L'uomo fa il mondo. Una storia della tecnica: dall'ascia al reattore [PDF]

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Zitiervorschau

r. j. forbes,

L’uomo fa il mondo

Fra le storie della tecnologia e delle applicazioni scientifiche, questa del Forbes si distingue per la chiarezza del disegno che la mantiene egualmente distante dalla trattazione minuziosa come dal saggio compendioso o schematico. Dopo una aggiornata sintesi della tecnica nel mondo antico, se una parte rilevante della narrazione è riservata alla scienza del Medioevo e del Rinascimento, metà del volume è dedicata allo straordinario sviluppo tecnico che va dalla prima alla seconda rivoluzione industriale. Gli argomenti essenziali sono le fonti di energia, i trasporti e le comunicazioni, la metallurgia, l’industria tessile, vetraria e chimica e taluni aspetti della ingegneria civile. Chi voglia rendersi conto del percorso che ci ha portati al mondo moderno, e il giovane che intenda integrare con la conoscenza del processo storico quanto gli è noto degli sviluppi della più recente tecnologia, trova in quest’opera non solo una guida di prim’ordine ma anche l’occasione di qualche inattesa notizia: come, ad esempio, che sul finire del Seicento un vescovo aveva inventato una specie di turbina a vapore per muovere culle e girarrosti o che il primo aspirapolvere elettrico era in funzione prima della spedizione dei Mille.

Robert J. Forbes, professore di storia delle scienze e della tecnica alla Università di Amsterdam, ha lavorato per molti anni come ingegnere chimico fino a quando le sue ricerche sulla scienza nel mondo antico non lo resero noto quale uno dei maggiori specialisti mondiali di storia della tecnologia (Le vie antiche e la loro costruzione, Bitume e petrolio nell’antichità, Breve storia della distillazione, ecc.).

PICCOLA BIBLIOTECA EINAUDI

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Titolo originale Man the Maker Henry Schuman, Inc., Publishers, New York Traduzione di Flora Tedeschi Negri

©

1960 Giulio Einaudi editore S.p.A., Torino

Indice

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I. L'uomo e la natura Scoperte e invenzioni La diffusione delle invenzioni

II. All'alba della storia (prima del3000 a.C.) L'età paleolitica L'età neolitica L'irrigazione e i suoi effetti Filatura e tessitura La ceramica La lavorazione della pietra La metallurgia La ruota Le comunicazioni

III. Gli antichi grandi imperi del Vicino Oriente ( 3000-600 a. C.) La scienza e gli artigiani I primi architetti Acquedotti e canali Il vetro e i tessili La comparsa del ferro Monete e comunicazioni

IV. I Greci e i Romani (600 a.C.-400 d.C.) La meccanica nel mondo classico L'ingegneria greca L'ingegneria romana Le strade romane Le comunicazioni e l'Impero Acquedotti e ponti

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INDICE

p.95

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Le macchine da guerra Alchimia e metallurgia

V. I custodi dell'eredità classica (600-1200 d.C.) Le risorse d'energia degli Arabi La tecnica araba

VI. Tecnica e teologia (400-1500 d.C.) La scienza medioevale L'ingegneria medioevale La produzione di energia La nascita dell'industria tessile La ghisa e le nuove armi La tecnica chimica La traversata dell'Oceano La carta e la stampa

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VII. Vino nuovo in vecchie botti (1500-1750)

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La nascita della nuova scienza La tecnica e la nuova scienza Leonardo, il pioniere Le risorse d'energia della nuova Europa La strada riacquista importanza I servizi pubblici urbani Progetti di canali e di drenaggio La nave La meccanica e l'industria La metallurgia e la chimica

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VIII. L'avvento del vapore (1750-1830)

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La scienza nell'età dell'Illuminismo Ingegneri e lavoratori specializzati Le nuove fabbriche La rivoluzione industriale La macchina a bilanciere La macchina rotativa a doppio effetto Perfezionamento della macchina a vapore ad alta pressione Il carbon fossile e il coke La nuova metallurgia del ferro Le nuove fabbriche tessili L'industria del gas La nascita dell'industria chimica Alcune innovazioni tecniche

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INDICE

p.259 259 264 268 276 284 287 292 296 302 304 313

325 333

338 343

347 354 360

IX. La conquista dello spazio La nuova tecnica di costruzione delle strade Strade d'asfalto e di calcestruzzo Ponti e canali Il vapore e il traffico terrestre Omnibus, tram e bicicletta L'evoluzione dell'automobile Il nuovo motore e la navigazione La conquista dell'aria

X. Acciaio ed elettricità (1830-1930) Lo sviluppo dell'industria dell'acciaio Generazione e conduzione dell'elettricità Le applicazioni dell'elettricità Radio e televisione La turbina a vapore e le centrali elettriche La conservazione e il trasporto dei generi ali· mentari Le materie prime sintetiche La trasformazione di prodotti naturali: il caucciu e il petrolio

Epilogo

Tecnica e progresso

Indice delle illustrazioni nel testo

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I successivi stadi di diffusione della metallurgia a partire dall'antico Vicino Oriente. Ascia paleolitica. Zattera assira di tronchi d'albero e otri gonfiate, per il trasporto di merci sul Tigri (da un bassorilievo trovato a Khorsobad). Cocchio egizio con ruote a raggi. Sopra: Scalpellini egiziani che lavorano blocchi di pietra. Sotto: Operai che fabbricano mattoni da essiccare al sole (dalle pitture murali di una tomba della XVIII dinastia). Fabbroferrai (da un vaso greco). Penelope al telaio (da un vaso greco). Balestra (sopra) e catapulta (sotto) ellenistiche. Diagramma da un trattato arabo di alchimia. Schema di un forno a galleria (da un manoscritto arabo). Contadini medioevali (da un'edizione delle Georgiche di Virgilio pubblicata a Strasburgo nel 1502). Argano azionato ad acqua, per lavoro minerario (da Agricola, De Re Metallica, 1550). Filatoio (disegno del 1480 circa). Torcitura del filo. Tessitore di lana con i suoi arnesi. Un'officina di armaiolo, verso la fine del secolo xv. Bombarda. Fucile a miccia.

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INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI NEL TESTO

p. 139

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Bombardamento di una città (da una xilografia del principio del secolo XVI). Apparecchio da distillazione (metà del secolo XVI).

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Un vetraio del secolo xvr. Stamperia (fine del secolo XVI). Microscopio di van Leeuwenhoek. Disegno di Leonardo per una levigatrice. Mulino olandese del secolo xvm. Carrozza con sospensione a corregge. Spaccato d'una miniera (metà del secolo xvi). La macchina di Newcomen. La macchina a vapore di Watt, da un disegno dell'epoca. Macchina da cucire di Elias Howe. A cavallo in asta (stampa inglese del secolo XVIII).

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Carrozza a vapore di W. H. James ( 1829). Disegno della locomotiva « De Witt Clinton » che il 9 agosto 1831 inaugurò la linea MohawkHudson. La « Dreisina » modello 1817. Schema d'un convertitore Martin. Torre di preriscaldamento di Cowper, del 1857.

L'UOMO FA IL MONDO

Capitolo primo L'UOMO E LA NATURA

Nel nostro mondo moderno tanto la tecnologia quanto l'ingegneria sono branche di scienza applicata: seguono di pari passo i progressi delle ricerche scientifiche condotte nei laboratori e nelle università. Ma non sempre la scienza applicata trasse alimento dalla scienza pura, né l'ingegneria si sviluppò sulla base di scoperte scientifiche. In molti periodi della storia artigiani e ingegneri procedettero per esperimenti ed errori, raccogliendo e valutando i dati nei loro stessi cantieri e laboratori. Retrocedendo nella storia, troviamo infine un tempo in cui non esisteva alcuna scienza scritta, e gli artigiani erano gli unici scienziati a cui era affidato il compito di raccogliere il patrimonio di esperienze destinato poi a costituire il fondamento della scienza moderna. La scienza è il corpo di conoscenze mediante le quali l'uomo si rende conto di tutto quel che osserva nel mondo che lo circonda. Su queste osservazioni ed esperienze egli costruisce una rappresentazione della natura, compone in un sistema quanto vede e sente, cercando di conferire a tali dati una parvenza d'ordine. Quanto piu egli apprende intorno agli oggetti naturali, tanto piu complessa è la sua rappresentazione del mondo, finché questa « seconda natura » (come la chiamava Leonardo da Vinci) diviene il campo dello specialista. Lo scienziato moderno studia, misura e calcola le forze della natura e cosi fornisce i dati fisici all'ingegnere e al tecnico. Sin da quando è comparso per la prima volta sulla terra, l'uomo ha cercato di comprendere e di controllare le

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L'UOMO E LA NATURA

forze naturali per assicurare la propria sopravvivenza. L'uomo primitivo era pur Homo sapiens, uomo ragionevole, non meno dell'uomo moderno. Ma l'immagine che l'uomo primitivo ricavava dalle sue sensazioni e percezioni era sempre commista ad altri aspetti della sua vita. Anche oggi le popolazioni piu selvagge vivono in una società la cui struttura solo in parte è in funzione di fattori materiali - quali il nutrimento, l'abitazione, la guerra, la densità di popolazione, la geografia, il clima - mentre d'altro lato concorrono a determinarla anche le concezioni religiose, filosofiche e artistiche dominanti. In ogni società è presente questa stretta connessione tra forze materiali e spirituali. Alle stesse condizioni sociali sottostà anche lo scienziato o l'ingegnere moderno, che non può far a meno di immettere nelle sue teorie o creazioni tecniche qualcosa della propria personalità. Se l'Homo sapiens, l'uomo pensatore, non fosse stato nello stesso tempo anche Homo faber, uomo artefice, forse noi oggi non sapremmo nulla dell'esistenza preistorica dell'umanità. Le piu antiche tracce dell'uomo primitivo sono quelle dei suoi utensili, dei resti dei suoi accampamenti e delle sue capanne e degli oggetti che le sue mani foggiarono. L'uomo non cercava dunque di comprendere la natura solo per soddisfare la sua curiosità: egli doveva sopravvivere in un mondo estraneo, ostile, doveva lottare contro la natura, usando come arma principale quell'intelletto che lo distingueva dagli animali. La sua prima necessità fu di procurarsi il cibo; e questo non era sempre a sua disposizione in quantità sufficiente. Durante tutta la sua lunga esistenza sulla terra l'uomo ha dovuto usare la propria intelligenza, osservare la natura intorno a lui, ricordare i fatti percepiti e cercare di utilizzarli in modo da accrescere sicurezza e benessere.

SCOPERTE E INVENZIONI

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Scoperte e invenzioni.

La storia della conquista della natura da parte dell'uomo è storia delle sue scoperte e invenzioni piu che delle sue azioni politiche. La sua conoscenza della natura e la sua filosofia della vita ne hanno determinata la prassi. Progredendo nella conoscenza di quel che oggi chiamiamo scienza applicata, egli rafforzava il suo dominio sulla natura. In nessun campo dell'attività umana possiamo, con maggiore proprietà, parlare di evoluzione. Nel mondo dello spirito idee e dogmi sono sorti e tramontati, ma la conquista umana della natura è stata una ascesa costante. Ogni scoperta e invenzione, ogni osservazione ed esperimento aggiungeva qualcosa al complesso del sapere. Un dato o una tecnica possono rimanere inutilizzati per anni e sembrare dimenticati, ma il loro ricordo rimane e fa parte della sempre crescente eredità sociale. Le conoscenze scientifiche si sommarono, ciascuna generazione raccolse la fiaccola che la precedente le aveva trasmesso. Allora come oggi, i fanciulli appresero i fatti essenziali dall'esperienza dei loro genitori e partirono a loro volta alla conquista della natura. Spesso si tende a dimenticare la sottile distinzione tra scoperta e invenzione. L'uomo ha scoperto soltanto quel che già esisteva in natura - nuove specie di animali come i gallinacei, i cavalli e i cammelli o nuove piante come il grano e le patate. Ha scoperto le energie naturali dell'acqua, del fuoco e del vento, benché abbia dovuto impiegare molto tempo per assoggettarle. Egli non ha modificato la forma di quel che aveva scoperto, ma lo ha conservato come lo aveva trovato, adattandolo in vari modi ai suoi fini. A poco a poco ha scoperto le proprietà dei metalli, dopo averli usati per secoli; ha imparato a conoscere il magnete e le singolari proprietà che l'ambra acquista quando sia strofinata con la stoffa; ha scoperto i metodi per lavorare l'argilla e fabbricarsene il vasellame. Ma non appena ha usato quegli oggetti e ha creato un

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L'UOMO E LA NATURA

prodotto differente dalle entità naturali, egli ha dato origine a qualcosa che prima non esisteva: qui sta la differenza tra scoperta e invenzione. Le proprietà dell'argilla esistevano già molto tempo prima che l'uomo apparisse sulla terra, ma fu l'uomo che le utilizzò per fabbricare il vasellame. Nell'inventare, l'uomo pensante combina insieme le sue frammentarie conoscenze della natura per produrre una sostanza nuova o un oggetto che precedentemente non esisteva e perciò non poteva venir scoperto. È spesso difficile comunque decidere se una nuova sostanza o un nuovo prodotto siano un'invenzione o una scoperta. Quanto piu la civiltà materiale diviene complessa, tanto piu aumenta la percentuale delle invenzioni. Vi è un limite naturale al numero di scoperte possibili, ma non sembra esservi alcun limite all'umana capacità di combinare i materiali esistenti, le cui proprietà siano già note, per formare nuove sintesi con proprietà differenti. I dati naturali costituiscono l'ordito, mentre l'immaginazione e l'inventiva umana sono la trama nel tessuto della nostra civiltà materiale. Col passare del tempo il suo disegno si fa sempre piu complicato: la necessità, madre di ogni invenzione, pone nuovi problemi e spinge a nuove soluzioni. Ciò si verificò specialmente quando le arti e i mestieri, che prima erano esercitati dagli agricoltori e dai cacciatori nel tempo libero dalle loro occupazioni fondamentali, in uno stadio piu evoluto della civiltà divennero la professione autonoma di gruppi specializzati. Con la nascita delle classi degli artigiani e degli scienziati il numero delle invenzioni e delle scoperte aumentò rapidamente. Benché la conquista della natura, da quando l'uomo è apparso sulla terra, abbia fatto passi da gigante, il suo progresso è stato tuttavia meno graduale di quanto comunemente si creda. L'evoluzione non è stata uniforme; sembra che l'umanità abbia salito la scala della civiltà a sbalzi. Ad ogni progresso ci si sono aperte nuove prospettive e nuove possibilità: un determinato fine era raggiunto, avevamo scoperto o inventato ciò a cui tendevamo. Ma appena giunti in possesso dei nuovi fatti, dei

SCOPERTE E INVENZIONI

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nuovi mezzi e metodi, ci siamo trovati di fronte ad altri problemi e ad altre possibilità. Cosi si prosegue la lotta, indagando e sperimentando. Non vi è nessun inventore che possa far a meno dello studio e ricevere l'ispirazione dal cielo. L'indagine parte sempre da quel che si conosce già: quanto meglio si posseggono quei dati, tanto piu feconda è la ricerca. È dalle conoscenze già acquisite che trae alimento la nostra aspirazione verso qualcosa di meglio, di diverso, qualcosa che ancora distinguiamo solo vagamente come in sogno. « Poiché ogni età è un sogno, un sogno che muore o che sta nascendo ». Spesso sembra che l'inventore preceda di gran lunga i suoi contemporanei, ma anche questo è vero solo in parte. Anch'egli, come tutti gli uomini, è legato al passato e al presente e perseguendo i suoi sogni può andare solo di poco innanzi agli altri. L'inventore è un uomo ricco di immaginazione, come del resto deve esserlo ogni scienziato. Egli crede nella sua ricerca, benché possa anche pervenire a risultati che oltrepassano le sue invenzioni, ed è convinto che vi sia sempre qualcos'altro da scoprire entro il problema su cui sta meditando. Il suo genio è la sua immaginazione creativa, la sua capacità di vedere le cose sotto una luce diversa. Ma l'immaginazione, da sola, non crea ancora nulla. Quando a Newton fu chiesto come aveva fatto a scoprire la legge della gravitazione universale, rispose: «Meditando continuamente sul problema della caduta dei gravi ». Il suo genio lo indusse ad intuire la possibile esistenza di un principio unico che determinasse il moto dei pianeti come la caduta di una mela, ma solo l'esperimento, la raccolta dei dati e la riflessione logica lo portarono alla soluzione. Alla genialità inventiva si devono unire la ricerca sperimentale e la riflessione razionale: l'inventore privo di serietà scientifica, come l'alchimista dei tempi passati, spreca i suoi sforzi cercando di raggiungere l'impossibile. L'invenzione rappresenta dunque una conquista intellettuale piu grande della scoperta, che si limita a portar alla luce fatti già esistenti. Lo scienziato può scoprire

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L'UOMO E LA NATURA

cose nuove usando strumenti piu adeguati, ma l'inventore crea qualcosa di nuovo « elevandosi alla potenza degli dèi », come dicevano gli antichi. Mentre conosciamo bene la psicologia del processo inventivo, ci sono per gran parte sconosciuti i nomi dei grandi inventori della antichità e tanto meno sappiamo come avvennero certe invenzioni nei tempi preistorici. Dallo studio delle piu antiche forme di vasellame, che assomigliano a sacchi intessuti o a zucche vuote, si è dedotto che l'arte del vasellame ebbe origine quando quei recipienti furono resi resistenti al fuoco coprendoli con uno strato di argilla e cuocendoli. Questa teoria può essere vera, ma non ne abbiamo nessun'altra conferma se non i resti degli antichi vasi e il fatto che metodi analoghi sono in uso ancor oggi presso certi popoli primitivi. È un esempio fra tanti che vale a dimostrare come non si conosca nulla riguardo all'inventore originale: ignoriamo il suo nome, dove sia vissuto e approssimativamente in quale epoca, possiamo solo supporlo. Prendiamo ora un altro esempio dei tempi preistorici. Grazie alle scoperte dell'archeologia possiamo ricostruire il cammino percorso dalla moderna metallurgia. Vediamo come l'umanità abbia dapprima trattato i metalli che trovava in natura come pietre preziose, lavorandoli poi col martello e tagliandoli; in seguito imparò a fonderli e a modellarli battendoli ad alte temperature, lavorò i minerali di rame, ad esempio, e fece molti altri progressi fino alla scoperta della metallurgia del bronzo. Ma anche quest'ultima non fu una singola invenzione, quanto piuttosto un complesso di scoperte e di invenzioni. La nuova lega fu ottenuta per la prima volta casualmente e se ne notarono le proprietà specifiche: esse guidarono la ricerca dei mezzi per riprodurre la lega. A sua volta la ricerca delle materie prime con cui preparare il nuovo « rame impuro » condusse alla scoperta della cassiterite, ossia minerale di rame misto a minerale di stagno. Solo molti secoli piu tardi si scopri che il minerale di stagno e il metallo in esso contenuto erano cose completamente diverse fra loro. La fusione del bronzo divenne possibile solo grazie

SCOPERTE E INVENZIONI

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alla conoscenza di molti fatti che all'osservatore profano possono sembrare estranei al processo. Un famoso metodo antico di fusione è quello della « cera persa », in cui il modello viene plasmato in cera sopra un nucleo di sabbia o di argilla e poi ricoperto con un altro strato di

successivi stadi di diffusione della metallurgia a partire dall'antico Vicino Oriente.

argilla e sabbia; si fa fondere la cera e la si fa defluire, lasciando uno spazio vuoto in cui può essere colato il metallo. Questo metodo di fusione del bronzo implica la conoscenza del trattamento e della preparazione delle leghe bronzee, delle miscele di sabbia e argilla necessarie per i nuclei e delle proprietà delle cere plasmabili e fusibili. Cosi vediamo che ogni passo innanzi nella conquista della natura implica l'applicazione di fatti e di esperienze totalmente diversi. E man mano che essa progredisce, il meccanismo della tecnica diviene sempre piu complesso.

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L'UOMO E LA NATURA

La diffusione delle invenzioni.

Ci troviamo qui di fronte ad una questione tuttora discussa. Può accadere che un'invenzione o una scoperta particolare siano state compiute piu di una volta, simultaneamente o in periodi differenti, oppure dobbiamo pensare che l'apparente duplicazione sia in realtà dovuta al diffondersi della scoperta o invenzione originale? Si può facilmente provare che molte semplici invenzioni e scoperte sono state fatte piu di una volta, sia contemporaneamente che in epoche differenti. Strumenti elementari, tipi primitivi di navi, costruzioni, armi e oggetti del genere sono in gran parte determinati dalle proprietà dei materiali usati. La piroga ricavata da un tronco d'albero fu probabilmente inventata in vari luoghi e in differenti periodi storici. Nell'antichità fumare le foglie di diverse piante era un costume diffuso presso numerose tribu che vivevano completamente separate le une dalle altre, ma l'uso della pipa come strumento specifico venne solo con l'introduzione del tabacco dall' America in Europa e in Asia. Quanto piu un'invenzione è complessa, tanto minore è la possibilità che essa venga ripetuta in qualche luogo. Anche nei casi di apparente duplicazione, si riesce di solito a rintracciare le linee lungo le quali si è diffusa l'invenzione originale. La metallurgia, ad esempio, è, nei suoi stadi primitivi, comune a tutti i popoli. Gli Indiani del Nord America hanno conosciuto il rame e lo hanno lavorato in modo rudimentale, ma non ebbero una metallurgia vera e propria (fusione e forgiatura) finché non l'impararono dagli uomini bianchi che invasero il loro paese. La metallurgia e il suo complesso procedimento, per cui il minerale viene preparato, battuto o colato, si diffusero dall'antico Oriente, dove erano stati originariamente inventati. Con l'estendersi della civiltà e il moltiplicarsi dei contatti tra i paesi piu lontani, anche la diffusione delle idee crebbe di importanza e si generalizzò. Oggi vi è una probabilità minima che la stessa invenzione sia ripetuta da

LA DIFFUSIONE DELLE INVENZIONI

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due inventori che lavorino in completa reciproca indipendenza. Quando sembra che scienziati di paesi diversi pervengano contemporaneamente alla stessa scoperta o invenzione, ciò è dovuto principalmente agli stretti contatti esistenti tra loro e alla loro comune conoscenza dei dati o dei materiali utilizzabili. Attraverso i moderni metodi di comunicazione - periodici, libri, pubblicazioni degli uffici brevetti - i dati scientifici e tecnici vengono rapidamente conosciuti in tutto il mondo: gli scienziati sono informati del reciproco lavoro e seguono certe direttive comuni di pensiero. La via della conquista della natura è cosi divenuta piu breve, ma anche piu complicata. I dati sono perfettamente conosciuti e tutti gli anelli della catena razionale, tranne l'ultimo, sono a disposizione dei piu importanti centri della scienza e dell'industria. Quando si pone l'esigenza di risolvere un determinato problema, molti scienziati vi si accingono contemporaneamente, benché forse spinti da motivi diversi. Vi sono grandi probabilità che due o piu studiosi trovino l'anello mancante quasi nello stesso tempo. Newton nel 1665 e Leibniz nel 1679, lavorando ciascuno indipendentemente dall'altro, idearono metodi di calcolo fondamentalmente simili. Il pianeta Nettuno fu scoperto contemporaneamente, ma indipendentemente, da parecchi astronomi che avevano tutti dedotto la necessità della sua esistenza da certe perturbazioni osservate nel moto di altri pianeti. Con lo svilupparsi della storia scritta, aumentano le informazioni sulla vita e sui metodi degli inventori c degli scopritori, che nel remoto passato rimangono o affatto ignoti o nascosti dietro elaborati miti e leggende. Solo negli ultimi venti secoli possiamo seguire con precisione i fili che condussero alle invenzioni e il modo in cui esse furono usate. Ma studiando la storia dell'ingegneria e della tecnica, si rimane sempre piu impressionati dallo stretto legame esistente tra queste e le altre attività umane. La storia della tecnica e dell'ingegneria è in primo luogo la storia della conquista dei materiali. I suoi ef-

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L'UOMO E LA NATURA

fetti si fanno sentire in tutti i campi dell'attività umana. Consideriamo ad esempio l'evoluzione del vetro: la fusione della sabbia con soda caustica ed altri ingredienti non servi soltanto a produrre graziose bacchette colorate, ma forni all'uomo bei recipienti per contenere i liquidi e infine vetrate per proteggere la sua abitazione dal freddo e dalla pioggia, !asciandovi invece penetrare la luce del sole. Imparando in seguito a raffinare e a levigare il vetro, l'uomo produsse lenti per occhiali, e poi per telescopi e microscopi. Questi strumenti a loro volta aprirono alla scienza l'universo, permettendole di studiare tanto le nebulose remote quanto i microbi contenuti in una goccia d'acqua e la struttura molecolare della materia. I vasi di vetro non servirono solo come suppellettili od oggetti ornamentali nelle case e nei palazzi ma anche per contenere le sostanze caustiche dei farmacisti e degli alchimisti, contribuendo cosi all'evoluzione della chimica. Senza recipienti di vetro la chimica dei gas - la ricerca della loro natura e delle loro proprietà - sarebbe stata impossibile e parecchie leggi fondamentali della fisica e della chimica sarebbero rimaste sconosciute. D'altro lato la tecnica e l'ingegneria non furono gli unici fattori che contribuirono allo sviluppo della scienza, né la scienza fu l'unica fonte della tecnica, a parte le esperienze pratiche. Ambedue i campi sono intimamente connessi con le altre attività umane, concorrono al loro progresso e insieme ne traggono alimento, in un reciproco scambio. Ambedue possono ricevere impulso dalla guerra, ma non bisogna dimenticare che i risultati cosi acquisiti appartengono al ristretto campo dell'arte militare e che le nuove armi, o altre invenzioni ottenute ad alti costi e con gran dispendio, avrebbero potuto esser fatte in tempo di pace con molto minor spesa. In principio, in vista del bene che può recare all'umanità intera, la scienza teorica e applicata non dovrebbe essere soggetta a limitazioni finanziarie; e per di piu, perché la scienza possa svilupparsi liberamente, la pace è condizione necessaria. Essa favorisce la naturale espansione di tutte le attività umane, incluso il commercio, il cui

LA DIFFUSIONE DELLE INVENZIONI

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sviluppo è intimamente connesso con quello della scienza e dell'industria. Il commercio tende a stabilizzare le condizioni economiche, favorisce l'instaurazione di una sana monetazione per la quale sono necessarie prove scientifiche e un sistema unificato di pesi e di misure accettabili in un'area piu vasta possibile. Promuovendo questa unificazione, esso ha implicitamente dato l'avvio ad uno scambio mondiale di dati scientifici e tecnici. Il commercio prospera quando le merci vengono prodotte in abbondanza e a buon mercato; nel nostro mondo moderno la produzione di serie ha realmente servito a questo fine. La produzione in serie cominciò nelle scuole di artiglieria di Austria e Spagna e negli arsenali di Venezia e d'Olanda. L'industria ne adottò ben presto i metodi e il commercio promosse fortemente lo sviluppo di strumenti unificati. Senza l'effetto stimolante delle richieste formulate da un crescente traffico mondiale, che aveva creato nel suo proprio interesse una domanda di massa e un mercato di massa, non si sarebbe sviluppata la moderna produzione in serie, i cui benefici effetti hanno elevato il tenore di vita di tanti popoli. Anche prima del XVIII secolo, quando quelle tendenze cominciarono a manifestarsi, il commercio aveva attratto scienziati e ingegneri che si spostavano insieme ai centri commerciali verso le aree pacifiche dove trovavano il terreno adatto allo sviluppo tecnico. Non solo tutti gli aspetti dell'attività umana sono connessi da legami visibili o invisibili, ma inoltre la conquista della natura è opera di tutta l'umanità piuttosto che di una nazione particolare. In un determinato periodo può sembrare che un certo gruppo nazionale possegga la chiave della conoscenza, ma un esame piu approfondito mostrerà che si tratta solo di un'impressione fallace. Il sapere non si lascia monopolizzare, poiché, se lo si tiene segreto, rimane inutile, e se lo si partecipa ispira altri a diffonderlo universalmente. La storia dell'industria e delle invenzioni è una lezione che dimostra l'identità della specie umana, l'unità che esiste a dispetto di tutte le barriere artificiali, quali le frontiere o le credenze settarie.

Capitolo secondo ALL'ALBA DELLA STORIA (prima del 3000 a. C.)

Di rado si rileva che le scoperte e le invenzioni fondamentali, su cui è basata la nostra moderna civiltà, furono compiute prima dell'inizio dei tempi storici. Generalmente si fa iniziare la storia con l'apparizione di documenti scritti, e la scrittura fu usata per la prima volta nell'antico Medio Oriente nella seconda metà del rv millennio a. C. Quali siano state le attività umane prima di questo periodo, si può dedurlo solo dalle scoperte archeologiche. Quindi possiamo cercar di ricostruire da questi resti le credenze, le teorie, il modo di pensare dell'uomo preistorico, dato che non possediamo di lui nessun documento, posto che ve ne fossero: possiamo cioè stabilire che egli impiegò questo o quello strumento, questo o quel procedimento in un determinato periodo, ma dobbiamo !imitarci a fare delle ipotesi riguardo al modo in cui pervenne alla sua scoperta o invenzione. Il periodo cui ci riferiamo si chiama preistoria. Un archeologo danese, Christian Joergensen Thomsen, vissuto circa un secolo fa, cercò di suddividere questo spazio di tempo abbastanza esteso e nel 1836 propose per le sue suddivisioni i nomi di « Età della Pietra », « Età del Bronzo », « Età del Ferro », ad indicare il principale materiale con cui l'uomo si fabbricò utensili e armi in ciascun periodo. Sappiamo che questa classificazione, nella forma datale da Karl Ottfried Mueller ( 17971840), è valida solo per un numero limitato di regioni, ma possiamo adottarla tranquillamente per l'Europa e per l'antico Oriente, dove sembra abbia avuto origine la

L'ETÀ PALEOLITICA

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civiltà. Comunque, siamo ora chiaramente consapevoli dei limiti di questo schema. Nell'Oriente l'età del bronzo è già un periodo storico illustrato da documenti, mentre in Europa rimane preistoria. Quando in Oriente circa 5000 anni fa cominciò la storia, la civiltà di là si diffuse verso altre regioni.

L'età paleolitica. Il primo dei tre periodi si suddivide in « Età della pietra antica » e « Età della pietra nuova ». Alla prima appartengono i piu antichi resti dell'umanità. Si sono

Ascia paleolitica.

trovate anche tracce di antropoidi o di creature simili all'uomo anteriori e posteriori a quest'epoca, ma la vera preistoria comincia con l'uomo. Da questi primi resti appare chiaro che l'uomo aveva già fatte due importanti conquiste: l'uso del fuoco e la fabbricazione di strumenti di pietra. La scoperta del fuoco come fonte di calore e di luce fu una conquista vitale. Imparando a produrre il fuoco per strofinamento o percussione (gli stessi metodi usati ancor oggi dai popoli primitivi), l'uomo si liberò da molte catene. Egli poteva ora a suo piacimento alimentare un fuoco o spegnerlo, trasportarlo altrove e riaccenderlo. La sua dieta si fece piu varia, poiché non era piu limitata a quel che la natura produceva in forma direttamente commestibile: poteva cuocere i cibi e conser-

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ALL'ALBA DELLA STORIA

varli per l'inverno riscaldandoli o seccandoli, usufruendo del calore, poteva fabbricare strumenti piu efficienti, adatti a soddisfare le sue crescenti esigenze. Il fuoco lo proteggeva dalle bestie feroci e dalle ondate di freddo, gli permetteva di affilare la punta della sua lancia di legno e lo aiutava a fabbricare il suo canotto. Col fuoco, l'uomo indagò i misteri di tutti gli oggetti colorati o di forma strana: fin nei piu antichi documenti compare questa prova del fuoco, che noi usiamo ancor oggi nella chimica moderna e nella geologia. Im parò a disintegrare le pietre riscaldandole e poi raffreddandole rapidamente nell'acqua, e sempre per mezzo del fuoco compi molti altri prodigi. La gloria di questa conquista impressionò profondamente la memoria dell'uomo e quasi tutti i popoli primitivi e antichi praticarono il culto del fuoco. A Roma lo custodivano le vestali: ogni anno veniva spento per essere poi riacceso con una solenne cerimonia. In India era considerato un elemento troppo sacro per bruciarvi i corpi dei morti. Molte altre cerimonie e riti in cui il fuoco tiene il ruolo principale ci dicono con quale reverenza l'uomo considerasse la sua prima conquista. Altrettanto importante per l'umanità fu l'arte di fabbricare strumenti di pietra. Essa cominciò con la scoperta che i frammenti di selce, strofinati tra di loro o contro altre pietre, si spezzavano e si sfaldavano a strati. Battendoli e applicando una adeguata pressione agli spigoli della pietra, si potevano ottenere scaglie o blocchi da usare per determinati scopi. Le scaglie servivano generalmente per fabbricare coltelli, seghe, raschiatoi e simili, mentre i blocchi venivano usati come pugnali, succhielli e asce. Studiando i resti dell'uomo primitivo possiamo dunque distinguere una « civiltà dei blocchi » di pietra e una « civiltà delle scaglie », secondo il tipo principale di strumenti usati. Molto dipende dalle caratteristiche geografiche del paese in cui l'uomo viveva. Nelle regioni boscose egli preferiva per le asce il blocco di pietra, mentre in quelle erbose o nelle steppe gli era piu utile la lamina a forma di coltello.

L'ETÀ NEOLITICA

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Dai bei grafici delle caverne, dalle tombe e da altri monumenti risulta che l'uomo dell'età paleolitica aveva già acquisito un considerevole patrimonio di conoscenze pratiche della natura. Egli osservava il sole, la luna, le stelle e conosceva il ciclo delle stagioni. Studiava evidentemente con molta attenzione gli animali e le piante che cacciava o raccoglieva, poiché le incisioni figurative mostrano una precisa conoscenza di questi animali in ogni stadio del loro sviluppo. Esse rivelano anche le sue tecniche di caccia, e nello stesso tempo attestano che l'uomo era capace di preparare i colori mescolando minerali o piante con altri ingredienti, come il grasso di orso. Le pietre e i minerali che raccoglieva e spesso seppelliva nelle tombe dei suoi morti indicano come fosse attratto dai colori luminosi e dalle forme bizzarre. Altre testimonianze lo dimostrano già in possesso dei primi rudimenti dell'astronomia, della geologia e della storia naturale. Il culto dei morti ed altre caratteristiche ci dicono che egli aveva anche una filosofia della vita, ovV!A~o una religione, benché si sappia ben poco delle sue effettive convinzioni e della sua posizione di fronte al mondo.

L'età neolitica. L'« Età della pietra nuova » è caratterizzata da un completo mutamento della civiltà e dalla graduale scomparsa dei piu antichi gruppi umani. Comincia l'agricoltura praticata con la zappa e con strumenti da scavo; compaiono nuove tecniche come la levigatura della pietra, la filatura e la tessitura, la fabbricazione del vasellame e la piu primitiva forma di sfruttamento delle miniere. Nuovi gruppi di cacciatori, di nomadi e di contadini si sostituirono alle tribU paleolitiche. Per quanto primitiva potesse essere quella forma di agricoltura, i reperti archeologici mostrano che essa provocò un rapido aumento di popolazione. La coltivazione di certe erbe selvatiche condusse all'immagazzinamento del grano e conseguentemente a una maggior sicurezza

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durante le stagioni improduttive. La vita acquistò stabilità, benché quella primitiva tecnica di coltivazione costringesse gli agricoltori a spostarsi molto di frequente, quando la terra dei loro campi esauriva la sua fertilità. Verso la fine dell'età neolitica si ebbe ancora un altro mutamento: apparvero forme piu moderne di agricoltura, dove si faceva uso dell'aratro e dell'irrigazione. Per il Vicino Oriente questo significò anche l'immigrazione di nuove tribu, poiché le praterie che si stendevano dall'Atlantico lungo il Mediterraneo attraverso la Persia fino all'Asia centrale sempre piu soffrivano di scarse precipitazioni. Quel mutamento di clima spinse a poco a poco le popolazioni nelle vallate dei fiumi. Essendo coperte di alberi, arbusti e canneti, come anche di paludi e marcite, quelle vallate dovevano essere dissodate e drenate prima di poter venire abitate stabilmente. La fine dell'età neolitica, che nel Vicino Oriente va dal 3500 al 3000 a.C., fu un'epoca di fondamentale importanza nella storia dell'umanità. Oltre alle nuove forme ..di agricoltura, quel periodo vide gli inizi dell'industria mineraria, della metallurgia e dell'architettura, nonché l'invenzione della ruota, della nave e della scrittura; insomma, tutte le conquiste essenziali della civiltà moderna. Poiché esso precedette le dinastie storiche dell'Egitto e della Mesopotamia, è chiamato generalmente il periodo predinastico. Nell'agricoltura l'invenzione fondamentale fu l'aratro, fatto generalmente di legno con un vomere di legno o di pietra e tirato da buoi. Rispetto alla vanga e alla zappa aveva il grande vantaggio di arare il suolo molto piu profondamente, senza che la terra si esaurisse tanto in fretta. Cosi il coltivatore divenne un colono stabile e introdusse la rotazione delle colture, non essendo ancora capace di irrigare il suolo. Il vomere di legno o di pietra, occasionalmente provvisto di una punta di bronzo, rimase in uso durante tutta l'antichità; altro esempio del fatto che un nuovo materiale (come il rame o il bronzo) non sempre sostituisce materiali piu antichi. Bronzo e rame infatti non erano abbastanza duri per

L'IRRIGAZIONE E I SUOI EFFETTI

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arare e il contadino continuò ad usare la pietra fino ai tempi di Roma, quando il ferro divenne tanto a buon mercato da poter essere impiegato per gli aratri. L'irrigazione e i suoi effetti.

La seconda grande conquista degli antichi agricoltori fu l'irrigazione. Già da parecchio tempo si praticavano forme primitive di irrigazione, che furono probabilmente migliorate quando l'uomo a poco a poco si ritirò dalle terre superiori, ormai inaridite, verso le vallate dei fiumi del Vicino Oriente. Dissodare le valli del Nilo, dell'Eufrate, del Tigri e dell'lodo dev'essere stata una impresa formidabile. Occorreva drenare le paludi, tagliare i cespugli e gli arbusti, cacciare gli animali selvaggi e infine, fatica piu ardua di tutte, domare i torrenti ribelli e condurre le acque fertili dei fiumi sui nuovi campi al tempo della semina. L'irrigazione delle valli fluviali non poté piu essere il compito di un singolo agricoltore. Scavare i canali, costruire le dighe e gli argini e impiantare un sistema di drenaggio erano imprese che oltrepassavano le capacità dell'individuo: richiedevano la cooperazione e il lavoro collettivo. L'irrigazione fu quindi, nell'antichità, uno dei piu potenti fattori della formazione di nazioni e di un forte potere centrale. Troviamo infatti che in Egitto l'antico geroglifico per indicare «provincia» (in greco, nomos ), è un ideogramma raffigurante un'unità di irrigazione e drenaggio. Queste unità o polder, come le chiamano oggi in Olanda, costituiscono anche il fondamento delle città-stato dell'antica Mesopotamia. Il raggruppamento di tali unità per un uso piu efficiente delle acque fecondatrici fu solo questione di tempo. La storia reale dell'antico Egitto comincia con la fusione dell'Alto con il Basso Egitto. La conquista che realizzò questa unione non può certo essere attribuita soltanto alla sete di potere. L'influenza dell'irrigazione si fece sentire anche sulla vita politica. Dette impulso alla matematica e all'astro-

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nomia. A quel tempo le matematiche applicate, specialmente la geodesia (misurazione di vaste aree di terreno), avevano un valore grandissimo, perché le inondazioni stagionali cancellavano i confini tra i campi e ogni volta si dovevano nuovamente fissare le pietre confinarie. I campi dovevano essere misurati esattamente poiché generalmente le tasse erano calcolate in base all'area inondata e allivello raggiunto dall'inondazione. Fin dai tempi piu remoti troviamo perciò in Egitto un dipartimento delle « dighe e irrigazione ». In ogni provincia vi era una « casa dell'acqua », cioè un ufficio che inviava i suoi ispettori a controllare le dighe, a osservare il livello del Nilo e ad aprire le dighe quando il fiume aveva raggiunto una data altezza. Esistevano corti speciali per dirimere le controversie riguardanti le leggi dell'irrigazione. La distruzione delle dighe, la trascuratezza nel drenaggio dei canali e l'abuso delle acque per irrigazione erano le principali infrazioni di cui si occupavano quei « tribunali delle acque ». Gli Egiziani avevano poi un ufficio di registrazione che nelle stagioni di magra inviava i suoi incaricati a misurare i campi e a definire i confini discussi. Ogni due anni un accurato controllo di tutti i campi- che gli Egiziani chiamavano « computo » - stabiliva le quote delle tasse da imporre. Ci sono pervenute molte rappresentazioni di questi agrimensori, raffigurati con un seguito di scrivani e di schiavi che portano le funi provviste di nodi con cui i campi venivano misurati. Giustamente autori classici come Erodoto e Strabone osservano che l'agrimensura deve aver stimolato lo sviluppo delle matematiche e in particolare della geometria. L'irrigazione influenzò anche l'astronomia. Percorrendo l'Egitto notiamo che in certe località eminenti lungo il Nilo, spesso nei cortili dei templi, entro pozzi in comunicazione col fiume, erano sistemati degli indicatori di livello delle acque. Tali indicatori venivano osservati con gran cura; gli stessi re egiziani solevano segnare per prima cosa nei loro annali il livello massimo raggiunto dal Nilo durante il loro regno. Si sapeva bene, ad esempio, che per assicurare un buon raccolto il fiume

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doveva raggiungere a Menfi l'altezza di 12-16 m. L'anno egiziano cominciava col giorno in cui l'inondazione coincideva col sorgere della stella Sirio all'alba. Tutto ciò induceva alle osservazioni astronomiche: ben presto gli Egiziani riconobbero che la lunghezza dell'anno era, approssimativamente, di 365 giorni. Nei tempi storici sapevano già che si doveva correggere il calendario perché il sorgere di Sirio continuasse a coincidere col primo giorno dell'anno. Una analoga correlazione tra irrigazione e astronomia si ebbe anche in Mesopotamia. Ma anche altre arti trassero profitto dall'irrigazione: ad esempio l'ingegneria civile. Scavare canali ed erigere dighe significava rimuovere grandi masse di terra, operazione che richiedeva calcoli e progetti. Di questo problema si occupano molti antichi testi di matematica dell'Egitto e della Mesopotamia. Infatti, se un Babilonese voleva indicare che una certa figura rappresentava una misura di volume, aggiungeva l'espressione «massa di terra ». Sappiamo che nel Vicino Oriente già all'inizio dei tempi storici si costruirono molti canali importanti; i sistemi di irrigazione erano tanto sviluppati che non pochi di essi devono esser stati tracciati nel periodo predinastico. Della costruzione di dighe e di canali re e sacerdoti menavano gran vanto e ne facevano menzione negli annali o sulle pareti delle tombe. Lo spostamento di quelle imponenti masse di terra implicava problemi organizzativi e tecnici che ebbero piu tardi grande importanza per la costruzione delle piramidi e delle mura dei templi; senza l'esperienza acquisita con l'irrigazione, quei durevoli monumenti non sarebbero forse stati eretti mai. Analoghe considerazioni si possono fare per quanto riguarda l'evoluzione della meccanica: infatti i campi piu piccoli (e specialmente quelli situati piu in alto, lungo i margini del deserto) dovevano essere inondati artificialmente da fossi e canali esterni, e questa necessità promosse lo sviluppo di macchine come le pale ad acqua e vari tipi di ruote ad acqua azionate da uomini o da animali. Le raffigurazioni delle piu antiche forme di tali macchine mostrano sigilli molto primitivi, e que-

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sto prova che la loro invenzione risale agli inizi della storia. Oltre all'impulso dato alla tecnica, quella antichissima agricoltura « dell'aratro e dell'irrigazione » ebbe profonde conseguenze sociali. L'aumento di popolazione già provocato dalla piu remota forma di coltivazione dei campi si intensificò grandemente, poiché la nuova agricoltura dette raccolti molto piu ricchi e permise d'immagazzinare le eccedenze granarie per i periodi di carestia. Favori anche il sorgere di classi di popolazione che non impiegavano piu la maggior parte del tempo sui campi, come i contadini dell'età neolitica. Il grano eccedente bastava ad alimentare interi gruppi sociali come gli artigiani e i mercanti, che cosf potevano dedicarsi liberamente alla produzione di abiti, utensili ed altri beni durevoli, mentre prima i contadini erano costretti a fabbricarseli da sé. Il grano superfluo veniva barattato coi prodotti dei nomadi e dei montanari. Dagli scavi dei villaggi neolitici risulta che la popolazione contadina aveva superato di gran lunga quella del periodo precedente. I nuovi metodi di coltivazione arricchirono notevolmente anche l'alimentazione umana. Oltre alle erbe selvatiche originarie e ai tipi primitivi di cereali, l'uomo imparò a coltivare cibi piu pregiati come l'orzo, il fru· mento e la segala, cui poi si aggiunse, nell'Europa set· tentrionale, l'avena. Aveva addomesticati i cani, le mucche, i maiali, i volatili, le pecore e le capre, e, come provano certe pitture murali egiziane, aveva tentato di addomesticare anche le antilopi e le gazzelle: quindi, oltre all'ovvio uso del concime, del latte e del cuoio, era ora in grado di procurarsi anche la lana per vestirsi. Alla coltivazione di varie erbe e piante aggiunse quella dei datteri, dei fichi, delle olive e di diversi alberi da frutta; anche la cultura della vite e forse la produzione del vino ebbero quasi certamente il loro inizio in quel periodo. L'estensione della dieta rese piu sicuro l'approvvigionamento. La caccia perdette la sua importanza vitale e diventò il passatempo dei ricchi. Nelle regioni prossime alle vallate dei fiumi sopravvissero cacciatori

FILA TURA E TES S !TURA

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occasionali di animali da preda; questo genere di scene di caccia si trova dipinto nei monumenti sepolcrali dei re. Filatura e tessitura.

Fin dall'età neolitica troviamo i primi inizi della tecnica del filare e del tessere. Essa si sviluppò quando l'uomo non si limitò piu a coltivare il lino per tesserne la tela, ma cominciò anche a tosare gli animali per ricavarne la lana. Era già ben nota l'arte di intrecciare panieri e di fabbricare stuoie: da quelle tecniche primitive si svilupparono in parte la filatura e la tessitura, il cui progresso graduale si può ricostruire dai resti dei telai e di altri strumenti trovati negli scavi. Tre invenzioni importanti costituiscono i presupposti di quella nuova arte. Né il lino né la lana erano infatti immediatamente pronti per essere filati. Il lino era strappato con le radici e i semi dovevano essere separati dal gambo mediante uno strumento a forma di pettine; poi veniva macerato, cioè si lasciava imputridire la parte legnosa delle fibre in modo da poterla agevolmente separare dalle fibre interne dello stelo, e infine Io si sottoponeva alla stigliatura - lo si batteva, cioè, con mazzuoli di legno su pietre lisce - per eliminare i residui !ignei del fusto. Si faceva altrettanto con la lana raccolta dopo la tosatura delle pecore. Il vello era accuratamente lavato per rimuoverne la sporcizia e il grasso; poi la lana veniva cardata (pettinata o spazzolata con spazzole dal dorso di cuoio dette carde), infine si stendevano parallelamente le fibre lanose e si avvolgevano su un bastone forcuto (la conocchia) per filarle. Le lunghe fibre di lino venivano riunite e attorcigliate insieme in un nastro soffice e semiritorto chiamato stoppino. I gomitoli di stoppino o i bioccoli di lana erano cosi pronti per un'ulteriore e piu importante operazione, la fiiatura, che consisteva principalmente in un procedimento di stiramento e torsione del fiocco fino a ridurlo ad un filo di spessore e resistenza uniformi. Ciò si atte-

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neva assicurando il fiocco al fuso, un lungo bastone sottile sormontato da un disco di argilla o di pietra, il cosiddetto frullo: lasciando cadere il fuso, il suo movimento roteante tirava e faceva attorcere un tratto di fiocco. Il filo ottenuto veniva avvolto sul fuso e l'operazione si ripeteva; cosi si ricavavano bobine di refe o filati di lana, che venivano poi lavati, decolorati o tinti secondo la richiesta. Finalmente si arrivava alla terza operazione, la tessitura. Il tipo piu semplice di telaio era una cornice entro cui era fissata una serie di fili paralleli, saldati generalmente ad un'asta orizzontale sopra la testa del tessitore e tenuti tesi da pesi attaccati ad ognuno di essi. La serie dei fili cosi disposti si chiamava ordito, e perciò questo primitivo tipo di telaio è conosciuto col nome di «telaio a ordito». L'esperienza acquisita nell'intrecciare panieri e stuoie fu utilizzata per fare i primi abiti. Attraverso i fili dell'ordito furono introdotti i fili della trama o di riempimento, formando un tessuto. La tessitura fu ben presto semplificata da qualcuno che ebbe l'idea geniale di far scorrere ogni secondo filo d'ordito attraverso un piccolo occhiello di filato saldato a un'asta. Tirando la bacchetta, i fili alterni si sollevavano ed era facile far passare con un solo movimento la trama attraverso lo spazio intermedio tra le due serie di fili d'ordito e serrarla poi contro gli altri fili di trama per formare un intreccio compatto. A poco a poco il telaio si trasformò in una macchina piu complicata. La trama fu posta in una navetta piu agevolmente maneggiabile; usando parecchie aste, ciascuna fissata a una serie diversa di fili d'ordito, si ottennero disegni molto piu complessi. Quando infine queste aste o « bardature » furono azionate da un pedale, il tessitore ebbe le mani libere per muovere la navetta e battere la trama con la cosiddetta spada per serrarla in una solida tela. Il successivo sviluppo delle tecniche della filatura e tessitura non implicò l'introduzione di principi nuovi, ma piuttosto la meccanizzazione di queste primitive in-

LA CERAMICA

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venzioni dell'età neolitica. Grazie a condizioni particolarmente favorevoli si sono conservati alcuni frammenti di antichi tessuti, che ci permettono di studiare la tecnica impiegata e di valutare la resistenza del materiale quando era nuovo. Altri dati importanti si possono ricavare dall'osservazione dei tipi primitivi di telai raffigurati nei dipinti dell'Egitto e della Mesopotamia. Le misurazioni eseguite su campioni di antichi tessuti mostrano che il @o ottenuto dai tessitori egiziani era piu sottile di quello che qualsiasi nostra macchina moderna possa produrre: certi campioni contengono fino a 210 fili d'ordito ogni centimetro. Nessuna meraviglia dunque che il lino egiziano fosse famoso in tutto il mondo antico.

La ceramica. L'arte di fabbricare il vasellame fu una delle maggiori conquiste dell'età della pietra nuova. Essa riposa sulla scoperta delle peculiari qualità dell'argilla, che mescolata all'acqua può essere plasmata e poi fatta seccare per fabbricare vasi, brocche ed altri recipienti. Ma i vasi di argilla secca possono di nuovo venir distrutti dall'acqua. Se invece l'argilla è riscaldata oltre una certa temperatura, diviene dura e fragile, inattaccabile dall'acqua e capace di resistere ad elevati gradi di calore. Ad una temperatura ancora piu alta si verifica una specie di vetrificazione, ma le fornaci primitive difficilmente riuscirono ad ottenere queste temperature. Le piu antiche stoviglie mostrano chiaramente di essere state cotte a fuoco libero. Sembra che le prime fornaci per vasellame si siano sviluppate poco prima dell'invenzione della ruota del pentolaio. Non conosciamo esattamente come nacque quell'arte, ma gli esemplari piu remoti hanno la forma di borse di tela, di vasi di cuoio, di recipienti ricavati dalle zucche. Sembra che quegli oggetti originali siano stati ricoperti di uno strato di argilla per renderli piu impermeabili. Questo procedimento, tra l'altro, permetteva di riscal-

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dare il contenuto dei recipienti e offriva cosi all'uomo la possibilità di arricchire e migliorare la sua alimentazione: l'arte di fabbricare le stoviglie è infatti strettamente legata a quella culinaria. Quando furono usati per cucinare, questi recipienti ricoperti d'argilla dovettero essere cotti sul fuoco; certi antichi frammenti di vasi mostrano ancora le tracce degli oggetti originali a cui fu applicata l'argilla. L'osservazione e la ripetizione della esperienza deve aver condotto alla scoperta dell'arte della ceramica. Ben presto il vasellame abbandonò quelle forme primitive per assumerne altre piu consone alla natura dell'argilla. L'uomo dell'età neolitica plasmò il suo vasellame con metodi usati ancora oggi dalle popolazioni primitive dell'America, dell'Africa e dell'Oceania. Egli ricavava un vaso da un unico pezzo di argilla o da anelli di argilla sovrapposti; ben presto imparò a fornirlo di becco e di manici e a decorarlo con disegni ispirati alle forme naturali o geometriche. Cominciò a usare tipi diversi di argilla per produrre terraglie colorate e a cuocerli a temperature differenti per ottenere smalti iridescenti ed altri effetti di colore; imparò anche ad aggiungere all'argilla sabbia o gusci di chiocciole triturate per rendere piu poroso il vasellame. La ceramica si sviluppò cosi in una tale varietà di forme, decorazioni e materiali che l'archeologo può oggi utilizzare i suoi prodotti, accanto alle armi e agli utensili, per individuare le differenti culture. La seconda fase della storia del vasellame iniziò con l'introduzione della ruota del pentolaio, che permise al vasaio di creare forme piu simmetriche ed originali e di controllare meglio lo spessore delle pareti. La varietà dei prodotti sembra ora infinita, eppure si lascia catalogare in determinati tipi che ci forniscono un orientamento sulla diffusione e direzione delle correnti migratorie. In alcune regioni, come nell'Europa nord-occidentale, la ruota del pentolaio non comparve fino al 500 a. C. Abbiamo qui ancora una volta l'esempio di un'arte che lasciò la sua impronta sulle concezioni religiose e

LA LAVORAZIONE DELLA PIETRA

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filosofiche. Come la nuova agricoltura e il suo ciclo della vegetazione avevano fatto sorgere molti culti di un dio della vegetazione che moriva e rinasceva, cosi pure si trovano in ogni religione numerose analogie con l'arte del vasaio: l'uomo è paragonato a un fragile vaso, oppure si onora un dio che creò l'uomo dall'argilla. La lavorazione della pietra.

Nell'età neolitica l'uomo cominciò anche a levigare la pietra. Per fabbricare i suoi utensili non si limitò a usare il legno, il corno o la selce, ma raccolse pietre dure come il granito e la diorite e diede loro determinate forme strofìnandole pazientemente con la sabbia. Ciò significa che ora egli non doveva piu accontentarsi dei pezzi che le fratture della selce gli offrivano occasionalmente, ma era in grado di produrre nuovi strumenti di pietra di forma piu adeguata al loro uso. D'ora in poi vediamo comparire utensili di foggia ben definita ricavati dalle rocce dure: picconi, asce e accette. D'altro canto la selce non fu tuttavia completamente abbandonata come materiale per la fabbricazione di strumenti, ma la sua lavorazione si perfezionò e si trasformò in una vera arte. In alcune tombe del periodo neolitico sono stati ritrovati in quantità notevole modelli silicei di utensili e di armi finemente levigati. È interessante notare che nei contorni e nelle fogge, per quanto concerne il principio strutturale, quegli strumenti sono molto simili ai nostri di oggi. Questo consente all'archeologo di determinare l'uso cui erano destinati: possiamo affermare, ad esempio, che certi strumenti erano usati dai carpentieri e che di conseguenza l'origine della carpenteria va posta intorno a quel periodo. I nuovi metodi di lavorazione della pietra ebbero importanza anche per la nascita di un'altra arte, quella del taglio dei sigilli. I sigilli erano molto usati nell'antichità, principalmente per contrassegnare la proprietà privata e per autenticare documenti ufficiali. Gli scavi hanno

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portato alla luce bei sigilli incisi che risalgono a un'epoca molto remota; anche su tavole d'argilla e su serrature si sono trovate numerose impressioni di sigilli. In Mesopotamia essi avevano la forma di un cilindro inciso con un foro centrale, in modo da poter essere portato indosso o attaccato ad un cordone o ad un anello, mentre in Egitto il sigillo cilindrico fu presto sostituito dal tipo che conosciamo oggi, il quale assunse spesso la forma dello scarabeo. Un altro settore della lavorazione della pietra era quello dell'intaglio e dell'incisione di vasi e di pentole, che si decoravano con ogni sorta di complicati disegni. Nei nostri musei ne esistono oggi splendidi esemplari, spesso eseguiti in pietre translucide come l'alabastro. Fu un'arte che fìod in Egitto, dove si trovava grande abbondanza e varietà di pietre nelle vallate che conducevano dal Nilo verso il deserto. In Mesopotamia invece, dove questi materiali dovevano essere importati dalle regioni montane che si trovavano spesso in mano nemica, la scultura e l'intaglio della pietra, fatta eccezione per i sigilli, non ebbero mai grande sviluppo. La nuova litotecnica fece sentire la sua influenza anche in due altre direzioni: sviluppò la tecnica mineraria e contribui al sorgere dell'architettura. Le prime forme di scavi minerari risalgono all'età paleolitica. La silice, benché ve ne sia grande abbondanza sulla superficie terrestre, si trova generalmente in blocchi inclusi entro date formazioni geologiche, e la sua estrazione assunse perciò un preciso carattere industriale fin da tempi remotissimi. Nei numerosi centri di quest'industria che risalgono all'età della pietra e che le ricerche archeologiche hanno scoperto, nelle cave di silice si sono trovati resti di lampade rudimentali, di picconi di corno e perfino ossami di minatori rimasti sepolti da qualche crollo. Nell'età neolitica l'uomo non soltanto imparò ad estrarre e ad utilizzare numerose varietà di pietra per fabbricare utensili o costruzioni, nonché pietre preziose e semipreziose per ornamenti e ciondoli portafortuna, ma cominciò a sviluppare le cave primitive in vere e proprie miniere, non molto dissimili da quelle moderne. Entro

LA LA VORAZIONE DELLA PIETRA

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gli strati di minerale si scavarono gallerie e un intero sistema di corridoi, e si costruirono pozzi speciali per la ventilazione. Le gallerie scavate furono riempite di ganga e si cominciò ad impiegare il metodo di lasciare pilastri naturali di pietra per sostenere il tetto della miniera. I primi strumenti minerari erano di corno o di pietra, ma col progredire della metallurgia del bronzo e del rame se ne crearono altri piu adeguati, spesso ideati nel corso del lavoro in miniera o nelle fucine. Una delle difficoltà che limitavano lo sviluppo delle miniere primitive era dovuta alle acque: non si sapeva come far defluire le acque del sottosuolo. Anche i Romani, molto piu tardi, riuscirono a risolvere il problema solo in un modo assai faticoso, costruendo una serie di ruote ad acqua, spinte per lo piu da schiavi, che facevano salire il liquido dalla miniera con gradini di circa quattro metri l'uno. Nella maggior parte dei casi era impossibile lavorare al di sotto del livello delle acque sotterranee, e quindi raramente le miniere antiche oltrepassavano i trenta metri di profondità. Del resto, per la limitata richiesta di minerali, quella profondità era piu che sufficiente. Per di piu in Oriente c'era una quantità di giacimenti superficiali di minerali e di pietre, di facilissimo sfruttamento, che non si esaurirono fino al tempo dei Romani. Solo quando quelle risorse cominciarono a venir meno, l'uomo fu costretto a scendere nel sottosuolo a profondità maggiori. Oltre alla selce e ai materiali analoghi usati per la fabbricazione di strumenti, l'uomo preistorico estrasse pietre preziose e semipreziose, esercitando il loro commercio su di un'area notevolmente estesa. Uno dei piu antichi minerali usato per collane ed amuleti fu l'ambra. Ad esso seguirono piu tardi la giada, l'agata, il turchese, la malachite, la lazulite, il diaspro, i lapislazzuli e molte altre gemme. I lapislazzuli, molto richiesti in Egitto, venivano per la maggior parte dall'Afganistan, l'ambra arrivava dalle coste del Baltico e del Mare del Nord alle spiagge del Mediterraneo e certe conchiglie provenienti dal Mar Rosso venivano trasportate in lontane regioni d'Europa, dove erano molto apprezzate.

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Allora, come oggi, era universalmente diffusa la credenza che molte di quelle pietre possedessero un misterioso potere o « mana » e lo trasmettessero a chi le portava. Questa fede nei magici influssi delle pietre è una delle piu tenaci forme di superstizione nel mondo, viva ancora oggi. L'estensione dell'uso e del commercio delle pietre preziose non significa tuttavia che l'uomo dovesse percorrere, per procurarsele, distanze tanto grandi; dal luogo di estrazione mediante baratti successivi esse passavano di tribu in tribu, fino a raggiungere la destinazione finale. Anche qui, come è accaduto per i piu antichi oggetti metallici, si sono ritrovati numerosi depositi di pietre preziose che si può presumere appartenessero a sepolture di mercanti deceduti durante il viaggio o che fossero nascoste nell'imminenza di qualche pericolo. I dati geografici di questi ritrovamenti ci indicano le vie lungo le quali si svolgeva il commercio preistorico.

La metallurgia. Alla fine dell'epoca preistorica due nuovi rami dell'industria mineraria divennero particolarmente importanti: l'estrazione di minerali e la metallurgia. Taluni metalli presenti in natura erano già ben conosciuti. Il rame, l'oro, l'argento e il ferro meteorico si offrivano all'uomo sotto forma di piccoli depositi nelle vicinanze dei rispettivi minerali. Durante tutta l'età neolitica si raccolsero minuscole pepite di quei metalli, usate per collane o amuleti; quando si riusciva a tagliarli, levigarli e batterli, spesso se ne ricavavano ornamenti e ninnoli. Ovviamente questo tipo di lavorazione di metalli non può dirsi ancora metallurgia, ma rappresenta piuttosto l'applicazione delle tecniche di lavorazione del legno e della pietra a materiali le cui peculiari proprietà non erano state ancora scoperte. La prima fase della vera metallurgia ebbe inizio quando si osservò che quelle pietre lucenti avevano certe misteriose caratteristiche - scaldate al fuoco, si lasciavano forgiare e lavorare facilmente, a temperature piu

LA METALLURGIA

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elevate fondevano e si potevano colare in forme o stampi, che poi venivano tolti quando l'oggetto si fosse raffreddato. Fu allora che nacque il fabbro, l'esperto artigiano che conosceva le misteriose proprietà di quelle pietre speciali e sapeva trasformarle in metallo durevole e forgiarle in armi e utensili. Gli oggetti metallici cominciarono ora ad assumere forme specifiche, anziché imitare semplicemente gli strumenti di corno o di pietra, come accadeva nei tempi precedenti. A questo periodo seguf molto presto una seconda fase caratterizzata da un'altra importante scoperta. Si osservò che le pepite di metallo si trovavano generalmente vicino a certe pietre colorate ben note, come la malachite, il turchese e i lapislazzuli, che ora venivano usate, oltre che come gioielli, anche per preparare gli smalti per le ceramiche. Fu probabilmente un vasaio a scoprire che quelle pietre, combuste ad alte temperature, lasciavano un piccolo residuo di metallo fuso che, solidificandosi per raffreddamento, formava una pepita simile a quelle dei depositi naturali. Nel caso dei tre minerali ora ricordati si avevano pepite di rame. Cosf, rendendosi conto di questa essenziale relazione esistente tra le lucenti pietre colorate e i metalli, il fabbro di quei tempi, pur non possedendo alcuna nozione di chimica, aveva inconsciamente scoperto il rapporto tra i metalli e i loro minerali. Noi oggi sappiamo naturalmente che i minerali si riducono quando l'ossido di carbonio liberato dal carbon fossile durante la combustione si combina con l'ossigeno del metallo, separandolo cosi dal minerale. Questa reazione chimica, scoperta del tutto accidentalmente ancor prima dell'inizio della storia, sta alla base della metallurgia moderna. Essa rende l'uomo indipendente dalla scarsità di depositi naturali di metalli e pone nelle sue mani vaste riserve di minerali, vene superficiali e giacimenti che nell'antichità erano assai ricchi, benché si siano per Io piu esauriti verso la fine dell'epoca imperiale romana. La scoperta avvenne prima dell'inizio dei tempi storici, come dimostra il ritrovamento di crogiuoli per la fusione di metalli e di vari strumenti metallici risalenti all'epoca preistorica.

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La chimica rimane invece estranea alla produzione dell'oro. In principio il metallurgista si limitava a schiacciare il minerale aureo e a concentrare le particelle d'oro, lavandaie e gettando via il residuo; esse venivano poi fuse e colate in forma di anelli o verghe, per renderle commerciabili. Questo fu effettivamente il procedimento della metallurgia dell'oro fino ad un'epoca già relativamente tarda. A parte qualche regione dell'Asia Minore ed altre località del Caucaso, la maggior parte dell'oro proveniva, nell'antichità, dal deserto egiziano della Nubia, dove le cave e le miniere erano sfruttate fin dai tempi piu remoti da schiavi e prigionieri di guerra, sotto la sorveglianza di reparti armati. Spesso furono anche fatte delle spedizioni per cercare i depositi d'oro: possediamo una carta del 1500 a. C. di una di queste temporanee colonie minerarie. Una volta conosciuto il principio della estrazione dei metalli dai minerali, esso trovò larghissima applicazione e rapidamente si susseguirono le scoperte e i progressi nella tecnica metallurgica. Furono isolati dai loro minerali l'argento, l'antimonio e il piombo; un migliaio d'anni piu tardi anche lo stagno. Argento e piombo si ricavavano generalmente dai minerali di piombo; la produzione dell'argento rimase concentrata nell'Asia Minore, prima che venissero scoperte le ricche miniere presso Atene e piu tardi quelle spagnuole. Dall'analisi dei primi oggetti di rame risulta evidente che i fabbri si accorsero subito che il rame puro era troppo tenero per poter sostituire la pietra. Cominciarono allora a mescolare i metalli e a tentarne la fusione: appresero cosi che le leghe di rame e antimonio o piombo non fornivano materiale soddisfacente per utensili e armi, mentre si ottenevano buoni risultati unendo il rame allo stagno. Non possedendo alcuna nozione di chimica, l'uomo primitivo poteva riconoscere i minerali e gli altri elementi solo ponendo ogni attenzione alle loro caratteristiche fisiche - colore, lucentezza, durezza, peso e solubilità nell'acido (l'aceto era l'unico acido conosciuto a quei tempi). Queste proprietà sono menzionate assai

LA METALLURGIA

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spesso negli antichi testi sumeri e assiri. Ma per quanto minuziosa e perfetta potesse essere quell'attenzione, essa lasciava il fabbro all'oscuro riguardo alla percentuale di metallo contenuta nel minerale. Quando egli, ad esempio, voleva produrre bronzo fondendo minerali di stagno e rame, otteneva un bronzo nel quale la percentuale di stagno poteva variare dal 7 al 12 per cento, e doveva accontentarsi del risultato ottenuto. (Oggi sappiamo che il fabbro deve preparare una lega di bronzo al l O per cento, per ottenere un materiale adatto per armi e utensili). Questo non era tuttavia un serio inconveniente per la metallurgia primitiva, poiché la scarsa specializzazione degli strumenti non richiedeva ancora un accurato dosaggio degli ingredienti delle leghe; ai fabbri d'allora anche quelle combinazioni variabili erano sufficienti. La produzione di leghe si sviluppò rapidamente nei tempi preistorici. Nella metallurgia dell'età del bronzo, caratterizzata da strumenti e armi per la maggior parte di bronzo, la fusione e la forgiatura occupano un posto preminente. La composizione della lega era tuttavia piu importante del suo successivo trattamento, in quanto determinava il particolare impiego del prodotto. Col tempo si moltiplicarono le leghe speciali per applicazioni particolari, come la fabbricazione di campane, di specchi metallici, ecc.; certe leghe ad esempio erano adatte per gli specchi ma troppo fragili per altri usi. A poco a poco si riusd a determinare con maggior esattezza anche la composizione delle leghe, specialmente quando i giacimenti di minerali di stagno dell'Oriente cominciarono ad esaurirsi (dopo il 2000 a. C.) e, per fabbricare il bronzo, si dovette importare il metallo. Alla fine dell'età del bronzo l'arte di produrre leghe si era quindi perfezionata, e benché il loro numero fosse grandemente aumentato, era tuttavia possibile ottenere composizioni molto piu esatte. Queste scoperte della metallurgia nell'epoca predinastica ebbero importanti conseguenze sociali. Abbiamo buone ragioni di credere che il fabbro sia stato il primo artigiano professionale della storia. Durante l'età della pietra infatti i vari mestieri venivano esercitati nelle ore

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libere dai contadini e dai cacciatori: filare e tessere gli abiti, fare le scarpe, costruire le case ed altre occupazioni analoghe erano funzioni che gli uomini adempivano oltre alle normali attività della pastorizia e della coltivazione dei campi. Ora la nuova agricoltura produceva abbondanti raccolti, capaci di nutrire artigiani che non fossero anche pastori o contadini. Essere un fabbro significava trascorrere tutta la giornata in questa specifica occupazione; come gli altri artigiani, egli scambiava il prodotto del suo lavoro altamente specializzato col cibo fornito dal contadino. Il fabbro primitivo estraeva i minerali e ne fabbricava oggetti metallici. Ma ben presto l'estrazione divenne un'attività separata. Anche il trattamento del metallo era ormai un processo troppo complesso, e durante l'età del bronzo sorsero tre diversi tipi di fabbro: il fonditore che produceva il metallo grezzo e lo fondeva in verghe o tavolette per renderlo commerciabile, il forgiatore che dal metallo puro plasmava oggetti di bronzo, e infine i fabbri che riparavano gli oggetti metallici danneggiati oppure erano specializzati nella lavorazione dell'oro e dell'argento. Sulle menti primitive l'arte misteriosa di « tramutare le pietre in metalli » esercitò una grande impressione. Il fabbro era guardato con timorosa reverenza sia dai contadini che dai pastori, e da questi ultimi anche con la diffidenza che essi nutrono sempre verso la popolazione sedentaria. A causa della sua misteriosa attività spesso gli si attribuivano poteri magici: veniva consultato come un saggio che conoscesse le forze segrete della natura piu dei capi e dei sovrani. Intorno alla persona del fabbro, ai suoi strumenti e perfino ai metalli da lui forgiati sorsero curiose leggende e credenze. Suo patrono era il dio del fuoco vulcanico, personificato da deità mitologiche quali Efesto e Vulcano. In molti paesi erano diffuse leggende di fabbri soprannaturali, come il Wieland della mitologia germanica: una delle piu belle è forse la saga del fabbro Ilmarinen nell'epos finnico Kalevala, che descrive la creazione del ferro e la fabbricazione di una magica arma d'acciaio.

LA RUOTA

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La ruota.

La piu importante invenzione del periodo predinastico fu probabilmente la ruota. Fino allora l'uomo per trasportare pesi aveva usato slitte e tronchi d'albero o ceppi, ma dal punto di vista tecnico c'è un bel passo da un cilindro che rotola a un asse che a ciascuna estremità rechi una ruota. In certe regioni, come nel Galles, esistono ancora sopravvivenze di antichissimi mezzi di trasporto in cui l'idea di una slitta formata da due pali si combina con l'uso di un paio di ruote; però si discute tuttora se tali veicoli si riconnettano davvero ai carri primitivi. In questi ultimi le ruote formavano con l'asse un pezzo unico che girava sotto la cassa del carro e ci volle molto tempo prima che l'uomo scoprisse il modo di fissare le ruote indipendentemente dall'asse, in modo che questo rimanesse fisso mentre quelle giravano. Le prime ruote erano dischi di forte spessore ricavati da tavole pesanti e rozze, saldate assieme e tagliate in modo da formare approssimativamente un cerchio. I carri primitivi, raffigurati nei dipinti dell'Egitto e della Mesopotamia, erano veicoli massicci muniti di quattro ruote. Il loro uso era limitato, poiché prevaleva ancora il trasporto per via d'acqua. Servivano in guerra per trasportare i combattenti sul campo di battaglia, ma non venivano usati durante il combattimento; erano adibiti al trasporto di mercanzie, ma solo per distanze limitate, perché non esistevano ancora buone strade e lungo le piste e i sentieri era piu vantaggioso il trasporto a dorso di asino e di mulo. I viaggi sui carri non furono mai molto comuni, nell'antichità. Fino alla tarda romanità dovevano essere piuttosto scomodi, poiché i carri non avevano molle e le strade erano piene di buche e di solchi; e poi viaggiare sui carri fu a lungo considerato poco virile, riservato solo alle donne, ai bambini, ai vecchi e ai malati e disprezzato da ogni uomo che potesse disporre di un proprio cavallo o mulo. A poco a poco si creò la ruota a raggi e con l'introduzione del cavallo, in Oriente, dovuta ai nomadi delle

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steppe settentrionali {intorno al 2000 a. C.), comparve un tipo piu snello di carro da guerra a due ruote. I carriaggi tirati da cavalli ebbero grande importanza intorno al1500 a. C.: gli Ittiti dell'Asia Minore dovettero i loro successi militari per la maggior parte a questi « carri armati dell'antichità », che erano in grado di scatenare cariche devastatrici contro le truppe nemiche. Sulle pareti di templi assiri ed egiziani se ne possono ancora vedere splendide raffigurazioni. Nello stesso periodo si diffuse in Oriente l'uso del cavallo, chiamato per l'innanzi « l'asino di montagna ». Il cammello, benché fosse noto già da tempo ai nomadi del deserto e sia spesso ricordato dagli Egiziani e dagli Assiri, non fu usato da questi ultimi come cavalcatura o come bestia da soma prima che l'Impero Persiano si fosse esteso fino ad includere gran parte dell'antico Oriente e le carovane dei mercanti potessero quindi attraversare il deserto siriano. Può apparire strano che il cavallo, secoli dopo la sua introduzione, sia stato usato solo come animale da traino; ma l'arte di cavalcare si sviluppò solo molto piu tardi. Le comunicazioni e i trasporti subivano la mancanza di buone strade, e l'uso della ruota per i veicoli rimase di importanza secondaria. La piu notevole applicazione della ruota la si ebbe nella manifattura della ceramica. La ruota del vasaio fu una delle prime forme di meccanica fondata sul principio della ruota. Anche nell'irrigazione la ruota ad acqua ebbe grande importanza. In queste macchine primitive si utilizzava come forza motrice la corrente del fiume, che azionava la ruota e immetteva piccole quantità d'acqua nei vasi o nelle secchie di legno inseriti nel margine della ruota stessa. Quando questi, girando, arrivavano alla sommità della ruota, versavano l'acqua in un tubo di scarico che irrigava i campi. Una ruota dentata, in combinazione con altre ruote simili, trasformava la rotazione verticale in orizzontale: questo principio, fondamentale per il funzionamento di tutti i congegni meccanici, poteva essere applicato quando le ruote idrauliche erano spinte da un uomo o da un animale anziché dall'acqua.

LE COMUNICAZIONI

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Oltre alle ruote dentate o ingranaggi, la ruota diede origine ad un'altra macchina fondamentale: il tornio, che è essenzialmente una ruota con un'asse orizzontale. Questo strumento ebbe grande influenza sullo sviluppo della lavorazione del legno e dei metalli: la prima raggiunse ben presto un alto grado di perfezione. Nella metallurgia invece dovevano passare ancora molti secoli prima che gli utensili metallici fossero tanto perfezionati da poter essere applicati al tornio; di fatto solo intorno all800 si cominciarono a produrre in Inghilterra i primi buoni torni per la fabbricazione di pezzi metallici di macchine. Le comunicazioni.

Un'altra notevolissima invenzione del periodo predinastico è la nave, perché la costruzione di navi influenzò notevolmente l'arte di lavorare il legno e di fabbricare strumenti. Sappiamo che molti tipi di zattere, canoe e piroghe furono inventati in varie regioni del mondo; ma ogni ulteriore progresso in questo campo dipendeva dai materiali a disposizione nei diversi paesi interessati al traffico per via d'acqua. In Egitto, ad esempio, dove i tipi primitivi di barche erano costituiti principalmente da fasci di canne, man-

Zattera assira di tronchi d'albero e otri gonfiate, per il trasporto di merci sul Tigri (da un bassorilievo uovato a Khorsobad).

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cava il legname adatto per la costruzione di navi piu grandi. Gli alberi locali, come le acace, producevano tavole non piu lunghe di un metro. La conseguenza fu che gli Egiziani entrarono prestissimo in rapporti commerciali con la Siria settentrionale, dove potevano giungere navigando lungo la costa, per procurarsi i preziosi cedri del Libano, ma non divennero mai un popolo di grandi navigatori. In Mesopotamia invece i canotti, le zattere e i cesti di salici rivestiti di pelle o di mastice d'asfalto servivano per la navigazione fluviale, mentre le montagne producevano legname d'alto fusto per la costruzione di imbarcazioni che fossero in grado di affrontare il mare. Dalle raffìgurazioni che adornano certi vasi preistorici egiziani si può dedurre che le navi della Mesopotamia erano riuscite a circumnavigare l'Arabia, raggiungendo la costa egiziana del Mar Rosso. Si usava già largamente la vela e i remi fungevano da timone. Sia le navi a vela che quelle a remi, per le quali ci si valeva di schiavi e di prigionieri, formavano le flotte che fin dai tempi preistorici percorsero il Mediterraneo ed altri mari importanti per il mondo antico. Si trattava quasi sempre di cabotaggio; venti anche moderati e tempeste costituivano un serio rischio per i naviganti primitivi, che cercavano quindi di non perder di vista la costa e un ancoraggio sicuro. Tuttavia anche questa limitata forma di navigazione portò una grande espansione delle relazioni commerciali e fu un rapido mezzo di diffusione delle informazioni. Ma la piu decisiva di tutte le invenzioni del periodo predinastico fu forse la scrittura. I papiri coperti di geroglifici e le tavolette d'argilla incise a caratteri cuneiformi ci permettono di penetrare nel pensiero del mondo antico e di studiare le idee e le invenzioni dei tecnici e dei costruttori. Con lo sviluppo della scrittura divenne possibile trasmettere e ricordare il crescente patrimonio di conoscenze, specialmente in campi d'importanza essenziale come la storia, la matematica e l'ingegneria civile. La descrizione particolareggiata dell'evoluzione della scrittura esula dall'ambito di questo libro, ma la tecnica

LE COMUNICAZIONI

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di produzione dei materiali per scrivere costituisce logicamente una parte della nostra storia. Il materiale grezzo per le tavolette si trovava in abbondanza nelle pianure della Mesopotamia: I'unica cosa che occorreva era una lavatura preliminare dell'argilla e una cottura finale delle tavolette dopo che vi fossero

Cocchio egizio con ruote a raggi.

stati incisi i caratteri cuneiformi. Tali documenti erano praticamente indistruttibili, anche se avrebbero dovuto giacere sepolti per migliaia di anni sotto le rovine di antiche città. Altri materiali invece, come le tavolette di legno, le pergamene e il cuoio, sono andati per la maggior parte perduti, tranne dove le condizioni climatiche furono particolarmente favorevoli, come nelle aride sabbie desertiche dell'Egitto. Ma gli antichi Egiziani scrissero soprattutto su papiri. Estraevano il midollo dal gambo del papiro e lo tagliavano in strisce sottili, allineavano queste una accanto all'altra e vi sovrapponevano un secondo strato incrociato. I due strati venivano poi incollati insieme e ulterior-

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mente saldati battendovi sopra leggermente con mazzuoli di legno. Per lettere o per relazioni brevi si usavano fogli di papiro del formato di cm 25 per 19, mentre per documenti e libri si fabbricavano, unendo insieme una serie di fogli, rotoli di piu di 80 cm di lunghezza. Per tutta l'antichità la produzione di papiri fu monopolio egiziano. Al papiro fece concorrenza la pergamena. La si ricavava dalla pelle degli asini, dei maiali e anche delle gazzelle e dei cervi; la pelle veniva lavata, ripulita dal pelo, stesa a seccare e infine levigata con la pietra pomice e col gesso; una qualità migliore si preparava con pelle di vitelli, pecore e capre. Benché fosse molto piu antico, questo prodotto deriva il suo nome dalla città di Pergamo nell'Asia Minore, che fu il centro principale della manifattura di pergamene nell'antichità classica. La pergamena era commerciata in forma di fogli e di rotoli e poteva essere usata da ambedue i lati, mentre del papiro era utilizzabile solo il lato dove le strisce di midollo erano disposte orizzontalmente e che fu detto dai Romani recto, per distinguerlo dal rovescio chiamato verso: termini ancora in uso attualmente fra i produttori di carta e di libri. Per brevi missive e per uso scolastico vi erano infine le tavolette di coccio e di legno con la superficie incerata che permetteva la cancellazione dello scritto dopo la lezione. Due di queste tavolette unite da una cerniera formavano un « diploma » (parola greca che significa « papiro piegato ») e si usavano al tempo dei Romani per i lasciapassare rilasciati a privati che usufruivano di servizi di trasporto statali.

Capitolo terzo GLI ANTICHI GRANDI IMPERI DEL VICINO ORIENTE (3000-600 a. C.)

Dopo il 3000 a. C. i papiri e le tavolette d'argilla, i rotoli di pergamena e i cocci di terracotta, le iscrizioni sui monumenti e sui templi ci permettono di prendere diretto contatto con le antiche culture. Abbiamo a nostra disposizione una quantità di documenti storici e religiosi, di contratti, leggi, registri e libri di contabilità, ed altri ancor piu numerosi attendono di essere pubblicati e tradotti. Essi ci mostrano le profonde conseguenze sociali delle scoperte e delle invenzioni del periodo predinastico e rivelano inoltre la struttura fondamentale degli imperi primitivi dell'Egitto, della Mesopotamia e della valle dell'lndo, quali emergono dalle nebbie della preistoria. Questi antichi regni sono tipiche civiltà urbane. Dalla massa di villaggi della precedente cultura rurale delle valli fluviali emersero le città come centri di abitazione delle nuove classi di artigiani, scrivani e mercanti, soldati e marinai, pubblici impiegati e funzionari di stato. Le incursioni di guerrieri nomadi durante la tarda età della pietra non soltanto fecero s1 che la guerra divenisse un'attività dello stato, ma in taluni casi gli invasori conquistarono i nuovi stati e si stabilirono nelle loro città principali come dominatori permanenti. Si sviluppò cosi la nuova classe degli schiavi, generalmente prigionieri di guerra assoggettati alle forme piu pesanti di lavoro nelle miniere, nelle cave e nei campi.

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GLI ANTICHI GRANDI IMPERI DEL VICINO ORIENTE

Le città divennero la residenza delle nuove classi, il cui nutrimento era fornito dall'eccedenza dei raccolti prodotti dalla grande massa dei contadini. In esse si concentrarono le arti e le scienze, e queste si fondarono sui progressi realizzati in periodi precedenti nei vari campi della geologia, della chimica, della storia naturale, dell'astronomia, dell'agricoltura, della meccanica, della metallurgia e dell'architettura. Le strutture di questi imperi differiscono profondamente fra loro. In Mesopotamia troviamo un agglomerato di piccole città-stato che hanno ognuna il suo centro in una grande città. Il primo sacerdote del tempio governava sulla regione assegnatagli come rappresentante di Dio, che era considerato non solo il creatore, ma anche il padrone supremo. Sembra che l'organizzazione della cittàstato sia stata una specie di comunismo statale: i prodotti dell'agricoltura e dell'artigianato venivano portati al tempio, dove erano registrati e immagazzinati; il tempio poi forniva alimenti e materie prime ai cittadini, agli agricoltori e agli artigiani. In Egitto invece il potere era accentrato nelle mani del re, che era egli stesso un dio e amministrava l'Alto e il Basso Egitto attraverso due distinte organizzazioni di funzionari. La scienza e gli artigiani.

Col progredire della specializzazione, la maggior parte degli artigiani dell'antichità cominciarono ad organizzarsi in corporazioni, che erano in generale in stretta connessione con i templi o comunque dirette dallo stato. I « preposti » alle corporazioni appartenevano spesso agli ordini ecclesiastici: erano scrivani che avevano penetrato i misteri del linguaggio e della scrittura. Ciò non significa tuttavia che essi fossero sacerdoti nel senso odierno della parola, poiché la maggior parte dei funzionari e dei nobili che possedessero qualche speciale nozione avevano tale rango sacerdotale. Può darsi che fossero stati educati nelle scuole dei templi; questi, come

LA SCIENZA E GLI ARTIGIANI

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accadde nel Medio Evo, erano allora centri di educazione. Nell'antica Assiria le corporazioni erano spesso dirette da un funzionario, generalmente di alto rango, denominato con un titolo che significa « istruttore ». Questo ed altri fatti indicano evidentemente che le attività artigiane attraverso i loro capi erano in stretto contatto con la scienza del tempo. La scienza nel periodo considerato (3000-600 a. C.) aveva una struttura completamente diversa da quella odierna. Lo scienziato moderno, dopo aver raccolto ed analizzato tutti i dati rilevanti, li sintetizza in uno schema generale della natura e questa sintesi ci fornisce i mezzi per usare le risorse naturali secondo i nostri fini. L'antichità invece, specie nel periodo preellenico, non conobbe nulla di simile. Gli uomini non facevano allora una chiara distinzione tra religione, filosofia o scienza: tutti questi diversi aspetti del mondo si compenetravano in un unico sistema generale di pensiero. Gli antichi non avevano ancora imparato a pensare in termini di principi astratti e non possedevano alcun concetto dell'intimo significato dei singoli fenomeni. La « divina curiosità riguardo all'essenza delle cose », come la definirono i filosofi naturalisti greci, non esisteva ancora. L'uomo colto del mondo antico credeva fermamente che ogni cosa nell'universo fosse stata creata « all'origine » dagli dèi. L'ordine cosmico stabilito originariamente dalla divinità esisteva per lui come un sistema immutabile dal principio del tempo. Non aveva alcun desiderio di indagare il perché o il come dei fenomeni osservati nella natura: sapeva che ogni cosa occupa il posto assegnatole in un mondo che è stato modellato dagli dèi il giorno della creazione e che per lui si trattava soltanto di trovare per qualsiasi evento gli si presentasse la sua esatta collocazione nell'ordine cosmico. Dare il nome ad una cosa significa definire il suo posto nel tutto, ovvero immetterla « nella rete del mondo », come dicevano gli Egiziani. Non si richiedeva alcun ulteriore sforzo logico: dare il nome ad una cosa voleva dire riconoscere i suoi legami e influssi magici nel cosmo. La magia, e non la logica, governava i fenomeni naturali.

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GLI ANTICHI GRANDI IMPERI DEL VICINO ORIENTE

Non occorre che noi ora illustriamo particolareggiatamente queste intuizioni scientifiche degli antichi. Il risultato pratico fu che, sebbene i dotti capi delle corporazioni si valessero delle osservazioni degli artigiani, le loro teorie non furono di alcuna utilità per lo sviluppo delle arti. Questi capi tuttavia, gli scienziati di allora, erano considerati assolutamente necessari solo perché dovevano dare l'ultimo tocco al lavoro degli artigiani. Ad esempio quando lo scultore, che dagli antichi Egiziani era chiamato pittorescamente « colui che dà vita », aveva terminato la sua statua di pietra o di legno, questa non poteva esser collocata in un tempio o su una tomba finché il sovrintendente sacerdotale della corporazione degli scultori non l'avesse sottoposta al rito della « apertura della bocca », per conferirle il magico potere di albergare l'anima del morto di cui rappresentava l'effigie. Cosi le osservazioni dei tecnici venivano incorporate nell'antica filosofia della vita e nessun fenomeno naturale suggeriva direttamente una teoria scientifica. Oggi la ricerca è considerata la linfa vitale della tecnica e dell'industria; né l'una né l'altra possono progredire basandosi su leggi dedotte solo attraverso esperimenti ed errori. La mancanza di basi teoriche spiega perché, dopo le stupefacenti conquiste realizzate nell'ultimo periodo dell'età neolitica, la tecnica antica abbia fatto cosi pochi progressi. Se pure in generale si può parlare di un progresso, questo è stato molto lento, poiché la tecnica, non sostenuta dalla scienza, dovette seguire la via lunga dell'esperienza. La tecnica meramente pratica di quel tempo non sembra aver avuto alcuna connessione con la filosofia magica della vita che permeò l'antichità: il legame rimane nascosto perché la connessione è unilaterale. Per gradi impercettibili quel mondo magico divenne logico, a poco a poco certi aspetti della natura divennero oggetto esclusivo della speculazione scientifica senza interferenze di dogmi filosofici o religiosi. Infine sorse una vera scienza naturale, in grado di guidare e di aiutare gli esperti costruttori e artigiani. Sappiamo che la scienza cominciò ad organizzarsi già in epoca preclassica. Sia in Egitto che in Mesopotamia

I PRIMI ARCHITETTI

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si ebbero associazioni di dotti - corrispondenti alle società scientifiche di oggi -che disponevano di biblioteche e raccoglievano ogni sorta di osservazioni scientifiche. Tali società consigliavano i re e i sacerdoti su problemi d'ordine pratico (ad esempio la costruzione di templi) o religioso o filosofico (la determinazione della data di festività religiose, il calendario, il cerimoniale, l'interpretazione dei sogni), ma non avevano comunque alcun valore come centri di ricerca scientifica nel moderno significato della parola.

I primi architetti. Noi giustamente ammiriamo le realizzazioni pratiche dei primi architetti e costruttori: le gigantesche piramidi e i templi ci riempiono di ammirazione per gli uomini che hanno progettato e costruito quei prodigi di tecnica. Essi non sono dovuti solo al lavoro degli schiavi: erano altrettanto necessarie l'abilità tecnica e l'organizzazione. È certo che per le piramidi furono eseguiti dei progetti. La pietra veniva estratta da cave situate sulla sponda opposta del Nilo: i blocchi venivano tagliati nelle dimensioni richieste e incisi col nome del gruppo di cavatori, la data e il luogo in cui dovevano esser messi in opera. Per erigere la Grande Piramide, destinata a diventare il mausoleo del re Khufu o Cheope nel XXIX secolo a. C., si impiegarono non meno di 2 300 000 blocchi di pietra calcarea. Una quantità ancor maggiore di blocchi e lastre di granito ed altri materiali da rivestimento fu importata dalle cave dell'Egitto meridionale, trasportandola su zattere lungo il Nilo. La piramide copre un'area di circa 53 000 mq e il lato di base misura m 230,43 di lunghezza. Erodoto, il padre della storia, racconta che a questo progetto lavorò per vent'anni un esercito di 100 000 operai, e la notizia è sostanzialmente attendibile. I lavoratori non erano tutti schiavi, come comunemente si crede, ma per la maggior parte artigiani e contadini: questi ultimi lavoravano in pagamento delle tasse

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GLI ANTICHI GRANDI IMPERI DEL VICINO ORIENTE

durante il periodo dell'inondazione, quando il lavoro nei campi era impossibile. Un terzo di questa mano d'opera era impiegata per erigere il corpo della piramide, un altro terzo cavava e trasportava la pietra e gli altri materiali richiesti, il resto attendeva al vettovagliamento e alla costruzione di capannoni e dormitori per gli operai. Vi è un antico titolo egiziano che corrisponde al nostro termine moderno di « organizzatore »; senza dubbio gli organizzatori di quel tempo conoscevano bene il loro mestiere, poiché la direzione di una cosi grande massa di gente non doveva certo essere un'impresa facile. Quella grande esperienza architettonica fu acquisita in poche generazioni: la Grande Piramide era terminata solo dopo 150 anni dalla posa della prima pietra. Durante il periodo predinastico la pietra viva fu impiegata anzitutto per il rivestimento delle tombe e la pavimentazione di edifici importanti. L'arte di cavare la pietra si era perfezionata: all'antico metodo di disintegrare la roccia mediante « fuoco e acqua » si sostitui quello di perforarla e di ricavarne lastre e blocchi mediante cunei e seghe di rame, con l'aiuto di smeriglio o di sabbia. Le grandi lastre di pietra e gli obelischi, ancora parzialmente attaccati alla roccia viva, mostrano quali audaci ingegneri fossero gli Egiziani. L'Egitto ebbe la particolare fortuna di disporre di numerose cave di pietra naturale d'ogni tipo per costruzioni e decorazioni. In Mesopotamia quest'arte non ebbe mai grande sviluppo. Qui il principale materiale da costruzione era il mattone, di un tipo usato anche in Egitto, fatto con l'argilla che si trovava in abbondanza nelle valli dei fiumi. Talvolta si rinforzava l'argilla mescolandovi paglia e canne tagliuzzate; i mattoni formati erano poi fatti seccare al sole. Poiché nell'antico Oriente scarseggiava il combustibile e si trovavano in abbondanza solo materiali inferiori come la paglia, il letame e la legna di cespuglio, l'impiego di mattoni cotti fu limitato agli edifici piu importanti quali i templi, i grandi palazzi e le tombe. L'architettura in pietra fu dunque una conquista egiziana. Il piu antico edificio in pietra del mondo ancora conservato ai nostri giorni è la piramide a scaglioni di

I PRIMI ARCHITETTI

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Saqqarah. Durante gli scavi dei depositi e dei templi entro il recinto di mura che rinchiude questa piramide, eretta per il faraone ~oser intorno al 2940 a. C., si scopri che il suo architetto e costruttore fu il primo ministro Im]:lotep. Le precedenti costruzioni in questa area mostrano una tecnica particolare. Usufruendo dell'esperienza acquisita nell'edificare con legname, fasci di giunchi e mattoni, Im]:lotep tentò di impiegare un materiale piu durevole. Fece estrarre dalla viva roccia mattoni di grandi proporzioni e, dopo averli ammassati in forme rudimentali di mura e di pilastri, li fece tagliare secondo la sagoma degli antichi soffitti di legno o colonne di giunchi oppure li configurò in modo che dessero l'impressione di

Sopra: Scalpellini egiziani che lavorano blocchi di pietra. Sotto: Operai che fabbricano mattoni da essiccare al sole

(dalle pitture murali di una tomba della XVIII dinastia).

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GLI ANTICHI GRANDI IMPERI DEL VICINO ORIENTE

un portone di legno aperto. Durante questi esperimenti egli concepf a poco a poco l'idea di impiegare mattoni e lastre di minori dimensioni, ottenendo forme architettoniche che non erano piu un'imitazione delle antiche strutture in legno o in altri materiali. In certi casi per costruire pilastri di pietra egli preformava i mattoni e le lastre, secondo un metodo rimasto poi in uso fino ad oggi. Questo complesso di costruzioni rappresenta dunque piu o meno il campo sperimentale di un architetto che si sforzava di trovare le strutture piu consone a un nuovo tipo di materiale, la pietra naturale. Cosf si svilupparono le colonne doriche ed altri elementi edilizi che noi abbiamo sempre creduto invenzioni originali dei Greci. Ci troviamo di fronte a una serie di tentativi che furono preziosi per i grandi costruttori di piramidi delle generazioni successive e indicarono loro le forme piu adatte per il nuovo materiale. Non fa quindi meraviglia che Im):léìtep fosse venerato nella tradizione egiziana come uno degli uomini piu sapienti di quel tempo remoto. Circa duemila anni dopo la sua morte egli fu celebrato dio della medicina, professione che probabilmente non aveva mai esercitata, stando almeno ai suoi titoli originali.

Acquedotti e canali. Nel campo dell'ingegneria questo periodo non produsse molte invenzioni importanti, eccetto l'acquedotto. Ciò non significa tuttavia che non si sia realizzato nulla di rilevante nel settore dell'irrigazione e della costruzione di canali. L'irrigazione era il problema principale dei governi sia in Egitto che in Mesopotamia, ma i sistemi usati in ciascuno dei due paesi furono differenti. In Egitto la piena del Nilo si verifica nella stagione favorevole all'agricoltura, da agosto fino al principio di ottobre: rimaneva quindi il tempo di seminare, dopo la lavorazione dei campi, i raccolti invernali e primaverili. Il sistema adottato nell'antico Egitto fu l'irrigazione del

ACQUEDOTTI E CANALI

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bacino. In ciascuna delle aree di irrigazione costruite col lavoro collettivo si aprivano le dighe al momento della piena del Nilo: l'acqua ricopriva tutta l'area e le si lasciava il tempo di deporre il suo limo fecondo; allora si tagliavano le dighe a valle in modo che le acque potessero rifluire nel fiume. Il Nilo contiene un'adeguata quantità di limo per i campi, ma non tanto da ostruire troppo rapidamente i canali. La natura lo ha fatto benefico per gli Egiziani: Hapi, il dio del Nilo, era una divinità propizia. La situazione della Mesopotamia era completamente diversa. Le piene improvvise e irregolari del Tigri e dell'Eufrate si verificano tra aprile e giugno e i due fiumi portano con sé una quantità di fango cinque volte superiore a quella del Nilo. L'inondazione arriva troppo tardi per i raccolti invernali e troppo presto per quelli primaverili. Gli abitanti di quelle pianure dovevano raccogliere le acque in bacini appositamente costruiti, ma in compenso avevano la possibilità di inondare i loro campi come e quanto volevano. Questo sistema di irrigazione detto permanente richiedeva un lavoro immenso, ma permetteva agli antichi Babilonesi di fare tre raccolti ogni due anni. Gli dèi dei fiumi erano spesso distruttori e bisognava propiziarseli. Gli autori classici accennano frequentemente ai ricchi raccolti della Mesopotamia; è logico perciò che i despoti delle città della Mesopotamia si vantassero volentieri di aver scavato canali o di averli riattivati rimuovendone il fango. Il gran sacerdote di Lagasc, Enteman, costrui il Sciattel-Hai, che conduceva le acque del Tigri superiore attraverso la pianura fino all'Eufrate inferiore presso Ur. Un altro canale partiva dal Tigri presso Samarra e attraverso un acquedotto giungeva oltre il fiume Diyalah nella regione a nord del Tigri. Lo sbarramento di Hindia, ripristinato da Alessandro Magno, era molto piu antico e raccoglieva le acque dell'Eufrate in modo che potessero venire distribuite nella regione intorno a Babilonia. L'esistenza di tante piccole città-stato senza un forte governo centrale non favoriva l'efficienza dell'irrigazione, in quelle vallate; ci è giunta notizia di antichi banchieri

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che speculavano sulla costruzione dei canali e sul commercio dei campi irrigui. Ma il sistema generale di irrigazione rimase in buono stato finché i Mongoli con le loro guerre devastatrici del XIII secolo d. C. spopolarono quei paesi, ed anche l'irrigazione decadde. Un giorno gli Egiziani non si accontentarono piu del loro sistema di irrigazione e lo ampliarono considerevolmente. Intorno al 2000 a. C. una serie di re potenti, la cosiddetta Dodicesima Dinastia - specialmente Ameneml;é III -, prolungarono il ramo del Nilo detto Bahr-elJusef (il canale di Giuseppe) fino a fargli raggiungere la depressione desertica del Fayyum. All'ingresso di quell'oasi Ameneml;é costrui una larga diga. Cosi egli non solo condusse il fertile limo del Nilo in quella nuova provincia, che divenne floridissima, ma introdusse pure l'irrigazione permanente in una parte dell'Egitto, poiché il Fayyum poteva essere usato come serbatoio e le sue acque potevano essere guidate, quando lo si volesse, nel sistema di bacini della valle. Questo sistema richiedeva una cura vigile e costante. Nell'ulteriore corso della storia egiziana esso fu trascurato e dovette essere restaurato dalle generazioni successive; rimase in efficienza fino al tardo periodo romano, quando lasciato in abbandono si rovinò completamente e il lago del Fayyum evaporò. Gli antichi Egiziani erano grandi costruttori di canali. A Elephantina, dove la navigazione era interrotta dalla prima cateratta del Nilo, il re Sesostris fece costruire verso il1875 a. C. un canale lungo 79 m, largo 10 e profondo 8, per permettere alle sue navi di evitare il pericoloso corso naturale del fiume. Durante gli ultimi tre secoli a. C. regnarono in Egitto i greci Tolomei e i documenti riguardanti i lavori di ingegneria civile di questo periodo sono ricchi di particolari. Vi troviamo notizia della costruzione di dighe e delle loro fondamenta, e dell'uso di giunchi, stuoie e pietre per proteggerle. Sembra che le unità di irrigazione di quei tempi fossero di circa 100 acri, cioè un decimo delle unità attuali. D'altra parte esistono contratti riguardanti l'acquisto di 7000 acri da parte del ministro delle finanze Apollonia (260 a. C.). L'architetto Cleone avrebbe dovuto costruire

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80 chilometri di dighe! Leggiamo anche di imprenditori che da una serie di otto contratti erano obbligati a rimuovere piu di 280 000 mc di terra; un altro contratto parla di 48 000 mc. Dai contratti risulta che parte della retribuzione era pagata in anticipo e che gli strumenti erano forniti dallo stato. Quando gli schiavi statali abbondavano, anche la mano d'opera era spesso messa a disposizione degli imprenditori. Un'altra importante opera di ingegneria degli Egiziani fu il canale che congiungeva il Mediterraneo al Mar Rosso; questo precursore del moderno canale di Suez fu in uso per piu di mille anni. Gli Egiziani non furono mai grandi navigatori: il loro commercio con l'Arabia e la Somalia consisteva nel trasportare per mare le loro mercanzie costeggiando il litorale fino a Myos Hormus, un porto a metà strada sul Mar Rosso, dal quale il traffico proseguiva via terra attraverso la valle di Hammamat fino a Coptos sul Nilo. Essi evitavano la parte settentrionale del Mar Rosso, dove si trovavano molte secche e venti infidi. Il canale che avevano costruito si componeva di due parti. Il tratto ovest-est conduceva da Bubastis, sulla branca orientale del delta del Nilo, attraverso la depressione di Tumeilat fino allago Timsiih. Era effettivamente un canale di irrigazione che bagnava la valle di Go~en - la regione abitata dagli Israeliti durante la loro permanenza in Egitto. La seconda parte del canale andava da nord a sud, dal lago Timsiih attraverso i cosiddetti Laghi Amari fino a un punto proprio a nord dell'attuale canale di Suez. La lunghezza totale era poco meno di 160 km. È molto probabile che quel canale sia stato costruito degli stessi re che inclusero il Fayyum nel loro sistema d'irrigazione. Esso esisteva certamente nel tardo periodo della storia egiziana, quando il re Nekò II (600 a. C.) inviò una spedizione a circumnavigare l'Africa. Il re persiano Dario drenò il canale perché servisse alla sua politica di commercio marittimo tra Egitto, India e Persia; allora esso misurava circa 60 m di larghezza e 12 m di profondità. Secondo quanto dicono le lapidi commemorative erette da Dario lungo il canale, esso era per-

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corso da una flotta di 24 navi che per quella via raggiungeva la Persia. Si sa che Alessandro Magno e alcuni imperatori romani si servirono del canale e lo approfondirono, ma dopo il IV secolo d. C. venne trascurato e fini con l'insabbiarsi completamente. L'acquedotto, tanto importante per l'approvvigionamento idrico, fu un'invenzione persiana. Da tempo immemorabile i Persiani irrigavano le loro pianure derivando l'acqua dalle colline ai piedi delle catene montuose mediante lo scavo di qanat o tunnel e incanalandola lungo condutture fino ai campi. Questi tunnel erano molto diffusi nell'antico Vicino Oriente. Anche Gerusalemme ebbe un importante approvvigionamento d'acqua di questo genere, di cui si fa menzione nella storia dello stagno di Siloah dell'Antico Testamento; uno analogo ne ebbe Megiddo. Queste insignì opere di scavo e d'architettura servirono da modello al primo acquedotto assiro, che fu costruito verso il 700 a. C. e conduceva le acque di un fiume montano, raccolte mediante uno sbarramento presso Bavian, attraverso un canale largo 21 m fino a Ninive, 32 km a sud, dove servivano ad irrigare i giardini e i campi dei re assiri. Quest'opera poderosa fu il modello di una serie di ingegnosi acquedotti costruiti soprattutto dai Greci e dai Romani: i primi dei quali vennero costruiti a Megara e nell'isola di Samo circa l 00 anni piu tardi. È interessante notare che le grandi opere di ingegneria trovarono la loro espressione nelle prime speculazioni matematiche. Le conquiste degli Egiziani e piu particolarmente dei Sumeri e degli Assiri nel campo della matematica e della astronomia erano strettamente connesse agli sviluppi tecnici: non ci sono pervenute discussioni teoriche di alcun problema matematico, ma solo una serie di soluzioni pratiche per determinate operazioni. Esse riguardano le aree dei campi, l'inclinazione delle piramidi, la quantità di pietra necessaria ad un pozzo cilindrico, la massa di terra che doveva esser rimossa per la costruzione di un canale ed altri analoghi problemi pratici. Persino l'astronomia serviva, in origine, per prevedere le piene e le magre dei fiumi.

IL VETRO E I TESSILI

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Il vetro e i tessili. Secondo una versione molto diffusa ma ormai screditata, la scoperta del vetro risalirebbe a mercanti fenici che, navigando con un carico di soda a bordo, sarebbero naufragati nei pressi del monte Carme!. Per cuocersi il cibo avrebbero acceso un fuoco sulla spiaggia sabbiosa, appoggiando le pentole su blocchi di soda, alcuni dei quali, si racconta, si sarebbero fusi con la sabbia: i mercanti con loro grande sorpresa avrebbero trovato un nuovo materiale, il vetro, mescolato alle ceneri del fuoco. Si tratta certamente di una leggenda. Sia gli Egiziani che gli abitanti della Mesopotamia conoscevano già nel tardo periodo preistorico il modo di fabbricare smalti e certi tipi di vetro. I piu antichi oggetti di vetro egiziani erano prodotti modellando argilla o terra intorno a un'asta di metallo o di legno, il cui diametro corrispondeva all'apertura che si voleva dare al recipiente; indi con una spatola si applicava sulla superficie dell'argilla vetro polverizzato mescolato a qualche materiale adesivo e il tutto veniva immerso nel vetro fuso. Tolto dalla fornace, il recipiente veniva fatto raffreddare, gli si levava il nucleo interno e si raschiava via l'argilla. Questa ed altre tecniche simili per fabbricare piccoli recipienti sistemando fili di vetro colorato su un nucleo d'argilla potevano servire solo per la manifattura di minuscole giare e fiale destinate a contenere balsami, unguenti e profumi oppure di perle e di ornamenti. Tali articoli di lusso si confezionavano in Egitto (ad Alessandria nel periodo tolemaico) e in Siria. In Mesopotamia il vetro fu usato soprattutto per la fabbricazione di perle o di smalti per ceramica, ma in queste produzioni si raggiunse un alto grado di specializzazione. I piu antichi documenti riguardanti la lavorazione del vetro risalgono al 2200 a. C. e sono redatti in una specie di linguaggio chimico pieno di termini simbolici per nascondere i segreti del mestiere che vi si trasmettevano. Documenti assiri posteriori sono invece molto espliciti e dimostrano che la manifattura del vetro

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era molto progredita. Dapprima si produceva una pasta vitrea neutra, poi alla fusione si aggiungevano dei coloranti per ottenere il prodotto definitivo. Gli Assiri fabbricavano una vasta serie di vetri colorati, tra cui anche un vetro purpureo contenente oro colloidale, detto « porpora di Cassio ». Per gli smalti blu usavano sali di cobalto, mentre gli Egiziani adoperavano sali di rame. Fino all'invenzione del vetro soffiato, avvenuta in Siria nel I secolo a. C., l'industria vetraria era limitata ai tipi realizzabili con le antiche tecniche: ne conseguiva che, come recipienti, i vasi di vetro non potevano in genere competere con le ceramiche. Grazie all'invenzione del vetro soffiato, per cui l'operaio immergeva una canna da soffio nel vetro fuso e insuffiava aria nella goccia sospesa all'estremità della canna, si crearono nuove e piu larghe forme che andavano dai vasi globulari a quelli cilindrici. Questi venivano poi ornati con incisioni, decorati con filamenti di vetro duttile o gocce colorate ed anche ulteriormente plasmati con la spatola mentre erano ancora caldi. Gli Alessandrini e i Siriaci del periodo ellenistico impararono anche a soffiare il vetro in stampi ottenendo decorazioni in rilievo, benché di disegno non troppo complicato. Oltre a conseguire questa maggior varietà di effetti artistici, i vetrai erano anche capaci di ricuocere il vetro- cioè di scaldarlo a temperature moderate dopo averlo soffiato e plasmato, per eliminare tutti i difetti di modellamento e renderlo cosi meno fragile. Durante il periodo imperiale romano, vetrai siriaci ed ebraici fondarono vetrerie in tutta l'Europa: in Gallia, lungo il Reno e persino in Britannia. Con la caduta dell'Impero Romano la maggior parte degli artigiani si raccolse in Siria e a Bisanzio. Benché la manifattura tessile nei suoi principi essenziali fosse una scoperta dell'età preistorica, certi progressi minori nell'applicazione di mordenti, decoloranti e coloranti sono di data posteriore. Per molti secoli l'Egitto rimase la patria delle tele piu fini, mentre la Mesopotamia produceva lane famose. Dall'India veniva il cotone, che gli Assiri chiamavano «lana d'albero » (cfr. il tedesco Baumwolle), e infine la Siria si dedicò anche

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in questo campo alla produzione di articoli di lusso confezionati con materie prime importate. Questa tendenza si riconnette piu o meno alle attitudini marinare dei Fenici e alla povertà di risorse naturali del loro paese: essendo in contatto con tutto il mondo civile di quel tempo e vivendo al termine di importanti vie di traffico, essi impiantarono ben presto una fiorente industria di articoli di lusso, come gioielli e ornamenti di metallo e di vetro, vasi, oggetti d'avorio e altri prodotti di arte applicata, che tuttavia erano spesso mere imitazioni di quelli d'Egitto e di Mesopotamia. Presso le loro coste si trovava anche il murice, il mollusco da cui si estraeva la porpora di Tiro, una sostanza colorante rara e preziosa che fu spesso imitata ma mai eguagliata.

La comparsa del ferro. Di gran lunga piu importanti furono i progressi realizzati nel campo della metallurgia e in particolare nella produzione del ferro. Già da gran tempo si usava il ferro meteorico, ma la conoscenza di questa lega naturale di

Fabbroferrai (da un vaso greco).

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nichel e ferro non valse ad indirizzare gli uomini verso gli abbondanti depositi di minerali di ferro: nulla faceva supporre che quei minerali rossi e bruni tanto comuni contenessero un metallo. La lavorazione del ferro non sarebbe stata facile per un metallurgista dell'età del bronzo, abituato a scaldare col carbone i suoi minerali colorati per ottenere dalla fornace una colata di rosso rame fuso. Chimicamente parlando, è piu facile separare il ferro che non il rame dal minerale che lo contiene, ma il ferro ha un punto di fusione considerevolmente piu alto. Nelle fornaci primitive dell'età del bronzo il rame separato dal minerale poteva rimanere allo stato di fusione raccogliendosi nella parte inferiore della fornace da cui veniva fatto colare. Nel caso del ferro invece le piccole gocce di metallo puro, che si formavano dal minerale di ferro, a causa delle basse temperature raggiunte da queste fornaci primitive si solidificavano e rimanevano disperse nella massa spugnosa delle scorie. Se perciò il fabbro dell'età del bronzo avesse tentato di trattare i minerali di ferro, avrebbe ottenuto solo una miscela di sostanza fluida (carbonato di calcio) e di carbone con impurità del minerale di ferro e pallottoline di metallo puro, e con tutta probabilità avrebbe considerato questo magma inutilizzabile. Qualche volta gli riusd di ottenere piccoli pezzi di ferro mentre raffinava l'oro nei crogiuoli, e ne fabbricò amuleti e ornamenti. Ma accorrevano ancora molte esperienze prima di arrivare a scoprire che la massa spugnosa o «coagulo », riscaldata e battuta, si liberava dalle scorie e che, proseguendo la battitura, le particelle di metallo potevano essere pressate assieme fino a costituire il ferro battuto. Allo stato puro il ferro battuto non presenta tuttavia decisivi vantaggi sul bronzo: è piu malleabile ma meno duro. I fabbri primitivi non erano capaci di colarlo e si limitavano a forgiarlo, martellandolo al calor rosso. E quindi, benché gli uomini avessero scoperto il segreto per fabbricare il ferro battuto già verso il 2500 a. C., per piu di mille anni esso rimase soltanto un metallo stravagante, di difficile produzione e di nessuna specifica utilità.

LA COMPARSA DEL FERRO

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Il segreto si era già diffuso nell'Europa preistorica quando nel 1400 a. C. si trovò finalmente una soluzione adeguata, probabilmente sulle montagne dell'Armenia e nelle regioni intorno all'estremità sud-orientale del Mar Nero. Qui viveva la tribu dei Chalybi, che secondo la tradizione greca dettero il loro nome all'acciaio (in greco chalybs) e che erano famosi fabbri ferrai. Essi scoprirono che il ferro battuto, scaldato ripetutamente in un fuoco di carbone di legna e poi martellato, diventava piu duro di qualsiasi bronzo e si manteneva tale anche dopo lungo uso. Oggi sappiamo che la ragione di tale cambiamento è che la superficie del ferro assorbe particelle di carbonio, trasformandosi cosf in acciaio: il nuovo metallo consisteva quindi di un nucleo di ferro battuto incluso in una scorza d'acciaio. Questa carburizzazione o cementazione trasformò immediatamente quello stravagante prodotto in un metallo utilissimo. La tecnica di produzione di quel nuovo metallo implicava una serie di metodi, strumenti e procedimenti affatto diversi da quelli usati nella metallurgia del rame e del bronzo. La scorificazione del minerale - cioè l'aggiunta di ingredienti quali il carbonato di calcio e simili per liquefare nel forno la maggior quantità possibile di scorie - e la lavorazione del coagulo (la massa spugnosa risultante dalla fusione) erano processi nuovi. E poi ci voleva una grande abilità per dare alla superficie d'acciaio la durezza giusta. Subito dopo la scoperta del processo di cementazione si trovò che era possibile rendere l'acciaio molto duro immergendolo ancora caldo nell'acqua fredda: col raffreddamento esso assumeva una struttura che altrimenti si sarebbe potuto ottenere solo ad alte temperature. È il procedimento oggi noto col nome di estinzione. Tuttavia l'acciaio cosi prodotto era spesso troppo duro e fragile. Nell'epoca romana si fece un'ulteriore scoperta: riscaldato accortamente a temperature moderate, l'acciaio estinto poteva essere temperato o ricotto, perdeva cioè un po' della sua durezza e fragilità e diveniva piu resistente. Alternando queste tecniche della cementazione, dell'estinzione e della ricattura si ottenevano vari tipi di

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acciai, adatti per differenti applicazioni. È comunque ovvio che la scoriazione del minerale, la lavorazione del coagulo, la cementazione, l'estinzione e la ricattura costituivano una serie di operazioni interamente nuove. Il fabbro ferraio divenne cosi un competitore del fabbro dell'età del bronzo. Egli era il pioniere di una nuova epoca, l'età del ferro. La sua metallurgia non si limitava piu a legare e fondere i metalli; la proporzione di ferro e di carbonio nel metallo cominciò ad essere meno im· portante della sua lavorazione. La diffusione del ferro fu accelerata da circostanze politiche. Gli scopritori di quella nuova metallurgia erano sudditi dell'Impero Ittita dell'Asia Minore e della Siria. Verso il 1200 a. C. il ferro era ancora un metallo raro e i re ittiti dovevano spesso attendere che si forgiasse per loro qualche nuova arma d'acciaio. Fra i magnifici tesori rinvenuti nel 1922 nella tomba del re egiziano Tutankamen (1350 a. C.) vi era una daga d'acciaio, che il padre del re aveva ricevuta dagli Ittiti. Verso il 1200 a. C. alcune tribu balcaniche invasero l'Asia Minore e distrussero l'impero ittita, cacciando gli abitanti dalle loro case e dalle loro fortezze. Fra i profughi si trovavano dei fabbri ferrai, che si sparsero rapidamente per tutto il Vicino Oriente. Erano i progenitori dei Keniti di Midian, una delle cui figlie sposò il grande profeta e legislatore ebreo Mosè, e di quel gruppo di fabbri che fino ai giorni nostri forgiarono le armi per le tribu desertiche dell'Arabia. Ma la tecnica del nuovo metallo si diffuse anche verso occidente e raggiunse l'Europa, dove fiori specialmente nell'attuale Carinzia cui i minerali di ferro del Norico fornivano un acciaio naturale perché contenevano ferro in combinazione con altre sostanze, come il manganese. Da qui per centinaia di anni venne il ferro ai fabbri italici; altri centri metallurgici si fondarono in !spagna, nel paese dei Baschi. Le conseguenze di quelle scoperte furono di vasta portata. La denominazione « età del ferro » sta ad indicare un periodo nel quale l'uso del metallo divenne effettivamente comune. Il rame e soprattutto il bronzo, per il quale era necessario Io stagno, rimasero sempre piut-

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tosto rari: non erano metalli adatti a sostituire completamente la pietra. Il ferro invece abbondava: ricchi giacimenti di minerali si trovavano praticamente in tutte le regioni e, una volta imparate le particolarità della sua tecnica, fu facile produrlo in grande quantità. Negli eserciti piu antichi solo i nobili e le loro guardie del corpo avevano buone armi di bronzo, mentre gli arcieri usavano ancora frecce con punte di pietra o mazze di pietra: a questi materiali ora si sostitui l'acciaio. Anche per gli aratri l'acciaio era migliore del bronzo, poiché incideva piu profondamente il terreno e durava di piu. Cosi nell'età del ferro assistiamo ad un nuovo aumento delle superfici coltivate e ad un relativo accrescimento della popolazione; ma è anche vero che le asce di ferro furono lo strumento per la distruzione di molte foreste, specie nel Vicino Oriente. Monete e comunicazioni.

I progressi compiuti nella lavorazione dei metalli preziosi ebbero un risultato inatteso. Per molti secoli l'oro naturale, quale si produceva concentrando il minerale macinato, contenne una percentuale variabile d'argento che spesso lo rendeva pallido e con riflessi argentei. Gli antichi lo chiamavano electrum: per questo la stessa parola serviva ad indicare sia l'ambra che l'oro, in quanto avevano ambedue lo stesso colore gialliccio. Poiché allora i pagamenti si facevano di solito in natura, i metalli preziosi contribuirono a facilitare gli scambi. Il vocabolo latino per indicare il denaro (pecunia) deriva da pecus, che significa bestiame; questo ci dimostra che bestiame e pelli fungevano da moneta di scambio. Naturalmente era molto piu facile scambiare oro e argento, anche se nelle forme piu semplici di commercio, come il baratto, solo una piccola parte del prezzo veniva pagata in contanti. Un antichissimo uso richiedeva che oro e argento fossero pesati, quando venivano usati per i pagamenti. L'argento, che era sempre prodotto con un alto grado di purezza, era foggiato in pezzi del peso di 14 g: l'unità

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superiore era il talento. Bronzo e rame erano spesso usati in forma di verghe e di pani. La composizione variabile dell'oro naturale rendeva difficili tali transazioni. Intorno al 1500 a. C. circa, gli orefici cominciarono a raffinare l'oro. Scoprirono subito che, se veniva scaldato insieme a sale o paglia in crogiuoli di farina d'ossa o di altro materiale assorbente, esso si liberava delle impurità d'argento, che venivano assorbite dalle pareti del crogiuolo, e rimaneva puro. In seguito si escogitarono altri procedimenti analoghi e verso il 700 a. C. l'arte di raffinare l'oro aveva già raggiunto un elevato grado di perfezione. Questi antichi metodi sono usati ancor oggi dagli orefici e dai mineralogisti. All'incirca nello stesso periodo si ebbe, in Asia .Minore, un'importante scoperta: si trovò che la superficie di certe pietre, una volta pulita, poteva esser marcata con l'oro e che il colore di queste striature auree variava secondo la qualità e la purezza del medesimo. Era cosf possibile accertare il grado di purezza di un pezzo d'oro confrontando le sue strisce con quelle di un campione di titolo determinato e quindi valutare entro certi limiti la percentuale aurea del pezzo esaminato. La pietra usata per tale prova era detta pietra di paragone o pietra lidia, dal nome della regione dove fu scoperta. La possibilità di raffinare l'oro e di stimarlo con la pietra di paragone condusse alla fabbricazione dei primi conii, che erano pezzi d'oro di peso determinato e costante, impressi con un sigillo o un emblema ufficiale per conferire loro corso legale. I re della Lidia in Asia occidentale furono i primi a coniare vere serie monetali subito dopo il 700 a. C. Anteriormente a quest'epoca esistevano degli esemplari rudimentali, mancanti però delle caratteristiche delle monete coniate- peso e purezza costanti. Sia i Greci che i Persiani adottarono subito questo sistema di scambio per promuovere il commercio e risentirono ben presto anche i benefici di una buona e stabile monetazione. In breve tempo si misero in circolazione monete frazionarie, ma gli effetti inflazionistici furono

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presto evidenti. Il re persiano Dario fu il primo a stabilire nel suo vastissimo impero un titolo dell'oro e a fissare quel rapporto « normale » tra oro e argento che è valido ancor oggi. L'introduzione di un buon sistema di monetazione con unità auree e argentee di valore fisso fu uno dei mezzi con cui i Persiani tentarono di unificare il loro impero. Essi cercarono inoltre di stabilire buone comunicazioni fra le regioni piu lontane, creando un servizio postale. La costruzione di strade era ancora ai primi passi. Il fatto che le civiltà fossero sorte nelle valli dei fiumi, come quella d'Egitto e di Mesopotamia, aveva sempre favorito i trasporti per via d'acqua: questi paesi non erano adatti allo sviluppo di comunicazioni terrestri e in tutto il periodo dal 3000 fino al 600 a. C. troviamo solo esempi sporadici di costruzione di strade. Nelle grandi città come Tebe o Babilonia o anche nei recinti dei templi si costruirono le cosiddette vie cerimoniali per le numerose processioni religiose di carri recanti gigantesche statue degli dèi. Alcune di esse erano cinte da alte mura di mattoni smaltati; le loro superfici erano ben prosciugate e talvolta munite di carreggiate artificiali per guidare i carri degli dèi. Il fondo di pietra era ricoperto di mattoni, malta e asfalto. Ma fra le città e i paesi non esistevano strade degne di questo nome, bensf soltanto piste, che i viaggiatori seguivano da tempo immemorabile. Qua e là si aprirono dei passaggi tra le rocce o si gettarono ponti sui fiumi, ma nella maggior parte dei casi si faceva uso di guadi. Il trasporto per via d'acqua, anche per mare, era di gran lunga piu sviluppato. Solo i re persiani, che afferrarono subito l'importanza delle comunicazioni per il rafforzamento del potere centrale, si preoccuparono della manutenzione delle piste e costruirono stazioni postali ogni 24 km - distanti quindi una giornata di marcia l'una dall'altra - dove il viaggiatore poteva trovare un letto e cavalli freschi. Le stazioni postali fungevano anche da posti di guarnigione per le truppe, destinate a proteggere l'incolumità dei viaggiatori e dei corrieri ufficiali che si servivano

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delle poste imperiali. Probabilmente venivano usate anche per trasmettere messaggi mediante torce, sistema che funzionò per secoli come una specie di primitivo telegrafo. Le distanze cosf ricoperte erano molto lunghe, se si considera l'estensione del mondo fino allora conosciuto. La strada piu famosa era quella che andava dalla capitale Susa fino a Sardi, sulla costa occidentale dell'Asia Minore, una distanza di 2550 km! I corrieri reali, come racconta il Libro di Esther, cavalcavano muli, cavalli o cammelli e in condizioni favorevoli raggiungevano la velocità di circa 160 km al giorno. Per quanto questi risultati possano sembrare notevoli, le tendenze centralizzatrici dei re persiani fallirono, a causa di una successione di governanti deboli sotto la cui amministrazione priva di energia l'impero a poco a poco perse la sua potenza ed infine soccombette ai Greci e ai Macedoni di Alessandro Magno (330 a. C.).

Capitolo quarto I GRECI E I ROMANI (600 a. C.-400 d. C.)

Il periodo che va dal 600 a. C. al 400 d. C. è quello della civiltà classica e della cultura dei Greci e dei Romani. I Greci dettero alla scienza un apporto inestimabile: furono i primi a studiare gli oggetti e i fenomeni naturali in sé invece che in connessione con la filosofia e la religione. Il gruppo piu antico di filosofi greci della natura è conosciuto col nome di scuola ionica, perché i suoi membri vivevano in città della costa occidentale dell' Asia Minore che, secondo la tradizione, era stata colonizzata da tribu ioniche. Quelle città erano importanti centri commerciali, dove Oriente e Occidente venivano a contatto. La scienza e la tecnologia dell'antico Oriente ebbero sulla scienza greca una influenza maggiore di quanto non si volesse ammettere una generazione fa. I Greci comunque trasformarono quegli elementi estranei in qualcosa di congeniale. I primi filosofi come Talete, Eraclito ed Anassagora cercarono di spiegare il mondo fisico secondo principi ad esso immanenti, senza fare ricorso alla filosofia o alla religione, anche se, naturalmente, la loro concezione ultima della natura recava tracce profonde dell'una e dell'altra. Mancavano di strumenti adeguati per una indagine accurata e spesso si accontentavano di pochi esperimenti od osservazioni. Per questo le loro conclusioni ci possono sembrare puerili; tuttavia introdussero un nuovo concetto di scienza, che ancora oggi è valido. Quei loro metodi non poterono tuttavia sopravvivere a lungo perché la scuola italica di Pitagora ed altre scuole in Grecia at-

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I GRECI E I ROMANI

taccarono il materialismo dei naturalisti e reintrodussero la filosofia e la religione in tutte le speculazioni sulla natura. Le teorie fisiche furono ben presto sopraffatte da ragionamenti filosofici e interpretazioni mistiche. L'influenza che Pitagora esercitò su Socrate e su Platone si rivela chiaramente nelle teorie scientifiche dei Greci. Platone riteneva che il mondo dei sensi fosse una copia molto rudimentale del mondo reale delle «idee », che costituivano la vera essenza delle cose, e perciò non meritasse di essere studiato e sperimentato. Il pensiero logico ed alcune verità evidenti dovevano condurre gli uomini a quel mondo reale che stava al di là dei fenomeni e della vita di ogni giorno. Quel grande filosofo che propugnava teorie tanto astratte non poteva certamente nutrire interesse per le osservazioni e gli esperimenti scientifici concreti. Troppo pochi fatti e troppa teoria conducevano a speculazioni filosofiche sulla scienza naturale, speculazioni che avrebbero potuto essere confutate solo ripetendo le esperienze da cui erano mosse. Anche con Aristotele, l'educatore di Alessandro Magno, la scienza non fece grandi progressi. Tuttavia nell'ultimo periodo della vita Aristotele si allontanò dal suo maestro Platone e scrisse vari trattati in cui rivive lo spirito scientifico degli antichi naturalisti ionici. Nel campo della biologia e in altri settori scientifici raccolse non pochi dati, basando le sue conclusioni su numerose osservazioni dirette e cercando di spiegare le leggi che governano quei fenomeni naturali. La meccanica nel mondo classico.

La mancanza di strumenti adeguati, la tendenza a costruire teorie generali su pochi fatti e la deficienza dei rapporti con la tecnica e l'ingegneria chiusero la strada allo sviluppo della scienza nell'età classica. Greci e Romani erano assolutamente persuasi che la scienza fosse sorta dalle necessità della vita pratica. Il matematico Eudemo (Iv secolo a. C.) è il primo a dirci che gli Egi-

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ziani svilupparono la matematica perché le piene dei fiumi distruggevano i confini dei loro campi. Il grande architetto romano Vitruvio (I secolo a. C.) era persuaso che « solo coloro che sono padroni della teoria e della prassi si trovano in grado di assolvere con onore i loro compiti». Ma in generale gli scienziati greci avevano orrore del lavoro manuale e disprezzavano chi lo esercitava. Amavano la teoria, ma per quanto riguarda l'uso di quel sapere concordavano con Aristotele e Platone nel ritenere che l'applicazione pratica della scienza non fosse compito dello scienziato. In nessuno degli scritti classici appare la parola « scienziato »: in sua vece si usa il termine « @osofo ~>. La scienza applicata era il dominio di quella vasta massa di schiavi e di artigiani anonimi che faceva parte della struttura sociale dell'antichità. Di veri scienziati, che lavorarono nel campo della tecnica e dell'ingegneria, si conosce appena un paio di nomi. Non v'era nessuna urgenza, d'altronde, di sviluppare nuove risorse produttive: come fonti d'energia, bastavano gli schiavi. Eccetto il campo della guerra, sembra che non vi sia stato alcun problema capace di indirizzare l'ingegno dei Greci verso la creazione di macchine. · La scuola alessandrina produsse parecchi uomini, come Erone e Ctesibio, che dimostrarono grande abilità nella tecnica meccanica, ma la loro genialità era condannata a consumarsi nella costruzione di macchine per spettacoli e divertimenti. I Greci non arrivarono a riconoscere che solo conquistando la natura con le sue stesse armi possiamo strapparle i suoi segreti e che ben poco si può ricavare da sterili speculazioni basate su poche osservazioni incontrollate. Sembra che il lavoro degli antichi artigiani bastasse a soddisfare le limitate richieste dell'antichità, che non avverti pertanto l'urgenza di uno sviluppo industriale. Gli ingegneri dell'epoca classica sfruttavano la forza motrice del vapore e del vento. Erano capaci di costruire macchine azionate da pesi mobili o dalla pressione dell'aria, talvolta persino dal calore, ma non riuscirono mai a utilizzare bene i venti. Perfino il marinaio ricorreva ai

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remi quando incappava nei venti pericolosi che soffiavano intorno ai molti capi della Grecia. Il mulino a vento non è un'invenzione greca, ma fu importato dalla Persia. La compressione dell'aria veniva prodotta, nell'ingegneria antica, mediante il calore oppure meccanicamente spingendo un pistone in un cilindro. Anche lo fruttamento della energia idrica non fu opera dei Greci; i pochi fiumi greci e romani non avevano acque abbondanti in tutti i mesi dell'anno. Le ruote ad acqua importate dall'Oriente erano per lo piu spinte da uomini o da animali. Senza dubbio gli ingegneri antichi disegnarono e realizzarono macchine per economizzare sulla mano d'opera, ma non affrontarono mai il problema di sostituire l'energia meccanica a quella manuale. Applicando il principio della leva e sospendendo un secchio al braccio di una bilancia ed un contrappeso all'altra estremità, essi si limitavano semplicemente a facilitare il lavoro manuale, senza peraltro meccanizzarlo. Non si avvertiva, in genere, alcuna urgenza di meccanizzazione. La scienza classica non si costru{ mai una «rappresentazione del meccanismo della natura », quale troviamo nell'Europa occidentale dal XVI secolo in avanti e quale può essere concepita solo da una generazione che abbia familiarità con le macchine. Gli antichi non sognarono una possibile conquista della natura per migliorare le loro condizioni di vita, ma studiarono la natura solo per giungere ad una piu vasta sintesi di pensiero e ad una maggiore sapienza. Della grande massa di schiavi che provvedeva alle necessità della loro vita, poco si interessavano. La degradazione del lavoro manuale a esclusiva mansione degli schiavi impedf alla società classica di ricavare dalle invenzioni e dalle scoperte quei frutti che si sarebbero facilmente ottenuti con un minimo di cooperazione tra la scienza e le arti e i mestieri. Né Atene né Roma furono vere democrazie in senso moderno, quali che fossero le teorie propugnate dai loro governanti. Anche se è vero che la maggior parte degli schiavi conduceva una vita relativamente priva da preoccupazioni, rimane tuttavia il fatto che la società era composta da un piccolo

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gruppo di cittadini diretti da una oligarchia terriera e finanziaria. I cittadini dell'epoca classica furono molto sensibili alla bellezza e alla armonia; ciò è rivelato non solo dalle opere d'arte ma anche dai prodotti delle botteghe artigiane, poiché persino gli oggetti di uso quotidiano sono belli oltre che utili. Ma non esisteva nessun interesse per una produzione di massa o per i lavoratori che fabbricavano quei prodotti: lo schiavo era semplicemente una fonte di energia che si poteva vendere e comprare sul mercato - non un essere umano cui bisognasse dare aiuto e incoraggiamento per rendere il suo lavoro piu produttivo e meno pesante. I Greci non si dettero la pena di adoperare le nuove conoscenze acquisite per sfruttare le risorse del loro paese: la scienza era in un certo senso un'introduzione alla filosofia e i principi filosofici dello stato ideale arrivavano ad affermare che la diffusione di un certo genere di conoscenze era perico· losa per il benessere generale. Anche solo dagli esemplari sparsi nei nostri musei possiamo immaginare quale alto grado di raffinatezza estetica dovessero avere i prodotti dell'artigianato greco. Dalle numerose relazioni contemporanee, che non sono state ancora completamente studiate dal nostro punto di vista di storici della tecnica, sappiamo che le tecniche artigianali giunsero in Grecia dall'Oriente. Ma i prodotti non erano imitazioni, bensi tipiche creazioni greche. Nell'economia greca il vino e l'olio avevano un'importanza preminente, essendo i principali generi d'esportazione, che venivano scambiati con il grano. L'industria dell'olio d'oliva mostra, fra parentesi, che i Greci erano capaci di costruire macchine quando vi era la necessità di farlo. Per ricavare l'olio si schiacciavano le olive, poi si estraeva l'olio dalla massa compressa. Lo schiacciamento avveniva o in mulini simili a quelli costruiti per la macinazione dei cereali o mediante rulli od anche in mulini verticali detti trapetum, di cui si sono trovati molti esempi. L'olio veniva poi spremuto dal frutto snocciolato e pressato con un torchio per olive, dove strati di frutti, separati da tavole di legno, venivano

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compressi mediante un lungo braccio a leva gravato di grosse pietre. Col tempo fu inventato un torchio piu progredito: due pali verticali e una pesante trave superiore disposta orizzontalmente sotto cui si accatastavano a strati alterni le olive infrante e le tavole di legno; nella catasta si infilavano dei cunei per esercitare una pressione sui frutti schiacciati. In un terzo e piu complicato tipo di pressa si usavano delle viti per comprimere la massa di tavole di legno e di strati di frutti. Questo dimostra che i Greci e i Romani non solo conoscevano i principi della leva e del cuneo, ma sapevano anche adoperare le viti per esercitare una pressione. Alcune pitture murali di Pompei raffigurano una pressa per biancheria dove viti senza fine premono su tavole di legno che a loro volta comprimono i panni. Lo stesso principio era in uso anche nelle pompe primitive, dove una vite senza fine o un rocchetto scanalato a spirale veniva fatto girare in un cilindro che vi aderiva ermeticamente e spingeva cosi l'acqua da un dato livello ad uno superiore. Questa pompa, comunemente usata in Egitto, è conosciuta generalmente col nome di vite di Archimede, e a lui se ne attribuisce l'invenzione. Sia l'olio d'oliva che il vino erano trasportati in otri di terracotta adorni di disegni e decorazioni. La ceramica e la lavorazione del bronzo erano tra le industrie piu importanti dell'antica Grecia, accanto alla lavorazione del cuoio, alla filatura e tessitura e all'estrazione di minerali dalle importantissime miniere d'argento di Laurion, da cui dipendeva la ricchezza di Atene. Non vi furono tuttavia ulteriori sviluppi, poiché la Grecia era un paese povero e contava piu sul commercio che sulla produzione di beni per il consumo generale. L'ingegneria greca.

I Greci non furono cattivi ingegneri. Già verso il 600 a. C. Eupalino di Megara costrui l'acquedotto dell'isola di Samo, dove l'acqua attinta da un lago interno passava attraverso un tunnel di due metri e mezzo di

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diametro, lungo circa un chilometro e mezzo, sotto una collina di 275 m di altezza, per raggiungere la costa e la città. Il tunnel era attraversato da un canale largo un metro che conteneva le condutture dell'acqua. Queste condutture, spesso, erano tronchi d'albero scavati, con le estremità coniche congiunte da saldature a piombo.

Penelope al telaio (da un vaso greco).

Simili condutture a pressione erano state adottate anche dall'ingegneria civile della città di Pergamo. Un'altra importante opera di ingegneria fu il tunnel di drenaggio del lago Copais in Beozia, che riceveva le acque del Cefiso e di altri piccoli fiumi. I tragitti naturali sotterranei dell'acqua si otturavano di frequente, e i terreni lungo il lago si facevano paludosi. Ai tempi di Alessandro Magno (356-323 a. C.) l'ingegnere Crates iniziò la costruzione di due tunnel attraverso le colline calcaree che circondavano il lago, ma gli avvenimenti politici gli impedirono di portare a termine l'opera. Scavi recenti non solo hanno dimostrato l'esistenza di questi tunnel, ciascuno dei quali misura circa 600 m, ma hanno

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anche rivelato la presenza di un sistema ancora piu antico di canali e dighe per regolare le acque del lago. I Greci furono anche costruttori di moli e di porti, e l'esercito del re persiano Serse scavò un canale attraverso l'istmo del monte Athos e gettò un ponte di barche sull'Ellesponto. I Greci invece tentarono invano di scavare un canale attraverso l'istmo di Corinto e dovettero infine accontentarsi di un sistema di trazione delle navi su una strada di tronchi d'albero fino all'altra sponda dell'istmo per una lunghezza complessiva di piu di sei chilometri. Il periodo piu fecondo e originale dell'ingegneria greca ebbe inizio intorno al 600 a. C. e fin! quando Alessandro Magno conquistò l'Impero Persiano nel 330 a. C. Questa conquista ebbe conseguenze immediate poiché diffuse la civiltà greca in tutto il Vicino Oriente fino all'Afghanistan e all'India e ai confini dell'Abissinia. Sorse in tal modo la cosiddetta civiltà ellenistica, caratterizzata dalla fondazione di città greche con coloni greci in tutta quella vasta area: essa portò l'antico Oriente a stretto contatto con la scienza e la @osofia greche. Uno dei risultati piu importanti fu la fondazione di Alessandria e del suo Museon o Tempio delle Muse, un'accademia delle scienze e delle arti in cui lo stato egiziano radunò alcuni dei piu brillanti ingegni del tempo. L'accademia disponeva di una vasta biblioteca, di sale di studio e di laboratori, di un osservatorio, di un giardino zoologico, di un orto botanico e di ospedali. Altri centri di ricerca scientifica erano Pergamo in Asia Minore e Antiochia in Siria. Alcuni scienziati, come il famoso Archimede, si tennero in stretto contatto con queste accademie attraverso una regolare corrispondenza. In Alessandria fiorirono grandi inventori come Erone e Ctesibio, meccanici geniali. Erone costru1 molte macchine, tra cui una macchina automatica a gettone per l'acqua lustrale, porte di tempio che si aprivano da sole accendendo il fuoco sull'altare e persino un teatro automatico che dava una rappresentazione in parecchi atti. Era famoso anche per la sua eolipila, di cui riferisce Vitruvio, funzionante come una primitiva turbina a va-

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pore: una ruota a palette era fatta ruotare con un getto di vapore; in un altro modello che si può considerare come il primo rudimentale esempio di turbina a reazione, il vapore faceva ruotare una sfera entrandovi attraverso un asse cavo e uscendo attraverso due tubi ricurvi. Il fatto che questa macchina non servisse a nulla non diminuiva il suo valore agli occhi dell'inventore greco. Un'altra invenzione di Erone fu l'odometro, uno strumento che registrava la lunghezza della strada percorsa da un veicolo ed era per cosi dire il progenitore dei nostri moderni tassimetri e pedometri. Erone formulò anche una corretta teoria per la costruzione geometrica e la disposizione delle gallerie, mentre tanto Filone quanto Ctesibio idearono orologi ad acqua, il cui principio di funzionamento era costituito dal fluire dell'acqua che entrava o usciva da un recipiente graduato. L'età ellenistica, o almeno la prima parte di essa, fu un'epoca di continue guerre. Si parlerà piu innanzi del genio meccanico dimostrato dai greci in questo campo. Ingegneri come Ateneo furono eccellenti costruttori di macchine d'assedio e ci lasciarono parecchi libri sull'argomento. Anche l'ingegneria civile ebbe, in generale, un buon sviluppo: Ermodoro progettò e costrui bacini di carenaggio famosi nell'antichità. Sui promontori già da tempo sorgevano templi consacrati a Nettuno, il dio del mare, che servivano anche come fari per i naviganti; ma ad Alessandria si costrui un faro vero e proprio, il Pharos, ad indicare alle navi l'accesso al porto: era una costruzione di otto piani e si calcola fosse alta 150 m. Il suo architetto fu Sostrato di Cnido, cui la tradizione attribuisce la costruzione di uno specchio per proiettare fino a 50 km di distanza nel Mediterraneo il riflesso del fuoco acceso in un braciere posto sulla sommità della torre. Il faro fu poi distrutto da un terremoto nel 1375 d. C. I fari romani costruiti piu tardi- ad esempio quelli famosi di Cartagine e di Ostia - erano copie di quell'originale ellenistico.

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L'ingegneria romana.

I migliori ingegneri dell'antichità furono tuttavia i Romani. La confederazione di tribu latine abitanti sulle rive del Tevere aveva a poco a poco assoggettata tutta l'Italia e dopo le tre feroci guerre puniche si era impadronita anche del litorale del Mediterraneo occidentale. Appena un secolo dopo la morte di Alessandro Magno aveva conquistata la Grecia, la Macedonia e una parte dell'Asia Minore, era penetrata nel Vicino Oriente ed esercitava una considerevole influenza sull'Egitto. Ci vollero altri due secoli perché divenisse padrona assoluta di quello che era allora considerato il mondo civile, e il suo dominio durò quasi fino alla fine del IV secolo d. C. I primi due secoli e mezzo dell'epoca romana imperiale furono un periodo di pace internazionale. Il Romano rimase sempre, nell'animo, un agricoltore. Non aveva una mentalità scientifica e la maggior parte della sua scienza è greca o ispirata dai Greci. Persino la Roma imperiale mostra la rozzezza e il senso pratico del contadino. I Romani disprezzavano e temevano la scienza pura, che sembrava loro una perdita di tempo: per questa mentalità realistica e pratica sono spesso chiamati «gli americani dell'antichità». Tuttavia, come la maggior parte dei paralleli storici, anche questo è vero solo in parte, perché i Romani si curavano almeno della scienza applicata. Erano mediocri biologi ma attenti osservatori della natura, cattivi matematici ma buoni ingegneri; non dettero alcun importante contributo all'astronomia ma riformarono il calendario. Perfino nel campo militare i Romani non fecero invenzioni importanti. La scienza era apprezzata solo in quanto dava risultati concreti e utili allo stato. I Romani non ebbero la pazienza degli scienziati ellenistici, che cercavano di scoprire le leggi della natura: furono invece grandi giuristi e abili politici che promossero le scienze solo in quanto gli fossero d'aiuto nell'assolvimento delle funzioni pubbliche. Certi autori cosiddetti scientifici, come Catone, Varrone e Plinio, non erano scienziati, ma com-

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pilatori di miscellanee di informazioni utili; perfino un ingegnere come Vitruvio pubblicò un libro che ha fatto chiedere a molti se l'autore fosse realmente il grande architetto dell'imperatore Augusto. Con il loro naturale istinto pratico i Romani sfruttarono tuttavia le acquisizioni della scienza e dell'ingegneria greca. Nelle grandiose opere pubbliche, e in particolare nelle strade, si è visto spesso il solido fondamento del dominio di Roma su tanti e cosi diversi paesi. Esse sopravvissero all'Impero e perfino alle oscure età che seguirono, rimanendo tra i legami fondamentali che riconnettono la nostra moderna civiltà a quella del mondo classico. La pax romana favori naturalmente lo sviluppo delle arti e dei mestieri. Nei testi latini si parla di arte mineraria e di metallurgia, di vetri e di smalti, di coloranti e di tessili, di grassi e di cere, di sale, soda, cloruro d'ammonio e allume di potassio, di profumi, di cuoi e di molte altre industrie, produzioni e commerci. Sappiamo che in tutte le principali città dell'Impero esistevano associazioni artigiane. In certi casi i banchieri romani finanziavano gli artigiani e talvolta fornivano loro perfino laboratori, strumenti e materiali. Questo sembra essere stato il caso delle officine metallurgiche di Capua, a sud di Roma, dove si producevano in gran quantità utensili di bronzo ed oggetti artistici. Ma questi prodromi dell'industria moderna non distrussero le associazioni di artigiani indipendenti. In molti casi l'industria era un monopolio di stato, poiché lo stato era l'unica fonte di capitali e di mano d'opera. Grandi imprese appaltatrici si assumevano lo sfruttamento delle miniere di rame, di ferro, d'oro e d'argento della Spagna meridionale e nord-occidentale e della Carinzia, e forse lavoravano anche nelle miniere di stagno della Cornovaglia. Tuttavia in nessuno di questi casi furono apportati miglioramenti essenziali alle antiche tecniche minerarie del Vicino Oriente. I Romani ebbero i mezzi adeguati per una produzione di massa e li usarono con intelligenza, ma la mancanza di interesse per la ricerca scientifica impedi loro di migliorare la tecnica.

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La posterità ha tuttavia dedicato con ragione molta attenzione alle opere pubbliche romane: si dice non senza verità che le legioni romane e le loro strade hanno creato l'Impero. È interessante osservare con quali semplici strumenti furono ottenuti questi risultati. Le livelle a bolla d'aria, il filo a piombo, certi strumenti di misurazione provvisti di mirino (come la dioptra e la groma), le aste, le corde di misurazione e il lavoro manuale erano tutto il loro equipaggiamento. Per i lavori di drenaggio usavano le ruote ad acqua e le pompe di bronzo descritte da Erone e da Vitruvio, molto simili a quelle ancora in uso nel 1800 presso i nostri vigili del fuoco. Queste pompe di bronzo non esistono solo nell'immaginazione degli storici; parecchie sono state effettivamente ritrovate negli scavi di rovine romane. Con l'ausilio di questi strumenti e applicando la geometria e la matematica dei Greci gli ingegneri romani realizzarono le loro opere mirabili. La maggior parte di questi lavori pubblici era eseguita da schiavi di stato o, in tempo di pace, dall'esercito; in molti casi l'esecuzione era affidata ad imprenditori che possedevano famiglie di schiavi.

Le strade romane.

Per quanto riguarda la costruzione delle strade, dobbiamo anzitutto riconoscere che i Romani furono buoni osservatori delle condizioni locali e abilissimi nell'utilizzare impianti già esistenti. Valga per tutti un esempio. Quando le legioni romane conquistarono gli attuali Paesi Bassi, trovarono molte antiche strade di tronchi d'albero costruite dalle tribu locali per attraversare le paludi e i pantani del loro paese: ne notarono subito l'efficienza e ben presto nei manuali dei genieri del loro esercito furono indicati analoghi metodi di costruzione. Ecco quel che il poeta romano Stazio ci racconta sulla costruzione di una grande via di traffico sotto l'imperatore Domiziano (90 d. C. circa):

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La prima fase del lavoro consisteva nello scavare fossati e nello spianare il terreno interposto. Ogni fossato veniva quindi riempito con materiale da fondazione, cui si sovrapponeva uno strato impermeabile all'acqua e infine il fondo vero e proprio che doveva sopportare il pavimento stradale. La superficie infatti non doveva vibrare, altrimenti avrebbe voluto dire che la base non era sufficientemente solida o che il letto in cui affondavano le pietre era troppo sconnesso. Le lastre dovevano infine essere fissate con blocchi appuntiti e tenute a distanza regolare con l'ausilio di cunei. Un'altra parte delle maestranze era impegnata al di fuori della costruzione della strada vera e propria. Qui si abbattono alberi e si spianano i declivi, altrove la gravina livella la roccia o ricava da un albero una trave, in un altro luogo ancora si introducono grappe nelle rupi e si costruiscono terrapieni di calce spenta e di grigio tufo. Pompe azionate a mano drenano gli stagni formati dalle acque sotterranee e ruscelli vengono deviati dal loro corso.

Queste strade romane erano effettivamente poderose opere in muratura consistenti di solito di quattro strati, come quei pavimenti romani di cui ci parla Vitruvio nei suoi Dieci Libri di Architettura: Comincerò anzitutto dallo strato di pietrisco, che è la prima fase nel completamento di una solida fondazione (statumen), e richiede quindi una cura speciale e una grande precauzione. Se dobbiamo disporre questo strato su un terreno piano occorre badare che questo sia uniforme, quindi livellarlo e distribuire la pietra su tutta la superficie. Ma se si tratta di un terreno su cui già si costruf in passato, interamente o in parte, deve essere accuratamente pigiato con pali.

E l'architetto cosi prosegue: Si stende uno strato di pietre frantumate (rudus), ciascuna delle quali sia grossa almeno quanto un pugno. Dopo averle stese, il pietrisco, se è fresco, deve essere mescolato con calce nella proporzione di tre parti ad una: quando si tratti invece di materiale vecchio occorre impastare cinque parti di pietrisco con due di calce. Si fa quindi la posa del materiale, che deve essere poi ripetutamente pigiato da squadre di uomini forniti di pali. A punzonatura finita lo strato deve risultare alto non meno di 23 cm, cioè tre quarti del suo spessore iniziale. Su di esso (il rudus) si pone un altro strato (nucleus) consistente di una malta dura di terracotta polverizzata e calce nella proporzione di tre parti ad una, formante uno strato di 15 cm. Esso costituisce la base del lastrico superficiale (pavimentum ).

Benché questa sia la descrizione di un pavimento, sappiamo dagli scavi che lo stesso procedimento era seguito anche nella costruzione delle strade romane. Lo statu·

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men e il rudus si possono paragonare alle nostre fondazioni eseguite a mano; e il rudus è lo strato impermeabile che preserva lo statumen dall'acqua. Il nucleus è una specie di connettivo di sostegno per il pavimento vero e proprio. Nella costruzione di strade si usavano rulli di pietra come quelli descritti da Virgilio. L'ingegnere stradale romano aveva materiali ottimi a sua disposizione. Egli cercava sempre di adoperare, per quanto era possibile, materiali locali, in modo di avere le cave di pietra in prossimità della strada da costruire, col risultato che i materiali usati e le relative tecniche di costruzione differivano totalmente nelle varie regioni dell'impero. L'uso della malta di calce fu importato dall'edilizia ellenistica verso il 300 a. C.: i Romani la impiegarono abilmente in combinazione col pietrisco, cocci di terracotta e mattoni frantumati per preparare un fondo che poteva penetrare tra gli interstizi delle pietre degli strati di fondazione e dar loro la solidità di un muro. Un ingegnere moderno ha definito le strade romane « muri orizzontali ». Il loro spessore variava per le principali vie di traffico da 90 fino a 150 cm, cioè piu di quattro volte quello delle migliori strade in calcestruzzo di oggi. La loro durata media, che possiamo determinare in base alle iscrizioni e alle pietre miliari, andava dai 70 ai 100 anni: è molto, se pensiamo che il traffico di allora era costituito soprattutto da veicoli con cerchioni di ferro e da animali non ferrati. Si usava anche il fondo di ghiaia, e il risultato era una strada in calcestruzzo. L'invenzione del calcestruzzo e la sua applicazione all'architettura e all'ingegneria civile è la sola grande scoperta che possiamo attribuire ai Romani. Verso il 150 a. C. essi scopersero nelle vicinanze di Pozzuoli strati naturali di tufo (una roccia vulcanica porosa), un buon sostituto del calcare, noto col nome di pozzolana. Quel materiale permise ai Romani di fabbricare una malta che induriva nell'acqua anche se isolata dall'aria; di solito la si mischiava con la calce, ma per lavori sott'acqua la usavano pura. Piu tardi si trovarono altri depositi di questo cemento naturale, specialmente nell'Eifel renano, in Germania.

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Quella malta naturale permetteva all'ingegnere di fabbricare un calcestruzzo composto di tre parti di ghiaia e una parte di malta, oppure altre miscele contenenti sabbia e materiali simili, che egli chiamava caementum ed adoperava nella costruzione di edifici o di strade. Vantandosi di aver trovato una Roma città di mattoni e di averla lasciata di marmo, l'imperatore Augusto intendeva alludere ai giganteschi edifici in calcestruzzo rivestiti di lastre di marmo. La costruzione delle strade variava considerevolmente da un luogo ad un altro. L'esempio sopra riportato si riferisce al tipo normale di strada, ma abbiamo notizia di strade romane costruite in Inghilterra su un fondamento di pali, di altre in Italia incassate nel calcestruzzo per proteggerle dall'azione corrosiva delle acque vulcaniche del sottosuolo. Vi erano strade alpine tagliate sui fianchi di ripide montagne e munite di carreggiate artificiali per condurre i veicoli incolumi sino a valle. Per evitare le pendenze troppo forti, gli ingegneri romani costruivano terrapieni sostenuti da muri di arginamento con robusti contrafforti, che portavano direttamente la strada attraverso profonde vallate. La scelta dei percorsi denota una grande esperienza pratica. Lungo i declivi si sceglieva il lato del sole per evitare le valanghe. La strada era tracciata nel modo piu diretto permesso dalla configurazione dei luoghi; si evitavano, per quanto era umanamente possibile, i giri viziosi. In una stretta gola tra l'Ungheria e la Romania correva lungo le rive del Danubio una strada, in parte tagliata nelle scogliere che emergevano aguzze dal fiume e in parte sostenuta da un'impalcatura di legno costruita sulla roccia, in modo da conservare la normale larghezza di m 3,50. L'ampiezza di queste strade variava secondo la loro importanza e il loro uso. Nel periodo imperiale era facile trovare vie di traffico larghe oltre 24 m con una carreggiata centrale di 12 m e due laterali di 6 m ciascuna, separate da quella centrale da muretti di pietra o da strisce erbose. Le piste laterali erano riservate ai pedoni e ai cavalieri; per questi ultimi i muretti e i marciapiedi erano di gran comodità per montare a cavallo. Queste piste la-

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terali servivano talvolta al traffico civile, mentre si riservava quella centrale agli spostamenti di truppe. Le vie di secondo e di terzo ordine erano naturalmente assai piu strette. Le comunicazioni e l'Impero. La costruzione di strade non fu tuttavia un'invenzione romana. I Romani la adottarono perché avevano imparato dalla storia quanto fosse importante un buon sistema di comunicazioni perché un forte potere centrale fosse in grado di controllare la vita di un grande impero. In realtà essi avevano appreso molto dai Persiani e dagli Egiziani, che nel periodo tolemaico imitarono su scala ridotta il servizio postale persiano; e poi avevano visto le strade costruite attorno a Cartagine e, piu vicino a loro, nel territorio degli Etruschi. Anche le città greche, quando potevano permetterselo, avevano buone strade e la maggior parte delle piu tarde città ellenistiche erano ben pavimentate. Già verso il 300 a. C. i Romani cominciarono a sistemare e a ricostruire la rete di piste esistente in Italia, estendendola successivamente di mano in mano che procedevano nella loro conquista del mondo. Quando una regione era soggiogata e pacificata, subito vi penetravano le strade e la rendevano accessibile alle legioni romane in qualsiasi stagione. Il commercio si sviluppava rapidamente, e questo conduceva di solito ad estendere il sistema di strade a distretti minerari ed altre zone d'importanza industriale e commerciale. Vi era necessità di strade anche perché il territorio italiano veniva coltivato in misura sempre crescente, con conseguente rafforzamento della proprietà privata, e le antiche piste mal definite dovevano essere esattamente delimitate e protette dall'usurpazione dei proprietari terrieri. L'introduzione della malta di calce e piu tardi di calcestruzzo ridusse la strada ad una stretta striscia di comunicazione che doveva poi rivelarsi la spina dorsale dell'Impero. La rete stradale si sviluppò da un nucleo di vie di ghiaia e di terra che si irradiavano da Roma; il detto

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« tutte le strade conducono a Roma » aveva a quel tempo

un significato letterale. Il primo che fece costruire una strada pavimentata fu il censore cieco Appio Claudio, che sovrintendeva ai lavori pubblici della Repubblica romana: egli fece selciare la via Appia, un'antica pista, fino a Capua (312 a. C.), e piu tardi il pavimento fu esteso a tutta la via fino a Brindisi. La via Appia, cosi chiamata dal nome del suo costruttore, fu la prima grande strada romana ed aprf al commercio il ricco territorio della Campania. A poco a poco vennero lastricate tutte le strade che partivano da Roma. Sotto l'Impero vi erano 290 000 km di strade lastricate, di cui 86 000 km di arterie principali e il resto di vie di secondo e terzo ordine. Dalla Britannia fino all'Eufrate il cittadino romano poteva cosi viaggiare per piu di 4000 km su strade eccellenti. Il viaggio era relativamente rapido, la velocità media delle poste statali romane essendo di circa 8-10 km all'ora e, in circostanze favorevoli, anche superiore. Abbiamo notizia di corrieri e di messaggeri speciali che tennero una media da 10 fino a 16 km orari per parecchi giorni consecutivi. Benché in confronto alla velocità dei viaggi moderni questo possa sembrare un passo da lumaca, occorre considerare che mai fino ai tempi di Napoleone i viaggi furono rapidi come sotto l'Impero Romano. Il servizio postale romano era una versione molto migliorata del piu antico sistema persiano. Ogni 16-20 km il viaggiatore trovava una stazione di posta (mutationes) dove poteva cambiare i cavalli. Ogni 50-85 km incontrava le piu vaste mansiones, dove poteva pernottare e rifornirsi delle provviste necessarie: esse erano collocate alle fermate piu importanti e nelle grandi città. Originariamente il servizio era riservato ai funzionari e agli impiegati statali, i quali ricevevano dall'imperatore un « diploma » che li autorizzava a servirsi di queste facilitazioni, e talvolta anche al noleggio di mezzi di trasporto e di corrieri. Ben presto si organizzarono associazioni che funzionavano da agenzie di viaggio e dopo il n secolo d. C. c'erano compagnie private che inoltravano anche lettere e pacchi. Le stationes non si limitavano a rifornire

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il viaggiatore ma gli mettevano inoltre a disposizione un fabbro, un medico e praticamente tutto il necessario; e finalmente fungevano da guarnigioni della polizia militare che pattugliava le strade. Abbiamo anche orari dei servizi postali nelle diverse regioni dell'Impero. Lungo le strade si collocavano pietre miliari che, oltre ad indicare la distanza dalla pietra miliare d'oro eretta in Roma, davano spesso informazioni sullo stato delle strade. D'uso comune erano le carte geografiche. Speciali esemplari tascabili, rotoli, su cui una mappa schematica e abbreviata indicava le stazioni e le distanze stradali, venivano chiamati itineraria. Un tratto di 50-85 km lungo queste strade era un comodo viaggio di una giornata. Sappiamo che il grande scrittore Plinio quando viaggiava in carrozza portava con sé una piccola biblioteca e che Cice· rane in viaggio dettava lettere al suo segretario Tullio Tirone, che fu l'inventore della stenografia. La pax romana favori immensamente anche il traffico marittimo. Il tipo principale di nave da guerra era ancora la poliere spinta a forza di remi da schiavi e da prigionieri e, ma solo in parte, dalle vele. Tutte le navi mercantili erano invece, quasi sempre, velieri da circa 500 fino a 1000 tonnellate di stazza; si costruirono occasionalmente anche grandi navi fino a 3000 tonnellate. Una di queste servi a trasportare, tra le altre merci, un obelisco egiziano, che si trova tuttora a Roma di fronte alla basilica di San Pietro: essa fu poi riempita di sabbia e cemento e affondata per costituire il fondamento di una parte del molo costruito per il nuovo porto di Ostia alla foce del Tevere presso Roma. Il Tevere nelle sue torrenziali piene stagionali trascinava verso il mare una grande quantità di limo, spostando cosi il suo delta; si era perciò costretti a dragarlo di continuo, finché gli imperatori decisero di costruire un porto collegato col fiume mediante un canale per proteggere il Tevere dall'insabbiamento. Sul molo edificato sopra la nave che aveva trasportato l'obelisco fu innalzato un faro alto 60 m. L'imperatore Traiano costrui un porto nuovo perché il vecchio porto claudiano era divenuto insufficiente: esso occupava un'area di 36 ha ed era

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di forma esagonale, con 2 km di banchina in muratura e una profondità di m 5,50. Un altro porto famoso era quello di Alessandria; grandi fari furono eretti a Boulogne e a Fréjus in Gallia ed in molti altri luoghi. Acquedotti e ponti.

Le conquiste dell'ingegneria civile romana si concretarono in opere di vasta mole destinate a risolvere vari problemi pratici della vita sociale: tra questi uno dei piu importanti riguardava il rifornimento dell'acqua. Anche qui il censore cieco Appio Claudio fu un pioniere: nel 312 a. C. egli iniziò la costruzione della Aqua Appia, che portava l'acqua a Roma da una sorgente situata sulle colline a 16 km a sud della città mediante un canale aperto che attraversava le valli su di una serie di splendidi archi. Era il primo di una quantità di simili acquedotti, dei quali il piu lungo fu, per un certo tempo, l'Aqua Marcia (90 km). L'imperatore Adriano costrui piu tardi un acquedotto per la città di Cartagine lungo non meno di 130 km. Il rifornimento idrico di Roma toccava originariamente alle autorità cittadine; dal 9 a. C. Augusto creò un ufficio speciale. Sui preposti a quell'ufficio ci informa ampiamente un libro scritto da uno di essi, di nome Frontino, che fu in carica dal 97 al 104 d. C. Egli descrive l'organizzazione burocratica del rifornimento idrico con molti particolari. L'organico era di 700 impiegati: sovrintendenti, ispettori, muratori, lastricatori e manovali, alcuni architetti e piombatori e un piccolo numero di impiegati d'amministrazione. Un gruppo di tecnici calibrava le tubature di bronzo che conducevano l'acqua nelle abitazioni private in modo da potere calcolare il consumo dell'acqua e per fissarne in proporzione il canone. I libratores controllavano i pezzi e li passavano poi al vilicus che li muniva di una stampigliatura indicante l'aliquota di flusso. Il libro di Frontino fornisce anche esatti dettagli su tutte le sorgenti d'acqua, sul loro rendimento e sulla capacità degli acquedotti nonché sulle loro dimensioni. Egli

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si è preoccupato di misurare il volume dell'acqua in punti diversi lungo l'acquedotto e le vie di rifornimento: cosf c'informa che, avendo trovato che una certa sorgente produceva solo 12 700 unità, aveva voluto controllare i condotti di questo acquedotto, che secondo i suoi dati doveva superare le 14 000 unità. Non meno del 35 per cento dell'acqua andava perduto lungo il percorso tra la sorgente e le case per falle nelle tubature. Una tubatura unitaria forniva circa 42 mc al giorno. Il rifornimento d'acqua complessivo di Roma superava a quei tempi il milione di mc al giorno, cioè tre volte il consumo totale della Roma attuale. Questa poderosa massa d'acqua fluiva in continuità e, poiché il consumo non era continuo, doveva essere distribuita con oculatezza. Generalmente l'acqua emessa dalla sorgente passava attraverso due bacini di decantazione dell'argilla ed entrava poi nello specus o canale d'acquedotto, chiuso da lastre che potevano venir rimosse in caso di controllo. Nella città di Roma l'acqua fluiva in serbatoi situati sulle colline circostanti. Ognuna di queste castellae possedeva tre tubi principali, ciascuno destinato ad una delle tre forniture piu importanti: le fontane, le terme e i pubblici edifici. Altri canali che si diramavano a un livello superiore conducevano l'acqua alle case private e agli edifici industriali. Quando il consumo di questo ultimo gruppo era minore, ad esempio durante la notte, l'eccedenza d'acqua veniva inviata alle fontane o impiegata per la pulizia delle tubature. Nelle case private o negli isolati l'acqua veniva condotta in serbatoi situati ai piani superiori e talvolta era pompata verso l'alto mediante ruote ad acqua o pompe di bronzo. Si pagava in base alla quantità massima che la conduttura della casa poteva fornire, sia che l'acqua venisse effettivamente consumata o no. Secondo i calcoli di Frontino, il 17 per cento dell'acqua serviva a scopi industriali, il 39 per cento ad usi privati e il rimanente 44 per cento riforniva 19 caserme, 95 edifici pubblici, 39 terme e 591 fontane. Le tubature delle case erano di piombo e ci si chiede quale possa esserne stato l'effetto sulla salute pubblica. A quei tempi

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si era già a conoscenza che le canne di terracotta erano piu igieniche, ma esse non sopportavano bene la pressione come quelle di piombo. In Frontino leggiamo anche che si provava la qualità dell'acqua facendola evaporare in recipienti di bronzo o di rame, oppure con una prova di sedimentazione, o infine con la prova pratica di cuocervi dei vegetali notando alcune particolarità del gusto o del colore. Conosciamo molti particolari dell'approvvigionamento idrico in altre città romane, dove era accuratamente adattato alle condizioni locali. Non sempre queste città erano rifornite bene come la capitale: a Pompei ad esempio la distribuzione diurna dell'acqua per uso domestico era inferiore a quella di altre città. Ma questo non aveva tuttavia molta importanza, siccome i cittadini trascorrevano la giornata molto piu negli edifici pubblici e nelle terme che a casa. L'ingegneria romana non si limitò ad effettuare il rifornimento d'acqua in base al principio del deflusso del liquido attraverso le tubature per forza di gravità: in certi casi, come a Pergamo, l'acqua veniva condotta dalle montagne attraverso colline e vallate fino alla pianura litoranea mediante un ingegnoso sistema di sifoni. Ciò significa che le condutture d'acqua dovevano essere in grado di sopportare una pressione di venti atmosfere. (Quando ai nostri giorni si effettuarono gli scavi di quella conduttura, l'Accademia Tedesca che aveva promosso la spedizione ritirò il suo appoggio, perché, essendo convinta che i Romani non conoscessero il sifone, pensava che i componenti della spedizione si fossero sbagliati e avessero invece portato alla luce una installazione moderna). I fondi per queste opere pubbliche si ricavavano dapprima da bottini di guerra e dalla munificenza di funzionari particolarmente solleciti dell'utilità pubblica; nel periodo imperiale si ottennero invece dalle tasse sul consumo dell'acqua pagate dalle industrie e dagli utenti privati. L'imperatore Nerone aveva installato nella sua reggia una tubatura speciale che conduceva l'acqua direttamente dal mare. Assai diffusa era la distribuzione d'ac-

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qua calda, scaldata col solito sistema romano di riscaldamento centrale. I gas caldi, prodotti dalla combustione di stufe installate nelle cantine, venivano fatti circolare nell'intercapedine tra le doppie pareti e il soffitto della casa. Questo sistema di riscaldamento veniva praticato specialmente in Gallia, in Germania e in Britannia, e cioè dove i Romani erano esposti ad un clima piu rigido. Il rifornimento dell'acqua implicava anche il problema dello scarico e delle fognature, problema vecchio quanto la civiltà urbana. Le antiche città della valle dell'lodo (Mohenjio Daro ), della Mesopotamia e di Creta avevano un ottimo impianto igienico di canali di scolo. A Roma la prima grande opera pubblica di questo genere fu la Cloaca Massima, che raccoglieva lo scarico del Foro nel centro della città: era cosi ben costruita che funziona tuttora. La maggior parte delle città romane possedeva buoni sistemi di fognature, andati poi in rovina per trascuratezza dopo la caduta dell'Impero. Un'altra grande opera di canalizzazione fu eseguita nelle vicinanze del lago Fucino (un bacino situato in una depressione tra alte montagne) sotto l'imperatore Claudio, che nel 52 d. C. fece costruire una galleria per portare le acque del lago al fiume Liri e regolarne cosi il livello. Una analoga galleria di drenaggio era già stata costruita quattrocento anni prima presso il lago Albano. Per molti secoli funzionò anche un sistema di canali per drenare le paludi a sud di Roma, finché l'abbandono ridusse di nuovo quella regione ad una delle zone piu malariche d'Italia. Altri grandi canali furono costruiti dalle truppe romane in Olanda tra il Reno e l'ljssel e tra il Reno e la Mosa, creando cosi nuovi sbocchi alle acque dei fiumi e nuove vie di navigazione. In tutta l'Italia si eressero argini e dighe per evitare le inondazioni causate dalle piene dei fiumi a regime torrentizio: l'antico triplice argine del Tevere era superiore a quello moderno, costruito nel 1870. I primitivi ponti di Roma e delle altre località d'Italia erano strutture di legno su pali, ma dopo il IV secolo a. C. si cominciarono a costruire ponti di pietra. Benché i Romani conoscessero bene la tecnica di gettare fonda-

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menta subacquee, molto spesso mancavano dei mezzi adeguati per drenare le profonde fosse necessarie ai pesanti pilastri in muratura. Quello era il loro punto debole. Si aiutavano restringendo il corso d'acqua con larghissimi argini o dando una luce enorme all'arco per evitare di costruire pilastri in mezzo alla corrente. Il genio militare era molto abile nel gettare ponti di legno su fiumi di notevole ampiezza. Giulio Cesare racconta di aver costruito un ponte di questo tipo sulla Saona in un solo giorno; un altro ponte sul Reno era lungo 425 m. Nel 106 d. C. Traiano fece costruire sul Danubio un ponte grandioso, comprendente 20 piloni di pietre squadrate, alti 45 m e distanti 50 m. l'uno dall'altro. Il ponte era probabilmente del tipo Burr, usato durante il XIX secolo. Molti di questi magnifici ponti di pietra sono tuttora conservati. Vi è il ponte a cinque arcate presso Rimini, la cui coperta è 15 m al di sopra del letto del fiume; il ponte che attraversa il Tago presso Alcantara misura 180 m di lunghezza ed ha sei arcate, due delle quali lunghe oltre 30 m. Vi è infine il famoso Pont-du-Gard presso Nìmes, alto 45 m e lungo 275, che porta non solo una rotabile, ma anche un acquedotto. Le macchine da guerra.

L'unico campo nel quale le invenzioni meccaniche ebbero un'importanza essenziale fu quello della guerra. La necessità di porre la scienza al servizio di Marte si fece sentire durante l'epoca d'oro della Grecia (IV e v secolo a. C.), quando Atene, ambiziosa di crearsi un impero, spingeva le sue flotte verso oriente ed occidente. Durante le guerre ateniesi in Sicilia e quelle di Dionigi, tiranno di Siracusa, furono spesso usate macchine da guerra. Sappiamo che batterie di archi meccanizzati o catapulte coprivano gli attacchi e le ritirate e che gli stati greci usavano cortine fumogene e gas d'assalto. Il re Filippo di Macedonia e suo figlio Alessandro organizzarono i carriaggi e il trasporto e montaggio di macchine belli-

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che, in pezzi facilmente trasportabili. Negli annali di guerra appaiono ora nomi di specialisti in questo campo, come gli ingegneri Artemone, Filisto e Diade. Nel periodo successivo alla morte di Alessandro Magno (323 a. C.) il sapere scientifico divenne il principale alleato dei generali ellenistici. La graduale sostituzione delle leve di cittadini volontari con eserciti permanenti esercitò una profonda influenza sui rapporti tra la scienza e la guerra. L'effetto dei mutamenti prodotti dalla nuova tattica militare si possono desumere dall'evoluzione dei sistemi di comunicazione e segnalazione, della cartografia e dell'ingegneria civile. In tempo di pace l'esercito era spesso occupato nella costruzione di acquedotti, ponti e strade, e Plinio riferisce che venne perfino impiegato a piantare vigneti e combattere sciami di locuste. Ma il nuovo esercito sentiva soprattutto l'esigenza di armi meccanizzate. La maggior parte di esse erano di legno. Se non avessimo sottomano particolareggiati trattati sulla costruzione di quelle macchine, sarebbe difficile provarne l'esistenza, meno che per una notevole quantità di palle di pietra. Attrezzature da getto che funzionavano secondo il principio dell'antica fionda lanciavano nelle città e nelle fortificazioni pietre da poco piu di un chilo a quattro chili e mezzo circa. La fionda meccanica si chiamava onager o asino selvatico, perché il suo movimento ricordava il modo di scaldare di questo animale. Un braccio di legno, cui era attaccata una fionda caricata con una palla di pietra, veniva piegato all'indietro con corde di minugia o di crino e trattenuto da un gancio: quando era lasciato andare, il braccio percuoteva un cuscinetto e dalla fionda partiva la palla di pietra. Le ricostruzioni di questa macchina hanno dimostrato che una pietra di circa due chili poteva essere scagliata a piu di 300 m di distanza. Le corde usate per tendere il braccio erano fatte con visceri d'animale e potevano facilmente sviluppare una forza di oltre 60 000 chilogrammi. La cosiddetta catapulta si sviluppò dall'arco. Aveva due fasci di corde per tendere la corda dell'arco, era fornita di dispositivo di mira e poteva compiere tutti i movimenti di un moderno cannone contraereo; la piccola

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slitta messa in movimento dalla corda dell'arco conteneva frecce o pietre. Una moderna ricostruzione della catapulta, che si trova in Germania nel museo di Saalburg, scagliò contro vento una freccia a 300 m di distanza. Frecce di un metro arrivavano a circa 335 m e palle di piombo di mezzo chilo a 275 m; quando colpi-

Balestra (sopra) e catapulta (sotto) ellenistiche.

vano uno scudo di circa tre cm di spessore e rivestito di una sottile lamina di ferro, queste frecce penetravano almeno per una profondità di 45 cm, riuscendo quindi a ferire chi portava lo scudo. Le corde animali si guastavano col tempo; Filone aveva pensato di sostituirle con corde di bronzo e Ctesibio aveva suggerito l'uso di aria compressa ottenuta mediante riscaldamento, ma nessuna di quelle idee ebbe realizzazione pratica. Dionigi di Alessandria costruf una macchina equivalente al moderno cannone, nella quale l'arco veniva piegato girando una ruota e rilasciato da

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una catena senza fine che nello stesso tempo lo ricaricava da una faretra. Le ricostruzioni di questo arco a caricatore, fatte a Saalburg, hanno confermato le sue doti di precisione tanto vantate dagli antichi. Naturalmente erano ben conosciute altre grosse macchine come gli arieti e le torri o piattaforme montate su ruote, che erano già state inventate ai tempi della guerra di Troia o anche prima. Va inoltre considerato che queste macchine belliche erano costruite non solo in seguito ad esperimenti pratici, ma anche secondo precisi disegni e calcoli. È noto che il famoso matematico e fisico Archimede disegnò e costruf macchine da guerra per aiutare la difesa di Siracusa, sua città natale, contro l'assedio dell'esercito romano. A sua volta il trattato di Filone Belopoiika (Sulle catapulte) conteneva formule per rapportare il calibro della macchina al peso del proiettile. Formule speciali esprimevano tale calibro in termini di lunghezza della freccia o di peso del missile. Solo una piccola parte degli antichi manuali sulle macchine da guerra e sul loro impiego tattico è pervenuta sino a noi, ma da questi risulta che ne esistevano molti altri. Queste macchine belliche non erano delle costose bizzarrie, ma facevano parte del normale equipaggiamento degli eserciti. Alla caduta di Cartagine l'esercito romano catturò piu di duemila catapulte. Vegezio, un antico tattico, raccomandava l'impiego di tre di questi attrezzi per ogni cento uomini, cioè tre volte il numero dei pezzi da campo usati da Napoleone, famoso per i suoi duelli d'artiglieria. I Romani, da parte loro, contribuirono poco al progresso della tecnica militare, benché nell'equipaggiamento dei loro eserciti abbiano fatto pieno uso delle precedenti invenzioni greche. Gli unici contributi originali dei Romani devono essere state le balestre a ruote trainate da cavalli, le cosidette carroballistae, e l'onager già menzionato. Sono entrambi raffigurati solo su monumenti romani. Cosi anche nell'antichità la guerra ebbe qualche effetto benefico. La necessità di sconfiggere il nemico indusse a destinare fondi per la scienza applicata e l'ingegneria, e

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questo sviluppo, impossibile in tempo di pace allora come ora, per mancanza di mezzi, diede luogo ad applicazioni non limitate al solo campo dell'arte militare. È evidente che tutte le invenzioni meccaniche sopra menzionate servivano in pace come in guerra allo stato e non all'individuo. L'industria rimase basata sul lavoro degli schiavi o sulla forza motrice delle ruote ad acqua alimentate dai fiumi o dagli acquedotti, come avveniva nella stessa Roma. Mancando lo stimolo della ricerca scientifica, i Romani non giunsero a invenzioni degne di memoria. Anche nell'epoca romana le accademie del Mediterraneo orientale continuarono ad essere i centri della ricerca scientifica. Benché vi si compisse ormai un lavoro meno pionieristico, tuttavia anche l'opera minuta di compilazione ebbe la sua importanza in quanto servi a codificare ciò che le generazioni anteriori avevano scoperto. Ma le forze che avevano sospinto la scienza in tempi precedenti- il suo contatto con le arti e i mestieri e lo spirito di ricerca che aveva pervaso la scienza greca primitiva si erano spente poche centinaia d'anni dopo la morte di Alessandro Magno. La speculazione scientifica si isterili e gli uomini si tuffarono di nuovo nel mondo fantastico della magia e della religione. Le conquiste della scienza classica si diffusero in tutto il Vicino Oriente ed anche oltre, ma proprio venendo in contatto con i sistemi di pensiero dell'India, della Persia e del Vicino Oriente essa deviò dal suo primitivo indirizzo e si lasciò assorbire nel nuovo sincretismo culturale. Alchimia e metallurgia. Una sfera di ricerca ebbe tuttavia un fecondo sviluppo. Nel primo secolo della nostra era gli Egiziani cristiani (i Copti) rivolsero la loro attenzione allo studio della materia. Per molti secoli gli artigiani avevano provato a contraffare i gioielli e le pietre preziose con coloranti artificiali o con metalli meno pregiati e materiali assorbenti come i noduli silicei contenuti negli steli di

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bambu. Due frammenti di un lungo papiro, che si trovano oggi nelle biblioteche di Leida e di Stoccolma, contengono una serie di ricette che risalgono a quelle originali di Tebe (Alto Egitto) e di Alessandria. Sono opera di artigiani, e di un periodo in cui vi era una forte richiesta di imitazioni di gioielli, certo molto prima delle copie che portano la data del III secolo d. C. Questo lavoro comportava molte osservazioni su quei processi che oggi chiamiamo reazioni chimiche. I primi chimici alessandrini si valevano dunque dell'esperienza di quei tecnici che usavano ad esempio il bagnomaria nella preparazione dei grassi e che fabbricavano profumi macerando fìori e spezie con olii e grassi. Per questo vi erano molti utensili per la distillazione al calore, fabbricati in serie in officine, come quelle di Capua. Tutti questi strumenti venivano usati dai chimici primitivi che tentavano di penetrare nella struttura della materia e studiavano le reazioni dei sali e dei metalli. Questa richiedeva un'abilità considerevole nel maneggiare il fuoco, costruire fornaci, fabbricare ogni specie di terraglie e materiali a prova di fuoco e la produzione di vetri e recipienti smaltati. Ma la posta era allettante e i miglioramenti apportati alle vecchie apparecchiature resero possibili le prime analisi dei processi di fusione, di sublimazione e di distillazione. Occorre considerare che la mancanza di certi strumenti scientifici quali i termometri e il fatto che non si conoscevano ancora solventi né acidi forti, tranne quello acetico, limitavano il campo d'indagine. I chimici antichi lavoravano soprattutto su reazioni di liquidi e solidi disciolti e le alte temperature che usavano nei loro primi apparecchi di distillazione non permettevano loro di isolare i componenti piu volatili. Non venne quindi scoperta una sostanza chimica come l'alcool, benché fossero note da secoli bevande alcooliche quali il vino e la birra. La scoperta di quel procedimento fondamentale della chimica che è la distillazione doveva dare i suoi frutti solo nei secoli successivi. Sfortunatamente le generazioni posteriori di chimici della scuola siriaca si lasciarono influenzare dalle specu-

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!azioni persiane e cinesi. La tecnica chimica fu allora attratta da miraggi come la « pietra filosofale » e l'« elisir di lunga vita », che per molti secoli le impedirono di conseguire risultati pratici e screditarono l'alchimia agli occhi degli scienziati. I suoi procedimenti si rivelarono tuttavia utili ai tecnici pratici: furono questi ultimi a sviluppare l'uso della distillazione, della sublimazione e di altre operazioni chimiche. Nel campo della metallurgia l'età ellenistica introdusse alcune novità interessanti. Già quando nacque la metallurgia del ferro alcune tribu delle montagne armene avevano fuso il rame con un tipo di silicato in cui oggi riconosciamo il minerale di zinco chiamato calamina, producendo cosi l'ottone. La preparazione di questa lega si diffuse lentamente nel Vicino Oriente e nell'Occidente, ma divenne popolare solo ai primi tempi dell'Impero Romano, allorché l'ottone venne usato per produrre articoli di larga diffusione e a buon mercato e perfino monete correnti. Cominciò allora lo sfruttamento dei giacimenti locali italici e germanici. Altro centro importante fu Cipro; l'ottone persiano venne poi esportato in India e da qui il segreto della sua fabbricazione passò in Cina. La scoperta del ferro carburato (ghisa) è spesso erroneamente attribuita agli antichi. La ghisa è una lega di ferro e carbonio che si forma ad alte temperature nell'altoforno, da cui fluisce in forma liquida, come il rame. Ma un simile fenomeno avrebbe messo nell'imbarazzo un fonditore primitivo, poiché le fornaci di allora non raggiungevano, se non accidentalmente, temperature sufficienti. Vi sono numerose prove che in certi casi si arrivò alla produzione della ghisa, ma che essa venne gettata via perché nessuno era in grado di lavorarla. Le molte statue che si dicevano fatte di ferro fuso erano in realtà di ferro forgiato; certi passi parlano di ferro cesellato o modellato, non di ferro colato. Occorrevano ancora molti secoli prima di arrivare a costruire altiforni perfezionati a tal punto da rendere possibile una regolare produzione industriale di ferro fuso. La diffusione dell'ellenismo verso Oriente portò un

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vantaggio rilevante: gli antichi contatti con paesi remoti come l'India e la Cina divennero piu stretti. Gli scambi culturali esistevano, ma in forma piuttosto vaga benché sensibile: le relazioni materiali si esprimevano invece nello scambio di molti beni. Cosi nel II secolo a. C. lo sparto e la vite giunsero in Cina, mentre arrivò per contro in Occidente, insieme alle prime notizie sulla sua fabbricazione, la seta, per cui Roma spese le sue riserve d'oro; ciò avvenne nel I secolo d. C. e dovevano passare cinque secoli prima che i bachi da seta fossero introdotti di contrabbando, nascosti entro canne di bambu, dal Turkestan a Bisanzio e quella coltura si diffondesse in Occidente. Il procedimento per fabbricare col borace un vetro di buona qualità arrivò dalla Cina nel v secolo. A quel tempo l'Occidente ignorava ancora completamente l'esistenza del tè (descritto per la prima volta in un libro cinese del III secolo) e l'importante invenzione della carta, fatta da Tsai Lun nell'anno 105, era ancora un segreto. D'altro lato la stampa con caratteri di legno, già in uso in Cina da molto tempo, fu applicata nel Vicino Oriente per l'impressione di disegni decorativi su vasi. L'importanza di questi nuovi scambi commerciali è denotata dal fatto che da allora in poi i contatti con l'India e con la Cina non furono piu interrotti. Per quanto difficili potessero essere le comunicazioni, dopo il periodo ellenistico teorie e invenzioni o scoperte continuarono a viaggiare tra Oriente e Occidente. Le idee si diffondevano dall'una all'altra estremità della terra per poi tornare indietro sotto forme inaspettate. Spesso nell'altra parte del mondo venivano anticipati certi sviluppi tecnici, che però erano quasi sempre custoditi gelosamente come segreti industriali.

Capitolo quinto I CUSTODI DELL'EREDITÀ CLASSICA (600-1200 d. C.)

Quando il profeta Maometto e i suoi successori, i califfi, levarono, nel VII secolo, Io stendardo dell'Islam, la forza di coesione dell'Impero Romano non teneva piu unito il mondo. L'influenza delle tribu barbare provenienti da oltre il Reno e il Danubio, assieme all'indebolimento del governo, dovuto alla decentralizzazione del potere e alle guerre civili, avevano portato alla disintegrazione dell'Impero. A partire dal IV secolo, gli stati barbarici si contendevano in Occidente l'eredità degli imperatori. L'Impero Bizantino, accentrato attorno alla sua capitale Bisanzio (piu tardi Costantinopoli), difendeva quella nuova fase della vita dell'Impero Romano d'Oriente mantenendo con alterna fortuna un suo controllo sulle coste orientali del Mediterraneo. Gli eserciti provenienti dal deserto incontrarono però una assai debole resistenza: il malgoverno e l'esaurimento delle energie spirituali avevano disfatto le genti sottoposte di Bisanzio assai prima che quegli eserciti arrivassero. In cento anni l'Islam aveva affermato il suo dominio dai Pirenei alla valle dell'Indo e all'Asia centrale. Benché ben presto fossero sorti regni e sultanati indipendenti, per molti secoli l'intera regione poté essere considerata come un'unità. Il mondo islamico fu un crogiolo di popoli. Quando consideriamo la scienza degli Arabi nel complesso della sua storia siamo costretti a includere scienziati e tecnici persiani, siriaci, egiziani, moreschi e spagnoli tra coloro che contribuirono allo sviluppo della tecnologia araba.

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I CUSTODI DELL'EREDITÀ CLASSICA

Nondimeno l'Islam fu una grande civiltà che costituf, in quel tempo, il fulcro del mondo. Dall'Oriente e dall'Occidente confluivano teorie e invenzioni pratiche e si diffondevano nel mondo in tutte e due le direzioni. Ma oltre quella importante funzione di mediazione tra Oriente e Occidente, il mondo dell'Islam fu, con Bisanzio, il custode dell'eredità classica. La giovane civiltà dell'Islam, dominata dal fervore religioso e dal fanatismo, non si impadronf di nessuna delle conquiste scientifiche e tecniche dell'antichità; fu posseduta tuttavia da uno spirito di ricerca che spinse i suoi ingegni migliori a studiare e a investigare. Perciò il periodo fino a circa il 750 d. C. dev'esser considerato un periodo d'orientamento. Dopo il tramonto della civiltà ellenistica agli inizi dell'era cristiana, Alessandria aveva perduto il suo posto di capitale culturale: la direzione delle scienze, se di scienza si può parlare in quell'epoca, era passata ai Siriani, dai quali i primi scienziati arabi ricevettero idee piuttosto confuse sulla scienza e sulla tecnica degli antichi. Ma appena il periodo delle conquiste fu concluso e i califfi di Damasco e di Bagdad si accinsero ad organizzare l'impero, essi cominciarono anche a raccogliere antichi manoscritti dalle biblioteche di Alessandria e di altre grandi città e inviarono delegazioni a Bisanzio con l'incarico di copiare quanti piu manoscritti greci riuscissero a rintracciare. Quando nell'impero bizantino scoppiarono i conflitti religiosi, molti scienziati non ortodossi si rifugiarono nel paese dei califfi, dove furono ospitati con liberalità. Cristiani, siriaci, ebrei e pagani si stabilirono in centri famosi come Harran, Bagdad e Jundashipur, dove insegnarono agli Arabi la scienza e la tecnica greche: nuove università sorsero a Basra, Kufa, Cairo, Toledo e Cordova. Nel 900 la biblioteca di Cordova conteneva non meno di 600 000 libri; il suo catalogo fu pubblicato in 44 volumi. È qualcosa di sorprendente, se si pensa che la biblioteca del re di Francia consisteva, nel 1300, in poco piu di 400 titoli. A differenza degli scienziati ellenistici, gli Arabi usarono compiere esperimenti nei laboratori e nelle officine.

BIBLIOTECHE E TRADUZIONI

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Benché taluni di essi ci possano oggi sembrare estremamente elementari, non dobbiamo dimenticare che la loro civiltà fu lo specchio in cui l'Occidente vide per la prima volta riflessa l'eredità classica. Di Aristotele gli Arabi non si interessarono soltanto alla filosofia, ma anche alle sistematiche osservazioni biologiche. Ma la cosa piu importante fu che essi salvarono la matematica e le teorie della meccanica dal crollo dell'Impero Romano, mentre dall'India presero le cosiddette cifre arabe e la tipica forma algebrica del pensiero. Fusero infine queste due eredità in un tutto e ne risultò quel corpo di matematiche che l'occidente scopri nel XII secolo e su cui fondò la scienza moderna. Gli stessi Arabi non confinarono la scienza nei laboratori: nel x secolo essa era applicata su larga scala alla pratica artigiana e industriale nei fiorenti stati arabi di Spagna, Iraq e Iran. Nel periodo tra il 750 e il 900 fu compiuto un gran numero di traduzioni. Oltre alle molte opere scientifiche tradotte in arabo, furono tradotti o scritti libri di meccanica teorica, specie sulla elevazione dell'acqua, le ruote ad acqua, le bilance e gli orologi ad acqua. I tre figli di Musa-ibn-Shakir composero un Libro degli artifici, in cui si descrivono automati simili a quelli illustrati particolareggiatamente da Erone e da altri autori ellenistici, ma anche recipienti per l'acqua calda e fredda e pozzi a livello costante. Molti trattati d'agricoltura ricalcarono le antiche Geoponicae scritte da autori classici; lo stesso può dirsi dei trattati di mineralogia in quel periodo. AlKindi compose una serie originale di piccoli manuali sulla produzione del ferro e dell'acciaio per le armi. Erano molto importanti, poiché gli Arabi avevano imparato l'arte di produrre l'acciaio in crogiuoli dai fabbri indiani ed avevano fondato a loro volta centri metallurgici quali Damasco e Toledo. Qui si fabbricavano le lame famose secondo un procedimento simile a quello indiano dell'