Riassunti Economia Industriale [PDF]

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Zitiervorschau

Organizzazione Industriale Capitolo 1: Una panoramica dell’organizzazione industriale L’organizzazione industriale è la disciplina economica che studia la struttura delle imprese e dei mercati e le loro modalità di interazione. Per affrontare lo studio dell’organizzazione industriale esistono due approcci: 1. La struttura – comportamento - risultato (SCR o anche struttura – comportamento – performance), è un approccio descrittivo, finalizzato a dare una visione di sintesi dell’organizzazione industriale. Questo approccio prevede che i risultati economici di un’industria dipendono dal comportamento delle imprese, che a sua volta è funzione della struttura, che a sua volta ancora dipende da fattori di base, come tecnologia e domanda. Un elemento che accomuna fattori di base, struttura, comportamento e il risultato sono le politiche pubbliche. 2. La teoria della formazione dei prezzi è un approccio che spiega il comportamento delle imprese e la struttura del mercato avvalendosi dei modelli microeconomici. Di conseguenza, i modelli che si basano su questa teoria spiegano i fenomeni di mercato mediante l’analisi degli incentivi economici che si trovano di fronte i singoli individui e singole imprese. Nel corso degli ultimi anni notevole consenso è stato raccolto da tre sviluppi teorici microeconomici: a. L’analisi microeconomica dei costi delle transazioni, cioè delle spese che si devono sostenere per effettuare uno scambio, parte dalla differenza esistente in tali costi per spiegare la diversa SCR nelle diverse industrie. Ronald H. Coase, nel 1937, ha affermato che l’impresa e il mercato rappresentano due mezzi diversi per organizzare l’attività economica. Oliver Williamson, nel 1975, ha sostenuto che alla base dell’analisi dei costi di transazioni vi siano quattro principi: 1) i mercati e le imprese sono due mezzi diversi per compiere una serie di transazioni correlate; 2) il costo relativo del ricorso al mercato rispetto all’uso delle risorse interne determina il tipo di scelta; 3) i costi di transazione relativi alla stesura ed alla garanzia dell’osservanza di contratti variano a seconda delle caratteristiche dei soggetti responsabili e delle caratteristiche oggettive del mercato; 4) l’insieme dei fattori umani ed ambientali influenza i costi delle transazioni. Questo approccio mira ad individuare i fattori ambientali (incertezza e numero di imprese operanti nel medesimo mercato) ed umani (razionalità limitata e comportamento opportunistico) che spiegano l’organizzazione interna delle imprese e dei mercati. Il ricorso al mercato comporta elevati costi di transazione, qualora l’incertezza e la razionalità limitata si combinano, oppure quando ci sono poche imprese operanti nel mercato ed essere si comportano in modo opportunistico. b. La teoria dei giochi è stata ideata, nel 1944, da Von Neumann e Morgenstern e si può applicare nei contesti caratterizzati da un numero limitato di imprese. Questa teoria si avvale di modelli formali per analizzare i fenomeni di conflitto e di cooperazione tra imprese ed individui. La teoria dei giochi considera la concorrenza come un gioco di strategie, cioè come l’interazione tra diversi piani di azione formulate dalle singole imprese. Questa teoria spiega i criteri in base ai quali le imprese decidono le proprie strategie e le modalità secondo cui tali strategie determinano i profitti di ciascuna impresa.

c. L’analisi dei mercati contendibili , cioè quei mercati nei quali si può entrare ed uscire in modo facile e rapido. Baumol, Panzar e Wilig ritengono che le imprese sono riluttanti ad entrare in dei mercati quando uscirne comporta costi elevati. Nel caso di un numero limitato di imprese il mercato contendibile ha le stesse caratteristiche del mercato concorrenziale, in cui il prezzo è uguale al costo marginale (p = MC) e l’analisi del comportamento strategico è irrilevante.

Capitolo 2: Impresa e costi L’impresa è un’organizzazione produttiva che trasforma gli input in output. Il profitto di un’impresa è dato dalla differenza tra i ricavi derivanti dalla vendita dei beni prodotti e dai costi relativi all’acquisto delle risorse utilizzate per la produzione e la vendita. La maggior parte delle imprese ha come finalità la massimizzazione dei profitti (sono denominate imprese a scopo di lucro), di conseguenza deve essere capace di produrre al minor costo possibile, in base alla tecnologia disponibile ed al prezzo degli input. Paragrafo 2.1: “L’impresa ed i suoi obiettivi”. L’obiettivo di molte imprese è quello di fare profitti, di conseguenza esse vengono denominate imprese a scopo di lucro (for – profit firms); tuttavia, esistono anche organizzazioni che operano a fini caritatevoli o senza scopo di lucro (non – profit firms). L’ipotesi sottostante alla maggioranza dei modelli economici è che l’obiettivo primario dei dirigenti di un’impresa consista nella massimizzazione dei profitti dell’impresa stessa. A tal fine i dirigenti devono far sì che l’impresa venda la quantità ottima di prodotto e realizzi l’efficienza produttiva, ciò significa che, partendo dall’impiego di una certa quantità di fattori di produzione, si ottenga la massima produzione possibile avvalendosi della tecnologia disponibile. Tuttavia, potrebbe accadere che i dirigenti puntino alla massimizzazione di altri interessi, di conseguenza esistono fattori, come ad esempio la proprietà di azioni o forme di compensi legate ai risultati aziendali, che riducono l’incentivo dei dirigenti a tenere comportamenti non inerenti con la finalità dell’impresa. La proprietà di un’impresa e il controllo sulle attività da essa svolte possono assumere forme diverse. •

Le forme proprietarie, più comuni USA sono: l’impresa individuale; la società di persone e la Società per azioni. In Italia, invece, ne esistono, invece, diverse: ditta individuale; società di persone (ss, snc, sas); società di capitali (srl, spa, sapa). Per le ditte individuali e per le snc i soci rispondono illimitatamente dei risultati aziendali, di conseguenza sarà in rischio non solo il patrimonio dell’impresa, ma anche il patrimonio personale, al contrario nelle sas il patrimonio personale sarà messo in rischio solo per i soci accomandatari, mentre gli accomandati rispondono, come nelle società di capitali, solo per il capitale da loro sottoscritto. Le società di persone presentano un problema derivante dal fatto che in caso di abbandono da parte di un socio, la società si dissolve automaticamente; in Italia questo vale solo per le società di persone costituite da due soci. Il capitale delle S.p.A. è ripartito in azioni, le quali sono possedute dai soci, i quali hanno una responsabilità limitata rispetto ai debiti aziendali, di conseguenza qualora la società fallisca, essi non sono tenuti a pagare i debiti della stessa ricorrendo al proprio patrimonio personale, ma sarà utilizzato solo il capitale sottoscritto. L’aumento dell’importanza delle SpA e la corrispondente espansione dei mercati azionari sono fenomeni recenti. Una S.p.A. può reperire fondi sia mediante la vendita delle proprie quote azionarie, sia con l’emissione di obbligazioni; gli azionisti eleggono un Consiglio di Amministrazione (Cda) a cui affidano la direzione della società. Gli azionisti possono ottenere una remunerazione in diversi modi, ad esempio: tramite la cessione delle proprie azioni (qualora il valore sia superiore a quello d’acquisto), oppure tramite l’eventuale distribuzione dei

dividendi. Gli obbligazionisti sono pagati prima rispetto agli azionisti, di conseguenza è più prudente acquistare le obbligazioni, tuttavia a fronte di un minore rischio il rendimento di quest’ultime sarà minore rispetto a quello ottenuto con il possesso di azioni, poiché sennò si avrebbe un disincentivo ad acquistarle. Quando un’impresa aumenta il proprio indebitamento, varia il rapporto tra obbligazioni ed azioni, infatti, a seguito di un maggior rischio, i rendimenti attesi degli azionisti lieviteranno. •

Separazione tra proprietà e controllo. Il rapido aumento dell’importanza delle S.p.A. suscitò, intorno agli anni ’30, un acceso dibattito circa l’efficienza di tale forma organizzativa. L’elemento che scatenò il dibattito fu il libro di Berle e Means del 1932 (The Modern Corporation and Private Propriety), poiché secondo gli autori la S.p.A. è la causa della separazione tra la proprietà e il controllo, così facendo è possibile che i dirigenti potranno non coincidere con gli azionisti, inoltre potrebbe accadere che questi soggetti abbiano interessi e obiettivi che siano alternativi a quelli degli azionisti. Nonostante questa possibilità, spesso nelle S.p.A. l’azionista non controlla, personalmente, l’operato dei dirigenti, poiché viene eletto un Cda, finalizzato a tutelare gli interessi degli azionisti e a controllare l’efficiente gestione della società. Il lavoro del Cda è oggetto di controllo da parte degli azionisti, i quali potrebbero negare la possibile rielezione di un consigliere, minando così la credibilità di cui godeva, tuttavia, secondo Berle e Means, questo controllo non dà garanzia di un comportamento idoneo da parte dei dirigenti. Oltre al conflitto di obiettivi tra dirigenti ed azionisti, potrebbe esserci un secondo tipo di conflitto, ossia tra obbligazionisti ed azionisti. Gli obbligazionisti sono coscienti della divergenza esistente tra i propri interessi e quelli degli azionisti, quindi insistono per la stipulazione di patti obbligazionari che comportano restrizioni sulle decisioni della società in materia di progetti di investimento e di ulteriori finanziamenti.



Dimensioni dell’impresa. L’impresa può seguire due modi diversi per procurarsi beni e servizi, cioè fare ricorso: al mercato o alla produzione interna (scelta che si favorirà quando si sostengono elevati costi di interazione e contrattazione con altre imprese). Un fattore che limita il processo di espansione della produzione interna è il costo da sostenere necessariamente per controllare in modo diretto e costante che tutta l’azienda opera secondo criteri di efficienza e di redditività. La maggior parte delle imprese statunitense è di piccole dimensioni, nonostante siano quelle di grandi dimensioni a partecipare al maggior parte delle vendite ed a dare maggiori posti di lavoro. Tuttavia, recentemente a seguito della maggiore produttività dei manufatti, la quota percentuale della forza lavoro occupata dall’industria manifatturiera si è ridotta dal 34% al 13%, questo ha fatto si che l’occupazione si spostasse verso il settore dei servizi, costituito da aziende di dimensioni ridotte.

Paragrafo 2.2: “Fusioni ed acquisizioni”. Un’impresa può espandersi mediante l’investimento oppure mediante fusioni o acquisizioni, cioè operazioni che permettono di combinare i capitali e le attività di diverse imprese esistenti, al fine di crearne una nuova. In merito alle fusioni, si può distinguere: 

Le fusioni verticali, in cui un’impresa si unisce con un suo fornitore;



Le fusioni orizzontali, in cui vi è l’unione di due imprese concorrenti;



Le fusioni conglomerali, in cui l’operazione riguarda imprese operanti in settori non correlati.

Le motivazioni che portano ad effettuare operazioni di fusione o di acquisizione sono: l’aumento della profittabilità e il miglioramento del grado di efficienza economica complessiva. Le fusioni non sempre soddisfano le motivazioni per cui vengono effettuate, infatti si hanno:  Le fusioni che aumentano il livello di efficienza sono molto desiderabili per le società e si possono raggiungere in diversi modi: 

Aumento della dimensione ottimale , così si riducono le ridondanze e si sfruttano i vantaggi derivanti dall’aumento della dimensione(es.tagliare i costi di gestione affidando la gestione ad un unico gruppo);



Creazione di sinergie, così facendo si sfruttano i vantaggi propri delle economie di scopo;



Miglioramento del management, acquistare un’impresa mal gestita e inserire un management migliore è una fonte di profitto, tuttavia potrebbe accadere che i dirigenti di un’impresa non curino gli interessi degli azionisti, di conseguenza ostacoleranno l’acquisizione per conservare la propria posizione. Se nonostante l’azione difensiva da parte dei dirigenti, l’acquisizione si effettuasse lo stesso, si parlerà di acquisizione ostile. I dirigenti si potrebbero convincere che i profitti aumenterebbero solo se il Cda acconsentisse di licenziare un certo numero di dipendenti e di vendere alcune parti dell’impresa, tuttavia questi cambiamenti, solitamente, non sono accettati né dagli azionisti né dal Cda, così da indurre i dirigenti stessi a rilevare l’impresa mediante un’operazione di acquisizione (management buyout), in modo tale da non avere più azionisti esterni a cui rendere conto. Spesso i dirigenti non hanno le risorse finanziarie per acquistare le quote azionarie necessarie, di conseguenza possono fare ricorso ad operazioni di leveraged buyout (LBO), cioè vendono obbligazioni garantite (junk bond) dal valore dell’attivo contabile dell’impresa. Le junk bond, sono anche denominate obbligazioni spazzatura, dato l’elevato rischio ed il conseguente rendimento elevato; tuttavia è meglio avere delle junk bond, che delle azioni, poiché qualsiasi obbligazione è pagata sempre prima dell’azione.

 Le fusioni che riducono il livello di efficienza possono, in alcuni casi, far trarre dei profitti ai proprietari. Di conseguenza, esse possono avvenire per una serie di ragioni: 

Per ragioni fiscali;



Per motivi di sfruttamento, poiché si vogliono ottenere guadagni immediati, anche sapendo di andare incontro a perdite future;



Per potere di mercato o di influenza politica, poiché si avrebbe una minore concorrenza e si potrebbe stabilire un prezzo superiore al prezzo concorrenziale. In Italia e negli USA le leggi antitrust proibiscono questo genere di fusioni.

Benché i giornali considerano che il periodo attuale è l’epoca d’oro delle fusioni, in passato questo tipo di operazioni ha avuto un’importanza anche maggiore; tuttavia si hanno notevoli difficoltà nel raccogliere dati, inoltre venivano ignorate le fusioni tra piccole aziende. Le maggiori ondate di fusioni ed acquisizioni sembrano coincidere con le fasi di boom del mercato azionario. Analizzando l’evoluzioni storica delle fusioni e delle acquisizioni, si possono individuare 5 periodi caratterizzati da una grande intensità del fenomeno:

1. I primi anni del ‘900 è un periodo denominato da George Stilger “movimento delle fusioni verso il monopolio”. In questi anni l’economia statunitense era in fase di mutamento dopo lo sviluppo delle ferrovie e delle comunicazioni, inoltre da un lato, il mercato azionario stava aumentando la sua importanza; dall’altro lato, si stava assistendo alla creazione di imprese di grandi dimensioni. La fine dell’ondata delle fusioni coincise con il rallentamento dell’economia e con il verdetto emesso dalla Corte Suprema, nel 1904, nel quale si affermava che talune fusioni orizzontali violavano le leggi antitrust. 2. La fine degli anni ‘20 è un periodo denominato da George Stilger “movimento delle fusioni verso l’oligopolio”. 3. La fine degli anni ’60 è un periodo denominato da George Stilger “movimento delle fusioni conglomerali”, dato che molte fusioni concluse in questo periodo diedero vita alle imprese conglomerali,ovvero (holding) capaci di controllare imprese operanti in settori diversi. 4.

Gli anni ’80 vedono la diffusione di una serie di acquisizioni ostili.

5. Gli anni ’90 è un periodo denominato “ondata delle fusioni da deregolamentazione”, dato che molte fusioni interessavano settori oggetto di deregolamentazione, come il settore aereo e il settore delle telecomunicazioni. I mass media sostengono che le fusioni degli anni ’80 e degli anni ’90 hanno avuto un’intensità superiore rispetto al passato. Quest’affermazione, tuttavia, è vera guardando solo il numero delle operazioni, infatti l’economia di oggi è di dimensioni notevolmente maggiori, rispetto al passato, quindi rapportando il numero delle fusioni alle dimensioni dell’economia (quindi il PIL reale, cioè corretto in base al tasso d’inflazione), si otterrebbe che il fenomeno ha raggiunto il punto massimo all’inizio del 1900. Tradizionalmente le fusioni in Europa, rispetto negli USA, sono meno comuni. Uno degli argomenti più controversi delle economie di transizioni dell’Europa centrale e dell’Europa orientale è stato la ristrutturazione delle imprese statali. Alcuni Paesi dell’Europa orientale hanno privatizzato le imprese statali, mentre altri Paesi appartenenti al medesimo contesto geografico, hanno cercato di trasformare le imprese, prima di procedere alla vendita. La questione circa gli effetti economici dell’ondata di fusioni e acquisizioni è stata al centro di un dibattito, poiché se da un lato le fusioni che aumentano l’efficienza sono altamente gradite, dall’altro lato sono problematiche le fusioni finalizzate a ottenere guadagni di breve periodo per un piccolo gruppo di speculatori disinteressati al buon andamento dell’impresa nel lungo periodo. Le fusioni, inoltre, hanno la problematica di voler ottenere un aumento del potere di mercato, con la conseguenza di far aumentare i prezzi oltre al livello concorrenziale, causando così un danno ai consumatori. Dagli studi sulle fusioni e sulle acquisizioni, emerge che:  Profitti per l’impresa acquisita. Gli azionisti di un’impresa acquisita ricevono una somma che va dal 16% al 25% superiore al prezzo di mercato delle azioni vigenti nel periodo pre – acquisizione. L’incremento del prezzo delle azioni, avviene nel momento immediatamente precedente al pubblico annuncio della transazione. La percentuale incassata dagli azionisti è aumentata in seguito al Williams Act, che ha imposto di pubblicizzare i progetti di acquisizione, inoltre i profitti degli azionisti sono incrementati nel tempo.  Effetti degli ostacoli alle acquisizioni. Le tattiche adottate dal management al fine di impedire le acquisizioni riducono la probabilità di riuscita dell’acquisizione stessa, ma al contempo aumentano il prezzo dell’acquisizione se essa si concretizzerà. Esistono diverse misure difensive sui prezzi delle azioni, che possono essere attuate, ad esempio:



L’impresa può ricorrere alla maggioranza qualificata, secondo la quale i dirigenti proprietari di una certa quantità di quote azionarie, potrebbero tentare di far approvare una clausola, in base alla quale chiunque sia intenzionato ad ottenere il controllo dell’impresa deve avere l’approvazione della maggioranza qualificata (superiore al 50%). Questa clausola provoca una riduzione del prezzo delle azioni.



L’impresa può ricorrere alla clausola greenmail, secondo la quale l’impresa riacquista le azioni in possesso dell’investitore che sta tentando l’acquisizione pagando un premio aggiuntivo rispetto al prezzo di mercato. Quest’azione influenza negativamente il prezzo delle azioni.



L’impresa può ricorrere alla clausola poison - pills, secondo le quali la società acquisita deve offrire le proprie azioni agli azionisti originari ad un prezzo molto conveniente, riducendo il valore della quota azionaria controllata dal nuovo proprietario. Questa clausola porta ad una riduzione notevole del prezzo delle azioni.

 Profitti per l’impresa acquisitrice. Gli azionisti di un’impresa acquisitrice non hanno profitti sostanzialmente superiori alla media in seguito all’esito positivo di un’acquisizione. Gli azionisti avranno una situazione migliore, a seguito di un’acquisizione ostile, rispetto a quella che avrebbero in caso di fusione amichevole. Il rendimento per l’impresa acquisitrice dipende dalla modalità di finanziamento dell’acquisizione, poiché è superiore qualora il pagamento avvenga a mezzo liquido. I dirigenti di un’impresa, dinanzi al tentativo di acquisizione ostile, possono ricercare un acquirente alternativo (white knight) che vorrà assumere il controllo dell’impresa mantenendo l’attuale management.  Effetti per la società nel suo complesso. Il valore complessivo delle azioni delle imprese coinvolte in una fusione aumenta di una percentuale compresa dal 2% al 7,5%. L’aumento del valore di un’impresa a seguito di una fusione non è dovuto alla creazione di potere di mercato. Se la fusione è finalizzata a far ottenere un maggiore potere di mercato, i prezzi pagati dai consumatori aumenteranno, di conseguenza la fusione avvantaggerà anche le imprese concorrenti. Se, invece, il motivo dell’operazione consiste in un miglioramento dell’efficienza produttiva, l’impresa derivante dalla fusione diventerà più forte nei confronti dei concorrenti, questo porterà ad una riduzione del prezzo delle quote azionarie delle imprese concorrenti. Per verificare la maggiore efficienza delle imprese nate a seguito di una fusione, alcuni ricercatori, anziché basarsi sulle quote azionarie, utilizzano i dati contabili delle nuove imprese. Questo cambiamento è stato pensato, perché altrimenti si potrebbe sostenere che le operazioni di fusione e di acquisizione creano solo un valore fittizio sul mercato azionario, dovuto o all’ingiustificato trasferimento di ricchezza agli azionisti dell’impresa acquisita, oppure ad errori di valutazione da parte del mercato azionario. Dall’esame di Mueller, del 1997, su 20 studi inerenti 10 Paesi emerge che solo pochi di essi attestano un aumento di profittabilità a seguito di operazioni di fusione. A seguito di uno studio di Rousseau del 2001, il quale evinse che le fusioni tendono a concentrarsi negli stessi settori industriali si può desumere che, le stesse fusioni, hanno luogo per motivi di efficienza produttiva. Nel 1988, Hall sottolineò che le spese per le attività di R&S non sono influenzate dai cambiamenti di proprietà delle imprese. Paragrafo 2.3: “Concetti di costo”. Un’impresa, se gestita in modo efficiente, è in grado di produrre al minor costo possibile; questo significa che ogni impresa ha bisogno di conoscere i propri costi di produzione. Al riguardo esistono vari metodi di misurazione dei costi, ed ogni concetto di costo può essere adeguato all’analisi di alcuni problemi piuttosto che di altri. Esistono diverse tipologie di costo:



Il costo fisso (F), è una spesa che non varia al variare del livello di produzione (q) (esempio spese di affitto mensile). Quando si prende una decisione, il costo fisso deve essere analizzato prendendo in considerazione la parte di tale costo che può essere recuperata (costi evitabili), invece può essere trascurata la parte del costo fisso che non può essere più recuperata, cioè il costo non recuperabile (sunk cost).



I costi variabili (VC), sono costi che variano al variare del livello di produzione. Per questo motivo sono indicati come funzione della quantità prodotta.



I costi totali (C) sono la somma dei costi fissi e dei costi variabili, quindi formalmente si avrà che: C = F + VC



Il costo medio, al riguardo si possono distinguere tre tipologie di tale tipologia di costo: 1. Il costo totale medio(costo medio AC) (ATC), equivale al rapporto tra costo totale e quantità prodotta, quindi formalmente si ha che: ATC = C(q)/q (è uguale alla somma di AVC(q) e AFC(q)). 2. Il costo variabile medio (AVC), equivale al rapporto tra costo variabile e quantità prodotta, quindi formalmente si avrà che: AVC = VC(q)/q 3. Il costo fisso medio (AFC), equivale al rapporto tra costo fisso e quantità prodotta, quindi formalmente si avrà che: AFC = F/q



Il costo marginale (MC) è l’incremento di costo risultante dalla produzione di unità addizionale di output. Questo, conseguenza delle distinzioni fatte prima, è pari al corrispondente aumento del costo variabile. Poiché il costo marginale è indipendente dai costi fissi, e il costo medio non lo è, non è sempre vero che, per qualunque livello di produzione il costo marginale sia inferiore al costo medio. Il motivo per cui il costo marginale può essere superiore al costo medio è che esso si riferisce alle variazioni di costo, e non ai livelli assoluti. MC=dC(q)/dq.

Il costo variabile medio AVC è sempre inferiore ad AC. Tra il costo marginale, il costo variabile medio ed il costo totale medio esiste una relazione geometrica. Quando la curva del costo marginale è situata sotto la curva del costo variabile, si ha che la curva del costo variabile medio è decrescente, altrimenti la curva sarà crescente. Quando la curva del costo marginale uguaglia la curva del costo variabile medio, allora la curva AVC è al suo punto di minimo, stesso discorso può essere fatto per la curva del costo totale medio AC. Inoltre all’aumentare della produzione il costo fisso medio tende a zero ed il costo variabile medio si avvicina al costo totale medio. Questo grafico (PAG.27) mostra l’andamento di una tipica curva di costo medio di breve periodo, in relazione alla quantità prodotta: prima o poi il costo medio aumenta all’aumentare della produzione. Questo avviene perché continuando ad aumentare il livello produttivo in un dato stabilimento, la produzione diventa più costosa se i prezzi restano costanti. Se i prezzi dei

fattori produttivi dovessero aumentare l’intera curva relativa al costo medio si sposterebbe verso l’alto. Una curva di costo riassume in sé un insieme di informazioni, poiché, ad esempio conoscendo il mutare della curva al variare dei fattori di produzione, è possibile dedurre la tecnologia di produzione di un’impresa (relazione tra fattori ed output), la quale indica la quantità massima di output producibile a partire da un determinato insieme di fattori di produzione. Sebbene le definizioni dei diversi concetti di costo possano sembrare semplici, in realtà implicano una serie di problematiche: 1. Elementi diversi dal livello di produzione. I costi di un’impresa dipendono dalla quantità di output prodotta partendo da un determinato insieme di prezzi dei fattori di produzione, i quali, tuttavia, non sono gli unici elementi ad influire sul costo. Il costo di produzione, di conseguenza, non dipende solo dall’output, ma anche dalla relativa velocità di produzione e dalla sua variazione nel tempo, dal momento che produrre velocemente comporta costi maggiori, ma produrre seguendo un ritmo costante permette di avere un effetto riduttivo sui costi stessi. Per un’impresa potrebbe risultare conveniente sostenere dei costi al fine di rendere il proprio impianto a diversi livelli di produzione. 2. Breve periodo e lungo periodo. Il breve periodo è un lasso di tempo così breve da non consentire una variazione a costo zero di alcuni tra i fattori di produzione impiegati. Il lungo periodo è un lasso di tempo sufficientemente esteso da consentire, invece, una variazione di tutti i fattori di produzione a costo zero. Tra breve e lungo periodo non esiste una linea netta di demarcazione, poiché c’è un continuum di periodi dove l’aggiustamento è tanto più agevole quanto maggiore è la durata del periodo considerato. L’impresa, quindi, dovrà sostenere costi di aggiustamento tanto più elevati, quanto più rapido è l’aggiustamento della propria capacità produttiva. Nel lungo periodo la configurazione di un’impresa può essere variata senza restrizione mentre nel breve periodo la rosa delle scelte possibili è limitata; di conseguenza, il costo medio di lungo periodo (LRAC) è minore o uguale al costo medio di breve periodo. Questa relazione implica che la curva di lungo periodo sia costituita dall’avvolgersi delle curve di breve periodo.

3. Costo opportunità. Adam Smith affermò che il prezzo effettivo di un bene corrisponde allo sforzo ed alla preoccupazione per ottenerla. Questo significa che il costo opportunità di un’azione equivale al valore della migliore alternativa di utilizzo delle risorse impiegate per quella determinata azione. I costi opportunità indicano la convenienza o meno a proseguire una determinata attività, il proprietario dell’impresa, infatti, calcola il profitto come: ricavo meno il costo opportunità. Il concetto di costo opportunità è utile al fine di decidere se un’impresa debba continuare a utilizzare i propri beni capitali, anche nel caso in cui questi potessero essere facilmente dati in affitto. Il costo opportunità stima le risorse utilizzate ad un prezzo che corrisponde alla massima valutazione possibile all’esterno, di conseguenza se tutti i costi fossero stimati in base al costo opportunità basterebbe che il profitto sia nullo per affermare la convenienza a continuare l’attività svolta. Alcuni economisti ritengono che il costo opportunità attribuisca alla risorsa un profitto normale, cioè il più alto profitto possibile ottenibile da un uso alternativo della risorsa, poiché assegna alle singole risorse il valore che queste avrebbero se fossero utilizzate nel modo alternativo più redditizio. 4. Spese e ammortamento. I costi sono classificati in: spese quando si considera il costo di acquisto; in ammortamenti, invece, se i costi si ripartiscono lungo il ciclo di vita del bene acquistato. Paragrafo 2.4: “Economie di scala”. Quando un’impresa aumenta il proprio livello di produzione i costi medi possono: rimanere costanti, così l’impresa godrà di rendimenti di scala costanti ; possono aumentare, così l’impresa avrà diseconomie di scala, denominate rendimenti di scala decrescenti, quindi il costo marginale è maggiore del costo medio ; oppure possono diminuire, così l’impresa avrà economie di scala, denominate rendimenti di scala crescenti, quindi il costo marginale è inferiore al costo medio . Nel caso in cui un’impresa goda di economie di scala per qualsiasi livello di output, risulterà efficiente che quell’impresa produca l’intero output relativo all’industria. Esistono diversi motivi che inducono a prevedere una riduzione dei costi medi di un’impresa in corrispondenza dell’aumento del suo livello di output, ad esempio: 

La riduzione dell’incidenza unitaria dei costi fissi;



La possibilità di utilizzare il personale per mansioni più specializzate: Lo sviluppo di competenze specifiche richiede dei costi, di conseguenza le imprese che avranno convenienza dall’avere dipendenti specializzati, sono quelle che richiedono una frequente ripetizione di tali mansioni;



La legge dei grandi numeri. Gli eventi casuali, in presenza di frequenti ripetizioni, tendono a convergere a zero, così anche le scorte di magazzino tenderebbero allo zero all’aumentare delle dimensioni dell’impresa.



Leggi fisiche (relazione volume e superficie)

Il fatto che un’impresa goda di economie di scala o meno, dipende dal livello di incidenza delle singole funzioni sul totale dei costi. La mera presenza di economie di scala non costituisce necessariamente la soluzione più efficiente ed efficace per un’azienda. Di conseguenza bisogna prendere in considerazione il costo totale medio. Questo si può comprendere mediante lo studio del costo medio totale (AC), considerato come la somma delle economie di scala (ACp), e dei costi di trasporto (ACt). I costi di trasporto aumenteranno con l’ingrandirsi ed allargarsi dell’azienda, poiché si venderanno più beni e si copriranno maggiori distanze. La decisione di localizzazione di uno stabilimento è determinata principalmente dalla comparazione tra i costi relativi al trasporto delle materie prime allo stabilimento ed i costi relativi alla consegna del prodotto finito ai clienti, quindi più alti saranno i costi di trasporto delle materie prime, maggiore sarà la convenienza, per l’azienda, a localizzarsi nelle vicinanze del mercato di reperimento. Al contrario, qualora le materie prime siano disponibili in zone diverse, gli stabilimenti si localizzeranno nelle vicinanze del mercato di sbocco. Decidere in merito al numero ottimale di stabilimenti che un’impresa dovrebbe avere dipende sia dai costi di trasporto delle materie prime e dei prodotti finiti, sia dalle economie di scala relative alla produzione. Di conseguenza, tanto maggiore è l’importanza delle economie di scala nella produzione, tanto più importante per l’azienda è avere un numero limitato di stabilimenti; al contrario tanto maggiore è l’importanza dei costi di trasporto, tanto più importante per l’azienda è avere un numero elevato di stabilimenti.

Alcune imprese hanno curve dei costi medi di lungo periodo a forma di U, che nel punto di minimo è piatta, tuttavia, da alcuni studi sulle imprese manifatturiere emerge che le curve dei costi medi, spesso, assumono una forma a L, poiché all’aumentare dell’output la curva tende verso il basso, dapprima in modo repentino, poi più lentamente ed alla fine diventa piatta.

Questo significa che per bassi livelli di produzione esistono notevoli economie di scala, mentre per livelli di produzioni elevati tali economie tendono ad esaurirsi ed i costi medi si mantengono costanti. In tali curve il punto minimo si ha nel momento in cui la curva diventa piatta. La SEM (Scala Efficiente Minima) è il livello minimo di produzione che permette di minimizzare i costi medi di lungo periodo, la sua individuazione è utile per conoscere il numero di imprese che potrebbero operare nel mercato. Stigler ha sviluppato un approccio utile alla valutazione delle economie di scala, tale approccio ritiene che se una particolare dimensione di stabilimento è efficiente, con il trascorrere del tempo tutte le imprese operanti nell’industria tenderanno ad avvicinarsi a quella dimensione, di conseguenza qualsiasi dimensione che sopravvive nel tempo è efficiente. Le economie di scala indicano la relazione esistente tra diminuzione dei costi medi ed aumento dell’output, quando tutte le altre condizioni rimangono costanti. Paragrafo 2.5: “Concetti di costo relativi ad imprese multi prodotto”. La maggior parte delle imprese non offre un unico prodotto, ma una gamma di prodotti diversi, quindi sono denominate imprese multi prodotto. Se un’impresa produce due o più tipi di prodotti, è impossibile determinare il costo marginale o il costo medio, poiché non esiste un’unica misura riferita all’output, tuttavia si possono definire dei concetti di costo simili a quelli definiti per le imprese mono prodotto. Ad esempio se un’impresa produce q1 unità del Prodotto 1 e q2 unità del Prodotto 2, il costo marginale CM relativo alla produzione del Prodotto 1 corrisponde al costo aggiuntivo sostenuto dall’impresa per passare da una quantità di output q1 ad una quantità q1 + 1, mantenendo costante la quantità q2 del Prodotto 2. Se il calcolo dei costi marginali è semplice, stessa cosa non si può dire per i costi medi, infatti le difficoltà nascono quando si vuole stabilire se il costo totale sia da dividere per la quantità q1 del Prodotto 1 oppure per la quantità q2 del Prodotto 2, oppure ancora se dividere il costo totale per la somma delle due quantità (q1 + q2). Quando la produzione congiunta di due prodotti è più conveniente rispetto alla produzione separata di ciascuno dei due, si parla di economie di scopo: esse implicano che la produzione congiunta è efficiente anche quando questa non avvenga all’interno di una singola impresa, poiché

la produzione potrebbe, anche, essere svolta da imprese affiancate. Le economie di scopo sono determinate da una serie di fattori, ad esempio l’impiego di comuni fattori di produzione, come l’informazione. Capitolo 3: La concorrenza Paragrafo 3.1: “La concorrenza perfetta”. La concorrenza perfetta si ha raramente, tuttavia rappresenta un ideale riferimento con cui paragonare i vari mercati. La concorrenza perfetta gode di alcuni presupposti: 

Bene omogeneo e perfettamente divisibile. Le imprese vendono un prodotto identico e per i consumatori è impossibile distinguere i prodotti delle diverse imprese.



Informazione perfetta. I venditori e gli acquirenti conoscono tutti i dati rilevanti del mercato, compreso il prezzo e la quantità del prodotto. Tuttavia le imprese possono produrre e i consumatori acquistare solo una piccola parte di output,così che non ci siano grandi oscillazioni della domanda e della offerta.



Assenza di costi di transazione. I venditori e gli acquirenti non devono sostenere tasse o costi per entrare nel mercato.



Price taker. Le imprese considerano il prezzo come dato, poiché, su di esso, non possono esercitare alcuna influenza, di conseguenza i prezzi saranno definiti dal mercato.



Assenza di esternalità. Ogni impresa sostiene i costi totali del processo produttivo, questo fa sì che non ci sono costi che un’impresa impone ad un’altra senza pagare una compensazione. Ad esempio l’inquinamento è un’esternalità se l’impresa non paga i costi che dal suo inquinamento produce alle altre imprese o ai consumatori.

Al fine di esaminare il comportamento tipico di un’impresa che opera in un mercato di concorrenza perfetta, si nota che l’obiettivo di ogni impresa è la massimizzazione dei profitti, i quali sono dati dalla differenza fra ricavi e costi totali di produzione [π = pq – C(q)]. L’impresa concorrenziale essendo price taker, potrà vendere qualsiasi quantità di output al prezzo p (curva di domanda orizzontale), di conseguenza la curva di domanda sarà perfettamente elastica. All’impresa conviene aumentare l’output fino a quando il ricavo marginale derivante dalla vendita di un’unità addizionale di prodotto sia superiore al costo marginale sostenuto per produrre l’unità stessa, di conseguenza un’impresa dovrà aumentare l’output finché il prezzo sarà uguale costo marginale (p = MC). Un’impresa produce solo se farlo è più proficuo che non produrre, cioè solo se i ricavi derivanti dalla produzione superano i costi evitabili (sunk cost), cioè quei costi che non si sosterrebbero se cessasse la produzione. I ricavi che eccedono i costi evitabili sono detti quasi rendite, cioè pagamenti superiori all’importo minimo necessario a mantenere un’impresa in attività nel breve periodo. Se tutti i costi fissi sono irrecuperabili, i costi evitabili coincidono con quelli variabili, di conseguenza l’impresa dovrebbe continuare ad operare solo se i ricavi siano pari o superiori al costo variabile totale, quindi l’impresa dovrebbe vendere al prezzo p, solo se è almeno pari al costo variabile medio. Un’impresa trova più proficuo produrre, rispetto a cessare la produzione, se il prezzo è inferiore al punto di minimo del costo totale medio AC, ma superiore al punto minimo del costo variabile medio AVC, dato che il primo sarà composto sia dai costi variabili sia dai costi fissi (AVC* < p < AC*). Se tutti i costi sono irrecuperabili un’impresa è attiva solo se p è almeno maggiore al punto di minimo dei costi variabili medi AC. Il prezzo al quale un’impresa cessa di produrre è detto punto di chiusura (ps) ed è dato dal punto di minimo dei costi variabili

medi; di conseguenza per un prezzo maggiore del punto di minimo dei costi variabili medi, l’impresa opererà lungo la curva di offerta dell’impresa , cioè nella parte della curva dei costi marginali che sta sopra il punto di chiusura. Un’impresa che subisce delle perdite nel breve periodo, nel lungo periodo non reinvestirà più, poiché non vorrebbe far aumentare i costi irrecuperabili, preferendo così di cessare la produzione. Se i costi fissi non sono irrecuperabili, la decisione di chiusura dipende dal fatto che i ricavi superino o meno i costi evitabili, al contrario se non tutti i costi fissi sono irrecuperabili a un prezzo uguale al punto di minimo dei costi variabili medi non è sufficiente ad impedire la chiusura dell’impresa. Al punto estremo si ha la situazione in cui non ci siano costi irrecuperabili, in tal caso il punto di chiusura coincide con il punto di minimo dei costi totali medi. L’intersezione tra la curva di domanda e la curva di offerta del mercato determina l’equilibrio concorrenziale.

Analizzando la curva di offerta dell’industria nel breve periodo, si può vedere che se nel breve periodo ci sono n imprese identiche i cui costi fissi siano irrecuperabili, la curva di offerta, S, è la somma orizzontale della curva di offerta di ciascuna impresa, cioè MC. Il tratto orizzontale della curva di offerta evidenzia sia che l’output è pari a 0 se il prezzo è inferiore al punto di chiusura; sia che ad un prezzo leggermente superiore a quello di chiusura tutte le imprese produrranno. L’intersezione della curva di domanda con la curva di offerta dell’industria nel breve periodo determina il prezzo e la quantità di equilibrio nel breve periodo (p0, q0). Nell’equilibrio di breve periodo l’impresa potrebbe conseguire un profitto, e questo dà ad altre aziende l’incentivo di entrare, tuttavia l’ingresso non può avvenire nel breve periodo.

Nel lungo periodo, invece, le imprese possono adeguare il loro livello di capitale così da entrare nel mercato. I profitti o le perdite inducono le imprese ad entrare nel mercato o ad uscirne fino a quando il prezzo non raggiunga il punto minimo della curva dei costi totali medi di lungo periodo(AC). Nel breve periodo le imprese al prezzo p0 ottengono un profitto positivo; nel lungo periodo questi profitti inducono nuove imprese ad entrare nel mercato. Se il numero delle imprese che possono produrre allo stesso costo è molto grande, la curva di offerta del lungo periodo è orizzontale al punto minimo della curva di costo totale medio. Il mercato si potrà trovare in una situazione di equilibrio sia di breve sia di lungo periodo, qualora la curva di domanda intersechi la curva di offerta di lungo periodo e la curva di offerta di breve periodo. La curva di offerta di breve periodo identifica il numero di imprese in equilibrio (n*), di conseguenza la quantità di equilibrio sarà (Q* = n*q*). Nell’equilibrio di lungo periodo le imprese ottengono profitto pari a 0.

Se un gran numero di imprese possono entrare nel mercato producendo agli stessi costi medi e costi marginali delle imprese già operanti nel mercato, la curva di offerta di lungo periodo sarà piatta, in corrispondenza del punto di minimo dei costi totali. Tuttavia la curva di offerta di lungo periodo non sempre sarà piatta, infatti un’espansione dell’output farà lievitare i prezzi di alcuni fattori produttivi, così la curva di offerta avrà pendenza crescente, spostandosi verso l’alto. Quando i fattori di produzione hanno un’offerta fissa, i loro prezzi tendono a salire all’aumento dell’output, invece se esistono delle economie di scala, all’incremento di output i prezzi dei fattori produttivi possono scendere, di conseguenza si avrà che la curva di offerta nel lungo periodo avrà una pendenza negativa. Un altro motivo per il quale la curva di offerta nel lungo periodo può avere pendenza crescente, è che solo poche imprese possono produrre a costi bassi, quindi al crescere dell’output dell’industria devono entrare nel mercato imprese meno efficienti(che producono di più,trascurando l'efficienza). Ad esempio, nel mercato solo n1 imprese sono efficienti presentando una curva di costo marginale MC e dei costi medi AC1. Se tali imprese producono q1 unità di output si avrà il punto di minimo della curva dei costi totali medi AC1*. Fino ai livelli di produzioni Q1 (n1q1) le imprese efficienti riescono a produrre al punto di minimo della curva dei costi totali medi, di conseguenza la curva di offerta di lungo periodo è piatta. Se la domanda del mercato è leggermente superiore a Q1 il costo totale medio deve aumentare, tale curva è la somma orizzontale delle curve di offerta delle n1 imprese. Le imprese non efficienti (con elevati costi fissi) presenteranno una curva di costo totale medio AC2, nella quale il suo punto di minimo, AC2*, è maggiore di quello delle imprese efficienti. Se la quantità richiesta è superiore a Q* (n1q2) il prezzo sarà AC2* ed entreranno nel mercato altre imprese con costi maggiori che soddisferanno la domanda, rendendo piatta la curva dell’offerta. Quando la quantità domandata non può più essere soddisfatta dall’ingresso di nuove imprese con costi elevati, la curva di lungo periodo sale nuovamente, questo significa che per quantità superiori a Q2 l’offerta salirà nuovamente. Le imprese con costi bassi potranno realizzare profitti elevati se la quantità domandata è compresa fra Q1 e Q*.

Paragrafo 3.2: “Elasticità e curva di domanda residuale”. Per analizzare sia le industria concorrenziali che quelle non concorrenziali, si può fare ricorso a due concetti tra di loro connessi: 1. L’elasticità della domanda o dell’offerta rispetto al prezzo. E’ la variazione percentuale di domanda e offerta a fronte di una piccola variazione del prezzo .Questo concetto aiuta a comprendere come un mercato reagisce a variazioni della domanda o dell’offerta. Se si verifica uno spostamento della curva di domanda o della curva dell’offerta si avrà anche una modifica dell’equilibrio concorrenziale. L’ampiezza di tale modifica dipenderà dalla forma della curva di domanda o dell’offerta, ad esempio per una curva di domanda orizzontale, anche a seguito di uno spostamento della curva di offerta, il prezzo concorrenziale rimarrà invariato. L’elasticità della curva di domanda o dell’offerta rispetto al prezzo è utilizzata per caratterizzare la forma delle predette curve. L’elasticità indica la variazione percentuale della quantità domandata o della quantità offerta a seguito di una piccola variazione del prezzo, formalmente si avrà che: (∆Q/Q)/(∆p/p). L’elasticità della domanda è sempre un numero negativo, mentre l’elasticità dell’offerta è solitamente positiva. Se un aumento del prezzo dell’1% porta ad una riduzione della quantità domandata superiore all’1% la curva di domanda si definirà elastica, quindi l’elasticità avrà valore assoluto superiore a 1. Quando il valore assoluto dell’elasticità è pari a 1 la curva di domanda ha elasticità unitaria, in tal caso una variazione del prezzo dell’1% provoca una diminuzione della quantità domandata dell’1%. Infine quando il valore assoluto dell’elasticità è inferiore a 1, la curva di domanda è anelastica, quindi un aumento del prezzo dell’1% provoca una diminuzione della quantità domandata inferiore all’1%. L’elasticità della domanda e dell’offerta dipendono da molti fattori economici, ad esempio all’aumentare del numero dei prodotti sostituibili i consumatori trovano più facile sostituire un prodotto, questo rende la curva di domanda più elastica; allo stesso modo un processo produttivo più flessibile consente all’impresa di poter aumentare la produzione, questo rende la curva dell’offerta maggiormente elastica. 2. La curva di domanda di una singola impresa, cioè la curva di domanda residuale, questo concetto consente di capire il comportamento dell’impresa. Le imprese concorrenziali sono imprese price taker, cioè imprese che accettano il prezzo, considerandolo come un dato su cui non poter esercitare alcuna influenza. Esistono diversi modi per indicare l’incapacità delle imprese di influire sul prezzo: a. Un’impresa concorrenziale assume il prezzo come un dato (price taker) ; b. Al prezzo di mercato la curva di domanda di un’impresa concorrenziale è orizzontale , in queste condizioni l’impresa non può modificare il prezzo, perché se lo facesse perderebbe tutte le vendite. c. L’elasticità della domanda di un’impresa concorrenziale tende all’infinito, questo si ha quando il numero di imprese operanti in un mercato è elevato, con la conseguenza che la curva di domanda individuale sia quasi orizzontale. In realtà non è necessario che ci siano molte imprese perché l’elasticità della domanda individuale sia elevata. Per dimostrare questo risultato è necessario determinare la curva di domanda residuale, cioè la curva cui si trova di fronte una particolare impresa. Un’impresa vende a persone la cui domanda non è soddisfatta da altre imprese; la domanda residuale è calcolata come differenza fra la domanda di mercato e l’offerta di altre imprese, quindi

formalmente si avrà che: Dr(p) = D(p) – So(p). Se l’offerta di altre imprese è maggiore della domanda di mercato, la domanda residuale è 0. L’elasticità della domanda di qualsiasi impresa i è pari a : ξi=ξn-η0(n-1).Il primo membro è l’elasticità della domanda (un numero negativo),il secondo è l’elasticità dell’offerta delle altre imprese, n-1 è il numero delle altre imprese .All’aumentare di n imprese l’elasticità i cresce in valore assoluto (diventa più negativa).Quindi maggiore è l’elasticità dell’offerta delle altre imprese o il numero delle imprese ,più grande sarà in valore assoluto l’elasticità della domanda dell’impresa i (più negativa). Paragrafo 3.3: “Efficienza e benessere”. L’equilibrio concorrenziale presenta caratteristiche di efficienza e benessere ottimali. L’equilibrio concorrenziale in termini di prezzo e di quantità presenta due caratteristiche desiderabili dal punto di vista dell’efficienza: in primo luogo la produzione è efficiente, poiché non esiste riallocazione di risorse che possa aumentare la quantità di un prodotto senza ridurre quella di un altro; in secondo luogo il consumo è efficiente, poiché il valore che un acquirente attribuisce al consumo del bene è uguale al costo marginale sostenuto per produrlo. Solitamente i consumatori valutano i beni da essi acquistati più del prezzo al quali li hanno pagati, di conseguenza si introduce il termine “surplus del consumatore” per indicare la differenza fra quanto il consumatore sarebbe disposto a spendere e l’importo effettivamente pagato per consumare le unità acquistate. Una curva di domanda dei beni riflette il valore che i consumatori attribuiscono al consumo di unità aggiuntive di un bene. Il surplus di consumatori, formalmente, si calcola: [qeq (pmax – peq)] / 2. Le imprese possono ricevere in cambio dei beni che esse vendono più di quanto sia loro costato per produrli, di conseguenza si introduce il termine “surplus del produttore” per indicare la massima quantità di denaro che si potrebbe sottrarre ai ricavi del produttore senza indurlo ad uscire dal mercato. Di conseguenza tale valore fa riferimento alla differenza tra ricavo effettivo e prezzo minimo sufficiente per realizzare e vendere il prodotto, formalmente si calcolerà come: [qeq (peq – pmin) ]/ 2. Una misura del benessere di un mercato è data dal surplus totale, cioè dalla somma del surplus del consumatore e del surplus del produttore. Il costo sociale di un mercato che non funziona in modo efficiente viene definito perdita secca (deadweight o DWL) ed è la somma delle riduzioni nei surplus del consumatore e del produttore dovute ad una deviazione dall’equilibrio concorrenziale. Ad esempio, un equilibrio concorrenziale si

trova nei punti p0 e Q0, inoltre lo Stato esige un’imposta T per unità del bene venduta, quindi se un cliente paga p, lo Stato riceve T e l’impresa riceverà p – T. L’imposta crea, quindi, un divario pari a T tra il valore attribuito al bene dal consumatore (indicato nella curva di domanda) ed il costo che è disposto a sostenere il produttore (indicato dalla curva di offerta). L’esazione dell’imposta, da un lato, riduce la quantità venduta passando da Q0 a Q*, ma dall’altro lato, aumenterà il prezzo che pagano i consumatori passando da p0 a p* e ridurrà il prezzo che ricevono le imprese passando da p0 a p* - T. In questo equilibrio la quantità venduta (Q*) è inferiore alla quantità stabilita dall’equilibrio concorrenziale (Q0) ed il valore che i consumatori attribuiscono al consumo di un’unità addizionale (p*) sarà maggiore del suo costo marginale di produzione del valore T. I consumatori subiscono una perdita di surplus pari alle A e B, mentre i produttori subiranno una perdita di surplus pari alle aree C e D, infine lo Stato riceve un gettito fiscale pari alle aree A e C. Di conseguenza il trasferimento dai consumatori e dai produttori allo Stato (il gettito fiscale) è inferiore alla perdita secca, percepita in modo congiunto dai consumatori e dai produttori. Il costo aggiuntivo per la società a seguito dell’output ridotto è la perdita secca, pari alle aree B e D. Il triangolo della perdita secca rappresenta la perdita totale per la società se lo Stato facesse buon uso del gettito fiscale. Il gettito fiscale indica una perdita in termini di efficienza, poiché il costo marginale per la produzione di un bene è inferiore alla disposizione marginale dei consumatori a pagare per acquistarlo. Finché lo Stato utilizza questo denaro in modo efficiente, il gettito fiscale, tuttavia non costituisce una perdita di efficienza, ma piuttosto riflette una ridistribuzione del reddito da acquirenti e venditori del bene a coloro che traggono beneficio dall’utilizzo che lo Stato fa di tali fondi.

Paragrafo 3.4: “Entrata ed uscita”. La facilità di entrata e di uscita svolge un ruolo importante nella determinazione della struttura del mercato e delle conseguenti prestazioni delle imprese. Se le imprese che hanno lo stesso livello di efficienza di quelle già presenti nel mercato non vi possono entrare facilmente, le imprese esistenti possono esercitare il proprio potere di mercato fissando prezzi superiori ai costi marginali. In molti settori industriali lo Stato o gruppi di imprese stabiliscono requisiti che di fatto limitano l’entrata, ad esempio in molte città si impone un limite al numero massimo di taxi consentiti. Le barriere all’entrata fanno aumentare i prezzi oltre il livello concorrenziale. Il grafico seguente mostra come una restrizione all’entrata possa determinare un prezzo superiore al prezzo di equilibrio concorrenziale di lungo periodo. Il grafico mostra due curve di offerta di lungo periodo per un mercato con imprese che hanno gli stessi costi. In assenza di restrizioni all’entrata da parte dello Stato, in questo mercato ci sono 150 imprese, di conseguenza l’equilibrio concorrenziale è determinato dall’intersezione della curva di offerta e la curva di domanda di mercato; il prezzo di equilibrio è p0 e ciascuna impresa produce al punto di minimo della curva dei costi totali medi di lungo periodo. Se il governo limitasse il numero delle imprese nel mercato a 100, la curva dell’offerta di lungo periodo si trova spostata a sinistra rispetto a quella originaria, così che il nuovo prezzo di equilibrio diventa p*, di conseguenza i consumatori pagheranno un prezzo superiore consumando una quantità minore (Q*). La perdita secca rappresenta la perdita di benessere dovuta alla restrizione all’entrata e riflette la perdita in termini di surplus del consumatore connessa al pagamento di p* piuttosto che di p0. Una restrizione all’entrata è inefficiente sia perché l’output si riduce da Q0 a Q* e sia perché il costo totale medio è maggiore. Un’impresa che fa parte delle 100 imprese cui è consentito entrare nel mercato è in condizioni migliori di quelle in cui si troverebbe se non ci fossero restrizioni all’entrata, infatti il prezzo elevato fa aumentare i profitti di ciascuna delle 100 imprese. Le restrizioni all’entrata sono come un’imposta sul consumo di un bene, tuttavia un’imposta trasferisce il danaro dai consumatori e dai produttori allo Stato, mentre le restrizioni determinano un trasferimento dai consumatori alle imprese attive nell’industria. Per questo motivo la FTC (Federal Trade Commission) si oppone a molte di queste barriere. In senso letterale una barriera all’entrata è qualsiasi fattore che impedisce ad un imprenditore di creare istantaneamente una nuova impresa in un mercato; tuttavia questa definizione raramente si rivela utile, poiché in teoria tutti i mercati presentano una barriera all’entrata, infatti potrebbero essere tali sia il costo della manodopera che il costo di costruzione degli impianti che il tempo utile

per prendere le decisioni. Le teorie economiche prevedono che l’entrata di nuove imprese porti all’erosione dei profitti nel lungo periodo, infatti se in un’industria abbiamo molte imprese che possono entrare nel mercato sostenendo i medesimo costi e praticando stessi prezzi, nessuna impresa potrà realizzare profitti superiori ai costi di lungo periodo. Le barriere all’entrata possono essere definite come costi che devono essere sostenuti dalle sole nuove imprese che vogliano operare nel mercato,e non da chi è già presente. Una considerazione importante per capire l’incentivo di un’impresa ad entrare in un mercato è la capacità dell’impresa stessa di uscirne, poiché se l’attività di uscita richiede costi elevati, gli incentivi ad entrarne sono ridotti. Di conseguenza le barriere all’uscita, così come le barriere all’entrata, servono ad impedire l’entrata di nuove imprese in un determinato mercato. Se non ci sono costi di entrata o uscita,l’entrata instantanea e la successiva uscita ,viene definita strategia “mordi e fuggi” (hit and run) che garantisce che in ogni periodo i prezzi non superino i costi . Bain, nel 1956, ha individuato le seguenti cause di barriere all’entrata: 1. Vantaggio assoluto di costo, poiché consente all’impresa già attiva sul mercato di ricavare alti profitti senza temere l’ingresso di potenziali concorrenti. Ad esempio un’impresa A produce costantemente ad un prezzo di 2, mentre tutte le altre imprese produrranno partendo da un costo di 5, l’impresa A potrebbe praticare un prezzo di 4 garantendo così un prezzo sempre inferiore ai costi che devono sostenere i concorrenti. 2. Economie di produzione su larga scala che richiedono ingenti investimenti di capitali. 3. Differenziazione del prodotto, poiché ci potrebbero essere clienti fedeli a cui non interesseranno prodotti di altre marche. Questo beneficio potrebbe andare all’impresa che per prima introduce il bene, godendo così del vantaggio della prima mossa, poiché sosterrà costi di marketing inferiori vista la mancanza di concorrenti. Per valutare le barriere all’entrata di lungo periodo vengono usati diversi metodi: alcuni economisti utilizzano giudizi soggettivi per prevedere le difficoltà di entrata in un’industria; altri metodi si basano su domanda del tipo “quanto maggiori sono i costi dell’impresa entrante a causa di brevetti o dell’esperienza acquisita dall’impresa già operanti sul mercato”. In alcuni mercati l’output totale è piccolo rispetto alla dimensione efficiente di un’impresa, quindi le economie di scala di produzione e delle vendite sono così importanti che solo una o alcune imprese possono produrre

efficientemente in un dato settore industriale. Anche in un tale scenario è possibile ottenere una situazione concorrenziale. Se molte imprese identiche sono in grado di entrare nel settore e produrre nel lungo periodo nessuna impresa può raggiungere un livello di profitti superiore al normale. Questo significa che se sono assenti barriere all’entrata ed all’uscita le imprese avranno un incentivo ad entrare ogni volta che il prezzo superi il costo medio. I mercati con entrata ed uscita libere vengono definiti perfettamente contendibili. Paragrafo 3.5: “Esternalità”. Un mercato concorrenziale può non presentare le caratteristiche desiderabili in termini di benessere per motivi diversi da quelli legati ad imposte e a restrizioni. L’equilibrio concorrenziale non è ottimale quando un bene, cui i consumatori attribuiscono un valore, ha un prezzo sbagliato o non ha prezzo (come le informazioni, l’aria, l’inquinamento ecc.). I beni cui non si può attribuire un prezzo prendono il nome di esternalità. Un’esternalità si genera quando i consumatori o le imprese non sostengono l’intero costo derivante dal danno che le loro azioni arrecano agli altri. Un esempio di esternalità negativa è l’inquinamento, poiché in assenza di specifica normativa le imprese non pagano per l’inquinamento creato, in tal caso il costo marginale privato è inferiore al costo marginale sociale. Queste distorsioni dovute alla determinazione inadeguate del prezzo vengono definite fallimenti di mercato. Un’azione non compensata che va a beneficio di altri rappresenta un’esternalità positiva, un esempio è la catena di montaggio inventata da Henry Ford, ma di cui beneficiarono diverse imprese di diverse epoche. Si gode di un diritto di proprietà quando si possiede o si ha l’esclusiva per l’uso di un bene o di un servizio; nel caso in cui i diritti di proprietà siano definiti in modo chiaro, così che non vi siano esternalità, i mercati concorrenziali sono efficienti. Paragrafo 3.6: “Limiti della concorrenza perfetta”. Alcuni mercati soddisfanno la maggior parte dei requisiti del modello della concorrenza perfetta, come ad esempio la Borsa di New York. In altri contesti le imprese hanno la capacità di influenzare il prezzo e le azioni dei loro concorrenti mediante, ad esempio, azioni di marketing. Alcuni autori ritengono che se la distribuzione del reddito non è equa, anche i mercati concorrenziali non godono di un benessere ottimale. Il modello della concorrenza perfetta non ricompensa necessariamente i più meritevoli ma chi produce di più,tant’è che una politica inefficiente a volte è preferibile a una efficiente. Paragrafo 3.7: “I molti significati del termine concorrenza”. Alcuni autori utilizzano il termine “concorrenza” in riferimento ad un mercato in cui alcune imprese che fissano il prezzo si contendono le vendite, di conseguenza in tal caso il termine concorrenza si usa per descrivere la rivalità tra imprese. Questo uso differisce dalla definizione di concorrenza perfetta in cui un’impresa accetta il prezzo come dato e può vendere tutto ciò che vuole al prezzo di mercato. Anche se poche industrie rispondono ai requisiti della concorrenza perfetta, alcuni economisti descrivono certi settori come ragionevolmente concorrenziali se presentano determinate caratteristiche: 

Accettazione del prezzo;



La presenza di molte imprese;



Assenza di barriere all’entrata e di barriere all’uscita.

Capitolo 4: Monopoli, monopsoni ed imprese dominanti

Paragrafo 4.1: “Comportamento monopolistico”. Un’impresa possiede il monopolio di un mercato se è l’unica fornitrice di un prodotto per il quale non esistono sostituti stretti. In un tal mercato si ha che l’impresa fissa un prezzo superiore al costo marginale, così facendo però la quantità venduta sarà inferiore a quella che si venderebbe in un mercato concorrenziale; inoltre si viene a determinare una perdita secca per la società che detiene il monopolio. Nel mercato monopolistico l’impresa affronta una curva di domanda con pendenza negativa. Al pari di un’impresa concorrenziale nel monopolio il livello di output è fissato in modo da massimizzare i profitti, dal momento che il monopolista sa che la curva di domanda ha pendenza negativa maggiore è la quantità venduta minore sarà il prezzo di vendita. La curva di domanda vincola il monopolista poiché non può fissare contemporaneamente il prezzo e la quantità, quindi se fissa il prezzo la curva di domanda stabilirà la quantità, così viceversa.Invece il monopsonio è un monopolio dal lato degli acquirenti.Un monopolista massimizza i profitti,cercando di produrre in maniera efficiente.Il comportamento di un’impresa e la regolamentazione imposta dallo Stato influiscono sulla capacità dell’impresa di diventare e restare monopolista.

Se il monopolista abbassa il prezzo a p1 ottiene dei ricavi sull’unità aggiuntiva venduta a tale prezzo.Per vendere quell’unità aggiuntiva il prezzo passa da p0 a p1 producendo una perdita sui ricavi pari a p1-p0)Q0 (area A).Se l’area B>A ,vendere un’unità in più fa aumentare i ricavi ,che saranno pari a p1(Q0+1)-p0Q0 e hanno il nome di ricavi marginali(Area B-Area A).In un’impresa che opera invece in “concorrenza perfetta” i ricavi marginali sono uguali al prezzo. I ricavi marginali ed i ricavi totali sono correlati, infatti quando ricavi marginali sono positivi i ricavi totali aumentano all’espandersi dell’output, al contrario quando i ricavi marginali sono negativi i ricavi totali diminuiscono all’espandersi dell’output. Di conseguenza i ricavi totali vengono massimizzati quando i ricavi marginali sono uguali a zero. Un monopolista massimizza i profitti, piuttosto che i ricavi, ed essi vengono massimizzati ad una quantità minore rispetto a quella che massimizza i ricavi. Un monopolista massimizza i profitti quando il ricavo aggiuntivo derivante dalla vendita di un’unità in più è esattamente uguale al costo di produzione di quell’ultima unità di output, quindi quando il costo marginale è uguale al ricavo marginale, formalmente si ha che: MC = MR. Dal grafico successivo si può evincere che la quantità di output di monopolio è inferiore alla quantità di output concorrenziale, il quale è determinato dall’intersezione fra la curva di domanda e

la curva di costo marginale. Le caratteristiche della curva di domanda determinano il sovrapprezzo di monopolio, cioè la differenza tra il prezzo di monopolio ed il prezzo concorrenziale. Si può individuare una relazione tra il sovrapprezzo e l’elasticità della domanda rispetto al prezzo. Formalmente il ricavo marginale può essere calcolato, come: MR = p (1 + 1/ξ ). Questo significa che il ricavo marginale è positivo se la curva di domanda è elastica (ξ < -1), invece il ricavo marginale sarà negativo se la curva di domanda è anelastica (-1 < ξ < 0). A seguito di queste precisazioni, la condizione di massimizzazione dei profitti in monopolio si può scrivere come equazione fra il margine prezzo – costo (denominato anche indice di Lerner del potere di mercato) con il rapporto negativo di 1/ξ . Quanto detto può così essere formalizzato: (p – MC) / p = -1 / ξ . Da questa equazione si può evincere che quando l’elasticità è molto elevata il prezzo del monopolio è molto vicino al costo marginale MC (avvicinandosi al prezzo concorrenziale), al contrario quando l’elasticità è molto bassa il prezzo supera il costo marginale.Maggiore è l’elasticità della domanda,più il prezzo di monopolio si avvicina a quello concorrenziale.Quando la domanda è relativamente anelastica,il markup di monopolio può assumere un certo spessore.

Un monopolista, diversamente da un’impresa concorrenziale sa di poter fissare il prezzo e che questo influisce sulla quantità venduta. Un monopolista può fissare un prezzo superiore al costo marginale, ma non per questo necessariamente otterrà un profitto superiore rispetto a quello concorrenziale. Ogni qualvolta un’impresa può fissare il prezzo di vendita del proprio prodotto ad un livello superiore del costo marginale senza incorrere in perdite, l’impresa avrà potere di monopolio o potere di mercato. Solitamente questi termini sono usati come sinonimi, tuttavia: 

Il potere di monopolio si utilizza per descrivere un’impresa che ottiene dei profitti fissando il prezzo al livello ottimale al di sopra del costo marginale



Il potere di mercato, invece, si utilizza per descrivere un’impresa che ottiene solo il profitto concorrenziale quando fissa il prezzo al livello ottimale al di sopra del costo marginale.

Sia nel monopolio che nella concorrenza perfetta le conseguenze dovute ad un comportamento inefficiente sono diverse. Un’impresa concorrenziale inefficiente può essere costretta a uscire dal mercato perché realizza continuamente delle perdite, mentre un monopolista può essere inefficiente e realizzare, lo stesso, dei profitti. Questa osservazione ha portato alcuni studiosi a concludere che il monopolio presenta minori incentivi all’efficienza rispetto ad un’impresa concorrenziale. Tuttavia alcuni economisti hanno rinnegato quest’ipotesi, poiché i monopolisti non si accontentano del risultato, ma cercano sempre di migliorarlo, infatti si può notare che i monopolisti hanno come obiettivo quello di massimizzare i profitti, questo obiettivo implica anche la minimizzazione dei costi. Tuttavia un monopolista può non avere la stessa capacità di produrre efficientemente di un’impresa concorrenziale, poiché quest’ultima ha il vantaggio di poter osservare il comportamento delle altre imprese rivali. Se la domanda è anelastica non è possibile soddisfare la condizione di massimizzazione dei profitti, quindi un monopolista non opererà mai sulla parte anelastica della curva di domanda, infatti se lo facesse potrebbe accrescere i profitti solo aumentando i prezzi fino ad operare nella parte elastica della curva. Se non ci fosse una parte elastica, il monopolistica produrrebbe solo una piccola quantità di output, per il quale farebbe pagare un prezzo infinito, così da avere profitti infiniti. Quest’osservazione vale solo per un modello semplice ed atemporale, poiché nei mercati reali le curve di domanda variano nel tempo e quindi un monopolista varierà il prezzo con il passare del tempo stesso. I consumatori presentano una curva di domanda maggiormente anelastica nel breve periodo che nel lungo periodo, quindi se un monopolista sfrutta la parte anelastica della curva di domanda di breve periodo ed aumenta i prezzi è probabile che i consumatori sostituiscano il prodotto nei periodi successivi. Paragrafo 4.2: “Costi e benefici del monopolio”. Se un monopolista limita l’output ed aumenta il prezzo oltre il costo marginale, la società subisce una perdita secca di benessere. Per massimizzare i profitti, un monopolista produce la quantità di output individuata dal punto di intersezione tra il ricavo marginale ed il costo marginale. Il divario tra prezzo di monopolio e costo marginale rappresenta la differenza tra il valore che gli acquirenti attribuiscono al prodotto ed il costo marginale per realizzarlo. Se i consumatori devono pagare un prezzo di monopolio superiore al prezzo concorrenziale, perdono una quota di surplus pari alla somma della perdita secca ed una parte del profitto di monopolio (grafico pagina precedente). La società è soggetta ad una perdita secca di monopolio, pari alla differenza fra la perdita del consumatore ed il guadagno del monopolio. L’effetto in termini di efficienza del monopolio e dell’introduzione di un’imposta inefficiente è il medesimo, cioè una perdita secca; tuttavia differiscono per la diversa destinazione dei trasferimenti effettuati dai consumatori, poiché nel monopolio il monopolista mantiene i profitti, mentre con l’imposta il trasferimento è a favore dello Stato. Alcuni ricercatori sostengono che la perdita di efficienza per la società è maggiore del triangolo della perdita secca, questo perché ritengono che anche una parte dei profitti di monopoli rappresenti una perdita di efficienza. Al riguardo Posner, nel 1975, ha ritenuto che i profitti possano essere una perdita per la società , perché i profitti rappresentano un incentivo ad utilizzare risorse reali per ottenere il monopolio. Se esistono profitti di monopolio un’impresa sarebbe disposta a spendere un importo pari a questi profitti per ottenere il monopolio, questa spesa prende il nome di ricerca di posizioni di rendita (rent – seeking). In caso di rent – seeking il calcolo della perdita secca deve comprendere anche quella parte del trasferimento che è sperperato dall’impresa per ottenere il monopolio. Il costo del monopolio è quindi maggiore all’area della perdita secca. Posner ricalcola la perdita secca partendo dal presupposto che l’intero importo del profitto di monopolio sia sperperato nell’attività di ricerca della rendita. Lui pensa che gran

parte della perdita derivante dal monopolio possa essere ricondotta all’esistenza di istituzioni statali. I profitti di monopolio ed il triangolo della perdita secca dipendono dalla forma della curva di domanda; analizzando una curva di domanda lineare (p = a – bQ).

Analizzando la curva di domanda (più sottile) si nota che ci sono costi marginali costanti pari a 10, che il monopolista vende una quantità di monopolio pari a 50 unità ad un prezzo di monopolio pari a 35, e che la curva è elastica (ξ = -1,4). Il profitto di monopolio è l’area A(sotto B), mentre la perdita secca è l’area D. Analizzando la curva di domanda (più spessa) che evidenzia la curva di domanda ruotata verso l’alto, si nota che Il monopolista vende la stessa quantità pari a 50, ma ad un prezzo di monopolio superiore pari a 50, questo fa sì che l’elasticità diminuisce (ξ = -1,25). Di conseguenza, il profitto di monopolio aumenta, infatti è dato dall’area A + l’area B, tuttavia aumenta anche la perdita secca, poiché è data dall’area C + l’area D. Quindi si può concludere che più la curva diventa anelastica maggiore sarà la perdita secca. I danni al benessere derivanti dal monopolio possono essere compensati da molti benefici, ad esempio la prospettiva di ottenere profitti di monopolio potrebbe indurre le imprese a sviluppare nuovi prodotti così da innovarsi. Se il monopolio non presentasse benefici compensativi è preferibile la concorrenza. Diversi sono i modi con cui un’impresa può diventare e rimanere monopolista, ad esempio: 1. Tutte le imprese si possono combinare in un’unica impresa, mediante una fusione; 2. L’impresa può intraprendere azioni strategiche per prevenire l’entrata di altre imprese. Paragrafo 4.3: “Creare e mantenere un monopolio”.

Diversi sono, anche, i motivi che spingono un’impresa a creare e a mantenere un monopolio, ad esempio: 1. Vantaggio di conoscenza, quindi un’impresa può essere un monopolio perché solo essa conosce il modo per produrre un determinato prodotto o può produrlo ad un costo inferiore rispetto alle altre imprese. Un’impresa che detiene un importante segreto industriale affronta una curva di domanda con pendenza negativa e non teme l’entrata dei rivali o di eventuali validi prodotti sostitutivi. Inizialmente tutte le imprese nel mercato concorrenziale hanno un costo marginale costante (m1), cosicché il prezzo di equilibrio (p1) è pari al costo marginale e la quantità di equilibrio è Q1. In questa situazione, un’impresa scopre una nuova tecnica di produzione che può mantenere segreta, che le permette di ridurre i costi marginali (passando da m1 a m0). Essa opera a fronte di una curva di domanda residuale orizzontale al livello p1 fino a Q1, perché molte imprese possono produrre e vendere al prezzo m1. Oltre a Q1 la curva di domanda residuale coincide con quella dell’industria, perché al di sotto di p1 nessun’altra impresa può produrre con profitto. Se m0 è vicino a m1 l’impresa può massimizzare i profitti vendendo ad un prezzo pari a p1. La curva dei ricavi marginali sarà orizzontale fino a quando la curva della domanda residuale è orizzontale, invece sarà obliqua quando la curva della domanda residuale è obliqua. Per massimizzare i profitti, l’impresa che conosce il processo produttivo segreto produce Q0 unità di output nel punto in cui la sua curva dei ricavi marginali corrisponde alla curva dei costi marginali. L’impresa fissa il prezzo a p0 cosicché nessun’altra impresa rimanga nel mercato.

2.Monopoli creati dallo Stato: in tal caso lo Stato tutela l’impresa impedendo l’entrata nel mercato ad altre imprese, un esempio lo si può avere con il diritto sulla proprietà intellettuale e con i brevetti. In generale le limitazioni statali all’entrata consentono ad alcune imprese di produrre (quindi non si tratta di monopolio), ma impediscono che le normali pressioni concorrenziali facciano scendere il prezzo ed i profitti a livelli concorrenziali. Paragrafo 4.4: “Monopolio naturale”. In alcuni mercati la soluzione produttiva efficiente prevede che una sola impresa realizza l’intero output. Quando i costi totali di produzione aumentano se la produzione è realizzata da due o più

imprese piuttosto che una, l’industria viene definita monopolio naturale. Di conseguenza un’impresa è un monopolio naturale, solo se può produrre la quantità di mercato ad un costo inferiore rispetto a quanto possono fare due o più imprese, formalmente si avrà che C(q) < C(q1) + C(q2) + … + C(q3). Se esiste questa diseguaglianza si dice che una funzione di costo è subadditiva. Un monopolio naturale presenta spesso costi medi decrescenti e costi marginali costanti o decrescenti nell’area in cui esso opera; al riguardo si nota che una curva dei costi medi strettamente decrescente implica la subadditività. Spesso si sostiene che le società di fornitura di energia elettrica,di gas,telefoniche e di televisione rappresentino dei monopoli naturali (non sempre è vero).Se la produzione è caratterizzata da economie di scala su tutta la gamma produttiva il costo medio diminuisce all’aumentare dell’output, quindi è più conveniente che una sola impresa realizzasse l’intero output. Di conseguenza l’economia di scala è una condizione sufficiente, ma non necessaria, per avere un monopolio naturale, poiché questa forma di mercato si può verificare anche quando il costo medio non scende sempre al crescere del prodotto. Paragrafo 4.5: “Rapporto tra profitti e monopolio”. Spesso si associano gli elevati profitti con il monopolio o con la troppa poca concorrenza; i profitti normali vengono associati con la concorrenza; ed infine le perdite vengono associate alla troppa concorrenza. Tuttavia, nessuna di queste associazioni sono corrette, questo si può dimostrare analizzando tre aspetti: 1. Per ottenere profitti superiori a quelli normali non per forza si deve avere di potere di monopolio, poiché la scarsità delle risorse potrebbe portare alla determinazione di prezzi elevati, così da far trarre vantaggio a coloro che le possiedono. 2. Il monopolio, non sempre consente di ottenere extra - profitti superiori a quelli normali, poiché nel breve periodo anche un monopolista può riportare delle perdite. Un monopolista a fronte di un’improvvisa diminuzione della domanda può decidere di continuare ad operare anche se ottiene profitti di breve periodo negativi e se il prezzo è superiore al costo variabile medio. Tuttavia nel lungo periodo, se ci sono costi irrecuperabili, nessuna impresa continuerà ad operare se nell’industria si registrano solo perdite. Come nel caso della concorrenza, la lunghezza del periodo in cui il monopolista può permettersi di subire delle perdite dipende dalla durata del breve periodo, cioè dal tempo necessario perché si consumino le attrezzature e gli impianti. Nel lungo periodo un’impresa concorrenziale ricava profitti pari a zero, mentre un monopolista ottiene profitti pari o superiori a zero 3. Lo Stato non dovrebbe consentire fusioni che creino un monopolio in un’industria che subisce perdite di breve periodo, poiché se nel breve periodo la fusione consente alle imprese di fissare prezzi superiori al livello concorrenziale, essa crea una perdita secca per la società. Questo significa che l’esistenza nel breve periodo di costi irrecuperabili non può essere eliminata tramite la fusione. Di conseguenza la fusione modifica solo il livello della concorrenza tra le imprese. Paragrafo 4.6: “Monopsonio”. Un mercato in cui opera un singolo compratore viene definito monopsonio. La decisione del compratore in merito a quanto comprare influenza il prezzo che deve pagare, di conseguenza egli stabilisce quanto acquistare scegliendo una coppia di prezzo – quantità sulla curva di offerta dell’industria. Questo significa, che un monopsonista aumenta la quantità acquistata finché il valore del consumo aggiuntivo (come si evidenzia dalla curva di domanda) è maggiore o uguale al costo marginale da sostenere per consumare un’unità in più. Supponiamo che vi sia un solo datore

di lavoro locale (un monopsonista poiché è colui che acquista le prestazioni lavorative) che si trova di fronte ad una curva di offerta di lavoro con pendenza positiva. Per assumere un lavoratore aggiuntivo, il monopsonista non solo deve pagarlo ad un tasso salariale più alto, ma deve anche pagare tutti gli altri lavoratori già assunti al medesimo tasso, poiché solo aumentando il salario si può indurre altra manodopera ad entrare nel mercato. Quindi il monopsonista assumerà il lavoratore aggiuntivo solo se il beneficio marginale (rappresentato dalla curva di domanda) supera il costo marginale di impiego di una persona in più. Per un monopsonista il costo marginale sostenuto per acquistare unità aggiuntive è descritto da una curva di spesa marginale, analoga alla curva dei ricavi marginali. Essa si trova al di sopra della curva di offerta con pendenza positiva perché il monopsonista deve aumentare il salario corrisposto a tutti i lavoratori se vuole assumere una persone in più. Un monopsonista che massimizza i profitti assume Lm lavoratori, cioè il livello di occupazione in cui i benefici marginali, rappresentati dai punti della curva di domanda, sono uguali alla spesa marginale. Poiché la curva di spesa marginale si trova sopra la curva di offerta, il monopsonista assume meno lavoratori di quanto farebbe un’industria concorrenziale, in cui l’occupazione sarebbe pari a Lc lavoratori (determinata dall’intersezione tra la curva di domanda e la curva di offerta). Il tasso salariale in monopsonio (wm) è più basso di quello concorrenziale (wc). Il potere di monopsonio può essere definito come la capacità di fissare i prezzi degli input sotto il livelli concorrenziali. Nella soluzione di monopsonio (Lm, wm) si ha un divario tra la curva di domanda e la curva di offerta, questo divario rappresenta la perdita di efficienza (perdita secca).

I mercati con una maggiore probabilità di un monopsonio sono quelli in cui le risorse sono riservate a pochi impieghi, tuttavia il monopsonio può non perdurare nel lungo periodo, poiché nessun imprenditore sarà disposto a produrre nuovi input specifici ad un singolo scopo se otterrà una remunerazione più bassa di quella che otterrebbe con una produzione più ampia. In altri termini se le risorse nel lungo periodo sono utilizzabili da più industrie, la curva di offerta di lungo periodo tende ad essere piatta, quindi molto elastica, in tal caso è impossibile che si determini un potere di monopsonio poiché il prezzo non può essere abbassato al di sotto di quello concorrenziale. Paragrafo 4.7: “L’impresa dominante circondata da imprese marginali di tipo concorrenziale”. In un mercato si possono avere:

1. Imprese marginali, cioè imprese price takers che, quindi, accettano il prezzo come dato e che possiedono individualmente piccole quote di mercato, ma globalmente possono avere una rilevante quota di fatturato dell’industria. 2. Imprese dominanti, cioè imprese price makers che, quindi, fissano il prezzo e che possiedono una grande quota di mercato. Quando si verifica l’entrata nel mercato di imprese marginali, l’impresa dominante non può più praticare un prezzo superiore al punto di minimo del costo totale medio delle nuove imprese. Che un’impresa dominante possa esercitare o meno il potere di mercato nel lungo periodo, dipende in modo determinante dal: numero di imprese che possono entrate nell’industria; dalla differenza di costi fra le varie imprese; ed infine dalla velocità con cui avviene l’entrata. Esistono diverse ragioni che fanno sì che alcune imprese raggiungono un notevole potere di mercato, al contrario di altre: 1. Le imprese dominanti possono avere costi inferiori rispetto alle imprese marginali, poiché ad esempio è più efficiente delle altre,grazie a una migliore gestione o tecnologia (potrebbe essere anche un brevetto); oppure può avere accumulato maggiore conoscenza del mercato dato che da più tempo ci operi; o infine potrebbe aver ricevuto aiuti da parte dello Stato. 2. Le imprese dominanti possono avere un prodotto migliore, questo risultato può essere ottenuto grazie alla fedeltà dei consumatori o dalle diverse azioni economiche. 3. Le imprese potrebbero beneficiare di economie di scala,realizzate crescendo in modo efficiente nel tempo ,ripartendo i costi fissi su un numero maggiore di unità di prodotto,oppure avendo un costo medio inferiore alle imprese entrate sul mercato di recente; 4. Un gruppo di imprese può agire in modo coordinato così da formare un’impresa dominante, tale gruppo viene denominato cartello. Se tutte le imprese dell’industria partecipano al cartello il mercato prenderà la forma di un monopolio. Considerando un’industria con un’impresa dominante e diverse imprese marginali di tipo concorrenziale in cui nessun’altra impresa marginale può entrare. Da una tale industria, si può notare: in primo luogo, che conviene essere l’impresa dominante; ed in secondo luogo l’esistenza delle imprese marginali limita il potere di mercato dell’impresa dominante, di conseguenza sarebbe più profittevole essere un’impresa monopolista. Alla base del modello con assenza di entrata vi sono diverse ipotesi:  L’impresa è dominante perché è più efficiente;  Tutte le imprese, tranne l’impresa dominante, sono price takers;  Il numero (n) di imprese marginali è fisso, quindi l’impresa dominante può aumentare il prezzo dell’industria senza indurre nuove imprese ad entrare;  L’impresa dominante conosce la curva di domanda dell’industria D(p), poiché ciascuna impresa produce un prodotto omogeneo, di conseguenza nel mercato c’è un solo prezzo;  L’impresa dominante conosce la curva di offerta delle imprese marginali S(p) , questa curva è crescente rispetto al prezzo.

Le ultime due ipotesi assicurano che l’impresa dominante disponga a priori di un livello informativo sufficiente per fissare in modo ottimale il proprio livello di output. Immaginandoci di gestire un’impresa dominante, si potrebbe pensare che date le grandi dimensioni si potrebbe far salire il prezzo di mercato riducendo l’output. tuttavia così facendo si fa crescere anche l’output delle imprese marginali, poiché la loro curva di offerta è crescente rispetto al prezzo. Di conseguenza l’output dell’industria diminuisce meno di quanto si vorrebbe ed il prezzo non aumenta nella proporzione desiderata. Di conseguenza il problema a cui vanno incontro le imprese dominanti è più complesso delle imprese monopoliste, poiché oltre a considerare la curva di domanda del mercato, e la curva dei costi marginali devono tenere presente anche i comportamenti delle imprese marginali. Per massimizzare i profitti, le imprese dominanti potrebbero seguire il ragionamento di lasciare libere le imprese marginali di vendere quanto vogliano al prezzo di mercato, fissato dalle imprese price makers, poiché l’insieme delle imprese marginali non è in grado di produrre un output sufficiente a coprire tutta la domanda del mercato. Di conseguenza l’impresa dominante godrà di una situazione di monopolio per la parte di mercato residuale ,potendo così determinare l’output ottimale. Nel grafico successivo, si può evincere che:



La figura a sinistra, mostra la curva di domanda del mercato, D(p), e la curva di offerta di un’impresa marginale di tipo concorrenziale, tale curva è la curva dei costi marginali che giace al di sopra del punto di minimo della curva di costo totale medio. Per livelli di prezzo superiori a p segnato ciascuna impresa marginale produce profitti positivi; per livelli di prezzo uguali a p segnato ciascuna impresa marginale produce profitti uguali a zero; infine per livelli di prezzo inferiori a p segnato ciascuna impresa marginale chiude e l’impresa dominante diventa monopolista. La curva di offerta delle imprese marginali, S(p), è la somma orizzontale delle

curve di offerta delle singole imprese marginali, quindi formalmente sarà S(p) = nqf(p),dove n è il numero delle imprese marginali e qf l’output dell’impresa marginale rappresentativa. . La curva di domanda residuale dell’impresa dominante, Dd(p), è la differenza orizzontale tra la curva di domanda di mercato e la curva di offerta delle imprese marginali, di conseguenza formalmente si ha che: Dd(p) = D(p) – S(p). 

Nella figura a destra, si nota che la curva di domanda di mercato si trova al di sopra della curva di domanda residuale per livelli di prezzo superiori a p segnato, invece coincide con essa per livelli di prezzo inferiori a p segnato. Questo significa che le imprese marginali soddisfano tutta o gran parte della domanda di mercato se il prezzo è superiore a p segnato, ma escono dal mercato se il prezzo scende sotto lo stesso livello di prezzo. Al livello di p* la quantità fornita dalle imprese marginali è pari alla quantità richiesta dal mercato, così l’impresa dominante non avrà domanda residuale. L’impresa dominante massimizza i profitti scegliendo un prezzo tale per cui il suo costo marginale è uguale al suo ricavo marginale (p**). La curva di ricavo marginale deriva dalla curva di domanda residuale ed ha due sezioni distinte, poiché esiste un tratto di discontinuità nel punto in cui si incontrano la curva di domanda residuale e la domanda di mercato. Dal momento che la curva dei ricavi marginali è discontinua si possono avere due tipi di equilibri, il cui verificarsi dell’uno o dell’altro dipende dalla curva di costo dell’impresa dominante:



L’impresa dominante fissa un prezzo basso le imprese marginali chiudono per evitare di incorrere in perdite, così l’impresa dominante è un monopolista;



L’impresa dominante pratica un prezzo elevato fa profitti positivi e le imprese marginali fanno a loro volta profitti superiori o uguali a zero; questo equilibrio si verifica se i costi dell’impresa dominante non sono nettamente inferiori a quelli delle imprese marginali. La curva di costo marginale dell’impresa dominante, MCd, interseca il primo segmento con pendenza negativa della curva di ricavo marginale, MRd. L’impresa dominante sceglie di produrre il livello di output Qd al prezzo di p; al medesimo livello di prezzo, la differenza tra la domanda di mercato, Q, e l’output dell’impresa dominante, Qd, è l’offerta delle imprese marginali, Qf. Se i costi dell’impresa dominante sono elevati, le imprese marginali non abbandonano l’attività, poiché i profitti dell’impresa dominante sono massimizzati ad un prezzo così elevato che le imprese marginali ottengono profitti positivi. I profitti delle imprese dominanti sono indicati con πd, mentre i profitti delle imprese marginali sono indicati con πf.

Questo ragionamento porta a concludere che l’impresa dominante massimizza i profitti ad un livello di prezzo così elevato da perdere parte della propria quota di mercato a favore delle imprese marginali; infatti l’impresa dominante non ha alcun interesse a fissare un livello di prezzo basso tale da spingere le imprese marginali ad uscire dal mercato, poiché aumenterebbe la quota di mercato, ma diminuirebbero i profitti. Al contrario del precedente modello, in cui era vietata l’entrata di altre imprese nel mercato, ora si vuole analizzare un modello nel quale si rende possibile l’entrata ad un numero illimitato di imprese. In tal caso l’impresa dominante non può fissare un prezzo elevato come farebbe nel caso di entrata bloccata. Alla base di questo modello ci sono diverse ipotesi:  L’impresa è dominante perché è più efficiente;  Tutte le imprese, tranne l’impresa dominante, sono price takers;

 Il numero (n) di imprese marginali è variabile , quindi un numero illimitato di imprese marginali di tipo concorrenziale può entrare nel mercato se si possono ottenere profitti positivi;  L’impresa dominante conosce la curva di domanda dell’industria D(p), poiché ciascuna impresa produce un prodotto omogeneo, di conseguenza nel mercato c’è un solo prezzo;  L’impresa dominante conosce la curva di offerta delle imprese marginali S(p) , questa curva è crescente rispetto al prezzo. In questo modello le imprese marginali non realizzano profitti nel lungo periodo. Se tutte le imprese marginali sono uguali e producono, il prezzo di mercato nel lungo periodo non può salire oltre il loro costo medio, e pertanto saranno al massimo in pareggio. Infatti, se nel lungo periodo esse ottenessero profitti positivi, altre imprese entrerebbero nell’industria facendo scendere il prezzo al livello in cui ogni impresa realizza profitti pari a zero. Poiché l’impresa dominante ha costi inferiori rispetto a quelle marginali, ottiene profitti positivi, che però sono inferiori a quelli che avrebbe se non si verificasse alcuna entrata. Anche con entrata illimitata l’impresa dominante può detenere una grande quota di mercato, a condizione che abbia qualche vantaggio di costo. Man mano che cresce il numero di imprese nell’industria, la pendenza della curva di offerta delle imprese marginali diminuisce. Pertanto se n diventa molto grande, la curva di offerta delle imprese marginali diventa orizzontale, quindi se il prezzo è almeno p segnato, le imprese marginali sono in grado e sono disposte ad offrire qualsiasi quantità domandata dal mercato. Al livello dei prezzi di p segnato, la curva di domanda residuale dell’impresa dominante è orizzontale, perciò la corrispondente curva di ricavo marginale è anch’essa piatta. Al di sotto del livello di prezzo p segnato, la curva di domanda residuale è la domanda di mercato, con pendenza negativa, così la corrispondente curva dei ricavi marginali ha anch’essa pendenza negativa. Anche in tale modello la curva dei ricavi marginali corrispondente alla curva di domanda residuale, ha una discontinuità in corrispondenza dell’angolo della curva di domanda residuale. Quindi anche in questo caso si hanno due possibili equilibri: 1. Se il costo marginale dell’impresa dominante è relativamente alto, quindi interseca la curva dei ricavi marginali, il prezzo di equilibrio è p segnato; in questo caso una parte della domanda di mercato è servita dalle imprese marginali. A questo prezzo ogni impresa marginale ottiene profitti normali ed è indifferente rimanere in attività o lasciare il mercato. L’ammontare prodotto dalle imprese marginali dipende dalla struttura dei costi dell’impresa dominante, la quale determina l’output dell’impresa dominante (Qd). Nell’insieme le imprese marginali producono un livello di output (Qf) che è dato dalla differenza fra la quantità di mercato e la quantità di output prodotta dall’impresa dominante, formalmente si ha che Qf = Q – Qd. 2. Se il costo marginale dell’impresa dominante è relativamente basso, quindi interseca la curva dei ricavi marginali nel tratto con pendenza negativa; in questo caso il prezzo è così basso che nessuna impresa marginale rimarrà nell’industria.

Capitolo 5: I cartelli In qualsiasi mercato le imprese hanno un incentivo a coordinare la propria attività di produzione e di determinazione dei prezzi per accrescere i profitti aggregati ed individuali limitando l’output ed aumentando il prezzo di mercato. Un cartello è un’associazione tra imprese che decide esplicitamente di coordinare la definizione dei prezzi o del livello di produzione. Un cartello che comprende tutte le imprese appartenenti ad un’industria forma un vero e proprio monopolio e le imprese che ne fanno parte si dividono i relativi profitti. Il formarsi di cartelli è più probabile quando in un settore operano poche imprese, cioè nelle forme di mercato di oligopolio. Fortunatamente per i consumatori, sebbene le imprese hanno un incentivo a coordinare la propria attività per limitare l’output ed aumentare i prezzi, ogni membro del cartello ha un incentivo a scartellare, cioè è tentato a produrre di più di quanto stabilito nell’accordo. Quando si determina una frattura parziale in un cartello, così che alcune imprese operino indipendentemente, oppure quando non tutte le imprese dell’industria aderiscono al cartello, quest’ultimo può comportarsi come un’impresa dominante che si trova di fronte ad un insieme di imprese marginali di tipo concorrenziale. Quindi solo i cartelli stabili che operano in industrie con entrata limitata possono mantenere nel lungo periodo il loro potere di mercato. Paragrafo 5.1: “Perché si formano i cartelli”. Le imprese vogliono formare i cartelli per aumentare i propri profitti, tuttavia essi vengono massimizzati con le imprese concorrenziali, quindi bisogna capire perché le imprese optano per la formazione dei cartelli. Nel caso della concorrenza, ogni impresa considera il vantaggio che trae da una riduzione del proprio output (fa aumentare i prezzi) e non tiene conto degli eventuali guadagni delle altre imprese che beneficiano della diminuzione dell’output complessivo

dell’industria. Nel caso del cartello, invece, ogni impresa tiene conto dei benefici per tutti i suoi membri derivanti dalla riduzione dell’output di ciascuna impresa. Questo significa che un’industria concorrenziale (in cui ogni impresa ignora il beneficio collettivo derivante dalla riduzione del proprio output) produce più output di un cartello. Ipotizziamo un’industria formata da molte imprese concorrenziali price takers, le quali in seguito si coordinano per formare un cartello ed operare come un monopolista. Il grafico che segue (pagina seguente) mostra la curva di costo marginale di un’impresa tipica; la somma delle curve di costo marginale delle singole imprese è la curva di offerta dell’industria (denominata MC nella figura a destra). L’output concorrenziale (Qc) è determinato dall’intersezione tra la curva di offerta e la curva di domanda dell’industria, ciascuna impresa produce qc unità di output ed il prezzo dell’industria è pari a pc. Analizzando il grafico si può osservare che al cartello conviene ridurre il livello di output rispetto al livello concorrenziale, poiché a tale livello il costo marginale del cartello è maggiore dei ricavi marginali. Il cartello dovrebbe abbassare il livello di output fino a quando i ricavi marginali saranno uguali ai costi marginali, questa condizione massimizza i profitti (passando da Qc a Qm e facendo salire il prezzo da pc a pm). Poiché il cartello è costituito da n imprese, questo comporta che ciascuna impresa riduca l’output (passando da qc a qm), formalmente si ha che: qm = Qm/n,output per ogni impresa. Paragrafo 5.2: “Formazione e attuazione del cartello”. La decisione di formazione di un cartello è illegale in molti Paesi capitalistici (tra cui gli USA), tuttavia perchè le imprese decidono di partecipare ad esso?Un primo elemento che influenza la decisione è sicuramente il guadagno, che permetterebbe che tutte le imprese dell’industria (eccetto l’azienda che deve decidere) dessero vita ad un cartello. Questo significa che esse limitando l’output e facendo alzare i prezzi, l’azienda che non si è unita al cartello potrebbe scegliere liberamente il livello di output produttivo che massimizza il profitto. Questa soluzione ha un problema: le altre imprese potrebbero indurre l’impresa a partecipare al carrello, altrimenti nessun’altra impresa ridurrà il proprio output. Così l’impresa si troverà davanti due strade: partecipare al cartello illegale, ed eventualmente andare incontro a delle multe se lo Stato li scopra, o non partecipare al cartello. Questo porta a pensare che se la perdita attesa dovuta alla scoperta da parte dello Stato sia bassa, l’impresa entrerà nel cartello. Tuttavia una volta entrato nel cartello, andrà sempre alla ricerca di ulteriori margini di profitto, quindi si chiederà perché non dovrebbe barare e produrre maggiori output, così da massimizzare i profitti (quindi in tal caso produrrebbe q*, cioè il punto in cui il costo marginale della singola impresa è uguale al pm).

Una volta formato il cartello le imprese, se vogliono avere successo, devono fissare il prezzo. Non sempre però tutti i cartelli hanno successo, infatti si nota che ci sono cartelli che funzionano in alcune industrie, e ci sono cartelli che falliscono in altre industrie. Le conoscenze che si possiedono sono buone per i soli cartelli scoperti, ma non lo sono altrettanto per tutti quei cartelli che sfuggono alla giustizia. Alcune ricerche empiriche indicano che i cartelli che vengono indagati dalle autorità antitrust sono quelli non remunerativi; altre ricerche empiriche suggeriscono che i cartelli tendono a formarsi nelle industrie meno redditizie. Le grandi imprese possono decidere in modo indipendente di comportarsi come se avessero sottoscritto un accordo di cartello senza realizzare un incontro formale, infatti ognuna di essa può ridurre l’output sperando che le altre facciano lo stesso. Quando le imprese oligopolistiche coordinano le loro azioni nonostante la mancanza di un accordo di cartello esplicito, la collaborazione che ne deriva viene definita collusione tacita. I fattori che determinano la formazione di un cartello sono tre: 1. La capacità di aumentare il prezzo dell’industria, quindi le imprese aderiscono ad un cartello solo se convinte che esso porti ad un aumento del prezzo e, anche, se convinte di poterlo mantenere elevato. Più anelastica è la curva di domanda cui si trova di fronte un cartello, più elevato è il prezzo che il cartello può fissare e maggiori saranno i suoi profitti. Al contrario, se un cartello si trova di fronte ad una curva di domanda elastica l’incremento del prezzo fa scendere i ricavi. L’entrata sul mercato di imprese non appartenenti al cartello, quindi una piccola quota di mercato, e l’esistenza di prodotti sostitutivi sono fattori che impediscono al cartello di far aumentare il prezzo, poiché le imprese non appartenenti al cartello venderanno ad un prezzo inferiore. 2. Basse perdite attese, quindi i cartelli si formano solo se i membri non prevedono che le autorità governative li individuino e li puniscano severamente.

3. Bassi costi organizzativi, quindi i cartelli si formeranno solo se i costi di coordinamento non siano troppo elevati, di conseguenza più complessi sono i negoziati, maggiore sarà il costo insito nella formazione del cartello. Diversi sono i fattori che contribuiscono a mantenere basso il costo organizzativo: a. Solo poche imprese fanno parte del cartello ,ed è per questo che l'autorità governative hanno difficoltà nell'identificarlo. Al riguardo dei 606 casi di cartello studiati, il numero medio delle imprese coinvolte in ciascuno di essi era 16,7, mentre la mediana era 8, e la moda era 4. Il numero delle imprese è un fattore essenziale, non sono nei cartelli illegali, ma anche in quelli legali. b. L’industria è altamente concentrata, quindi se alcune grandi imprese, complessivamente, hanno una grande quota di mercato, se si coordinassero potrebbero aumentare il prezzo senza dover coinvolgere le altre imprese dell’industria. c. Il bene prodotto è omogeneo , al riguardo si nota, che le imprese hanno difficoltà ad accordarsi quando il prodotto di ogni impresa ha qualità o proprietà diverse, poiché ogni qualvolta il prezzo viene modificato, dovranno essere stabiliti i nuovi prezzi relativi. Un’ulteriore difficoltà è che un’impresa potrebbe migliorare la qualità, mantenendo costante il prezzo, così da aumentare le proprie vendite senza violare esplicitamente l’accordo di cartello. d. L’esistenza di un’associazione di categoria, poiché abbassando i costi relativi alle riunioni ed al coordinamento delle attività tra le imprese, si facilita la creazione e l’attuazione di cartelli.Tali incontri favoriscono gli accordi per fissare i prezzi. Un cartello può non avere successo se i membri vogliono deviare dall’accordo. Alcuni fattori che permettono la formazione di un cartello contribuiscono, anche, ad individuare deviazioni ed a far rispettare l’accordo. Le deviazioni sono più facili da individuare se: l’industria ha poche imprese attive, poiché il cartello può controllare più agevolmente ciascuna delle imprese e le loro quote di mercato (indice di riduzione dei prezzi); oppure se i prezzi non variano a causa di fattori esogeni e sono conoscenza comune; o infine se tutti i membri del cartello vendono prodotti omogenei nel medesimo punto della catena di distribuzione. In determinate circostanze il cartello può attuarsi facilmente, questo perché le imprese non hanno incentivo a deviare se:  La loro curva dei costi marginali è anelastica , quindi è disincentivata perché le costerebbe troppo aumentare l’output. Di conseguenza se la curva di costo marginale fosse verticale q* sarebbe troppo vicino a qc;  I costi fissi sono bassi rispetto ai costi totali;  I clienti effettuano ordinativi piccoli e frequenti, così nessuna impresa è incentivata ad abbassare i prezzi al di sotto del prezzo di cartello, poiché se lo facesse senza annunciarlo sarebbe improbabile che i clienti lo apprendano, di conseguenza le vendite rimarranno per lo più costanti. Salvo che un cartello possa individuare le deviazioni ed impedire che si verifichino, le imprese partecipanti possono tagliare i prezzi e distruggere il cartello. Oggi molti economisti e giuristi sono a conoscenza di molti meccanismi che aiutano il cartello a far rispettare gli accordi. I principali meccanismi sono: a. Le imprese devono accordarsi oltre al prezzo, anche su altri fattori;

b. Dividere il mercato, quindi il cartello assegna ad ogni impresa certi acquirenti o zone geografiche; c. Mantenere fisse le quote di mercato, così facendo si riduce l’incentivo per ogni impresa a ridurre i prezzi, poiché se lo facesse la quota di mercato aumenterebbe e se le quote sono facilemente osservabili,le altre imprese se ne accorgerebbero immediatamente; d. Inserire nell’accordo clausole del tipo “nazione privilegiata” , tale clausola garantisce al cliente che il venditore(altra imprese del cartello) non sta vendendo ad un altro acquirente lo stesso bene ad un prezzo inferiore; e. Inserire nell’accordo clausole del tipo “garantiamo il prezzo più basso” , tale clausola garantisce all’acquirente che se un’altra impresa offrisse un prezzo inferiore, il venditore gli venderà il bene al medesimo prezzo o lo libererà dal contratto; f.

Stabilire prezzi di intervento (trigger price) , quindi tutte le imprese aderenti al cartello potrebbero convenire che se il prezzo di mercato scende oltre un certo livello (prezzo di intervento), ogni impresa espanderà l’output al livello di quello precedente il cartello, quindi tutte le imprese abbandoneranno l’accordo di cartello. I prezzi di intervento vengono stabiliti in quei mercati dove è difficile capire la variazione dei prezzi (se dipende dai costi o da deviazioni del cartello.Tuttavia se l'accordo si infrange temporaneamente,può essere ripristinato subito.

Alcuni osservatori, osservando grandi fluttuazioni dei prezzi in un mercato, notano che le imprese cercano di formare un cartello che però continua ad infrangersi; quest’osservazione porta ad affermare che l’intervento dello Stato risulta essere non necessario. Queste fluttuazioni, tuttavia, potrebbero rientrare in una politica (razionale) di lungo periodo del cartello. Le guerre dei prezzi sono più probabili durante inaspettate fasi decrescenti del ciclo economico (recessioni e depressioni) quando è probabile che il prezzo scenda in seguito ad una minore domanda.Di conseguenza durante queste fasi ci attendiamo che i cartelli abbiano termine. Altri economisti, invece, sostengono che le guerre dei prezzi dovrebbero verificarsi in periodi di domanda elevata e ritengono che il beneficio derivante dalla riduzione del prezzo di cartello è massimo durante le fasi di espansione. Paragrafo 5.3: “La distruzione di un cartello aumenta il benessere dei consumatori”. Le imprese che rispettano gli accordi stipulati formando il cartello sono poco accondiscendi nei confronti delle imprese che producono più di quanto prescritto. Gli scartellamenti portano un aumento del benessere dei consumatori, poiché le imprese che aumentano l’output fanno sì che il prezzo si abbassi. Per capire gli effetti del mancato rispetto delle regole di cartello da parte di alcune imprese si può, ad esempio, immaginare un’industria composta da 50 imprese con funzioni di costo identiche e nella quale non possono entrare altre imprese. Di queste 50 imprese, j imprese non rispettano l’accordo, di conseguenza producono quanto desiderano e sono price taker. In tal caso il cartello opera come un’impresa dominante che concorre con imprese marginali di tipo concorrenziale. La domanda residuale cui si trova di fronte il cartello si ottiene sottraendo la curva di offerta delle imprese marginali dalla domanda residuale. Il grafico a destra mostra la curva di domanda residuale che si trova sotto la curva di domanda del mercato ai prezzi superiori al livello di chiusura delle imprese concorrenziali (p = 10). La curva di domanda residuale forma un angolo nel livello di chiusura delle imprese concorrenziali. Poiché le imprese del cartello hanno le medesime funzioni di costo di quelle non appartenenti al cartello, neppure quest’ultimo può permettersi di produrre sotto a p = 10, quindi la parte inferiore della curva di domanda residuale non interessa. Il cartello che massimizza i profitti sceglie l’output a 240 unità, poiché è il punto in

cui la curva dei ricavi marginali uguaglia la curva dei costi marginali. Quest’output determina il prezzo delle imprese che appartengono al cartello (p = 24, si nota guardando la curva della domanda residuale); invece le imprese che non appartengono al cartello, al medesimo livello di prezzo, riusciranno a produrre 280 unità.

L’industria si trova in equilibrio concorrenziale se tutte le imprese operano in modo indipendente e rifiutano di entrare a far parte del cartello. All’aumentare del numero dei membri che formano il cartello, aumenta anche l’incentivo per le imprese a deviare, poiché aumenta la differenza fra i profitti delle imprese non appartenenti al cartello ed i profitti di quelle appartenenti. A ciascun livello di prezzo, le imprese non appartenenti al cartello guadagnano più dei membri del cartello, in quanto le prime producono di più pur vedendo al medesimo prezzo delle seconde. I consumatori traggono beneficio se le imprese rifiutano di far parte di un cartello, infatti se anche una sola impresa rifiuta di attenersi alle regole del cartello il prezzo risulta essere inferiore di circa il 3% rispetto a quello di monopolio; analogamente la perdita secca è inferiore del 10% ed il surplus del consumatore è superiore del 10%. In generale più grande è la quota di mercato del cartello, maggiore è il costo sociale in termini di efficienza. Capitolo 6: L’oligopolio L’analisi delle forme di mercato presenta un solo modello di concorrenza perfetta, un solo modello di monopolio, ma tanti modelli di oligopolio; con quest’ultimo termine si identifica un mercato in cui operano un numero ridotto di imprese indipendenti, le quali però sono consapevoli l’una dell’esistenza dell’altra. Nel monopolio esiste una sola azienda che quindi non ha rivali; nella concorrenza perfetta, le singole imprese concorrenziali sono troppo piccole per influire sul prezzo dell’industria, quindi nessuna di esse tiene conto delle iniziative dei suoi rivali; infine nell’oligopolio

sono presenti solo poche imprese, le quali possono influire sul prezzo di mercato e quindi sui profitti dei rivali, di conseguenza devono prendere in considerazione il comportamento delle imprese concorrenti. I fattori che influiscono sul successo di un cartello, incidono anche sulle modalità di interazione di rivali oligopolistiche; per questo motivo Stigler ha considerato che la base per comprendere le forze che operano in un oligopolio fosse la teoria dei cartelli. Gli oligopoli sono comuni nei mercati in cui i costi di trasporto ed i dazi doganali sono così elevati che non è conveniente inviare i prodotti al di fuori di una piccola regione geografia o mercato locale. Le ipotesi che stanno alla base di un oligopolio sono: i consumatori accettano il prezzo come dato(price takers); tutte le imprese producono prodotti omogenei; il numero di imprese rimane costante nel tempo; ogni impresa stabilisce solo il prezzo o l’output; ed infine le imprese nel loro insieme hanno potere di mercato, quindi possono fissare il prezzo sopra il costo marginale. Il prezzo di equilibrio in un mercato oligopolistico viene fissato ad un livello intermediario tra quello concorrenziale e quello monopolistico. I profitti attesi da ogni impresa oligopolistica vengono massimizzati quando il ricavo marginale atteso è uguale al costo marginale (RM=CM). Tutti i modelli di oligopolio possono essere visti come esempi di teoria dei giochi non cooperativi che utilizza modelli formali per analizzare i casi di conflitto e di collaborazione tra i giocatori (cioè le imprese). Un gioco è una particolare situazione di competizione in cui è importante il comportamento strategico, quindi la vincita di ogni impresa dipende dalle azioni di tutte le imprese. I modelli di oligopolio differiscono per il tipo di azioni svolte dalle imprese o per l’ordine con cui possono effettuarle. Al riguardo i modelli di oligopolio più noti sono: il modello Cournot, il modello Bertrand ed il modello Von Stackelberg. Nei modelli Cournot e Von Stackelberg le imprese stabiliscono i livelli di output, mentre nel modello di Bertrand le imprese fissano i prezzi. Nei modelli Cournot e Bertrand le imprese agiscono contemporaneamente, mentre in quello Von Stackelberg un’impresa stabilisce il livello di output prima delle altre. Un’altra distinzione che caratterizza i mercati di oligopolio, si può vedere nella distinzione tra i mercati che durano un solo periodo ed i mercati che durano in molti periodi. Un modello di gioco uniperiodale (o gioco statico) è appropriato per un mercato rappresentato da una fiera di prodotti artigianali in cui tutte le imprese di un Paese si incontrano una sola volta, quindi dopo aver fissato il prezzo o l’output non hanno la possibilità di osservare i diversi comportamenti. Un modello di gioco multiperiodale (o gioco ripetuto), invece, è adatto per analizzare il caso di due negozi di prodotti artigianali posti l’uno accanto all’altro che concorrono tra loro giorno dopo giorno, quindi hanno il tempo per modificare le loro convinzioni sul comportamento dei rivali e per poter utilizzare strategie credibili (azioni che rappresentano scelte ottimali) più complesse. Paragrafo 6.1: “La teoria dei giochi”. La teoria dei giochi analizza le interazioni tra individui razionali che predono decisioni e che non sono in grado di prevedere con certezza gli esiti delle loro decisioni. I modelli di comportamento oligopolistico possono essere considerati giochi di strategie o di azioni. I giochi oligopolistici presentano tre elementi comuni: pluralità di giocatori; ogni giocatore tenta di massimizzare il proprio profitto; ed infine ogni impresa è consapevole che le azioni dei rivali possono influire sul suo profitto. I profitti di equilibrio nel mercato oligopolistico dipendono dal numero di imprese, dalle regole del gioco e dalla durata di quest’ultimo. I principali modelli di oligopolio uniperiodale differiscono nelle regole del gioco. Paragrafo 6.2: “I modelli oligopolistici uniperiodali”. I primi lavori sulla teoria dell’oligopolio consideravano un solo periodo, quindi erano giochi statici. I tre modelli di oligopolio più noti, ance se risalgono a prima dell’introduzione della teoria dei giochi, possono essere interpretati come modelli di tale teoria. Tutti i modelli di oligopolio uniperiodali

utilizzano il concetto di equilibrio di John F. Nash( cioè che nessuna impresa vuole cambiare strategia). In atri termini, un insieme di strategie è definito equilibrio di Nash, se mantenendo costanti le strategie di tutte le altre imprese, nessuna impresa dell’industria può ottenere una vincita maggiore variando la propria strategia. I tre modelli di oligopolio uniperiodali più noti sono nati prima della teoria dei giochi ,ma possono essere interpretati da tale teoria,e sono: 1. Il modello di Cournot (il più usato oggi) ipotizza che ogni impresa agisca in modo indipendente e tenti di massimizzare i profitti scegliendo l’output. Il modello inizia Ipotizzando una situazione di duopolio,per poi verificare cosa succede al crescere del numero delle impres.Nel modello di Cournot, le ipotesi sono: a. L’entrata bloccata (solo due imprese attive) ; b. L’omogeneità dei prodotti; c. Le imprese sono attive per un solo periodo; d. La curva di domanda è una funzione lineare del prezzo, data da: Q(p) = 1000 – 1000p (quindi se p è 1,Q sarà 0 ); e. Ogni impresa non ha nessun costo fisso ed ha un costo marginale di produzione costante, pari a p = 0,28,quindi anche il costo medio è anche 0,28. ***i numeri sono esempi fatti in base al mercato dei meloni*** L’impresa per scegliere il suo livello di output, quindi dovrà considerare il comportamento dell’altra impresa, presente nell’industria. Infatti, se l’impresa 1 è convinta che l’impresa 2 venderà q2 unità di output, l’impresa 1 potrà stabilire q1 unità di output per massimizzare i propri profitti, cioè quella quantità che corrisponde al punto in cui la curva dei ricavi marginali interseca la curva dei costi marginali(RM=CM). In altre parole l’impresa 1 può vendere una quantità pari alla domanda di mercato meno q2, così facendo essa affronta una curva di domanda residuale, quindi formalmente q1 = Q(p) – q2. La curva di domanda residuale si ottiene spostando verso sinistra di q2 unità di output la curva di domanda di mercato. Nel grafico seguente si ipotizza una q richiesta di 1000 meloni e q2 fissato a 240 unità.L’impresa 1 ha quindi un monopolio su quei consumatori non soddisfatti dall’impresa 2,ottenendo una massimizzazione dei profitti nel punto in cui MC = RM.

Il rapporto tra la quantità che massimizza i profitti dell’impresa 1 e la quantità dell’impresa 2, può così essere formalizzata: q1 = R1 (q2). Quest’equazione viene definita funzione di risposta ottimale (o funzione di reazione) e mostra la migliore azione da parte di un’impresa date le sue convinzioni sull’azione dell’impresa rivale. Per ottenere la funzione di risposta ottimale è necessario ottenere algebricamente il punto in cui si ha l’intersezione tra la curva dei ricavi marginali e la curva dei costi marginali. Nelle ipotesi si è detto che se la curva di domanda residuale fosse lineare, così dicendo, anche la curva dei ricavi marginali sarà lineare ed avrà il doppio della pendenza(poichè la curva MR taglia l’asse della quantità a metà della quantità della curva di domanda residuale). In generale la curva di domanda residuale interseca la curva dei costi marginali a 720 – q2; invece la curva dei ricavi marginali relativi alla curva di domanda residuale interseca la curva dei costi marginali a (720 – q2) / 2. Quindi formalmente la funzione di risposta ottima dell’impresa 1 è: q1 = R1 (q2) = 360 – q2 / 2; mentre dell’impresa 2 è: q2 = R2 (q1) = 360 – q1 / 2.Se q2=0 l’impresa 1 produce 360(livello output di monopolio).In caso di nessuna concorrenza la curva di domanda residuale è la domanda di mercato:in questo caso dato che tale domanda si interseca con la curva dei MC a 720,la curva RM interseca MC a metà ,ovvero 360.Viceversa l’impresa 1 non cessa di produrre fino a q2=720.Il punto di intersezione delle funzioni di risposta ottimale è detto equilibrio di Cournot, in tale punto nessuna impresa ha un incentivo a cambiare condotta,poichè ottiene una massimizzazione dei profitti .Un’impresa non è disposta a produrre in un punto che non faccia parte della funzione di risposta ottimale,perchè altrimenti avrebbe un profitto inferiore.L’unico punto in cui entrambe le imprese si trovano rispettivamente nelle loro funzioni di risposta ottimale è il punto di intersezione fra le due funzioni. In un modello uniperiodale in cui le imprese scelgono solo i livello di output, senza nessun incentivo a cambiarlo, è per definizione un equilibrio di Cournot, quindi per ogni combinazione di

output tale equilibrio è l’unico plausibile.Tale equilibro è un caso particolare dell’equilibrio di Nash ,in cui le imprese hanno strategie relative alle quantità e viene definito equilibrio di CournotNas o equilibrio di Nash nelle quantità. L’assenza di una base teorica relativa alle aspettative ,è una critica al modello di Cournot e ad altri modelli statici: infatti l’impresa per definire quanto produrrà l’impresa rivale, non potrà fare uso dell’esperienza, poiché si andrebbe ad inserire un elemento dinamico in un modello statico. Questa critica ha indotto Stigler a sviluppare la sua analisi del cartello e ha indotto i teorici dei giochi a elaborare modelli di giochi multiperiodali. Volendo fare un confronto tra l’equilibrio di Cournot e l’equilibrio di cartello, si nota che nel primo le imprese realizzano profitti inferiori rispetto a quelli che ottengono formando un cartello, mentre i consumatori godranno un benessere maggiore nell’equilibrio di Cournot. Il margine prezzo – costo di Lerner ( che misura il potere di mercato delle imprese,più l’indice è vicino a 1 più è alto il potere di mercato ) (p – MC) / p è inferiore nell’oligopolio di Cournot rispetto a quello che si realizza con un cartello. Le imprese del modello di Cournot hanno un incentivo a formare un cartello. Il profitto più elevato che un’impresa potrebbe ricavare, mantenendo costante quello dell’altra impresa, è rappresentato dalla frontiera delle possibilità di profitto. L’equilibrio di Cournot si trova ben all’interno della frontiera delle possibilità di profitto, e le imprese hanno pertanto incentivo a colludere, in modo da aumentare i profitti ai livello della frontiera. Inoltre volendo fare un confronto tra l’equilibrio di Cournot e l’ottimo sociale (situazioni in cui il prezzo è uguale al costo marginale, come accade nell’equilibrio concorrenziale), si nota che se entrambe le imprese fissano un prezzo uguale al costo marginale, esse otterranno un profitto pari a zero per ogni unità di output venduta, quindi le imprese saranno indifferenti rispetto al numero di output da produrre. Nella situazione di ottimo sociale viene prodotto un livello di output doppio rispetto a quello del cartello. L’equilibrio del duopolio alla Cournot si trova, quindi, tra l’equilibrio concorrenziale e l’equilibrio monopolistico. Se ci sono più di 2 imprese identiche si può utilizzare lo stesso tipo di analisi per derivare l’equilibrio di Cournot; la funzione di risposta ottimale dell’impresa 1 è q1 = R1 (q2…qn). Se le altre n-1 imprese producono una quantità identica di output la funzione di risposta ottimale dell’impresa 1 è 360 – q (n - 1)/2. Le altre imprese hanno funzioni di risposta

ottimale simili, quindi la quantità di equilibrio di Cournot è q = 720 / (n+1) ed il prezzo di equilibrio è p = (1 + 0,28n) / (n + 1). Al crescere di n diminuisce l’output per impresa e cresce l’output dell’industria, quindi scende il prezzo. L’effetto dell’introduzione di un’ulteriore impresa sulla quantità e sul prezzo di equilibrio inizialmente è molto forte, ma tende a svanire all’aumentare del numero di imprese. I consumatori godono di un maggiore benessere e le imprese ottengono profitti inferiori al crescere del numero di imprese. 2. Il modello di Bertrand, nel criticare il contributo di Cournot, Joseph Bertrand affermava che nei mercati oligopolistici se non si assume che siano le imprese a fissare i prezzi, è difficile individuare quale altro soggetto lo possa fare. Cournot facendo scegliere alle imprese l’output e non il prezzo, non riesce a spiegare il meccanismo mediante il quale vengono determinati i prezzi. Nel modello di Bertrand le imprese, anziché fissare l’output, fissano i prezzi. Se i consumatori hanno informazioni complete e si rendono conto che le imprese producono prodotti omogenei acquisteranno dall’impresa che fissa il prezzo più basso. Nel modello di Bertrand ogni impresa ritiene che il prezzo del rivale sia fisso, così facendo con un leggero taglio dei prezzi, l’impresa è in grado di servire tutto il mercato. Nell’equilibrio di Bertrand le imprese ottengono profitti pari a zero, quindi il prezzo di equilibrio è pari a quello dell’ottimo sociale (equilibrio concorrenziale). Le ipotesi che sottostanno all’equilibrio di Bertrand sono: a. L’entrata bloccata; b. L’omogeneità dei prodotti; c. Le imprese sono attive per un solo periodo; d. La curva di domanda è una funzione lineare del prezzo, così si avrà che: Q(p) = 1000 – 1000p; e. Ogni impresa ha nessun costo fisso ed un costo marginale di produzione costante , pari a p = 0,28

***i numeri sono ovviamente degli esempi(probabilmente fanno riferimento al grafico di prima***

Ipotizzando che l’impresa 1 pratichi un prezzo p1 maggiore del costo marginale, se l’impresa 1 riesce a vendere a questo prezzo ottiene un profitto positivo. Tuttavia, poiché entrambe le imprese producono prodotti omogenei, i consumatori acquisteranno dall’impresa 2, se p2 < p1; invece, nessuno consumatore acquisterà dall’impresa 2 se p2 > p1; infine per i consumatori sarà indifferente comprare dall’impresa 1 o dall’impresa 2 se p1 = p2. Di conseguenza la domanda residuale dell’impresa 2 è zero quando p2 è superiore a p1, è uguale alla domanda di mercato quando p2 è inferiore a p1, ed è orizzontale quando i due prezzi sono uguali. Quando entrambe le imprese fissano un prezzo pari al costo marginale, nessuna ottiene un incremento nei profitti modificando il prezzo, poiché se un’impresa abbasso il prezzo otterrà una perdita, invece se lo aumenterà non troverà alcun consumatore pronto ad acquistare l’output. L’unico possibile equilibrio di Bertrand è p = MC.

Utilizzando le funzioni di risposta ottimale nello spazio dei prezzi si nota che dato un qualsiasi prezzo p1, che l’impresa 2 ritiene sarà praticato dall’impresa 1, l’impresa 2 vorrà fissare un prezzo p2 inferiore a p1, ma nello stesso tempo maggiore al costo marginale. questo significa che la funzione di riposta ottimale dell’impresa 2 si troverà sotto la bisettrice degli assi a partire dal punto di coordinate (MC, MC). Analogamente la funzione di risposta ottimale dell’impresa 1 si trova leggermente al di sopra della bisettrice. L’unica intersezione di queste funzioni di risposta ottimale, quindi l’unico equilibro, si ha nel punto in cui il prezzo è uguale al costo marginale. Quando i beni sono omogenei e tutte le imprese praticano il medesimo prezzo, la curva di domanda residuale di un’impresa di Bertrand è ad angolo, così grazie ad una variazione del prezzo si può ottenere l’intera quota di mercato. Questo nella realtà avviene raramente, infatti spesso le curve di domanda delle singole imprese sono continue (come nel modello di Cournot) poiché l’output di ogni impresa varia leggermente in seguito a piccole variazioni di prezzo. Nel 1897 Francis Edgeworth mostrò che se le imprese hanno capacità produttiva limitata non esiste un equilibrio statico di Bertrand con un unico prezzo. Per analizzare il modello di Edgeworth supponiamo che la capacità produttiva massima per ogni singola impresa sia di 360 unità di output ad un prezzo uguale al costo marginale(p=MC). Questo significa che ad un livello di prezzo di p =

0,28 le curve di costo medio e marginali di ogni impresa sono orizzontali fino a 360 unità di output e poi diventano verticali. In tali situazioni l’equilibrio di Bertrand non è più un equilibrio, poiché in equilibrio nessuna delle due imprese dovrebbe essere incentivata a modificare il prezzo. Questo, tuttavia, non si verifica poiché ogni impresa è indotta ad aumentare il prezzo, infatti nella parte di quota di mercato che non potrà essere soddisfatta dall’altra impresa, l’impresa restante potrà comportarsi come un monopolista. Di conseguenza non esiste un equilibrio statico con un unico prezzo.

3.

modello leader – follower di Von Stackelberg prevede che le imprese fissano l’output ed una di esse (impresa leader) agisce prima delle altre (imprese followers). In alcune industrie fattori storici, istituzionali o fattori giuridici stabiliscono quale sia l’impresa leader. Ipotizziamo che l’impresa 1 sia l’impresa leader, mentre l’impresa 2 sia l’impresa follower. L’impresa 1 sa che una volta fissato il proprio output, q1, l’impresa 2 userà la sua funzione di risposta ottimale alla Cournot per scegliere l’output che massimizza i suoi profitti, quindi q2 = R2 (q1). Nell’equilibrio di Von Stackelberg l’impresa leader ottiene un profitto maggiore rispetto all’equilibrio di Cournot, mentre l’impresa follower ne otterrà uno minore. Questo significa che

sapere come si comporterà l’impresa rivale (lo sa perché hanno medesimi costi) consentirà all’impresa leader di avvantaggiarsi a spese del follower. Sottraendo l’output dell’impresa follower dalla domanda totale, l’impresa leader calcola la sua curva di domanda residuale; l’impresa 1 sceglie l’output q1 dove il suo ricavo marginale è uguale al costo marginale.

L’impresa 1 massimizza i profitti producendo 360 meloni,l’impresa 2 ne produce solo 180 (livello output determinato sostituendo il valore 360 nella sua funzione di risposta ottimale). Il gioco di Von Stackelberg può essere analizzato utilizzando anche la rappresentazione in forma estesa (albero decisionale) che mostra l’ordine in cui le imprese effettuano le mosse. Esiste un numero infinito di combinazioni di output che le due imprese possono produrre. Nel modello di Von Stackelberg, l’impresa leader e l’impresa follower producono, rispettivamente, più e meno output rispetto a quanto accadrebbe ad un’impresa di Cournot. L’output totale nel modello di Von Stackelberg è maggiore rispetto a quello nel modello di Cournot, ma è minore rispetto a quello di Bertrand. Il prezzo nel modello di Von Stackelberg è maggiore rispetto a quello nel modello di Bertrand, ma è minore rispetto a quello di Cournot.

Paragrafo 6.3: “Giochi multiperiodali”.

Il più importante sviluppo avvenuto in teoria dei giochi riguarda l’analisi di giochi ripetuti o multiperiodali. Si è mostrato che l’analisi della teoria del cartello relativa all’oligopolio elaborata da Stigler è strettamente connessa ai modelli di oligopolio multiperiodale basati sulla teoria dei giochi. In un gioco multiperiodale le imprese possono utilizzare strategie complesse in cui il comportamento adottato in un particolare periodo dipende dall’esito del gioco in periodi precedenti. Questi giochi vengono definiti supergiochi. Il principale vantaggio di un modello ripetuto è che consente interazioni più complesse e realistiche tra le imprese, ad esempio un’impresa potrebbe segnalare ad un’altra di voler evitare una forte concorrenza, riducendo l’output per alcuni periodi, se l’altra risponde riducendo l’output i prezzi aumenteranno. Al contrario se un’impresa aumenta l’output, l’altra può vendicarsi aumentando anche il proprio output, così da far ridurre i prezzi. Questa situazione può essere illustrata mediante un gioco denominato “dilemma del prigioniero” che viene ripetuto un numero infinito di volte. Supponiamo che le imprese siano limitate a scegliere un livello di output tra due sole possibilità: il livello di output collusivo, nel quale ogni impresa produce 180 unità; (nel livello di Cournot, ogni impresa produce 240 unità). Inoltre le due imprese scelgono e producono simultaneamente. Da come si evince nel grafico, le loro azioni e le loro vincite, dipendono dalle strategie di entrambe: il profitto della prima impresa è indicato in alto a destra di ogni riquadro; mentre il profitto della seconda impresa è indicato in basso a sinistra di ogni riquadro.

Una rappresentazione in forma normale (forma strategica) di un gioco è una matrice che mostra le strategie a disposizione di ciascun giocatore e le vincite di ogni giocatore per ogni combinazione di strategie. Ogni impresa deve scegliere la propria strategia senza sapere che cosa farà l’altra, quindi le imprese sono impegnate in un gioco ad informazione imperfetta. L’impresa dovrà scegliere una strategia dominante, cioè una strategia che produce una vincita superiore o uguale all’altra indipendentemente dall’azione dell’impresa rivale. Questo gioco è denominato dilemma del prigioniero perché entrambe le imprese hanno strategie dominanti che portano ad una vincita inferiore a quella che esse otterrebbero collaborando. Se il gioco uniperiodale del dilemma del prigioniero viene ripetuto all’infinito ,aumenta la probabilità che il prezzo in un dato periodo sia maggiore di quello in un gioco uniperiodale. Nel gioco uniperiodale ogni impresa considerava la strategia del rivale ed ipotizzava di non poterla influenzare; invece, se questo gioco viene ripetuto ogni impresa può tentare di influenzare il comportamento del rivale segnalando e minacciando una punizione. Poiché entrambe le imprese ottengono un beneficio abbassando il livello di output, hanno un incentivo a comunicare per evitare il dilemma del prigioniero, il quale deriva da una mancanza di cooperazione. Le leggi antitrust, tuttavia, considerano illegali le comunicazioni dirette, quindi le imprese cercano di comunicare in via indiretta, mediante la scelta di una strategia se il gioco viene ripetuto. Il tipo di equilibrio che si ha in un gioco ripetuto dipende dall’abilità del giocatore di effettuare minacce efficace ed altri giocatori che non intendono collaborare. L’efficacia della minaccia dipende dal tasso di interesse, dalla durata del gioco e dalla credibilità della minaccia stessa. All’inizio di un gioco ogni impresa sceglie una strategia per massimizzare i profitti correnti e futuri (scontati). Se i tassi di interesse sono così elevati che i profitti nei periodi futuri varranno meno dei profitti correnti, la punizione che verrà adottata non produce effetti sulla condotta presenta; al contrario tassi di interesse bassi rendono più efficace la minaccia di punizione. Più sono i periodi ancora da giocare maggiore è la punizione complessiva che può essere inflitta, tuttavia se la minaccia non è credibile l’impresa 2 la ignorerà. La ricerca sui giochi multiperiodali si concentra solo sugli equilibri che derivano da strategie credibili (equilibri perfetti di Nash) ed esclude gli altri equilibri; tali restrizioni vengono definite perfezionamenti. In generale una strategia o una minaccia è credibile solo se l’impresa decide effettivamente di adottarla in qualsiasi sottogioco, cioè un nuovo gioco che inizia in qualsiasi periodo t del gioco considerato e dura fino alla fine del gioco stesso. Se le strategie proposte sono risposte ottime in qualsiasi sottogioco, esse costituiscono un equilibrio di Nash perfetto nei sottogiochi (o anche denominato equilibrio perfetto di Nash). Un modo per ottenere un equilibrio di Nash perfetto nei sottogiochi consiste nel risolvere il gioco a ritroso. Analizzando questa tecnica per un gioco con due periodi: nell’ultimo periodo (l’unico sottogioco) la strategia di ciascuna impresa deve essere basata sulla sua funzione di risposta ottima uniperiodale, cioè deve esistere un equilibrio di Nash nel secondo periodo in cui le strategie sono ottimali, nel senso che i giocatori le avrebbero scelte anche se il gioco fosse

iniziato nel periodo 2. Nel secondo periodo, la strategia di Nash o di risposta ottima consiste per entrambe le imprese nel produrre qn. Perciò l’unica affermazione credibile per l’impresa 1 è che produrrà qn nel secondo periodo. Poiché la minaccia di punizione da parte dell’impresa 1 nel periodo 2 non è credibile, entrambe le imprese producono qn anche nel periodo 1. Ciò significa che l’equilibrio del gioco ripetuto T volte prevede semplicemente una ripetizione dell’equilibrio uniperiodale T volte. L’intera argomentazione si fonda sul fatto che le imprese imbrogliano nell’ultimo periodo e presuppone che esista un numero noto e fisso di periodi T. Tutte le imprese barano nell’ultimo periodo, se sanno che si tratta dell’ultimo periodo. Se, invece, il periodo in cui il gioco finirà non è noto è meno probabile che un giocatori si discosti dal livello di output di cartello in un determinato periodo. Un gioco con un numero di periodi finito, ma ignoto, tale per cui i giocatori non sanno quale periodo sia l’ultimo, è quindi simile ad un gioco con un numero infinito di periodi e quindi un accordo di cartello è attuabile. In giochi con un numero infinito di periodi e fattore di sconto molto elevato è possibile avere un numero infinito di equilibri di Nash perfetti nei sottogiochi. Il folk theorem, che descrive l’insieme di equilibri di Nash perfetti nei sottogiochi in giochi infinitamente lunghi, afferma che qualsiasi combinazione di livelli di output potrebbe essere ripetuta all’infinito purché i profitti di ogni impresa corrispondenti a tali livelli di output fossero almeno uguali a quanto ogni impresa potrebbe guadagnare in un gioco uniperiodale. Di conseguenza, oltre alla soluzione di cartello, un altro equilibrio perfetto nel gioco ripetuto all’infinito è quello in cui ogni impresa produce in ogni periodo l’output di Cournot – Nash (qn). Capitolo 6A: Il modello della curva di domanda ad angolo In uno dei primi modelli di oligopolio le imprese affrontano curve di domanda residuale. Nella versione di Sweezy un oligopolista ritiene che i rivali eguaglieranno ogni sua riduzione di prezzo, mentre seguiranno lentamente gli aumenti di prezzo. Questo modello può essere presentato come la risposta ottimale da parte di un’impresa ad una strategia di imitare le riduzioni di prezzo, ma ignorare gli aumenti di prezzo. In tale situazione il prezzo p* è quello che massimizza i profitti nel punto in cui qualsiasi curva di costo marginale intersechi la sezione verticale della curva dei ricavi marginali. Il modello Sweezy si basa su una teoria che considera probabile che i prezzi rimangano invariati per piccole variazioni dei costi. Questa teoria, tuttavia, non dice nulla su come venga fissato il prezzo e nemmeno quale sarà la nuova situazione di equilibrio dato il nuovo livello dei

prezzi.Inoltre la teoria prevede che non ci sarà alcun angolo (ovvero che i prezzi diventano più flessibili ) quando gli oligopolisti collaborano e che quello che comporta grandi variazioni nei costi

porta a una variazione del prezzo (a differenza di piccole variazioni).Stigler respinge questa previsione screditando la teoria della domanda ad angolo. Capitolo 7: Differenziazione dei prodotti e concorrenza monopolistica In molti mercati le imprese sono impegnate nella concorrenza monopolistica, cioè imprese che hanno sia potere di mercato, che la capacità di aumentare i prezzi sopra il costo marginale. tali imprese, tuttavia realizzano profitti pari a zero. Questa struttura di mercato (concorrenza monopolistica) unisce le caratteristiche del monopolio (potere di mercato) e della concorrenza perfetta (profitti π = 0). Un’industria presenta concorrenza monopolistica se l’entrata è libera (quindi nel lungo periodo i profitti sono pari a 0) e se l’impresa affronta una curva di domanda residuale con pendenza negativa (quindi le imprese hanno potere di mercato). Una ragione per cui le imprese affrontano una tale curva di domanda residuale è che i consumatori considerano il suo prodotto diverso da quello di altre imprese dell’industria, quindi data l’eterogeneità e la differenziazione, i prodotti vengono considerati sostituti imperfetti. In questo caso l’impresa può vendere i propri prodotti ad un prezzo superiore rispetto a quello dei rivali senza correre il rischio di perdere tutta la quota di mercato. Se le imprese producessero prodotti omogenei, un aumento di imprese va a beneficiare i consumatori, poiché l’aumento dei concorrenti causa prezzi inferiori; se le imprese producono prodotti eterogenei, l’entrata di nuove imprese favorisce i consumatori sia perché fa abbassare i prezzi, sia perché aumenta la varietà dei prodotti tra i quali scegliere. Esistono due principali tipi di modelli con entrata libera e con prodotti eterogenei: 1. Il modello del consumatore rappresentativo: prevede che tutte le imprese sono in concorrenza per vendere a tutti i consumatori (ad esempio il mercato dei ristoranti). In questo modello la domanda individuale di un’impresa varia continuamente al variare dei prezzi delle altre imprese. 2. Il modello spaziale (o di localizzazione): prevede che ogni consumatore preferisce prodotti che presentano determinate caratteristiche o che vengono vendute da imprese situate vicino a lui, inoltre il consumatore è disposto a pagare un premium price al fine di ottenere questo tipo di prodotti. Il consumatore, infine, potrebbe non essere interessato al prezzo di altri prodotti venduti nel mercato. In questo modello la domanda di un bene può essere indipendente (se i beni non sono sostituti stretti) o notevolmente dipendente (se i beni sono sostituti stretti)dal prezzo di un altro bene. Entrambi i modelli possono essere utilizzati per studiare il benessere dei consumatori ed il surplus delle imprese, confrontando l’equilibrio in termini di prezzo e varietà in caso di concorrenza monopolistica con quello dato dall’ottimo sociale. Paragrafo 7.1: “Prodotti differenziati” (modello consumatore rappresentativo) Lo studio di un’industria con prodotti differenziati è basato su due concetti: in primo luogo, i prodotti sono differenziati perché i consumatori pensano che siano diversi (magari sono identici chimicamente o fisicamente,ma se i consumatori acquistano pensando che siano differenti , quest’ultimi non vanno considerati prodotti omogenei ); in secondo luogo, il prezzo di un bene differenziato influenza maggiormente il prezzo di un altro bene quando i due prodotti sono sostituiti stretti rispetto a quando non lo sono. Un’industria ha prodotti relativamente omogenei se i consumatori non si curano della marca che acquistano. Esistono due approcci per analizzare la differenziazione: nella teoria standard del consumatore, i consumatori hanno preferenze in relazione ai beni; in una formulazione alternativa, i consumatori hanno preferenze in relazione alle proprietà o caratteristiche dei beni. Nelle industrie con prodotti omogenei la domanda di

un’impresa dipende solo dall’offerta totale dei rivali, invece nelle industrie con prodotti eterogenei essa dipende dall’offerta di ciascun rivale considerato singolarmente. In generale, possiamo indicare la curva di domanda inversa dell’impresa, come p1 = D(q1, …, qn). Ciò significa che il prezzo p1 che l’impresa i fa pagare per il suo prodotto dipende dalla quantità venduta del suo prodotto e dalla quantità venduta di tutti gli altri prodotti. Si può anche scrivere la curva di domanda dell’impresa i come funzione dei prezzi dei prodotti di ogni rivale q1 = D(p1, p2, …, pn). Se però i consumatori considerano tutti i prodotti omogenei la cura di domanda può essere scritta in forma più semplice. I consumatori non sono disposti a pagare di più per i prodotti di un’impresa rispetto a quello di un’altra, perciò tutte le imprese se vogliono vendere i loro prodotti devono praticare lo stesso prezzo p. Nel caso di articoli indifferenziati nella determinazione del prezzo, p, importa solo l’output totale del mercato Q = q1 + q2 + … + qn. In questo caso l’equazione inversa della domanda residuale può essere scritta come segue: p1 = p = D(q1 + q2 + … + qn) = D(Q). Paragrafo 7.2: “Il modello del consumatore rappresentativo”. Il modello del consumatore rappresentativo(primo modello di concorrenza monopolistica) fu elaborato da Chamberlin e prevede che il consumatore considera tutti i prodotti venduti sul mercato come ugualmente sostituibili (simmetrici). Questo modello presenta due versioni: 1. Il modello del consumatore rappresentativo con prodotti indifferenziati(omogenei). Nella versione più semplice del modello, i beni sono omogenei.Questo modello differisce da quello di oligopolio solo per il numero di imprese attive nel mercato.Infatti nell’oligopolio le imprese ,lo Stato o qualche altra variabile impediscono l’entrata,mentre in questo modello l’entrata è libera fino a quando è profittevole. Per il resto sono uguali poiché ogni impresa sceglie l’output così che il ricavo marginale sia uguale al costo marginale(RM=CM). All’aumento dell’output i costi fissi vengono ripartiti tra un numero sempre maggiore di unità, quindi i costi medi fissi(AFC) scendono ed il costo totale medio(AC) consiste principalmente nei costi variabili medi. Di conseguenza a livelli di output più bassi, il costo totale medio (AC) si trova ben sopra il costo marginale, mentre si avvicina a quest’ultimo al crescere dell’output prodotto.

Il modello della concorrenza monopolistica esige che le imprese abbiano curve di domanda residuale con pendenza negativa.Benchè sia la differenziazione dei prodotti a determinare tali curve ,si può ottenere lo stesso effetto ipotizzando l’esistenza di costi fissi molto elevati,che limitano il numero di imprese che entrano nell’industria(vedi grafico precedente). La condizione di entrata afferma che le imprese entrano nell’industria finché i profitti sono positivi, quindi formalmente si avrà: π = pq – C(q) = 0. In equilibrio il costo totale medio di ogni impresa è uguale al prezzo(AC=p), quindi i profitti per ogni unità prodotta è pari a 0, di conseguenza saranno nulli anche i profitti globali. Per stabilire il numero di imprese di equilibrio si determina l’output di equilibrio di Cournot per ogni numero possibile di imprese e si sceglie quell’equilibrio dove le imprese ricavano profitti nulli. Minori sono i costi fissi, più elevato è il numero di imprese di equilibrio in concorrenza monopolistica: esse aumentano perché essendo minori i costi fissi saranno maggiori i profitti, quindi per far scendere i profitti a zero è necessario che entrino nell’industria nuove imprese. Sebbene i costi fissi influiscano sulla decisione di un’impresa di produrre o meno, essi non influenzano i livelli di output, infatti ogni impresa fissa il proprio output ad un livello in cui i ricavi marginali sono uguali al costo marginale (RM=CM), di conseguenza né i ricavi marginali né i costi marginali sono influenzati da una variazione del costo fisso. Quando non vi sono costi fissi, nell’industria entrano un numero sufficiente di imprese a spingere il prezzo verso il costo marginale, che rappresenta la soluzione concorrenziale. Con l’equilibrio di concorrenza monopolistica sorgono problemi di benessere o efficienza. Innanzitutto perché il prezzo è superiore al costo marginale(p>CM), quindi l’industria produce troppo poco output totale, questo significa che un’unità aggiuntiva del prodotto per i consumatori costa di più rispetto a quanto alle imprese costa produrla. Secondariamente, quando i costi marginali non fanno si che aumenta il numero di imprese di equilibrio ,significa che è troppo elevato rispetto a quello dell’ ottimo sociale. Ogni impresa aggiuntiva deve, infatti, pagare un costo fisso F e perciò i costi fissi sostenuti globalmente dalle imprese sono eccessivi dal punto di vista del benessere collettivo. La funzione di costo di ogni impresa è data da C(q) = mq + F (m è il costo marginale costante), così la soluzione ottima per la società consiste nel sovvenzionare un’impresa perché produca tutto l’output ed esigere che il prezzo sia fissato ad un livello pari al costo marginale(p=CM). La migliore soluzione viene definita ottimo first – best.

In questo equilibrio si avrà il prezzo pari al costo marginale ed i consumatori acquisteranno q* unità di output. Al livello di p l’impresa è in perdita, poiché il prezzo è inferiore al costo totale medio, quindi lo Stato se vuole che l’impresa rimanga in attività la dovrà sovvenzionare. Quando un’impresa presenta una curva di costo totale medio con pendenza negativa, viene definita monopolio naturale, perché una sola impresa può soddisfare le richieste di tutti i consumatori ad un prezzo inferiore a quello praticato da due o più imprese. Ogni imprese potrebbe, infatti, produrre al costo marginale, ma l’entrata di un’impresa aggiuntiva richiederebbe un esborso aggiuntivo di costi fissi, quindi nell’equilibrio di concorrenza monopolistica non solo il prezzo è superiore al costo marginale, ma se più imprese sono attive la spesa relativa ai costi fissi è troppo elevata. Di conseguenza una sola imprese potrebbe produrre l’output di concorrenza monopolistica risparmiando costi rispetto a quelli che sosterebbero nel complesso le diverse imprese. Di solito lo Stato non è in grado di regolare un’industria in modo da raggiungere la soluzione di first – best e massimizzare il benessere della società(è impossibile politicamente ad esempio per l’energia elettrica). In alcune industrie lo Stato può riuscire a controllare il numero di imprese(es.taxi), ma può non essere in grado di costringerle a produrre più della quantità che massimizza i loro profitti, se non è disposto a sovvenzionarle. Scegliendo il numero ottimale di imprese lo Stato può raggiungere la soluzione di second – best, cioè il miglior risultato possibile soggetto ad un vincolo che viola una delle condizioni necessarie per ottenere il risultato di first – best. Questo significa che il benessere viene portato al più alto livello possibile posto che lo Stato non sovvenzioni le imprese. Ponendo dei vincoli all’entrata, lo Stato ottiene l’ottimo di second – best, questo sebbene sia inferiore all’equilibrio di first – best, è superiore all’equilibrio che si determina nella concorrenza monopolistica priva di limitazioni. 2. Il modello del consumatore rappresentativo con prodotti differenziati (eterogenei). Anche in questa versione, la massimizzazione dei profitti è determinata dalla regola dell’uguaglianza fra ricavi marginali e costi marginali (RM=CM) e l’entrata si verifica solo fino al punto in cui i profitti sono positivi. Al contrario del modello con prodotti omogenei, la curva di domanda dell’impresa (quindi la curva dei ricavi marginali) dipende dalle singole quantità prodotte da ogni concorrente, anziché unicamente dalla quantità totale: quindi la curva di domanda di un’impresa può differire dalla curva di domanda di un’altra impresa, così studiare un’impresa rappresentativa può non essere sufficiente. Anche in questo modello al diminuire dei costi fissi aumenta il numero di imprese presenti nell’industria e quindi il prezzo potrà diminuire. La differenziazione dei prodotti ha come principale conseguenza, che la curva di domanda con pendenza negativa sarà più rigida rispetto alla condizione di omogeneità dei prodotti, poiché gli altri prodotti non saranno più considerati sostituti stretti. Questa maggiore pendenza dà all’impresa maggiore potere di mercato, cioè maggiore capacità di aumentare il prezzo oltre che il costo marginale. In generale l’equilibrio di concorrenza monopolistica con prodotti eterogenei presenta due problemi:1)né il prezzo né la varietà sono ottimali, infatti il prezzo è superiore al costo marginale, ma nel caso di prodotti differenziati ci può essere poca varietà (non tutti i prodotti possono essere realizzabili se i costi fissi sono tanto elevati da generare perdite);2) o troppa varietà (introduzione di nuovi prodotti: al riguardo spesso succede che le imprese quando producono nuovi output ignorano l’effetto che una maggiore concorrenza ha sui profitti delle altre imprese). Quando le imprese operano nella posizione della curva dei costi medi con rendimenti di scala crescenti, tendono a produrre pochi prodotti. Se un’impresa presenta un costo marginale che non aumenta rapidamente ed ha costi fissi elevati, l’impresa opererà nella parte con pendenza negativa della propria curva di costi totali medi. Nei grafici successivi, si nota che la collettività ottiene un maggiore benessere se i prodotti sono realizzati, infatti il beneficio supera i costi sociali. Nel grafico a sinistra il costo totale medio interseca la curva di domanda, perciò produrre è proficuo. Il profitto dell’impresa è positivo alla quantità q*

perché il costo medio per unità è inferiore al prezzo p*. La somma del surplus consumatore (CS) e dei ricavi (π + C) meno i costi sociali (C) è uguale al benessere ,che è positivo. Nel grafico a destra la curva del costo totale medio si trova in ogni punto sopra alla curva di domanda, quindi i costi totali superano i ricavi totali a tutti i livelli di output, questo significa che il prodotto non verrà realizzato, anche se è socialmente auspicabile produrlo. Il benessere sociale (E + B + R) meno i costi (R + B + D) è positivo dato che E > D. il motivo per cui il prodotto non verrà realizzato è che l’impresa non ottiene l’intero surplus sociale, ma pagherà l’intero costo sociale.

Il prodotto che ha maggiori probabilità di essere realizzato è quello per cui la curva di domanda è ad angolo retto, poiché i consumatori presentano una domanda anelastica fino ad un prezzo, p*, nel quale la loro domanda diventa perfettamente elastica. Con un tale curva non vi è differenza fra i ricavi totali ed i benefici sociali totali, perché non esiste surplus del consumatore al prezzo p*. A parità di altre condizioni, più piccolo è il rapporto tra surplus del consumatore e ricavi totali, più probabile è che l’impresa produca un bene socialmente desiderabile. Se non ci sono costi fissi ed i costi marginali sono costanti, allora il costo totale medio è uguale al costo marginale (AC=CM), quindi se un output è socialmente auspicabile, le imprese otterranno un profitto dal produrlo. L’equilibrio ottimale riflette il compromesso tra il numero di prodotti realizzati e la quantità di ogni bene prodotto (che è determinata dal prezzo). Se si ipotizza che il numero di prodotti, n, rispecchi il valore della varietà, più imprese o prodotti sono presenti, maggiore è il benessere dei consumatori. Se tutti i beni vengono prodotti con la medesima funzione di costo ed hanno la stessa curva di domanda, in condizioni di equilibrio il numero di unità di output, q, è il medesimo per ciascun prodotto. I dati essenziali relativi all’equilibrio sono il numero dei prodotti (n) e dall’output (q).La frontiera delle possibilità di produzione (PPF) rappresenta le possibili combinazioni del numero di prodotti e di quantità per prodotto che si possono realizzare con gli input totali a disposizione della società. Le preferenze della società tra quantità e varietà si evincono dal grafico che segue. Il punto O (q*, n*), cioè il punto di tangenza tra la curva PPF e la curva di indifferenza, rappresenta la scelta ottimale della società. In qualsiasi punto su qualsiasi curva di indifferenza che si trova sotto

la curva di indifferenza passante per il punto O la società vede ridotto il proprio benessere. I punti sulle curve di indifferenza poste al di sopra di quella che passa per il punto O sono al di fuori della PPF e quindi non possono essere prodotti. Il punto B sulla PPF rappresenta un possibile equilibrio di concorrenza monopolistica, in quel punto l’industria produce troppo pochi prodotti, ma più output per prodotto rispetto al livello ottimale.; al contrario nel punto A sulla PPF l’industria produce più prodotti rispetto al livello ottimale, ma meno output per prodotto.

Paragrafo 7.3: “I modelli di localizzazione” (o spaziali). La concorrenza tra le imprese è tanto più forte quanto maggiore è il grado di sostituibilità dei prodotti che esse vendono; questo fa sì che il prodotto sia localizzato in un punto particolare del suo spazio caratteristico (o spazio geografico). I modelli di localizzazione (o modelli spaziali) sono modelli di concorrenza monopolistica in cui i consumatori ritengono che il prodotto di ogni impresa abbia una particolare collocazione nello spazio geografico del prodotto. Più vicini sono due prodotti nello spazio geografico, più sono sostituibili. In questi modelli i consumatori sono a loro volta collocati nello spazio geografico, poiché risulta loro costoso fare acquisti in negozi più lontani da casa. Poiché le imprese ed i prodotti competono direttamente solo con i prodotti a loro vicini, ogni impresa ha del potere di mercato che deriva dalla preferenza dei consumatori ad effettuare l’acquisto presso l’impresa più vicina o a comparare il prodotto preferito. Esistono diversi modelli di localizzazione, i più importanti sono: 1. Il modello di localizzazione di Hotelling è stato sviluppato nel 1929 per spiegare la localizzazione ed il comportamento delle imprese nella determinazione dei prezzi. Esso può essere utilizzato per studiare la concorrenza monopolistica considerando i prodotti localizzati in uno spazio caratteristico. In questo modello i prodotti differiscono per un solo aspetto, ad esempio la localizzazione dei negozi che li vendono, tuttavia Lancaster ha dimostrato che può essere esteso per analizzare prodotti che si differiscono sotto più aspetti. Ipotizziamo che vi sia una città tutta estesa in lunghezza, con una sola strada avente una lunghezza prefissata, nella quale i consumatori sono distribuiti uniformemente. A parte la localizzazione tutti i

consumatori sono identici ed ognuno di essi acquista un’unità di output per ogni periodo di tempo. In questa città due negozi vendono output identici: il negozio 1 è situato a km “a” di distanza da un’esternalità della città, mentre il negozio 2 è situato a km “b” di distanza da un’esternalità della città. Ipotizzando, anche, che questi due negozi vendano i loro output ad uno stesso prezzo pk, i consumatori preferiranno un negozio solamente in ragione della loro prossimità, dato che ognuno di essi affronta un costo di trasporto pari a “c”. Consideriamo un consumatore i che dista x dal negozio 1 (quindi il costo totale sarà pk + cx) ed y dal negozio 2 (quindi il costo totale sarà pk + cy), il consumatore sceglierà il negozio che gli farà sostenere meno costi di trasporto. Se il negozio 2 si è già situato a b km dall’esternalità a destra della città, e non può cambiare la propria localizzazione, il negozio 1 potrà massimizzare i propri profitti situandosi leggermente alla sinistra del negozio 2 (quindi ad a’ km dall’esternalità di sinistra). Se, invece, il negozio 2 potrà cambiare la propria localizzazione, si sposterà leggermente a sinistra del negozio 1, tuttavia questa situazione si ripeterà fino a quando i due negozi si trovano al centro della città ed ognuno abbia metà dei clienti. Quindi se il prezzo è dato si può stabilire la localizzazione delle due imprese, questo è un equilibrio di Nash, poiché nessuna impresa vorrà cambiare posizione.

Fissando la località e lasciando le imprese libere di competere sul prezzo, si può stabilire un equilibrio di Nash. Ipotizziamo che il negozio 1 ed il negozio 2 vendano i loro output rispettivamente al prezzo p1 ed al prezzo p2 e siano posizionati ai due estremi della città (il negozio 1 nell’estremo sinistro “A”, mentre il negozio 2 nell’estremo destro “Z”).Un generico consumatore i che si trovi nel punto A, se vorrà comprare un’unità di output nel negozio 1 pagherà p1 (poiché in questo caso c = o), mentre se vorrà comprare la stessa unità di output nel negozio 2 pagherà p2 + c. Consideriamo un consumatore collocato in un generico punto t la sua funzione di utilità viene così definita: u – p1 – ct (se acquista nel negozio 1), u – p2 – c(1 – t) (se acquista nel negozio 2). Il consumatore collocato nel punto t, sarà indifferente tra l’acquistare nei due diversi negozi, quindi formalmente si avrà che: u – p1 – ct = u – p2 – c(1 – t); di conseguenza isolando l’incognita t si potrà trovare l’esatta collocazione. I due negozi che competono sul prezzo, date le loro localizzazioni, per massimizzare i loro profitti fissano prezzi pari ai costi di trasporto dei consumatori. Quando le imprese possono cambiare sia i prezzi che la loro localizzazione, senza incorrere in costi, non esiste alcun equilibrio.

2. Il modello di localizzazione di Salop (anche denominato modello della circonferenza di Salop) introduce due variazioni rispetto al modello di Hotelling. Innanzitutto le imprese sono situate lungo una circonferenza, e non più in una retta (il motivo di tale scelta è perché il cerchio non ha punti estremi, quindi equivale ad una retta infinita.Infatti una delle cause principali della non esistenza di un equilibrio nel modello di Hotelling è la presenza du punti estremi). Secondariamente il modello di Salop tiene conto di un secondo bene (bene esterno,che potrebbe essere una determinata marca,un determinato gusto,ecc.). Ipotizzando che i clienti siano localizzati in un cerchio di circonferenza unitaria e che per semplicità ogni cliente si compra una singola unità di output. La localizzazione di un cliente, t*, rappresenta il tipo di output preferito dal cliente stesso. Il benessere (l’utilità) che un consumatore trae da un output di un’impresa localizzata in t è : U(t, t*) = u – c|t – t*|.La differenza tra t e t* è la distanza del prodotto t dal gusto preferito t*. Il grafico che segue indica la funzione di utilità del consumatore; in tal grafico, per ottenere una linea, si raddrizza un arco della circonferenza di Salop. La figura mostra due localizzazioni nelle quali il consumatore ha un’utilità pari a zero, queste sono: t = t* + u/c e t = t* - u/c. il grafico mostra che il benessere che il consumatore riceve dal consumo di un prodotto situato a desta o a sinistra di quello ottimale(cioè quello preferito) è inferiore a quello che egli ottiene consumando il prodotto preferito.

Ogni consumatore tenta di massimizzare il proprio surplus, che è la differenza tra il benessere derivante dal consumare un prodotto situato in t ed il prezzo da pagare per quel prodotto, quindi formalmente: U(t, t*) – p. Il consumatore potrebbe optare di non acquistare altri tipi di output, ma preferire il bene esterno, se questo rappresenta il miglior acquisto, cioè garantisce una maggiore utilità per una data somma di denaro:effetuiamo quello che viene definito il miglior acquisto,cioè la il prodotto che consente di ottenere il surplus maggiore,la migliore combinazione prezzo-qualità. Se l’output preferito dal consumatore è localizzato in t* e venduto al prezzo p*, il surplus che il consumatore può ricavare dall’output è u – p*; quindi il consumatore sarà disposto ad acquistarlo solo se esso è maggiore del surplus derivante dal bene esterno, quindi formalmente u – p* > u’,oppure rispetto a p* si avrà che u-u’>= p*. Questo significa che il consumatore ha un prezzo di riserva (v = u – u’), cioè il prezzo più elevato che è disposto a pagare per il tipo preferito di prodotto. L’equilibrio simmetrico nel modello di Salop dipende da dove sono localizzate le imprese e da come esse fissano il prezzo. A parità di altre condizioni ogni impresa vorrà collocarsi il più lontano possibile dai concorrenti più stretti, poiché così aumenta il loro potere di mercato. In seguito al tentativo di posizionarsi il più lontano possibile, i negozi finiscono per essere equidistanti l’uno dall’altro (quindi distanza 1/n). Salop partendo dall’equidistanza si chiede quale prezzo faccia pagare ciascun negozio. Egli ipotizza che una particolare impresa (situata nella parte bassa della circonferenza) faccia pagare il prezzo p e che i suoi due più vicini concorrenti facciano pagare prezzo p’, di conseguenza si chiede come dovrebbe fissare il prezzo p.

La risposta dipende dal numero di imprese esistenti:

a. La regione di monopolio. Se esistono poche imprese, esse non sono in concorrenza tra loro per gli stessi consumatori, quindi ogni impresa è un monopolista locale e vende a tutti i consumatori che vivono abbastanza vicino a lei in modo tale da realizzare un profitto positivo. Consideriamo un consumatore posto ad una distanza x (t – t*) dall’impresa che vende il tipo di output posto in t ad un prezzo p. Egli è disposto ad acquistare quel tipo di output solo se il suo surplus è positivo o uguale a zero, quindi formalmente v – cx – p >= 0. Questo significa che la distanza massima alla quale un consumatore può essere posto rispetto a quel tipo di output è: xm(massima) = (v – p)/c. Quando il prodotto si trova nella distanza massima il surplus netto del consumatore è pari a zero, di conseguenza il consumatore è indifferente tra acquistare o non acquistare.

L’impresa che vende il suo output si assicura tutti i consumatori che non si trovano ad una distanza superiore a xm da entrambi i lati della sua posizione, o tutti i clienti nel segmento di circonferenza

2xm. Se ci sono L consumatori posti uniformemente lungo la circonferenza, la domanda di monopolio di quest’impresa (qm) è pari a 2xmL oppure: qm = (v – p)2L/c. b. La regione concorrenziale. Se ci sono più imprese, quindi che sono posizionate più vicine tra loro e competono per gli stessi consumatori, ogni impresa nel fissare il proprio prezzo deve tenere conto del prezzo praticato dai rivali. Quando le imprese sono in concorrenza tra loro, un’impresa non si assicura tutti i clienti, poiché ne perde alcuni a vantaggio dei rivali più vicini. Entrambi i concorrenti più vicini all’impresa che stiamo considerando distano 1/n e fanno pagare p. L’impresa facendo pagare il prezzo p, si assicura tutti i clienti entro la distanza xc, dove xc è tale che i consumatori ottengono la stessa utilità del consumo del tipo di output prodotto dall’impresa e da quelli prodotti dai rivali più vicini. Quindi formalmente si ha: v – cxc – p = v – c(1/n- xc ) – p’. il primo membro è l’utilità netta derivante dal consumo dell’output dell’impresa, mentre il secondo membro rappresenta l’utilità netta derivante dal consumo dell’output dell’impresa concorrente più vicina. Il grafico precedente, con l’immagine a destra, mostra come il limite della regione concorrenziale (xc) sia determinato dal punto in cui non vi è differenza tra i due beni, quindi nel punto in cui l’equazione precedente è uguale per entrambi. Di conseguenza nel punto in cui si intersecano le rette del surplus netto relativo alle due imprese rivali, per un consumatore è indifferente acquistare una marca o l’altra. ***il segno ‘ significa segnato (quindi lettera col segnetto sotto)*** Con prezzi elevati le regioni di domanda delle imprese non coincidono perché ogni impresa costituisce un monopolio locale. Al diminuire del prezzo ci sono più consumatori interessati all’output e le regioni si sovrappongono ed inizia la concorrenza tra le imprese. Il grafico seguente mostra le regioni di domanda relative al monopolio ed alla concorrenza: ad un livello superiore a pm la regione di domanda è monopolistica, quindi i clienti non prendono in considerazione l’acquisto presso alcun’altra impresa, mentre sotto il livello pm l’impresa è in concorrenza con le imprese più vicine.

Capitolo 8: Struttura industriale e risultati economici(grafici non necessari) La teoria dei mercati affermano che meno concorrenza si trova di fronte un’impresa, maggiore è il suo potere di mercato, cioè la sua capacità di fissare il prezzo in modo profittevole al di sopra del costo marginale. Il potere di mercato (quindi il prezzo ed i profitti) dovrebbe pertanto essere più elevato in industrie con sostanziali barriere all’entrata che riducono la concorrenza effettiva e potenziale. Per molti decenni gli economisti hanno condotto studi di struttura – comportamenti – risultati economici (SCR) incentrata su quali siano i fattori che determinano il potere di mercato. Il risultato economico del mercato rappresenta la capacità del mercato di produrre benefici per i consumatori. La struttura di mercato consiste, invece, in quei fattori che determinano la concorrenzialità del mercato. La struttura influisce sul risultato economico mediante il comportamento o la condotta delle imprese. Il rapporto tra il prezzo (p) il costo marginale (MC) e la persistenza di profitti economici dipende dalla struttura di mercato. In un’industria concorrenziale composta da imprese identiche con libertà d’entrata, il prezzo è pari al costo marginale di breve periodo, quindi i profitti di breve periodo sono positivi o negativi ed i profitti di lungo periodo sono pari a zero. Anche se tutte le imprese sono price taker, il profitto nel lungo periodo di ciascuna di esse è pari a zero solo se ognuna ha uguale accesso alla medesima tecnologia ed agli stessi fattori di produzione. Se alcune imprese presentano costi inferiori ad altre imprese i loro profitti non saranno completamente erosi, infatti la libera entrata garantisce solo che il profitto dell’impresa meno efficiente che entra nel mercato sia uguale a zero nel lungo periodo. Nel monopolio e nell’oligopolio il prezzo supera i costi marginali, quindi i profitti nel breve periodo sono positivi o negativi, ed i profitti di lungo periodo sono pari a zero o sono positivi. Nella concorrenza monopolistica il prezzo è superiore al costo marginale, quindi l’entrata fa scendere a zero i profitti di lungo periodo. Paragrafo 8.1: “Struttura – Comportamento – Risultati economici”. Il tradizionale approccio struttura – comportamento – risultati economici utilizzò per la prima volta deduzioni derivanti dall’analisi microeconomica. Nel paradigma SCR i risultati economici di un’industria dipendono dalla condotta o dal comportamento dei venditori e degli acquirenti, che si basa sulla struttura del mercato. A sua volta, la struttura del mercato è determinata da condizioni fondamentali come la tecnologia e la domanda di un prodotto. Molti economisti criticano l’approccio SCR in quanto più descrittivo che analitico. Un tipico studio SCR consta di due fasi: si misurano i risultati economici (direttamente o indirettamente mediante una loro stima) e si utilizzano osservazioni trasversali sull’industria per definire le regressioni dei risultati economici su varie misure dalla struttura di mercato. Per valutare quanto il risultato economico di un’industria si avvicini a quello di un’industria concorrenziale, vengono utilizzate diverse misurazioni:  Il tasso di rendimento è una misurazione che si basa sui profitti ricavati per ogni euro di investimento. Ci sono importanti distinzioni tra profitti economici e contabili: la più importante riguarda il capitale fisso di lunga durata. I profitti economici sono pari ai ricavi meno il costo del lavoro, dei materiali ed una misura dei costi di capitale. Quest’ultimi sono difficili da misurare e sono pari ai canoni annui d’affitto. Nel calcolo del canone d’affitto il capitale fisso dovrebbe essere valutato al costo di sostituzione, cioè il costo di lungo periodo che si deve sostenere per acquistare un bene di qualità paragonabile. Se il capitale viene valutato al proprio costo di sostituzione, un basso tasso di rendimento è un segnale che nell’industria non dovrebbe entrare nuovo capitale; al contrario un alto tasso di rendimento indica che nell’industria dovrebbe entrare nuovo capitale. I ricercatori, spesso dividono i profitti economici per il valore

del capitale dell’impresa, al fine di ottenere un tasso di rendimento sul capitale. Quello che più conta per un investitore è il rendimento dopo la detrazione dell’ammortamento, quindi il costo del capitale può essere espresso come tasso di rendimento (r) più il tasso di ammortamento (S). Questo significa che il profitto può essere espresso come: π = R – Cl(costo lavoro) – Cm(costo materiali) – (r + S)pkK. Il valore del capitale è pkK, infatti pk è il prezzo del capitale e K la su quantità. Il tasso di rendimento realizzato è quel valore di r che rende nullo il profitto economico, quindi si pone il profitto uguale a zero e si risolve rispetto a r. Il calcolo corretto dei tassi di rendimento pone diverse difficoltà, ad esempio: 

Il capitale non viene valutato appropriatamente, poiché si usano definizioni contabili, piuttosto che definizioni economiche. Gli economisti misurano il flusso del costo del capitale annuo servendosi del canone di locazione come se tutte le attività capitali fossero prese in affitto. Il valore contabile del capitale, invece, è basato sul costo storico del capitale unito alle ipotesi sull’ammortamento. Il capitale dovrebbe essere valutato al costo di sostituzione per stabilire se il tasso di rendimento è superiore o inferiore al livello concorrenziale. Poiché il costo storico è diverso dal costo di sostituzione effettivo, l’uso del valore contabile del capitale, invece di quello economico può introdurre gravi distorsioni nella misura del tasso di rendimento.



L’ammortamento non viene misurato adeguatamente. Nelle stime contabili si utilizzano molte formule fisse, tuttavia le previsioni in conformità a questa formula possono non essere correlate alla diminuzione di valore economico del bene, che è la misura dell’ammortamento economico. Questo significa che la stima del tasso di rendimento può essere distorta.



I tassi di rendimento possono non essere aggiustati adeguatamente per tenere conto del rischio. Per stabilire se un’impresa ottiene un tasso di rendimento troppo elevato, è opportuno confrontare il tasso di rendimento effettivamente ottenuto ed il tasso di rendimento aggiustato per tenere conto del rischio (cioè il tasso di rendimento ottenuto dalle imprese concorrenziali impegnate in progetti con livello di rischio pari a quello delle imprese analizzate).



Alcune misure dei tassi di rendimento non considerano la situazione debitoria dell’impresa. Poiché il capitale fisso di un’impresa viene pagato sia dai debitori che dagli azionisti, il tasso di rendimento sul capitale dell’impresa è uguale ad una media ponderata del tasso di rendimento per i debitori e per gli azionisti. Solitamente il tasso di rendimento per i debitori è inferiore rispetto a quello per gli azionisti, questo perché il debito è meno rischioso dei titoli.



Altri problemi riguardano la valutazione di attività R&S (cioè del valore che si attribuisce a questi costi),l’inflazione,il fatto che i profitti di Monopolio possono essere inclusi in modo non appropriato nel tasso di rendimento calcolato e infine il tasso di rendimento potrebbe essere calcolato al lordo piuttosto che al netto dell’imposte.

 Il margine prezzo – costo (o indice di Lerner) è una misurazione che dovrebbe essere fondata sulla differenza tra il prezzo ed il costo marginale rapportata al prezzo stesso, sebbene in pratica il costo marginale, spesso, viene sostituito dal costo totale medio. Questa misurazione viene utilizzata per evitare i problemi connessi al calcolo dei tassi di rendimento. Il margine prezzo – costo per un’impresa che massimizza i profitti è uguale al reciproco (con segno negativo)dell’elasticità della domanda al prezzo dell’impresa,ovvero -1/ε. Il costo

variabile medio viene calcolato come ricavi meno i salari meno i costi dei materiali e tutto ciò diviso per le vendite.  La q di Tobin, cioè il rapporto tra il valore di mercato di un’impresa ed il suo valore basato sul costo di sostituzione delle sue attività. Questa misurazione viene utilizzata raramente. Per esaminare le modalità di variazione dei risultati economici al variare della struttura, sono necessarie misure della struttura del mercato. Esse sono diverse, ad esempio:  Concentrazione industriale. Nella maggior parte degli studi SCR la variabile strutturale che si mette in rilievo è la concentrazione industriale, la quale si misura in funzione delle quote di mercato di alcune o di tutte le imprese del settore. La variabile più comunemente usata per misurare la struttura del mercato di un’industria è il rapporto di concentrazione delle prime quattro imprese (C4) che rappresenta la quota delle vendite realizzata dalle prime quattro imprese principali dell’industria. Per misurare la concentrazione sarebbe, anche, possibile utilizzare una funzione di tutte le quote di mercato delle singole imprese. La funzione più comunemente usata è l’indice di Herfindahl – Hirschman (HHI) che è uguale alla somma del quadrato delle quote di mercato di ogni impresa dell’industria. In generale si ritiene che la facilità di entrata assicura la relativa assenza di concentrazione. Purtroppo le misure della concentrazione presentano due gravi problemi: molti fattori influiscono sulle misure dalla concentrazione dei venditori (ad esempio la profittabilità) e molte misure di concentrazione sono distorte a causa di definizioni improprie di mercato. Per un prodotto, il mercato rilevante include tutti i prodotti che influenzano in modo significativo il prezzo del prodotto stesso. Perché la concentrazione industriale sia un indicatore significativo della performance, l’industria su cui viene misurata si deve riferire al mercato rilevante. Se l’estensione geografica del mercato è locale, le statistiche sulla concentrazione nazionale possono indicare in modo fuorviante una concentrazione inferiore alla realtà, pertanto si usa la distanza di spedizione per individuare mercati in cui l’impiego dei dati nazionali è fuorviante, infatti se la distanza di spedizione è piccola, la concentrazione del mercato locale può essere molto diversa da quella del mercato locale. In modo analogo,le misure di concentrazione spesso sono distorte perché ignorano le importazioni e le esportazioni. Nello stesso modo che la concentrazione dei venditori può portare a prezzi più elevati, una concentrazione degli acquirenti può condurre a prezzi inferiori, facendo da contraltare al potere dei venditori.  Barriere all’entrata. Il fattore strutturale più importante nel determinare la performance industriale è la capacità delle imprese di entrare nell’industria; nei settori con barriere all’entrata di lungo periodo i prezzi possono rimanere sopra i livelli concorrenziali. Le variabili, più comunemente, usate per approssimare le barriere all’entrata comprendono la dimensione efficiente minima dell’impresa, l’intensità di pubblicità, l’intensità di capitale e le stime soggettiva della difficoltà di entrata in industrie specifiche.  La sindacalizzazione. Se un’industria è altamente sindacalizzata, il sindacato può essere in grado di assicurarsi i profitti dell’industria attraverso salari più elevati che potrebbero far salire i prezzi. Paragrafo 8.2: “Rapporto tra struttura e risultati economici”. Joe Bain classifica le industrie in base alla sua stima soggettiva dell’entità delle barriere all’entrata, egli ritiene che i profitti dovrebbero essere superiori in industrie con elevata concentrazione ed alte barriere all’entrata. Brozen critica i risultati di Bain, si ritiene infatti che le industrie esaminate da quest’ultimo potrebbero non essere in equilibrio: infatti le industrie indicate da Bain come redditizie

hanno subito un successivo declino, mentre le industrie poco redditizie hanno subito un successivo aumento di profitti. Un’altra critica fatta da Brozen a Bain è relativa al fatto che l’uso dei tassi di profitto delle imprese principali anziché di quello dell’industria potrebbe aver distorto i risultati. Sono state effettuate molte stime econometriche del rapporto tra tassi di rendimento concentrazione ed una quantità di altre variabili; la stima di questo rapporto viene definito regressione. Gli studi econometrici forniscono una stima dell’effetto di una variabile su un’altra ed anche una misura statistica del fatto che l’effetto stimato possa essere diverso da zero. Gli studi di Weiss hanno portato a concludere che esisteva un rapporto significativo tra profitti, concentrazione e barriere all’entrata; negli studi recenti si riscontra solo un rapporto debole tra le variabili strutturali ed i tassi di rendimento. Secondo Collins e Preston molti economisti esaminano il rapporto in tutte le industrie tra margini prezzo – costo variabile medio in base ai dati del censimento ed a diverse variabili che approssimano la struttura industriale. Paragrafo 8.3: “Analisi dell’approccio struttura – comportamento – risultato in chiave moderna”. L’originaria teoria SCR mirava a stabilire una relazione sistematica fra prezzo e concentrazione, tuttavia ad essa si possono muovere delle critiche, ad esempio: la concentrazione non costituisce una caratteristica del settore da poter utilizzare per spiegare i prezzi, poiché la stessa concentrazione viene determinate dalle condizioni economiche del settore. Sutton ha sviluppato un approccio che si basa sull’idea del paradigma SCR sia per sviluppare dei modelli sistematici di comportamenti concorrenziali nei vari settori industriali, che per determinare l’entrata. La teoria di Sutton tratta due distinti casi: 1. Il costo di entrata di un’impresa rappresenta un costo esogeno non recuperabile, quindi ogni impresa deve spendere un ammontare fisso (F) per entrare nel settore industriale. Per illustrare la teoria, Sutton esamina: a. I mercati con prodotti omogenei, cioè un mercato in cui l’unica variabile su cui l’impresa può concorrere è il prezzo e non la quantità. Ogni impresa è soggetta ad un costo fisso F e ad un costo marginale costante m. Per prezzi bassi la curva di domanda del settore è Q = s/p, in cui Q è la quantità prodotta dal settore, s è la dimensione del mercato e p è il prezzo. Ad un prezzo pm la curva di domanda è perfettamente elastica. L’equilibrio finale e la sua variazione all’aumentare delle dimensioni del mercato sono determinate dalla forma assunta dalla concorrenza. a.i. Con il livello di concorrenza di un cartello (in cui tutte le imprese colludono esplicitamente) il prezzo rimane fisso a pm indipendentemente dal numero di imprese; questo significa che il profitto di ogni impresa diminuisce all’aumentare di n, poiché il profitto totale di monopolio deve essere diviso per un numero maggiore di imprese. a.ii. Con il livello di concorrenza di un oligopolio alla Cournot, dove per ogni n il prezzo di equilibrio è p(n) = m[1 + 1/(n-1)]; quindi il prezzo p scende a m all’aumento di n. Il livello di output q per ciascuna impresa è (s/m)[(n – 1)/n 2, mentre il profitto per ogni impresa è [p – q]q – F. a.iii.

Con il livello di concorrenza alla Bertrand il prezzo sarà pari a m per n > 1, quindi l’unico equilibrio si verifica in presenze di un’impresa con profitti positivi, infatti nel caso in cui subentri una seconda impresa, il prezzo si avvicina al costo marginale, per cui il profitto diventa negativo e l’impresa è destinata al fallimento.

Relazione fra i prezzi ed il numero di imprese in tre strutture di mercato (Figura 8.1 Pagina 206) Il grafico seguente riporta una misura della concentrazione del settore industriale in equilibrio 1/n rispetto alla dimensione s del mercato per ciascun modello di concorrenza, là dove per concentrazione di mercato in equilibrio si intende che n è tale che il profitto totale è pari a zero. Tale grafico riporta due risultati. Innanzitutto per tutti i giochi, tranne che per il mercato maggiormente concorrenziale (Bertrand), la concentrazione diminuisce all’aumentare delle dimensioni del mercato, questo perché i mercato più grandi possono accogliere un maggiore numero di imprese. Secondariamente la concentrazione in equilibrio è tanto maggiore quanto più spietata è la concorrenza, quindi la concentrazione è meno elevata nel cartello, nonostante quest’ultimo presenti il prezzo più elevato, questo perché una concorrenza spietata implica un prezzo poco elevato, che scoraggia l’entrata. Relazione fra la concentrazione e le dimensioni del mercato in tre strutture di mercato (Figura 8.2 Pagina 207) b. Nei mercati con prodotti differenziati la concentrazione del mercato dipende dalla natura del gioco, cioè da quanti prodotti diversi un’impresa è in grado di produrre e dal fatto che ha un vantaggio se può scegliere prima dei concorrenti i suoi prodotti. Sutton ha affermato che la spietatezza della concorrenza diminuisce muovendosi da un prodotto omogeneo ad un prodotto eterogeneo, così la concentrazione in equilibrio tende a diminuire per una data dimensione del mercato. Quest’affermazione si basa sul presupposto che i costi fissi siano esogeni e che vi sia una data qualità del prodotto. Data questa proprietà la concentrazione dovrebbe essere inferiore nei grandi Paesi piuttosto che in quelli più piccoli. 2. Il costo di entrata di un’impresa rappresenta un costo endogeno non recuperabile, quindi ogni impresa deve spendere un importo di entrata variabile, il quale è deciso dall’impresa nel tentativo di cambiare il livello di gradimento del suo prodotto. Paragrafo 8.4: “Approcci moderni alla misurazione dei risultati economici”. Gli studi SCR trascurano il problema di come misurare i risultati economici, al contrario i moderni approcci empirici si concentrano su questo problema, in primo luogo, respingendo le tradizionali misure dei risultati economici, poiché contengono errori dovuti a problemi di natura contabili; in secondo luogo stimano il potere di mercato mediante modelli basati su teorie formali di comportamento volti alla massimizzazione dei profitti. La maggior parte degli studi moderni basati su modelli statici possono essere suddivisi tra quelli che stimano direttamente i costi marginali, quelli che stimano interi modelli di un mercato (ottenendo quindi stime dei costi marginali e del markup) e quelli che prendono in esame il rapporto tra variazioni del prezzo e dei costi dei fattori per verificare se un’industria è concorrenziale.  Stima dei costi marginali utilizzando dati sui costi. Sebbene i dati sui prezzi siano spesso disponibili, le informazioni sul costo marginale non lo sono. Se, però, sono disponibili notizie sui costi totali si può stimare il rapporto tra costi totali ed output totali e poi calcolare i costi marginali. Si calcola poi il margine prezzo – costo. Tuttavia, anche i dati sui costi totali sono disponibili di rado, infatti nella maggior parte di studi si stimano le funzioni dei costi per industrie regolamentate, poiché esse sono obbligate a fornire dati sui costi.

 Stima dei markup con l’utilizzo di un modello relativo ad un’industria . Se i dati sui costi non sono disponibili e quindi non è possibile stimare direttamente i costi marginali, il markup prezzo – costo si può calcolare utilizzando ipotesi sulla forma delle curve di domanda e dei costi marginali; questo per dedurre il markup da osservazioni sulle variazioni del prezzo e della quantità di equilibrio nel corso del tempo. Tale approccio viene denominato “nuovi studi empirici di organizzazione industriale”. Ipotizziamo che in un’industria la curva sia D1 e che il costo marginale dell’industria sia costante, questo porta a indicare l’equilibrio (E*) nel punto p* e quantità q*. Questo equilibrio potrebbe essere realizzato da un’industria concorrenziale con un costo marginale relativamente elevato (MCc) o da un monopolista con un costo marginale relativamente basso (MCm). Se nel periodo successivo la nuova curva di domanda è D2, si può stabilire se l’industria è concorrenziale o monopolistica: se l’industria è concorrenziale si trova nel punto Ec, perciò il prezzo rimane costante e l’output aumenta fino a Qc. Se, invece, lo spostamento della domanda porta ad un nuovo equilibrio (Em) nel quale il prezzo aumenta da p* a pm e la quantità aumenta solo fino a Qm. Se il prezzo non varia, il mercato è concorrenziale, altrimenti se il prezzo aumenta si ha potere di mercato Individuazione del potere di mercato (Figura 8.3 Pagina 212)  Metodi indiretti. Alcuni economisti utilizzano le variazioni di prezzo connesse a variazioni dei costi per verificare se un’industria è concorrenziale senza fare ipotesi dettagliate sulla forma delle curve di domanda ed offerta. Se il costo marginale si sposta verso l’alto di un certo importo in un’industria con costi marginali costanti, il prezzo concorrenziale aumenta della stessa somma perché il prezzo è uguale al costo marginale. In un mercato concorrenziale, ad esempio, una tassa per ogni unità di prodotto pari a 1 fa salire il prezzo di 1. Osservando il rapporto tra variazioni di prezzo e variazioni di costi si può verificare se un’industria è concorrenziale. Hall dimostra che, se un’industria ha rendimenti di scala costanti, le variazioni dei costi sono sufficienti ad individuare il potere di mercato. Quando un’industria con rendimenti di scala costanti espande l’output in risposta ad uno spostamento della domanda, il valore totale del suo output (le entrate) aumenta di un importo esattamente pari all’incremento del suo costo totale, se l’industria è concorrenziale. Se il valore aumenta più del costo aggiuntivo, il prezzo si trova sopra il costo marginale e l’industria non è concorrenziale. Quasi tutti i mercati del mondo reale durano per molti periodi. Un modello multiperiodale dovrebbe essere dunque usato per stimare il potere di mercato se le imprese, nello stabilire le loro strategie, tengano conto del comportamento tenuto in passato, oppure se i costi di aggiustamento sono significativi, tanto che i costi dipendono dalle decisioni prese nei periodi precedenti, o anche se la domanda attuale dipende dal consumo precedente. Gli economisti utilizzano almeno due tipi di modelli multiperiodali per stimare il potere di mercato: 1. Collusione e giochi statici ripetuti. Stigler sosteneva che l’opportunità ed il desiderio delle imprese oligopolistiche di colludere fornisce la base per spiegare il comportamento di oligopolio. In questa teoria i prezzi sotto il livello di monopolio sono dovuti a fallimenti nella completa attuazione del cartello. In questo contesto, anche la struttura del mercato importante, poiché ad esempio più imprese sono attive in un’industria più è difficile individuare se una qualsiasi di esse scartelli, perciò è possibile imbrogliare di più ed il prezzo medio è inferiore. Gli esperti di teoria dei giochi rappresentano l’intuizione di Stigler come un supergioco in giochi statici e ripetuti. Per impedire alle altre imprese di scartellare tutti i membri del cartello convengono che, se il prezzo di mercato scende sotto un certo livello (prezzo di intervento) per

un determinato periodo di tempo, ogni impresa espanderà il proprio output fino al livello precedente al cartello e quindi i prezzi scenderanno. 2. Modelli dinamici con costi di aggiustamento. Se le imprese presentano costi di aggiustamento derivanti dalla formazione di nuovi lavoratori, dall’immagazzinamento di input e di output o da capitale che si accumula, per massimizzare i profitti di lungo periodo devono pianificare le proprie azioni per molti periodi. Analogamente, i costi delle imprese possono diminuire nel corso del tempo, se si ha il cd. learning by doing. Le azioni di un’impresa influiscono sui costi e sui profitti in periodi successivi. I moderni metodi, rispetto all’approccio SCR, presentano tre vantaggi: in primo luogo, stimano i risultati economici di mercato, piuttosto che usare una loro variabile di tipo contabile; in secondo luogo, per spiegare le variazioni di risultati economici utilizzano variazioni delle variabili esogene (come salari imposte e crescita della domanda), anziché variabili endogene (rapporti di concentrazione e la pubblicità); in terzo luogo, sono basati su modelli di massimizzazione per singole industrie.Il loro svantaggio fondamentale sta nel fatto che molti di questi modelli richiedono ipotesi dettagliate sulla forma delle curve di domanda ed offerta e sul comportamento di oligopolio, quindi possono presentare difficoltà di stima. RAPPORTO HHI E MARGINE PREZZO-COSTO (8A) Si consideri un oligopoio con n imprese uguali con prodotto omogeneo ,ogni impresa max i profitti scegliendo la quantità→ Profitti= p(Q)qi-mqi. Il prezzo è indicato con p,ed è funzione dell’output totale Q=nqi ;m è il costo marginale.Le imprese giocano alla Cournot e quindi MR=p+qip’=MC:la formula può essere riscritta secondo l’indice di Lerner (prezzo costo) ,cioè L=- p’Q/p x qi/Q=-si/ε=-1/nε. si=1/N è la quota di output dell’impresa i,mentre 1/ε = (p’Q)/p è il reciproco dell’elasticità della domanda.L’HHI diviso per il valore assoluto dell’elasticità della domanda è uguale alla media ponderata dei margini prezzo-costo delle imprese→ -HHI/ ε. Capitolo 9: La discriminazione del prezzo In un mercato perfettamente concorrenziale le imprese devono accettare il prezzo di mercato come dato. La maggior parte dei mercati, però non è perfettamente concorrenziale e le imprese dispongono di margini di discrezionalità in materia di prezzi. Al fine di massimizzare i profitti le imprese che hanno questa opportunità possono utilizzare prezzi non uniformi, cioè possono far pagare ai consumatori prezzi diversi per lo stesso prodotto oppure far pagare ad un singolo cliente un prezzo che varia a seconda della quantità acquistata. Quando il prezzo dipende dalla quantità lo schema dei prezzi non è lineare. La discriminazione di prezzo è un tipo di prezzo non uniforme utilizzato da un’impresa con potere di mercato per massimizzare i suoi profitti.Un tipo di prezzo non uniforme comunemente usato è la discriminazione di terzo grado:un’impresa fa pagare a clienti diversi dei prezzi unitari differenti per lo stesso bene(es.gli sconti su riviste,cinema,ecc.in base all’età,se si è studenti,ecc.). Paragrafo 9.1: “Prezzi non uniformi”. Molte imprese fissano prezzi non uniformi. Alcuni tipi semplici di discriminazione del prezzo sono:  Tariffa in due parti. Un’impresa fa pagare ad un consumatore una quota fissa (la prima parte della tariffa) per il solo diritto ad acquistare un numero illimitato di unità, pagando poi queste unità ad un prezzo prestabilito (la seconda parte della tariffa).Es.un circolo sportivo fa pagare ai soci una quota annuale d’iscrizione e quote poi aggiuntive per utilizzare altre

strutture;oppure un parco divertimento che fa pagare il biglietto d’ingresso ma che per alcune attrazioni occorre acquistare biglietti aggiuntivi a parte.  Sconti sulla quantità. In questo modo il prezzo varia con il numero di unità del bene acquistate dal cliente.E’ molto frequente lo sconto a fronte di grandi quantità di output (es.per il consumo di energia sono previsti blocchi decrescenti per il consumo).  Vendite abbinate di due (o più) beni. Con questo metodo, un cliente può acquistare un prodotto solo se ne acquista anche un altro.(es.macchina Polaroid usa solo pellicola polaroid).  Discriminazione della qualità. Un’impresa offre al consumatore prodotti di qualità diversa al medesimo prezzo o a prezzi che non riflettono pienamente la diversa qualità. Offrendo, invece, un prodotto di alta qualità ad un prezzo elevato ai consumatori che gli attribuiscono un valore elevato, ed un prodotto di bassa qualità ad un prezzo ridotto agli altri consumatori, un’impresa può separare i clienti e far pagare prezzi più elevati a quelli che sono disposti a farlo. Paragrafo 9.2: “Incentivi e condizioni per la discriminazione del prezzo”. Non tutti i venditori che fanno pagare prezzi uniformi allora discriminano:questo perché uno sconto sulla quantità può essere dovuto a un risparmio sui costi di produzione per ordini di maggiore dimensione .Un’impresa solitamente discrimina il prezzo per aumentare i profitti, però può farlo solo in certe condizioni. La discriminazione del prezzo è una strategia conveniente per l’impresa perché i consumatori che assegnano un valore elevato al bene lo pagano di più di quanto farebbero se i prezzi fossero uniformi. Tutti i metodi di discriminazione del prezzo possono essere considerati tentativi di minimizzare l’effetto sui ricavi marginali, che deriva dall’espansione delle vendite. Il tentativo è quello di far pagare il prezzo più basso solo ad uno o alcuni clienti senza praticare contemporaneamente il ribasso a tutti i consumatori. Anche se tutte le imprese vorrebbero discriminare il prezzo, molte non sono in grado di farlo, poiché devono sussistere tre condizioni: 1. Un’impresa deve avere potere di mercato (cioè deve poter fissare il prezzo al di sopra dei costi marginali e realizzare profitti) altrimenti non potrà mai riuscire a far pagare ad alcun consumatore più del prezzo di concorrenza. 2. L’impresa deve conoscere la disponibilità dei consumatori a pagare per ciascuna unità del bene. In altre parole l’impresa deve essere in grado di individuare a chi far pagare il prezzo più elevato. Analogamente se la curva di domanda di ogni individuo ha pendenza negativa, l’impresa può essere in grado di far pagare un prezzo diverso per le diverse unità che un consumatore acquista(es.10 prima unità,5 seconda unità). 3. Un’impresa deve essere in grado di impedire o limitare la rivendita del bene da parte dei clienti che pagano un prezzo inferiore a coloro che pagano un prezzo maggiore (arbitraggio). Solo impedendo l’arbitraggio e quindi la rivendita si favorisce la discriminazione. Se un’impresa fa pagare prezzi non uniformi, i consumatori che acquistano ad un prezzo relativamente basso possono rivendere a coloro che pagano un prezzo relativamente alto, e quindi rendere inutile il tentativo di praticare prezzi diversi. Analogamente se un’impresa offre sconti sulla quantità per un prodotto, deve assicurarsi che lo sconto non sia tanto grande da incoraggiare gli acquirenti di grandi quantità a comprare il prodotto e poi rivenderlo a coloro che richiedono un quantitativo minore. Esistono diversi motivi ,almeno questi 7 ,per i quali rivendere il prodotto può essere difficile o impossibile per i consumatori:

 Servizi. La maggior parte dei servizi non può essere rivenduta, quindi la discriminazione del prezzo nei servizi è più probabile di quanto non avvenga nell’industria(es.un dentista che fa pagare prezzi differenti da un cliente all’altro).  Garanzie. Un produttore può rendere nulla una garanzia se il prodotto viene rivenduto,quindi farla valere solo per il primo acquirente,il secondo dovrà sostenere più costi.  Adulterazione. Un produttore può adulterare un bene per renderlo inadatto ad altri(es.produttore di alcool che fa si che l’alcool a scopi medici non possa essere utilizzato dai bevitori,inserendo sostanze non ingeribili).  Costi di transazione. Se i consumatori incorrono in costi elevati di transazioni per rivendere il prodotto, le rivendite sono meno probabili. Due esempi di costi di transazione sono i dazi doganali ed i costi di trasporto.  Clausole contrattuali. All’interno delle proprie condizioni di vendita, un’impresa può impedire contrattualmente la rivendita.Tuttavia se le restrizioni alla rivendita non sono giuridicamente vincolanti o non sono facilmente attuabili,tali clausole non possono impedire la rivendita del tutto.  Integrazione verticale.Nel caso di un’impresa integrata verticalmente (cioè che produce in più di uno stadio del processo produttivo) può far pagare ai consumatori finali dell’output un prezzo basso e far pagare comunque ai produttori che si avvalgono dell’output ,un prezzo elevato senza timore di rivendita poiché il produttore dell’output è monopolista e controlla le azioni della divisone della produzione e impedisce ai propri clienti (non consumatori finali)di rivendere l’output.Questo metodo è simile all’adulterazione.  Intervento del governo. Il governo può emanare delle leggi che consentono alle imprese di un’industria concorrenziale di agire collettivamente per impedire la rivendita. Paragrafo 9.3: “Tipi di discriminazione del prezzo”. Tutti i metodi di discriminazione del prezzo vengono adottati per estrarre il surplus del consumatore. Al riguardo esistono vari metodi per far pagare prezzi non uniformi(1,2,3 grado), alcuni di essi sono (secondo grado,viene fatto nel cap.10): 1. La discriminazione del prezzo di 1° grado (anche denominata discriminazione perfetta) si verifica quando un monopolista riesce a far pagare ad ogni consumatore un prezzo uguale al livello massimo che egli è disposto a corrispondere per ogni unità di prodotto. a. Ogni consumatore acquista una sola unità. Si ipotizzi che ogni consumatore domandi solo un’unità di prodotto e che abbia una disponibilità a pagare diversa dagli altri, pertanto la curva di domanda ha pendenza negativa. Un’altra ipotesi prevede che l’impresa conosca la disponibilità a pagare di ogni consumatore. Se può impedire la rivendita, l’impresa farà pagare ad ogni cliente un prezzo esattamente uguale alla sua disponibilità a pagare e quindi il cliente rimarrà senza surplus. L’impresa continua a vendere fino a quando il prezzo che viene fatto pagare ad ogni consumatore è uguale ai costi marginali (che per semplicità si considerano costanti). In altri termini il monopolista perfettamente discriminante vende Q* unità di output, mentre il consumatore marginale paga p*. Anche un’industria concorrenziale venderebbe Q* unità, ma farebbe pagare a tutti un unico prezzo p*, uguale ai costi marginali. La differenza sta nel fatto che il monopolista

perfettamente discriminante fa pagare a tutti i consumatori, eccetto quello marginale, più di p*, perciò non esiste surplus del consumatore. Quest’ultimo viene, invece, massimizzato in condizioni di concorrenza (l’area sotto la curva di domanda e sopra p*) ed eliminato (in quanto totalmente estratto) da un monopolista perfettamente discriminante. Pertanto, la discriminazione perfetta del prezzo non implica perdita di efficienza (il prezzo dell’ultimo acquisto è ancora uguale ai costi marginali), ma influisce sulla distribuzione del reddito. Un monopolista non discriminante fa pagare un prezzo unitario, pm, e produce Qm unità nel punto in cui i suoi ricavi marginali sono uguali ai costi marginali. I consumatori ottengono una piccola parte del surplus del consumatore (l’area sotto la curva di domanda e sopra pm) che è inferiore a quello che essi ottengono in condizioni di concorrenza.

Il monopolista perfettamente discriminante produce un livello di output superiore a quello prodotto da un monopolista non discriminante che pratica un prezzo uniforme. Quest’ultimo produce troppo poco ed è quindi inefficiente. Il monopolista perfettamente discriminante vende più di quello non discriminante perché ottiene profitti incrementali su ogni vendita aggiuntiva. Facendo pagare a ciascun cliente un prezzo diverso, evita la componente negativa dei ricavi marginali. In altre parole non diminuisce i ricavi sulle prime unità vendute quando vende unità aggiuntive ad un prezzo inferiore. L’effetto sui ricavi marginali derivante dall’eliminazione della componente negativa è che la curva dei ricavi coincide con la curva di domanda. b. Ogni consumatore acquista più unità. Si ipotizzi che i consumatori sono identici, ma richiedono più unità man mano che il prezzo scende; inoltre si ipotizza che ogni consumatore sia identico a tutti gli altri ed abbia una curva di domanda con pendenza negativa e che tale curva rifletti quella di ogni consumatore (anziché rappresentare la domanda aggregata del mercato). Si ipotizzi, infine che i costi marginali sono costanti. Un monopolista perfettamente discriminante fa pagare un prezzo diverso per ogni unità del prodotto venduta e quindi, praticando prezzi

diversi a seconda delle quantità acquistate, ottiene tutto il surplus del consumatore da ciascun cliente. Il monopolista fa pagare un prezzo elevato per la prima unità consumata, un prezzo più basso per l’unità successiva e così via fino a quando fa pagare il costo marginale (m) per l’ultima unità. In altri termini, il monopolista fissa la griglia dei prezzi che decide di far pagare in modo che essa coincida con la curva di domanda di ogni cliente. Un metodo alternativo ed equivalente di discriminazione perfetta del prezzo consiste nel far pagare una tariffa in due parti in cui ogni cliente paga una quota fissa per il solo diritto ad acquistare il bene più un prezzo unitario pari a m per ogni unità consumata indipendentemente dal numero acquistato da ogni consumatore. Se il surplus del consumatore è CS quando il prezzo è m, il monopolista pone la quota fissa pari a CS. Il consumatore è indifferente tra acquistare e non acquistare, perché il monopolista estrae tutto il suo surplus. Questo metodo di determinazione del prezzo produce un livello di output pari a quello concorrenziale e lo stesso profitto della discriminazione perfetta del prezzo. Se tutti i consumatori hanno una curva di domanda con pendenza negativa, ma differiscono tra loro, il monopolista fa pagare a ciascuno di essi un prezzo pari a m per ogni unità consumata ed una quota fissa diversa in modo da estrarre, per ogni consumatore, tutto il surplus. Nei mercati del mondo reale un monopolista difficilmente è in grado di conoscere la curva di domanda di ogni consumatore, quindi spesso non è in grado di adottare una politica di prezzo che gli permetta di estrarre tutto il surplus di ogni consumatore. In questo caso, però, può utilizzare le politiche di prezzo più complesse. Dato che la discriminazione perfetta del prezzo richiede conoscenze dettagliate sui singoli acquirenti è più probabile che si verifichi quando si realizzano singoli accordi. 2. La discriminazione del prezzo di 3° grado.L’impresa,non potendo azzerare il surplus del consumatore, fa pagare ai consumatori che vengono classificati in gruppi diversi prezzi unitari diversi. Un’impresa che non ha informazioni sufficienti per individuare ogni cliente e stabilire quanto, egli, sia disposto a pagare, non è in grado di praticare la discriminazione del prezzo di primo grado e quindi di estrarre tutto il surplus del consumatore. L’impresa può avere però informazioni sufficienti per effettuare una discriminazione imperfetta del prezzo. Si ipotizzi che un’impresa possa stabilire se un particolare cliente appartiene ad un gruppo anziché ad un altro, con la condizione che le elasticità della domanda aggregata dei due gruppi siano diverse. Se è possibile impedire (o limitare) la rivendita tra i due gruppi e se l’impresa conosce la curva di domanda aggregata di ogni gruppo, risulta remunerativo fissare prezzi diversi per i due gruppi. Il monopolista sta praticando una discriminazione del prezzo di terzo grado. Se il monopolista ha costi marginali MC e costi totali medi AC costanti e pari a m, i suoi profitti sono: π = [p1(Q1) – m]Q1 + [p2(Q2) – m]Q2. In quest’equazione p1(Q1) e p2(Q2) rappresentano, rispettivamente, i prezzi che il monopolista fa pagare al gruppo 1 ed al gruppo 2, se vuole vendere Q1 e Q2 quantità di output. I profitti totali sono la sommatoria dei profitti derivanti dai singoli gruppi, quindi il monopolista massimizza i profitti totali massimizzando i profitti derivanti dalle vendite separate a ciascun gruppo. Il monopolista fa pagare un prezzo unitario ad ogni membro di un dato gruppo, quindi fissa il prezzo per ciascun gruppo utilizzando lo stesso metodi del monopolista non discriminante. In altri termini il monopolista massimizza i profitti quando i ricavi marginali derivanti dalle vendute al gruppo sono uguali ai costi marginali sostenuti per la produzione dell’ultima unità. Dato che i costi marginali sono costanti, il monopolista che massimizza i profitti ottiene in entrambi i mercati gli stessi ricavi marginali, da ciò ne consegue che nella soluzione ottimale, se il monopolista vende un’unità in meno nel mercato 1 ed un’unità in più nel mercato 2 i ricavi non devono essere influenzati.

Quindi MR1=MR2.In particolare il markup percentuale del prezzo di ciascun gruppo i sui CM, [pi-m]/pi,è inversamente proporzionale all’elasticità della domanda .Più è elevata l’elasticità della domanda del gruppo,minore è il prezzo che gli viene praticato.Il rapporto di prezzo per i due gruppi dipende dalle rispettive elasticità: p1/p2=(1+1/ε2)/(1+1/ε1).Un monopolista discriminante che massimizza i profitti fa uno sconto al gruppo che ha la maggiore elasticità della domanda.

Le imprese possono praticare la discriminazione del prezzo di 3* grado in altri modi, ad esempio in molti mercati i consumatori sono meglio informati di altri sui prezzi. Quindi un modo che le imprese hanno per poter praticare prezzi diversi ai consumatori consiste nel fissare un prezzo di listino elevato, così l’impresa farà pagare il prezzo di listino a meno che un cliente non reclami, poiché in tal caso il negozio praticherà un prezzo più basso. Questo metodo di fissazione del prezzo porta i consumatori disinformati a pagare prezzi più elevati rispetto a quelli informati. Altri metodi consistono ad esempio nel fare pagare un prezzo più basso a chi va ritirare il prodotto in negozio piuttosto che farselo spedire a casa,oppure nello sfruttare la diversa propensione dei consumatori ad attendere per un nuovo prodotto (es. quei consumatori che pagherebbero qualsiasi prezzo per essere i primi a poter usufruire del nuovo prodotto,come un nuovo smartphone o un nuovo

film).Tuttavia quest’ultima tecnica non sempre è efficace poiché alcuni consumatori posticipano l’acquisto sapendo che il prezzo col tempo tenderà a scendere. Paragrafo 9.4: “Effetti di benessere della discriminazione del prezzo”. Non esiste ambiguità sugli effetti di benessere della discriminazione di 1° grado. L’output è al livello efficiente, concorrenziale, ma i consumatori sono più poveri che in condizioni di concorrenza, quindi la discriminazione di 1° grado non distorce l’efficienza, ma influisce sulla distribuzione del reddito. Gli effetti della discriminazione di terzo grado sono più difficili da analizzare: i consumatori finiscono con l’avere meno soldi che in condizioni di concorrenza, inoltre i prezzi superano i costi marginali, quindi non sono efficienti. La discriminazione del prezzo di 3° grado, però può essere migliore o peggiore dal punto di vista dell’efficienza rispetto alla situazione che si determina con un monopolista non discriminante a seconda della forma delle curve di domanda e di costo. Più la discriminazione imperfetta del prezzo si avvicina a quella perfetta, più è probabile che porti ad un esito più efficiente rispetto a quello del monopolista non discriminante. Nella discriminazione di 3° grado sono presenti tre fonti di inefficienza: in primo luogo si ha un’inefficienza nella produzione, poiché il prezzo supera i costi marginali e quindi si ha una riduzione dell’output; in secondo luogo si ha un’inefficienza nel consumo, poiché i consumatori diversi pagano prezzi unitari diversi per il medesimo prodotto; infine i consumatori devono impiegare risorse per ottenere un prezzo basso, tuttavia queste risorse spesso non vanno a beneficio dell’impresa (ad esempio aspettare la coda), quindi l’impresa considererà quest’inefficienza costringendo il consumatore ad acquistare anche un “male” (ad esempio il tempo di attesa). Le leggi antitrust proibiscono certi tipi di discriminazione del prezzo. L’analisi delle normative più recenti mostra che non costituisce una violazione della legge antitrust discriminare il prezzo tra i consumatori finali, ma lo è farlo tra le imprese in modo da influire sulla loro concorrenza. Capitolo 10: Metodi complessi per la determinazione del prezzo Analizziamo metodi più complessi di discriminazione del prezzo si nota che essi consentono alle imprese di aumentare i propri profitti, a condizione che esse abbiano potere di mercato e possano impedire la rivendita. I metodi più complessi di discriminazione del prezzo sono, ad esempio: la fissazione di un prezzo non lineare; le tariffe in due parti; gli sconti sulle quantità; le vendite abbinate di due (o più) prodotti e la scelta di qualità. Questi metodi non esigono che l’impresa abbia tante informazioni sui consumatori. Paragrafo 10.1: “Prezzi non lineari”. Si ha un prezzo non lineare quando la spesa totale di un consumatore per un prodotto non aumenta in modo lineare (cioè proporzionalmente) con la quantità acquistata, infatti il prezzo unitario varia al variare del numero di unità acquistate dal cliente. I prezzi non lineari vengono utilizzati per attuare una discriminazione del prezzo di 2° livello, mediante la quale un’impresaè in grado di impedire la rivendita tra i singoli consumatori e fa pagare a clienti diversi prezzi diversi, pur non conoscendo la domanda dei singoli. L’impresa utilizza, invece, le sue conoscenze sulla distribuzione della domanda tra la popolazione. Esistono diversi meccanismi di prezzo non lineare, ad esempio: 1. Tariffa unica in due parti. Un’impresa che utilizza una tariffa in due parti fa pagare ai consumatori una somma fissa per avere il diritto ad acquistare i prodotti ed un prezzo unitario per l’uso dei prodotti. Quando viene usata una tariffa in due parti, un’impresa deve poter impedire la rivendita; in caso contrario un cliente potrebbe pagare la sua quota fissa ed

acquistare tutti i prodotti, per poi rivenderli agli altri consumatori. Così facendo l’impresa incasserebbe solo una quota fissa. Quando i consumatori sono uguali,si può usare una tariffa in due parti per estrarre tutto il surplus del consumatore. Di solito, però, esiste più di un tipo di consumatore e l’impresa non è in grado di distinguere i vari tipi. Ipotizziamo allora che l’impresa sappia che la domanda varia tra la popolazione, ma manchi di informazioni specifiche sulla domanda di ogni singolo consumatore. Per esempio servendosi di sondaggi di mercato l’impresa può essere consapevole che il 50% dei suoi clienti attribuisce un grande valore ai beni che essa vende, mentre l’altro 50% potrebbe passare facilmente ad un altro prodotto. Anche se l’impresa conosce la distribuzione generale della domanda, può non riuscire a stabilire a quale gruppo appartiene un particolare cliente. Ipotizziamo che esistano solo consumatori di due tipi e che le relative curve di domanda siano quelle presentante nel grafico seguente, il quale indica: in primo luogo che un cliente del tipo 2 è disposto a comprare di più al livello di prezzo p rispetto ad un cliente del tipo 1; in secondo luogo che un cliente del tipo 2 beneficerà di un maggiore surplus rispetto ad un cliente del tipo 1 (T1 > T2). Se un’impresa che pratica un prezzo unitario p, potesse individuare il tipo di cliente, potrebbe far pagare ad un cliente del tipo 1 una quota fissa pari a T1 e ad un cliente del tipo 2 fa pagare una quota fissa pari a T2. Ipotizziamo che l’impresa debba scegliere un’unica tariffa in due parti, quindi dovrà scegliere una quota fissa, T, ed un prezzo unitario, p, così da massimizzare i profitti. Se l’impresa non è in grado di distinguere tra un tipo di cliente e l’altro e fa pagare una tariffa in due parti unica che consiste di un prezzo unitario pari a p, se vuole che i clienti del tipo 1 comprino il prodotto, la somma fissa che essa decide di applicare non può superare T1. L’impresa si trova di fronte ad un dilemma, cioè se fa pagare un pezzo basso vende una quantità maggiore del prodotto e può ottenere una somma fissa più elevata. D’altro canto, però, la sua capacità di far pagare una quota fissa per estrarre il surplus dei consumatori del tipo 2 è vincolata dalla scarsa disponibilità a pagare dei consumatori del tipo 1. In molti casi l’impresa può ottenere profitti più elevati concentrandosi sui clienti del tipo 2, lasciando che i clienti del tipo 1 decidano di non acquistare il prodotto. Meno simili sono i consumatori del tipo 1 ai clienti del tipo 2, più è difficile per l’impresa ottenere il surplus del consumatore dai clienti del tipo 2 con una tariffa unica in due parti.

Di solito la tariffa ottimale in due parti produce più profitti di un prezzo unico perché quest’ultimo è un tipo particolare di tariffa in due parti in cui la quota fissa è pari a zero. La tariffa ottimale in due parti determina minori profitti della discriminazione del prezzo di 1° grado, ma può produrre secondo le circostanze, profitti superiori o inferiori rispetto alla discriminazione del prezzo di 3° grado. A differenza di quanto accade nel caso di quest’ultima discriminazione non è necessario che un’impresa sia in grado di individuare quale tipo di consumatore utilizzerà la tariffa in due parti. Si può concepire una tariffa in due parti come una tariffa che consiste in una quota fissa per un prodotto e una marginale per un altro(Es.macchina polaroid che usa solo pellicole polaroid).In generale la quota fissa aumenta al diminuire della differenza tra la quantità media acquistata e la quantità acquistata dal cliente marginale e a mano a mano che l’elasticità della domanda cresce.Il prezzo legato all’utilizzo del bene aumenta con la diminuzione dell’elasticità della domanda e con la crescita della differenza tra le quantità acquistate dal cliente medio e da quello marginale. 2. Tariffe in due parti doppie. Identificare il meccanismo di fissazione di un prezzo non lineare che porti un’impresa a massimizzare i profitti di monopolio è un’operazione complessa. Ipotizziamo che un’impresa conosca le curve di domanda di due tipi di consumatori (del tipo 1 e del tipo 2) e la prevalenza dei due tipi di consumatori nella popolazione, ma non conosca a quale tipo appartenga ogni singolo consumatore. L’impresa può offrire ai consumatori la possibilità di scegliere tra due listini diversi di tariffe in due parti. Ogni consumatore sceglie o autoseleziona il listino che corrisponde al livello più elevato di utilità. Le intercette sull’asse delle ordinate corrispondono alla quota fissa prevista dalla tariffa in due parti e la pendenza delle curve rappresenta, invece, i costi marginali costanti. In base all’esame dei due listini il consumatore che vuole acquistare poche unità del bene, paga una somma inferiore scegliendo il listino 1, mentre il cliente che vuole acquistare molte unità spende meno optando per il listino 2 delle tariffe in due parti. Seguendo questo ragionamento i consumatori, come si nota nel grafico seguente, scelgono sempre l’inviluppo inferiore delle due curve. Se l’impresa sapesse quali consumatori appartengono ad ogni gruppo (e se potesse impedire la rivendita) potrebbe elaborare una tariffa in due parti per ogni gruppo di clienti.

La politica ottimale quando l’impresa è in possesso delle informazioni necessarie, consiste nel praticare a ciascun consumatore un prezzo pari al costo marginale,m, ed assicurarsi il surplus di ogni consumatore facendo pagare una quota fissa.Quindi se nella figura 10.1 p=m,l’impresa fa pagare al consumatore del tipo 1 una tariffa T1 e al consumatore del tipo 2 ,T2.Supponiamo che l’impresa abbia annunciato di praticare due tariffe in due parti:una pari a (T1,m) e l’altra (T2,m),dove il primo numero tra parentesi è la quota fissa e il secondo è il prezzo marginale.Se i due tipi di consumatori hanno curve di domanda come il grafico 10.1 nessuno di loro sceglierebbe mai la tariffa numero 2 in due parti,perchè T2 sarebbe maggiore di T1.Quindi tutti i consumatori opterebbero per T1 in due parti.Questo fa si che l’impresa non possa applicare una discriminazione del prezzo perfetta ed elabora la propria struttura dei prezzi in modo da massimizzare i profitti ma condizionata al vincolo di autoselezione ,ossia una restrizione della struttura dei prezzi dell’impresa tale per cui i consumatori di qualsiasi gruppo non preferiscono la tariffa in due parti di un altro gruppo.

Ipotizziamo che ad ogni dato prezzi consumatori del tipo 2 domandino un maggior numero di unità dei consumatori del tipo 1. La politica ottimale dell’impresa consiste nel fare in modo che la quota fissa che devono pagare i consumatori del tipo 2 (T2) superi quella del consumatori del tipo 1 (T1) e che il prezzo marginale dei consumatori del tipo 2 (p2) sia inferiore a quello per i consumatori del tipo 1 (p1). Offrendo un prezzo basso a chi ha una domanda elevata i clienti ottengono un grande surplus del consumatore che l’impresa si assicura mediante la quota fissa (T2), il quale essendo elevato scoraggia gli acquirenti di piccole quantità (del tipo 1) i quali preferiscono pagare un prezzo marginale più alto per le quantità più piccole che comprano. In altre parole, gli acquirenti di grandi quantità (del tipo 2) attribuiscono un valore maggiore ai prezzi bassi rispetto agli acquirenti di piccole quantità (del tipo 1), consentendo così all’impresa di distinguere i due gruppi.

I consumatori del tipo 2 beneficiano della presenza dei consumatori del tipo 1.Senza quest’ultimi,i consumatori del tipo 2 otterrebbero un’utilità pari a 0.La diversità dei consumatori aiuta quindi i clienti con domanda elevata. Paragrafo 10.2: “Vendite abbinate di due (o più) beni”. Una vendita abbinata di due (o più) beni è una vendita in cui un consumatore può acquistare un prodotto solo se ne acquista anche un altro(es. caffè e zucchero). A seguito delle vertenze sorte a causa delle restrizioni legali all’uso delle vendite abbinate esiste un’ampia documentazione sulle imprese che utilizzano questo tipo di vendita. Le vendite abbinate possono essere utilizzate per discriminare il prezzo perché consentono ad un monopolista di aumentare i propri profitti ben oltre quello che guadagnerebbe se i due prodotti venissero offerti in vendita singolarmente a prezzi costanti. Anche se le vendite abbinate possono essere usate per discriminare il prezzo, è importante riconoscere che esistono molti altri motivi per effettuare questo tipo di vendite, che non sono connessi alla discriminazione del prezzo. Le vendite abbinate possono essere usate per diversi scopi: a. Aumentare l’efficienza. Le scarpe con i lacci, per esempio, di solito vengono vendute con i lacci, poiché risulta più efficiente (cioè fa abbassare i costi di transazione) vendere questo tipo di scarpe con i lacci inclusi, piuttosto che vendere scarpe e lacci separatamente. Inoltre le vendite abbinate fanno risparmiare sui costi derivanti dalla scelta dei singoli componenti di un prodotto, poiché si riducono i costi totali di ricerca se l’acquirente deve comperare vari articoli insieme. b. Evitare la regolamentazione dei prezzi. Un metodo per aggirare i controlli dei prezzi consiste nel vendere l’acciaio al prezzo imposto, ma solo a condizione che il consumatore paghi una somma pari a 5,25 perché deve acquistare una matita che costa 0,25 alla produzione. Così

facendo il prezzo di equilibrio dell’acciaio (p = 5) viene mantenuto e si ottempera alla regolamentazione dei prezzi. c. Praticare tagli segreti sui prezzi. Un’impresa che opera in un oligopolio, per esempio, potrebbe trovare conveniente concedere sconti sui prezzi senza che i concorrenti lo sappiano. Essa può farlo vendendo un prodotto al prezzo di oligopolio, ma abbinando quella vendita ad un altro prodotto con un prezzo molto basso. d. Garantire la qualità. La Kodak, per esempio, sosteneva di aver abbinato lo sviluppo dei negativi, alla vendita delle pellicole ,poiché non riteneva che i negozi fotografici indipendenti potessero effettuare il servizio con una professionalità pari alla sua. Di solito un’impresa può assicurare la qualità costringendo i consumatori ad acquistare un altro dei suoi prodotti o servizi oppure a non utilizzare sostituti. Un ulteriore motivo a giustificazione delle vendite abbinate, è l’aumento dei profitti di monopolio. In altre parole, se un’impresa detiene il monopolio di un prodotto può essere in grado di aumentare i propri profitti abbinando un altro bene alla vendita del prodotto monopolizzato. Esistono due tipi piuttosto comuni di vendite abbinate. 1. La vendita abbinata a pacchetto (raggruppamento) che si verifica quando due o più prodotti vengono venduti solo in proporzioni fisse, per esempio un negozio esige che se si acquista un barattolo di caffè si deve comprare, anche, un pacco di zucchero. i.

Vendite abbinate a pacchetto con entrambi i prodotti monopolizzati . Ipotizziamo che un’impresa detenga il monopolio sia del prodotto A che del prodotto B. Questo monopolista saprà se otterrà maggiori profitti da un vendita separata o da una vendita abbinata, solo dopo aver analizzato il valore che i consumatori attribuiscono separatamente ad ogni prodotto, rispetto al valore che attribuiscono al pacchetto. Il monopolista vende a due tipi di consumatori. Quelli del tipo 1 sono disposti a pagare al massimo una somma pari a 9.000 per acquistare solo A e 3.000 per comprare solo B. I consumatori del tipo 2 sono disposti a pagare al massimo 10.000 per il bene A ed al massimo 2.000 per il bene B. l’importo che ciascun gruppo è disposto a pagare per A è indipendente dal fatto che sia acquistato anche B e viceversa. Il monopolista ha due possibilità di scelta: può vendere A e B separatamente oppure li può vendere come pacchetto. Se vende il prodotto A separatamente, massimizza i ricavi praticando un prezzo pari a 9.000, poiché a quel prezzo entrambi i consumatori comprano il prodotto A ed il monopolista riceve una somma pari a 18.000. Analogamente, per massimizzare i ricavi derivanti dalla vendita separata di B, il monopolista fissa un prezzo pari a 2.000, quindi otterrà ricavi per una cifra pari a 4.000. Di conseguenza i ricavi totali ottenuti dalla vendita separata di A e B sono pari a 22.000(si toglie 1000 e 1000,perchè è la differenza di valutazione tra i prodotti A e B da parte dei consumatori ). Ipotizziamo che il monopolista decida di vendere A e B come pacchetto. Entrambi i consumatori sono disposti a pagare 12.000 per il pacchetto, quindi il monopolista otterrà un ricavo totale pari a 24.000. In questo esempio i ricavi totali derivanti dalla vendita dei prodotti abbinati è maggiore dei ricavi totali derivanti dalla vendita dei prodotti separatamente, poiché il monopolista riesce sia a far pagare ai consumatori del tipo 1 un prezzo più alto (3.000) per il prodotto B rispetto a quello praticato ai consumatori del tipo 2 (2.000), che a far pagare ai consumatori del tipo 1 un prezzo più basso (9.000) per il prodotto A rispetto a quello praticato ai consumatori del tipo 2 (10.000). Di conseguenza, questa vendita abbinata è un esempio di discriminazione del prezzo, infatti il monopolista fa

pagare diversi prezzi a clienti diversi per il medesimo prodotto.In presenza di un mercato di rivendita,nessuno acquista il pacchetto e il tentativo di praticare la discriminazione del prezzo mediante la vendita abbinata “a pacchetto” fallisce. ii.

Vendite abbinate (raggruppamento a pacchetto) con un solo prodotto monopolizzato . Si ipotizza che l’impresa sia monopolista solo rispetto al prodotto A (senza costi marginali di produzione). Il prodotto B viene prodotto in modo concorrenziale e venduto al prezzo m (il suo costo marginale costante di produzione). Si ipotizza, inoltre, che le domande del prodotto A e del prodotto B siano indipendenti, nel senso che il valore attribuito dai consumatori al prodotto A non è connesso al fatto che utilizzino anche il prodotto B e viceversa. Quindi si chiede se al monopolista del prodotto A conviene abbinare A e B in proporzioni fisse. Si ipotizza che il monopolista del prodotto A utilizzi un abbinamento a pacchetto ed esiga che per ogni unità di A acquistata si debba comperare anche un’unità del prodotto B. il monopolista acquista B al prezzo concorrenziale (m) e lo inserisce nel pacchetto insieme ad A e fa pagare p* per il pacchetto. I profitti per ogni pacchetto venduto sono quindi p* - m. Questo abbinamento non è remunerativo se il monopolista guadagnasse di più vendendo il prodotto a separatamente al prezzo p* m. Per rispondere a questo problema, si ipotizza che due tipi di consumatore considerino l’opportunità di acquistare il prodotto. Un tipo di cliente desidera acquistare il prodotto B, quindi se quei consumatori non trovano il prodotto B nel pacchetto con il prodotto A lo comprano altrove al prezzo di m. Questi consumatori è come se acquistassero B al prezzo m e pagassero il prodotto A al prezzo di p* - m. Questo significa che per loro è indifferente pagare p* - m per il prodotto A e m per il prodotto B separatamente, anziché pagare A e B insieme in un pacchetto al prezzo p*. Il secondo tipo di consumatore ritiene che un’unità di B valga meno di m; se questi consumatori acquistano il pacchetto, sono costretti a consumare più del prodotto B di quanto farebbero se fosse stato consentito loro di comprare B separatamente al prezzo m. Questi consumatori acquisteranno il pacchetto formato da A e da B al prezzo p* solo se ritengono che A abbia un valore pari a p* o superiore. Se il prodotto A fosse venduto da solo al prezzo di p* - m, un numero maggiore di questo secondo tipo di consumatori acquisterebbe il prodotto A di quanti siano disposti a comperare il pacchetto al prezzo p*. Ad esempio, i consumatori che non attribuiscono alcun valore a B, ma un valore pari a p* - m al prodotto A acquisterebbero A separatamente, ma si rifiuterebbero di acquistare il pacchetto al prezzo p*. Se il monopolista realizza un profitto unitario pari a p* - m quando viene venduto il pacchetto e lo stesso profitto unitario pari a p* - m quando A viene venduto separatamente (al prezzo p* - m), i profitti di monopolio sono superiori se vende A separatamente, perché vende un maggior numero di unità di prodotto. Infatti, ponendo A e B insieme nello stesso pacchetto il monopolista, costringendo alcuni clienti ad acquistare un pacchetto contenente un prodotto cui non attribuiscono un grande valore, rinuncia a delle vendite. Pertanto, il monopolista non ha incentivo a confezionare il suo prodotto in proporzioni fisse con un bene prodotto a livello concorrenziale se esistono domande distinte per i prodotti .Un Monopolista può sempre incrementare i propri profitti vendendo A separatamente al prezzo p*-m piuttosto che vendendo il pacchetto al prezzo p*.

iii.

Raggruppamenti misti con entrambi i prodotti monopolizzati . Alcune imprese consentono ai consumatori di scegliere se acquistare un pacchetto o acquistare i beni separatamente, in tal caso si parla di raggruppamento misto. È possibile acquistare un computer con il relativo software, oppure acquistare hardware e software

separatamente. È utile distinguere diverse metodologie che un’impresa può seguire per massimizzare i suoi profitti: prezzo singolo; raggruppamento puro; ed infine il raggruppamento misto. Il raggruppamento è possibile solo se ci sono alcune condizioni relative al potere di mercato, alla rivendita ed ai gusti. Ipotizzando che l’impresa sia un ristorante, si nota che opera in una situazione di concorrenza monopolistica poiché i suoi prodotti non sono perfetti sostituti, di conseguenza ha potere di mercato. Poiché si parla di ristoranti, è possibile ignorare i problemi di rivendita, visto che è improbabile che un cliente ordini il pranzo a prezzo fisso e poi si rivolga alla persone del tavolo accanto per offrirgli di acquistare l’antipasto da lui. Il soddisfacimento o meno della condizione che i consumatori che assegnano un valore elevato ad un bene ne assegnino uno basso ad un altro dipende dai gusti dei clienti. Il grafico seguente mostra in che modo la decisione del proprietario del ristorante dipende dai gusti del cliente. Per semplicità, si ipotizza, che il ristorante venda solo un primo di pasta ed un pezzo di torta. Sulle assi del diagramma nella figura sono indicati i valori o i prezzi di riserva che i clienti assegnano a ciascun bene. Nel grafico in alto a sinistra, dal menu alla carta emerge che il prezzo di entrambe le pietanze è pari a 8. Ogni cliente nell’area D va al ristorante per mangiare solo il piatto di pasta, poiché attribuisce al piatto di pasta un valore superiore a 8 ed al pezzo di torta un valore inferiore a 8. I clienti con prezzo di riserva nella zona A, invece acquistano solo il pezzo di torta, quelli nella zona B acquistano entrambe le pietanze, mentre i clienti nella zona C non acquistano niente. Il grafico in alto a destra, illustra in che modo i clienti prendono le decisioni nel caso in cui il ristorante offra solo un pasto unico a prezzo fisso composto da un piatto di pasta ed un pezzo di torta. Il consumatore che assegna un valore di 10 al piatto di pasta ed un valore di 8 alla torta, il punto x nell’area F acquista il pacchetto a 12, poiché trova una convenienza nel comprare il pezzo di torta e la pasta non più a 16, ma a12. Un consumatore che assegna al pacchetto un valore inferiore a 12, zona E, non acquisterà il pranzo a prezzo fisso, mentre il cliente identificato con il punto z, che dal menù a carta non aveva acquistato nulla, acquisterà entrambe le pietanze nel menù a prezzo fisso. Il grafico in basso, infine, illustra il raggruppamento misto, nel quale un cliente può acquistare entrambe le pietanze al prezzo di 8 ciascuna o acquistare il pacchetto a prezzo fisso di 12. Il cliente con prezzo di riserva pari a 10 per il piatto di pasta e pari a 6 per il pezzo di torta, punto x, acquisterà al menù fisso, poiché ottiene un surplus di 4 dal pacchetto a prezzo fisso e solo di 2 se acquista solamente il piatto di pasta. Se il cliente attribuisse al pezzo di torta un valore soltanto di 3, punto y nella zona J, egli acquisterebbe solo il piatto di pasta, poiché ottiene un surplus di 1 dal pacchetto a prezzo fisso e solo di 2 se acquista solamente il piatto di pasta. Con un ragionamento simile, il consumatore nell’area G acquista solo il pezzo di torta, infine i consumatori nella zona I non scelgono il ristorante, poiché secondo loro il prezzo del pacchetto è superiore all’effettivo valore di esso ed il prezzo di ogni pietanza è superiore al prezzo di riserva dei consumatori.

Lo schema di prezzo che consentirà al proprietario del ristorante di ottenere i maggiori profitti dipenderà sia da quanto i vari clienti sono disposti a pagare per le due pietanze i valori indicati nel grafico seguente sia dai costi di produzione(in questo caso 3 per il piatto di pasta e 2 per il pezzo di torta). Supponiamo ci siano tre clienti a ,b, e c:nel caso in cui si facciano pagare le due pietanze separatamente, si massimizza il profitto facendo pagare 11 il piatto di pasta e 8 il pezzo di torta. A tali prezzi, i clienti a e b acquistano solo il pezzo di torta, mentre il cliente c acquista solo il piatto di pasta. Il proprietario del ristorante guadagnerà 6, poiché il pezzo di torta viene venduto a 8, ma per la sua produzione si ha un costo di 2, e guadagnerà 8, poiché il pezzo di torta viene venduto a 11, ma per la sua produzione si ha un costo di 3. Così facendo il ristorante guadagnerà complessivamente 20. Nel caso in cui il ristorante venda un raggruppamento puro, fa pagare 12 ottenendo un profitto di 21 [(12 – 5) x 3], quindi il proprietario del ristorante guadagnerà di più dalla vendita tramite raggruppamento che da quelle per pietanze singole. Utilizzando il raggruppamento misto, tuttavia, è possibile ottenere profitti ancora più elevati. Il ristorante stabilisce un prezzo di 12 per il pacchetto, 10,99, per il piatto di pasta e 9,99, per il pezzo di torta. Il cliente a acquista solo il pezzo di torta, poiché il pacchetto costa 2,01 in più ed il cliente in questione attribuisce al piatto di pasta un valore solo di 2, il cliente b acquista il pacchetto ed il cliente c acquista solo il piatto di pasta. Così facendo il ristorante guadagnerà complessivamente 22,98. Questo significa che con la strategia del raggruppamento puro si vende, dunque, una quantità maggiore di pietanze (3 per ognuna) rispetto al raggruppamento misto (2 per ognuna). Il motivo per cui il profitto, tuttavia, è minore nel caso del raggruppamento puro sta nel fatto che il ristorante vende le pietanze a clienti che attribuiscono ad esse un valore inferiore al costo di produzione. Con il raggruppamento misto il proprietario del ristorante riesce a catturare tutto il surplus del consumatore. Con gli stessi clienti, nel caso in cui non ci fossero costi di produzione, sarebbe possibile massimizzare i profitti

utilizzando il raggruppamento puro. In assenza di costi di produzione, il ristorante vorrà vendere una gran quantità di pietanze.

Capitolo 11: Il comportamento strategico Paragrafo 11.1: “Definizione di comportamento strategico”. Il comportamento strategico è un insieme di azioni che un’impresa intraprende per influenzare la situazione di mercato in modo tale da aumentare i propri profitti. La situazione di mercato consiste in tutti quei fattori che influiscono sull’esito di mercato, quindi prezzi, quantità, profitti, aspettative dei clienti e dei rivali, ecc. Di conseguenza se un’impresa riesce a manipolare la situazione di mercato dovrebbe aumentare i propri profitti. Ci sono due tipi di comportamento strategico: 1. Comportamento strategico cooperativo è l’insieme delle azioni che rendono più semplice alle imprese di un’industria coordinare le proprie iniziative e limitare il dinamismo competitivo. Questo comportamento mira a far aumentare i propri profitti e quelli di tutte le imprese di un mercato, così facendo si riduce la concorrenza. 2. Comportamento strategico non cooperativo è l’insieme di azioni svolte da una singola impresa per massimizzare i profitti migliorando la sua posizione rispetto a quella dei rivali. Questo comportamento mira a far aumentare i propri profitti ed a far diminuire i profitti delle imprese concorrenti. Le leggi antitrust, che tentano di limitare l’acquisizione di potere di mercato che riduce il benessere collettivo, vengono utilizzate per combattere certi tipi di comportamento strategico. La prima legge antitrust statunitense è lo Sherman Act, che fu approvata nel 1980, proibisce tutti i contratti ,le alleanze e le cospirazioni che limitano gli scambi. Paragrafo 11.2: “Comportamento strategico non cooperativo”.

Un’impresa adotta un comportamento strategico non cooperativo per danneggiare i rivali, quindi per garantirsi una situazione di vantaggio. Le imprese utilizzano molte tecniche per impedire ai concorrenti di entrare in un mercato, per obbligarli ad abbandonarlo o per ridurre le quote di mercato di un’impresa rivale. Perché la strategia non cooperativa abbia successo, devono essere soddisfatte due condizioni che derivano dall’asimmetria (essere imprese diverse). Queste condizioni sono: 1. Vantaggio della prima mossa. L’impresa deve avere un vantaggio sui propri rivali, ad esempio deve essere in grado di agire prima dei concorrenti, per così svolgere azioni contro il loro interesse, prima che queste agiscono contro di lei. 2. Impegno vincolante. L’impresa deve dimostrare che seguirà la strategia indipendentemente dalle azioni della concorrente. Affinché il comportamento strategico di un’impresa abbia successo i rivali devono essere convinti che l’impresa continuerà a perseguire la strategia fino a quando è necessario. Ad esempio, un’impresa già esistente (incumbent) può preannunciare di adottare una rappresaglia molto dura se un’impresa entra nel suo mercato, tuttavia, il solo annuncio non farà sì che i rivali le diano importanza, infatti è necessaria una minaccia credibile, ovvero le concorrenti devono ritenere che la strategia sia razionale, nel senso che l’impresa che la applica deve continuare ad usare tale comportamento. Esistono diverse strategie per rendere una minaccia credibile. Queste strategie sono efficaci quando ci sono barriere all’entrata e all’uscita che impediscono ad un’altra impresa identica di utilizza la medesima strategia. Esempi di strategie sono:  La politica predatoria dei prezzi. Un’impresa adotta una politica predatoria dei prezzi quando, innanzitutto, riduce il proprio prezzo ad un livello molto basso per spingere i concorrenti ad uscire dal mercato e per scoraggiare l’entrata da parte di potenziali imprese; secondariamente, adotta una tale strategia quando aumenta il prezzo una volta che i rivali sono usciti dal mercato. In altri termini, l’impresa incorre in perdite di breve periodo per ottenere profitti di lungo periodo. L’impresa per rendere la minaccia credibile, deve convincere i concorrenti che è disposta a far scendere il prezzo al di sotto dei costi e mantenerlo a tal livello fino a quando essi lasceranno l’industria. Quando l’impresa riesce a eliminare i concorrenti attuali , aumenta il prezzo:si crea un incentivo poiché nuove imprese vorranno entrare nell’industria; di conseguenza, l’impresa esistente dovrà abbassare nuovamente il prezzo per costringere queste nuove imprese ad uscire dal mercato. Perché la politica predatoria dei prezzi abbia successo le imprese potenziali devono credere che non sia conveniente entrare nel settore, a causa del comportamento relativo ai prezzi da parte dell’impresa dominante. Se l’impresa che attua questa strategia riesce a spingere i concorrenti fuori dal mercato, dovrebbe tentare di ottenere il controllo dei loro capitali o assicurarsi che si siano ritirati definitivamente dall’industria. In caso contrario, i rivali potrebbero utilizzare quei capitali per entrare nuovamente nel mercato e fare concorrenza all’impresa che attua la politica predatoria dei prezzi. 

Le politiche predatorie dei prezzi con imprese tutte uguali . Il comportamento predatorio ha poche probabilità di avere successo se le imprese sono identiche, poiché nel periodo in cui l’impresa esistente pratica prezzi predatori incorre in perdite molto maggiori di quelle di un rivale, infatti essa deve soddisfare tutta la domanda del mercato ad un prezzo basso per potere mantenere il prezzo a tale livello. Tuttavia, il concorrente è libero di ridurre l’output così da minimizzare le perdite. Si ipotizzi che vi siano solo due imprese (una già presente “incumbent” ed una entrata di recente). Come mostra il

grafico seguente, l’impresa esistente abbassa il prezzo di mercato fino a p* per infliggere delle perdite al rivale e spingerlo a uscire dal mercato. La curva di domanda mostra che affinché il prezzo rimanga a tale livello, devono essere vendute q* unità di output. Se il concorrente non esce dall’industria e produce qe unità, per le quali p* è uguale al suo costo marginale, subisce una perdita pari ad A; di conseguenza per mantenere il prezzo al livello p* l’impresa già esistente deve produrre qi unità di output (q* - qe) in modo tale che l’output totale dell’industria sia q*. Questo significa che l’impresa esistente produce ad un costo marginale ed ad un costo totale medio più elevato di quello del suo concorrente e subisce delle perdite totali pari all’area A più l’area B; di conseguenza, la perdita dell’impresa già esistente è maggiore di quella del concorrente, di un importo pari a B.

Se le due imprese hanno le stesse funzioni di costo, l’impresa che subirà la politica predatoria dei prezzi non avrà motivo per credere che l’impresa già esistente sia in grado di subire perdite maggiori delle sue, per tutto il tempo necessario a far sì che essa esca dall’industria. Per tale motivo l’azione non viene considerata razionale e quindi non risulta credibile. Se un’impresa entrante teme che il suo ingresso nel mercato possa scatenare una guerra dei prezzi e far scendere i prezzi sotto i costi unitari, può evitare questo problemi in diversi modi, ad esempio: l’impresa entrata si può fondere con l’impresa già esistente (tuttavia le leggi antitrust limitano le fusioni a scopo monopolistico); l’impresa entrante può stipulare contratti con gli acquirenti così da determinare il prezzo, prima della sua entrata nel mercato, così da rendere nullo l’effetto della riduzione del prezzo dell’impresa già esistente; infine l’impresa entrante può diminuire l’output nei periodi in cui vengono attuate politiche predatorie dei prezzi in modo tale da ridurre le perdite. Il concorrente può cambiare facilmente settore se non incorre in elevati costi irrecuperabili, quindi se egli ha costi irrecuperabili limitati l’impresa esistente non ha speranza di attuare delle politiche predatorie dei prezzi di successo, perché non esiste modo per imporre delle perdite al rivale. In altre parole, in mercati perfettamente contendibili le politiche predatorie non possono mai avere successo.



Le politiche predatorie dei prezzi quando un’impresa ha un vantaggio . Il motivo per cui è poco probabile che le politiche predatorie dei prezzi abbiano successo quando le imprese hanno costi identici è che le imprese che le mettono in atto subiscono perdite maggiori di quelle che dovrebbero essere vittime. Di conseguenza, perché la politica predatoria abbia successo l’impresa già esistente deve avere un vantaggio intrinseco sui rivali. Nei primi studi sulle politiche predatorie dei prezzi, l’impresa già esistente veniva immaginata come una grande impresa ed il concorrente come una piccola impresa, poiché si ipotizzava che le grandi imprese potessero permettersi di incorrere in perdite durante i periodi di politica predatoria in misura maggiore delle piccole imprese. Questi primi studi non spiegano perché successivamente non entrino altre grandi imprese. Se le piccole imprese sono svantaggiate nella competizione con le grandi imprese, solo quest’ultime rimarranno sul mercato; dunque si avranno settori con sole grandi imprese.Tuttavia la concorrenza solamente fra le grandi imprese non porta necessariamente a profitti di monopolio, pertanto non è detto che tali politiche garantiscano profitti monopolistici anche quando le piccole imprese sono inefficaci. Gli studi recenti sul comportamento predatorio spiegano, invece, che differenze nelle aspettative delle imprese sui rivali possono portare a politiche predatorie dei prezzi di successo. Ad esempio si ipotizza che l’impresa già esistente possa avere sia costi bassi sia costi elevati, e che solo lei conosca il livello effettivo dei suoi costi. L’impresa esistente, in seguito all’entrata, può abbassare i prezzi sia perché rappresenta una mossa concorrenziale vantaggiosa se ha costi bassi, sia perché vuole adottare una politica predatoria dei prezzi se ha costi elevati. L’impresa già esistente può, quindi, avere la fama di essere molto efficiente perché è in grado di rispondere ad un’eventuale entrata con prezzi molto bassi.

 La fissazione di un prezzo limite. Un’impresa attua una strategia di prezzo limite se fissa il prezzo e l’output in modo che non rimanga domanda sufficiente ad un’altra impresa per entrare con profitto nel mercato. Nei primi modelli l’impresa potenziale entrante ritiene che quella esistente non cambierà i volumi produttivi dopo l’entrata della nuova impresa.. di conseguenza, l’impresa entrante ritiene che l’output totale dell’industria sarà pari al proprio più quello attuale dell’impresa già esistente, date le aspettative del potenziale entrante, sceglie il livello di output in modo da eliminare l’incentivo del rivale ad entrare. Ipotizziamo che l’impresa già presente ed una potenziale entrante abbiano la medesima curva dei costi totali medi; se l’incumbent produce qi unità (e continuerà a farlo in caso di entrata dell’impresa concorrente) la curva di domanda che affronta l’impresa entrante (quindi la domanda residuale) sarà uguale alla curva di domanda del mercato meno qi. Se l’impresa potenziale entrante non entra nel mercato, l’incumbent vende le qi unità ad un prezzo di p*. Se, invece, la nuova impresa entra nel mercato e produce qe unità di prodotto, l’output totale dell’industria è pari a qi + qe ed il prezzo di mercato sarà par a p’. A causa della scelta di produrre qi unità da parte dell’incumbent, p’ è uguale ai costi medi per la produzione di qe unità, di conseguenza per la nuova impresa è indifferente entrare o non entrare (quindi presumibilmente non entrerà). Quindi il prezzo limite p’ impedisce l’entrata. L’incumbent per impedire l’entrata non deve produrre qi, ma deve convincere l’impresa potenzialmente entrante che produrrà qi unità se si verificasse l’entrata.

Il principale problema connesso al comportamento strategico di fissazione di un prezzo limite, è che con due imprese aventi le medesime funzioni di costo, la minaccia da parte dell’impresa già esistente non sarà credibile, poiché tale comportamento non farà massimizzare i profitti all’incumbent. Per evitare la strategia di prezzo limite, l’impresa entrante potrà entrare nell’industria con contratti a prezzo fisso già stipulati (stabilendo un prezzo leggermente inferiore a p* e ben superiore ai costo medi). Per rendere credibile ed efficace la politica di prezzo limite, un’impresa già esistente deve perseguire una strategia in cui risulta per lei ottimale produrre qi unità al prezzo limite p’ dopo l’entrata. Se le due imprese hanno le stesse curve di costo medio, non è credibile che l’incumbent mantenga l’output invariato una volta che si verifica l’entrata di un’altra impresa; tuttavia, la minaccia sarà credibile se l’impresa già esistente può modificare la situazione di mercato, così da avere l’incentivo a produrre qi unità dopo l’entrata. Ad esempio, l’incumbent potrà rendere credibile la minaccia di produrre sempre qi unità, costruendo prima dell’entrata uno stabilimento capace di produrre solo qi unità di prodotto. Nella prima fase di questo gioco l’impresa esistente deve sostenere delle spese per limitare le proprie possibilità produttive (ad esempio, la costruzione di uno stabilimento). Così facendo sembrerebbe che l’impresa si autodanneggi: tuttavia trae un vantaggio da questa restrizione, poiché rende credibile la sua minaccia e fa sì che l’impresa entrante non entri nel mercato. In generale un’impresa può avvantaggiarsi se si può vincolare anticipatamente. Il grafico seguente mostra la rappresentazione in forma estesa del gioco della strategia del prezzo limite, cioè illustra la sequenza delle azioni e degli esiti possibili per entrambe le imprese. Ogni linea rappresenta un’azione ed ogni riquadro un punto decisionale. Gli esiti delle azioni sono indicati tra parentesi, dove per primi vengono elencati i profitti dell’impresa esistente. Nella prima fase del gioco l’incumbent sceglie tra due tecnologie produttive: una tecnologia flessibile ed una tecnologia rigida (permette di produrre solo qi). Nella seconda fase l’impresa entrante decide se entrare nel mercato o non entrarvi. Per stabilire la strategia ottimale nel primo stadio, l’impresa esistente risolve il gioco a ritroso, iniziando dalla parte in alto a destra del diagramma, quindi l’impresa entrante scarterà (due trattini sulla linea) l’ipotesi di entrare nel mercato se l’incumbent adotterà una tecnologia rigida. Allo stesso modo l’impresa entrante

scarterà l’ipotesi di non entrare nel mercato se l’incumbent adotterà una tecnologia flessibile. L’incumbent sceglierà la propria tecnologia studiando i profitti ottenibili, a seguito delle scelte fatte dall’impresa entrante (2.000 se adotta una tecnologia rigida e l’impresa entrante decide di non entrare nel mercato; 500 se adotta una tecnologia flessibile e l’impresa entrante decide di entrare nel mercato). Di conseguenza si stabilisce che l’impresa già esistente massimizza i propri profitti producendo una tecnologia rigida, quindi scarta l’ipotesi di adottare una tecnologia flessibile.

 Comportamenti adottati per aumentare i costi dei concorrenti. Un’impresa può beneficiare di un comportamento strategico che fa aumentare i costi dei suoi concorrenti. Nei modelli di oligopolio, un’impresa presenta profitti che dipendono dal differenziale esistente tra i suoi costi e quelli dei concorrenti. Se un’impresa può aumentare questo differenziale senza incorrere in spese, può realizzare profitti maggiori a scapito dei suoi rivali. Per influenzare sui costi di un concorrente, un’impresa deve godere di potere di mercato o di influenze politiche. Un’impresa si avvantaggia se fa crescere il differenziale tra i suoi costi e quelli dei concorrenti; inoltre può anche beneficiare di azioni che fanno lievitare i propri costi se però le medesime azioni fanno crescere in modo maggiore i costi dei concorrenti. L’impresa potrebbe usare diversi metodi: 

Metodi diretti. Un’impresa può far salire in modo diretto i costi dei concorrenti se riesce ad inferire con i metodi di produzione o di vendita dei concorrenti (un esempio estremo potrebbe essere sabotare i macchinari di un’impresa concorrente). Se l’impresa sleale deve sostenere dei costi per far salire i costi del concorrente, deve bilanciare le maggiori spese sostenute per il sabotaggio con il beneficio derivante dall’aumento dei costi del concorrente.



Interferenza mediante la regolamentazione governativa . Un’impresa può aumentare i costi dei concorrenti mediante la regolamentazione governativa, poiché molte norme prevedono esenzioni per le imprese esistenti e rendono più oneroso per le nuove imprese operare in un’industria.



La produzione di prodotti sostitutivi . A volte un’impresa esistente fabbrica due prodotti che vanno usati insieme, mentre un’impresa entrante ne produce solo uno. Nel caso in cui i prodotti debbano essere utilizzati insieme, l’impresa già presente può creare svantaggi a quella entrante mediante un legame contrattuale in base al quale il consumatore deve acquistare entrambi i prodotti dall’impresa già esistente.



Aumento dei costi di cambiamento. Un’impresa può rendere difficile per il consumatore che acquista il suo prodotto passare in futuro al prodotto di un’impresa entrante.



Aumentare i salari o i prezzi di altri input . Un’impresa esistente che utilizza una diversa tecnologia di produzione rispetto a quella dei suoi concorrenti può riuscire a far aumentare sproporzionatamente i costi di quest’ultimi facendo salire il costo di un particolare input per tutte le imprese dell’industria. Ad esempio, se un’impresa concorrente utilizza più lavoro per prodotto unitario di quanto faccia l’impresa già presente, i costi di questa salgono meno di quelli dell’impresa entrante in seguito a un aumento dei salari. Anche se i profitti totali dell’industria scendono, in caso di aumento dei salari, la quota di mercato dell’impresa con tecnologia a minore intensità di lavoro può crescere in modo sufficiente da far salire i suoi profitti. Per capire come l’aumento dei costi di un concorrente può far crescere i profitti di un’impresa già esistente anche se i suoi costi aumentano, si può analizzare, con il grafico seguente, il caso di un’impresa esistente che utilizza meno lavoro per unità di prodotto di un concorrente. Si ipotizza che l’impresa già presente abbia costi marginali e costi medi costanti pari a m, fino al raggiungimento della piena capacità (q1 unità di output), punto in cui essi diventano infinitamente grandi. Esistono diversi concorrenti che presentano costi marginali costanti ad un livello di m1. In assenza di un comportamento strategico il prezzo di equilibrio dell’industria è m1 e per l’impresa già esistente sarà ottimale produrre alla capacità q1, poiché i profitti saranno pari a: (m1 – m)q1. Si ipotizzi che l’impresa già esistente possa far aumentare i costi marginali delle imprese concorrenti (da m1 a m2) restando invariati i propri costi. Così facendo il prezzo di equilibrio diventa m2 ed il livello ottimale di produzione rimane fisso a q1. Quindi i profitti aumentano diventando pari a: (m2 – m)q1.

L’impresa esistente può trovare conveniente far aumentare i costi di tutte le imprese presenti in un’industria (compresi suoi). Spesso esiste un’asimmetria tra l’impresa già esistente e le imprese potenzialmente entranti, poiché la prima ha già sostenuto le spese (costi irrecuperabili), quindi si rende improbabile la sua uscita dall’industria. Avendo già sostenuto le spese, l’impresa già esistente si è vincolata a rimanere nell’industria e da questo ne trae un vantaggio strategico, poiché disincentiva le altre imprese a entrare nell’industria. Dal grafico seguente, si evince che prima dell’entrata l’impresa ottiene profitti di monopolio pari a 100. Con l’entrata, l’impresa già presente e l’impresa entrante ottengono complessivamente un profitto di duopolio pari a 80. Se l’impresa già presente e quella entrante si dividono equamente i profitti di duopolio, l’impresa entrante sarebbe disposta a spendere la metà dei profitti di duopolio (40) per entrare nell’industria, mentre l’impresa già esistente pagherebbe la differenza fra il profitto di monopolio e la metà dei profitti di duopolio (60) per tenere fuori l’impresa entrante. Poiché il profitto di monopolio è superiore al profitto di duopolio sarà più vantaggioso per il monopolista tenere fuori l’impresa entrante che per quest’ultima entrare nel mercato. Se l’impresa già presente può far salire di 50 i costi di tutte le imprese, i profitti dell’impresa già presente saranno pari a 50 se l’entrante non entrerà nell’industria, al contrario l’impresa già presente nel mercato avrà perdite pari a 10 se l’impresa entrante deciderà di entrare. Questo significa, in primo luogo, che l’impresa potenzialmente entrante deciderà di non entrare nel mercato per non incorrere in perdite; in secondo luogo, che l’impresa già presente aumenterà di 50 i costi di tutte le imprese attive nel mercato perché i profitti di monopolio saranno maggiori ai profitti di duopolio in assenza di aumento dei costi.

Sebbene, spesso, un’impresa già presente abbia un vantaggio naturale che può sfruttare a suo favore, a volte è l’impresa entrante ad avere questo vantaggio. Ad esempio una grande impresa che soffre di una maggiore diminuzione dei profitti rispetto ad un’impresa più piccola se il prezzo cala, può scegliere di consentire l’entrata piuttosto che impegnarsi in una guerra dei prezzi. Quindi un’impresa che entra con una piccola scala produttiva può farlo senza timore di rappresaglie. Se una grande impresa decide di reagire all’entrata, un’alternativa alla riduzione uniforme del suo prezzo è l’introduzione di una nuova marca (fighting brand) il cui prezzo è basso e la disponibilità è

limitata, solo in quelle zone in cui ha successo un concorrente. Così facendo la grande impresa può combattere l’entrata senza abbassare il prezzo a tutti i clienti. Allo stesso modo, un’impresa che produce molti prodotti sostituibili considera costosa la concorrenza in termini di prezzo relativamente ad un solo prodotto perché influisce anche sui ricavi degli altri prodotti. Al contrario, per un’impresa che produce beni complementari non è molto costosa una guerra dei prezzi relativa ad un prodotto, dato che la diminuzione dei profitti su tale prodotto è compensata dall’aumento dei profitti relativi ai prodotti complementari. Paragrafo 11.3: “Comportamento strategico cooperativo”. Il termine comportamento strategico cooperativo designa le azioni effettuate da imprese rivali nel proprio interesse e che innalzano il prezzo di oligopolio ad un livello più vicino a quello di monopolio. La teoria del comportamento strategico cooperativo si fonda sulla teoria dei cartelli, secondo la quale i profitti di oligopolio dipendono dalla capacità di ogni membro del cartello di assicurare agli altri che non sta tentando di sottrarre clienti all’impresa rivale. Maggiore è la reciproca sicurezza, più facile è per le imprese riuscire a far pagare un prezzo superiore al livello concorrenziale. Esistono diverse azioni strategiche cooperative per innalzare i prezzi:  Prezzi uniformi. Se a tutti i clienti di un’impresa viene fatto pagare lo stesso prezzo sarà costoso per l’impresa tentare di rubare i clienti ad un concorrente offrendo loro un prezzo leggermente inferiore (poiché il prezzo dovrà essere applicato a tutti i clienti). L’uniformità del prezzo riduce i guadagni che l’impresa potrebbe realizzare sottraendo i clienti al rivale; inoltre, se tutti i clienti dell’impresa pagano il medesimo prezzo, sarà più facile per il rivale identificare il taglio del prezzo.  Penalità per sconti sui prezzi. Un ulteriore incentivo prevede che qualora un’impresa adotti una politica di riduzione dei prezzi, esso verrà esteso a tutti i clienti dell’impresa per un certo periodo di tempo.  Preavviso di variazione dei prezzi. I cartelli hanno difficoltà a mantenere un accordo sui prezzi quando quest’ultimi sono frequentemente soggetti a variazioni. Al momento della variazione di prezzo le imprese non si fidano l’una dell’altra perché è probabile che ogni impresa venda a prezzi diversi. La prima impresa ad aumentare il prezzo (impresa leader) si trova in svantaggio perché perde quote di mercato a causa del prezzo elevato, quindi nessuna impresa vorrebbe essere un’impresa leader. Un modo per ovviare a tale problema consiste nel dare un preavviso degli aumenti di prezzo, questa tattica consente alle altre imprese dell’industria di decidere se sottoscrivere l’aumento dei prezzi prima che entri in vigore; se le concorrenti decidano di non sottoscrivere l’accordo, l’impresa che ha annunciato l’aumento può annullarlo. Così facendo le imprese non realizzano mai prezzi diversi sul mercato e questo elimina il disincentivo ad aumentarli.  Scambi di informazioni. Gli scambi di informazioni tra le imprese possono sia facilitare la formazione di cartelli che promuovere l’efficienza. Un modo che un’impresa ha per convincere i concorrenti che non sta cercando di sottrarre loro i clienti mediante sconti sui prezzi è quello di annunciare l’identità dei nuovi clienti e le condizioni di prezzo e quantità offerte. Così facendo quando un cliente cambia fornitore, non si determina una guerra dei prezzi da parte dei concorrenti che ritengono che il cambiamento dei prezzi sia dovuto ad un prezzo inferiore. Un altro metodo di comunicare informazioni consiste nel rendere pubblica la strategia dell’impresa, in modo tale che i rivali non la interpretino in modo sbagliato e possano agire in linea con essa.

 Prezzo alla consegna. Un sistema di prezzi alla consegna specifica che il prezzo totale alla consegna è funzione della distanza dell’acquirente da una specifica località (punto base) e non della localizzazione del venditore. Un sistema di prezzi alla consegna può essere realizzato specificando il prezzo totale alla consegna come somma di un prezzo corrente di mercato nel punto base più il trasporto a partire da quel punto. Questo sistema facilita la collusione perché impedisce a imprese rivali di concedere segretamente sconti mascherati da tariffe di trasporto più basse. Costringere tutte le imprese a far pagare lo stesso costo di trasporto o lo stesso prezzo rende facile individuare le deviazioni da un accordo sui prezzi. Il sistema dei prezzi che molti economisti prevedono debba emergere in un mercato concorrenziale viene definito sistema di prezzi FOB, nel quale l’acquirente paga oltre all’effettivo costo di trasporto un prezzo FOB (Free – On – Board) con cui il venditore carica la merce sul vettore di trasporto senza costo per l’acquirente. Uno svantaggio della collusione attuata mediante l’impiego di prezzi alla consegna consiste nell’impossibilità di ripartire il mercato tra i venditori.Se ad esemio ci sono due venditori di acciaio ,uno a Torino e uno a Brescia,se Brescia è il punto base del prezzo alla consegna ,potrebbe essere conveniente per entrambe vendere vicino Torino.Se invece le imprese adottassero il prezzo FOB dello stabilimento più il costo di trasporto,il mercato sarebbe diviso e un consumatore acquisterebbe in base alla vicinanza a Torino o a Brescia.Come rappresentato nel grafico seguente,tutti i clienti a ovest di Milano acquistano da Torino e tutti quelli a est di Milano da Brescia.Se si notasse che l’acciaieria di Brescia vende nella zona di Torino,significherebbe che non sta rispettando l’accordo sui prezzi FOB.Per contro,con prezzi alla consegna,tutte le imprese praticano lo stesso prezzo e non c’è divisione netta di mercato.Inoltre,con i prezzi alla consegna l’impresa di Torino potrebbe vendere a Brescia e viceversa ,con trasporti incrociati del prodotto inefficienti.In generale,maggiore è la distanza tra le imprese e più importanti sono le spese di trasporto,migliori sono i prezzi FOB come mezzo di allocazione del mercato e di collusione rispetto ai prezzi alla consegna.

 Scambi.

Capitolo 12: Integrazione verticale e restrizioni verticali Un’impresa viene detta integrata verticalmente quando realizza internamente più stadi successivi di produzione o distribuzione di beni e servizi. La maggior parte delle imprese sono solo in parte integrate verticalmente. Un’impresa non integrata verticalmente può stipulare con le altre imprese, contratti vincolanti a lungo termine (restrizioni verticali) in cui specifica non solo il prezzo, ma anche altre condizioni o forme di comportamento. Altre imprese non integrate potrebbero acquisire sul mercato da un numero non specificato di imprese anonime, le quali non impongono restrizioni verticali. La decisione di un’impresa di integrarsi verticalmente, di redigere contratti con restrizioni verticali o di rivolgersi al mercato è una decisione strategica molto importante, poiché influisce sul comportamento in relazione ai prezzi ed alle attività promozioni dell’impresa e dei suoi rivali. Paragrafo 12.1: “Tesi a favore e contro l’integrazione verticale”. Nella maggior parte dei casi le imprese decidono di integrarsi verticalmente per ridurre i costi di produzione o per eliminare un’esternalità di mercato. La stessa integrazione, tuttavia, implica dei costi, quindi essa avverrà solo se i vantaggi superano i costi. I principali costi cui un’azienda che vuole integrarsi verticalmente, affronterà sono:  Il costo di fornitura dei fattori di produzione o di distribuzione del prodotto può essere superiore per un’impresa che si integra verticalmente rispetto a quello di un’impresa che si rivolge ai mercati concorrenziali, poiché quest’ultimi sono capaci di effettuare tali funzioni in modo efficiente.  I costi di gestione, così come le difficoltà, aumentano con l’aumentare delle dimensioni dell’impresa.  I costi legali per organizzare l’integrazione (fusione o acquisizione). L’integrazione verticale non presenta solo dei costi, ma anche numerosi vantaggi: 1. La riduzione dei costi di transazione (ad esempio costi per la stipulazione e l’applicazione dei contratti). Quando questi costi sono elevati, quindi si hanno contratti complessi, un’impresa può ottenere un vantaggio tenendo un comportamento opportunistico, poiché il contratto stesso potrebbe avere delle difficoltà a specificare tutte le possibili contingenze, di conseguenza potrebbe contenere clausole che nel tempo si possano dimostrare sfavorevoli per una delle parti. Al contrario, se i costi sono semplici è improbabile che vi sia un comportamento opportunistico. La possibilità di sfruttare a proprio vantaggio una determinata situazione è maggiore quando un’impresa dipende da un’altra, tuttavia anche qualora si individuino questi rapporti di dipendenza è difficile stipulare un contratto che elimini gli incentivi a comportarsi in modo opportunistico. Un modo per ridurre i costi di transazione è che l’impresa si integri verticalmente, svolgendo l’attività al suo interno. Quest’operazione trasforma il problema del controllo da quello tra imprese a quello sui dipendenti all’interno dell’impresa stessa. Esistono diverse situazioni in cui i costi sono tali da rendere desiderabile l’integrazione, ad esempio: l’incertezza; le transazioni che prevedono informazioni; la necessità di un ampio coordinamento; ed infine, i beni capitali specialistici (beni prodotti su misura per un determinato acquirente). 2. La costanza della fornitura. Garantirsi la fornitura per tempo è importante nei mercati in cui il prezzo non è il solo strumento utilizzato per allocare i beni. In molte industrie di beni strumentali i clienti privilegiati spesso ottengono il prodotto anche in periodi di eccesso di domanda, mentre gli altri devono aspettare. Quando un razionamento di tale genere è

possibile c’è un incentivo all’integrazione verticale poiché si aumenterebbe la probabilità di ottenere per tempo il prodotto. Un’impresa ha un incentivo a produrre i propri input per soddisfare il livello prevedibile della domanda e a far affidamento su altre imprese per i rifornimenti necessari a soddisfare la domanda meno stabile. I fornitori esterni reagiranno a tale situazione aumentando il prezzo quando l’impresa ordina degli input a causa di un incremento non previsto di domanda da parte del suo mercato di sbocco. 3. La correzione dei fallimenti di mercato dovute alla presenza di esternalità. Ad esempio, l’impresa a monte ha l’incentivo ad integrarsi a valle nella distribuzione per internalizzare le esternalità, garantendo così certi standard per tutta la catena, in modo tale che un cliente sarà cosa attendersi da un negozio di una stessa catena situato in un luogo diverso. 4. Possibilità di eludere le regole imposte dallo Stato (restrizioni,normative,tasse) 5. Eliminazione del potere di mercato,un’impresa si unisce a quella dominante 6. L’aumento dei profitti di monopolio(acquisizione potere di mercato). Un’impresa integrandosi verticalmente può aumentare i propri profitti di monopolio in due modi: a. Integrazione verticale a valle per monopolizzare un’industria manufatturiera . L’operazione di integrarsi a valle per aumentare il potere di monopolio non sempre conviene, poiché dipende dal processo produttivo. Il grafico seguente illustra un’industria, nel quale i consumatori acquistano Q unità al prezzo p di un bene prodotto in modo concorrenziale. L’industria concorrenziale (impresa a valle) produce quel bene utilizzando una funzione di produzione che dipende dai fattori di produzione relativi all’energia ed al lavoro, quindi formalmente la funzione sarà: Q = f(E, L). Le imprese a monte vendono tali fattori di produzione a diversi prezzi, infatti l’energia viene venduta al prezzo e, mentre il lavoro al prezzo w.

Il processo produttivo appena descritto, si basa su diverse ipotesi: a.i. Rendimenti di scala costanti, quindi ad esempio se entrambi i fattori di produzione vengono raddoppiati, raddoppia anche l’output.

a.ii. Gli input sono prodotti a un costo marginale costante, quindi le imprese produttrici possono acquistare quanto lavoro e quanta energia vogliono, L ed E, ad un costo rispettivamente pari a w ed a e. L’energia viene prodotta ad un costo marginale pari a m. a.iii.

Monopolio a monte, quindi esiste un’unica impresa che fornisce energia e non è possibile l’entrata di altre imprese.

a.iv. Concorrenza a valle. a.v. Costi dell’integrazione verticale, quindi all’integrazione verticale sono connessi dei costi, di conseguenza a meno che non si ricavano benefici tali da coprire i costi, l’impresa non la effettuerà. Oltre al processo produttivo, il fornitore monopolistico di energia potrà valutare la convenienza ad integrarsi verticalmente monopolizzando un’impresa a valle, analizzando la funzione di produzione, la quale potrà essere con proporzioni fisse (gli input sono usati sempre nelle stesse proporzioni) o con proporzioni variabili (il rapporto tra i fattori è sensibili ai prezzi relativi dei fattori, quindi si ammette la loro sostituzione). i.

Funzioni di produzione con proporzioni fisse. Se nel processo produttivo a valle si utilizzano proporzioni fisse, il monopolista a monte non ha incentivo a integrarsi verticalmente, poiché otterrà gli stessi fattori produttivi indipendentemente dall’integrazione. Ipotizziamo che le industrie produttrici acquistano i dolci da un mercato di input e le scatole di cartone per contenerli da un altro mercato. Il grafico seguente mostra che questo processo ha un isoquanto a forma di L, cioè una curva che mostra le varie combinazioni dei fattori produttivi che determinano un certo livello di output. L’isoquanto individua le diverse combinazioni di dolci e scatole che si possono usare per realizzare un dolce in scatole. Il medesimo grafico evidenzia anche due rette di isocosto, le quali mostrano le combinazioni dei fattori produttivi che comportano lo stesso livello di spesa (un isocosto ha un rapporto di prezzo 1 a 1, mentre un isocosto ha un rapporto di prezzo 3 a 1). Indipendentemente dal prezzo relativo dei due fattori, la combinazione che minimizza i costi, punto nel quale si intersecano le due curve di isocosto, consiste nell’uso di un dolce ed una scatola per realizzare un dolce in scatola.

Il grafico successivo, invece, confronta i profitti che il monopolista dell’energia realizza se si integrasse verticalmente e se non si integrasse. Per semplicità si ipotizza che per produrre un’unità di output (Q = 1) è necessaria un’unita di fattore produttivo (E = 1, L = 1). Analizzando il caso di un’impresa integrata, si può notare che il costo che il monopolista integrato deve sostenere per produrre un’unità di output è m + w, poiché è necessaria un’unità di energia che l’impresa produce a m, ed un’unità di lavoro che l’impresa affitta a w. Il grafico seguente mostra il costo per unità (costo marginale), il quale formalmente è pari a MCq = m + w; inoltre, lo stesso grafico, rappresenta la curva di domanda inversa del prodotto finito, p(Q), che evidenza il prezzo che i consumatori sono disposti a pagare per acquistare Q unità del prodotto, e la curva corrispondente dei ricavi marginali (Mrq). Come si nota nella figura a), il monopolista integrato massimizza i profitti producendo Q* unità di output, poiché in tal punto i ricavi marginali sono pari al costo marginale; queste unità sono vendute ad un prezzo pari a p*. Formalmente il profitto sarà pari a: π* = [p* - (m + w)]Q*. Analizzando, ora, il caso di un’impresa monopolista che vende ad un’industria concorrenziale, figura b), si nota che il costo marginale, che un monopolista non integrato deve sostenere per la produzione dell’energia (MCe) è pari a m. Il monopolista non integrato affronta una funzione di domanda inversa e(E), del suo prodotto da parte dell’industria concorrenziale, questa funzione mostra il prezzo massimo che l’industria concorrenziale paga per E unità di energia. La curva corrispondente dei ricavi marginali è MRe. Nella figura b) le linee indicate nella figura a) sono riportate in modo tratteggiato per facilitare il confronto. Il monopolista dell’energia non integrato massimizza i profitti producendo E* unità di energia, poiché in tal punto i ricavi marginali sono pari al costo marginale; queste unità sono vendute ad un prezzo pari a p*- w. Formalmente il profitto sarà pari a: π* = [(p* - w) - m]E*. Il monopolista ora ottiene per ogni unità venduta un prezzo pari a e* (pari a p* - w), ma i suoi costi sono pari per ogni unità prodotto è pari solo a m.

Di conseguenza dato che l’impresa a monte ottiene gli stessi profitti indipendentemente dall’integrazione, se quest’ultima comporta il sostenimento di un costo, l’impresa deciderà di non integrarsi.

ii.

Funzioni di produzione con proporzioni variabili. Al contrario, se nel processo produttivo a valle si utilizzano proporzioni variabili, il monopolista a monte ha incentivo a integrarsi verticalmente e l’attuerà se i benefici superano i costi. Il grafico successivo mostra l’isoquanto di una funzione di produzione con proporzioni variabili. Questo isoquanto è una curva i cui fattori produttivi sono sostituti imperfetti, di conseguenza man mano che i costi relativi dei fattori produttivi cambiano (cambio di pendenza dell’isocosto) le imprese di quell’industria sostituiscono il fattore più costoso con una quantità maggiore del fattore meno caro in quel momento. Questo significa che se il monopolista dell’energia aumenta il prezzo per l’industria concorrenziale a valle, le imprese di quell’industria sostituiscono l’energia con una quantità maggiori di lavoro.

Un caso estremo prevede che i due beni siano sostituti perfetti, in tal caso l’isoquanto è una retta. In sintesi se le imprese a valle hanno la capacità di sostituire gli input, il monopolista non ha il completo controllo dell’industria a valle; tuttavia se l’impresa a monte si integra verticalmente in modo da monopolizzare l’industria a valle, avrà un controllo completo e potrà utilizzare i fattori nella combinazione più efficiente. Pertanto i profitti aumentano. b. La discriminazione del prezzo. Un fornitore monopolistico può integrarsi verticalmente in modo da discriminare con successo il prezzo. L’integrazione verticale può essere usata per impedire la rivendita, la quale è essenziale per il successo della discriminazione. Ad esempio, si ipotizzi, che i panetti di alluminio vengono impiegati per produrre filo di alluminio e aerei. Per quest’ultimi prodotti non c’è alternativa all’alluminio, quindi la domanda di panetti di alluminio da parte dei produttori di aerei è anelastica. Di conseguenza sarà remunerativo far pagare un prezzo più alto a tali produttori; tuttavia se viene fissato un prezzo troppo elevato, si potrebbe indurre i produttori di filo di alluminio a comprare i panetti e successivamente rivenderli ai produttori di aerei ad un prezzo più inferiore rispetto a quello dell’impresa monopolista. Così dicendo, al monopolista converrà integrarsi verticalmente a valle per impedire la rivendita.

Paragrafo 12.2: “Ciclo di vita di un’impresa”. Le imprese si integrano verticalmente se i benefici derivanti da quest’operazione superano i costi. Stigler e Williamson spiegano perché le imprese in certi periodi fanno affidamento sui mercato, mentre in altri si integrano verticalmente. Se la domanda di un prodotto è bassa, per cui l’output complessivo di tutte le imprese dell’industria è piccolo, ogni impresa tende a realizzare internamente tutte le attività connesse con la produzione dell’output finale. Questo perché, un’impresa specializzata dovrà sostenere elevati costi di avviamento per unità, quindi se tali imprese vorranno avere profitti, la somma dei loro prezzi deve essere superiore al costo di un’impresa che produce tutto internamente. Al contrario, quando l’industria si espande per un’impresa diventa redditizio specializzarsi (disintegrazione verticale), perché diminuiscono i costi di transazione per unità. Man mano che un’industria matura si sviluppano nuovi prodotti che riducono la domanda del prodotto originale, quindi il settore si riduce di dimensioni. Questo comporta che le imprese, di nuovo, si integreranno verticalmente. Paragrafo 12.3: “Restrizioni verticali”. Un’impresa non integrata può stipulare con le altre imprese delle restrizioni verticali, cioè dei contratti vincolanti a lungo termine in cui specifica non solo il prezzo, ma anche altre condizioni o forme di comportamento, per ottenere un risultato di mercato vicino a quello che otterrebbe con l’integrazione verticale. Per esempio, i produttori di solito impongono dei vincoli ai loro distributori limitando le zone di vendita, indicando la quantità di scorte che devono tenere in magazzino ed il numero minimo di unità da vendere impedendo di vendere i prodotti concorrenziali e fissando il prezzo minimo al dettaglio che possono far pagare. I produttori spesso fanno affidamento su imprese indipendenti per la distribuzione dei loro prodotti, invece di effettuarla in proprio perché i costi da sostenere per controllare i dipendenti nei punti vendita sono maggiori dei costi connessi all’utilizzo di imprese indipendenti. Ad esempio i punti vendita possono essere lontani tra loro, questo comporta un elevato costo di trasporto per i manager che devono controllarli e un costo legato alla conoscenza di situazioni di mercato molto diverse l’una dall’altra per poter giudicare l’efficienza di un particolare punto di distribuzione). Gli economisti descrivono il rapporto tra produttore e distributore come un rapporto principale – agente (oppure mandante – mandatario), nel quale il principale assume l’agente per svolgere un incarico, ma non è in grado di controllare completamente il suo operato. Così facendo il produttore stipula un contratto con i distributori affinché vendano il suo prodotto, ma non può controllare completamente l’effettivo impegno dei distributori nella fase di vendita, perciò è consapevole che essi possono trarre un vantaggio personale. Ad esempio un distributore confidando sulla fama del produttore, può decidere di effettuare un numero di messaggi pubblicitari inferiore a quello previsto dal contratto. Il free riding si verifica quando un’impresa beneficia delle azioni di un’altra impresa senza pagare un prezzo. Questi problemi tra principale ed agente vengono affrontati con restrizioni verticali che il produttore impone al distributore. Quando la distribuzione comporta dei costi e il produttore utilizza dei distributori per vendere i suoi prodotti al dettaglio sorgono diversi problemi(si verifica un doppio markup di monopolio,alcuni distributori possono fare i furbi approfittando dell’impegno degli altri distributori nelle vendite,alcuni produttori possono fare i furbi a scapito di altri produttori e infine tra i distributori può esserci una mancanza di coordinamento che determina un’esternalità) :  Il doppio markup di monopolio. Se il produttore ed il distributore sono entrambi monopolisti, ognuno di essi impone un markup di monopolio, cioè che la differenza tra il prezzo ed i costi marginali è positiva. Quindi i consumatori fronteggiano due markup, anziché uno. Questo doppio markup fornisce un incentivo alle imprese a integrarsi verticalmente o a utilizzare le restrizioni verticali per promuovere l’efficienza e quindi aumentare i profitti congiunti.



Perdita di benessere dovuta al doppio markup di monopolio . Per capire l’effetto dell’esistenza di un doppio markup di monopolio, si può confrontare un mercato in cui un produttore è integrato verticalmente nella distribuzione con un mercato in cui operano due monopoli in successione. a. Profitti di un produttore – distributore integrato. Nella figura a) si ipotizza che il produttore – distributore monopolistico integrato verticalmente affronti una curva di domanda con pendenza negativa D1 relativa al prodotto finale. L’impresa produce Q* unità, così che i costi marginali di produzione (m) siano pari ai ricavi marginali (MR1). I suoi profitti (π*) sono pari al markup di monopolio (differenza tra p* e i costi unitari) moltiplicato per il numero di unità vendute. b. Profitti di monopoli in successione. Nella figura b) si ipotizza che il produttore monopolistico a monte utilizzi un’impresa monopolistica a valle per distribuire il suo prodotto, così facendo si determina un doppio markup di monopolio, poiché ogni impresa aggiunge un markup di monopolio ai propri costi unitari. In questo caso il distributore affronta la stessa curva di domanda e medesima curva dei ricavi marginali della figura a). Il produttore fa pagare un prezzo all’ingrosso (p2) per unità venduta. Il distributore, invece, tratta questo prezzo come costo marginale, quindi massimizza i profitti vendendo Q1 unità così che p2 sia uguale ai ricavi marginali. Dato che i costi di distribuzione si ipotizzi siano pari a zero,il prezzo a cui vengono massimizzati i profitti è p* = p2. Il numero di unità di prodotto domandate dal distributore dipende dal prezzo all’ingrosso del produttore (p2) e viene determinato dall’intersezione della curva (MR1) con la retta orizzontale al livello p2. La curva di domanda del produttore (D2) è uguale alla curva dei ricavi marginali del distributore (MR1), così massimizzerà i profitti scegliendo il livello di output Q2, poiché i costi marginali (m) sono uguale alla sua curva dei ricavi marginali (MR2). Analizzando la figura b) si nota il doppio markup, infatti il produttore fa pagare un prezzo (p2 ) superiore ai suoi costi marginali (m), inoltre il distributore fa pagare un prezzo (p1) superiore ai suoi costi marginali (p2). Poiché il ricavo marginale è inferiore al prezzo ,p* = p2 < p1 e i consumatori che soffrono per l’esistenza di un doppio markup acquistano unità di output pari Q2 minore di quella Q* che comprerebbero se ci fosse un’impresa integrata, quindi si trovano in peggiori condizioni economiche. Utilizzando la stessa curva di domanda p=10-Q e ponendo i costi marginali m=2 si ottiene p*=p2=6 e p1=8.Pertanto i consumatori pagano un terzo in più 8 invece che 6) a causa del successivo markup di monopolio rispetto a quello che pagherebbero se le imprese fossero integrate.Acquistano la metà delle unità che comprerebbero:Q1=Q2=2 invece di di Q*=4.Anche i profitti complessivi delle imprese sono inferiori.I profitti dell’impresa integrata sono pari a 16.Con i monopoli in successione i profitti del dettagliante sono pari a 4 e quelli del produttore pari a 8 .Come mostra la figura 12.5 b i profitti totali diminuiscono di un importo pari all’area A-i profitti del dettagliante: 8-4=4.Quindi i profitti dei monopoli in successione,in questo caso,è inferiore del 25% rispetto a quelli che ottiene l’impresa integrata.

Paragrafo 12.4: “Franchising”. Un tipo particolare di relazione verticale è quella tra affiliante ed affiliato. L’affiliante vende all’affiliato il diritto ad utilizzare il suo marchio o fornisce un sistema completo di gestione dell’attività. In quest’ultimo caso si parla di business forma, con cui l’affiliante fornisce all’affiliato l’addestramento ed altre forme di avviamento. L’affiliato, invece, sarà d’accordo a gestire l’attività nel modo stabilito dall’affilante, il quale continua a controllare le prestazioni per assicurarsi che si attenga ai suoi metodi. L’affiliato corrisponde all’affiliante, come compenso, una quota di esclusiva più una percentuale (royality) sulle vendite, la quale generalmente oscilla tra lo 0% ed il 10%. Recentemente il franchising è aumentato di importanza, infatti dal 1975 al 2003, negli USA il numero di punti vendita in franchising è cresciuto passando da 220.000 a 580.000. Un motivo per cui il compenso dell’affiliante è legato alle vendite, e non ai profitti, è che le vendite sono misurabili in un modo più facile. Capitolo 13: L’informazione Una delle condizioni della concorrenza perfetta è che tutti gli agenti sono perfettamente informati. Questa condizione si basa sull’idea che l’informazione ha costo zero, in realtà acquisire un’informazione costa ed inoltre ognuno elabora le informazioni in modo diverso, poiché l’uomo gode di una razionalità limitata. Paragrafo 13.1: “Perché l’informazione è incompleta”. Economisti, psicologi ed esperti di marketing hanno svolto delle ricerche, nelle quali si evidenzia che i consumatori hanno una conoscenza imperfetta dei prezzi e delle caratteristiche dei mercati in cui fanno acquisti. Esistono diversi motivi che giustificano tale incompletezza: 1. L’informazione varia in quanto ad affidabilità , quindi non tutte le notizie sono precise, di conseguenza un consumatore razionale non dovrebbe dare il medesimo affidamento alle diverse informazioni. Inoltre le informazioni ricevute in passato potrebbero essere adesso imprecise.

2. Raccogliere le informazioni ha un costo, quindi al consumatore non conviene raccogliere informazioni oltre il punto in cui il beneficio marginale è uguale al costo marginale dell’operazione. 3. I consumatori possono tenere a mente una quantità limitata di informazioni,ovviamente le informazioni più importanti saranno ricordate più facilmente. 4. I consumatori ritengono che sia più efficiente utilizzare delle regole semplici per elaborare l’informazione, quindi possono usare solo parte dell’informazione che hanno raccolto, poiché anche elaborarla ha un costo. Di conseguenza un consumatore elabora l’informazione fino al punto in cui il beneficio marginale è uguale al costo marginale di elaborazione di altre informazioni. Questo concetto è definito razionalità limitata. 5. Alcuni consumatori non dispongono di una formazione sufficiente a elaborare correttamente le informazioni disponibili su tutti i prodotti. Paragrafo 13.2: “Informazione incompleta sulla qualità”. Spesso i consumatori, al contrario dei venditori, non sono a conoscenza delle caratteristiche del prodotto. Questa differenza viene definita informazione asimmetrica. Lo studio più famoso sugli effetti dell’informazione incompleta è l’analisi di Akerlof del mercato dei bidoni. Akerlof, dimostra che in presenza di un’informazione imperfetta può non formarsi del tutto un mercato oppure può essere venduto solo il prodotto qualitativamente più scadente. Per esempio nel mercato delle auto usate il venditore ha capito, con il tempo, se la sua vettura ha bisogno di riparazioni frequenti (è un bidone) o rare (è in buono stato); il compratore, invece, conosce solo la probabilità di acquistare un auto in buono stato. Se gli acquirenti non sanno distinguere le auto usate in buone condizioni da quelle in cattivo stato, quest’ultime verranno vendute al medesimo prezzo delle prime. Si ipotizzi ad esempio che gli acquirenti ritengono che la metà delle auto usate offerte dal mercato siano dei bidoni a cui attribuiscono un valore pari a 100, mentre l’altra metà siano auto in buono stato a cui attribuiscono un valore pari a 200. In questa situazione il valore che un consumatore attribuirà ad un’auto scelta a caso sarà pari a 150, poiché (0,5 x 100) + (0,5 x 200). Questo significa che un consumatore, che non saprà individuare la qualità di un’auto, sarà disposto a pagare più del suo valore un’auto di bassa qualità, mentre non sarà disposto a pagare l’intero prezzo di un’auto di alta qualità. In una tale situazione le auto bidoni spiazzeranno le auto di elevata qualità, di conseguenza in un tale mercato gli acquirenti saranno disposti ad acquistare solo le auto di bassa qualità e non ci sarà mercato per le auto qualitativamente migliori. Se la qualità delle auto, invece, è conosciuta da entrambe le parti, i prezzi rifletteranno il vero valore delle macchine e le auto di qualità elevata saranno vendute ad un prezzo superiore rispetto a quelle di qualità minore. Una soluzione al problema dell’informazione asimmetrica consiste nel costringere il venditore a rivelare l’informazione che nasconde.Non tutti i mercati hanno informazioni asimmetriche,quando ci sono però si parla di mercato inefficiente.Nemmeno lo Stato può ridurre l’inefficienza perché spesso comporta costi proibitivi. L’efficienza è dovuta a un’esternalità che si genera poiché un’impresa non è in grado di beneficiare al massimo dei vantaggi derivanti dal miglioramento della qualità del suo prodotto. La qualità media del mercato cresce quindi quando un venditore fornisce un prodotto di qualità elevata per cui gli acquirenti sono disposti a pagare di più per tutti i prodotti.

Paragrafo 13.3: “Informazioni limitate sui prezzi”.

Se un negoziante aumenta il prezzo sopra il livello degli altri possono aprirsi due scenari. Innanzitutto, se tutti i consumatori sono in possesso di informazioni complete, il negoziante non venderà nulla, la sua curva di domanda sarà orizzontale al prezzo di mercato e non avrà potere di mercato. Secondariamente se i consumatori hanno informazioni limitate, il negoziante non perderà tutti i suoi clienti, affronterà una curva di domanda con pendenza negativa e godrà di un certo potere di mercato. Esistono diversi modelli, ad esempio: il modello trappola per turisti ed il modello turisti e gente del posto.  Il modello “trappola per turisti”. Si ipotizzi che un turista arriva in una cittadina piena di bancarelle, ognuna delle quali vende una stessa calamita. Prima che parta l’autobus, il turista decide di acquistare una calamita, tuttavia ha poco tempo, quindi decide di non tornare nella cittadina, di conseguenza non ha tempo di controllare i prezzi di ogni bancarella e non può utilizzare in futuro le informazioni ottenute. Se la maggioranza dei turisti è di questo tipo, si possono fare 4 ipotesi al fine di stabilire il prezzo delle calamite, esse sono: i.

Tutte le imprese hanno gli stessi costi e vendono un prodotto omogeneo;

ii.

I consumatori hanno tutti la stessa funzione di domanda;

iii.

Una guida turistica fornisce ad ogni consumatore informazioni sulla distribuzione generale del prezzi, senza indicare il prezzo particolare praticato da ogni impresa;

iv.

Il costo, c, che ogni turista deve sostenere per acquistare un’informazione aggiuntiva riflette il tempo e le spese del turista.

Supponiamo che il numero delle bancarelle sia fisso, n, se tutte le imprese fanno pagare il prezzo concorrenziale con informazione completa, pc, alla singola impresa conviene fissare un prezzo, p*, così che i turisti non si rechino in altre bancarelle, poiché il costo della ricerca porterebbe a pagare un prezzo superiore a p*.Infatti il turista non cambierà bancarella se p* è minore di pc+ i costi di ricerca . Formalmente si ha che: p* = pc + ε , dove ε (è un numero piccolo positivo) < c (costi di ricerca) . Il prezzo p* non è un equilibrio, perché se tutti fissano questo livello di prezzi, alla singola impresa conviene fissare un livello di prezzo, p** (dove formalmente si ha che: p** = pc + 2ε ), tuttavia neanche p** è un equilibrio, così via fino al prezzo di monopolio (pm). Il prezzo di monopolio è un prezzo di equilibrio solo se ci sono molti negozi, poiché i consumatori non cercano quello con basso prezzo, perché le loro possibilità di trovarlo sono scarse, di conseguenza c’è equilibrio con prezzo unico e questo è il prezzo di monopolio. Il monopolista come ricordiamo massimizza i profitti quando MR=MC . Al contrario, se ci sono pochi negozi ed alcuni negozianti riducono il prezzo di monopolio di un importo superiore a c, i consumatori possono decidere di effettuare l’acquisto nel negozio che ha un prezzo basso, così facendo anche se il negoziante guadagna meno per ogni vendita realizzata, i suoi profitti possono essere superiori grazie al maggior volume venduto, di conseguenza non c’è equilibrio con prezzo unico. Se i costi di ricerca sono nulli, i consumatori hanno informazioni complete, quindi l’unico equilibrio possibile è il prezzo di mercato.Ridurre i costi di ricerca non ha alcun effetto sull’equilibrio con prezzo unico se questi costi non si riducono a zero.Se non esiste equilibrio con prezzo unico ,l’unico equilibrio possibile per le imprese consiste nel far pagare prezzi diversi.Tuttavia in questo caso l’impresa che fa pagare meno ha incentivo ad aumentare il prezzo,quindi potrebbe non esserci un equilibrio con prezzi multipli.Infine se i consumatori hanno informazioni incomplete,il benessere può aumentare se sono presenti un numero limitato di imprese.  Il modello “turisti e gente del posto”. Si considera un mercato in cui tutte le imprese hanno medesimi costi, e dove ci sono due tipi di consumatori con costi di ricerca diversi. La gente del

posto rappresenta i consumatori informati con costi di ricerca nulli, al contrario i turisti sono i consumatori disinformati con costi di ricerca pari a c. La gente del posto acquista solo in negozi con prezzo bassi, quindi anche se i turisti non conoscono la distribuzione dei prezzi praticati dalle diverse imprese, il comportamento della gente del posto può spingere il mercato al prezzo concorrenziale (pc). Affinché il prezzo sia spinto al livello del costo marginale ci deve essere un numero cospicuo di consumatori informati. Questo modello si basa su 3 ipotesi: i.

Ci sono n imprese;

ii.

I consumatori totali sono L, la gente posto è αL, mentre i turisti sono (1 – α)L;

iii.

Ogni consumatore acquista un’unità del prodotto a condizione che il prezzo non sia superiore a pu.

Questo modello ha molti equilibri possibili come quello con prezzi concorrenziali,informazione completa e quello con due prezzi.Se ci sono molti consumatori informati, ad un’impresa non conviene aumentare il prezzo ad un livello superiore a pc. Dal grafico seguente si nota che la curva di domanda dell’impresa che devia è formata da quattro parti: la prima parte prevede che se il prezzo dell’impresa è superiore a pu le sue vendite sono nulle. La seconda parte prevede che se il prezzo si colloca fra pu e pc l’impresa venderà qu unità perché perde tutti i suoi clienti informati, formalmente si avrà che qu = (1 – α)qc. La terza parte prevede che se il suo prezzo è uguale al prezzo di mercato, le sue vendite sono pari a qc. Infine, la quarta parte prevede che se il prezzo è leggermente inferiore al prezzo di mercato, tutti i consumatori informati comprano presso di lui come del resto la sua quota di consumatori disinformati, quindi le vendite sono pari a q = αL + (1 – α)qc. Nel grafico si nota che l’impresa se ha una tale curva non è incentivata ad aumentare il prezzo, poiché le vendite saranno così basse, che il costo medio (qu) sarà minore al nuovo livello di prezzo (pu). Quindi se c’è un numero sufficiente di clienti informati, a tutti i consumatori viene fatto pagare il prezzo di equilibrio concorrenziale con informazione completa.

Se ci sono pochi consumatori informati, un’impresa può aumentare il prezzo senza perdere molti consumatori. Supponiamo che qa sia la quantità tale per cui il costo medio dell’impresa è uguale a

pu. Nel grafico seguente si nota che formalmente si avrà AC(qa) = pu. A un’impresa conviene deviare se qu = (1 – α)L/n = (1 – α)qc > qa, cioè: α < 1 – qa / qc. Nel grafico seguente l’impresa deviante ha un costo medio inferiore a pu, quindi se fa pagare pu realizza un profitto. Poiché l’impresa otterrebbe profitti nulli al livello pc, ha un incentivo ad aumentare il prezzo, pertanto se ci sono relativamente pochi consumatori informati (α è piccolo) conviene deviare e l’equilibrio con il prezzo concorrenziale viene violato. IL numero di consumatori informati necessario per produrre con prezzo unico dipende dalla forma della curva AC e dal punto massimo pu che i consumatori sono disposti a pagare. Però se tutte le imprese fanno pagare pu non può esserci equilibrio, infatti un’impresa può abbassare il prezzo a qualsiasi importo inferiore a pu e far sì che tutti i consumatori informati acquistino da lei. Questo comporta maggiori profitti, poiché le vendite aumentano ed il prezzo è alto quasi quanto pu.

È possibile vedere anche un equilibrio in caso di prezzi multipli, tuttavia non ci potrà essere con più di due prezzi. Si ipotizza che ci sia un equilibrio con tre prezzi con alcuni negozianti che fanno pagare p1 = pu; altri negozianti che fanno pagare p2 ,con pu > p2 > pc; infine altri negozianti fa pagare p3 = pc. I negozianti che fanno pagare p2 non realizzano vendite ai clienti informati, sfruttando il mercato dei clienti disinformati, di conseguenza se i negozianti aumentassero il prezzo non perderebbero clienti ed otterrebbero profitti maggiori. Pertanto l’equilibrio con tre prezzi potrà essere violato. Se c’è un equilibrio con due prezzi, le imprese con prezzo basso fanno pagare pc e quelle con prezzo alto pu. Tutti i clienti informati fanno acquisti nei negozi con prezzo basso, mentre quelli disinformati acquistano a caso; di conseguenza la quota di mercato dei negozianti con prezzo basso è maggiore della quota di consumatori informati. Tutte le imprese devono realizzare gli stessi profitti, altrimenti un’impresa avrebbe l’incentivo a cambiare la propria politica di fissazione del prezzo. Come si evince dal grafico seguente, i negozi con prezzo basso ottengono profitti nulli perché pc = AC(qc); quindi in condizione di equilibrio anche i negozianti con prezzo alto devono realizzare profitti nulli. Se, invece, ottengono profitti positivi nuove imprese entrano nel mercato come negozianti con prezzo alto oppure i negozi con prezzo basso iniziano a far pagare prezzi alti. Man mano che i negozianti con prezzo alto aumentano ognuno di essi vende

meno, poiché i consumatori disinformati si ripartiscono tra più negozi. Il numero dei negozianti con prezzo alto aumenta fino a quando sono ridotti a zero. In sintesi i negozianti con prezzo basso faranno pagare un prezzo uguale al loro costo marginale, mentre i negozianti con prezzo alto faranno pagare il prezzo che massimizza i loro profitti (anche se questi in equilibrio saranno pari a zero).

Paragrafo 13.4: “Fornire informazioni ai consumatori fa diminuire il prezzo”. Fornire ai clienti informazioni sui prezzi dovrebbe far scendere il prezzo medio osservato sul mercato, tuttavia, come evidenzia la trappola dei turisti, la riduzione dei costi di ricerca non ha effetto se tale costo rimane positivo. Esistono due tipi di modelli che mostrano come una maggiore informazione può far scendere i prezzi. Nel primo modello, man mano che il numero di consumatori informati cresce, la quota di mercato delle imprese con prezzo basso aumenta. Nel secondo modello, si mostra che se vengono fornite informazioni che consentono ai consumatori di stimare meglio i veri prezzi, quindi il prezzo medio può diminuire. In quest’ultimo modello i consumatori desiderano, sempre, acquistare nel negozio con il prezzo più basso, ma non sapendo quale sia raccolgono informazioni. Dato che i consumatori non conoscono esattamente i prezzi, un negoziante può aumentare il proprio prezzo senza perdere tutti i suoi clienti, di conseguenza la curva di domanda diventa meno elastica e tipica di situazioni con informazioni incomplete da parte dei consumatori. Man mano che i consumatori diventano meglio informati, la curva di domanda di un’impresa diventa più elastica. Capitolo 14: Brevetti e innovazione tecnologica I brevetti che danno all’inventore o al creatore di un nuovo prodotto il diritto esclusivo di vendita, hanno effetti sia desiderabili che indesiderabili. Il principale vantaggio è che concedendo la possibilità di ottenere profitti di monopolio, incoraggia una maggiore attività inventiva che altrimenti

potrebbe non essere sviluppata. Il principale svantaggio è che i nuovi prodotti possono essere venduti a prezzi troppo alti se non sono disponibili sostituti stretti. Paragrafo 14.1: “Brevetti, diritti d’autore e marchi di fabbrica”. La protezione della proprietà intellettuale fornisce incentivi alla creatività che è una fonte primaria per la crescita economica di un qualunque soggetto. Esiste una stretta correlazione fra il reddito di un Paese e la forza delle leggi che ne proteggono la proprietà intellettuale. La protezione a cui si è fatto riferimento può avvenire in tre modi: con i brevetti; con i diritti d’autore e con i marchi di fabbrica e si differenziano in base all’oggetto per il quale forniscono la protezione e in base alla durata.Un quarto diritto sulla proprietà è il segreto industriale o di fabbricazione,come la formula della Coca-Cola,in cui l’invenzione è protetta semplicemente perché è segreta.  Brevetti. I brevetti forniscono all’inventore, diritti esclusivi su un prodotto – processo nuovo. I nuovi prodotti includono i macchinari ed i prodotti industriali, invece i nuovi processi di produzione comprendono i processi chimici per il trattamento dei metalli o la produzione di farmaci o i processi meccanici ed elettronici per la realizzazione di prodotti. I brevetti possono essere anche applicati sulle migliorie ai prodotti, ai processi ed ai materiali. Per ottenere un brevetto, l’inventore deve: dimostrare che l’invenzione è utile, innovativa e sconosciuta(non si può brevettare una leggera modifica su un qualcosa già conosciuto); descrivere pubblicamente l’innovazione e fornire un modello funzionante. La prima legge statunitense sui brevetti fu del 1970 e voleva incoraggiare l’ingegno umano. Negli USA dal 1790 ad oggi sono stati concessi oltre 5 milioni di brevetti, i quali, sempre in questo contesto politico – geografico, tutelano le invenzioni per 20 anni a partire dalla data di deposito. In Italia esiste una differenza fra invenzione e miglioramento, poiché in caso di invenzione la tutela dura 20 anni, mentre in caso di miglioramento occorre distinguere tra utilità (con la quale si migliora tecnicamente un prodotto o un processo) e migliorie ornamentali (di gradevolezza estetica). Per i miglioramenti di utilità i brevetti durano 10 anni, mentre per le migliorie ornamentali i brevetti durano 15 anni.  Diritti d’autore. I diritti d’autore conferiscono al creatore, diritti esclusivi di produzione, pubblicazione o vendita di opere artistiche, drammatiche, letterarie o musicali. Quindi mentre i brevetti proteggono il know how (idee,dispositivi,metodi,ecc.),i diritti d’autore riguardano l’espressione artistica.Negli USA la legge sui diritti d’autore riguarda le opere originali dell’ingegno di carattere creativo, a condizione che esse utilizzino un supporto fisico o virtuale (ad esempio un libro, un sito internet, un giornale). Sempre in questo contesto politico – geografico, i diritti d’autore per le imprese hanno una durata di 95 anni, mentre per le persone hanno una durata di tutta la vita più ulteriori 70 anni (in Giappone, invece,durano per tutta la vita più ulteriori 50 anni). I diritti d’autore consentono delle eccezioni, ad esempio la Fair Use Doctrine permette ai singoli individui di fare copie per uso proprio di un breve brano tratto da un libro. I diritti d’autore internazionali sono accordi che estendono la tutela offerta ai cittadini di altri Paesi.  Marchi di fabbrica. I marchi id fabbrica sono costituiti da parole, simboli, o altri segni utilizzati per distinguere un bene o un servizio fornito da un’impresa da quelli forniti da altre imprese. I marchi di fabbrica non decadono dopo un periodo predeterminato, anche se è possibile che un’impresa possa perdere la tutela del proprio marchio, ad esempio se una parola viene utilizzata per indicare tutti i prodotti di un’industria, non distingue più una particolare marca e la protezione del marchio di fabbrica ha termine. Esempi di marchi di fabbrica che sono diventati nomi generici di un’industria sono: l’aspirina; l’ascensore; il nylon; il thermos,nutella ecc.

Un’importante distinzione tra brevetti e diritti d’autore è che questi ultimi tutelano la particolare espressione di un’idea, mentre i brevetti proteggono qualsiasi realizzazione concreta dell’idea stessa. I brevetti, quindi, assicurano maggiore esclusività e più potere di monopolio, tuttavia sono più difficili da ottenere. Paragrafo 14.2: “La necessità di incentivi alle invenzioni”. Molti economisti e politici ritengono che senza brevetti, o altri incentivi dello Stato, ci sarebbe troppo poca ricerca. Secondo Jones, Williams e Mansfield, il tasso di rendimento privato stimato per la R&S è molto inferiore rispetto al tasso di rendimento sociale; questo perché le invenzioni costituiscono nuove informazioni, le quali rappresentano un bene pubblico. Se alcuni consumatori possono ottenere delle informazioni senza incorrere in costi, chi produce le informazioni ha meno incentivo a farlo di quanto ne avrebbe se tutti dovessero pagare per averle. Di conseguenza se le imprese o gli inventori non possono beneficiare dei vantaggi pecuniari che derivano dalle loro attività di ricerca, non si impegneranno più in essa, e da ciò si avrebbe un danno per l’intera collettività, poiché la ricerca e le informazioni hanno un valore sociale. Senza un brevetto chiunque potrebbe usare le nuove informazioni e le imitazioni delle nuove invenzioni potrebbero essere vendute legalmente. Di conseguenza, senza brevetti i consumatori potrebbero acquistare nuove invenzioni a prezzi concorrenziali, ma al contempo, sarebbero prodotte poche invenzioni. Nel modo reale, la collettività, non offrendo la tutela garantita dai brevetti, tenta di ridurre il numero di determinati tipi di invenzioni, un esempio sono le slot machine. In molti casi, i concorrenti possono realizzare invenzioni (simili, ma non identici) traendo spunto da un brevetto altrui, riducendone il valore per l’inventore originario, poiché il concorrente si è assicurato una parte del surplus prodotto dall’inventore originario. Mansfield stima che i costi degli imitatori siano solo il 65% del costo sostenuto dagli inventori; in generale nel 70% dei casi 6 o più imprese sono in grado di imitare un prodotto. Il processo di imitazione può iniziare molto presto, infatti sui programmi di ricerca e sviluppo delle imprese manifatturiere sono già in possesso di alcuni dei rivali dopo soli 18 mesi dalla decisione di iniziare il programma stesso. Le limitazioni imposte dai brevetti, anche se possono essere aggirate, aumentano il costo dell’imitazione, o almeno ritardano il momento in cui gli imitatori entrano nel mercato. imponendo il sostenimento di costi ai potenziali imitatori, i brevetti possono dare potere di mercati a chi li detiene; inoltre i profitti di monopolio che ne derivano possono dare un incentivo ad essere i primi ad inventare un nuovo prodotto. Un inventore razionale si impegna in una ricerca costosa fino al punto in cui il rendimento marginale atteso dall’ulteriore attività di ricerca è uguale al suo costo marginale. Allo stesso tempo, se il suo rendimento privato è inferiore a quello della collettività, l’inventore disinveste nella ricerca. La diffusione di nuove idee è fonte di valore per la società, infatti quanto più velocemente una nuova idea viene messa in atto, tanto più velocemente la società trae beneficio; inoltre, un’idea può indurne altre. Le leggi sui brevetti di alcuni Paesi incoraggiano la divulgazione di nuove scoperte, prima di quelle di altri Paesi. Paragrafo 14.3: “Brevetti, premi, contratti di ricerca e joint venture”. La maggior parte degli incentivi all’attività inventiva si è concentrata sulla scelta del sistema brevettuale ottimale, tuttavia è opportuno anche considerare l’esistenza, di eventuali, alternative, come ad esempio: i premi; i contratti di ricerca sovvenzionati dallo Stato e le join venture. Supponiamo che ci sia un’industria costituita da imprese che fanno ricerca e con tali ipotesi: 1.Esistono un numero illimitato di imprese che potrebbero intraprendere un progetto ricerca ,quindi il numero di progetti intrapresi è n

di

2.Ogni impresa realizza il progetto pagando un costo marginale e medio costante m=1,quindi il costo totale dell’industria è C(n)=nm=n 3.La probabilità di successo r(n) è funzione crescente del numero di imprese n 4.L’attività di ricerca ha luogo nel periodo t=0 e la collettività ne beneficerà nei periodi successivi (t1,t2,ecc.),altrimenti la ricerca non prosegue se al tempo t0 non ci sono benefici 5.Se il valore attuale del beneficio potenziale per la collettività di un’invenzione è B=25,il beneficio sociale atteso derivante dall’avere n imprese che gareggiano per la scoperta è Br(n) La collettività dovrebbe scegliere il numero di imprese che gareggiano per realizzare nuove scoperte in modo da massimizzare il beneficio sociale netto atteso, cioè il beneficio sociale atteso meno il costo sociale [quindi si ha che Bsn = Br(n) – C(n)]. Si può notare che sia il beneficio sociale atteso, sia il costo sociale, crescono man mano che aumentano il numero di imprese impegnate nella ricerca. Tuttavia si nota che man mano che aumentano le imprese impegnate nella gara, la probabilità di successo si avvicina sempre più a 1 (certezza di successo), quindi l’aggiunta di altre imprese ha uno scarso atteso sui benefici attesi. Pertanto, come si può notare nel grafico seguente (figura a), i benefici sociali attesi all’inizio aumentano, ma successivamente si stabilizzano. La linea tratteggiata indica il beneficio sociale netto atteso, il quale è massimo con 8 imprese(in questo caso). Questo risultato si può anche guardare analizzando i costi marginali sociali ed i benefici marginali sociali, i quali, come si nota nel grafico seguente (figura b) sono uguali quando 8 imprese sono in gara. Il costo marginale relativo all’entrata in gara di una nuova impresa è costante (m = 1) ed è rappresentato sia dalla linea orizzontale nella figura b), che dalla pendenza della retta dei costi nella figura a).

In assenza di brevetti ed altri incentivi possono essere realizzate poche invenzioni, poiché una volta fatta una scoperta chiunque potrà copiarla, quindi il nuovo prodotto verrà venduto ad un prezzo concorrenziale, facendo realizzare profitti nulli all’inventore. Se gli inventori sostengono l’intero costo privato e sociale della ricerca (m = 1), ma non ottengono benefici economici privati dalle loro invenzioni, si ha un’esternalità, Di conseguenza, la soluzione che massimizza i profitti consiste nel non impegnarsi in alcuna attività di ricerca. Lo Stato può incoraggiare una maggiore ricerca sovvenzionandone i costi, concedendo ad esempio crediti di imposta. Mansfield, basandosi su uno studio su 25 grandi imprese, conclude che senza sovvenzione dello Stato queste imprese avrebbero finanziato solo tra il 3% ed il 20% della ricerca e sviluppo sull’energia che, invece, hanno svolto con il sostegno del governo. Lo Stato senza incorrere in alti rischi può indurre le imprese ad impegnarsi nella ricerca offrendo dei premi a quelle imprese che per prime scopriranno un nuovo prodotto. Così facendo se nessuna impresa effettua la scoperta, lo Stato non sosterrà alcun costo. Se lo stato stabilisce il premio in modo ottimale, per vincerlo entrerà in lizza il numero ottimale di imprese, infatti se il premio fosse troppo alto, si stimoleranno un numero maggiore di imprese ad entrare in gara. Il premio ottimale Un’impresa intraprende un progetto di ricerca nel tentativo di vincere un premio ,se le vincite attese sono almeno pari ai costi di ricerca.Il numero di imprese che gareggiano è determinato dall’entità del premio.La proababilità che almeno un’impresa realizzi una nuova scoperta è r(n).Se ciascuna delle n imprese ritiene di avere la stessa chance delle altre di vincere ,il profitto atesso diventa r(n)/ n moltiplicato per il premio. Un altro modo per evitare l’esternalità, a cui prima si è fatto riferimento, consiste nel ripartire il costo di sviluppo fra tutte le imprese, formando così una joint venture per la ricerca. Le imprese, tuttavia, possono temere che tale attività porti a procedimenti contro di loro per la violazione delle leggi antitrust, poiché potrebbero fissare il prezzo ad un livello di monopolio. Di conseguenza, politici ed economisti, ritengono che le leggi e le politiche antitrust dovrebbero essere modificate per incoraggiare le attività di R&S delle joint venture. Una joint venture permette di evitare la duplicazione dei progetti di ricerca, quindi i suoi costi possono essere inferiori a quelli sostenuti in condizioni di concorrenza. Tuttavia, se la joint venture non riesce a godere completamente dei benefici sociali attesi intraprende un’attività di ricerca inferiore a quella ottimale perché sostiene l’intero costo sociale. Le joint venture, solitamente, godono di una rendita inferiore all’intero valore sociale di un nuovo prodotto; inoltre, in un’industria in cui la ricerca può essere facilmente imitata dalle altre imprese che non facciano parte della join venture, quest’ultima otterrà una rendita pari ad una parte ridotta del valore sociale della scoperta, di conseguenza sarà improbabile che le joint venture facciano molte ricerche. I brevetti, concedendo diritti esclusivi a chi riesce a realizzare un’invenzione, favoriscono la ricerca, tuttavia, a differenza dei premi o dei contratti di ricerca statali, creano distorsioni dovute alla determinazione del prezzo di monopolio, quindi sono meno efficienti sia dei premi che dei contratti di ricerca. I brevetti, però, sono utilizzati perché solitamente lo Stato gode di informazioni limitate. Individuare il valore del brevetto, permette di capire se esso induce il numero ottimale di imprese a partecipare alla gara. Un’impresa che ottiene diritti esclusivi in base ad un brevetto si comporta da monopolista, in modo da massimizzare i profitti ponendo i ricavi marginali pari ai costi marginali. Un brevetto dà all’inventore il monopolio di un’idea per un periodo di tempo determinato, tale soggetto può realizzare direttamente il prodotto oppure può concederlo in licenza in cambio di un pagamento (royalty). Supponiamo. Come si nota nel grafico seguente, che un mercato sia originariamente concorrenziale e che tutte le imprese producano al costo marginale e al costo

totale medio costante pari a m. successivamente, qualcuno sviluppa un processo che consente al bene di essere prodotto ad un costo inferiore, m’. Se l’impresa che possiede il brevetto decide di vendere il prodotto è un’impresa dominante con costi bassi che fronteggia delle imprese marginali di tipo concorrenziale. Il prezzo più basso che l’impresa può fare pagare è m’, poiché ogni prezzo inferiore determinerebbe delle perdite; mentre il prezzo più alto è m, poiché qualsiasi prezzo più elevato consente alle imprese marginali di praticare un prezzo più basso. Supponiamo che per l’impresa dominante risulta ottimale praticare un prezzo leggermente inferiore a m, i profitti derivanti dall’invenzione sono la differenza tra il vecchio ed il nuovo costo moltiplicata per il numero di unità del prodotto venduto. Il risultato di questa equazione, quindi il profitto, viene definito royalty. Ora si suppone che l’impresa conceda in licenza ad altre imprese l’uso della nuova tecnologia, in tal caso l’impresa farà pagare una royalty per ogni unità di output prodotto dalle altre imprese. Per individuare la royalty che unitaria che massimizza i profitti dell’impresa, si deve capire il prezzo massimo che un produttore è disposto a pagare per una licenza. Nel grafico seguente, figura a), si esamina un’invenzione marginale che riduce leggermente il costo di produzione, in tal caso la royalty massima che un’impresa concorrenziale pagherà per una licenza è la differenza tra il prezzo concorrenziale ed il nuovo costo di produzione. Pertanto per le prime Q unità la royalty è pari alla differenza fra m e m’, quindi rispettivamente il costo concorrenziale ed il nuovo costo di produzione; al contrario se le unità vendute sono maggiori, cioè Q*, la royalty sarà pari a zero, poiché coincidono il costo concorrenziale ed il nuovo costo di produzione. La royalty che massimizza i profitti si ha nel punto in cui i ricavi marginali (dovuti alla vendita di un’ulteriore licenza) sono uguali ai costi marginali di una licenza,MR=MC, i quali sono nulli. Nel grafico seguente, figura b), si analizza il caso di un nuovo processo che determina una rilevante diminuzione dei costi, in tale situazione i ricavi marginali relativamente alla domanda derivata di licenze sono uguali a zero al livello Q questo porta ad affermare che il prezzo che massimizza i profitti si trova all’interno del prezzo massimo (m) ed il prezzo minimo (m’). Di conseguenza, la royalty percentuale (r = p – m’) è inferiore alla riduzione dei costi (m – m’), ma vengono vendute maggiori licenze (Q’ > Q).Quindi se l’inventore riesce a produrre in modo efficiente quanto le altre imprese,è indifferente tra vendere il prodotto o concederlo in licenza,dato che le imprese marginali limitano il suo monopolio in entrambi casi.Secondariamente l’inventore si appropria di tutti i vantaggi derivanti da scoperte di importanza marginale ,ma non si appropria di tutti questi vantaggi in caso di scoperte rilevanti:il beneficio dell’inventore è inferiore di quello sociale totale.Nel primo caso i consumatori continuando ad acquistare la stessa quantità agli stessi prezzi, quindi non sono influenzati dalla scoperta. Con scoperte rilevanti il prezzo scende e la quantità aumenta, quindi il surplus del consumatore sale.

Un’impresa concorrenziale ha maggior incentivo a inventare rispetto a un monopolio,quest’ultimo infatti ha maggior interesse a impedire l’entrata di nuovi concorrenti.Il tipo di impresa che ha maggior incentivo a inventare dipende se è possibile o meno ottenere il brevetto.Supponiamo che se un’impresa non inventa un nuovo processo allora nessun altra lo farà.Se all’inizio l’impresa è concorrenziale.è probabile che abbia un maggiore incentivo a inventare un nuovo processo che possa far sostenere meno costi di quanto ne avrebbe se fosse un monopolista.Questa affermazione si basa sull’intuizione di Arrow che sostiene che l’impresa concorrenziale ottiene profitti dal nuovo processo su più unità di quanto accada al monopolista.

 Mercato concorrenziale. Supponiamo che il nuovo processo non riduca i costi e che una quota di royalty sia divisa in tutte le imprese che realizzano il prodotto e consideriamo due strutture di mercato alternative.La prima monopolizza il mercato dei prodotti e limita l’entarta ,l’altro è un mercato concorrenziale.In questo secondo caso il prezzo concorrenziale prima dell’invenzione, come si nota nel grafico seguente, è pari a m, dopo l’invenzione sarà pari a m’ + r (in cui r è la royalty unitaria). Per un’innovazione marginale m’ + r = m, di conseguenza sia prima che dopo l’invenzione, il prezzo concorrenziale e la quantità, Q, sono gli stessi prima e dopo l’invenzione. Un monopolista invece pone MR=MC ,cosicchè il prezzo pm sia uguale ad m.Così il nuovo prezzo pm’ sarà uguale a m’e le quantità passeranno da Qm a Qm’.Dopo l’innovazione il monopolista ottiene profitti maggiori sulle unità di prodotto originali Qm e realizzerà un profitto sulle ulteriori unità Qm’-Qm.I profitti così aumentano,i costi originari che erano pari a mQm=Area A+B dopo la scoperta sono pari a m’Qm=Area B+E .Pertanto la variazione dei costi è (A+B)-(B+E)=A-E .I suoi ricavi aumentano dell’area che si trova sotto la curva dei MR tra Qm e Qm’,ossia D+E :così i profitti aumentano di un importo pari a (D+E)+(AE)=D+A. La percentuale ottima delle royalities per l’inventore che opera in un mercato concorrenziale , è pari a r = m – m’, di conseguenza l’inventore ottiene un profitto pari a rQ=(mm’)Q (graficamente aree A + D + F + G). Pertanto dati i minori profitti, il monopolista avrà un minore incentivo a investire in ricerca rispetto ad un’industria concorrenziale. L’industria concorrenziale, tuttavia, ha un beneficio minore rispetto a quello di cui gode la società, poiché il beneficio sociale complessivo sarà dato dall’area delimitata dalle rette m e m’ e dalla curva di domanda con output pari a Q’ (graficamente aree A + D + F + G + H). Capitolo 15: Le politiche pubbliche nei confronti delle imprese e dei mercati

Paragrafo 15.5: “Come rendere più concorrenziali i monopoli”. Nella maggior parte delle industrie monopolizzate le risorse non sono allocate in modo efficiente perché il prezzo di monopolio è superiore al costo marginale; tale distorsione viene usata per giustificare la regolamentazione di tutti i monopoli, tuttavia questo pensiero non tiene conto del perché un’impresa diventa monopolista. Esistono diversi casi in cui la regolamentazione non è positiva:  Le imprese, al fine di diventare monopolista, sono incentivate a sviluppare un nuovo prodotto, a fare una nuova scoperta o ad avere una tecnologia più efficiente rispetto a chiunque altro. Di conseguenza una regolamentazione che elimina tale incentivo, senza sostituirlo con altri, sarà dannosa;  Se un mercato è contendibile, così che l’entrata e l’uscita si possono verificare sena costi, la necessità di regolamentazione è nulla, perché le pressioni provenienti dal mercato eliminano il potere di monopolio  Il costo della regolamentazione può essere così alto, oppure i regolatori così inetti, da rendere la regolamentazione dannosa per la società. Nei casi in cui il monopolio non ha probabilità di essere eliminato dall’entrata di altre imprese ed in caso non funge da incentivo all’innovazione, invece, l’intervento del Governo può essere utile. Il problema del monopolio è presente nelle industrie in cui è efficiente che una sola impresa fornisca tutto l’output a causa dell’esistenza di economie di scala. Quando una singola impresa produce tutta la quantità richiesta dal mercato ad un costo inferiore rispetto a due o più imprese, si è in

presenza di un monopolio naturale. Il monopolio naturale non regolato è inefficiente, poiché pone il prezzo ad un livello troppo alto, al di sopra del costo marginale. La preoccupazione sulla determinazione dei prezzi nei monopoli naturali, fornisce una giustificazione per la regolamentazione di molti servizi pubblici. Esistono diversi sistemi di regolamentazione di tali monopoli: affidare la proprietà e la gestione diretta allo Stato; utilizzare sistemi di regolamentazione del prezzo; o utilizzare sistemi di regolamentazione del tasso di rendimento. Per molti servizi pubblici è possibile limitare il ruolo ella regolamentazione ai soli segmenti di filiera che presentano le caratteristiche di monopolio naturale liberalizzando gli altri sistemi che possono essere svolti a condizioni di mercato; questa è la scelta che la Commissione Europea ha effettuato nei principali servizi a rete energia, trasporti e telecomunicazioni. L’intervento pubblico non deve, necessariamente, assumere la forma della regolamentazione, ad esempio se un monopolio viene creato mediante la fusione di molte imprese, la reazione appropriata consiste nel ripristinare la concorrenza, anziché la regolamentazione. In generale, le leggi antitrust possono essere utilizzate per impedire comportamenti che riducono la concorrenza, mentre la regolamentazione può essere impiegata per controllare i monopoli naturali e promuovere i processi di liberalizzazione agendo in via complementare con la regolamentazione antitrust. Un metodo di regolamentazione del monopolio naturale consiste nella proprietà pubblica, la quale fisserà i prezzi così da massimizzare il benessere sociale, invece, dei profitti. Nonostante la proprietà pubblica dei servizi a rete sia comune negli USA, esistono poche evidenze empiriche secondo cui i monopoli pubblici si comportano in modo ottimale. Solitamente le imprese di proprietà pubblica dello Stato sono meno efficienti delle imprese di proprietà privata, infatti Williamson ha rilevato che i dirigenti hanno minori incentivi a massimizzare i profitti se l’impresa è di proprietà pubblica. Per la regolamentazione dei monopoli naturali si utilizzano, anche, metodi alternativi alla proprietà diretta, un esempio è l’offerta di concessione governativa (franchise bidding): un Governo vende il diritto a gestire un monopolio al miglior offerente, così facendo, il Governo estrae la rendita di monopolio. Come condizione per l’offerta il Governo può esigere che l’impresa operi in modo da aumentare il benessere collettivo oltre il livello di monopolio, ad esempio nel decidere a chi assegnare la concessione un ente statale potrebbe considerare non solo la tassa di concessione, che l’offerente si impegna a pagare, ma anche il prezzo che esso farà pagare ai consumatori. Se coloro che ottengono una concessione sono costretti a far pagare prezzi bassi, i profitti di monopolio vengono eliminati. In altre parole, invece di concedere la gestione del servizio al miglior offerente in cambio del pagamento di una quota fissa, che consente al governo di estrarre i profitti di monopolio attesi, la concessione viene assegnata all’impresa che si impegna a produrre nel modo migliore per i consumatori. Anche se può eliminare il profitto di monopolio l’offerta di concessione governativa non determina, necessariamente, un sistema di prezzi efficiente. L’efficienza richiede che un’impresa uguagli il prezzo al costo marginale, ma se l’impresa è un monopolista naturale a quel prezzo può realizzare delle perdite, di conseguenza, nessuna delle imprese partecipanti all’asta è disposta a fissare prezzi efficienti. Questo metodo, inoltre, non elimina la necessità di regolamentazione, infatti il governo può aver bisogno di verificare periodicamente che l’impresa vincitrice dell’asta tenga fede all’accordo e non aumenti i prezzi o riduca il servizio. Un’ulteriore, problema è che le condizioni economiche variano nel corso del tempo, quindi l’accordo iniziale può non essere desiderabile in futuro, pertanto, possono essere necessarie offerte ripetute e l’impresa già esistente può ottenere un vantaggio a causa dell’esperienza acquisita. Per superare queste incertezze è possibile separare l’attività di procurement dall’attività di regolamentazione, in altri termini, la tutela della stabilità delle condizioni economiche per il riconoscimento dei costi del servizio ai fini della determinazione delle tariffe è affidata ad un soggetto terzo, un’autorità indipendente. In questo modo, il governo o l’ente concedente, potrà limitarsi alla verifica periodica degli standard di qualità e del piano di investimenti concordato. Riordan e Sappington propongono una politica ottimale per massimizzare il benessere del consumatore nei casi in cui le imprese

potenziali possiedono informazioni imperfette sui costi di produzione. Essi consigliano di assegnare la concessione al produttore con i costi attesi più bassi, ma di consentire che i prezzi superino i costi marginali realizzati per incoraggiare offerte più concorrenziali. I governi, spesso, utilizzano il controllo dei prezzi, cioè pongono dei limiti ai prezzi che possono essere fissati dalle imprese, per tentare di controllare l’inflazione o per mantenere bassi i prezzi in una particolare industria. Per controllare i prezzi vengono impiegati diversi metodi. Alcuni Paesi utilizzano controlli diretti, imposte o sussidi che influiscono sui prezzi praticati dai monopoli. In quasi tutti i Paesi occidentali, enti appositi regolamentano i prezzi delle imposte monopolistiche, solitamente, una commissione incaricata della regolamentazione fissa, esplicitamente, il prezzo o approva il prezzo proposto dal monopolista. La regolamentazione dei prezzi in un monopolio ha effetti di efficienza e redistribuzione. Una piccola riduzione dei prezzi del monopolista fa salire notevolmente la quantità venduta ed accresce l’efficienza; un’eccessiva riduzione dei prezzi, invece, crea una mancanza di prodotto e fa diminuire la quantità venduta. La riduzione dei prezzi determina la ridistribuzione della ricchezza dal monopolista ai consumatore, e questo spiega l’ostilità delle imprese monopoliste verso la regolamentazione, mentre i consumatori sono favorevoli. Il grafico seguente mostra le curve di domanda e dei ricavi marginali relativa ad un monopolista con costi marginali crescenti. In assenza di regolamentazione, il monopolista fa pagare il prezzo pm e vende Qm unità di output, che sono determinate dall’intersezione della curva dei ricavi marginali e di quella dei costi marginali. La perdita secca(DWL) per la collettività è rappresentata dal triangolo ombreggiato sotto la curva di domanda, sopra la curva dei costi marginali e a destra della quantità Qm. I consumatori sono disposti ad acquistare una quantità maggiore, Qc, ad un prezzo pari al costo marginale di produzione, pc. In altre parole, l’inefficienza del monopolio è dovuta alla fissazione del prezzo sopra il costo marginale ed alla limitazione dell’output sotto il livello della quantità concorrenziale. Se l’autorità di regolamentazione pone un nuovo livello di prezzo pari al prezzo concorrenziale (p’ = pc) la perdita secca viene eliminata, non potendo più praticare un prezzo superiore a pc, il monopolista ha in pc, una curva di domanda, Dr, che è orizzontale fino a quando interseca la curva di domanda originaria in Qc, ed in seguito ha pendenza negativa. La curva dei ricavi marginali del monopolista regolamentato, MR, è orizzontale e uguale alla nuova curva di domanda, nel tratto in cui quest’ultima è orizzontale. Dove la curva di domanda ha pendenza negativa, anche la curva dei ricavi marginali ha pendenza negativa. In effetti, in questo tratto della curva di domanda, la curva dei ricavi marginali è la stessa che si ha in caso di mancanza di regolamentazione, come indicato dalla linea più spessa del grafico seguente. Il monopolista regolamentato pone il ricavo marginale uguale al costo marginale per stabilire il prezzo ottimale. Per effetto della regolamentazione, il ricavo marginale è uguale al costo marginale, in Qc anziché in Qm, come si avrebbe nel caso di assenza di regolamentazione.

Regolamentazione efficiente dei prezzi In sintesi se p’ è pari a pc, si ottiene la soluzione efficiente e si elimina la perdita secca, poiché il prezzo è uguale al costo marginale. la regolamentazione non è desiderabile o attuabile, se non sono soddisfatte due condizioni: il monopolista deve realizzare profitti positivi ed il costo di gestione della regolamentazione deve essere inferiore al guadagno della collettività. Regolamentazione inefficiente dei prezzi Spesso le autorità di regolamentazione hanno difficoltà a fissare p’ pari a pc, quindi nell’intento di fissare tale uguaglianza, si potrebbe fissare p’ ad un livello troppo alto o troppo basso. Se la commissione sceglie un valore di p’ compreso tra pm e pc, il monopolista vende a quel prezzo, i consumatori conseguono un benessere maggiore che in caso di assenza di regolamentazione, poiché acquistano una quantità maggiore di unità di prodotto ad un prezzo più basso; il loro benessere aumenta però se p’ viene ridotto a pc. Se viene fissato un prezzo troppo basso, la regolamentazione introduce un nuovo problema, poiché farà chiudere l’impresa ed i consumatori non possono acquistare nulla. Il grafico seguente prevede che la curva di domanda e la curva dei costi marginali sono le stesse del grafico precedente, tuttavia p’ viene posto ad un livello inferiore a pc. La nuova curva di domanda del monopolista è orizzontale in p’ e in seguito ha pendenza negativa. Nel tratto in cui la curva di domanda è orizzontale, la curva dei ricavi marginali è orizzontale e coincide con quella di domanda. Il monopolista massimizza i suoi profitti se fa pagare il prezzo p’ e vende la quantità Q. I consumatori vogliono acquistare Qh (> Q) unità di prodotto a questo prezzo, tuttavia, i consumatori fortunati ad acquistare a questo prezzo dipendono da come il monopolista ripartisce l’output. Alcuni consumatori hanno un benessere maggiore rispetto al caso di assenza della regolamentazione, perché acquistano il prodotto ad un prezzo molto basso, altri però hanno un benessere minore perché non riescono ad acquistare nulla. Come si capisce dal

grafico seguente, la regolamentazione genera una maggiore perdita secca di benessere. La perdita secca dovuta ai prezzi di monopolio non regolamentati è data dall’area A, mentre la perdita secca complessiva dovuta a questa forma di regolamentazione consiste nell’area A + nell’area B (parte scura del grafico).

Regolamentazione dei prezzi in un monopolio naturale Un’impresa opera in monopolio naturale se può produrre la quantità di mercato, Q, ad un costo inferiore a quello di due o più imprese che operano separatamente. Un monopolio naturale spesso presenta costi medi decrescenti e costi marginali costanti o crescenti nella regione di output in cui opera. Se il monopolio naturale non è regolamentato, l’impresa fa pagare il prezzo, pm, e vende la quantità, Qm, e realizza profitti elevati. Se la commissione regolatrice pone p’ = pa, il prezzo determinato dall’intersezione della curva dei costi medi con la curva di domanda, il monopolista vende Qa unità di prodotto e non realizza alcun profitto. I consumatori beneficiano di tale regolamentazione perché acquistano una maggiore quantità ad un prezzo più basso; questa soluzione, tuttavia, è l’unica che consente di determinare un prezzo di equilibrio tale da massimizzare il sovrappiù del consumatore senza determinare delle perdite all’azienda regolamentata (soluzione second best). Le autorità di regolamentazione possono tentare di porre p’ = pa, perché sanno che se fissano un valore più basso di p’ il monopolista smetterà di operare. Nonostante ciò, fissare p’ = pc porta alla determinazione di un prezzo inefficiente, poiché pa è superiore al costo marginale. Il consumatore paga più di quanto costi produrre l’ultima unità di output. La soluzione efficiente consiste nel porre p = p* = MC e vendere Q* unità di output. Se p = p* il prezzo è inferiore al costo totale medio, quindi il monopolista registra delle perdite, uguali all’area A + all’area B, quindi il monopolista preferirà chiudere piuttosto che subire delle perdite. La collettività potrebbe far funzionare il monopolio al livello p* sovvenzionandolo con un importo

uguale al profitto perduto, A + B; con p = p* il surplus del consumatore C + A, meno le perdite dell’impresa A + B, è uguale all’area C – B. Se il monopolista viene sovvenzionato utilizzando il gettito fiscale raccolto in modo efficiente, la collettività gode di un maggiore benessere perché il prezzo pari al costo marginale.

Sostenibilità dei monopoli naturali Un monopolio naturale può essere soggetto all’entrata di nuove imprese attirate dalla ricerca di profitti. Anche se per un’impresa è più efficiente produrre l’intero output dell’industria, essa può non essere in grado di impedire contemporaneamente: l’entrata; soddisfare la domanda; e coprire i costi. Un monopolio naturale che riesce ad impedire l’entrata si definisce sostenibile. Il monopolio naturale di un singolo prodotto è sostenibile a qualsiasi livello di output, solo se esistono economie di scala a tutti i livelli di output. In altre parole, un monopolio naturale con rendimenti di scala crescenti che ha una curva decrescente dei costi tali medi, non è minacciato dall’entrata di altre imprese; un monopolista naturale con una curva di costi medi di lungo periodo a forma di U, invece, è soggetto alla possibile entrata di nuove imprese. Nel grafico seguente si considera un monopolista con una funzione dei costi medi a forma di U; in questo grafico la curva di domanda interseca la curva dei costi medi ad un prezzo pari a 1,10 dove sono prodotte 110 unità di output. Supponiamo che il monopolio sia regolamentato per produrre a quel prezzo, in modo tale che non realizzi alcun profitto. Questo tipo di regolamentazione è inefficiente, quindi la collettività ha un benessere minore rispetto a quello che avrebbe con una regolamentazione di tipo first – best (con prezzi pari ai costi marginali). Un’altra impresa con la stessa funzione di costo del monopolista può entrare profittevolmente nel mercato, infatti può produrre 100 unità e far pagare un prezzo compreso tra 1 e 1,10. Questa entrata evidenzia come l’equilibrio originario regolamentato non è

sostenibile, infatti se, invece, la curva della domanda si intersecasse con al curva dei costi medi nel suo punto minimo, o a sinistra di esso, il monopolio sarà sostenibile

I regolatori possono risolvere il problema della sostenibilità impedendo l’entrata e quindi proteggendo il monopolio naturale. L’entrata, però, può essere desiderabile, soprattutto se l’impresa entra tante è più efficiente del monopolista, che operando in un mercato protetto può diventare negligente.

Riassunti a cura di Dario Di Francesca