva sostenuto le sue restrizioni sull’adulterio. Vere o no che fossero, le sue storie amorose furono una delle ragioni (un’altra fu un presunto tradimento contro lo stato) che portarono, nel 2 a.C., al suo esilio sulla piccola isola di Ventotene, dalla quale non fece mai più ritorno a Roma.

65. Dettaglio del fregio processionale dell’altare dell’Ara Pacis di Augusto eretta nel 13 a.C. Il fregio mostrava la famiglia imperiale al completo: in questo dettaglio, sulla sinistra è raffigurato Agrippa. La donna dietro di lui potrebbe essere la moglie che aveva allora, Giulia, ma viene generalmente identificata con Livia.

Il risultato di questa pianificazione dinastica è che l’albero genealogico di quella che è oggi chiamata dinastia giulio-claudia (Giulio era il nome di famiglia di Augusto, e Claudio quello del primo marito di Livia) divenne così complicato che appare quasi impossibile da rappresentare in forma schematica, per non parlare della possibilità di ricordarlo in dettaglio. Ma, anche così, gli eredi tanto desiderati non si materializzarono, e, quando lo fecero, morirono troppo presto. Il matrimonio di Tiberio e Giulia diede un solo figlio, che non sopravvisse all’infanzia. Augusto adottò i due figli che Giulia aveva avuto dal matrimonio con Agrippa per poterli presentare come suoi eredi (complicando ulteriormente l’albero genealogico). La loro immagine, che sembrava il ritratto sputato del loro padre adottivo, fu scrupolosamente diffusa in tutto il mondo romano, ma uno morì di malattia nel 2 d.C., a soli diciannove anni, e l’altro nel 4 d.C., dopo essere rimasto ferito durante una campagna militare in Oriente e prima che il suo matrimonio (con un altro membro della famiglia) avesse potuto dare un figlio. Alla fine, malgrado tutti i suoi sforzi, Augusto si ritrovò nel punto dove sarebbe potuto rimanere fin dall’inizio, vale a dire con Tiberio, il figlio di Livia, che divenne imperatore nel 14 d.C. Plinio il Vecchio non poté fare a meno di notare in ciò un’altra ironia della storia. Tiberio Claudio Nerone, il padre del nuovo imperatore, nella guerra civile si era schierato con Antonio e, insieme alla sua famiglia, era stato tra gli assediati di Perugia. Augusto morì, concludeva amaramente Plinio, «con il figlio del suo nemico come proprio erede».

Augusto è morto. Lunga vita ad Augusto! Augusto morì il 19 agosto del 14 d.C., poco prima del suo settantaseiesimo compleanno, in una delle ville che aveva nell’Italia meridionale. Secondo Svetonio, stava trascorrendo un periodo di vacanza sull’isola di Capri, distraendosi con giochi eruditi insieme ai suoi ospiti: per esempio, tutti gli ospiti romani dovevano vestirsi alla greca e parlare greco, mentre tutti gli ospiti greci dovevano comportarsi come romani. Gli ultimi giorni furono alquanto pacati. Rientrato sulla penisola, ebbe dolori allo stomaco, che alla fine lo costrinsero a letto, dove poco dopo morì, fatto piuttosto sorprendente, dato il destino di tanti suoi contemporanei. Successivamente circolarono voci secondo le quali Livia aveva avuto un ruolo nella sua fine, con qualche fico avvelenato, allo scopo di facilitare l’accessione al trono di Tiberio, proprio come si era rumoreggiato che avesse affrettato la morte di altri membri della famiglia per timore che ostacolassero le possibilità di Tiberio di salire al potere. Fu comunque un altro caso di morte misteriosa nel mondo romano – come lo era la maggior parte delle morti, quando non avvenivano in battaglia, durante il parto o per incidente –, che fece nascere numerosi sospetti e dicerie più o meno fondate. E il veleno fu sempre considerato l’arma preferita delle donne. Non richiedeva forza fisica, ma soltanto astuzia, e costituiva un terrificante rovesciamento del loro tradizionale ruolo di nutrici. Altri credevano, più ragionevolmente, che Livia avesse avuto un ruolo di primo piano nell’agevolare la transizione da Augusto a Tiberio. Non appena la morte del marito apparve imminente, fece chiamare suo figlio, che si trovava al di là dell’Adriatico, a circa cinque giorni di viaggio. Nel frattempo continuò a emanare ottimistici bollettini sulla salute di Augusto, finché, una volta giunto Tiberio, poté annunciarne la morte; quando esattamente sia morto Augusto rimarrà sempre materia di dibattito. Comunque, che fosse avvenuta prima o dopo l’arrivo del suo erede, l’accessione al trono di Tiberio fu relativamente tranquilla. Il corpo di Augusto fu trasportato per oltre centocinquanta chilometri da Nola, dove era morto, fino a Roma, sulle spalle degli uomini più illustri delle città attraversate lungo il viaggio. Non ci fu alcuna cerimonia di incoronazione; in qualsiasi modo Augusto avesse sfruttato il trionfo celebrato nel 29 a.C., non esisteva un rituale specificamente romano per sancire l’accessione imperiale. Ma, quando

convocò una riunione del Senato per rendere pubblico il testamento, i lasciti e le altre disposizioni di Augusto, nonché per discutere l’allestimento dei funerali, Tiberio aveva già saldamente in mano le redini del potere quale nuovo imperatore. Alcune testimonianze fanno supporre che gli organizzatori del funerale temessero possibili disordini. Per quale altro motivo avrebbero fatto sorvegliare la cerimonia e il percorso della processione funeraria da guardie armate? Ma tutto si svolse pacificamente, in un modo che sarebbe stato sostanzialmente familiare a Polibio, per quanto su una scala assai più grandiosa. Un modello in cera di Augusto, e non il suo corpo, fu collocato sui rostra mentre Tiberio pronunciava l’elogio funebre. Nella processione furono fatte sfilare immagini non soltanto degli antenati di Augusto ma anche di altri illustri romani del passato, compresi Pompeo e Romolo, come se Augusto discendesse da tutti loro. Dopo la cremazione, Livia (ora chiamata Augusta, perché nel suo testamento Augusto l’aveva ufficialmente adottata) ricompensò con un milione di sesterzi l’uomo che giurò di avere visto Augusto innalzarsi in cielo. Ora Augusto era un dio. Nella sua forma umana, l’imperatore rimase un enigma fino all’ultimo. Tra le ultime parole rivolte ai suoi amici presenti, prima di un bacio di addio a Livia, incluse una citazione tipicamente ambigua tratta da una commedia greca: «Se ho recitato bene la mia parte, applauditemi». Quale parte aveva recitato in tutti questi anni? E dov’era il vero Augusto? E chi aveva scritto il suo copione? Tutte queste domande, allora come oggi, attendono una risposta. Ancora ci domandiamo come Augusto sia riuscito a riplasmare così radicalmente il panorama politico romano e a imporre la sua volontà per più di quarant’anni (e con quali appoggi). Per esempio, chi decise le caratteristiche della sua immagine ufficiale (o di quella di Livia)? Quale genere di discussioni, e con quali partecipanti, sta dietro il nuovo modello di servizio e pensionamento militare? Fino a che punto è stata la semplice fortuna a farlo sopravvivere così a lungo? Ciononostante, l’impianto generale che aveva messo in piedi per il ruolo di imperatore durò per oltre duecento anni, ossia per il resto del periodo trattato in questo libro. Ogni successivo imperatore che incontreremo fu, o almeno impersonò, Augusto. Tutti assunsero il nome Augusto come parte dei loro titoli imperiali, ed ereditarono il suo personale anello-sigillo, trasmesso direttamente di successore in successore. Nel corso del suo regno Augusto ne aveva cambiato il motivo inciso, prima in un ritratto di Alessandro Magno e infine in quello di se stesso. Il volto di Augusto,

insomma, divenne la firma di ciascuno dei suoi successori. Per quanto diversi possano essere stati i loro nomi, le loro idiosincrasie, le loro virtù, i loro vizi o i loro retroterra culturali e sociali, furono tutti, nel bene o nel male, reincarnazioni di Augusto, che operarono entro il modello autocratico da lui creato e si trovarono a dover affrontare i problemi che egli aveva lasciato irrisolti. È appunto a una parte di questi problemi che ora rivolgeremo la nostra attenzione, cominciando con un’altra morte.

66. Versione semplificata della famiglia e dei discendenti di Augusto e Livia; gli imperatori sono indicati in neretto. Le adozioni e i molteplici matrimoni, nonché la presenza di diversi personaggi con il medesimo nome, rendono il quadro di una complessità sconcertante. Ma proprio questa sconcertante complessità era parte integrante dell’essenza della dinastia.

QUATTORDICI IMPERATORI

Gli uomini sul trono Il 24 gennaio del 41 d.C., quasi trent’anni dopo la morte di Augusto nel proprio letto, e quasi ottantacinque anni dopo l’assassinio di Giulio Cesare, a Roma ci fu un altro violento omicidio. Questa volta la vittima fu l’imperatore Gaio – o, per citare il suo nome completo, Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico –, che quattro anni prima era succeduto al suo prozio, l’anziano Tiberio, sul trono di Roma. Fu il secondo di una serie di quattordici imperatori (non contando i tre effimeri pretendenti nel breve periodo di guerra civile tra il 68 e il 69 d.C.) che regnarono a Roma nei quasi 180 anni che intercorrono tra la morte di Augusto e quella dell’imperatore Commodo, assassinato nel 192 d.C. Tra essi figurano alcuni dei nomi più celebri della storia romana: Claudio, che succedette a Gaio e al quale è assegnato un ruolo da protagonista come erudito e acuto osservatore della politica di palazzo nei romanzi Io, Claudio e Il divo Claudio di Robert Graves; Nerone, con la sua fama di omicida, suonatore di lira, persecutore di cristiani e piromane; Marco Aurelio, l’«imperatore filosofo», le cui meditazioni filosofiche, intitolate Pensieri, sono oggi un best seller; e Commodo, le cui esibizioni nell’arena sono state ricreate, non del tutto inaccuratamente, nel film Il gladiatore. Altri, nonostante tutti gli sforzi dei biografi moderni, sono per noi soltanto dei nomi: l’anziano Nerva, per esempio, che tenne il potere per appena diciotto mesi alla fine del I secolo d.C. L’assassinio di Gaio è uno degli eventi meglio documentati di questo periodo della storia romana, e rappresenta certamente il resoconto più dettagliato che ci sia pervenuto sulla caduta di un imperatore. Occupa circa trenta pagine di testo in un’edizione moderna, ed è inserito come digressione in una storia enciclopedica degli ebrei, scritta circa una cinquantina d’anni dopo da Tito Flavio Giuseppe, un importante ribelle ebreo al giogo romano negli anni Sessanta del I secolo a.C. (con il nome di Joseph Ben Matthias), che poi cambiò schieramento, sul piano politico se non su quello religioso, e finì per diventare quasi uno scrittore di corte. Per Flavio Giuseppe, l’assassinio di Gaio fu una punizione divina scagliata contro un imperatore che aveva deriso e maltrattato gli ebrei e addirittura fatto erigere una statua di se stesso all’interno del Tempio. Comunque, a giudicare dai dettagli circostanziati del suo racconto, deve avere avuto accesso a una fonte scritta da qualcuno piuttosto vicino agli eventi del 24 gennaio.

Tiberio (14-37 d.C.)

Gaio (Caligola) (37-41 d.C.)

Claudio (41-54 d.C.)

Nerone (54-68 d.C.)

Vespasiano (69-79 d.C.)

Tito (79-81 d.C.)

Domiziano (81-96 d.C.)

Nerva (96-98 d.C.)

Traiano (98-117 d.C.)

Adriano (117-138 d.C.)

Antonino il Pio (138-161 d.C.)

Marco Aurelio (161-180 d.C.)

Lucio Vero (in coreggenza con Marco Aurelio, 161-189 d.C.)

Commodo (180-192 d.C.)

DINASTIE Giulio-Claudi (14-68 d.C.) Flavi (69-96 d.C.) «dinastia adottiva» (96-192 d.C.)

67. Tre imperatori – Galba, Otone e Vitellio – ebbero un regno di breve durata tra la morte di Nerone e l’accessione al trono di Vespasiano.

Il racconto dell’assassinio di Gaio che ci offre Flavio Giuseppe apre uno squarcio illuminante sulla nuova atmosfera politica che si diffuse dopo l’uscita di scena del primo Augusto: gli intrighi di palazzo, i vuoti slogan della vecchia aristocrazia senatoria, i problemi della successione, i pericoli che correva chi era assiso sul trono di Roma. Per di più, i vari giudizi, antichi e moderni, sugli errori e i difetti di Gaio, sulle ragioni del suo assassinio e su ciò che avvenne in seguito sollevano importanti questioni: per esempio, su come venne creata la reputazione degli imperatori romani, su come era, ed è, giudicato il loro successo o insuccesso e – cosa ancora più fondamentale – su come il carattere, le qualità, i matrimoni e gli omicidi dei singoli sovrani possano aiutarci a comprendere nella sua vasta complessità la storia di Roma sotto il regime imperiale. Dunque, come fu ucciso Gaio, e perché?

Che cosa andò storto con Gaio? L’imperatore Tiberio, che nel 14 d.C. era succeduto, in modo apparentemente tranquillo, al suo padre adottivo Augusto, si fece sempre più solitario nel corso dell’ultimo decennio del suo regno, trascorrendo la maggior parte del tempo sull’isola di Capri, quasi senza contatti con la capitale. Quando, nel 37 d.C., dopo la morte di Tiberio, venne acclamato imperatore, Gaio dev’essere apparso come un gradito cambiamento. Appena ventiquattrenne, aveva tutti i titoli per stare al vertice della dinastia giulio-claudia. Sua madre, Agrippina, era la figlia di Giulia, e pertanto la nipote di Augusto per diretta discendenza. Suo padre, Germanico – designato come futuro imperatore prima della sua precoce, e prevedibilmente sospetta, morte –, era nipote di Livia e pronipote di Augusto. Fu grazie ai suoi genitori che gli venne affibbiato il soprannome Caligola («Stivaletto»), nome con il quale è generalmente conosciuto oggi. Ancora bambino lo avevano portato in campagna militare, facendogli indossare una piccola uniforme da soldato, con tanto di altrettanto minuscole calzature militari, chiamate in latino caligae.

68. Questo busto raffigura Gaio in abiti militari, con una elaborata corazza. In testa porta una corona di foglie di quercia, la corona civica, tradizionalmente conferita ai romani che avevano salvato in battaglia la vita dei loro concittadini.

Il suo assassinio, dopo soli quattro anni di regno, per mano di tre soldati della guardia pretoriana, fu altrettanto cruento e caotico di quello di Cesare. Nel mondo antico era praticamente impossibile compiere un omicidio mantenendosi a una distanza di sicurezza. Per uccidere bisognava di solito

avvicinarsi alla propria vittima e colpirla, spesso con grande spargimento di sangue. Come dimostrano in modo lampante i casi di Cesare e Gaio, per chi sedeva sul trono i maggiori pericoli giungevano proprio da coloro ai quali era consentito stargli più vicino: mogli, figli, guardie del corpo, colleghi, amici e schiavi. Ma altrettanto netta è anche la differenza tra i due assassinii, un riflesso di quanto fossero mutate le cose dal tempo della repubblica a quello degli imperatori. Cesare era stato accoltellato dai suoi colleghi senatori, in una riunione pubblica, in piena vista, mentre veniva presentata una petizione. Gaio fu massacrato in casa, completamente solo in un vuoto corridoio, da alcune delle truppe scelte che avrebbero dovuto garantire la sicurezza interna del regime. E, quando giunse sua moglie, insieme alla figlioletta, e scoprì il corpo, vennero entrambe uccise. L’imperatore, racconta Flavio Giuseppe, quel giorno aveva assistito ad alcune esibizioni sul Palatino per la festa annuale in memoria di Augusto, fissata in modo da coincidere con l’anniversario di matrimonio della prima coppia imperiale. Al termine dello spettacolo mattutino, aveva deciso di saltare il pranzo (secondo un’altra versione sentiva un po’ di nausea per avere mangiato troppo la notte precedente) e di recarsi direttamente dal teatro alle sue terme private. Mentre percorreva un passaggio che collegava due settori all’interno del sempre più grande «complesso palaziale» (già ben più vasto dell’abitazione relativamente modesta di Augusto), venne assalito dai tre pretoriani. Il loro leader, Cassio Cherea, era a quanto pare spinto da un risentimento personale. Era stato spesso al servizio dell’imperatore, fungendo da torturatore per suo conto e imponendo la sua volontà, ma in cambio Gaio lo aveva ripetutamente e pubblicamente deriso per la sua effeminatezza («femminuccia» era uno dei nomignoli preferiti con cui lo apostrofava). Questa fu la vendetta di Cherea. È possibile che il complotto fosse mosso anche da princìpi più elevati e che godesse di ampi sostegni fra i soldati e i senatori. Questo almeno fanno supporre le numerose storie sulle nefandezze di Gaio. Sono particolarmente celebri l’incesto con le sorelle e il suo folle progetto di nominare senatore il proprio cavallo. I suoi vanagloriosi progetti edilizi sono stati giudicati come qualcosa a metà strada tra un affronto alle leggi di natura e un ridicolo sfoggio. (Provate a immaginarlo, come più di uno scrittore ha descritto la scena, pavoneggiarsi a cavallo su una strada costruita sopra un ponte di barche attraverso il golfo di Napoli, con indosso la corazza di Alessandro Magno...) I suoi coraggiosi soldati dovettero subire l’umiliazione di essere messi a caccia di conchiglie su una spiaggia francese.

E il suo allegro modo di minacciare l’ormai da tempo sofferente aristocrazia divenne leggendario. Una volta venne visto scoppiare improvvisamente a ridere durante un banchetto, mentre stava comodamente sdraiato accanto ai due consoli. «Cosa c’è da ridere?» domandò gentilmente uno di essi. «È solo il pensiero che, con un solo cenno del capo, potrei farvi sgozzare immediatamente tutti e due» rispose Gaio. Se non lo avesse fatto Cherea, ci avrebbe pensato qualcun altro a impugnare il coltello. Comunque, quali che fossero le vere ragioni dell’assassinio, qui si esprimeva una nuova politica: una banda di sicari che agivano in segreto e un omicidio dinastico che richiedeva l’eliminazione anche dei parenti più stretti della vittima. Nessuno si era scagliato contro la moglie di Giulio Cesare. E ciò dimostrava che, malgrado Augusto fosse in gran parte riuscito a escludere le legioni romane dalla politica, i pochi soldati di stanza in città potevano esercitare un enorme potere se lo ritenevano necessario. Nel 41 d.C. non si trattò semplicemente di un gruppo di pretoriani scontenti che assassinarono l’imperatore; la stessa guardia pretoriana impose immediatamente il suo successore. Anche la scorta dell’imperatore, una piccola milizia privata di germani, scelti perché la loro condizione di barbari era considerata una garanzia contro la corruzione, ebbe un ruolo sanguinoso negli eventi che seguirono. Non appena trapelò la notizia dell’assassinio, i germani diedero prova della loro spietata e rozza fedeltà. Piombarono sul Palatino, uccidendo chiunque sospettassero di essere coinvolto nel complotto. Un senatore fu massacrato perché la sua toga era macchiata del sangue di un animale sacrificato per un rito eseguito quel giorno, suscitando l’impressione che potesse avere partecipato all’uccisione dell’imperatore. E si misero a terrorizzare la gente che stava ancora accalcandosi nel teatro dopo che l’imperatore se n’era andato. Questi spettatori rimasero barricati dentro l’edificio, finché intervenne un gentile dottore. Era venuto per medicare quanti erano rimasti feriti nella confusione seguita all’assassinio, e riuscì a far fuggire questi innocenti spettatori con la scusa di mandarli a prendere attrezzature mediche. Nel frattempo, i senatori si riunirono nel tempio di Giove sul Campidoglio, il monumento simbolo della repubblica, ed espressero solenni parole sulla fine della schiavitù politica e il ritorno della libertà. Erano cento anni, secondo i loro calcoli, che la libertà era stata perduta (pensavano probabilmente, quale momento di svolta, all’accordo stipulato nel 60 a.C. da Pompeo, Cesare e Crasso, per formare la Banda dei Tre), e

perciò questo appariva un momento di favorevole auspicio per riprenderne possesso. Il console Gneo Senzio Saturnino pronunciò un discorso estremamente toccante. Era troppo giovane, come ammise lui stesso, per ricordare la repubblica, ma aveva visto con i propri occhi «con quali mali le tirannidi infestino uno stato». Con l’assassinio di Gaio era sorta una nuova alba: A capo dello stato non vi è più un despota che possa impunemente opprimere la città ... Questa tirannia non era rinvigorita da altro all’infuori dell’indolenza ... Abbiamo ceduto alla seduzione della pace e abbiamo imparato a vivere come prigionieri vinti ... Il nostro primo dovere è rendere i più alti onori a coloro che hanno eliminato il tiranno.

Parole che suonavano forti e solenni, ma che si rivelarono vuote. Mentre Saturnino le pronunciava, continuava a portare al dito il suo consueto anello-sigillo, sul quale era inciso, con perfetta lealtà, il volto di Gaio. Un osservatore, notando il contrasto tra le parole e il gioiello, salì sulla tribuna e glielo strappò dal dito. L’intera messinscena giungeva in ogni caso troppo tardi. La guardia pretoriana, che aveva un’opinione molto bassa delle capacità del Senato e nessun desiderio di ritornare alla repubblica, aveva già prescelto un nuovo imperatore. La storia che si raccontava era che, terrorizzato dalla violenza e dal tumulto, lo zio cinquantenne di Gaio, Claudio, si fosse nascosto in un vicoletto buio. Ma fu ben presto scovato dai pretoriani e, nonostante il suo timore di essere ucciso, acclamato come imperatore. La sua parentela con Livia e Augusto lo rendeva un candidato legittimo, e si trovava convenientemente al posto giusto. Seguirono nervosi negoziati, attenta propaganda e imbarazzanti decisioni. Claudio concesse a ciascun pretoriano una generosa elargizione: «primo fra i Cesari a comperare la fedeltà delle truppe» osservò con sarcasmo il biografo Svetonio, come se Augusto non avesse fatto sostanzialmente la stessa cosa. I senatori rinunciarono a ogni idea di libertà repubblicana e ben presto non richiesero altro che Claudio accettasse ufficialmente il trono da loro stessi, mentre la maggior parte se la squagliò in fretta nella sicurezza delle proprie ville di campagna. Anziché ricevere «i massimi onori possibili», Cherea e uno dei suoi complici furono giustiziati, in quanto i consiglieri del nuovo imperatore sostennero rigidamente che, pur essendo stata l’azione gloriosa e meritevole, la slealtà doveva essere comunque punita per scoraggiare

possibili emulazioni. Claudio continuò ad affermare di essere un sovrano riluttante, messo al potere contro la sua volontà. Forse era vero, ma un’esibizione di riluttanza ha spesso fornito un’utile copertura a una spietata ambizione. Ben presto, in tutto l’impero romano gli scultori dovettero adeguarsi ai tempi e impegnarsi a riscolpire gli ormai inutili ritratti di Gaio per farne versioni accettabili dell’aspetto del suo vecchio zio, ora diventato il nuovo imperatore. Questi eventi ci offrono una viva istantanea della politica dell’autocrazia romana quasi trent’anni dopo la morte di Augusto. L’inutile arroccamento del Senato sulla restaurazione della repubblica serve soltanto a dimostrare che il vecchio sistema di governo era definitivamente tramontato, non restando altro che una nostalgica fantasia immaginata da chi non ne aveva mai avuto esperienza diretta. Come sottintende Flavio Giuseppe, chiunque potesse sostenere con solenni parole un ritorno alla repubblica sfoggiando al proprio dito un anello con il ritratto dell’imperatore in realtà non comprendeva assolutamente che cosa fosse il governo repubblicano. La confusione e la violenza che seguirono all’assassinio dimostrano non soltanto con quanta facilità una pacifica rappresentazione teatrale mattutina si potesse trasformare in un bagno di sangue, ma mettono anche in risalto tutte le diverse visioni politiche che animavano il Senato, i soldati e la gente comune. La maggior parte dei ricchi e privilegiati celebrava la morte di un tiranno. I poveri, invece, piangevano per l’assassinio del loro eroe. Flavio Giuseppe nota con particolare derisione la follia delle donne, dei bambini e degli schiavi che «non volevano accettare la realtà» e credevano gioiosamente alle false voci secondo cui Gaio era stato medicato e rimesso in piedi e stava camminando nel Foro. Appare abbastanza chiaro che quanti erano contenti di vedere Gaio tolto di mezzo non erano affatto d’accordo su ciò che si dovesse fare in seguito. Ancora più numerosi erano coloro che non gradivano per nulla vedere il proprio imperatore assassinato. Queste differenze d’opinione sfidano le ortodossie e sollevano alcune questioni storiche di maggiore portata. Gaio era davvero il mostro che viene sempre raffigurato? La gente comune, come suggerisce Flavio Giuseppe, era stata abbindolata e conquistata da un imperatore ritenuto capace di compiere gesti di stravagante generosità nei confronti della folla? (Una volta, a quanto si diceva, dal tetto di un edificio del Foro si era messo addirittura a gettare denaro ai passanti.) Forse sì. Ma ci sono valide ragioni per nutrire sospetti su molte delle storie tradizionali giunte sino a noi sulla

perfidia di Gaio. Alcune di queste sono semplicemente inverosimili. Anche tralasciando i suoi istrionici exploit nel golfo di Napoli, avrebbe davvero potuto far costruire un gigantesco ponte dal Palatino al Campidoglio, del quale non rimane però la benché minima traccia? Quasi tutte queste storie sono state scritte parecchi anni dopo la morte dell’imperatore, e le più bizzarre appaiono tanto più deboli quanto più a fondo le si esamina. Quella sulle conchiglie potrebbe benissimo risalire a una confusione sulla parola latina musculi, che può significare sia «conchiglie» sia «capanne militari». Dunque, i soldati non erano stati costretti a raccogliere conchiglie ma stavano in realtà smantellando un accampamento temporaneo? E il primo riferimento all’incesto che ci sia noto risale soltanto alla fine del I secolo d.C., mentre la testimonianza più chiara in tal senso sembra essere il profondo dolore provato per la morte della sorella Drusilla, cosa che ben difficilmente si può considerare una prova decisiva di rapporti sessuali. L’idea diffusa da alcuni scrittori moderni, secondo cui i suoi banchetti serali assomigliavano piuttosto a delle orge, con le sue sorelle «sotto» di lui e sua moglie «sopra», deriva semplicemente da una traduzione errata delle parole di Svetonio, che si riferisce alla collocazione dei posti a una tavola romana. Sarebbe da ingenui immaginare che Gaio fosse un sovrano innocente e benevolo, spaventosamente frainteso o deliberatamente dipinto in modo distorto. Ma è altrettanto difficile non convincersi che, per quanto possano avere un nocciolo di verità, queste storie su Gaio siano un’inestricabile combinazione di fatti, di esagerazioni, di volute distorsioni e complete invenzioni, composte in gran parte dopo la sua morte, e in larga misura a beneficio del nuovo imperatore, Claudio, la cui legittimità al trono dipendeva in parte dalla convinzione che il suo predecessore fosse stato giustamente eliminato. Come era stato interesse di Augusto denigrare Antonio, così era interesse del regime di Claudio, e di coloro che, sotto il nuovo imperatore, volevano distanziarsi dal vecchio, scaricare disprezzo su Gaio, quale che fosse la verità. Per dirlo in altre parole: Gaio potrebbe essere stato assassinato perché era un mostro; ma è altrettanto possibile che sia stato presentato come un mostro proprio perché era stato assassinato. Ma supponiamo pure (tralasciando tutti i dubbi) che queste storie siano vere, che la gente semplice fosse stata facilmente ingannata e che Roma si fosse trovata sotto il comando di un pazzo sadico, una via di mezzo tra uno psicopatico e uno Stalin. Il punto decisivo è che, a parte il fatto di ribadire che ormai gli imperatori erano diventati un elemento fisso, l’uccisione di

Gaio non ebbe alcun effetto significativo sulla storia del regime imperiale. Questa era una cosa che gli assassini del 41 d.C. avevano in comune con gli assassini del 44 a.C., i quali pure avevano ucciso un autocrate (Giulio Cesare) soltanto per finire nelle mani di un altro (Augusto). Nonostante l’entusiasmo generato dall’assassinio di Gaio, la suspense, l’incertezza del momento e l’amoreggiamento con gli ideali repubblicani, tanto breve quanto irrealistico, il risultato finale fu che sul trono di Roma si sedette un altro imperatore non molto diverso da quello che aveva rimpiazzato. Claudio può avere goduto di una migliore e ben più pedante reputazione postuma, soprattutto perché il suo figlio adottivo e successore, Nerone, non aveva particolare interesse a denigrarne la memoria. Ma basta scavare un po’ sotto la superficie, e anche per Claudio saltano fuori esempi di crudeltà e criminalità (durante il suo regno, secondo un antico conteggio, furono messi a morte 35 senatori, su un totale di circa 600, e 300 cavalieri); e, in ogni caso, Claudio occupava il medesimo posto nella struttura di potere romana. È un’impressione che si ricava osservando i ritocchi apportati ai ritratti del vecchio imperatore. Il mero calcolo economico avrà almeno in parte dettato le astute alterazioni. Qualsiasi scultore che avesse appena terminato una testa di Gaio non voleva certo vedere sprecato il proprio tempo e denaro nell’inutile ritratto di un sovrano spodestato; meglio quindi ritoccarlo subito per dargli l’aspetto del nuovo uomo sul trono. Parte dei cambiamenti può anche essere dovuta a una forma di eliminazione simbolica. I romani cercarono spesso di cancellare dalla memoria coloro che erano caduti in disgrazia, demolendo le loro case, abbattendo le loro statue e cancellando i loro nomi dalle iscrizioni pubbliche (spesso con rozzi colpi di scalpello, non facendo altro che richiamare l’attenzione proprio sui nomi che si vorrebbero dimenticati). Ma un altro punto sottinteso, proprio come nell’aneddoto di Augusto e dei corvi, è che gli imperatori non erano molto diversi l’uno dall’altro, e che bastavano soltanto pochi ritocchi superficiali per trasformarne uno in quello successivo. Gli assassinii non erano che piccole interruzioni nella più vasta trama del regime imperiale.

69. L’aspetto piuttosto peculiare di questo ritratto di Claudio, specialmente nei capelli, si deve a un mutamento di identità: una testa di Gaio è trasformata in una del suo successore. È un simbolo perfetto della cancellazione del precedente regime, il che mostra allo stesso tempo che c’erano meno differenze tra i singoli imperatori di quanto siamo abituati a credere.

«Buoni imperatori» e «cattivi imperatori»? La storia tradizionale dei quasi duecento anni di regime autocratico che intercorrono tra Tiberio e Commodo, in cui si succedono quattordici imperatori appartenenti a tre dinastie imperiali, si concentra sulle virtù e i vizi dell’uomo seduto di volta in volta sul trono, sul suo uso e abuso del potere autocratico. È difficile immaginare la storia romana senza Nerone che «suona la lira mentre Roma brucia» (o meglio, che suonava irresponsabilmente la lira mentre la città veniva distrutta dalle fiamme nello spaventoso incendio scoppiato nel 64 d.C.), che organizza un pasticciato tentativo di assassinare sua madre facendola affogare durante un naufragio (una singolare combinazione di ingegnosità, crudeltà e assurdità), o che fa torturare i cristiani come se fossero i responsabili dell’incendio, nella prima di una sporadica serie di violente reazioni alla nuova religione. Ma Nerone è soltanto uno fra i numerosi protagonisti di una vasta e variegata carrellata di sadismo imperiale. L’imperatore Commodo, che, abbigliato da gladiatore, minaccia i senatori seduti nei posti in prima fila del Colosseo brandendo davanti a loro la testa di uno struzzo decapitato, è spesso citato come esempio riassuntivo del grottesco sadismo di un’autocrazia corrotta. Un testimone oculare, descrivendo l’episodio, ammette di essere rimasto terrorizzato, ma, allo stesso tempo, così pericolosamente divertito da doversi cacciare in bocca qualche foglia d’alloro presa dalla corona che indossava per fermare le risa. Le stravaganze del solitario Tiberio nella sua piscina sull’isola di Capri, in cui dei ragazzi («pesciolini») venivano a quanto pare obbligati a stuzzicargli e mordicchiargli i genitali sott’acqua, ci mostrano la sessualità sfruttatrice del potere imperiale (scena gioiosamente riprodotta nel film Caligola, girato da Bob Guccione negli anni Settanta del secolo scorso). Ancora più agghiacciante è la storia di come Domiziano trasformò il sadismo in un passatempo solitario. Si dice che si chiudesse da solo nella sua stanza, passando ore e ore a torturare mosche infilzandole con lo stilo. Una volta, essendogli stato domandato: «C’è qualcuno con l’imperatore?», un cortigiano rispose seccamente: «Nemmeno una mosca». Ma ci sono anche sporadici esempi di eccezionale virtù imperiale. I Pensieri filosofici dell’imperatore Marco Aurelio, benché siano, in gran parte, poco più che un cliché («Non comportarti come se dovessi vivere

diecimila anni. La morte aleggia sopra di te»), raccolgono ancora oggi molti ammiratori, acquirenti e sostenitori, dai guru dell’auto-aiuto all’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. L’eroico buon senso comune di Vespasiano, padre di Domiziano, merita di essere altrettanto conosciuto. Salito al trono nel 69 d.C., dopo lo stravagante Nerone, era considerato uno scaltro amministratore delle finanze imperiali, fino al punto di imporre una tassa sull’urina umana, ingrediente fondamentale per l’antica industria della pulitura e sgrassatura dei tessuti (una combinazione convenzionalmente chiamata «follatura»). È praticamente certo che non pronunciò mai la brillante battuta pecunia non olet, spesso attribuitagli, che tuttavia ne coglie perfettamente lo spirito. Era anche noto per come punzecchiava le pretenziosità imperiali, comprese le proprie. Al termine della sua processione trionfale, celebrata nel 71 d.C., quando era ormai sessantunenne, dopo essere stato tutto il giorno in piedi in una carrozza sobbalzante sulla strada accidentata, avrebbe detto di essere stato «giustamente punito per avere, alla sua età, desiderato il trionfo, come se lo dovesse ai suoi antenati o se avesse mai potuto sperarlo». Questi imperatori sono tra i personaggi più vividamente ritratti della storia romana. Ma questi interessanti dettagli circostanziali, dalla piega delle loro toghe alla pelata dei loro capi, possono distrarci dalle domande ben più fondamentali già implicite nella storia di Gaio. Quanto è utile vedere la storia romana in termini di biografie imperiali o dividere la storia dell’impero in segmenti costituiti ciascuno da un imperatore (o da una dinastia)? Quanto sono accurate le immagini tradizionali che di questi imperatori sono giunte fino a noi? Che cosa spiegava esattamente il carattere dell’imperatore? Le specifiche qualità dell’uomo assiso sul trono in cosa lo rendevano diverso dagli altri? I biografi e gli storici antichi credevano fermamente nell’importanza di tali qualità, e appunto per questo si concentrarono sui difetti, gli errori, le ipocrisie e il sadismo degli imperatori, e talvolta anche sulla loro robusta pazienza o il loro tollerante buon umore. Svetonio, nella sua serie di biografie intitolate I dodici Cesari, da Giulio Cesare fino a Domiziano (includendo i tre effimeri pretendenti del 68-69 d.C.), dà grande spazio proprio a quel genere di rivelatori aneddoti personali che ho appena citato, e riserva particolare attenzione alle minuzie diagnostiche delle abitudini alimentari dei suoi protagonisti, del loro modo di vestire, della loro vita sessuale e dei loro detti memorabili, dalle battute fino alle ultime parole. È qui che possiamo leggere dell’acne di Tiberio, delle ricorrenti indigestioni

di Claudio o dell’abitudine di Domiziano di andare a nuotare con delle prostitute. Anche il ben più profondo Publio Cornelio Tacito si compiaceva di questo tipo di dettagli. Nella sua storia delle prime due dinastie imperiali, terminanti con Domiziano, Tacito, un senatore di successo e uno storico di spietata e cinica severità, ci offre l’analisi più dura e incisiva della corruzione politica che ci sia giunta dal mondo antico, benché scritta dalla distanza di sicurezza del regno di Traiano, all’inizio del II secolo d.C. Tacito aveva indubbiamente la capacità di vedere il grande quadro. La prima frase dei suoi Annali, una storia degli imperatori giulio-claudi da Tiberio a Nerone, recita semplicemente: Urbem Romam a principio reges habuere («La città di Roma, alle sue origini, fu sotto il dominio di re»). In appena sei parole era espressa una sfida diretta alle fondamenta ideologiche del regime e all’insistenza con la quale gli imperatori sostenevano di non costituire una monarchia nel senso antico del termine. Ma anche Tacito fonda la sua argomentazione sul carattere e i crimini degli uomini seduti sul trono. Per esempio, la descrizione del tentato omicidio di Agrippina, madre di Nerone, durante un naufragio diventa una lugubre storia barocca nel racconto di Tacito, che vi include uno spaventoso dettaglio di umana ingenuità e imperiale crudeltà. Mentre Agrippina nuotava arditamente verso la costa, la sua domestica cercò di salvarsi la pelle mettendosi a gridare di essere la madre dell’imperatore: questa disperata bugia le servì soltanto a essere immediatamente massacrata dagli scagnozzi di Nerone. Buona parte della grande tradizione storiografica moderna sugli imperatori romani è articolata in termini analoghi, ruotando attorno alla bontà o alla malvagità dei personaggi imperiali. Le parole di Edward Gibbon, il cui Declino e caduta dell’impero romano venne pubblicato in dispense a partire dal 1776, hanno avuto un’enorme influenza sul giudizio di generazioni di storici successivi. Prima di affrontare il tema principale della sua opera, Gibbon riflette sul periodo iniziale del regime autocratico, da Tiberio a Commodo, e indica come degni di lode gli imperatori del II secolo d.C. Le sue memorabili parole, vergate con tipica fiducia ottocentesca, sono ancora molto citate: «Se a un uomo venisse chiesto di scegliere il periodo della storia mondiale durante il quale la condizione della razza umana è stata più prospera e felice, indicherebbe, senza esitazione, quello che intercorre dalla morte di Domiziano alla salita al trono di Commodo», vale a dire quello che da allora in poi molti hanno chiamato il periodo dei «buoni imperatori»: Nerva, Traiano, Adriano,

Antonino il Pio, Marco Aurelio e Lucio Vero. Questi furono sovrani, continua Gibbon, il cui carattere e la cui autorità «suscitavano spontaneo rispetto», e che «amavano l’immagine della libertà». Il loro unico rammarico, conclude, deve essere stata la consapevolezza che qualche indegno successore («qualche giovane licenzioso o qualche geloso tiranno») sarebbe presto apparso sulla scena per rovinare tutto, come avevano fatto in passato quasi tutti i loro predecessori: «il cupo e implacabile Tiberio, il furioso Caligola, il debole Claudio, il dissoluto e crudele Nerone ... e il pauroso e disumano Domiziano». È un modo magistrale di riassumere quasi duecento secoli di storia romana. Gibbon visse in un’epoca in cui gli storici esprimevano giudizi «senza esitazione» ed erano pronti a credere che il mondo romano potesse essere stato un posto dove si viveva meglio che nel proprio. Ed è anche profondamente fuorviante, per parecchie ragioni. Non era facile accorpare i diversi sovrani in un’immagine standardizzata e stereotipata. Lo stesso Gibbon ammette (con parole oggi raramente citate, perché incrinano la splendida certezza di quelle sopra riferite) che uno dei suoi imperatori preferiti, Adriano, poteva essere vanitoso, capriccioso e crudele: allo stesso tempo un geloso tiranno e un eccellente principe. Gibbon doveva certamente conoscere la storia di come Adriano avesse fatto mettere a morte il suo architetto per un semplice disaccordo su un progetto edilizio; se vera, questa storia è un esempio di abuso imperiale degno di Gaio. E molti ammiratori moderni del raffinato imperatore-filosofo Marco Aurelio sarebbero probabilmente meno entusiasti se tenessero presente la brutalità con la quale schiacciò i germani, orgogliosamente raffigurata nelle scene di battaglia incise sulla sua colonna celebrativa, che ancora oggi si erge nel centro di Roma: benché meno celebre, fu chiaramente eretta per rivaleggiare con quella di Traiano, rispetto alla quale era leggermente più alta (si veda la tavola 10). C’è anche il problema di distinguere i fatti dalle fantasie, già incontrato nel caso dei resoconti sulle nefandezze di Gaio. Le numerose storie di trasgressione imperiale ci offrono senza dubbio indimenticabili squarci sulle preoccupazioni, i sospetti e i pregiudizi dei romani. Il modo in cui gli scrittori romani si immaginavano che i cattivi imperatori rivelassero la propria malvagità ci può dire moltissimo sugli assiomi culturali e la moralità dei romani, dal particolare fremito d’eccitazione che suscitava (e ancora suscita) il sesso in una piscina alla ben più sorprendente obiezione

alla crudeltà sulle mosche (probabilmente un segno del fatto che non vi era assolutamente nulla al mondo che Domiziano non riuscisse a trasformare in una cavia da torturare per passatempo). Tuttavia, queste testimonianze sulla realtà del regime imperiale sono quasi sempre una combinazione praticamente inestricabile di resoconti accurati, esagerazioni e deduzioni ipotetiche.

70. Una tipica scena di violenza romana, dalla colonna di Marco Aurelio. I prigionieri germani, con le braccia legate dietro la schiena, sono messi in fila e giustiziati uno per uno. La testa che giace a terra accanto al corpo decapitato è un dettaglio particolarmente raccapricciante.

Ciò che accadeva dietro le porte chiuse del palazzo restava normalmente un segreto. Alcuni fatti trapelavano e alcuni pronunciamenti erano espressi pubblicamente; ma, per lo più, le teorie complottistiche galoppavano. Non ci voleva molto per trasformare un tragico incidente di barca in un raffazzonato tentato omicidio (e, in ogni caso, come faceva Tacito a sapere dello sciocco trucchetto della domestica di Agrippina?). E abbondavano

quelle che oggi chiameremmo leggende metropolitane. Aneddoti grosso modo identici e sentenze apparentemente spontanee compaiono nelle biografie di più imperatori. Fu Domiziano o Adriano a osservare sardonicamente che nessuno credeva a un complotto contro un imperatore fino a quando non fosse stato trovato morto? Forse entrambi. Forse Domiziano coniò l’espressione e Adriano la ripeté. O forse era semplicemente un comodo cliché sui rischi del comando che poteva essere messo in bocca a qualsiasi sovrano. Più in generale, la politica del cambio di regime ebbe una profonda influenza sul modo in cui ogni imperatore è passato alla storia, in quanto la carriera e il carattere di ciascun imperatore venivano reinventati per servire gli interessi di quelli successivi. La regola fondamentale della storia romana è questa: chi venne assassinato, come Gaio, andò incontro al disprezzo e alla condanna; chi morì nel proprio letto, lasciando il trono a un figlio ed erede, naturale o adottato, fu elogiato come generoso e benevolo, dedito al successo di Roma, capace di non perdersi in una considerazione troppo alta di se stesso. Questo genere di riflessioni ha recentemente incoraggiato qualche raro tentativo revisionistico di riabilitare alcuni dei più famigerati mostri imperiali. In particolare, un certo numero di storici moderni ha presentato Nerone più come una vittima della propaganda della dinastia flavia, a cominciare da Vespasiano, che come un ossessionato matricida e piromane, che avrebbe appiccato il fuoco del grande incendio del 64 a.C. non soltanto per godersi lo spettacolo ma anche per liberare terreni sui quali costruire il suo nuovo gigantesco palazzo, la Domus Aurea. Persino lo stesso Tacito, come fanno osservare questi storici, ammette che Nerone finanziò efficaci misure di assistenza per i senzatetto dopo l’incendio; e la presunta stravaganza della sua nuova residenza, con tutti i suoi lussi (tra cui una sala da pranzo girevole), non impedì al parsimonioso Vespasiano e ai suoi figli di usarne una parte come propria abitazione. Inoltre, nei vent’anni successivi alla morte di Nerone (68 d.C.), almeno tre falsi Nerone, con tanto di lira, apparvero nelle regioni orientali dell’impero, nella speranza di conquistare il potere spacciandosi per lo stesso imperatore, ancora vivo nonostante tutte le notizie sul suo suicidio. Furono ben presto eliminati, ma il fatto stesso dimostra che in alcune aree del mondo romano Nerone era ricordato con affetto: nessuno cercherebbe di impadronirsi del potere fingendo di essere un imperatore universalmente odiato. Questo scetticismo storico è salutare. Ma non coglie il punto principale: ossia che, indipendentemente dalle opinioni di Svetonio e altri scrittori

antichi, le qualità e il carattere dei singoli imperatori non avevano grande importanza per la gran parte degli abitanti dell’impero, o per la struttura fondamentale della storia romana e dei suoi principali sviluppi. Avevano probabilmente importanza per alcuni membri dell’élite metropolitana, i consiglieri dell’imperatore, il Senato e il personale di palazzo. I rapporti quotidiani con l’imperatore adolescente Nerone possono essere stati certamente più complicati rispetto a quelli con il suo predecessore Claudio o a quelli con il suo successore Vespasiano. E l’assenza di Tiberio, chiuso nel suo ritiro di Capri, o di Adriano, impegnato in uno dei suoi numerosi viaggi per tutto l’impero (il sovrano aveva una grande passione per il turismo e trascorreva più tempo all’estero che in patria), deve avere avuto un impatto sulle persone direttamente coinvolte (compreso, per un breve periodo, Svetonio, che lavorò nella segreteria di Adriano). Tuttavia, al di là di questa cerchia ristretta, e certamente al di fuori della città di Roma, dove gli effetti della generosità individuale di un imperatore potevano toccare relativamente la vita dell’uomo della strada, non poteva fare grande differenza chi fosse sul trono, o quali fossero le sue abitudini personali o i suoi intrighi. E nessuna testimonianza fa supporre che il carattere del sovrano influenzasse significativamente il modello fondamentale del governo in patria o all’estero. Se Gaio, Nerone o Domiziano furono realmente così irresponsabili, sadici e folli come vengono rappresentati, ciò non ebbe grande importanza per i modi di funzionamento della politica e dell’impero romano, dietro la facciata degli aneddoti da prima pagina. Sotto le scandalose storie di sodomia (che oscurano tanto quanto vivificano le vicende), lontano dagli aforismi accuratamente costruiti di Gibbon, c’erano una struttura di comando sorprendentemente stabile e, come vedremo, una serie di problemi e di tensioni che percorrono l’intero periodo. Sono queste le cose che dobbiamo comprendere per capire il regime imperiale, non le idiosincrasie dei singoli imperatori. Dopotutto, nessun cavallo venne mai nominato senatore.

71. Decorazione della Domus Aurea di Nerone. Le parti conservate, quasi interamente inglobate nelle fondamenta delle successive terme di Traiano, sono imponenti, ma nemmeno lontanamente paragonabili alle descrizioni pervenuteci. Nonostante varie dichiarazioni ottimistiche, non è stata finora trovata alcuna traccia della sala da pranzo girevole. È probabile che gran parte della decorazione conservata, che tanto colpì gli artisti rinascimentali (i quali fecero grossi scavi per copiarla), appartenga ai quartieri di servizio del palazzo.

Cambiamenti al vertice Questo non vuol dire che, tra il 14 e il 192 d.C., tutto rimase uguale. Nel corso di questo periodo si ebbe una prodigiosa espansione dell’infrastruttura palaziale del potere imperiale, il personale dell’amministrazione crebbe a dismisura e le infrastrutture si fecero sempre più complesse. Infine, dall’inizio del II secolo d.C. l’imperatore iniziò ad apparire sotto un aspetto molto diverso agli occhi dei suoi sudditi. Augusto aveva dato grande sfoggio (e si trattava in parte soltanto di uno sfoggio) al fatto di vivere sostanzialmente allo stesso modo dei tradizionali aristocratici romani. Nel giro di qualche decennio, però, gli imperatori iniziarono a vivere immersi in un lusso e una stravaganza che non aveva precedenti nel mondo occidentale. La città di Pompei ci offre un chiaro esempio della portata di questo cambiamento. Nel II secolo a.C. la casa più grande di Pompei (che oggi chiamiamo la Casa del Fauno, dal ritrovamento di una statua bronzea di un fauno o satiro danzante) equivaleva per dimensioni ai palazzi di alcuni re del Mediterraneo orientale che si erano accaparrati, o avevano ricevuto, parti del territorio conquistato da Alessandro Magno. Nel II secolo d.C., la «villa» (com’è eufemisticamente chiamata oggi) che Adriano fece costruire a Tivoli, a pochi chilometri da Roma, era più grande della stessa città di Pompei. E qui ricreò per suo personale piacere un impero romano in miniatura, con repliche dei più grandi monumenti e tesori imperiali: dai canali egizi al celebre tempio di Afrodite nella città di Cnido, con la sua ancora più celebre statua nuda della dea. Nel frattempo, le due case sul Palatino in cui aveva abitato Augusto si erano accresciute fino a diventare un vero e proprio palazzo. Tra i primi imperatori, Nerone fu il più tristemente celebre nella sua passione per stravaganti edifici residenziali. La sua Domus Aurea era costruita con le più moderne tecniche edilizie ed era fornita di ogni possibile lusso; ma già le sue stesse dimensioni erano stupefacenti: insieme, i quartieri residenziali e l’annesso parco si estendevano, a quanto si dice, per mezza città, quasi come se il Palazzo di Versailles fosse stato costruito nel centro di Parigi. Venne presa di mira in alcuni pungenti graffiti: «Tutta Roma sta diventando una sola casa. Fuggite a Veio, cittadini» scrisse un tipo particolarmente burlone, riferendosi a una proposta fatta parecchi secoli prima, dopo l’invasione dei

galli nel 390 a.C., secondo cui i romani dovessero abbandonare la propria città e trasferirsi in quella che era stata una città etrusca nemica. Ma, per quanto controversa possa essere stata l’«invasione» di Roma compiuta da Nerone, il suo grandioso progetto edilizio stabilì un modello per il futuro.

72. La villa di Adriano a Tivoli. Al bordo di una piscina ornamentale era stata collocata questa statua di coccodrillo, per dare un tocco di sapore egizio. La villa era ancora più stravagante della Domus Aurea di Nerone. Adriano, a differenza di Nerone, non venne

criticato per questa gigantesca costruzione, soprattutto perché era relativamente nascosta nella campagna, anziché occupare una vasta area cittadina.

Alla fine del I secolo d.C. gli imperatori avevano preso l’abitudine di acquistare lussuose proprietà suburbane attorno al perimetro esterno di quasi tutta la città (combinazioni di palazzi e parchi di piacere, chiamati horti, «giardini»), e avevano praticamente occupato l’intero colle del Palatino con il loro quartier generale centrale, o «palazzo» (dal nome del colle «Palatino»). Questa gigantesca struttura possedeva ormai aule d’udienza, sale da pranzo ufficiali, sale di ricevimento, uffici, terme e alloggi per famiglie, personale e schiavi; e sul lato posteriore, simbolicamente chiusa, era la finta «Capanna di Romolo», dove un tempo Roma stessa era nata. Il palazzo non era soltanto imponente, su molti piani, dominante la città; aveva completamente occupato aree del Palatino che per secoli erano state il luogo di residenza preferito dai senatori. Qui Cicerone aveva la sua principale casa cittadina, e lo stesso vale per Clodio e molti altri personaggi di primo piano nella politica della Roma repubblicana. Non potrebbe esserci un simbolo più chiaro del mutamento degli equilibri di potere a Roma del fatto che i resti più significativi di quelle vecchie case del Palatino si trovino oggi sepolti nelle fondazioni del successivo palazzo, o che le famiglie dell’aristocrazia, vistesi cacciate dal loro quartiere preferito, si trasferissero generalmente sull’Aventino, che nei primi tempi di Roma era stato la roccaforte dei plebei radicali. All’espansione del palazzo imperiale si accompagnò un’espansione dell’amministrazione imperiale nel centro nevralgico dell’impero. Sappiamo molto poco su come fosse organizzato il personale di Augusto, ma si trattava probabilmente di una versione espansa della famiglia allargata di qualsiasi importante senatore del secolo precedente: un elevato numero di schiavi ed ex schiavi, impiegati nelle più svariate funzioni, da quella di lavandaio a quella di segretario, con membri della famiglia e amici come consiglieri, confidenti e casse di risonanza. Questa è certamente l’impressione suscitata dagli occupanti di una grande tomba collettiva (un cosiddetto columbarium, «piccionaia»), scoperta nel 1726 sulla Via Appia. Vi erano originariamente ospitate le ceneri di oltre un migliaio di schiavi ed ex schiavi di Livia, con piccole targhe sulle quali erano incisi il loro nome e la loro professione. Queste targhe ci forniscono un’interessante istantanea del personale di Livia: vi figurano cinque dottori e un supervisore medico, due

levatrici (presumibilmente per il resto della famiglia), un pittore, sette cucitrici (o rammendatrici), un guardarobiere (capsarius, forse l’equivalente antico di «portaborse»), un mastro pasticcere e un eunuco (funzione non specificata). L’impressione complessiva è quella di un personale di schiavi tipico di una donna dell’aristocrazia, ma su una scala nettamente più grande. Dove vivesse tutta questa gente rimane sostanzialmente un mistero. Ben difficilmente avrebbe potuto essere ospitata nelle case sul Palatino della coppia imperiale, e deve essere stata senza dubbio alloggiata altrove. Trent’anni dopo, al tempo di Claudio, si era ormai costituita un’organizzazione amministrativa imperiale di tutt’altra portata e complessità. Era stata creata una serie di dipartimenti per gestire diversi aspetti dell’amministrazione: uffici separati per la corrispondenza in latino e quella in greco, per le petizioni all’imperatore, per la preparazione dei casi legali giudicati dal sovrano. Il personale di questi uffici era formato in gran parte da centinaia di schiavi, sottoposti al controllo di capi divisione i quali, inizialmente, erano di solito ex schiavi (amministratori affidabili, la cui fedeltà all’imperatore era grosso modo garantita). Tuttavia, quando l’enorme potere esercitato da questi uomini divenne una sorta di cause célèbre con l’élite tradizionale, il loro posto venne preso da membri della classe equestre. Ai senatori non piacque mai vedersi scalzati da una potente sottoclasse servile che si pavoneggiava (come essi l’avrebbero percepito) al di sopra di loro. Questo assomiglia molto al pubblico impiego nel senso moderno del termine, tranne che per un aspetto importante: non c’è infatti alcuna testimonianza circa una ben definita gerarchia al di sotto dei direttori dipartimentali, né riscontriamo la presenza di quelle forme di qualifiche ed esami di ammissione che normalmente associamo al concetto occidentale moderno o anche cinese antico di pubblico impiego. Per quanto possiamo accertare, era ancora basato sulla struttura dell’antico personale schiavile, come quello di Cicerone, anche se su una scala molto più vasta. Ma ciò mette anche in luce un altro aspetto del lavoro di imperatore, che, sommerso dalle innumerevoli storie di lussi ed eccessi sfrenati, viene spesso dimenticato: il lavoro d’ufficio. Quasi tutti gli imperatori romani passarono più tempo seduti alla scrivania che al tavolo da pranzo. Ci si aspettava che facessero il proprio lavoro, che li si vedesse esercitare concretamente il potere, rispondere a petizioni, dirimere dispute in tutto l’impero ed emettere verdetti in

complicati casi legali, fino a cause che a un osservatore esterno (ma, senza dubbio, non alle parti coinvolte) possono sembrare piuttosto insignificanti. Per esempio, una volta, come ci racconta una lunga iscrizione, venne chiesto ad Augusto di giudicare una rissa avvenuta a Cnido, la città da cui proveniva la celebre Afrodite, sulla costa sudoccidentale dell’odierna Turchia. Si trattava di una feroce faida locale conclusasi con la morte di un delinquente, ucciso da un vaso che uno schiavo aveva fatto accidentalmente cadere dalla finestra della casa che la «vittima» stava assaltando. Augusto doveva decidere chi fosse il colpevole: l’assalitore, lo schiavo che aveva fatto cadere il vaso, o il suo padrone? Era il lavoro del sempre più numeroso personale dell’imperatore a consentire di trattare i numerosi casi analoghi a quello sopracitato; a palazzo giungevano continuamente sacchi zeppi di lettere e file interminabili di inviati, che pretendevano una risposta o un’udienza imperiale. Sotto questo punto di vista, era in effetti qualcosa di simile al pubblico impiego di tipo moderno, giacché deve essere stato spesso un team di schiavi ed ex schiavi a leggere i documenti, a consigliare il sovrano sui provvedimenti più appropriati e a redigere buona parte delle decisioni e delle risposte. In realtà, molte delle lettere indirizzate «dall’imperatore» a comunità locali delle province e orgogliosamente esposte in forma monumentale su lastre di marmo o di bronzo saranno state da lui semplicemente approvate e ratificate con il suo sigillo. Ma forse questo non importava granché ai destinatari. La maggior parte di coloro che vivevano nelle province, o persino nella stessa Italia, aveva solo la più vaga idea di quale fosse l’aspetto del palazzo imperiale o di come funzionasse l’amministrazione dell’impero. Soltanto un esiguo numero di essi aveva l’occasione di vedere il sovrano in carne e ossa. Ma tutti ne avevano visto l’immagine, riprodotta sulle monete e nei ritratti, che continuavano a essere disseminati in tutto il mondo romano. L’atmosfera non doveva essere molto diversa da quella di una moderna dittatura, con il volto del sovrano su ogni facciata di negozio, a ogni angolo di strada e in ogni ufficio governativo. In qualche caso fu addirittura reso in forma commestibile, stampato sui biscotti distribuiti nei sacrifici religiosi, come dimostrano alcuni stampi per biscotti giunti fino a noi. Lo studioso, insegnante e cortigiano del II secolo d.C. Marco Cornelio Frontone, in una lettera indirizzata al suo più prestigioso studente, considerava la diffusione delle immagini imperiali un motivo d’orgoglio, anche se era piuttosto critico sul talento artistico esibito dalle iniziative spontanee della gente

comune: «I tuoi ritratti sono esposti in pubblico, anche se sono malamente dipinti e modellati, e incisi in uno stile rozzo, quasi privo di valore artistico». Il volto dell’imperatore era ovunque, ma poteva essere rappresentato in modi molto diversi. Soltanto chi si copriva gli occhi non avrebbe potuto accorgersi del profondo cambiamento avvenuto all’inizio del II secolo d.C. nell’aspetto esteriore del sovrano. Con l’ascesa al trono di Adriano, nel 117 d.C., dopo oltre un secolo di ritratti imperiali senza la minima traccia di barba (soltanto un leggero velo, se si volevano mostrare in lutto), gli imperatori iniziarono a farsi raffigurare con una folta barba, moda che si mantenne per tutto il resto del secolo e anche oltre il periodo trattato in questo libro. È un metodo sicuro per datare le numerose teste imperiali che oggi si ammirano nelle vetrine dei musei: se portano la barba, sono state scolpite dopo il 117 d.C. Questo cambiamento non può essere dovuto esclusivamente a un capriccio della moda; non era nemmeno, come suggerì piuttosto prevedibilmente uno scrittore antico, un trucco per nascondere le macchie che deturpavano il volto di Adriano. Era forse un tentativo di emulare i filosofi greci del passato? Come è noto, Adriano era un grande ammiratore della cultura greca, esattamente come lo era Marco Aurelio, egli stesso filosofo. Si trattava dunque, almeno in parte, di un tentativo di intellettualizzare il potere imperiale romano, di ripresentarlo in termini greci? Oppure andava nella direzione opposta, rifacendosi ai severi eroi militari della Roma arcaica, prima ancora dell’epoca di Scipione Barbato, all’inizio del III secolo a.C., quando portare la barba sembra già diventata cosa piuttosto inconsueta per un romano? Non possiamo saperlo, e nessun testo antico spiega il motivo della nuova moda della barba. Ma, almeno, ci dimostra che, all’interno del palazzo imperiale, qualcuno prestava grande attenzione all’immagine dell’imperatore, barba compresa, e, per qualche ragione, era pronto a rompere con la tradizione.

73. Testa di Adriano in bronzo dorato, con la sua caratteristica barba. Un tempo era esposta in una città dell’Italia settentrionale, Velleia, vicino all’odierna Parma.

Per quanto importanti ed evidenti siano alcuni di questi sviluppi, le strutture fondamentali del potere imperiale, nella forma in cui le aveva create Augusto, rimasero inalterate per tutto il periodo in cui regnarono questi quattordici imperatori, indipendentemente da chi fosse sul trono: Tiberio, che fu imperatore all’inizio del I secolo d.C., non avrebbe fatto

molta fatica a entrare nelle vesti imperiali di Commodo, vissuto alla fine del II secolo d.C. Continuarono tutti a portare il titolo di «Augusto», accanto a una serie di altri nomi spesso molto simili. C’è sempre voluto un occhio attento per distinguere Caesar Publius Aelius Traianus Hadrianus Augustus dal suo successore, Caesar Titus Aelius Hadrianus Antoninus Augustus Pius, meglio conosciuti rispettivamente come Adriano e Antonino il Pio. A loro ci si rivolgeva sempre chiamandoli Cesare. «Ave, Cesare, coloro che stanno per morire ti salutano», come talvolta i gladiatori gridavano all’imperatore prima di un combattimento, era un saluto che poteva essere indirizzato indifferentemente a ciascuno di essi. Gli imperatori continuarono altresì a seguire l’esempio di Augusto nel costruire la propria via al potere, nello sfoggiare la propria generosità verso il popolo e nel mostrare il proprio valore militare; e venivano aspramente criticati se non lo facevano. La più celebre costruzione di Vespasiano, l’anfiteatro inaugurato sotto suo figlio Tito nell’80 d.C., combinava sapientemente questi tre obiettivi. Successivamente noto con il nome di Colosseo (da una statua colossale di Nerone che si ergeva nei suoi pressi e che vi rimase per lungo tempo anche dopo la scomparsa di Nerone), era allo stesso tempo un gigantesco progetto edilizio (ci vollero quasi dieci anni per completarlo, usando centomila metri cubi di pietra), una celebrazione della sua vittoria sui ribelli ebrei (il bottino di guerra servì a finanziare il progetto) e un grandioso atto di generosità nei confronti del popolo romano (il luogo di divertimento più popolare in assoluto). Deliberatamente costruito sul sito un tempo occupato dal parco privato di Nerone, era anche una critica al predecessore di Vespasiano. Ma questi quattordici imperatori furono anche gli eredi dei problemi e delle tensioni lasciati irrisolti da Augusto. Infatti il «modello Augusto», se per certi aspetti appariva solido e duraturo, per altri era soltanto un precario gioco d’equilibrio. Augusto aveva lasciato diverse questioni pericolosamente irrisolte. In particolare, non era riuscito a risolvere il problema della successione imperiale. Il ruolo del Senato e le relazioni tra l’imperatore e il resto dell’élite continuavano a essere aspramente contestati. E, più in generale, rimanevano aperte difficili questioni su come dovesse essere definito e rappresentato il potere del sovrano nel mondo romano. Per esempio, come potevano accordarsi l’esibizione della civilitas o l’idea che l’imperatore fosse soltanto un primus inter pares con gli eccezionali onori che riceveva e con il suo status quasi divino? E qual era precisamente il rango divino dell’imperatore romano?

Tutti gli imperatori e i loro consiglieri dovettero affrontare questi dilemmi, che si celano sotto la superficie di gran parte dei più foschi aneddoti. Numerose storie sull’avvelenamento di eredi imperiali, per esempio, dimostrano l’incertezza a proposito dei diritti di successione. Gli sbeffeggianti insulti di Gaio ai suoi maltrattati consoli riflettono i rapporti tesi tra Senato e imperatore. Dobbiamo perciò rivolgere la nostra attenzione a questi conflitti fondamentali del potere imperiale: la successione, il Senato e lo status, divino o non divino, dell’imperatore. Per la nostra comprensione del funzionamento della politica imperiale romana essi sono altrettanto importanti dei giganteschi progetti edilizi, delle campagne militari e delle generose elargizioni al popolo; e certamente molto più importanti di tutte le curiose storie su crimini, cospirazioni e cavalli aspiranti senatori.

La successione L’assassinio di Gaio fu un caso particolarmente violento di cambio di regime, ma a Roma la trasmissione del potere imperiale risultava spesso cruenta. Nonostante la sorprendente longevità di tutti i sovrani (quattordici imperatori in quasi duecento anni è una dimostrazione lampante di stabilità), il momento della successione era avvolto nella violenza e circondato da accuse di tradimento. Vespasiano fu l’unico sovrano delle prime due dinastie a morire senza che emergessero sospetti di omicidio. Gaio, Nerone e Domiziano morirono di morte violenta. E circolarono voci di assassinio per la morte di tutti gli altri. I nomi, le date e i particolari cambiano, ma la storia rimane sempre la stessa. Alcuni dissero che Livia aveva avvelenato Augusto per facilitare l’ascesa al trono di Tiberio; molti erano convinti che Tiberio fosse stato avvelenato o strangolato per aprire la strada a Gaio; Agrippina si sarebbe sbarazzata del marito Claudio con dei funghi velenosi per far diventare imperatore suo figlio Nerone; e alcuni sostennero che Domiziano avesse avuto un ruolo nella precoce morte di Tito (in contrasto con la storia tramandata nel Talmud, secondo la quale Tito, dopo avere distrutto il Tempio di Gerusalemme, fu colpito da un moscerino che gli si infilò nella narice e gradualmente gli divorò il cervello). Alcune di queste storie devono essere semplici invenzioni. Ci vuole davvero molto per credere che l’anziana Livia avesse faticosamente spruzzato di veleno i fichi ancora sull’albero e poi subdolamente convinto suo marito a mangiarli. Comunque, vere o no che siano, sono il riflesso dell’incertezza e dei rischi che circondavano la trasmissione del potere. Il messaggio era che la successione al trono non avveniva quasi mai senza una lotta o una vittima. Questo schema fu riproposto anche per i miti dei primi re: avevano avuto lunghi regni, ma soltanto due di essi erano morti di morte naturale. Perché la successione era così difficile? E quali soluzioni escogitarono i romani? Augusto voleva rendere permanente il suo regime e mantenerlo all’interno della propria famiglia. Ma la lunga catena di morti tra coloro che aveva scelto come eredi e la mancanza di figli viventi dal suo matrimonio con Livia fecero naufragare i suoi piani. Per tutto il corso della dinastia giulio-claudia la successione rimase problematica, in quanto si scontravano le pretese di differenti rami della famiglia. Ma i problemi erano ancora più

profondi, e non si sarebbero dissolti nemmeno se la coppia imperiale avesse generato una mezza dozzina di figli sani e robusti. Augusto stava cercando di inventare dal nulla un sistema di successione dinastica, sulla base di una fluida serie di regole relative all’ereditarietà del rango e della proprietà. Fatto di cruciale importanza, nella legge romana non esisteva il presupposto che il primogenito fosse l’erede unico o principale. Il moderno sistema della primogenitura è un meccanismo sicuro per rimuovere qualsiasi dubbio sull’identità del successore, anche se – facendo dell’ordine di nascita il solo criterio dirimente – rischia di porre sul trono individui del tutto inadatti al compito. A Roma, il primo figlio maschio dell’imperatore avrebbe potuto contare su un certo vantaggio nella corsa al trono, ma nulla più di questo. Il successo di una rivendicazione del potere dipendeva anche da manovre dietro le quinte, dall’appoggio di fondamentali gruppi d’interesse e da un’attenta manipolazione dell’opinione pubblica. Dipendeva infine dalla fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. L’unico modo sicuro per garantire una pacifica transizione era quello di avere il nuovo imperatore pronto a indossare il vecchio anello-sigillo di Augusto nel momento stesso in cui il precedente imperatore esalava l’ultimo respiro, senza nemmeno un momento di pericoloso vuoto di potere. È esattamente di questo che si resero conto tutti i maldicenti e i linguacciuti: sotto la dinastia giulio-claudia, la maggior parte delle accuse di avvelenamento considerava l’omicidio non come parte di un complotto per mettere sul trono un certo candidato, ma come un tentativo di creare il momento perfetto per assicurare una tranquilla assunzione al trono alla persona già designata come probabile successore. Queste incertezze sul modo in cui stabilire una legittima pretesa al comando ci aiutano anche a spiegare l’immagine fortemente violenta e omicida della corte imperiale, dove il pericolo sembrava annidarsi su ogni fico e dove dominava una tale atmosfera di sospetto che Domiziano avrebbe fatto rivestire le pareti del palazzo con un pietra riflettente, in modo da poter vedere chi avesse alle spalle. In mancanza di un sistema concordato per la trasmissione del potere, ogni parente rappresentava un potenziale rivale dell’imperatore o del suo probabile erede, e appare evidente come coloro che stavano all’ombra della famiglia imperiale si potessero trovare in una posizione assai pericolosa. Molte storie possono contenere più fantasia che fatti: l’aristocrazia romana non era per sua stessa natura particolarmente crudele e spietata, anche se questa è l’immagine che le viene data nei film e nei romanzi. Spietata era la stessa logica fondamentale

della successione imperiale. Tacito coglie benissimo questo aspetto, e con caratteristico cinismo, descrivendo gli eventi dell’inizio del regno di Nerone, nel 54 a.C., «La prima morte sotto il nuovo imperatore», scrive, sottintendendo che ne sarebbero seguite molte altre, fu quella di Marco Giunio Silano Torquato, governatore dell’Asia. Era un uomo privo di qualsiasi ambizione, così spudoratamente apatico che, come spiega Tacito, Gaio lo aveva giustamente soprannominato la Pecora d’Oro. Ma la sua morte era inevitabile, e la ragione altrettanto evidente: «Era un pronipote di Augusto». C’erano anche altre vie per raggiungere il potere. Una era precisamente quella che Augusto aveva cercato di sbarrare: l’elezione da parte dell’esercito. Nel 41 d.C. la guardia pretoriana di Roma aveva svolto il ruolo principale nel portare Claudio sul trono. Nel 68 d.C., per citare ancora Tacito, «era stato svelato l’arcano dell’impero: il principe poteva essere eletto anche fuori di Roma». «Fuori di Roma» non è che un eufemismo per «da parte delle legioni nelle province», dato che ciascuno dei quattro pretendenti alla successione a Nerone era appoggiato da unità dell’esercito di differenti province. Nello spazio di diciotto mesi, Vespasiano fu elevato al potere in Oriente, pur non avendo alcun rapporto di parentela con la dinastia giulio-claudia. È chiaro, comunque, che Vespasiano e i suoi sostenitori ritenevano che la sola forza militare non fosse sufficiente per assicurare la sua posizione. Malgrado l’immagine di uomo pragmatico che poi gli fu attribuita, all’inizio del suo regno ben propagandate notizie sui miracoli da lui compiuti rafforzarono le sue pretese al trono. Si raccontava che in Egitto, poco prima della sua proclamazione a imperatore, avesse ridato la vista a un cieco sputando sui suoi occhi e curato la mano anchilosata di un uomo standovi sopra. Qualsiasi attentamente manipolata orchestrazione si celi dietro queste notizie (e malgrado qualsiasi misteriosa somiglianza con un altro ben più noto facitore di miracoli del I secolo d.C.), a quanto pare diversi testimoni oculari confermarono queste guarigioni miracolose anche parecchi anni dopo la morte di Vespasiano. I pretoriani continuarono a influenzare la successione imperiale; certamente, nessuno sarebbe stato in grado di mantenersi sul trono se le truppe cittadine gli si fossero attivamente opposte. Ma, fino al 192 d.C., non attuarono più colpi di stato come quello del 41 d.C., e anche le legioni provinciali non crearono più nuovi imperatori. Questo si deve in parte al fatto che, a partire dalla fine del I secolo d.C. (dopo un breve intermezzo di successioni relativamente tranquille, in cui a Vespasiano erano succeduti i

suoi due figli naturali), venne adottato un altro metodo di selezione al trono, che sembrava risolvere alcune delle precedenti difficoltà: l’adozione. A Roma l’adozione non era mai stata un sistema con cui una coppia priva di figli poteva creare una famiglia. Se una coppia desiderava un bambino, poteva facilmente procurarsene uno fra i tanti che venivano esposti. Per l’aristocrazia, l’adozione era sempre stata un mezzo per assicurare la trasmissione di rango e proprietà, e la continuazione del nome di famiglia in assenza di figli viventi. Si adottavano di solito adolescenti o giovani adulti anziché bambini, il cui elevato tasso di mortalità ne faceva un investimento incerto. È così, per esempio, che Scipione Emiliano, l’amico di Polibio e conquistatore di Cartagine nel 146 a.C., figlio naturale di un altro celebre comandante romano, Emilio Paolo, entrò a far parte della famiglia degli Scipioni. Non è affatto sorprendente che Augusto e i suoi successori della dinastia giulio-claudia ricorressero all’adozione, come fecero talvolta altre famiglie dell’élite, per indicare il loro erede favorito all’interno della vasta cerchia dei parenti. Così Augusto adottò i suoi nipoti e, dopo la loro morte, adottò il figlio naturale di Livia, Tiberio. Claudio adottò il figlio di sua moglie, Nerone. Ma, a partire dalla fine del I secolo d.C., si stabilì un nuovo schema. Nel 96 d.C., quando Domiziano venne assassinato, il Senato offrì il trono all’anziano, e privo di figli, Nerva (una sicura garanzia, presumibilmente). Da Nerva fino a Marco Aurelio, gli eredi al trono furono scelti e adottati senza tenere conto delle relazioni familiari. Alcuni non avevano con l’imperatore nessuna relazione di sangue o per via matrimoniale, o soltanto molto remota, e giungevano da regioni assai lontane da Roma. Traiano, il primo di questi imperatori adottati, era originario della Spagna; altri appartenevano a famiglie spagnole o galliche. Erano i discendenti di antichi coloni romani, che si erano sposati entro la propria comunità locale piuttosto che con la popolazione indigena. Ma, concretizzando il progetto romano di incorporazione, dimostravano che l’imperatore poteva giungere anche dalle province dell’impero. Questo nuovo sistema, che si mantenne per quasi tutto il II secolo d.C., fu talvolta presentato come un decisivo mutamento nell’ideologia del potere politico, quasi una rivoluzione meritocratica. Gaio Plinio Cecilio Secondo (oggi chiamato «Plinio il Giovane» per distinguerlo dallo zio «Plinio il Vecchio») giustificò la procedura proprio in questi termini, in un discorso indirizzato all’imperatore Traiano:

Forse che tu, avendo intenzione di affidare a uno solo il Senato e il popolo romano, gli eserciti, le province, gli alleati, prenderesti il successore dal grembo della moglie e cercheresti l’erede del supremo potere soltanto dentro le pareti del tuo palazzo? ... Chi è destinato a comandare su tutti deve essere scelto fra tutti.

Tacito, che pure scrisse le sue opere durante il regno di Traiano, riecheggia questi sentimenti in un discorso che pone in bocca a Servio Sulpicio Galba, uno dei tre pretendenti al trono che tennero brevemente il potere dopo la morte di Nerone. Pochi giorni prima di morire, Galba, anziano e senza eredi, si diede a cercare qualcuno che potesse adottare come successore fuori dalla sua famiglia. Le parole di Tacito apparentemente giustificano la decisione presa nel 69 d.C.; ma in realtà appartengono al modello dell’adozione imperiale vigente alla sua epoca: «Sotto Tiberio, Gaio e Claudio, fummo quasi l’eredità di una sola famiglia ... Finita la stirpe dei Giuli e dei Claudi, l’adozione farà sempre trovare il migliore». Sono belle parole, e indicano un nuovo tipo di riflessione sulla natura del potere e delle qualità dell’imperatore. Anche nella pratica il sistema dell’adozione in diverse occasioni funzionò perfettamente. Alla morte di Nerva, nel 98 d.C., la successione di Traiano fu talmente solida e sicura che il nuovo imperatore non rientrò a Roma dalla Germania per oltre un anno. Ma non era la soluzione perfetta, come vorrebbero far sembrare alcuni sfavillanti racconti antichi. Se si scava sotto la superficie, appare chiaro che i pretoriani avevano fatto pressione su Nerva per l’adozione di Traiano (il discorso di Plinio lascia trasparire piuttosto stranamente che Traiano era stato «imposto» al vecchio Nerva), e le legioni al comando di Traiano ammassate sul Reno potrebbero avere avuto un ruolo non insignificante. E, quando Traiano morì, quasi vent’anni dopo, qualsiasi cosa sia accaduta in realtà, le macchinazioni riferite si inseriscono nel solco di quelle dell’epoca giulio-claudia: ci furono voci di avvelenamento, l’adozione di Adriano fu annunciata solo all’ultimo momento, e alcuni sospettarono che Plotina, moglie di Traiano, avesse manipolato la successione in favore di Adriano e avesse tenuto nascosta la morte dell’imperatore fino a quando tutti gli accordi erano stati presi. Inoltre, nonostante la solenne retorica meritocratica, l’adozione continuava a essere considerata soltanto un metodo di successione di seconda scelta. Quando Adriano scrisse un poemetto in onore di Traiano, preferì chiamarlo discendente di Enea piuttosto che figlio di Nerva: una

fantasia genealogica che forse allude anche all’origine straniera di Traiano. Plinio terminava il suo smaccato discorso in lode di Traiano con l’augurio che l’imperatore avrebbe avuto in futuro dei figli e che il suo successore sarebbe giunto dal «ventre di una moglie». Marco Aurelio fu il primo imperatore in oltre settant’anni a generare un figlio e successore che sopravvisse all’infanzia, il quale gli subentrò senza che si cercasse l’uomo più adatto al compito. Il risultato fu disastroso. All’assassinio di Commodo, nel 192 d.C., fece seguito l’intervento dei pretoriani e delle legioni rivali dalle province, aprendo un nuovo ciclo di guerra civile, che segnò l’inizio della fine per il modello augusteo del regime imperiale. Gli imperatori romani e i loro consiglieri non riuscirono mai a risolvere il problema della successione. Vennero sconfitti in parte dalla biologia, in parte da perduranti incertezze e disaccordi su come dovesse funzionare il meccanismo dell’eredità. La successione si risolse sempre in una combinazione di fortuna, improvvisazione, complotto, violenza e patti segreti. A Roma, il momento di passaggio del potere fu sempre il momento in cui tale potere era più vulnerabile.

I senatori Un altro problema che tormentò la storia dei quattordici imperatori succedutisi nel corso dei primi due secoli della nostra èra, e che più di ogni altro tenne occupati gli scrittori antichi, era il rapporto tra gli imperatori stessi e i senatori, nonché il modo in cui doveva operare il Senato sotto un’autocrazia. I senatori erano essenziali per la gestione dell’impero. Dalle loro file provenivano quasi tutti gli amici, i consiglieri, i confidenti e i compagni di banchetti dell’imperatore; ma anche coloro che, subito dopo i membri della sua famiglia, potevano diventare suoi rivali, accaniti oppositori o assassini. Augusto aveva cercato di creare un delicato equilibrio, combinando la concessione di ulteriori privilegi al Senato e uno sfoggio di civilitas con il tentativo di riconfigurare l’antica istituzione repubblicana in qualcosa di più simile a un ramo dell’amministrazione del suo nuovo regime. Era un fragile compromesso, che tuttavia non definiva affatto il ruolo politico del Senato sotto un autocrate dai poteri illimitati. Poco dopo la morte di Augusto, Tiberio evidenziò il problema quando, con un sorprendente ritorno a modelli ormai antichi, cercò di convincere i senatori a prendere decisioni indipendenti, ma costoro si rifiutarono ripetutamente di farlo. Secondo Tacito, quando, in una certa occasione, l’imperatore insistette che tutti, egli compreso, dovevano votare con votazione a scrutinio palese, un senatore particolarmente acuto riassunse la questione con presumibilmente falsa deferenza: «A che posto darai il tuo voto, Cesare? Se voterai per primo io saprò che via seguire; se per ultimo, io temo di esprimere senza volerlo un parere diverso dal tuo». Si dice che Tiberio considerasse tutto questo un intollerabile servilismo del Senato, e che, uscendo dalle sue sedute, ogni volta esclamasse: «Gente degna di essere schiava!». Se fosse vero, significherebbe che non seppe comprendere come il libero Senato da lui auspicato fosse incompatibile con il suo stesso potere. I resoconti su questo periodo, scritti in larga misura da un punto di vista senatoriale, danno grande risalto agli stalli o all’aperta ostilità tra imperatore e senatori. Per il regno di ogni imperatore, sono riportati, accuratamente o no, lugubri elenchi di senatori giustiziati o costretti al suicidio, e vengono isolati esempi tristemente celebri. Quasi tutti gli imperatori sembrano avere iniziato il proprio regno con concilianti aperture

verso il Senato per poi degenerare, in numerosi casi, in un’aperta ostilità con alcune fazioni dell’élite. Nel suo primo discorso di fronte ai senatori riuniti, Nerone ribadì che «avrebbero mantenuto i loro antichi privilegi», promessa che, solo pochi anni dopo, per alcuni si rivelò decisamente vuota. Adriano inaugurò il proprio regno con belle parole sul fatto che nessun senatore sarebbe stato condannato a morte senza regolare processo; ma non passò molto tempo prima che quattro ex consoli fossero giustiziati soltanto per una semplice diceria su un loro complotto contro il nuovo sovrano. Tacito non è l’unico storico antico a ricreare un’atmosfera di mortali sospetti tra Palatino e Senato. Persino i senatori più discreti e circospetti nel loro dissenso erano sempre esposti alla minaccia degli informatori, i quali si diceva avessero fatto la propria fortuna rivelando all’imperatore i nomi di coloro che non mostravano completa lealtà. Altri non se ne curavano ed esprimevano pubblicamente la propria opposizione al servilismo e all’adulazione della loro classe, come anche ai ridicoli eccessi dell’imperatore. Durante il regno di Nerone, per esempio, l’integerrimo Publio Clodio Trasea Peto abbandonò infuriato il Senato dopo avere ascoltato la lettura di una missiva dell’imperatore in cui si giustificava l’omicidio della madre, si rifiutò di esprimere l’annuale giuramento di fedeltà al sovrano e mostrò deliberata riluttanza ad applaudire le esibizioni teatrali di Nerone. A causa di questi e vari altri «crimini», venne processato in absentia per tradimento, giudicato colpevole e costretto al suicidio. Tacito aveva parecchi dubbi sull’utilità di queste proteste autocelebrative. A proposito di uno spettacolare gesto di Trasea Peto, scrive che «espose se stesso al pericolo, senza tuttavia suscitare negli altri la volontà di riconquistare l’indipendenza». In un simile contesto politico, l’immagine di Bruto e Cassio come paladini della libera repubblica e dell’autorità senatoriale, e come avversari dell’autocrazia, poteva diventare un potente simbolo di dissidenza. Come abbiamo visto, non c’era alcuna realistica possibilità di riportare l’orologio alla «libertà» (almeno per qualcuno) dei tempi antichi. Il Senato si era giocato l’opportunità di riprendere in mano un certo controllo nel 41 d.C. Meno di trent’anni dopo, nel 69 d.C., quando Vespasiano, appena dichiarato imperatore, si trovava ancora all’estero, i senatori non fecero neppure un tentativo, ma (almeno stando al racconto di Tacito) se ne rimasero seduti inerti nei loro scranni e sfruttarono l’assenza dell’imperatore per regolare i loro vecchi conti. Ormai l’idea della repubblica era diventata per molti

null’altro che un’innocua nostalgia, un’immagine come «il buon tempo antico», e una fonte di celebri aneddoti sulle tradizionali virtù romane. Già al tempo del regno di Augusto, lo storico Livio poté passarla liscia pur essendo un ben noto sostenitore di Pompeo il Grande, l’acerrimo nemico di Giulio Cesare; Augusto si limitò a prenderlo in giro. Ciononostante, in certi casi un’ammirazione aperta nei confronti dei cesaricidi poteva essere una condanna a morte per un senatore. Sotto Tiberio, nel 25 d.C., lo storico Aulo Cremuzio Cordo si lasciò morire di fame dopo essere stato processato per tradimento. Il suo presunto crimine era stato scrivere una storia in cui si elogiavano Bruto e Cassio, e aver definito Cassio «l’ultimo dei romani». Il suo libro venne dato alle fiamme. Il lungo poema sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo scritto da Marco Anneo Lucano, nel quale i due protagonisti sono presentati entrambi come pieni di spaventosi difetti, e un’autentica virtù viene riconosciuta soltanto all’irriducibile repubblicano Catone, sfuggì invece a questa sorte e si è conservato. Ma tali giudizi non potevano essere completamente slegati dal ruolo che il poeta aveva avuto in un presunto complotto contro Nerone e dal suo successivo suicidio. Anche il potere che aveva l’imperatore di umiliare o addirittura maltrattare era oggetto di frequente disapprovazione. La «battuta» di Gaio sul fatto che avrebbe potuto far giustiziare i consoli con un solo cenno della testa e l’esibizione di Commodo con il povero struzzo decapitato sono soltanto due esempi di una serie di storie nelle quali folli imperatori terrorizzano o mettono in ridicolo i senatori nei modi più perversi e impensabili. Lo storico Lucio Cassio Dione, la cui voluminosa opera seguiva la storia di Roma da Enea fino alla sua stessa epoca (l’inizio del III secolo d.C.), fornisce dettagliate descrizioni di alcuni degli episodi più memorabili. Senatore durante il regno di Commodo, fu testimone oculare di alcuni dei più stravaganti spettacoli gladiatorii dell’imperatore; ma ci racconta anche uno degli esempi più strani di intimidazione imperiale, escogitato da Domiziano nell’89 d.C. Il sovrano aveva invitato un gruppo di senatori e cavalieri a un banchetto serale; quando entrarono nella sala del banchetto, scoprirono terrorizzati che l’allestimento era completamente nero, dai divani alle stoviglie e persino ai ragazzi che facevano da inservienti. Il nome di ciascuno degli ospiti era inciso su una lastra uguale a quelle tombali, e per tutta la sera l’imperatore non fece che conversare di argomenti relativi alla morte. Tutti gli invitati erano convinti che non avrebbero visto il sorgere del sole. Ma si sbagliavano. Quando, rientrati a casa, sentirono il temuto bussare alla porta, invece di un sicario si trovarono di fronte gli uomini

dell’imperatore carichi dei doni ricevuti al banchetto, compresi la lastra con il loro nome e il loro personale inserviente. È difficile dare un giudizio su questa storia o individuare da dove Dione l’abbia raccolta. Se si basa su qualche fatto concreto, viene da domandarsi se non si trattasse di una stravagante festa in maschera (com’è noto, le prodighe élite romane si concedevano pasti preparati in base al colore) o addirittura di una sorta di sfoggio filosofico da parte dell’imperatore («mangiate, bevete e siate allegri, perché domani potreste morire» era un tema favorito della retorica moraleggiante romana). Ma Dione ne riferisce certamente come esempio dei sadici giochi dell’imperatore ai danni del Senato e degli endemici conflitti tra il sovrano e il resto dell’aristocrazia. È una classica storia di paura romana, alimentata dalla paranoia, dal sospetto e dalla diffidenza. Il messaggio era che nessun invito a cena dell’imperatore era mai destinato a essere quello che sembrava. In questo quadro delle relazioni tra Senato e imperatore c’è, tuttavia, anche un lato molto diverso. Dopo Cicerone, il più noto autore romano di lettere è Plinio il Giovane, del quale sopravvivono dieci libri di epistole: i primi nove libri ne contengono duecentoquarantasette e il decimo oltre cento, che documentano la sua carriera senatoria sotto gli imperatori Nerva e Traiano, con qualche allusione al tempo di Domiziano. I primi nove libri sono formati da lettere indirizzate a vari amici, stilisticamente ben più elaborate di quelle di Cicerone, accuratamente disposte e con ogni probabilità pubblicate per costituire nel loro insieme un coerente autoritratto. Il decimo libro, invece, forse non sottoposto ad altrettanta cura editoriale, contiene unicamente lettere tra Plinio e Traiano, la maggior parte delle quali scambiate dopo che, nel 109 d.C., Plinio venne mandato come suo inviato speciale a governare la provincia della Bitinia, sul mar Nero. Plinio scriveva regolarmente per consultare l’imperatore su dubbi di natura amministrativa o per aggiornarlo della situazione, in particolare su questioni come le finanze locali, progetti edilizi troppo ambiziosi e il modo in cui doveva essere celebrato in provincia il compleanno di Traiano. Quest’ultimo era un importante elemento del protocollo, anche per imperatori apparentemente pragmatici come Traiano. In tutte le sue lettere, Plinio si presenta come quel colto e coscienzioso dipendente pubblico che Augusto deve avere sognato di trovare in ogni senatore. Plinio era un oratore e avvocato, che si fece un nome soprattutto nei tribunali specializzati nelle cause su eredità contestate. La sua carriera politica, iniziata sotto Domiziano e proseguita sotto i successivi imperatori,

lo portò ad assumere importanti responsabilità amministrative (finanziamento dell’esercito e mantenimento della via fluviale tiberina), seguendo il corso ancora tradizionale delle magistrature pubbliche. Fu quando assunse il consolato, nel 100 d.C., che pronunciò il discorso indirizzato a Traiano nel quale tratta, fra molte altre cose, il tema dei bambini e dell’adozione. Le lettere di Plinio non sono prive di lamentele e irritazioni: litiga con il suo collega avvocato Regolo, il cui carattere viene sistematicamente bersagliato in tutta la sua corrispondenza, non rinunciando nemmeno a deriderlo per la benda che portava sull’occhio; e si irrita, con ben poco senso dell’umorismo, quando i suoi colleghi senatori iniziano a scarabocchiare le loro schede elettorali con battute oscene. Ma, nel complesso, le lettere di Plinio offrono un’immagine brillante e leggermente autocelebrativa della vita dei senatori. Plinio scrive del piacere che provava quando cenava con l’imperatore (senza l’accompagnamento di nessuna pietra tombale), del suo mecenatismo nella propria città natale nell’Italia settentrionale (compreso il dono di una biblioteca), del sostegno che offriva ai suoi amici e clienti, delle sue prove letterarie e dei suoi dilettanteschi interessi storici. La sua risposta a una lettera dell’amico Tacito ci offre, per esempio, l’unica testimonianza diretta dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. giunta sino a noi (a quell’epoca il giovane Plinio abitava vicino al luogo del disastro, e, molti anni dopo, Tacito, durante le ricerche per le sue opere storiche, gli aveva chiesto di raccontargli i suoi ricordi). Era persino in rapporti amichevoli con una persona che esibiva apertamente busti che ritraevano Bruto e Cassio, apparentemente senza alcun rischio per la propria vita. La cosa che più colpisce della carriera di Plinio è proprio il suo prolungato successo, attraverso differenti regni e dinastie, dall’assassinato Domiziano, che per primo lo notò e lo promosse, passando per l’anziano Nerva, fino al militare e adottato Traiano. Non era tuttavia una cosa inconsueta. In una delle sue lettere lo stesso Plinio racconta di una cena tenuta da Nerva, probabilmente nel 97 d.C., nella quale a un certo punto la conversazione cadde su uno dei più viziosi seguaci di Domiziano, recentemente morto. «Cosa pensate che starebbe facendo, se fosse ancora vivo?» chiese l’imperatore, probabilmente con falsa ingenuità. «Sarebbe a cenare qui con noi», rispose uno degli ospiti con la mente più lucida. Il punto era che bastava soltanto qualche piccolo accorgimento, e qualche bene assestato insulto contro l’ultimo occupante del trono, per continuare a sedersi come benvenuto ospite alla tavola del nuovo sovrano, e seguitare ad

arrampicarsi sulla scala del potere senatoriale. Persino Tacito, spietato critico di Domiziano, dovette ammettere che egli stesso aveva fatto un’ottima carriera durante il suo detestato regno. È un’altra prova del fatto che le caratteristiche dei singoli imperatori non avevano l’importanza fondamentale che la tradizione biografica cerca di assegnarvi. Dunque, come dobbiamo spiegare la differenza fra queste due immagini della vita senatoriale, tra una rispettosa collegialità e un’atmosfera di terrore, tra il tranquillo e fiducioso Plinio e quei senatori che caddero vittime dei crudeli capricci dell’imperatore, o dei suoi scherani? C’erano forse due tipi molti diversi di senatore: da una parte pochi sfortunati, e forse boriosi, senatori che rifiutavano di adattarsi al sistema, prendevano troppo sul serio le battute e gli exploit dell’imperatore, ed esprimevano apertamente la loro opposizione, pagandone direttamente le conseguenze; e dall’altra parte la larga maggioranza silenziosa, composta da uomini riconoscenti di servire e prosperare all’ombra della corte imperiale, chiunque fosse il sovrano, pronti, quando ciò veniva ordinato, a votare per il rogo dei libri, e che non consideravano indegno del loro rango festeggiare il compleanno dell’imperatore o gestire la pulizia del Tevere. In parte era probabilmente così. Nel corso dei primi due secoli dopo Cristo, tuttavia, i senatori subirono un graduale cambiamento. Un numero sempre maggiore di costoro giungeva, come lo stesso Plinio, da famiglie nuove o relativamente nuove, e sempre più spesso da lontane province. Probabilmente erano molto meno attratti dalle fantasie sul passato repubblicano, meno suscettibili rispetto ad alcuni dei più irritanti esempi di capricci imperiali, e più che soddisfatti di poter continuare a mantenere il proprio posto. Appare altresì chiaro che l’opposizione più radicale agli imperatori tendeva a concentrarsi all’interno di alcune famiglie, in una tradizione di dissidenza che si trasmetteva di padre in figlio, e talvolta anche alla figlia. Gaio Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto, ne seguì le orme e subì sorte quasi identica; pretese, per esempio, di indirizzarsi all’imperatore chiamandolo semplicemente «Vespasiano», e una volta in Senato lo portò quasi alle lacrime. Non tutto, però, era così semplice. Plinio non era ciecamente ignaro di ciò che era accaduto ad alcuni oppositori dell’imperatore, mentre egli stesso prosperava durante il regno di Domiziano. Infatti, le sue lettere sono accuratamente disposte per mettere in risalto la sua stretta relazione con le vittime di Domiziano. Una di esse contiene una memorabile descrizione della malattia di una vecchia donna chiamata Fannia («una febbre costante e una tosse in progressivo

peggioramento»), che in realtà era la figlia di Trasea Peto e la vedova di Elvidio Prisco. Essa offre a Plinio l’opportunità di elogiare la sua nobile carriera in una famiglia di senatori dissidenti e di sottolineare il sostegno che diede loro («Ero ai loro servizi nei buoni come nei cattivi tempi; li consolai quando erano in esilio e li vendicai quando furono rientrati»). Questo non si accorda completamente con il suo successo sotto Domiziano, e un’interpretazione severa riconoscerebbe in Plinio un colpevole collaborazionista, che fa marcia indietro sotto il nuovo regime di Traiano e si inventa un suo precedente sostegno all’opposizione. Ma c’era anche qualcosa di più. La maggior parte dei senatori romani adottò un atteggiamento che combinava collaborazione e dissidenza, cosa che il peculiare compromesso tra potere e servizio senatoriale realizzato da Augusto rendeva praticamente inevitabile. Gli aperti oppositori del regime erano senza dubbio uomini e donne di inflessibili princìpi, ma anche ciechi (persino ostinati per partito preso, potremmo dire) di fronte al delicato equilibrio e alla raffinata coreografia che garantivano una pur fragile stabilità al rapporto tra imperatore e Senato. Ma la stragrande maggioranza dei senatori era completamente diversa: più realistica, meno ostinata e meno fiduciosa nel proprio giudizio morale. Alla sera, con i propri amici, possono benissimo essersi intrattenuti reciprocamente con quelle terribili storie di umiliazioni e abusi di potere che ancora oggi leggiamo. Senza dubbio, si saranno scaldati ascoltando l’eroica opposizione dei martiri per la causa della libertà. Ma, in larga misura, come Tacito e quasi tutti gli storici antichi, combattevano le loro battaglie nel passato, contro imperatori che ora si potevano demonizzare senza correre rischi. Nel presente, proprio come Plinio, continuavano a fare il loro mestiere di senatori: come avrebbe fatto la maggior parte di noi.

«Oh caro, forse sto per diventare un dio...» Una delle principali questioni che si celavano dietro i conflitti tra l’imperatore e i senatori dissidenti riguardava il modo in cui doveva essere definito, descritto e compreso il potere del sovrano e quello della sua famiglia. A un’estremità dell’ampio arco delle possibili interpretazioni stava l’idea che l’imperatore fosse semplicemente un primus inter pares; all’estremità opposta stava la concezione del suo status divino, o qualcosa di molto vicino a esso. Elvidio Prisco si impuntò decisamente sulla prima rifiutandosi di rivolgersi al sovrano usando i titoli imperiali. Trasea Peto si oppose all’estensione degli onori divini non soltanto agli imperatori, ma anche ai loro parenti di sesso femminile. Inscenò una delle sue assenze pubbliche dal Senato nel 65 d.C., quando si doveva votare per concedere simili onori a Poppea Sabina, moglie di Nerone, che era morta dopo che suo marito le aveva dato un calcio nello stomaco mentre era incinta (se per un tragico incidente o invece per uno spaventoso abuso domestico è ancora oggetto di infruttuose discussioni). Tra i vari onori che le furono conferiti, venne anche dichiarata una dea. Per Trasea Peto era davvero troppo. Poppea, comunque, non era stata la prima, ma si affiancava a diverse altre donne della famiglia imperiale che erano state inserite nel pantheon romano a cominciare da quando Giulio Cesare era stato dichiarato un dio nel 42 a.C. Oltre ad Augusto, e poi a Claudio (nel 54 d.C.), le nuove divinità ufficialmente decretate dal Senato furono Drusilla, sorella di Gaio, seguita da Livia «Augusta» e dalla figlioletta di Poppea, Claudia, divinizzata nel 63 d.C., dopo la sua prematura morte all’età di appena quattro mesi. Questa divinizzazione ufficiale ne sanciva il diritto ad avere un tempio e dei sacerdoti, e a ricevere sacrifici. Non rimane alcuna traccia di un tempio della piccola Claudia, ma, a detta di Cassio Dione, un tempio venne ben presto dedicato a Poppea con il titolo di «Venus Sabina». L’idea che una bambina di appena quattro mesi potesse diventare una dea deve avere indignato a Roma non soltanto i più irriducibili dissidenti. Ma abbiamo già visto che in molti paesi dell’antico mondo mediterraneo era, da lungo tempo, pratica abituale rappresentare una schiacciante potenza politica usando un linguaggio e un immaginario formulati in termini divini. I re che erano succeduti ad Alessandro Magno nel Mediterraneo orientale, come i generali romani che presero il loro posto,

erano stati onorati con feste che riprendevano il modello delle celebrazioni religiose e avevano ricevuto epiteti che venivano usati anche per gli dèi (come quello di «Salvatore»). Era una soluzione logica per definire uomini che avevano enormemente trasceso gli ordinari limiti della potenza umana e per individuare una categoria concettuale nella quale si potessero collocare adeguatamente questi esseri sovrumani. La rappresentazione del generale vittorioso nelle vesti di Giove durante la cerimonia del trionfo, o il processo di divinizzazione con cui Cicerone cercò di reinterpretare la perdita di Tullia, sono ulteriori esempi della malleabilità di una religione politeistica come quella romana. È in larga misura l’eredità dei due principali monoteismi del mondo antico (il giudaismo e il cristianesimo, da esso derivato) ad averci spinto a considerare una ridicola assurdità l’invenzione di nuovi dèi, l’adattamento e l’allargamento del pantheon, o la fluidità dei confini tra uomini e divinità. I cristiani, in particolare, derisero l’idea stessa che l’imperatore, chiaramente di natura umana, fosse divino, e talvolta pagarono con la vita il rifiuto di prestargli qualsiasi tipo di onore religioso. Ma questo non significa che lo status divino del sovrano fosse un assioma indiscusso per i romani precristiani o che non vi fossero dibattiti e disaccordi su quanto fosse effettivamente divino il sovrano umano, per non parlare della sua famiglia. Era un altro complicato gioco d’equilibrio lasciato in eredità ai successori di Augusto, rispetto ai quali, però, egli seppe oltrepassare il confine tra umano e divino con esiti assai migliori. Alcune pretese imperiali allo status divino furono sempre considerate innegabilmente false e sbagliate. Per la maggior parte degli abitanti dell’impero romano, un imperatore che si fosse dichiarato un dio vivente, come se non vi fosse alcuna differenza tra lui e Giove, avrebbe compiuto un grave errore concettuale e commesso un altrettanto grave affronto. I romani non erano affatto stupidi: sapevano perfettamente quale era la differenza tra le vere divinità olimpiche e un imperatore vivente. Se fosse vero (anziché una maligna ingiuria) che Gaio trasformò il tempio di Castore e Polluce che si trovava nel Foro nel vestibolo della sua residenza sul Palatino e che se ne stava lì seduto tra le statue delle due divinità per ricevere l’adorazione di chiunque volesse manifestarla, si tratterebbe di uno dei più eclatanti esempi di megalomania imperiale, che violava tutti i protocolli ufficiali dell’adorazione dovuta al sovrano. Allo stesso modo, un imperatore che cercasse di ingrandire il pantheon ufficiale romano per accomodarvi bambini morti prematuramente, amanti e persino sorelle favorite era

ritenuto abusare del proprio potere. Sotto questo punto di vista, Adriano non si comportò molto diversamente da Nerone o da Gaio facendo divinizzare il suo amante Antinoo dopo la sua misteriosa morte per annegamento nel Nilo nel 130 d.C. La teologia dell’imperatore e della famiglia imperiale era tuttavia ben più raffinata e approfondita, e deve essere valutata in due ambiti distinti: lo status divino dell’imperatore vivente e quello dell’imperatore morto. In tutto il mondo romano, l’imperatore vivente era presentato come un dio. Era inserito nei riti celebrati in onore degli dèi, era definito da una terminologia che coincideva con quella riservata agli dèi, e si riteneva che avesse in parte poteri simili ai loro. Il nome di Augusto, per esempio, fu incluso nel testo di alcune litanie religiose. Gli schiavi fuggitivi potevano rivendicare il diritto di asilo aggrappandosi a una statua dell’imperatore, esattamente come potevano farlo stringendosi alla statua di una divinità. Un’iscrizione trovata nella città di Gizio, vicino a Sparta, nel Peloponneso, descrive con grande ricchezza di particolari le procedure per l’organizzazione di una regolare festività che si protraeva per parecchi giorni, con processioni attorno alla città, gare musicali e sacrifici, in onore di una coppia di benefattori locali, dell’imperatore regnante, Tiberio, e di vari membri della sua famiglia, del generale repubblicano Tito Quinzio Flaminino e delle tradizionali divinità olimpiche. Ci saranno senz’altro state molte persone, soprattutto nei luoghi più lontani da Roma, per le quali l’imperatore era una figura altrettanto distante e potente di una divinità olimpica e che non vedevano tra l’una e l’altra una grande differenza. Ma, non appena si arrivava ai dettagli formali, si tracciava una precisa distinzione tra l’imperatore e gli dèi olimpici. Per esempio, a Gizio, come anche altrove, viene riconosciuta una differenza di natura tecnica, ma di cruciale importanza. I sacrifici animali dovevano essere offerti agli dèi tradizionali ed eseguiti per conto o per la protezione dell’imperatore vivente e della sua famiglia; in altre parole, l’imperatore era ancora sotto la protezione degli dèi olimpici, anziché essere un loro pari grado. A Roma, destinatario del sacrificio era generalmente il numen o «potenza, maestà» dell’imperatore vivente, e non l’imperatore stesso. In un ambito ancora più vasto, gli onori offerti alla famiglia imperiale nel mondo di lingua greca erano definiti isotheoi timai, vale a dire, onori equivalenti (iso-) a quelli tributati agli dèi (theoi), ma non identici. Ignorare la differenza tra gli dèi e l’imperatore vivente, per quanto potesse essere ritenuto simile a un dio, fu sempre considerata una cosa che trasgrediva la giusta norma.

Per gli imperatori defunti le cose erano diverse. Seguendo il modello adottato per Giulio Cesare, il Senato poteva decidere di incorporare un imperatore defunto o uno dei suoi più stretti parenti nel pantheon ufficiale; infatti questa era una decisione che, almeno formalmente, spettava al Senato, e costituiva una sorta di potere postumo sul proprio sovrano di cui alcuni senatori devono essersi compiaciuti. In questo caso, la distinzione tra gli dèi e gli imperatori era trascurabile: c’erano templi e sacerdoti, venivano loro offerti sacrifici (e non semplicemente eseguiti per la loro protezione), ed erano rappresentati in magnifiche immagini che collocavano letteralmente gli dèi imperiali nelle sfere celesti olimpiche (cfr. tavola 20). Ma le differenze non erano completamente annullate. Gli scrittori, gli intellettuali e gli artisti romani si interrogarono ripetutamente sulla natura della transizione da imperatore a dio e su come un essere umano potesse subitaneamente assumere essenza divina. Proprio come oggi la Chiesa cattolica richiede un’autenticazione dei miracoli per creare un nuovo santo, anche i romani pretendevano una prova o dei testimoni: la comparsa di una cometa dimostrò apparentemente l’apoteosi di Giulio Cesare; ma le storie sulla ricompensa in denaro, sospettosamente generosa, offerta da Livia al senatore che fosse stato pronto a dire di avere visto Augusto ascendere in cielo indicano che permaneva qualche incertezza sulla realtà dell’evento.

74. La base della (perduta) colonna di Antonino il Pio raffigura l’apoteosi dell’imperatore e di sua moglie Faustina. È, per certi aspetti, un’immagine bizzarra: sebbene siano rappresentati mentre insieme salgono al cielo, Faustina morì vent’anni prima di suo marito. La creatura alata che li conduce sembra un tentativo di raffigurare il processo attraverso cui gli imperatori diventavano dèi.

La transizione era comunque abbastanza tesa e difficile da suscitare battute e ironiche osservazioni. Secondo Svetonio, Vespasiano mantenne il suo spirito pragmatico e l’umorismo autoironico anche nelle ultime parole che pronunciò prima di morire: «Oh caro, forse sto per diventare un dio...». Il processo di trasformazione, o non trasformazione, in un dio è il tema di una lunga parodia scritta verso la metà del I secolo d.C. da Lucio Anneo Seneca, tutore e poi vittima di Nerone, accusato di avere preso marginalmente parte a una cospirazione contro l’imperatore e costretto a un difficile suicidio. Era così vecchio e deperito che, secondo l’agghiacciante racconto di Tacito, il sangue non riusciva a uscire dalle arterie recise. Argomento della parodia di Seneca è il tentativo dell’imperatore Claudio di

essere ammesso alla compagnia degli dèi. Lo incontriamo, subito dopo la sua morte (ultime parole: «Povero me, temo di essermi cacato addosso...»), che zoppica verso il cielo per unirsi agli dèi. All’inizio tutto sembra andare bene, in particolare quando Ercole, primo fra le divinità, lo saluta citando Omero, cosa che colpisce l’imperatore defunto. Ma non appena inizia la discussione del suo caso, il divino Augusto, pronunciando il suo discorso inaugurale nel senato celeste (si sottintende che gli imperatori divinizzati si trovano a un gradino molto basso dell’ordine gerarchico), gli ritorce contro la sua spietata crudeltà: «Quest’uomo, padri coscritti, che vi sembra incapace di ferire una mosca, ammazzava la gente con la stessa facilità con cui un cane si accuccia». E c’è una cupa allusione ai trentacinque senatori che aveva fatto mettere a morte. Non c’è dubbio che, nella realtà della politica romana, Claudio venne divinizzato: aveva un proprio tempio (di cui sono stati scavati i resti) e propri sacerdoti. Ma, in questa fantasia, non supera il test di ammissione, e gli viene riservata una punizione ideata appositamente per lui. Data la sua ben nota passione per il gioco d’azzardo, è costretto a trascorrere tutta l’eternità agitando dadi in un contenitore senza fondo. O almeno questo è ciò che gli sarebbe capitato se l’imperatore Gaio non fosse improvvisamente apparso dal nulla per reclamarlo come suo schiavo e affidarlo a un suo collaboratore per farlo lavorare come modesto segretario nell’ufficio legale imperiale. Abbiamo qui un’illuminante immagine riflessa della nuova burocrazia del regime imperiale, con tutti i suoi dipartimenti e uffici specializzati, ma anche un esilarante esempio di come i sovrani defunti fossero bersagli ben più sicuri e facili di quelli viventi. Viene ridicolizzato tutto l’inverosimile processo attraverso il quale un imperatore umano diventava un dio manifesto. E, nella fantasia, si rovescia completamente l’assassinio con cui abbiamo iniziato questo capitolo. Claudio sarà anche diventato imperatore, ma qui Gaio si gode l’ultima risata.

XI

PRIVILEGIATI E SVANTAGGIATI

Ricchi e poveri I romani ricchi avevano un tenore di vita che, in base a qualsiasi parametro, antico o moderno, può essere definito lussuoso. L’imperatore, con le sue residenze palaziali, i giganteschi parchi, addirittura una sala da pranzo girevole (quanto bene funzionasse, e per mezzo di quale meccanismo, è un’altra questione), pareti decorate di pietre preziose e livelli di consumo che lasciavano stupefatti quasi tutti gli osservatori romani, stava al vertice della piramide, superando anche i più facoltosi. Le sue fortune si fondavano sui proventi delle grandi proprietà imperiali, disseminate in tutto il mondo romano, che si trasmettevano da un sovrano all’altro e comprendevano, oltre alle fattorie agricole, miniere e impianti industriali; sull’indistinto confine tra le finanze dello stato e quelle personali dell’imperatore; e, o almeno così fu talvolta sostenuto, su varie forme di estorsione, come eredità forzate, se vi era penuria di denaro contante. Ma anche molti abitanti benestanti dell’impero conducevano una vita di privilegiato comfort. Una sbandierata disapprovazione del «lusso», unita all’ammirazione per la semplice e tradizionale vita contadina, coesisteva, come spesso accade, con spese sconsiderate e abitudini di lusso sfarzoso. I critici hanno sempre bisogno di qualcosa da criticare; e, in ogni caso, la distinzione tra il buon gusto (il mio) e lo sfoggio volgare (il vostro) rimane necessariamente soggettiva. Plinio il Giovane (il cui zio, Plinio il Vecchio, era stato uno dei più feroci critici di ogni stravaganza, dai tavolini a una sola gamba alla moda di indossare più anelli nello stesso dito) descrisse in una lettera la propria villa di campagna, a pochi chilometri da Roma. Era «adatta ai suoi bisogni e non troppo costosa da mantenere». In realtà, malgrado questa modesta descrizione, si trattava di un ampio complesso, con sale da pranzo per le differenti stagioni, terme e piscina private, cortili e portici ombreggiati, riscaldamento centralizzato, acqua corrente, un ginnasio, luminosi soggiorni con finestre panoramiche prospicienti il mare, e giardini riparati, dove Plinio, che non era persona da chiassosi divertimenti, poteva sfuggire al baccano delle feste in quei rari giorni in cui gli schiavi erano in vacanza. In tutto l’impero i ricchi sfoggiavano la loro ricchezza in grandi e costose residenze, il cui valore si misurava non in base alla superficie occupata ma in base al numero delle tegole del tetto (una legge stabiliva che, per soddisfare i requisiti necessari all’assunzione della carica di consigliere locale, bisognava possedere una casa con almeno 1500 tegole). E si

godevano i molti piaceri che il denaro poteva garantire, come tessuti di seta e spezie orientali, schiavi qualificati o preziose antichità. Ma i ricchi esibivano le proprie fortune anche sponsorizzando divertimenti e altre amenità per le loro comunità locali. A Roma, l’imperatore aveva il monopolio dell’edilizia pubblica; ma, nelle città dell’Italia e delle province, le élite (uomini e donne) si costruirono una posizione di preminenza sostanzialmente nello stesso modo. Un esempio tipico ci è fornito dallo stesso Plinio, che finanziò diversi progetti edilizi a Como, la sua città natale, compresa una nuova biblioteca pubblica, la cui costruzione costò un milione di sesterzi (che era la ricchezza minima richiesta per diventare senatore). La sua anziana amica Ummidia Quadratilla, morta verso il 107 d.C., fece sostanzialmente lo stesso nella sua città natale, poco a sud di Roma. Sebbene Plinio la descriva come un’arcigna vecchia signora con la passione per i giochi da tavolo, alcune iscrizioni giunte sino a noi dimostrano che finanziò anche un nuovo anfiteatro e un nuovo tempio, fece restaurare il teatro e sponsorizzò un banchetto pubblico («per il consiglio locale, il popolo e le donne») al fine di celebrare le nuove infrastrutture. Persino nella lontana cittadina di Timgad, in Nordafrica, fondata alle estremità del Sahara nel 100 d.C. come insediamento di veterani dell’esercito romano, all’inizio del III secolo d.C. una coppia di coniugi si fece costruire un piccolo palazzo di almeno due piani, non altrettanto imponente della villa di Plinio, ma comunque fornito di molteplici sale da pranzo, terme private, giardini interni, costosi pavimenti a mosaico e un impianto di riscaldamento centralizzato per i freddi inverni nordafricani. Marito e moglie finanziarono anche la costruzione di un nuovo gigantesco tempio e di uno splendido mercato, decorato con dozzine di statue che raffiguravano... loro stessi. Il denaro non poteva però risparmiare ai ricchi le numerose scomodità e durezze della vita nel mondo antico. Sebbene a Roma l’imperatore vivesse a debita distanza dalle masse, e i ricchi tendessero a concentrarsi in una o due aree in particolare (il colle del Palatino, prima che il palazzo imperiale si espandesse a dismisura, è un chiaro esempio), le città antiche non erano generalmente suddivise nello stesso modo di quelle moderne. Ricchi e poveri vivevano fianco a fianco, grandi case con innumerevoli tegole si ergevano negli stessi quartieri e nelle stesse strade in cui si affollavano minuscoli tuguri. I romani non avevano un Mayfair o una Quinta Strada. Viaggiare all’interno di una carrozza chiusa e coperta da tendine, trasportata da veloci schiavi, poteva evitare a qualche signora e a qualche

gentiluomo gli aspetti più crudi e disdicevoli di una via pubblica di una qualsiasi grande città dell’impero. Ma la mancanza di un servizio organizzato di raccolta dei rifiuti, l’uso della strada come gabinetto pubblico (con il contenuto dei pitali che veniva gettato sui passanti dalle finestre dei piani superiori, come racconta Giovenale, probabilmente con un tocco di ironica esagerazione), nonché il baccano e la congestione di carri e carretti che cercavano di districarsi in strade spesso troppo strette per un traffico a doppio senso di circolazione, sarebbero stati come minimo un oltraggio alla sensibilità tanto dei ricchi quanto dei poveri, talvolta persino rischioso. Benché si citi spesso, come notevole esempio di «illuminismo» romano, che la circolazione dei veicoli a ruote era proibita nelle strade cittadine durante le ore diurne (come avviene in alcune moderne zone pedonali), questa misura si applicava esclusivamente ai trasporti pesanti, per così dire gli equivalenti antichi dei nostri tir. Ma anche questo provvedimento, come si lamenta ancora Giovenale, poteva creare di notte un frastuono insopportabile per chiunque, ricco o povero che fosse, così assordante «da togliere il sonno persino a (un imperatore dal sonno facile come Claudio) Druso».

75. Una ricostruzione della villa di Plinio, dell’architetto Karl Friedrich Schinkel (1841). Cercare di ricostruire la pianta o l’aspetto concreto della villa sulla base della descrizione fattane da Plinio (Lettere, 2, 17) è stato per secoli uno dei passatempi preferiti degli studiosi.

Anche i germi e i batteri non facevano distinzioni di ceto. Chi era abbastanza ricco da permettersi un’isolata residenza di campagna aveva la possibilità di sfuggire alle periodiche epidemie che flagellavano tutte le città, Roma compresa, e si dava parecchio da fare per trovare luoghi relativamente privi di zanzare dove trascorrere i mesi estivi. Anche una dieta migliore poteva aiutare i più benestanti a superare malattie che potevano essere fatali per chi dipendeva invece dalle razioni di sussistenza. Ma le stesse malattie, e la stessa sporcizia, uccidevano i figli dei ricchi come quelli dei poveri. E chi si recava alle terme pubbliche (e tra costoro vi era certamente anche chi le aveva a casa propria) si esponeva ai rischi tipici di simili ricettacoli di infezioni. Un acuto medico romano lo comprese perfettamente quando scrisse che chi avesse una ferita aperta doveva evitare le terme, altrimenti avrebbe rischiato una fatale cancrena.

76. Timgad, nell’odierna Algeria. Dietro le rovine della città si erge un grande tempio fatto costruire da una ricca coppia locale, cui era annesso il loro palazzo, di proporzioni più modeste. Timgad è uno dei siti romani più suggestivi al mondo, dove si possono ammirare edifici di ogni genere, da un sistema di gabinetti pubblici estremamente ingegnoso a una delle poche biblioteche che siano sopravvissute dall’antichità.

In effetti, persino nel palazzo imperiale, gli imperatori morivano più spesso di malattia che per avvelenamento. Per più di un decennio, a partire dal 165 d.C. circa, gran parte dell’impero romano venne investita da una terribile epidemia, molto simile al vaiolo, apparentemente diffusa dai soldati che avevano prestato servizio in Oriente. Galeno, il più brillante e prolifico autore di testi medici del mondo antico, discuteva casi individuali e forniva dettagliate descrizioni autoptiche dei sintomi, comprese violente eruzioni cutanee e diarrea. Quanto sia stata devastante questa epidemia è ancora oggetto di aspre discussioni. Ci sono poche testimonianze sicure, e il

calcolo del numero dei morti oscilla tra l’1 e un quasi impossibile 30 per cento della popolazione complessiva. Ma nel 169 d.C. l’imperatore Lucio Vero, che dal 161 regnava insieme a Marco Aurelio, ne fu quasi certamente una delle numerose vittime. C’era quindi una certa imparzialità in questi pochi aspetti, in larga misura biologici, della disgrazia. Tuttavia, nel mondo romano, la grande divisione era soprattutto tra i ricchi privilegiati e i poveri svantaggiati; tra l’esigua minoranza che possedeva una notevole ricchezza e aveva uno stile di vita oscillante dall’assai confortevole fino allo sfrenatamente lussuoso, e la vasta maggioranza della popolazione, anche di condizione non servile, che, nel migliore dei casi, aveva qualche piccolo risparmio (per comprare un po’ di cibo in più, un modesto gioiello o una semplice stele funeraria), e, nel peggiore, era senza un soldo, senza un lavoro e senza una casa. Sui privilegiati del mondo romano siamo molto bene informati. Tra loro figurano gli autori di quasi tutte le opere letterarie che ci sono giunte dall’antichità. Persino scrittori come Giovenale, che talvolta si pongono nel novero dei socialmente svantaggiati, erano in realtà in condizioni piuttosto agiate, malgrado le loro lamentele per i pitali svuotati giù dai tetti. E sono i ricchi a lasciare le tracce di gran lunga più notevoli nel materiale archeologico, dalle grandi case ai nuovi teatri. In tutto l’impero, il loro numero, secondo una stima piuttosto generosa, ammontava complessivamente a circa trecentomila persone, compresi importanti personaggi locali relativamente facoltosi e i plutocrati delle grandi città; il totale però sarebbe ancora maggiore se si includessero anche gli altri membri della loro famiglia allargata. Ipotizzando che, nei primi due secoli della nostra èra, la popolazione dell’impero si aggirasse tra i cinquanta e i sessanta milioni, quali erano le condizioni, il tenore di vita e i valori di questa soverchiante maggioranza, pari al 99 per cento dei romani? Gli scrittori dell’aristocrazia romana di solito mostravano sdegnoso disprezzo per coloro che erano meno fortunati, e meno ricchi, di loro. A parte la nostalgica ammirazione per il semplice stile di vita contadino (fantasie di picnic in campagna e di pigri pomeriggi sotto l’ombra degli alberi), non riconoscevano quasi nessuna virtù nella povertà, nei poveri, e persino nel semplice fatto di guadagnarsi onestamente il proprio salario. Giovenale non fu il primo a bollare le priorità del popolo romano con le parole panem et circenses. Frontone, il tutore di Marco Aurelio, dice esattamente la stessa cosa quando, a proposito dell’imperatore Traiano, scrive che «aveva compreso che il popolo romano lo si teneva a bada

soprattutto con due cose: le distribuzioni di grano e i divertimenti». Cicerone derideva chi doveva lavorare per sopravvivere: «Ignobili e abietti sono i guadagni di tutti quei mercenari che vendono, non l’opera della mente, ma il lavoro del braccio: in essi la mercede è per se stessa il prezzo della loro servitù». Era un cliché del moralismo romano che un vero gentiluomo dovesse vivere con i profitti delle sue proprietà, non con un lavoro salariato, cosa intrinsecamente disonorevole. Il lessico latino riflette perfettamente questo concetto: la condizione alla quale l’uomo ambiva era l’otium (che non significa «tempo libero, svago», come viene generalmente tradotto, bensì l’avere il controllo del proprio tempo); qualsiasi genere di business era il suo niente affatto desiderato opposto, un negotium (ossia «non otium»). Anche chi era giunto alla ricchezza partendo dal nulla era oggetto di derisione, bollato come un arricchito arrivista. Il carattere di Trimalcione, il nouveau riche ed ex schiavo del Satyricon di Petronio, che ha accumulato la sua fortuna commerciando qualsiasi cosa, dalla pancetta ai profumi e agli schiavi, è una parodia allo stesso tempo affascinante e disgustosa di un uomo con più denaro che buon gusto, che scimmiotta malamente i comportamenti dell’aristocrazia. I suoi schiavi indossano pacchiane uniformi di taglio sartoriale (il portiere all’ingresso della casa di Trimalcione ha un vestito verde con una cintura rossa, e passa il tempo a sbucciare piselli in una coppa d’argento); le pareti della sua casa sono vanitosamente decorate con dipinti che raccontano la storia della sua carriera, dal mercato degli schiavi fino al suo attuale splendore, sotto la protezione di Mercurio, dio del denaro; e la cena da lui organizzata è un’impossibile combinazione di ogni più raffinato cibo romano, dai ghiri preparati in miele e semi di papavero fino a un vino vecchio di oltre cent’anni, dell’annata «in cui fu console Opimio» (121 a.C.). L’ignorante Trimalcione probabilmente non si rendeva conto che il nome dell’irriducibile conservatore che nel 121 a.C. aveva fatto uccidere tremila seguaci di Gaio Cracco non era certo di buon auspicio per un vino d’annata, ammesso che potesse essersi preservato intatto così a lungo. I pregiudizi sono evidenti, e ci rivelano più cose sul mondo degli scrittori che su quello dei loro personaggi, soprattutto se, come hanno sostenuto alcuni critici moderni, la parodia dello stile di vita dell’élite tratteggiata da Petronio intendeva in realtà esortare i suoi lettori aristocratici a domandarsi quanto fossero realmente diversi da questo volgare ex schiavo. Ma la vera domanda è se, e in che modo, possiamo ricreare un’immagine della vita dei romani

comuni nella quale essi stessi si sarebbero riconosciuti. Se i testi letterari che sono giunti sino a noi offrono soltanto queste sdegnose caricature, in quale altra direzione possiamo rivolgerci?

Livelli di povertà I circa cinquanta milioni di abitanti dell’impero romano non rientravano tutti in una sola categoria. La società romana non era suddivisa semplicemente in un piccolo gruppo di persone ricchissime da una parte e tutto il resto della popolazione dall’altra, una sorta di massa indifferenziata, costretta a lottare per un tozzo di pane. Tra coloro che non appartenevano all’élite c’erano diversi gradi di privilegio, rango e ricchezza, compresi un abbondante numero di individui «comuni» o «di ceto medio» nonché un altrettanto grande numero di persone estremamente povere. Rispetto ad altri, della vita di alcuni di loro è più facile farsi un’idea. La maggioranza di questi cinquanta milioni era formata da contadini: non le fantasiose creazioni degli scrittori romani, bensì piccoli proprietari disseminati in tutto l’impero, che in certi anni riuscivano a malapena a coltivare quanto bastava per sopravvivere e, in anni più fortunati, erano in grado di mettere da parte qualcosa da vendere. Per queste famiglie, il dominio romano faceva ben poca differenza, a parte il fatto di avere a che fare con un diverso riscossore delle tasse, con un’economia ben più vasta alla quale vendere i propri prodotti e da cui comprare una più ampia serie di piccoli oggetti se avevano qualche risparmio. In Britannia, per esempio, per quel che possiamo dedurre dai resti archeologici, non si ebbero cambiamenti significativi nella vita dei contadini per oltre un millennio, dalla fine dell’Età del ferro (immediatamente prima dell’invasione romana, nel 43 a.C.), per tutto il corso della dominazione di Roma e fino al Medioevo inoltrato. Ma non rimane praticamente alcuna testimonianza sulle abitudini, le aspirazioni, le speranze o le paure di questi contadini e delle loro famiglie. Nel mondo romano, le uniche persone comuni di cui possiamo parzialmente ricostruire lo stile di vita e conoscere il pensiero sono quelle che vivevano nelle città e nelle grandi metropoli. C’era senza dubbio una grande povertà urbana. Le leggi romane proibivano espressamente l’abitazione abusiva delle tombe: «Chiunque lo desideri può fare causa a una persona che vive in una tomba facendone la sua abitazione», recita una sentenza giuridica romana. Se ne deduce che c’erano individui (si trattasse di locali o stranieri, cittadini, nuovi immigrati o schiavi fuggitivi) che facevano esattamente questo, bivaccando nelle grandi tombe dell’aristocrazia allineate lungo le strade che conducevano

alle maggiori città dell’impero. Altri, a quanto pare, preferivano costruirsi piccole capanne appoggiate ai muri di qualche grande struttura, come archi e acquedotti, che, come prescrivevano altre leggi, potevano essere demolite se giudicate a rischio di incendio oppure, ove ritenute sicure, sottoposte al pagamento di un affitto. Le periferie di molte città romane non erano probabilmente molto diverse da quelle delle moderne città del Terzo mondo, disseminate di abitazioni abusive o di baraccopoli abitate da gente ridotta quasi alla fame e all’elemosina. I moralisti romani alludono ripetutamente ai mendicanti (spesso per dire che la cosa migliore da fare è ignorarli), e a Pompei una serie di pitture raffiguranti la vita quotidiana del Foro cittadino contiene una scena con un mendicante gobbo, in compagnia di un cane, al quale viene data qualche moneta da un’elegante signora e dalla sua domestica, che sembrano ignorare il consiglio dei moralisti.

77. Questa vignetta esprime efficacemente l’impatto del potere romano sulla vita dei contadini nelle province. Continuano a vivere, come hanno sempre fatto, in capanne rotonde, ma, quando necessario, fanno finta di avere abbracciato la cultura romana.

In effetti, su questo tipo di indigenza abbiamo meno testimonianze di quante ce ne potremmo aspettare. Ma il motivo è chiaro. In primo luogo, chi non possiede niente lascia meno tracce nella memoria storica o nel materiale archeologico. Le baraccopoli non lasciano un’impronta permanente nel suolo; chi viene sepolto senza alcun corredo in una tomba priva di iscrizioni o decorazioni ci può dire molto meno di chi è accompagnato da un eloquente epitaffio. In secondo luogo, e in maniera ancor più specifica, nel mondo romano l’estrema povertà era una condizione che tendeva a risolversi da sola: le sue vittime morivano. Chi non poteva contare su qualche forma di sostegno e assistenza non era in grado di sopravvivere. Nemmeno la frumentatio nella città di Roma (discendente dell’iniziativa di Gaio Gracco negli anni Venti del II secolo a.C.) riuscì a risolvere questo problema. Senza dubbio, mise in risalto la responsabilità dello stato nell’assicurare il sostentamento minimo dei suoi cittadini. Ma i beneficiari del provvedimento restavano un gruppo limitato e privilegiato, per quanto vasto (nel I e II secolo d.C. di circa duecentocinquantamila cittadini maschi), che riceveva una dose di pane sufficiente per due persone. La frumentatio non costituiva in alcun modo una rete di protezione per tutti i nuovi arrivati. Un numero più ampio di persone si collocava sui gradini successivi della scala della ricchezza, e ha lasciato tracce più consistenti della propria vita. L’arco del privilegio e del benessere appare comunque molto ampio. A un’estremità troviamo chi possedeva mezzi di sussistenza relativamente sicuri e solidi, spesso connessi alla produzione, manifattura e vendita di una molteplicità di merci, dal pane ai vestiti di moda: si trattava di famiglie che vivevano in case con numerose stanze, spesso sopra al proprio negozio o laboratorio, di solito con una coppia di schiavi, anche se (come accadeva sovente) erano esse stesse di origine servile (formate da ex schiavi o figli di schiavi). Possiamo farci un’immagine particolarmente intima dello stile di vita di questo ceto sociale grazie allo scavo di un pozzo nero trovato al di sotto di un piccolo isolato di negozi e appartamenti a Ercolano, vicino a Pompei, città anch’essa distrutta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Il contenuto di questo pozzo nero, ancora in corso di analisi, è rappresentato

da quanto proveniva direttamente dai semplici gabinetti dei modesti appartamenti del caseggiato, dopo essere già passato attraverso l’apparato digerente dei circa centocinquanta residenti. Avevano una dieta sana e variata: tra le altre cose, mangiavano pesce, ricci di mare (sono stati trovati frammenti delle spine), pollame, uova, noci e fichi (i semi passano attraverso l’intestino senza essere digeriti). Chi viveva ai piani superiori usava i gabinetti anche come rudimentali cestini dei rifiuti, per gettare vasellame e vetri rotti, e talvolta perdendovi accidentalmente una gemma dei propri gioielli. Era gente che aveva qualche soldo da spendere, utensili domestici da buttare via e monili da perdere.

78. Questo disegno riproduce una delle scene oggi quasi completamente svanite che illustravano la vita nel Foro, dalla Casa di Julia Felix a Pompei (I secolo d.C.). È una delle rare immagini giunteci dal mondo romano di interazione tra ricchi e poveri. Il mendicante con la barba lunga è inconfondibilmente un «emarginato», vestito di stracci e con un cane

come compagno.

All’estremità opposta troviamo individui in una condizione molto più precaria: uomini, donne e bambini senza un lavoro permanente o un’abilità specifica, che devono avere cercato di trovare qualche impiego saltuario in osterie e taverne, nel mondo della prostituzione, come facchini e carrettieri nei porti o come manovali nei cantieri edili. C’era sempre abbondante bisogno di tale manodopera. Secondo una stima approssimativa, calcolando la quantità complessiva di merci (olio, vino e grano) che si doveva importare per alimentare il milione di abitanti della città di Roma, occorrevano ogni anno più di nove milioni di singoli «facchini» per trasportare questa merce dalle navi sulla terraferma, in anfore o in sacchi. Questi soli carichi avrebbero fornito abbastanza lavoro a tremila uomini per un periodo di circa cento giorni. Ma era un impiego stagionale, il che spiega l’utilizzo di lavoratori liberi anziché di schiavi, ed era un mezzo di sussistenza alquanto precario e incerto. Molti di costoro devono avere sofferto spesso la fame; alcune sintomatiche lesioni riscontrate negli scheletri ritrovati negli scavi (soprattutto nell’apparato dentale) indicano varie forme di malnutrizione non soltanto nella parte più povera della popolazione. Vivevano negli equivalenti antichi dei nostri ostelli, affittando a ore, o condividendo una camera con molti altri e facendo i turni per dormire. Probabilmente non potevano nemmeno godersi molti di quei divertimenti che spesso si considerano il tipico sfogo e la passione dei romani poveri. La capienza del Colosseo, per quanto vasto possa apparire, era di circa cinquantamila spettatori, che in una città di un milione di abitanti significa probabilmente che il pubblico degli spettacoli gladiatorii e delle cruente cacce alle bestie feroci era relativamente esclusivo e benestante. Non era certamente costituito da questo genere di persone, le quali, se soltanto fossero cadute un gradino più in basso, si sarebbero trovate ad abitare in una tomba o in un alloggio abusivo. I giganteschi caseggiati a più piani (insulae), comuni a Roma e nel suo porto di Ostia, simboleggiano perfettamente questa gerarchia all’interno del gruppo dei comuni cittadini romani, e riproducono la vasta gamma che andava dai relativamente benestanti fino a coloro che riuscivano a malapena a sopravvivere. Le insulae fornivano alloggi in affitto in condomini densamente abitati, il che spiega come una vasta popolazione sia riuscita ad ammassarsi in un’area relativamente piccola della città di Roma. Ed erano un’ottima opportunità d’investimento per i loro proprietari

e davano lavoro a spietati riscossori degli affitti. L’epitaffio di un inquilino, tale Ancarenus Nothus, un ex schiavo morto all’età di quarantatré anni le cui ceneri vennero sepolte in una tomba collettiva appena fuori dalle mura di Roma, esprime alcune tipiche lamentele in semplici versi, come pronunciati dall’aldilà: «Non ho più timore di morire di fame / Ho chiuso con i dolori alle gambe e il problema di lasciare la caparra per l’affitto / Ora mi godo vitto e alloggio gratis per l’eternità». Comunque, anche se il proprietario li opprimeva tutti, alcuni inquilini vivevano in modo molto più confortevole di altri. Il principio base rimase sempre lo stesso: gli alloggi ai piani più bassi erano più spaziosi e costosi, e man mano che si saliva i piani diventavano più economici, angusti e pericolosi, senza impianti per cucinare o lavarsi e senza possibilità di fuga in caso di incendio (che era molto frequente). Come ricorda beffardamente Giovenale, chi viveva in cima («con soltanto le tegole del tetto a proteggerlo dalla pioggia») era semplicemente l’ultimo a morire se le fiamme partivano dal basso. Il principio è esattamente l’opposto di quello dei moderni condomini, con i loro lussuosi attici, ed è perfettamente illustrato dalla insula meglio conservata della città di Roma, ancora visibile sotto il colle del Campidoglio e a pochi metri dai magnifici e scintillanti templi che un tempo si ergevano qui (letteralmente scintillanti: alla fine del I secolo d.C. il tetto del tempio di Giove venne rivestito con tegole dorate). I negozi, con un piccolo alloggio ammezzato, si trovavano al livello della strada. Il primo piano, o piano nobile, aveva alcuni spaziosi appartamenti; al quarto piano, ancora conservato, c’era una serie di piccoli monolocali, benché ciascuno di essi ospitasse probabilmente un’intera famiglia anziché una sola persona; ai piani superiori, le condizioni dovevano essere ancora peggiori. A causa della mancanza di un piano regolatore e di un sistema di zonizzazione, alcune delle più grandiose celebrazioni pubbliche sul Campidoglio si svolgevano a pochi passi da edifici che ai piani più alti non erano altro che sudicie topaie. Il resto di questo capitolo è dedicato appunto al mondo della gente che abitava in questi caseggiati. In concreto, si parlerà più del mondo di chi viveva ai piani bassi che di quello di chi viveva ai piani più alti, giacché, quanto maggiore era il suo reddito, tanto maggiore è la quantità di testimonianze che ci ha lasciato. Osserveremo il mondo del lavoro, del tempo libero, della cultura e delle ansie che li tormentavano; non soltanto dove e come viveva questa gente, ma anche come affrontava le ineguaglianze della vita romana, quali erano i suoi divertimenti e quali strumenti aveva per combattere e superare

ogni sorta di avversità, dalla piccola criminalità ai dolori e alle malattie.

79. Il condominio ottimamente conservato che si trovava accanto agli splendidi palazzi del Campidoglio, a Roma. Oggi è messo in ombra dal gigantesco monumento di Vittorio Emanuele II (visibile sul fondo), e trascurato da quasi tutti i passanti.

Il mondo del lavoro Cicerone e quasi tutti i membri dell’aristocrazia proclamavano di disprezzare il lavoro salariato. Ma per la maggioranza degli abitanti delle città del mondo romano, esattamente come oggi, il lavoro era il perno dell’identità. Normalmente era alquanto duro. Quasi tutti coloro che avevano bisogno di un reddito regolare per sopravvivere (ossia la stragrande maggioranza) lavoravano, se ne erano in grado, fino all’ultimo giorno di vita; l’esercito era un’eccezione, in quanto prevedeva un sistema di pensionamento, sebbene anch’esso comportasse di solito il lavoro in una piccola fattoria. Molti bambini, che fossero liberi o schiavi, iniziavano a lavorare non appena ne avevano le forze. Negli scavi sono stati ritrovati scheletri di individui molto giovani con chiari segni ossei di un duro lavoro fisico; in un cimitero appena fuori Roma, nei pressi di un’antica lavanderia e di laboratori tessili, sono venuti alla luce gli scheletri di giovani che avevano indubbiamente già molti anni di lavoro sulle spalle (e che mostrano gli effetti della fatica richiesta dal trattamento dei tessuti, anziché dei giochi di palla o di salto della corda). Nei loro epitaffi i bambini sono addirittura commemorati come bravi lavoratori. La sensibilità moderna si augura probabilmente che la semplice stele funeraria, trovata in Spagna, di un bambino di quattro anni, raffigurato con i suoi utensili da minatore, sia stata incisa in memoria di una giovane mascotte locale. Ma, molto più probabilmente, era un vero lavoratore. Soltanto i figli dei ricchi passavano la loro giovinezza a studiare grammatica, retorica, filosofia e arte oratoria; le ragazze seguivano un percorso meno corposo, che prevedeva imparare a leggere e scrivere, a filare e a suonare uno strumento musicale. Il lavoro infantile era la norma. Non era un problema, né tantomeno una categoria concettuale, che la maggior parte dei romani avrebbe compreso. L’invenzione dell’«infanzia» e la regolamentazione di quale lavoro può essere svolto dai «bambini» sono avvenute soltanto 1500 anni dopo e rimangono una preoccupazione tipicamente occidentale. Le stele funerarie mostrano chiaramente quanto fosse importante il lavoro per l’identità personale dei romani comuni. Mentre Scipione Barbato, e come lui molti altri personaggi al vertice della gerarchia sociale, mettevano in risalto le cariche pubbliche che avevano rivestito o le battaglie che avevano vinto, la maggior parte della gente

raccontava ciò che aveva fatto come lavoro. Nella sola città di Roma, conosciamo in questo modo oltre duecento mestieri. Gli uomini e le donne (o chiunque abbia fatto erigere le loro lapidi) spesso riassumevano la propria carriera in poche parole e immagini, con una breve descrizione del lavoro svolto e qualche simbolo riconoscibile del loro mestiere. Gaio Pupio Amico, per esempio, un ex schiavo che di mestiere faceva il tintore di «porpora» (una tintura notoriamente costosa, estratta da minuscoli molluschi e secondo la legge utilizzabile soltanto per gli indumenti indossati dai senatori e dall’imperatore), si descrive orgogliosamente come un purpurarius, facendo raffigurare sulla sua lapide diversi attrezzi del mestiere. Altre lapidi hanno pannelli scolpiti che raffigurano il defunto mentre esercita la sua professione, si tratti di una levatrice, di un macellaio o di un venditore di pollame (che ci ha lasciato un esempio particolarmente bello).

80. Questa stele funeraria, purtroppo alquanto deteriorata, è una delle poche a noi note che commemorino un lavoratore bambino. Il piccolo, di appena quattro anni, tiene nelle mani un cesto e un piccone, simili a quelli trovati negli scavi delle miniere spagnole.

Talvolta la tomba stessa è concepita in modo più ambizioso, per mostrare concretamente il mestiere del defunto, come a identificarlo con il suo stesso lavoro. Alla fine del I secolo d.C. un intraprendente panettiere fece costruire una grande tomba per sé e sua moglie, in una posizione

eccellente, appena fuori dalle mura di Roma. Marco Virgilio Eurisace era probabilmente un ex schiavo, e, almeno a giudicare dalle dimensioni della tomba, alta dieci metri, si era parecchio arricchito con il suo lavoro. Nell’epitaffio iscritto sulla sua tomba si definisce «panettiere e imprenditore», il che fa pensare, come minimo, a una catena di panetterie e probabilmente a qualche redditizio appalto pubblico per il rifornimento di pane. L’intero monumento riproduce nella sua forma elementi caratteristici di un forno per la produzione di pane; attorno alla cima, dove sui monumenti ufficiali si trova di solito un fregio scolpito con raffigurazioni di processioni religiose o trionfi militari, vi sono scene che raffigurano il lavoro in una delle panetterie di Eurisace: un personaggio in toga che dirige le operazioni riproduce probabilmente lo stesso Eurisace. Se questi conosceva le sprezzanti parole di Cicerone sul commercio e sul lavoro salariato, la sua tomba sarebbe l’equivalente di un’altrettanto sprezzante irrisione di tale snobismo. Allo stesso modo, passando davanti a questa tomba, un aristocratico potrebbe avervi riconosciuto qualcosa degno di Trimalcione.

81. Stele funeraria di un «tintore di porpora», dall’Italia settentrionale. Sotto il suo ritratto sono raffigurati gli strumenti del mestiere: una bilancia, diversi flaconi e matasse di lana.

Ma qui era in gioco qualcosa di più della semplice identità individuale. Entravano in scena anche aspetti comunitari e sociali, in quanto commercio e artigianato costituivano un contesto all’interno del quale i lavoratori potevano assumere iniziative collettive, promuovere gli interessi che avevano in comune e sviluppare un senso di identità condivisa. In tutto

l’impero erano diffuse associazioni commerciali locali (collegia), i cui membri erano sia liberi sia schiavi, in un rapporto che riflette la consueta mescolanza tra diversi ceti sociali in quasi tutti i tipi di lavoro. Le regole definite nel II secolo d.C. per un collegium appena fuori Roma stabiliscono che ogni membro schiavo al quale era stata concessa la libertà doveva donare «un’anfora di buon vino», presumibilmente per il banchetto di festeggiamento. Talvolta questi collegia avevano una sede imponente, e generalmente una precisa struttura amministrativa, con regolamentazioni definite, tasse d’iscrizione e sottoscrizioni annuali, e potevano fungere da gruppi di pressione politica, luoghi di discussione e agenzie per la garanzia della sepoltura. Infatti, una parte della sottoscrizione dei membri serviva di solito per garantire loro un funerale decente, il che spiega probabilmente la grande importanza assegnata alla descrizione della professione negli epitaffi. Un falegname veniva sepolto come falegname, in un funerale pagato da altri falegnami.

82. Bassorilievo in marmo che raffigura il chiosco di un venditore di pollame di Ostia, forse proveniente da una tomba o forse insegna di negozio. Il secondo uomo da sinistra sembra pubblicizzare la merce; dietro il bancone una donna sta servendo i clienti. Il chiosco è fatto con delle gabbie (in cui si trova una coppia di conigli), sopra le quali sono sedute due scimmie.

83. La tomba di Eurisace, il panettiere imprenditore. Risalente al I secolo a.C., si è conservata perché fu inglobata in un torrione delle successive mura cittadine. Gli strani pannelli circolari della facciata rappresentano quasi certamente le macchine impastatrici che venivano utilizzate nelle grandi panetterie.

Queste associazioni erano molto diverse dalle gilde medievali: non richiedevano particolari qualifiche per esercitare determinati mestieri né imponevano quello che era di fatto un closed shop. a Non erano neppure l’equivalente antico dei sindacati o dei cartelli d’impresa, per quanto sembri

che, verso la metà del II secolo d.C., i panettieri di Efeso (nell’odierna Turchia), almeno a giudicare da un editto del governatore provinciale, abbiano provocato una rivolta entrando in sciopero; e nel Satyricon di Petronio un personaggio si lamenta del fatto che i panettieri (ancora una volta!) sono in combutta con i funzionari locali per tenere alto il prezzo del pane. Ma, a un certo punto, per queste associazioni si inventò un’antichissima presenza nella società romana. Secondo una storia piuttosto inverosimile, ma di notevole importanza, era stato il secondo re di Roma, Numa Pompilio, a crearle, includendovi muratori, bronzisti, vasai, orefici, tintori, conciatori e musicisti. Chiunque abbia concepito questa fantasia, perché di fantasia si tratta, voleva dare agli artigiani e alle loro organizzazioni una genealogia che risaliva il più possibile indietro nella storia romana. Interessanti testimonianze sul profilo pubblico delle attività commerciali e dei lavoratori sono ancora rintracciabili a Pompei. Gli slogan elettorali che ancora oggi si possono leggere sui muri della città, i cartelloni dipinti che esortavano gli elettori a sostenere un certo candidato nelle elezioni per il consiglio locale, sono un illuminante esempio. Non sono molto diversi dai nostri moderni manifesti elettorali, sebbene appaiano generalmente più standardizzati, di solito nella forma di una semplice frase come «Crescens desidera Gnaeus Helvius Sabinus come edile». Alcune varianti sul tema lasciano trasparire qualche traccia di propaganda negativa («I piccoli furfanti vogliono Vatia come edile», che significa pressappoco «Non votate per Vatia»); ma ci sono anche iscrizioni che offrono a un candidato l’appoggio di un particolare gruppo di commercianti, compresi panettieri, falegnami, allevatori di polli, follatori e conducenti di muli. È difficile dire quanto fosse ufficiale questo appoggio. A ogni modo, alcuni individui si erano riuniti insieme per decidere che, in quanto falegnami (o qualsiasi altra professione), sostenevano un determinato candidato anziché un altro. Pompei ci permette anche di gettare un inconsueto sguardo sull’ambiente di lavoro di una parte di queste persone, in particolare quello delle lavanderie. A Roma, il lavoro di pulitura e sgrassatura dei tessuti («follatura») non era un mestiere allettante. Uno degli ingredienti fondamentali del processo di lavorazione era l’urina umana, e proprio da qui nasce la celebre battuta, attribuita a Vespasiano, pecunia non olet. E i giovani scheletri provenienti dal cimitero adiacente ai laboratori tessili che si trovavano appena fuori Roma mostrano evidenti segni dell’usura fisica che questo lavoro comportava. Ma uno dei numerosi laboratori di follatura

di Pompei ci fornisce un quadro alternativo di quest’attività, a uso e consumo degli stessi follatori. L’area di lavoro in cui gli uomini (e si trattava in larga misura di uomini) battevano e trattavano i tessuti, immersi nel tanfo dei composti che utilizzavano, era decorata con pitture che raffiguravano proprio queste complicate e caotiche operazioni. Ecco cosa avevano davanti agli occhi questi lavoratori durante le loro lunghe giornate di lavoro: una versione ritoccata e idealizzata, quasi attraente, di quel che facevano (cfr. tavola 18). I rivali di Cicerone possono anche averlo preso in giro, correttamente o meno, per essere figlio del proprietario di una lavanderia. Ma in questa lavanderia di Pompei, come, senza dubbio, in molte altre in tutto l’impero, agli operai era presentata un’immagine della nobiltà del loro lavoro, un senso di orgoglio per la sua buona esecuzione e un sentimento di appartenenza identitaria che Cicerone non si sarebbe mai nemmeno immaginato.

Cultura da taverna L’aristocrazia romana era spesso ancora più sprezzante – ma anche preoccupata – per quello che il resto della popolazione faceva quando non lavorava. La passione del popolo per spettacoli e divertimenti era già una cosa, ma ancora peggio erano le bettole, le taverne e le osterie in cui si ritrovava la gente. Ci sono giunte fosche descrizioni del genere di persone che vi si poteva incontrare. Giovenale, per esempio, descrive una squallida osteria nel porto di Ostia, frequentata, come afferma lui stesso, da tagliagole, marinai, ladri, schiavi fuggitivi, boia e becchini, più qualche saltuario sacerdote eunuco (probabilmente in un momento di pausa dalle sue occupazioni nel santuario cittadino della Grande Madre). Alquanto più tardi, nel IV secolo d.C., uno storico romano si lamenta che la gentaglia peggiore passava intere notti nelle taverne, e mostra particolare disgusto per il fastidioso rumore che facevano i giocatori di dadi sbuffando con i loro nasi moccicosi mentre fissavano concentrati il tavolo da gioco. Abbiamo anche notizia di ripetuti tentativi di imporre misure restrittive o tasse su questi esercizi. Tiberio, per esempio, sembra avere proibito la vendita di pasticcini; Claudio avrebbe fatto chiudere tutte le «taverne» e avrebbe proibito che si servissero carne bollita e acqua calda (che probabilmente serviva, secondo l’uso romano, a essere mischiata con il vino; ma allora perché non proibire direttamente il vino?); e Vespasiano avrebbe ordinato che le osterie non potessero vendere nessun tipo di cibo tranne piselli e fagioli. Assumendo che tutto ciò non sia soltanto una fantasia degli antichi storici e biografi, queste misure non potevano essere altro che inutili sfoggi di autorità, leggi meramente simboliche, che lo stato romano non aveva mezzi per imporre e far rispettare.

84. Una tipica taverna romana a Pompei. Un bancone si affaccia sulla strada, con grandi bacinelle incassate, da cui potevano essere serviti cibi o bevande ai clienti di passaggio. I tre gradini sulla sinistra servivano per esporre altre pietanze.

Sempre e ovunque le élite tendono a temere i luoghi di ritrovo delle classi inferiori; ma, per quanto avessero certamente un’atmosfera malfamata e vi si sentissero discorsi piuttosto forti e volgari, le taverne erano luoghi più tranquilli di quanto facesse credere la loro reputazione: erano infatti non soltanto posti dove andare a bere, ma una parte essenziale della vita quotidiana per tutti coloro che non avevano una cucina adeguata nel proprio alloggio. Come nel caso della disposizione degli appartamenti nei grandi condomini, l’uso dei romani è esattamente l’opposto del nostro: i ricchi, con le loro grandi cucine e molteplici sale da pranzo, mangiavano a casa; i poveri, se volevano qualcosa in più dell’equivalente antico di un panino, dovevano mangiare fuori. Le città romane erano piene di taverne modeste e ristoranti; era qui che moltissimi romani trascorrevano gran parte del loro tempo libero. Pompei fornisce ancora una volta l’esempio migliore. Tenendo conto delle zone ancora non scavate della città e senza cadere nella tentazione (come invece è accaduto ad alcuni archeologi) di

chiamare taverna ogni struttura con un bancone di servizio, possiamo affermare che c’erano oltre un centinaio di tali posti, per una popolazione che probabilmente contava dodicimila abitanti, più i viaggiatori di passaggio.

85. Rissa in una taverna per una partita di dadi. In questa copia ottocentesca di alcune pitture trovate nella caupona di Salvius a Pompei, la lite comincia nel pannello di sinistra. Uno dei due giocatori esclama EXSI , «Ho vinto, la partita è finita», mentre l’altro contesta il suo lancio (NON TRIA DUAS EST, «Era un due, non un tre»). Nel pannello successivo, il padrone li caccia dal locale dicendogli di andare a suonarsele fuori.

Erano costruite secondo uno schema standardizzato: un bancone rivolto sulla strada, per il servizio di takeaway; una stanza interna con tavoli e sedie per chi si fermava a pranzare; e, di solito, un espositore per cibi e bevande, e un braciere o forno per preparare pietanze e bibite calde. A Pompei, in qualche caso, proprio come nei laboratori tessili, la decorazione delle pareti presentava pitture con scene – in parte reali, in parte fantasiose – della vita nello stesso locale. Queste pitture non ci forniscono molte testimonianze sulla spaventosa perversione morale di cui parlano gli scrittori romani. Una pittura mostra la consegna dei rifornimenti di vino in un grande recipiente, un’altra dei clienti che mangiano un boccone sotto delle salsicce e altre prelibatezze appese al soffitto. Le cose «peggiori» sono una scena di sesso

(ora difficilmente visibile perché qualche moderno moralizzatore ha cercato di cancellarla), alcuni graffiti con frasi come «Ho scopato la signora» (impossibile dire se sia semplice verità, vanteria o insulto) e diverse pitture che mostrano clienti impegnati a giocare a dadi, probabilmente per soldi, sbuffanti o no che fossero. Sulle pareti di una bettola, una scena, nella quale le figure sono accompagnate da brevi scritte che ne riproducono le parole, ci mostra una partita che sta degenerando in rissa e in pesanti insulti. Dopo un lancio di dadi controverso («Era un due, non un tre»), interviene il padrone del locale: «Se volete suonarvele, andate fuori», esclama, come sempre fanno gli osti, mentre i due giocatori iniziano a insultarsi («Canaglia, avevo un tre, e ho vinto»; «No, minchione, ho vinto io»). I giochi da tavolo e d’azzardo erano uno dei casi più eclatanti di doppiopesismo dell’élite romana. Alcuni dei più altolocati aristocratici erano accaniti giocatori. Secondo Svetonio, l’imperatore Claudio era talmente appassionato che scrisse persino un libro sui giochi di dadi e fece adattare la sua carrozza in modo da poter giocare anche quando era in viaggio; quanto ad Augusto, era così dedito al gioco, ma allo stesso tempo così attento alle tasche dei suoi amici, che dava semplicemente ai suoi ospiti grandi quantità di denaro da usare per le loro puntate (anche se Svetonio lascia trasparire la sua disapprovazione quando osserva che Augusto stesso non cercava di nascondere questo suo vizio, e lo accosta a un altro presunto hobby dell’imperatore: deflorare giovani fanciulle). I giochi da tavolo non erano un passatempo riservato solo agli uomini. Erano il divertimento preferito anche dell’anziana Ummidia Quadratilla (Plinio non ci dice se giocava a soldi oppure no). Ma, come osserva Giovenale, puntando deliberatamente il dito sull’ipocrisia romana, quando era la gente comune ad appassionarsi a questi giochi, gli aristocratici si mostravano indignati e la definivano una «cosa disdicevole». Una delle loro principali obiezioni era che il gioco dei dadi fosse una via che portava al crimine. La rissa raffigurata nella caupona di Pompei ne offre un esempio in piccola scala; su una scala più ampia, il fatto che dei «giocatori di dadi» (aleatores) figurassero tra i seguaci di Catilina lascia supporre un qualche legame con congiure e tradimenti. Ma, anche nella testa dei ricchi e dei potenti, gli effetti destabilizzanti del gioco d’azzardo erano un fattore importante. In un mondo in cui la gerarchia della ricchezza era sempre stata direttamente correlata al potere politico e allo status sociale, la possibilità, per quanto remota, che l’ordine stabilito fosse rovesciato grazie al denaro ottenuto unicamente per un caso fortunato

appariva pericolosamente sovversiva e dirompente. La ricchezza di Trimalcione era già abbastanza fastidiosa; ma l’idea che si potesse ottenere una fortuna con un semplice lancio di dadi era ben peggiore. Si fecero quindi diversi tentativi per tenere sotto controllo il gioco d’azzardo tra la popolazione, per limitarlo a momenti o occasioni particolari, e per ridurre la responsabilità giuridica per il recupero dei debiti contratti. Queste leggi ebbero sostanzialmente lo stesso effetto di quelle sulle taverne. I giochi da tavolo erano diffusi in tutto il mondo romano. Quelli che si sono conservati sono in pietra e provengono da tombe, osterie e caserme dell’esercito, oppure sono incisi sui pavimenti e i gradini di edifici pubblici, presumibilmente come divertimento per gente con un po’ di tempo libero. I giochi di dadi avevano numerosi nomi, si giocavano secondo diverse regole e su differenti tavoli da gioco. Nessuno è finora riuscito a ricostruire come funzionava precisamente ciascuno di questi giochi (è un po’ come cercare di capire le regole del Monopoli senza le istruzioni e le carte da gioco). Ma, ciononostante, un tipo comune di tavolo da gioco ci permette di cogliere qualche memorabile immagine dell’atmosfera e degli atteggiamenti dei giocatori. Questi tavoli erano fatti per un gioco che prevedeva senza dubbio di muovere i pezzi attraverso trentasei caselle, disposte in tre file di dodici caselle, con ogni fila suddivisa in due gruppi di sei caselle. Ma queste caselle, anziché essere indicate, come sui nostri tavoli da gioco, da riquadri, sono rappresentate da lettere dell’alfabeto, e i giocatori spostavano i propri pezzi da una lettera all’altra. Le lettere sono spesso accuratamente disposte in modo da formare delle parole, sicché lo stesso tavolo proclama qualche brillante motto di spirito: in sei parole di sei lettere ciascuna. Erano gli slogan della cultura da taverna e degli stessi giocatori. Alcuni sono un po’ austeramente moraleggianti, con riflessioni sulle conseguenze negative dell’attività stessa cui i tavoli da gioco erano destinati. INVIDA PUNCTA IUBENT FELICE LUDERE DOCTUM («Gli spietati puntini neri sui dadi costringono anche il giocatore più esperto a contare sulla fortuna»), oppure TAVULA CIRCUS VICTUS RECEDE LUDERE NESCIS («La tavola è come un circo. Ritirati quando sei battuto. Non sai giocare»). Molti sono trionfali in un modo tipicamente romano, anche se si riferiscono a vecchi trionfi: PARTHI OCCISI BRITTO VICTUS LUDITE ROMANI («I parti sono stati massacrati, i britanni conquistati. Continuate a giocare, romani»), come proclama un tavolo da gioco probabilmente del III secolo d.C. Altri evidenziano un pragmatico edonismo popolare, riferendosi alle gare del

Circo Massimo: CIRCUS PLENUS CLAMOR POPULI GAUDIA CIVIUM («Il circo è pieno, la gente grida, i cittadini si divertono»), o persino ad ancora più semplici piaceri della vita; sui gradini del Foro di Timgad le lettere di un tavolo compongono questa frase che tutto riassume: VENARI LAVARE LUDERE RIDERE OCCEST VIVERE («Andare a caccia, fare il bagno, giocare, ridere: ecco la vera vita»). Questi slogan surclassano la severa disapprovazione dell’élite romana, cogliendo lo spirito e il gusto della vita da osteria, il piacere che la gente comune poteva provare nell’essere romana (dai circhi fino alle conquiste militari), ed esprimendo una visione terra terra di ciò che significava condurre un’esistenza bella e piacevole. Era con slogan come questi che il semplice lavoratore di una lavanderia pompeiana se ne andava la sera nella sua bettola, a bere qualche bicchiere di vino (mescolato ad acqua calda) e giocare a dadi con un paio di amici, sognando di guadagnarsi con il gioco una vita migliore. Qualcuno venne baciato dalla fortuna. Un graffito di Pompei ricorda la gioia di un vincitore in una partita giocata in una vicina città: «A Nuceria, giocando a dadi, ho vinto 855 denari e mezzo. Credetemi, è proprio così». Si trattava, come dimostra l’eccitazione del suo autore, di una vincita quasi incredibile e di una somma sostanziosa: calcolando che occorrevano quattro sesterzi per fare un denaro, equivaleva a quasi 4000 sesterzi, vale a dire circa quattro volte la paga annuale di un soldato romano. Deve avere significato una grossa svolta per il vincitore. Il quale non poteva comunque essere stato disperatamente povero. Come ben sapeva lo scaltro Augusto, per giocare era necessario possedere qualcosa da mettere sul banco; anche nelle taverne e agli angoli delle strade, il gioco d’azzardo era il passatempo di chi aveva qualche soldo in tasca. Una vincita di tale portata avrebbe probabilmente offerto l’opportunità di procurarsi un alloggio migliore, vestiti nuovi, mezzi di trasporto più rapidi (con 500 sesterzi si comprava un asino) e cibo e vino di migliore qualità (secondo una lista di prezzi pompeiana, una caraffa del miglior vino di Falerno costava un sesterzio, vale a dire quattro volte il prezzo del comune vino rosso locale). Comunque, nonostante le paranoiche ossessioni dell’aristocrazia, nulla di tutto ciò rischiava di incrinare le fondamenta dell’ordine sociale.

86. Un’altra variante di «Il circo è pieno...». Qui l’ultima linea (ora spezzata sulla destra) recita IANUAE TE[NSAE], «le porte sono colme di gente».

Furti, imbrogli ed espedienti Quattromila sesterzi erano, in ogni caso, una vincita straordinaria e oltre i sogni della maggior parte dei piccoli giocatori. Persino i più modesti slogan incisi sui tavoli da gioco non erano, per alcuni, altro che semplici aspirazioni. «Andare a caccia, fare il bagno, giocare, ridere» potevano essere divertimenti elementari per chi viveva in città come Timgad; ma per gli uomini e le donne che si accalcavano nelle strade di Roma andare a caccia era soltanto un sogno. Per chi viveva ai piani superiori di un’insula, le gare del circo erano una rara occasione (anche se più accessibile degli spettacoli gladiatorii: la capienza del Circo Massimo, la principale pista da corsa di Roma, era di duecentocinquantamila spettatori, ossia cinque volte superiore a quella del Colosseo). Ma, anche per coloro che vivevano nei più confortevoli alloggi ai piani bassi delle insulae, il futuro, almeno secondo la nostra prospettiva, sarebbe stato incerto; il loro benessere era sempre precario. Alcuni storici moderni hanno persino sostenuto che la popolarità dei giochi d’azzardo tra i comuni romani fosse un riflesso della loro stessa esistenza. Per la maggior parte dei romani la vita era sempre una scommessa, e la possibilità di arricchirsi qualcosa di simile a una lotteria. Il fatto di vivere agiatamente in un certo periodo non era una garanzia per quello successivo. Chi riusciva a guadagnare qualcosa oggi poteva facilmente cadere in disgrazia domani, per una malattia che gli impediva di lavorare, o per uno dei numerosi incendi o inondazioni che potevano distruggergli la casa. La grandiosità dei resti della città di Roma (e gli argini costruiti nel XIX secolo, che hanno in gran parte evitato inondazioni devastanti) può farci dimenticare i disastri naturali che la colpivano ripetutamente: ricchi e poveri in modo ineguale, però, anche se spesso vivevano gli uni accanto agli altri. Qualche metro di altezza in più, sul pendio di una collina, poteva proteggere la casa di un ricco dalle inondazioni che invece sommergevano gli alloggi delle insulae nelle zone più basse della città. Il fuoco poteva essere un problema per tutti: nel terribile incendio del 192 d.C. Galeno perse il contenuto di un suo magazzino vicino al Foro, compresa parte dei suoi scritti di medicina, strumenti medici, medicine e altri oggetti di valore (come veniamo a sapere dal manoscritto di un suo saggio su questo tema, scoperto nel 2005). Ma in un grande e alto condominio era un altro tipo di problema, specialmente

quando gli inquilini dei piani superiori cercavano di cucinare o tenersi al caldo con precari bracieri. La piccola, e anche non tanto piccola, criminalità poteva derubare ognuna di queste persone dei suoi risparmi, dei suoi preziosi, dei suoi vestiti o degli strumenti del suo mestiere. Allora come oggi, i ricchi, con i loro cani da guardia e gli schiavi (antichi equivalenti dei moderni antifurti), erano quelli che più si lamentavano per i furti domestici e gli scippi. Ma erano i poveri le vittime principali. I documenti papiracei provenienti dall’Egitto romano – spesso più diretti e informali rispetto ai pronunciamenti pubblici iscritti su pietra e ritrovati in diverse regioni dell’impero – conservano resoconti personali sull’endemica criminalità quotidiana, le aggressioni e le violenze di ogni tipo. Un uomo, per esempio, lamenta che un gruppo di ragazzi aveva assaltato la sua casa, lo aveva picchiato («su ogni arto del mio corpo») e poi se n’era andato portandosi via alcuni vestiti, compresi una tunica e un mantello, un paio di forbici e un po’ di birra. Un altro afferma che dei fannulloni che gli dovevano dei soldi si erano intrufolati nella sua abitazione e avevano aggredito sua moglie, incinta, che in seguito aveva abortito e ora si trovava «in pericolo di vita». A più di tremilacinquecento chilometri di distanza, nella città di Aquae Sulis (odierna Bath), nella provincia di Britannia, diverse iscrizioni documentano i continui furti di vestiti e altri oggetti, come anelli, guanti e (soprattutto) mantelli. Per contrastare i danni delle calamità naturali e della criminalità c’erano pochi mezzi, e quasi nessun tipo di regolare servizio pubblico. A Roma, nel I secolo d.C., venne istituito un piccolo e rudimentale servizio di vigili del fuoco, ma era equipaggiato soltanto di qualche coperta e secchi d’acqua e di aceto per spegnere le fiamme; per fermare gli incendi si ricorreva piuttosto alla demolizione degli edifici circostanti: un’ottima idea, tranne per coloro che vivevano in tali edifici. E non c’era una forza di polizia alla quale poter denunciare un reato o dalla quale ottenere giustizia. La maggior parte delle vittime doveva contare sulle proprie forze o sull’aiuto di familiari, amici o vigilanti locali per ottenere un risarcimento dalla persona che riteneva responsabile. Non esisteva alcun sistema per affrontare efficacemente, attraverso i canali ufficiali, la delinquenza comune, ma soltanto un ciclo di giustizia sommaria e di brutali rappresaglie. La sfortunata moglie incinta che abortì dopo essere stata aggredita può essere stata vittima proprio di una simile rappresaglia, malgrado il commovente racconto del suo apparentemente innocente e addolorato marito. La storia di un negoziante

romano ci lascia intravedere l’inizio di un’analoga faida. Una notte particolarmente buia aveva inseguito un ladro che gli aveva rubato una lanterna che si trovava vicino al suo bancone. Nella zuffa che ne era nata, il ladro aveva tirato fuori uno scudiscio e si era messo a frustare il negoziante, che aveva contrattaccato, finendo per accecare un occhio al suo avversario. Il raffinato edificio della legge romana, nonostante la sua straordinaria capacità di formulare regole e princìpi giuridici, di definire questioni di responsabilità e di determinare diritti di proprietà e contratto, aveva ben poco effetto sulla vita di quanti non appartenevano all’élite e offriva poche soluzioni ai loro problemi. Quando cercavano di usarlo a proprio beneficio, il sistema si rivelava talvolta semplicemente sovraccarico. Non sappiamo fino a che punto giungevano le lamentele di queste ordinarie vittime nell’Egitto romano, anche se erano indirizzate ai funzionari della provincia nella speranza di qualche azione legale. Ma sappiamo, da un altro documento papiraceo, che all’inizio del III secolo d.C. un governatore dell’Egitto (o meglio: prefetto, come era qui chiamato il governatore del paese) aveva ricevuto in appena tre giorni più di milleottocento petizioni da persone che volevano fare una denuncia o una querela. La maggior parte di esse devono essere state semplicemente cestinate. Per lo più, le istituzioni ufficiali della legge non erano interessate ai problemi della gente comune, e viceversa. Talvolta, gli accademici e i giuristi romani prendevano in considerazione le disgrazie dei poveri come esempi di casi particolarmente difficili e spinosi; concordavano, per esempio, sul fatto che il negoziante non aveva agito illegalmente, ammesso che il ladro avesse realmente usato per primo la frusta. Ancora più raramente, di solito in casi di eredità e stato civile, la gente comune giudicava opportuno ottenere una decisione con valore legale. A Ercolano, per esempio, sono stati scoperti documenti scritti su tavolette di cera (i segni lasciati dallo stilo sono ancora visibili sulla tavoletta lignea su cui era steso lo strato di cera) che registrano una serie di dichiarazioni testimoniali prese in una complessa, e per noi sconcertante, disputa locale. La questione era se una donna di quella città fosse nata libera oppure schiava. Come quasi tutti gli abitanti del mondo romano, non possedeva un documento ufficiale che provasse il suo status; tuttavia, nel suo caso, qualcuno ebbe il tempo, le conoscenze e il denaro per sottoporre la questione fino ai vertici della stessa Roma. Ma, nel complesso, la legge era difficilmente accessibile alla maggior parte della popolazione, che, come vedremo, spesso considerava processi e procedimenti legali più una minaccia che una

possibile forma di protezione. Quindi, se non poteva ricorrere alla legge, a chi si rivolgeva la gente comune se aveva bisogno di aiuto, a parte la propria famiglia e i propri amici? Spesso ci si affidava a forme di sostegno «alternative», agli dèi, al soprannaturale e a indovini a buon mercato, che affermavano di conoscere il futuro e la soluzione di tutti i problemi (riguardo ai quali, come prevedibile, l’élite mostrava particolare disprezzo). Il solo motivo per cui conosciamo il caso dei furti di mantelli nella città romana di Aquae Sulis (Bath) è che le vittime si recavano alla sacra sorgente di Sulis, la dea locale, e gettavano nell’acqua una piccola tavoletta di piombo sulla quale era iscritta una maledizione contro il ladro. Sono state scoperte numerose tavolette di questo tipo, con i loro irati o disperati messaggi. Eccone uno: Dociliano figlio di Brucerus alla santissima dea Sulis: sia maledetto chi ha rubato il mantello con cappuccio, sia egli un uomo o una donna, libero o schiavo, e che la dea Sulis lo faccia morire e non lo lasci dormire o avere figli né ora né in futuro, fino a quando non avrà portato il mio mantello al tempio della dea.

Un’altra soluzione alternativa, di cui ci è rimasta notizia in uno dei più strani documenti che ci siano giunti dall’antichità classica, ci introduce direttamente ai problemi concreti e alle ansie che affliggevano la vita degli uomini e delle donne della strada. Intitolato Gli Oracoli di Astrampsychus, dal nome di un leggendario mago egizio (con cui non ha naturalmente nulla a che fare), nell’introduzione si dice (poco plausibilmente) essere stato scritto dal filosofo Pitagora ed essere stato la chiave del successo di Alessandro Magno; ma si tratta in realtà di un manuale standard per la predizione del futuro, risalente con ogni probabilità al II secolo d.C., vale a dire diversi secoli dopo Pitagora e Alessandro. Contiene una lista numerata di novantadue domande che si potrebbe desiderare di porre a un indovino, più un elenco di oltre un migliaio di possibili risposte. Il principio era questo: l’interrogante sceglieva la domanda che meglio si adattava al suo problema e ne indicava il numero all’indovino, il quale, seguendo le istruzioni del manuale (che prevedeva una buona dose di astrusità, tra cui scegliere altri numeri, eliminare il numero che si era pensato all’inizio e così via), era alla fine diretto sull’unica risposta giusta tra le oltre mille. Chiunque abbia compilato Gli Oracoli riteneva che queste novantadue domande riassumessero i problemi che potevano verosimilmente spingere

la gente a recarsi dal chiaroveggente locale. Alcune di esse sembrano indicare la possibilità di clienti piuttosto altolocati: «Diventerò senatore?» non era certo una domanda che poteva preoccupare molte persone, anche se potrebbe essere l’equivalente della nostra «Sposerò un bellissimo principe?», posta da chi ben difficilmente avrebbe mai avuto la possibilità di incontrare, e ancor meno sposare, un principe di stirpe regale. La maggior parte delle domande si riferisce a preoccupazioni molto più banali. La numero 42, per esempio, «Supererò la malattia?», deve essere stata una scelta comune, per quanto sia interessante notare che nella lista figura anche la domanda «Sono stato avvelenato?», un sospetto a quanto pare non esclusivamente ristretto alla casa imperiale. Alla numero 24, «Mia moglie avrà un bambino?», si contrappongono le colpevoli domande «Sarò presto beccato come adultero?» e «Alleverò il bambino?», che allude all’antico dilemma sulla decisione di esporre il nuovo nato. Appare inoltre chiaro che tra i clienti figuravano anche gli schiavi («Sarò liberato?» e «Sarò venduto?») e che i viaggi erano considerati uno dei principali pericoli della vita («Il viaggiatore è vivo?», «Arriverò a destinazione sano e salvo?»). Ma la preoccupazione maggiore sono i soldi e i mezzi di sostentamento: «Riuscirò a prendere in prestito il denaro?», «Aprirò un negozio?», «Restituirò quanto devo?», «I miei beni verranno venduti all’asta?», «Riceverò un’eredità da un amico?». La legge, quando appare, tende a essere un’incombente minaccia: «Sono al sicuro da accuse giudiziarie?», «Me la passerò liscia se qualcuno fornisce informazioni su di me?». Il complicato sistema degli Oracoli poteva determinare risposte positive, negative o ambigue a tutte queste domande. Ammesso che i clienti prendessero le risposte sul serio (e alcuni potrebbero essere stati altrettanto scettici dei nostri odierni lettori di oroscopi), «Non sarai beccato come adultero» era ovviamente meglio di «Sarai beccato come adultero, ma non subito». «Non sei stato avvelenato, ma sei stato stregato» avrebbe sicuramente suscitato nuove ansie, mentre «Il viaggiatore è vivo ed è in cammino» sarebbe stato, in quasi tutte le circostanze, motivo di festeggiamento. Nel complesso, un tono di rassegnazione pervade le risposte: «Attendi», «Non ancora», «Sii paziente» e «Non aspettartelo» sono consigli continuamente ripetuti. È un tono, questo, che si coglie anche nel solo genere letterario romano che può proclamare un’origine esterna al mondo dell’élite: la fiaba con protagonisti animali. Le storie più celebri erano attribuite a Esopo, che sarebbe stato uno schiavo greco vissuto molti secoli prima, al quale sono

ancora intitolate molte moderne raccolte (Le favole di Esopo). Tuttavia, a Roma, un’altra figura di spicco, che riadattò antiche favole e ne compose di nuove, con un tono specificamente romano, fu Fedro, un ex schiavo della casa imperiale che scrisse durante il regno di Tiberio, all’inizio del I secolo d.C. Molte di queste favole simboleggiano le ineguaglianze della società romana ed esprimono il punto di vista dei più deboli, contrapponendo le creature più piccole, come volpi, rane e pecore, alle grandi fiere, come leoni, aquile, lupi e falchi. In qualche rara occasione il più debole riesce a vincere. Una mamma volpe, per esempio, riesce a recuperare i suoi piccoli, che un’aquila le aveva sottratto per nutrire i propri; la volpe fa scoppiare un incendio e l’aquila libera i suoi cuccioli per salvare i propri. Ma normalmente la sorte si accanisce contro i deboli. In un’altra favola, una mucca, una capra e una pecora si alleano con un leone, ma, quando catturano insieme un grande e succulento cervo, il leone si prende tutto rifiutandosi di condividere la preda. In un’altra ancora, una gru infila la testa nella gola di un lupo per rimuovere un osso che stava per soffocarlo, ma viene ingannata sulla ricompensa promessa (non era già abbastanza, domanda il lupo, non averle mangiato la testa?). Nel complesso, il messaggio è in stridente contrasto con le ottimistiche fantasie del gioco d’azzardo. L’unica vera opzione, ribadiscono molte di queste favole, è quella di adattarsi alla propria sorte. Le rane chiedono a Giove di dare loro un re, e la divinità dà loro un ceppo di legno; quando gliene chiedono uno migliore, ricevono un serpente, che se le mangia tutte. Una piccola taccola, che si riveste di splendide piume per fingersi un magnifico pavone, viene prima rifiutata come un’impostora dai pavoni e poi nuovamente rifiutata quando cerca di ritornare dalle altre taccole, questa volta perché voleva volare più in alto del consentito. È la stessa storia di Trimalcione, ma in una veste molto diversa e da una prospettiva altrettanto diversa. Una cosa è certa: nessuna di queste povere creature può sperare nell’aiuto della legge. Questo è spietatamente dimostrato dalla storia di una rondine che aveva costruito il proprio nido nel muro di un’aula di tribunale e vi aveva covato sette uova. Mentre la rondine era via, era giunto un serpente, che aveva divorato tutti i piccoli. La legge poteva proteggere i diritti di alcuni, questa la morale della favola, ma non quelli delle povere rondini, il cui omicidio era avvenuto sotto gli occhi dei giudici.

Rondini e serpenti Considerando l’enorme divario tra i privilegiati e gli svantaggiati nel mondo romano, perché non si scatenarono più aperti conflitti sociali e politici? Come riuscirono, nella città di Roma, l’imperatore, qualche migliaio di ricchi e il loro personale di schiavi a monopolizzare ettari ed ettari di terreno, comprese fastose residenze e vasti parchi di piacere attorno al perimetro della città, mentre quasi un milione di persone erano costrette ad ammassarsi nell’angusto spazio che rimaneva? Perché, per esprimerci nel linguaggio delle favole, le rondini non si ribellarono contro i serpenti? Una possibile risposta è che si ebbero probabilmente più conflitti di quanti ne siano registrati, anche se si trattava in generale più di semplici sommosse che di vere e proprie rivolte: lancio di uova marce contro le tendine delle carrozze che passavano lungo la strada piuttosto che assalti coordinati contro le cancellate del palazzo imperiale. Gli autori romani non davano molto peso alle proteste, se contenute. Ma gli imperatori si preoccupavano certamente di come venivano accolti quando assistevano a giochi o spettacoli pubblici. E, anche se sotto gli imperatori l’ordine pubblico non si frantumò così ripetutamente come era avvenuto nei conflitti della tarda repubblica, abbiamo testimonianza di occasionali rivolte violente a Roma e in altre città dell’impero. La causa principale erano interruzioni o altri ostacoli nei rifornimenti di cibo. Nel 51 d.C. Claudio venne bersagliato di pagnotte nel Foro (un’arma davvero strana durante una carestia, verrebbe da dire) e dovette essere riaccompagnato nel palazzo passando da una porta posteriore. Circa nello stesso periodo, ad Aspendo, nell’odierna Turchia, un funzionario locale sfuggì solo per un soffio al rischio di essere bruciato vivo da una folla infuriata che protestava contro i proprietari terrieri perché avevano messo sotto chiave il loro grano, con l’intenzione di esportarlo. Ma il cibo non era l’unica questione. Nel 61 d.C. un importante senatore venne assassinato da uno dei suoi schiavi, e il Senato decise di seguire le regole tradizionali per un crimine di questo tipo, secondo le quali tutti gli schiavi della vittima dovevano essere messi a morte insieme al colpevole (la minaccia di una simile punizione serviva a incoraggiare gli schiavi a fare da informatori gli uni sugli altri). In questo caso specifico, la vittima aveva quattrocento schiavi, tutti innocenti. La gente scese in strada indignata per la crudele severità della proposta,

dando una prova di solidarietà fra gli schiavi e i liberi cittadini, molti dei quali dovevano essere stati un tempo anch’essi schiavi. Tuttavia, anche se un significativo numero di senatori si schierò dalla parte dei rivoltosi, l’imperatore Nerone fece intervenire le truppe per prevenire disordini e diede ordine di eseguire la sentenza. Un’altra possibile risposta è che, malgrado le grandi disparità di ricchezza, il disprezzo dell’élite verso i meno fortunati e l’evidente doppiopesismo, esisteva, almeno tra i ricchi e il «ceto medio» di Roma (coloro che vivevano ai piani bassi delle insulae), maggiore coincidenza culturale di quanto potremmo immaginare. Basta grattare sotto la superficie, e si scopre che le due culture erano più permeabili di quanto possa sembrare a prima vista, che le rondini non erano sempre così diverse dai serpenti. Ne abbiamo già riconosciuto qualche traccia. Le scritte che accompagnano i personaggi delle pitture delle taverne e gli eleganti epitaffi (talvolta composti in versi, con tutte le complesse regole della versificazione latina) sono il segno di un mondo in cui la capacità di leggere e scrivere era data per scontata. In anni recenti ci sono stati infiniti e infruttuosi dibattiti sul numero esatto degli abitanti alfabetizzati nell’impero romano. Nel complesso del mondo romano questo numero deve essere stato molto basso, ben al di sotto del 20 per cento dei maschi adulti. Ma deve essere stato nettamente più alto nelle comunità urbane, dove molti piccoli commercianti, artigiani e schiavi dovevano possedere un minimo livello di alfabetizzazione e di preparazione matematica per svolgere efficacemente il proprio lavoro (prendere le ordinazioni, contare i soldi, organizzare le consegne, e così via). Abbiamo testimonianza che un’«alfabetizzazione elementare» di questo genere offriva anche al «ceto medio» la possibilità di partecipare in qualche modo a quella che definiremmo alta cultura classica. Tra i graffiti incisi sulle mura di Pompei ci sono oltre cinquanta citazioni della poesia di Virgilio. Questo ovviamente non significa che l’Eneide e le sue altre opere fossero ampiamente lette nella loro interezza. La maggior parte delle citazioni appartiene alle prime parole del primo canto dell’Eneide (Arma virumque cano, «Armi canto e l’uomo») o del secondo canto (Conticuere omnes, «Tacquero tutti»), versi probabilmente altrettanto celebri di «Essere o non essere». E molti di questi graffiti potrebbero essere opera di ricchi giovanotti, per i quali Virgilio era un testo studiato a scuola; è sbagliato credere che soltanto i poveri scrivano sui muri. Ma non è verosimile che tutte queste scritte siano state fatte dai figli dell’élite.

La nostra documentazione indica che, seppure in brevi frammenti, la poesia di Virgilio era un patrimonio condiviso, da citare, adattare e persino sfruttare per scherzi e battute. La facciata di una lavanderia pompeiana era decorata con una scena tratta dall’Eneide, e mostrava l’eroe Enea che fuggiva insieme al padre e al figlioletto dalle macerie di Troia, in procinto di intraprendere il lungo viaggio che li avrebbe portati a fondare una nuova Troia in Italia. Accanto a essa, un burlone scarabocchiò, parodiando il celebre primo verso del poema, Fullones ululamque cano, non arma virumque («I follatori e la loro civetta canto, non le armi e l’uomo», con allusione all’uccello che serviva da mascotte a questa professione). Non era certo alta cultura, ma è il segno di un contesto di riferimento condiviso tra il mondo della strada e quello della letteratura classica. Un esempio ancora più netto ci è offerto dalla decorazione di una taverna della città portuale di Ostia, eseguita nel II secolo d.C. Il tema principale è la consueta sfilata di filosofi e saggi greci tradizionalmente raggruppati con il titolo «I sette sapienti»: tra essi figurano Talete di Mileto, il pensatore del VI secolo a.C. famoso per avere sostenuto che l’acqua era all’origine dell’universo, il suo quasi contemporaneo Solone di Atene, figura quasi leggendaria di legislatore, e Chilone di Sparta, un altro antico intellettuale e luminare. Una parte delle pitture è scomparsa, ma originariamente dovevano essere raffigurati tutti i sette sapienti, seduti su eleganti sedie e con in mano un rotolo di papiro. Ma non mancava una sorpresa: ognuno di essi era accompagnato da un breve motto, non sugli argomenti loro consueti della politica, della scienza, della legge o dell’etica, bensì sulla defecazione, e secondo un familiare tema scatologico (si veda la tavola 15). Sopra la figura di Talete si leggono le seguenti parole: «Talete consigliava a chi fa la cacca dura di sforzarsi il più possibile»; sopra quella di Solone: «Per cacare bene, Solone si batteva la pancia»; e sopra quella di Chilone: «L’astuto Chilone insegnava a scorreggiare senza fare rumore». Sotto i sapienti c’era un’altra fila di personaggi, tutti seduti insieme su un gabinetto con molteplici posti (com’era consueto nel mondo romano). Anch’essi pronunciano parole adatte all’occasione, come, per esempio, «Saltella su e giù e la farai più veloce» o «Eccolo che arriva». Si può spiegare tutto ciò come un’aggressiva presa in giro popolare della cultura dell’élite. I ragazzi della taverna di Ostia si facevano qualche scatologica beffa dei pilastri dell’establishment intellettuale dell’aristocrazia, interpretando la loro saggezza nei termini di una filosofia da gabinetto. E questo ne è indubbiamente un aspetto: abbassare i pensieri

più elevati al livello della defecazione. Ma le cose sono più complicate. Queste battute non implicano soltanto un pubblico alfabetizzato, o almeno un numero sufficiente di persone capaci di leggerle a chi non ne era in grado; per inventarle o capirle bisognava anche sapere qualcosa sui «sette sapienti»: se Talete di Mileto era un nome privo di significato, il suo consiglio su come defecare non aveva nulla di divertente. Per colpire le presunzioni e le vanità del mondo degli intellettuali, bisognava averne almeno una certa conoscenza. È possibile immaginare la vita in questa taverna in molti modi: le risate sguaiate per le battute da gabinetto, le discussioni su quale fosse il vero diritto di Chilone alla fama, le prese in giro del proprietario, i corteggiamenti delle cameriere. La gente ci andava per ogni genere di motivi: per un buon pasto caldo, per trascorrere una serata più allegra e divertente di quella che avrebbe passato a casa, o semplicemente per ubriacarsi. Qualcuno sognava le ricchezze che poteva guadagnare con un lancio di dadi fortunato. Altri pensavano che fosse meglio accettare la propria sorte anziché perdere quel poco che si possedeva al tavolo da gioco. Molti detestavano probabilmente l’arroganza, il disprezzo, il doppiopesismo e il tenore di vita dei loro ricchi vicini: l’assenza di zonizzazione nelle città romane potrà avere avuto il suo risvolto egualitario, ma allo stesso tempo costringeva i poveri a subire costantemente i privilegi degli altri. Su una cosa tutti, ricchi o poveri, sarebbero stati d’accordo: che la ricchezza era una condizione desiderabile e che bisognava fare tutto il possibile per sfuggire alla povertà. Proprio come l’ambizione degli schiavi romani era generalmente quella di ottenere la libertà per se stessi e non quella di abolire la schiavitù, così anche l’ambizione dei poveri era quella di avvicinarsi quanto più potevano al vertice della gerarchia della ricchezza e non quella di riconfigurare radicalmente l’ordine sociale. Fatta eccezione per qualche raro filosofo estremista, nel mondo romano nessuno credeva seriamente che la povertà fosse in sé onorevole (almeno fino all’affermarsi del cristianesimo, che esamineremo nel prossimo capitolo). L’idea che un uomo ricco avrebbe potuto incontrare difficoltà a entrare nel regno dei cieli sarebbe sembrata assurda tanto a chi passava le serate nelle taverne di Ostia quanto ai ricchi aristocratici nel lusso dei loro palazzi.

a. Azienda che assume soltanto gli iscritti a un certo sindacato. [NdT]

XII

ROMA FUORI ROMA

La provincia di Plinio Nel 109 d.C. Plinio il Giovane lasciò l’Italia e la sua lussuosa villa di campagna per imbarcarsi in un viaggio di almeno quattro settimane, su un tragitto di circa tremila chilometri, con destinazione la provincia della Bitinia. Avvocato ed ex console, allora prossimo alla cinquantina, era il nuovo governatore provinciale, nominato dall’imperatore Traiano, con l’incarico speciale di verificare le condizioni delle città della provincia. Era un vasto territorio, che si estendeva su gran parte della costa meridionale del mar Nero e copriva una superficie di oltre ventiduemila chilometri quadrati, includendo i resti dell’antico regno del Ponto di Mitridate. Plinio portò con sé la sua terza moglie, Calpurnia, che aveva circa venticinque anni meno di lui (non gli rimanevano, dai suoi precedenti matrimoni, figli ancora in vita). Calpurnia tornò in Italia un paio d’anni dopo, alla notizia della morte di suo nonno. Plinio non vi fece più ritorno. È probabile che sia morto in Bitinia non molto dopo la partenza di Calpurnia. L’attività di Plinio come governatore ci è nota da circa un centinaio di lettere che scambiò con l’imperatore durante il suo mandato in Bitinia, in cui si trattano questioni come l’organizzazione e l’amministrazione della provincia, le controversie legali, lo sviluppo urbano, la gestione finanziaria e il protocollo imperiale. Chi selezionò e preparò queste lettere per la pubblicazione (dato che non sono certo il contenuto casuale dell’archivio di Plinio) intendeva presentarlo come una persona di sicura garanzia, un uomo onesto e attento ai dettagli, che esercitava con la massima serietà il compito di amministratore della provincia. Spesso ne esce un’immagine troppo perfetta per essere vera. Le lettere lo mostrano impegnato a esaminare scrupolosamente le finanze delle varie città locali, informare l’imperatore sullo stato dei servizi pubblici, e richiedere l’invio di architetti e ingegneri da Roma. Plinio appare preoccupato dalla condizione dell’acquedotto di Nicomedia, delle terme di Claudiopolis e del teatro e del ginnasio di Nicea: le mura, spesse addirittura sei metri, del nuovo ginnasio di questa città, per esempio, non gli sembravano strutturalmente solide, ma era necessaria l’opinione di uno specialista. A Nicomedia prese in considerazione la possibilità di istituire una brigata locale di pompieri, ma Traiano lo sconsigliò, perché queste organizzazioni potevano trasformarsi in gruppi di pressione politica, e gli suggerì invece di mettere a disposizione equipaggiamenti anti-incendio. Plinio era crucciato anche da altre questioni: come si dovevano punire gli

schiavi che avevano cercato di arruolarsi nell’esercito, aperto esclusivamente a uomini liberi; se si doveva permettere al consiglio cittadino di Nicea di appropriarsi dei beni di chi moriva senza avere fatto testamento; se Traiano non avesse gradito che una sua statua fosse eretta in un edificio nel quale erano sepolti resti umani. Occorrevano almeno due mesi perché i suggerimenti e i consigli dell’imperatore giungessero a Plinio, anche ipotizzando una risposta immediata dal palazzo. Comunque, Traiano rispondeva con regolarità, e un certo tono d’irritazione fa supporre che le risposte fossero dettate o abbozzate dallo stesso imperatore anziché essere semplicemente affidate a qualche subordinato. Naturalmente, brontola Traiano, non gli avrebbe dato fastidio la prossimità della sua statua a sepolture umane: come aveva potuto Plinio anche soltanto immaginarsi che l’avrebbe ritenuto un insulto? Plinio e Traiano rimarrebbero probabilmente sorpresi scoprendo che, duemila anni dopo, le più celebri lettere della loro corrispondenza sono quelle che parlano di un nuovo gruppo religioso, apparentemente insignificante, ma di natura peculiare e particolarmente snervante: i cristiani. Plinio ammetteva di non sapere bene cosa fare. All’inizio aveva dato loro parecchie opportunità per abiurare, e aveva fatto giustiziare soltanto quanti si erano rifiutati («la loro caparbietà e irremovibile ostinazione deve essere certamente punita»). Ma, in seguito, erano stati portati alla sua attenzione molti altri nomi, non appena la gente iniziò a risolvere vecchi conti accusando i propri nemici di essere cristiani. Plinio continuò a offrire agli indagati la possibilità di abiurare, dimostrando la propria sincerità versando vino e bruciando incenso di fronte alle statue dell’imperatore e degli autentici dèi. Ma, per andare al fondo della questione, Plinio fece torturare e interrogare due schiave cristiane (la testimonianza degli schiavi, sia in Grecia che a Roma, aveva valore legale soltanto se data sotto tortura) e giunse alla conclusione che il cristianesimo «non era altro che una perversa e ribelle superstizione». Desiderava che Traiano confermasse che questo era stato il giusto metodo da seguire. E l’imperatore lo soddisfece, aggiungendo una nota di prudenza: «I cristiani non devono essere ricercati; ma se accusati e giudicati colpevoli, devono essere puniti». Questa, escludendo la letteratura ebraica e cristiana, è la più antica citazione del cristianesimo che ci sia giunta. Il contrasto con le lettere che Cicerone centocinquant’anni prima aveva inviato dalla Cilicia non potrebbe essere più netto. Per Cicerone, la provincia rappresentava l’opportunità per imprese militari e per sogni di

grandezza alla Alessandro Magno, ed era un mondo di uomini (al tempo della repubblica, sembra che alle mogli dei governatori fosse espressamente proibito di accompagnare all’estero i propri mariti). Cicerone dipinge un quadro di incertezza e disorganizzazione che, malgrado tutte le sue buone intenzioni, non poteva risolvere, ma soltanto rattoppare. E a ciò si combinava un costante sfruttamento della popolazione locale da parte di molti funzionari provinciali romani, compreso Bruto, l’assassino di Cesare, i cui elevati princìpi politici non si applicavano evidentemente a tutti: aveva cercato di pretendere il 48 per cento di interesse dagli sfortunati ciprioti. Plinio non sembra avere nutrito aspirazioni di eroismo militare, e si recò in Bitinia insieme a sua moglie, anche se non possiamo sapere come passasse le sue giornate la giovane Calpurnia. La sua provincia appare una regione ben ordinata, nella quale si seguiva una corretta prassi finanziaria e la corruzione era tenuta sotto controllo, le amenità locali erano tra le priorità del governatore e le dispute venivano risolte attraverso chiari procedimenti giudiziari. Sarebbe sbagliato valutare interamente alla lettera questo contrasto. I dispacci inviati all’imperatore tendono quasi obbligatoriamente ad avere un tono diverso e a dare una diversa impressione rispetto a lettere, come quelle di Cicerone, spedite ad amici e confidenti intimi. Inoltre, la specifica struttura giuridica entro la quale Plinio si muove risaliva in parte all’epoca di Cicerone: era stato infatti Pompeo a stabilire la legislazione per la nuova provincia dopo avere sconfitto l’antico nemico di Roma Mitridate, negli anni Sessanta del I secolo a.C.; e Plinio stesso si riferisce esplicitamente a essa in parecchie occasioni (definendola lex Pompeia). E già Cicerone aveva talvolta rivolto la propria attenzione alle irregolarità che si verificavano nelle città provinciali. Ciononostante, a partire dal regno di Augusto si affermò nelle province un nuovo stile di governo, e la corrispondenza di Plinio ne è un esempio illuminante. C’era una nuova chiarezza di comando. Plinio era giunto in Bitinia con precise istruzioni da Traiano, e sapeva esattamente a chi dovesse presentarsi. Appare anche chiaro che l’imperatore poteva prendere decisioni su questioni relative alle province, fino a punti specifici su particolari edifici in una determinata città, con una capillarità d’intervento che il Senato della repubblica non aveva mai avuto. Alcuni governatori privi di scrupoli si saranno compiaciuti di comportarsi come piccoli autocrati, agendo di propria iniziativa, imponendo le proprie leggi e vivendo sfarzosamente, quasi senza mantenere contatti con la capitale; e non tutti

erano interamente fedeli all’uomo assiso sul trono. Si era tuttavia affermata la nuova convinzione che i governatori fossero funzionari che rispondevano direttamente a Roma. Come vedremo, l’amministrazione di palazzo, sebbene spesso a parecchie settimane di viaggio da molte province, aveva efficaci strumenti per tenersi al corrente di ciò che facevano questi funzionari nelle loro lontane sedi. Questo è un nuovo mondo di «Roma fuori Roma», e Plinio è un’ottima guida per esaminarlo. Le sue lettere sollevano numerose domande su quanto l’impero, sotto gli imperatori, fosse diverso dall’impero sotto la repubblica, tanto per i governati quanto per i governanti, per i vinti come per i vincitori. Aprono questioni ancora più vaste sulle relazioni ufficiali con i cristiani, che in seguito divennero uno dei problemi più divisivi nel mondo romano, e ci illuminano su molti punti fondamentali dell’infrastruttura del regime imperiale romano dell’epoca, dal ruolo dei soldati nell’amministrazione provinciale fino all’organizzazione dei trasporti. Ma anche Plinio aveva le sue cecità mentali. Aveva ben poco interesse o sensibilità per ogni causa generale di opposizione ai romani o per le opportunità commerciali offerte da questo enorme impero, e assolutamente nessuno per le differenze culturali tra la sua provincia e la patria. Nessuno potrebbe capire dalle sue lettere che la lingua principale della sua provincia era il greco e non il latino. Traiano, in un’occasione, esprime un’opinione sulla passione dei greci per le palestre: «i grecuzzi», scrive, intendendo i provinciali di lingua greca, «adorano i ginnasi». Ma in Plinio ciò che più si avvicina a una riflessione sulla diversità culturale è il suo giudizio sul cristianesimo, definito una «superstizione perversa e ribelle», e il tentativo di comprenderne i rituali e le cerimonie. La provincia di Bitinia e Ponto, com’era chiamata ufficialmente, era un mondo lontanissimo da Roma, con una straordinaria e talvolta «esotica» combinazione di tradizioni greche e locali, come non mancarono di sottolineare altri autori antichi. Il saggista e scrittore di satire Luciano (egli stesso un perfetto esempio di ibridismo culturale, essendo un cittadino romano originario della Siria, la cui lingua madre era il greco) compose un’intera parodia su un nuovo e incredibilmente bizzarro oracolo che si era affermato nella provincia appena cinquant’anni dopo la morte di Plinio. Vi figurava un serpente profetico con testa umana ed era estremamente popolare, capace di attrarre l’attenzione dell’élite romana, a partire dallo stesso imperatore Marco Aurelio. Luciano lo mise in ridicolo smascherandolo come una lucrativa truffa, con un fantoccio artigianale al

centro.

87. Il dio serpente Glycon in una scultura del II secolo d.C. Nella sua scettica parodia sul culto del dio, Luciano racconta una serie di incredibili exploit che avrebbe compiuto abbindolando una folla credulona.

Per gli storici odierni, una delle domande più pressanti sull’impero

romano riguarda precisamente come venivano discusse differenze e stranezze culturali di questo genere, quanto «romani» divennero coloro che vivevano fuori di Roma e dell’Italia, e come gli abitanti delle province considerassero le proprie tradizioni, religioni, lingue e, in certi casi, letterature rispetto a quelle della potenza imperiale (e viceversa). Plinio non sembra avere avuto il minimo interesse per questo fenomeno.

I confini dell’impero L’espansione dell’impero sotto Augusto si era improvvisamente fermata nel 9 d.C. quando, nella fase di stabilizzazione delle conquiste romane in Germania, il comandante romano Publio Quintilio Varo aveva perduto quasi tre intere legioni nella battaglia della foresta di Teutoburgo, poco a nord dell’odierna città di Osnabrück. Fu una sconfitta che, nell’immaginario romano, si pose allo stesso livello del disastro di Canne durante la guerra con Annibale, e si raccontavano cupe storie su come i soldati catturati fossero stati sacrificati con barbari rituali e come i venti e le terribili piogge avessero reso ancora più spaventoso il massacro. Si diceva che gli inermi legionari, completamente sommersi dalla pioggia, non riuscivano a scoccare frecce, lanciare giavellotti o persino sollevare lo scudo. Alla fine, le perdite sfiorarono quasi il 10 per cento delle forze armate romane; i resti di alcuni caduti, insieme ai loro animali da soma, sono stati recentemente scoperti sul luogo della battaglia, e parecchi teschi mostrano tracce di profonde ferite. Il vincitore nemico era un ribelle germanico, Arminio, che aveva precedentemente prestato servizio nell’esercito romano e che Varo aveva considerato un amico leale. Ma Arminio lo aveva attirato in un’imboscata dopo avere detto di recarsi a raccogliere sostegno locale per i romani. Come in altre occasioni, gli avversari più pericolosi per le legioni erano proprio coloro che i romani stessi avevano addestrato. Augusto aveva progettato di estendere il territorio romano nella Germania orientale, al di là del Reno. Chiare e concrete tracce delle sue intenzioni sono state scoperte nel corso degli ultimi vent’anni negli scavi di una città romana ancora in costruzione, a Waldgirmes, 96 chilometri a est del Reno: il Foro, al centro del sito, era già stato completato, con tanto di statua dorata dell’imperatore a cavallo. Ma la città non fu mai portata a termine perché, dopo il disastro di Teutoburgo, Augusto rinunciò ai suoi piani di nuove conquiste, si ritirò a ovest e alla sua morte diede istruzioni affinché l’impero non venisse ulteriormente esteso. Queste istruzioni, tuttavia, non erano così semplici da applicare. Infatti, come abbiamo visto, Augusto aveva creato e lasciato in eredità un modello di potere imperiale che si fondava sulla conquista e sul tradizionale valore militare romano. E insieme a esso aveva lasciato ai suoi successori, e a tutto il popolo romano, una visione dell’impero che si estendeva sul mondo

intero. La profezia pronunciata da Giove nell’Eneide di Virgilio, secondo la quale i romani avrebbero avuto un potere «senza fine», poteva essere accantonata soltanto per un unico disastro? Questo non era certo lo spirito di Canne.

88. La testa dorata di un cavallo ritrovata a Waldgirmes (fotografata durante le operazioni di restauro) dimostra chiaramente che, prima del rovescio militare subìto nel 9 d.C., questa città era stata pianificata per essere un centro di primaria importanza, con un corredo completo di statue di illustri personaggi (compresa una scultura dello stesso Augusto, raffigurato a cavallo). Gli scavi hanno riportato alla luce la città nel suo stato ancora non terminato.

Per i successivi duecento anni, sino alla fine del II secolo d.C., queste due visioni inconciliabili dell’impero (consolidamento vs. espansione)

coesistettero in modo sorprendentemente pacifico. Ci furono poche aggiunte al territorio romano. Claudio, per esempio, rimediò alla sua immagine decisamente poco militare attribuendosi il merito della conquista della Britannia, e celebrò l’evento con una processione trionfale nel 44 d.C., la prima da quasi trent’anni. Il fatto ebbe un notevole valore simbolico. Era la prima conquista romana in quelle strane terre che si trovavano oltre l’oceano (altrimenti noto, nel caso specifico, con il nome di canale della Manica), e trasformò in un’occupazione permanente l’effimera incursione sull’isola effettuata da Cesare un centinaio d’anni prima. Ma non si trattò certo di un’espansione su vasta scala, e nei decenni successivi avanzò verso la Scozia con estrema lentezza. L’accurata valutazione della praticabilità di un’annessione della Britannia, espressa dal geografo Strabone all’inizio del I secolo d.C., è un esempio illuminante di una cultura imperiale fattasi nuovamente cauta. Dopo avere passato in rassegna le caratteristiche dei britanni (alti, con le gambe storte e strani) e le risorse dell’isola (tra cui grano, bestiame, schiavi e cani da caccia), conclude che i costi per il mantenimento di una guarnigione avrebbero superato tutte le rendite fiscali che si sarebbero potute ottenere. Ma Claudio aveva bisogno di gloria.

89. Sulla colonna di Traiano l’esercito è presentato come una macchina militare di perfetta efficienza, impegnato tanto nei massacri quanto in attività logistiche. In questa scena, le truppe stanno abbattendo alberi nelle foreste della Dacia, e la loro fortezza è raffigurata sullo sfondo.

Soltanto le campagne di Traiano portarono a una significativa estensione dell’impero: tra il 101 e il 102 effettuò la conquista della Dacia (parzialmente corrispondente all’attuale Romania), dettagliatamente

raffigurata nel suo intero svolgimento sulla sua celebre colonna; tra il 114 e il 117 invase la Mesopotamia, spingendosi fino all’odierno Iran. Fu il punto più a oriente cui la potenza romana venne ufficialmente estesa, ma non per molto. Pochi giorni dopo essere salito al trono, nel 117 d.C., Adriano abbandonò quasi tutto questo territorio. Il successo fu celebrato con una processione trionfale particolarmente bizzarra. Poiché Traiano era morto durante il viaggio di ritorno, nel carro trionfale venne collocata al suo posto un’effigie; e, in ogni caso, le terre conquistate erano già state riconsegnate. Molti ostacoli rallentavano le conquiste in terra straniera. Le istruzioni di Augusto erano una cosa, ma ben pochi desideri postumi mantengono lo stesso peso che il loro autore si era augurato da vivo. La fine della competitiva cultura repubblicana ebbe maggiore importanza. Gli imperatori, che si attribuivano la gloria del successo militare anche se non avevano partecipato direttamente ai combattimenti, erano in concorrenza soprattutto con i loro predecessori defunti: una rivalità molto meno intensa di quella, per fare solo due esempi, tra Mario e Silla o Cesare e Pompeo. Questo fenomeno andava di pari passo con la crescente convinzione che l’impero potesse, in termini pratici, avere dei confini, anche se la stravagante profezia dell’Eneide non venne mai dimenticata. Rimase sempre una zona indistinta in cui il controllo romano si dissolveva gradualmente nel territorio non romano, e ci furono sempre popoli che non erano ufficialmente parte delle province dell’impero ma ciononostante facevano quello che i romani ordinavano loro, sul vecchio modello dell’impero dell’obbedienza. Proprio per questo motivo le mappe moderne che pretendono di segnare i confini dell’impero con una semplice linea possono risultare più fuorvianti che utili. Ma i confini si stavano facendo progressivamente meno fluidi e più rilevanti, come indica il grande vallo costruito per ordine di Adriano nella Britannia settentrionale. Il Vallo di Adriano si estendeva per oltre 112 chilometri, attraversando l’intera isola da una costa all’altra. La sua costruzione comportò un enorme investimento di manodopera militare, ma è sorprendentemente difficile sapere quale fosse precisamente la sua funzione. La vecchia idea che fosse una costruzione difensiva per tenere lontani i «barbari» non appare convincente. È vero che il solo scrittore antico che ne menzioni la costruzione (un anonimo e fantasioso biografo che scrisse verso la fine del IV secolo d.C., anche se per qualche ragione a noi ignota si spaccia come di un secolo precedente) parla di Adriano che «separa» romani e barbari. Ma non poteva certo fermare qualsiasi nemico sufficientemente deciso e bene

organizzato pronto a scalarlo, specialmente se si considera che gran parte di esso era fatta semplicemente di terra, e non di solida pietra, come nelle parti che vengono generalmente riprodotte nelle fotografie. Privo di un camminamento sulla cima, non era neppure adatto a scopi di sorveglianza e pattugliamento. E anche come barriera doganale, almeno secondo una recente interpretazione, o come strumento per controllare i movimenti della popolazione, sembra una costruzione più ingombrante del necessario. Ciò che il vallo proclama è il potere romano sul territorio. Non è probabilmente una semplice coincidenza se anche altri muri (non altrettanto imponenti), terrapieni e fortificazioni vennero costruiti in questo medesimo periodo, come a indicare che i confini dell’impero stavano iniziando ad assumere una forma più concreta e tangibile.

90. Il Vallo di Adriano si erge ancora sulle cime delle colline dell’Inghilterra settentrionale. Era probabilmente una barriera più simbolica che realmente difensiva: non sarebbe stato di certo molto difficile da scalare, ma rappresentava senza dubbio un segnale di confine.

Comunque, nessuno che desse un’occhiata in giro per Roma e molte altre città dell’impero avrebbe potuto immaginare che il progetto di conquista mondiale fosse stato abbandonato. Ovunque si vedevano immagini di vittorie dei romani e sconfitte dei barbari. Trattati diplomatici con vicini molesti venivano festeggiati con spettacolari celebrazioni, come se fossero stati ottenuti con la forza delle armi. Dopo avere concluso un accordo di pace piuttosto inglorioso con Tiridate, re d’Armenia, Nerone riuscì a convincerlo nel 66 d.C. a compiere il lungo viaggio fino a Roma per ricevere la sua corona dall’imperatore stesso, il quale si presentò nelle vesti di un generale trionfante; e si dice che quel giorno avesse fatto rivestire l’intero teatro di Pompeo con foglie d’oro per farlo letteralmente scintillare. Vittorie riportate in guerre difensive contro nemici interni, ribelli e invasori venivano commemorate come se fossero state gloriose imprese militari di conquista. La colonna di Marco Aurelio, per esempio, terminata nel 193 d.C. e accuratamente progettata per superare di qualche metro la sua rivale traianea, celebra una campagna vittoriosa, ma estremamente costosa, condotta in risposta a un’invasione germanica. E dappertutto si ergevano statue di imperatori con splendide armature e immagini di barbari conquistati, legati e calpestati. Forse questo era il modo più semplice di riconciliare la contraddittoria eredità di Augusto: l’arte e i simboli potevano utilmente supplire al fatto che nella vita reale ormai i barbari non si calpestavano più così facilmente.

91. Una classica immagine della potenza militare romana. Sulla sinistra, Augusto, con un’aquila ai piedi (simbolo delle legioni), è affiancato, sulla destra, da una figura che rappresenta la «Vittoria». In mezzo, un’armatura, trofeo di vittoria militare (cfr. fig. 41), e, schiacciato sotto di essa, un prigioniero nudo, con le mani legate dietro la schiena. Questo pannello scolpito, proveniente da un santuario dedicato agli Augusti ad Afrodisia, nell’odierna Turchia, fa parte di una serie che raffigurava gli imperatori romani e il loro impero.

La gestione dell’impero In pratica, se non anche nell’immaginario romano, l’impero dei primi due secoli della nostra èra divenne sempre meno un campo di conquista e pacificazione e molto più un territorio da gestire, controllare e tassare. Scipione Emiliano e Mummio sarebbero rimasti meravigliati nello scoprire che Cartagine e Corinto, da loro devastate nel 146 a.C., erano state rifondate, per iniziativa di Giulio Cesare, come colonie di veterani, e che alla fine del I secolo d.C. erano tornate a essere fiorenti città in un mondo romano ormai molto diverso da quello in cui essi erano vissuti. Questo nuovo mondo era il frutto non di un grandioso disegno imperiale bensì di un graduale processo di trasformazione, di una serie di adattamenti e mutamenti minori. Per quanto possiamo giudicare, persino sotto il governo degli imperatori non ci fu mai una vera e propria politica generale di gestione dell’impero o una strategia globale di spiegamento militare. Sebbene alcuni vasti progetti di costruzione come il Vallo di Adriano debbano essere stati frutto di decisioni prese ad alto livello, per la gran parte il coinvolgimento dell’imperatore si adeguava al modello esemplificato da Traiano nel caso della Bitinia, ossia quello di affrontare i problemi soltanto quando si presentavano concretamente. L’imperatore costituiva un nuovo livello nella struttura di comando, ma il suo ruolo si limitava in larga misura a dare una risposta a una determinata esigenza contingente; non era espressione di una strategia definita o di una pianificazione a lungo termine. Insomma, Plinio non era probabilmente quel nervoso pignolo che talvolta sembra essere ai lettori moderni delle sue lettere, continuamente occupato a bombardare il suo capo di innumerevoli domande sulle questioni più banali. Seguiva semplicemente la logica consueta dell’amministrazione imperiale: non si riceveva nessuna decisione dall’imperatore a meno che non gliela si chiedesse. La risposta alla domanda se il governo delle province fu durante i primi due secoli dell’èra cristiana migliore e più giusto rispetto a quello dell’ultimo secolo della repubblica dipende dal luogo e dalla persona presi in considerazione. È fin troppo facile confrontare il diligente Plinio con Cicerone o, ancora più vistosamente, con il corrotto Verre e sostenere, sulla base di qualche individuo assolutamente non rappresentativo (o presentato in modo distorto), che si fosse prodotto un profondo miglioramento.

Alcune cose, senza dubbio, migliorarono. Si ebbe una progressiva riduzione delle grandi imprese di riscossione delle tasse, il cui scopo era sempre stato quello di estorcere più denaro possibile ai provinciali. Il sistema rimase estremamente composito e variegato, e i publicani continuarono ad avere un ruolo, ma la riscossione delle imposte venne affidata in misura sempre maggiore alla responsabilità dei locali, cosa che rappresentava anche la scelta più economica. Inoltre, in quasi tutte le province, un funzionario specializzato in materia finanziaria (procurator), nominato dall’imperatore, curava le proprietà imperiali e aveva compiti di sorveglianza sulla riscossione delle tasse. Il procurator, assistito dal suo personale di schiavi ed ex schiavi della casa imperiale (la familia Caesaris, come veniva chiamata), poteva anche tenere sott’occhio le attività del governatore, e talvolta faceva da «occhi e orecchie» per Roma. Ma la verità è che, nella pratica concreta, lo standard di governo rimaneva diversificato come sempre. I processi per estorsione e malgoverno nelle province continuarono, cosa che potrebbe essere interpretata tanto come segno della persistente violazione della legge quanto come prova della sua corretta applicazione. Molti generi di sfruttamento quotidiano dei provinciali erano dati per scontati. L’imperatore Tiberio riassunse perfettamente l’etica fondamentale del regime romano quando, mosso a reazione da alcuni eccessivi profitti ricavati nelle province, disse: «Voglio la mia pecora tosata, non rasata a zero». Era quindi fuori discussione che il vello dovesse essere lasciato così com’era. Un fastidio costante era la necessità di fornire trasporto e alloggiamento ai funzionari romani. Il personale del governatore non disponeva di un proprio parco di veicoli ufficiali. Si presupponeva che il corriere in cammino per portare la posta a Roma o il governatore in viaggio da una città a un’altra reperisse i mezzi di trasporto direttamente in loco: cavalli, muli e carri. Si poteva pagare un piccolo pedaggio, ma i locali non avevano altra scelta che fornire ciò che veniva chiesto loro. Cosa niente affatto sorprendente, un ampio numero di tirapiedi romani cercò di sfruttare questo privilegio a proprio vantaggio anziché affidarsi ai propri mezzi, con ben maggiori spese e seccature. Quando morì il nonno di Calpurnia, Plinio diede alla moglie un lasciapassare ufficiale affinché potesse rientrare il più rapidamente possibile in Italia. Poi sentì il bisogno di confessare questa sua violazione delle regole a Traiano. Il nuovo metodo di designazione dei governatori può avere portato alla nomina di candidati più responsabili. Ora essa era direttamente, o indirettamente, nelle mani dell’imperatore, anziché risultare da una

combinazione di estrazione a sorte e di imbrogli politici in Senato. Ma i criteri che guidavano la scelta dell’imperatore non erano soltanto le capacità del candidato o gli interessi dei provinciali. Se Traiano cercava uno scrupoloso amministratore per affrontare i problemi del governo locale in Bitinia, in Plinio aveva certamente trovato l’uomo giusto. Ma era una battuta diffusa, e probabilmente corrispondente a verità, che Nerone avesse nominato il suo amico Marco Salvio Otone, che condivideva molte delle passioni dell’imperatore, governatore della provincia di Lusitania (nell’odierno Portogallo e Spagna) soltanto perché in questo modo poteva godersi più comodamente la sua relazione con la ex moglie di Otone, Poppea. Anche se generalmente le nomine non erano fatte per motivi così futili e capricciosi, non abbiamo testimonianza di una preparazione o istruzione al compito, a parte qualche indicazione (mandata) fornita dall’imperatore. Possiamo soltanto stupirci di come riuscisse ad assolvere i suoi compiti un nuovo governatore, inviato in qualche remota provincia settentrionale che non aveva mai visto, di cui non comprendeva la lingua, dei cui strani costumi aveva solo una vaga idea, e che avrebbe dovuto amministrare per almeno cinque anni. Da questo punto di vista, deve essere sembrato un salto nel buio. È certo comunque che i romani, anche durante questo più tranquillo periodo di controllo imperiale, non cercarono quasi mai di imporre le proprie norme culturali o di sradicare le tradizioni locali. Cercarono in effetti di sopprimere i druidi in Britannia. Le notizie sui sacrifici umani che questi ultimi praticavano possono essere state enormemente esagerate, e in ogni caso non si trattava di un rito del tutto sconosciuto a Roma; ma non era qualcosa che le autorità romane erano disposte a tollerare in questi strani sacerdoti. C’era anche il caso speciale dei cristiani. Queste però erano eccezioni. La metà orientale dell’impero continuò a usare il greco, senza passare al latino. I calendari locali non furono modificati, tranne qualche occasionale ritocco per allinearli al ciclo vitale dell’imperatore o includervi la celebrazione delle sue imprese. Viaggiare per l’impero non significava semplicemente attraversare diverse fasce orarie nel senso moderno del termine, ma anche muoversi tra sistemi completamente diversi di calcolare le date o le ore del giorno (come si riuscisse a tenere il proprio diario rimane un mistero). Le tradizioni locali prosperarono in ogni ambito, dai vestiti (calzoni e mantelli greci) alla religione. Era un mondo pieno di dèi e di festività di ogni sorta, la cui stranezza continuò a mantenere tutta la propria efficacia. Il serpente oracolare con testa umana non appare poi così

bizzarro se lo si confronta con il dio egizio Anubi, uomo con testa di sciacallo, o con la cosiddetta «dea siriana», pure messa in ridicolo da Luciano, i cui rituali prevedevano, a quanto pare, che i partecipanti scalassero enormi falli di pietra posti presso il santuario della dea. I romani probabilmente non avevano intenzione di imporre norme di questo genere. Ma, anche se questo fosse stato il loro scopo, non avevano il potenziale umano per farlo. Secondo una ragionevole stima, in tutto l’impero c’erano, in ogni dato momento, meno di duecento amministratori romani d’alto rango, più probabilmente qualche migliaio di schiavi dell’imperatore, mandati dal centro imperiale a governare un impero di oltre cinquanta milioni di abitanti. Plinio parla soltanto del suo legato (legatus) e del procurator. Dunque, come ci riuscivano? L’esercito è una risposta. Fin dai primi decenni del regime imperiale, i soldati vennero reclutati in misura sempre maggiore fuori dall’Italia (i provinciali, in pratica, sorvegliavano l’impero), e stazionati presso i confini estremi del mondo romano (a debita distanza di sicurezza da Roma, secondo il modello augusteo), assumendo compiti amministrativi oltre che di prima linea. Questo fenomeno è perfettamente illustrato dalle lettere e dai documenti scoperti nel corso degli ultimi quarant’anni negli scavi della piccola base militare di Vindolanda, subito a sud del Vallo di Adriano, che ospitava un’unità della guarnigione romana preposta al pattugliamento del vallo. Scritti originariamente su uno strato di cera (che ha lasciato appena visibili tracce sulla tavoletta di legno sul quale era steso), sono datati all’inizio del II secolo d.C. Ci troviamo all’estremità opposta del mondo romano, ma grosso modo nello stesso periodo della corrispondenza fra Plinio e Traiano. Questi documenti ci restituiscono un’immagine delle caserme romane molto diversa da quella, più consueta, di un ambiente esclusivamente maschile e fortemente militarizzato. Senza dubbio, non mancano allusioni a piccoli scontri armati e sprezzanti commenti sulla popolazione indigena. Se Traiano menzionava i «grecuzzi che adorano i ginnasi», qualche soldato di Vindolanda parlava degli «infimi britannici [Brittunculi, un analogo diminutivo denigratorio] che lanciano i loro giavellotti senza montare a cavallo». Ma particolarmente interessante è per noi la vita quotidiana e domestica della base di Vindolanda. Una lettera contiene un invito a una festa di compleanno mandato dalla moglie del comandante dell’accampamento a una sua amica; malgrado la proibizione di sposarsi per i soldati in servizio, la scoperta di un cospicuo numero di scarpe in

cuoio per donne e bambini conferma la presenza di donne nella base. Naturalmente, delle scarpe non sono in grado di dirci cosa facessero i loro proprietari o quanto stabile fosse la loro presenza. Ma l’impressione è quella di vere e proprie famiglie. Altrettanto rivelatore è un «rapporto sull’organico», ossia un registro dei soldati presenti nella base e di quelli assenti perché impegnati in qualche missione o servizio. Più della metà dei 752 soldati stanziati a Vindolanda risulta essere assente o indisponibile al lavoro. Di questi, 337 si trovavano in un vicino accampamento, 31 erano malati (le infiammazioni oculari erano un problema più grave delle ferite da combattimento) e quasi 100 erano impegnati in altri compiti: 46 si trovavano lontani 450 chilometri, a Londra, come guardia del corpo del governatore; un paio erano stati assegnati a «incarichi» non specificati, e diversi centurioni erano in altre regioni del paese per altri impegni. Questo quadro si accorda perfettamente con una delle preoccupazioni espresse da Traiano nelle sue lettere a Plinio: troppi soldati erano occupati a fare altre cose e risultavano assenti dalle loro unità. Un’altra risposta è che le popolazioni locali avevano un ruolo importante nella gestione dell’impero, grazie alle città che i romani avevano promosso o fondato. La città (polis) era stata in Grecia e in Oriente l’istituzione fondamentale già ben prima dell’arrivo di Roma, e continuò a esserlo anche dopo, talvolta con una sostanziosa iniezione di denaro romano. L’imperatore Adriano, per esempio, finanziò un vasto programma edilizio ad Atene. Nelle regioni settentrionali e occidentali dell’impero, dove non c’era stata una precedente urbanizzazione, la fondazione di città, secondo il modello romano, fu la conseguenza più importante della conquista romana sul paesaggio della provincia. Questo era esattamente ciò che stavano facendo le forze di Augusto a Waldgrimes prima che l’imperatore desse l’ordine di ritirarsi. E una buona parte delle città dell’odierna Gran Bretagna, compresa Londra, deve la propria collocazione e forma alle scelte e alla pianificazione dei romani. Alcune ebbero più successo di altre. Triste sorte toccò per esempio alla piscina esterna, in stile mediterraneo, delle terme romane di Viriconium (odierna Wroxeter, vicino al confine tra Inghilterra e Galles), che non resistette ai freddi inverni dell’isola e fu presto destinata a discarica della città. E gli usi della vita urbana devono avere significato ben poco, o nulla, per la maggioranza della popolazione, che continuava a vivere, come aveva sempre fatto, nelle campagne. Ma in Occidente, esattamente come in Oriente, una rete di città più o meno autogovernate divenne la struttura

portante dell’amministrazione romana. Soltanto quando si riteneva che qualcosa non andasse per il giusto verso, un funzionario come Plinio interveniva direttamente. Fu un fenomeno di urbanizzazione su una scala senza precedenti. Le élite provinciali che vivevano in queste città fungevano da intermediari tra il governatore romano, con il suo esiguo personale, e la popolazione provinciale nel suo complesso. Erano loro a riscuotere gran parte delle imposte, garantendo un livello accettabile di lealtà, o almeno l’assenza di problemi e disordini. Ed era probabilmente a esse che veniva affidato il compito di accogliere e accompagnare ogni nuovo e preoccupato governatore nei primi tempi del suo incarico. Le circostanze e i dettagli specifici di queste disposizioni e di questi incontri variavano notevolmente nelle varie regioni dell’impero. I saloni letterari dell’Atene romana non avevano quasi nulla in comune con le birrerie della Colchester romana. Ma in tutto l’impero operava la medesima logica di fondo: le preesistenti gerarchie locali venivano trasformate in gerarchie al servizio di Roma, e il potere dei capi locali era sottoposto ai bisogni del sovrano imperiale. In Britannia, un capo locale chiamato Togidubnus fornisce un classico esempio. Si era schierato con i romani quando le armate di Claudio avevano invaso l’isola nel 43 d.C., e già prima dev’essere stato una specie di alleato, visto che, per quanto remota e rurale fosse la Britannia, c’erano stati legami fra la sua aristocrazia e il continente europeo almeno dai tempi dell’invasione di Cesare: alla metà del I secolo a.C. Togidubnus potrebbe essere stato il proprietario della grande villa vicino a Chichester ora chiamata palazzo romano di Fishbourne. Ma si tratta di una semplice ipotesi. Gli furono tuttavia certamente concessi la cittadinanza romana e quindi il nuovo nome di Tiberio Claudio Togidubno. E ci sono chiare testimonianze del fatto che continuò a esercitare un’autorità locale nelle zone pacificate della nuova provincia. All’origine di questo sistema di governo era tanto la semplice necessità quanto una visione ideologica. Fuori dalle aree di attivo impegno militare, i romani erano semplicemente troppo pochi di numero per poter governare in qualsiasi altro modo. Ma il carattere stesso del regime imperiale venne definito in misura sempre maggiore dalla sua collaborazione con le élite dei popoli sottomessi. E questi ultimi, a propria volta, identificarono sempre più strettamente i loro interessi con quelli dei romani, tanto sul piano culturale quanto su quello politico: iniziarono a sentire di avere una parte attiva nel progetto romano, e non come elementi esterni ma come suoi

membri interni. Nel corso del tempo, alcuni dei più intraprendenti riuscirono a trovare posto, come cittadini romani, nello stesso governo centrale di Roma. Per questi uomini e le loro famiglie, l’esperienza del dominio romano significava almeno in parte l’esperienza di diventare romano.

92. Questa iscrizione del I secolo d.C., da Chichester, nell’Inghilterra meridionale, ricorda la dedica di un tempio a Nettuno e Minerva «per il benessere della casa imperiale» (letteralmente la «casa divina»). Il tempio fu eretto sotto l’autorità di Tiberio Claudio Togidubno. Si noti che, nella figura qui riprodotta, il nome, la cui grafia è incerta, è reso come Cogidubnus.

Romanizzazione e resistenza Come al solito Tacito ha parole pungenti e ciniche per questo processo di romanizzazione, come viene spesso chiamato. Sono incluse nella breve biografia che dedicò a suo suocero, Gneo Giulio Agricola, governatore della Britannia dal 77 all’85 d.C., un periodo insolitamente lungo. La maggior parte del testo è riservata alle vittoriose operazioni militari guidate da Agricola nella provincia, alla sua estensione del potere romano verso nord fino alla Caledonia (l’odierna Scozia) e alla gelosia dell’imperatore Domiziano, il quale rifiutò di concedergli gli onori e la gloria che meritava per i propri successi. La biografia è allo stesso tempo un’eulogia dell’illustre parente di Tacito e una critica dell’autocrazia: il messaggio fondamentale è che il regime imperiale non lasciava alcun posto alle tradizionali virtù romane e al valore militare. In certi casi, comunque, Tacito si interessa anche degli aspetti civili del governo di Agricola. Alcuni dei temi trattati sono di tipo consueto e avrebbero potuto facilmente trovare posto nelle lettere di Plinio, che era un amico di Tacito all’interno dei circoli letterari di Roma all’inizio del II secolo d.C. Agricola è lodato per saper tenere la sua famiglia sotto un rigido controllo («per molti un lavoro altrettanto difficile che governare la provincia»). Risolse anche alcuni degli abusi compiuti nelle requisizioni per l’esercito, e finanziò l’abbellimento delle città della Britannia con nuovi templi e edifici pubblici in stile romano. È più sorprendente scoprire che aveva anche attuato una politica di istruzione locale: i figli dei provinciali più illustri dovevano essere educati nelle «arti liberali» e nella lingua latina. E ben presto, come scrive Tacito, i britanni iniziarono a indossare la toga e a fare i primi passi sulla strada del vizio, grazie a portici, terme e banchetti. E conclude con una lapidaria sentenza: «Essi chiamavano civiltà tutto questo, che null’altro era se non un aspetto della loro servitù» (Humanitas vocabatur, cum pars servitutis esset). Queste parole hanno avuto, nel bene o nel male, un’enorme influenza sui tentativi moderni di comprendere il modo in cui funzionava l’impero di Roma. Per un verso, rappresentano la più acuta analisi esistente del governo romano nella parte occidentale dell’impero (ma non in quella orientale: nessun funzionario romano si sarebbe mai sognato di insegnare la «civiltà» ai greci). Per quanto potesse essere snob nei confronti dell’ignoranza di questi poveri provinciali, che non hanno lasciato

documentazione scritta circa il proprio punto di vista, e nonostante tutto il suo cinismo sulla schiavitù travestita da progresso culturale, Tacito riconobbe perfettamente il legame tra cultura e potere, e comprese che, diventando romani, i britanni non facevano altro che compiere il lavoro dei conquistatori a loro beneficio. Ma, per un altro verso, le sue osservazioni danno un’immagine del tutto fuorviante della situazione. Innanzitutto, se Agricola promosse realmente un programma sistematico di istruzione nel senso indicato da Tacito, cercando di inculcare i costumi romani nei livelli più alti della società britannica, fu il solo governatore provinciale a farlo, almeno per quanto ne sappiamo. La romanizzazione, normalmente, non era un processo imposto dall’alto. Era semmai la conseguenza di una scelta delle élite provinciali in favore di una versione della cultura romana, un processo di acquisizione dal basso verso l’alto, e non viceversa. Tacito avrebbe senz’altro obiettato che, considerato il bilancio di forza politica e militare, nettamente a favore di Roma, non si trattava precisamente di una libera scelta. Questo è vero. Ma, ciononostante, al livello pratico della vita quotidiana, la popolazione urbana relativamente benestante delle province divenne l’agente della propria romanizzazione, e non l’oggetto di una sistematica campagna romana di riprogrammazione culturale o di una missione civilizzatrice. Le testimonianze archeologiche dimostrano chiaramente che queste popolazioni scelsero le nuove forme romane in ogni campo, dall’architettura e dalla pianificazione urbana alle stoviglie da cucina, ai tessuti, ai cibi e alle bevande. Alcuni pregiati oggetti romani si trovano sepolti nelle tombe britanniche già prima della conquista del 43 d.C.; e già all’inizio del I secolo d.C. lo stesso visitatore greco che in Gallia era rimasto scioccato dalla vista delle teste appese davanti alle capanne osservò anche che (malgrado quanto sostenuto da Cesare a proposito del disprezzo locale per la vite) i ricchi locali avevano iniziato a tracannare vino importato, lasciando la tradizionale birra gallica ai meno abbienti. All’inizio del II secolo d.C., nella Colchester romana c’erano ormai più osterie che birrerie; questo, almeno, è ciò che sembrano indicare i numerosi frammenti di anfore utilizzate per il trasporto del vino. E, per la prima volta, avviando un’altra lunga tradizione le cui origini affondano nell’impero romano, si iniziarono a produrre notevoli quantità di vino in quella che oggi è la Francia, superando in qualità la stessa produzione italiana. Qui era all’opera una dinamica combinazione di forze: da un lato, la potenza di Roma rendeva la cultura romana un obiettivo che si desiderava

raggiungere; dall’altro, la tradizionale apertura romana accoglieva facilmente coloro che volevano seguire lo «stile di vita» romano, e, naturalmente, questo desiderio favoriva la solidità del dominio di Roma. I principali beneficiari (o vittime, secondo il giudizio di Tacito) erano i ricchi. Ma non erano gli unici a crearsi un’identità romana. Un sorprendente squarcio su un altro modo di diventare romano ci è offerto dalla ceramica della Gallia meridionale, che, in una fase di boom nel I e II secolo d.C., produsse su scala industriale il tipico vasellame «romano» da tavola di colore rosso brillante. I nomi di molti vasai sono conservati su elenchi e liste trovati nel sito di produzione. Si discute ancora su come debbano essere letti, ma risultano essere un misto di nomi tipicamente latini (Verecundus, Iucundus) e celtici (Petrecos, Matugenos). Ma sui vasi stessi le cose stanno diversamente: quando questi medesimi uomini incidevano il proprio nome sui piatti e le ciotole che sarebbero stati messi in vendita come loro opera, molti di loro si romanizzavano; Petrecos scelse il nome Quartus e Matugenus divenne Felix. Qui si può riconoscere probabilmente uno stimolo squisitamente commerciale. I clienti che acquistavano vasellame in stile romano prodotto nella Gallia meridionale potevano essere maggiormente attratti da un nome di artigiano autenticamente romano. Ma è altresì possibile che, in considerazione dei rapporti esterni connessi al loro commercio, questi artigiani di successo ma pur sempre piuttosto umili si considerassero almeno in parte romani e abbracciassero una determinata versione di romanità. La parola versione è scelta a ragion veduta; infatti, un altro problema relativo all’analisi di Tacito risiede nel fatto che essa implica una semplice opposizione tra cultura «indigena» e cultura «romana» o un unico parametro in base al quale misurare il grado di romanità: così, Togidubno, il nuovo cittadino romano appassionato di vino, si colloca ben più in alto del vasaio Petrecos, che, pur usando uno pseudonimo latino per firmare le proprie opere, poteva rimanere per il resto profondamente celtico. In realtà, i rapporti tra Roma e le altre culture dell’impero si caratterizzano soprattutto per la varietà delle forme che assunsero e per le diverse versioni ibridizzate di cultura romana (e talvolta «non romana») che ne furono il frutto. In tutto il mondo romano, si formarono i più diversi generi di amalgama culturale dai particolari tentativi locali di accogliere, adattare o contrastare la potenza imperiale. Le testimonianze di questi tentativi vanno dalle immagini degli imperatori romani in Egitto, tutti presentati come se fossero tradizionali

faraoni egizi, alla rigogliosa scultura della facciata del tempio di Sulis Minerva nella città romana di Aquae Sulis (Bath), nell’Inghilterra meridionale. Per certi aspetti, quest’ultimo è un caso perfetto di romanizzazione. Era parte di un tempio classico, un tipo di edificio sconosciuto in Britannia prima della conquista romana; era dedicato a una dea celtica, Sulis, ora identificata con la romana Minerva; e conteneva diversi elementi, dal medaglione in foglia di quercia alle figure della Vittoria, tratti direttamente dal più tradizionale repertorio romano. Ma, allo stesso tempo, è un esempio eclatante di una cultura provinciale incapace, o forse, più correttamente, niente affatto desiderosa di diventare romana. Il caso più notevole di questo tipo di interazione è rappresentato dalle province del mondo greco, dove uno spettacolare rinascimento letterario e culturale fu il risultato, e non l’unico, di quello che oggi chiameremmo «incontro culturale». Nella fase iniziale dell’espansione militare romana oltremare, a cominciare dal III secolo a.C., la letteratura e le arti visive romane si svilupparono attraverso un intenso contatto con i modelli e i capolavori greci. Il poeta Orazio peccò senza dubbio d’esagerazione quando, alla fine del I secolo a.C., riassunse l’intero processo nei termini di una semplice conquista culturale: Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio («La Grecia, conquistata, conquistò il feroce vincitore e introdusse le arti nell’agreste Lazio»). Si trattò di un’interrelazione ben più complessa, come dimostra la poesia dello stesso Orazio, che costituisce una combinazione tipicamente romana di omaggio alla cultura greca, ambiziosa trasformazione dei modelli letterari greci e celebrazione delle tradizioni latine. Ma, allo stesso tempo, Orazio coglieva nel segno. Nell’impero romano dei primi due secoli della nostra èra, l’incontro assunse un volto diverso. Non si trattava semplicemente del fatto che molti greci, esattamente come molti britanni, adottavano costumi romani, come le terme e gli spettacoli dei gladiatori. In Oriente, la trasformazione della cultura locale non fu ovviamente così radicale come in Occidente, ma i raffinati greci non storcevano necessariamente il naso davanti ai brutali e sanguinosi spettacoli romani. Ci sono chiare testimonianze che i teatri e gli stadi greci vennero adattati per gli spettacoli gladiatorii e le cacce alle bestie feroci: fra esse vi sono le tracce dei fissaggi per le reti che dovevano proteggere il pubblico dagli animali. Ma il fenomeno più sorprendente fu un’esplosione di letteratura in greco, nella quale la potenza di Roma rimane sullo sfondo oppure viene direttamente affrontata: con un’allegra satira, una resistenza passiva, semplice curiosità o ammirazione. La quantità di

questo materiale è enorme. La stragrande maggioranza dell’antica letteratura greca sopravvissuta fino a noi proviene da questo periodo di dominio imperiale. Per fare solo un esempio concreto, che dà un’idea delle proporzioni, l’opera di uno solo di questi scrittori, Plutarco, il biografo, filosofo, saggista e sacerdote del famoso oracolo greco di Delfi, vissuto nel II secolo d.C., occupa, in una edizione a stampa moderna, lo stesso numero di pagine di tutte le opere rimasteci del V secolo a.C., dalle tragedie di Eschilo alla storia di Tucidide.

93. Traiano in veste di faraone, dal tempio di Hathor a Dendera, in Egitto. Quanto romana o egizia sia tale figura dipende dagli occhi dell’osservatore: Traiano era realmente assimilato nella cultura egizia, oppure questo tipo di rappresentazione era solo una convenzione?

La letteratura greca del periodo imperiale si dispone su un arco che va da raffinati elogi del dominio romano fino a evidenti dimostrazioni di rifiuto e

illusoria negazione. Nel 144 d.C., per esempio, Publio Elio Aristide, meglio noto come un ipocondriaco che scrisse numerosi volumi sulle sue malattie, pronunciò il suo Encomio di Roma di fronte all’imperatore Antonino il Pio. Può avere fatto un buon effetto allora, ma oggi – per quanto abituati a leggere tra le righe di un panegirico – si prova un certa nausea. Roma ha sorpassato tutti i precedenti imperi, portando la pace e la prosperità al mondo: «Possano tutti gli dèi e i loro figli essere chiamati a garantire che l’impero e la stessa città prosperino per sempre e non cadano fino a quando le pietre non galleggeranno sul mare». Circa nello stesso periodo, Pausania scriveva i dieci volumi della sua Guida della Grecia (o Periegesis), nella quale il dominio romano è trattato in modo diametralmente opposto: silenziosa cancellazione. Quale che fosse la sua storia (non sappiamo praticamente nulla della sua vita), guidando i suoi lettori attraverso i monumenti, i panorami e i costumi della Grecia, da Delfi fino al Peloponneso meridionale, Pausania omette semplicemente di menzionare quasi tutti gli edifici eretti dai romani o con il denaro romano. La sua opera non era una guida nel senso moderno del termine, ma un tentativo letterario di riportare indietro l’orologio della storia e di ricreare un’immagine «senza romani» della Grecia.

94. C’è un netto contrasto tra la struttura classica di questa facciata di un edificio di Bath e la figura barbuta al centro. Si è pensato che fosse un’immagine celtica della classica Gorgone con serpenti al posto dei capelli; ma la Gorgone era di sesso femminile, mentre questo appare il volto di un uomo. Si tratta forse del volto di Oceano?

Fu, comunque, il prolifico Plutarco lo scrittore che fece il tentativo più sistematico di definire il rapporto tra Grecia e Roma, di dissezionare le loro differenze e somiglianze e di concepire cosa potrebbe essere una cultura greco-romana. Nei suoi volumi di saggi – sui temi più svariati, come il modo appropriato di ascoltare le conferenze, il sistema per riconoscere un adulatore da un vero amico o la descrizione dei costumi del santuario di Delfi – Plutarco esamina i tratti caratteristici della religione, della politica e delle tradizioni che distinguevano (o accomunavano) le due culture. Perché, si domandava, i romani facevano iniziare il nuovo giorno a mezzanotte? Perché le donne romane indossavano abiti bianchi durante il periodo di lutto? Ma particolarmente rivelatrici sono le sue Vite parallele, una serie di biografie accoppiate (ci rimangono ventidue coppie), rispettivamente di un

personaggio greco e di uno romano, seguite da un breve confronto. Plutarco affianca due padri fondatori, Romolo e l’altrettanto leggendario Teseo; due grandi oratori, Cicerone e l’ateniese Demostene; due celebri condottieri, Giulio Cesare e Alessandro Magno; due altrettanto famosi traditori, Coriolano e un suo contemporaneo, l’affascinante ma inaffidabile ateniese Alcibiade. Gli storici moderni hanno avuto la tendenza a spezzare le coppie e leggere ciascuna vita come una biografia a sé stante. Ma questo significa non comprendere il punto essenziale dell’opera di Plutarco. Non si trattava di semplici biografie, bensì del sistematico tentativo di valutare i grandi uomini (ed erano tutti uomini) della Grecia e di Roma uno rispetto all’altro, di riflettere sulle forze e le debolezze delle due culture e di definire cosa significasse essere «greco» oppure «romano». Era una struttura raffinata e ambivalente: da una parte poneva i protagonisti romani nella stessa categoria degli antichi eroi greci; dall’altra, ruotando la prospettiva, rendeva le figure dell’antico passato greco confrontabili con quelle di coloro che ora dominavano il mondo. In un certo senso, questo era il compimento di un progetto delineato duecentocinquant’anni prima da Polibio, il quale, da ostaggio greco a Roma e amico degli Scipioni, era stato il primo a cercare di fare un’analisi antropologica e politico-culturale di Roma e del suo impero, e di spiegare dettagliatamente perché la Grecia era stata sconfitta da Roma.

Libero movimento L’interazione culturale che caratterizzava l’impero romano non era un processo che si svolgeva esclusivamente nella testa della gente, si trattasse di umili vasai o antichi teorici. E non era semplicemente una questione di diversi adattamenti locali alla potenza romana, anche se questo elemento non deve essere sottovalutato. Ci furono anche massicci movimenti di uomini e merci attraverso tutto l’impero, che intensificarono questa diversità culturale, garantendo ad alcuni enormi profitti e rendendo altri delle vittime. Era un mondo nel quale gli individui, come mai prima d’allora, potevano comprare casa, fare fortuna o essere sepolti a migliaia di chilometri di distanza dal luogo in cui erano nati; nel quale la popolazione di Roma si nutriva di cibi primari coltivati agli estremi territori dell’impero; nel quale il commercio diffondeva nuovi gusti, nuovi profumi e nuovi lussi (spezie, avorio, ambra, seta) da un angolo all’altro del Mediterraneo, e non solo tra i grandi ricchi. Tra gli oggetti preziosi di una casa piuttosto comune di Pompei è stata trovata una delicata figurina d’avorio proveniente dall’India; e un documento da Vindolanda dimostra che la guarnigione acquistava pepe proveniente dall’Estremo Oriente. Le strade che conducevano in Italia da ogni angolo dell’impero costituivano un asse fondamentale di questo movimento. Tutto ciò che Roma poteva desiderare si riversava nella metropoli. Anche le persone facevano parte di questo flusso. Per quanto la città fosse densamente abitata, il tasso di mortalità (per malaria, infezione e altri consueti pericoli cui era esposta la vita degli antichi) implicava che vi fosse sempre spazio, e anzi bisogno, di nuove immissioni di uomini. Alcuni di loro erano schiavi, presi in guerra o, più probabilmente, vittime di un ignobile commercio di esseri umani che faceva dei margini del mondo romano luoghi estremamente pericolosi in cui vivere. Altri devono essere emigrati a Roma pieni di speranze e ambizioni o semplicemente per disperazione. Le loro storie ci sono in larga misura ignote; ma il breve epitaffio di un giovane uomo chiamato Menophilos, che era giunto «dall’Asia», era esperto di musica («Non ho mai pronunciato parole offensive, e fui amico delle Muse») e morì a Roma, ci permette di intravedere le innocenti ambizioni di individui convinti che le strade della capitale fossero lastricate d’oro.

95. Statuetta indiana, senza dubbio un oggetto particolarmente prezioso, trovata in una casa di Pompei. Come vi sia arrivata dall’India rimane un mistero. Forse vi fu portata da un mercante al ritorno da un viaggio in Oriente, oppure vi giunse passando attraverso molte mani, grazie a una serie di contatti indiretti tra Roma e il resto del mondo.

96. Il Pantheon di Adriano, con il portico sorretto da imponenti colonne di granito egiziano. È un edificio che può ingannare. Sebbene nella sua forma presente risalga a Adriano, l’iscrizione in lettere bronzee sull’architrave proclama che fu opera di Marco Agrippa, il principale collaboratore di Augusto. Senza dubbio, Agrippa fu responsabile di una precedente versione del tempio, ma la costruzione di Adriano è un edificio interamente nuovo. La menzione di Agrippa è un segno di pubblica pietas.

I prodotti naturali di tutto l’impero, i suoi lussi e le sue curiosità giungevano ugualmente a Roma e dimostravano tangibilmente il rango di potenza imperiale dell’Urbe. Nella processione trionfale del 71 d.C. vennero fatti sfilare gli abeti balsamici della Giudea. Nell’arena venivano massacrati animali esotici catturati in Africa, dai leoni agli struzzi. Preziosi marmi colorati, estratti dalle località più remote di tutto il mondo romano,

decoravano i teatri, i templi e i palazzi della capitale. Le immagini dei barbari calpestati non erano i soli simboli del dominio romano. Lo stesso vale per i colorati pavimenti marmorei sui quali camminavano i romani nei più grandiosi edifici della loro città: queste pietre equivalevano a una mappa dell’impero. Rivelano inoltre l’enorme dispiego di energia, tempo e denaro che gli imperatori erano pronti a destinare all’esibizione del proprio controllo sui loro più remoti possedimenti. Per fare solo un esempio: il portico del Pantheon di Adriano, terminato negli anni Venti del II secolo d.C., era sostenuto da dodici colonne, ciascuna dell’altezza di quaranta piedi romani (circa 12 metri) e ricavata da un singolo blocco di granito grigio egiziano. Agli occhi moderni, questo non appare un materiale particolarmente spettacolare, ma era una pietra assai prestigiosa, utilizzata in numerosi progetti imperiali, in parte proprio perché si estraeva da una sola lontanissima località, a quasi quattromila chilometri da Roma, Mons Claudianus (la «Montagna di Claudio», così chiamata in onore del primo imperatore che vi aveva fatto estrarre pietre), nel cuore del deserto orientale egiziano. Era soltanto superando immense difficoltà e con giganteschi investimenti di lavoro e denaro che colonne di tali dimensioni potevano essere tagliate e trasportate a Roma. Gli scavi effettuati a Mons Claudianus nel corso degli ultimi trent’anni hanno portato alla luce una base militare e alcuni piccoli villaggi per i lavoratori della cava, più un centro di stoccaggio e trasporto. E sono state trovate anche molte centinaia di documenti scritti, spesso su cocci di vasi riciclati (una comoda alternativa alle tavolette di cera), che ci permettono di farci un’idea concreta della sua organizzazione e dei problemi che doveva affrontare. Il rifornimento di cibo e acqua era soltanto il primo di essi. Era stata allestita una complessa catena di rifornimento di moltissimi prodotti, dal vino ai cocomeri, che non sempre funzionava («Per favore, mandami un po’ di pane, perché qui finora non è ancora arrivato nemmeno un chicco di grano per me» si legge in una lettera dal tono supplichevole), e l’acqua era razionata (un documento contiene una lista per la distribuzione dell’acqua che enumera 917 persone al lavoro nella cava). Era un compito estremamente gravoso. Ogni colonna del Pantheon avrebbe richiesto oltre un anno di lavoro a una squadra di tre uomini; e talvolta, come attestano alcuni documenti, un monolito già parzialmente tagliato si spezzava e bisognava ricominciare da capo. Il trasporto era l’ostacolo successivo, specialmente se si tiene conto che la cava distava quasi centocinquanta

chilometri dal Nilo. In una lettera su papiro ritrovata a Mons Claudianus si richiede insistentemente a un funzionario locale di inviare rifornimenti di grano, perché una colonna alta cinquanta piedi romani (pari a un peso di cento tonnellate) era ormai pronta per partire, ma stavano finendo le riserve di cibo per gli animali che dovevano trasportarla sino al fiume. Persino nel caso del Pantheon, appare chiaro che non tutto andò secondo i piani: alcune caratteristiche peculiari dell’edificio fanno supporre che gli architetti di Adriano avessero contato di utilizzare dodici colonne da cinquanta piedi, e che all’ultimo momento dovettero modificare il proprio progetto perché erano disponibili soltanto colonne da quaranta piedi. Le colonne trasportate da Mons Claudianus sono un caso particolare di movimento di merci all’interno del mondo romano. Era un settore in larga misura sotto la responsabilità dell’amministrazione imperiale, coadiuvata dall’esercito; e viene naturale sospettare che avesse almeno in parte lo scopo di dimostrare la capacità romana di realizzare ciò che era virtualmente impossibile (una reductio ad absurdum della potenza di Roma). Ma in molti altri settori di mercato, dalle merci di prima necessità a oggetti di maggior lusso, il commercio – così come i profitti – era fiorente in tutto l’impero. Possediamo vivaci testimonianze di uomini che ebbero grande successo in ogni sorta di imprese commerciali. Un papiro della metà del II secolo d.C. elenca le merci, con il loro valore monetario, sbarcate in Egitto da una nave proveniente dall’India meridionale, e presumibilmente destinate a Roma. Il loro valore complessivo, una volta sottratte le tasse, ammontava a più di sei milioni di sesterzi, pari al valore che aveva allora una rispettabile tenuta senatoria in Italia (Plinio aveva comprato una grande, ma leggermente fatiscente, proprietà, con relativo terreno, per tre milioni di sesterzi); tra le varie merci figuravano un centinaio di zanne d’elefante, flaconi di oli pregiati, sacchi di spezie e, molto probabilmente, grandi quantità di pepe. Un uomo chiamato Flavio Zeuxis non apparteneva certo a questa élite commerciale, ma nel suo epitaffio, trovato nell’antica città tessile di Hierapolis, nell’odierna Turchia meridionale, si vanta di avere doppiato, nel corso della sua carriera, settantadue volte il capo Malea, sulla punta meridionale del Peloponneso, per recarsi a Roma a vendere i propri tessuti. Non è chiaro se questi settantadue viaggi fossero contati come viaggi di andata e ritorno o invece ciascuno singolarmente, ma in ogni caso si trattava di un’impresa degna di essere ricordata. Più ancora che da questi singoli imprenditori, il quadro più vasto ci è rivelato dalle meno affascinanti ma ben più impressionanti cifre

dell’approvvigionamento. A Roma, una piccola collina sulla riva del fiume Tevere, oggi chiamata Monte Testaccio («Monte dei cocci»), illustra meglio di ogni altra cosa la portata del commercio di derrate alimentari che nutriva il milione di abitanti della città, e la rete di trasporto, spedizione, stoccaggio e vendita necessaria per gestirlo. Malgrado il suo aspetto, non si tratta di una collina naturale, bensì dei resti di una discarica di epoca romana, formata dai cocci di cinquantatré milioni di anfore da olio, ciascuna con una capacità di circa sessanta litri. Erano state tutte importate dalla Spagna meridionale nel corso di circa un centinaio d’anni, dalla metà del II alla metà del III secolo d.C., e vi erano state gettate dopo che l’olio era stato travasato. E ciò era soltanto una parte di un commercio di esportazione che trasformò l’economia di quella regione spagnola in una monocoltura agricola (olive e nient’altro che olive) e forniva alla città di Roma appena la metà del suo fabbisogno annuale, che, secondo una stima approssimativa, ammontava a 20 milioni di litri di olio d’oliva (per illuminare e pulire, oltre che per cucinare), 100 milioni di litri di vino e 250 mila tonnellate di grano. Quasi tutti questi prodotti giungevano a Roma dall’estero.

97. Il sito di Mons Claudianus, dove fu estratto il granito grigio (granodiorite) per le celebri colonne del Pantheon. In un’altra cava a circa quarantacinque chilometri di distanza, Mons Porphyrites, si estraeva il porfido usato per importanti progetti edilizi. Si

trattava di vere e proprie operazioni militari, che rispondevano alle esigenze costruttive dello stato romano.

La mobilità che caratterizzava l’impero, comunque, non era ristretta all’asse che univa il centro metropolitano e il resto del mondo romano. Uno degli sviluppi principali nei primi due secoli dell’impero è che il suo territorio divenne un’area attraverso, attorno ed entro la quale la gente si muoveva, spesso trascurando la stessa Roma: il traffico non scorreva soltanto tra il centro e la periferia. Ci sono molti modi per rintracciare questi spostamenti. Il più moderno consiste nell’esaminare le testimonianze degli scheletri umani, in particolare della bocca, in modo sempre più specifico e sofisticato. L’analisi scientifica moderna ha mostrato come le particolari condizioni del clima, della disponibilità d’acqua e della dieta alimentare negli anni della crescita lascino specifiche tracce nella dentatura adulta, permettendoci di dedurre il luogo di origine di ogni defunto. I risultati di questi studi sono ancora provvisori, ma sembrano indicare che una significativa proporzione della popolazione urbana della Britannia romana era cresciuta in regioni con un clima molto diverso da quello in cui era morta: se si trattasse della temperata costa meridionale della Britannia, del gelido nord o del mite meridione della Francia è finora difficile da stabilire.

98. Monte Testaccio, a Roma, è una delle più sorprendenti colline (e «discariche»), del mondo: composta quasi interamente da cocci di anfore usate per l’esportazione dell’olio spagnolo. Queste anfore non potevano essere riutilizzate perché l’olio penetrava nell’argilla e si irrancidiva.

Alcuni di questi trasferimenti possono essere rintracciati nelle storie degli individui che si ritrovarono a vivere o a cui capitò di morire presso il Vallo di Adriano. La consueta immagine di un miserabile gruppo di soldati originari della soleggiata Italia costretti a sopportare la nebbia, il gelo e la pioggia della Britannia settentrionale è del tutto fuorviante. La guarnigione era composta in larga misura da uomini reclutati in luoghi altrettanto nebbiosi e gelidi al di là della Manica, nelle regioni che oggi corrispondono all’Olanda, al Belgio e alla Germania. Ma, a ogni livello della comunità qui residente, vi erano individui provenienti da regioni ben più lontane, persino dall’estremità opposta dell’impero. Si va da un ex schiavo di un soldato di cavalleria, chiamato Victor, che sulla sua stele funeraria si definisce un «mauritano» (natione Maurum), fino a uno dei romani più illustri della

provincia, Quinto Lollio Urbico, governatore della Britannia dal 139 al 142 d.C. Per un caso particolarmente fortunato possiamo ancora identificare le opere edilizie che finanziò nella Britannia settentrionale e la tomba di famiglia che fece costruire all’estremità opposta del mondo romano, nella sua città natale (odierna Tiddis), nel nord dell’Algeria La storia più evocativa è quella di un uomo di Palmira, in Siria, chiamato Barates, che nel II secolo d.C. lavorava presso il Vallo di Adriano. Non sappiamo che cosa lo avesse portato a quasi 6500 chilometri di distanza dal suo luogo d’origine (probabilmente il viaggio più lungo tra quelli citati in questo libro): potrebbe essere stato il commercio, oppure potrebbe avere avuto qualche legame con l’esercito. Ma risiedette in Britannia abbastanza a lungo per sposare Regina, una donna britannica ed ex schiava. Quando sua moglie morì, all’età di trent’anni, Barates volle commemorarla con una stele funeraria, eretta vicino al forte romano di Arbeia (odierna South Shields). Regina – che, come dichiara l’epitaffio, era nata e cresciuta poco a nord di Londra – è raffigurata come una solenne matrona palmirena; e sotto il testo latino Barates fece scrivere il suo nome nella lingua aramaica della propria patria. È un documento che riassume perfettamente il movimento di individui e il mix culturale che caratterizzava l’impero romano, e solleva questioni ancora più interessanti. Chi pensava di essere la stessa Regina? Si sarebbe riconosciuta nelle vesti di una signora palmirena? E cosa avrebbe pensato questa coppia della «Roma» all’interno del cui mondo vivevano?

99. La figura di Regina, sulla sua stele funeraria, è simile a quelle ritrovate sulle stele di Palmira. Ma il testo latino, in basso, spiega che «Barates il palmireno ha fatto erigere questa stele per Regina, ex schiava e moglie, morta all’età di trent’anni, della tribù catuvellaunia». Non è detto esplicitamente, ma doveva essere stata quasi certamente la sua schiava. La creazione di questo monumento solleva un’interessante domanda: Barates fornì allo scultore un bozzetto di ciò che desiderava? Oppure a South Shields c’era un artigiano già pratico di questo stile?

«Dove hanno fatto il deserto, dicono d'aver portato la pace» C’era senza dubbio una forte opposizione a certi aspetti del dominio romano. L’integrazione, la mobilità, i lussi e i profitti commerciali erano soltanto una faccia della medaglia. L’altra era quella della disobbedienza e dell’evasione fiscale, della resistenza passiva e delle proteste popolari, spesso tanto contro le élite locali quanto contro i romani. Ma un’aperta e armata ribellione contro l’«occupazione» romana sembra essersi verificata piuttosto raramente nel corso dei primi due secoli della nostra èra. Alcuni coraggiosi ribelli all’invincibile potenza di Roma, anche se alla fine sempre destinati alla sconfitta, sono diventati leggendari eroi (o eroine) delle nazioni moderne, come Arminio o Boudicca, la cui regale statua bronzea si erge orgogliosamente davanti al Parlamento sulla riva del fiume Tamigi. E la fortezza di Masada, dove, nel 73 d.C., al termine di un lungo assedio, 960 ribelli ebrei preferirono il s