Metafisica [PDF]

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Zitiervorschau

Aldo Masullo

Metafisica

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Oscar Studio Mondadori Mauritius_in_libris

Contrariamente all'opinione che vede nella metafisica un incontrollabile o insignificante residuo filosofico, essa appare, quando se ne ripercorra la storia, come il tentativo continuamente riproposlo di ricondurre la pluralità dell'esperienza a una rappresentazione unitaria, a una logica generale delle misure. La ricostruzione che Masullo ne offre ha l'originalità di cogliere in ogni momento del suo sviluppo storico - dalla sua configurazione in Platone e Aristotele alla sua crisi nel pensiero medievale e rinascimentale, dalla sua restaurazione moderna dopo Cartesio alla crisi definitiva che si contrassegna nel nome di Hegel - le tracce della sua intima dissoluzione, su cui la filosofia moderna, da Nietzsche a Husserl a Heidegger non cessa d'interrogarsi. Un'interpretazione della metafisica che non rinuncia a una vocazione umanistica, e una introduzione ai grandi problemi della storia della filosofia.

Aldo Masullo, nato ad Avellino nel 1923, è professore ordinario di Filosofia morale nell'Università di Napoli. Interessato ai problemi della critica epistemologica («Il continuo in Zenone di Elea e in Aristotele », 1955; « Intuizione e Discorso », 1955), tra i primi in Italia richiamò l'attenzione sull'emergere delle categorie strutturalistiche nelle scienze umane, investigandone ascendenze e legami nella cultura europea dell'Ottocento e del Novecento («Struttura soggetto prassi», 1962). Ha quindi approfondito il tema dell'intersoggettività inconscia come fatto « originario » e fondamento non metafisico della conoscenza materiale e della riflessione filosofica («La comunità come fondamento», 1965; « Il senso del fondamento », 1967; « L'antimetafisica del fondamento », 1972).



In copertina: Theo van Doesburg: Composizione IO, 1918 Basilea, Collezione privata Mauritius_in_libris

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Oscar Studio Enciclopedia filosofica

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Aldo Masullo

La metafisica

Arnoldo Mondadori Editore

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((;)1980 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I tdiziont Oscar Studio Mondadorl maggio 1980

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Sommario

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9 13 21 27 32 34 38

1. La « cura del sapere » e la coscienza infelice

1.1. La città arcaica e la crisi dell'esistenza religiosa 1.2. La scoperta dell'astrazione e il declino della «bella li· bertà » 1.3. Parmenide e la scienza come logica 1.4. La scissione dell'universo razionale e del mondo sensibile 1.5. L'immaginosa saggezza di Eraclito e di Empedocle 1.6. La nascita della filosofia come coscienza infelice 1.7. Il « giorno » e la « notte »

47 2. La «scienza dell'essere» come felicità del contemplare 47 47 54 57 63 65 68 68 70 74 78 84 88

2.1. L'origine della metafisica: Platone 2.1.1. La ricerca di una logica generale delle misure 2.1.2. La trasgressione del divieto parmenideo 2.1.3. Il desiderio della conciliazione: la filosofia come ascesi 2.1.4. La razionalizzazione del religioso. Dalla profezia all'utopia 2.1.5. I tratti originari della metafisica 2.2. La metafisica come « scienza prima » : Aristotele 2.2.1. L'« essere in quanto essere» 2.2.2. I significati del termine « sostanza»: l'egemonia dell' « essenza » 2.2.3. La totalità e il fondamento sovra-naturale 2.2.4. Ontologia come teologia 2.2.5. Dialettica parmenidea e dualismo metafisico 2.2.6. La metafisica cpme rassicurazione: la felicità del contemplare

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Sommario

93 3. Dall'irruzione del nulla all'infinito « immaginare » 93

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3.1. L'oscurarsi dell'esistenza storica e le manomissioni della metafisica 3.1.1. La negazione stoica degli enti incorporei 3.1.2. Trascendenza-immanenza e teologia negativa: Plotino 3.1.3. La creazione e il nulla nel pensiero di Agostino

104 104 107 109 115

3.2. Tommaso e la riforma della metafisica aristotelica 3.2.1. L'unità divina e la pluralità delle essenze· 3.2.2. La frattura dell'essere 3.2.3. Il principio dell'analogia 3.2.4. La fine del fondamento teologico della metafisica

118

3.3. Revisioni restauratrici e revisioni dissolutrici della metafisica 3.3.1. Il volontarismo di Duns Scoto 3.3.2. Guglielmo di Ockham: l'arbitrio divino e la contingenza del mondo . 3.3.3. L'infinità contratta e l'impossibilità della metafisica secondo Cusano

93 97

118 120 121 125 125 127

133

3.4. La fine della metafisica come logica delle assolute misure 3.4.1. La polemica di Telesio contro l'eternità delle forme 3.4.2. Giordano Bruno: la vendetta di Parmenide contro Aristotele ed il rovesciamento del « mondo rinversato » 4. La nuova razionalità e il «labirinto» praticabile

133

4.1. Il mondo come apparire

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4.2. La svolta di Cartesio: la metafisica come ricerca del fondamento dell'apparire 4.2.1. La fondazione metafisica della scienza 4.2.2. Il mondo come ordine eterno di leggi universali 4.2.3. Il «dubbio iperbolico» e il «duplice peccato» di Cartesio 4.2.4. L'identificazione del pensiero umano con l'idea di Dio: la tendenza trascendentale della nuova metafisica 4.2.5. La «maschera» di Cartesio: senso manifesto e senso riposto della metafisica cartesiana

139 143 146 149 152

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Sommario 155 155 157 160 162 162 165 169 170 173 175 178

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4.3. La teologia di Spinoza: la metafisica come logica assoluta 4.3.1. L'identità di pensiero ed essere. Dio come nome dell'essere 4.3.2. L'ideologicità della metafisica e la scienza mondana 4.3.3. Senso religioso dell'eterno e senso politico della storia ' 4.4. La metafisica «reale e dimostrativa» di Leibniz 4.4.1. L'autonomia della scienza mondana. Il principio di « ragion sufficiente » 4.4.2. La metafisica come discorso metaforico 4.4.:). La categoria della possibilità 4.5. L'ontologia come teoria del« possibile»: Cristiano WolfT 4.6. La scienza del mondo come analisi delle differenze. La storia come scienza 4.7. Hume: la metafisica ridotta a metalinguaggio 4.8. Il dileguarsi della metafisica dell'apparire e il ritorno dell'esistenza storica nell'età dell'Illuminismo 5. L'essere dell'apparire e la metafisica della rivoluzione 5.1. 5.2. 5.3. 5.4.

Il criticismo di Kant e la metafisica come riflessione La ragione come struttura dell'apparire Finitudine della ragione. Immaginazione e temporalità La dialettica trascendentale. I due rami della metafisica critica 5.5. Natura e storia. La metafisica della rivoluzione

6. L'eterno gioco del tempo e la dialettica

213 213 218 220

6.1. La metafisica e il problema del tempo in Hegel 6.1.1. L'inessenzialità dell'uomo 6.1.2. Il concetto come futuro senza tempo 6.1.3. La scissione del concetto vivente

224 224 · 227

6.2. Il fondamento come mediazione sparita 6.2.1. Logica dell'essenza e origine del concetto 6.2.2. L'intersoggettività come logica inconscia

232 241 244

6.3. Metafisica e dialettica 6.4. L'eterno e il tempo 6.5. Storia senza fine e fine della storia: la consapevolezza di Marx Mauritius_in_libris

Sommario

6 248

7. Il problema del senso tra ontologia e nichilismo

248 252 252 256 259

7 .1. Dilthey e la « concreta empiria » 7.2. L'ontologia fenomenologica di Husserl 7 .2.1. L' « esperienza vissuta » 7 .2.2. L'intenzionalità costitutiva e la temporalizzazione 7 2.3. L'esito metafisico

261 261 264 267 274

7 .3. Il nichilismo radicale di Nietzsche 7.3.1. L'accesso critico al corpo vivente 7 .3.2. La volontà di potenza 7.3.3. I valori nel tempo e il tempo senza senso 7.3.4. La potenza senza volontà

278

8. La fine dell'illusione trascendentalistica

278 278 279 281

8.1. L'appello ai « fatti puri » 8.1.1. La «reazione idealistica contro la scienza» 8.1.2. La riduzione del tempo alla storia: Croce 8.1.3. Il tempo e I'« esperienza integrale»: Bergson

283 283 287 290

82. Analitica esistenziale e senso dell'essere in Heidegger 8.2.1. L'affezione originaria 8.2.2. Il tempo dell'esistenza e la storia dell'essere 8.2.3. Il senso come comprensione e l'autodissoluzione dell'analitica esistenziale

294 299

8.3. Merleau-Ponty: il corpo-soggetto e !'a-priori empirico 8.4. La differenza trionfante e la « strutturalistica » negazione del soggetto

304 9. Il sentimento metafisico 312

Guida bibliografica

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La metafisica

« Non è armonia e concordia dove è unità, dove un essere vuole assorbire tutto l'essere »

BRUNO « Quando il pensiero si muove nell'elemento del $U0 contrapposto, cioè dell'irrelativo, il suo lavoro è il lavoro della pazzia »

HEGEL

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1. La «cura del sapere» e la coscienza infelice

1.1. La città arcaica e la crisi dell'esistenza religiosa Con la crisi della « bella libertà » comincia a entrare nel mondo Io Stato, come sociale integrarsi di una molteplicità di « riconosciute » volontà soggettive particolari, individui e classi, nell'universalità di un comune, oggettivo volere. L'ingresso dello Stato nel mondo è la nascita della storia. La città, nella Grecia antica, fu appunto il luogo, il tempo e la forma dell'apparizione dello Stato e della nascita della storia. Ma fu anche il luogo, il tempo e la forma della nascita di una nuova funzione della mente, che alla fine prese il nome di « filosofia ». In Grecia la città si venne formando non come una concentrazione abitativa o la capitale di un centralismo dispotico, ma come semplice legame di alleanza, religiosamente consacrato, tra varie famiglie o gruppi di famiglie già tra loro consociate (fratrie e tribù) e come la sede del santuario dedicato al culto comune in cui questa alleanza si esprimeva ritualmente. In un celebre libro di Fuste! de Coulanges si legge: « La città era una confederazione, perciò fu obbligata, almeno per molti secoli, a rispettare l'indipendenza religiosa e civile delle tribù, delle curie e delle famiglie, e non ebbe il diritto d'intervenire negli affari particolari di questi corpi costituiti » (Città, I, 170). Siffatto carattere della città 'rese possibile, molto più a lungo che altrove, la conservazione della struttura sociale a base religiosopatriarcale, concorse ad impedire la costituzione di monarchie di tipo orientale e favorì alla fine l'assunzione, da parte della città stessa, di quel carattere di unità sociale organica, di cui intanto la famiglia attraverso una lunga serie di trasformazioni si era venuta spogliando e che, depurato dalle interferenze delle relazioni pri-

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1. La« cura del sapere» e la coscienza infelice

1.1. La città arcaica e la crisi dell'esistenza religiosa Con la crisi della « bella libertà » comincia a entrare nel mondo lo Stato, come sociale integrarsi di una molteplicità di « riconosciute » volontà soggettive particolari, individui e classi, nell'universalità di un comune, oggettivo volere. L'ingresso dello Stato nel mondo è la nascita della storia. La città, nella Grecia antica, fu appunto il luogo, il tempo e la forma dell'apparizione dello Stato e della nascita della storia. Ma fu anche il luogo, il tempo e la forma della nascita di una nuova funzione della mente, che alla fine prese il nome di « filosofia », In Grecia la città si venne formando non come una concentrazione abitativa o la capitale di un centralismo dispotico, ma come semplice legame di alleanza, religiosamente consacrato, tra varie famiglie o gruppi di famiglie già tra loro consociate (fratrie e tribù) e come la sede del santuario dedicato al culto comune in cui questa alleanza si esprimeva ritualmente. In un celebre libro di Fustel de Coulanges si legge: « La città era una confederazione, perciò fu obbligata, almeno per molti secoli, a rispettare l'indipendenza religiosa e civile delle tribù, delle curie e delle famiglie, e non ebbe il diritto d'intervenire negli affari particolari di questi corpi costituiti » (Città, I, 170). Siffatto carattere della città 'rese possibile, molto più a lungo che altrove, la conservazione della struttura sociale a base religiosopatriarcale, concorse ad impedire la costituzione di monarchie di tipo orientale e favorì alla fine l'assunzione, da parte della città stessa, di quel carattere di unità sociale organica, di cui intanto la famiglia attraverso una lunga serie di trasformazioni si era venuta spogliando e che, depurato dalle interferenze delle relazioni pri-

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Metafisica

vate e naturali e risolto nell'astrattezza dei rapporti legali pubblici, costituisce la statalità. Se l'isolamento della famiglia patriarcale, rinserrandone tutti i membri nel suo chiuso organismo, impedendone qualsiasi relazione aggregante con i membri di uguale ceto delle altre famiglie, aveva irrigidito le differenze sociali nell'immobilità castale, cui la credenza religiosa prestava il fondamentale supporto psicologico - condizionando la mentalità stessa dell'individuo - all'immutabilità « per natura » del ruolo ereditato, la città come alleanza di varie famiglie e gruppi di famiglie rese possibile nelle lunghe vicende secolari la comunicazione e via via l'aggregazione tra individui di famiglie diverse ma di un medesimo ceto. Si formavano cosl unità di classe e complementarmente si disgregavano le antiche unità di stirpe. La lotta delle classi, frantumando le organizzazioni patriarcali originariamente costituenti la città con la loro alleanza, concorse in misura notevole a fare in modo che la città diventasse essa l'unità sociale organica e si avviasse cosl ad assumere la figura dello Stato. Allora, quel carattere d'impenetrabilità e autosufficienza funzionale, proprio della famiglia patriarcale, e dalla sacra alleanza costitutiva della città arcaica per nulla contraddetto ma semmai esaltato, venne progressivamente trasferendosi alla città come tale. Riposta nella città, come prima nella famiglia, l'impenetrabilità e autosufficienza dell'organismo sociale fu dall'individuo sentita e difesa come libertà indistinguibilmente propria e comune, come universalità con la quale immediatamente coincideva il suo particolare volere. Nella vissuta necessità di questa coincidenza consisterono la forza e insieme la debolezza dei popoli greci, i quali, ciascuno per la propria libertà, ossia per l'indipendenza della città divenuta essa il valore etico supremo come un tempo lo era stata l'indipendenza della famiglia, seppero tener lungamente testa alla pressione del colossale impero persiano, ma per la stessa ragione non seppero mai, nei loro rapporti, superare la municipalistica rissosità. In questo senso, giustamente nota Ramnoux che « la Grecia si è definita attraverso l'opposizione e nella guerra » (Présocratiques, 409): l'opposizione e la guerra ad altre civiltà che la mettevano in pericolo, ma anche, purtroppo, l'opposizione e la guerra intestine. La chiusura, tipica della città arcaica e dei suoi nuclei religiosopatriarcali, sopravvisse cosi, come un incancellabile riflesso condizionato, anche quando la città fu divenuta « laica ». Come osserva Fustel de Coulanges, « quando le superstizioni s'indebolirono (cosa che avvenne molto tardi nello spirito del volgo) non era più Mauritius_in_libris

La « cura del sapere » e la coscienza infelice

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l'epoca per stabilire una nuova forma di Stato, giacché la divisione era ormai consacrata dall'uso, dall'interesse, dall'astio inveterato, dal ricordo di vecchie lotte; e non si poteva più ritornare sul passato. Ogni città era fortemente attaccata alla sua autonomia; essa chiamava così l'insieme comprendente il suo culto, il suo diritto, il suo governo, l'intera sua indipendenza religiosa e politica» (Città, I, 289). Lo Stato, nel quale la città greca era alla fine sbocciata, non poté mai crescere al di là della sua congenita angustia di Stato cittadino. Tuttavia, anche se il vizio originario dell'esistenza religiosa continuò a minare l'incipiente esistenza storica, nella fortunosa vicenda della città greca resta interamente inscritta la rivoluzionaria trasformazione dall'esistenza religiosa, attraverso l'esistenza tragica, all'esistenza politica, insomma, la laboriosa gestazione e la drammatica nascita della storia. Si tratta di un processo intricatissimo, i cui momenti non possono essere scanditi secondo una semplice cronologia lineare, ma vanno riconosciuti come le modalità tipiche coinvolte in un complesso gioco di rapporti, i quali, pur nella confusione e sfalsatura temporale degli innumerevoli casi particolari, sono correttamente ordinabili secondo il senso di una precisa tendenza evolutiva. All'esaurirsi delle tumultuose migrazioni, scatenate per alcuni secoli dalla violenta pressione dorica, il mondo greco s'era ritrovato con l'economia, sia agricolo-pastorale dei territori continentali sia industriale e commerciale delle isole, in gravissima crisi; con i tradizionali assetti di potere fortemente scossi; con gli antichi equilibri sociali turbati. Nell'VIII secolo a.C. cominciarono cosi i grandi fermenti che, fino al V secolo, alimentarono con intensità sempre maggiore la profonda trasformazione della città: la ribellione dei capi delle famiglie, delle fratrie e delle tribù contro il re dell'alleanza sacra, e la sostituzione del dominio monarchico con un dominio aristocratico; la decadenza del maggiorascato e l'avvio alla divisibilità del patrimonio immobiliare, con la conseguente dissoluzione dell'unità della stirpe; l'affrancamento dei « clienti » e il loro accesso alla proprietà terriera che si veniva sciogliendo dai suoi vincoli sacri; le insurrezioni della plebe, cioè della moltitudine d'individui per varie cause emarginati, non incardinati neppure come schiavi in una famiglia patriarcale e perciò privi perfino di religione, vera classe rivoluzionaria interessata a rompere il sistema istituzionalizzato delle esclusioni. Di questo movim!nto di trasformazione il termine iniziale è la città arcaica, non più semplice alleanza dei corpi sociali, costituiti Mauritius_in_libris

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dalle famiglie patriarcali, ma divenuta essa medesima ormai corpo sociale, unitariamente organizzato, sia pure ancora nei modi propri dell'esistenza religiosa: la religione stessa peraltro è sempre meno prevalentemente una funzione privata, interna alla famiglia, e sempre più una funzione pubblica, l'ufficio proprio della città come tale. E significativo a questo proposito il modo in cui Vernant presenta il « periodo di sconquasso sociale e d'effervescenza religiosa ehe prepara, fra l'VIII ed il VII secolo, l'avvento della città»: i( Si vedono allora estendersi, divulgarsi e a volte integrarsi interamente allo stato, prerogative religiose, sulle quali gene reali e nobiliari assicuravano il loro dominio. Gli antichi clan sacerdotali mettono il loro sapere sacro, la loro padronanza delle cose divine al servizio della città intera. Gl'idoli santi, i vecchi xoana, talismani custoditi segreti nel palazzo reale o nella casa del sacerdote, emigrano verso il tempio, dimora pubblica, e si trasformano, sotto lo sguardo della città, in immagini fatte per essere viste. Le "decisioni di giustizia", le themistes, privilegio degli eupatridi, vengono redatte e pubblicate. Mentre si opera questa confisca dei culti privati a beneficio d'una religione pubblica, si fondano, in margine al culto ufficiale della città, intorno ad individualità possenti, nuove forme di raggruppamenti religiosi. Tiasi, confraternite e misteri aprono l'accesso, senza restrizioni di rango e d'origine, a verità sante, che erano un tempo prerogative di certe famiglie» (Mito, 263). Solo quando la città arcaica raggiunge così la pienezza della sua consistenza unitaria, l'esistenza religiosa che ne ha accompagnato e caratterizzato la crescita trova le condizioni per cominciare a perire: il culmine della città arcaica è l'inizio della trasformazione che, nel rapido volgere di due o tre secoli si concluderà nella città classica, nello Stato e nell'esistenza storica. La città arcaica, allorché non è più semplice alleanza di stirpi bensì organizzazione autonoma e autarchica, strutturata però ancora secondo un principio fondamentalmente religioso, è quel che Hegel chiama il « regno della bella libertà », « unione di libertà soggettiva e sostanzjalità », una unione « naturale, ingenua », in cui « l'individuo è in spontanea unità con il fine universale », libertà soggettiva immediata, « non nata dalla lotta delle libertà soggettive ». Il momento della città arcaica matura è anche l'inizio della sua crisi: perciò si tratta di una « fioritura leggiadra, ma anche caduca e rapidamente transeunte » ( Hegel, Filosofia della storia, I, 280-281). • La città arcaica a questo punto rappresenta l'unica forma di organizzazione sociale suscettibile di evolvere verso il legalismo astratMauritius_in_libris

La « cura del sapere » e la coscienza infelice

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to dello Stato e rappresenta al tempo stesso, nella sua breve stagione, la più raffinata figura di comunità partecipativa. In essa, come in tutte le formazioni sociali che precedono la nascita della storia, secondo l'osservazione di Chatelet, « l'uomo che partecipa è assorbito dal gruppo al quale appartiene; egli vive in un mondo umano la cui struttura è di un'estrema stabilità in quanto si basa su delle relazioni dette naturali; la debolezza dei mezzi di appropriazione che sono a sua disposizione non gli permette di considerarsi come un agente efficace di trasformazione del dato; la sua "conoscenza" della natura è ridotta all'apprensione di certe regolarità, quelle degli astri e delle stagioni; nello sforzo ch'egli fa per riconoscersi in un universo minaccioso, gli è lasciato soltanto - al di fuori dei gesti "storici" ch'egli compie spontaneamente, ma non può comprendere - di fuggire magicamente il mondo profano, di rifugiarsi magicamente in una sfera atemporale in cui si aboliscono insieme la novità e il danno» (Naissance de l'histoire, 402). Non senza ragione la religione, come principio d'istituzionalizzazione del vincolo partecipativo di una comunità, presiede all'unità della famiglia patriarcale prima, della città arcaica matura poi. E non senza ragione, per conseguenza, gli antichi greci non poterono concepire altra organizzazione sociale, non strettamente naturale come la famiglia patriarcale, che la città. Scrive Fuste! de Coulanges: « Non si comprendeva l'associazione umana ed essa non sembrava regolare che in quanto era fondata sulla religione. Il simbolo di questa associazione doveva essere un pasto sacro fatto in comune. Qualche migliaio di cittadini poteva bene, a rigore, riunirsi intorno ad uno stesso pritaneo, recitare la stessa preghiera e condividere i cibi consacrati. Ma provatevi, con questi usi, a fare un unico Stato della Grecia intera! » (Città, I, 288).

1.2. La scoperta dell'astrazione e il declino della « bella libertà » Se la città arcaica, caratterizzata dalla vissuta coincidenza della libertà soggettiva e della volontà comune, costituisce il termine iniziale del processo di trasformazione, con cui si passa dall'esistenza religiosa all'esistenza storica, il termine finale di tale processo è la città come Stato. Ancora Chatelet ricorda che « lo Stato greco è nato quando alle relazioni naturali di parentela e di appartenenza al yÉvoç [cioè alla stirpe] si sostituisce una relazione tale che ogni individuo è riconosciuto come individuo da tutti gli altri Mauritius_in_libris

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membri della collettività» (Naissance de l'histoire, 403). Allora finalmente « l'uomo greco nasce alla vita propriamente politica e assume lucida coscienza del suo statuto di cittadino. Al di sopra delle famiglie, delle collettività professionali e delle comunità religiose, si costituisce un'unità giuridica alla quale gl'individui sono legati e nella quale essi riconoscono se stessi come individualità ». Mentre « il membro del yÉvoç che partecipa dell'antenato divino era l'incarnazione di un'essenza intemporale » e mentre « l'uomo senza genealogia era nulla e il suo atto privo di qualsiasi importanza », « il cittadino attraverso la sua appartenenza all'unità politica è integrato in un divenire profano onde egli trae tutto il suo destino. Non gli è più possibile, quand'anche non la concepisse nettamente, eludere la sua storicità poiché la realtà nella quale egli si trova gli si manifesta immancabilmente e quotidianamente come dato storico ». « Nella misura in cui egli trae la sua verità dalla città, egli non può volere se non ciò che essa vuole. Ma egli può volere: lo Stato, in effetti, non è un essere naturale, è un'idea che trae la sua sostanza dalla decisione dei cittadini ». Infine, « l'uomo, conquistando la sua effettività nel divenire sensibile-profano, deve anche ammettere le determinazioni di questo divenire, presenti a lui sotto gli aspetti di una situazione storica reale ». Sicché, « se ci si pone a questa "origine" del pensiero storico, essere politico appartenenza a tale città - ed essere storico - esistenza nel e mediante il divenire sensibile-profano - coincidono perfettamente » (ivi, 46-48). Il dinamismo sociale, che dal VII al V secolo spinse ineluttabilmente a questa conclusione il processo di trasformazione della città, è costituito essenzialmente dalla lotta della classe infima, la plebe, per rompere i vecchi meccanismi della sua esclusione. Dove con le insurrezioni armate, dove con la contestazione pacifica, dove gradualmente, dove per l'illuminata decisione di un re, dove per l'opera dei tiranni ossia dei capi profani portati al potere dalle stesse sollevazioni popolari, la plebe entrò nella vita istituzionale della città. E evidente che la plebe poté condurre vittoriosamente una lotta rivoluzionaria per una serie di circostanze sociali, economiche e culturali. La stessa consistenza unitaria raggiunta dalla città tra l'VIII e il VII secolo, con la sostituzione del potere aristocratico a quello del re-sacerdote e con l'indebolimento della famiglia patriarcale chiusa, favorì non solo, come si è accennato, l'aggregazione per ceti di coloro che in posizione subalterna si trovavano prima separatamente chiusi nella rigida struttura gerarchica delle diverse famiglie patriarcali; ma anche l'accorparsi in classe di tutti coloro, i plebei Mauritius_in_libris

La « cura del sapere » e la coscienza infelice

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appunto, che non essendo ripartiti tra le grandi famiglie, neppure come schiavi, vivevano fuori di ogni ordine religioso e civile ed erano rimasti finora dispersi. Al pluralismo statico di rigide gerarchie patriarcali, più o meno debolmente associate ai vertici, qual era stata agl'inizi la città arcaica, si era venuto sostituendo nella sua maturità un monismo dinamico, polarizzato nelle due grandi classi in conflitto, i patrizi e i plebei, di cui, come efficacemente riassume Fustel de Coulanges, «una voleva che l'antica costituzione religiosa della città fosse mantenuta, e che il governo, come il sacerdozio, restasse nelle mani delle famiglie sacre, l'altra voleva rompere le vecchie barriere che la mettevano fuori del diritto, della religione e della società politica» (Città, II, 66). Intanto, con la progressiva decadenza del principio del maggiorascato e la conseguente parcellarizzazione della proprietà, la terra cominciava a diventare oggetto di attribuzione a chi la coltivava, come venne sancito ad Atene con la riforma di Solone, o comunque suscettibile di alienazione. L'emigrazione colonizzatrice conseguente alle stesse lotte sociali nelle città, la diffusione dell'attività marinara e mercantile, gli scambi sempre più intensi con le altre popolazioni e culture del Mediterraneo, stimolavano d'altra parte lo sviluppo delle arti e dell'industria, da cui derivava la formazione di una nuova ricchezza, in oggetti di lusso, beni di consumo e mezzi di trasporto, destinata a diventare sempre più importante rispetto a quella tradizionale, costituita dalla terra e dal bestiame. Così, mentre entrava in crisi la ricchezza come esclusività del beneficio ereditario, privilegio castale, cominciava a vigoreggiare la ricchezza come frutto del lavoro, dell'ingegno, dell'iniziativa e del rischio. Anche un plebeo poteva finalmente diventare ricco: fu que sto il primo punto d'appoggio oggettivo sul quale fece leva la rivoluzione portata innanzi dalla classe inferiore. Come, ventidue o ventitre seco1i più tardi, nella società europea, dal ribollente crogiuolo del « terzo stato » così ora, nelle città greche, dal lungo e vario fermento della plebe emergevano gruppi assai attivi di una nuova classe, la borghesia, economicamente potente ed esercitata per la sua stessa natura alla più spregiudicata intraprendenza, capace perciò di egemonizzare la rivoluzione contro l'ordinamento castale. Simbolo e strumento insieme fondamentale di una così complessa e profonda trasformazione, fu l'invenzione, avvenuta in Grecia nel VII secolo, della moneta nel senso proprio, cioè dotata di un titolo, coniata, garantita dal potere pubblico. « Essa - commenta Vernant - ha svolto una funzione rivoluzionaria su tutta una serie di Mauritius_in_libris

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piani. Ha accelerato un processo, di cui essa stessa era effetto: Io sviluppo, nell'economia greca, d'un settore mercantile estendentesi a una parte dei prodotti di consumo corrente. Ha reso nossibile la creazione di un nuovo tipo di ricchezza, radicalmente differente dalla ricchezza in terre e in greggi, e d'una nuova classe di ricchi, la cui azione è stata decisiva nella riorganizzazione della città » (Mito, 268). La moneta fu certamente il simbolo di un avvenuto mutamento socio-economico-culturale di straordinaria portata e, al tempo stesso, lo strumento moltiplicatore dei suoi effetti. Lo dice molto efficacemente Engels: nell'organizzazione di quelle società che gli antropologi culturali chiamano primitive nel senso che non sono entrate nella dinamica della storia, « il risultato al quale si deve giungere è il sostentamento più o meno abbondante; ma ciò che non può in alcun modo risultare sono imprevisti rovesciamenti sociali, la rottura dei legami della gens, la scissione dei membri della tribù in classi opposte in lotta reciproca ... Non fu così tra i Greci. Il nuovo possesso privato degli armenti e degli oggetti di lusso portò allo scambio tra individui e alla trasformazione dei prodotti in merci. Ed è qui il germe di tutta la rivoluzione che seguirà ... Con la produzione della merce, la coltivazione della terra venne fatta dagli individui per proprio conto e subito apparve la proprietà privata della terra. Più tardi venne introdotto il denaro, merce universale con la quale tutte le altre avevano possibilità di scambio; ma creando la moneta, gli uomini non immaginavano che essi davano la stura ad una forza nuova, la forza universale unica davanti alla quale l'intera società doveva inchinarsi » (Origine della famiglia, 147-148). La moneta fu l'operatore e il simbolo dell'avvenuta rottura dell'ordine castale e del complementare avvio della mercificazione generalizzata, ossia della sostituzione, nel meccanismo economico e nell'ideologia della vita quotidiana, del valore d'uso con il valore di scambio non più soltanto nel rapporto tra le diverse comunità, ma all'interno di ciascuna di esse, che appunto così si avvia ad essere sempre meno co:nunità (chiusa) e sempre più società (aperta). t nota l'osservazione di Marx: « Lo scambio di merci comincia dove le comunità finiscono, ai loro punti di contatto con comunità estranee ... Ma, una volta le cose divenute merci nella vita esterna della comunità, esse diventano tali per reazione anche nella vita interna di esse» (Capitale, 11, 101). t evidente che il passaggio dalla mercificazione esterna a quella interna non è immediato, e può esigere un tempo più o meno lungo. Mauritius_in_libris

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La comparsa della moneta rende inevitabile la dissoluzione dell'esistenza religiosa e l'avvento, già in gestazione, dell'esistenza storica. Il denaro è il grande profanatore. Esso tende a rendere fino in fondo profano il mondo degli uomini. Alla radicale trasformazione della città, nei secoli dall'VII al V, corre parallela una radicale trasformazione della mentalità greca. Innanzitutto, proprio lo sviluppo dell'attività mercantile e ia sostituzione, per molti prodotti, deI valore d'uso con il valore di scambio, ma ancor più l'introduzione della moneta come merce universale, scambiabile cioè con qualsiasi altra merce, comportano uno straordinario impulso al potenziamento dell'astrazione. Ridotto il valore d'uso al valore di scambio, ed elevato questo alla massima astrazione possibile, la moneta è per antonomasia siffatto valore astrattissimo, è il corpo stesso dell'astratto: viene infatti chiamata v6µ~crµa, dal verbo voµlsw, « valuto ». Vernant cita la tesi di Thomson, secondo cui una delle condizioni oggettive fondamentali del processo di trasformazione della mentalità greca sono « gli inizi, con la moneta, di un'economia mercantile, la comparsa di una classe di mercanti, pei quali gli oggetti si spogliano della loro diversità qualitativa (valore d'uso) e non hanno più altro significato che quello astratto di una merce simile a tutte le altre (valore di scambio) » (Mito, 259). In particolare, Vernant osserva che « nella forma della moneta c'è una razionalità che, agendo sul piano del puro artificio umano, permette di definire il campo del nomos », della legge come istituzione umana ben Jistinta dalla physis, dal processo della produzione naturale (ivi, 269). Entra così in gioco il tema capitale del rapporto tra natura e società: con l'evoluzione della città verso la forma statale si realizza quella « separazione della natura e della società che, sul piano delle forme mentali, è il presupposto dell'esercizio di un pensiero razionale. Con la città, l'ordine politico s'è distaccato dall'organizzazione cosmica: appare come un'istituzione umana, che costituisce l'oggetto di una ricerca ansiosa, di una discussione appassionata»: « separate, natura e società sono oggetto di una riflessione più positiva e più astratta » (ivi, 265). Infatti, « l'ordine della città è quello nel quale il rapporto sociale, pensato astrattamente e liberato dai legami personali o familiari si definisce in termini di eguaglianza, d'identità » (ivi, 267). Il crescente potere dell'astrazione pervade le stesse nozioni di spazio e di tempo. Lo spazio differenziato, gerarchico, ritualmente funzionale, proMauritius_in_libris

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prio della religione, cede il posto allo spazio omogeneo, senza luoghi privilegiati, della geometria. Sintomatica è la riforma compiuta ad Atene, verso la fine del VI secolo, da Clistene. Agli antichi gruppi tribali, di origine patriarcale, fondati sulla lontana ascendenza di sangue, divisioni dunque « naturali», da cui rimanevano fuori tutti coloro che, pur proclamati liberi dalla legge di Solone, non appartenevano per discendenza, o almeno per cooptazione, a nessuno di essi, Clistene sostituì delle divisioni ancora chiamate tribù, ma puramente artificiali, determinate in base alla dislocazione territoriale, e vi ripartì d'ufficio tutti gli uomini liberi, in base appunto non alla nascita ma al domicilio. In tal modo, non vi fu più alcun uomo libero che rimanesse senza culto e non associato o che, per difetto di nascita, non potesse aspirare alle cariche sacerdotali e, per conseguenza, alle cariche pubbliche in genere. La riforma di Clistene è particolarmente significativa, non solo per il definitivo distacco ch'essa segna dell'ordine sociale dall'ordine naturale delle filiazioni (sicché lo stesso ordine religioso non è più la sacralizzazione dell'ordine sociale fondato sull'ordine naturale ed una garanzia della sua immutabilità e intangibilità, ma si riduce ad una funzione del complessivo ordine civile), bensì pure perché l'organizzazione artificiale della popolazione vi si trova basata su di un'amministrazione astratta dello spazio. L'isonomia politica, l'uguaglianza della legge, corrisponde all'omogeneità geometrica dello spazio urbano, anzi questa è la condizione metodologica di quella. « La preminenza decisiva del principio territoriale sul principio gentilizio», come interpreta Vernant, si esprime nel fatto che « la città si progetta secondo uno sche~a spaziale; tribù, trittie e demi vengono disegnati sul suolo, come altrettante realtà che possono iscriversi su una carta ». Il centro dello spazio (che nella corrente concezione greca è sempre limitato e ha perciò sempre un centro) non è più il focolare domestico che, « fissato al suolo, pianta la casa umana in un punto definito della terra, differenzia ogni oikos [casa] conferendogli una sua particolare qualità religiosa, chiude il gruppo familiare intorno a lui e lo conserva puro da ogni contatto estraneo», ma è il focolare comune della città: esso, ~edificandosi nello spazio pubblico e aperto dell'agora, offrendo alloggio nella persona dei pritani a quella Boylé [consiglio] che incarna la totalità della città, esprime il centro in quanto denominatore comune di tutte le case che costituiscono la polis » (ivi, 143-144). Il focolare non è più un centro rituale e magico, la sede di un mistero cosmico, ma semplicemente il prodotto di una scelta arbitraria nella sistemazione matematica del territorio urbano. « La Mauritius_in_libris

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polis tende a prendere la forma d'un universo senza piani né differenziamenti », anche se « non vi restano soppresse le classi di censo». E curioso a questo punto come Vernant lamenti che « l'isonomia di tipo clistenico non è riuscita a sopprimere gli antagonismi sociali» (ivi, 157). In effetti, motivo di meraviglia non c'è: che l'isonomia coesista con le classi non è un incomprensibile incidente, ma al contrario rientra coerentemente nella logica dello Stato che, con la città classica, entra nel mondo. Lo Stato, secondo il modello concettuale rigorosamente pensato da Hegel, comporta la soppressione della staticità delle caste e l'uguaglianza dei diritti formali di libertà, ossia il « riconoscimento » paritario dei molteplici soggetti, individuali e collettivi, persone e classi, nella dinamica della loro conflittualità, limitata e regolata dalle leggi. Le classi e le loro lotte sono anzi gli organi e le funzioni vitali dello Stato. Allo spazio astratto corrisponde nella nuova mentalità greca un tempo astratto, omogeneo, matematicamente scandibile. Nell'esistenza religiosa si immaginano molteplici tempi, senza alcun rapporto tra loro, non dunque temporalmente ordinabili, e perciò paradossalmente fuori del tempo: ogni mito costituisce un tempo proprio, particolarissimo e concreto, all'interno del quale si svolgono i meravigliosi eventi narrati, ma senza alcun rapporto all'esterno, con altri piani temporali, chiuso dunque in se stesso. Secondo l'osservazione di Cazeneuve, appunto « i riti commemorativi inseriscono nel tempo storico (nella diacronia) i modelli mitologici che si situano fuori del tempo (nella sincronia) in una sorta di eternità che è quella del mondo consacrato degli antenati, o - se si preferisce - nell'eterno ricominciamento » (Sociologia del rito, 35). Commentando la suggestiva indicazione di Saint-Exupéry che « i riti sono nel tempo ciò che la dimora è nello spazio », Cazeneuve aggiunge che « essi permettono all'individuo di fissarsi, di stabilirsi in una dimora, cioè in una condizione umana » (ivi, 382). Nell'esistenza religiosa, i riti, essenzialmente commemorativi (diversi dai riti magici che, pur in essa presenti, son di natura ben altra che religiosa) costituiscono forme varie di organizzazione del tempo. Lasciandosi accogliere via via nell'intimità dell'una o dell'altra di queste forme, appunto come dentro una dimora, l'individuo si sottrae all'angoscia del caotico scorrere dell'esperienza, e stabilizza così, attraverso le salde differenziazioni degli ordini rituali, il senso del proprio essere. Ogni forma rituale organizza una porzione disuguale della materia temporale intorno ad un centro Mauritius_in_libris

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stabile, ad un nucleo mitologico che, rinnovandosi nella messa in scena della liturgia, ripetendosi, si conserva intatto nella sua singolare, eterna identità. Ogni rito è un tempo messo in forma, differenziato, eterogeneo rispetto a qualsiasi altro tempo, e perciò con esso incommensurabile. Invece, con una riforma, per esempio, come quella di Clistene, che introduce un calendario costruito matematicamente in modo da assicurare la rotazione di tutte le dieci tribù territoriali nell'amministrazione della città, con un tempo diviso in periodi uguali (dieci pritanie di trentasei giorni ciascuna), s'istituisce un tempo civico che, « contrariamente al tempo religioso, ritmato da feste che tagliano il ciclo dell'anno in fette temporali qualitativamente diverse, e a volte addirittura nettamente opposte, è caratterizzato dalla sua omogeneità. Politicamente - conclude Vernant - tutti i periodi del tempo civico sono equivalenti, intercambiabili. Quello che definisce una pritania non è una particolare qualità temporale, ma la sua omologia in rapporto all'insieme » (Mito, 145). E evidente quanto l'avvento di nozioni di spazio e, soprattutto, di tempo astratto, omogeneo, continuo, sia la riecessaria pre-condizione per la comprensione storica, e quindi per la nascita della coscienza storica e della storia stessa, che non esiste dove non esiste la coscienza storica. Bruno Snell avverte come appunto « la nozione di un tempo continuo e unitario si trovi già in Ecateo », un Milesio del VI-V secolo, precursore di Erodoto. Ecateo nei suoi scritti cerca di mettere in luce il nocciolo di verità effettuale avvolto nell'involucro dei miti e di « ridurre le antiche leggende in un preciso schema cronologico ». « Il continuum temporale in cui egli situa tutti gli eventi si articola in una serie ordinata di generazioni, così come lo spazio unitario della terra circolare si divide per lui in chiare superfici geometriche » (Cultura greca, 222). Erodoto poi, per quanto ancora incapace di cogliere i grandi fenomeni, che costituiscono la trama fondamentale della storia, come la funzione trasformatrice della fondazione di colonie, dello sviluppo mercantile e monetario, della crescita e del rafforzamento di un ceto borghese, e i conseguenti mutamenti nella struttura della polis, tuttavia appare ormai pervaso dallo -spirito dell'illuminismo attico. « Con lui gli dèi non intervengono più nell'accadere terreno, e quello che egli descrive non è più un passato leggendario. E così egli ha la nozione di un tempo unitario che scorre dai primordi fino ai suoi tempi, e l'unica differenza che resta fra i periodi leggendari e il passato più recente è che quelli sono avvolti nella nebbia, mentre questo si trova in piena luce » (ivi, 220-221). Mauritius_in_libris

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Nello stesso Tucidide, come ha mostrato Santo Mazzarino, denunciando i limiti della « comune opposizione fra Zeitaufjassung [concezione del tempo] "ciclica" del mondo classico e Zeitaufjassung "lineare" di Giudei e Cristiani », la nozione di un tempo unitario si determina come idea del tempo rettilineo, la quale « fonda la cronologia sulla generica successione di un avvenimento a un altro, oppure sulla distanza fra avvenimenti concepita come diastema, "intervallo" » (Il pensiero storico classico, I.I, 2, 419, 438).

1.3. Parmenide e la scienza come logica Il posto sempre maggiore che, nei secoli della grande crisi di trasformazione della città per il venir meno della società castale e dell'esistenza religiosa, viene occupando l'astrazione nella mentalità greca, è visibile all'interno della stessa ideologia religiosa. Nella cultura greca primitiva, come del resto in tutte le culture ancor non entrate nella storia, convivevano due distinti ordini di credenze religiose: la religione degli antenati, costituzionalmente domestica, nata dall'esperienza dei rapporti intersoggettivi, e la religione delle forze naturali, scaturita dall'esperienza dell'ambiente fisico. L'estremo particolarismo pluralistico, essenzialmente proprio del culto degli antenati, il quale non può ovviamente che essere diverso da famiglia a famiglia, caratterizzò per un lunghissimo tempo anche il culto delle forze naturali. Incapace di pensare le diverse manifestazioni empiriche come parti di un unico ordine, disperso egli stesso nella frammentaria varietà delle percezioni e delle fantasie, «l'uomo primitivo - dice Fuste! de Coulanges - non aveva ancora l'idea dell'universo » e perciò « immaginò il mondo sensibile come una specie di confusa repubblica, in cui forze rivali si facessero guerra continuamente» (Città, I, 162). Inoltre, ognuna di queste forze, nella cui rappresentazione si proiettavano i sentimenti dell'uomo, veniva sperimentata e vissuta variamente da individui e gruppi diversi in situazioni diverse, ed era perciò trasfigurata in innumerevoli immagini divine, con caratteri e nomi diversi. La religione delle forze naturali non è tuttavia intrinsecamente particolaristica come quella degli antenati. Non solo istituzionalmente non vi fu mai « alcuna legge rigorosa che proibisse al suo culto di propagarsi », come invece vigeva per la religione dei morti, ma ci si cominciò a un certo punto ad accorgere che sotto figurazioni e nomi diversi s·i nascondeva un medesimo divino elemento, rappresentabile in una forma più generale e comune. A poco a Mauritius_in_libris

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poco, le divinità naturali lasciarono il piccolo focolare domestico, cessarono d'essere i numi dell'una o dell'altra famiglia, e abitarono in santuari esterni alle dimore private, in templi sempre più grandi e fastosi, centro di pubblici culti. Nelle città greche dei secoli VII-V il crescere rapidamente d'importanza della religione delle forze naturali rispetto a quella degli antenati, come è documentato dalla fioritura dei magnifici templi dedicati alle grandi divinità comuni, della terra del cielo e del mare, e la sua evoluzione dall'estremo particolarismo della tradizione arcaica ad un sempre più accentuato universalismo costituiscono un altro, rilevante segno dello sviluppo accelerato della funzione generalizzante dell'astrazione. La mentalità greca, attraverso le trasformazioni socio-economicoculturali della città, nel volgere di pochi secoli passava dalla dominante corpulenza della fantasia partecipativa all'egemonia della disemotivizzata rarefazione concettuale. Se è vero, come osserva Snell, che« la logica non penetra mai nella lingua dall'esterno, non ha origine al di fuori della lingua, ma i mezzi per designare i rapporti logici come tali si sviluppano solo poco a poco nella lingua » (Cultura greca, 323), l'evoluzione mentale greca verso l'astratto si esprime, secondo un'indicazione dello stesso Snell, ripresa da Vernant, nell'uso nuovo dell'articolo determinativo. Quando questo comincia ad essere posto dinanzi ad aggettivi di qualità, per es. « /'asciutto » o « il caldo », o dinanzi a infiniti verbali, per es. « il pensare », per renderli sostantivi, s'introduce nel discorso l'astratto e si rende possibile il ragionamento sulle funzioni di cui quelle qualità o azioni consistono. Ci si libera così dal bisogno, proprio del pensiero mitico, di personificare e divinizzare qualità ed azioni, funzioni fisiche e psichiche, ossia di travestirle antropomorficamente per potersele rappresentare e parlarne. Altro indice linguistico, forse il più rilevante, dello sviluppo in corso dell'astrazione, è il ruolo del singolare, che va progressivamente affermandosi. I Greci ancora dell'età omerica, come tutti i soggetti che vivono in un ambiente « selvaggio », erano colpiti più dal movimento degli oggetti che non dalla loro immobile forma: perciò, in apparente contrasto con i principi del globalismo percettivo, coglievano di certe cose i particolari prima che lo schema generale, le parti appunto dotate di una loro reciproca relativa indipendenza dinamica piuttosto che l'intero, la cui unità appare in primo piano solo nella stasi. Si spiega così il fatto, che Snell acutamente registra, del curioso contrasto tra il disegno della figura umana, che usano schizzare i( i Mauritius_in_libris

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nostri bambini », e quello che caratterizza il fregio dei vasi greci della fase geometrica e a cui corrispondono perfettamente le immagini verbali della poesia omerica: mentre « i nostri bambini mettono al centro, come parte principale, il tronco, e ad esso aggiungono il capo, le braccia e le gambe », « alle figure della fase geometrica manca proprio questa parte principale; esse sono così veramente µÉÀEa. xat yvLa., membra con forti muscoli, distinte l'una dall'altra da giunture fortemente accentuate ». « Il disegno greco primitivo coglie la mobilità del corpo umano, il disegno infantile ne rappresenta la compattezza» (Cultura greca, 26-27). Omero, d'altro canto, come non usa alcun vocabolo apposito, al singolare, per intendere il corpo umano vivo, ·ma soltanto, al plurale, vocaboli indicanti parti di esso, quali appunto µÉÀEa. e yvLa, così non usa, per indicare una funzione come il vedere, un verbo generico, ma una molteplicità di verbi diversi, ciascuno dei quali esprime una speciale variazione situazionale della medesima funzione. E questo il carattere proprio del pensiero presso i popoli « primitivi », i quali - ricorda Lévy-Bruhl - « hanno nomi per le varietà e sotto-varietà di una pianta che li interessa, e non hanno nome per la pianta in generale; per le sezioni del corso di un fiume, per le sue svolte e sinuosità, ma non per il fiume in se stesso » (Quaderni, 195). Nella mentalità fondamentalmente partecipativa, a differenza di quella concettuale, la generalità « appartiene solo alla di· mensione affettiva» (ivi, 110): è inconsciamente vissuta, ma non intenzionalmente rappresentata. La generalizzazione, non più come estensione collettiva del vissuto emozionale, ma come cosciente operazione dell'intelletto, nei secoli dopo Omero s'afferma sempre più rapidamente. Certo, non solo Omero ma, più tardi (VIII secolo), ancora Esiodo, secondo il rilievo di Jaeger, « parlano di 'tà ÉO\l'tct [le cose che sono, gli esistenti] come di ciò che esiste nel presente e lo contrappongono a 'tà È.a'O"oµE\la e 'tci 1tpÒ Éé\l'ta, cose che saranno in avvenire e cose che sono state in passato », il che « dimostra che in origine la parola si riferiva alla diretta, tangibile presenza delle cose. Gli Mna di Omero non sono esistiti nel passato e non esisteranno nel futuro. Non escludevano ancora yÉ\IEO"l.ç [generazione] e q>~opci [dissoluzione], come più tardi insegnò Parmenide» (Teologia, 53). Già invece nei Milesii (VII-VI secolo) e successivamente in Eraclito (VI-V secolo) e in Empedocle (V secolo) 'tci ~\l'tct non sono più le cose che attualmente si trovano ad esistere, ma gli esistenti tutti insieme o, come dice Jaeger, « tutto ciò che esiste in natura », vale a dire gli esistenti in generale, compreso il loro continuo avMauritius_in_libris

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vicendarsi nel nascere e nel perire: non soltanto gl'individui di fatto presenti, ma le specie e le forme. Opera qui una doppia astrazione. In primo luogo, si passa dall'idea dell'insieme degl'individui presenti all'idea dell'insieme di tutte le classi d'individui. In secondo luogo, dall'idea della presenza come contemporaneità a ~oi, si passa all'idea della presenza come ambito del presentarsi e dello sparire, come orizzonte del nascere e del perire. Con Parmenide (VI-V secolo) l'astrazione dispiega tutta la sua potenza. Si sostituisce il plurale 't'LÀ.écroq>oç esprime particolarmente l'opposizione alla partecipazione alla vita pratica, cioè agli affari pubblici. Sicché filosofia non vuol dire amore della sapienza. LÀ.écroq>oç designa chi è in relazione con la saggezza come oggetto; questo rapporto consiste nel meditare: non soltanto nell'essere sapienti ma nell'attendere alla saggezza anche con il pensiero » (Storia della Filosofia, I, 221-222). La laicizzazione del sapere, di cui parla Vernant, non è il passaggio dallo « sciamano » al « filosofo », ma semplicemente il passaggio dallo « sciamano » al « sofo », dal vate al maestro. Il « filosofo », indipendentemente dal fatto se davvero sia stato Mauritius_in_libris

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per la prima volta Pitagora a farsi chiamare in tal modo, rappresenta invece colui che separa il pensiero da ogni funzione pratica e lo mette al riparo dalle impazienti istanze di utilizzazione immediata, a cui invece docilmente obbediscono tanto il misterioso « sciamano », divinamente ispirato, quanto il discorsivo « sofo », affidato alla forza ma anche esposto al rischio dell'argomentare in comune. Il « filosofo» si distingue tanto dallo « sciamano » religioso quanto dal laico « sofo », perché egli non pensa per agire, ma agisce il pensiero. Egli esercita la scissione: non vive più la sua individualità immersa in un'universalità sociale, o comunque ambientale, altrettanto immediatamente vissuta; ormai ha messo irrevocabilmente in questione, contrapponendole ambedue, la sua individualità e l'universalità che la inquieta. In questo senso, il primo « filosofo » è, di diritto, Parmenide. Con lui, la dialettica del « sofo » si trasforma nella dialettica del « filosofo »: da mero agonismo, per così dire, pubblicitario diventa metodo scientifico. Di recente il Colli ha richiamato l'attenzione sul fatto che la dialettica nel mondo greco arcaico « nasce sul terreno dell'agonismo » e, in quanto « pratica della discussione, è stata la culla della ragione in generale, della disciplina logica, di ogni raffinatezza discorsiva» (Nascita della filosofia, 75-76). Al limite tra l'incontrastata dominanza dell'esistenza religiosa e l'inizio della sua crisi, quando il seme del pensiero logico entro le .pieghe delle fantasie mitiche comincia a germogliare e irresistibilmente insinuarsi, la mente è affascinata dall'enigma. Etimologicamente, il termine « enigma » indica un parlar per favole, dunque un discorso doppio, ambiguo, che traveste nei significati della narrazione immaginosa ben altri significati. L'enigma, in quanto discorso ambiguo, con un significato apparente ed un altro nascosto, è un discorso ingannevole. Ora, il sapiente è colui che non si lascia ingannare. Perciò, fin quando vi sono dèi, non vi sono sapienti: nessuno infatti, se non vaticinando.ispirato dagli dèi stessi, può evitare d'essere da loro ingannato e risolverne gli enigmi. Non appena però appaiono i sapienti, e gli enigmi vengono risolti, allora gli dèi si dileguano, o per lo meno il divino si ritira dal mondo. Nel primo momento, l'enigma è un modo di parlare degli dèi agli uomini, che non lo comprendono, salvo che non siano dotati, per dono degli dèi medesimi, di poteri divinatori. Attraverso l'enigma così gli dèi si divertono a mortificare gli uomini, umiliandone la presunzione intellettuale con l'inevitabile scacco: perciò,« per i Greci la formulazione di un enigma porta con sé una tremenda carica di ostilità » (ivi, 49). Mauritius_in_libris

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Nel secondo momento, invece, quando sono apparsi 1 sapienti, l'enigma diventa un indovinello, un gioco di destrezza logica: risolverlo è possibile agli uomini, che non siano deliranti vati, ma acutamente ragionanti. Nell'enigma, posto da un uomo a un altro uomo, entra la dialettica, si organizzano cioè i termini del gareggiare logico. Esso è la sfida di un uomo ad un altro, per saggiarne l'acume, e sono aperte ambedue le possibilità, che lo sfidato vinca o perda e, per converso, che lo sfidante perda o vinca. « L'enigma, umanizzandosi, diviene una figura agonistica » (ivi, 78). Più tardi, nell'Atene del V secolo, al « sofo » e al « filosofo » succederà il « sofista », colui che non soltanto è abile in un'arte ed esperto d'una conoscenza, ma fa professione di tale sua abilità od esperienza, non la sfrutta tanto direttamente esercitandola quanto insegnandola, soprattutto a chi può meglio pagargliene il prezzo: l'arte e la conoscenza più ricercate e dai sofisti più coltivate sono l'arte del convincere con la parola e la conoscenza delle regole del ragionamento dialettico che dell'arte della convinzione costituiscono il più formidabile strumento. La dialettica allora si trasformerà in retorica. Da libero e raffinato gioco dell'intelligenza, da agonismo della sapienza, disinteressato, o interessato solo alla gratificante pubblicità della fama, essa diventerà strumento di meno nobili interessi come la potenza economica e il dominio sociale. Da duello lealmente giostrato con le nude e schiette armi della logica, diventerà una guerra spregiudicata, combattuta con tutte le armi psicologiche e tutti gli espedienti extra-logici, soprattutto con !'abilmente manovrata dinamica delle emozioni. « Nella dialettica si lottava per la sapienza: nella retorica si lotta per una sapienza rivolta alla potenza. Sono le passioni degli uomini che devono essere dominate, eccitate, placate ». Con essa la mente umana « rientra nella sfera individuale, corposa, delle passioni e degl'interessi politici » (ivi, 102). Senza dubbio, la retorica sofistica, con il suo nichilismo di fondo, riassunto nell'asserzione di Gorgia che « niente è», e con « la volgarizzazione del primitivo linguaggio dialettico », è del tutto coerente con -la situazione complessiva della città greca, giunta alla conclusione del processo di trasformazione, iniziato nel secolo VIII. Travolto definitivamente ogni residuo di struttura patriarcale e castale, dissolta l'esistenza religiosa, divenute protagoniste della vita sociale le classi, ed in particolare le classi emergenti, i ceti della plebe imborghesita, raggiunta così la democrazia, si afferma per la prima volta lo « Stato » nel senso proprio definito da Hegel, organizzazione del corpo sociale centrata sulla istituzionalizzazione della permanente conflittualità dei suoi membri, sul riconoscimento Mauritius_in_libris

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delle molteplici libertà soggettive particolari come principio di determinazione, attraverso la loro lotta, dell'oggettiva volontà generale. Infine, con la consapevolezza nuova che sono gli uomini, attraverso la loro azione, prodotto e causa di sofferenze, a stabilire l'ordine sociale e istituire le leggi (secondo quanto rivendica Protagora allorché, in evidente polemica contro la sacralità e ritualità delle leggi tradizionali, atttibuite a1Yli dèi e ai loro incomprensibili criteri di valutazione, disse che « l'uomo è misura di tutte le cose »), con la coscienza insomma della storicità delle istituzioni, nasce la storia. La dialettica, divenuta retorica, apparterrà intimamente all'esistenza politica e storica, caratterizzata da un sapere tutto profano e da una mentalità radicalmente laica. Qui è il punto decisivo dell'intero discorso sulla nascita della fi. losofia. E evidente che, a seconda del momento della vicenda del sapere in cui tale nascita viene collocata, si assume, anche se solo implicitamente, un diverso senso della filosofia e della dialettica che la costituisce. Se si fa coincidere la nascita della filosofia con l'avvento dell'esistenza storica, come quando Chatelet dcihiara che « la filosofia è greca; è figlia della città: della città democratica » (Philosophie paienne, 21), la filosofia viene intesa come l'attività pratico-politica, che s'incarna nella figura del « sofista » ed in cui la dialettica sopravvive come retorica. Se invece, con Vernant, si colloca la nascita della filosofia nelle prime fasi della trasformazione della città arcaica, ai tempi del passaggio dal regime monarchico-patriarcale al potere collegiale dei patrizi e della rottura della compatta esclusività del sapere sacrale e iniziatico, e si mette in evidenza « la solidarietà fra la nascita del filosofo e l'avvento del cittadino », nel senso che « alle prime forme di legislazione la Grecia associa il nome dei suoi saggi » e quindi « si vede il filosofo assumere le funzioni che spettavano al re-sacerdote» (Mito, 265), senza dubbio si parla della filosofia nel senso di « sofia », sapienza pratica, abilità ragionata al posto della divinante follia del vate, oppure, nelle forme più alte, disvelamento di una verità che non è del tutto priva di un'ambigua aura di misteriosità religiosa, cui la dialettica serve solo a prestare la veste rituale dell'enigma. Se poi, come fa il Colli, si lega la nascita della filosofia alla crisi della « sofia », intesa questa come illuminazione religiosa ben diversa dalla follia vaticinante, come pensiero ispirato formantesi per immagini e metafore «originarie», secondo la già ricordata Mauritius_in_libris

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idea di Snell, e nella filosofia si vede dunque soltanto il « virgulto presto intristito » di quel precedente e ben « più vitale tronco per cui la tradizione usa il nome di "sapienza" » (Nascita della filosofia, 102), allora la dialettica viene considerata come il segno della caduta della tensione religiosa e conoscitiva e come il surrogarsi ad essa di un semplice gusto agonistico. Lo stesso Parmenide, in questo quadro interpretativo, appare il portatore di una sapienza logica più antica, l'illuminato capace di avvertire la « distruttività della dialettica », la potenzialità nichilistica racchiusa nell'esasperato agonismo, ed opporre al pericolo una legge che « salvaguardi il fondo divino dal quale proveniamo », bloccando la straripante furia della dialettica con la dominanza decisiva dell'affermazione - « è » -, svelata nella sua necessità (ivi, 87-88). In verità, la filosofia nasce nella città, ma non nasce né con il « sofo » né con il « sofista » e nemmeno con il decadere della « sofia » ad agonismo dialettico. La filosofia nasce nel momento culminante della crisi della città, nella vertigine tra due ordini, il religioso e lo storico, l'uno scomparso e l'altro non ancora affacciatosi: nasce con la riflessione che porta alla luce della coscienza la scissione del mondo, in quanto mondo che con l'uomo è ancora naturale e al tempo stesso non lo è più; nasce insomma come « coscienza infelice ». Così « la separazione della natura e della società» che Vernant dice realizzarsi « nelle forme sociali », attraverso la trasformazione della città arcaica (Mito, 265), e il complementare distaccarsi della scienza naturale dal mito, come rileva Kelsen, insieme con « la tendenza a separare la physis dal nomos, la natura dalla società, a contrapporre la scienza alla politica, o almeno a stabilire fra le due un dualismo che era del tutto estraneo al pensiero primitivo » (Società e natura, 354), possono essere riconosciuti come aspetti diversi di un atteggiamento spirituale complessivo, che è quello della « coscienza infelice ». La riflessione, applicando il potere dell'astrazione all'astrazione stessa, produce il nocciolo logico della scissione. Soltanto per questa via si esce dal pensiero primitivo, pre-logico, come immediata partecipazione all'essere delle cose esistenti, e si accede al pensiero razionale come sapere mediato dell'essere; si esce dal soggettivo coinvolgimento vissuto con la natura e con la cultura medesima naturalizzata, e si accede all'oggettiva considerazione della natura e della cultura naturalizzata, con la consapevolezza di compiere un'operazione non naturale, ma culturale. Nel pensiero primitivo, magico e mitico, la scissione non è aperta, perché l'altro rispetto all'individuo, l'universale, è mantenuto nel Mauritius_in_libris

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contatto diretto dell'uomo attraverso una partecipazione emotiva. E il dominio della « categoria affettiva»: entro di esso, secondo LévyBruhl, « la generalità non è propriamente conosciuta, ma piuttosto sentita », ossia « quale che sia la potenza occulta, o soprannaturale, di cui il primitivo suppone o percepisce la presenza o l'azione, appena egli vi presta attenzione, una corrente emozionale più o meno forte riempie la sua coscienza» (Sovrannaturale e natura, 47). Il pensiero logico invece sopprime il rapporto di tipo partecipativo con l'altrò, reprimendo il coinvolgimento emotivo; « rimovendo » la fantasia dell'altro; instaurando con esso una relazione affettivamente neutrale; togliendo addirittura all'altro la sua alterità, e assimilandolo a sé, onde ora meglio s'intende il detto che il pensiero e l'essere son una medesima cosa. L'altro, « rimosso», rimane comunque, inconscio. Perciò la filosofia, come riflessione del pensiero logico su di sé, introduce la scissione: l'altro, occultato, ma non soppresso, nella sua alterità fantastica, emotivamente neutralizzato, è identificato con il pensiero; ma è il pensiero, l'intelligibile universalità, che l'uomo ora vive come altro rispetto alla propria individualità. Perduto il contatto affettivo con l'altro concreto dell'immaginazione e del mito, assimilato l'altro all'astrattezza del pensiero ch'egli pensa, è in sé medesimo che si ritrova lacerato tra questo terribile astratto, graniticamente fondato sulla necessità, e l'irreparabile precarietà del proprio vivere desiderante. « La scissione - annota Hegel in un mirabile passo giovanile è che ognuno ritorna completamente in sé ... , perviene a questa ostinatezza di essere separato dall'universale esistente e tuttavia di essere assoluto, di possedere immediatamente il suo assoluto nel suo sapere. Egli in quanto singolo lascia libero l'universale; ha piena indipendenza in sé, rinuncia alla sua realtà, vale per sé solo nel suo sapere ». Significativamente, questo concetto della scissione qui Hegel lo enuncia, contrapponendolo alla « bella e felice libertà dei greci », in cui « la stessa volontà è il singolo e la stessa è l'universale» (Spirito jenese, 189-190). La scissione dell'individuale e dell'universale, della natura e della cultura, non è peraltro mai una completa, radicale separazione dell'uno e dell'altro momento, ma sempre e soltanto un tendersi al massimo della distanza tra di essi; un'estrema dialettizzazione, non uno spezzarsi della relazione dialettica. Nell'individuale circolano assimilati, ridotti a natura, incalcolabili nutrimenti culturali, prossimi e remoti. Nell'universale fungono irriconoscibili, talvolta solo ostinatamente non riconosciute, forze impulsive e presenze immaginose, e mai l'idea è tanto rigoMauritius_in_libris

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rosamente astratta, da restarne recise tutte le radici affondanti nell'inarrestabile fermentare biologico; mai forse la scienza è tanto pura, da essere del tutto scevra da sopravvivenze mitiche. La scissione dunque non è una semplice operazione logica, ma è la vita !)tessa dell'uomo, nella sua più propria umanità, che si problemiJtizza, diventa cioè «ostacolo» (1tpo~À:riµa) alla sua immediatezza e naturalità. Attraverso la riflessione, infatti, essa si rischiara, nel senso di non diventare totalmente trasparente a se stessa, ma di farsi giorno, distinto e tuttavia inseparabile dalla notte, e, in quanto giorno, progettare d'illuminare la notte e, in quanto notte, ricordare al giorno di non aver potere su di lei. Problematica non sarebbe la vita dell'uomo, e non sarebbe segnata dalla scissione, se fosse tutta giorno, così come non lo sarebbe se fosse tutta notte. La filosofia nacque con Parmenide, perché con lui seppe l'esistenza e la reciproca incomunicabilità delle due vie, quella del « giorno » e quella della « notte ». L'esistenza della scissione, come inseparabilità dei due momenti nella cui tensione dialettica consiste l'umano non appena destato dal sogno del pensiero mitico, influenza in modo decisivo la stessa ricerca storico-filologica sulla Grecia antica. Rovesciando la grande tradizione interpretativa della cultura accademica tedesca del secolo XIX, tutta impegnata, per quanto non senza dubbi e riserve, a celebrare il mondo classico, soprattutto greco, come il regno di una misurante e misurata ragione, e perciò di un'armoniosa bellezza ideale e vissuta, agl'inizi del nostro secolo la cosiddetta scuola di Cambridge comincia ad impiegare le nuove nozioni dell'antropologia e della psicanalisi, nella convinzione che, come è ricordato dal Gianotti, « sogno e veglia, mito e ragione rappresentano, gli uni sul piano individuale e gli altri sul piano collettivo, momenti diversi ma strettamente legati, della rappresentazione del mondo e della reazione agli stimoli che nascono dall'esterno» (Mito e storia, 23). Su questa scia, più tardi, in centri diversi, con vari innesti e con modificazioni anche profonde, si è continuato ed uno studioso come Dodds può finalmente esprimere la nuova consapevolezza in termini storiografici generali: « le nostre possibilità d'intendere il processo storico dipendono dall'abbandono della tesi, sostenuta da Collingwood, come da quasi tutti gli storici, che "gli elementi irrazionali, le forze e le attività cieche dentro di noi, che fanno parte della vita umana, non sono parte del processo storico"» (I Greci e l'irrazionale, 315). Così la filosofia, nata dopo la « sofia », la dissolve, ma non si lascia a sua volta dissolvere dalla « sofistica ». Essa non custodisce alcun mistero religioso od originaria rivelazione, ma nemmeno Mauritius_in_libris

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nutre l'illusione che il problema dell'uomo possa ridursi tutto, e tutto quindi chiarirsi, sul piano dell'azione progettata e degli interessi coscientemente motivati, nella dimensione della « naturale i. conflittualità di una storia risolta in politica, quasi che la storia e la politica stesse fossero categorie eterne dello spirito e non modi temporanei dell'esistenza, nati in un momento del tempo culturale e, presumibilmente, destinati in un altro momento a perire. La filosofia non è né illuminata né illuministica. Come riflessione, produce la scissione, l'insuperabile dialettica del giorno e della notte, l'oscillazione continua tra l'identità e la differenza. Come « coscienza infelice », scissione vissuta, non cessa di esercitare, implacabile verso se stessa, la riflessione. Essa, coltivando la propria infelicità, ha cura dell'uomo: sa che non è possibile illuminare col giorno dell'universale la notte dell'individualità, e che tuttavia quell'universale perderebbe ogni senso, sarebbe una cattiva astrazione, se non si stringesse ai confini della notte, e non ne tentasse le resistenze, e non ne scrutasse gl'immaginosi segni, e non ne sostenesse lo sguardo fascinoso; se, insomma, instancabilmente non provocasse la notte, l'« inconscio», « l'interno della natura », il « puro niente che tutto conserva ». Essa sa di non poter cercare altrove l'identità dell'umano che nella differenza dell'altro uomo, nel giorno dell'altro contro la mia notte e, contro il mio giorno, nella sua notte: « questa notte si vede, quando si fissa negli occhi un uomo - si penetra in una notte che diviene spaventosa; qui ad ognuno sta sospesa di contro la notte del mondo» (Hegel, Spirito jenese, 107).

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2. La «scienza dell'essere» come felicità del contemplare

2.1. L'origine della metafisica: Platone 2.1.1. La ricerca di una logica generale delle misure Nel 338 a.C., sul campo di battaglia di Cheronea, la potenza militare della monarchia macedone spegneva per sempre l'indipendenza delle città greche. Al termine del lungo processo di trasformazione della « città » arcaica, l'idea dello Stato, sia pure nella forma embrionale della « democrazia » in senso ateniese (il diritto riconosciuto a tutti, che non fossero donne, schiavi o stranieri, di partecipare in un regolato agonismo all'esercizio del potere), era entrata nel mondo. Ora già ne usciva, mostrando la sua realizzazione istituzionale nel breve giro di un mezzo secolo logorata dalla stessa sfrenata tensione della sua dinamica conflittuale e dall'impossibilità, dovuta al vizio originario del rissoso municipalismo, di elevarsi ad una dimensione sovra-cittadina. Ne moriva di crepacuore, come vuole una inverificata tradizione, proprio quel retore Isocrate che, secondo un'interpretazione accolta da Snell, aveva per primo espresso con chiarezza « la nuova coscienza del valore dell'uomo », scaturita, « come la filosofia di Socrate e di Platone, dall'illuminismo attico ». Isocrate aveva spiegato che « per la potenza della parola sono sorte le città, le leggi, le arti e i mestieri e, in breve, l'intera civiltà»; aveva posto nella cultura (mXLOEla) il potere di rendere l'uomo superiore; aveva concepito perfino l'appartenenza nazionale come una determinazione della cultura e non della nascita (Cultura greca, 349-351). Mentre però, sempre secondo Snell, Platone avrebbe cercato, « sulle tracce di Socrate, di fondare su nuove basi la fede in una norma posta al di là dell'uomo, in una realtà più alta, e la convinzione che Dio sia la misura di tutte le cose », Isocrate, come i sofisti, avrebbe visto nell'uomo la misura di tutte le cose. In realtà, Platone, il quale aveva vissuto lo straordinario clima

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politico e culturale dell'illuminismo attico e la scandalosa vicenda giudiziaria di Socrate, che ne aveva riassunto le violente contraddizioni in un simbolo tragico, era dominato dal bisogno invincibile di trovare una via d'uscita teoricamente sicura da quel relativismo estremistico di una politicità senza spessore, cui era approdata la pur giusta polemica sofistica contro la società religiosa e castale. La proclamazione che « l'uomo è misura di tutte le cose», semplicisticamente estremizzata, si risolveva nella soppressione del problema stesso della misura, cioè dei criteri di valutazione: l'uomo nell'immediatezza della sua instabile naturalità è la misura; e dunque una misura o un criterio non ci sono, né è possibile che se ne diano. Si detronizzano gli dèi, ma non per questo si conferisce all'uomo il potere di determinare consapevolmente misure, sia pure limitate e provvisorie, funzionanti da sistemi di riferimento per ordinare e organizzare la molteplicità empirica in vista di una prassi tecnicamente ed eticamente efficace. Il problema serio consisteva non solo nel contestare il potere arbitrario degli dèi, ma nell'evitare di schiacciare l'una sull'altro l'unità di misura e il misurabile, di sopprimere la differenza tra il fatto ed il criterio della sua valutazione. L'uomo non può ridursi ad essere, naturalisticamente, altrettante innumerevoli unità di misura, quante sono le sue continue differenze: liberato dalla tutela degli dèi, deve saper lui creare unità di misura relativamente comuni e relativamente stabili. Dire, con i sofisti, che « l'uomo è misura di tutte le cose », equivaleva soltanto a riaffondare il divenire significativo della storia, che or ora si andava scoprendo, nell'impetuoso flusso della natura che, svuotato delle antropomorfiche presenze divine, restava in sé insensato. Per difendere l'umanità dell'uomo dalla prevaricazione religiosa, senza gettarla nella pulviscolare dispersione della mera effettualità, anziché sopprimere la distinzione tra la dimensione effettuale e quella normativa bisogna scoprirne la mediazione o nesso dialettico nell'uomo medesimo, nel faticoso lavoro comune con cui gli uomini costruiscono le relative stabilità della cultura. Si tratta insomma non di negare lo scarto tra il fatto e il valore, tra la natura sempre individuata e differente e l'universale, tra le cose e azioni da misurare e la misura con cui misurarle, ma di cercare nell'ambito stesso dell'umano l'origine della misura. O, se si vuole usare un'espressione irreligiosamente religiosa, si tratta di cercare nell'umano stesso, e non fuori di esso, il divino; che è appunto quella religiosità che fece accusare d'irreligione il Socrate platonico. Chatelet ascrive a significato fondamentale dell'« idealismo » di Mauritius_in_libris

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Platone l'avere stabilito «una volta per sempre che il materialismo (o il realismo) più aggressivo dovrà sempre fare i conti con questo fatto che, in quanto l'uomo pensa e parla il suo pensiero, il sapere ch'egli enuncia non può mai essere ridotto a un semplice rendiconto dell'esperienza singolare e presa allo stato bruto; che parlare è mettersi· a distanza da ciò che si prova, anche solo per poterne dire un gran bene; che tra l'ordine empirico e quello della riflessione si scava il fossato del rifiuto; che pensare non è provare, ma tentare di costruire dei concetti » (Philosophie pa'ienne, 78). Certo, un pensiero rigorosamente materialista, cioè radicalmente critico, non potrebbe non rilevare che lo scarto tra il dato e la misura, tra il fatto e il valore, è uno dei caratteri specifici della cultura; né potrebbe dare altro senso al problema di cercare nell'umano stesso l'origine delle misure, se non quello di compiere analisi sistematiche, sui procedimenti in uso, in situazioni determinate, per costruire i criteri di misura, ossia i valori che, nei limiti in cui vengono mantenuti in vigore, sono oggettivi. L'idealismo platonico invece cercava nell'umano stesso l'origine delle misure, nel senso che le misure, in sé immutabili, fossero originariamente insediate nella mente dell'uomo. La dualità funzionale di misurabile e misura, empirico e ideale, fatto e valore, semplicisticamente negata dai sofisti, contro le arbitrarie regole delle gerarchie castali ideologizzate nelle religioni mitologiche, venne da Platone conservata e integralmente trasferita dal dominio del mito alla competenza della ragione, previa però trasformazione in dualismo strutturale della natura umana. La mente uscita dal mito assume con Platone quell'andamento «metafisico», che diventerà canonico nella speculazione di Aristotele. In verità, il termine « metafisica », da cui deriva poi il corrispondente aggettivo, designa specificamente l'aristotelica « scienza dell'essere in quanto tale », ma non si trova mai usato nei testi di Aristotele. La tradizione vuole che questo nome sia un'invenzione di Andronico da Rodi il quale, nel secolo I a.C., a Roma, impegnato a raccogliere ordinatamente e a fare l'edizione dell'opera aristotelica, fin allora dispersa, non sapendo bene quale titolo concettoso dare ad un gruppo di libri di carattere teorico generale, da lui stesso disposti subito dopo i libri della « fisica », li avrebbe contrassegnati estrinsecamente come « i libri successivi a quelli della fisica » (µE"t'ci "t'CÌ. (j)VO'LXci (~L~À.la]).

La critica più recente invece ha preferito ritenere, come riassume Antonio Russo, che il termine « fosse già in uso nell'antico Peripato », cioè tra gli allievi di Aristotele, e che « in qualche modo lo Mauritius_in_libris

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stesso Aristotele lo avesse embrionalmente preparato con la sua celebre distinzione Xet'tèt cpvcrw [per natura; in sé] e 7tpÒç Tjµ~ comporta la svalutazione della fisica scientifica. Secondo Nietzsche, come i concetti filosofici di « io », « soggetto », « essere », « apparire », « causa », « effetto », « materia », « volere », ecc. sono soltanto delle astrazioni, o semplificazioni intellettuali, mere rappresentazioni di comodo, a cui non corrisponde nulla di reale, così i concetti della fisica scientifica sono soltanto delle « metafore », nel senso che descrivono i « segni » dei fatti naturali, ma non li spiegano: si tratta di un « discorso metaforico », e « la meccanica è una mera semiotica degli effetti» (ivi, afor. 460). In conclusione, « il meccanismo non spiega nulla ». « Non c'è altra causalità che quella della volontà di potenza» (ivi, afor. 658). La « volontà di potenza » viene alla fine pensata da Nietzsche come l'essere del divenire, l'eterno del tempo. Infatti, « la "volontà di potenza" non può essere divenuta» (ivi, afor. 690). L'ipotesi della volontà di potenza si pone così come una « metafisica », nel senso più letterale della parola, come un meta-linguaggio rispetto al linguaggio fisico: il discorso, che in questo linguaggio si svolge, interpreta e valuta i discorsi costruiti con i linguaggi delle scienze della natura - fisica e psicologia naturalistica -, giuMauritius_in_libris

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dicandoli per quel che essi sono, non accesso alla verità dell'essere, neppure dell'essere come senso delle cose universalmente oggettivo, significato, ma interpretazione e valutazione delle cose secondo la « prospettiva» dell'umano corpo vivente, il quale conferisce un senso ad esse in rapporto con il proprio interesse fondamentale, cioè con la pr0pria volontà di potenza. Il puro soggetto epistemico, sostanzialisticamente o trascendentalisticamente o idealisticamente inteso, è per Nietzsche, come s'è accennato, una delle tante astrazioni, o finzioni intellettuali, che vengono scambiate per realtà. Esso può essere usato criticamente solo come un'espressione di comodo, una « semplificazione», per designare la volontà di potenza. « Lo stesso concetto di "soggetto" ... è una semplificazione, per designare la forza che pone, inventa, pensa, distinguendola da ogni singolo porre, inventare, pensare, ecc. » (ivi, afor. 556). Questa forza è la volontà di potenza che non esiste in sé come un'entità sostanziale ma caratterizza la qualità dinamica di un'infinità di centri. Non c'è un unico soggetto epistemico puro, ma una « pluralità » d'impuri soggetti patici, la consistenza di ciascuno dei quali è definita dall'ambito e dal « quantum » della sua volontà di potenza, e la cui variabilità è una funzione della variabilità di questo ambito e di questo « quantum ». «Niente "atomi"-soggetto. La sfera di un soggetto cresce o diminuisce continuamente - il centro del sistema si sposta continuamente; se non può organizzare la massa di cui si è appropriato, si divide in due. D'altra parte esso può trasformare un soggetto più debole, senza distruggerlo, in un suo tributario, formando fino a un certo grado, con esso, una nuova unità. Nessuna "sostanza", piuttosto qualcosa che in sé aspira a rafforzarsi; e che solo indirettamente vuole "conservarsi" (vuole superarsi) » (ivi, afor. 488). Così il corpo vivente, come centro-di-forza. è un soggetto patico, nel senso che è una passione attiva. Perfino il percepire, il proiettare all'esterno » l'« interno » del1'« impressione » è un « comando del corpo » (ivi, afor. 500). Il quale attivo comandare è alimentato dalla forza più forte di tutte le forze, che è la passione più appassionata di tutte le passioni, cioè la volontà di potenza. « La volont$i di potenza non è un essere, né un divenire, ma un pathos - è il fatto elementarissimo. dal ci11ale un divenire, un produrre primamente derivano » (ivi. afor. 649). La paticità del soggetto, il suo essere un centro-di-forza. un « auantum » di volontà di potenza espresso in un'organizzata struttura di dominio. qual è per esempio il rorpo vivente, può suggerire di formulare l'ipotesi generalizzata della volontà di potenza anche in Mauritius_in_libris

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quest'altro modo: « Il soggetto soltanto è dimostrabile: ipotesi che ci siano solo soggetti - che gli "oggetti" siano solo una specie di azione del soggetto sul soggetto ... un modus del soggetto» (Opere, VIII, II, 53). Prima dell'intervento del soggetto, nella sua attiva paticità, noi non possiamo immaginare che un mondo « caotico », a proposito del quale è senza senso parlare di « conoscibilità » e quindi di « comunicabilità » o di « esistenza delle cose »: « la "cosalità" è stata creata da noi. La questione è se non ci possano essere ancora altri modi di creare un tal mondo apparente, e se questo creare, logicizzare, ordinare, falsificare non sia esso stesso la realtà meglio garantita » (iv i). Mentre, da una parte, « i mezzi espressivi del linguaggio non servono per esprimere il "divenire"» (Volontà di potenza, afor. 715), ed« il mondo non è assolutamente un organismo, ma il caos», dall'altra parte « lo sviluppo della "spiritualità" è soltanto un mezzo per la relativa durata dell'organizzazione» (ivi, afor. 711). Il termine « spiritualità », criticamente usato, è una « semplificazione » con la quale si designa la sfera delle operazioni della volontà di potenza del corpo vivente umano, in forza delle quali vengono assicurate « condizioni di conservazione e di potenziamento nei riguardi di strutture complesse di relativa durata della vita nell'ambito del divenire» (ivi, afor. 715), e innanzitutto si designano quelle operazioni con cui « il pensiero trasforma a suo vantaggio il mondo in "cose", in un che di simile a lui stesso» (ivi, 574). Attraverso le operazioni « spirituali », la volontà di potenza del corpo vivente umano interpreta, poiché « l'interpretazione è un mezzo, per diventare signore su qualcosa» (ivi, afor. 643). Si tratta non della verità, ma della potenza: se con il pensiero si trasforma il mondo in rappresentazioni di comodo, « solo in forza del pensiero c'è la non-verità ». Interpretare è scoprire ciò che una cosa « è », ossia il suo senso. Come « è sbagliata l'idea di "una cosa in sé" », così lo è quella di « un "senso in sé" o un "significato in sé" ». « Non c'è nessuno "stato di fatto in sé", ma sempre un senso deve prima esser posto, affinché uno stato di fatto ci sia ». « L'essenza di una cosa è soltanto un'opinione [Meinung] sulla "cosa". O piuttosto dire "questo vale" è il modo proprio per dire "questo è", anzi è l'unico modo ». Interpretante è l'interpretazione stessa, la quale « essendo una delle forme della volontà di potenza esiste (non nel senso di un "essere", ma in quello di un processo, un divenire) come un affetto [una passione] » (ivi, afor. 556). Interpretazione è dunque ogni atto di vita, espressione della volonMauritius_in_libris

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tà di potenza, in forza della quale la « cosa » viene coinvolta nel progetto del vivente, collocata nella sua «prospettiva». L'« essere » della « cosa » dipende dall'interpretazione del vivente, e il suo « senso » non è se non la « valutazione » che questo ne fa in rapporto con il proprio « interesse ». L'orizzonte della coscienza umana non è la verità, e neppure l'oggettività degli oggetti, l'universalità dei significati, disinteressatamente contemplati, secondo le strutture della ragione che, a priori, immutabilmente, costituirebbero le condizioni necessarie della loro possibilità, ma soltanto il valore delle cose, cioè il loro senso, dipendente dalla valutazione che, dal suo interessato punto di vista, il singolo vivente ne fa. « I nostri valori sono interpretati entro le cose. Un senso nell'in-sé non c'è. Non è dunque necessariamente il senso un senso-relazione ed una prospettiva? Ogni senso è volontà di potenza (tutti i sensi-relazione si lasciano risolvere in essa) » (ivi, afor. 590). 7.3.3. I valori nel tempo e il tempo senza senso

I valori delle cose dipendono dalle nostre valutazioni, le quali sono determinate dal nostro interesse vitale, nell'urgenza della decisione pratica. La decisione pratica, a sua volta, dipende dai valori che le nostre valutazioni hanno attribuito alle cose, e che ne costituiscono il senso per noi. Però « tutte le valutazioni sono o proprie o accettate, - queste ultime sono di gran lunga maggiori. Perché le accettiamo? Per paura, vale a dire riteniamo più conveniente che esse siano state anche le nostre - e ci abituiamo a questa finzione, di guisa che essa finisce per essere la nostra natura » (Aurora, afor. 104). Anche l'accettazione delle altrui valutazioni, per paura, è una valutazione dunque, un ritener più conveniente. Ma successivamente Nietzsche giunge a chiarire che valutazioni autentiche non sono quelle dettate dalla paura, dalla « castrazione » della volontà di potenza, ma quelle che sono espressione della volontà di potenza, cioè della libertà. « Quale grado di opposizione debba essere continuamente superato per restare in cima, questa è la misura della libertà, sia per i singoli sia per le società: ossia la libertà determinata come potenza positiva, come volontà di potenza» (Volontà di potenza, afor. 770). La libertà, la lotta per la potenza, caratterizza le valutazioni autentiche e le decisioni che vi corrispondono. La riconduzione dei valori all'autenticità delle valutazioni rende ovviamente insostenibile, come autocontraddittoria, l'idea dei « valori eterni ». Mauritius_in_libris

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Il che significa ritemporalizzare e ristoricizzare sia la pretesa necessità » dei fatti storici, riproblematizzando questi contro il cattivo storicismo, sia le assolutizzazioni metafisiche delle empiriche e transitorie strutture delle società particolari. Il nesso tra queste assolutizzazioni e quella pretesa « necessità », Nietzsche (che al tema ha dedicato soprattutto la seconda delle sue Considerazioni inattuali) Io esprime icasticamente quando ironizza sulla « divinizzazione del necessario », estesa dalla scienza della natura alla scienza della storia, e sul suo risolversi in quell'« ottimismo storico», di cui «la Germania è diventata l'incubatrice », e per il quale « sensi servili e devozione davanti al fatto, - ciò ora si chiama "senso dello Stato"» (Opere, IV, I, 124). Ridotti i valori, anche gli « eterni », alle valutazioni e interpretazioni del vivente, non ci si può non chiedere quale sia il valore del mondo come tale. E non può esservi altra risposta se non questa: se « il mondo è falso », «è "nel flusso", come un diveniente, come una sempre nuovamente spostantesi falsità, che mai si avvicina alla verità, poiché non c'è nessuna verità », allora « il valore del mondo sta nella nostra interpretazione » (Volontà di potenza, afor. 616). Ci si trova così dinanzi alla questione del « nichilismo ». Ad un estremo c'è il « nichilismo » antico, metafisico-religioso: l'essere, l'essere in sé, costituisce il valore; il nostro mondo che non « è », ma « diviene », è solo « apparente » e dunque « senza valore »; l'essere invisibile, in sé, che veramente «è », è il « mondo vero », e ha perciò un « valore assoluto ». Si tratta di un tipico « nichilismo passivo ». All'altro estremo, s'incontra il nuovo nichilismo, un « nichilismo attivo », creativo: il valore è il solo essere delle cose, il loro senso in rapporto alla valutazione che se ne fa; anche in questo caso, il mondo « diviene », ma non « è», dunque è nulla; tuttavia non è affatto senza valore, perché trae il suo valore dalla valutazione stessa che è l'attiva passione della volontà di potenza. Si tratta di un « nichilismo radicale », il quale « ripone il valore delle cose proprio nel fatto che a tale valore non corrisponda né abbia corrisposto nessuna realtà, ma solo un sintomo di forza da parte di chi pone il valore, una semplificazione ai fini della vita » (ivi, afor. 22). t questo un nichilismo appena nascente. Lo stesso Nietzsche confessa: « Che io sia stato un nichilista radicale, me lo son detto solo da poco » (ivi, afor. 25). Intanto. tra i due estremi, è dilagato un « nichilismo intermedio », un « nichilismo psicologico », nato dal crollo del nichilismo tradizionale, cioè delle credenze religiose e metafisiche nel mondo del«

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l'essere in sé, al di là e al di sopra del nostro mondo « apparente ». Si tratta del pensiero della « decadenza»: dopo il trionfo della critica contro il dogmatismo, si resta scoraggiati, poiché non ancora s'intende come proprio il fatto che il mondo non derivi il suo valore dalle categorie della ragione, metafisicamente usate, non fa più dipendere l'azione umana dall'ordine del mondo ma, al contrario, l'ordine del mondo dall'azione umana. E molto interessante considerare l'analisi nietzschiana a questo proposito. Essa si riassume nella frase che « le categorie "fine", "unità", "essere", con cui avevamo introdotto un valore nel mondo, ne vengono da noi nuovamente estratte - e ora il mondo appare senza valore » (ivi, afor. 12). E evidente che la categoria dell'unità corrisponde alla nota dell'universalità, e la categoria dell'essere, cioè dell'essere vero, e quindi della « verità », corrisponde alla nota della necessità: sono le note che caratterizzano l'eterno (le « eterne ed immutabili leggi » dell'essere o dell'essere della ragione!) come fondamento della scienza. Ma Nietzsche ha iniziato la sua analisi considerando come principale la categoria del fine, che egli fa coincidere con il concetto di « senso »: « Il nichilismo ... subentra ... in primo luogo, quando abbiamo cercato in tutto l'accadere un "senso" », immaginando che « si debba raggiungere qualcosa attraverso il processo stesso e poi si capisce che col divenire non si mira a nulla ... Dunque la delusione su un preteso fine del divenire è una causa del nichilismo » (ivi). La categoria del senso, corrispondendo alla categoria del fine, comporta la struttura del tempo: il fine infatti si presenta nella dimensione del futuro. Il tempo è il divenire vissuto, a partire dalla sua progettazione, cioè dal futuro. Il tempo dà forma di vissuto al divenire, e con ciò vi dischiude orizzonti di senso. Avere un senso è un essere nel tempo. Ma non ha alcun senso pensare il tempo nel tempo, e che quindi il tempo abbia un senso. Il divenire, in quanto temporalmente vissuto, è portatore di scopi e di sensi, ma appunto perciò è assurdo pensare che esso, come tale, abbia uno scopo od un senso. Pensare che il divenire abbia un senso varrebbe quanto pensare che il tempo abbia un tempo. L'esistenza - il corpo vivente umano come attiva passione della volontà di potenza - è aspirazione al padroneggiamento del divenire attraverso il tempo. Essa si apre al futuro: assume l'eventuale come propria « possibilità », adotta una « prospettiva », valuta il fine e i mezzi, conferisce senso ai mezzi in funzione del senso finale. L'uomo è « il più astuto degli animali », dispone cioè di un'atMauritius_in_libris

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trezzatura straordinaria che va sotto il nome di « ragione ». Perciò, l'attiva passione della volontà di potenza dell'uomo può esercitarsi nel sottomettere il caos del divenire all'ordine concettuale e, attraverso questo, le cose circostanti alla propria manipolazione. Colli e Montinari, i due benemeriti curatori dell'edizione critica degli scritti di Nietzsche, citano: « Il giudicare stesso è solo questa volontà di potenza ... Valutare l'essere stesso; ma lo stesso valutare è ancora questo essere; e dicendo no, facciamo ancora ciò che siamo» (ivi, afor. 675). Poi commentano: « Alla fine ci troviamo di fronte a una volontà di potenza, che è la valutazione e che è l'essere: quasi un'unificazione mistica, dove la sostanza metafisica, I' "essere", risulta simultaneamente giudizio e volontà, ossia si presenta come razionale e irrazionale al tempo stesso » (Notizie e note, in Nietzsche, Opere, VIII, II, 425). La difficoltà è meno consistente di quanto sembri, purché si eviti di sacmbiare per realtà le astrazioni e le metafore, ottemperando così all'avvertimento di Nietzsche. La volontà di potenza non è altro che la passione fondamentale del corpo vivente, così come la ragione non è altro che il più potente strumento di dominio del corpo vivente dell'uomo. Al centro della filosofia nietzschiana è sempre e soltanto il corpo vivente, a cui la riflessione umana ha accesso attraverso l'esperienza vissuta originaria, che è quella della volontà: dunque al centro della riflessione è sempre e soltanto il corpo vivente che riflette, il corpo vivente umano, il corpo vivente del filosofo Federico Nietzsche innanzitutto. Heidegger riconosce che Nietzsche « ha destinato il "corpo" ad essere ormai il criterio dell'interpretazione del mondo» (Nietzsche, I, 655). Nietzsche non si stanca di ripetere che la ragione non è altro se non uno strumento del corpo vivente umano: la sua funzione non è « "conoscere" ma schematizzare », cioè « soddisfare un nostro bisogno pratico »; « lo sviluppo della ragione » è quell' « ordinare e impacchettare nello schema del simile e dell'uguale, che è il medesimo processo che ogni impressione sensibile elabora », in quanto solo così le cose « diventano per noi calcolabili e manipolabili »; « le cateizorie sono delle "verità" solo nel senso che sono per noi delle condizioni di vita »; perfino « l'impedimento soggettivo a contraddirsi è una necessità biologica: il principio di non contraddizione attesta un'incapacità, non una "verità" » (Volontà di potenza, afor. 515). Se tutto ciò che esiste sono soltanto gl'infiniti centri di forza, il nostro corpo vivente, nel valutare le cose con lo strumento ciella ragione, è esso stesso un centro di forza che si rapporta ad altri: Mauritius_in_libris

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unica differenza è che l'attiva passione della volontà di potenza, la quale caratterizza tutti i centri di forza, nel corpo umano è enormemente potenziata dallo straordinario strumento della ragione. Certo anche dire che la ragione è strumento è una metafora: essa non è una macchina, di cui il corpo si serva, ma è il modo stesso, molto complesso e altamente funzionale, in cui i vari centri di forza organizzati nel corpo umano come struttura di dominio, e le stesse volontà o passioni di ciascuno, stanno in rapporto dinamico tra loro. « La ragione non è un'essenza per sé ma piuttosto uno stato di relazione tra diverse passioni e desideri » (ivi, afor. 387). La volontà di potenza dunque, servendosi della ragione, si esercita come tempo temporalizzante. Il tempo temporalizzato è definito dal nesso diversificazione-identificazione, che si riscontra in qualsiasi processo biologico come per esempio, a livello macroscopico, la diastole-sistole della funzione cardiaca. E questo nesso che impedisce al divenire di disperdersi nell'indifferenza della differenza infinita, e gli permette di raccogliersi in qualche ordine, senza tuttavia cessare di essere divenire. E la struttura dell'« oscillazione», la quale, prima che essere la tecnica per la misura del tempo, è la costituzione elementare del tempo temporalizzato. Ora chi introduce l'oscillazione nel divenire, sottoponendolo alla temporalità, istituendo il tempo temporalizzato, è la volontà di potenza. « Se l'intima essenza dell'essere è la volontà di potenza, se piacere è ogni crescita della potenza, dolore ogni sentimento di non poter resistere, di non poter diventare dominante ... è possibile la volontà senza queste due oscillazioni del sì e del no? Chi sente piacere? ... Chi vuole potenza? Questione assurda, se l'essenza stessa è volontà di potenza e perciò è sentire-piacere e sentire-dolore! » (ivi, afor. 693). L'eterno, il non temporale della ragione, categorie come quelle di unità e di essere, di totalità e di verità, non sono che espedienti con cui il tempo della volontà di potenza, temporalizzando il suo rapporto con gli altri centri-di-forza, lotta per sottomettere al proprio dominio, pur sempre relativo e precario, il divenire e la stessa sua unica legge - il «"grande fanciullo" d'Eraclito, che si chiama Giove o il Caso» (Genealogia della morale, II, § 16). L'eterno dell'astrazione razionale è il vuoto di tempo. Il tempo temporalizzante, non essendo nel tempo, è anch'esso l'eterno, ma in tutt'altro significato: è l'eterno, gravido di tempo, il puntolimite o punto originario del tempo. La ragione è la passione - la volontà di potenza - la quale vuole prendere possesso del suo tempo, sottometterlo al proprio dominio, padroneggiarlo. Mauritius_in_libris

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In un suo tardo frammento, Nietzsche « ricapitola » così il suo pensiero ultimo: « Imprimere sul divenire il carattere dell'essere - questa è la suprema volontà di potenza. / / Doppia falsificazione, da parte dei sensi e da parte dello spirito, per mantenere un mondo dell'essente, del perdurante, dell'equivalente, ecc. // Che tutto ritorna, è l'estremo avvicinamento di un mondo del divenire a quello dell'essere - culmine della riflessione» (ivi, afor. 617). La totalità delle operazioni, con cui i sensi e la ragione, le percezioni e i concetti, come organi di quell'organismo di attiva passione che è la volontà di potenza, stabilizzano l'instabilità, idealmente e realmente, per la rappresentazione e per la manipolazione, codificando il divenire selvaggio della natura nell'ordinata macchina dell'essere, viene conclusivamente pensata nell'idea dell'eterno ritorno. Il mondo non ha, in se stesso, valore. Ciò si esprime con la drammatica proclamazione che Dio è morto, già usata da Hegel per indicare nella narrazione evangelica il simbolo religioso dell'immanenza, e da Nietzsche ripresa invece come simbolo nichilistico. Il fatto che il mondo sia riconosciuto privo di un suo originario valore non getta, secondo Nietzsche, nello scoramento del « nichilismo passivo» e della « decadenza », se si riconosce che, a questo punto, il valore del mondo dipende da noi. Riconoscere nel mondo come nostra prospettiva totale il risultato della totalità delle nostre operazioni d'interpretazione-valutazione, significa interpretarlo e attribuirgli un valore in cui, nella sua forma « più alta », si esprime la nostra volontà di potenza, ossia la passione, che noi siamo, di essere sempre più. Nella Grecia del V e IV sec. a.C., con la nascita della società politica e dell'esistenza storica, di fronte al relativismo sofistico espresso nel detto di Protagora che « l'uomo è misura di tutte le cose», la metafisica si era venuta costituendo, pur senza avere ancora il suo nome, elaborandosi in Platone come logica delle misure assolute, cercate sì entro l'uomo, ma sol perché entro l'uomo essa aveva collocato il divino, l'universale e l'eterno che ne sarebbe l'origine. Nietzsche formula l'« ipotesi » di un principio protagoreo generalizzato: non solo io uomo, ma ogni centro-di-forza, come « quantum » di volontà di potenza, è misura di tutte le cose. Nietzsche va ancora oltre. L'uomo, non solo, come ogni-centrodi-forza, interpretando ciascuna cosa, la valuta secondo il proprio interesse e ne determina così la sempre prospettica e relativa misura, ma interpreta il mondo stesso, cioè la suprema astrazione, Mauritius_in_libris

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come il risultato appunto delle sue operazioni, suscitate dall'interesse della passione e· rese possibili dalla pratica della ragione, e gli attribuisce perciò il valore di « sintomo » della sua volontà di potenza e della potenza della sua volontà. La relatività delle misure nel mondo e l'essere il valore del mondo relativo alla volontà di potenza costituiscono un principio assoluto. La volontà di potenza raggiunge con l'uomo il suo culmine: assolutizzare la relatività. La filosofia di Nietzsche non è né una semplice non-metafisica, né una comune metafisica. 't: la metafisica della non-metafisica. L'idea dell'eterno ritorno è « il culmine della riflessione », perché con essa la metafisica della non metafisica viene tradotta nei termini di quella struttura temporale, che è la struttura propria del suo oggetto. Se, come si è visto, il tempo non è nel tempo, e dunque non ha né una fine né un fine, esso non ha neppure un senso. La temporalizzazione non può conferire al divenire un senso che il tempo stesso temporalizzante non ha. « La durata, con un "per niente", senza meta e senza scopo, è il pensiero più paralizzante ... Noi pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l'esistenza, così com'essa è, senza senso e scopo, ma inesorabilmente ritornante, senza un finale nel nulla: "l'eterno ritorno". Questa è l'estrema forma del nichilismo: il nulla (il "senza senso") eternamente! » (ivi. afor. 55). La temporalizzazione così, attraverso l'oscillazione del « sì » e del « no », assoggetta il divenire alla forma della circolarità, ne rende ripetitivo il differenziarsi, costituisce in esso dei punti di riferimento relativamente stabili, lo trasforma in memoria e prefigurazione, rende temporalizzato il senza tempo e pensabile il senza senso. L'idea dell'eterno ritorno è l'enunciazione che il tempo, come tale, non porta a nulla, ma proprio perciò, perché un tutto non c'è né quindi c'è un tempo del tutto o un tutto del tempo, e il tempo non ha, in sé, alcun senso, tutte le cose, ad una ad una, di momento in momento, possono avere un senso in quanto vengono mantenute disponibili per la nostra interpretazione e per il valore che, di conseguenza, nella nostra prospettiva, noi possiamo attribuire ad esse. Se il tempo avesse un fine, e quindi un senso, e se pertanto il mondo avesse un valore, nessuna cosa potrebbe avere per sé, per la sua particolare esistenza, valore e senso, perché noi da parte nostra saremmo senza alcun potere d'interpretazione e di valutaMauritius_in_libris

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zione su di esse, ed esse, da parte loro, nella loro particolarità, sarebbero da sempre inghiottite e dissolte dal valore del mondo e dal fine del tempo. 7 .3.4. La potenza senza volontà Il nichilismo, radicalizzato, è una liberazione: esso è la riappropriazione completa del volere, e « il volere libera » (Zarathustra, parte II, «Sulle isole beate»). «Il corpo è una grande ragione », di cui « la piccola ragione » lo « "spirito" », è un « piccolo strumento»; il corpo, « non dice io, ma agisce da io »; « dietro i sensi e lo spirito sta il sé », che « domina ed è anche il dominatore dell'io » e, « padrone potente, saggio sconosciuto », « abita il corpo, anzi è il corpo » (ivi, parte I, « Dei disprezzatori del corpo»). Il corpo, la volontà di potenza, il tempo temporalizzante, è l'eterno ritorno: infinite volte nasce e muore, e infinite volte morendo dimentica, e infinite volte nascendo senza passato gioisce del mondo nuovo. Se l'uomo, ri-getta le falsificazioni del « nichilismo passivo », e « riconosce il terribile testo fondamentale homo natura» (Al di là del bene e del male, afor. 230), cioè riconosce di essere il corpo, l'eterno ritorno diventa la possibilità stessa della liberazione. Allora l'uomo « si muta in fanciullo»: « il fanciullo è innocenza e oblio, un nuovo cominciamento e un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo moto, un sacro "sì"» (Zarathustra, parte I, «Delle tre metamorfosi»). L'uomo non è la bestia, il « brutum bestiale » della sconcertante battuta di Heidegger (Nietzsche, Il, 200). Lo esclude esplicitamente Nietzsche stesso: « L'uomo è una corda tesa tra la bestia e il superuomo» (Zarathustra, « Prologo», § 4). L'« homo natura» è il corpo-uomo, il corpo che sente e pensa, immagina e ragiona. Non è né il corpo-bestia, il « bruto bestiale », né ancora il corpo-superamentodell'uomo, il superuomo. La bestia non ha mai cessato di vivere naturalmente; l'uomo non ha mai vissuto naturalmente: « non c'è mai stata finora un'umanità naturale », e solo « dopo lunga lotta l'uomo giunge alla natura: non vi "ritorna" mai» (Volontà di potenza; afor. 120). Paradossalmente, il corpo pienamente umano è il superamento dell'uomo: non è un dato, ma una meta. Perciò l'uomo è solo un « ponte », un « passaggio ». E. evidente che per l'uomo la natura, in quanto meta, che esige la lotta, la fatica e, insomma, una drammatica mediazione, non è l'immediatezza dell'animalesca innocenza e, tanto meno, una bruta bestialità, ma quel re~mo della libertà che, sia pure concepito in modo profondamente diverso, è nella filosofia hegeliana lo « spirito ». Mauritius_in_libris

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L'uomo che è diventato fanciullo, il superuomo, non è più soltanto giocato dal caso, non è più natura come immediata necessità della cultura naturalmente formatasi, ma insieme con esso attivamente gioca. Secondo Heidegger, Nietzsche è coinvolto appieno nella metafisica contro cui combatte. La metafisica, per Heidegger, è la dimenticanza dell'« essere » a vantaggio dell'« ente»: è l'interesse per ciò che è, e l'insensibilità al ciò per cui ciò, che è, è. Mentre nell'antichità, la metafisica si occupa dell'ente, cogliendone nell'evidenza la manifestazione, e in questo facendo consistere la verità, nell'età moderna l'ente viene concepito sulla base della rappresentazione che il soggetto se ne fa. « Il fondamento della verità è il rappresentare, cioè il "pensiero" nel senso dell'ego cogito, cioè del cogito me cogitare» (Nietzsche, Il, 231). S'intende l'ente a partire dall'essenza del soggetto, il quale sperimenta se stesso come appetito e potenza. Nietzsche allora, secondo Heidegger, porterebbe al suo pieno dispiegarsi la metafisica moderna come proclamazione della volontà di potenza del soggetto e come progetto di dominio del soggetto-uomo sugli enti che gli vengono a portata di mano, cioè come « tecnica». L'avvento del superuomo sarebbe nient'altro che « la rigorosa semplificazione di tutte le cose e degli uomini, con l'unico obiettivo dell'incondizionata autorizzazione della potenza alla dominazione sulla terra, attraverso la "macchinazione" delle cose e l'allevamento degli uomini » (ivi, II, 308). Per motivi diversi da Heide~ger, anche Fink ritiene che Nietzsche rimanga « prigioniero della metafisica », dal momento che questi « si muove comunque negli orizzonti dell'essere, nulla, divenire, apparenza, pensiero» (Filosofia di Nietzsche, 201). Solo « nel suo pensiero del "gioco" », Nietzsche lascerebbe forse « dietro a sé il piano ontologico della metafisica » (ivi, 203). « Dove Nietzsche concepisce essere e divenire come gioco, non dipende più dalla metafisica; lì anche la volontà di potenza non ha più il carattere dell'oggettivazione dell'ente per un soggetto che immagina, ma il carattere della creazione apollinea, e, d'altra parte, nell'eterno ritorno dell'uguale viene pensato il tempo-gioco del mondo, che tutto abbraccia, tutto porta e tutto annulla » (ivi, 205). In effetti, se Nietzsche esce dalla metafisica della non-metafisica non è per questo o quel pensiero, neppure per il pensiero del gioco, ma piuttosto per la vita del suo pensiero, la quale non pensa nessuna delle cose che ciascuno dei suoi pensieri pensa. Il pensiero di Nietzsche è il mondo nichilista - invertito. Solo se il mondo non ha, in sé, un valore, le singole cose possono avere un Mauritius_in_libris

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loro valore, attraverso le interpretazioni. Il pensiero di Nietzsche ha un senso, e quindi un valore, solo nella svalutazione di tutti i particolari pensieri in cui si viene esprimendo. Divenire, volontà di potenza, eterno ritorno: ciascuno è un pensiero che viene svalutato nel momento stesso in cui il vivente pensiero che in esso non si ferma lo pensa, venendo da lontano e andando lontano. Come parlare del divenire se il tempo, in cui esso si fa intuibile, è eterno ritorno? E come parlare dell'eterno ritorno, se la volontà temporalizzante è il singolo corpo, il quale non può identificarsi con alcun altro che l'abbia preceduto nel tempo, né si può concepire un altro corpo che nel tempo seguendolo s'identifichi con esso? E come parlare della volontà di potenza se tutti i concetti, e quindi pure il concetto della volontà di potenza, sono astrazioni, cui non corrisponde alcunché di reale? Il gioco del mondo, la metafora con cui, secondo Fink, Nietzsche uscirebbe dalla metafisica, perché sarebbe non una determinazione teorica del mondo, un giudizio sulla sua essenza, ma semplicemente un'espressione della volontà di abbandonarsi ad esso, non comporta a sua volta il riconoscimento della necessità di fatto che il caso costituisce, e quindi il non senso dell'idea della· volontà di potenza, e della volontà stessa di partecipare attivamente ad un gioco dal quale si è giocati? Noi abbiamo qui « interpretato » Nietzsche, leggendo soprattutto i suoi frammenti dell'ultima fase, dove certe posizioni sembrano addirittura rovesciate rispetto alle fasi precedenti. In verità, non il pensiero del gioco libera Nietzsche dalla metafisica, ma il gioco del suo pensiero. Egli, pensando i suoi diversi pensieri, con gli ultimi spesso invertendo i primi, non ne pensa in effetti nessuno, perché pensandoli pensa altro. Li mette in gioco e gioca con essi, e valutandoli li svaluta, pensandoli li dissolve, affermandoli li nega. Attraverso tutti questi pensieri egli pensa che essi, e lui stesso che li pensa, non sono se non giochi del caso: non della volontà di potenza, ma della potenza senza volontà, che è l'unica. Il terribile e difficile pensiero che Nietzsche, vivendo l'intera vita del suo pensiero, tenta di pensare fino in fondo, e che non può mai essere oggettivato, che va sempre pensato da capo e più a fondo, è che i suoi pensieri non sono se non giochi, anche se per lui tragicamente seri, « verità fatte di sangue ». Ma non aveva forse Plotino deriso l'uomo, « il quale non abbia capito come, anche nelle lacrime - pur quelle piante seriamente -, egli in definitiva non fa che giocare », stando nel gioco però soltanto come un « giocattolo »? La quale immagine del gioco, simbolo non, Mauritius_in_libris

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soggettivisticamente, come per Kant e per Schiller, della « libertà», ma della necessità senza senso della presenza dell'uomo nel mondo, del suo « essere in gioco » e « giocato », sarà ripresa da Heidegger, Fink, Gadamer. L'intera vita del pensiero, essa soltanto è pensiero, il continuo pensare passando attraverso i pensieri, detti o comunque dicibili, senza decidersi in nessuno di essi, anzi continuamente lottando per evitarne le impaccianti lusinghe, per ancora liberamente esplorare. A questo punto, la metafisica, come enunciazione definita e comunicabile sulla realtà, anche a semplice titolo d'ipotesi interpretativa, non solo è contestata, ma rimane dissolta. Il caso, cioè nulla, è tutto: il suo senso è la completa mancanza di senso, il tempo vuoto. L'unico luogo del senso è il tempo del pensiero, vissuto: l'intera vita del corpo, impensata. Pensarla, è tra-passare ogni pensiero che si pensi: sempre comunicabile questo, essa mai. « La mia "filosofia", se ho il diritto di chiamare così ciò che mi tormenta fin dentro le radici del mio essere, non è più comunicabile » (Lettera a Overbeck, del 2 luglio 1885, in: Carteggio Nietzsche-Burkhardt, 69).

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8.1. L'appello ai « fatti puri » 8.1.1. La «reazione idealistica contro la scienza» Sul tema del tempo e del suo rapporto con l'eterno si gioca la tragica ambiguità dello spirito borghese negli ultimi decenni del secolo XIX e nei primi del XX, mentre l'esistenza storica, nella cultura europea o di derivazione europea, è così potentemente in espansione da riflettersi nella stessa intonazione storicistica del dominio ideologico. Da una parte, la razionalità tecnologico-economica, l'esaltante prospettiva di un illimitato sviluppo del potere umano sulla natura (cui corrisponde, per lo più inconfessata, l'arrogante sicurezza dell'illimitata conservazione del dominio sui molti da parte dei pochi che il potere sulla natura effettivamente detengono), è portata ad estendere l'eterno dell'oggettività conoscitiva, l'astratta non-temporalità degli enunciati « scientifici », ai valori del mondo borghese, assunti sempre nell'ultima delle loro rapidamente succedentisi versioni, e a proiettarne nel futuro la creduta stabilità temporale che nel passato prossimo è sempre meno riscontrabile. Si diffonde perciò un re-azionario attivismo « futuristico ». Dall'altra parte, la stessa enorme accelerazione del tempo storico e il sempre più rovinoso crescere della contraddizione insieme con lo sviluppo, mettono in crisi permanente tutti i valori, non solo quelli metafisici preborghesi, ma anche i razionalistico-illuministici e gli spiritualistico-romantici, non solo le « idee trascendenti », ma anche la « natura umana » e lo « spirito » e qualsiasi per quanto aggiornata versione degli « eterni valori ~ borghesi. L'angoscioso furore nichilistico, che se ne genera, è esemplarmente testimoniato dall'« espressionismo». Con la crisi del meccanicismo ed il sempre più evidente carattere probabilistico delle leggi fisiche, con l'evoluzionismo bio-

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logico e la psicologia dell'inconscio, con la teoria della struttura produttiva e della lotta di classe come principio dell'analisi sociologica e dell'interpretazione storiografica, le grandi categorie della razionalità scientifica sono anch'esse investite da mutamenti profondi. La filosofia si trova stretta nella morsa delle domande che pongono, da una parte, la contraddizione sociale storicamente sviluppatasi, con il suo carico di implicite questioni preliminari sul significato dell'essere sociale dell'uomo, e, dall'altra parte, la scissione propria dell'umanità dell'uomo, ormai rigorosamente definita, come s'è vista, nel razionalismo hegeliano. Essa è portata a confondere in un'unica difficoltà la contraddizione storica e la scissione costitutiva, ed a considerare quest'unica difficoltà come una falsa apparenza, un antico e sempre rinnovato errore teorico, che la metafisica aveva voluto ma non saputo sopprimere, e che la scienza positiva lascia sopravvivere perché non è in grado neppure di avvertirne la disturbante presenza nell'immagine che l'uomo si fa di se stesso e del suo rapporto con il mondo. La filosofia finisce così, nella maggior parte dei casi significativi, per polemizzare enfaticamente contro la vecchia metafisica e per « reagire idealisticamente contro la scienza » (come Antonio Aliotta nel titolo di un suo libro del 1912 con efficacia riassume). 8.1.2. La riduzione del tempo alla storia: Croce La polemica antimetafisica chiama direttamente in causa quel concetto di « esperienza », e « empiria », che a cominciare da Dilthey, come s'è visto, viene messo in questione nella polemica antiempiristica e antipositivistica. Benedetto Croce (1866-1952) considera la metafisica una pseudofilosofia, non scienza ma sentimento travestito da concetto e mitologia inconfessata, e quindi anche, ibridamente, immaginazione travestita da pensiero: in breve, essa « è il tentativo di una filosofia che, a dispetto della critica kantiana, pretende di costruirsi senza l'esperienza » (Terze pagine sparse, I, 148). Il Croce, come Dilthey, Husserl, Bergson, vuole ricondurre la filosofia ai « fatti » autentici, cioè ai « fatti puri, non alterati e intellettualizzati, a raggiungere i quali si richiede uno sforzo grandissimo: bisogna spogliarsi di ogni pregiudizio volgare, non lasciarsi distrarre da nessuna seduzione, rompere le associazioni che si sono formate nella pratica della vita, scendere nelle profondità del reale» (Cultura e vita morale, 54-55). Così i « concetti veri » si pensano solo « secondo quella trascendenza, che è insieMauritius_in_libris

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me immanenza (e si dice, perciò, trascendentalismo) » (Logica, 32). I « fatti puri », cioè la vita vissuta dall'interno della sua concretezza, pura da astrazioni praticistiche e utilitarie, o da pregiudizi schematici di tipo intellettualistico, sono analizzabili trascendentalmente e rendono perciò possibile una dimostrazione dello « spirito », radicata nella « certezza della coscienza ». « La deduzione, per giusta che sia, non può riuscire convincente, se non quando faccia tutt'uno con l'osservazione di fatto, che non è poi altro che la certezza della coscienza: quando cioè la deduzione sia insieme induzione» (ivi, 213). · Il tempo si riduce alla storia. La storia è il divenire attivo, creativo, libero: è Io spirito. La storia, in altri termini, è I'« essenza » che si temporalizza nel suo molteplice « esistere ». Così, Io spirito è l'immediata, originaria, unità della coscienza e del processo: « coscienza che nell'unità ·dello spirito germina di continuo sull'azione» (Teoria e storia della storiografia, 3). L'immediatezza del nesso di pensiero e azione definisce la « contemporaneità ». Il presente consiste nell'agire di cui ho immediatamente coscienza come del mio « esistere ». La sua storicità comporta che esso comprenda tutto ciò, a cui ancora l'azione in atto è in qualche modo interessata. II passato non è veramente passato, «morto», ridotto a nulla, fin quando rimane ad esso legato l'« interesse » della vita, nella sua attualità di azione immediatamente saputa. Anche il futuro si risolve nel presente, perché l'azione, nel cui proiettarsi innanzi consiste il futuro, è autentica, e quindi è il presente, solo in quanto è immediatamente saputa dalla coscienza. Per il Croce, insomma, la logica della storia spiega la temporalità. L'eterno differenziarsi dell'essenziale unità nella molteplicità delle esistenze temporali, è l'eterno movimento della vita, ossia la storia. II Croce rifiuta la metafisica, ma respingendo al limite del discorso razionale, come un alone irrazionalistico, il principio della realtà storica, riducendolo ali'« irrequietezza della vitalità», alla « Unruhe [irrequietezza] della realtà e del pensiero », per cui conclude che « la Dialettica nasce dal movimento », anziché spiegare dialetticamente come il movimento si produca (Indagini su Hegel, 31 e 60). Per Io « spiritualismo assoluto » crociano, conoscenza è Io spirito che si cala in se stesso, nel suo vero essere, e concependo il suo essere Io vive, e vivendolo concepisce il suo essere, « la storia calda e fluente, che il naturalista raffredda e solidifica » (Logica, 243).

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8.1.3. Il tempo e l'« esperienza integrale»: Bergson Anziché, come il Croce, nell'esperienza che lo spirito ha di sé in quanto oggettivato nella storia, Bergson (1859-1941) cerca di sorprendere il movimento originario della vita nell'esperienza che lo spirito ha di sé nella natura stessa riappropriantesi della propria soggettività. Egli perciò ammonisce a spogliarsi degli schemi intellettualistici per cercare nella « profondità » di noi stessi quella origine comune alla materia e alla intelligenza, che è la vita nella sua inesauribile attività creatrice. Per le vecchie metafisiche « la realtà, come la verità, sarebbe integralmente data nell'eternità » (Oeuvres, 794). Esse, incapaci di concepire altro che l'essere come l'opposto del nulla, l'ordine come l'opposto del disordine, e nella impossibilità di concepire veramente, perché è inconcepibile, il passaggio dal nulla all'essere, come dal disordine all'ordine, sono « inclini a dotare l'essere vero di un'esistenza logica, piuttosto che psicologica o fisica », a « porre l'essere, che è al fondo di tutto, nell'eterno come vi si pone la logica » (ivi, 729). La metafisica vera si fonda, invece, secondo Bergson, sul tempo. Al di sotto del tempo discontinuo, « spazializzato », della conoscenza fisica, corrispondente al movimento altrettanto discontinuo, che a quel tempo si commisura attraverso le operazioni di analisi e di astrazione, proprie dell'intelletto, e simili alla tecnica cinematografica di rompere l'ininterrotto flusso unitario del divenire in una molteplicità d'immagini statiche, funge un tempo non artificiale, ma effettivo, continuo, senza principio né fine, « durata reale », « tempo invenzione », slancio d'inesauribile energia, da cui tutto sprizza ed in cui tutto ricade senza perdersi, caduta della materia e recupero della memoria. Perciò « la vita reale è un accrescimento continuo dell'universo» (ivi, 785): è l'« evoluzione creatrice ». Mentre l'intelligenza, che sta alla base della scienza naturale, « parte ordinariamente dall'immobile, e ricostruisce bene o male il movimento con delle immobilità giustapposte », l'intuizione « parte dal movimento, lo pone o piuttosto lo appercepisce come la realtà stessa, e non vede nell'immobilità che un momento astratto, un'istantanea presa dal nostro spirito sulla mobilità ». « L'intuizione, avvinta a una durata che è accrescimento, vi percepisce una continuità ininterrotta d'imprevedibile novità; essa vede, essa sa che lo spirito trae da se stesso più di quanto abbia, che la spiritualità consiste proprio in ciò e che la realtà, impregnata di spirito, è creazione» (ivi, 1275). Così, la continuità temporale, Mauritius_in_libris

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quale si coglie nella riflessione sul profondo del nostro vissuto, viene da Bergson estesa dall'esperienza spirituale al concetto generale della realtà, in forza del fatto che l'intuizione può aiutarci a penetrare l'unità e continuità profonda del movimento in cui le cose fuori di noi consistono, e che è il loro vero ed « inesprimibile » senso. L'intuizione è « la simpatia, con la quale ci si traspone all'interno di un oggetto per coincidere con ciò che esso ha di unico e perciò di inesprimibile » (ivi, 1395). Bergson critica la presuntuosa « intuizione » che, nella vecchia metafisica, « pretende di tras,..,ortarsi d'un balzo nell'eterno », mentre in effetti si limita a « sostituire agli astratti concetti dell'intelligenza un concetto unico che tutti li riassume, e che è per conseguenza sempre lo stesso, comunque lo si chiami: la Sostanza, l'Io, l'Idea, la Volontà» (ivi, 1272). Ma la polemica di Bergson si rivolge non solo contro la vecchia metafisica dell'essere, bensì pure contro la metafisica della ragione, non solo contro l'« idealismo platonico», ma anche contro il « trascendentalismo kantiano », perché questo, pur avendo riportato le « idee » di quello « di cielo in terra », pur avendole cioè ridotte a « rapporti », non meno di quello tuttavia lascia « calare ogni esperienza possibile in forme· preesistenti » (ivi, 1249). Tuttavia, sostenere con Bergson che un'« esistenza», concepita come «cambiamento senza cose che cambiano, senza suooorto », « non cessa di essere presente a se stessa, perché la durata reale implica la persistenza del passato nel presente e la continuità indivisibile di uno svolgimento» (ivi, 1381), significa ancora una volta trasformare un'esperienza, quella del movimento, in un concetto astratto, praticamente utile, e pretendere poi di assumere questo concetto, al di là dei limiti del suo uso pratico, come un'idea totalizzante, esplicativa dell'intera realtà. La « durata reale » si affianca anch'essa alla « sostanza », all'« io», all'« idea», alla « volontà » delle metafisiche deprecate. Il « tempo » vissuto viene trasformato nell'idea immobile del tempo, di nuovo « platonicamente » identificata con « il fondo comune del pensiero e della natura». L'intuizione ber)Zsoniana presume anch'essa, insomma, di « trasportarsi d'un balzo nell'eterno ». Bergson designa spesso con il nome di « metafisica » l'esperienza autentica, depurata degli schemi pratici. Però pretende anche, trasvalutando questa esperienza in concetto universale. di farne il principio della realtà, enunciato di una nuova « metafisica » come conoscenza dell'essere in auanto tale. Insomma. egli da una parte tenta di opporre alle metafisiche dell'eterno l'esperienza del tempo, quindi alle pretese scienze di essenze immutabilmente dicibili Mauritius_in_libris

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la comprensione del senso vissuto come indicibilità del movimento profondo e di una interiorità senza scansioni e alle dottrine della contemplazione o della rappresentazione il progetto di un'attiva partecipazione simpatetka. Dall'altra parte però innalza a generalizzazione « metafisica » dell'esperienza quella stessa esperienza non generalizzabile, a cui prima ha ridotto la « metafisica ». Bergson stesso dichiara: « La metafisica non ha nulla di comune con una generalizzazione dell'esperienza, e nondimeno essa potrebbe definirsi l'esperienza integrale» (ivi, 1432). Il tempo, concepito da Bergson, non è la temporalizzazione, in cui è radicato l'apparire, ma l'essenza stessa dell'essere che, incessantemente trasformandosi, eterno conserva la propria unità. Attraverso « l'intuizione della nostra durata », « noi possiamo dilatarci indefinitamente » e « trascendere noi stessi », da un lato verso « una durata sempre più sparpagliata » e, « al limite verso il puro omogeneo, la pura ripetizione, con cui definiremo la materialità », dall'altro lato verso « una durata che si tende, si concentra, s'intensifica sempre più», cioè,« al limite, l'eternità »(ivi, 1419). Il fascino esercitato dalla filosofia bergsoniana si deve al fatto che essa sembra consentire un ragionato accordo tra principio dell'evoluzione e metafisica dell'essere.

8.2. Analitica esistenziale e senso dell'essere in Heidegger 8.2.1. L'affezione originaria Heidegger (1889-1976) storicizza la scissione costitutiva dell 'uomo, identificandola con la contraddizione storicamente determinatasi nel seno dell'esistenza storica e, contemporaneamente, antologizza la storicità della contraddizione, cercando di comprendere la stessa storicità come un momento della storia dell'essere. « Ciò che Marx partendo da Hegel ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come l'alienazione dell'uomo, affonda le sue radici nella mancanza di patria dell'uomo moderno. Questa si produce, e ciò in virtù del destino dell'essere, nella forma della metafisica, che la consolida e nello stesso tempo la occulta, come mancanza di patria. Marx, in quanto esperisce l'alienazione, raggiunge una dimensione essenziale della storia: è perciò che la concezione marxista della storia si pone al di sopra di ogni altro modo d'intendere la storia » (Lettera sull'umanismo, 105). E qui efficacemente riassunto il tema della contraddizione storicamente Mauritius_in_libris

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determinata dell'esistenza storica; della sua interpretazione come perdita del senso dell'essere da parte dell'uomo; del suo riconoscimento come un modo dell'esplicarsi dell'essere stesso, e quindi come « dimensione essenziale » della storia essenziale dell'essere, che non cessa di esser l'esplicazione dell'essere neanche quando consiste in quella dimenticanza dell'essere, la cui forma filosofica è la metafisica. Contro l'intellettualismo ed il praticismo delle metafisiche tradizionali e delle filosofie che privilegiano, senza alcuna fondazione critica, l'immediata operatività delle scienze positive, Heidegger, non meno che Dilthey, Husserl, Bergson e Croce, avverte il bisogno di un'esperienza colta, in qualche modo, nella sua concretezza originaria. Kant, considerando il dato dell'osservazione interna non meno « fenomenico » del dato dell'osservazione esterna, aveva impedito qualsiasi privilegiamento dell'introspezione. Opponendo poi alla duplice empiricità dell'introspezione e dell'osservazione esterna !'a-priorità, cioè l'assolutezza logica di condizione formale suprema, dell'auto-coscienza o « io penso », egli aveva indicato' nell'analisi trascendentale il metodo proprio di una scienza dell'esperienza nella sua originarietà. Quest'originario è il soggetto della scienza, il soggetto epistemico, la struttura fondativa dell'oggettività degli oggetti. Si tratta dell'« io» nella sua neutralità, « fuori» del mondo e della storia. Se però il bisogno fondamentale è di capire la storicità della contraddizione dell'esistenza storica, ontologizzando la storicità stessa della storia, allora l'originario dell'esperienza non può essere cercato « fuori » del mondo e della storia, né può essere ristretto esclusivamente alle forme costitutive dell'oggettività degli oggetti. L'originario dell'esperienza è dunque, per Heidegger, l'origine dei sensi vissuti, di « comprensibili » non ridotti ad oggetti, ma carichi di soggettività ambientalmente coinvolta e intimamente storica. Si tratta qui dell'« esistenza » come essenziale passione del mondo e della storia. L'originario è il soggetto dell'affezione, il

soggetto patico. Sarebbe impossibile, « dopo aver infranto il fenomeno originario dell'essere-nel-mondo, cercar di gettare un ponte tra i due suoi tronconi, il soggetto isolato e il "mondo" ». Se all'originario umano, inteso non come un astratto « fuori », ma come un concreto « dentro », un trovarsi strutturalmente, a priori, ambientato. si dà perciò il nome di « Esser-ci », e se qualsiasi senso d'essere di qualcosa è radicato in quest'originario, non solo una scienza delMauritius_in_libris

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l'originario è possibile grazie all'a-priorità delle sue strutture, ma la stessa ricerca del senso dell'essere è metodologicamente condizionata dal riconoscimento che « c'è l' "a priori" della costituzione d'essere dell'Esserci in quanto Cura», in quanto cioè affezione originaria (Essere e tempo, § 43 a). Per chi, di·chiara significativamente Heidegger, abbia « imparato da Husserl il senso dell' "empiria" filosofica genuina », « l' "apriorismo" è il metodo di ogni filosofia scientifica che comprenda se stessa » (ivi, 524). L'Esserci non è, come ogni . altro ente, un conoscibile come oggetto, un « che cosa », ma la soggettività dell'esistere, un « Chi ». Le sue strutture non sono le « categorie », in cui consiste il soggetto epistemico e con cui si accede all'ente nel senso di un semplice « che cosa », ma sono gli « esistenziali » (ivi, § 9). L'« analitica esistenziale » muove dall'interno dell'esistenza che si vive nella sua « quotidianità » e « medietà ». L'esistenza originaria non è l'« io», ma l'io si vive nell'esistenza insieme con il « mondo». Esistere è un originario comprendere il proprio essere in una « pre-comprensione », cioè attraverso i sensi vissuti con cui le cose sono sempre già coinvolte nella vita dell'Esserci, così come vi sono coinvolte le vite di altri Esserci, che a loro volta la coinvolgono. Esistere è « essere-nel-mondo », « essere-presso », « essere-con». La caratterizzazione più propria della paticità del soggetto è la « situazione emotiva». Essa « apre l'Esserci nel suo esser-gettato », nel suo originario trovarsi ad essere, ed « apre l'essere-nel-mondo nella sua totalità ». Rivela infine che « l'affettività è un elemento costitutivo dell'apertura dell'Esserci al mondo » (ivi, § 29). L'originario dell'esperienza è la soggettività patica, l'affettività dell'esistenza, in cui l'io, le cose, gli altri uomini, sono sempre già inclusi come vissuti, « pre-compresi » nell'inestricabilità dei loro scambievoli coinvolgimenti. Nella « quotidianità », l'esistenza la si esiste: si esiste wn il proprio io, con il mondo in cui si sta, e con gli altri uomini con cui si hanno commerci di vita. Cancellare il « si », attingere il « se-stesse », personalizzarsi, significa che l'uomo cessa d'identificarsi con il proprio io astrattamente separato, si assume come l'esistenza stessa, « si decide » ad essa. L'esistenza allora, nella sua « autenticità », non più dispersa nell'impersonalità del « quotidiano », diventa « la più solitaria delle solitudini » perché, portando tutto in sé, il mondo e gli altri uomini, non ha oltre di sé che la possibilità del suo essere, e quindi dell'essere, e insieme la possibilità del contrario, il nulla. L'esistenza, come affezione, Cura, si assume nella sua « autenticità » quando non si distrae, come nella « quotidianità », dall'affrontare la più Mauritius_in_libris

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propria e personalizzante « possibilità », la sua finitudine, il suo « essere-per-la-morte », ma si raccoglie nel modo del « sempremio », dell'« ipseità », che non sta nel dire « io-io », bensì nel1'« essere » in prima persona il proprio essere, nell'« isolamento originario della decisione tacita e votata all'angoscia» (ivi, § 64). La «più solitaria delle solitudini » non è « dove e quando l'uomo solamente si ritira, solamente si mette in disparte e si occupa del suo "io"», « ma piuttosto là e nel momento in cui egli non è che interamente se stesso; quando egli sta nei rapporti più essenziali del suo esserci storico nel seno dell'essente nella sua totalità », « prima e oltre ogni distinzione di io dal tu, e di io e tu dal noi » (Nietzsche, I, 275). I « sentimenti fondamentali » sono i modi della « situazione emotiva », e il loro « rivelarsi è il fondamento storicizzantesi del nostro esistere» (Che cosa è la metafisica?, 82). Il «sentimento» dell'« angoscia », in particolare, pone l'uomo alla presenza del nulla. Esistere « autenticamente » è problematizzarsi, mettere in questione l'essere proprio, e l'essere stesso, contrapponendogli la possibilità del nulla. Ma il nulla, in se stesso e non come mera negazione logica, è inconcepibile perché, appena concepito, è non più « nulla», ma qualche cosa. Dunque parlare del nulla in termini di analisi teorica non sarebbe possibile, se non precedesse «un'esperienza fondamentale del nulla » (ivi, 80). Questa avviene appunto nel sentimento dell'angoscia, quando «ci si sente oppressi », e « tutte le cose, l'essere nella sua totalità, e noi stessi, siamo come inabissati in una specie d'indifferenza »: appena questa si dilegua, ci accorgiamo che « ciò per cui eravamo angosciati "in realtà" era proprio ... nulla ». Attraverso l'esperienza del nulla, ci rendiamo conto che « essere presenti significa tenersi fermi all'interno del nulla », « trascendere l'essente nella sua totalità » (ivi, 92). Certo, se il nulla si presenta nel sentimento dell'angoscia, prima di qualsiasi analisi e concettualizzazione, si deve ammettere che « il nulla è l'origine della negazione e non viceversa » (ivi, 96). Cosl lo stesso « autoprodursi nel quale si attua l'esistenza » risulta radicato nel terreno non dell'intelligenza epistemica, ma della « situazione emotiva » ossia della paticità. La paticità del soggetto è il luogo della metafisica autentica. « Il superamento dell'essere si attua nell'essenza dell'essere dell'uomo. Questo superamento non è che la metafisica» (ivi, 104). La ragione stessa è radicata nell'affezione, e perciò essa è « sensibile », finita, sempre trascendentesi oltre di sé. Ciò comporta la sua strutturale temporalità. La fondamentale affettività dell'esistenza, la Cura, quando attraverso la « decisione » si scopre nella sua « autenticità » e, nella « più solitaria delle solitudini », impegna Mauritius_in_libris

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interamente l'uomo, non può essere vissuta se non come originaria temporalità. « La temporalità si rivela come il senso della Cura autentica » (Essere e tempo, § 65). 8.2.2. Il tempo dell'esistenza e la storia dell'essere Assumere la propria possibilità implica, nella « situazione emotiva », il sentimento del futuro. Il pro-tendersi, l'oltre-passarsi, il pro-gettarsi comportano che l'esistere sia strutturalmente un volgersi-innanzi-verso, un guardare a qualcosa che ha da avvenire, dunque un disporsi nella prospettiva futurale. Il futuro è « il senso primario dell'esistenzialità »: « il progettarsi-in-avanti sull' "invista-di-se-stesso" » è un « progettarsi che si fonda sull'avvenire » (ivi, § 65). Il passato, a sua volta, appartiene alla struttura dell'esistenzialità, poiché l'Esserci è il sempre-già-gettato nel mondo. Il presente, infine, è' costitutivo dell'esistenza perché l'esser-gettato è il semprestar-presso « l'utilizzabile e la semplice-presenza » degli enti, di cui « ci si prende cura ». Futuro, passato e presente qui non sono indici del passare dcl tempo e di un passare dell'ente nel tempo, per cui qualcosa cessa di essere o comincia ad essere, come nella nozione ordinaria del tempo, ma sono modi di « sentirsi» dell'esistenza, l'esperienza originaria che l'esistenza ha della sua esistenzialità, del suo essere come uno stare fuori di sé. « La temporalità non "è" assolutamente un ente. Essa non è, ma si temporalizza ». Essa è « l'originario "fuori di sé", in sé e per sé ». In greco, il «fuori di sé» viene detto l'Éxo-'tct'tLXé'V, l'« estatico »: perciò i tre modi della temporalità, futuro, passato e presente, possono chiamarsi le sue « estasi ». Il tempo della « Cura autentica » è la temporalità originaria, ed ha il carattere del « finito ». Il tempo, invece, ordinariamente inteso, che « temporalizza » nell'inautentico della quotidianità, non è originario ma deriva dall'originario, ed ha il carattere dell'« infinito »: « il carattere estatico della temporalità originaria » qui si riduce « livellato in una serie di "ora" senza inizio e senza fine ». Poiché l'Esserci, esercitandosi nel suo essere, come Cura di esso, è un pro-gettarsi in vista di sé quale essere-nel-mondo, e sempre già si trova presso altri enti che gli vengono incontro nel mondo, in questo attuarsi l'Esserci « fa uso » di sé, del suo tempo, si prende cura dell'ambiente e, calcolando il suo tempo, gestisce il rapporto nel tempo con gli enti semplicemente-presenti e ne organizza l'utilizzabilità. « L'ente intramondano diventa così accesMauritius_in_libris

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sibile come "essente nel tempo". La determinazione propria dell'ente intramondano costituisce l'intratemporalità », la quale è « la base per l'elaborazione del concetto ordinario e tradizionale del tempo » (ivi, § 66). D'altra parte, se l'Esserci è l'originario temporalizzarsi attraverso le « estasi » del tempo senza tempo, ed è, in quanto esistenza, non nel tempo, ma il tempo, non si può dire che l'Esserci percorra un cammino che si estende dalla nascita alla morte. « Al contrario, l'Esserci estende se stesso in modo tale che il suo stesso essere risulta costituito dall'estensione. Il "fra" che congiunge la nascita con la morte getta le sue radici nell'essere stesso dell'Esserci » (ivi, § 72). Questo « autoestendersi » è lo « storicizzarsi » dell'Esserci. Se ne conclude che l'Esserci « non è "temporale" perché "sta nella storia", ma che, al contrario, esiste e può esistere storicamente soltanto perché è temporale nel fondamento del suo essere ». Il che non esclude che l'Esserci possa esser detto « temporale » anche nel senso di essere « nel tempo »: ma, come s'è detto, l'intratemporalità, non meno della storicità, deriva dalla temporalità originaria, e sulla base di questa appunto si sviluppano tutte le connessioni tra storicità e intratemporalità. Se l'Esserci è uscita da sé, problematizzazione del proprio es· sere, trascendenza di sé verso l'essere che esso non è, l'Esserci coinvolge l'essere. Il tempo originario, attraverso il quale l'Esserci temporalizzando esce da sé, è anche l'accesso all'essere. « L'esistenza dell'uomo storico significa esser posto come il varco in cui la strapotenza dell'essere apparendo irrompe, affinché questo medesimo varco s'infranga alla fine sull'essere » (Introduzione alla metafisica, 170). A partire « dall'interno della "concretezza" dell'esistenza effettivamente gettata », l'analitica esistenziale mostra la temporalità, dalla quale viene temporalizzato originariamente lo « spirito » come orizzonte mondano della storia intramondana. La temporalità originaria, che da un lato temporalizza lo spirito e la storia intramondana, dall'altro, lato è l'apertura dell'essere. Se la cerniera tra l'essere e l'ente intramondano è la temporalità dell'Esserci, il nesso di essere e tempo non ha nulla a che vedere con il dualismo tipico della metafisica, secondo cui la storia è « realizzazione temporale d'idee e valori intemporali » sulla base della « divisione del mondo in una regione sensibile e sottomessa al cambiamento ed una regione soprasensibile e immutabile » (Satz vom Grund, 159-160). L'essere non è altro che la storia, e la storia perciò non è, come per il Croce, lo spirito. ma aopunto l'essere, che nello spirito viene esperito come « potenza del presente Mauritius_in_libris

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e della persistenza pura » ma non si risolve in esso. La fugacità dell'intra-temporale, attraverso la temporalità originaria, lascia intravvedere quel che, fuggendo con il fuggire di tutte le cose, appunto per questo non fugge mai, ma è. « Il fugace è l'improvviso, che solo in apparenza contraddice a ciò che è fisso, ossia al durevole » (ivi). La storia non è la storia «umana», intra-temporalmente delimitata, né la storia dello « spirito », logicamente definibile. « La storia [ Geschichte] è il dispensarsi [ Geschick] dell'essere attraverso il suo ritirarsi [Entzug] » (ivi, 120). L'essere si nasconde nel suo apparire. L'essere non può esser detto. Il dicibile è sempre un ente. L'essere è fatum, latinamente « il detto » come « parola detta », non come qualcosa, un oggetto, che venga « detto con la parola ». L'essere è il « gioco », il « senza ragione », perché è « medesimezza dell'essere e della ragione», è « fondamento» (Grund) che, « come senza fondo [Abgrund] gioca quel gioco, il quale, come destino [Geschick] ci fa avere l'essere e la ragione [Grund] »(ivi, 188). Heidegger mette così l'essere al riparo tanto dai discorsi anti-metafisici, quanto dai discorsi metafisici. Se ogni dire è l'essere che in qualche modo « si dispensa », assumere l'essere a oggetto del dire è impossibile. Il pensiero metafisico, il quale pretende di parlare dell'essere, in effetti non parla mai altro che dell'ente, scambiando l'ente per l'essere. Esso è la greca 't'ÉX'111'J ( « techne » = « saper « saper fabbricare »), cioè il saper progettamettere in opera » re, al di là delle cose esistenti, la ·loro modificazione, saper dunque sottomettere l'essente e in esso determinare l'essere. Perciò la « techne » è « l'attività violenta del sapere » (Introduzione alla metafisica, 166 e 172). Per Heidegger, dunque, «la metafisica è ... il destino necessario dell'Occidente e la premessa alla sua dominazione planetaria» (Saggi e discorsi, 50), e la nietzschiana filosofia della volontà di potenza, come s'è a suo tempo a·ccennato, è l'avvio al compimento della metafisica. Ormai, « dal punto di vista della storia dell'essere » non può esser pensato che « l'oltrepassamento della metafisica » (ivi). Il pensiero non violento, non tecnicamente orientato, non deve parlare dell'essere, perché ancora una volta non farebbe che costruire qualche ente più o meno adeguatamente strumentale al dominio, ma deve limitarsi a pazientemente cercare, dovunque l'essere si dispensi, a cominciare dalla parola poetica, le tracce dell'essere. « La poesia è fondazione dell'essere attraverso la parola » e « fonda la storia »: la « poeticità » vuol dire che « la · realtà umana, in quanto fondata, non è un merito, ma un dono »

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(Holderlin, 245). Mentre il pensiero metafisico, pretendendo di dire l'essere come un oggetto concettuale, lo perde, la parola poetica, come dispensarsi dell'essere, lo conserva ·attraverso il non dirlo. « La parola del pensiero dimorerebbe tranquilla nella sua essenza, se divenisse incapace di dire ciò che deve rimanere non detto » (Pensiero e poesia, 53). 8.2.3. Il senso come comprensione e l'autodissoluzione dell'analitica esistenziale Nell'analisi esistenziale, l'esistenza stessa, movendosi nell'interno del suo vissuto di fenomeno originario, attraverso la scoperta delle sue apriorità strutturali, diventa saputa. Essa allora soprattutto sa che, per comprendere il senso dell'essere, di cui il suo essere stesso consiste, non deve fuorviarsi in discorsi « metafisici », dell'essere cioè non deve parlare ma tacere. Metafisica, come rapporto con l'essere, è solo « il superamento dell'essere » che si attua nell'esperienza affettiva, qual è l'angoscia. L'essere è indicibile, perché rimane sempre « impensato». Ad esso tutti i pensieri veramente pensati alludono, senza pensarlo, cioè senza tenerlo come « oggetto » dinanzi: in questo caso sarebbe un ente, e non l'essere. Resta confermata la definizione che del « senso » ha elaborato l'analitica esistenziale: « "senso" significa ciò in cui la comprensibilità di qualcosa si mantiene senza venire in luce esplicitamente e tematicamente » (Essere e tempo, § 65). Dell'essere appunto non si può mai pretendere di possedere intellettualisticamente un significato « oggettivo », ma si può soltanto, esistendo, viverne il « senso ». Il « senso » caratterizza a fondo la soggettività patica, l'esistere come coinvolgimento dell'uomo nell'ambiente e dell'ambiente nell'uomo, esperienza dell'unità originaria interno-esterno, ossia dell'affettività integrale. Le strutture esistenziali della soggettività patica, per esempio l'« autenticità», sono le sue «possibilità », nel cui ambito l'esistenza movendosi « progetta», non nel senso di una programmazione tematica; « comprende», non nel senso di una conoscenza tematica; « interpreta », nel senso di « elaborare le possibilità progettate » (ivi, § 32). Il « senso » dunque, come il mantenersi di qualcosa nella comprensione dell'Esserci che la « progetta », che in rapporto con essa cioè si muove secondo le possibilità che egli stesso ha di rapportarvisi, non è una proprietà di ciò che viene compreso, ma una struttura di chi comprende. Solo l'Esserci perciò «ha » senso: di Mauritius_in_libris

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esso cioè è appropriato dire che è « fornito di senso [sinnvoll] » o « sfornito di senso [sinnlos] ». Di qualsiasi altro ente si deve invece dire che è semplicemente « senza senso [unsinnig] » (ivi). In conclusione, mentre la scienza tratta, secondo dimostrazioni rigorose, « oggetti» perfettamente comunicabili e « senza senso », il « senso » invece è il vissuto, il mantenersi non comunicabilmente comprensibile di un ente da parte di un Esserci, che lo ha coinvolto nel proprio « progetto ». Così chiarita la nozione di « senso », ne deriva che, se « la temporalità è il senso della Cura autentica », e « l'Esserci è siffatto che, essendo, comprende qualcosa come l'essere», la stessa comprensione dell'essere da parte dell'Esserci è il tempo. Perciò « nel fenomeno del tempo si radica la problematica centrale di ogni ontologia» (ivi, § 5). Il tempo è il senso vissuto in cui si esiste l'essere nei modi dell'esistenza. Come dell'essere che si esiste nell'esistenza si può parlare, senza parlare dell'esistenza, ma parlando proprio - tematicamente dell'essere? Per questa difficoltà insuperabile, come Heidegger stesso dichiara, la seconda sezione di Essere e tempo « fu lasciata in sospeso» (Lettera sull'umanismo, 92). Non resta che oltrepassare la « scientificità » della filosofia come analitica dell'esistenza e lasciare che l'essere venga mantenuto comprensibile « senza venire in luce esplicitamente e tematicamente »: che il senso dell'essere sia vissuto tacitamente nell'esperienza del pensiero. L'essere non si può conoscerlo, pensandolo tematicamente e parlandone, come un « oggetto » di scienza. Lo si può solo sperimentare nel pensare e nel parlare, attenti a non turbare l'ombroso silenzio del suo «senso», che con la vita viene vissuto. Il senso vissuto dell'essere nei modi dell'esistenza è il tempo, e con esso la storicità. L'essere non si può investigare tematicamente, ma il pensiero in cui Io si può sperimentare è, innanzitutto, il pensiero che pensa il tempo e la storia. Perdò, come è stato appropriatamente osservato, dopo Essere e tempo (1927), « l'impostazione stessa del pensiero di Heidegger si muta nel misurarsi con le forze che strutturano la storia: la questione del senso dell'essere non viene più concepita come tema di una pura scienza; ... questo interrogare deve d'ora in poi essere sviluopato da quella concrezione storica a cui contribuiscono anche politica, arte, poesia. Così il "senso" dell'essere - il fondamento da cui derivano molteplici significati di essere e le categorie e gli esistenziali relaMauritius_in_libris

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tivi - diviene la "verità" dell'essere, che è fondamento solo come accadere non fondato, perché senza fondo, che vuole essere concepito nella sua storica concretezza» (Poggeler, Philosophie und Politik bei Heidegger, 22-23). In quanto dell'essere non può darsi che un senso vissuto, e il senso vissuto non può essere che « un accadere fondato, senza fondo», diversamente da quel che sarebbe un fondamento « oggettivo », fondato in una « scienza », il senso dell'essere diviene il fatto della storia nella sua vissuta verità di esser per noi l'apparire in cui l'essere «è». L'apparire, da questo punto di vista, è la storia dell'essere, e la stessa attuale contraddizione storica, in cui si conclude il pensiero metafisico dell'Occidente come volontà di potenza e dimenticanza dell'essere, ne è un momento, « destinato » dal « dispensarsi » dell'essere. In questo modo però, tolto il fondamento fondato, ossia la possibilità dell'analitica esistenziale di fondarsi criticamente scoprendo il fondo della propria scientificità, ne vengono rimessi in questione e definitivamente dissolti i risultati ed il metodo. Per proclamare che l'essere è l'impensato vissuto, Heidegger ricopre quel che Nietzsche, senza proclamarlo, aveva scoperto: che l'impensato vissuto è il corpo vivente, il « sé »; e che, contrariamente al comune sentire, esso non è l'ombra oscura dell'« io», ma l'« io» è la sua ombra opacamente lucida. Con l'autodissoluzione dell'analitica heideggeriana, si estingue l'« idealismo » in quel ristretto e rigoroso senso, in cui Heidegger lo accetta, e che consiste nel principio che « l'essere non è esplicabile mediante l'ente, ma che, rispetto ad ogni ente, è il "trascendentale" » (Essere e tempo, § 43 a). Si tratta dell'idealismo « fenomenologico ». In nome di questo principio, Heidegger ha compiuto la temeraria impresa di sottoporre al trattamento metodologico trascendentale ciò che costitutivamente è la negazione del trascendentale, l'empirica corporeità del corpo nella sua empirica relazione con il mondo ambiente, sia fisico che culturale, e di sostituire questa trascendentalizzata empiria a quello stesso « io » che, nella fenomenologia di Husserl, è il « luogo » e la garanzia critica di ogni operazione trascendentale. Heidegger ha sostituito alla trascendentalità delle « categorie » quella degli « esistenziali » per trattare secondo il prineipio del1'idealismo· trascendentale non la soggettività epistemica, bensì quella patica, ma con ciò ha contraddittoriamente supposto una paticità ideale, una affettività « fuori » del corpo, come « luogo » e garanzia critica dell'analisi « scientifica » della filosofia. Mauritius_in_libris

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La « necessità » e la conseguente « scientificità » dell'analisi trascendentale, in Kant, poggiano sul fatto che l'epistemicità del soggetto esamina se stessa, le sue proprie strutture, e queste sono per essa logicamente a priori. La « scientificità » trascendentale dell'analisi fenomenologica, in Husserl, poggia sul fatto che la « riduzione » di tutti gli « oggetti » possibili a « fenomeni », « visioni d'essenze » dell'« io », consente di restituire alla riflessione del1'« io» le strutture medesime della sua ideale necessità, le quali sono per lui logicamente a priori. La paticità invece è radicalmente empirica, priva di universali a-priorità, perché non essa medesima può costruire la scienza di sé, ma altro - il logico. Kant, nella II edizione della Critica della ragione pura, come Heidegger gli rimproverava, aveva rinunciato al concetto della ragione come « ragione sensibile », e aveva definitivamente collocato l'origine della temporalità, non più nell'immaginazione, ma nell'intelletto. In verità, la ragione sensibile, l'affettività originaria, è incompatibile con l'analisi trascendentale e con il progetto di una filosofia trascendentalmente « scientifica ». Una filosofia trascendentale è, sia pure in versione « critica », una metafisica, mentre la ragione sensibile, la corporeità, è interamente empirica. Chi voglia elaborare la filosofia ·come scienza a priori « critica », e quindi come metafisica della ragione, non può concepire se non una ragione pura intelligibile, sistema di strutture epistemiche necessarie. Questa è la scelta alla fine coerentemente compiuta da Kant. Chi invece è deciso a prendere spregiudicatamente in esame la ragione come corpo, soggettività patica, deve abbandonare l'ultima illusione metafisica, la pretesa di fondare trascendentalmente una filosofia « scientifica ». Qualsiasi studio trascendentale della ragione, la quale in ultima analisi è sempre e soltanto « sensibile », manca di quell'universalità e necessità, nel cui nome essa vorrebbe legittimare la propria « scientificità ». Heidegger, in effetti, nella sua analitica esistenziale non esamina gli a-priori universali e necessari dell'esistenza, ma semplicemente la particolare e contingente esistenza vissuta in una fase della civiltà occidentale, nell'epoca dell'esistenza storica ripristinata, e dilagante ad estensione planetaria per l'immane forza propulsiva del capitalismo industriale, quando la conoscenza è dominata dalla logica tecnologica, dalla volontà di potenza che riduce il pensiero a tecnica, e la prassi è dominata dalla logica della riduzione di tutti i rapporti umani alla forma impersonale del merMauritius_in_libris

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cato e della massificazione del mercato quale espressione del consumare per produrre. Tra l'inautenticità dello stare con gli altri e l'angosciosa solitudine dinanzi al nulla, propria dell'esisenza· autentica, nell'analitica heideggeriana viene descritta la vita umana vissuta in una particolare situazione storica, nella quale un'omogenizzante riduzione economica del dominio e la sua tendenza totalitaria, servita dalla manipolazione « pubblicitaria » della gente, riducono il corpo a « macchina desiderante» nell\miformità della serie o nella trasgressione ossessiva. Heidegger tuttavia presenta questa sua descrizione empirica come scienza, trascendentalmente conseguita, di universali e necessarie strutture a priori della ragione sensibile. « La sua ontologia », scrive Lukacs, « è un elevare all'ontologico la condizione sociale universalmente manipolata in un'epoca di alto sviluppo capitalistico» (Ontologia dell'essere sociale, I, 65). La paticità certo è autocomprensione, « senso » vissuto. Il « senso » vissuto però, come proprio Heidegger ha messo in evidenza, è irriducibilmente diverso dall'« oggetto» saputo della scienza. L'autodissoluzione dell'analitica heideggeriana, consumatasi dopo Essere e tempo, era dunque il destino segnato dal vizio stesso della sua origine. Husserl, da parte sua, alla fine della vita, interamente spesa per l'elaborazione di una fenomenologia come scienza trascendentale, drammaticamente riconosce che si tratta di un'impresa impossibile: « La filosofia come scienza, come una scienza seria, rigorosa, anzi apodittica - il sogno è finito » (Crisi, 540).

8.3. Merleau-Ponty: il corpo-soggetto e !'a-priori empirico Si rimette in gioco la nozione di « empiria ». L'empiria dell'antiempirismo trascendentalistico e fenomenologico è solo il ribaltamento simmetrico dell'empiria dell'empirismo. La prima è costituita di particolarità, conoscibili a posteriori; la seconda, di universalità, conoscibili a priori. L'una però è incapace di fondare una vera scienza empirica; l'altra di evitare che una metafisica « critica » della ragione sensibile sia contraddittoria. L'errore capitale, nella nozione trascendentale e fenomenologica dell'empiria, è la convinzione dell'intrinseca coappartenenza dell'a-priori e dell'universale. Questo errore è legato alla sintomatica dimenticanza del corpo naturale e della natura corporea, dietro a cui si nasconde l'incaMauritius_in_libris

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pacità di affrontare, pur acutamente avvertendolo, il problema di fondo della metafisica moderna da Cartesio in poi, cioè la questione del rapporto tra l'anima e il corpo. Perciò, com'è stato notato, « non si trovano in Essere e tempo di Heidegger trenta righe sul problema della percezione, e non se ne trovano neppure dieci su quello del corpo». Lo stesso Sartre, che pure compie, nell'Essere e il niente, «uno studio sistematico sulla corporeità come modalità fondamentale dell'essere-al-mondo », non riesce a vedere nella percezione che il semplice presentarsi della cosa « chiaramente spiegata davanti a noi senza equivoco e senza mistero». Quanto al corpo, concepitolo come l'essente « nientificato » dalla coscienza, ridotto cioè da essere in sé ad immagine, egli non può distinguerlo, nel suo modo di apparire, dal mondo intero; anche se poi descrive la corporeità come incorporante nella sua effettività il niente della coscienza (De W aelhens, in: Merleau-Ponty, Struttura del comportamento, 6-11). Va aggiunto che Sartre, in ultima analisi, riduce il corpo a luogo dell'impotenza: sia l'impotenza del soggetto a soddisfare il bisogno di rapporti inter-soggettivi, perché ciascuno come corpo è solo un oggetto per l'altro, come l'altro lo è per lui, onde non possono esservi modalità erotiche se non il sadismo e il masochismo, e « gli altri sono l'inferno »; sia l'impotenza della coscienza ad esser coscienza, esperienza vissuta di oggetti, com'essa medesima paradossalmente sperimenta quando la ribellione del corporeo la vince, per esempio nella « nausea ». Merleau-Ponty (1908-1961) ha incisivamente contribuito a rivendicare l'autenticità dell'empiria, chiarendone il nesso con l'a priori. Questo non è una forma ordinatrice universale, da cui ogni atto empirico venga reso significativo in quanto da essa strutturato nel proprio particolare contenuto, e che d'altronde possa essere conosciuta mediante l'astrazione trascendentale da tale contenuto, ma è la stessa intima, originaria e singolare sensatezza di un atto di empiria. Nella percezione la forma « è l'apparizione stessa del mondo e non la sua condizione di possibilità, è la nascita di una norma e non si realizza secondo una norma, è l'identità dell'esterno e dell'interno e non la proiezione dell'interno nell'esterno » (Fenomenologia della percezione, 105). Così concepita, la forma dell'esperienza vissuta è il suo stesso senso. La sua a-priorità significa solo che l'unità dell'esperienza vissuta non è il risultato di una costruzione pezzo per pezzo, per meccanica associazione, ma è il sempre nuovo, originale organizzarsi delle molteplici dinamiche psichiche, in gioco nel campo della vita soggettiva, cosl da rendere comprensibile al soggetto, in modo non esplicito e non Mauritius_in_libris

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tematico, il suo rapporto puntuale con il mondo, secondo il singolare e irripetibile punto di vista del momento. Pertanto, l'unità dell'esperienza non è neppure ricostruibile, pezzo per pezzo, in una rappresentazione intellettuale, ossia non è conoscibile a posteriori. Merleau-Ponty precisa: « Se si prende come oggetto di analisi la coscienza principiante, ci si accorge che è impossibile applicarle la celebre distinzione della forma a priori e del contenuto empirico. Ridotto a ciò che ha d'incontestabile, !'a-priori è ciò che non può essere concepito parte per parte, e dev'essere pensato d'un sol colpo come un'essenza indecomponibile, mentre all'opposto l'aposteriori designa ciò che si può costruire davanti al pensiero pezzo per pezzo e mediante una composizione di parti l'un l'altra esterna » (Struttura del comportamento, 216). Qualsiasi rapporto di esperienza con il mondo si attua in una forma tale che le cose coinvoltevi vengono comprese, e la comprensione che il soggetto ne ha è il loro senso, vissuto. Si tratta di una comprensione affettiva, profonda, coinvolgente l'intero mondo dell'uomo, il cui « incontro con la cosa, rivelato dalla percezione, è un episodio della sua vita e non interessa affatto la natura propria della cosa » (ivi, 340). Una tale comprensione, inanalizzabile, è radicalmente diversa dalla conoscenza oggettiva: appunto perché la sua forma è il senso di qualche cosa, il suo venir compresa, e non altro, essa non è oggettivamente conoscibile. Se la forma, come senso, è il mantenersi di qualche cosa nella comprensibilità, essa non è una cosa da conoscere, ma un'esperienza originaria di cose, un rapporto con esse, che non può concepirsi come il risultato di più o meno complesse mediazioni culturali conoscitive, ma le « precede ». Perciò, è a priori. Il senso di una cosa non è vissuto soltanto come sentimento nostro della cosa, presenza di essa alla nostra coscienza, ma anche e fondamentalmente come inconscio comportamento della nostra organizzazione corporea nel rapporto con la cosa. Il senso ha, inscindibilmente, una dimensione ideale e una dimensione reale. La stabilizzazione del senso di una cosa è la costituzione, insieme, di una «struttura dell'esistenza » e di una « struttura del comportamento». Un senso così concepito suppone un soggetto «ambiguo », il corpo come corpo vivente e, insieme, come corpo vissuto in prima persona, il cosiddetto « corpo proprio ». « Il corpo non è un oggetto», come « la coscienza che io ne ho non è un pensiero », cioè un'idea astratta, scomponibile e ricomponibile. Ma « io sono il mio corpo», e « reciprocamente il mio corpo è un soggetto naturale, come uno schizzo provvisorio del mio essere totale» (Fenomenologia della percezione, 271). Il senso, in ulMauritius_in_libris

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tima analisi, è la comprensione di qualche cosa, se per comprensione s'intendono il comportamento reale ed il sentimento cosciente in cui si esprime l'intenzione vitale, il « progetto », di un corpo pensante nei riguardi di una cosa. Allora, il mondo stesso è pensabile come « unità primordiale di tutte le nostre esperienze all'orizzonte della nostra vita e il termine utile di tutti i nostri progetti », e « non è più il dispiegarsi visibile di un Pensiero costituente, né una fortuita messa insieme di parti, né l'operazione di un Pensiero sovrano su di una materia indifferente, ma la patria di ogni razionalità » (ivi, 549). Questo significa che in nessuna eccezione, né come essere, né come forma, il senso trascende l'esperienza, e che al contrario esso è il trascendersi del corpo pensante nel progetto, con cui la cosa stessa, al di là del suo essere, viene trascesa nella sua possibilità di valere per la vita del soggetto. Perciò il tempo, heideggerianamente inteso, come rottura del proprio essere immediato, come messa a distanza di sé da sé, progettazione delle proprie possibilità e delle possibilità delle cose in rapporto a sé, « trascendenza » in cui consiste l'esistere, è il senso dell'essere dell'uomo come luogo del senso. « Tempo e senso non fanno che una sola cosa. La soggettività non è l'identità immobile con sé: ad essa, come al tempo, è essenziale, per essere soggettività, di aprirsi ad un Altro e di uscire da sé» (ivi, 544). Proprio per questo, però, contro Heidegger, per il quale, come si è ricordato, la ragione « dev'essere sensibile in sé », MerleauPonty ritiene che « non mi è solo essenziale avere un corpo, ma anche avere questo corpo qui » e « non è solo la nozione del corpo che, attraverso quella del presente, è legata a quella del oer sé, ma l'esistenza effettiva del mio corpo è indispensabile a quella della mia "coscienza"» (ivi, 550). Il concetto di empiria risulta, in conclusione, completamente rovesciato rispetto a quello di cui Hegel dispone. Ne deriva la vistosa differenza tra Hegel e Merleau-Ponty nella considerazione dell'estrema soggettività del vissuto. Hegel concepisce, e giustamente esclude dall'ambito del sapere, l'empiria come « moltitudine di percezioni di cambiamenti successivi o di oggetti giustapposti,· e non connessione necessaria ». Egli perciò non può riporre il senso che nella coscienza logicamente strutturata, a cui appartengono sentimenti, intuizioni, desideri, il patico insomma, in quanto anch'essi logicamente strutturati; e non può non concluderne che il residuo indicibile, estremamente soggettivo, dell'esperienza sia semplicemente un'accidentalità, senza senso. La struttura logica è « inconscia », ma appunto è l'inMauritius_in_libris

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conscia azione dell'universale nella formazione della coscienza, in cui soltanto esso trova espressione. ~ vero che la logica inconscia, come s'è visto, è in ultima analisi l'intersoggettività originaria, nella quale i corpi eroticamente rapportandosi compiono « non in modo naturale » il « salto » dalla natura allo spirito. Ma, proprio perché l'empirico viene ancora inteso come empiristica « giustapposizione » di pezzi di soggettività, separati dalla concreta organicità dell'intero, e quindi « astratti », il sentimento della soggettività, in quanto non riconducibile all'organicità e dicibilità dell'universale non può non apparire a Hegel come un pezzo isolato, astratto, senza senso, un accidente senza realtà. Merleau-Ponty porta, invece, a maturazione il concetto dell'empiria come la comprensione affettiva originaria che il soggetto umano ha del mondo proprio, nel progettare il quale si attua come esistenza. L'empiria, in quanto « ambigua», cioè inconscio strutturarsi del comportamento e coscienza di una struttura rappresentata, è lo « schizzo » originario dell'intera esistenza, entro il cui orizzonte germina lo stesso pensiero riflessivo, logico-scientifico, con i significati oggettivi che esso comporta. Perciò nell'ambigua unità originaria, nel nesso inconscio-coscienza del percepire, si scopre la scaturigine stessa del senso: proprio l'indicibile sentimento della soggettività è la pregnanza del senso. Hegel si trova in difficoltà dinanzi al vissuto estremamente soggettivo che, essendo spoglio di significati oggettivi, non può che apparirgli senza senso. Merleau-Ponty, però, non si trova in minore difficoltà di fronte al problema del passaggio dal senso vissuto, in cui « I' "io penso" può essere come allucinato dai propri oggetti », alla « pura dialettica di soggetto e oggetto, che riduce la cosa nel suo spessore sensibile ad una rete di significati ». Se il passaggio non comporta « l'esplicitazione di una "condizione di possibilità" eterna », cioè kantianamente « fuori » del tempo, ma invece « fa apparire una nuova struttura di coscienza», un nuovo senso vissuto, la nuova forma in cui questo consiste « offre all'analisi intellettuale un punto di appoggio, ma nello stesso tempo non è un'idea, si costituisce, si altera o si riorganizza davanti a noi come uno spettacolo » (Struttura del comportamento, 356-357). Ora come la difficoltà di Hegel dipende dalla mancanza di quella nozione di empiria, a cui Merleau-Ponty perviene, la difficoltà di Merleau-Ponty sta nella perdita di quel concetto del fondamento intersoggettivo, che è il cuore della filosofia hegeliana. Per MerleauPonty, il significato oggettivo non potrebbe costituirsi senza l'oriainarietà del vissuto, senza « mettere al servizio dello spettacolo la Mauritius_in_libris

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nostra connivenza con il mondo » (Fenomenologia della percezione, 548), sicché «ogni parola come ognuna delle equazioni della fisica presuppone la nostra esperienza prescientifica del mondo e questo riferimento al mondo vissuto contribuisce a costituirne il significato valido» (ivi, 551). Ma cosa significa la «nostra» esperienza? Non può in questo caso che significare l'esperienza di noi, e non di me soltanto. In ogni modo, come può esserci un'esperienza di noi, intersoggettiva, se gli altri sono problemi per me al medesimo titolo in cui lo sono le cose in genere, se gli altri hanno senso in quanto coinvolti nel mio progetto, appunto nel mio, sicché il rapporto primario tra gli uomini si riduce per Merleau-Ponty all'impersonalità dell'esistenza inautentica, della socialità quotidiana, ed egli non può alla fine dire altro se non che « la mia vita ha un'atmosfera sociale così come d'altra parte ha un sapore di morte» (ivi, 471)? Il passaggio dal senso vissuto ai significati oggettivi diventa estremamente arduo se quella intersoggettiva ·universalità universalizzante, da Kant risolta nell'io trascendentale, e su cui si fonda la possibilità di costituire i significati oggettivi delle scienze, attende essa medesima di essere fondata nella sua possibilità come uno qualsiasi di tali significati. Quando gl'ìnterpreti di Heidegger, con cui Merleau-Ponty consente, spiegano la sua ricerca della salvezza dalla tirannia della socialità impersonale nel solitario rapporto con l'« Essere », denunciando l'irreversibilità della « società » e l'impossibilità storica della « comunità », essi pensano alla « società » e alla « comunità » come due forme dell'umano associarsi, secondo la celebre tipologia di Sorokin, ma evitano la comprensione, affrontata da Hegel, della comunità come il continuo evento originario dello spirito, l'inconscia relazione intersoggettiva, temporalità temporalizzante e mai temporalizzabile, la quale fonda la possibilità stessa di qualsiasi società intra-temporale.

8.4. La differenza trionfante e la « strutturalistica » negazione del soggetto Dopo Heidegger e l'autodissoluzione della metafisica del trascendentale accanto alla definitiva condanna della metafisica dell'essere come dottrina dell'ente scambiato per l'essere, il tentativo di pensare l'assoluta unità dell'essere come mera ripetizione della differenza si presenta nell'ultimo « strutturalismo » francese, ed in particolare in Deleuze. Mauritius_in_libris

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Contro l'impianto platonico della pluralità dei « generi », introdotta nel cuore stesso dell'essere, e della conoscenza come « rappresentazione », ossia come innumerevole ripetizione, per copia, di un modello identico, Deleuze invoca il principio dell'« univocità » dell'essere, cioè del suo poter esser detto in un unico significato, e sostiene che la ripetizione è sempre e soltanto differenza, il moltiplicarsi di « simulacri », nessuno dei quali è imitazione d'altro che ne sia il modello. Lo stesso « eterno ritorno », ripensato da Nietzsche, non è affatto, come vorrebbe la metafisica, il finto movimento del ritornare dell'identico, dal momento che l'identico non uscendo mai da sé non può ritornare, ma piuttosto è la differenza che, come incessante differenziarsi, appunto si ripete. La conclusione è che, « solo dove si è raggiunto il punto estremo della differenza », veramente tale in quanto « intensiva », « è possibile una sola e stessa voce per tutto il multiplo delle infinite vie, un solo e stesso Oceano per tutte le gocce, un solo clamore dell'Essere per tutti gli essenti » (Differenza, 482). Deleuze si richiama, per la rivendicata indivisibilità dell'essere, a Duns Scoto e a Spinoza, ma dimentica che Giordano Bruno, facendosi simbolo « eroico » della dolorosa nascita della moderna contro-metafisica, aveva già, contro la pluralità dei « generi » dell'essere e contro il preteso ritorno dell'identico, sostenuto con estremo vigore « tutto per infinito rinovarsi e restituirsi » e perciò esser « la revoluzione vicissitudinale e sempiterna». L'unità dell'essere, e quindi l'unicità dell'identità che esso è, permette a Deleuze di negare ogni altra identità, sia quella metafisicoteologica dell'ente supremo, sia quella metafisico-trascendentalistica dell'« io». « Il mondo moderno è il mondo dei simulacri. In esso l'uomo non sopravvive a Dio, l'identità del soggetto non sopravvive a quella della sostanza ». L'identità dell'e~sere non è il divino centro assoluto, come nella vecchia metafisica, e neppure l'umano centro assoluto, come nella nuova metafisica, ma è solo lo « spazio » identico di tutte le differenze. « Compito della vita è di far coesistere tutte le ripetizioni in uno spazio in cui si distribuisce la differenza » (ivi, 4). « Uomo » si dice per significare l'infinità dei luoghi, in cui, all'interno dell'unico spazio dell'identità dell'essere, la differenza si pensa. L'uomo dunque non solo non è l'identità sostanziale della metafisica dell'essere, ma non è neanche l'« atto puro» dell'auto-determinazione del pensiero, perché esso affonda le sue radici nel « senza fondo che è l'indeterminato»: « l'indeterminato, il senza fondo, è di fatto l'animalità propria del pensiero, la genialità del Mauritius_in_libris

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pensiero: non questa o quella forma animale, ma la bestialità »

(ivi, 439). La ragione pura sensibile del Kant della prima Critica della ragione pura, la corporeità di Nietzsche, la differenza di Heidegger s'intrecciano, in Deleuze, con la tesi fondamentale dello strutturalismo, secondo cui lo « spirito », nel senso hegeliano di totalità dei processi culturali, non risu}ta dall'attività che « noi », i soggetti pensanti e agenti, compiamo attraverso il lavoro sociale oggettivando noi stessi, ma è una molteplicità di organizzazioni di campi di forze in sistemi di funzionamento, più o meno chiusi in se stessi e l'uno rispetto all'altro discontinui e irrelativi. Come sostiene Foucault, « ogni conoscenza umana, ogni esistenza umana, ogni vita umana, e forse persino ogni ereditarietà biologica dell'uomo, è presa all'interno di strutture, cioè all'interno di un insieme formale di elementi obbedienti a relazioni che sono descrivibili da chiunque ». Perciò « l'uomo cessa di essere il soggetto di se stesso, di essere in pari tempo soggetto e oggetto. Si scopre che quel che rende l'uomo possibile è in fondo un insieme di strutture, che egli, certo, può pensare, può descrivere, ma di cui non è il soggetto, la coscienza sovrana» (in: AA.VV., Conversazioni, 107-108). Concordemente, Deleuze dichiara: « Noi crediamo a un mondo in cui le individuazioni sono impersonali, e le singolarità preindividuali: lo splendore del "SI" (si dice, si parla) » (Differenza, 6). Tutto ciò corrisponde, trascritto nei termini dell'osgettività, alla soggettività del quotidiano, all'esistenza vissuta nel modo impersonale del « si », com'è descritta da Heidegger in Essere e tempo: ivi appunto la soggettività è senza soggetto. In quel testo, Heidegger segnalava alla inautenticità dell'esistenza banale l'alternativa dell'autenticità nell'essere-per-la-morte. Più tardi, all'ingannevole guadagnarsi nella volontà di potenza egli oppose l'alternativa del perdersi nell'esperienza solitaria del pensiero come tacito ascolto dell'essere. Deleuze, come Foucault, non cerca alternative, ma si entusiasma dello « splendore del "SI"». Marx aveva definito « il nesso sociale » come « la mutua e generale dipendenza degl'individui reciprocamente indifferenti » (Lineamenti, I, 97). Il determinismo sociale di quel mondo industrializzato, che si riflette nel pensiero di Marx, per quanto esteso già fosse non aveva tuttavia ancora invaso le isole dei rapporti tra individui non « reciprocamente indifferenti ;>, ossia dei rapporti personalizzati. Lo strutturalismo invece trascrive teoricamente una situazione, in Mauritius_in_libris

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cui il determinismo sociale è divenuto totalitario, ed il « nesso sociale » si è sviluppato in. una rete di articolatissime dipendenze reciproche, alle quali si riducono senza eccezione anche i rapporti personalizzati. « Lo Stato è sovra-strutturale in rapporto a tutta una serie di poteri che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc., e questi rapporti sono in una relazione di condizionante-condizionato nei confronti di una specie di metapotere che è strutturato per l'essenziale intorno ad un certo numero di grandi funzioni d'interdizione » (Foucault, Microfisica, 16). Contro l'esaltazione variamente storicistica del soggetto agente nella storia, nell'epoca dell'esistenza storica, avviata a maturità dopo la sua moderna rinascita, lo strutturalismo viene teorizzando la storia senza soggetto, ora che l'esistenza storica è entrata in una crisi profonda e, forse, mortale. L'esistenza storica si fonda sull'idea che la riconosciuta e istituzionalmente regolata conflittualità dei « liberi » soggetti umani sia produttiva dell'ordine sociale istituzionalizzato nello Stato, e che lo Stato sia propriamente tale quando per lo meno tenda al « riconoscimento » di tutti i soggetti, individuali e collettivi. Essa nasce per la prima volta quando, come s'è visto all'inizio del presente lavoro, la potenza dell'astrazione, riflettendo finalmente in sé, scopre se stessa e il proprio potere e, criticando la supposta « naturalità » o « divinità » degli ordini umani e delle loro misure, dissolve l 'enigmatica necessità dello spazio magico e del tempo mitico nella razionale progettabilità dello spazio civile e del tempo storico. Lo strutturalismo, « a partire dall'esperienza etnografica », cioè dallo studio delle culture cosiddette « primitive », rimaste tuttora fuori dell'esistenza storica, intende elaborare un livello di analisi « in cui si rivela una necessità immanente alle illusioni della libertà» (Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, 25). Esso trasforma un metodo etnografico in una concezione della storia, estendendo così la strutturalità ripetitiva, propria delle culture non storiche, al fluido mondo dell'esistenza storica. Se dunque l'esaltazione storicistica del soggetto agente nella storia può considerarsi un'ideologia funzionale alle esigenze di sviluppo dell'esistenza storica che si avviava alla maturità, altrettanto la teoria strutturalistica della storia senza soggetto può considerarsi una ideologia funzionale alla crescente potenza di un meccanismo sociale che è giunto a minacciare di morte l'esistenza storica. E stato giustamente scritto: « L'ideologia strutturalistica - che si atteggia criticamente verso l'ideologia - ratifica concettualmente quel che Mauritius_in_libris

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l'uomo è stato costretto a diventare sotto i rapporti di produzione del tardo capitalismo, che ferreamente si consolidano: un'appendice manipolabile di un apparato onnipotente» (Schmidt, Negazione della storia, 58). Certo, generalizzare, come fa lo strutturalismo, i caratteri contingenti di una situazione temporale e particolare, e trasformarli in una struttura sovra-temporale e universale della realtà, per giustificare teoricamente un'altra e ben diversa situazione temporale e particolare, è una tipica violazione del divieto di confondere la logica e l'empiria: ancora una classica operazione metafisica.

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9. Il sentimento metafisico

« Metafisica » è il nome con cui, nella lunga vicenda della cultura occidentale, cioè nella storia dell'esistenza storica, si è finito per designare la pratica del sapere come trasgressione sistematica del pensiero parmenideo. In questo senso, è possibile dire che la metafisica è il tradimento della filosofia. La filosofia invero, come « cura del sapere con il pensiero », è critica, rigorosa distinzione tra il pensiero che cura il sapere, da una parte, e, dall'altra parte, il sapere che ordina e promuove l'esperienza. Nelle parole di Parmenide fu per la prima volta espressa con estrema chiarezza l'idea che l'« essere » sia lo « spazio » generantesi nel dirsi del pensiero. L'essere è ciò « in vista di cui il pensiero si pensa », ma è anche ciò « in cui il pensiero vien detto », ossia si esprime (fr. 8 Diels, vv. 34-36). L'essere è sia il fine interno, l'intenzione che anima il pensiero, sia il mezzo in cui esso s'incorpora, la sua manifestazione. Il pensiero, prima che si rifletta in sé, è vissuto come necessità di trascendere le cose, l'instabilità del loro divenire, verso il loro significato stabile e la loro determinatezza di enti, per la quale esse appartengono allo « spazio » dell'essere. Sapere è appunto, obbedendo alla necessità del pensiero, darsi da fare per assegnare le cose, nella loro determinatezza di enti, allo « spazio » dell'essere. Esso è la continua, laboriosa invenzione d'ingegnose strategie per catturare nelle durevoli maglie di codici fittizi le differenze in cui consistono le cose nel loro empirico divenire; è l'immensa e varia popolazione delle tecniche dell'esperienza e degl'innumerevoli modi e forme e livelli e gradi e sempre relative « misure », secondo cui le cose come differenze vengono provate e ordinate, cioè pensate.

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Il pensiero invece, quando si riflette in sé, si pensa nella purezza della sua identità e necessità ed è la coscienza della propria scissione dall'instabilità delle differenze e contingenze, alla cui caccia tuttavia, alla maniera del bruniano Atteone, come sapere si è messo. Nella consapevolezza che il pensiero, quale si purifica nel suo riflettersi in sé, ed il sapere, come pensiero tutto immerso nella sua mondana avventura, sono inseparabili ma anche inconfondibili, consiste la filosofia: essa si prende « cura del sapere », perché lo difende non solo dalla tentazione di arrendersi ad una supposta ingovernabilità teorica della differenza e contingenza dell'empiria, ma anche dalla temeraria presunzione di assolutizzarsi u~urpando l'identità e necessità del pensiero. La polemica, che nei vari campi epistemologici si va sviluppando contro la cosiddetta « razionalità classica », è nel fondo un attacco contro quei residui della metafisica inosservanza del divieto parmenideo che ancora insidiosamente operano all'interno del sapere. Tale « razionalità » viene infatti caratterizzata dai suoi critici come pretesa di « disciplinare ogni evento e ogni forma di esperienza nel suo superordine e nel suo superlinguaggio »: essa cioè, «nata da una strenua e violenta aspirazione ad un ordine assoluto e definitivo di sicurezza », ha sviluppato « la tendenza a coinvolgere la singola cognizione, il ragionamento scientifico specifico nel presupposto che sia dato il sistema di tutte le cose e di tutte le conoscenze », e si è impegnata nell'attuare questo programma mediante una « pratica della riflessione nei termini di una duplicazione, assumendo propri schemi una volta come leggi e costrutti ideali e un'altra volta come cose, natura» (Gargani, in: AA.VV., Crisi della ragione, 7-11). Se invece il pensiero ed il sapere vengono concepiti nella loro effettiva inseparabilità, ma anche nella loro radicale differenza, l'uno come presentarsi dell'identità che non ritorna mai in sé perché mai ne esce, e l'altro come padroneggiarpento della differenza che si mantiene nell'infinito differenziarsi, viene meno ogni dualità tra una « scienza » che si assuma come assoluta ed una « scienza » che, in quanto relativa, venga costretta a restare subalterna. Ogni sapere è strutturalmente relativo. Il pensiero non costituisce affatto un « altro » sapere, superiore e dominante: esso è, semplicemente, l'indentità che sempre si dice nell'essere, al cui « spazio » qualsiasi sapere a suo modo dà accesso. L'essere dunque è il linguaggio, lo « spazio » d'ogni sapere: non questo o quel linguaggio in particolare, ma il tutto dei linguaggi possibili di cui il sapere consiste, la simbolicità e quindi la comMauritius_in_libris

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prensibilità intersoggettiva, l'intero mondo del linguaggio come vero e proprio linguaggio del mondo. Per Gadamer, il quale sviluppa così l'ultimo grande tema heideggeriano, «l'essere che può esser compreso è linguaggio» (Verità e metodo, 542). Dunque, quanto dell'essere può venir compreso sarebbe linguaggio, ma né tutto l'essere è linguaggio, né l'essere è tutto il linguaggio: l'essere, cioè, da un lato non si risolverebbe affatto nel linguaggio, e ne resterebbe comunque al di là; dall'altro lato, per quella parte in cui è linguaggio, sarebbe un certo linguaggio, non tutto ciò che è linguaggio. In questo spirito, la tendenza filosofica che vuole heideggerianamente superare la metafisica come dottrina dell'ente scambiato per l'essere, si rifiuta di leggere « la tesi dell' "identità" di essere e linguaggio come una liquidazione di ogni possibilità di riferimento a un "originario" » e sostiene che « Heidegger non rinuncia a pensare una possibilità di accesso all'originario » (Vattimo, in AA.VV., Romanticismo, 293·294). Essa perciò continua a nutrire la preoccupazione, tutta metafisica, di stabilire qualche contatto con l'essere, supposto ancora al di là dello « spazio » dei linguaggi. Ora, se s'ammettesse che in qualche modo non linguistico l'essere si fa talvolta ascoltare dal pensiero, non si potrebbe comunque autenticare la verità di ciò che è stato ascoltato, poiché questo « ascoltato », restando fuori di qualsiasi linguaggio, non può essere intersoggettivamente né comunicato né controllato. Una così decisiva difficoltà viene posta nell'area stessa della ricerca d'ispirazione heideggeriana: « Com'è possibile stabilire se ciò che indirizza il pensiero all'apertura della luce sia o non sia stato correttamente ascoltato dall'uomo e corrisposto nel modo adatto? Questa rimane l'inquietante domanda che concerne la validità intersoggettiva di quel pensiero » (W. Marx, Compito del pensiero, 18). Dall'intersoggettività linguistica non è possibile, pensando, uscire. L'enunciato di Gadamer andrebbe così modificato: « L'essere, cioè il venir compreso, è il linguaggio ». Ogni comprensione, intersoggettivamente valida, avviene in un linguaggio, e l'essere non è altro che l'ambito della comprensibilità intersoggettiva, lo « spazio » dei linguaggi, non di questo o quel linguaggio, ma della simbolicità stessa, della totalità dei linguaggi possibili, in cui di volta in volta il sapere diversamente si determina. L'uorno, in quanto soggetto di sapere, e quindi operatore di simboli, non può comprendere che attraverso di essi. L'insuperabilità della dimensione simbolica non può però servire a enfatizzare l'umana impotenza, quasi che il pensiero fosse coMauritius_in_libris

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stretto e imprigionato entro la gabbia simbolica, e l'essere, fuori di essa, fosse inviolabilmente custodito e vietato al pensiero. Dinanzi alla riflessione critica non restano né, al di là dei linguaggi, l'essere né, al di qua di essi, il pensiero. L'essere, al di là della simbolicità, ed il pensiero, al di qua di essa, sono presupposti dogmatici, che si dissolvono quando la riflessione critica riconosce che l'essere è ciò in cui il pensiero si dice, e che il pensiero è il dirsi delle cose nell'essere. La sfera simbolica, la totalità dei linguaggi ed il loro indistricabile intreccio, sono proprio la « grande muraglia cinese », di cui già nel 1909 parlava il «viennese» Karl Kraus, e che Elias Canetti richiama come modello della scrittura stessa di Kraus: « Proposizione per proposizione, pezzo per pezzo si commette la compagine di una muraglia cinese. E quella compagine è dappertlltto ugualmente ben commessa, il suo carattere è sempre riconoscibile, ma che cosa veramente ricinga nessuno Io sa. Non c'è un regno dietro questa muraglia, essa stessa è il regno, tutte le linfe che ·possono esservi nel regno sono andate a finire nella costruzione. Ormai non si può più dire che cosa era dentro e che cosa era fuori, il regno si stendeva da tutte e due le parti, muraglia verso l'interno e verso l'esterno. La muraglia è tutto ... Si può andare avanti su questa muraglia senza che essa abbia mai fine » (cit. da Calasso, nell'introd. a: Kraus, Detti e contraddetti, 24). La «grande muraglia cinese» è il «muro del linguaggio» (ivi, 354), in cui l'uomo si è « sepolto vivo » (ivi, 25). Ora, se « tutte le linfe che possono esservi nel regno sono andate a finire nella costruzione », la quale « è tutto » e non ha « mai fine »,e l'uomo vi si è « sepolto vivo », ciò vuol dire che questa « muraglia » non è la morte, ma la vita: essa, la simbolicità, non divide l'uomo dal mondo, né il pensiero dall'essere, ma è la possibilità stessa della loro coesistenza, dell'aprirsi del mondo all'uomo e dell'entrar dell'uomo nel mondo, dell'essere come « abitazione » delle cose ad opera del pensiero, e del pensiero come dirsi nell'essere. Secondo Hegel, come s'è visto, «quello di cui l'uomo fa linguaggio e che egli estrinseca nel linguaggio, ·contiene, in una forma più o meno pura, o elaborata, una categoria ». La «logica inconscia » significa dunque che solo a partire dallo « spazio » dei linguaggi, in cui l'uomo primamente s'affaccia, gli è poi possibile riflettere e diventare cosciente dell'incolmabile scissione e, insieme, dell'infrangibile legame tra l'identità del pensiero e la differenza della vita, la auale in virtù appunto di questo legame esperendosi Mauritius_in_libris

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si conosce ma, per la forza di quella scissione, divenendo si mantiene come l'invincibile « altro ». Solo a partire dallo « spazio » comune, dall'essere come intersoggettività del simbolico, può costituirsi l'autocoscienza, il dirsi del pensiero come « io ». Però, quando il pensiero, pensando non I'« altro» - pluralità, differenza, contingenza-, ma sé - unità, identità, necessità -, si dice come « io », questo « io » detto non si colloca affatto dentro Io « spazio » dell'essere, come ogni detto. Ciò che non è una cosa, un divenire, non può essere trasceso verso il proprio essere. L'essere del pensiero e il pensiero dell'essere coincidono senza scarti, quindi senza trascendenza. Il dirsi che il pensiero fa di sé non è il trascendere un divenire verso il suo essere. E piuttosto Io svincolarsi del pensiero dal suo trascendere le cose verso il loro essere, dal suo dirle nel loro significato. Con ciò esso si scopre come puro « limite », nell'accezione di « invalicabilità », non dunque come « parte » ma come « estremità » dello « spazio » della significanza. Dicendo di sé, il pensiero si dice nell'essere, s'incarna cioè nel linguaggio, ma non si pone dentro Io « spazio » dell'essere. Identificando la sua pura identità e necessità con il limite di questo « spazio », con l'orizzonte della significanza e del dire, si dice come l'assolutamente insignificante e indicibile: l'indicibile appunto non come ciò che « si è costretti a non dire », ma come il limite stesso del dire. Con il termine « io », però, si nomina non soltanto il puro pensiero ma anche il senso vissuto, quell'a-priori empirico, nel cui fondo il pensiero stesso sta sprofondato. L'« io >> dice allora la soggettività ambigua: il corpo come corpo vivente, divenire effettivo, e insieme come corpo vissuto in prima persona, « corpo proprio », « coscienza del corpo », la quale « non è un pensiero », cioè un'astratta idea, ma il « mio » corpo. Il senso vissuto, secondo la ricordata formulazione di Merleau-Ponty, è il mondo stesso come «unità primordiale di tutte le nostre esperienze all'orizzonte della nostra vita », anzi « è la patria di ogni razionalità ». Tecniche, saperi, significati oggettivi non solo non sarebbero possibili senza il pensiero, ma non Io sarebbero neppure se non fossero ogni volta vissuti da un corpo vivente, nell'empirica a-priorità di un ordine, il cui continuo inventarsi è la vita. Tutto ciò che viene vissuto, ossia incontrato e coinvolto, in ogni momento, dal vivente nel suo progetto e si presenta così nella concreta, indecomponibile unità dell'a-priori empirico, viene compreso « prima », cioè al di fuori, di qualsiasi procedura di costituzione di oggettivi « significati ». Questo non oggettivo venir compreso è il « senso ». Mauritius_in_libris

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Vivere un'esperienza di oggetti ed investire questi di senso è, inseparabilmente, vivere la « particolarità », cioè il carattere soggettivo del vivere un'esperienza, il suo non potersi non vivere come « mia ». Il « ciò che è soltanto mio », secondo la già considerata affermazione di Hegel, è « indicibile » perché, mentre « la lingua esprime sempre l'universale», esso « appartiene a me come questo particolare individuo ». Qui si tratta, certo, non del senso, come sentimento con cui un determinato oggetto viene soggettivamente vissuto, perché anche il sentimento, « in quanto umano e non animale », secondo lo stesso Hegel è pervaso di « un costante pensiero », e quindi è dicibile; ma piuttosto del senso della soggettività stessa di ogni senso, della sensatezza o « particolarità » vissuta. Si capisce che un tale senso, non essendo oggetto ma neppure sentimento, non solo non è descrivibile ma neppure esprimibile. Tuttavia esso, in quanto senso della sensatezza di ogni senso, non è affatto un senza senso, come invece sembra ritenere Hegel, il quale, non essendo giunto a distinguere il senso, vissuto, dal significato, saputo, fa coincidere }'a-priori con l'universale. In verità, il « ciò che è soltanto mio » è la vissuta « particolarità » di ogni senso: la proprietà, vissuta, del presentarsi di qualsiasi oggetto e di qualsiasi sentimento sempre e soltanto come «mio». Questa proprietà, non essendo né un oggetto né un sentimento, non è né descrivibile né esprimibile. Essa è il limite di qualsiasi esperienza, la sua invalicabilità. E indicibile, ma non assolutamente: non può esser descritta o espressa ma, come confine, può essere segnalata. Il nome « io » è il suo segno, così come è il segno dell'altro confine, cioè del pensiero: esso indica tanto l'invalicabile « universalità », quanto l'invalicabile « particolarità » dell'umano. Il discorso o, grecamente, la « dialettica », l'operazione con cui il pensiero e l'esperienza vissuta si coinvolgono in un medesimo gioco costruendo il mondo del linguaggio come « spazio» dell'essere ed « abitandolo », è la funzione più propria dell'umano: in ultima analisi, è ciò che s'intende sotto il nome di « ragione ». Il corpo vivente dell'uomo, esercitando la ragione, la vive. La ragione, vissuta, ha un senso. Il senso vissuto della ragione è il sentimento razionale: la tensione tra il limite « universale » del dire e del significare, l'identità e necessità del pensiero nella sua purezza, ed il suo limite « particolare », la differenza e contingenza dell'esperienza vissuta, che è sempre e soltanto « mia ». Questo sentimento della ragione è il centro della filosofia di Mauritius_in_libris

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Kant. « La necessità incondizionata che noi richiediamo cosl urgentemente come sostegno ultimo di tutte le cose, è il vero abisso [Abgrund] della ragione umana. Perfino l'eternità - per quanto terribilmente sublime possa risultare - è ben lungi dal recare all'animo una simile impressione di vertigine » (Ragione pura, 634). La ragione, in quanto ricerca del fondamento, cioè della spiegazione di ogni cosa, operazione 'f>er collocare ogni elemento dell'esperienza al suo posto nell'ordine del mondo, non può non spingersi fino a cercare il fondamento di tutti i fondamenti possibili, ossia quel fondamento che, non avendo a sua volta bisogno di fondamento, fondi la ragione stessa, ne spenga la sete di fondare, la metta in pace con sé. Però, un fondamento ultimo è « abisso ». Il suo fondo è irraggiungibile e quindi il bisogno della ragione è destinato a non esser mai pienamente soddisfatto Paradossalmente, l'irraggiungibilità del fondamento ultimo non è la morte ma la vita della ragione: se si potesse una volta raggiungerlo, la ragione, che ne è la ricerca, cesserebbe. La potenza della ragione è preservata dalla sua impotenza. La ragione è totalizzazione e negazione della totalizzazione. Perciò il senso vissuto della ragione è l'avvertimento di un « abisso », che dà la « vertigine ». Alla ragione, cui compete il controllo della non contraddizione nelle procedure del sapere, tocca l'infelicità della propria intrinseca contraddizione. Essa si dice come spiegazione completa, e si contraddice come relazione incessante. Invoca come unico limite del dire e del significare nient'altro che la stessa dicibilità e significatività, cioè la necessaria identità del pensiero, e tuttavia deve ammettere che il pensiero, in sé, non è né dicibile né significativo. Si proclama libera di muoversi tra le infinite differenze dell'empiria, e si confessa intanto prigioniera dell'invalicabile particolarità del senso vissuto. Abita avventurosamente lo « spazio » dell'essere, l'intersoggettivo mondo della simbolicità, e al tempo stesso, come per un irrevocabile oblio, si trova sbarrato l'accesso ai meandri profondi dell'inconscio « sé » e dell'intersoggettività originaria. Il senso della ragione, vissuta nel suo essere scissa e contraria a sé e portatrice perciò essa medesima dell'irrazionale, scinde l'uomo dal suo divenire e gli affida l'essere, lo scaccia dall'innocenza della vita naturale e lo getta nell'incertezza interrogante e nella fatica del sapere, lo scioglie dalle ingenue paure dell'istinto per consegnarlo all'angosciosa consapevolezza del suo futuro di morte, cioè all'insopportabile contraddizione di essere la coscienza dell'incomMauritius_in_libris

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bente annullarsi della coscienza, la comprensione eterna della propria temporaneità. Questo sentimento della ragione può dirsi « metafisico i., poiché con esso la vita dell'uomo si radica nella contraddittorietà della ragione e dunque, definitivamente, nell'esistere come scissione. Il sentimento metafisico, così inteso, è l'unica verità metafisica: la ragione non può dissolverla poiché si tratta non di un oggetto del suo discorso, di cui discorrendo si possa dimostrare l'inconsistenza, ma del suo stesso vivere la propria discorsività, fragile ponte sospeso tra le due scisse coste della logica e dell'empiria. II senso della ragione è inizialmente vissuto come coscienza infelice, ignara della sua originaria appartenenza alla ragione. La filosofia, scoprendo che in essa la ragione stessa viene vissuta, libera l'intera potenza di « abissale vertigine » del sentimento metafisico, ed eleva la coscienza infelice a coscienza dell'infelicità propria della ragione.

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Guida bibliografica •

In questa Guida bibliografica, le Note orientative presentano, seguendo l'ordine di svolgimento della trattazione, i testi, filosofici e no, più direttamente intervenuti nell'elaborazione - la citazione, in questo caso, è per esteso -, o comunque utili per una ricostruzione tematica dell'argomento « metafisica » - e la citazione è, in questo caso, limitata al nome dell'Autore e all'anno di pubblicazione. La Bibliografia generale, oltre a riprendere per esteso tutti gli studi che nelle note orientative sono indicati succintamente, riporta le principali edizioni delle fonti, e un'ulteriore scelta di lavori critici di portata tematicamente più circoscritta.

Note orientative l. La « cura del sapere » e la coscienza infelice

Un'utilissima guida bibliografica allo studio del pensiero greco è il volume di F. ADORNO, Il pensiero greco. Orientamenti bibliografici, Bari, Laterza, 1969; inoltre, di F. ADORNO è da consultare La filosofia antica, 2 voll., Milano, Feltrinelli, 1976-1977 4• Tra le ricostruzioni storiche del pensiero greco ormai classiche ci limitiamo a segnalare E. ZELLER, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung dargestellt, Tiibingen, Fues, 1855-68, 5 voll. in tre parti (Leipzig, O. R. Reisland, 19237; 6 voll., con le aggiunte di F. Lortzing e di W. Nestle). La traduzione italiana, iniziata e promossa da R. MONDOLFO (La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Firenze, La Nuova Italia, 1932 sgg., che prevede 18 voli.), per le ampie aggiunte e gli aggiornamenti bibliografici - che talvolta raggiungono le dimensioni di veri e propri saggi - è il più importante strumento per orientarsi nella let• Per la paziente intelligenza, amichevolmente dedicata nell'aiutarmi a redigere questa Guida bibliografica, debbo un particolare ringraziamento al dott. Giuseppe .t-erraro.

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Guida bibliografica

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teratura sulla filosofia greca. Ancora va segnalata l'opera di T. GOMPERZ, Griechische Denker, 3 voli., Leipzig, Viet & C., 1896-1909 (IV ed., Berlin, De Gruyter, 1922-1931); trad. it., I pensatori greci, a cura di L. Brandi e D. Faucci, 4 voli.: I: Dalle origini agli stoici, Firenze, La Nuova Italia, 1945 2; II: L'Illuminismo. Socrate e i socratici, ibid., 19462; III: Platone, ibid., 19532; IV: Aristotele, ibid., 1962. Sulla formazione àel pensiero filosofico e scientifico: L. ROBIN, La pensée grecque et les origines de l'esprit scientifìque, Paris, Ed. Albin Miche!, 1923 (tr. it., Storia del pensiero greco, di P. Serini, Torino. Einaudi, 1966); w. JAEGER, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, 3 voli., Berlin u. Leipzig, De Gruyter & C., 1952 2 (trad. it., Paideia. La formazione dell'uomo greco, di L. Emery e A. Setti, 3 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1936-59; in particolare voi. I); AA.VV., The intellectual Adventure of Ancient Man. An Essay on speculative Thought in the Ancient Near East, Chicago, The University of Chicago Press, 1946 (tr. it., La filosofia prima dei greci. Concezioni del mondo in Mesopotamia, nell'antico Egitto e presso gli Ebrei, di E. Zolla, Torino, Einaudi, 1963 in particolare il cap. XII di H. e H.A. FRANKFORT, L'emancipazione del pensiero dal mito, pp. 413-439); B. SNELL (1953). Sulla formazione del pensiero teologico: w. JAEGER (1953). Su mito e pensiero: w. NESTLE, Vom Mythos zum Logos. Die Selbstentfaltung des griechischen Denkens von Homer bis auf die Sophistik und Sokrates, Stuttgart, Krèiner, 19422; E.R. DODDS (1951); H. JEANMAIRE, Dionysos. Histoire du culte de Bacchus, Paris, Payot, 1951 (tr. it. Dioniso. Religione e cultura in Grecia, di G. Glaesser, Torino, Einuadi, 1972); J.P. VERNANT (1965); G. GIANOTTI (1976). In particolare, sulla nascita della metafisica e sulla sua configurazione nella cultura greca, si devono tener presenti: w. DILTHEY (1974); J. STENZEL (1971). Al problema della concezione del tempo è dedicato c. MUGLER (1966); su questo tema importanti considerazioni e indicazioni bibliografiche si possono trovare in s. MAZZARINO (1974). Fondamentale per le fonti documentarie del pensiero presocratico è: (1975). Per una visione d'insieme, oltre le opere già segnalate, si ricordano: J. BURNET, Greek Philosophy, I, London, 19023, che evidenzia soprattutto l'aspetto scientifico dei filosofi presocratici; G. PRETI (1942); E. PACI, Storia del pensiero presocratico, Torino, E.R.I., 1957. Un'utile guida, anche bibliografica, per avvicinare il pensiero di Parmenide è il volume di A. CAPIZZI, Introduzione a Parmenide, Bari, Laterza, 1975. Per la traduzione e presentazione critica dei testi eleatici resta basilare: P. ALBERTELLI (1939). Tra gli studi fondamentali su Parmenide va ricordato G. CALOGERO (1932), che interpreta l'« essere» di Parmenide come ipostatizzazione dell'« essere» del linguaggio. Importante è anche M. UNTERSTEINER (1958). Confronti metafisici con il pensiero di Parmenide sono in: M. HEIDEGGER (1966); A. COLOMBO (1972); E. SEVERINO (1972). Una lettura DIELS-KRANZ

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Guida bibliografica

di Parmenide come pensatore aperto al problema del sapere empirico è il recente volume di G. CASERTANO, Parmenide. Il metodo, la scienza, l'esperienza, Napoli, Guida, 1978. Per Eraclito segnaliamo: R. MONDOLFO, Eraclito, in Zeller-Mondolfo, cit., parte I, vol. IV, Firenze, La Nuova Italia, 1967; P. YORK voN WAR· TENBURG (1959); M. HEIDEGGER (1954); C. RAMNOUX (1959). Per un orientamento sulla sofistica si rinvia a M. UNTERSTEINER, I sofisti, Milano, Lampugnani Nigri, 1967 (Il ed., riv. e ampl., con appendice su Le origini sociali della sofistica), contenente anche una rassegna di studi critici.

2. La « scienza dell'essere » come felicità del contemplare Un'ampia bibliografia su Platone si può consultare in F. ADORNO, Introduzione a Platone, Bari, Laterza, 1978. Tra le interpretazioni complessive del pensiero di Platone si segnalano: A.E. TAYLOR, Plato. The Man and his Work, London, 1926 (tr. it. Platone. L'uomo e l'opera, di M. Corsi, Firenze, La Nuova Italia, 1968);

L.

ROBIN (1968); L. ROBIN,

Les rapports de l'étre et da la connaissance d'après Platon, a cura di P.M. Schul, Paris, PUF, 1957. Tra gli studi sulla metafisica platonica si ricordano: E. GRASSI (1932); E. PACI (1938); M. HEIDEGGER (1947). Ampie indicazioni bibliografiche su Aristotele in G. REALE, Introduzione a Aristotele, Bari, Laterza, 1974. Tra le interpretazioni complessive del pensiero di Aristotele, attente anche alla sua evoluzione, si segnalano: w. JAEGER (1923); W.D. ROSS (1923); L. ROBIN (1944); L. LU· GARINI (1961); L. DVRING (1966); J. RITTER (1969). Sulla metafisica in generale cfr.: G. 01 NAPOLI, La concezione dell'essere nella filosofia greca, Milano, Marzorati, 1953; w. MARX (1954); A. MANSION, ~ Philosophie première, philosophie seconde et métaphysique chez Aristote », Revue Phi/osophique de Louvain, 1958, 165-227; E. TUGENDHAT, Tl xcna ·dv6ç.

Eine Untersuchung zu Struktur und Ursprung aristotelischer Grundbegrifje, Freiburg-Mi.inchen, Alber, 1958; G. REALE (1967); P. AUBENQUE (1966). Sul rapporto della metafisica con la fisica dr.: M. HEIDEGGER,

Vom Wesen und Begrifj der « Physis » (tr. it. «Dell'essere e del concetto della "physis" », di G. Guzzoni, in Il Pensiero, con testo ted., 1958, 372-95); F. WIPLINGER, Physis und Logos, Wien, Herder, 1971.

3. Dall'irruzione del nulla all'infinito « immaginare » Uno studio fondamentale sullo stoicismo resta quello di M. POHLENZ,

Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, 2 voll., Gottingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1948 (tr. it. La Stoa. Storia di un movimento spirituale, di O. De Gregorio e B. Proto, 2 voli., Firenze, La Nuova Italia, 1967); cfr. ancora ALAIN (1964). Si veda inoltre J. MOREAU (1939), secondo cui negli Stoici si ritrova una lettura del tema platonico dell'anima del mondo in chiave biologica. Mauritius_in_libris

Guida bibliografica

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Un utile strumento bibliografico per il periodo che va fino al sec. V d.C. è il volume di F. ADORNO, Il pensiero greco-romano e il Cristianesimo. Orientamenti bibliografici, Bari, Laterza, 1970. Per il pensiero di Plotino, sono particolarmente rilevanti le monografie di c. CARBONARA, La filosofia di Plotino, Napoli, L.S.E., 19642; X. SCHLETTE (1966); J.M. RIST, Plotinus: The Road to Reality, London, Cambridge University Press, 1973. Per un primo orientamento nella storiografia su Agostino, cfr. l'Introduzione bibliografica di E.S. LODOVICI, in Questioni di storiografia filosoficq, a cura di V. Mathieu, I, 444-69, Brescia, La Scuola, 1975. Sul problema del rapporto tra metafisica e creazione e sulla problematica del tempo: J. GUITTON (1959); o. LECHNER (1964). Molto utili possono risultare anche gli studi di: E. GILSON, Introduction a l'étude de Saint Augustin, Paris, Vrin, 1949 3; H.I. MARROU, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris, De Boccard, 1938, (trad. it., Sant'Agostino, Milano, Mondadori, 1960). Per una bibliografia generale sul pensiero medioevale si veda: c. VAsou, Il pensiero medievale. Orientamenti bibliografici, Bari, Laterza, 1971. Sulla filosofia del Medioevo si possono consultare gli studi ormai classici di: E. GILSON, La philosophie au moyen-age. Des origines patristiques à la fin du XIV• siècle, Paris, Payot, 1944 (tr. it. La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, Firenze, La Nuova Italia, 1973); E. GILSON, L'esprit de la philosophie médiévale, Paris, Vrin, 19322 (trad. it. Lo spirito della filosofia medioevale, di P. Sartori Treves, Brescia, Morcelliana, 19642); E. BREHIER, La philosophie de Moyen Age, Paris, Ed. Albin Michel, 1937 (tr. it. La filosofia del Medioevo, di S. Cotta, Torino, Einaudi, 19662). In particolare, sul problema metafisico cfr.: E. GILSON (1948). Un'ampia bibliografia critica su Tommaso d'Aquino si trova in s. VANNI ROVIGHI, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Bari, Laterza, 1973. Tra gli studi critici che presentano un particolare riferimento ai problemi della metafisica cfr.: A.D. SERTILLANGES, Les grandes thèses de la philosophie thomiste, Paris, 1928 (tr. it. Le grandi tesi della filosofia tomistica, Brescia, Morcelliana, 1948); H. REITH (1958); c. FABRO (1960). Sia per Duns Scoto che per Guglielmo di Ockham si possono consultare le introduzioni bibliografiche curate da E. BETTONI, in Questioni di storiografia filosofica, a cura di V. Mathieu, I, Brescia, La Scuola, 1975. Un'importante presentazione del pensiero di Duns Scoto è lo studio di E. GILSON, /. Duns Scoto. Introduction à ses positions fondamenta/es, Paris, Vrin, 1952. Cfr. inoltre: M. HEIDEGGER, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, Ti.ibingen, Mohr, 1916 (rist., Frankfurt/M., Klostermann, 1972; trad. it. La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, a cura di A. Babolin, Bari, Laterza, 1974). Tra gli studi di carattere generale su Guglielmo di Ockham si segnalano: c. VASOLI, Guglielmo d'Occam, Firenze, La Nuova Italia, Mauritius_in_libris

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1953; A. GHISALBERTI, Guglielmo di Ockham, Milano, Vita e Pensie-

ro, 1972. Uno studio fondamentale per la comprensione del pensiero rinasci· mentale, con particolare riferimento a N. Cusano, è quello ormai classico di E. CASSIRER (1927). Un'utile bibliografia è raccolta nel volume di G. SANTINELLO, Introduzione a N. Cusano, Bari, Laterza, 1971. Per la bibliografia bruniana è utile consultare il volume di G. AOUI· LECCHIA, Giordano Bruno, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana 1971. Tra gli studi' critici sul pensiero di G. Bruno segnaliamo: A. CORSANO (1940); N. BADALONI (1955); F.A. YATES (1964); E. GARIN (1966); H. VEDRINE (1967). Uno studio fondamentale sull'opera di B. Telesio resta quello di F. FIORENTINO, Bernardino Telesio, ossia studi storici sull'idea della natu· ra nel rinascimento italiano, Firenze, Le Monnier, 1872-1874. Tra gli altri studi segnaliamo: N. ABBAGNANO, Telesio e la filosofia del rinascimento, Milano, Garzanti, 1941; G. soLERI, Telesio, Brescia, 1945. 4. La nuova razionalità e il « labirinto » praticabile Per la bibliografia cartesiana si deve consultare G. SEBBA, Bibliografia cartesiana. A criticai guide to the Descartes literature, The Hague, NijofI 1963, che raccoglie i più importanti studi e contributi su Car· tesio pubblicati dal 1800 al 1960. Per gli studi successivi è utile rife· rirsi alla rassegna curata da w. ROD in Philosophische Rundschau, I-Il, 1971, e ancora al Bulletin cartésien, a cura dell'Equipe Descartes, pubblicato in Archives de Philosophie, 1972 e segg. Per gli studi sul pensiero cartesiano, che hanno un riferimento particolare alla problematica metafisica, segnaliamo: F. ALQUIÉ (1950); M. GUEROULT (1953); J. VUIL· LEMIN (1960); H. GOUHIER (1962); R. LEFÈVRE (1972). Per una bibliografia spinoziana rimandiamo al volume di P. DI VONA, B. Spinoza, Firenze, La Nuova Italia, 1975. Utili riferimenti bibliogra· fici si trovano anche nell'edizione, curata da R. CANTONI e F. FERGNANI, dell'Etica e Trattato teologico-politico, Torino, UTET, 1972. Tra gli studi più recenti, che prestano maggiore attenzione al problema della metafisica in Spinoza, segnaliamo quelli di: P. DI VONA (1960-1969); M. GUEROULT (1968); S. ZAC (1963); G. DELEUZE (1968); A. MATHERON (1969). Per la bibliografia leibniziana è utile riferirsi al volume di v. MA· THIEU, Introduzione a Leibniz, Bari, Laterza, 1976. Uno studio di carattere generale-è quello di Y. BELAVAL, Leibniz. lnitiation à sa philosophie, Paris, P.u.F., 1962. Tra gli studi che mettono in evidenza la connessione di logica e metafisica nel pensiero leibniziano sono ormai classici quelli di B. RUSSELL, A criticai Exposition of the Philosophy of Leibniz, Cambridge 1900 (trad. it. Esposizione critica della filosofia di Leibniz, Milano, Longanesi, 1971); L. coUTURAT, La logique de Leibniz Mauritius_in_libris

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Guida bibliografica

d'aprés documents inédits, Paris, Alcan, 1901; E. CASSIRER, Leibnif System in seinen Wissenschaftlichen Grundlagen, Marburg, G. Olm, 1902. Altri studi sul problema della metafisica in Leibniz sono quelli di N. HARTMANN (1946); G. MARTIN (1967); W. JANKE (1963); CH. J. HORN (1965). Importanti studi sull'opera di Chr. Wolff sono: H.J. DE VLEESCHAUWER, «Le genèse de la méthode mathématique de Wolfl », in Revue beige de philologie et d'histoire, 1932; M. CAMPO, C. Wolff e il razionalismo precritico, 2 voll., Milano, 1939; N. MERKER, «Cristiano Wolfl e la metodologia del razionalismo», in Rivista critica di storia della filosofia, 1967-1968. Per una bibliografia humiana, si veda A. SANTUCCI, Introduzione a Hume, Bari, Laterza, 1971. Tra gli studi critici ricordiamo: G. DELLA VOLPE, Hume e il genio dell'empirismo, Firenze, Sansoni, 1939; N. KEMP SMITH, The Philosophy of D. Hume, London, Mac Millan, 1941; A. LEROY, D. Hume, Paris, P.U.F., 1953; G. DELEUZE, Empirisme et subiectivité. Essai sur la nature humaine selon Hume, Paris, P.U.F., 1953; M. DAL PRA, Hume e la scienza della natura umana, Bari, Laterza, 1973 2• Per la bibliografia berkeleyana, va consultato M.M. ROSSI, Introduzione a Berkeley, Bari, Laterza, 1970. Un'aggiornata rilettura, in termini epistemologici, della filosofia berkeleyana come polemica antimetafisica, è costituita dal saggio di M.P. FIMIANI, G. Berkeley. Il nome e l'immagine, Roma, Lerici, 1979. Su G.B. Vico è fondamentale la Bibliografia vichiana, di B. CROCE e F. NICOLINI, 2 voll., Bari, Laterza, 1947-1948. Uno studio generale di grande importanza è quello di N. BADALONI, Introduzione a Vico, Milano, Feltrinelli, 1961. Tra gli studi critici, segnaliamo quelli di E. PACI, lngens Silva. Saggio sulla filosofia di G.B. Vico, Milano, Mondadori, 1949; A. CORSANO, G.B. Vico, Napoli, Morano, 1968; P. ROSSI, Le sterminate antichità: studi vichiani, Pisa, Nistri-Lischi, 1969. Tra gli studi sull'opera di E.B. DE CONDILLAC segnaliamo: P. SALVUCCI, Linguaggio e mondo umano in Condillac, Urbino, Argalia, 1957; R. LEFEVRE, Condillac ou la joie de vivre, Paris, 1966.

5. L'essere dell'apparire e la metafisica della rivoluzione Per la bibliografia kantiana si può consultare E. ADICKES, « German kantian bibliography », in The philosophical Review, 1893-1896; R. EISLER, Kant-lexicon, Berlin, 1930 (rist., Hildesheim 1964). Fondamentale, anche come strumento bibliografico, è la rivista Kantstudien che viene pubblicata dal 1896. Utili notizie bibliografiche si trovano nel volume, curato da P. CHIODI, degli Scritti morali di Kant, Torino, UTET, 1970. Tra gli studi di carattere generale sul pensiero kantiano segnaliamo: K. FISCHER, lmmanuel Kant u. seine Lehre, in Geschichte d. neueren Philosophie, voll. IV e V, Heidelberg, Winter, 1928; G. SIMMEL, Kant, Leipzig, Dunker & Humblot, 1904 (trad. it., Kant, Sedici lezioni tenute all'Università di Berlino, Padova, CEDAM, 1953); E. CASSIRER, Kants Mauritius_in_libris

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Guida bibliografica

Leben und Lehre, Berlin, B. Cassirer, 1918 (trad. it., Vita e dottrina di Kant, Firenze, La Nuova Italia, 1977). Per una storia delle interpretazioni della filosofia kantiana, è utile la ricerca di M. CAMPO, Schizzo di storia della esegesi e critica kantiana. Dal ritorno a Kant alla fine dell'Ottocento, Varese, Mantegna, 1959. Si devono inoltre segnalare, come opere che abbracciano la vasta problematica della filosofia kantiana nel suo sviluppo, gli studi di A. PHILONENKO (1969); inoltre la ricerca ormai classica di H. J. DE VLEE· SCHAUWER (1939) e quella di L. GOLDMANN (1945). Per il problema della fondazione della metafisica nella filosofia kantiana, fondamentale è l'opera di M. HEIDEGGER (1929). Per la tematica metafisica segnaliamo ancora: R. KRONER (1921-1924); E •. ADICKES (1927); J. HAVET (1946); R. DAVAL (1951); J. VUILLEMIN (1955); J. PATON (1965). Per la deduzione trascendentale ricerche rilevanti sono quelle di A. MASSOLO (1946); L. LUGARINI (1950); P. CHIODI (1961); G. LUPORlNI (1961). Tra gli studi più recenti segnaliamo: o. GRANEL (1970). 6. L'eterno gioco del tempo e la dialettica Per un orientamento sulla bibliografia hegeliana, si può utilmente consultare v. VERRA, « Hegel. Introduzione bibliografica», in Questioni di storiografia filosofica, Brescia, La Scuola, 1964. Per la più recente bibliografia e lo sviluppo attuale degli studi hegeliani devono essere consultati i vari volumi degli Hegel-Studien (1960 e segg.). Una ricca bibliografia è contenuta nel volume miscellaneo di AA. vv., Incidenza di Hegel, Napoli, Morano, 1970. Per una bibliografia dal 1966 al 1976 va segnalata l'appendice al fascicolo speciale, su Hegel e lo Stato, della Rivista di Filosofia, a cura di L. Marino, ottobre 1977. Tra gli studi ormai classici sulla vita, le opere e lo sviluppo del pensiero hegeliano si devono ricordare quelli di K. ROSENKRANZ, Hegels Leben, Berlin 1844 (trad. it. Vita di Hegel, Firenze, Vallecchi, 1966, II ed., Milano, Mondadori, 1974); R. HAYM, Hegel und seine Zeit, Berlin, G. Gaertner, 1957 (nuova ed., Hildesheim, 1962); K. FISCHER, Hegels Werke, Leben und Lehre. 2 voli., Heidelberg, 1911 (nuova ed., Darmstadt, 1963); TH. HAERING, Hegel. Sein Wollen und sein Werk, 2 voli., Leipzig-Berlin, 1929-1938 (nuova ed., Aalen, 1963). Utili anche le monografie di J.N. FINDLEY, Hegel, a re-examination, London 1958 e O.E. MOLLER, Hegel, Bern-Miinchen 1959. Alla posizione del pensiero hegeliano nell'ambito dell'idealismo tedesco sono dedicati gli studi di R. KRONER (1921-1924) e di N. HARTMANN (1960). Per la ricostruzione della storia della formazione del pensiero hegeliano negli anni giovanili, oltre la classica monografia di w. DILTHEY, Die /ugendgeschichte Hegels, 1905 (in DILTHEY. 1959, voi. IV), che ha aperto la via agli studi sul « giovane Hegel », si segnalano la ben Mauritius_in_libris

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nota ricerca di G. LUKACS (1954) e gli studi di A. PEPERZAK (1960), A. MASSOLO (1950). Sullo sviluppo del pensiero hegeliano a Jena, in riferimento al p.roblema del rapporto logica-metafisica sono da tener presenti gli studi di H. KIMMERLE (1970), O. POGGELER (1973), l. LUGARINI (1973). Alla interpretazione della Fenomenologia dello Spirito sono dedicate in modo particolare le ricerche di J. HYPPOLITE (1946), R.K. MAURER (1965), P.J. LABARRIÈRE (1968). La centralità della Fenomenologia nella interpretazione di Hegel caratterizza gli studi di J. WAHL (1929), A. DE NEGRI (1969), A. KOJÈ\'E (1947). Tra le interpretazioni complessive del pensiero hegeliano particolarmente rilevanti per la problematica metafisica, oltre le opere già citate di H. KIMMERLE, o. POGGELER, L. LUGARINI, si devono segnalare quelle di H. MARCUSE (1932), H. G. GADAMER (1971). Degli studi dedicati in particolare alla logica hegeliana si ricordano quelli di A. MASSOLO (1950), N. MERKER (1961), A. MASULLO (1971). Particolarmente rilevanti per l'interpretazione del pensiero hegeliano in rapporto con il pensiero marxiano sono le ricerche di E. BLOCH (1962), TH.W. ADORNO (1963), R. BODEI (1975). Per una visione d'insieme su alcune più recenti interpretazioni segnaliamo I. FETSCHER (1973). Sulla filosofia dello spirito soggettivo, e in particolare sul problema dell'inconscio, si veda A. MASULLO (1979). Una importante bibliografia filosofica per il pensiero marxiano è quella raccolta in Annali dell'Istituto G.G. Feltrinelli, VII, Milano, 1965. Tra gli studi ormai classici sul pensiero marxiano vanno indicati: H. LEFEBVRE, Le matérialisme dialectique, Paris, P.U.F., 1945 (trad. it. Il materialismo dialettico, Torino, Einaudi, 1949); J.-Y. CALVEZ, La pensée de K. Marx, Paris, Ed. du Seuil. 1956 (trad. it. Il pensiero di Carlo Marx, Torino 1966); E. BLOCH, Vber Karl Marx, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1968 (trad. it. Karl Marx, Bologna, Il Mulino, 1977 2); K. KORSCH, Karl Marx, Frankfurt-Wien, Europaische Verlagsanstalt, 1967 (trad. it. Karl Marx, Bari, Laterza, 1970). Sul rapporto Hegel-Marx segnaliamo: M. ROSSI, Marx e la dialettica hegeliana, 2 voli., Roma, Ed. Riuniti, 1960, 1963; J. HYPPOLITE, Etude sur Marx et Hegel, Paris, Librerie M. Rivière et Cie, 1955 (trad. it. Saggi su Marx e Hegel, Milano, Bompiani, 1965); L. COLLETTI, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza. 1969. Particolare interesse per il problema della storia in Marx rivestono gli studi di: H. FLEISCHER, Marxismus und Geschichte, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1969 (trad. it. Marxismo e storia. Bologna, Il Mulino, 1970); A. SCHMIDT (1969); A. SCHMIDT, Geschichte und Struktur. Fragen einer marxistichen Historik, Mi.inchen, Hauser, 1971 (trad. it. Storia e struttura. Problemi di una teoria marxista della storia, Bari, Dedalo, 1972). Sull'aspetto particolare della connessione tra struttura e ideologia e per un discorso generale sul pensiero marxiano degli ultimi anni sono Mauritius_in_libris

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Guida bibliografica

da segnalare gli studi di: L. ALTHUSSER, Pour Marx, Paris, Maspéro, 1966 (trad. it. Per Marx. Roma, Ed. Riuniti, 1967) e L. ALTHUSSER-E. BALIBAR, Lire le Capitai, Paris, Maspéro, 1965 (trad. it. Leggere il Capitale, Milano, Feltrinelli, 1968). Segnaliamo infine per un confronto del pensiero marxiano con quello heideggeriano: K. AXELOS, Marx e Heidegger, trad. it. Napoli, Guida, 1978. Per i rapporti del pensiero marxiano con la fenomenologia husserliana e per ulteriori indicazioni sul rapporto Hegel-Marx, si rinvia alle note bibliografiche su Hegel e su Husserl.

7. Il problema del senso tra ontologia e nichilismo Tra gli studi generali sul pensiero diltheyano segnaliamo: H.A. HODGES, W. Dilthey. An Introduction, London, Routledge and Kegan Paul, 19492 (con bibliografia); o.F. BOLLNOW, W. Dilthey. Eine Einfuhrung in seine Philosophie, Leipzig u. Berlin, Teubner, 1936 (Il ed., Stuttgart, Kohlhammer, 1956); P. ROSSI, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, Einaudi, 1956; G. MARINI, Dilthey e la comprensione del mondo storico, Milano, Giuffré, 1965; F. BIANCO, Dilthey e la genesi della critica storica della ragione, Milano, Marzorati, 1971; G. CACCIATORE, Scienza e filosofia in Dilthey, Napoli, Guida, 1976. Per un confronto tra il pensiero diltheyano e la fenomenologia, segnaliamo inoltre gli studi di: L. LANDGREBE, W. Diltheys Theorie der Geisteswissenschaft, Halle, Niemeyer, 1928; G. MISCH (1931). Per il concetto di storicità, nell'ambito dello storicismo tedesco, sono. da consultare: P. HVNERMANN (1967); L.U. RENTHE-FINK (1968); F. TESSITORE, Dimensioni dello storicismo, Napoli, Morano, 1971; G. CANTILLO, E. Troeltsch, Napoli, Guida, 1979. Per la bibliografia nietzscheana è utile riferirsi alla International Nietzsches Bibliographie di H.W. REICHERT e K. SCHLECHTA, Chapell Hill, University of North Carolina Press 19682• Un successivo aggiornamento fino al 1971 è dato da H.W. REICHERT nel secondo volume delle Nietzsche-Studien, Berlin, De Gruyter 1975, pp. 320-339. Per una discussione della letteratura nietzscheana tra gli anni 1945-1966 occorre consultare il volume di G. VATTIMO, Tre ipotesi su Nietzsche, Torino, Giappichelli, 1967. Tra le opere critiche più significative che in modo diverso hanno influenzato le interpretazioni del pensiero di Nietzsche si devono ricordare quelle di LOWITH (1978 3); K. JASPERS (1936); G. BATAILLE (1945). Un maggiore interesse per la problematica metafisica hanno le opere di M. HEIDEGGER (1961) e E. FINK ( 1960). Infine tra gli studi più recenti segnaliamo G. DELEUZE (1962); F. MASINI (1967); G. VATTIMO (1979).

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8. La fine dell'illusione trascendentalistica Per la bibliografia husserliana segnaliamo: L. ELEY, in Zeitschrift fi.ir philosophische Forschung, Xlii, 1959, pp. 357-367; H.L. VAN BREDA, in: AA.vv., Edmund Husserl 1859-1959, Den Haag, M. NijhofT 1959, pp. 289-306; J. BONA, in AA.VV., Omaggio a Husserl, Milano, Il Saggiatore, 1960, pp. 291-316; G. MASCHKE e 1. KERN, in Revue lnternationale de Philosophie, LXXXI-LXXXII, 1965, pp. 152-202 .. Utile è anche il repertorio bibliografico curato da R. RAGGIUNTI nel volume Introduzione a Husserl, Bari, Laterza, 1970. Sulla formazione del pensiero husserliano, seguita nei suoi rapporti con la filosofia kantiana e il neo-kantismo, importante è la ricerca di J. KERN, Husserl und Kant, Den Haag, NijhofT, 1964. Sulla problematica dell'intersoggettività e degli a-priori segnaliamo gli studi di: E. FINK (1933); M. MERLEAU-PONTY (1945); L. LANDGREBE (1949); Q. LAUER (1955); A. SCHUTZ (1959); M. DUFRENNE (1959); L. ELEY (1962); A. MASULLO (1962). In particolare per il problema dell'intersoggettività segnaliamo la ricerca di A. MASULLO (1964). Per la tematica del tempo nella fenomenologia husserliana si devono ricordare le ricerche di: E. LEVINAS (1930); G. BRAND (1955); E. PACI (1961); G. EIGLER (1961). Studi rilevanti per la problematica logica-verità sono quelli di: A. DE WAELHENS (1953); E. MELANDRI (1960); J. DERRIDA (1967). Si devono inoltre segnalare gli studi che hanno istituito un confronto marxismo-fenomenologia: TRAN-DUC-TAO (1951); TH.W. ADORNO (1956); E. PACI (1963). Per la più recente bibliografia crociana, cfr. l'Introduzione bibliografica di V. Stella, Croce, in: AA.VV., Questioni di storiografia filosofica. Il pensiero contemporaneo, 2 voli., Brescia, La Scuola, 1978. Tra gli studi interpretativi si segnala: E. GARIN (1959). Per un particolare riferimento al problema della metafisica in Croce, cfr.: D. FAUCCI (1950); A. MASULLO (1971). Per la bibliografia bergsoniana, si segnala il numero speciale del Giornale di Metafisica, 6, 1959. Tra gli studi critici si ricorda: V. MATHIEU (1961); MAURÉLOS (1964). La più recente bibliografia heideggeriana è quella curata da H.M. Heidegger-Bibliographie, Meisenheim am Gian, Hain, 1968, aggiornata con un successivo volume dallo stesso autore in collaborazione con altri studiosi, Materialien zur Heidegger-Bibliographie, Meisenheim am Gian, Hain, 1975. Tra gli studi interpretativi si deve innanzitutto segnalare quello di o. POGGELER (1963), che prende in esame il ripensamento heideggeriano della storia della metafisica. Segnaliamo inoltre le ricerche di P. CHIODI (1952); K. LOWITH (1953) e W. SCHULZ (1957). Ancora con particolare riferimento al problema della metafisica nel SASS,

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Guida bibliografica

pensiero heideggeriano segnaliamo gli studi più recenti di G. SIEWERTH (1959); G. VATTIMO (1963); A. COLOMBO (1964); H.G. GADAMER (1972); J. BEAUFRET (1973·1974). Per una bibliografia su M. Merleau-Ponty rimandiamo all'appendice bibliografica di Fenomenologia della percezione, trad. it. di A. Bonomi, Milano, Il Saggiatore, 1965. Significativi studi su M. Merleau-Ponty sono: A. DE WAELHENS, Une Philosophie de l'ambiguité, Louvain, Bibliothéque philosophique de Louvain, 1951; J. HYPPOLITE, Sens et existence dans la philosophie de M.-P., London, Oxford Univ. Press, 1963. Interpretazioni di Merleau-Ponty nel quadro generale della fenomenologia e dell'esistenzialismo si trovano in: F. JEANSON, La Phénoménologie, Paris, Téqui, 1951 (trad. it. La Fenomenologia, Milano, Sugar, 1962); J. LYOTARD, La Phénoménologie, Paris, P.U.F., 1954; s. DE BEAU· VOIR, La force des choses, Paris, Gallimard, 1963. Per il problema dei rapporti tra fenomenologia e marxismo presenti in Merleu-Ponty va ricordato: G. LUKACS, Existenzialisme ou Marxi· sme?, Paris, Nagel, 1961.

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Guida bibliografica

Bibliografia generale AA.VV.

1952 Problèmes acutels de la phénoménologie, Louvain, Desclée De Brouwer 1967 Prospect for Metaphysics, London, Allen and Unwin L.T.D.; trad. it. Prospetti per una metafisica, a cura di J. Ramsey, Roma, Abete, 1967 1969 Conversazioni con Foucault, Levi-Strauss, Lacan, a cura di P. Caruso, Milano, Mursia 1979 Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Torino, Einaudi 1979 Romanticismo Esistenzialismo Ontologia della libertà, Milano, Mursia ABBAGNANO, N.

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1887 Opera omnia, in: MIGNE, Patrologia latina, voli. 32-47, a cura di J.P. Migne, Paris, Granier 1966 Le Confessioni, Torino, Einaudi ALAIN (CHARTIER, E.)

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1974 Metaphysics, The Hague, NijhofI (Il ed.) ARISTOTELE

1924 Aristotle's Metaphysics, 2 voll., a cura di W.D. Ross, Oxford, CJ.a.. rendon 1848 Oeuvres, 5 voll., Paris, Didot, 1848-1877 1968 Metafisica, 2 voll., a cura di G. Reale, Napoli, Lofiredo 1973 Opere, 4 voll., a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari, Laterza 1974 Metafisica, a cura di C.A. Viano, Torino, UTET ARNIM, H.F. VON

1903 Stoicorum veterum phragmenta, 4 voll., (il IV a cura di M. Adler), Stuttaardiae, in aedibus Teubneri, 1903-1924 (rit., Lipsiae-StuttgarMauritius_in_libris

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Questo volume è stato impresso nel mese di maggio 1980 presso la Nuova Stampa di Mondador/ - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in ltaly

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Questo volume è stato impresso nel mese di maggio 1980 presso la Nuova Stampa di Mondadori - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in ltaly I edizione Oscar Studio Mondadori maggio 1980

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