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PSICOLOGIA DELLA DISABILITÀ E DEI DISTURBI DELLO SVILUPPO Elementi di riabilitazione e di intervento Zanobini, Carmen Usai CAPITOLO 1 DISABILITÀ: DEFINIZIONE, DIAGNOSI, INTERVENTO 1.1 Disabilità: l’evoluzione delle definizioni Per inquadrare storicamente l’evoluzione del lessico utilizzato in questo campo, ci sembra utile partire dalla distinzione proposta dall’Oms negli anni ’80 fra i 3 concetti alla base della prima Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap: Menomazione Disabilità Handicap (impairment) (disability) È qualsiasi perdita o anomalia È la riduzione parziale o totale della capacità di È una condizione di svantaggio a carico di strutture o funzioni svolgere un’attività nei tempi e nei modi risultante da un danno o da una psicologiche, fisiologiche o considerati come normali. Può essere disabilità, che limita o impedisce anatomiche. Può avere transitoria o permanente, reversibile o lo svolgimento di un ruolo. È una carattere permanente o irreversibile, progressiva o regressiva. Inoltre condizione soggetta a possibili transitorio. può essere conseguenza diretta di una cambiamenti migliorativi o menomazione o una reazione psicologica a una peggiorativi. menomazione fisica, sensoriale o di altro tipo. Già da questa prima definizione emergeva l’esigenza di considerare l’handicap un fenomeno sociale, in quanto definisce le conseguenze sociali e ambientali che hanno per origine le menomazioni e disabilità di un individuo di fronte alle esigenze e attese dell’ambiente. In questa prima fase sembrava soprattutto importante affermare alcuni principi, utili a superare pregiudizi e luoghi comuni: 1. la persona disabile non doveva essere identificata con i suoi problemi : da qui la scelta di usare l’espressione “portatore di handicap”. 2. l’handicap non andava confuso con la malattia. 3. l’handicap non era confuso con la più generica condizione di svantaggio socio-culturale . Emergeva la doppia connotazione, biologica e sociale, dell’handicap. In questa prospettiva, la disabilità si traduce in handicap in relazione alle barriere che la persona incontra nella sua vita quotidiana. Si parla dunque di: barriere di tipo fisico: che hanno a che fare con l’impatto che la disabilità ha sull’individuo e sulle persone che lo circondano. barriere psicologiche: le risposte delle singole persone coinvolte. barriere sociali: contesto socio-culturale di appartenenza e le condizioni generali di vita, in termini di qualità e di benessere. Eventuali barriere sociali concorrono a determinare esiti diversi in situazione di partenza potenzialmente identiche. Già negli anni ’80 si sottolineava come nel determinare l’entità e la gravità di una disabilità intervengano fattori che non sono desumibili direttamente dal tipo e dalla gravità della menomazione di partenza, ma dall’insieme di elementi personali e contestuali che gravitano intorno alla persona disabile. Tuttavia, il modello proposto nel 1981 presenta alcuni limiti: si tratta di un modello lineare, che rimanda a rapporti unidirezionali di causa-effetto tra evento morboso o traumatico, menomazione, disabilità e handicap. Nell’ICIDH la disabilità era considerata il risultato diretto di una menomazione che interessa un organo o una parte del corpo e l’handicap era il risultato diretto della disabilità. Evento morboso
Menomazione
Disabilità
Handicap
Inoltre, negli anni più recenti, si è acuita la consapevolezza dell’inadeguatezza del termine handicap, sia per la sua genericità, ma soprattutto per la connotazione negativa implicita nella sua etimologia.
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Nelle classificazioni dell’Oms attualmente in uso (ICF e ICF-CY), il riferimento principale non è più alle menomazioni e alle disabilità, ma alle funzioni/strutture corporee e alle attività. Si tende ad usare il termine disabilità, inteso non in senso globale, a connotare una categoria di disturbo né tanto meno una persona nel suo insieme, ma come reciproco del termine funzionamento. Riportiamo di seguito le componenti dell’Icf e le rispettive definizioni che hanno soppiantato le dimensioni precedenti: Funzioni corporee Sono le funzioni fisiologiche o psicologiche dei sistemi corporei.
Strutture corporee Sono le parti anatomich e dl corpo.
Menomazioni
Attività
Sono problemi nelle funzioni o nelle strutture del corpo.
È l’esecuzio ne di un compito o di un’azione da parte di un individuo.
Limitazioni dell’attività Sono le difficoltà che un individuo può incontrare nello svolgimento di un’attività.
Partecipazione È il coinvolgimento dell’individuo nelle situazioni di vita.
Restrizioni della partecipazione Sono i problemi che un individuo può avere nel tipo o nel grado di coinvolgimento nelle situazioni di vita.
Fattori ambientali Sono gli atteggia matte, l’ambiente fisico e sociale in cui le persone vivono.
Analizziamo i principali elementi di discontinuità delle nuove definizioni rispetto a quelle precedenti: L’Icf ha un’applicazione universale : la classificazione si riferisce a tutti gli aspetti della salute dell’uomo, di tutte le persone non solo quelle con disabilità. Le diverse dimensioni sono considerate nella loro interazione reciproca : c’è una visione dinamica delle interazioni tra dimensioni diverse. Il contesto interagisce a tutti i livelli: non solo nel determinare i problemi di partecipazione alla vita sociale. Condizione di salute (disturbo o malattia)
Funzione e struttura
Attività
Fattori ambientali
Partecipazione
Fattori personali
1.2 Disabilità: il problema della diagnosi Il modello medico è stato definitivamente soppiantato. Da un lato si è consolidata l’idea che la disabilità costituisca una fenomeno biopsicosociale; dall’altro, soprattutto per le menomazioni che insorgono in età precoce e per i cosiddetti disturbi dello sviluppo, si riconosce l’influenza dinamica del contesto nella definizione stessa della disabilità e nella sua evoluzione. Fare diagnosi nel campo della disabilità è dunque diverso dal diagnosticare una malattia. Da tempo è diventato uso comune riferirsi a un approccio diagnostico con i termini: diagnosi funzionale, valutazione funzionale e, in ambito didattico, profilo didattico funzionale. Pesci afferma che l’attributo funzionale indica che tale tipo di diagnosi deve evidenziare quei fattori che nel passato hanno favorito l’acquisizione di competenze sul piano cognitivo e sociale, interpretando quindi la situazione attuale del soggetto in funzione della sua storia. Successivamente, tale attributo ha assunto principalmente un valore prospettico: per diagnosi funzionale si intende oggi una valutazione che descriva il funzionamento dell’individuo sia in termini di limitazioni sia di potenzialità e punti di forza e che sia utile predisporre un piano di intervento. Le principali caratteristiche della diagnosi funzionale sono: è uno strumento interdisciplinare e non solo medico; esula da definizioni generali, descrive una situazione in un contesto, è dinamica, soggetta a modifiche periodiche,
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parte dall’esigenza di dare risposte ai bisogni, mette in luce le aree di potenzialità e non solo i danni, suggerisce le modalità e le tecniche di intervento.
In Italia, l’idea che una diagnosi efficace della situazione di disabilità debba essere collegata al tipo di intervento, si è tradotta in precise disposizioni nella legislazione scolastica per arrivare, all’interno della Legge Quadro sull’handicap (1992) a essere inserita come anello ineliminabile per una corretta integrazione dell’individuo. La formulazione della diagnosi funzionale avviene a partire da una diagnosi medica (certificazione dell’handicap), che costituisce l’avvio del processo legislativo e operativo di integrazione nelle strutture educative e di accesso ai servizi e ai supporti previsti. A partire da tali disposizioni, sono stati formulati diversi modelli per tradurre operativamente le indicazioni legislative. Sintetizzando quanto riportato da Ianes, alla formulazione della diagnosi funzionale concorrono: elementi clinici (visite mediche e relativa documentazione), elementi psico-sociali (dati anagrafici e caratteristiche del nucleo famigliare), descrizione delle difficoltà e potenzialità relative alle diverse aree di sviluppo, scheda riepilogativa che contiene: diagnosi, eziologia, conseguenze funzionali, previsione dell’evoluzione naturale, formulazione sintetica delle principali difficoltà e delle potenzialità, descrizione delle stesse su una tabella a 3 colonne (aree, potenzialità, difficoltà). 1.2.1 Diagnosi funzionale e Icf L’entrata in vigore del nuovo sistema internazionale di classificazione, ICF, impone una revisione e un aggiornamento dei modelli. Da un lato il processo diventa più complesso e articolato perché l’Icf esplicita meglio rispetto alle precedenti definizioni le dimensioni che concorrono a delineare il profilo globale della persona. In questa prospettiva la diagnosi funzionali deve fornire informazioni su: condizioni fisiche/di salute; funzioni corporee; strutture corporee; attività personali; partecipazione sociale; fattori contestuali ambientali; fattori contestuali personali. Condizioni di salute Vengono classificate con l’Icd-10 che costituisce il modello di riferimento eziologico, che consente di diagnosticare una certa malattia o disturbo. L’Icf invece classifica il funzionamento e la disabilità associati alla condizione di salute e consente quindi di arricchire la diagnosi di partenza. L’Icf organizza le informazioni in: Funzionamento e disabilità Fattori contestuali Strutture e Attività e partecipazione Fattori Fattori funzioni corporee ambientali personali Sono definibili Comprendono le stesse aree attraverso le quali si Estensione delle come sistemi concretizza il funzionamento dell’individuo nella vita barriere (aspetto corporei e non quotidiana. Riguardano l’apprendimento e negativo) e/o dei sono identificabili applicazione delle conoscenze, la mobilità, la vita facilitatori (aspetto strettamente come sociale, civile e di comunità. Si distingue tra positivo). organi. performance (descrive quello che l’individuo fa nel suo ambiente attuale) e capacità (descrive l’abilità di una persona nell’eseguire un compito e un’azione e focalizza l’attenzione sulle limitazioni che costituiscono caratteristiche intrinseche alla persona). Ogni componente può essere espressa in termini positivi o negativi e comprende una serie di domini e categorie organizzati gerarchicamente. Ai fini di esprimere una valutazione, per ciascun dominio vanno applicati dei qualificatori che servono a esprimere l’estensione o la qualità di un livello di salute o di una condizione problematica. Si utilizza un sistema alfanumerico, con lettere che corrispondono alle componenti e i numeri che si riferiscono a ciascun dominio e alle categorie sottostanti. La versione italiana della checklist Icf è composta da più parti: 1. una sezione introduttiva che contiene le informazioni anagrafiche, la diagnosi medica accompagnata dal codice Icd-10 e le fonti da cui sono tratte le informazioni; 2. la prima parte, che contiene i codici relativi alle funzioni e alle strutture corporee;
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la seconda parte, che contiene i codici selezionati per attività e partecipazione; la terza parte, che contiene i codici relativi ai fattori ambientali; uno spazio aperto per descrivere i fattori personali che sono parte integrante della descrizione del contesto ma non prevedono una vera e propria codificazione.
L’applicazione di tali checklist presenta tuttavia alcuni limiti: Innanzitutto, porre in stretto collegamento il funzionamento e lo stato di salute degli individui rischia di accomunare la disabilità alla malattia. Inoltre, il linguaggio delle checklist appare talvolta un po’ contorto e le classificazioni poco chiare. Un primo passo per il superamento di tali limiti può consistere nel tentativo di tradurre operativamente le indicazioni dell’Icf: il testo di Ianes si propone di descrivere le diverse aree dell’Icf. 1.2.2 Diagnosi funzionale e diagnosi di sviluppo Utile ai fini di una diagnosi funzionale in età evolutiva risulta la diagnosi di sviluppo: essa consiste in una valutazione sistematica delle caratteristiche della persona e della loro reciproca integrazione, con l’obiettivo di descrivere la situazione attuale e valutare il potenziale evolutivo. La diagnosi di sviluppo si propone di descrivere aree di stabilità e di cambiamento e di identificare gli strumenti adatti a valutare diverse caratteristiche e attitudini individuali lungo tutto il corso della vita. Attraverso tali strumenti è possibile effettuare uno screening sulle abilità di base per individuare indicatori di rischio per lo sviluppo successivo; definire il livello di sviluppo individuare in una certa area; oppure descrivere un profilo evolutivo o esprimere un giudizio clinico, con riferimento a una diagnosi di disturbo dello sviluppo. Occorre tener presente che in molti casi un’estrema variabilità individuale rappresenta la norma e che il mancato conseguimento di determinate abilità non è per forza segno di uno sviluppo deficitario. Alcuni autori tendono a integrare la diagnosi di sviluppo facendo riferimento al comportamento adattivo, cioè alle abilità richieste dai diversi ambienti di vita e di relazione per un soddisfacente adattamento: il criterio di riferimento è allora quel complesso di competenze indispensabili all’interno dei diversi contesti, con particolare attenzione al raggiungimento di una sufficiente autonomia personale e sociale e di un adattamento funzionale a migliorare la qualità della vita. Tuttavia, considerare la disabilità come un processo evolutivo permette di comprendere l’influenza che lo sviluppo stesso ha sull’esito del disturbo e di impostare un intervento più precocemente possibile ai fini di prevenire o ridurre la disabilità. L’ICF-CY nasce con l’intento di documentare e descrivere con un linguaggio internazionale le limitazioni e il funzionamento in età evolutiva. L’adattamento dell’Icf all’età evolutiva parte dalla considerazione che le manifestazioni del funzionamento, della disabilità e delle condizioni di salute nell’infanzia e nell’adolescenza hanno natura, impatto, intensità e conseguenze diversi da quelle degli adulti. L’Icf-cy contestualizza lo sviluppo del bambino nel contesto familiare; integra i qualificatori dell’Icf ricorrendo al concetto di ritardo o sfasamento nella comparsa delle funzioni, nell’esecuzione di attività ecc., mettendo l’accento sulla natura dinamica e in fieri dei cambiamenti. L’Icf-cy si propone come riassunto dei risultati dell’assessment e vuole essere la base della pianificazione degli interventi. 1.3 Disabilità: il problema dell’intervento
Intervento medico È necessario nei casi in cui sia possibile prevenire un’estensione della menomazione iniziale o la formazione di danni secondari.
Le specifiche situazioni possono richiedere interventi in vari ambiti: Intervento psicologico Intervento educativo Intervento sociale È premessa indispensabile Le istituzioni educative È indispensabile per un legame forte tra il assolvono funzioni per eliminare le momento diagnostico, imprescindibili nel barriere di varia progettazione, intervento campo della natura che e verifiche. Le barriere socializzazione, ostacolano il psicologiche possono dell’acquisizione dei godimento di tutti ostacolare un pieno comportamenti i diritti umani e utilizzo delle potenzialità adattiva, delle libertà presenti. dell’apprendimento. fondamentali.
Intervento riabilitativo Ha la funzione di attivare o migliorare funzioni e/o competenze in modo da consentire all’individuo di utilizzare al meglio le proprie potenzialità all’interno di un contesto sociale il più ampio possibile.
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Evidenziamo gli elementi indispensabili per qualsiasi progetto in questo campo: 1) la storicità: un intervento deve essere strettamente collegato alla diagnosi e tener conto di eventuali percorsi riabilitativi, educativi e terapeutici; 2) la globalità: la presa in carico coinvolge sempre sia il versante affettivo sia quello cognitivo, anche se l’obiettivo principale può riguardare più da vicino l’uno o l’altro aspetto; 3) la partecipazione attiva del bambino e della famiglia al progetto ; 4) la finalità principale è migliorare la qualità della vita : in una prospettiva che ritenga potenzialmente evolutivo tutto l’arco della vita. A tal scopo il punto di partenza è costituito da un bilancio dei deficit e delle potenzialità, ma anche da un’analisi psicologica dei bisogni della persona e da una valutazione delle risorse presenti nel contesto. Gli indicatori di tale costrutto sono culturalmente determinati e riguardano diversi fattori: l’indipendenza, la partecipazione sociale, il benessere a livello emotivo, fisico e materiale. 5) la programmazione puntuale: perché un intervento sia efficace è importante che esso si ispiri a un modello teorico scientificamente fondato sulla base del quale stabilire obiettivi a lungo e a breve termine realisticamente raggiungibili, metodologie e strumenti di lavoro adeguati e modalità di verifica dei risultati raggiunti.
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CAPITOLO 2 DISABILITÀ UDITIVA Con il termine sordomuto ci si riferisce a persone che costituzionalmente non possono né sentire né accedere al linguaggio, confondendo la conseguenza con la causa. La legge 95/2006 ha sostituito il termine sordomuto con sordo: si utilizza sordo perlinguale per indicare una condizione che, insorgendo prima della padronanza del linguaggio parlato, ne compromette l’acquisizione. L’apprendimento del linguaggio non deve essere considerato impossibile, ma soltanto difficoltoso e quindi può realizzarsi, grazie a una corretta protesizzazione e a percorsi abilitativi precoci. La parola sordo dunque fa più correttamente riferimento al solo deficit uditivo, sottendendo quindi l’idea che chi non sente non ha per questo perduto la facoltà di apprendere una lingua, anche se l’accesso alla parola è ostacolato dalla limitazione sensoriale. Tuttavia tale termine ha il limite di non sottolineare che il deficit uditivo è molto raramente totale e che dalla qualità e qualità dei residui uditivi conseguono quadri deficitari estremamente differenziati. Molti ricercatori preferiscono dunque parlare di audiolesi o ipoacusici, cioè di persone che, pur compromesse talvolta gravemente nell’accesso al mondo dei suoni, conservano tuttavia anche in quest’ambito potenzialità e risorse. Molti sono i fattori che determinano la variabilità evidenziabile tra persone con deficit uditivo: la causa della sordità, la qualità e il grado della perdita uditiva, l’eventuale presenza di altri danni associati, l’appartenenza a famiglie di sordi o di udenti, l’estensione dell’esperienza interpersonale, linguistica e non, la qualità e il tipo di educazione, la qualità dell’utilizzo di apparecchi acustici o impianti cocleari. 2.2 Tipo di sordità e cause Una corretta e precoce diagnosi eziopatogenetica è il primo passo di un approccio efficace al problema nel suo complesso. Una prima fondamentale suddivisione dei tipi di sordità riguarda la localizzazione del danno che comporta la conseguente perdita uditiva, perciò si distinguono: Sordità trasmissive
Sordità percettive
Sordità miste
Interessano le parti dell’apparato uditivo deputate alla trasmissione del suono: le onde sonore non arrivano o arrivano parzialmente distorte all’orecchio interno. Si tratta di solito di sordità lievi.
Suddivise in: neurosensoriali: quando l’anomalia riguarda l’orecchio interno e le connessioni nervose ad esso prossime, centrali: quando l’anomali riguarda i centri uditivi del cervello e le connessioni distali del nervo acustico. La trasmissione delle onde sonore avviene normalmente, mentre è compromessa la trasformazione di tali vibrazioni in percezione uditiva. La perdita uditiva può essere da lieve a gravissima.
Si sommano anomalie nella conduzione e nella percezione del suono, poiché interessano sia zone periferiche che centrali dell’apparato uditivo.
Diversi esami clinici hanno la funzione di discriminare sordità di percezione e di trasmissione: l’impedenziometria: fornisce una serie di misure oggettive sul funzionamento dell’orecchio medio; metodi elettrofisiologici: registrano i potenziali uditivi suscitati da stimoli sonori lungo le vie uditive; l’audiometria soggettiva: si basa sulle risposte date dal paziente che quindi partecipa attivamente all’esame. Il tipo di audiogramma ottenuto dà informazioni sul tipo di sordità, soprattutto sulla gravità del deficit. Un’importante classificazione dei tipi di sordità è centrata sul fattore gravità della perdita uditiva. Tale gravità può essere definita in base alla quantità e alla qualità dei deficit; parametri di riferimento sono rispettivamente l’intensità e l’altezza dei suoni percepiti. L’intensità è data dall’ampiezza di pressione dell’onda sonora e si misura in decibel (dB); essa corrisponde alla sensazione soggettiva di sentire un suono più o meno forte. L’altezza è data dalla frequenza di tale pressione e si misura in Hert (Hz): l’orecchio umano non patologico percepisce frequenze comprese all’incirca tra 20 e 20.000 Hz.
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Infine, un’ulteriore modalità di classificazione può essere operata a partire dalla cause (sordità ereditarie e acquisite) e dall’epoca di insorgenza del deficit (prenatale, perinatale, postnatale): Ereditarie
Acquisite
Dominanti
Recessive
Prenatali
Neonatali
Postnatali
La sordità interessa molti individui in ogni generazione.
La sordità interessa uno scarso numero di individui distribuiti in varie generazioni. Si manifesta alla nascita.
Cause virali (es. rosolia), cause microbiche (es. sifilide), cause parassitarie (es. toxoplasmosi), cause tossiche (es. alcool).
Traumatismo ostetrico; prematurità; anossia; grave emolisi e secondario ittero neonatale.
Traumatismi; malattie infettive (es. meningite, encefalite); intossicazioni.
Si può manifestare in periodi successivi alla nascita. Tale forma è responsabile di sordità meno gravi.
Tale forma è responsabile di sordità molto gravi.
Attualmente riveste moltissima importanza la possibilità di effettuare una diagnosi precoce e corretta, in quanto negli ultimi decenni gli ausili che consentono anche a bambini con sordità profonda di accedere al mondo dei suoni hanno conosciuto una notevole evoluzione. I bambini con impianto sembrano mostrare maggiori vantaggi rispetto a quelli con apparecchi acustici, soprattutto nel padroneggiare gli aspetti fonologici e prosodici del linguaggio, con minori risultati nelle competenze sintattiche. Tali esiti tuttavia sono da collegare strettamente ai metodi utilizzati: i bambini che seguono un programma intensivo di comunicazione orale hanno maggiori vantaggi nella percezione uditiva e nell’intelligibilità dell’eloqui di quelli esposti a un metodo misto (linguaggio orale e lingua dei segni). 2.3 Lo sviluppo dei bambini sordi In questa parte si affronta il problema degli effetti della sordità sullo sviluppo dell’individuo, cercando di capire come la condizione deficitaria possa interagire con diverse variabili ambientali, in modo tale da sortire effetti anche molto differenziati in vari campi dello sviluppo. È importante per un operatore conoscere quali possono essere gli aspetti critici nello sviluppo, che come tali meritano particolari attenzioni, ma è altrettanto importante non impostare il proprio lavoro con limitazioni pregiudiziali, che spesso ostacolano anziché favorire lo sviluppo delle potenzialità. 2.3.1 Sviluppo affettivo e sociale Marschark evidenzia che le ricerche sulla capacità dei neonati di reagire selettivamente alla voce materna fin dai primi giorni di vita mostrano come tale competenza, assente nei bambini sordi, possa essere un fattore importante nello stabilirsi del legame di attaccamento. Tuttavia egli sottolinea come i bambini sordi possano sfruttare altre fonti di informazione (come l’odore), per identificare le figure famigliari. Un ulteriore ostacolo allo stabilirsi di un legame sicuro sarebbe costituito dalla percezione del bambino di una scarsa responsività materna. A questo proposito diversi autori sostengono che tali problematiche appaiono meno rilevanti per le diadi madre-bambino entrambi sordi, sia per la maggiore prevedibilità della disabilità, sia per l’instaurarsi di una precoce comunicazione attraverso il canale visivogestuale. Lederberg e Mobley hanno confrontato 41 coppie di madri udenti e bambini audiolesi con 41 coppie di madri e bambini udenti, misurando le interazioni in base a 3 parametri: qualità dell’attaccamento, quantità e qualità delle interazioni. Dai risultati emerge come, alla presenza di un bambino sordo, la quantità di interazione sia minore; in molti casi infatti i bambini non rispondono alle sollecitazioni materne in quanto impegnati a guardare gli oggetti e non sempre pronti a dividere l’attenzione tra questi e la fonte di comunicazione. A dispetto di tali difficoltà comunicative, la qualità della comunicazione sembra altrettanto positiva e reciproca in entrambi i tipi di diade ; inoltre non c’è tra bambini sordi e udenti differenza nella sicurezza del legame di attaccamento. Ciò sembra confermare l’importanza di un intervento precoce che, coinvolgendo la famiglia, funga da supporto e tenda a contenere le problematiche connesse alla scoperta della disabilità.
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Gli studi sulle tappe successive di sviluppo hanno messo in luce altre caratteristiche del comportamenti degli adulti che possono danneggiare la conquista dell’indipendenza e del senso di sicurezza. Fra queste, particolare importanza sembra avere la tendenza, soprattutto materna, a una maggiore intrusività e direttività. Alcune ricerche hanno tuttavia sottolineato anche il ruolo positivo dei comportamenti direttivi. I rischi maggiore in questa direzione sembrano quindi derivare da un’eccessiva generalizzazione nell’uso di tali comportamenti: se un maggior controllo si rende talvolta necessario, esso può tuttavia sfociare in iperprotezione, rendendo più difficoltosa l’acquisizione di abilità perfettamente alla portata del bambino. 2.3.2 Sviluppo cognitivo e della memoria Gli studi di Furth sull’acquisizione di concetti e sul raggiungimento delle capacità di conservazione hanno evidenziato un ritardo di sviluppo dei bambini con problemi di udito di 2-4 anni rispetto ai coetanei udenti. L’autore attribuisce tale ritardo alla povertà di esperienze e solo indirettamente al carente sviluppo linguistico, in quanto ostacolo a una varietà di interazioni sociali. Oléron, d’altra parte, afferma l’idea che un ritardo di sviluppo è quella che caratterizza la vita psichica del soggetto sordo; tale ritardo si manifesta soprattutto nel pensiero astratto ed è strettamente legato alle carenze dello sviluppo linguistico. Alcuni studi non hanno trovato differenze significative tra sordi e udenti; altri hanno riscontrato un ritardo in compiti di conservazione solo in bambini educati in scuole residenziali, con prevalenza di linguaggio gestuale; altri ancora hanno invece riscontrato ritardi in tali compiti in bambini coinvolti in programmi orali. In base ai risultati ottenuti nelle ricerche più recenti, gli autori concludono non solo che lo sviluppo intellettivo nel periodo operatorio è equivalente nei sordi e negli udenti, ma che in entrambi i gruppi si riscontra un’elevata variabilità intra e interindividuale nelle prestazioni alle prove di conservazione. Emergono dunque alcune considerazioni: l’estrema variabilità dei risultati ottenuti sembra essere almeno in parte connessa alle differenze ancora notevoli riscontrabili non solo nella competenza linguistica, ma anche nella generale qualità dell’esperienza educativa e nell’efficacia dei metodi riabilitativi utilizzati; il fatto che molte persone sorde raggiungano gradi elevati di istruzione e siano in grado di svolgere attività lavorative di alto livello, ci porta a concludere che il ritardo nell’acquisizione di certe competenze non possa essere attribuito alla condizione di sordità di per sé: il fatto tuttavia che ancora troppo spesso il deficit sensoriale sia collegato a difficoltà di apprendimento e a un basso rendimento scolastico ci porta a riflettere sull’inadeguatezza di alcuni interventi e sulla necessità di un confronto serio fra varie scuole per meglio evidenziare i motivi di successo e di insuccesso. Sempre nell’ambito dello sviluppo cognitivo e dell’apprendimento rivestono un notevole interesse gli studi sulla memoria. Marschark evidenzia come i risultati delle ricerche siano talvolta discordanti, sia nel valutare l’efficacia delle competenze mnemoniche rispetto agli udenti, sia nell’attribuire ai sordi una preferenza per codici visivo-spaziali versus codici verbali-sequenziali e attribuisce tali discordanze alla grande variabilità di competenza linguistica nei soggetti sordi. Una conclusione è che i bambini sordi usino codici diversi in base al tipo di abilità linguistica posseduta. Inoltre sembra importante condurre con bambini sordi un lavoro sistematico sull’uso appropriato di strategie mnemoniche che essi sono in grado di utilizzare come gli udenti, ma che spesso non mettono in pratica spontaneamente. Dunque si tratta di utilizzare metodi e strategie che garantiscano al soggetto audioleso la possibilità di interiorizzare e quindi poter utilizzare nel momento opportuno, gli apprendimenti. Gli autori evidenziano come lo sviluppo del ragionamento sui processi cognitivi, implicato nei compiti di falsa credenza, possa essere n ritardo nei bambini sordi figli di genitori udenti, mentre non presenta ritardi nei figli di genitori sordi. Non sarebbe quindi la sordità in sé a inficiare il ragionamento sui processi mentali, quanto il ritardo nel linguaggio (orale o segnato). Non esiste quindi un generale deficit metarappresentazionale nei sordi: essi infatti sanno spiegare le emozioni altrui in base agli stati mentali e ai desideri. Inoltre, bambini dai 4 ai 7 anni con deficit uditivo, a prescindere dalla precoce esposizione alla lingua dei segni, interpretano i movimenti delle persone sulla base degli scopi che li generano e ne imitano solo gli aspetti che veicolano tali scopi piuttosto che mettere in atto un’imitazione fedele delle azioni che compie l’adulto. La sordità in sé non implica quindi alcun tipo di cecità mentale.
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2.3.3 Sviluppo linguistico L’acquisizione del linguaggio costituisce l’ostacolo principale per le persone audiolese: un bambino con sordità perlinguale grave o profonda smette intorno ai 6 mesi di produrre suoni e, senza un intervento sistematico, non è in grado di apprendere il linguaggio verbale. Considerando il linguaggio come un sistema complesso in cui interagiscono competenze fonologiche, lessicali/semantiche, grammatica e pragmatiche, si può affermare che l’aspetto più direttamente compromesso dalla sordità è quello fonologico: la sensibilità alle differenze tra i suoni della lingua, presente nei bambini molto piccoli, è naturalmente inibita dalla carenze del feedback uditivo. Gli autori concludono che i bambini sordi non manifestano difficoltà di accesso alla lingua scritta e che i problemi spesso riscontrati nelle tappe successive possono essere affrontati con un intervento mirato; in particolare viene avanzata la proposta di favorire il collegamento tra segno, rappresentazione della parola con l’alfabeto manuale (dattilologia) e rappresentazione ortografica della stessa. Diversi dati smentiscono l’ipotesi che le persone sorde si limitino, nella letto-scrittura, all’uso di strategie visive, non linguistiche; viceversa dimostrano che essi hanno rappresentazioni interne del linguaggio e che sono in grado di stabilire relazioni tra i fonemi oggetto di tali rappresentazioni e i grafemi corrispondenti. Si possono quindi trarre conclusioni che dimostrando un effetto della somiglianza fonetica nel ricordo di nomi e lettere, avevano evidenziato l’utilizzo di un linguaggio interiore da parte dei sordi. La ricerca di Conrad tuttavia mette anche in luce la notevole eterogeneità che contraddistingue le prestazioni delle persone sorde in compiti di scrittura. Un elemento chiave di tale variabilità sembra essere il grado d’intelligibilità della produzione orale: chi utilizza un linguaggio comprensibile presenta una maggiore efficacia nell’effettuare analisi linguistiche delle parole nei segmenti che le compongono e conseguentemente nell’utilizzare le corrispondenze tra tali segmenti e i grafemi che li rappresentano. Le considerazioni relative all’esistenza di profili eterogenei nella qualità delle produzioni orali e scritte, vanno tenuti presenti prima di attribuire determinati pattern di errore alla sordità in sé. 2.4 I metodi riabilitativi Il dibattito sui metodi educativi e riabilitativi rivolti a persone con deficit uditivo si è storicamente centrato sulla lotta tra oralismo e gestualismo. Ricordiamo che è tuttavia fondamentale partire dalle seguenti considerazioni: nessuna scuola propone più un’educazione esclusivamente gestuale e in ogni caso viene riconosciuta l’importanza di una competenza linguistica anche verbale. Le diverse impostazioni teoriche devono dunque far fronte al problema di come insegnare a parlare ai sordi profondi; le differenze tra scuole sono spesso marcate anche all’interno di una impostazione oralista o di un’impostazione mista (segno e parola). Vediamo alcune tra le principali proposte educativo/riabilitative. 2.4.1 Metodo bimodale L’educazione bimodale si pone come obiettivo il raggiungimento di una buona competenza linguistica orale da parte del bambino sordo, utilizzando un supporto segnico nell’insegnamento della lingua vocale. La lingua dei segni viene quindi utilizzata come supporto alla lingua parlata. Viene utilizzato un adattamento di tale lingua: in Italia non la Lis (lingua italiana dei segni), ma l’italiano segnato esatto (Ise); il lessico è quello della Lis, ma l’ordine delle parole segue le regole dell’italiano. Per i termini non presenti in lingua dei segni si fa uso di un alfabeto manuale (dattilologia) o del cued speech, ossia di un sistema di supporto alla labiolettura. Il metodo prevede una formazione dei genitori alla Lis, in modo che essi possano utilizzare con i figli la lingua dei segni che tradizionalmente utilizzano i sordi per comunicare tra di loro. Le problematiche maggiori connesse a tale impostazione pedagogica sembrano inerenti alla varietà di codici cui viene sottoposto il bambino: lingua orale italiana, lingua italiana dei segni, italiano segnato, italiano segnato esatto. Nell’ambito della riabilitazione poi, l’abbinamento tra movimenti ideati per accompagnare l’emissione vocale e/o per sottolineare l’andamento ritmico di una frase a movimenti dell’alfabeto manuale sovrappone due modalità talmente diverse di uso della gestualità da rischiare fenomeni forti di interferenza.
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2.4.2 Educazione bilingue I sostenitori di un’educazione bilingue propongono che i bambini sordi vengano esposti a due lingue: la lingua dei segni e la lingua vocale parlata dai genitori. A differenza del metodo bimodale, le due lingue non verrebbero utilizzate contemporaneamente ma separatamente, in modo che il bambino possa operare l’associazione una lingua/un intercolutore. Nel caso del bambino sordo tuttavia, è difficile che la lingua parlata venga appresa con gli stessi tempi della lingua dei segni: ci troveremo dunque più spesso di fronte a una situazione di bilinguismo successivo, nella quale l’apprendimento della lingua parlata si appoggerebbe su quello della lingua gestuale. Restano quindi ancora aperti alcuni problemi piuttosto rilevanti relativi all’applicabilità e all’efficacia di tale approccio: innanzitutto non è facile creare precocemente per i figli di udenti una situazione di bilinguismo naturale; in secondo luogo rimane da chiarire con quali modalità la lingua vocale debba essere insegnata poiché, differentemente dagli altri casi di bilinguismo, la grave perdita uditiva impedisce un’acquisizione per semplice esposizione di quella che dovrebbe essere la seconda lingua. 2.4.3 Metodo orale classico Tale metodo si pone come obiettivo quello di fornire al bambino anche sordo profondo una competenza linguistiche il più possibile vicina a quella degli udenti. I presupposti principali sono: una diagnosi molto precoce; una tempestiva protesizzazione; un tempestivo intervento riabilitativo; un’assidua partecipazione della madre al programma riabilitativo. L’insegnamento del linguaggio si basa principalmente su: allenamento acustico, labiolettura, tattolettura, il bambino appoggia la mano sulla gola, sulle guance, sul naso per registrare le vibrazioni, esercizi di respirazione e di soffio, in cui si allena l’articolazione separatamente dalla produzione vocale, impostazione dell’articolazione, il terapeuta mostra il modo e il punto esatto di articolazione di ciascun fonema, affinché il bambino lo imiti, associazione della parola con l’oggetto (2° anno) e con l’immagine corrispondente, uso precoce della lettura a partire dal 2° anno di età. Il metodo orale si basa su una programmazione rigorosa: il problema principale sembra essere tuttavia la scarsa rispondenza tra le tappe previste e le modalità normali di evoluzione del linguaggio. 2.4.4 Metodo verbo-tonale Il metodo verbo-tonale si basa su alcuni principi, e in particolare sul fatto che il residuo uditivo possa essere utilizzato nella riabilitazione, sia attraverso speciali apparecchi (Suvag), che con l’uso di apposite cuffie che consentono ai bambini di accedere a un’amplificazione selettiva delle frequenze residue, sia grazie alle protesi acustiche. Inoltre, tutto il corpo viene considerato uno strumento appropriato per ricevere e trasmettere messaggi, in quanto sensibile alla componente vibratoria del suono. Nell’intervento vengono utilizzati sia canali comunicativi integri (visivo, propriocettivo, esterocettivo), sia quello acustico deficitario. Ciò viene realizzato attraverso diversi strumenti: amplificatori, vibratori, strumenti musicali e apparecchi audiovisivi. Caratteristica principale di questa metodologia è il fatto di essere multidisciplinare, alla sua realizzazione concorrono infatti: attività corporee ritmiche, stimolazioni musicali con vari strumenti, attività di drammatizzazione, stimolazioni grafo-motorie (grafismo fonetico), psicomotricità. Le lezioni possono essere svolte in gruppo, allo scopo di incrementare la socializzazione, la comunicazione e l’apprendimento linguistico, a cui si aggiungono lezioni individuali. Merito di questa metodologia è valorizzare il ruolo della motivazione nella riabilitazione e pensare a un coinvolgimento di tutta la persona in tale processo. Tuttavia suscita qualche perplessità proprio la pluralità delle discipline, soprattutto perché non è chiaro se esse seguano un
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comune programma e quale; in caso contrario, la preoccupazione è che troppi stimoli poco coordinati creino fenomeni di interferenza e possano generare confusioni soprattutto nei casi di sordità profonde. 2.4.5 Uso delle tecnologie informatiche La tendenza attuale ad usare con i bambini audiolesi software riabilitativi e didattici: si tratta di uno strumento trasversale, utilizzato nell’ambito di varie impostazioni, con diverse finalità. programmi che permettono di visualizzare le caratteristiche acustiche della voce, per offrire all’individuo un feedback in base al quale operare un’autocorrezione; programmi che servono a mettere in comunicazione bambini sordi inseriti in diverse scuole; programmi finalizzati alla costruzione di testi, attraverso lavori di completamento, di produzione e di discussione sui prodotti ottenuti; programmi finalizzati a incrementare la competenza linguistica delle persone audiolese; programmi di riconoscimento vocale, realizzati con l’obiettivo di rendere pienamente partecipi le persone audiolese a occasioni di rilevante interesse sociale e culturale e di contribuire quindi a ridurre la distanza che li separa dal mondo degli udenti. Barak e Sadovsky sottolineano che non si tratta solo della mediazione di aspetti tecnologici: la rete telematica consente agli individui con sordità di comunicare liberamente con altre persone, senza necessariamente mettere in campo la propria disabilità. Oltre a permettere di esprimere al meglio le proprie capacità comunicative, trattandosi di un mezzo di comunicazione prevalentemente visivo, tale canale può contribuire ad aumentare la sicurezza in se stessi e il senso di essere alla pari con gli altri. Gli autori traggono le seguenti conclusioni: gli adolescenti con deficit uditivo sono maggiormente motivati ad usare internet; utilizzano la rete più dei coetanei udenti, soprattutto come mezzo di comunicazione; l’utilizzo di internet è associato con un più elevato livello di benessere; mentre gli adolescenti sordi mostrano in genere una percezione di solitudine maggiore e una minor autostima rispetto ai coetanei udenti, ciò non accade a quelli che usano maggiormente internet. Gli autori dunque, mettono in luce le potenzialità della rete come risorsa psicologica e non solo tecnica. 2.4.6 Il metodo creativo, stimolativo, riabilitativo della comunicazione orale e scritta con le struttura musicali di Zora Drežančić Tale metodo è un programma organico, a partire dai primi mesi fino all’adolescenza, finalizzato ad insegnare anche a bambini sordi profondi un linguaggio verbale orale e scritto intelligibile, corretto e adeguato alle richieste comunicative dei diversi ambienti. Inoltre agisce nel rispetto delle normali tappe di sviluppo, tenendo conto delle potenzialità dei bambini audiolesi e non solo dei limiti connessi al danno uditivo. I principi di tale metodo sono: anche soggetti sordi profondi dalla nascita possono arrivare a una buona competenza linguistica : a tal fine la stimolazione deve iniziare il più presto possibile, con un intervento pedagogico idoneo. L’autrice sottolinea l’importanza delle vocalizzazioni e della lallazione per la qualità della voce, per l’articolazione e per l’ingresso nella semantica. il linguaggio è un sistema complesso: il metodo fornisce stimoli adatti a sviluppare gradualmente e parallelamente i diversi processi implicati nell’apprendimento e nell’uso del sistema linguistico. i modelli vanno proposti rispettando i modi e i tempi di ricezione e di immagazzinamento delle persone sorde. i modelli proposti sono multisensoriali: l’attenzione del bambino viene richiamata sulla proposta vocale, sulla percezione uditiva, sull’espressione del viso e sui movimenti. A tal fine molta importanza riveste un uso corretto delle protesi acustiche, scelte sulla base dei residui uditivi presenti nel soggetto. Inoltre una funzione fondamentale è svolta dai movimenti, programmati in relazione alle diverse proposte vocali. i suoni del linguaggio e i vocaboli sono accessibili per il bambino con ipoacusia profonda se si rispetta una progressione fonetica: è importante offrire stimolazioni che il bambino sia in grado di riprodurre il più correttamente possibile, al fine di motivarlo e di evitare pronunce errate.
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la voce cantata e il ritmo musicale sono i principali supporti per l’apprendimento di una competenza comunicativa orale. Il ritmo musicale per le sue somiglianze e corrispondenze con il ritmo linguistico, aiuta a parlare rispettando i rapporti corretti tra le sillabe ed evitando quell’eloquio monotono o per sillabe staccate anch’esso tipico di certi sordi adulti. la scelta dei vocaboli viene effettuata in funzione dell’età dei bambini . la pedagogia prevede una stretta collaborazione tra logopedisti, educatori e famiglie, che insieme operano per un progetto comune. La consapevolezza è che la riabilitazione è un processo educativo che richiede forte adesione e carica motivazionale di tutti i partecipanti.
Merito di questo metodo è di aver previsto una programmazione tenendo conto delle possibilità e delle richieste di ogni fascia di età. Il primo programma affronta il problema dell’intervento precoce in modo puntuale, ma senza ricorrere a mezzi (come la lettura) inadatti per bambini sotto i 3 anni: mezzi principali sono la voce e i giocattoli, che associati alle proposte vocali, motivano i bambini e servono come prima base per la memorizzazione delle forme acustiche e per il richiamo dei ricordi. Nel 2° e 3° programma si consolidano le acquisizioni precedenti e si estendono le competenze linguistiche sui versanti fonologico, semantico, sintattico e pragmatico. Di estrema importanza è anche il 4° programma, che prevede un’autonomizzazione del ragazzo nella gestione di quel minimo di esercizio che consente di non perdere la qualità di quanto si è imparato nei programmi precedenti. I procedimenti pedagogici utilizzati sono 20: i primi 10 svolgono funzioni che vanno dalle prime stimolazioni vocali alla correzione della parola; gli altri riguardano la lingua scritta, la grammatica e gli apprendimenti più avanzati. Nido: 6 mesi – 3 anni 1° programma Audio-fono-psicomotorio Stimolazione attraverso l’attivazione delle vie neurali, delle diverse funzioni psichiche e dei primi processi mentali: sensibilizzazione all’ascolto; prime imitazioni vocali; stimoli vocali creati utilizzando un giocattolo per ogni suono; evocazione dello stimolo vocale, guardando il giocattolo scelto ad esso associato; riconoscimento uditivo degli stimoli vocali; pronuncia delle prime parole con significato. Mezzi didattici: giochi fonici, libri con schede illustrate per l’apprendimento dei vocaboli.
Prescolare 3-6 anni 2° programma
Scolare 6-14 anni 3° programma
Adolescenti 4° programma
Procedimenti pedagogici (canali) per stimolare): la voce; l’intonazione; i ritmi musicali e linguistici; i suoni del linguaggio; le prime parole: strutturazione dell’aspetto sonoro della parola per consentire l’espressione linguistica dei concetti; le prime frasi; il dialogo, partendo dalle domande e dalle risposte.
Sviluppo delle attività psichiche necessarie per leggere e scrivere: processi di analisi e sintesi. Passaggio dall’orale allo scritto; lettura delle note musicali; esercizio e controllo della voce parlata; apprendimento della grammatica nella forma orale; i tre temi dei verbi: passato, presente, futuro; approccio alla letteratura; approccio a una lingua straniera.
In questo periodo si spiegano ai ragazzi i motivi della scelta dei mezzi usati affinché essi comincino ad utilizzarli autonomamente per non diminuire la qualità della pronuncia: stimolazione e controllo della voce, al momenti dei cambiamenti fisiologici del tono, evidenti soprattutto nei maschi; collaborazione tra famiglia, scuola e intervento logopedico per aiutare gli adolescenti nella scelta della scuola.
Mezzi didattici: sussidi del programma precedente; scrittura.
Mezzi didattici: Tutti i mezzi didattici creati per questo tipo di disabilità possono essere applicati come prove per verificare il livello raggiunto dai soggetti.
Il lavoro è finalizzato a far emergere la creatività nel linguaggio spontaneo. Mezzi didattici: movimenti che accompagnano la voce; libri del programma precedente; schede per la lettura delle note musicali; disegni per aiutare la memorizzazione; tre tempi verbali.
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CAPITOLO 3 DISABILITÀ VISIVA 3.1 Cecità e ipovisione Il principale parametro per valutare la capacità visiva è l’acuità visiva o visus, definibile come la capacità di distinguere a una distanza data determinate forme, o di discriminare due punti vicini. In Italia si esprime in decimi e un visus di 10/10 corrisponde alla visione normale. La valutazione avviene in modo diverso a seconda dell’età: mentre per gli adulti si utilizzano tabelloni con lettere, con i bambini tra i 2 e i 5 anni si propongono ottotipi con disegni o simboli grafici. Inoltre, per definire lo sviluppo visivo nella prima infanzia, si sono introdotte tecniche che utilizzano risposte comportamentali o elettrofisiologiche, come il preferential looking e i potenziali visivi evocati. Lea Hyvarinen ha realizzato numerosi test a risposta comportamentale, molto utili per la valutazione della funzione visiva in soggetti molto giovani o con gravi difficoltà cognitive. In questi individui la funzione visiva può essere valutata oggettivamente anche tramite i test dell’elettrofisiologia o con l’evolcazione del nistagno optocinetico. Un ulteriore parametro di valutazione della funzionalità visiva è il campo visivo, che corrisponde all’ampiezza della scena visibile quando lo sguardo è fisso davanti a sé. I deficit visivi possono essere attribuiti a una riduzione dell’acuità (visione centrale) oppure a una riduzione del campo visivo (visione periferica). Il grado di minorazione allora può variare da: cecità totale: impossibilità di percepire qualsiasi stimolo visivo; cecità legale: residuo visivo inferiore a un minimo prestabilito; ipovisione: parziale capacità. L’OMS prevede 5 categorie di disabilità visiva che tengono conto sia del visus che del campo visivo: ipovedente lieve; ipovedente medio-grave; ipovedente grave; cieco parziale; cieco totale. Il limite intrinseco delle diverse definizioni sta soprattutto nel non rendere conto dell’estrema variabilità individuale nell’utilizzo del residuo visivo, degli ausili e delle capacità sostitutive ai fini del raggiungimento di un massimo di autonomia personale e sociale. Tale variabilità appare legata tanto a fattori personali quanto a fattori ambientali di vario tipo. Interessante a questo proposito appare la distinzione tra: Cecità reale Cecità funzionale È oggettivamente cieco colui che non dispone di nessuna È funzionalmente cieco colui che, pur disponendo di percezione visiva derivante da stimoli luminosi percezioni visive, non può per altre cause organizzare provenienti dall’ambiente esterno. l’input sensoriale in percezioni operativamente utili rispetto alla necessità di sviluppare strategie adattive almeno in un settore della vita quotidiana. Le conseguenze del deficit sono collegate quindi, oltre che con l’entità della menomazione, anche, nel caso di un disturbo acquisito, con l’età in cui essa insorge. Di seguito di presenta un breve elenco relativo ai principali fattori causali delle compromissioni visive in età infantile: Patologia congenita Cause perinatali Cause post-natali Trasmissione genica di alterazioni organiche e Anossia, prematurità e relativi Infezioni virali, fattori fattori prenatali extragenici: infezioni, agenti trattamenti, diabete materno. immunitari, degenerativi e fisici, intossicazioni, fattori endocrini, ecc. traumatici (meningiti e durante la gravidanza (rosolia, toxoplasmosi). encefaliti), tumori e diabete. 3.2 Lo sviluppo nel bambino non vedente Circa il 45% dei non vedenti presenta questa condizione dalla nascita. Le traiettorie di sviluppo dei bambini ciechi sono molto variabili e legate a fattori quali il livello intellettivo, le abilità cognitive, fattori di resilienza, la presenza di altri problemi e la qualità delle stimolazioni che provengono dall’ambiente. Tradizionalmente venivano enfatizzati gli svantaggi dei soggetti non vedenti nelle rappresentazioni spaziali e attribuiti alla natura sequenziale dell’udito e del tatto, contrapposte alla presunta simultaneità del sistema visivo. La recente scoperta di due sistemi visivi distinti – quello focale e quello periferico – e della stretta connessione del secondo con il movimento degli occhi e della testa
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hanno messo in luce la natura sequenziale del processo esplorativo visivo. L’elaborazione dello spazio, che nei ciechi si realizza attraverso l’udito e il tatto avverrà dunque più lentamente in questi soggetti, ma non in modo diverso rispetto ai soggetti vedenti. La vista sembra essere importante per acquisire il concetto tattile di orientamento e il tatto sembra essere importante per acquisire il concetto visivo di dimensione degli oggetti. Nei bambini con disabilità visiva è stata osservata un’incapacità di riconoscere l’orientamento di oggetti nello spazio ma non la loro dimensione. È importante sottolineare come fra vista e movimento esista un’interconnessione reciproca: la cecità potrà avere anche un’importante incidenza sulla motricità perché uno dei principali anelli di congiunzione senso motorio è impedito nel suo funzionamento. 3.2.1 Sviluppo motorio Nei bambini non vedenti la deprivazione sensoriale incide sulla motricità e sulle conoscenze spaziali che conseguentemente si realizzano più lentamente e con maggiore difficoltà. Quest’area di sviluppo si struttura in tempi diversi rispetto ai bambini vedenti, determinando ritardi anche gravi. Diversi autori concordano nel ritenere che l’entità del ritardo sia particolarmente elevata in quelle abilità che implicano una motricità volontaria, oltre che nella capacità di deambulazione e di prensione dell’oggetto sonoro . Per quanto riguarda l’acquisizione della deambulazione autonoma, il bambino non vedente presenta un considerevole ritardo. Intorno ai 5 mesi il bambino vedente comincia a strutturare lo schema della prensione che via via si stabilizza e si organizza. La vista e la prensione, dal punto di vista biologico, si sviluppano in sincronia e ciò determina nei bambini non vedenti un evidente ritardo nella strutturazione dello schema della prensione e nell’utilizzo delle mani. Data la maggiore difficoltà del compito di prensione sulla base dei soli stimoli uditivi, nei primi mesi di vita le mani del bambino con deficit visivo rimangono per lungo tempo in prossimità delle spalle senza dimostrare alcun interesse esplorativo (mani cieche); solo a partire dagli 8-10 mesi si assiste a un’iniziale ricerca dell’oggetto sonoro. Di conseguenza, nei bambini con deficit visivo si è riscontrata talvolta la tendenza a usare maggiormente le mani come strumento di auto stimolazione che non come mezzo di conoscenza della realtà circostante. Trӧster e Brambing ritengono che la cecità congenita agisca sullo sviluppo motorio sia direttamente che indirettamente. Gli effetti diretti riguardano il ruolo che il feedback visivo gioca nel coordinare i movimenti verso uno scopo preciso e nel controllare la postura: le differenze specifiche nel controllo senso motorio di bambini con disabilità visiva rispetto a bambini normovedenti non sono causate direttamente dal deficit nella capacità visiva, ma sono il risultato di una scarsa calibrazione delle informazioni sensoriali necessarie per l’esecuzione dei compiti. Il bambino cieco che tenta di afferrare un oggetto sonoro impara a coordinare i movimenti necessari sulla sola base dei successi conseguiti, data l’impossibilità di percepire la direzione e l’estensione dell’errore in caso di fallimento. Analogamente, nei primi stadi di sviluppo del controllo posturale, l’integrità della percezione visiva consente una ridondanza di informazioni e maggiori opportunità di anticipare i movimenti compensatori in caso di perdita di equilibrio. Nelle tappe successive, grazie a una progressiva automatizzazione dei movimenti e delle posture, un controllo visivo costante sarebbe meno necessario. Fra gli effetti indiretti della cecità, gli autori evidenziano: 1. un minor incentivo nello svolgere l’attività motoria in mancanza di stimoli visivi, 2. minori stimolazioni sociali iniziali, 3. maggiore insicurezza nel comportamento esplorativo, 4. ritardo nella costruzione del reale, in quanto nessuna modalità sensoriale è paragonabile alla visione nel consentire di integrare diverse impressioni sensoriali in una totalità dotata di significato. Trӧster e Brambing, confrontando bambini non vedenti nel 1° anno di vita con un corrispondente campione di bambini vedenti, riscontrano un ritardo di sviluppo anche in quelle abilità motorie che non richiedono necessariamente una compensazione o una coordinazione visiva (es. la capacità di stare seduti sul pavimento senza supporto e di giovare a lungo in questa posizione). Il ritardo dello sviluppo grosso-motorio e della motricità fine sono in relazione tra loro: la capacità di assumere una ferma postura da seduti favorisce i processi per raggiungere e afferrare gli oggetti, infatti tendere la mano per prendere un oggetto è più facile se si hanno gli arti inferiori liberi, non impiegati per sostenere il proprio corpo.
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In sintesi, si può affermare che, data l’importanza che il movimento riveste per l’autonomia del bambino e per la sua crescita psicologica, un’attenzione particolare vada rivolta alla stimolazione dell’attività esplorativa precoce e alla conquista di un certo grado di sicurezza. Coppa ha evidenziato la possibilità di favorire il movimento dello spazio in modo coordinato, nonché un buon controllo posturale e un’adeguata capacità di equilibrio statico e dinamico per mezzo della messa in atto, da parte di genitori ed educatori, di strategie specifiche: 1) incentivare il bambino alla verbalizzazione delle esperienze, 2) stabile in modo chiaro e preciso i punti di partenza e di arrivo di ogni percorso da eseguire, 3) iniziare l’attività in ambiente protetto, 4) motivare il bambino al compito. 3.2.2 Sviluppo cognitivo Lo sviluppo cognitivo può subire dei ritardi sia nei bambini ciechi sia in quelli ipovedenti, specie nei casi in cui il danno visivo origini da cause neurologiche o si presenti in comorbilità con altri disturbi. Di fondamentale rilevanza è il fatto che la cecità sia congenita o acquisita. La mancanza di visione nei primi mesi di vita produce infatti danni irreversibili: alcuni bambini nascono con deficit visivi potenzialmente suscettibili di correzione (es. cataratta congenita o la visione binoculare). Il deficit diviso instaurato dopo i primi anni ha effetti meno drastici. Per quanto riguarda l’ipovisione, le difficoltà sono strettamente collegate alla tipologia del deficit, oltre che alla sua gravità. In generale comunque, l’esperienza di deprivazione dell’ipovedente, non essendo totale, sembra essere molto diversa da quella del cieco, che non ha mai potuto utilizzare il dato visivo pur imperfetto per integrare le informazioni provenienti da altri sensi. Le considerazioni che seguono riguardano dunque solo le persone classificabili come cieche dalla nascita. Le prime attività cognitive sono strettamente collegate all’attività motoria. Le mani cieche riportano minori informazioni, con l’implicazione di un ritardo che ricade anche sullo sviluppo di altre modalità sensoriali e sulla formazione della conoscenza. La ricerca degli oggetti nel bambino cieco deve fondarsi s afferenze sensoriali diverse da quelle visive, principalmente quelle tattili e sonore. Nel bambino cieco l’afferramento dell’oggetto sonoro è più tardivo di quello dell’oggetto visivo per il bambino vedente. Ma diversi studiosi hanno riscontrato che la coordinazione udito-prensione è più tardiva di quella visione-prensione anche nel bambino vedente. Il ritardo dimostrato dal non vedente nella ricerca dell’oggetto non sarebbe quindi da attribuirsi alla cecità in quanto tale, ma alla necessità dell’uso del canale informativo uditivo, la cui coordinazione con la prensione avviene normalmente in periodo più tardo . Tale ritardo comporta la messa in discussione dei tempi di formazione di un concetto base considerato dalla teoria piagetiana, la nozione di permanenza dell’oggetto, che nel vedente incomincia a delinearsi intorno al 9° mese. Nel bambino cieco si riscontra un’altra condotta tipica: i blindismes, tic e condotte stereotipiche di auto stimolazione (pugni schiacciati sugli occhi, dondolamento della testa e del tronco), cioè una produzione di stimoli suppletivi a quelli che non gli provengono dall’esterno, che di per sé non inficiano specificamente lo sviluppo cognitivo, ma che, in quanto privi di significato funzionale, certamente non lo incoraggiano. Relativamente agli stadi successivi, in particolare allo sviluppo del ragionamento logico, i ciechi dalla nascita mostrano un ritardo principalmente nelle operazioni infralogiche (es. conservazione di sostanza e peso) e, più lieve, in quelle logico-matematiche. La capacità maggiormente compromessa nei ciechi sembra essere quella relativa alla conservazione della quantità. Gli autori concludono che gli effetti negativi della cecità sullo sviluppo cognitivo nell’infanzia sembrano essere specificamente collegati a un certo contenuto di conoscenza o a un certo compito piuttosto che a un deficit globale relativo a determinate classi di competenze. Essi, inoltre, mettono in luce come, anche in compiti dove si riscontra un certo ritardo, i bambini ciechi mostrino differenze significative nelle prestazioni ai 2 livelli evolutivi considerati, suggerendo come col tempo processi integrativi tendano a colmare in gran parte tali differenze. Dimcovic trova che i bambini ciechi, rispetto ai bambini vedenti (bendati), hanno una maggiore rigidità e resistenza ad adattarsi a un cambiamento del compito che implica una variazione degli attributi focalizzati. L’autrice avanza l’ipotesi che l’esperienza giochi un ruolo fondamentale nel determinare tali differenze.
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È presumibilmente nelle rappresentazioni spaziali che il cieco ha le maggiori limitazioni conoscitive, dal momento che gli altri canali sensoriali non sono altrettanto efficienti come quello visivo per gli stimoli distali. Per la percezione delle localizzazioni e per l’orientamento l’individuo ha necessità di ancorarsi a un sistema di riferimento. Nel non vedente tale ancoraggio tende ad essere costituito dal proprio corpo piuttosto che da punti di riferimento esterni. Per il cieco congenito la posizione egocentrica permarrebbe più a lungo, poiché egli tenderebbe a considerare il proprio corpo come il riferimento dominante. Concludendo, le difficoltà cognitive, risultanti dalla cecità completa, si risolvono generalmente in ritardi di acquisizione, per quanto permangano le limitazioni sul piano sensoriale e delle immagini. Il solo deficit visivo non comporta differenze né tanto meno un’inferiorità nel bagaglio cognitivo dell’adulto. Ma la similitudine riscontrata nelle linee di sviluppo per non vedenti e vedenti non implica percorsi e mezzi simili. La deprivazione sensoriale visiva comporta riorganizzazioni funzionali che utilizzano processi vicarianti per la presa in carico delle informazioni: queste vicariante sono dapprima di ordine sensoriale, con una maggiore implicazione del sistema tattile e uditivo. Esse, però, sono anche di ordine cognitivo. I ciechi si servono spesso di altri quadri di riferimento per elaborare i dati spaziali e, più generalmente, privilegiano il linguaggio e l’elaborazione semantica astratta dei dati, a discapito delle rappresentazioni spaziali e per immagini che restano più fragili e più delicate da maneggiare. 3.2.3 Sviluppo affettivo e sociale Vianello e Bolzonella parlano di un’influenza del deficit visivo a due livelli: l’influenza diretta determinata dalla deprivazione visiva sullo sviluppo psico-fisico del bambino e l’influenza indiretta sullo sviluppo psicologico. Le considerazioni sullo sviluppo che seguono vanno comprese alla luce delle differenze individuali e contestuali. Il bambino è dotato fin dalla nascita di sistemi di segnalazione che suscitano risposte in chi si prende cura di lui : egli infatti piange, sorride ed emette dei vocalizzi. Inizialmente questi comportamenti non sono intenzionali, ciò nonostante gli adulti rispondono a tali segnali. Questa sequenza di comportamenti favorisce il legame di attaccamento adulto-bambino. Anche il bambino con deficit visivo è capace di emettere vocalizzi e di sorridere circa alla stessa età degli altri bambini, rispondendo alla voce e alle stimolazioni corporee. Tuttavia non è ovviamente in grado di stabilire un contatto visivo con gli altri. Alcuni autori hanno potuto constatare che gli stadi di attaccamento nel bambino non vedente non appaiono completamente sovrapponibili a quelli del bambino normodotato, verificandosi in molti casi un ritardo di alcuni mesi in alcune tappe fondamentali. Successivamente, anche il processo di separazione-individuazione può risultare ritardato in relazione a diversi fattori: la possibilità per il bambino di sperimentare il mondo circostante è strettamente collegata ai suoi progressi nella locomozione e in generale alla capacità di spostamento autonomo. A rendere più problematico tale fenomeno contribuisce talvolta una tendenza all’iperprotezione da parte degli adulti. Dai risultati emerge come nella coppia madre-bambino cieco si passi, come nella coppia madre-bambino vedente, da una fase di organizzazione del movimento e della postura (tesa a raggiungere una posizione favorevole all’interazione), a una fase di mutuo orientamento e infine a un dialogo giocoso, all’interno del quale il bambino non vedente, stimolato dalla madre, cerca di toccarle il volto con le mani, iniziando quindi verso i 4 mesi i primi tentativi di raggiungere oggetti esterni. La principale differenza tra le diadi studiare consiste nel maggior impegno che il contenimento del bambino cieco prima e il coinvolgimento interattivo poi richiedono alla madre.Un campo particolarmente studiato nell’ambito dello sviluppo affettivo e sociale è quello relativo all’espressività facciale. Masini e Antonietti concludono che esiste una competenza espressiva di base che consente anche a individui ciechi dalla nascita di decodificare e codificare le emozioni di base. Il bambino non vedente sembra dunque possedere una serie di competenze di base, che rendono possibile uno sviluppo affettivo e sociale per molti aspetti simile a quello di un bambino vedente. Nel rapporto adulto-bambino, l’adulto si fa generalmente carico di sostenere l’interazione adattandosi alle modalità comunicative del bambino non vedente, utilizzando in misura maggiore il contatto corporeo e la stimolazione vocale. Le relazioni con i coetanei pongono al bambino non vedente nuovi problemi: talvolta il permanere di tendenze egocentriche può ostacolare il rapporto con i pari. Le attività ludiche coordinate da un adulto competente appaiono le modalità più adeguate per promuovere lo sviluppo di comportamenti sociali nei confronti dei coetanei.
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3.2.4 Sviluppo linguistico Alcune modalità preverbali di interazione sono state valorizzate come importanti precursori della successiva competenza linguistica, in particolare l’uso del contatto oculare nel regolare gli scambi precoci fra madre e bambino, la condivisione visiva dell’attenzione su un oggetto e l’uso di gesti comunicativi a partire dalla seconda metà del primo anno di vita. Sino ai 6-7 mesi non sono state riscontrate differenze nelle vocalizzazioni fra i bambini con deficit visivo e bambini vedenti. Successivamente, i bambini non vedenti appaiono meno loquaci, ma pur sempre pronti a rispondere alle stimolazioni con vocalizzi. Moore e Conachie hanno esaminato anche le differenze nelle modalità comunicative dei genitori di bambini ciechi di età media di 18 mesi rispetto a quelle utilizzate con bambini ipovedenti e con bambini vedenti della stessa età. L’ipotesi infatti è che alcuni aspetti dell’input adulto non siano favorevoli allo sviluppo linguistico, in particolare dai risultati emerge che: i genitori di bambini ciechi iniziano più frequentemente l’interazione e lo fanno molto spesso attraverso il solo commento verbale, tali genitori usano con frequenza molto superiore rispetto agli altri le richieste di informazione, prevalgono i riferimenti a oggetti potenzialmente interessanti piuttosto che a oggetti presenti nel contesto. Ulteriori elementi di diversità nelle prime tappe dello sviluppo linguistico vengono messi in luce da una ricerca, finalizzata ad esplorare le relazioni tra input dei genitori e competenze linguistiche, nonché a confrontare bambini vedenti e non vedenti nel terzo anno di vita, rispetto alla capacità di rispondere in modo contingente ai propri interlocutori: 1. mentre i bambini vedenti producono lo stesso numero di enunciati per turno rispetto alle loro madri, i bambini ciechi sembrano contribuire alla conversazione con un minor numero di enunciati; 2. le domande rivolte ai non vedenti sono finalizzate principalmente a verificare le loro conoscenze su nomi e caratteristiche degli oggetti, mentre ai coetanei vedenti le madri farebbero in proporzione significativamente maggiore richieste reali; 3. contrariamente ai risultati di altre ricerche, il numero di frasi direttive utilizzate dalle madri sono in questo studio simili nei due casi. Le differenze con i bambini vedenti nell’età successive sembrano differenze principalmente qualitative. In particolare è stata sottolineata una certa tendenza all’iperverbalismo. Gli autori concludono che i bambini ciechi dalla nascita imparano gli stessi elementi lessicali e le stesse relazioni tematiche, e quasi nello stesso ordine, dei bambini vedenti. 3.3 Disabilità multiple La pluridisabilità non rappresenta la semplice somma di più limitazioni compresenti nella stessa persona, quanto invece un’interazione permanente di patologie, limitazioni e disabilità all’interno di un sistema dinamico influenzato dagli ambienti interni ed esterni alla persona stessa. Nella pluridisabilità l’elemento comune è la difficoltà di poter armonizzare quanto giunge attraverso i sensi, apprendere quanto sperimentato, fissare nella memoria le esperienze passate. Pluridisabilità lieve Condizioni in cui la compromissione cognitiva e/o motoria e/o sensoriale non determina una significativa limitazione dell’autonomia, delle possibilità di percezione, di espressione e di relazione del soggetto.
Pluridisabilità media Si riferisce a quadri clinici eterogenei, in cui le disabilità intellettiva e motoria, in associazione eventualmente a un deficit sensoriale, compromettono lo sviluppo armonico del soggetto.
Pluridisabilità grave Indica nel grave deficit intellettivo e motorio le 2 principali discriminanti. Il linguaggio è del tutto assente e la disabilità intellettiva profonda. Si riscontrano deficit sensoriali con maggior frequenza delle menomazioni visive. Tal quadro clinico determina una restrizione estrema dell’autonomia e delle possibilità di percezione, espressione e relazione.
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La valutazione nella persona con minorazione visiva e disabilità associata necessita di un’équipe multidisciplinare: l’approccio a un problema con diverse sfaccettature deve essere unico e complessivo nel senso di una comunicazione armonica tra tutti i professionisti coinvolti. L’intervento riabilitativo precoce del bambino pluridisabile deve necessariamente prendere in considerazione la riabilitazione visiva, con l’obiettivo dell’uso funzionale del residuo visivo, lo sviluppo senso-percettivo, lo sviluppo del processo figurativo, l’uso delle prassie (uso funzionale della mano), lo sviluppo immaginativo-motorio. In questa fascia d’età (intervento precoce = 0-3 anni) è essenziale che il progetto riabilitativo sia intensivo, globale e personalizzato, finalizzato allo sviluppo armonico del bambino sotto il profilo cognitivo, emotivo, psicomotorio. La riabilitazione del soggetto pluridisabile è un percorso che inizia precocemente e prosegue per tutto il ciclo della vita; la presa in carico non è solamente riparare un danno o ripristinare una funzione, ma è soprattutto evocare una competenza che non è apparsa nel corso dello sviluppo o impedire una regressione funzionale, promuovere e sostenere le abilità emerse, anche se in maniera fragile e/o parzialmente adeguata, sostenere il contesto famigliare. 3.4 Interventi riabilitativi Nonostante le difficoltà strettamente connesse con la disabilità sensoriale, la presenza di stimolazioni costanti, di interazioni coinvolgenti e di arricchimenti continui dell’esperienza, fanno sì che un bambino con disabilità visiva possa evidenziare uno sviluppo psicofisico simile a quello di un vedente. La formulazione di un progetto riabilitativo parte da una valutazione accurata dell’individuo e del contesto. 1) Gli operatori sottolineano l’importanza della precocità dell’intervento (periodo sensibile: primi 18 mesi di vita) per lo sviluppo dei circuiti neurali coinvolti nei processi percettivi visivi. In età precoce la riabilitazione prevede sia la stimolazione del sistema visivo attraverso materiali luminosi, sia l’esercizio delle funzioni nervose superiori come l’attenzione, la memoria, le prassie e le funzioni gnosiche. Con l’esercizio si intende stimolare lo sviluppo dei processi senso-percettivi. L’obiettivo è garantire il pieno sviluppo dell’individuo e potenziare le capacità percettive. 2) In età scolare, l’intervento è volto a favorire l’uso degli ausili, facilitare la comunicazione, promuovere la capacità di orientamento e la mobilità; accanto a tali attività sono previste le iniziative volte a potenziare la percezione e la motricità (es. logopedia, fisioterapia, psicomotricità, ecc.). 3) In età adulta gli obiettivi di intervento riguardano il raggiungimento e il mantenimento dell’autonomia personale, della comunicazione scritta, l’addestramento all’uso delle tecnologie riabilitative informatiche; accanto a tali interventi sono previste attività laboratoriali e iniziative volte alla socializzazione e alla conoscenza dell’ambiente. La famiglia riveste un ruolo importante e deve essere in grado di mettere in atto processi di adattamento funzionali alla situazione. La menomazione impone una riorganizzazione non solo a livello dell’individuo interessato, ma di tutto l’ambiente famigliare. La famiglia fornisce al soggetto con disabilità visiva supporti a vari livelli, dall’aiuto materiale al sostegno emotivo; tali forme di supporto sono fondamentali per l’adattamento alla perdita della vista e costituiscono fattori di protezione. L’acquisizione di un soddisfacente livello di autonomia, che possa consentire un allargamento del proprio spazio di movimento mediante la graduale conoscenza di nuovi percorsi legati alle necessità di vita, costituisce l’obiettivo principale degli interventi educativi e riabilitativi rivolti ai non vedenti. Gli interventi finalizzati al miglioramento dell’autonomia personale e di movimento si avvalgono di ausili speciali e di un training di orientamento e mobilità. 3.4.1 Strumenti di orientamento e mobilità Il training di orientamento e mobilità prevede dapprima percorsi motori graduati per difficoltà, interamente decisi e guidati dall’adulto; in seguito il ruolo dell’adulto passa in secondo piano e lascia al bambino ampi spazi di autonomia. Ciò è reso possibile dal progressivo aumentare delle competenze in varie direzioni: la coordinazione dei movimenti, la conoscenza di ambienti esterni e interni,
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la capacità di discriminare attraverso i vari sensi le peculiarità dei percorsi, la capacità di progettare una sequenza di movimenti, le abilità di spostamento con o senza l’utilizzo di ausili. I più comuni ausili per la mobilità sono: 1) l’accompagnatore vedente, le tecniche di accompagnamento prevedono una partecipazione attiva da parte del non vedente che trae informazioni sul percorso e sugli ostacoli sulla base di indici senso-motori. 2) il bastone bianco, richiede al bambino non vedente un buon livello di sviluppo intellettivo e motorio e costituisce la fase preliminare per l’utilizzo del cane guida. 3) il cane guida, 3.4.2 Training e strumenti per il potenziamento dell’efficacia visiva Con il termine potenziamento dell’efficacia visiva intendiamo l’utilizzo significativo del residuo visivo allo scopo di ottenere informazioni sull’ambiente circostante e migliorare, conseguentemente, l’autonomia. Lo sviluppo dell’efficacia visiva richiede in genere un addestramento visuo-motorio. Nel caso di disturbi che colpiscono la capacità visiva nella prima infanzia, per ciascuna delle singole abilità relative alla visione è necessario mettere in atto un pacchetto di strategie da applicarsi con modi e tempi appropriati ai singoli bambini. Tale intervento si realizza in contesti naturali e significativi con obiettivi di apprendimento predefiniti. Le abilità che è possibile e necessario potenziare sono: la consapevolezza della luce, l’attenzione alla luce, la localizzazione della luce in vari punti del campo visivo, la capacità di seguire con lo sguardo una luce in movimento, la consapevolezza della presenza o assenza di una luce, la localizzazione di oggetti e l’uso della visione periferica. Nei soggetti ipovedenti è possibile potenziare la capacità visiva residua mediante l’uso di specifici ausili ottici: le apparecchiature sono finalizzate all’ingrandimento dell’immagine retinica o al miglioramento della qualità di tale immagine. Le persone con disabilità di grado lieve possono usare un computer adattandolo alle loro esigenze, tramite particolari configurazioni presenti sul sistema operativo: in particolare è possibile modificare la dimensione, la luminosità dell’immagine e il contrasto figura-sfondo. 3.4.3 Strumenti per vicariare la funzione visiva Sono ben diversi gli interventi rivolti a individui totalmente ciechi: ai soggetti con disabilità visiva vengono insegnate le tecniche di utilizzo dei principali sussidi per la lettura e dei sussidi informativi per non vedenti, oltre che le abilità di movimento spaziale e di autonomia in ambienti familiari e non. L’utilizzo del computer portatile o desktop è consentito grazie ad ausili quali la sintesi vocale e la barra Braille, che trasformano i testi e le informazioni presenti visivamente sul monitor in informazione vocale o percepibile al tatto. Sintesi vocale e barra braille consentono alle persone non vedenti le stesse possibilità di accesso ai programmi informatici più diffusi e utilizzati abitualmente da tutti, favorendo in questo modo l’integrazione scolastica e lavorativa dei soggetti con disabilità visiva. Sebbene la tecnologia sia molto importante, questa non può sostituirsi alla lingua scritta o al braille, ma semplicemente rendere i mezzi di comunicazione più fruibili. Tuttavia, il supporto tecnologico amplia la gamma dei mezzi di contatto con la lingua scritta che con il solo braille risulterebbero limitati soprattutto in considerazione del fatto che sono ormai molto diffusi i sistemi di rappresentazione di tipo iconico. Le principali categorie di ausili informatici per i non vedenti sono: Screen reader
Barre Braille
Programmi che interpretano i contenuti testuali mostrati dalle applicazioni o dal sistema operativo. Una volta interpretati dallo screen reader, i testi vengono presentati al non vedente da una barra Braille o da un dispositivo di sintesi vocale.
Dispositivo hardware che traduce i caratteri in Braille. La barra Braille si collega al pc: si appoggia sotto la tastiera e mostra un certo numero di rettangolini, ognuno contiene un carattere, formato da punti.
Sistemi di sintesi vocale Dispositivi hardware o software: i sistemi di sintesi vocale leggono i testi inviati dallo screen reader grazie a una voce sintetica.
Stampanti Braille Permetton o di stampare in Braille documenti presenti nel pc.
Scanner Non sono specifici per persone non vedenti e si usano per acquisire immagini e documenti. Tale impiego consiste nell’acquisizione di esti stampati su carta e nella loro conversione in documenti digitali. Dopo questa trasformazione, i documenti possono essere letti tramite screen reader.
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3.4.4 Interventi educativi Per una buona riuscita educativa si devono affrontare delle strategie di intervento che soddisfano nel bambino con disabilità visiva bisogni fisiologici, di sicurezza, di amore e di affiliazione, di stima e autorealizzazione. Harrison e Crow evidenziano 40 punti che riguardano la conoscenza della situazione iniziale del bambino, le modalità comunicative utilizzare dall’adulto, alcune strategie per facilitare l’autonomia di movimento e di orientamento. 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12) 13) 14) 15) 16) 17) 18) 19) 20)
documentatevi sulle condizioni visive del bambino. in presenza di un bambino cieco, identificatevi sempre in modo che vi possa riconoscere dalla voce. utilizzate sempre il suo nome per rivolgervi a lui. prima di parlargli siate chiari nel far capire che vi state rivolgendo a lui. incoraggiatelo a utilizzare il nome delle persone con cui desidera parlare. se siete in gruppo, prima di parlare con una persona, chiamatela per nome. siate consapevoli che il linguaggio possiede delle connotazioni visive. utilizzate un linguaggio chiaro e conciso. cercate di non tendere all’iperverbalismo. prestate particolare attenzione al tono di voce. tenete presente che periodi di ecolalia sono comuni in bambini ciechi. offrite adeguate opportunità che gli possano permettere di porre domande. date sempre un’adeguata risposta. prestate attenzione alle espressioni facciali e al linguaggio corporeo. quando non è possibile la vicinanza fisica, è necessario fornire delle rassicurazioni verbali. quando si nomina un oggetto è necessario differenziare tra la rappresentazione e l’oggetto reale. le descrizioni verbali devono possedere un collegamento con le esperienze significative. per formare concetti le esperienze devono essere interconnesse. dopo aver interagito con il non vedente, avvisatelo se vi allontanate. i concetti visivi possono essere spiegati e conseguentemente acquisiti dal non vedente.
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è necessario il contatto fisico. assicuratevi che il bambino non vedente sia consapevole della vostra presenza, prima di toccarlo. è importante che il non vedente impari a utilizzare il proprio residuo visivo. tenete presente che il corpo è il punto di riferimento del non vedente. rendetelo consapevole di tutti gli spazi che lo circondano. se dopo aver camminato con il non vedente vi dovete allontanare, assicuratevi che conosca la sua collocazione e che sia a contatto con qualcosa. quando ha iniziato un percorso non intervenire con altre indicazioni. destra e sinistra possono essere insegnate. identificate dei punti di riferimento nell’ambiente che possano essere utilizzati per facilitare l’orientamento. identificare odori piacevoli e spiacevoli. identificate suoni e rumori. siate consapevoli che i suoni e i rumori possono confonderlo. usate in modo selettivo musica, radio e televisione. incoraggiatelo e motivatelo al movimento. ricorrete a metodi non convenzionali per motivarlo e interessarlo. non permettetegli di agire come estensione di voi stessi. fornite sempre una situazione ricca di stimoli. cercate di riconoscere le situazioni di estraniamento del non vedente. nonostante il maggior supporto che richiede, il non vedente deve essere oggetto delle medesime aspettative che investono i coetanei vedenti. siate preparati alle reazioni.
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CAPITOLO 4 DISABILITÀ MOTORIA I disturbi motori relativi all’assetto posturale e al controllo dei movimenti sono classificabili come problemi di origine organica. Si classifica il disturbo della funzione motoria in base alla localizzazione del danno: Disturbo della funzione motoria da danno periferico
Disturbo della funzione motoria da danno centrale
Si verifica una degenerazione progressiva delle fibre muscolari e delle fibre nervose fino a una totale compromissione dell’attività motoria. Tali manifestazioni risultano avere eziologia di origine genetica. In alcune forme molto gravi il decesso avviene entro il 1-2° anno di età, mentre in forme più lievi, si verifica uno sviluppo pressoché normale e la successiva insorgenza di deficit progressivi. Dal punto di vista terapeutico non esistono trattamenti farmacologici efficaci. La fisioterapia risulta l’unica forma di trattamento che consente di prolungare l’efficienza muscolare impedendo il precoce costituirsi di deformità secondarie.
È possibile distinguere tra: danno specifico: disturbo come diretta conseguenza di un danno alle aree anatomiche. danno aspecifico: disturbo determinato da una lesione non localizzate nelle aree deputate alla motricità. Il quadro sintomatologico si caratterizza anche per la presenza di deficit cognitivi.
4.2 La paralisi celebrale infantile La paralisi cerebrale infantile (Pci) si riferisce a un gruppo di disordini dello sviluppo del movimento e della postura che determinano una limitazione dell’attività attribuibile a un danno non progressivo nel cervello che si presenta nel corso della vita fetale o dell’infanzia. Caratteristica peculiare è la presenza di una lesione di varia entità che interessa le strutture encefaliche deputate alla funzionalità motoria. La società italiana di medicina fisica e riabilitazione e la società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza definiscono la paralisi cerebrale come una turba persistente, ma non immutabile dello sviluppo della postura e del movimento. Le caratteristiche sono: la precocità della lesione e la sua stabilità. Mentre i sintomi neuromotori e quindi la varietà e la gravità delle manifestazioni motorie associate possono variare con la maturazione cerebrale, lo stato della lesione rimane tale e non progredisce. 4.2.1 Cause Le lesioni cerebrali che determinano la paralisi cerebrale momento di insorgenza: Insorgenza prenatale Insorgenza perinatale Malformazioni congenite del Emorragie intracerebrali sistema nervoso centrale e intraventricolari Fattori genetici Asfissia durante il parto Episodi ischemici in cui si Disturbi respiratori determina una lesione del associati a prematurità. tessuto nervoso.
infantile hanno un’eziologia che varia a seconda del Insorgenza post-natale Traumi Eventi anossici Infezioni Agenti tossici Danno neurologico permanente (leucomalacia): lesione cerebrale di origine ipossico-ischemica, determinata dall’interruzione o da uno scarso apporto di ossigeno in alcune regioni encefaliche da cui consegue l’instaurarsi di un processo necrotico, cioè di morte cellulare.
L’80% dei bambini con Pci hanno un linguaggio povero o inutilizzabile, mentre gli altri manifestano nella maggior parte dei casi disturbi di articolazione delle parole. L’epilessia si trova associata nel 30% dei casi. La gravità dell’impedimento motorio dovuto a Pci varia secondo la localizzazione e l’estensione della lesione cerebrale. La disfunzione motoria si articola in 3 forme principali:
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Sindrome spastica Tetraplegia (o tetraparesi) Si distingue per un disturbo del tono e del movimento che si evidenzia fin dalla nascita e che interessa tutti e 4 gli arti in eguale misura. Le possibilità di deambulazione autonoma e le capacità manipolatorie appaiono fortemente limitate. Alla patologia si associano disturbi visivi, epilessia e ritardo mentale.
Diplegia spastica I disturbi del tono e del movimento riguardano in particolare gli arti inferiori. In genere la deambulazione autonoma è raggiunta e talvolta non necessità di ausili. È rara la presenza di epilessia, mentre frequenti sono lo strabismo, le contratture muscolari e le deformità articolari degli arti inferiori.
Sindrome atassica Emiplegia spastica Interessa più frequentemente la parte distale degli arti superiori o di quelli inferiori. La deambulazione autonoma è raggiunta. Frequenti sono le forme di epilessia parziale. Talvolta si evidenziano ritardi nello sviluppo intellettivo, a seconda dell’emisfero cerebrale leso, problemi nello sviluppo del linguaggio.
È caratterizzata da un disturbo della coordinazione dei movimenti e si presenta con un’evidente ipotonia. Lo sviluppo psicomotorio è ritardato così come lo sviluppo del linguaggio. Talvolta è presente un deficit mentale. - atassia congenita - diplegia atassica
Sindromi discinetiche Forma atetosica È caratterizzata da ipotonia e dalla presenza di movimenti lenti, aritmici, continui e involontari.
Forma distonica Si contraddistingue per un’alterazione della regolazione del tono muscolare che determina ampie variazioni di questo: dall’ipotonia all’assunzione di posture sovrapponibili a quelle delle sindromi spastiche in condizione di sollecitazione motoria.
4.3 Lo sviluppo della conoscenza Il bambino con Pci può manifestare disturbi cognitivi che sono direttamente imputabili all’estensione della lesione in aree cerebrali deputate alle funzioni cognitive superiori. La formazione della conoscenza nei primi anni di vita è legata all’attività esplorativa, intesa come capacità di eseguire comportamenti manipolatori o motori su un oggetto finalizzati a ottenere informazioni sul mondo circostante: da ciò consegue che le operazioni intellettuali originano da azioni reali. Come sottolineato da Bruner, non è tanto l’esecuzione dell’atto motorio, quanto l’intenzione di eseguirlo, intesa come formulazione di un’ipotesi da parte del bambino e pianificazione per il raggiungimento di uno scopo, che costituisce uno degli elementi fondanti la conoscenza. L’intervento riabilitativo non può prescindere dal considerare questi aspetti: alcuni autori evidenziano la necessità di valutare la presenza di intenzioni, di progetti di conoscenza e di esplorazione della realtà a fini sia diagnostici e sia riabilitativi. L’utilizzo di strumenti valutativi come le scale di UzgirisHunt e l’impiego di strumenti tecnologici come supporto riabilitativo rappresentano un chiaro segnale in questa direzione: questi strumenti consentono, infatti, di superare le difficoltà insite nell’impedimento motorio focalizzandosi sulle reali capacità del bambino di interazione con la realtà in modo indipendente dal funzionamento della motricità. 4.4 L’apprendimento e il controllo motorio nel bambino con Pci Secondo gli autori, il bambino alla nascita sarebbe dotato di un repertorio di moduli innati, vale a dire un complesso di sequenze motorie preformate; un sistema di selezione e di analisi delle informazioni e un insieme di regole che consentono di modificare le sequenze motorie innate rendendole più complesse e adattandole alle richieste ambientali; un sistema di controllo che agisce durante l’esecuzione motoria o al termine di questa e consente correzioni o la ridefinizione del piano di azione. In caso di un disordine quale la Pci, tale schema guida la fase diagnostica poiché consente di elaborare ipotesi riguardo alle diverse fasi del processo per la realizzazione di un atto motorio. L’indagine diagnostica dovrà perciò comprendere una valutazione sensoriale, dello sviluppo cognitivo, dell’organizzazione percettiva e prassica e anche una valutazione dello sviluppo affettivo. Per la valutazione del livello di esecuzione del programma motorio, l’indagine comprenderà la
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valutazione di competenze funzionali quali la postura, la deambulazione, la motricità oculare, la manipolazione fine, la motricità bucco-facciale e la capacità di fonazione e alimentazione. 4.5 La valutazione Simfer e Sinpia suggeriscono la descrizione di un profilo funzionale del paziente attraverso l’utilizzo di un sistema multi assiale composto da 8 assi: Motricità Anamnesi Anamnesi Complessità Complicanz Famiglia Servizi di Comunità lesionale riabilitativa e riabilitazione infantile Localizzazion Storia Le Informazioni circa Condizioni Contesto Contesto Esamina la e e natura del clinica del informazioni le compromissioni associate sia famigliar relativo ai possibilità di deficit. paziente a partire a livello relative alla e servizi di accesso del (epoca, dall’emissione sensoriale, salute del riabilitazione paziente alla sede ed della neuropsicologico paziente, sia in relazione comunità estensione diagnosi. e sui disturbi di alla all’attivazione infantile della acquisizione e presenza di degli (fruibilità dei lesione). generalizzazione altri fattori interventi a servizi e degli di rischio favore del risposta apprendimenti inerenti le paziente. sociale dei motori. relazioni e il pari e degli Scala Uzgiris-Hunt contesto adulti). ambientale.
4.6 La spina bifida Tra i disturbi derivanti da un danno centrale che compromettono la motricità è importante menzionare la spina bifida. Il disturbo è dovuto a un fallimento nella chiusura del tubo neurale nell’embrione che è causa di un’errata fusione della parte che formerà la colonna vertebrale del bambino: ciò determina una fenditura ossea attraverso cui protrudono le membrane che rivestono la spina dorsale. Le conseguenze nel bambino variano a seconda della localizzazione e della gravità di tale fenditura. L’80% dei casi è costituito da un danno alla parte inferiore della schiena e in particolare nella zona lombo-sacrale. Collegato al problema motorio, spesso si verifica una disfunzione della vescica e degli sfinteri con la possibile compromissione dell’apparato renale. Nei primi giorni di vita è possibile intervenire chirurgicamente sia per ridurre la possibilità di infezione sia per motivi estetici. Circa l’80% dei bambini con spina bifida manifesta problemi di coordinazione visuo-motoria, di attenzione, di memoria, di comprensione, di pianificazione e di iperattività. 4.7 Lo sviluppo psicologico La motricità rappresenta il mezzo attraverso il quale il bambino conosce il mondo circostante e costruisce la propria esperienza soggettiva. Dunque, attraverso il comportamento motorio il bambino raggiunge le tappe dello sviluppo psicologico che gli consentono l’organizzazione di una propria identità. Frequenti sono le situazioni in cui il bambino con paralisi cerebrale manifesta un’eccessiva dipendenza, un’intolleranza verso qualsiasi tipo di separazione dalla madre. Solo in corrispondenza del pieno sviluppo del linguaggio e della maturazione della percezione, dove il conseguimento di queste tappe sia possibile, comincia a manifestarsi la coscienza della disabilità. Il raggiungimento di tale consapevolezza è talvolta seguito dall’insorgere di stati depressivi, collegati in adolescenza alla percezione della propria immagine corporea in rapporto con quella dei pari, dal cui confronto emerge il vissuto dell’imperfezione fisica aggravato dalla condizione di irreversibilità e permanenza. L’adolescente che si percepisce inadeguato può manifestare un ritiro dall’esperienza verso la fantasia o elaborare un’immagine compensatoria falsa. Ciò determina un forte isolamento sociale che ha conseguenze sull’acquisizione delle capacità di interazione in senso lato e sulla possibilità di instaurare relazioni privilegiate. La scarsa esposizione alle esperienze e alla cultura dei pari ha infatti conseguenze sulle abilità la cui possibilità di apprendimento è legata soprattutto all’osservazione e allo scambio. 4.8 Gli aspetti relazionali
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4.8.1 I genitori Dal punto di vista psicologico, non è raro che i genitori non riescano a considerare un bambino disabile motorio nella sua complessità e che stabiliscano una relazione preferenziale con la parte “malata”. Spesso, più che una guida alla gestione del problema motorio dal punto di vista pratico, è necessario da parte degli operatori un intervento sulle aspettative genitoriali. Come accade per tutti gli adolescenti, la famiglia sembra avere un ruolo importante come moderatore delle reazioni agli stress recenti: infatti le famiglie in cui è presente un clima positivo risultano avere un ruolo di contenimento dello stress. Le madri di bambini con Pci risultano essere più soggette al rischio di depressione, ma il supporto sociale può avere effetti positivi nel ridurre i rischi associati al dover prendersi cura di un bambino con disabilità. Le variabili che influenzano il benessere psico-fisico dei genitori di bambini con disabilità motoria sono: le caratteristiche del comportamento del bambino, le richieste di cura determinate dalla disabilità e il funzionamento familiare. Altri aspetti quali il concetto di sé, il supporto sociale e la capacità di far fronte allo stress hanno effetti indiretti sul benessere psicofisico influenzando direttamente la qualità del funzionamento familiare. 4.8.2 L’interazione con i pari In questo tipo di disabilità, nelle interazioni sociali riveste un ruolo importante l’appartenenza fisica: in generale, infatti, nei bambini le categorizzazioni sono largamente influenzate dalle caratteristiche fisiche e comportamentali delle altre persone e tendono a essere semplici, superficiali ed esclusive. I bambini con impedimenti motori sono percepiti come meno attraenti dai loro pari e questo potrebbe spiegare un’eventuale riduzione delle interazioni ad essi rivolte. In realtà, alcuni autori hanno evidenziato come a scuola i coetanei dei bambini con gravi disabilità rivolgano loro numerose iniziative internazionali. Tale numero è, però, soggetto a un sensibile calo con il procedere del tempo. Sembra infatti che i bambini disabili abbiano conoscenze limitate sulle strategie necessarie all’instaurarsi e al mantenimento di un’interazione amicale. L’aiuto dell’operatore potrebbe risultare efficace se rivolto soprattutto alla mediazione degli aspetti riguardanti l’intraprendere relazioni di amicizia con i pari. I bambini rivolgono nei confronti dei loro pari gravemente disabili, comportamenti che potremmo definire assistenziali, consistenti principalmente in supporti di tipo fisico. 4.8.3 La qualità della vita Una porzione significativa di bambini con Pci è più esposta a rischi per la salute mentale rispetto al resto della popolazione a sviluppo tipico: in particolare tra questi bambini si osserva un’incidenza significativa di impedimenti sociali dovuti a problemi emotivi e comportamentali. In un certo numero di casi, questi problemi assumono livelli di gravità tali da rendere necessaria la presa in carico da parte dei servizi di salute mentale. Le difficoltà motorie influenzano negativamente il benessere fisico, Difficoltà intellettive sono associate a difficoltà emotive, nell’umore e a bassa autonomia, le difficoltà nella comunicazione sono associate a maggiori difficoltà nella relazione con i genitori. Tuttavia, non solo le differenze nella menomazione a incidere significativamente sulla qualità della vita nel complesso, quanto piuttosto il dolore fisico. Il dolore, associato all’affaticabilità, predice alcune difficoltà della vita quotidiana e in particolare la qualità del funzionamento scolastico. 4.9 Interventi Merita attenzione un nuovo approccio riabilitativo basato sulla scoperta nei neuroni specchio. Particolarmente interessante è il fatto che il meccanismo dei neuroni specchio sia implicato nella formazione delle memorie motorie: si evidenzia come l’apprendimento di movimenti sia più efficace quando l’individuo esegue e contestualmente osserva movimenti congruenti rispetto a quando i movimenti sono appresi attraverso un training che prevede la sola esecuzione. Tali evidenze dimostrano che, quando l’osservazione è abbinata all’esecuzione, la formazione delle memorie motorie ne risulta fortemente facilitata. L’intervento riabilitativo sui bambini con Pci negli ultimi anni è concepito come un intervento congiunto su genitori e bambini: inoltre, qualunque intervento deve essere preceduto da un’attenta valutazione della situazione della persona
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disabile. Più che di riabilitazione nel caso della disabilità motoria preferiamo parlare di integrazione. Riteniamo infatti che in questo caso specifico sia più grave il rischio di un’emarginazione dell’individuo dovuta a cause maggiormente imputabili all’ambiente circostante piuttosto che all’inabilità in quanto tale. L’obiettivo principale è dunque l’avvio del processo di integrazione del disabile.
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CAPITOLO 5 DISABILITÀ INTELLETTIVA I termini ritardo mentale e disabilità intellettiva hanno convissuto per parecchi anni nei lavori sull’argomento. Attualmente la dicitura ritardo mentale è ancora presente nei sistemi di classificazione internazionale: infatti il sistema diagnostico Dsm IV-TR classifica come ritardo mentale la condizione in cui si presentano deficit cognitivi che corrispondono a 3 criteri (basso QI, difficoltà adattive, insorgenza in età evolutiva). Tuttavia, l’uso dell’espressione disabilità intellettiva sembra più consono per diversi motivi: parlare di ritardo mentale appare maggiormente stigmatizzante e non corrisponde all’idea oggi prevalente che l’etichetta disabilità intellettiva comprenda una serie di condizioni molto diverse tra loro. Inoltre, l’espressione disabilità intellettiva meglio si inserisce nella complessiva ridefinizione del funzionamento umano e delle sue limitazioni contenuta nell’Icf: infatti, il costrutto di disabilità intellettiva si è sviluppato nella prospettiva ecologica che enfatizza l’interazione tra la persona e l’ambiente e riconosce la possibilità di migliorare il funzionamento umano attraverso l’applicazione sistematica di sostegni individualizzati. La disabilità non è semplicemente la derivazione del ritardo e non è insita nella persona, ma il risultato dell’interazione tra il soggetto e l’ambiente. Rimangono tuttavia aperte alcune problematiche di fondo, sottostanti alle diverse prospettive teoriche sul ritardo mentale e ai rispettivi filoni di ricerca. Basti pensare al dibattito su come valutare l’esistenza di quadri deficitari caratteristici, composti da aree di relativa forza e di debolezza, nelle diverse sindromi. Landesman e Ramey evidenziano la molteplicità di eziologie, la diversità dei profili funzionali, le diverse reazioni al trattamento e le diverse evoluzioni durante la vita documentate per individui che hanno avuto una diagnosi di ritardo mentale più o meno uguale e mettono conseguentemente in discussione l’attuale sistema di classificazione diagnostica. MacMillan Gresham e Siperstein propongono che la diagnosi di ritardo mentale sia riservata ai casi che presentano disfunzioni generalizzate e che il ritardo mentale lieve sia escluso dalle classificazioni ufficiali, e utilizzano piuttosto come termine per descrivere situazioni poco definite sia per eziologia che per livello reale di compromissione intellettiva. Le problematiche che emergeranno nel corso di questo lavoro non potranno dunque essere generalizzate all’intera popolazione con disabilità intellettiva, ma serviranno come linee guida per leggere in modo differenziato la situazione di ciascun individuo in relazione alle peculiarità personali e ambientali. 5.2 Cause La disabilità intellettiva è una condizione frequente (1.5% della popolazione nei paesi occidentali e il 4% nelle zone deprivate). Sintetizziamo nella tabella i principali fattori biologici cromosomici e genetici ed elenchiamo alcune tra le sindromi più conosciute, tuttavia, non in tutti i casi ad esse è associato necessariamente un ritardo mentale. Tipologie Alterazioni cromosomiche
Anomalie dei cromosomi non sessuali (autosomi).
Esempi delle principali forme Sindrome di Down (trisomia 21) Trisomia 18 Trisomia 13
Anomalie dei cromosomi sessuali. Il ritardo mentale è occasionalmente presente, di solito in forma lieve.
Sindrome di Klinefelter (XXY) Sindrome di Turner
X fragile
Caratteristiche e frequenza Presenza di un cromosoma 21 in più: 1/600 nati vivi. Presenza di un cromosoma 18 in più: 1/7000 nati vivi. Presenza di un cromosoma 13 in più: 1/5000 nati vivi. Maschi con un cromosoma X in più: 1/600 nati vivi. Femmine con un solo cromosoma X: 1/2000 nate vive. Cromosoma X configurazione anomala: 1/1000 nati vivi.
Possibilità di diagnosi e/o intervento precoce Individuabili durante la gravidanza (dall’ 11° a 18° settimana) tramite amniocentesi (analisi liquido amniotico) o biopsia della placenta (1° trimestre di gravidanza).
Individuabili durante la gravidanza tramite ambio centesi per alcune sindromi. Trattamenti ormonali durante l’adolescenza.
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Ereditarietà dominante
Ereditarietà recessiva
Eziologia multipla
Condizioni causate da un gene dominante presente in uno dei genitori, che può essere affetto anche molto lievemente (espressività variabile). Rischio di una nascita su 2. Disfunzioni del metabolismo. I genitori sono entrambi portatori generalmente non affetti. Il rischio è di 1 nascita/4 (abbinamento di una coppia di geni recessivi).
Malformazioni: forme primarie, genetiche, talvolta associate ad altre anomalie congenite; forme secondarie, conseguenti a malattie postnatali. Malattie endocrine.
Sclerosi tuberosa
Malattia associata con anormalità della pelle e del sistema nervoso: 1/300.000 individui. Ritardo mentale in 2/3 dei casi; aumenta con l’età.
Fenilchetonuria
Ritardo mentale causato da un livello eccessivo di fenilanalina (amminoacido): 1/1150.
Sindrome di Hurler
Sintomi fisici (es. nanismo), sensoriali (cecità) e ritardo mentale a causa di accumulo nelle cellule di mucopolisaccaridi. Cranio e cervello eccessivamente piccoli, spesso ritardo mentale.
Microcefalia
Macrocefalia
Ipotiroidismo congenito
Testa eccessivamente grande per eccesso di liquido cerebrale o per eccessiva grandezza del cervello. Produzione insufficiente di ormone tiroxina: ritardo mentale 1/6000 nati vivi.
Individuabile nei portatori e nel neonato. Ritardo mentale evitato o ridotto con una dieta dalle prime settimane di vita. Individuabile durante la gravidanza tramite amniocentesi. Individuabile nei portatori. Riconoscibile alla nascita in base alle caratteristiche della testa. Individuabile tramite CT scan. In alcuni casi è possibile il trattamento chirurgico. Individuabile nei primi mesi. Trattamento precoce con tirossina evita o riduce il ritardo mentale.
Di seguito riportiamo le cause biologiche non genetiche: Rischi prenatali
Rischi perinatali
Rischi postnatali
Infezioni in gravidanza (rosolia, toxoplasmosi, citomegalovirus). Cause immunologiche: incompatibilità del sangue materno e fetale. Assunzione materna di farmaci teratogeni, droghe e alcool. Agenti fisici: irradiazioni in gravidanza. Malnutrizione in gravidanza. Problemi cronici di salute materna (es. diabete).
Nascite premature. Sofferenza alla nascita: asfissia o ipossiemia. Infezioni da herpes genitale materno. Trauma cranico durante il parto.
Infezioni (encefalite, meningite). Trauma cerebrale. Veleni o tossine ambientali. Anossia. Carenza ormonale (ipotiroidismo endemico). Malnutrizione.
Attualmente, per molte di tali cause esistono concrete possibilità di prevenzione, sia attraverso la somministrazione di vaccini a tutta la popolazione femminile, sia attraverso un costante monitoraggio in gravidanza, sia attraverso l’individuazione precoce di eventuali incompatibilità sanguigne, sia infine attraverso un’azione generalizzata di educazione alla salute a parte dalla scuola dell’obbligo. È largamente condivisa l’idea che la presenza di costrizioni biologiche e genetiche non impedisca di ipotizzare una forte influenza dell’ambiente sullo sviluppo. Il fenomeno della plasticità cerebrale, ossia la capacità del cervello di riorganizzarsi e di ristrutturarsi in funzione delle mutevoli
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condizioni ambientali e la disposizione di alcune aree del Sistema nervoso centrale a vicariare funzioni svolte normalmente d aree danneggiate, consente, soprattutto in età evolutiva, compensazioni e recuperi di competenza talvolta eccezionali. In questa prospettiva, è evidente come gli aspetti biologici e ambientali interagiscano in modo dinamico nell’orientare le traiettorie evolutive e come la comprensione dei disturbi dello sviluppo , anche di origine genetica, debba tener conto di questa interazione. Il riconoscimento del ruolo dell’ambiente mette in crisi l’idea che il grado di deficit sia immutabile, facendo largo al concetto che l’intelligenza è modificabile attraverso l’intervento educativo e riabilitativo. Inoltre si può ipotizzare che le differenze nei contesti educativi incidano largamente sui livelli di competenza, di adattamento e soprattutto sulla qualità dei percorsi di vita individuali. 5.3 La valutazione A una diagnosi il più possibile corretta e funzionale all’intervento concorrono più tipi di valutazione. Diagnosi medica
Una diagnosi medica accurata è necessaria per almeno 3 ragioni: 1. per individuare qui casi in cui è possibile un intervento chirurgico o farmacologico che impedisca, attenui o rallenti il deterioramento mentale. 2. per individuare precocemente eventuali altri deficit associati. 3. per escludere o identificare una causa genetica, al fine di una programmazione serena e consapevole di eventuali altri nascite da parte dei genitori. La ricerca di un’eventuale eziologia organica non può essere il fine ultimo della diagnosi, ma deve inserirsi in una valutazione globale della persona.
Diagnosi psicometrica e psicologica
Il ricorso a test standardizzati che valutino il QI è un passaggio ancora oggi ritenuto indispensabile per il riconoscimento e la qualificazione del ritardo. In quest’ottica si valutano come significativamente compromessi sul piano intellettivo quegli individui il cui QI è sotto 70 (sotto la media della popolazione). I test da cui è ricavabile una misurazione dell’intelligenza in termini di QI sono generalmente indirizzati, nelle versioni per bambini, alla seconda infanzia. Per le fasce d’età precedenti esistono prove che ci consentono di valutare un quoziente di sviluppo. Una scala di sviluppo molto utilizzata, la Bayley Scale of Infant and Toddler Develompment permette un valutazione completa dello sviluppo del bambino da 0 a 42 mesi ed è costituita da 5 sotto-scale: la scala cognitiva, quella del linguaggio, quella motoria, la scala socioemotiva e quella del comportamento adattivo, oltre a questionari compilati dal genitori su base osservativa. Nelle età più avanzate, la misurazione del QI può avvenire in 2 modi diversi: 1. in alcuni test, esso si ricava dal rapporto tra età mentale ed età cronologica; 2. attualmente si preferisce una seconda modalità, che calcola il QI come quoziente di deviazione, sulla base dello scarto tra la prestazione di un individuo e quella media dei suoi coetanei. Un altro test frequentemente utilizzato è costituito dalle Matrici di Raven: in ciascuna matrice, ossia in ciascuna figura proposta (60 in tutto), manca una parte che l’individuo deve completare scegliendo tra 6/8 alternative possibili in base a precisi rapporti incorrenti tra le parti. Diversi autori dimostrano come il solo QI sia una misura insufficiente per classificare il ritardo mentale e vada quindi affiancato dai risultati di altri strumenti diagnostici. Fra le principali tipologie di test indirizzate a fornire un quadro dettagliato delle funzioni cognitive si possono citare quelle rivolte ad analizzare: l’organizzazione psicomotoria, la percezione visiva, i test di memoria, la comprensione verbale, i test di valutazione delle abilità scolastiche. La diagnosi psicometrica nel suo insieme va inserita in una valutazione globale della persona e del suo ambiente, che si configuri come diagnosi di sviluppo. L’esame definirà il ritardo nella cronologia delle acquisizioni che possono interessare fattori diversi: posturale, motorio, sensoriale, linguistico, cognitivo. Tale esame, a partire da un’accurata anamnesi e dalla storia delle principali
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acquisizioni e apprendimenti, si propone di mettere in luce disfunzioni, deficit, competenze e potenzialità. È molto importante inoltre che tale valutazione non sia centrata solo sulla persona disabile, ma anche sulle interazioni con l’ambiente. Infatti, un secondo elemento considerato nelle definizioni ufficiali di ritardo mentale è la capacità di adattamento all’ambiente, definita come l’insieme delle abilità concettuali, sociali e pratiche che vengono apprese dagli individui per funzionare nella loro vita quotidiana: abilità concettuali: capacità comunicative, abilità scolastiche, autoregolazione, attività orientate a garantirsi salute e sicurezza; abilità sociali: capacità di relazione interpersonale e gestione del tempo libero; abilità pratiche: cura di sé, partecipazione alla vita domestica e scolastica, utilizzo delle risorse della comunità, capacità lavorative e orientamento alla salute e alla sicurezza. Valutazione clinica
Nelle indicazioni diagnostiche del DSM IV-TR si prevede che la misurazione standard dell’intelligenza si accompagni a un giudizio clinico del funzionamento intellettivo. Una valutazione clinica in età evolutiva può mirare anche a situare le prestazioni del bambino in relazione alla progressione stadiale proposta da Piaget. Essa si propone come strumento utile a una diagnosi dinamica del funzionamento mentale e trova le sue radici anche nell’esigenza di superare i limiti dei test psicometrici tradizionali. Per effettuare questo tipo di diagnosi si utilizzano il colloquio clinico e le prove piagetiane, al fine di stabilire che modalità di ragionamento usa il bambino nello spiegare fenomeni di vario genere e nel risolvere particolari problemi. Tale valutazione fornisce dunque informazioni a carattere qualitativo sull’organizzazione del pensiero infantile ed è importante per capire in che misura il bambino disabile ha accesso al pensiero simbolico e quanto è ancorato ai dati percettivi nella soluzione dei problemi.
5.4 Disabilità intellettiva e sviluppo 5.4.1 Sviluppo cognitivo e linguistico Dati provenienti dall’esperienza clinica e dalla ricerca psicologica consentono di evidenziare alcune qualità di pensiero che sembrano caratterizzare le persone con deficit intellettivo: concretezza: incapacità di raggiungere il pensiero astratto e quindi impossibilità a superare lo stadio delle operazioni concrete e permanenza a uno stadio preoperatorio. L’individuo rimane centrato su una sola dimensione del problema, incapace di rappresentarsi mentalmente un’azione e il suo opposto. rigidità: sembra essere l’elemento che ostacola l’estensione di una conoscenza a situazioni diverse da quella di acquisizione. A causa di tale rigidità il bambino con disabilità intellettiva non sarebbe in grado per esempio di mediare tra 2 obiettivi diversi e tenderebbe a perseguirne uno solo con un atteggiamento di pedanteria e di ostinazione (atteggiamento tutto o niente). limiti nella capacità di pianificare e prevedere: nonché una minore abilità nell’andare al di là dei propri sensi, mettendo in atto attività immaginative e creative. maggiore lentezza nell’esperienza percettiva: incentrata al sincretismo, ossia all’incapacità a collegare e integrare diversi dati percettivi in unità strutturate, a cogliere le relazioni tra le diverse parti di una configurazione, nonché i rapporti tra le parti e il tutto. limiti nelle capacità attentive e di concentrazione: i temi di reazioni aumentano in proporzione alla diminuzione del QI e quindi sono particolarmente lenti nella popolazione con disabilità intellettiva. limitazioni nella memoria: possono avere conseguenze su altre abilità cognitive. I risultati delle ricerche mettono in risalto alcune caratteristiche principali relative ai problemi di memoria nelle persone con ritardo: minore capacità di organizzare il materiale da ricorda, sia al momento dell’immagazzinamento sia in quello del recupero. abilità comunicativo-linguistiche: il DSM-IV indica come nel ritardo mentale lieve e moderato esse vengano acquisite di norma nel periodo prescolare, mentre nei casi di ritardo mentale grave l’apprendimento risulterebbe incerto e più tardivo. Le carenze linguistiche, pur connotate da un’estrema variabilità interindividuale, si esprimono generalmente a vari livelli: innanzitutto, sia le abilità di comprensione che
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quelle di espressione verbale si evolvono con un ritardo più o meno marcato rispetto a quanto avviene per i coetanei. Inoltre si riscontra povertà lessicale, estrema semplicità e/o scorrettezze nella struttura sintattica, difficoltà a livello pragmatico, tanto nell’usare il linguaggio in modo adeguato rispetto a diversi contesti comunicativi, quanto nel fare presupposizioni corrette circa le conoscenze e le aspettative dell’interlocutore. Particolarmente compromesso può essere anche l’aspetto fonologico, in concomitanza a difficoltà articolato rie legate a compromissioni dell’apparato vocale o a difficoltà nell’organizzazione dei movimenti. apprendimenti scolastici: le ricerche negli ultimi anni hanno permesso di riconsiderare le possibilità di apprendimento degli individui con disabilità intellettiva al di là delle limitazioni attese sulla base delle difficoltà si sviluppo registrate in prima e seconda infanzia. Nella conquista delle autonomie sociali, mentre viene raggiunto un buon livello nella cura e igiene personale, così come nell’autonomia in brevi spostamenti e nella scelta delle attività ricreative, si riscontrano problemi più rilevanti nell’uso funzionale della lettura, della lettura dell’orologio e nell’uso del denaro, competenze che spesso non sono oggetto di un’istruzione scolastica esplicita. Sembra quindi che le principali difficoltà si manifestino nell’applicare le nozioni apprese alle situazioni in cui sono necessarie.
5.4.2 Sviluppo sociale e della personalità I problemi psicologici e di personalità riguardano gli individui ritardati in misura significativamente maggiore rispetto alla popolazione senza deficit intellettivi. Fra tali problemi particolarmente studiati sono l’ansia, la paura dell’insuccesso, la tendenza al ritiro e a comportamenti compulsivi, l’impulsività, l’iperattività, la bassa tolleranza alle frustrazioni nei più piccoli e la passività e l’eccessiva dipendenza dall’ambiente . Tali problematiche hanno maggiore probabilità di insorgenza non solo in relazione alla gravità del ritardo, ma anche a effetti indiretti della mancanza di risorse intellettive, quali la frequente sperimentazione di insuccesso e il conseguente basso livello di autostima. Inoltre, la capacità di accoglienza dell’ambiente famigliare prima, scolastico e sociale poi, è di estrema importanza nel soddisfare bisogni basilari di intimità e di amore che consentono uno sviluppo non patologico della personalità. Ciò che offre l’ambiente in termini di possibilità di socializzazione non è ininfluente né rispetto al livello di competenza sociale che la persona riesce a raggiungere, né rispetto al suo livello di motivazione. 5.5. L’intervento Linee generali di comportamento sembra essere alla base di una presa in carico dell’insufficienza mentale: la presa in carico va rivolta tanto alle dimensioni strettamente cognitive, quanto allo sviluppo globale della personalità e in particolare alla socializzazione; considerare i meccanismi di compensazione messi in atto da ciascun individuo consente di partire da una valutazione centrata non solo sui deficit, ma anche sulle potenzialità di superamento, nonché di considerare ciascun individuo come portatore di un’individualità propria; qualunque intervento deve partire da un’attenta valutazione del rapporto tra costi e benefici. un approccio basato sulla qualità della vita ha necessariamente come sfondo l’attenzione a promuovere il raggiungimento delle migliori condizioni possibili nei diversi domini di tale costrutto: benessere fisico, emozionale, materiale, sviluppo personale, relazioni interpersonali, autodeterminazione, inclusione sociale, diritti. Approccio comportamentale
La behavior modification è un approccio terapeutico che è stato ampiamente applicato nell’educazione, nel training e nella gestione comportamentale dei bambini con ritardo. Gli ambiti di applicazione sono: l’insegnamento di abilità e competenze in diversi settori, il miglioramento dei comportamenti adattivi, la riduzioni dei comportamenti devianti che possono costituire un ostacolo per gli altri apprendimenti. Tale approccio si fonda su alcuni assunti di base: 1. innanzitutto gli interventi si fondano sistematicamente su dati empirici, 2. tali interventi sono rivolti al comportamento osservabile e alle condizioni ambientali che contribuiscono a mantenerlo o a modificarlo,
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3. il comportamento a sua volta è guidato dalle sue conseguenze. Le principali tecniche comportamentali consistono dunque nel creare le condizioni affinché le conseguenze dei comportamenti individuali siano programmate puntualmente in modo tale da incoraggiare i comportamenti voluti e scoraggiare quelli indesiderati. Tale sistematicità corre il rischio in alcuni casi di trasformarsi in rigidità sul piano operativo e talvolta è stata interpretata come frutto di una visione riduzionista e semplificata dei processi di apprendimento. Di conseguenza, grazie all’integrazione con un approccio cognitivista, l’attenzione al ruolo attivo del bambino e l’insegnamento di strategie di autoregolazione attualmente affiancano altre tecniche più tradizionalmente tipiche dell’approccio comportamentale. La riabilitazione della metamemoria
Gli studi sul ruolo della metacognizione nel ritardo mentale si propongono di comprendere quale livello di conoscenza del proprio funzionamento mentale possiede l’individuo e come utilizza tale conoscenza nell’affrontare compiti di vario tipo. Ci si è proposti quindi di progettare e realizzare percorsi educativi e riabilitativi centrati non tanto sulle singole competenze, ma sulla più generale capacità di apprendere. Si tratta di spostare l’impegno e il relativo investimento di energie dall’insegnamento di singole abilità che spesso vengono dimenticate molto rapidamente a un insegnamento di strategie, finalizzato al loro mantenimento nel tempo e alla loro applicazione pratica. Le prove prevedono, oltre a compiti di memoria e di meta memoria, anche questionari di attribuzione: che consentono di valutare il ruolo che lo studente attribuisce all’impegno ai fini della riuscita in un determinato compito. Il training prevede una parte generale sulla meta memoria, basata sulla problematizzazione del ricordare e sulla sensibilizzazione al fenomeno della dimenticanza. Esso comprende attività collegate agli eventi quotidiani. A tale addestramento fa seguito un insegnamento specifico relativo a singole strategie: gli autori riportano come esempio l’insegnamento di un strategia mnemonica immaginativa, particolarmente adatta con i bambini insufficienti mentali. Un altro esempio è costituito dalle strategie organizzative, che attraverso una classificazione del materiale da ricordare, alleggeriscono il carico della memoria di lavoro. Un’ultima considerazione riguarda il ruolo della persona disabile nel processo riabilitativo, fattore che rende tale tipo di intervento il prototipo di una concezione di trattamento sempre più distante da un mero addestramento all’esecuzione di attività isolate. Il bambino diventa protagonista del suo apprendimento e l’impegni dell’educatore è quello di restituirgli puntualmente un feedback rispetto alle sue prestazioni, non tanto in termini di premio, quanto in termini di consapevolezza dei risultati dei propri sforzi.
5.6 Problematiche connesse alle situazioni di gravità Cerchiamo di enucleare brevemente quali sono le condizioni che ci portano a definire una persona come gravemente disabile. In primo luogo esistono casi in cui più disabilità sono associate in un’unica sindrome ( disabilità plurime). Ci troviamo di fronte a individui che non hanno accesso al mondo della simbolizzazione, rendendo estremamente improbabile qualsiasi forma di elaborazione culturale. Anche dal punto di vista della comunicazione preverbale, tali persone sembrano differire notevolmente da bambini in fase di sviluppo prelinguistico. Restano da considerare i problemi di personalità spesso connessi alla profondità del deficit intellettivo: nell’insufficienza mentale profonda e severa, si riscontrano spesso infatti alterazioni relazionali massicce. Alla luce di quanto esposto si comprende come l’intervento nei confronti di persone così gravemente compromesse non possa tradursi in un accanimento riabilitativo centrato su singole abilità. L’obiettivo principali dovrebbe essere quello di lavorare per un assetto migliore possibile della globalità della persona e l’intervento andrebbe orientato quindi al benessere e alla qualità della vita. Molto istruttiva per comprendere la filosofia di un intervento rivolto a individui gravissimi è la distinzione suggerita da Cannao e Moretti tra: curare: sottende un’ottica medicalizzata del problema,
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prendersi cura: si fonda sull’idea che anche nei casi di compromissione devastante ci si trova comunque di fronte a una persona che ha diritto a una presa in carico dei suoi problemi e a un intervento equidistante dagli opposti rischi di accanimento terapeutico e di atteggiamento puramente assistenzialistico.
CAPITOLO 7 IL DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE / IPERATTIVITÀ
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Ci si può trovare di fronte a bambini con scarso controllo sul proprio comportamento: si tratta di casi in cui si osservano condotte inadeguate al contesto o inappropriate all’età del bambino. Sebbene non sia corretto includere tali situazioni tra le disabilità, crediamo sia importante parlarne all’interno di questa trattazione poiché esse determinano spesso importanti problemi nei processi di apprendimento e di socializzazione del bambino, favorendo l’instaurarsi di condizioni problematiche di disagio. È importante non confondere i bambini descritti come vivaci, che possono manifestare uno o più comportamenti fra quelli enumerati in tali classificazioni, con bambini per i quali è formulabile una diagnosi clinica. La diagnosi di disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività si riferisce a una sindrome spesso caratterizzata da distraibilità, scarse capacità attentive, eccitabilità motoria e associata a disturbi del sonno, bassa tolleranza alla frustrazione, ecc. 7.2 Il disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività: le caratteristiche L’attuale formulazione diagnostica riportata dal Dsm IV definisce il disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività stabilendo alcuni criteri: 1. la presenza dei sintomi per almeno 6 mesi, 2. l’età di insorgenza anteriore ai 7 anni, 3. sintomi: disattenzione, iperattività e impulsività. 4. compromissione in almeno due contesti e interferenza del disturbo nel normale funzionamento sociale, scolastico o lavorativo. Il Dsm IV distingue all’interno del disturbo 3 tipologie: DDA/I COMBINATO DDA/I CON DISATTENZIONE In cui risultano presenti 6 o più PREDOMINANTE sintomi tra quelli relativi alla disattenzione e 6 o più sintomi tra quelli legati a iperattività-impulsività.
DDA/I CON IPERATTIVITÀIMPULSIVITÀ DOMINANTI
L’Icd10 prevede la possibilità di diagnosticare il disturbo ipercinetico quando sono presenti almeno 6 manifestazioni di disattenzione, 3 di iperattività e 3 di impulsività. In generale, l’incidenza del disturbo nella popolazione è abbastanza controversa e la causa è riconducibile ai criteri diagnostici utilizzati. Uno studio riporta come nella fascia 6-7 anni i bambini identificati come Dda/i dagli insegnanti siano circa il 7% della popolazione. 7.2.2 Cause Dal punto di vista organico è stata suggerita l’esistenza di una disfunzione dei lobi prefrontali che risulterebbero coinvolti nei processi relativi alle funzioni esecutive. Recentemente è stata evidenziata un’alterazione relativa a uno specifico neurotrasmettitore, la dopamina, che sarebbe responsabile di una serie di problemi evidenziabili nei diversi sottotipi di Dda/i. Inoltre, si evidenzia anche una mancata regolazione del sistema noradrenergico, che modula il funzionamento di numerose aree cerebrali coinvolte nei meccanismi di vigilanza, allerta e attenzione e che favorisce il mantenimento degli stati di attivazione, l’inibizione delle risposte autonomatiche e la memoria di lavoro. Accertata è l’ipotesi di una predisposizione di tipo ereditario e altre ricerche hanno evidenziato alcuni fattori che possono determinarne l’insorgenza. Alcuni di questi fattori sono individuabili nel periodo pre o perinatale: ritardi nella crescita intrauterina, peso alla nascita al di sotto dei limiti della norma, asfissia perinatale. Evidenze di un aumento dell’aggressività, dell’iperattività e dell’impulsività sono state riscontrate in bambini provenienti da famiglie con storie di assunzione di sostanze stupefacenti. Fra i fattori associati al verificarsi di insuccesso scolastico e/o di altri sintomi relativi al Dda/i, si annoverano anche alcune sostanze tossiche con cui il bambino viene a contatto durante la vita intrauterina (alcool, tabacco, cocaina) o, successivamente, dopo la nascita. In generale, prevale la posizione che considera i disturbi mentali secondo un approccio multi causale, in cui fattori di rischio e fattori di protezione si combinano a livello biologico, psicologico e sociale. Fattori di rischio e fattori di protezione per i disturbi mentali nell’infanzia e nell’adolescenza: Fattori di rischio Fattori di protezione
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Biologico
Psicologico
Sociale Famiglia
Scuola
Esposizione a sostanze tossiche durante la gravidanza. Predisposizione genetica. Trauma cranico. Ipossia e complicazioni alla nascita. HIV. Malnutrizione. Abuso di sostanze. Altre malattie. Disturbi di apprendimento. Tratti di personalità disadattavi. Negligenza e abusi sessuali, fisici ed emotivi. Temperamento difficile. Accudimento inconsistente. Conflitti familiari. Scarsa disciplina. Scarsa gestione familiare. Morte di un membro della famiglia. Fallimenti scolastici. Fallimento da parte della scuola nel fornire un ambiente adeguato a sostenere le aspettative e l’apprendimento, strategie educative inadeguate. Bullismo.
Sviluppo fisico adeguato all’età. Buona salute fisica. Buon funzionamento intellettivo.
Abilità ad apprendere dall’esperienza. Buona autostima. Alti livelli di capacità di problem solving. Buone abilità sociali. Attaccamento. Opportunità di un buon coinvolgimento nella famiglia. Riconoscimento di un buon coinvolgimento nella famiglia. Opportunità di un buon coinvolgimento nella vita scolastica. Rinforzi positivi per l’apprendimento scolastico. Identificazione con la scuola o bisogno di una guida educativa.
7.2.3 Le manifestazioni I bambini e gli adulti con Dda/i vengono comunemente indicati come individui con difficoltà croniche riguardo all’attenzione e/o all’impulsività e all’iperattività. La disattenzione Difficoltà a prestare attenzione ai particolari, commettono spesso errori di disattenzione, risultano disordinati, non riescono a mantenere l’attenzione e a portare a termine le attività, i giochi, passando talvolta da un’attività all’altra. Spesso hanno difficoltà a organizzarsi nelle attività e tendono a evitare i compiti che richiedono applicazione protratta e sforzo mentale. Nel corso di un’attività si interrompono spesso e sono attratti da eventi irrilevanti. Il comportamento impulsivo
Difficoltà inerenti la capacità di inibire risposte inappropriate e/o affrettate, vale a dire comportamenti impulsivi. L’impulsività si può manifestare attraverso lo scarso controllo del comportamento, l’incapacità a ritardare una risposta, a deferire le gratificazioni o a inibire le risposte prepotenti. L’incapacità di aspettare il proprio turno in un gioco, l’incapacità di tener conto delle conseguenze di azioni potenzialmente pericolose o la tendenza a ricercare soddisfazioni immediate e a prendere scorciatoie. La disinibizione o la scarsa capacità di regolazione e di inibizione del comportamento costituiscono la peculiarità del Dda/i.
L’iperattività
Eccessivo o inappropriato livello di attività motoria e verbale. Sono bambini che non possono stare seduti, sono sempre in movimento, parlano troppo, borbottano e rumoreggiano. I bambini con Dda/i sono attivi, instancabili e irrequieti sia di giorno che di notte rispetto agli altri bambini.
Le altre manifestazioni
Data la presenza di deficit nella capacità attentiva, è intuitivo ipotizzare che i bambini iperattivi dimostrino prestazioni inferiori alla norma in compiti più complessi. Fra le difficoltà incontrate dai bambini iperattivi, i ricercatori hanno evidenziato in alcuni di essi deficit di pianificazione del tempo e delle mete. Le difficoltà associate al disturbo sono: lievi deficit cognitivi: disturbi specifici dell’apprendimento, scarsa capacità di stima del tempo, difficoltà nella memoria di lavoro, ridotta sensibilità agli errori, deficit di pianificazione, lievi ritardi intellettivi. disturbi del linguaggio: ritardi nell’acquisizione del linguaggio, difficoltà nell’eloquio, scarsa organizzazione ed espressione inefficiente delle idee, ritardo nell’interiorizzazione del discorso.
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difficoltà nelle funzioni adattive. disturbi nello sviluppo motorio: ritardo nella coordinazione motoria. disturbi a livello emotivo: inadeguata autoregolazione delle emozioni, scarsa tolleranza alla frustrazione. difficoltà nel contesto scolastico: comportamenti disturbanti, ripetizione di una classe, sospensioni o espulsioni scolastiche. difficoltà nell’esecuzione di compiti: scarsa persistenza di sforzo e motivazione, grande variabilità nella risposta, difficoltà nell’esecuzione di compiti prolungati. rischi per la salute: propensione agli infortuni, possibili ritardi nella crescita durante la fanciullezza, difficoltà riguardanti il sonno, rischi nella guida di autoveicoli in età adulta. 7.2.5 Le manifestazioni in età precoce Il Dda/i ha un esordio precoce, con manifestazioni prevalentemente conducibili a iperattività e scarso controllo degli impulsi. È però difficile distinguere problemi comportamentali clinicamente rilevanti da problemi transitori nel periodo prescolare. Infatti molti bambini che, prima dei 5 anni, mostrano un livello di attività motoria elevato non sviluppano un problema clinicamente significativo né nel corso della scuola dell’infanzia né alla scuola primaria. Prima dei 3 anni i bambini sono capaci di seguire le istruzioni per iniziare un compito, ma hanno difficoltà nelle condotte inibitorie, in particolare quanto si tratta di interrompere comportamenti appresi e automatici; essi, inoltre, sono ancora molto dipendenti dagli stimoli esterni e faticano a modulare il comportamento in relazione a regole o a obiettivi individuali, soprattutto nelle situazioni in cui questi richiedono la soppressione di una risposta automatica. Tra i 3 e i 4 anni si verifica un aumento significativo nelle capacità di controllo inibitorio: i bambini cominciano a essere in grado di inibire una risposta automatica per mettere in atto un comportamento finalizzato. Con l’ingresso alla scuola primaria, l’ambiente e le attività preposte contribuiscono a favorire la modulazione dell’eccesso di attività motoria e il controllo degli impulsi. Ingresso nella scuola primaria: l’ambiente e le attività proposte contribuiscono a favorire la modulazione dell’eccesso di attività motoria e il controllo degli impulsi. Le caratteristiche del comportamento infantile interagiscono con le caratteristiche dell’ambiente e in particolare delle pratiche di cura: atteggiamenti responsivi, sensibili sono in grado di contribuire a trasmettere al bambino la capacità di regolare le emozioni negative, mentre adulti intrusivi possono esacerbare le precoci difficoltà nel controllo delle emozioni negative. L’iperattività può indurre uno stile genitoriale coercitivo che può avere un effetto ancora più negativo sul comportamento del bambino. Sonuga-Barke hanno proposto una tassonomia delle difficoltà associate a iperattività in età prescolare, che consente di distinguere 3 sottotipi: Opposività emergente Insorgenza tardiva di Dda/i limitato al periodo Insorgenza precoce e Dda/i prescolare cronica di Dda/i Si caratterizza per bassi livelli Moderata iperattività Si caratterizza per elevati Si caratterizza per elevati di iperattività associati a bassa prescolare è gestita dal livelli di iperattività con livello di iperattività tolleranza da parte contesto familiare ed molti elementi tipici del associati a caratteristiche dell’ambiente famigliare educativo nel corso del Dda/i. La presenza di temperamentali Sono presenti interazioni periodo prescolare. Con caratteristiche positive nel oppositive. conflittuali genitori-bambino e l’ingresso a scuola le contesto familiare ed L’associazione di questi 2 uno stile educativo coercitivo. capacità di educative agiscono come fattori aumenta la Sebbene non a rischio per i autoregolazione del fattori protettivi per possibilità che il disturbo Dda/i, questi bambini possono bambino sono insufficienti l’insorgenza di problemi si cronicizzi e conduca a essere a rischio per problemi per permettere un scolastici e di interazioni disturbate comportamentali di tipo adattamento alle richieste comportamenti oppositivi o adulto-bambino. oppositivo. del contesto scolastico. antisociali.
Le manifestazioni precoci del Dda/i tendono a essere stabili e a essere associate a esiti evolutivi negativi in adolescenza. I sottotipi non devono essere considerati come categorie discrete permanenti, ma come manifestazioni dimensionali che variano lungo un continuum sotto l’influenza dei cambiamenti evolutivi. Lo studio indica che il
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disturbo iperattivo-impulsivo permane nel 74% dei casi e che gran parte di questi bambini mostrano successivamente i sintomi del tipo combinato. Quando l’iperattività in età precoce si presenta insieme a comportamenti aggressivi e oppositivi i problemi possono essere più complessi e persistenti. 7.3 L’interpretazione del disturbo Secondo Castellanos e Tannock esisterebbero 3 particolari endofenotipi in grado di spiegare il Dda/i: 1) il primo indica un’anomalia nei meccanismi legati alla ricompensa che determinerebbe una ridotta capacità di attendere per una gratificazione, 2) il secondo assume che un deficit nell’elaborazione temporale sia alla base della grande variabilità nella prestazione intraindividuale (deficit nella stima del tempo e nella consapevolezza fonologica), 3) il terzo endofenotipo richiamerebbe l’esistenza di deficit nella memoria di lavoro che spiegherebbero i problemi nelle funzioni esecutive e nell’attenzione focalizzata. Anche Sonuga-Barke e Thomposon dimostrano l’esistenza dei suddetti 3 distinti pattern, focalizzandosi su: Deficit a livello Deficit dell’elaborazione Deficit delle funzioni esecutive motivazionale temporale Alcune Quest’area di difficoltà riguarda Le funzioni esecutive possono essere definite come l’insieme dei difficoltà degli le difficoltà nell’elaborazione processi cognitivi alla base dei comportamenti finalizzati individui con delle informazioni con complessi: i bambini con Dda/i manifestano difficoltà a Dda/i sono parametri temporali. L’abilità di interrompere una risposta quando questa ha avuto inizio e state attribuite percepire e rappresentare il tendono a sparare immediatamente le risposte anche quando è a un deficit tempo è fondamentale poiché richiesto di ritardarle. Le funzioni esecutive opererebbero solo in motivazionale ci consente di percepire e determinate condizioni in cui le funzioni di routine risultassero che si organizzare le sequenze di inadeguate all’esecuzione di un compito o quando cambiamenti manifesta con eventi e azioni. Nei Dda/i sono ambientali o negli obiettivi imponessero il superamento di tali una ridotta state evidenziate difficoltà routine automatiche o apprese. Fra le condizioni che sollecitano il capacità di nell’abilità di discriminare brevi controllo esecutivo indichiamo quelle relative alla pianificazione o attendere per durate che differiscono a livello ai processi decisionali, alla correzione degli errori, alla produzione una di millisecondi, nel riprodurre di risposte nuove o non del tutto apprese. Vi sono, inoltre, le gratificazione. periodi temporali con grande condizioni giudicate difficili o rischiose e quelle che impongono il precisione e nel seguire un superamento delle risposte abituali. Secondo alcuni autori, i ritmo anche autodeterminato. problemi conseguenti all’iperattività sarebbero dovuti all’incapacità dei bambini stessi di controllare e inibire certi comportamenti. Il Dda/i è riconducibile a un disordine delle funzioni esecutive e di autoregolazioni. Altri autori propongono un’ipotesi alternativa per spiegare l’eziologia e la remissione del disturbo identificando 2 meccanismi diversi: 1. il Dda/i sarebbe causato da una disfunzione neurale non corticale che si manifesta in età precoce, rimanendo invariata per tutto il corso della vita; 2. le modificazioni del disturbo sono attribuibili allo sviluppo delle funzioni esecutive che compenserebbero i deficit sottocorticali. Gli autori dimostrano che i meccanismi regolatori associati con l’attivazione e l’irrequietezza sono centrali per l’emergere del disturbo, mentre è meno probabile che le difficoltà inerenti la memoria di lavoro o alcuni aspetti del controllo esecutivo siano fattori causali del Dda/i. 7.4 La diagnosi La diagnosi di Dda/i nei suoi vari sottotipi è formulabile se si manifestano per un periodo pari o superiore a 6 mesi un certo numero di comportamenti fra quelli elencati per la disattenzione, l’iperattività e l’impulsività. Per la valutazione del comportamento si utilizza l’esame diretto del bambino attraverso un colloquio e l’esecuzione di prove rivolte a valutare le capacità cognitive, le funzioni esecutive, l’attenzione e l’apprendimento scolastico. Per la valutazione del comportamento si utilizzano interviste diagnostiche e questionari: rivolte direttamente ai genitori o all’adolescente
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con Dda/i e registrano informazioni sulle manifestazioni del disturbo psichiatrico e sul funzionamento sociale al momento della somministrazione. Nella pratica clinica non c’è un protocollo di analisi e valutazione della funzionalità cognitiva validato, tale da consentire lo studio e la comparazione dei profili rilevati, tuttavia è consigliabile accertare il livello intellettivo del bambino con strumenti quali la scala Wisch-III, somministrare test per la valutazione delle capacità di inibizione e di controllo dell’impulsività e prove standardizzate per verificare lo stato degli apprendimenti. 7.5 L’intervento La progettazione di un intervento richiede di considerare, oltre a un insieme di variabili quali l’età del bambino, il suo livello di maturità e la gravità del disturbo, anche le aree specifiche che esso coinvolge. Infatti, i disturbi comportamentali possono determinare problemi sul piano sociale, il disturbo attentivo è in gran parte responsabile delle difficoltà di apprendimento e, nell’insieme, non sono rari i problemi a livello familiare. L’intervento si basa sulla necessità di un approccio multimodale che presuppone il coinvolgimento della famiglia e della scuola. In tutte le età è necessario che gli obiettivi e i metodi messi in atto per il trattamento abbiano un senso e siano motivati per gli individui. Il parent training
Sono programmi rivolti ai genitori per sviluppare le loro capacità educative e di conseguenza migliorare la relazione con i propri figli. Il parent-training consente ai genitori una ristrutturazione cognitiva del proprio ruolo, insegna loro a identificare e modificare gli antecedenti e le conseguenze dei comportamenti del bambino, a ricorrere e tenere sotto controllo i comportamenti problematici, a scoraggiare i comportamenti indesiderati tramite l’ignorare pianificato, la diminuzione dei privilegi o delle ricompense, o l’interruzione di ogni rinforzo positivo. Si tratta di un intervento indiretto che consente di ridurre significativamente i sintomi del Dda/i e di abbassare i livelli di stress familiare.
L’intervento in classe
Strategie adatte a essere impiegate in classe comportano che l’intera organizzazione del lavoro scolastico sia calibrata sulle esigenze del bambino con Dda/i, che l’ambiente sia molto strutturato e che gli eventi che caratterizzano la giornata scolastica siano facilmente prevedibili. Si suggerisce inoltre che il bambino iperattivo sia sistemato in un punto della classe tale per cui sia costantemente nel campo visivo dell’insegnante e che si trovi accanto a un compagno sensibile e molto partecipe alle attività didattiche proposte: è infatti necessario interagire spesso col bambino iperattivo fornendogli continue conferme sull’attività svolta e incoraggiando i comportamenti costruttivi con appositi rinforzi. L’insegnante deve contribuire ad aumentare l’autostima del bambino, facilitare le interazioni con i pari e, inoltre, proporre compiti diversi, che ne suscitino l’interesse. È importante programmare le attività didattiche in base alle effettive capacità del bambino, incrementando le difficoltà in modo graduale.
La terapia cognitiva
Questo tipo di terapia è rivolta in modo diretto al miglioramento di alcune abilità che si dimostrano carenti, come la capacità attentiva, l’abilità di problem-solving, l’autovalutazione. Alcuni interventi riabilitavi sono mirati ad accrescere la capacità di controllo attraverso autoverbalizzazioni, a cui il bambino viene gradualmente istruito fino al momento in cui esse risultano interiorizzate. Questa tecnica aiuta il bambino a focalizzarsi sull’attività in corso. L’efficacia di tali strategie è stata però messa in dubbio soprattutto a causa del fatto che esse sembrano apportare solo benefici a breve termine e limitati al contesto in cui esse vengono apprese. Alcuni autori hanno spiegato le ragioni di tale insuccesso distinguendo due tipologie diverse di strategie: 1) le prime enfatizzano la relazione tra le risposte e le relative conseguenze richiedendo all’individuo di valutare le proprie risposte e aspettarsi le appropriate conseguenze; 2) le seconde consistono in strategie di controllo cognitivo che si concentrano sui processi di pensiero antecedenti alla risposta. Gli studi che riportano risultati negativi descrivono la seconda tipologia, mentre gli studi che descrivono l’applicazione del primo tipo di strategia sembrano riportare risultati più confortanti.
L’intervento farmacologico
Il trattamento farmacologico è diretto a regolare l’attività dei sistemi dopaminergici e del sistema noradrenergico. Il metilfenidato è una sostanza attiva che agendo sul sistema dopaminergico è efficace nel migliorare il controllo degli impulsi. L’altro principio attivo per cui è in corso una
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sperimentazione è l’atomoxetina che migliora l’efficienza delle funzioni esecutive e mostra un’efficacia simile agli psicostimolanti, con minori effetti collaterali. A breve termine, l’assunzione di tali sostanze ha effetti positivi sia dal punto di vista cognitivo che comportamentale. Tuttavia, il trattamento può accompagnarsi a effetti collaterali non trascurabili, come l’insorgenza dell’insonnia e il blocco della crescita. La terapia farmacologica è da considerarsi con estrema attenzione poiché non tutti i bambini trattati ne ricavano beneficio. Inoltre è ormai consolidata l’evidenza che solo un trattamento multimodale, in cui il farmaco sia previsto a supporto di altri interventi sul bambino e contestualmente sull’ambiente, ha maggiori possibilità di avere ricadute positive. 7.6 Conclusioni Generalmente i sintomi tendono a migliorare e una percentuale tra il 20-50% degli individui presenta una remissione completa dei sintomi nel corso dello sviluppo. La persistenza dei sintomi in età adulta è associata alla comorbidità con altri disturbi psichiatrici e alla familiarità. Per quanto riguarda i cambiamenti relativi alla natura dei sintomi, le caratteristiche di iperattività e impulsività sono tipiche della più giovane età, mentre l’inattenzione e i disturbi correlati sono più evidenti nelle età successive. In generale, gli esiti sono peggiori quando ai sintomi di base si associa anche l’aggressività. Gli esiti del disturbo da deficit di attenzione con iperattività possono essere quindi molto gravi e, se si considera anche la sua diffusione, non è possibile sottovalutare l’importanza di interventi precoci e appropriati al fine di limitare o azzerare il rischio di evoluzioni patologiche.
CAPITOLO 8 AUTISMO
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L’autismo rappresenta una delle più gravi manifestazioni che colpiscono l’individuo nella sua capacità di comunicare e di instaurare relazioni con il mondo esterno. La prima definizione del fenomeno si deve a Kanner che descrisse in 11 bambini i sintomi di quello che definì disturbo autistico del contatto affettivo. In passato, la chiusura che sembra caratterizzare i bambini autistici ha dato adito a supposizioni suggestive sulle motivazioni e i fattori determinanti una così singolare manifestazione: in questa prospettiva il disturbo è stato descritto come un ritiro quasi volontario, in cui l’assenza di linguaggio era interpretata come un rifiuto dello stesso. Nella tradizione psicoanalitica l’autismo è stato inserito all’interno delle psicosi infantili. 8.2 L’autismo: definizioni e criteri diagnostici Le manifestazioni che può assumere l’autismo in individui diversi e a diversi livelli di età sono unificabili dal fatto che, a partire dalla primissima infanzia, in rapporto alle abilità intellettive, tali soggetti hanno avuto maggiore menomazioni nel capire ed esprimere sentimenti e nell’inserirsi in modo reciproco negli scambi sociali. A dispetto di tale comunanza, tuttavia, possono essere diagnosticati come autistici bambini con gravissimi ritardi mentali e individui intellettualmente dotati; adulti che non hanno un vocabolario espressivo comprensibile e altri che parlano che pedante esattezza; persone che manifestano comportamenti auto-distruttivi e altre troppo coscienziose nel curarsi del proprio stato di salute. Alcuni assunti sul disturbo autistico sono condivisi da tempo, e su di essi si basano ancora oggi le principali definizioni e classificazioni: si tratta di una sindrome clinica e l’individuazione avviene sulla base di criteri comportamentali, poiché non esistono marcatori neurologici o biochimici, né agenti patogeni o fattori ereditari univoci che consentano un’individuazione oggettiva del disturbo. è un disturbo a spettro, che presuppone cioè un continuum di sintomi combinati in modo anche diverso tra loro e con livelli di gravità differenti, data l’estrema eterogeneità delle manifestazioni e potenzialmente anche delle cause. si configura come una disabilità permanente. è una diagnosi in evoluzione perché l’espressione dei sintomi varia a seconda dell’età e del livello di sviluppo dell’individuo affetto dal disturbo. è un disturbo ubiquitario poiché diffuso in tutto il mondo, in tutte le razze e in tutti i tipi di famiglie. si presenta spesso in associazione con altri sindromi, disordini specifici e disabilità dello sviluppo. Gli autori si riferiscono alla triade dei disturbi sociali, linguistici e di comportamento. Oltre al disturbo autistico, il DsmIV distingue la Sindrome di Rett, il disturbo disintegrativo della fanciullezza, il disturbo di Asperger e il disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato, in cui è anche incluso l’autismo atipico, considerato invece come categoria a parte dall’Icd10. Criteri del DsmIV-TR per la diagnosi di autismo Un totale di 6 (o più) voci da (1), (2) e (3), con almeno 2 da (1) e una ciascuno da (2) e (3): 1. compromissione qualitativa dell’interazione sociale , manifestata con almeno 2 dei seguenti: a) marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali, come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti, che regolano l’interazione sociale; b) incapacità di sviluppare relazioni coi coetanei adeguate al livello di sviluppo; c) mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone; d) mancanza di reciprocità sociale o emotiva. 2. compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato da almeno 1 dei seguenti: a) ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non accompagnato da un tentativo di compensazione attraverso modalità alternative come gesti o mimica); b) in soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o sostenere una conversazione con altri; c) uso di un linguaggio stereotipato e ripetitivo o di un linguaggio eccentrico; d) mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di giochi di imitazione sociale adeguati al livello di sviluppo.
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3. modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati , come manifestato da almeno 2 dei seguenti: a) dedizione assorbente a uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomali o per intensità o per focalizzazione; b) sottomissione del tutto rigida a inutili abitudini o rituali specifici; c) manierismi motori stereotipati e ripetitivi; d) persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti. Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con esordio prima dei 3 anni di età: interazione sociale; linguaggio usato nella comunicazione sociale; gioco simbolico o di immaginazione. L’anomalia non è meglio attribuibile al disturbo di Rett o al disturbo disintegrativo della fanciullezza. La stima per i disturbi pervasivi dello sviluppo nel loro insieme (disturbo autistico, sindrome di Asperger e Disturbi pervasivi dello sviluppo non altrimenti specificati) varia da 36 casi/10.000, in un’analisi conservativa, a 60/10.000 in una stima più realistica. 8.3 Lo sviluppo nel bambino autistico I problemi relazionali tendono a investire tutta la vita delle persone con autismo. Nei casi più gravi c’è sia un’indifferenza sostanziale alla presenza di persone, anche molto famigliari. I disturbi di socializzazione sono globali e investono sfere come la capacità di fare amicizie e di cercare conforto nelle persone familiari . Nelle persone con autismo con migliori capacità cognitive c’è una discrepanza tra prestazioni buone nei compiti di ragionamento sociale, cioè nel risolvere problemi che implicano tale tipo di ragionamento, e la tendenza a fallire nelle situazioni sociali naturali, quando cioè occorre affrontare concretamente dei problemi che si incontrano nella vita sociale quotidiana. Le carenze nello sviluppo comunicativo e linguistico appaiono, in interazione con quelle nello sviluppo sociale, una caratteristica centrale nella definizione dell’autismo. Già a livello preverbale, si verifica una difficoltà nell’uso della gestualità convenzionale nei rapporti interpersonali, legata a carenze più generali nelle capacità imitative. L’imitazione, vocale e gestuale, è particolarmente compromessa nei bambini autistici, sia in raffronto alle prestazioni degli stessi in altri compiti relativi allo sviluppo senso motorio, sia in confronto a individui con ritardo mentale e normodotati appaiati ai bambini autistici per livello generale di sviluppo. I bambini autistici dimostrano carenze nei comportamenti di attenzione condivisa, in particolare nell’uso dei gesti per indicare o condividere l’esistenza e le caratteristiche di un oggetto. Il linguaggio verbale risulta completamente assente nei casi più gravi. Quando si presenza sembra caratterizzato da alcune peculiarità: ecolalia, l’uso stereotipato e pedante di alcune espressioni verbali, l’uso errato dei pronomi (con inversione pronominale io e tu). Le carenze si focalizzano soprattutto sull’aspetto pragmatico: anche quando le persone con autismo rispondono all’iniziativa altrui e si impegnano in un dialogo, permangono notevoli difficoltà nel riuscire a contribuire fattivamente all’andamento della conversazione, anziché intervenire in essa con commenti non rilevanti. L’impossibilità da parte degli autistici di tradurre in forma narrativa e quindi convenzionale le proprie esperienze li porta ad essere privi di un bagaglio di significati convenzionali che impedisce loro di partecipare in modo significativo all’interazione sociale in genere e alla conversazione in particolare. Sono testimoniate carenze nell’uso di termini cognitivi e nell’uso di termini connotati emozionalmente. Lo sviluppo cognitivo presenta un’estrema variabilità, soprattutto in relazione alle differenze interindividuali nel livello intellettivo. Attualmente si stima che il livello di funzionamento cognitivo degli individui con Disturbi generalizzati dello sviluppo copra tutta la gamma del funzionamento intellettivo, dal ritardo mentale profondo a livelli di intelligenza sopra la media. La maggior parte delle persone con autismo mostra, oltre a ritardi generalizzati nelle capacità comunicative, anche difficoltà nelle abilità attentive e nel controllo dei comportamenti non legati al compito, nonché scarsa tolleranza per le prolungate sedute di testing. Vi è quindi un certo accordo nel ritenere che le abilità basate sull’elaborazione visuo-spaziale siano migliori di quelle basate sul ragionamento verbale. Ciò ha portato
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alcuni autori a ipotizzare che, per lo meno per le persone autistiche ad alto funzionamento, si possa parlare in termini di diverso stile cognitivo piuttosto che di deficit. Dopo tanto tempo, ancora oggi non sono del tutto chiare le ragioni di questa commistione di disabilità e abilità speciali. Si stima che circa il 10% delle persone con autismo possegga le cosiddette abilità savant (musica, arti come la pittura o scultura, calcolo del calendario, matematica, abilità meccaniche e spaziali). Treffet sottolinea alcuni aspetti importanti della savant syndrome: queste abilità sono accompagnate da una memoria eccezionale, si possono differenziare diversi livelli di abilità savant, le abilità savant tendono a mantenersi nel tempo e talvolta gli individui non solo migliorano, ma passano da capacità di tipo ripetitivo o esecutivo ad attività creative vere e proprie, l’esistenza della sindrome savant sembra supportare con notevole evidenza l’importanza della plasticità cerebrale nello sviluppo. Vediamo ora in tabella i principali sintomi che possono presentarsi nei primi anni di vita: Neonati fino a 6 mesi Dai 6 ai 12 mesi Secondo anno Dai 2 ai 3 anni Lattante troppo calmo o troppo nervoso. Può essere irritabile, infastidirsi facilmente. Non allunga le braccia per essere preso in braccio. Lo sviluppo motorio può sembrare normale, talvolta ritardo nel tenere il capo eretto. Non presenta il sorriso sociale. Anomalie nello sguardo. Indifferenza al mondo sonoro e/o ipersensibilità ad alcuni suoni. Interesse particolare per le mani. Disturbi del sonno. Disturbi alimentari.
Anomalie nell’adattamento posturale: in braccio si mantiene a distanza, è troppo rigido o floscio. Può presentare ritardi motori. Non guarda le persone. Scarse espressioni facciali. Nessun gesto simbolico. Nessuna imitazione. Non partecipa a semplici giochi sociali. Lallazione povera, non comincia a usare le parole. No presenta reazioni ansiose di fronte a un estraneo. Può essere affascinato dalle proprie mani. Non si interessa ai giocattoli. Disturbi del sonno. Difficoltà alimentari, soprattutto di fronte a nuove proposte.
Ritardo della locomozione. Atteggiamenti motori particolari (es. dondolio). Insufficiente esplorazione ambientale. Stereotipie. Anomalie nello sguardo. Poche espressioni facciali e scarsi gesti simbolici. Disturbi nella comprensione e produzione linguistica. Reazioni affettive povere o estreme. Giochi poveri o stereotipati. Nessun gioco imitativo. Interessi particolari legati a sensazioni e oggetti specifici. Disturbi del sonno, alimentati e nell’acquisizione dell’igiene personale.
Relazioni interpersonali limitate. Usa le altre persone come oggetti. Contatto visivo limitato. Non si lascia coccolare. Indifferenza verso i genitori. Assenza, ritardo o anomalie del linguaggio. Uso stereotipato e anomalo degli oggetti.
Dai 4 ai 5 anni È molto agitato dai cambiamenti di routine. Permangono limiti nel contatto visivo. Assenza di linguaggio o ecolalia. Caratteristiche peculiari nell’uso dell’intonazione della voce (es. monotonia o volume troppo alto). Attaccamento limitato. Può presentare comportamenti auto lesivi. Può presentare comportamenti auto stimolanti.
Inoltre è importante sottolineare come l’obiettivo di formulare precocemente una diagnosi, a partire dai sintomi evidenziabili nel primo anno di vita, si scontri spesso con una specificità degli stessi in tale periodo. Alcuni autori riscontrano una perdita di competenze precedentemente acquisite a partire dai 10-12 mesi.
8.4 Interpretazioni dell’autismo Carenze nella teoria della mente
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Baron-Cohen, Leslie e Frith avanzarono l’ipotesi che i bambini autistici non avessero la teoria della mente, ossia che non sviluppassero in modo normale la capacità di concepire che le altre persone conoscono, vogliono, sentono e credono in qualcosa. Si è dimostrato che tali bambini manifestano una serie di difficoltà nel capire gli stati mentali proprie e altrui – abilità che normalmente comincia a manifestarsi intorno ai 3-4 anni. La ragione di tale lacuna sembra debba esser cercata in una generale carenza nella capacità metarappresentazionale, capacità che solitamente emerge con il gioco di funzione tra i 18 mesi e i 2 anni. Quindi nel gioco di finzione è implicata una rappresentazione di secondo ordine e un atteggiamento proposizionale, che è quello del far finta. Tale deficit metarappresentazionale è stato evidenziato e confermato da molti studi utilizzando situazioni sperimentali. Gli autori assumono che la costituzione di un modulo della teoria della mente avvenga normalmente su basi innate; che il deficit riscontrabile negli autistici sia legato a un danno neurologico, non ancora individuato con sicurezza allo stato attuale delle conoscenze; che tale deficit della strutturazione mentale sia selettivo e spieghi i disturbi nella socializzazione, nella comunicazione e nell’immaginazione, nonché le buone prestazioni in quelle aree di sviluppo che non implicano meta rappresentazioni. Al di là delle conferme dell’esistenza di un problema a questo livello, diversi autori ritengono poco chiaro quanto i deficit nella teoria della mente spieghino i problemi a livello sociale o quanto piuttosto essi derivino dalle precoci anomalie delle competenze sociali e conseguentemente dalla limitatezza delle esperienze connesse. Alcuni obbiettano che l’esistenza di una teoria della mente sia deducibile solo dalla comprensione delle false credenze e dall’uso di un vocabolario adatto a descrivere gli stati mentali. Essi ritengono sia difficile sostenere che una carenza nel riconoscere gli stati mentali altrui possa essere il nucleo della sindrome autistica. L’ipotesi di un deficit allo sviluppo della teoria della mente non spiega molte manifestazioni non strettamente attinenti alle competenze sociali, quali il repertorio ristretto di comportamenti ripetitivi e ossessivi, la rigidità, la perseverazione e la presenza di un profilo cognitivo con evidenti discrepanze. Coerenza centrale debole Tentativi di spiegare le difficoltà di natura non sociale sono rappresentati dall’ipotesi che gli autistici possano avere un deficit della coerenza centrale, vale a dire un problema che impedisce loro di elaborare le informazioni nel loro complesso ostacolando l’accesso ai significati di più alto livello. Uta Frith afferma che alla base dell’autismo ci sia una scarsa tendenza a cercare il significato globale a partire da un insieme di stimoli e sia presente invece un’attitudine a concentrarsi sui singoli dettagli. Tale propensione viene definita coerenza centrale debole. L’ipotesi del deficit della coerenza centrale debole spiegherebbe le carenze nel linguaggio. I bambini con autismo, differentemente da quelli con sviluppo tipico, nei compiti di ripetizione di materiale verbale non mostrano risultati migliori quando le parole da ripetere sono collegate per significato e formano vere e proprie frasi, anziché espressioni senza senso. In generale dunque, appare compromessa la capacità di trovare un significato globale a un insieme di stimoli in quanto le informazioni sono trattate in modo frammentario e sganciato dal contesto. Deficit nelle funzioni esecutive L’altra ipotesi attualmente in discussione richiama il coinvolgimento delle funzioni esecutive, ossia delle abilità implicate nel pianificare e organizzare l’azione, nell’inibire risposte automatiche e nell’anticipare la progressione di un evento. Il comportamento delle persone autistiche appare spesso rigido e inflessibile. Alcuni individui possiedono ampia memoria meccanica, ma non accennano ad utilizzare in maniera funzionale tale capacità. Questa teoria sembra spiegare meglio delle altre la presenza di stereotipie e interessi limitati, tuttavia, i deficit delle funzioni esecutive sono presenti in molti disturbi evolutivi e forniscono dunque una spiegazione troppo generale che non rende conto della specificità dell’autismo. Deficit socio-affettivo primario Hobson propone un’interpretazione del fenomeno che consenta di trattare separatamente il problema delle cause dell’autismo dalla patogenesi del fenomeno, ossia dalla modalità con cui si esprime l’anomalia e con cui il disturbo si sviluppa. I fattori organici non consentono di stabilire una relazione diretta tra danno cerebrale e disabilità specifica. Il tema centrale di Hobson è la definizione di un piccolo numero di deficit psicologici alla base dell’autismo, ossia la costruzione di un modello esplicativo su base psicologica. L’autore sostiene che sia tipico delle persone autistiche un
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accesso limitato al concetto di persona, traducibile in una difficoltà a concepire gli individui come portatori di esperienze soggettive e di orientamenti psicologici nei confronti del mondo. Egli ritiene che il nucleo di base che spiega questa attitudine e gli altri deficit sia la capacità distorta o assente di intersubjective engagement with others. In questa prospettiva, le difficoltà dimostrate nel comprendere gli stati mentali avrebbero la loro base in una incapacità innata a instaurare i normali contatti affettivi con le persone. Tale primitiva abilità, intesa come profonda mancanza di connessione emotiva sembra essere tale da suscitare una sensazione forte di inaccessibilità anche nelle persone più vicine. Zappella sostiene che in alcuni casi l’autismo sia espressione di quadri depressivi o bipolari a esordi precoce. Un alettura del fenomeno in chiave relazionale deve partire dalla considerazione del ruolo fondamentale che la reciprocità sociale riveste nella crescita normale dell’essere umano. Dall’intersoggettività primaria dei primi mesi (relazione a 2 non mediata da oggetti) all’intersoggettività secondaria. Tra la fine dal 1 e l’inizio del 2 anno di vita, il bambino comincia a rapportarsi all’adulto come a un individuo dotato di intenzioni, elaborando una teoria della mente. Con la comparsa del gioco simbolico e con la capacità di narrare, prendono forma le prime esperienze di interpretazione, trasformazione e elaborazione del reale e modalità più mature di condivisione di significati. Nei bambini autistici possono risultare compromesse diverse forme di reciprocità sociale. Il risultato è che nei primi anni di vita molti bambini con autismo si trovano a non utilizzare il rapporto con una mente adulta che ne consenta la crescita emotiva e cognitiva. Compromissione del sistema dei neuroni specchio I neuroni specchi si attivano sia quando si compie un’azione, sia quando si osservano altri che la compiono: questo fatto ha portato a ipotizzare che tale meccanismo sia alla base della comprensione delle azioni altrui. L’imitazione è la modalità di apprendimento più utilizzata nel corso dello sviluppo, essa è fondamentale per l’acquisizione delle capacità sociali di base, per la capacità di decodificare le espressioni e i gesti, per la comprensione degli obiettivi, delle intenzioni e dei desideri di altre persone. Vista l’importanza dei neuroni specchio per la capacità di imitazione, appare naturale pensare a un coinvolgimento del sistema dei neuroni specchio nell’empatia. Empatizzare richiede anche processi di elaborazione delle emozioni e quindi anche il coinvolgimento del sistema limbico. Un aspetto fondamentale nelle interazioni sociali è l’abilità di comprendere gli stati mentali altrui. Visto il legame tra il sistema dei neuroni specchio e l’imitazione e il ruolo chiave dell’imitazione nella cognizione sociale, è plausibile che una disfunzione nel sistema dei neuroni specchio induca deficit del comportamento sociale . L’ipotesi di un funzionamento deficitario del sistema dei neuroni specchio spiegherebbe i deficit di imitazioni tipici dell’autismo e le carenze nella comprensione delle altre persone, normalmente esperita attraverso una simulazione incarnata delle loro azioni, intenzioni e emozioni. Non tutta la letteratura scientifica concorda però, con l’ipotesi che tale disfunzione possa essere alla base dell’autismo. 8.5 Le basi biologiche nell’autismo Una prima area di indagine riguarda la constatazione che esistono sindromi su base organica che spesso appaiono associate all’autismo: disturbi cromosomici (sindrome dell’X fragile), disturbi neuro cutanei (sclerosi tubercolosa), disturbi metabolici (fenilchetonuria o ipotiroidismo), disabilità conseguenti a infezioni prenatali (rosolia) o perinatali (encefaliti da herpes). Le cause dell’autismo sono tuttora sconosciute, tuttavia esistono evidenze che indicano la predominanza di fattori genetici. Tra i fattori di rischio le ricerche indicano il genere e la nascita multipla: infatti il disturbo è più frequente nei maschi e si presenta con un’incidenza significativamente maggiore nelle nascite gemellari. La prematurità e il basso peso alla nascita sono considerati fattori di rischio per l’autismo. Dal punto di vista delle differenze biologiche sono accertati: alterazioni relative ai neurotrasmettitori (serotonina), un’accresciuta circonferenza del cranio e anomalie in diverse parti del sistema nervoso. Occorre tuttavia precisare che allo stato attuale delle conoscenze non esiste un singolo danno organico cui la sindrome possa essere attribuita con certezza. 8.6 Decorso
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L’indice che risulta esser un buon predittore del decorso autistico è il livello intellettivo globale, dato dalle prestazioni verbali e da quelle non verbali. Il livello di sviluppo del linguaggio è un’ulteriore variabile che contribuisce al delinearsi del decorso in quanto legato anche alle abilità comportamenti e di socializzazione. Generalizzando, più alto è il livello intellettivo, più favorevole è il decorso. Una complicazione che ha una cospicua incidenza e che rivela un certo substrato neurologico del disturbo riguarda l’insorgere dell’epilessia. In generale possiamo dire che il 5% degli autistici è autosufficiente, il 50% non sviluppa l’uso del linguaggio e una percentuale simile continua a manifestare comportamenti auto lesivi e iperattività. 8.7 Trattamento Non esistono terapie che possano con certezza rendere reversibile questo disturbo. Trattamento Il trattamento psicoterapeutico non è di facile applicazione: i bambini autistici hanno grosse limitazioni psicoterapeutico nell’attività ludica che spesso costituisce la base delle psicoterapie infantili a orientamento analitico. Tuttavia alcuni autori riportano risultati incoraggianti derivanti dall’applicazione di tale forma di trattamento. Il lavoro con i bambini autistici richiede un setting rigoroso e un ambiente semplice e ordinato che diano fiducia al bambino. Fondamentale per la riuscita della terapia è il coinvolgimento dei genitori. Trattamenti Tali trattamenti utilizzano tecniche quali: rivolti alla rinforzo positivo: premiare un comportamento desiderabile per renderne più frequente la modificazione comparsa. del punizione: opposto al rinforzo positivo. comportamento modellamento: fornire graduali rinforzi via via che il bambino si avvicina al comportamento desiderato. ricompensa: per un altro comportamento, è una tecnica con cui si premiano comportamenti che sono incompatibili con l’attività di cui si desidera l’estinzione. I bambini che iniziano il trattamento in età più precoce fanno maggiori progressi, infatti coloro che raggiungono miglioramenti consistenti e duraturi sono sottoposti a un precoce e intensivo trattamento (40 ore settimanali), che consente loro di acquisire buone capacità linguistiche, sociali, di gioco e comportamentali. Programma Il programma Teacch si configura non solo come trattamento specifico, ma come rete di servizi rivolti a Teacch persone di tutte le età e di tutti i livelli di funzionamento con diagnosi di autismo. Programma di L’Aerc propone un intervento che mobilita le risorse relazionali dei genitori e le mette al servizio di una attivazione ripresa della crescita della mente e di un recupero di abilità rimaste latenti. L’intervento prende avvio emotiva e da un’osservazione, effettuata anche attraverso uno specchio unidirezionale. La stanza di osservazione reciprocità deve essere attrezzata in modo tale che il bambino si senta libero di muoversi e possa accedere ad corporea (Aerc) alcuni giochi. L’Aerc propone di stimolare un canale comunicativo altamente emozionale, in modo da attivare i bambini su diversi livelli e favorire gradualmente la crescita delle loro capacità. Developmental, Il Dir si fonda su un’attenta osservazione dello sviluppo, basata sulla mappa della crescita socioindividualemotiva formulata da Greenspan. Enfatizza inoltre le differenze individuali, data l’unicità di ciascun difference, bambino e la necessità di adattare il trattamento alle caratteristiche individuali. Infine, basandosi sui relashionship punti precedenti, il trattamento avviene in un contesto emotivo relazionale intenso, tarato sulle based model competenze e gli interessi del bambino. Attraverso tale trattamento si vuole condurre il bambino a (Dir) imparare a stabilire rapporti affettuosi con adulti e coetanei, a realizzare con gesti e parole una comunicazione significativa, a sviluppare capacità di pensiero caratterizzate da un livello elevato di ragionamento astratto e empatia. Metodo della Applicato inizialmente da Rosemary Crossley, non si propone come intervento riabilitativo e comunicazione terapeutico, ma rientra nel contesto generale della comunicazione aumentativa, espressione utilizzata facilitata per identificare le strategie di comunicazione non verbale usate da persone non audiolese. Lo scopo è quindi quello di consentire ad autistici non parlanti un accesso alla comunicazione. WOCE (written output communication enhancement): scrittura per lo sviluppo della comunicazione. L’enfasi in questo sistema di supporto è su un training complesso, finalizzato all’acquisizione di abilità di indicazione intenzionale, ossia orientata alla comunicazione, al raggiungimento di un maggior controllo nella programmazione dell’atto motorio volontario e all’acquisizione di abilità simboliche e di scrittura finalizzate alla comunicazione. CAPITOLO 9 DISABILITÀ E FAMIGLIA
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La nascita di un bambino disabile rappresenta una potenziale fonte di difficoltà e disagio per qualsiasi famiglia. La convinzione è che un approccio sulla normalità della famiglia sia più funzionale alla progettazione di interventi a bisogni reali, piuttosto che impostati pregiudizialmente. Compiere questa operazione significa lavorare sulle differenze: i concetti di ciclo di vita e fasi di transizione mettono infatti in evidenza come qualsiasi nucleo nella sua evoluzione si trovi ad affrontare compiti che richiedono un più o meno vasto processo di riorganizzazione. Tener conto delle differenze e considerare la famiglia come protagonista di un processo di adattamento, oltre che vittima di una situazione strettante, significa metterla a pieno titolo nel processo terapeutico, sia per quanto riguarda i supporti psicologici e materiali di cui necessita, sia per quanto riguarda l’attivazione delle risorse di cui è portatrice. 9.2 Le famiglie di fronte alla disabilità La nascita di un figlio comporta sempre un certo grado di confusione e di disorganizzazione: quando nasce un bambino disabile, l’evento si connota come altamente stressante, anche perché spesso sono più ridotte le fonti di gratificazione. Diversi autori propongono di applicare allo studio di processi adattivi un modello multivariato, in base al quale il modo in cui una famiglia reagisce a circostanze difficili risulta dall’interazione tra diversi fattori: le dinamiche familiari, la capacità di effettuare una valutazione corretta del problema, le strategie disponibili per affrontarlo, le risorse materiali, i supporti sociali forniti dall’esterno. La nascita di un bambino disabile comporterebbe una situazione di perdita e la necessità di elaborare un lutto. Diversi autori hanno tentato di delineare le fasi attraverso le quali si arriva all’elaborazione di un lutto: dallo shock e dal dolore iniziali si genererebbero sensi di colpa e rabbia, fino ad arrivare a una fase di trattativa che sfocerebbe in un’accettazione del problema e nell’elaborazione di un progetto. Alcuni fattori contribuiscono maggiormente alla diversità di itinerari adattivi: 1) una prima variabile è la situazione del bambino, legata alla natura e alla gravità della disabilità, all’eventuale presenza di comportamenti problematici e alla loro frequenza, allo stato di salute, al manifestarsi di disturbi del sonno. In sintesi, quanto più si accumula una molteplicità di carichi fisici e psicologici in relazione alla concomitanza di più problemi nello stesso bambino, tanto più lo stress quotidiano è difficile da superare. 2) un’altra variabile è costituita dalle caratteristiche personali che gli individui coinvolti mettono in gioco di fronte all’evento stressante: capacità personali, che coinvolgono sia un versante emotivo (capacità di accettazione, controllo delle emozioni negative) che un versante cognitivo (capacità di valutare correttamente la natura dell’evento), hanno maggiori possibilità di manifestarsi e di svilupparsi in un contesto ricco di risorse e fonti di supporto. 3) la rete di supporto intrafamiliare aiuta ad affrontare i compiti di accudimento: il raggiungimento di un equilibrio soddisfacente sembra essere collegato alla cooperazione dei genitori, a una suddivisione dei compiti percepita come soddisfacente dalle persone coinvolte, alla qualità del rapporto coniugale, alla partecipazione di componenti della famiglia allargata. 4) gli studi sul supporto mettono in risalto l’importanza del supporto sociale e delle risorse che la comunità riesce ad attivare di fronte alla disabilità: un supporto psicologico e un’offerta di servizi e i conseguenti rapporti che si instaurano con diverse figure professionali. Talvolta, tuttavia, il rapporto con i servizi si trasforma per le famiglie in un’ulteriore fonte di stress. Madri di bambini con ritardo mentale individuano 4 fattori che differenziano professionisti supportavi e non: la personale capacità relazionale, la percezione genitoriale di aver a che fare con una persona competente, il livello di collaboratività, l’efficienza. I risultati indicano che nonostante gli elevati livelli di stress legati alla condizione del figlio, i genitori come gruppo sembrano soddisfatti del ruolo parentale e del funzionamento del sistema familiare. Tuttavia la ricerca segnala la presenza di problemi di adattamento significativi per alcuni genitori contattati; essi sembrano legati soprattutto all’accumulo di eventi impegnativi e stressanti, alla carenza del supporto coniugale e alla bassa possibilità di vicariare tale carenza ricorrendo a supporti esterni.
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9.3 I ruoli all’interno della famiglia La ricerca sulla famiglia ha messo in luce l’impatto differenziato che l’evento disabilità può avere su ciascuno dei suoi membri. La soddisfazione e la coesione coniugale sono fattori che influenzano l’adattamento e la capacità di riorganizzazione della famiglia. Ma in che modo contribuisce ciascun membro, in particolare ciascun genitore, a tale riorganizzazione? A questo proposito diverse ricerche si sono focalizzate sulle eventuali differenze tra madri e padri di bambini disabili nella percezione della situazione e nelle modalità di reazione prevalenti. I risultati delle ricerche non mostrano andamenti univoci. Le madri continuano a essere il cardine della presa in carico dei bambini disabili. Spesso, per far fronte alle maggiori responsabilità quotidiane legate all’accudimento del figlio, le madri rinunciano a diverse opportunità di sviluppo personale, per esempio in ambito lavorativo: tale situazione porterebbe in alcuni casi al manifestarsi di sentimenti di depressione e rabbia, oltre a una caduta del livello di autostima. In questa prospettiva il ruolo del padre è stato tradizionalmente letto come più marginale e maggiormente orientato a fronteggiare l’aspetto economico della situazione. Tuttavia, proprio lo scarso coinvolgimento può ridurre l’opportunità di controbilanciare i sentimenti negativi di frustrazione, rabbia, colpa attraverso l’impegno quotidiano nei confronti del figlio. Successivamente, la ricerca ha mostrano un maggiore interesse per la figura paterna. I risultati nel loro insieme suggeriscono che i padri sono più a rischio delle madri nello sviluppo di solidi legami affettivi con il figlio, mentre le madri mostrerebbero più elevati livelli di depressione o maggiori difficoltà nell’adattarsi alle richieste del ruolo parentale. La presenza di una disabilità rappresenta un evento che coinvolge l’intero sistema familiare a vari livelli. Ciascun componente può reagire alla situazione con modalità che saranno di volta in volta influenzate anche dal gioco complessivo delle relazioni familiari: particolarmente interessante appare la posizione dei fratelli di un individuo disabile. Da quanto emerge dalla letteratura, gli effetti negativi, qualora presenti, varierebbero da un ampio spettro di problematiche comportamentali (aggressività, impulsività, ipercinesia) a veri e propri disturbi psichiatrici. possibili spiegazioni di tali esiti sono state cercate nella relativa carenza di cure parentali e nelle troppo precoci spinte alla crescita e all’autonomia. Alcuni autori parlano del rischio di una precoce genitorializzazione. Inoltre, altre conseguenze possono derivare, direttamente o indirettamente, dalla frustrazione, dalla colpa e dalla vergogna collegate all’esperienza di un familiare disabile. Pensando sinteticamente ai fattori di rischio evidenziati (deprivazione, genitorializzazione, vergogna e isolamento) è evidente come essi siano ancora una volta collegati alle fasi evolutive del bambino e della famiglia, alla quantità e qualità dei supporti sociali, all’ambiente socioeconomico e culturale di riferimento. Povertà di risorse economiche, scarsi supporti sociali, densità di pregiudizi contro la diversità, difficoltà di adattamento sono condizioni che mettono anche i figli non disabili in situazione di maggiore difficoltà. Quando invece le condizioni socio ambientali e le attitudini personali consentono ai genitori di adattarsi alla situazione e di accettare il figlio disabile, anche i fratelli risultano positivamente influenzati dal clima generale. 9.4 Fasi di sviluppo del bambino e della famiglia La tendenza attuale è considerare la famiglia come un sistema in evoluzione. Sicuramente la nascita di un bambino disabile o comunque il momento della scoperta del disturbo è un fenomeno dirompente all’interno del ciclo vitale di una famiglia, tale da produrre una crisi di ampia portata. È importante sottolineare come, a fronte della traumaticità di tale evento, non sempre i professionisti che informano le famiglie cono anche preparati ad aiutarle nel reggere l’impatto di una simile notizia. Spesso i genitori riferiscono di essersi sentiti soli di fronte alla diagnosi, anche per un mancano sostegno affettivo da parte dei servizi: i genitori desiderano riceve quante più notizie possibili al momento della diagnosi, anche qualora non siano capaci di comprenderle appieno. Esistono però altre fasi cruciali, che spesso coincidono con tappe importanti nella crescita di un figlio, che pongono ai familiari nuovi problemi di adattamento. Crescendo spesso aumenta la discrepanza rispetto ai coetanei, sia in termini di livello evolutivo, sia in termini di bisogni e interessi. Questo fatto contribuisce a intensificare il rischio di isolamento del nucleo famigliare. Il momento dell’ingresso a scuola può costituire un altro passaggio molto delicato, soprattutto quando il bambino disabile non ha
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la possibilità di condividere le linee essenziali dei programmi svolti in classe. L’ingresso nella pubertà e poi nell’età adulta costituiscono anch’essi momenti evolutivi cruciali. Talvolta la gravità del problema costituisce una difficoltà oggettiva all’emancipazione del ragazzo dalle figure famigliari; talvolta invece tale emancipazione è ostacolata soprattutto dalle barriere psicologiche che relegano la persona disabile al ruolo di eterno bambino. Nelle situazioni di disabilità emergono alcuni atteggiamenti culturali generalizzati nei confronti della sessualità. Il problema del vivere la sessualità non si pone nella stessa misura e con le stesse caratteristiche per tutti i disabili e inoltre i bisogni affettivi, di contatto e di intimità accompagnano quello di avere una vita sessuale. Questo fatto apre potenzialmente il discorso a tematiche più generali di integrazione sociale. Assumono un’importanza fondamentale le modalità con cui una famiglia affronta la crescita del figlio in genere e l’affacciarsi della possibilità di una vita sessuale: situazioni di forte dipendenza reciproca e iperprotettività da parte dei famigliari sono base di un potenziale disconoscimento anche dei bisogni legati alla sfera della sessualità. Il rischio è quello che i soggetti di decisioni così private e importati siano altri: il disabile non ha vita privata, tutto ciò che lo riguarda viene in qualche modo etero diretto. Ci sembra importante, infine, menzionare la possibilità che la disabilità si presenti come un evento inaspettato i un momento qualsiasi del ciclo di vita di una famiglia, colpendo in prima persona uno qualunque dei suoi membri. In tali casi i famigliari si trovano a doversi adattare a cambiamenti, talvolta molto rilevanti, nelle abitudini di vita e anche nella rappresentazione mentale della persona divenuta disabile. 9.5 La famiglia e il trattamento Appare chiaro come la famiglia sia un anello fondamentale del processo terapeutico in diversi sensi: un intervento efficace richiede attenzione sia per le domande specifiche poste dal bambino e dai limiti connessi alla disabilità, sia per la fase evolutiva e per i bisogni della famiglia; la famiglia partecipa attivamente alle decisioni che riguardano il piano di trattamento per il proprio figlio; la famiglia è coinvolta nel trattamento del figlio, anche se in misura diversa secondo i casi e con un ruolo proprio, diverso da quello dei terapisti e degli educatori; qualora le condizioni lo rendano necessario è ipotizzabile un intervento di supporto psicologico e/o materiali alla famiglia. I cicli di vita della famiglia relativi alla crescita del membro disabile sono legati all’emergere di nuovi bisogni e alle conseguenti necessità di riorganizzazione. I problemi che sembrano emergere con maggiore facilità sono una certa resistenza di fronte alla crescita e all’emancipazione del figlio disabile. Uno dei problemi non marginali è quello di far sì che l’individuo acquisti gradualmente consapevolezza della sua situazione e si ponga in modo via via sempre più attivo rispetto alle scelte che lo riguardano. Talvolta si ha la sensazione che la riabilitazione, l’intervento siano prescritti come medicine inevitabili, senza troppa preoccupazione per il fatto che gli utenti ne comprendano il significato complessivo. Il rischio è che le frequenti attività terapeutico/riabilitative assumano insensibilmente il significato di un atto in sè e non la verifica della sua efficacia. Inoltre è importante sottolineare che la famiglia è il primo luogo nel quale è possibile verificare se le competenze apprese vengono di fatto utilizzare nella vita quotidiana. A seconda della natura del trattamento varia la partecipazione auspicabile da parte dei famigliari. In ogni caso è importante che i genitori siano informati dell’intero progetto di intervento, aggiornati sui risultati e sugli eventuali cambiamenti, nonché ascoltati dagli specialisti almeno per quanto riguarda i riscontri delle terapie nella vita quotidiana. Abbandonare la prospettiva di una famiglia necessariamente patologica e riconoscerne il ruolo fondamentale nella collaborazione con i servizi non significa negare le necessità di supporto che via via possono emergere. Singer e Irvin offrono una panoramica degli interventi possibili distinguendoli in diverse tipologie: Interventi volti a ridurre le fonti di stress
Vengono comprese sia le forme di supporto pratico sia servizi educativi per bambini e genitori. Sembrano funzionali a ridurre lo stress i servizi “sollievo nel prendersi cura” che offrono ai genitori la possibilità di staccare momentaneamente dalla cura quotidiana del bambino, assolvendo al
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ruolo normalmente ricoperto dai nonni o dalle baby-sitter. Anche il supporto economico è in alcuni casi molto importante dato l’aumento di spese e la diminuzione di risorse lavorative che spesso comporta la presenza della disabilità. La presenza di strutture educative dove il bambino può accrescere le sue competenze nella cura personale, nelle relazioni sociali, nella comunicazione allevia notevolmente la fatica dei familiari nella gestione delle attività quotidiane. I programmi di parent training prevedono di offrire linee guida per una partecipazione più consapevole alle normali interazioni quotidiane (piuttosto che un elenco di attività da svolgere come sedute riabilitative). In generale si va diffondendo l’esigenza di interventi di educazione familiare, rivolti al sostegno e al potenziamento della genitorialità secondo una prospettiva basata sulla competenza, dove si punta a un ruolo attivo degli individui coinvolti. Interventi centrati sull’affinamento delle capacità di valutazione e di coping
Si tratta di insegnare ai genitori l’uso di strategie per far fronte allo stress e per evitare di farsi sopraffare da sentimenti depressivi, di bassa autostima ecc. Le abilità insegnate vanno dalla capacità di identificare le fonti e i sintomi dello stress, all’usare forme di rilassamento, al modificare pensieri negativi automatici, al cercare supporto sociale, all’aumentare le attività piacevoli. Le modalità di tale intervengono possono essere diverse, ma si è verificata l’efficacia di gruppi guidati di discussione e di apprendimento formati da genitori di bambini disabili.
Intervento finalizzato a rinforzare la rete di supporti sociali al di fuori della famiglia
Altri genitori che condividono le stesse esperienze possono costituire non solo una fonte di sostegno emotivo, ma anche un’opportunità di affrontare e risolvere problemi attraverso lo scambio di esperienze. Il professionista può assumere un ruolo di consulente rispetto ai problemi, di guida del gruppo, di facilitatore della comunicazione. Gli studi evidenziano risultati non sempre univoci rispetto ai vantaggi associati alla partecipazione a tali gruppi: alcuni genitori, soprattutto quelli che percepiscono maggiore necessità di supporto e sono in grado di interagire efficacemente in un gruppo, traggono benefici da tale esperienza. D’altra parte, sembra che i genitori che hanno meno bisogno di supporto traggano dalla partecipazione ai gruppi effetti non chiari o negativi.
Interventi tesi a migliorare le relazioni all’interno della famiglia Interventi finalizzati e migliorare i rapporti tra genitori e professionisti
Essi possono essere finalizzati all’insegnamento di competenze comunicative efficaci per far fronte a situazioni critiche, oppure la terapia può mirare a un incremento della soddisfazione nel matrimonio.
Si concretizzano sia attraverso programmi per modificare gli atteggiamenti dei professionisti e migliorarne le competenze comunicative; sia attraverso l’insegnamento ai genitori di strategie per interagire efficacemente con le figure professionali in diverse situazioni. Talvolta alcuni ostacoli organizzativi rendono difficile una collaborazione pienamente efficace: un problema è quello della segmentazione del servizio reso alle famiglie. La moltitudine dei professionisti e delle agenzie coinvolte costituisce un quadro frammentario che non favorisce la necessaria coordinazione tra gli interventi. Alcuni autori auspicano la presenza di un operatore addetto alla funzione chiave di collegamento. I suoi compiti non devono limitarsi al raccordo tra servizi e alla trasmissione di informazioni, ama tale figura potrebbe diventare e vero e proprio referente per la famiglia, fornendo a essa un feedback continuo sui progressi compiuti dal bambino e sui percorsi di cura e educazione.
Emerge dunque come nessun intervento possa di per sé essere considerato risolutivo rispetto al ventaglio di problemi possibili: l’utilità di ciascun intervento va considerata alla luce delle domande specifiche di una certa famiglia in una data fase della sua evoluzione. In Italia la legge quadro sull’handicap (104/1992) formalizza i diritti delle persone disabili e delle famiglie in diversi settori: diagnosi e cura, integrazione sociale, integrazione scolastica, integrazione lavorativa, abbattimento delle barriere architettoniche, facilitazioni negli impegni lavorativi per le famiglie con un membro disabile, partecipazione delle famiglie alle fasi di progettazione degli interventi educativi. CAPITOLO 10 L’INTEGRAZIONE SCOLASTICA: UNA QUESTIONE DI RELAZIONI
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L’integrazione degli alunni disabili nella scuola di tutti è un processo che dall’inizio degli anni ’70 caratterizza il nostro sistema formativo. L’integrazione scolastica si colloca all’interno del più generale tema della piena attuazione del diritto allo studio, secondo i principi affermati nella nostra Costituzione. In questa fase, nuovi scenari in campo sociale caratterizzano il mondo della scuola. Tali cambiamenti non possono non interessare anche la qualità e le prospettive del processo di integrazione. Questo contributo svilupperà le seguenti tematiche: il ruolo della scuola nel progetto di integrazione, analisi della normativa secondo un approccio storico-sociologico, incidenza delle scelte di politica scolastica dell’ultimo decennio sul processo di integrazione, ruolo del docente di sostegno alle luce delle innovazioni in campo legislativo, analisi di alcune variabili della dimensione psicopedagogica del processo di integrazione, cenni sull’integrazione scolastica nell’Ue. Verrà evidenziata l’esigenza di migliorare la dimensione organizzativa e metodologica del processo di integrazione nella scuola attraverso la proposta di indicatori di qualità. 10.2 Il ruolo della Scuola nel Progetto di Vita Viene descritta la struttura e l’applicazione della Classificazione internazionale del funzionamento della disabilità e della salute (Icf) introdotta nel 2001 dall’Oms. Tale classificazione e il cambiamento di prospettiva determinatosi sul piano diagnostico e culturale costituiranno lo sfondo del presente contributo, che ha per oggetto il ruolo della scuola nel Progetto di vita. Attraverso la scuola possono essere realizzati quei percorsi di autonomia personale, affettiva, cognitiva che aprono ai bambini disabili la possibilità di vedersi protagonisti delle proprie scelte in una prospettiva di futuro. Il ruolo della scuola nel processo d integrazione ha subito un’evoluzione negli ultimi anni. La graduale applicazione dei criteri e dei principi che stanno alla base dell’Icf e il potenziale innovativo delle tecnologie applicate soprattutto in campo terapeutico, riabilitativo e formativo, hanno sensibilmente modificato i confini di alcuni concetti che solo alcuni anni fa sembravano insormontabili. Le discipline e i mondi professionali che concorrono a un efficiente trattamento della disabilità risultano oggi fortemente interconnessi e più efficaci che in passato. La scuola interviene prioritariamente sulla dimensione di svantaggio personale comunicativo correlato alla situazione di disabilità, stimolando un processo di apprendimento graduale e personalizzato che coinvolge tutti gli alunni della classe, con l’obiettivo di rimuovere quelle barriere fisiche, psicologiche e sociali che impediscono al bambino di vivere pienamente le fasi di strutturazione dell’identità personale. Analogamente, la riabilitazione è anch’essa un processo di apprendimento, facilitato da operatori esperti sul funzionamento della specifica disabilità. Si tratta della riappropriazione di regole atte a guidare una catena di eventi strutturali/funzionali che possono riprodurre la sequenza comportamentale mai raggiunta o perduta. Il termine riabilitare rimanda alla promozione di un adattamento all’ambiente sociale in cui l’individuo vive, tale processo avrà possibilità di riuscita quanto più sarà precoce e in rete con tutti gli altri interventi professionali messi in campo a favore della persona. La scuola si differenzia dalla riabilitazione in quanto per sua natura si rivolge a tutti i minori e verso ciascuno di essi attua un intervento formativo tendente a una sostanziale uguaglianza di risultati. Quindi anche al bambino disabile la scuola si rivolge secondo gli stessi criteri formativi: nei suoi confronti si adattano le strategie, si differenziano i percorsi, ma l’obiettivo di fondo resta quello di consentirgli di strutturare un’immagine di sé integra e di riconoscere e affrontare gradualmente le difficoltà legate alla disabilità, per potervi convivere in una prospettiva evolutiva. Il confronto con gli operatori della sanità e della scuola garantisce l’integrazione degli interventi professionali necessaria a dare senso e unitarietà al progetto, secondo le indicazioni che offre l’Icf e senza trascurare la condivisione dello studente e della famiglia in tutte le fasi di attuazione del progetto. La definizione di persona in situazione di handicap (dalla legge 104/92): “colui/colei che presenti una minorazione fisica e/o psichica e/o sensoriale, stabilizzata o progressiva che è causa di difficoltà di apprendimento, relazione, integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”. Tale definizione:
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evidenzia come le aree di difficoltà che la persona in situazione di handicap incontra sul piano esistenziale vengano prese in considerazione all’interno dell’intervento educativo e scolastico, richiama i rischi di un esito negativo a lungo termine: la situazione, senza interventi, rischia di tradursi in emarginazione sociale, riconosce il ruolo dell’intervento precoce per prevenire ulteriori e successivi svantaggi.
Dunque l’esperienza scolastica ha la capacità di assumere ruoli diversificati nel contesto di vita da parte della persona disabile. Tale intervento si sviluppa su un piano sia trasversale, esteso a tutte le aree dell’azione formativa, sia longitudinale articolato nel tempo, lungo tutta l’esperienza scolastica dell’individuo. Tale progetto tende a favorire: il consolidamento di una positiva immagine di sé attraverso processi di identificazione con coetanei e con adulti in un clima relazionale accogliente, la conquista di un’autonomia personale intesa come capacità di fare scelte e di prendere decisioni sul piano intellettivo e affettivo, di imparare a regolare e dirigere la propria vita, di instaurare rapporti paritetici, un processo di apprendimento che, rispettando i ritmi individuali, attraverso percorsi didattici differenziati e potenziati dalle tecnologie, sviluppi al massimo le capacità cognitive e comunicativo-sociali, garantendo l’acquisizione di competenze meta cognitive. Ciascun livello scolastico ha il compito di guardare oltre: tra tutti gli interventi istituzionali, quello scolastico si configura come uno dei più costanti e significativi. I docenti hanno il compito di liberare il bambino disabile dal guscio di bambino per sempre e di cercare di vederlo in prospettiva come l’adulto che potrà diventare inserito all’interno di un sistema sociale che garantisce diritti universali di cittadinanza. Seconda una prospettiva di relativismo culturale, le limitazioni conseguenti alla disabilità appaiono relative ai contesti; acquisirne la consapevolezza rappresenta un presupposto concettuale e pragmatico per il progetto di vita. 10.3 La legislazione italiana sull’integrazione scolastica Il riconoscimento del diritto allo studio contenuto nella Costituzione è da intendersi come tutela soggettiva affinché le istituzioni scolastiche predispongano le condizioni e realizzino le attività utili al raggiungimento del successo formativo. Sul piano sociologico, la disabilità rientra nella categoria della diversità. Nella prima metà del Novecento in Italia soltanto ai bambini sordi e ciechi (cioè con minorazioni sensoriali) era garantita la scolarizzazione in appositi istituti e scuole speciali. La Costituzione afferma i principi di: rimozione degli ostacoli che limitano il pieno sviluppo della personalità umana, universalità della scuola e del diritto allo studio , garantito indipendentemente dalle condizioni di partenza, diritto all’educazione degli inabili e minorati . Costituzione
Nel 1962, con l’istituzione della scuola media unificata si avviò nel nostro paese il fenomeno della scolarizzazione di massa. Di fatto tali provvedimenti non evitarono il mantenimento di alti tassi di selezione sociale attraverso i meccanismi della selezione scolastica. La scuola infatti non fu in grado d rispondere ai bisogni formativi di una nuova utenza scolastica socialmente disomogenea, spesso caratterizzata da gravi forme di disadattamento ambientale e da scarse competenze nell’uso della lingua. Così, mentre nella scuole elementari speciali entravano soggetti cosiddetti minorati, con la legge del 1962 venivano istituite le classi differenziali dove si realizzava un programma di studi parallelo con tempi distesi rispetto alla scuola comune. Di fatto, si strutturò un canale formativo separato per quella fascia di alunni non disabili che trovavano, nel rapporto con la scuola, un handicap sul piano della comunicazione linguistica. Si trattava di ragazzi difficili che creavano problemi di gestione comportamentale e di organizzazione didattica. Dalla deprivazione socioculturale all’handicap vero e proprio il passo fu breve. 1962: Scuola media unificata
Anni ’70: democratizzazione della scuola
L’inserimento nella scuola degli alunni disabili trovò nuove tutele: la legge 118 del 1971 assicurava la frequenza scolastica a invalidi civili e mutilati. L’interpretazione estensiva di tale legge consentì le prime esperienze di integrazione di alunni disabili, anche di quelli con disturbi psichici. Dal 1975 la graduale chiusura della scuole speciali fu causata dal
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comprovato fallimento degli interventi speciali attuati in contesti separati. Fu la pressione sociale, esercitata in primo luogo dalle famiglie, a rivendicare l’applicazione del diritto costituzionale di accesso al sistema scolastico di tutti anche per i bambini con disabilità. L’entrata in vigore della legge 517/1977 formalizzò l’assegnazione di un insegnante specializzato al fine di sostenere l’integrazione degli alunni disabili nelle scuole elementari e medie. La stessa legge prevedeva l’introduzione delle attività di gruppo a classi aperte per incentivare le esperienze espressivo-comunicative e le attività di laboratorio, inoltre, abolì le classi differenziali. Di rilevante importanza fu la sentenza della corte costituzionale del 1988 con cui vennero estese anche alla scuola secondaria di primo secondo grado le norme sul diritto allo studio per gli alunni portato di handicap. L’applicazione di tale sentenza segnò il completamento del disegno costituzionale sulle condizioni per una piena attuazione del diritto allo studio. La legge quadro 104 del 1992 regolamenta tutte le problematiche inerenti la vita della persona con handicap. Gli interventi relativi all’integrazione socio-sanitaria della persona disabile, compresi quelli previsti per garantire la frequenza scolastica, furono ulteriormente specificati con l’Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di integrazione scolastica . Questi due provvedimenti definiscono le competenze di tutti i soggetti istituzionali coinvolti a diversi livelli nel processo di integrazione. La fattibilità dell’impianto interistituzionale previsto dalla legge 104/92 è condizionata dalle risorse umane, organizzative, finanziarie di cui dispongono i nuclei operativi consultori ali delle Aziende sanitarie locali all’interno dei quali si collocano le professionalità impiegate insieme alla scuola sul progetto di integrazione. Oltre agli specialisti delle Asl, operano in campo riabilitativo associazioni e centri convenzionali con il servizio sanitario nazionale: tali centri si occupano di specifiche tipologie di disabilità sul piano del trattamento e della riabilitazione e collaborano con la scuola per le parti di loro competenza nell’elaborazione dei documenti previsti dalle legge 104/92, per l’assegnazione dei docenti di sostegno e per il monitoraggio del piano educativo individualizzato (PEI). Sentenza Corte Costituzionale 1988 e Legge quadro 104/1992
Dal 2000 è stata attribuita autonomia organizzativa, gestionale e didattica alle Istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado. Ciò ha determinato una complessa innovazione nelle competenze e nelle responsabilità poste in capo ai dirigenti scolastici e all’organizzazione scolastica nel suo 2000 insieme. L’autonomia scolastica conferisce nuovi compiti agli organi collegiali che definiscono gli indirizzi operativi rendendoli trasparenti attraverso il POF (piano dell’offerta formativa). Tale documento contiene strategie, obiettivi, strumenti, attraverso i quali la scuola prosegue la propria mission formativa in un contesto socioambientale dato. Il dirigente scolastico è garante del contratto formativo che ciascun studente stipula con la scuola per il conseguimento del successo formativo atteso. Al fine di equilibrare i poteri del dirigente scolastico, attraverso una condivisione delle principali scelte strategiche, vengono istituiti organi di rappresentanza del personale scolastico all’interno della singola istituzione scolastica (relazioni sindacali unitarie). Autonomia
I provvedimenti di carattere amministrativo e organizzativo della riforma Gelmini, rispetto ai diversi ordini di scuola, ha l’obiettivo principale della razionalizzazione degli indirizzi e degli orari degli insegnamenti. La produzione legislativa solo indirettamente ha fatto riferimento all’integrazione degli studenti disabili. È stato arduo e non sempre possibile garantire, sul territorio nazionale, la formazione di classi con un tetto reale di 20 alunni in presenza di un alunno disabile. Con la legge 18/2009 il parlamento italiano ha ratificato la convenzione Onu per i diritti alle persone con disabilità. Nelle linee guide per l’integrazione degli alunni disabili vengono ribaditi principi, responsabilità, buone pratiche e dove le attività in rete e il contesto come risorsa rappresentano i concetti portanti dell’integrazione. Riforma Gelmini 2010
10.4 Uguaglianza e diversità 10.4.1 Le fasi dell’integrazione
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Nella prima fase dell’integrazione scolastica, nel decennio 1975-1985, la scuola aveva principalmente perseguito obiettivi di socializzazione. A favore dell’alunno disabile veniva posta l’enfasi sulla dimensione dello stare con gli altri, sulla partecipazione ad ogni attività ed esperienza della scuola, al di là del raggiungimento di obiettivi specifici in termini di apprendimento scolastico. Si valorizzavano quelle attività che potevano condurre l’alunno ad acquisire maggiore autonomia personale, con l’obiettivo di abbassare i livelli di dipendenza dalle figure adulte. Si viveva la fase di una conquistata uguaglianza, dove il bambino disabile doveva essere il più possibile come gli altri. L’obiettivo prioritario era rappresentato da una socializzazione in presenza, mediata dalla figura a cui veniva di fatto delegato il rapporto con l’alunno diverso: l’insegnante di sostegno. Attraverso l’esigenza di rispondere ai bisogni non standardizzati degli alunni disabili, la scuola ha affrontato gradualmente il problema della gestione della diversità all’interno della classe. Dalla metà degli anni ’80 si arricchì la consapevolezza della propria identità e dei propri diritti da parte di nuovi soggetti sociali appartenenti all’area delle minoranze etnico-religiose o culturali colpite da pregiudizio o discriminazione. Un modello teorico basato sull’uguaglianza fu sostituito da un approccio fondato sulla diversità come risorsa individuale: ciascun alunno è diverso da tutti gli altri per elementi di storia e di identità, per stili di apprendimento e per capacità comunicative e cognitive; per questa sua specificità egli va riconosciuto. 10.4.2 L’individualizzazione dell’apprendimento come risorsa strategica Una persona che vive una disabilità non va identificata con la disabilità stessa. Questa visione di tipo olistico sorregge il principio dell’individualizzazione del processo di apprendimento che non riguarda solo l’alunno disabile, ma tutti gli alunni della classe. Per individualizzazione si intende: un lavoro individualizzato che non significa lavoro individuale, un approccio strategico alla formazione che attraverso il trattamento differenziato degli apprendimenti degli alunni persegue il raggiungimento di un risultato definito su un criterio collettivo, una risposta al problema che la gestione delle diversità individuali pone al team docente, un processo che non riguarda solo gli alunni disabili ma tutti gli alunni: i momenti strutturati per individualizzare l’apprendimento devono trovare spazio in alternanza con le fasi di lavoro collettivo e di gruppo. 10.4.3 Gli strumenti per l’integrazione (legge 104/92) Le competenze dei diversi operatori e le tappe di un processo che si configura come vincolante sono enunciate nella legge 104/9 e Dpr del 1994: infatti, della validità e dell’attuazione del PEI sono tenuti a rispondere tutti i soggetti chiamati in causa dal legislatore nei confronti dei minori e delle loro famiglie. La tabella presenta gli strumenti di lavoro necessari per supportare il processo di integrazione dell’alunno disabile per l’individuazione dell’alunno in situazione di handicap.
A
Accordo di programma legge 104/92
B
Individuazione dell’handicap Dpcm 185/2006
C
Diagnosi funzionale Legge 104/92
D
Profilo dinamico funzionale Legge 104/92
Sanità (ASL) Scuola Ente locale
ASL su richiesta dei genitori dispone appositi accertamenti collegiati in tempo utile e non oltre 30 gg dalla ricezione della richiesta Unità multidisciplinare dell’ASL (neuropsichiatria, psicologo ecc.)
Gruppo di lavoro misto istituito ai sensi della legge 104/92
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E
Piano educativo individualizzato Legge 104/92
Gruppo di lavoro misto della scuola (comprendente la famiglia)
La regione emana direttive ai direttori generali delle Aziende sanitarie locali i quali, a loro volta, daranno disposizioni alle Unità operative territoriali per l’applicazione di tali direttive al fine di assicurare il necessario supporto diagnostico e riabilitativo al processo di integrazione scolastica. La direzione regionale scolastica, attraverso i propri ambiti territoriali, attribuisce le risorse e diffonde le linee guida presso le istituzioni scolastiche autonome per il conseguimento degli obiettivi formativi da parte degli alunni con disabilità. La legislazione richiamata fa riferimento a un modello diagnostico che potremmo definire dinamico-strutturale, che intende superare la linearità del modello d diagnosi descrittiva. Il profilo dinamico funzionale rappresenta il momento di scambio di aspettative conoscenze informazioni ipotesi di lavoro tra famiglia, scuola, servizi, sul percorso scolastico e sui bisogno specifici del bambino in funzione dell’elaborazione operative del piano educativo personalizzato (PEI), a cui farà riferimento ogni singola azione didattica contenuta nel diario di bordo: la programmazione educativo/didattica personalizzata, realizzata dai docenti della classe. Il PEI è frutto del rapporto di tutti gli interventi che si intendono effettuare a favore dell’alunno in un arco di tempo dato, ed è perciò uno strumento operativo di tipo interistituzionale, globale, integrato, multidisciplinare che ha la funzione di dare coerenza alla disomogeneità degli approcci e alla distanza di formazione e di competenze che separano storicamente il mondo della scuola da quello della sanità e del sociale. La sede operativa che gestisce il progetto individualizzato e cura il monitoraggio della qualità del progetto di integrazione è il gruppo di lavoro di scuola, che coordina la realizzazione dei singoli piano educativi individualizzati. 10.4.4 Strumenti per l’innovazione nel processo di integrazione Il tema del monitoraggio sulla qualità del sistema scolastico e sul successo formativo degli studenti si sta sviluppando nel nostro Pese. La legge 53/2003 istituisce l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione (invalsi) e parallelamente presso il Miur nel 2002 veniva istituito l’Osservatorio per l’integrazione scolastica. L’osservatorio ha funzioni in materia di: monitoraggio del processo di integrazione scolastica per la piena attuazione delle finalità contenute nella legge 104/92, accordi interistituzionali a favore delle strategie formative (continuità, orientamento scolastico, collegamento scuola-lavoro), piena attuazione del diritto allo studio, sperimentazione e innovazione metodologico-didattica e disciplinare, iniziative legislative e regolamentari. Particolare rilevanza riveste la valorizzazione del rapporto tra integrazione e tecnologie, considerate all’interno della famiglia dei linguaggi per la disabilità che necessariamente rimanda a studi ed esperienze specifiche. Le tecnologie hanno svolto e svolgono un ruolo cruciale per il superamento delle barriere fisiche e sociali nella vita delle persone disabili, tanto da determinare nuove chances esistenziali. 10.4.5 La valutazione come diritto Alla luce dei bisogni educativi speciali si personalizzano le strategie o gli obiettivi? Personalizzare gli obiettivi spesso significa ridurre gli obiettivi stessi e, conseguentemente, impoverire il percorso scolastico del bambino con bisogni speciali. Tale effetto perverso comporta un rischio che va tenuto sotto controllo nella progettazione educativa. Una personalizzazione dei percorsi che sia decontestualizzata dalle finalità della scuola di tutti, favorirà solo gli alunni socialmente più forti danneggiando i più deboli compresi gli alunni disabili, ai quali attraverso strategie e percorsi personalizzati la scuola deve garantire il massimo delle opportunità, anche quando si tratta di casi complessi. Ciò mette in luce il tema della valutazione degli alunni con disabilità. L’ordinanza ministeriale
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90 del 2001 ribadisce che per gli alunni in situazione di handicap psichico la valutazione, per il suo carattere formativo ed educativo e per l’azione di stimolo che esercita nei confronti dell’allievo, deve comunque avere luogo. Tali disposizioni scaturiscono da una disamina di tipo giuridico sviluppata attraverso la sentenza della corte costituzionale 215/1987 che assicura ai soggetti in situazione di handicap la frequenza delle scuole superiori e il parere del consiglio di stato 348/1991 che argomenta sullo stesso tema. Tali testi esprimono 3 fondamentali giudizi: 1) non vi è graduazione di dignità e di importanza tra le persone e la promozione dei più deboli è uno dei fini primari dello stato. Perciò non è prospettabile alcuna gerarchia d’interessi e conseguentemente il sistema scolastico deve occuparsi della promozione e dello sviluppo degli svantaggiati tanto quanto se ne occupa dei cosiddetti normodotati. 2) la valutazione viene intesa sia come verifica dei risultati per l’equipe pedagogica, sia come occasione di stimolo e di impegno per il soggetto. Perciò la valutazione ha valore positivo dal punto di vista formativo ed educativo e deve avere luogo anche per il singolo portatore di handicap. 3) il terzo principio è il compito dello stato di rimuovere gli ostacoli al raggiungimento dei diritti costituzionali garantiti. 10.4.6 Il docente di sostegno L’integrazione scolastica dal 1975 ad oggi è stata realizzata anche grazie al forte investimento sulla risorsa umana che di tale processo è stata nel contempo agente e testimone privilegiato: l’insegnante di sostegno. In tutti i documenti ministeriali si afferma che l’insegnante specializzato non è l’insegnante dell’alunno disabile. Si tratta di un docente di supporto alla classe, assegnato al fine di favorire quelle situazioni organizzative mirate a realizzare il processo di integrazione per un numero di ore settimanali non coincidenti con l’intero orario scolastico degli alunni. Dalle prime esperienze degli anni ’70 la scuola cercò di contenere gli effetti dirompenti di una presenza impegnativa e inattesa come quella dell’alunno disabile. Già da quella prima fase venne legittimato implicitamente un processo di delega all’insegnante di sostegno per la gestione dell’alunno con handicap. Tale delega, spesso è stata auspicata anche dai genitori dei bambini disabili: un congruo numero di ore di sostegno e un rapporto esclusivo con un docente specializzato sembravano garantire la concreta realizzazione del diritto allo studio per il proprio figlio. Solo con la fine degli anni ’90 e con il nuovo assetto culturale introdotto dall’autonomia scolastica, si è aperto il confronto sui temi della valutazione di sistema e dell’autovalutazione dell’istituzione scolastica. La gestione efficace del ruolo del docente di sostegno sta nella capacità di questa figura professionale di mettere in rete le proprie competenze comunicative con gli altri docenti per coordinare i diversi livelli della progettazione educativa, valorizzando il piano educativo personalizzato per l’alunno disabile. Oltre ai saperi di tipo disciplinare, l’insegnante di sostegno porterà nel gruppo docente un sapere sulla relazione educativa qualificante per l’intervento del piano dell’offerta formativa. Le potenzialità del processo di integrazione sono state ridotte in quanto: tutto il processo, ancora oggi, è fondato sul binomio alunno disabile certificato – insegnante di sostegno, i docenti curricolari sono scarsamente coinvolti in tale processo e risultano privi di una formazione di base in didattica speciale. Tale valutazione impone una riflessione. Il rapporto rivolge uno sguardo agli effetti dell’integrazione, a ciò che viene dopo la scuola e fa discendere dall’attuale gestione dell’integrazione scolastica e sociale il permanere di scarse opportunità a favore delle persone con disabilità. Alla luce del rapporto, i rapporti non sono consolanti. Tale analisi apre la strada a nuove interpretazioni del ruolo del docente di sostegno nella classe. 10.4.8 L’integrazione scolastica in cifre La prima consistente ricerca in ambito scolastico risale al 2003 dal Miur che utilizza la correlazione tra variabili interne all’amministrazione scolastica e alla scuola. Nel 2004 il Miur inaugurò un’indagine a cui le scuole autonome potevano aderire attraverso la compilazione di un articolato questionario sulla qualità dell’integrazione che consentì di costituire una base di dati di riferimento per indagini successive. L’Istat nel 2011 ha diffuso i primi risultati dell’indagine sugli
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alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di primo grado promossa dal Ministero del lavoro e degli affari sociali in collaborazione con il Miur. Obiettivo dell’Istat è di rilevare le risorse, le attività e i supporti in dotazione alle scuole per l’integrazione. L’indagine rivela che negli ultimi 20 anni si è assistito a una crescita progressiva della presenza degli alunni con disabilità: più di 150.000 nell’a.s. 2009/2010. Si riscontra un numero alto di studenti disabili che ripetono gli anni di studio. Secondo l’Istat tale fenomeno va letto in negativo in quanto rappresenta la difficoltà a ottenere risultati concreti e tende a riprodurre un semplice prolungamento nel tempo del progetto per l’alunno con disabilità. Il fenomeno della ripetenza testimonia anche la scarsa presenza di servizi territoriali di tipo socio-formativo oltre l’offerta scolastica. la scuola frequentemente non sa re-interpretare uno dei fondamentali bisogni speciali dei bambini disabili, cioè il rispetto di ritmi individuali di apprendimento se non attraverso i classici strumenti della selezione scolastica, la ripetenza può essere il risultato di una scelta protezionista, a volte richiesta con forza dalle famiglie a causa di una inadeguatezza delle iniziative sociali/formative esterne alla scuola. L’analisi contenuta nel Dossier di Tuttoscuola afferma che nel nostro Paese, la procedura amministrativa che garantisce l’iscrizione degli alunni disabili passa attraverso l’accertamento della disabilità da parte dell’autorità sanitaria e l’assegnazione dei docenti di sostegno da parte dell’amministrazione scolastica. Tuttavia, tale procedure vengono seguite in modo disomogeneo, determinando effetti di sperequazione delle risorse e di squilibrio nella fruizione dei diritti. Attraverso la chiave di lettura della disomogeneità territoriale, il dossier definisce a macchia di leopardo la qualità dei percorsi formativi. In una stagione di crisi economica come quella che il nostro paese sta attraversando, a maggior ragione è necessario garantire trasparenza ed equità nell’impiego delle risorse. Il docente di sostegno rappresenta una risorsa per tutta la classe in cui sia presente l’alunno con bisogni speciali. Il rapporto della fondazione Agnelli nella parte propositiva presenta un’ipotesi di evoluzione della figura degli insegnanti curricolari e di sostegno così strutturata: attivazione a livello territoriale di centri risorsa per l’integrazione dove operino docenti ad alta specializzazione a disposizione delle scuole del territorio per consulenza tecnica e formazione, prevedere la formazione in didattica speciale di tutti i docenti curricolari, passaggio graduale dei docenti di sostegno all’organico normale delle scuole, attraverso un’assegnazione basata sui reali bisogni delle scuole e sulla base di una concertazione territoriale, parallelamente arrivare alla generalizzazione dell’uso dell’Icf per la costruzione di un profilo di funzionamento, istituzionalizzazione di forme di valutazione della qualità per l’integrazione. 10.5 Nuovi scenari per la scuola e per l’integrazione scolastica 10.5.1 La scuola italiana nell’emergenza educativa Il rapporto Censis 2011 sulla situazione sociale in Italia definisce il nostro Paese come una società senza regole e sogni in cui si sono appiattiti i nostri riferimenti alti e nobili. Si prendono in considerazione alcuni fattori relativi al sistema scolastico e formativo: Una riforma di impianto federalista è in corso dal 1998. Questa prevede un graduale trasferimento delle competenze alle regioni in ordine al sistema di istruzione, oltre che al sistema della formazione professionale, in un regime di legislazione concorrente tra stato e regioni. La gestione di tale innovazione a livello istituzionale si colloca in un quadro di grande disomogeneità territoriale sia sul piano organizzativo che su quello dei risultati scolastici. La sola autentica innovazione generalizzata è l’autonomia scolastica, anche se l’assenza di una valutazione di sistema impedisce di misurarne l’efficacia sul piano del funzionamento. Con la legge finanziaria del 2006 si è inaugurata una stagione di contenimento della spesa sia sul piano dei finanziamenti ordinari che delle assegnazioni del personale. Nella scuola in questi anni è aumentata una diffusa percezione di precarietà e di impoverimento culturale. Dall’a.s. 2007/2008 le classi con studenti disabili sono più numerose e in molti casi sono formate da più di 20 alunni per classe e non è infrequente l’iscrizione di più alunni disabili nella stessa classe.
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La partecipazione alle prove Ocse Pisa ha evidenziato nel confronto con gli altri paesi, l’inadeguatezza delle competenze dei nostri studenti nelle discipline oggetto di indagine. Il secondo rapporto sulla dispersione scolastica elaborato da Tuttoscuola sui dati Miur e pubblicato nel 2011 offre spunti di riflessione sulle prospettive di inserimento sociale delle persone con disabilità. Nonostante l’introduzione del nuovo obbligo scolastico a 16 anni, in 5 anni la dispersione è aumentata (15.7% nel 2007 – 16.7% del 2010). Il rapporto sottolinea che tale fenomeno sta aumentando al nord e nelle isole. In questo quadro, considerati gli alti tassi di ripetenza a cui gli alunni con disabilità sono sottoposti, è concreto il rischio che molti di essi contribuiscano a innalzare i numeri della dispersione scolastica. Il fenomeno dell’abbandono dei percorsi formativi è uno dei nodi critici del modello italiano all’integrazione. Nonostante la totale inclusività nella scuola nel modello italiano, l’Ocse nel 2003 denunciava che solo il 7% dei disabili adulti in Italia risultava occupato, contro una media europea del 17%. I giovani nel nostro paese hanno sempre più difficoltà a completare un percorso formativo, a trovare un impiego stabile e a costruirsi un percorso di vita autonomo. Il tasso di occupazione tra i laureati italiani tra 25-34 anni è più basso di quello tra i diplomati della stessa fascia di età. Si tratta di un contesto che non favorisce l’integrazione lavorativa dei giovani con disabilità. Uno specifico fenomeno che richiede particolare attenzione è quello che riguarda i bambini e i ragazzi che vivono la doppia fatica di essere immigrati con disabilità. Risulta non nazionale il 7% degli alunni con disabilità e il loro numero cresce di circa il 20% all’anno rispetto all’anno precedente. In genere alle difficoltà proprie della disabilità si associano quelle linguistico-culturali diffuse tra gli studenti non italiani. Si tratta di studenti ad altissimo rischio di abbandono, sia a causa delle irregolarità amministrative in cui molte famiglie si trovano, sia a causa di problemi di gestione pratica. Considerate tutte queste criticità, la scuola italiana dovrà prendere il considerazione una lettura critica dello status quo e condividere soluzioni per superare la crisi. 10.5.2 Livelli essenziali di istruzione e indicatori di qualità per l’integrazione Il tema dell’esigibilità del diritto all’istruzione nel nostra paese riguarda gli alunni con disabilità non meno di tutti gli altri cittadini. In Italia il livello essenziale di educazione e di istruzione previsto per gli alunni con disabilità rappresenta un vincolo normativo fissato a garanzia dei soggetti aventi diritto. Il problema di fronte a cui si trovano i ragazzi disabili e le loro famiglie, infatti, non è dovuto a carenza legislativa, ma all’arbitrarietà e alla discrezionalità con cui la legge viene applicata. La Carta costituzionale impone allo Stato e alle sue articolazioni territoriali di garantire a tutti i cittadini quello che Bottani definisce un ventaglio di diritti formativi, tra cui: diritto a usufruire di un efficace servizio di orientamento, diritto a vedere riconosciuto il proprio bagaglio di esperienza maturato nel tempo, diritto alla scelta tra opzioni alternative, accessibili e equivalenti, diritto alla continuità formativa, diritto alla reversibilità delle scelte, diritto a ottenere un sostegno adeguato affinché ciascuno possa trasformare le proprie potenzialità personali in competenze cognitive, operative e relazionali. In assenza della definizione dei livelli essenziali di apprendimento per tutti gli alunni, alle scuole manca quel criterio collettivo di riferimento all’interno del quale fissare gli obiettivi formativi, i conseguenti criteri di valutazione, gli elementi della programmazione disciplinare. Occorre che le scuole al proprio interno o attraverso un confronto in rete, sperimentino in autonomia l’utilizzazione di standard condivisi su cui strutturare il curriculum dei diversi ordini scolastici. La didattica rivolta alla classe rappresenta il quadro di riferimento all’interno del quale si possano collocare i Piani educativi personalizzati per gli alunni con bisogni speciali. Grazie alla ricerca sviluppata sul campo, sono stati individuati indicatori e descrittori, che sono utilizzati e utilizzabili per avviare un monitoraggio sulla qualità del processo di integrazione sia nella singola istituzione scolastica sia a livello di sistema:
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Elementi strutturali
Elementi di processo
Il contesto, i rapporti tra istituzione e soggetti pubblici e privati, le risorse finanziarie e strutturali, le risorse umane, il ruolo del dirigente scolastico.
Il pof, le funzioni strumentali per la disabilità, il gruppo di lavoro per l’integrazione, la composizione delle classi, il rapporto scuola-famiglia, iniziative di formazione in servizio, i documenti per l’integrazione (diagnosi funzionale, pdf, pei).
Elementi di valutazione e modalità di valutazione Titoli e crediti, autovalutazione del percorso di integrazione, rilevazione del livello di soddisfazione dell’utenza.
I lavori del centro studi Erickson di Trento propongono di assumere una visione interculturale e un approccio metacognitivo al processo di insegnamento-apprendimento, attraverso: l’utilizzazione di metodologie educative e didattiche integrative di cerniera (es. apprendimento cooperativo), la risposta a tutti i bisogni educativi speciali e all’eterogeneità presente nelle classi, il potenziamento della flessibilità organizzativa delle scuole autonome, la definizione dei livelli di responsabilità e corresponsabilità tra i decisori per garantire standard minimi e livelli essenziali di qualità all’integrazione, lo sviluppo di una coerente politica di formazione in servizio del personale docente, l’incremento nella singola scuola o in reti di scuole dei servizi psicopedagogici come risorsa tecnica per l’integrazione, la valutazione della qualità dell’integrazione attraverso la scelta di indicatori condivisi, il potenziamento della ricerca e della documentazione in ciascuna scuola o tra scuole in rete. Tra gli indicatori, merita un’attenzione specifica le condizione di sicurezza degli edifici scolastici e il conseguente livello di accessibilità per gli studenti con disabilità. Tutti gli alunni che rischiano l’incolumità in questo tipo di edifici scolastici (la metà non risulta a norma) sono di fatto diseguali sul piano del diritto allo studio e ricevono minori opportunità educative. 10.6 Elementi per il piano educativo individualizzato (PEI) La dimensione psicopedagogica rappresenta uno degli elementi portanti del progetto di integrazione. L’accoglienza permanente
La presa in carico come conquista
Un modello di accoglienza permanente prevede che la scuola mantenga una costante attenzione agli indicatori di benessere espressi da tutti i soggetti coinvolti che si impegna a tenere monitorati nell’arco di tempo dell’anno scolastico. Per ogni alunno disabile, per ogni famiglia, vanno pensati i tempi e i modi dell’accoglienza. Il bambino con disabilità certificata arriva a scuola più conosciuto di tutti gli altri bambini, attraverso i preventivi contatti tra operatori dei servizi sanitari e scolastici che precedono il momento dell’iscrizione. L’iscrizione è il primo contatto tra famiglia e scuola: è un’iscrizione preannunciata che può assumere una dimensione simbolica di accoglienza oppure sancire il primo rifiuto o il primo disagio. Un’accoglienza aperta, intenzionale e non casuale, potenzia il livello di fiducia che i genitori possono attribuire alla scuola. Nel primo colloquio si può giocare la qualità del rapporto successivo che dovrà avere i caratteri di un vero e proprio contratto negoziale, basato su reciproci impegni presi a favore del bambino. Secondo un principio di sussidiarietà, famiglia e scuola possono offrirsi a vicenda un mutuo aiuto per costruire il progetto individualizzato teso al traguardo del successo
Il gruppo-classe può diventare un moltiplicatore inconsapevole dell’effetto pigmalione. Impegnato a valorizzare le capacità del compagno in difficoltà quando i docenti incentivano tale comportamento, il gruppo può diventare, in caso contrario, agente di esclusione e di riproduzione del pregiudizio. Quando i bambini sani incontrano per la prima volta un bambino con disabilità con cui costruiscono un rapporto comunicativo, in molti casi sono posti di fronte alla consapevolezza che il loro compagno, per certe sue caratteristiche, non potrà guarire e dovrà convivere con limitazioni nelle sue esperienze di vita. Il riconoscimento e l’accettazione richiedono grande attenzione da parte degli adulti, affinché si possa mantenere un clima emotivamente sereno. Il pregiudizio si può superare solo aumentando i contatti tra gruppi e individui diversi, garantendo loro una parità di status per il perseguimento di obiettivi comuni. L’intervento sul contrasto a forme di pregiudizio rappresenta un campo di intervento psico-sociale da sviluppare al fine di renderlo meno ambiguo, ora che la diversità del bambino disabile non è più la sola diversità a
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formativo. Esistono le famiglie, ognuna con la propria storia. Ed è solo in una dimensione di rispetto e di empatia che può sbocciare un’efficace comunicazione tra docenti e genitori attraverso un rapporto di interdipendenza. Valorizzare il tema dell’accoglienza risulta fondamentale nelle fasi di passaggio tra i diversi ordini di scuola. Ma l’accoglienza non si limita al contatto iniziale con la nuova situazione di inserimento; il processo formativo non si può progettare una volta per tutte, ha bisogno di ristrutturazioni successive, in funzione del cambiamento delle richieste e dei bisogni speciali. Ogni situazione nuova richiede un percorso personalizzato tutte le volte che si accoglie. L’accoglienza della complessità dei bisogni formativi richiede di dotarsi di nuovi strumenti interpretative e professionali.
cui la scuola deve dare risposta. Il rapporto con il compagno disabile può consentire ai compagni di comprendere la disabilità come possibilità esistenziale. L’intensità profonda di questi vissuti non riguarda solo la relazione tra bambino sano e bambino disabile. Tale relazione è sorretta, arricchita e modificata dalla rete di relazioni che si struttura all’interno del gruppo classe che, anche attraverso la mediazione dei docenti, costituisce il contenitore emozionale di ogni esperienza e dove l’integrazione può tradursi in atti concreti e assumere significati simbolici per ciascun membro del gruppo. Un modello di presa in carico che non escluda nessun attore del progetto di integrazione, corrisponde alla mission educativa dell’inclusione considerata un traguardo fondamentale per tutti gli alunni con bisogni speciali.
10.7 L’integrazione scolastica nell’Unione Europea L?Italia è stato il primo paese a scegliere di aprire la scuola di tutti alle persone con disabilità. Negli ultimi 15 anni sono stati fatti molti passi avanti nella direzione dell’inclusione. Rispetto a tale strategia, si riconoscono nella maggioranza dei paesi alcuni orientamenti condivisi: a) il riconoscimento alle persone disabili e in situazione di svantaggio dei diritti di cittadinanza, di inclusione scolastica e sociale, b) il riconoscimento di un’area di problematiche di tipo scolastico molto più ampia di quella direttamente riguardante le persone con disabilitò, c) la necessità del graduale superamento di una visione di tipo medico (attraverso l’applicazione dell’Icf), d) l’utilizzazione di un approccio ecologico, e) il riconoscimento della centralità della formazione iniziale e in servizio degli insegnanti come fattore cruciale della qualità dell’integrazione, f) attribuzione di una nuova funzione delle scuole speciali, che vengono considerate centri risorsa di documentazione, g) la garanzia per ciascun alunno in situazione di disabilità di un progetto educativo inclusivo, personalizzato, tendente a sviluppare specifiche capacità e a monitorare il rischio di discriminazione. La situazione dell’integrazione nei diversi Paesi europei in riferimento al tipo di approccio a livello istituzionale è così sintetizzabile: Paesi con approccio unidirezionale Paesi con un approccio Paesi che presentano un approccio multidirezionale bidirezionale Sviluppano politiche e prassi volte Dove si incontrano varie soluzioni Dove gli studenti con bisogni speciali all’inserimento di tutti gli alunni che spaziano da un sistema all’altro sono collocati in scuole o classi disabili nella scuola ordinaria. (integrazione nelle classi comuni o differenziate. nelle scuole speciali). Italia, Spagna, Portogallo, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Francia, Regno Svizzera, Belgio, Germania, Olanda. Islanda, Svezia, Grecia. Unito, Slovenia, Polonia, Austria.
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