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Italian Pages 224 Year 2014
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philosophica [125]
sene rossa a cura
di
Adriano Fabris
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philosophica [125]
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philosophica
serie rossa
diretta da Adriano F abris comitato scientifico Bernhard Casper, Claudio Ciancio, Francesco Paolo Ciglia, Donatella Di Cesare, Félix Duque, Piergiorgio Grassi, Enrica Lisciani Petrini, Flavia Monceri, Carlo Montaleone, Ken Seeskin, Guglielmo Tamburrini
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Leonardo Samonà
Ritrattazioni della metafisica La ripresa conflittuale di una via ai principi
Edizioni ETS
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www.edizioniets.com
Stampato con un contributo dell'Università di Palermo, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Fondi ex-60% 2006 e 2007
©Copyright 2014 EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884673802-8
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A Clara, Naida, Delia, Natalia
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PREMESSA
Il titolo di questo libro allude sia al rigetto, al rinnegamento della metafisica, sia alla ripresa, al riesame di essa. Nella sua ambivalenza, si presta dunque a registrare il carattere «spinoso» della via verso i principi, che il pensiero metafisico intraprende con la consapevolezza di non potere recidere il legame originario con essi: mette in questione infatti ciò che lo sostiene sin dall'inizio del suo domandare. Una tale consapevolezza vede sorgere un nuovo significato del distacco e della negazione: da un lato li sperimenta fin nelle radici più profonde dalle quali trae linfa il pensiero; dall'altro scorge in una luce nuova il loro potere di incidere sulla prossimità e sull'essere. La metafisica è il pensiero che si radica in questa scoperta di un tratto positivo della negazione e fa ingresso nel circolo che ne scaturisce con la fiducia di poter riavere, spogliandosene, ciò che già possiede e di poter raggiungere, allontanandosene, ciò in cui già è. Su questa base si tenta perciò innanzitutto, nelle pagine che seguono, di ritornare a un significato di metafisica distinto da quello più ristretto di oltrepassamento dell'esperienza. La metafisica è riportata alla meraviglia di fronte alla disponibilità del vero anche nella condizione più estrema di lontananza da esso, quella in cui non si sa ancora. Se ciò che sorprende dapprima il pensiero è la scoperta dell' «anello che non tiene», dell'evento sconnesso che fa irruzione nella sua familiarità con il vero e ne modifica improvvisamente il senso, il pensiero metafisico andrebbe visto, prima che come domanda sulla tenuta dell'esperienza, come riconoscimento sorprendente di ciò che in essa è «sempre in salvo». È da questa disponibilità del vero, è dalla parte di quello che di più prezioso il pensiero crede di possedere, che proviene la sorpresa: perché il vero non garantisce nel modo desiderato, non risparmia al pensiero un cammino e un distacco, a cercare ciò che già possiede e a fare ingresso in un'imprevista e faticosa distanza da esso. La metafisica ha il suo inizio nel possesso dei principi. Ed è chiamata, in ultima analisi, a oltrepassare, a ritrattare questo possesso. Essa configura la filosofia come ritrattazione dei principi. Mauritius_in_libris
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Ritrattazioni della metafisica
Nelle ritrattazioni moderne della metafisica, da Kant a Wittgenstein, più che la critica all'oltrepassamento dell'esperienza, si tenta allora di ritrovare un' «altra trattazione» della via verso i principi, ancora più attenta ai suoi contrasti, al suo moto di «fuga» dalla provenienza, al suo necessario rivolgimento verso l'intero entro cui essa resta ricompresa. Si indaga dunque più la ripresa della ritrattazione che è propria della metafisica che non il rigetto della metafisica. Lo spazio critico dischiuso dalla filosofia platonico-aristotelica, e in particolare dall'argomento aristotelico sul «principio più saldo di tutti», viene poi riletto con l'aiuto della radicalizzazione hegeliana dell'accoglimento del negativo nell'essere e parimenti con l'aiuto della profonda appropriazione critica della paideia aristotelica (un sapere dell'intero), di cui si sono mostrati capaci il pensiero heideggeriano e l'ermeneutica. Aristotele riesce a tenere aperto un ambito a stento praticabile, nel quale però si gioca la libertà del pensiero, la possibilità di modificare così profondamente il senso del legame necessario con i principi, da fame oggetto di una «scelta di vita». La radicale trasformazione di senso del possesso dei principi resta ancora oggi il compito specifico della filosofia: ed è divenuto anzi ancora più urgente dal momento che una nuova paideia, propria della modernità, ci rende ormai ben difficile riconoscere lanatura di principio a ciò che domina dispoticamente. In questo libro sono confluiti alcuni testi, ampiamente rimaneggiati, già pubblicati. In particolare il Capitolo Quarto riprende il saggio La ripetizione della metafisica, apparso sul «Giornale di metafisica», XXVIII, 2/2006; il Capitolo Quinto riprende il saggio Soggettività e autocoscienza nell'idealismo, apparso nel volume a cura di P. Palumbo e A. Le Moli, Soggettività e autocoscienza, Mimesis 2011; il Capitolo Sesto riprende il saggio Istanza del trascendentale e processo del riconoscimento nella costituzione del soggetto, apparso nel volume a cura di F. Mora e L. Ruggiu, Soggettività Ontologia Linguaggio, Cafoscarina 2007. Nel congedare il libro, desidero ringraziare Adriano Fabris, che lo accoglie nella sua collana, e il dott. Luciano Sesta, che ha rivisto e discusso ogni parte del testo.
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Capitolo Primo LA RITRATTAZIONE METAFISICA DELLA FILOSOFIA
1. La dimora originaria della filosofia e il suo cammino L'abitudine di intendere la filosofia come esercizio critico della ragione, senza altra autorità se non in se stessa, ha messo in ombra il riferimento all'amore (la philia) che pur risuona nella parola adottata da millenni dal pensiero "speculativo" per nominare il suo esercizio. Al suo posto perfino il sospetto sembra diventato un abito del pensiero più adatto per l'indagine teoretica. La filosofia si percepisce più nel distacco e nell'allontanamento da teorie, pregiudizi, schemi del pensiero, nei quali il sapere si mostra già sempre inconsapevolmente sprofondato, che non nel possesso di una qualche verità. Questa "disciplina", attraverso la quale il pensiero si spoglia dei suoi errori, mostra effettivamente una radicale libertà, indispensabile al movimento proprio del filosofare e attestata in una capacità di oltrepassamento di tutto ciò che è già dato, spinta fino alla libertà da sé. Non c'è qui un limite che si ponga dall'esterno, non viene dunque accettata «alcun'altra censura» 1, se non quel limite che il pensiero «è costretto a porre» a se stesso, sperimentando però in modo oscuro, con questo atto intimamente necessitato, la propria libertà. Nel suo allontanamento critico, il pensiero filosofico resta così presso di sé. La potenza di autocritica è penetrata però talmente in profondità nell'esercizio del pensiero filosofico, appunto come un'abitudine ben radicata, da estinguere la meraviglia per la fisionomia particolare che la libertà assume in ambito filosofico. L'abitudine fa perdere I' attenzione per quella che Kant descrive quale «fiducia [Zutrauen] in se stessa» da parte della ragione. Questa fiducia, che fiorisce proprio all'interno di un uso che è «solo negativo», sembra inestirpabile: essa non può essere trattata solo come un problema, risolvibile con un mero supplemento di attività distruttiva, una volta che il potere di sospetto, 1 I. KANT, Kritik der reinen Vernun/t (=KrV), B 823/A 795 (IDEM, Werke in 12 Biinde, a cura di W. WEISCHEDEL, Suhrkamp, Frakfurt a.M. 1968, IV, p. 670).
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di separazione, di liberazione proprio del pensiero, sia stato risvegliato dal suo sorprendente torpore su questo punto. Ma nemmeno si può sostenere che la capacità critica della filosofia si ritrovi essa stessa demolita nella sua pretesa, una volta che si faccia esperienza del legame originario tra il potere di negazione e una tale fiducia, e appaia l'impossibilità di sradicare dal pensiero il criterio di verità di cui esso si trova già sempre dotato. La fiducia della ragione in se stessa custodisce piuttosto una risorsa positiva per il potere critico di oltrepassamento che prende il peculiare movimento del pensiero. La filosofia scopre con sorpresa di avere in una libertà già in atto la fonte della sua capacità di liberarsi, di andar oltre tutto ciò che è. E la sorpresa è legata al fatto che questa fonte ridefinisce la libertà della filosofia, e dà un carattere del tutto inusitato, insuperabilmente circolare, alla capacità filosofica di oltrepassamento, ovvero a quella che è diventata la sua natura meta-/isica2 . La ricerca filosofica comincia solo quando ci si addentra in questa circolarità o solo quando si mette a tema questa fiducia della ragione in se stessa. Il legame, che appare così difficilmente rescindibile, tra la filosofia e l'attitudine metafisica del pensiero ha in effetti una radice che non appare definibile primariamente mediante il passaggio dal sensibile al soprasensibile: essa sembra alludere piuttosto innanzitutto alla «fiducia» di essere già sempre presso "le cose stesse". La filosofia non nasce cioè come passo del pensiero oltre il mondo della natura, ma come scoperta di un'attività che discende dal possesso della "natura", di ciò che è "da se". Un'attività che mostra in questo senso un carattere divino, fine a se stesso. Non inizia per l'uomo come un passaggio, ma come un modo d'essere, e come un'attività che non separa la provenienza dalla meta, non lascia una cosa per un'altra, e così manifesta la libertà della condizione umana dall'imperfezione degli enti mossi. Per l'uomo, anche la possibilità di ascesa a questa condizione resta inscritta in un tale movimento e anzi scaturisce da esso: l'elevazione alla teoria è un' elevazione al luogo in cui egli è già fin dall'inizio, è la trasformazione di una relazione costitutiva della natura del pensiero. Ed è la comprensione di un simile movimento e di una simile trasformazione che diventa il compito e la difficoltà fondamentale della filosofia. Nella sua lunga tradizione, la ricerca filosofica del vero si è sempre configurata, infatti, Sulla parola metafisica e sulla sua nascita come scienza cfr. comunque R. di M. Porro, Vita e Pensiero, Milano 2012, pp. 9 ss. BRAGUE, Ancore nel cielo. /;infrastruttura metafisica, tr. it.
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più quale trasformazione radicale della relazione del sapere con la verità che abita già in esso che quale estensione del sapere stesso attraverso la conquista di ulteriori verità rispetto a quelle già possedute. Lo sapeva bene Platone quando nel Menone sottoponeva a critica la drastica demolizione della ricerca filosofica prodotta dall'argomento eristico, secondo il quale per l'uomo non è possibile ricercare né ciò che sa né ciò che non sa: nel primo caso perché già sa, nel secondo caso perché non saprebbe cosa cercare3 . Attraverso la sua risposta, che descriveva il ricercare come ricordare, e quindi come apprendere ciò che già si sa e riprendere ciò che già si ha, Platone illuminava di una luce speciale l'ambizione filosofica di portare la ricerca sui propri stessi principi e, con lo sguardo rivolto alla peculiarità del compito che investe la filosofia, faceva del movimento di apprendimento un cammino dell'anima verso se stessa, suscitato e reso pressante da un certo possesso iniziale della meta. Per contrasto, dava all'argomentazione eristica un indelebile ruolo paradigmatico rispetto a tutte quelle posizioni filosofiche che non tengono conto della scoperta sorprendente della theoria, sicché non scorgono per un verso i legami che mettono in moto il potere critico del pensiero e sbarrano per altro verso ogni accesso alla verità che in qualunque forma ritengono già di possedere. Questo atteggiamento assimila le posizioni scettiche, che rinunciano alla ricerca della verità, e quelle "dogmatiche", che invece difendono la ricerca filosofica ma vi vedono soltanto un'estensione o un' applicazione della verità che già posseggono. Il caratteristico argomento antiscettico, che esibisce il radicamento del pensiero umano in principi inconcussi e nell'essere vero, risulta legittimato, rispetto a questa antica connotazione circolare del movimento proprio della ricerca filosofica, solo quale effetto di una dimensione problematica, che da una tale connotazione scaturisce. La portata della difficoltà del circolo è ben presente alla filosofia, e resta invece sconosciuta anche alla più risoluta denuncia scettica del "diallele" (il circolo dimostrativo), la quale non arriva a mettere allo scoperto la posizione più sorprendente del pensiero umano rispetto a ciò che lo determina: la possibilità cioè di un riferimento libero e critico alla propria origine e dunque anche la possibilità di uscire dalla propria stessa posizione. La più sorprendente delle scoperte, per la filosofia, non risulta tanto il potere di lasciarsi alle spalle il mondo apparente, quanto quella di disporre dei principi già nel momento stesso in cui va in cerca di essi o da essi prende con3
PLATONE,
Meno, a cura di I. BARNET, Oxford 1903, 80 e.
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gedo: è questa, prima ancora e più ancora di quella che le svela la "potenza del negativo" nel suo tratto distruttivo, la scoperta dentro la quale si costituisce il suo tratto di oltrepassamento del sapere già dato, il suo mutamento radicale dello sguardo, l'abbandono del sapere dei principi che già possiede. È ancora Platone, nel Simposio, a connotare con questo dinamismo filosofico lo slancio di eros, descrivendolo come desiderio di avere ciò che in certo modo già si ha. Proprio grazie a questa connotazione, si potrebbe sostenere, il vocabolo "filosofia" si è imposto irresistibilmente nella storia del sapere umano. Nella sua composizione, questo vocabolo situa la ricerca dell'uomo in una condizione di povertà, di problematicità, di privazione, afferrata però nel suo intimo da uno speciale riferimento ai principi e alle "cose stesse" di cui manca, e slanciata per questo motivo verso di essi. La filosofia viene descritta come l'amore vero, in quanto riferito a ciò che è per sé e dunque mosso da quello che effettivamente è in grado di sostenere e soddisfare lo slancio. La filosofia si muove insomma già all'interno delle cose che cerca, e per questo motivo ricava in certo modo da sé le risposte al proprio domandare. Anzi, si può perfino sostenere che il pensiero si trovi trasposto presso le cose stesse, presso il vero, già in base alla costanza inconcussa della sua ricerca della «sostanza [ousia]» separata e per sé già in base al fatto, cioè, che l'ente stesso nel suo essere resta per il pensiero «anticamente, ora e sempre cercato e sempre interrogato [aporoumenon ]»4. Il pensiero è in tutti i tempi (aei) in vista del cercato: è questa forma di possesso che suscita e definisce nel suo compito la "ricerca" dell'ente in sé. La spinta del pensiero a lasciare la condizione in cui si trova, la spinta ad andare al di là del sapere in cui si trova immerso, la spinta a oltrepassare l'esperienza sorgono all'interno del riferimento saldo al vero e ne comportano dunque una trasformazione. Se Platone, nel Simposio, mette in crisi la spiegazione aristofanea di eros - la ricerca reciproca dei due "simboli" dell'intero spezzato con la tesi ben più straniante che l'amore del sapere deve avere in qualche modo già ciò che cerca, Aristotele, proprio al fine di spiegare le difficoltà dell'uomo nella ricerca filosofica, si spinge fino ad assimilare la condizione dell'intelletto umano a quella in cui si viene a trovare la nottola quando è immersa nella piena luce del giorno5. La filosofia cerca il fondamento, e quest'aspirazione sembra un'ovvietà, sulla 4
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ARlsTOTELE, Metaphysica, a cura di W.}AEGER, Oxford 1957, Z 1, 1028 b 2-3. Ivi, al, 993 b 9-11.
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quale non fare questioni, solo perché il pensiero umano è già sin dall'inizio presso questo termine ultimo di cui va in cerca. L'ovvio legame del pensiero con il fondamento, anche il divieto di ulteriori domande e ulteriori ricerche intorno a un tale legame, perfino e anzi proprio il circolo per il quale la filosofia rivendica per sé il compito dell' enunciazione delle regole che il pensiero in generale - e dunque anch'essa - segue, attestano però, appena esplicitate, un carattere del tutto speciale e paradossale della condizione di "povertà" della filosofia: una povertà scavata dentro il suo saldo afferramento nelle cose stesse, dentro la natura congenere del pensiero con i principi eterni di tutto ciò che è. Nella modalità del sapere descritta come meta della filosofia, quest'ultima si trova già afferrata prima ancora che l'intelletto abbia percorso la sua strada fino ad essa. È legittimo dunque, sulla base di quanto detto, definire innanzitutto la natura "metafisica" della filosofia, prima ancora che come tendenza del pensiero umano a superare l'ambito dei fenomeni, come la condizione di possesso nella quale il sapere si trova già sempre in relazione ad essi, cioè come pensiero in linea di principio trasposto presso l'ente "in quanto tale". La sua ricerca, l'irrequietezza che la urge a uscire dall'ambito in cui si trova, ha la sua origine sorprendente in una peculiare prossimità al vero. Aristotele fornisce in questo senso un paradigma in certo modo insuperabile, quando nel Protreptico, con accenti fortemente consonanti con il pensiero del suo maestro, descrive la filosofia sulla base della sfera per così dire apollinea che essa si trova per la sua stessa natura ad abitare. Per quanto la si voglia ridimensionare nei suoi risultati e nelle sue possibilità; per quanto la si voglia certificare perfino quale esercizio negativo di sospensione di ogni rapporto del pensiero umano con il vero, la filosofia appare determinata dalla verità che in ogni caso pretende. E di conseguenza essa è la coltivazione più o meno estesa di un sapere contemplativo, che situa l'uomo nel suo fine proprio, lo attua compiutamente nel suo esser presso le cose eterne e immutabili, gli conferisce una . E rispondendo a una polemica frequente, che accusa di vacuità la filosofia a motivo del suo distacco da ogni fine pratico, cioè effettivamente alla portata delle limitate possibilità umane, Aristotele, ancora nello stesso brano che ricaviamo da Giamblico, rivendica invece la natura contemplativa di essa come lo scopo supremo e ultimo della vita umana, proprio in base alla speciale attività che ne deriva, non più indirizzata ad altro, ma rivolta ormai soltanto allo stato in cui essa già è, approdata a un esercizio fine a se stesso. Questo assorbimento della filosofia nella condizione privilegiata della contemplazione discende dal suo legame non oscurabile con i principi; e questo legame attesta il suo accesso ali' ambito delle cose divine, e caratterizza la sua attività contemplativa come scholé, otium. Non più situata nel mondo dei mezzi assoggettati a fini ulteriori, questa forma di vita traspone piuttosto il pensiero umano in un'attività che non è più utile in vista di altro né interessa per la produzione, ma è per sé ed è raccolta ormai nel puro "stare a vedere". Il pensiero si trova così assimilato a ciò che "comanda" senza essere comandato (ai principi, archai, che sono anche ciò che comanda, drchei) 8• 7
Ibid.
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«La sophia è la più dominante [archikotate] delle scienze» (Metaph. A, 2, 982
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La libertà, che connota essenzialmente la vita contemplativa, è qui inclusione nel perfetto stare a sé della realtà eterna. La filosofia è amore per quella sapienza (sophia, cioè «chiarezza [phaos]» e «luce [ph0s]» 9 ) in cui essa già è - un amore che non mira dunque ad altro, ma approfondisce, per così dire, il legame in cui già si trova: quest'ultimo, indissolubile legame porta in dono la vita libera, ossia «sciolta da tutte le cose esterne» 10 . Ne deriva che non si può accedere alla filosofia da un punto di partenza situato al di fuori di essa. L'introduzione alla filosofia si può comprenderla solo, per così dire, se si è già dentro di essa 11 , né c'è un senso della filosofia che possa essere distinto dalla filosofia stessa. Aristotele assume in modo così originario il primato della filosofia, da non mettere in alcun modo in discussione il fondamentale coinvolgimento del pensiero nella dimensione divina, intesa come quella che "comanda", non dipende, e in questo senso è libera. Lo Stagirita anzi fissa questa forma di vita - questo insediamento del pensiero in ciò che vale per sé, non ha bisogno di altro ed è nello stato di perfezione o di "salvezza" - come la dimensione caratterizzante dell'uomo, la sua vera natura, posta al fondo di quei particolari «fenomeni evidenti a tutti» e di quelle «convinzioni comuni», che a primo impatto restituiscono piuttosto la rappresentazione di un'instabilità specifica della condizione umana. Per parte sua, Aristotele estrae invece la prova del legame originario dell'anima con la sfera della luce e della piena manifestatività proprio dall'irrequietezza, nella quale l'uomo è gettato dalla sua natura. L'unico accesso dall'"esterno" alla filosofia lo fornisce per lui proprio lo slancio [dioxis] dell'anima verso di essa e la conseguente fuga [phyge1 dalla morte e dall'ignoranza. Aristotele arriva a interpretare il fuggire la morte come effetto di una più originaria paura di «ciò che è a 4 ), per cui il sapiente non deve «essere soggetto a ordini [epitattestbai] ma prescrivere ordini [epitattein]» (982 a 17-18). 9 Così secondo l'etimologia fornita da ARlsTOTELE, Peri pbilosopbias, in IDEM, Fragmenta, cit., fr. 8, 2. 10 ARlsTOTELE, Politica, a cura di W.D. Ross, Oxford 1957, H 2, 1324 a 28. 11 «E potrebbe vedere che è assolutamente vero ciò che noi diciamo chi ci accompagnasse con il pensiero [te dianoia komiseien], per così dire, alle isole dei beati» (Protrepticus, fr. 12, tr. it. di G. GIANNANTONI, in ARlsTOTELE, Opere, Laterza, RomaBari 1973, voi. 11). Un'eco lontana di questo modo di introdurre alla filosofia la possiamo leggere nell'incipit del Tractatus: «questo libro lo comprenderà forse soltanto colui che ha già una volta pensato egli stesso i pensieri che vi sono espressi - oppure pensieri
simili» (L. WmGENSTEIN, Tractatus logico-pbi/osopbicus. Abband/ung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1963, Vorwort, p. 7).
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Logiscb-pbi/osopbiscbe
Ritrattazioni della metafisica
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nell'oscurità e nella non manifestatività [tome delon]» 12 . Che il sapere sia radicato sin da principio nelle cose eterne lo mostra con evidenza, infatti, quella tendenza specifica per la quale gli esseri umani, con un unico moto, «fuggono l'insensatezza [aphrosyne] e la morte>» suggerendo così nel fenomeno tipicamente umano del timore della morte il rigetto dell'ignoto e dell'oscuro, e mettendo allo scoperto, al fondo di un tale rigetto, l'amore di ciò che è chiaro e familiare, di ciò nel quale, nella loro condizione di enti mossi, gli esseri umani possono ritrovare la propria vera natura - mettendovi cioè allo scoperto l'amore per la saggezza e la verità. L'«amore per il sapere [phylomdtheia]», il desiderio di conoscenza, è visto come il segno di una natura simile a quella del dio. Ed è a partire da questa somiglianza che si giustifica il desiderio di abitare nella luce senza ombre, e cioè di non essere più esposti al contrario del proprio essere, alla perdita dell'essere: in questo desiderio si manifesta il legame originario dell'anima con la vita in se stessa, con la vita piena. 2. La rammemorazione filosofica del dissidio della ricerca
In questa argomentazione traluce per così dire la sorpresa per la familiarità della filosofia con le "isole dei beati", owero per la familiarità con i principi che guidano il pensiero. La theoria si impone come la possibilità più alta del pensiero umano, proprio in quanto è il raccogliersi nella posizione di "spettatore". Nel contemplare gli enti che sono per sé, indipendenti da ogni suo intervento, l'essere umano si fa infatti simile alla forma di vita contemplata. La filosofia è innanzitutto il sapere che si fa tutt'uno con la vita eterna del dio, sia pure per brevi istanti. In linea di principio, la filosofia è anzi fondamentalmente questa forma eterna di vita: solo nella vita divina si trova la definizione adeguata dell'attività contemplativa della filosofia; solo nella vita divina viene liberata, per il pensiero umano, una possibilità decisiva, radicata al fondo della sua natura, owero la capacità di esercitare quelle «teorie e quei pensieri che sono fine a se stessi e in vista di sé [autoteleis kai auton heneken]» 13 , tali da conferire ali' eupraxia dell'uomo il suo fondamento, consistente nell'assimilazione alla o «a portata di mano»? In realtà non è così: la forza innovativa di tali posizioni sta nel loro netto distinguersi dalla mera riproposizione del puro slancio iniziale del pensiero verso la "chiarirà". Al contrario, qui ci troviamo di fronte all'ambizione di radicalizzare il potere critico della filosofia, mettendo un limite definitivo alle pretese di oltrepassamento di questo mondo da parte del pensiero e facendo germinare dalla più estrema indigenza, dalla rinuncia a qualunque slancio, il riferimento all'unica verità in grado di sostenere il potere autolimitativo del pensiero stesso. Solo attraverso questa spoliazione, solo attraverso la critica dell'estensione metafisica del sapere, emerge il nucleo metafisico irriducibile che assicura un fondamento effettivo del pensiero. In termini kantiani, si tratta di una critica della ragione pura (che ne restringe solo l'uso teoretico) mentre, nei termini del "primo" Wittgenstein, si tratta di una critica del linguaggio, in realtà per molti versi molto più estrema nel gettare via la scala che fa salire fino alla soglia dell'inesprimibile, cioè dell'unico modo, da lui chiamato «il mistico»28 , in cui il nucleo irriducibile della metafisica è innervato nel linguaggio. Wittgenstein arriva infatti a sostenere non solo che l'uso del linguaggio in un testo come il Tractatus è «privo di senso [sinnlos]», ma addirittura che lo comprenderà effettivamente soltanto chi alla fine lo riconoscerà come «insensato [unsinnzg]»: >, n. s., XXVIII (2006), 2, pp. 263-283, qui p. 273. Da questo testo prendo anche il riferimento alla barca di Neurath. 2 Cfr. per esempio ARISTOTELE, Physica, a cura di W.D. Ross, Oxford 1950, 0 5, 256 a29. 3 B. CELANO, art. cit., p. 273.
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Ritrattazioni della metafisica
dell'esperienza, e il radicamento costante della conoscenza in una forma regolata, in se stessa unitaria, "sintetica", del sapere, già sempre sostenuta da quella stessa fonte del vero che non può invece raggiungere. La metafora di questo modo d'intendere la situazione del sapere può essere quella della barca in mare aperto proposta da Neurath. Le pratiche discorsive e conoscitive operano sempre in situazione: non sono garantite da un sapere definitivamente determinato e fondato, ma soltanto da criteri di validità argomentativa sempre chiaramente esplicitati e tali da rispondere a un principio di ragionevolezza, ossia di coerenza e ampiezza del quadro esplicativo. Sono volte, per esprimersi seguendo la metafora, a «mantenere in ordine l'imbarcazione» e a > che «ci fanno comprendere il valore di quella scoperta». La filosofia in effetti è un assalto contro quei limiti, ma coglie il suo risultato quando lo comprende come l'effetto dell'urto contro di essi, scoprendo così la propria posizione rispetto ad essi. E qui Wittgenstein torna ancora una volta alla sua delineazione ambivalente della filosofia che, lasciando il terreno della visione scientifica del mondo, cioè della concezione «pneumatica», cioè della metafisica, accusa innanzitutto una perdita di perspicuità nella sua funzione. La filosofia non è più nemmeno una dottrina di «secondo grado»20, una metateoria, ma agisce nel senso distruttivo di una disciplina di quell'ideale da cui l'indagine filosofica è tormentata. Contro la ricerca di significati esattamente determinati, restituisce i suoi diritti alla "vaghezza" del linguaggio quotidiano. Il fatto che l'abbandono totale della costruzione di teorie sia ancora concepibile come un compito della filosofia invece che come un segno della sua inutilità in ambito epistemico,· se non addirittura della sua distruzione di tutto ciò che è «grande e importante»21 , dipende dalla possibilità di considerare come un'attività il «lasciare tutto com'è», rinunciando perfino al ruolo metateorico di una logica della ricerca scientifica, per esempio della ricerca matematica22 . La filosofia trasforma questo atteggiamento in attività nella misura in cui, rispetto al «pregiudizio della purezza cristallina», fa «rotare la nostra intera considerazione ... attorno al perno del nostro autentico bisogno»23 . Non si può essere contro il pregiudizio della purezza cristallina al modo in cui quest'ultima è stabilita contro
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lvi, 119 (tr. it., lievemente modificata, p. 68). lvi 121. Ivi, 118. Cfr. ivi, 124. Ivi, 108 (tr. it., lievemente modificata, p. 65).
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«il nostro pregiudizio»: al posto dell'opposizione in cui si situa la stabilità della regola, deve subentrare interamente, come base su cui riposare, lo stato difettivo, ancora catturato nella contraddizione, del nostro bisogno. Contro la purezza cristallina non si può che fare ritorno a un ordine che non si separi dallo stato di bisogno. Questo significa intendere il bisogno «in ordine così come è», nella sua distanza dalla pienezza del significato: «l'ordine perfetto deve dunque essere presente anche nella proposizione più vaga»24 .
3. Inquietudine e quiete della filosofia A questo punto si rovescia anche la fisionomia del luogo in cui la filosofia trova il suo riposo. Wittgenstein contrappone alla metafisica non un altro approccio epistemico, ma la "quotidianità", nella quale «sono nascosti [verborgen] gli aspetti per noi più importanti delle cose», che, in quanto prossimi, non saltano agli occhi ma, una volta visti nella loro prossimità e ascosità, sono i più evidenti e forti25 . Nell'impiego quotidiano del linguaggio si trova la radice dell'impiego logicoscientifico e metafisico: Le regole rigorose e chiare della struttura logica della proposizione ci appaiono come qualcosa che sta sullo sfondo, celate [versteckt] nel medium del comprendere. Già le vedo (sia pure attraverso un medium), dal momento che comprendo il segno, intendo qualcosa con esso26 .
Ciò che mi spinge verso le «regole rigorose e chiare» della metafisica, e me le fa vedere, è il fatto che adopero quotidianamente il segno oltrepassandolo verso qualcosa. Questo oltrepassamento quotidiano suscita quello metafisico. Allo stesso tempo però, radicando la trascendenza nella distanza del rimando, l' oltrepassamento fa crescere il conflitto tra l'esigenza metafisica di un passaggio pienamente attuato e la condizione effettiva, soltanto nella quale quell'esigenza può nascere: >) presente invece nella dialettica platonica. La critica dell'"ingenuità" dialettica insita nella metafisica affronta così senza timori la prossimità allo scetticismo: di contro al primato dell'episteme, mai discusso fino a Hegel, il circolo ermeneutico assume i tratti strutturali del circulus vitiosus. L'argomento fondativo della metafisica, l'argomento "antiscettico", viene in questo modo contestato più radicalmente di quanto non faccia Hegel, perché non viene solo giudicato sterile, ma viene riletto, alla luce dell'articolazione antinomica e violenta della liberazione metafisica dallo spirito di vendetta, venuta in luce proprio nella dialettica hegeliana, come la ricaduta inesorabile in un >32 e, dall'altra, da coloro che lo fanno semplicemente in forza del potere di negare posseduto dal logos: «gli uni hanno bisogno di persuasione, gli altri di violenza [hoi men gar peithùs deontai hoi de bias]»33 . La dialettica platonica, ma soprattutto l'argomento dialettico antisofistico che Aristotele adopera per consolidare il riferimento epistemicamente rigoroso al «principio più saldo [bebaiotdte arche1 di tutti>>34 , sembrano così poter diventare bersagli tipici non solo della critica adomiana dell'identico, ma anche della critica heideggeriana o gadameriana all'argomento antiscettico come a uno sterile «tentativo di sopraffazione>>, o per esempio della critica di quegli indirizzi del pensiero francese di derivazione fenomenologica che rilanciano, attraverso l'alterità, una carattere della "diversità" irriducibile all'idea dialettica della totalità. Sono argomentazioni che hanno portato all'interno del pensiero o dello spirito un concetto di violenza, dalla tradizione assegnato invece all'idea della causa «esterna>>, del potere che irrompe da fuori confine e disturba l'ordine vigente. Proprio secondo Aristotele violento è infatti innanzitutto il movimento «contro natura», che impedisce l'altro movimento, quello verso il «luogo naturale» e più in generale l'orientamento costitutivo del cosmo verso l'ordine, la costanza e la regolarità35 . Così definita, la violenza lascia da una parte trasparire un disordine ontologico cui è esposto tutto ciò che è soggetto a movimento, in quanto strutturalmente distante da quel compimento pieno e stabile che compete esclusivamente al divino36 . La natura dell'ente mosso implicherebbe 32 33
34 35
Metaph. Metaph. Metaph.
r 5, 1009 a 22-25. r 5, 1009 a 17-18. r 4, 1005 b 11-12.
Cfr. per es. ARlsTOTELE, De caelo, a cura di D.J. ALLAN, Oxford 1936,
r
2,
301a5 ss. 36 Cfr. in proposito le interessanti osservazioni di F. D'AGOSTINO, Bia. Violenza e giustizia nella filosofia e nella letteratura della Grecia antica, Giuffré, Milano 1983, p. 47.
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una resistenza strutturale al compimento, una violenza originaria definibile nei termini di uno stato insuperabile di «privazione»37 . Una tale violenza, in quanto impedimento naturale, non fa scandalo: essa anzi ribadisce ogni volta l'ordine costante che governa sopra ogni cosa e sovrasta dall'inizio alla fine il disordine naturale che segna il destino di ogni ente mosso. Anche quando, come nell'Etica nicomachea, si parla del mondo umano, il carattere «esterno» resta il tratto più comprensivo della violenza, di quella proveniente dalla natura come di quella causata da una volontà estranea: «è violento ogni atto il cui principio sia fuori di noi e tale che chi lo compie non vi cooperi per nulla>>38 • Questa impostazione decide il destino del concetto di violenza nell'orizzonte umano: infatti, ciò che ha la capacità di restare «fuori>>, di resistere, è in ultima istanza solo la volontà umana, nella misura in cui si pone fuori dall'ordine, e dall'orientamento al bene di tutta la natura. È l'uomo che mette in contrasto interiorità ed esteriorità: ed è la volontà umana che disturba effettivamente l'ordine (il «comando») della natura, ostacolandolo e facendolo emergere ad un tempo come tale 39 • Si mostra in ambito umano un altro modo della sottomissione all'ordine, che svela in modo inquietante lo spazio del divino. Un modo che fa apparire la forza "tremenda" del1' ordine, al quale, per usare parole di Levinas, «non ci si può sottrarre>>, >. In questa posizione paritetica degli opposti, il prevalere della potenza sembra ormai oscurare un tratto vittimario, che disturba la lettura lineare della formulazione kantiana. Nel testo kantiano (sul sublime dinamico), infatti, la violenza mette in gioco la natura contro l'uomo quale ente razionale, oltre che empirico e come tale vincolato alla propria sopravvivenza naturale: in quest'ultimo senso l'uomo subisce effettivamente la violenza della natura, ma nel primo senso no, in quanto egli scopre in sé «una capacità di resistenza di tipo completamente diverso», fondata sull' «indipendenza» dalla potenza smisurata della natura, e una totalmente diversa capacità di conservazione, per quanto l'uomo possa soccombere alla natura come essere naturale. In una catena reattiva, la potenza della natura «provoca» dunque per un verso le forze dell'uomo superiori ad essa, che incontrano però a loro volta lo strapotere irresistibile di una volontà divina. Per altro verso troviamo però in Kant anche il passagvale (su ciò dr. R. GIRARD, Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, tr. it. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983, pp. 500 ss. e IDEM, La vittima e la folla, a cura di G. FORNARI, Santi Quaranta, Treviso 1998, pp. 46 ss.). 42 I. KANT, Kritik der Urteilskraft, in Werke X,§ 28. La definizione kantiana, se qui facciamo agire la tesi di Girard, appare profondamente innovativa e moderna, perché inserisce di fatto la nozione di violenza in un contesto di reciprocità mimetica, ma allo stesso tempo appare ancora inquadrata nell'idea che il diverso e l'esterno siano causa - siano colpevoli - della violenza. Hegel formula in modo efficace il nucleo aporetico e autodistruttivo della violenza, quando (valorizzando implicitamente il nucleo dirompente nascosto nella formula kantiana), la definisce come «manifestazione di una volontà che toglie la manifestazione o l'esserci di una volontà» (G.W.F. HEGEL, Grundlinien der Philosophie des Rechts, in Werke, VII, § 92). Per contro, la , in quanto assiomi che «appartengono a tutti gli enti»51 , smettono di essere semplicemente regole che ogni considerazione scientifica segue senza interrogarsi sul loro possesso, e divengono oggetto di theoria circa il modo di rendersi accessibili al pensiero. In questo senso, viene sottolineato come nessuno di coloro che studiano una parte dell'ente «si mette a dire qualcosa su di essi, se siano veri o no»52 , ma tutti ne «fanno uso [chrontai]» e vi si riconducono implicitamente in relazione a ciascun genere dell'ente, senza tuttavia risalire tematicamente fino ad essi per fame oggetto d'indagine [skepsis] in relazione all'ente in quanto ente. Mentre la filosofia prima (o, fino a quando la si è ritenuta prima, anche la fisica), staccandosi da questo mero possesso, rivolge invece la sua indagine proprio verso tali principi, comuni a tutte le dimostrazioni. Emerge solo così che «tutti coloro che dimostrano risalgono [andgousin] a questa opinione ultima [il principio che afferma: «è impossibile che lo stesso appartenga e insieme non appartenga allo stesso e secondo lo stesso»]; essa è infatti principio per natura ed è principio di tutti gli altri assiomi»53 . Il risalire a un tale «principio per natura» è appunto quello che nella filosofia prima diventa contenuto di una paideia. Quest'ultima si caratterizza come un sapere previo - maturato con metodo analitico o attraverso lo studio degli Analitici, a seconda dell'interpretazione del passo aristotelico - in grado di distinguere ciò che non ha bisogno di dimostrazione. La natura particolare di un tale sapere non permette però di intendere la paideia come la previa conoscenza di un altro ambito (come una "filosofia di secondo grado", per dirla con Wittgenstein). Essa è piuttosto l'habitus in cui giunge a maturazione una capacità determinante del sapere stesso: quella di uscire dal mero possesso dei principi per risalire fino ad essi. La paideia è un certo modo del sapere «formato all'intero», tale da rendere l'uomo "colto" «critico, per così dire, su tutto [perì panton ... kritik6n]»54 : per questa sua caratteri51
Metaph. f 3, rispettivamente 1005 b 7 e a 22-24.
52 53
1005 a 30. 1005 b 32-34.
54
ARlsTOTELE,
De partibus animalium, acura di P.
1957, A 1, 639 a 1 ss.
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LoUIS, Les belles lettres, Paris
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stica essa è in ultima istanza il sapere che include nell'orizzonte dell'indagine ciò a partire da cui l'indagare e il dimostrare in generale procedono. Nella loro speciale paideia, nel loro sapere «in che modo si deve accogliere [apodechesthai]» 55 la verità, senza cercare per sentito dire, al di fuori di un «previo sapere [proepistaménous]» circa ciò che si cerca, i filosofi esercitano una theoria dell'intero che riprende nello spazio conoscitivo ciò da cui il procedimento argomentativo per altro verso si allontana nel suo cercare. La precognizione che la paideia implica, ben lungi dal bloccare con un divieto l'indagine, è il maturare di una conversione dello sguardo, la raggiunta capacità di mettere a tema la risalita verso il principio inconcusso che governa dall'inizio alla fine il movimento del pensiero. Una simile formazione dello sguardo filosofico non solo installa il pensiero là dove è messo in moto ogni procedimento dimostrativo, che non può avere inizio fino a quando non è accolta una precognizione della verità che si cerca, ma permette di procedere, in questo modo interno al cercato, verso ciò che il pensiero dimostrativo deve d'altra parte accogliere sin dall'inizio56 . Di contro, fin da questo richiamo iniziale all'accoglimento del principio più sicuro, l' apaideusia connota l'atteggiamento di chi restringe il pensiero nella posizione contrappositiva del domandare mirante a emanciparsi da ogni contenuto. La fisionomia del sofista «irriducibile»57 è così già implicitamente ricavabile dalla sua apaideusia. Egli ripiega il pensiero nel proprio potere di negare, "parla per parlare", si abbarbica al possesso del logos, senza lasciarsi formare alla capacità che possiede, senza cioè disporsi ad accogliere all'interno del pensiero ciò che ad esso dà inizio. Si tratta di una figura irrigidita della ratio ignava, che rifiuta di allargare lo spazio di movimento del pensiero e paralizza la filosofia in un indeterminato potere distruttivo. La paideia del filosofo illumina invece una dimensione nuova del pensiero, invisibile alle scienze particolari e sbarrata dall'esaltazione per il potere di negare dalla quale sono posseduti quelli tra i sofisti che «ritengono valido dire cose contrarie per il fatto stesso di dirle»58 . In questa dimensione Aristotele arrischia un 55 56
Metaph. f 3, 1005 b 2.
Su questo aspetto circolare della paideia richiesta per l'indagine sui principi ha posto l'accento M. HEIDEGGER, Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens, cit., pp. 79-80. 57 Per questa definizione, ritenuta delineare un caso limite non corrispondente a nessun sofista in particolare, dr. B. CASSIN, Parla, se sei un uomo, cit. p. 47. 58 Metaph. r 6, 1011 a 16. .
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passo certamente difficile, ma decisivo per la stessa possibilità di una ritrattazione metafisica della filosofia. Un passo che oggi cogliamo nella sua portata epocale alla luce dello sguardo "altro" gettato sulla tradizione metafisica dalla ripresa contemporanea delle domande che l'hanno originata. Se in Aristotele questo strettissimo cammino in direzione del principio inconcusso ha il potere di legittimare il lungo cammino della filosofia verso il «principio non fisico» di contro all'induzione sofistica di una paralisi del pensiero, lo sguardo retrospettivo che oggi gettiamo su questa mossa inaugurale ne può sottolineare, anche al di là della lettera aristotelica, il carattere fondante dell'intero movimento del pensiero.
5. La sospensione del possesso del principio La prima caratteristica che in una tale rivisitazione va messa in luce è la continuità di questa confutazione con il pensiero dialettico socratico-platonico: anche le mosse aristoteliche non presentano soltanto e principalmente un carattere di difesa, né tanto meno si lasciano stigmatizzare come amore per la vittoria [philonikia], ma restano intimamente segnate nel metodo dalla preferenza accordata da Socrate all' esser confutato piuttosto che alla pratica del confutare. Questo atteggiamento non è rivolto solo a coloro che «cercano nel logos la violenza [bia] ma allo stesso tempo ritengono di dover sostenere il logoS>>59 , ossia coloro che cercano il momento costrittivo del discorso ma allo stesso tempo comprendono che questo momento può essere trovato solo alt'interno del discorso stesso. Costoro, come abbiamo già ricordato, possono essere secondo Aristotele persuasi senza bisogno della violenza che pure cercano. Si tratta infatti di quei fisiologi e quei sofisti - in un certo senso, in ultima analisi, di tutti i filosofi - che asswnono il rimando semantico del logos, il suo costituirsi a partire dai legomena, e dunque accolgono all'interno del discorso quegli stessi principi che mettono in discussione, sostenendo in questo modo responsabilmente la peculiare relazionalità del linguaggio. In questo contesto Aristotele discrimina nettamente tra persuasione e violenza: la persuasione consiste nel1'apertura di un cammino verso ciò che si presuppone, in modo che alla fine di questo percorso si acquisti quella paideia - non necessaria per parlare ma indispensabile per comprendere ciò che si fa parlando e certamente per il filosofo-, che consiste nell'«asswnere [hypolambanein]» 59
1011 a 21-22.
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ciò che si dice6°. Cercano solo la violenza - e hanno bisogno della violenza secondo Aristotele - coloro che invece praticano questo circolo solo come vizioso, ossia «enunciano solo questi discorsi [ton tous logous toutous monon leg6nton]»61 senza esserne persuasi. Infatti, «cercano il principio e cercano di coglierlo mediante dimostrazione»62 , non considerando che «il principio della dimostrazione non è una dimostrazione»: e così mostrano di non essere persuasi, nel senso che non fanno entrare il principio nel loro discorso, ma cercano un discorso che possa fare a meno di appoggiarsi ad esso. Tuttavia, anche nei confronti di costoro l'argomentazione aristotelica si smarca dalla phylonikia, facendo un passo decisivo all'interno del loro modo di stare al discorso. E in questo punto il modello socratico della confutazione viene abbandonato sotto un diverso aspetto. Non è più valida infatti, in questa specialissima confutazione, la richiesta socratica di una doxa con cui dare avvio alla discussione perché, come è noto, chiedere un'asserzione al sofista irriducibile significherebbe, da parte di colui che ne confuta le pretese, fare uso del principio di non contraddizione e dunque - in questo spazio estremo di argomentazione, in cui perfino la validità del principio