L'eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova
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Serie Bianca Feltrinelli

VITTORIO AGNOLETTO LORENZO GUADAGNUCCI L’ECLISSE DELLA DEMOCRAZIA LE VERITÀ NASCOSTE SUL G8 2001 A GENOVA

Ringraziamento di Andrea Camilleri Prefazione di Susan George

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in “Serie Bianca” maggio 2011 Stampa Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche - BG ISBN 978-88-07-17210-6

ISBN PDF 9788858800638

www.feltrinellieditore.it/eclissedellademocrazia Approfondimenti, materiali e video inediti, commenti: dal G8 a Genova nel 2001 a oggi.

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L’ECLISSE DELLA DEMOCRAZIA Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova

Un ringraziamento Andrea Camilleri

Ho sempre sostenuto che per me il G8 di Genova è stato una sorta di prova generale, un tentativo di golpe da parte della destra che fortunatamente è andato fallito. Una vera e propria prova di tensione, come quando si tira un elastico per vedere fino a dove regge o i crash-test per le macchine, quando quei manichini a forma di essere umano sono spinti contro i muri per capire a quale livello di impatto arriva la morte. Rimango convinto che nella cabina di regia di quei giorni oltre alla polizia e ai carabinieri ci fossero anche politici e credo, oggi più che mai, che il fallimento di quell’operazione abbia fatto cambiare parere circa la strategia da seguire in Italia a qualche alta personalità politica. Il G8 di Genova è stato la cartina tornasole per dimostrare senza vergogna agli italiani che la linea politica che si seguiva era quella del tira la pietra e nascondi la mano. Questo perché la montatura mediatica che si tentò di attivare attorno al G8 venne smontata dal fatto che, forse per la prima volta, le testimonianze filmate individuali esibite in forma massiccia smentivano sempre e comunque le informazioni ufficiali, davano la realtà della situazione rispetto alla realtà manipolata che si voleva dare agli italiani. Una sorta di democratizzazione della verità attraverso le foto e i filmati girati dai telefonini dei manifestanti. Per fortuna quella comunicazione commovente anche per la rozzezza delle immagini vinse rispetto alla patinatura dell’informazione televisiva. Questo libro viene a riaprire una memoria, anzi a ribadire una verità, e fa benissimo perché queste non sono cose che vanno dimenticate. Il processo è ancora in corso ma i risultati di questo 9

processo continuano a dimostrare quanto sia grave la situazione in Italia. Per esempio tutti coloro che se l’erano cavata in prima istanza, tutti i signori in borghese davanti alla Diaz, e che in un secondo momento sono rimasti coinvolti e condannati, restano ancora al loro posto. Niente, neanche la vergogna di vedere i loro volti filmati dai telefonini mentre pestano degli innocenti, li ha costretti a rinunciare alla poltrona. Tutto questo perché in Italia vige sì la presunzione di innocenza ma non vige la presunzione dell’imbarazzo, della vergogna nel venire smascherati e continuare a occupare lo stesso posto. Naturalmente le narrazioni individuali di quello che accadde in quella orrenda notte di “macelleria messicana” hanno una vivezza di estrema importanza perché scaturiscono da un’esperienza viva ancor oggi nella carne di ciascuno di coloro presente in quella notte. La forza della vera immediatezza dove la parola semplice, elementare della testimonianza diventa più pregnante dell’immagine televisiva corrotta. Grazie veramente ai curatori di questo libro che stimo e continuo a stimare come uomini pieni di buona volontà nel senso più alto del termine.

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Prefazione Susan George*

I primi vagiti del futuro “movimento altermondialista” o “movimento per la giustizia globale” si sono uditi nell’autunno 1998, quando ci siamo opposti, sconfiggendolo, all’Accordo multilaterale sugli investimenti. Gli italiani ci esortavano a “dire mai al MAI”; i francesi spiegavano che “l’AMI est ennemi de la démocratie” (l’AMI è nemico della democrazia). Per la prima volta una coalizione internazionale costringeva governi e multinazionali a rinunciare a un trattato che mirava a estendere il loro potere e ad abusare di popoli e nazioni. Un anno più tardi si sono tenute le straordinarie manifestazioni di protesta contro il Wto a Seattle. Di nuovo, per la prima volta, ecologisti, sindacalisti, studenti, attivisti delle Ong e normali cittadini dimostravano una fondamentale unità di intenti. Insieme, attraverso azioni non violente, i membri di questa coalizione hanno provocato la chiusura di una delle organizzazioni più potenti e meno democratiche del mondo. Dopo Seattle le possibilità sembravano infinite; quello che è seguito è stato un periodo di grandi proteste. Sono state organizzate manifestazioni davanti alle sedi di tutti i principali avversari internazionali del movimento per la giustizia globale (Banca mondiale, Fmi, G8 e così via). Ma ben presto alcuni hanno avuto la sensazione che la situazione stesse sfuggendo di mano. Prendere l’aereo per andare all’ennesima manifestazione costava troppo e portava via troppo tempo. Inoltre, i bersagli delle mobilitazioni stavano diventando sempre più scaltri e preparati; controllavano gli apparati statali, la maggior parte dei media e soprattutto le forze di polizia. Il movimento, dal canto suo, doveva vedersela con una piccola minoranza di Black Bloc, antide* Presidente del board del Transnational Institute di Amsterdam e presidente onorario di Attac Francia. La traduzione è di Adele Oliveri.

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mocratici e inclini alla violenza, che insistevano per fare le cose a modo loro, accusandoci di essere “sonnambuli”. Poi è arrivata Genova. Nel luglio 2001, in preparazione per il vertice del G8, i compagni italiani hanno fatto tutto il possibile per radunare attivisti di ogni provenienza. Prima del summit, nell’arco di diversi giorni, hanno organizzato una serie di incontri con seminari, dibattiti e momenti di formazione in vista del gran giorno del corteo anti-G8. Erano consapevoli che il movimento aveva bisogno non solo di rabbia, ma anche di conoscenze e di metodo. Lo stato italiano ha eretto sbarramenti che ricordavano le guerre di classe medioevali. I contadini e i plebei dovevano essere tenuti fuori, mentre i “signori”, all’interno, banchettavano e facevano finta di risolvere i problemi del mondo. Per il movimento, coloro che stavano dentro non avevano titolo per farlo; come gli aristocratici dei secoli precedenti, non si curavano affatto dei “contadini e dei plebei”. Molti pensavano che era giunto il momento di dar loro una lezione. Uno di questi era Carlo Giuliani, che ha pagato la sua determinazione con la vita. Centinaia di altri hanno pagato, sia pur un prezzo minore, quando la polizia ha fatto irruzione nei locali dove erano accampati per dormire. Nel cuore della notte, senza alcuna giustificazione, molti giovani sono stati trascinati via per essere picchiati, torturati, umiliati e gettati in prigione. Un governo apparentemente democratico e civilizzato mostrava la sua forza bruta, dando credito all’osservazione di Nietzsche secondo cui lo stato è “il più gelido dei gelidi mostri”. Contrariamente a Carlo e ai suoi compagni, i responsabili non hanno mai pagato e, temiamo, non pagheranno mai. Il movimento non ha dimenticato, ma – saggiamente, secondo me – ha deciso che non proverà più ad affrontare lo stato là dove è più forte. Siamo diventati più accorti anche sotto altri punti di vista. Abbiamo dimostrato una straordinaria capacità di educare il pubblico e screditare i nostri avversari. Il G8 adesso è costretto a nascondersi, infatti organizza i suoi vertici in luoghi inaccessibili, come isole e montagne. Nonostante l’attenzione convulsa dei media, oggi la maggioranza dell’opinione pubblica sa che queste istituzioni non manterranno mai le promesse; che sono essenzialmente solo operazioni autopromozionali. Il movimento non ha soltanto denunciato e protestato contro gli ingiusti programmi dei potenti, che si limitano a perpetrare l’esistente, ma ha elaborato una serie di proposte pratiche e ragionevoli su importanti tematiche, quali la democrazia, l’uguaglianza (specialmente tra Nord e Sud), la giustizia sociale e l’ambiente. Ma, soprattutto, abbiamo imparato a creare alleanze tra forze sociali che fino a dieci anni fa erano ancora per lo più se12

parate, ciascuna impegnata in una particolare area ma con pochi contatti oltre il proprio ambito di attività. Ciò non vuol dire che in qualche modo abbiamo vinto, tutt’altro; eppure, gli eventi dell’ultimo decennio hanno confermato che la nostra analisi è sempre stata corretta. La crisi odierna, che avevamo previsto, ha reso quanto mai evidente l’urgente bisogno di applicare le soluzioni da noi proposte, ma coloro che sono al potere seguitano nel loro autismo: si rifiutano di prestare attenzione, di ascoltare le grida degli affamati, ignorano gli allarmi sul riscaldamento globale e continuano a incoraggiare l’assurda economia della speculazione. Quando si verificano eventi terribili, come la catastrofe nucleare in Giappone, o altri gioiosi, come le rivoluzioni democratiche in Nord Africa, rimangono sempre sorpresi. Ci hanno trascinato nell’attuale pantano e non hanno idea di come tirarci fuori. Così, nel ricordare le giornate di Genova di dieci anni fa – giornate assolate e luminose, e tuttavia oscure e terribili – dobbiamo, come individui e membri di un movimento che ha fatto storia, impegnarci a restare risoluti e uniti, ad allargare ulteriormente le nostre alleanze e a praticare l’azione non violenta. La giustizia può richiedere un tempo straordinariamente lungo; ma continuare a lottare per affermarla è il modo migliore per onorare i sacrifici che i nostri compagni fecero a Genova.

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“A vostro rischio”

Roma, settembre 2010. “Io al suo posto mi preoccuperei.” Un’ombra d’angoscia appare sul suo viso. Prima di separarci. Sono passati quasi dieci anni, ma lui ha paura, e pensa che anche noi dovremmo averne. Due ore, uno di fronte all’altro, seduti in un bar. “Quante volte mi ha cercato per propormi questo appuntamento?” mi chiede appena ci sediamo. “Una sola volta, martedì, quando ci siamo parlati.” Mi mostra il suo cellulare, risultano sei, sette telefonate ricevute da casa mia. Una sarebbe durata sei minuti. La prima risalirebbe al 12 agosto. Ma io quel giorno non ero nemmeno a Milano. Mi sento raggelare. Glielo dico. Trent’anni in ruoli di grande responsabilità negli apparati dello stato non gli sono sufficienti per nascondere la preoccupazione. È un istante; la professionalità riprende il sopravvento: “Ci sarà qualcosa che non funziona nel mio cellulare, lo farò controllare”. Non ci credo. E so che anche lui non crede alle sue stesse parole. Sa bene come interpretare certi messaggi. Hanno voluto fargli sapere che loro sanno del nostro incontro. Non ha cancellato l’appuntamento, ma ha voluto informarmi subito che ci stanno controllando. E ha scelto di rendere esplicito il nostro incontro. Ora ho capito perché siamo in un bar tutto a vetrate. Alzo lo sguardo, a un tavolino all’aperto è seduto un giovane uomo, avrà sui trent’anni, è vestito in modo trasandato, indossa un paio di jeans e ha i capelli lunghi. Armeggia attorno a un computer. Mi pare che stia orientando un microfono verso di noi. 15

Mi tornano in mente quegli uomini vestiti da Black Bloc fotografati mentre discorrevano tranquillamente con i loro colleghi poliziotti. Era il luglio 2001. “La ringrazio per aver accettato d’incontrarmi. Con Lorenzo Guadagnucci stiamo scrivendo un libro per il decennale di Genova. Ci interesserebbe molto sentire anche il suo punto di vista.” Ma le mie domande resteranno senza risposta. Ha già sfidato una volta il codice d’onore della banda. E il prezzo è stato alto. Mi guarda dritto negli occhi. “Ma questo libro dovete proprio farlo? State molto attenti.”

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L’ECLISSE DELLA DEMOCRAZIA

1. Una macelleria italiana

Genova, sabato 21 luglio 2001 LORENZO GUADAGNUCCI

Via Cesare Battisti, scuola Diaz-Pertini, palestra al pianterreno, ore 24 circa. Ma che fanno? Che succede? I ragazzi sono tutti a mani alzate, chi seduto, chi in piedi. Urlano: “No violence, no violence”. Guardano verso il portone... Eccoli. Sono entrati. Corrono, urlano. Sono poliziotti. Urlano e picchiano. Calci, manganellate, sputi. I ragazzi sono a terra, in ginocchio. E loro picchiano. Urlano. “Stasera vi divertite meno”, “Questo è l’ultimo G8 che fate”. Ne arrivano altri. E picchiano, picchiano. Ora vengono verso di noi, siamo a un angolo della palestra, il più lontano dall’entrata. Eccoli. Un calcio in faccia. La ragazza al mio fianco ha preso un calcio in faccia. Mi chino ad aiutarla, ma non posso, non posso. Ora picchiano me. Il manganello. Mi riparo con le braccia. Alzo le ginocchia, metto le mani sopra la testa, penso agli occhiali. Devo proteggere gli occhiali. Uno, due, tre colpi, e poi ancora e ancora. Sento tonfi sordi sulle braccia, sulle mani. Colpi sugli stinchi. Picchiano, picchiano alla cieca. Abbasso la testa. Sento le braccia che si spezzano, l’odore del sangue. Si fermano. Posso respirare. Sto male. Un dolore diffuso. Ho le braccia rigonfie, come palle da golf fra il gomito e il polso. Perdo sangue da uno squarcio sull’avambraccio destro. Un fiotto di sangue cola sotto il ginocchio sinistro. Alzo lo sguardo. Poliziotti dappertutto. Gente a terra che piange, che si abbraccia, che si rannicchia. Non capisco. Che succede? Perché? Perché fanno così? Perché sono qui? La ragazza alla mia destra è sdraiata su un fianco, quasi immobile, abbracciata al suo vicino. Perde sangue 19

dalla testa. Forse piange. Fatico a muovermi, non posso aiutarla. Mi fa male tutto. E ora tornano. È uno con la camicia bianca. Sul petto ha la scritta POLIZIA. Eccolo. Si avvicina. È alla mia sinistra. Alza il manganello. Non riesco quasi a muovermi. Ma devo abbassare la testa. Riparo la nuca alla meglio, così come posso, con le mani. Un colpo, due, tre. Ora mira ai fianchi, alla schiena. O forse non mira affatto. Colpisce e basta. È rabbia. È una specie di furore. Va via, ma non si ferma. Si sposta e picchia un altro. È già ferito, inerme. Ma lo picchia lo stesso. E poi prosegue. Calci, manganellate ai ragazzi a terra, indifesi, doloranti. Ora lo fermano. I suoi colleghi lo fermano. Tutti gli altri hanno già smesso di picchiare. E deve fermarsi anche Camicia bianca. Ora è finita. Ma io non capisco nulla. Guardo e non capisco. Non piango, non urlo, non dico nulla. Mi hanno come spezzato. Non riesco ad alzare la testa. Qualsiasi movimento mi procura dolore. Ma devo spostarmi. Ora danno gli ordini. Tutti i feriti devono radunarsi vicino all’altro angolo, lungo la parete. Saranno venti metri. Non posso alzarmi, non ce la faccio. Devo trascinarmi per terra fino alla parete. Ecco, ora ci sono. Con la schiena appoggiata alla parete va un po’ meglio. Una ragazza italiana, alla mia destra, mi consiglia di tamponare la ferita all’avambraccio con la maglia che indosso. Impossibile. Non riuscirei mai a toglierla. Tampono alla meglio, con la mano nuda. Attorno molti piangono, altri invocano “Ambulancia, ambulancia”: sono spagnoli. Alcuni poliziotti rovistano fra gli zaini, li svuotano. Uno urla “Eccola, eccola” e mostra ai colleghi una maglietta scura. A noi dicono di stare fermi. Girano fra la gente ferita e piangente e dicono di non muoversi. Qualcuno minaccia: “Nessuno sa che siamo qui, possiamo ammazzarvi tutti”. Io continuo a non capire. Ma voglio uscire di qui. Le ambulanze, dicono, stanno per arrivare. Ore 1.35 circa. Fuori, finalmente fuori. Mi hanno legato a una barella. Il medico mi ha detto che ho le braccia rotte. Che la ferita è profonda: si vede l’osso. L’infermiere mi ha ingessato alla meglio, usando dei cartoni trovati per terra in palestra. Un infermiere spinge la barella a rotelle verso il cancello. Il cortile è pieno di poliziotti. C’è un elicottero che passa sopra la scuola e illumina la scena. Il rumore delle pale è sinistro, spaventoso. Là in fondo si sentono le urla di gente per strada, oltre il cancello e le inferriate. L’infermiere spinge, una ragazza con un braccio al collo corre accanto alla barella, quasi la accompagna. Varchiamo la soglia. Siamo a metà del cortile. Fatico a muovere la testa e ho il viso reclinato sulla mia sinistra. E quelli che fanno? Chi sono? Che ci fanno, vestiti così, in pantaloni e giacca? Che ci fan20

no in mezzo al sangue, alle urla, al fragore delle pale d’elicottero; in mezzo ai poliziotti in divisa, con i manganelli, i caschi celesti e i foulard a coprire il volto? Sono vestiti bene, sembrano tranquilli. Sono a pochi metri da me. Ma neanche la vedono la mia barella. Hanno altro da fare. Uno parla al cellulare. L’infermiere spinge, la barella sfila a fianco dei misteriosi signori in cravatta e si avvicina all’ambulanza, che aspetta in strada. Sono fuori davvero. *** VITTORIO AGNOLETTO

Quartiere Marassi, ore 23.30 circa. “Vittorio?” “Sì? Che succede? Chi sei?” “Vieni subito al Media Center, la polizia, sta arrivando in massa la polizia, fai presto...” Dopo una giornata drammatica trascorsa tra cariche e lacrimogeni, agguati, gente ferita, notizie di persone irrintracciabili e i primi tentativi di ricostruire l’uccisione di Carlo Giuliani, sono da poco giunto a casa di Luca Moro. Resto con la forchetta a mezz’aria, nemmeno riesco ad assaggiare gli spaghetti... Usciamo di corsa, saltiamo in macchina. Luca guida, io ripenso a un paio d’ore fa. Ero in una trasmissione tv e al mio cellulare era arrivata una telefonata allarmata dal Media Center; descrivevano gazzelle di polizia che passavano a tutta velocità per via Cesare Battisti, come per provocare chi stava davanti alla scuola Diaz. Ma poi avevo risentito i compagni e tutto sembrava tornato tranquillo. Maledizione! Un posto di blocco in via Corsica, c’è un gruppo di finanzieri. “Sono Agnoletto, dobbiamo andare immediatamente alla sede del Gsf.” Sono sorpresi, non sanno come reagire, salutiamo e proseguiamo a tutta velocità. Non ci inseguono. Imbocchiamo via Battisti. Posto di blocco dei carabinieri. Non si passa. Scendo e proseguo di corsa. Via Cesare Battisti, ore 24 circa. Mi avvicino al Media Center. Decine, no, centinaia di poliziotti bloccano la strada davanti alla scuola Diaz. Sento gridare: “È arrivato Agnoletto! Vieni, corri, stanno cercando di entrare!”. I compagni mi fanno largo, cerco di proseguire, c’è un muro di divise. “Chi è il responsabile? Chi comanda? Voglio parlare con il vostro responsabile!” urlo in faccia ai poliziotti che ho di fronte. Non rispondono, dicono che non sanno chi comanda. Cerco di farmi strada, spingo. “Voglio vedere l’autorizzazione del magistrato! Dov’è il decreto che autorizza la perquisizione?” Nessuno risponde. 21

Mi raggiunge Luca Moro, è sconvolto: “C’è un ragazzo a terra immobile, là in mezzo ai carabinieri, potrebbe essere morto”. È un attimo. Nella calca perdo i contatti con Luca e non riesco a sapere più nulla di quello che mi ha raccontato. Finalmente appare Mortola, il responsabile della Digos genovese. Gli chiedo di mostrarmi il mandato di perquisizione, mi risponde: “Ok, tra mezz’ora”. La polizia ha sfondato il cancello, è entrata nella scuola Diaz. Grida, urla. Chiamo Andreassi, il vicecapo della polizia, è lui il nostro interlocutore. Gli chiedo di fermare quella follia; cosa stanno facendo? Fermatevi! Mi risponde che hanno le loro buone ragioni per procedere in quell’operazione, stanno cercando delle persone, e poi è stato deciso. Mi fa capire che lui non può fare nulla. Capisco. Non ci sarà un intervento dall’alto a fermare questo massacro. Arrivano le ambulanze, escono i feriti, sulle barelle, scene da film di guerra, sangue, sangue, teste spaccate, occhi chiusi, corpi immobili. Dobbiamo riuscire a entrare. Con il consigliere regionale Nesci e il parlamentare Mantovani superiamo il cancello, siamo sui gradini, stiamo entrando. Spintoni, botte. Siamo scaraventati giù dai gradini e ributtati fuori dal cancello. I tesserini di parlamentare e consigliere regionale, come quello di medico e giornalista, valgono in tutta Italia, ma non a Genova, non in via Battisti, non alla scuola Diaz. Qui sono carta straccia. Ore 1 circa. Entro alla Pascoli, la sede del Gsf. Un disastro, tutto distrutto, per terra, computer, fogli, tutto. Improvvisiamo una conferenza stampa nella palestra. Con me ci sono Raffaella Bolini dell’Arci e Stefano Lenzi del Wwf. Torno fuori. Indignazione, paura, shock. La gente urla: “Assassini”, ma quelli non si fermano. Mi avvicino alle ambulanze, alcuni dei feriti sembrano molto gravi, tra la morte e la vita. Mi ributtano indietro. Esce un sacco, grande, scuro, trasportato orizzontalmente. Un brivido generale. Il pensiero del peggio esplode dentro molti di noi. Cosa c’è dentro? Un morto? Chiediamo, gridiamo, nessuno risponde. Io mi getto nella direzione del sacco, ma vengo rilanciato indietro come fossi una palla. Mortola mi urla: “Irresponsabile”. Io, noi, saremmo gli irresponsabili? E loro cosa sono? Dei “responsabili” giustizieri? Portano via il grande sacco. Resta l’angoscia; non sappiamo che cosa se ne sta andando. Ore 1.20 circa. Con Gigi Malabarba, senatore, tentiamo di raggiungere nuovamente l’entrata. Nulla da fare. Qualcuno mi intervista: hanno detto che si erano feriti ieri o stamattina e la po22

lizia li sta portando in ospedale; è vero? Bugie, bugie, sono solo bugie. Basta guardare il sangue fresco sul corpo dei feriti. Qui, questa notte, non ci sono samaritani in divisa. Me li trovo davanti, vestiti in borghese, distinti, non so chi siano, non li conosco, ma si capisce subito che non sono qui per caso, né per ricevere ordini. Ore 2 circa. Se ne vanno, tutti; facciamo cordone purché spariscano velocemente. Entro. Sangue per terra, sangue sui caloriferi, sangue sui mobili, sangue sulle scale, sangue sui muri. Sangue ovunque. Un ciclone; vestiti sparsi a terra, zaini svuotati, segni della quotidianità umana calpestati, offesi e violentati. Ore 4 circa. È difficile dormire, sono in una stanza da solo. Mi barrico dentro, sposto i mobili. Può succedere di tutto. Non serve a nulla, ma lo spirito di sopravvivenza agisce automaticamente. Mattina presto. Mi arrivano le prime due telefonate. Mi incoraggiano, mi invitano a resistere. La prima è di Alberto Chiara, giornalista di “Famiglia Cristiana”, la seconda di Rosy Bindi. *** ROBERTO SGALLA (portavoce della polizia di stato)

Ore 0.50 circa, via Cesare Battisti, davanti alla scuola Diaz-Pertini. Conferenza stampa con alcuni giornalisti e registi. “No, ragazzi scusate, nessuna ripresa. Se volete ascoltare, ascoltate, io le cose ve le dico, ma vi chiedo di non riprendere. Due cose: prima abbiamo avuto una segnalazione. Secondo: delle volanti stasera, passando qui per un normale controllo del territorio, sono state oggetto di lancio di porfido, quadretti di porfido che abbiamo trovato lì dentro. Siamo entrati, abbiamo fatto una perquisizione, abbiamo fermato dei ragazzi, qualche decina, e adesso procederemo all’identificazione. Sicuramente abbiamo trovato le divise dei neri, divise intere, cioè le camicie, le maglie, i pantaloni e i passamontagna.” FRANCESCO GRATTERI (direttore del Servizio centrale

operativo della polizia di stato) Cortile della scuola Diaz-Pertini, ore 1.45 circa. Rivolto a manifestanti e giornalisti: “Fatemi finire questo lavoro”. Uno do23

manda: “Ma che lavoro è questo?”. Risposta (urlando): “Fatemi finire il lavoro!”. ROBERTO SGALLA

Ore 2.24, intervista radiofonica a Rainews 24. Giornalista: “Dottor Sgalla, le agenzie parlano di almeno quaranta feriti”. “Quaranta è un numero sicuramente esagerato, oltretutto molti si sono feriti nel pomeriggio e non erano andati presso gli ospedali a farsi medicare, in quanto c’era il sangue rappreso e quindi era evidente che le ferite rimontavano a tempi remoti.”

Genova, aula bunker del tribunale 18 maggio 2010, ore 21 circa Il giudice Salvatore Sinagra, presidente della Terza sezione penale della Corte d’appello, legge la sentenza. In aula ci sono gli avvocati difensori e quelli di parte civile, una dozzina di “vittime” dei pestaggi e pochi altri. All’inizio della lettura, fra articoli del codice e sigle legali, non si capisce molto, solo che c’è una sfilza di prescrizioni. Ma questo si sapeva: sono passati nove anni dai fatti. Anni impiegati nella lunga inchiesta e nell’interminabile processo di primo grado. Ma è tempo che non è passato invano. Oggi sappiamo tutto, o quasi tutto, di quel che avvenne la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001 alla scuola Diaz, istituti Pertini e Pascoli, uno di fronte all’altro lungo via Battisti in zona Albaro, quartiere bene della città. Un imputato ha definito quella notte una “macelleria messicana”, guadagnandosi titoli sui giornali e una certa benevolenza fra giudici e giornalisti. È stata la notte dei falsi e delle angherie, la notte della vergogna per la polizia di stato. Decine di persone pestate a sangue e 93 arresti con accuse false, in particolare il possesso di due bottiglie molotov, introdotte nella scuola dagli stessi agenti. Oggi conosciamo anche i “misteriosi signori” in abiti civili che sostavano nel cortile della scuola. Sono gli imputati eccellenti di questo processo: altissimi dirigenti di polizia, “papaveroni” – secondo la definizione di un imputato di rango minore – che tuttora comandano i dipartimenti nazionali di investigazione e di intelligence. Il gotha della polizia di stato, con l’esclusione del capo dei capi, imputato tuttavia in un processo laterale, con la gravissima accusa di avere spinto l’ex questore di Genova a rendere falsa testimonianza.

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Il giudice Sinagra continua a leggere il dispositivo e a un certo punto è come uno shock: “...dichiara Gratteri Francesco e Luperi Giovanni colpevoli del reato loro ascritto al capo A e condanna ciascuno alla pena di anni quattro di reclusione”. È una sferzata. E non sembra vero: Gratteri e Luperi sono altissimi dirigenti di polizia, gli imputati più importanti fra i ventotto sotto processo. Contavano sull’assoluzione, come in primo grado, quand’erano rimasti impigliati nella rete della giustizia solo i funzionari di basso livello. Dal pubblico quel giorno si era levato il grido “Vergogna”. Era il 13 novembre 2008. Oggi è un’altra storia, e sembra un’altra Italia. La Corte d’appello non imita i giudici del tribunale e condanna tutti, a cominciare dall’alto, quindi dal capo dell’Anticrimine Gratteri al dirigente dei Servizi Luperi. C’è poi il direttore del Servizio centrale operativo, Gilberto Caldarozzi, e giù giù primi dirigenti, vicequestori, capi di squadra mobile... Assolto solo un imputato, Michele Burgio, autista di polizia all’epoca dei fatti, oggi semplice vigilante e autentico capro espiatorio nel giudizio di primo grado. Sinagra continua a leggere, snocciola i nomi, gli articoli del codice penale, gli anni di pena e d’interdizione dai pubblici uffici. Elenca i risarcimenti a carico dei condannati e del ministero dell’Interno. Non ha ancora finito di parlare e sul lato sinistro dell’aula bunker, dove siedono le parti civili e i loro avvocati, si incrociano sguardi più sorpresi che felici. Ognuno cerca conferme negli occhi degli altri. Si interpellano sottovoce i legali. Ma è davvero così? Davvero la corte ha osato tanto? È proprio così. Basta osservare le facce attonite degli avvocati difensori degli imputati, all’altro lato dell’aula. Hanno perso il cipiglio tenuto per tutto il processo, quando si scontravano regolarmente con i magistrati dell’accusa, Francesco Cardona Albini e soprattutto Enrico Zucca, il loro incubo. Ma stasera gli avvocati degli imputati non riescono a ostentare alcuna sicurezza. Si scambiano sguardi smarriti, anche loro in cerca di conferme. Davvero abbiamo perso?, sembrano chiedersi l’un l’altro. È proprio così: il giudice Sinagra sta davvero dicendo che la pubblica accusa ha ragione. Sapevamo già che alla scuola Diaz fu compiuta una “macelleria messicana”, preceduta, accompagnata e seguita da una lunga serie di falsi. Ora la Corte d’appello conferma che l’intera operazione fu voluta e coordinata dai dirigenti che parteciparono, quella notte, alla perquisizione più irregolare e sanguinosa che la polizia italiana ricordi. È una sentenza di secondo grado, che deve passare l’esame di legittimità della Cassazione, ma dopo nove anni, centinaia di udienze e una meticolosa ricostruzione dei fatti, dal palazzo di giustizia di Genova parte un messaggio potentissimo. Il 18 maggio 2010 è una data storica per la magistratura ita25

liana, e per la stessa polizia di stato, sia pure per motivi opposti. È una data storica per l’intero paese. Stasera capiamo che il pestaggio del 21 luglio 2001, per quel che è seguito, merita d’essere definito una “macelleria italiana”, perché ha tritato corpi, ma soprattutto leggi e norme morali, regolamenti e princìpi che sono il fondamento della civile convivenza. Da qui dovrebbe cominciare un’opera di ricostruzione.

La notte dei manganelli Alla scuola Diaz, nella notte fra il 21 e il 22 luglio 2001, scorse letteralmente il sangue. Quel sabato d’estate era l’ultima giornata del G8 genovese. Nel pomeriggio la città era stata attraversata dalla manifestazione conclusiva indetta dal Genoa social forum, la rete associativa internazionale promotrice delle contestazioni agli “otto grandi”. Era un corteo molto temuto, almeno ufficialmente, dai responsabili dell’ordine pubblico. Seguiva l’uccisione di un ragazzo di ventitré anni, Carlo Giuliani, colpito a morte da un carabiniere in piazza Alimonda nel pomeriggio precedente. Con la città militarizzata, il corteo si era risolto in un massacro. La polizia aveva caricato l’interminabile serpente formato da trecentomila persone. Era la risposta – secondo le fonti ufficiali – agli atti di vandalismo del cosiddetto Black Bloc: pietre scagliate verso gli agenti, vetrine di banche e negozi spaccate, lancio di bottiglie molotov e così via. Spezzato con la forza il corteo, sul lungomare della città e nelle vie adiacenti era cominciata una specie di caccia all’uomo: poliziotti e finanzieri correvano dietro a questo o quel manifestante, senza alcun criterio percepibile, spesso picchiando persone del tutto indifese. Intanto gli elicotteri lanciavano lacrimogeni, seminando terrore. Dal punto di vista dell’ordine pubblico, un disastro mai visto. Alla fine, sciolta la manifestazione, ecco la notte della Diaz. Una sequenza serrata, nell’arco di poche ore: la perquisizione decisa in questura dopo un sommario sopralluogo, l’assalto poco prima della mezzanotte, il pestaggio sistematico degli ospiti della scuola e infine il loro arresto. Tutti dentro – 93 persone, fra i diciannove e i sessantaquattro anni di età – con le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio, resistenza aggravata a pubblico ufficiale e detenzione abusiva di armi da guerra, ossia due bottiglie molotov. Capi d’accusa gravissimi, punibili con molti anni di reclusione. La notte della Diaz resta indimenticabile: per chi era in via Battisti quella notte; per chi era a Genova o sulla via del ritorno; per chi seguiva tutto da casa via radio e tv. La notizia si diffuse rapidamente in città e nel resto d’Italia: la polizia aveva “assalta26

to la sede del Genoa social forum”. Per chi era dentro la scuola, per i 93 pestati e arrestati dalla polizia di stato, quella notte è molto più che un ricordo.

Tre storie esemplari Prendiamo Arnaldo Cestaro, classe 1939, professione commerciante di rottami, una vita da militante nella sinistra. Sabato sera, finita la manifestazione, era entrato alla Diaz-Pertini su indicazione di una signora incontrata per strada. Cercava un posto tranquillo per passare la notte, e la donna gli aveva consigliato la scuola di via Battisti: sapeva che lì c’era un dormitorio. Arnaldo aveva seguito l’invito. Si era messo vicino al portone d’ingresso, con il suo borsone, una coperta e poco altro. Fu tra i primi a essere investito – letteralmente – dalla furia della forza pubblica. In tribunale ha raccontato così l’irruzione degli agenti: “Sentii un trambusto, un grande rumore e pensai: madonna, sono quelli del Black Bloc. Si aprì la porta e mamma mia, era la polizia, la nostra polizia. Uno alzò le mani, non so perché, forse per i miei capelli bianchi, ma gli altri cominciarono a colpirmi con i manganelli, uno dietro l’altro”. Un paio d’ore dopo Arnaldo arrivò all’ospedale Galliera con fratture a una tibia e a un avambraccio, quest’ultimo operato il giorno seguente. Ma il braccio destro non è mai tornato a posto: un secondo intervento, nel 2006, non è bastato a recuperare la piena funzionalità dell’arto. Melanie Jonasch all’epoca aveva ventotto anni, e fra i 93 ospiti della scuola è forse quella che ricorda meno del pestaggio che subì, perché perse conoscenza. Era al primo piano della scuola e alcuni amici hanno riferito quel che lei non rammenta. Melanie in tribunale ha descritto l’ultima immagine che conserva di quella notte: “Ero proprio di fronte alle scale, con la schiena verso il muro e le mani alzate. L’ultimo ricordo è la polizia che si avvicinava. Soffro di amnesia retroattiva e non ho memoria di altro”. Melanie fu colpita alla testa e presa a calci: crollò a terra. Prima di perdere i sensi tentò di rialzarsi. A quel punto, ha raccontato in aula Kathryn Ottovay, tedesca, ventitreenne all’epoca dei fatti, “fu di nuovo colpita a terra, anche con i piedi. La sua testa picchiò contro lo spigolo di un armadio. Aveva dei tremori al corpo, gli occhi erano aperti, ho pensato non fosse più viva”. Michelangelo Fournier, capo del VII nucleo sperimentale del I reparto mobile di Roma, si trovò sul posto e vide Melanie a terra. Si spaventò e gridò più volte: “Basta,” ordinando agli agenti di fermarsi. Fournier ha raccontato in tribunale che i grumi di sangue vicino alla testa di Melanie sul momento gli parvero ma27

teria cerebrale. Pensò insomma che Melanie fosse sul punto di morire. Melanie aveva in effetti subìto una frattura al cranio, nella zona temporale. Nel racconto di un testimone: “Il poliziotto che aveva gridato ‘basta’ rimase in piedi vicino a Melanie e la toccò con la punta dello stivale. Poiché Melanie non dava evidenti segni di vita, ordinò che venisse chiamata l’ambulanza”. Lunedì 23 luglio riprese conoscenza; da allora soffre di ricorrenti mal di testa. Mark Covell, classe 1967, mediattivista inglese, nickname “Sky”, fu tra i 93 arrestati, ma non era dentro la scuola Diaz-Pertini: le circostanze del suo arresto hanno a che fare con i numerosi falsi compiuti quella notte. Sky uscì dalla Pertini di corsa, appena qualcuno annunciò l’arrivo della polizia, avvistata per strada. Voleva raggiungere la scuola di fronte, intitolata a Giovanni Pascoli, sede del centro stampa e da lì diffondere la notizia dell’irruzione. Fu travolto dagli agenti appena superato il cancello della Diaz-Pertini. Covell ha raccontato così la sua aggressione, in tribunale e in innumerevoli interviste, specie a quotidiani e tv del suo paese: “In strada alla vista degli agenti ho urlato: ‘Stampa, press, giornalista’. Mi hanno gridato in inglese: ‘No, tu sei del Black Bloc e noi ammazzeremo il Black Bloc’. Uno di loro mi ha sbattuto per terra, poi altri agenti hanno cominciato a picchiarmi. Si staccavano dalla fila e mi prendevano a calci. Ridevano e mi sembrava di essere trattato come un pallone da calcio. A quel punto lottavo semplicemente per la mia vita. Dopo qualche minuto un poliziotto si è chinato e mi ha controllato il polso, poi mi ha trascinato via. Sentivo il sangue alla gola, non riuscivo a respirare e pensavo di morire. A un certo punto si è avvicinato un altro poliziotto, mi ha dato dei calci in faccia e i miei denti sono volati da tutte le parti. Poi sono svenuto. Ricordo solo che il pomeriggio del giorno dopo sono stato svegliato da una giornalista del ‘Daily Mail’”. Covell arrivò all’ospedale San Martino segnalato come codice rosso, cioè con parametri vitali compromessi. Rischiò insomma di morire: nella notte, fra gli agenti, si diffuse la voce del suo decesso. Mark si è salvato, nonostante le fratture e il pneumotorace, ma la notte della Diaz gli ha cambiato profondamente la vita: lo shock di quelle ore continua a tormentarlo. In questi anni si è battuto, specie a livello internazionale, per documentare e far conoscere la “macelleria italiana” del 21 luglio 2001, molto nota nel suo paese. Non a caso, l’unico giornalista straniero presente in tribunale alla lettura della sentenza di primo grado era il corrispondente dall’Italia del “Guardian”.

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Cortocircuito Arnaldo, Melanie, Mark: tre casi fra novantatré, uno spaccato di una notte che ha sconvolto l’idea stessa di cittadinanza. Novantatré persone arrestate illegalmente dopo un pestaggio brutale, eseguito senza motivi apparenti. A perquisizione in corso, una signora genovese che poteva osservare il blitz dalla finestra di casa, chiamò il 113 con la voce rotta dall’angoscia: “Stanno attaccando i ragazzi alla scuola Diaz”. L’ingenuità della signora può far sorridere: telefonò in questura per denunciare le violenze della polizia. Forse non aveva identificato gli aggressori come poliziotti, o semplicemente fece il gesto per lei più naturale: chiamare le autorità, chiedere aiuto alla forza pubblica per fermare un’aggressione incomprensibile. Quella telefonata fu come un cortocircuito, mise in contatto due poli opposti, provocando un collasso: da un lato la cittadina genovese, fiduciosa nella polizia come custode di legalità, dall’altro la centralinista, incapace di dare una risposta, già consapevole che lo scempio della Diaz era opera di uomini in divisa. La polizia di stato non ha ancora superato quel collasso. Continua a tacere su quel che accadde quella notte. La mattina del 22 luglio diede questa sconcertante spiegazione ai cittadini (e in qualche modo alla signora abitante in via Battisti): “Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della polizia di stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all’autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All’atto dell’irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini”. È il testo del comunicato consegnato ai giornalisti da Patrizia Bonalumi, capoufficio stampa della questura di Genova, e Roberto Sgalla, portavoce nazionale della polizia, durante un’anomala conferenza stampa, nella quale non fu consentito porre domande. Mentre i cronisti leggevano il testo e scattavano foto al materiale sequestrato nella scuola ed esposto sopra un tavolo, decine di arrestati erano ricoverati in ospedale, almeno due (Mela29

nie e Mark) rischiavano la vita e gli altri già cominciavano a capire che la caserma di polizia nel quartiere Bolzaneto, alla periferia della città, non era un ufficio matricole qualsiasi, sia pure improvvisato, ma un altro luogo maledetto, fuori dalle regole della democrazia. Un luogo di torture.

Tutto falso Oggi sappiamo che il comunicato del 22 luglio 2001 è un condensato di falsificazioni. Falso il singolare esordio – “Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della polizia di stato” – con la tesi dei lanci di pietre e bottiglie offerta come motivazione del successivo blitz. Falso il ritrovamento di armi e “oggetti da offesa”: in realtà banali coltellini da campeggio, stecche in metallo estratte apposta dall’intelaiatura di qualche zaino, mazze e picconi prelevati da un cantiere edile aperto in una sezione della Diaz-Pertini. Falsa la connessione fra gli ospiti della scuola e il Black Bloc: nessuno di loro è stato incolpato di alcunché, nonostante le immediate perquisizioni nelle rispettive abitazioni e le accurate verifiche compiute in seguito dagli investigatori. Falso – ragionevolmente falso – l’episodio della coltellata, messo in discussione da una perizia del Ris dei carabinieri e raccontato in due diverse versioni dall’agente, assolto in primo grado dalle accuse di falso e calunnia, ma condannato in appello. Falsa, falsissima, l’attribuzione ai novantatré ospiti delle due bottiglie molotov. Falsa, ai limiti dell’incredibile, la teoria delle “ferite pregresse”, a fronte di sangue fresco, denti saltati, ossa rotte sul momento, come fu evidente a chiunque si trovò nei pressi di via Battisti nella “notte dei manganelli” (e com’è ampiamente documentato dai referti medici). La catena di falsità, che si è allungata con il verbale d’arresto e durante l’inchiesta e il successivo processo, è stata smascherata grazie all’impegno di un gruppo ristretto di persone: le vittime degli abusi che denunciarono le violenze, testimoniando poi in tribunale; i gip che negarono le convalide degli arresti; i pubblici ministeri incaricati dell’inchiesta, in particolare Enrico Zucca, titolare del fascicolo fin dall’inizio e protagonista, con Francesco Cardona Albini, del dibattimento in aula; i giudici di secondo grado. Questo manipolo di cittadini, a seconda dei ruoli, è riuscito a raccontare, scoprire, affermare la verità dei fatti, lottando per anni contro chi tentava di occultarli, mascherarli o sminuirli. L’ostruzionismo all’inchiesta, la protezione dei responsabili, la legittimazione degli abusi sono stati esercitati ai più alti livelli, nell’ambito della polizia di stato, all’interno della magistratura, nei ministeri, in Parlamento. 30

Minacce, pressioni, omertà non hanno però raggiunto lo scopo di fermare gli accertamenti e oggi siamo arrivati a una verità: il 21 luglio 2001 a Genova i vertici nazionali di polizia, per riscattarsi dalla pessima gestione dell’ordine pubblico, e con l’intento di eseguire un congruo numero di arresti, attuarono alla scuola Diaz – gli istituti Pertini e Pascoli, affidati alla gestione del Genoa social forum – una perquisizione sfociata in un pestaggio sistematico dei presenti, culminato con l’arresto di novantatré persone sulla base di prove false, costruite dalla stessa polizia. Questa versione dei fatti non è contestabile; nemmeno gli imputati osano negarla. I tribunali dello stato, in secondo grado, hanno riconosciuto colpevoli ventisette funzionari e dirigenti di polizia, infliggendo quasi cento anni di reclusione, nonostante molti reati siano caduti in prescrizione. Un unico imputato è stato assolto. L’elenco dei condannati in appello conduce alla ristretta cerchia che guida la polizia di stato da molti anni. Erano dirigenti d’alto rango già nel 2001 e sono ulteriormente saliti di grado negli anni seguenti, nonostante la condizione di imputati in un processo clamoroso, che ha minato la credibilità interna e internazionale della polizia italiana. Parliamo di Francesco Gratteri, all’epoca dei fatti direttore del Servizio centrale operativo, oggi capo della polizia criminale, riconosciuto colpevole di falso ideologico e condannato a quattro anni di reclusione (i reati di calunnia e arresto illegale sono stati dichiarati estinti per prescrizione); di Giovanni Luperi, nel 2001 vicecapo dell’Ucigos (il servizio antiterrorismo), oggi direttore del Dipartimento analisi del servizio segreto civile (Aisi), anche lui colpevole di falso ideologico (calunnia e arresto illegale prescritti) e condannato a quattro anni; di Gilberto Caldarozzi, nel 2001 vice di Gratteri, poi suo successore alla guida dello Sco, al quale i giudici hanno inflitto tre anni e otto mesi di reclusione per gli stessi reati. Tutti e tre, con altri ventidue imputati, sono stati interdetti per cinque anni dai pubblici uffici. Gratteri, Luperi e Caldarozzi sono da lungo tempo stretti collaboratori di Gianni De Gennaro, capo della polizia dal 2000 al 2007, oggi potentissimo direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, ossia coordinatore dei servizi segreti nazionali, un ruolo creato con la riforma del 2007. Nemmeno De Gennaro si è salvato dal ciclone G8. Nel 2001, durante il tragico luglio genovese, “il capo” era rimasto a Roma e non fu coinvolto nelle inchieste avviate dalla procura ligure, ma nel 2007 fu indagato con Spartaco Mortola, già capo della Digos genovese, per induzione alla falsa testimonianza di Francesco Colucci, questore di Genova al tempo del G8 e in questa veste chiamato in aula dai pm Zucca e Cardona Albini. Nel giugno 2010, a breve 31

distanza dai suoi massimi collaboratori, De Gennaro è stato condannato in appello a un anno e quattro mesi, dopo l’assoluzione ottenuta in primo grado. L’altro imputato, Mortola, oggi vicequestore vicario di Torino, ha preso un anno e due mesi, da sommare ai tre anni e otto mesi avuti per la perquisizione in via Cesare Battisti. Con personaggi di questo calibro in ballo, il processo Diaz è stato un violento scontro fra poteri, con forti implicazioni politiche. La magistratura, o meglio una sua parte (e fra molte tensioni interne), ha messo in grave difficoltà il vertice di polizia, che si è difeso con energia, facendo blocco senza alcun fair play istituzionale. Il processo è diventato una sfida estrema, osservata a distanza dal potere politico del momento. Ministri e governi, via via che si alternavano, a prescindere dal colore politico, hanno mantenuto una posizione preconcetta a fianco dei dirigenti sotto processo, tollerandone l’omertà, l’ostruzionismo, la protervia denunciati da pm e giudici. Hanno garantito protezione a tutti e assecondato una catena di improvvide promozioni. Tutto il resto è passato in secondo piano: l’etica democratica e istituzionale, la tutela dei cittadini sottoposti ad abusi arbitrari, il diritto/dovere di garantire la credibilità delle forze di sicurezza.

Un caso ancora aperto Chiusi i dibattimenti, ricostruiti i fatti, raggiunta nei tribunali una convincente attribuzione delle responsabilità operative, morali e alla fine anche penali, il “caso Diaz” non è però chiuso. E la coda del ricorso in Cassazione non c’entra. La Corte potrebbe anche annullare tutto, ordinare la ripetizione del processo, riformare la sentenza per ragioni “di diritto”, com’è sua competenza, ma nulla cambierebbe, perché i fatti restano, così come restano le omissioni. Il caso non è chiuso perché nessuno ai vertici dello stato, in dieci anni, ha chiesto scusa alle vittime degli abusi e ai cittadini tutti. Perché le istituzioni non hanno mai davvero fatto i conti con gli orrori del G8 di Genova: il crollo dello stato di diritto, l’arbitrio che diventa legge, la violenza di stato che segue promesse tacite o esplicite di impunità, vertici delle forze di polizia che lavorano contro la giustizia, un movimento sociale soffocato con la forza. Su questi punti i cittadini hanno diritto a spiegazioni convincenti. E la nostra declinante democrazia ha bisogno di qualcosa in più: una seria operazione di trasparenza, la rimozione dei dirigenti condannati nei processi, una radicale riforma democrati32

ca degli apparati di sicurezza, insomma provvedimenti volti a ripristinare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Passati dieci anni, questo traguardo è più lontano che nel 2001. Nell’estate di quell’anno, la società civile si ribellò agli abusi di polizia, i media raccontarono le violenze degli uomini in divisa, il mondo politico si spaccò e le forze democratiche denunciarono la “notte cilena” alla scuola Diaz, chiesero le dimissioni del ministro degli Interni, invocarono la costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta. Nel 2010 lo scenario è completamente cambiato. Fra maggio e giugno, a ridosso delle sentenze, dal mondo politico sono fioccati i messaggi di solidarietà per i condannati. Il governo ha ribadito che funzionari e dirigenti restano tutti al loro posto in attesa della Cassazione, come se questa potesse cancellare la verità dei fatti e le responsabilità d’ordine morale e professionale. Anche il prefetto De Gennaro è stato confermato nell’incarico: il governo, forse preso alla sprovvista dal verdetto, ha messo in piedi un piccolo teatrino, comunicando – il giorno dopo – di avere ricevuto le dimissioni di De Gennaro e di averle subito respinte, con “vivo apprezzamento e plauso per il lavoro finora svolto” dal prefetto. Sempre in attesa della Cassazione e sempre trascurando la sostanza delle cose. L’opposizione parlamentare ha taciuto e quindi approvato questa condotta. Due parlamentari del Partito democratico, entrambi ex questori, Achille Serra e Pietro De Sena, sono intervenuti per confermare la propria stima per l’ex capo della polizia. I maggiori media si sono accodati alla consegna del silenzio e della minimizzazione: le notizie sulle clamorose condanne non hanno suscitato né approfondimenti né prese di posizione e sono rapidamente sparite dai notiziari e quindi dall’agenda pubblica. Alla fine, pur smascherati nei tribunali, dirigenti impegnati in ruoli delicatissimi restano intangibili. L’impressione è che tengano in scacco le istituzioni democratiche.

È accaduto, può accadere ancora Enrico Zucca ha tenuto testa per nove anni a chi voleva affossare “l’inchiesta sulla polizia”. Si è dimostrato un leale servitore delle istituzioni. Ha portato fino in fondo, con Francesco Cardona Albini, un processo che si può definire “impossibile”, tanto è raro in qualsiasi democrazia che la magistratura prima mandi alla sbarra e poi condanni i vertici di polizia, oltretutto platealmente sostenuti dal potere politico. Alla fine l’impossibile è accaduto. In primo grado il giudizio è stato deludente, per le assoluzioni dei dirigenti, ma nemmeno quel tribunale ha smen33

tito la ricostruzione dei pm e l’enorme gravità dei fatti. Poi il giudice d’appello ha pienamente avallato l’impianto d’accusa e Zucca è il “vincitore” di uno dei processi più scomodi dell’Italia repubblicana. Tuttavia, il magistrato non si nasconde niente. Il suo giudizio, a dibattimenti conclusi, denota grande preoccupazione per l’eredità che la vicenda Diaz consegna al paese. “In definitiva,” dice agli autori di questo libro, “un processo del genere si fa per individuare chi ha sbagliato e fare in modo che non accada mai più niente di simile. Sotto questo punto di vista, il bilancio è negativo, perché vedo tuttora una grossa difficoltà ad ammettere i fatti e riconoscerne la gravità. Non c’è stata una vera assunzione di responsabilità. Su questo punto abbiamo avuto il silenzio totale. Col passare degli anni e nonostante tutti gli elementi di prova via via conosciuti, ci sono state ben poche variazioni dalle posizioni iniziali, dalla tesi delle ferite pregresse. Dopo le condanne in appello, si è detto: ‘Vedremo in Cassazione, lì si farà giustizia’. La verità è che nessuno si è mosso per impedire che fatti del genere si ripetano e ciò a prescindere dall’accertamento delle responsabilità individuali dei singoli imputati, che certo devono essere considerati ancora ‘presunti innocenti’, fino a condanna definitiva.”

Dopo Genova Dopo Genova, insomma, non si è voltato pagina. Le violenze e gli abusi del luglio 2001 hanno lasciato tracce profonde e scorie pericolose. Sul selciato è rimasto il corpo di un ragazzo, la prima vittima in una manifestazione di piazza dal 1977, quando fu uccisa a Roma Giorgiana Masi. Sul delitto di piazza Alimonda non c’è stato alcun processo, ma una semplice archiviazione al termine dell’istruttoria, con la tesi che il carabiniere Mario Placanica sparò in condizioni di legittima difesa e facendo un uso legittimo delle armi. Un proiettile sparato in aria, secondo la conclusione del giudice dell’udienza preliminare, fu deviato da un calcinaccio verso Carlo Giuliani, raggiunto all’altezza di uno zigomo. L’archiviazione ha lasciato più dubbi che certezze, e una serie di quesiti allarmanti, sollevati dalla puntigliosa inchiesta condotta dalla famiglia Giuliani. Il dopo Genova è la scoperta che la tortura appartiene al nostro presente: gli abusi su decine di detenuti nella caserma di Bolzaneto e le condanne inflitte ai quarantaquattro imputati, fra semplici agenti, funzionari e personale sanitario, non sono un incidente di percorso. Il dopo Genova è la sensazione che il potere reale, gli uomini forti del sistema, sfuggano a ogni verifica sotto il profilo etico e 34

professionale, che siano esclusi dai controlli e dagli obblighi tipici di una democrazia. Il dopo Genova è l’espansione dell’indole autoritaria di apparati dello stato che stentano a mettere in pratica i valori costituzionali. Il dopo Genova è anche la necessità di riprendere contatto con una storia bruscamente interrotta: un movimento sociale criminalizzato, le sue idee messe fuori gioco con la forza. Ma non erano idee sbagliate.

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Foto di Samuele Pellecchia Carlini

2. Un altro mondo sembrava possibile

“VOI G8 NOI 6.000.000.000”: lo striscione arancione che accompagna le giornate di Genova è un pezzo di storia della globalizzazione. Campeggia durante i lavori del Public forum, iniziati lunedì 15 luglio, e apre i cortei del fine settimana, aggrediti dalle forze dell’ordine. In quello slogan, che rivendica un’idea di democrazia globale, contrapposta alla pretesa di otto capi di stato di comandare il mondo, si riconoscono decine di migliaia di persone, convenute a Genova per dare corpo alla protesta e nuova linfa alla proposta. È una babele di lingue e un arcobaleno di colori. Un evento politico, culturale, sociale e anche una grande emozione collettiva. Per mesi, in Italia, la preparazione del G8 di Genova ha tenuto banco nel discorso pubblico e lungo le vie informali dell’impegno sociale. E quando il primo corteo si muove, nel pomeriggio di giovedì 19 luglio, è un’autentica esplosione di colori. È il corteo dei migranti, simbolo di un mondo in movimento, ma già sottoposto ai divieti e alle vessazioni di quegli stessi governi che danno lezioni di globalizzazione. Migliaia di persone, venute da decine di paesi, cantano l’uguaglianza e indicano la via dei diritti universali, da riconoscere a tutti e dovunque. E lo fanno in allegria. In quelle ore, “l’altro mondo possibile” sembra in grado di vincere sui professionisti della paura e del profitto. “Lo scenario mondiale in cui ci prepariamo al vertice dei G8 a Genova, è uno scenario pieno di profonde ingiustizie. Il 20 per cento della popolazione mondiale – quella dei paesi a capitalismo avanzato – consuma l’83 per cento delle risorse planetarie; 11 milioni di bambini muoiono ogni anno per denutrizione e 1 miliardo e 300 milioni di persone hanno meno di un dollaro al giorno per vivere. E lo scenario, invece che migliorare, peggiora continuamente. La portata internazionale di questo ver37

tice rappresenta una grande sfida per tutte quelle organizzazioni che da tempo lavorano per affermare – con metodi e priorità differenti – princìpi di giustizia sociale, di solidarietà e di uno sviluppo equo e sostenibile. La sfida deve essere raccolta!” Con queste parole inizia il “Patto di lavoro”, il documento fondativo del movimento contro il G8, al quale aderiscono più di mille organizzazioni: 86 con sede a Genova, 929 di respiro nazionale e 171 internazionali, di quasi 50 paesi sparsi in tutti i continenti. È questo il primo atto ufficiale delle associazioni italiane che si riconoscono nel movimento autodefinitosi “altermondialista” e “antiliberista”. Il “Patto di lavoro” denuncia le ingiustizie e insieme indica la strada dell’impegno: “È necessario costruire un nuovo modo di pensare che sappia rispondere a quei modelli culturali dominanti che – passando per una crescente disgregazione sociale – impongono comportamenti che impediscono anche il solo immaginarsi una società migliore. Un mondo diverso è invece possibile! Questo deve essere il senso della sfida da trasmettere ai cittadini”. Un impegno radicale, ma pacifico e non violento. “Per tutto questo, le organizzazioni firmatarie si impegnano: [...] a rispettare tutte le forme di espressione, di manifestazione e di azioni dirette pacifiche e non violente dichiarate in forma pubblica e trasparente.” Il “Patto di lavoro” è una straordinaria alleanza fra diversi, frutto di un intenso lavoro culturale e politico, sfociato nella nascita del Genoa social forum, la rete di organizzazione che gestisce le manifestazioni organizzate a Genova. In Italia questo movimento affonda le sue radici nella seconda metà degli anni ottanta, quando decine di migliaia di donne e di uomini abbandonano, delusi e bruciati dalle sconfitte, la militanza politica tradizionale. Chi non cerca rifugio nel privato sceglie di proseguire il proprio impegno nel sociale; nascono associazioni di volontariato, cooperative sociali, organizzazioni non governative... Il “fare” diviene il paradigma fondamentale sul quale misurare l’efficacia della propria azione. Si impara a lavorare su progetti mirati, ci si impegna in pratiche concrete di solidarietà. Diventa essenziale il bisogno di sentirsi utili, di essere riconosciuti come operatori di una causa giusta. Alla militanza complessiva si sostituiscono percorsi di crescita e formazione in campi specifici; è la risposta a una forte sfiducia verso la politica tradizionale vissuta come semplice strumento per gestire l’esistente. Questo composito universo di attivisti sociali attraverso gli anni ottanta e novanta matura una nuova consapevolezza: l’approccio settoriale inizia ad apparire necessario ma non più sufficiente rispetto agli obiettivi, anche par38

ziali, della propria militanza sociale. Il lavoro quotidiano su singoli progetti risulta spesso inefficace se non è inserito in un percorso collettivo più ampio. La politica riacquista così la sua centralità, ma è una politica molto diversa da quella sperimentata negli anni sessanta e settanta: l’ideologia non costituisce il cemento delle nuove aggregazioni, l’accento è posto sulle azioni concrete agite nel quotidiano e contemporaneamente sulle grandi questioni epocali e planetarie. Questo processo di aggregazione e di contaminazione tra diversi attori (associazioni di volontariato, Ong, cooperative sociali, botteghe del commercio equo e solidale, finanza etica, centri sociali, comitati territoriali, settori sindacali...) produce un terreno fertile allo sviluppo di una nuova soggettività collettiva: il movimento dei movimenti. Uno spazio nel quale soprattutto molti giovani, senza precedenti esperienze collettive, trovano una casa accogliente e aperta. La pluralità delle esperienze non è costretta all’interno di una scala gerarchica e nessuna componente può rivendicare per sé alcuna rappresentanza esclusiva. Nel Genoa social forum convivono così piccole e grandi organizzazioni, gruppi religiosi e associazioni laiche, sigle sindacali e movimenti ambientalisti, organi d’informazione militante e amministrazioni comunali... Non si era mai visto niente del genere. L’Arci e la chiesa valdese, il Wwf e Legambiente, “Nigrizia” e “Altreconomia”, il Gruppo Abele e la Fiom, Emergency, i centri sociali e il sindacalismo di base, per limitarsi a qualche nome alla rinfusa, si uniscono fra loro e aggregano gruppi e movimenti di tutto il mondo. Qualcuno, all’epoca, aveva già cominciato a parlare di “No global”, ma si trattava davvero, come altri dicevano, di un “movimento dei movimenti”, tanto era grande la varietà dei suoi componenti. Al Gsf aderisce anche Rifondazione comunista. Il segretario Fausto Bertinotti, superando qualche resistenza dentro il partito, colloca con decisione il Prc all’interno del movimento antiliberista e apre un dibattito a Bruxelles nella Gauche Unitaire Européenne (Gue), il gruppo della Sinistra unita europea, ottenendone la partecipazione alle mobilitazioni genovesi. È un salto culturale non indifferente, destinato a innovare, almeno negli anni immediatamente seguenti al G8, la cultura di Rifondazione, allontanandola dalle correnti maggioritarie dell’ortodossia comunista. Nel confronto con il movimento viene superato il dogma della forma partito come detentore esclusivo della rappresentanza politica; viene accettata la pari dignità tra i soggetti di diversa natura che aspirano a contribuire al cambiamento; viene aperto, con molta fatica, un confronto sulla finitezza delle risorse naturali e sui limiti di una crescita infinita come volàno 39

per la trasformazione sociale. Trova ulteriore impulso la questione di genere, anche se fra contraddizioni e limiti. Un confronto serrato si apre anche nelle grandi associazioni cattoliche. Molti gruppi dell’Agesci (Associazione guide e scout cattolici italiani) durante la partecipazione alle giornate genovesi scoprono una modalità feconda per rendere attuale la “scelta politica” contenuta nel proprio Patto associativo, spesso dimenticata nel decennio precedente. Nelle Acli il dibattito è vivace; da una parte la presidenza nazionale di Gigi Bobba sceglie di non aderire al Gsf e organizza, qualche giorno prima del G8, un autonomo confronto pubblico con altre associazioni cattoliche; dall’altra le Acli di diverse province e di grandi città scelgono invece di partecipare alle iniziative del Gsf e molti attivisti saranno tra coloro che il 21 luglio subiranno alcune delle più violente cariche della polizia. Il “Patto di lavoro”, creato da un gruppo di organizzazioni genovesi, si trasforma in Genoa social forum il 27 febbraio 2001. Sceglie subito di non avere segreterie né gerarchie formalizzate, ma un Consiglio dei portavoce, formato da diciotto persone, ciascuna espressione di una specifica area di impegno sociale. Vittorio Agnoletto, presidente della Lila (Lega italiana per la lotta contro l’Aids), è nominato portavoce del Consiglio. Il Gsf si trova a lavorare su più fronti: l’espansione della rete, l’organizzazione delle manifestazioni, i contatti con le istituzioni, il rapporto con i media e con l’opinione pubblica. Oltre, ovviamente, al lavoro politico sullo specifico appuntamento del G8, una sorta di passerella per i leader dei paesi più potenti della Terra sotto il profilo economico e militare. Il Gsf nega ogni legittimità democratica al summit. Nel mondo politico e nei media il movimento viene strumentalmente etichettato come estremista e potenzialmente violento. In una “Lettera aperta ai cittadini genovesi” del gennaio 2001 il Gsf replica con fermezza, rimarcando le proprie ragioni e rigettando il tentativo di criminalizzazione già in corso. “I capi di governo dei sette paesi più ricchi del pianeta, insieme alla Russia,” si legge nella lettera aperta, “si vedranno a Genova a luglio [...] per disegnare alcuni degli scenari futuri del nostro pianeta. [...] Chi gioca a dipingerci come semplici contestatori fa finta di non sapere che in realtà quotidianamente costruiamo azioni e interventi con grande consapevolezza e passione. [...] Genova deve accogliere tutti coloro che vorranno manifestare in modo pacifico, creativo e non violento, per dare un importante segnale in un percorso in cui tutti si possa pensare che un mondo diverso è possibile.”

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Il difficile rapporto con le istituzioni La contestazione al G8 di Genova attira l’attenzione di milioni di italiani e mette in moto energie militanti insospettate. Ma deve lottare contro vistosi tentativi di criminalizzazione preventiva. L’organizzazione del Public forum – convegni, seminari, mostre – e dei cortei è una specie di calvario. Il Gsf già nel gennaio 2001 comincia a chiedere incontri con il prefetto, la provincia, il comune e le autorità di governo, senza ottenere risposta. Il 2 giugno vengono organizzati presidi davanti alle prefetture di tutta Italia. Viene indetto un “telegram day”, con l’invio di sollecitazioni scritte alle autorità. Per mesi si va avanti fra rinvii e mancate risposte, complici anche le elezioni del 13 maggio e il cambio di governo, con la fine della legislatura guidata dal centrosinistra e il ritorno a Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi. Il G8 di Genova, visto dalle stanze del potere, è un evento bipartisan: la scelta della città e la preparazione del summit sono state del centrosinistra; l’ultima fase e la gestione concreta del centrodestra. Fatto sta che il Gsf trova una prima risposta alle sue continue richieste d’incontro solo alla fine di giugno: domenica 24 una delegazione viene ricevuta dal capo della polizia Gianni De Gennaro e dal suo vice Ansoino Andreassi; giovedì 28 dai ministri degli Esteri e degli Interni, Renato Ruggiero e Claudio Scajola (presenti anche De Gennaro e Andreassi). Nei due incontri vengono date ampie rassicurazioni sul libero svolgimento delle manifestazioni di protesta, ma il clima resta teso. Il Gsf teme una ripetizione della violenta e disastrosa gestione della manifestazione di Napoli, nel marzo precedente, quando il corteo organizzato nell’ambito di contestazioni al terzo “Global Forum sull’e-government” dell’Osce, fu caricato in piazza del Municipio, senza lasciare vie d’uscita. Fu un bagno di sangue, concluso con decine di arresti. E nelle ore seguenti ospedali e caserme furono teatro di abusi che si sarebbero in effetti ripetuti, su scala più ampia, fra il 20 e il 22 luglio a Genova. Nella caserma Raniero di Napoli, in particolare, vi fu un’anticipazione dell’inferno di Bolzaneto, con maltrattamenti sui fermati, sfociati in un processo che si è chiuso in primo grado solo nel gennaio 2010, quindi con enorme ritardo e molte imputazioni prescritte. Dieci agenti sono stati comunque condannati per varie forme di soprusi su cittadini arrestati e condotti nella “sala benessere” della caserma Raniero. Fra i condannati di Napoli – due anni e otto mesi per concorso in sequestro di persona – figura un funzionario, Fabio Ciccimarra, attuale capo della squadra mobile di Cosenza, che partecipò al blitz alla Diaz e per questo è stato condannato in secondo grado a tre anni e otto mesi di reclusione per falso ideologico e calunnia. 41

Nel giugno 2001, durante gli incontri istituzionali a Roma, aleggia anche lo spettro delle violenze di polizia di Göteborg. La sera di venerdì 15 giugno, durante un vertice del Consiglio d’Europa, nel quale si discuteva fra l’altro del Protocollo di Kyoto per limitare le emissioni di gas ritenuti responsabili del riscaldamento globale del pianeta, la polizia spara contro i manifestanti, ferendo gravemente un ragazzo di diciannove anni, Hannes Westeberg, rimasto in coma fra la vita e la morte per alcune settimane. Sui media, nel frattempo, monta un clima d’allarme: la preparazione del G8 è seguita con attenzione morbosa, concentrata sul tema dell’ordine pubblico. I quotidiani, quasi senza filtro, pubblicano informative allarmistiche, spesso fantasiose, provenienti dai servizi segreti. Tra le aree organizzate all’interno del Gsf vi sono le cosiddette “Tute bianche”, movimento che raccoglie migliaia di giovani, numerosi centri sociali, i Giovani comunisti di Rifondazione. Il leader più conosciuto è Luca Casarini. Il 26 maggio i portavoce delle Tute bianche lanciano dal Palazzo Ducale di Genova una “Dichiarazione di guerra ai potenti dell’ingiustizia e della miseria”. Il pronunciamento non è stato concordato con gli altri aderenti del Gsf, che lo sconfessano, ma guadagna subito la scena sui media. L’uso, anche solo metaforico, di un linguaggio militare piace molto ai grandi mezzi d’informazione e a una larga parte del mondo politico, perché restituisce un’immagine bellicosa del movimento di protesta e si presta quindi a un uso strumentale, con l’intento di demonizzare e delegittimare la contestazione politica al G8. Il vicepremier Gianfranco Fini, nel clima eccitato della preparazione, arriva a ipotizzare l’utilizzo a Genova “dei reparti speciali delle forze armate, insieme a battaglioni speciali addestrati in comune con le forze dell’ordine”. Nella riunione del 28 giugno, quando arriva il momento di dettare le disposizioni definitive, il ministro Scajola non segue la traccia indicata dal collega di governo di utilizzare i militari, ma contemporaneamente respinge la richiesta del Gsf di impegnare in piazza uomini disarmati. “Le forze dell’ordine italiane,” dice il ministro, “in piazza non sparano, perlomeno finché io sarò ministro degli Interni.” Gli fa eco il prefetto De Gennaro, capo della polizia e responsabile supremo dell’ordine pubblico, affermando che le forze dell’ordine non avrebbero mai sparato sui manifestanti. Oggi sappiamo com’è andata: Carlo Giuliani ucciso da un carabiniere, una ventina di colpi sparati dalle forze dell’ordine durante le manifestazioni, secondo la ricostruzione della sociologa Donatella Della Porta, autrice di una consulenza sulle 42

scelte di ordine pubblico nell’ambito del processo aperto contro venticinque manifestanti. L’unica richiesta informalmente accolta, nel terzo incontro del 30 giugno, è la rinuncia alla cosiddetta “zona gialla”, la vasta area cittadina tracciata intorno all’inaccessibile “zona rossa”, iperprotetto luogo d’incontro delle delegazioni ufficiali. Nel piano iniziale, la “zona gialla” era interdetta a ogni manifestazione. Con questo clima di tensione latente fra Gsf e istituzioni si arriva dunque a luglio, alla vigilia del vertice. Solo il giorno 10 viene consegnato dalle autorità un elenco definitivo degli spazi messi a disposizione del Gsf (stadio Carlini, stadio Sciorba, palestre, campeggi e tendoni collettivi): alcuni vengono consegnati solo fra il 17 e il 19 luglio quando a Genova sono già arrivati migliaia di attivisti per partecipare al Public forum. Gli spazi si riveleranno peraltro insufficienti ad accogliere il grandissimo numero di persone arrivate a Genova. Le giornate di luglio, lo si capisce nell’immediata vigilia, segneranno uno spartiacque nella storia politica e sociale del nostro paese.

I media verso Genova I maggiori mezzi d’informazione non colgono però questo aspetto e sposano con grande energia la strategia della paura, coltivata dai servizi segreti con appositi messaggi, rilanciati a caratteri cubitali con rivelazioni e annunci che pure appaiono assai poco verosimili. “Rapporto dell’Antiterrorismo: all’assalto dei Grandi con fionde, cani e telefonini [...]. Tempeste di messaggi via cellulare, fionde, attacchi con i pit-bull [...] per violare la cittadella del summit potrebbero essere usate piccole barche, canoe, alianti e parapendii,” scrive per esempio il “Corriere della Sera” il 17 luglio 2001. Che queste informazioni non fossero credibili lo ha riconosciuto, a posteriori, lo stesso ex ministro Scajola intervistato per il video Fare un golpe e farla franca (un film di Enrico Deaglio, Beppe Cremagnani e Mario Portanova del 2009, editore Melampo). Ma già nell’agosto 2001, davanti al Comitato parlamentare d’indagine creato dopo il G8, il direttore dell’Ucigos (l’Antiterrorismo) Arnaldo La Barbera ammette che “l’analisi dei dati forniti evidenzia come gli elementi rilevanti sotto il profilo investigativo [...] in grado di produrre una concreta attività operativa, siano stati complessivamente assai rari, comunque non dettagliati e, soprattutto, indistinti tra una moltitudine di informazioni risultate nella maggior parte dei casi prive di qualunque riscontro, all’esito dei numerosissimi controlli all’uopo disposti ed in ordine ai quali la questura di Genova è sempre stata tenuta informata in tempo reale”. 43

Riassumendo: il capo dell’Antiterrorismo dichiara all’indomani di una disastrosa gestione dell’ordine pubblico, che gran parte delle informazioni elaborate dai servizi segreti era falsa e che la questura di Genova ne era informata. Quelle “bufale” compaiono comunque in un’ordinanza firmata il 12 luglio dal questore di Genova Francesco Colucci, con il risultato di aumentare la tensione e la paura tra le stesse forze dell’ordine, sempre più convinte di dover andare in guerra. Trasmesse ai giornalisti, le stesse bufale diventano anche materia prima per una sorta di terrorismo mediatico, del quale le grandi testate portano ancora una responsabilità morale. Basta una breve carrellata di titoli per farsi un’idea della condotta tenuta dai maggiori quotidiani e periodici. “Servizi segreti: SOS sul G8” (“il Secolo XIX”, 17 febbraio); “Prove tecniche di guerriglia: una rete si sta mobilitando contro il vertice. Il cuore della rivolta? In Francia e in Germania. Ma anche nel Nord-Est italiano” (intervista a Franco Frattini su “Panorama” dell’8 marzo); “Il Sisde: un piano contro il G8. I terroristi del Nipr rivolgono al popolo di Seattle un appello ad abbandonare le forme di antagonismo per passare alla lotta armata” (articolo su “Stampa Nord Ovest” del 13 aprile, nel quale viene tirata in ballo una misteriosa e sconosciuta sigla, il Nipr); “Allarme dei servizi: guerriglia antiG8 con sangue infetto – I servizi segreti lanciano l’allarme sul G8 di Genova: si temono azioni con ‘armi non convenzionali’” (“Corriere della Sera”, 20 maggio); “Assalto al G8 anche con gli alianti. Il movimento anarchico ha chiamato a raccolta” (“Il Giornale”, 5 giugno); “Il terrorismo targato Seattle dilaga in Europa” (“Libero”, 13 giugno). Il 23 giugno “la Repubblica” titola: “Agenti come scudi umani”. Occhiello: “Secondo l’intelligence italiana l’ala militare dei contestatori preparerebbe il sequestro di poliziotti. L’allarme shock del Sisde. Il documento: Presi di mira gli appartenenti alla polizia che dovessero per errore restare isolati”. Il 2 luglio il “Corriere della Sera” annuncia: “G8, gli hacker attaccano un ministero italiano. Il piano di sicurezza dovrà essere riscritto”. Il giorno dopo, un articolo firmato da Fiorenza Sarzanini informa di “perquisizioni in 30.000 case genovesi per trovare armi e droga [...] si sta effettuando lo screening su tutti i nomi per individuare chi ha avuto guai con la giustizia e soprattutto se ci sono persone che potrebbero fornire basi logistiche ai contestatori. Il rischio è che le intenzioni dei contestatori non siano affatto buone”. Il 10 luglio il “Corriere” alza il tiro: “Allarme per 2000 irriducibili pronti a tutto”; è del 12 luglio l’annuncio della risposta da parte delle istituzioni: “15.000 uomini per la sicurezza. Tra loro anche specialisti della guerra nbc, ovvero nucleare-batteriologica-chimica. Una batteria missilistica”. 44

Il 14 luglio “La Stampa” annuncia divieti e provvedimenti con grande enfasi: “Sospesa la libera circolazione, chiuse le stazioni di Genova Principe e Brignole dal 18 al 21 luglio. Ripristinati i controlli agli aeroporti. Nel porto di Genova divieto di navigazione e pure di nuotata”. All’origine di tanto allarmismo non vi sono solo le informative dei servizi, ma un preciso lavoro politico. Un caso su tutti: le dichiarazioni di Franco Frattini rilasciate a metà febbraio 2001 a un convegno a Priverno (Latina), immediatamente rilanciate il 17 febbraio dai quotidiani “La Stampa”, “Corriere della Sera”, “Il Secolo XIX”. Frattini, particolarmente autorevole in quanto presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, parla di “una regia di attacco, una rete internazionale per azioni di disturbo e probabilmente aggressioni” da tenere durante il G8 di Genova. Il parlamentare di Forza Italia – e futuro ministro – chiede quindi di “prevenire e recidere i collegamenti internazionali” ed evoca nientemeno che “i rischi di terrorismo islamico fondamentalista [...] perché sono sempre più numerose le conversioni di occidentali che mantengono il loro lavoro e la loro identità, ma sposano una causa che spesso può portare all’accettazione di azioni violente”. Fra esplicite richieste di interventi repressivi e assurdi allarmi a mezzo stampa, si arriva a comunicare l’avvenuto invio a Genova di centinaia di sacchi per cadaveri e l’allestimento di una speciale camera mortuaria all’ospedale San Martino, mentre viene sospesa la libera circolazione delle persone prevista dal Trattato di Schengen, con la simultanea chiusura dello spazio aereo sopra la città di Genova e l’installazione di una batteria antimissili. Tutte notizie che contribuiscono a creare ulteriore tensione e paura, senza tuttavia frenare la grande spinta popolare che avrebbe portato a Genova decine di migliaia di persone decise a proporre una nuova visione del mondo.

Alle radici del movimento Ma qual è l’origine di un movimento così temuto da indurre l’establishment a una criminalizzazione preventiva? E perché il percorso di preparazione delle contestazioni al G8 è tanto coinvolgente per associazioni, reti di attivisti, organizzazioni non governative? Come si è riusciti a risvegliare la voglia di impegnarsi in tanti semplici cittadini, dopo anni di disillusione politica? Per trovare le prime risposte, è necessario compiere un passo indietro nel tempo. “Uno studio sull’argomento, di Giulio Girardi,” spiega agli autori José Luiz Del Roio, del Consiglio interna45

zionale del Forum sociale mondiale, “ne colloca i primordi nella campagna contro le celebrazioni e la glorificazione dei cinquecento anni della cosiddetta scoperta dell’America del 1992. È stato il primo movimento a denunciare la nuova globalizzazione neoliberista. È nato allora il movimento ‘500 anni di resistenza india, nera e popolare’. L’epicentro delle glorificazioni e della resistenza è stata Genova.” La tappa successiva implica uno spostamento, sulla superficie di un ideale mappamondo, in direzione del Messico. “Quello che per voi costituisce un grande successo, l’accesso del Messico al primo mondo, costituisce per noi una sentenza di morte”: è il 1° gennaio del 1994 e inizia la sollevazione del movimento zapatista. Con queste parole le popolazioni del Chiapas si rivolgono alle autorità messicane proprio il giorno dell’entrata in vigore del Nafta (North American Free Trade Agreement), il trattato di libero commercio tra gli Stati Uniti, il Canada e il Messico. Da una foresta inaccessibile una piccola comunità indigena lancia la sfida alla globalizzazione liberista. Sui media emerge la figura del “subcomandante” Marcos, il volto celato da un passamontagna, una retorica fiammeggiante, un uso sapiente delle nuove tecnologie informatiche. Dalle inaccessibili foreste del Chiapas, il movimento indigeno parla al mondo e mette in discussione, con buoni argomenti, i nuovi assetti di potere nell’economia globalizzata. La lotta per la sopravvivenza delle comunità indigene del Sud-Est messicano diventa così un esempio da seguire per tutti coloro che si rifiutano di accettare la subordinazione dei propri diritti, della propria cultura e delle proprie condizioni di vita alle feroci regole del profitto e alla dittatura incontrastata del mercato. Quello che a distratti osservatori può apparire come un ultimo e arretrato sussulto di una lotta contro le molteplici forme della colonizzazione, rappresenta invece un ponte tra la storia dell’Otto-Novecento e il nuovo millennio. La capacità di connettere un conflitto locale con un linguaggio globale, di legare vertenze con obiettivi precisi e definiti nel tempo e nei luoghi a campagne internazionali con messaggi universali, diventerà ben presto una delle caratteristiche del movimento antiliberista in tutto il mondo. La vasta adesione che il movimento altermondialista riesce a raccogliere fin dall’inizio nel mondo cristiano non è casuale: “Importante è stata la sensibilizzazione svolta dal papa in occasione del Giubileo del 2000,” osserva José Luiz Del Roio. “Già tre anni prima, legata al tema del Giubileo, si era sviluppata la campagna contro il debito estero dei paesi poveri. Tutto ciò non avvenne per caso; il Giubileo si lega alla festa ebraica dell’Antico Testamento in cui ogni cinquant’anni erano perdonati tutti i debiti, pratica trasmessa identica nel Padre nostro: ‘Rimetti a noi i nostri debi46

ti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Questa impostazione del Giubileo mobilitò il mondo cattolico e ne portò settori consistenti verso la lotta contro la globalizzazione.” Fra la sollevazione zapatista del ’94 e Genova 2001 c’è un fitto calendario di azioni e mobilitazioni. Dal 15 al 17 maggio 1998 oltre 40.000 persone contestano a Birmingham il G7-G8, l’incontro dei paesi più industrializzati del pianeta; nel maggio 1998 a Ginevra viene contestato il vertice della Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio; nel giugno 1999, a Colonia, 35.000 manifestanti circondano pacificamente, con una catena umana sotto gli occhi di oltre 12.000 poliziotti, l’ennesimo appuntamento del G7-G8. Ma è alla fine di novembre, in una città nel Nord-Ovest degli Stati Uniti, che il movimento globale fa la sua clamorosa apparizione sui media di tutto il mondo. “People before profit” (le persone prima del profitto) è la scritta che appare il 30 novembre 1999 nel cielo di Seattle su uno striscione trascinato da un aereo da turismo, mentre decine di migliaia di manifestanti organizzano una contestazione che coglie del tutto impreparate le istituzioni. Il vertice della Wto viene interrotto per il sit-in che impedisce l’accesso dei delegati ai luoghi di riunione e per gli scontri di piazza, che inducono la polizia a dichiarare il coprifuoco. Per i media di tutto il mondo nasce ufficialmente il “popolo di Seattle”. Nella città della Boeing, della Microsoft e di Starbucks, i movimenti del nuovo millennio, composti soprattutto da giovani studenti e precari, da organizzazioni non governative e da network internazionali provenienti da ogni angolo della Terra, trovano al loro fianco i lavoratori del principale sindacato statunitense, l’AflCio, uno dei simboli delle lotte novecentesche del movimento operaio organizzato. È l’inizio di una nuova fase della politica e dell’impegno civile. Poche settimane dopo le manifestazioni di Seattle, ecco Davos, cittadina svizzera, sede a fine gennaio dell’annuale incontro del World Economic Forum, il Forum economico mondiale, che riunisce i rappresentanti di poco meno di un migliaio di multinazionali insieme con banchieri, operatori finanziari e rappresentanti dei principali governi. Centocinquanta organizzazioni provenienti da trentanove paesi, tra cui l’Italia, organizzano “Public Eye on Davos” (L’occhio pubblico su Davos), una serie di incontri, convegni e conferenze pubbliche. Comincia in quei giorni la lettura distorta del movimento da parte dei media. A Seattle gli scontri con la polizia non avevano condizionato la comprensione del movimento e delle sue ragio47

ni. Si era anzi rimarcata la natura globale e del tutto inedita della contestazione: era l’effetto sorpresa. A Davos la rottura delle vetrine dell’unico McDonald’s presente nella cittadina diventa invece la notizia principale per i numerosi giornalisti presenti, che ignorano gli incontri organizzati dal movimento e le proposte che ne scaturiscono. Interviene perfino un piccolo contingente dell’esercito svizzero. Comincia la criminalizzazione del movimento. Il 16 aprile 2000 a Washington si riuniscono insieme i vertici della Banca mondiale (Bm) e del Fondo monetario internazionale (Fmi); 15.000 manifestanti contestano i “piani di aggiustamento strutturale” che rappresentano lo strumento principale attraverso il quale le due istituzioni economiche internazionali concedono crediti ai paesi più poveri. I “piani” vincolano l’accesso al credito a forti tagli ai servizi sanitari pubblici, all’istruzione e alle politiche sociali; presentati come misure per il risanamento delle economie in difficoltà, producono un aumento delle sperequazioni sociali e della povertà. L’Fbi infiltra numerosi agenti fra i manifestanti, intervengono 1500 poliziotti in assetto antisommossa, con lacrimogeni e idranti, vengono arrestate circa 1000 persone. Dal 24 al 26 maggio dello stesso anno si svolge a Genova “Tebio”, la fiera internazionale delle biotecnologie. “Mobilitebio” è il coordinamento che raccoglie le associazioni che contestano l’evento. Al centro vi è la richiesta del rispetto del “principio di precauzione”, fatto proprio dalle Nazioni Unite, secondo il quale un prodotto non può essere posto in commercio se prima non si dimostra che è assolutamente innocuo: l’onere della prova spetta al produttore, che deve dimostrare l’assenza di rischi per gli esseri umani e per l’ambiente. Lo scontro riguarda anche la richiesta delle multinazionali di brevettare la materia vivente e di estendere la “proprietà intellettuale” su geni, piante e animali ottenuti con manipolazioni genetiche. Il mercato delle sementi è al centro dello scontro: vaste masse di contadini rischiano di dipendere da poche multinazionali per la fornitura di sementi geneticamente modificate. “L’eliminazione della proprietà diffusa delle sementi, concentrata nelle mani di poche imprese transnazionali, segna un punto di svolta nella storia dell’agricoltura. L’omogeneizzazione dei mercati da parte di queste imprese sta facendo declinare la competitività delle colture tradizionali ed esaurendo i patrimoni ecosistemici locali,” scrive Jeremy Rifkin nel suo libro L’era dell’accesso (Mondadori, 2000). Rifkin è uno dei riferimenti culturali del nascente movimento, parte di quella società civile globale fatta di economisti, sociologi, filosofi, fisici, intellettuali di differente formazione e competenza che affiancheranno il popolo di Seattle nel suo percorso. Anche la politica istituzionale comincia ad accorgersi delle 48

potenzialità del movimento: il ritiro del patrocinio concesso dal ministro italiano delle Politiche agricole a Tebio ne è un timido ma significativo segnale. Il 21-22 luglio 2000 a Okinawa, in Giappone, si svolge il vertice del G8. I manifestanti chiedono la cancellazione del debito che strangola i paesi poveri, spesso costretti a utilizzare gli aiuti internazionali e a tagliare le spese sociali per pagare unicamente gli interessi di un debito destinato quindi a non esaurirsi mai. Un debito spesso formatosi per responsabilità di regimi dittatoriali con la complicità economica e commerciale dei paesi del G8, per esempio attraverso la vendita di armi e di tecnologia militare. Per la prima volta i potenti del mondo ricevono un rappresentante della società civile globale, Ann Pettifor della campagna Jubilee 2000; ma non ne consegue alcun risultato concreto. Anzi cresce la polemica e l’indignazione esplode quando si viene a sapere che l’organizzazione del vertice del G8 è costata 766 milioni di dollari. Ormai non c’è summit delle istituzioni economiche finanziarie globali che non sia accompagnato da una forte contestazione, in qualunque parte del mondo i potenti decidano di migrare per i loro incontri. Da Melbourne, dove si riunisce il World Economic Forum, a Praga, sede fra il 22 e il 28 settembre 2000 del summit annuale della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. È durante quest’ultimo appuntamento che comincia a svilupparsi un vero e proprio movimento europeo con attivisti di tutto il continente. Dall’Italia parte il “Global Action Express”, un treno speciale con circa mille attivisti che viene fermato a Horní Dvořiště, la stazione di frontiera tra l’Austria e la Repubblica Ceca. Qui si sviluppa un lungo braccio di ferro tra la polizia ceca, che vuole vietare l’ingresso e respingere in territorio austriaco alcuni dei manifestanti segnalati su una lista nera (probabilmente per la sola ragione di aver partecipato ad altre manifestazioni), e gli attivisti che circondano i vagoni per impedire alla polizia di prelevare gli indesiderati. Dopo un’intera giornata di tensione il treno riparte, ma 21 persone vengono riaccompagnate in Austria. Il 23 settembre, su iniziativa fra gli altri del presidente ceco Václav Havel, si svolge il primo confronto pubblico tra una rappresentanza del movimento globale e i vertici della Bm e del Fmi. Vi partecipano Walden Bello, direttore di Focus on the Global South, Ann Pettifor di Jubilee 2000 e Katrina Linskova per le Ong della Repubblica Ceca; in mezzo Mary Robinson, alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani, il finanziere George Soros e Trevor Manuel, ministro delle Finanze del Sudafrica; dall’altra parte della barricata siedono Horst Kohler, direttore del Fmi, James Wolfensohn, presidente della Bm. Il confronto è molto duro, Walden Bello accusa Fmi e Bm di aver sostenuto eco49

nomicamente, e anzi di aver garantito condizioni preferenziali a governi corrotti che calpestano i diritti umani come la dittatura militare brasiliana, il presidente Marcos nelle Filippine, il generale Pinochet in Cile e Suharto in Indonesia. La reazione di Wolfensohn non è delle più tranquille e le richieste degli attivisti non ottengono alcuna risposta. Ma ormai il movimento ha imposto la sua presenza sulla scena internazionale ed è diventato un interlocutore del quale tutti i soggetti economici e istituzionali dovranno tenere conto. A Praga si rende esplicita anche l’articolazione del movimento: vi è il blocco “rosa”, composto da artisti di strada, che cerca di avvicinarsi alla sede del vertice con canti, pupazzi, striscioni e con un carro armato di cartone che spara fiori, il blocco “giallo”, che pratica la disobbedienza civile, e il blocco “blu”, nelle cui file vi è una presenza di persone con abiti neri che si scontrano con le forze dell’ordine. Il bilancio presentato da Amnesty International è di circa 850 arrestati. I delegati del vertice, dopo essere rimasti bloccati tutta la giornata nel palazzo del congresso, decidono di anticipare di un giorno la chiusura dell’incontro. La sera del 27 gli attivisti festeggiano in piazza.

La svolta di Porto Alegre Un altro cambio di marcia ha per teatro una città nel Sud-Est del Brasile. È il gennaio del 2001. Mentre a Davos si riunisce ancora il World Economic Forum, oltre sedicimila persone partecipano (dal 25 al 30 del mese) al primo Forum sociale mondiale (Fsm) di Porto Alegre. La capitale del Rio Grande do Sul è scelta per la particolare esperienza di democrazia diretta, realizzata da dodici anni, conosciuta come “Bilancio partecipativo”: la popolazione dei vari quartieri, durante incontri pubblici organizzati dall’amministrazione, sceglie gli interventi infrastrutturali e sociali prioritari, nei quali investire una parte del bilancio comunale. Esperienze simili sono realizzate in diverse città brasiliane, ma Porto Alegre è quella più importante per le dimensioni (circa 1,4 milioni di abitanti) e per il suo peso politico: è amministrata dal Pt, il nuovo Partito dei lavoratori formatosi attorno alla figura di Luiz Inácio da Silva, detto Lula. “Un altro mondo è possibile” è lo slogan che unisce delegati di 137 paesi. La componente italiana è tra le più numerose. Sono circa cinquecento gli incontri organizzati dal Forum e i seminari autogestiti proposti dalle organizzazioni giunte a Porto Alegre. Il Forum è una straordinaria esperienza di formazione e diventa rapidamente il punto d’incontro dei movimenti sociali di tutto il mondo (vi partecipano anche i sindacati internazionali, quelli europei e la Caritas internazionale), nonché l’ambito di ela50

borazione del pensiero antiliberista destinato a influire fortemente anche sulle scelte di molti governi latinoamericani. Già nel 2001 a Porto Alegre emerge un’analisi precisa del disastro sociale, economico e ambientale verso il quale il pianeta sta precipitando a causa delle scelte compiute dalle élite internazionali. In un testo quasi profetico Walden Bello, analizzando la crisi dei paesi dell’Estremo Oriente, le cosiddette “Tigri asiatiche”, nella seconda metà degli anni novanta, preannuncia con tragica lucidità la futura crisi economica mondiale. L’unica alternativa possibile è proprio il drastico cambio di rotta indicato dai sedicimila attivisti riunitisi in Brasile. Ma l’élite economicofinanziaria e politica dominante proseguirà imperterrita nel suo percorso; i risultati saranno a tutti chiari qualche anno dopo, quando sarà troppo tardi per evitare il disastro. Negli stessi giorni a Porto Alegre si svolge anche il Forum parlamentare mondiale con 440 parlamentari (nessun italiano): il confronto ha come obiettivo la trasposizione nei parlamenti delle proposte elaborate dai movimenti, per esempio la Tobin Tax, la tassazione delle transazioni finanziarie speculative, che pochi anni dopo verrà bocciata per un solo voto nel Parlamento europeo. Durante i giorni del Forum il Movimento dei Sem Terra, con José Bové, leader della francese Confédération Paysanne, distrugge due ettari di soia transgenica in un latifondo della multinazionale Monsanto: è un atto fortemente simbolico, esito di anni di impegno e mobilitazione sul terreno dell’agrobusiness, dove si confrontano due inconciliabili visioni dell’agricoltura, dell’ambiente, della vita stessa sulla Terra. Nel documento conclusivo del Forum sociale la mobilitazione in vista del G8 genovese è assunta come uno degli appuntamenti di tutto il movimento altermondialista. Alla conclusione del Forum viene anche elaborata la “Carta dei princìpi di Porto Alegre” che da quel momento rappresenterà il punto di riferimento di tutto il movimento internazionale. Nei primi articoli vengono definite le caratteristiche e gli obiettivi del Fsm, concepito come “uno spazio aperto di incontro per la riflessione, il dibattito democratico di idee, la formulazione di proposte, il libero scambio di esperienze e il coordinamento per l’azione di gruppi e movimenti nella società civile che si oppongono al neoliberismo, alla dominazione del mondo da parte del capitale, a ogni forma di imperialismo, e che sono impegnati a costruire una società planetaria finalizzata a relazioni fruttuose fra gli esseri umani e fra gli esseri umani e la Terra”. “Le alternative proposte nel Fsm sono in opposizione al processo di globalizzazione diretto dalle grandi corporazioni multinazionali, [...] e dalle istituzioni internazionali che sono al servi51

zio degli interessi di queste corporazioni, con la complicità dei governi nazionali. Le alternative sono pensate per assicurare che la globalizzazione solidale prevalga come nuova fase della storia del mondo, nel rispetto dei diritti umani universali [...] e dell’ambiente, fondata su un sistema internazionale democratico e su istituzioni al servizio della giustizia sociale e dell’uguaglianza e della sovranità dei popoli.” Nella seconda parte la Carta definisce le caratteristiche del Forum sottolineandone il carattere democratico, non autoritario e la scelta pacifica e non violenta. “Il Forum non intende essere una sede per dispute di potere tra i partecipanti. [...] Né organizzazioni di partito, né organizzazioni militari parteciperanno al Forum. [...] Il Fsm cerca di aumentare [...] la resistenza sociale non violenta al processo di disumanizzazione del mondo e alla violenza usata dagli stati.” La Carta propone una dimensione universale fondata sulla “cittadinanza planetaria”. Appare evidente quanto sia poco appropriata, per un movimento con queste caratteristiche, la denominazione “No global” attribuitagli dai media internazionali.

Le parole di Genova “Questo è il primo movimento di massa nella storia che non sta chiedendo assolutamente niente per se stesso, ma vuole semplicemente giustizia per il mondo intero.” Con queste parole Susan George, del Transantional Institute con sede ad Amsterdam, apre il suo intervento nella sessione inaugurale del Public forum. È il pomeriggio del 16 luglio 2001, siamo poco distanti dalla “zona rossa”, nella palestra della scuola Diaz, in via Cesare Battisti. È una giornata importante per il movimento, che comincia a proporre la sua visione del mondo e a esporre le ragioni che spingono a contestare il vertice G8. Ma è un’altra notizia a occupare lo spazio pubblico. Poco lontano da via Battisti, alle 10.30 del mattino un pacco bomba esplode tra le mani del carabiniere ausiliario Stefano Torri in forza alla caserma di San Fruttuoso, ferendolo a un occhio e alle mani. Una finta bomba viene rinvenuta poco dopo nell’area del Porto Antico, vicino ai Magazzini del cotone, e in serata un ordigno incendiario a orologeria viene trovato sotto un camper davanti allo stadio Carlini, centro di accoglienza dove sono concentrati gli attivisti delle Tute bianche. Il Public forum organizzato dal Gsf tuttavia prosegue: la tensione aleggia ma non condiziona le sessioni di lavoro quotidiane, in programma fino a domenica 22 luglio, con oltre 200 relatori (una cinquantina provenienti dal Sud del mondo). Per la prima volta sono presenti contemporaneamente nella stessa città i leader dei principali movimenti sociali di tutto il 52

mondo. La critica alla globalizzazione liberista da Porto Alegre rimbalza quindi a Genova e si sviluppa a trecentosessanta gradi: i rapporti Nord/Sud; la divaricazione sempre maggiore tra il 10 per cento più ricco e il 10 per cento più povero del pianeta; la critica alla finanziarizzazione dell’economia; la salute tra diritti e profitti; i limiti allo sfruttamento delle risorse energetiche; la critica a uno sviluppo centrato sulla crescita infinita e sull’aumento esponenziale dei consumi; la proposta del commercio equosolidale e del consumo critico; la cancellazione del debito; la Tobin Tax e la lotta ai paradisi fiscali; l’impegno per la pace, l’opposizione alle guerre e alle spese militari; l’affermazione dei beni comuni quali l’acqua e la terra; la solidarietà con i migranti simbolo del nuovo secolo che si sta aprendo... Il movimento sente sulle proprie spalle il peso di una responsabilità collettiva. “Noi del popolo abbiamo il diritto di sollevarci, noi del popolo abbiamo il diritto di ribellarci, noi del popolo abbiamo il diritto di essere disobbedienti. Ma abbiamo anche l’obbligo di crescere insieme, l’obbligo di non tagliarci fuori da soli, l’obbligo di aspettare quelli che ancora non sono cresciuti, l’obbligo di progredire insieme, e non avanzare da soli. C’è da aspettare il tempo necessario, ma quando arriverà il momento giusto, tutti insieme partiremo,” spiega Hebe de Bonafini, delle Madres de Plaza de Mayo di Buenos Aires. I media non sono preparati a confrontarsi con questi contenuti; non conoscono la storia dei movimenti sociali e dei loro protagonisti. Le principali testate giornalistiche italiane hanno inviato a Genova i cronisti di nera e i redattori più giovani, incaricati di preparare pezzi che le redazioni considerano “di colore”, senza un particolare spessore politico e culturale. Il livello della discussione e della proposta è invece molto alto, molto serio e tocca questioni di fondo. Lo slogan “Voi G8 noi 6 miliardi” rappresenta efficacemente la critica a un sistema che svuota i processi democratici interni ai singoli stati e concentra il potere nelle grandi aziende multinazionali. “Un uomo sconfitto dal voto popolare, ma sostenuto dai poteri delle lobby finanziarie ed economiche è diventato presidente degli Stati Uniti,” afferma Walden Bello, riferendosi alle contestate modalità e ai brogli che hanno accompagnato l’elezione di George Bush nel novembre del 2000. Di fronte alla pretesa di otto capi di stato di arrogarsi il diritto di decidere i destini di tutta l’umanità, la critica di Marco Revelli, professore all’Università di Alessandria, propone taglienti paragoni storici: “Il G8 mi ricorda gli incontri dei sovrani in decadenza alla fine dell’Ottocento, che ostentavano i loro privilegi e potevano ancora far impiccare qualche dissidente, ma non erano più in grado di controllare il mondo”. 53

All’orizzonte, non inclusi nel G8, vi sono alcuni grandi paesi le cui economie sono destinate a svolgere un ruolo sempre più importante nel mondo, ma vi sono soprattutto grandi movimenti sociali in forte crescita, capaci di costruire network internazionali, consapevoli del destino comune dell’umanità e dell’irresponsabile corsa verso il baratro dovuta alle politiche delle istituzioni sovranazionali liberiste, prime tra tutte l’Organizzazione mondiale del commercio, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. “La Wto parla dei poveri pensando ai ricchi,” spiega Yannis Dragassakis dell’organizzazione greca Synaspismos. “Chiediamo la Tobin Tax, la tassa sulle transazioni finanziarie estere. Chiediamo di tassare tutte quelle transazioni che sono soltanto un gioco finanziario sulle valute, soldi che non produrranno mai posti di lavoro ma soltanto altri soldi (per gli speculatori).” La proposta, rilanciata a Genova da Pamela Foster, della canadese Halifax Initiative, elaborata in prima battuta dall’economista James Tobin, premio Nobel nel 1981, è da tempo un cavallo di battaglia del movimento internazionale. La richiesta di adesione al Protocollo di Kyoto per la salvaguardia del pianeta passa attraverso precise e circostanziate analisi che uniscono il livello globale a quello locale. “La mancanza di un corpus normativo omogeneo e vincolante, che definisca parametri e standard socio-ambientali universalmente applicabili da tutte le agenzie di credito all’esportazione, ha permesso finora alle imprese di partecipare a una corsa al ribasso dei costi sociali e ambientali,” denuncia Antonio Tricarico, della Campagna per la riforma della Banca mondiale. L’indonesiano Titi Soentoro, dell’associazione Solidaritas Perempuan, fornisce immediatamente un esempio concreto: “Nell’isola di Sumatra, in Indonesia, una famiglia composta da papà, mamma e tre figli vive vicino a un fiume. Il capofamiglia fa il traghettatore, pesca e vende pesci. Vicino alla loro casa si installa una cartiera, una grande fabbrica sostenuta dalla Sace, l’agenzia italiana per il credito all’esportazione. La vita cambia. Il pesce scompare, la verdura non si può più mangiare, l’aria comincia a puzzare, l’acqua provoca strane malattie. Il capofamiglia è costretto ad abbandonare la pesca, si dedica a tagliare alberi nella foresta per venderli alla cartiera. Per lui è l’unico modo di sopravvivere, per la foresta significa una rapida condanna a morte”. Il rifiuto della brevettabilità di parti di esseri viventi e la difesa dei beni essenziali e naturali, contro il tentativo di brevettare piante e semi, sono parte integrante delle lotte dei movimenti riunitisi a Genova. “L’India ha molte piante medicinali naturali. Nel 2000 il governo ha adeguato la legge sui brevetti in base alle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio. Qual è il risultato? Che il prezzo delle medicine essenziali è au54

mentato di cinque volte, e 27.000 piccoli produttori sono falliti,” racconta Katashivananda Avt, missionario indiano della Proutist Universal. La critica alle strategie della Fao nella lotta alla fame nel mondo si affianca alla contestazione del ruolo svolto dall’Organizzazione mondiale del commercio: “Le regole della Wto garantiscono a lungo termine l’insicurezza alimentare. [...] La grande piazza globale del mercato agricolo ha prezzi determinati dall’interesse di pochi: Usa, Europa e qualche paese collegato come Canada e Nuova Zelanda. Noi chiediamo la soppressione totale delle sovvenzioni alle esportazioni fatte dall’Unione europea,” rilancia José Bové, della Confédération Paysanne. Lucia Marina dos Santos, del Movimento dei Sem Terra, affronta il tema della proprietà della terra descrivendo la situazione del Brasile, dove “quasi la metà delle terre coltivabili è nelle mani dell’1 per cento della popolazione. Nel Nord-Est, oltre alla concentrazione della proprietà della terra c’è anche la concentrazione in poche mani del controllo dell’acqua, che aggrava siccità e miseria”. È qui, tra Porto Alegre e Genova, che nasce la consapevolezza di terra e acqua come beni comuni. “Nel mondo 1 miliardo e 400 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile. Il dominio sull’acqua rischia di provocare innumerevoli conflitti territoriali, rovinose battaglie economiche e industriali. Bisogna impedire la petrolizzazione dell’acqua. Non è giustificabile considerare l’acqua come fonte di profitto,” quasi profetizza Riccardo Petrella del Cipsi (Coordinamento di iniziative popolari di solidarietà internazionale). In queste parole pronunciate al Public forum di Genova affondano le radici di battaglie che hanno poi caratterizzato le lotte dei movimenti in tutto il mondo, compresa nel 2010 la raccolta di oltre 1,4 milioni di firme per ottenere in Italia un referendum in difesa dell’acqua pubblica. La dura critica alla Wto si concretizza in numerosi interventi in opposizione alla revisione degli accordi Gats (gli accordi sul commercio dei servizi) finalizzati a ottenere l’inserimento della scuola e della sanità fra i beni disponibili sul mercato a disposizione delle multinazionali. “Dobbiamo tornare a parlare di diritto alla salute, non solo di profitto sulla salute. Nel mondo 14 milioni di persone muoiono ogni anno di malattie curabili con farmaci a cui non hanno accesso,” spiega Nicoletta Dentico, di Medici senza frontiere, alla quale fanno subito eco le parole di don Luigi Ciotti, del Gruppo Abele: “Mi ricordo trent’anni fa, quando ci dissero che alla fine del Novecento non ci sarebbero più state malattie. L’Organizzazione mondiale della sanità aveva annunciato al mondo il suo im55

pegno a debellare entro la fine del millennio tre malattie: la malaria, la tubercolosi e la malattia del sonno. Ci avevamo creduto. C’erano i farmaci, era stata dichiarata pubblicamente la volontà politica. Ma era un’illusione. Il millennio è finito e l’anno scorso sono morti milioni di persone per la malaria, la tubercolosi e la malattia del sonno”. Alla denuncia delle ingiustizie e delle tragedie seguono spesso proposte precise e qualche volta l’illustrazione dei risultati raggiunti, anche se a caro prezzo: “Nel 1997,” racconta Vittorio Agnoletto della Lila, “il governo di Nelson Mandela in Sudafrica ha deciso di rompere il monopolio delle multinazionali farmaceutiche e di autorizzare la produzione di farmaci contro l’Aids. Il governo è stato citato in giudizio da Big Pharma per aver violato la legge internazionale sui brevetti. In seguito alla mobilitazione delle associazioni in tutto il mondo, il 18 aprile 2001 nella città di Pretoria le multinazionali si sono dovute ritirare dal processo accettando la nuova legge sui farmaci. È stata la prima vittoria del movimento. Una vittoria bella ma amara. Dall’autunno 1997 al 18 aprile 2001, in Sudafrica sono morti 400.000 malati di Aids”. La consapevolezza dell’assoluta inaffidabilità del Pil, utile solo per misurare la ricchezza acquisita dalle classi dirigenti locali, lascia spazio alla proposta di nuovi indicatori per misurare la qualità di vita. La campagna per la cancellazione del debito che vede tra i protagonisti molti missionari giunti a Genova da tutto il mondo, avanza una proposta precisa: l’insediamento di un tribunale internazionale con il compito di indagare la correttezza e la legittimità dei percorsi storici che stanno alla base della formazione del debito stesso. “È necessario creare un organismo internazionale che possa affrontare giuridicamente gli illeciti sociali. Il nuovo tribunale dovrebbe giudicare tutti gli illeciti internazionali commessi dal liberismo,” propone Joaquim Palhares, di Attac Brasile; mentre Becky Lozato, dell’associazione filippina Jubilee South, illustra le conseguenze dirette del debito sul suo paese: “La catena del debito sta strangolando il nostro paese e molti altri del Sud del pianeta. Molti dei soldi prestati sono andati esclusivamente nelle tasche del nostro dittatore. Per esempio è un debito illegittimo quello contratto con il governo italiano per l’acquisto di elicotteri militari. Per soddisfare le condizioni di pagamento del debito abbiamo dovuto privatizzare tantissime delle nostre aziende pubbliche a partire dall’acqua e dall’elettricità”. La critica al sistema globale non può rimanere confinata nelle grandi battaglie da condurre sulla scena internazionale, ma richiede un coinvolgimento di tutti, in prima persona, a partire dalla propria quotidianità. Sono molti i relatori che illustrano la necessità di modificare quantità e qualità dei consumi in questa parte del mondo, di potenziare le reti del commercio equosoli56

dale, di praticare il consumo critico. Tra questi Francesco Gesualdi, del Centro nuovo modello di sviluppo: “Entrate in un supermercato e guardate quanto costano le banane che vengono da 5000 chilometri di distanza: costano meno delle mele che vengono dal Trentino. Perché? Semplice: se andate a guardare come si lavora nelle piantagioni di banane o di ananas capirete, ci sono salari che fanno rabbrividire. Il mondo non può essere una foto di grassoni di 120 chili da un lato e dall’altro uomini magri come stessero in campi di sterminio. I magri non potranno recuperare peso, se i grassi non accetteranno di sottoporsi a una drastica cura dimagrante”. Non sfugge a nessuno che una riduzione e una modifica dei consumi non può prescindere da una redistribuzione delle ricchezze; cresce l’evidenza che nel ricco emisfero nord-occidentale molti sono i “Sud”, tante sono le regioni segnate da un forte aumento della povertà e della disoccupazione. La globalizzazione rende sempre più invisibile, difficile da identificare e lontano il potere economico e finanziario; la concentrazione dei capitali, la costruzione dei cartelli monopolistici e degli oligopoli producono un attacco alle condizioni di vita dei lavoratori, mettono in discussione i contratti collettivi e le conquiste ottenute con decenni di lotte, moltiplicano le forme contrattuali producendo una profonda frantumazione sociale, come spiega Giorgio Cremaschi della Fiom-Cgil intervenendo alla sessione del Forum dedicata al lavoro, anzi ai lavori. “Il padrone,” dice Cremaschi, “si comporta come Jessica Rabbit: ‘Non sono cattiva, sono loro che mi disegnano così!’. Il padrone fa la stessa cosa: ‘Non sono io così, è la globalizzazione che mi costringe a fare così!’. La globalizzazione mette in concorrenza i lavoratori gli uni contro gli altri, organizza una sorta di asta mondiale al ribasso.” L’impegno contro le fabbriche d’armi e le spese militari è uno dei temi cardine del movimento; il no alla guerra uno dei princìpi fondanti nella Carta di Porto Alegre. I conflitti nei Balcani sono recenti, molti dei partecipanti alle giornate genovesi hanno preso parte alle iniziative pacifiste, alle missioni di pace, ai progetti di aiuto e cooperazione nella ex Jugoslavia. E ancora fresca è la ferita provocata dalla partecipazione del governo italiano di centrosinistra alla guerra e ai bombardamenti in Kosovo. Le parole pronunciate da Giulio Marcon dell’Ics, il Consorzio italiano di solidarietà, sono quindi ben comprensibili e fortemente condivise da un uditorio attento ad ascoltare e a prendere appunti: “Chi risponderà delle efferatezze avvenute durante l’intervento della Nato in Kosovo? Le bombe dell’alleanza hanno colpito scuole, treni, ospedali; sono morte persone innocenti, ma mai nessuno andrà al Tribunale internazionale dell’Aia per rispondere di 57

questo, nessun capo della Nato, nessun presidente degli Usa sarà mai chiamato davanti a quel tribunale. [...] Nessuno parla di ingerenza umanitaria a Tel Aviv o ad Ankara. [...] Il ministro della Difesa Antonio Martino ha battezzato a Genova una seconda portaerei, che costerà 4000 miliardi: uno schiaffo alla povertà”. Di tutto questo i media ufficiali, tranne rarissime eccezioni, non parlano; l’attenzione è tutta rivolta in un’altra direzione. “I mezzi d’informazione si sono trasformati in uno strumento di violenza che ha ignorato le mille anime e le mille voci di questo Forum, regalando le prime pagine a chi si nasconde dietro la violenza delle bombe. Togliete il microfono ai ricchi, ai potenti, ai bombaroli, e unitevi a noi per rivelare che il re è finalmente nudo,” Carlo Gubitosa, attivista di Peacelink lancia così un appello che rimarrà inascoltato. Durante il Public forum vengono chiaramente indicate le questioni che saranno al centro della scena all’inizio del nuovo millennio: i migranti, vero paradigma della durezza e della crudeltà della globalizzazione liberista; la guerra, come strumento di controllo di risorse energetiche sempre più scarse e come mezzo ancestrale, ma terribilmente attuale, per ridistribuire le ricchezze e per stabilire chi abbia diritto ad abitare questo pianeta. Il Public forum del 2001 emerge quindi, dieci anni dopo, come uno straordinario momento di elaborazione politica. Ma in quei giorni, mentre seminari e dibattiti danno corpo alle proposte del movimento, in città si susseguono gli allarmi e le notizie di attentati autentici o temuti, con un’ampia ricaduta sulla popolazione e soprattutto sui media. Nella giornata del 17 luglio arriva una busta al sindaco di Genova con un messaggio di morte e due proiettili per Vittorio Agnoletto e Luca Casarini. Nella notte fra il 17 e il 18 sono innalzate barriere di cinque metri di altezza attorno alla zona rossa. Il 18 vengono recapitate buste esplosive agli studi del Tg4 a Milano e alla Benetton a Treviso. Il 19 arriva da Ancona la notizia che 150 cittadini greci intenzionati a raggiungere Genova sono stati reimbarcati con la forza da una carica della polizia ed espulsi in massa, mentre un’altra nave con 200 passeggeri viene bloccata fuori del porto. Paura e tensione sono la cifra, almeno sui media, del G8 genovese. Giovedì 19 luglio è tuttavia il giorno della grande manifestazione per i diritti dei migranti e dei rifugiati: superando tutte le previsioni dello stesso Gsf, vi partecipano circa 50.000 persone provenienti da tutta Europa. Sono persone che rappresentano uno snodo cruciale per le democrazie dei paesi più ricchi, sottoposte alla tentazione di negare il diritto a muoversi e a scegliere il luogo in cui vivere, e quindi a negare un principio universale di libertà. Del resto Oronto Douglas, a suo tempo legale di Ken Saro-Wiwa, lo scrittore condannato a morte nel 1995 per aver so58

stenuto la battaglia del popolo ogoni contro il disastro ambientale provocato dalla Shell nel Delta del Niger, viene fermato in Olanda sulla via di Genova alla vigilia del Forum, perché sprovvisto del denaro necessario – all’epoca 500.000 lire – per ottenere il visto d’ingresso in Europa. Il denaro viene raccolto grazie a una colletta a Genova. “C’è una lezione che ho imparato dal mio fermo alla frontiera olandese,” dice Douglas durante il Public forum, “essere poveri è un crimine che può costare la galera.” Le immagini di quel corteo dei migranti restano fra le più belle e più profetiche del G8 genovese.

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Foto di Niccolò Lanfranchi

3. Processo alla polizia

La politica si tira indietro La definizione più cogente delle giornate di Genova 2001, fra le tante scritte e ascoltate in questi anni, si deve ad Amnesty International, la più nota organizzazione di tutela dei diritti umani, premio Nobel per la pace nel 1977. Nel luglio 2002, quindi a un anno di distanza dagli avvenimenti, Amnesty sintetizza il risultato della sua inchiesta su Genova G8: “Nel luglio 2001 vi è stata in Italia una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia più recente”. E ancora: “Le giornate del 20 e 21 luglio sono state contrassegnate da attacchi indiscriminati, sistematici e gratuiti ai manifestanti pacifici. Si tratta della più vasta e cruenta repressione di massa della storia europea recente”. L’anno prima, Amnesty International aveva chiesto al governo italiano l’immediata istituzione di una commissione di inchiesta internazionale, cui affidare il compito di raccogliere documenti e denunce e indagare sulle responsabilità. Ma la richiesta di Amnesty era caduta nel vuoto. Ebbe la stessa sorte la proposta, avanzata dalle opposizioni di centrosinistra, di istituire una commissione d’inchiesta in seno al Parlamento italiano. Secondo la maggioranza non ve n’era bisogno. Unica concessione, sulla spinta delle pressioni sia interne sia internazionali, fu l’avvio di una semplice indagine conoscitiva, a opera di un comitato parlamentare formato ad hoc. Il comitato d’indagine è cosa ben diversa da una commissione d’inchiesta: alla seconda sono riconosciuti gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria, il primo può solo svolgere libere audizioni, quindi prive del vincolo per i testimoni di dire la verità, pena l’incriminazione per falsa testimonianza. Il Comitato d’indagine lavorò nei 61

I PROCESSI DI GENOVA IRRUZIONE ALLA DIAZ

Sono imputati 29 agenti, funzionari e dirigenti della polizia di stato. In primo grado (13 novembre 2008) sono condannati 13 imputati. Fra i 16 assolti, tutti i maggiori dirigenti finiti sotto inchiesta. La Corte d’appello, il 18 maggio 2010, condanna 25 imputati dei 28 arrivati in appello, per altri 2 dichiara la prescrizione, un unico imputato è pienamente assolto. Molti reati, anche a carico di 25 condannati, cadono per prescrizione. Tra i condannati ci sono tutti i dirigenti di grado elevato. BOLZANETO

Gli imputati per i maltrattamenti sui detenuti nella casermacarcere sono 45, fra carabinieri, poliziotti, agenti di custodia e personale sanitario. In primo grado 15 imputati sono condannati, per un totale di 23 anni di pena. Gli altri 30 sono assolti. In secondo grado, il 5 marzo 2010, tutti i 44 imputati sono considerati responsabili civilmente per i reati contestati e obbligati a risarcire le vittime, mentre sul piano penale scatta per quasi tutti la prescrizione, tranne 7 imputati, condannati a pene comprese fra uno e tre anni. MANIFESTANTI

Gli imputati sono 25, accusati di devastazione e saccheggio. In primo grado (14 dicembre 2007), 24 imputati sono condannati a complessivi 110 anni di carcere. L’accusa di devastazione e saccheggio è confermata per 10 di loro. Un’unica imputata è assolta. In appello, il 9 ottobre 2009, sono confermate le 10 condanne per devastazione e saccheggio con un aumento delle pene (in tutto 98 anni). Per i rimanenti imputati in alcuni casi arriva l’assoluzione, negli altri scatta la prescrizione. - MORTOLA Gianni De Gennaro e Spartaco Mortola sono imputati per induzione alla falsa testimonianza nel processo Diaz dell’ex questore di Genova Francesco Colucci. In primo grado sono entrambi assolti; in appello De Gennaro è condannato a un anno e quattro mesi, Mortola a un anno e due mesi. DE GENNARO

Tutti e quattro i processi sono tuttora pendenti in Cassazione. 62

mesi di agosto e settembre 2001. Il materiale raccolto in quella sede non ha avuto valore processuale, ma si è rivelato importante sotto il profilo conoscitivo: per molti dirigenti di polizia è stato l’unico momento di pubblica spiegazione dei propri comportamenti; per altri è stato il preludio alle incriminazioni giudiziarie. Riletti con il senno di poi, gli atti del Comitato parlamentare segnarono l’avvio di una strategia che non è mai venuta meno: il rifiuto, da parte dei vertici di polizia, di assumersi una responsabilità diretta per il fallimento della gestione dell’ordine pubblico durante il G8 e per gli innumerevoli abusi che già nell’agosto 2001 era impossibile negare. Il 20 settembre il Comitato approvò con i voti della maggioranza di centrodestra un “Documento conclusivo” nel quale si legge, fra l’altro, che il vertice G8 ha “conseguito tutti gli obiettivi prefissati sia sotto l’aspetto dei contenuti, sia sotto l’aspetto logistico amministrativo, sia sotto quello della sicurezza e tutela dell’ordine pubblico”. Per la maggioranza parlamentare, il caso – aperto con grande riluttanza – era dunque già chiuso, fatte salve le prerogative della magistratura. Le opposizioni approvarono due diverse relazioni, una del centrosinistra, l’altra di Rifondazione comunista. Pur con significative differenze fra loro, i due testi rimarcavano l’abnormità degli abusi e ribadivano la richiesta di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta, al fine di accertare le responsabilità politiche e della catena di comando per le violazioni dei diritti costituzionali. L’idea della commissione, negli anni seguenti al G8, è stata un chiodo fisso delle opposizioni, fino a entrare nel programma elettorale che nel 2006 porta Romano Prodi a Palazzo Chigi, alla guida della coalizione denominata Unione. Il progetto non resta una mera affermazione di principio e affronta il primo voto in Parlamento nell’ottobre 2007, nella Commissione affari costituzionali della Camera. Al momento di premere il tasto, due parlamentari della maggioranza (uno dell’Udeur, l’altro dell’Italia dei Valori) votano però contro e tre non si presentano in aula (un altro dell’Idv e due della Rosa nel pugno), mentre il presidente della Commissione, Luciano Violante, sceglie di astenersi, asserendo che così esige la prassi istituzionale. Finisce 22 a 22 e il pareggio, in Parlamento, equivale a un no. La nascita della commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del G8 di Genova è così affossata definitivamente. Ma nel 2007, a ben vedere, è solo confermata una scelta compiuta dall’intero sistema politico fin dal 2001: la delega alla magistratura di fare i conti con la “parentesi” di illegalità costituzionale avvenuta nel luglio genovese. La “cruenta repressione di massa”, per riprendere l’espressione di Amnesty International, con i suoi molteplici risvolti istituzionali, culturali e politici, non 63

ha mai occupato una posizione centrale nell’agenda e nell’azione delle forze politiche italiane. Né allora né oggi. La stessa coalizione di centrosinistra, una volta al governo nel periodo 20062008, non ha mostrato di voler cambiare indirizzo rispetto alle scelte istituzionali compiute nel 2001: le promozioni dei dirigenti imputati non sono cessate, la fiducia nel capo della polizia non è venuta meno, le scuse ai cittadini vittime degli abusi non ci sono state.

Supplenti per forza I processi imbastiti contro le forze dell’ordine, in particolare il processo Diaz, hanno portato alla sbarra il vertice della polizia di stato: un evento inedito nella storia dell’Italia repubblicana e per sua natura esplosivo. Nella nostra, come in altre democrazie, è rarissimo che la magistratura arrivi a mettere sotto processo e condannare i massimi responsabili – in piena carica – delle forze di sicurezza. La storia giudiziaria italiana è oltretutto piena di insabbiamenti, depistaggi, mancate inchieste ogni volta che poteri o apparati dello stato sono stati chiamati in causa per fatti particolarmente gravi. Siamo il paese che ha dovuto istituire una commissione parlamentare sulle stragi, per provare a gettare un fascio di luce – senza peraltro ottenere alcun risultato – su una catena di episodi sanguinosi che ne hanno punteggiato la storia recente. A Genova la magistratura è invece riuscita a scavare in profondità, superando ostacoli e boicottaggi, ma si è fermata, com’è suo compito, alle responsabilità penali e personali. Se non vi è stato alcun approfondimento delle responsabilità politiche e amministrative, è perché il potere politico, fin dall’inizio, ha compiuto una scelta precisa, ossia la rinuncia a schierarsi dalla parte dei cittadini vessati e umiliati, dalla parte della piena legalità costituzionale. Si è preferito proteggere gli apparati in quanto tali, a prescindere dai fatti. Il ministro degli Interni Claudio Scajola e il capo della polizia Gianni De Gennaro non hanno mai nemmeno ipotizzato le proprie dimissioni. I dirigenti finiti sotto inchiesta non sono stati rimossi né sospesi, anche di fronte ai rinvii a giudizio e alle successive sentenze di secondo grado. Le conferme, e in molti casi le promozioni, degli imputati con ruoli di comando, si sono trasformate in forti pressioni sui magistrati inquirenti e sui giudici, intaccando gravemente la dignità delle istituzioni, piegate a interessi parziali e riconducibili a un numero ristretto di potenti personaggi. In verità, a caldo, ossia il 2 agosto 2001, all’indomani di un appello al rigore del presidente della Repubblica Carlo Azeglio 64

Ciampi, furono decisi alcuni spostamenti. Il questore di Genova, Francesco Colucci, fu rimosso; Ansoino Andreassi, vicecapo vicario della polizia, fu destinato ad “altri incarichi” nell’ambito dei servizi segreti, come Arnaldo La Barbera, capo dell’Antiterrorismo e “inviato speciale” a Genova di Gianni De Gennaro nella giornata di sabato 21 luglio. Si trattò, tuttavia, di un intervento assolutamente parziale e soprattutto ambiguo. Colucci, durante il G8 e in modo particolare nell’operazione Diaz, ebbe un ruolo del tutto marginale, perché soppiantato dai dirigenti di rango nazionale. Andreassi, il dirigente di grado più alto presente in città, era stato di fatto esautorato con la “svolta” del 21 luglio, di cui diremo, e non partecipò al blitz alla Diaz. Oltretutto Andreassi, a rimozione avvenuta, scoprì che il suo allontanamento dal ruolo di numero due della polizia datava 1° luglio 2001, senza che né lui né altri ne fossero informati. Arnaldo La Barbera (scomparso nel 2002) partecipò solo al blitz alla Diaz, a fianco di dirigenti presenti a Genova da giorni. All’estromissione dei tre funzionari non corrispose quindi, da parte dei vertici amministrativi e politici, un’autentica assunzione di responsabilità, che avrebbe richiesto ben altri provvedimenti e ben altri interventi pubblici. Livio Pepino, all’epoca presidente di Magistratura democratica e autore, nel settembre 2001, di un tempestivo e acuminato saggio – ancora attuale – sulla risposta istituzionale e giudiziaria ai fatti del G8, fece notare nel suo scritto che la rimozione di Colucci, Andreassi e La Barbera fu una “decapitazione della polizia, opportuna (alla luce di quanto accaduto nelle scuole Pertini e Diaz) ma prossima a una sorta di rimozione dei problemi a mezzo di ‘capri espiatori’. Se, infatti, quella dei funzionari accantonati era una responsabilità politica è difficile comprendere come abbiano potuto restare al loro posto il capo della polizia e il ministro dell’Interno [...]; se poi era una responsabilità operativa non è dato comprendere perché la stessa sorte non sia toccata ad altri funzionari”. Proveremo nei capitoli successivi a dare una risposta a quest’ultimo quesito, intanto va messo a fuoco il difficilissimo contesto che si presentò alla procura di Genova nei giorni successivi al G8. Si trattava di indagare sull’uccisione di un ragazzo, di valutare le innumerevoli denunce di maltrattamenti e vessazioni subite da cittadini pacifici per strada e nei luoghi di prigionia, di vagliare gli esiti, molto dubbi, del blitz alla Diaz e infine di considerare gli aspetti giudiziari delle azioni di vandalismo e distruzione attuate da gruppi di manifestanti nelle giornate del 20 e 21 luglio. Le implicazioni politiche erano molteplici e imbarazzanti. La gestione dell’ordine pubblico era stata un fallimento, ma il go65

verno negava quest’evidenza. Un ragazzo era stato ucciso da un carabiniere, nell’ambito di manifestazioni non armate, e ancora prima che fosse possibile ricostruire fatti e circostanze dell’omicidio, il vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini, durante una puntata del programma Porta a porta in onda da Genova, aveva qualificato come “legittima difesa” il colpo di pistola che aveva raggiunto al volto Carlo Giuliani. La perquisizione alla scuola Diaz, incredibilmente conclusa con decine di feriti (alcuni anche gravi) e l’arresto di 93 supposti appartenenti al Black Bloc, aveva visto la partecipazione – assolutamente insolita – dei massimi dirigenti nazionali di polizia. La procura doveva dunque affrontare una materia incandescente. L’uccisione di Carlo Giuliani era il caso certamente più grave, per la morte assurda di un ragazzo, ma la vicenda Diaz era la più delicata sotto il profilo politico. Nel primo caso, la “soluzione” era già stata individuata, politicamente parlando, con la teoria della legittima difesa e l’uso di una fotografia, in realtà ingannatrice, che mostrava Carlo Giuliani, nel gesto di lanciare un estintore, vicinissimo al mezzo dei carabinieri dal quale era partito il colpo. Giuliani, si sarebbe saputo poi, si trovava in realtà a oltre tre metri dalla camionetta militare, e da quella distanza è difficile pensare all’eventuale lancio dell’estintore come possibile minaccia per la vita dei carabinieri chiusi nella jeep. Ma la prima immagine, con le distanze falsate da un potente teleobiettivo, è quella che ha fatto opinione, accreditando l’idea del colpo sparato in un contesto di grave pericolo, a fronte di un attacco alle forze dell’ordine da parte di manifestanti violenti. L’omicidio di piazza Alimonda è l’evento simbolo delle tragiche giornate di Genova, ma non ha mai destato grande preoccupazione nel potere politico e nella stessa Arma dei carabinieri, che non hanno avvertito, su questo punto, una vera pressione politica o il dito puntato da parte dell’opinione pubblica. L’archiviazione dell’inchiesta, senza processo, ha messo il sigillo formale a un’archiviazione già maturata nel mondo politico e dei media. Ben diverso il caso Diaz. Troppe anomalie nella perquisizione, troppo sangue e soprattutto un elenco di personaggi impegnati nel blitz da allarme rosso. Era impossibile, anche a caldo, nelle ore immediatamente successive all’irruzione, non pensare al capo della polizia, al ministro dell’Interno, insomma a un caso politicamente esplosivo.

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Questo processo non s’ha da fare Operazioni anomale Il processo Diaz ha segnato profondamente la storia recente della magistratura e delle forze di polizia e al tempo stesso ha offerto ai cittadini un irripetibile spaccato del potere, delle sue dinamiche e dei suoi variabili equilibri. Col senno di poi, possiamo dire che la magistratura, o almeno una sua parte, è riuscita a sopportare l’asprezza dello scontro e ad adempiere – fra molti sbandamenti – i propri compiti istituzionali. La polizia si è invece sentita sotto attacco e ha scelto la via dell’arroccamento anziché la strada della trasparenza. Ha trovato sponde nel mondo politico e comprensione e tutela in quello giudiziario. Ha platealmente ostacolato le inchieste, con un impressionante “gioco di squadra” gestito dall’alto, ottenendo alla fine qualche soddisfazione (le assoluzioni dei “papaveroni” in primo grado), perdendo però la faccia e anche i principali processi. Ma se questi sono i risultati, occorre fare un passo indietro e tornare all’estate del 2001, quando l’inchiesta sulla “macelleria messicana” rischiò seriamente di non partire nemmeno. La procura – l’ufficio che promuove l’azione penale – in vista del G8 aveva creato un piccolo pool di magistrati, incaricati di affrontare le prevedibili emergenze. Informative ufficiali parlavano di centinaia di probabili arresti fra i manifestanti. La procura aveva assicurato la massima collaborazione alle forze dell’ordine, chiedendo però di descrivere bene, nei verbali d’arresto, le circostanze dei fermi e di eventuali sequestri di armi e altri oggetti. Per agevolare le operazioni di identificazione e smistamento nelle carceri, il procuratore capo era arrivato a stabilire per decreto il differimento dei colloqui fra i fermati e i rispettivi avvocati (un provvedimento che a posteriori si è rivelato nefasto, perché ha reso più agevoli i maltrattamenti nei luoghi di detenzione). Nei giorni caldi delle manifestazioni, un magistrato del pool G8 era sempre reperibile, anche in orario notturno, a un numero di cellulare riservato, noto solo alle forze dell’ordine. Ma è un numero che nessuno ha mai chiamato. Le relazioni dirette fra funzionari di polizia e magistrati, quando vi furono, seguirono altre vie, altri numeri di telefono, assumendo spesso il carattere di contatti informali, quasi confidenziali. Un episodio su tutti: siamo nel pomeriggio di giovedì 19 luglio. Avvengono i primi arresti. Gli occupanti di un furgone, di nazionalità tedesca, sono fermati sulla base di una norma concepita per contrastare il contrabbando, punendo chi altera i mezzi di trasporto, corazzandoli. Gli arrestati sono anche accusati di 67

possedere e trasportare armi improprie: in sostanza sono identificati come una sorta di formazione di combattimento (il giudice però non convaliderà gli arresti e scoprirà che il mezzo non era stato alterato, ma regolarmente acquistato dalle Poste tedesche che lo avevano dismesso). L’arresto avviene nel primo pomeriggio e un tg Mediaset ne dà notizia a metà giornata, senza che il magistrato di turno per le emergenze G8 ne sia stato informato. Il magistrato, irritato, se ne lamenta con il procuratore capo Francesco Meloni, facendo notare che a dispetto degli accordi era mancato il contatto tempestivo con l’autorità giudiziaria, evidentemente non considerato come priorità dalle forze di polizia. Valutazione azzeccata, visto che la stessa condotta si ripeterà in altre occasioni, compresa la notte dell’irruzione alla Diaz, quando i contatti fra polizia e magistratura sono assai poco limpidi. Il magistrato di turno quel sabato è Francesco Pinto, che viene a sapere del blitz notturno dalle telefonate di giornalisti e avvocati: “Nessuno mi chiamò al numero di cellulare riservato alle forze dell’ordine,” ricorda oggi Pinto. Il blitz alla Diaz, sotto il profilo tecnico, è una perquisizione eseguita in base all’articolo 41 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulps): è la fattispecie che consente alla polizia giudiziaria di procedere alla perquisizione senza la preventiva autorizzazione di un magistrato. La condizione è che vi sia il fondato sospetto che nel luogo dell’irruzione siano custodite armi. Non vi è l’obbligo di comunicazione al magistrato, ma nel particolare contesto del G8 genovese, e vista la delicatezza della perquisizione, in locali assegnati al Genoa social forum e considerati il “quartier generale” dell’organizzazione, la comunicazione era quanto meno opportuna. Il telefono di Pinto quella notte però non squilla. È il magistrato a chiamare Alessandro Perugini, il vicecapo della Digos di Genova indicato ai magistrati del pool G8 come referente nella polizia. Seguiranno, nella notte, contatti telefonici fra Pinto e Spartaco Mortola, il capo della Digos, presente sul posto. Mortola informa il pm degli arresti eseguiti e annuncia un verbale per il giorno seguente. La domenica mattina Pinto prosegue nell’acquisizione di dati e testimonianze: giornalisti e avvocati, fra gli altri, denunciano violenze e irregolarità. “Ricordo,” racconta oggi Pinto, “che preparai un fascicolo per il procuratore capo, mentre in ufficio c’era chi cercava, in archivi e repertori, precedenti casi di arresto in flagranza per associazione a delinquere, in vista della valutazione del verbale d’arresto.” Nella notte, tuttavia, un dirigente di polizia chiama più di una volta un magistrato. Squilla però il telefono di una collega di Pinto, Anna Canepa, raggiunta da Gilberto Caldarozzi, vicecapo del 68

Servizio centrale operativo, poco prima dell’irruzione nella scuola (alle 23.13) e durante la perquisizione (0.45). Canepa è nel pool G8 ma quella notte non è di turno. In tribunale, nel marzo 2007, ha raccontato di avere parlato con Caldarozzi mentre era già a letto: “Sì, prendo atto, va bene, fatemi sapere,” fu la risposta alla prima telefonata. “Di lì a poco so che mi sono riaddormentata, [...] dopo un po’ venni richiamata dal dottor Caldarozzi, il quale mi disse che stavano procedendo alla perquisizione e che stavano incontrando una forte resistenza. Dopodiché potei proseguire il mio sonno profondo.” La notte del blitz, dunque, la polizia ignora deliberatamente di chiamare il magistrato di turno al numero di telefono concordato, ma un dirigente telefona a un altro magistrato, senza che il primo ne sappia niente. A questi contatti impropri fra polizia e procura corrisponde una domanda importante, che alcuni si fecero già allora e che oggi merita d’essere riproposta. Perché fu deciso di eseguire una perquisizione in base all’articolo 41? Non poteva la polizia seguire la procedura ordinaria e chiedere un normale mandato di perquisizione, esibendo le ragioni della richiesta? Forse non c’era il tempo? Non sembra, visto che il blitz fu deciso dopo un sopralluogo e una serie di riunioni, quindi nell’arco di qualche ora, e considerato che la procura era organizzata per dare risposte immediate a qualsiasi richiesta. Livio Pepino, nello scritto già citato del settembre 2001, fa notare l’evidente forzatura del ricorso all’articolo 41 del Testo unico di pubblica sicurezza, per una “perquisizione (finalizzata alla ricerca di materiali utili alla ricostruzione di fatti e non solo di armi) decisa e organizzata con tempi tali da consentire riunioni in questura e comunicazioni al capo di polizia, ma non anche richieste di autorizzazione all’autorità giudiziaria”. Per Pepino “si è così invertito il rapporto fra regola ed eccezione posto dall’art. 13 della Costituzione con attribuzione di fatto alla polizia di un potere sulla libertà personale tanto incisivo quanto contra legem”. Il motivo ufficiale del blitz, un’aggressione subita intorno alle 21.30 da una pattuglia di passaggio in via Battisti, non è mai parso convincente, sia per la modestia dell’episodio (poi ridimensionato dall’inchiesta), sia per la debole connessione con l’ipotesi di trovare nella scuola Diaz i presunti aggressori, i militanti del Black Bloc e una dotazione di armi. L’esito dell’inchiesta porta a privilegiare ben altre motivazioni. Non si chiese alla procura di eseguire una normale perquisizione, perché se ne temeva il diniego; d’altronde c’era la necessità di agire subito e con forza. Nel maggio 2007, deponendo in tribunale, Ansoino Andreassi, vicecapo vicario della polizia, ha spie69

gato le ragioni “tecniche” dell’operazione: “Esiste una regola non scritta per cui se ci sono violenze o disordini che non si è riusciti a prevenire, questi devono essere compensati da un numero maggiore di arresti di chi li ha commessi”. È appunto una regola non scritta, che riguarda i metodi operativi di polizia e certe necessità di immagine, ma è una regola di difficile applicazione. Gli arresti si eseguono solo nel caso che si riscontrino reati. Forse un intervento nelle zone calde dei disordini, durante il pomeriggio, avrebbe dato il risultato atteso, con il fermo in flagranza degli autori di atti di vandalismo. Ma il Black Bloc fu lasciato indisturbato per ore e ore. È molto meno probabile, se non impossibile, eseguire molti fermi a manifestazioni finite, con migliaia di persone sulla via del rientro e le altre in procinto di passare la notte in dormitori, campeggi, ostelli. Alla fine, il blitz alla Diaz è stato più una retata – e anche una spedizione punitiva – che una perquisizione autentica o un insieme di arresti “nel mucchio” sul modello evocato da Andreassi. La procura in imbarazzo È tuttavia più tardi, fra il pomeriggio di domenica 22 luglio e il giorno successivo, che la procura si trova in particolari ambasce. È il momento di valutare la condotta da tenere per i 93 fermi eseguiti. Il verbale d’arresto arriva al palazzo di giustizia nel pomeriggio di domenica, verso le 18.30, ed è subito evidente che contiene un condensato di anomalie. Due, le più palesi: l’arresto in flagranza di reato per associazione a delinquere finalizzata a devastazione e saccheggio; l’attribuzione ai 93 ospiti della scuola del possesso di due bottiglie molotov, equiparate dalla legislazione ad armi da guerra. La contestazione del reato di associazione a delinquere, per sua natura, presuppone lunghe inchieste, con appostamenti, pedinamenti, la ricostruzione di legami stretti fra più persone e finalizzati a compiere determinati crimini. È un reato che anche astrattamente è ben difficile collegare a un arresto in flagranza. Si potrebbe forse pensare all’irruzione in un covo durante la riunione di una cosca mafiosa conosciuta, ma è una pura ipotesi di scuola. Nel caso della Diaz che cosa si sapeva dei 93 ospiti del dormitorio? Che indagini erano state fatte sul loro conto? Che legame li univa, e quale progetto criminale? Niente era stato fatto e nulla si sapeva. Quanto al secondo punto, le molotov, secondo il verbale d’arresto, erano nella disponibilità di tutti, in quanto collocate sopra un tavolo all’ingresso della scuola, ben visibili a chiunque entrasse. Ciascuno era quindi consapevole della loro esistenza e tutti ne disponevano, collettivamente. Una tesi davvero ardita sul 70

piano giuridico, dato che la responsabilità penale è personale e non collettiva, e in buona misura anche una tesi contraria al buonsenso, se si pensa che una bottiglia di vino, munita di normale etichetta, ma riempita di benzina, non è così facilmente identificabile in quanto esplosivo al semplice passaggio davanti a un tavolo. Francesco Pinto, già nella giornata di domenica 22, ancora prima di ricevere il verbale, parlando con la giornalista del quotidiano “la Repubblica” Claudia Fusani, aveva espresso i suoi dubbi sulle motivazioni degli arresti: “Non è usuale,” si legge nell’articolo uscito il giorno dopo, “arrestare 92 persone in flagranza di reato per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. L’associazione per delinquere è un reato complesso che richiede in genere mesi di indagini e accertamenti per collegare fatti e persone. È difficile conciliare questa contestazione con un’operazione di polizia decisa in poche ore ai sensi dell’articolo 41 Tulps, cioè per la ricerca di armi ed esplosivi”. Sono valutazioni in punta di diritto e secondo buonsenso, ma costano a Pinto l’estromissione dal gruppo di magistrati investiti del caso. Secondo il procuratore capo Francesco Meloni quell’intervista rende inopportuno l’impegno diretto di Pinto. “Io mi opposi alla decisione del procuratore,” ricorda oggi Pinto. “Gli feci notare di non aver detto nulla sugli atti e sui fatti. La mia era una valutazione d’ordine generale.” Obiezioni senza effetto: Meloni non cambia idea e così il magistrato di turno nella notte dei fatti esce di scena nel momento più delicato, quando cioè la procura è chiamata a valutare gli atti di polizia giudiziaria e decidere la sua linea di condotta. Ci sono 93 arresti da valutare, a fronte di testimonianze che descrivono una “mattanza” eseguita all’interno della scuola dagli agenti di polizia. Il procuratore assegna l’inchiesta al procuratore aggiunto Francesco Lalla, il quale delega ai pm Andrea Canciani e Anna Canepa i primi atti investigativi: il sopralluogo nella scuola, l’interrogatorio degli arrestati. Nella giornata di lunedì 23 luglio, Canciani e Canepa ascoltano in ospedale due degli arrestati, Lorenzo Guadagnucci e Arnaldo Cestaro, i quali riferiscono nei dettagli la brutalità dell’irruzione, i pestaggi gratuiti, le minacce degli agenti, affermando di non aver notato alcun tavolo con due bottiglie molotov all’ingresso della scuola. Anna Canepa, deponendo al processo nel marzo 2007, ha spiegato di non avere avuto dubbi sulla genuinità di quelle testimonianze: “Nel pomeriggio finalmente andammo a sentire, lo ricordo benissimo, due degli arrestati all’ospedale Galliera, uno era un giornalista, adesso non mi ricordo il nome. Lì per lì bastava vederli... Mi illuminò 71

più il colloquio, l’interrogatorio con loro, che tutte le voci che si aggiravano sulla vicenda”. In procura, nel frattempo, arriva anche la prima denuncia formale, depositata lo stesso lunedì mattina da Michel Roland Gieser, il novantaquattresimo ospite della Pertini, sfuggito all’arresto fingendosi barelliere durante il trasporto dei feriti fuori della scuola. Tuttavia, nell’arco di poche ore la procura sceglie di sostenere apertamente l’operazione Diaz. Con un atto firmato dal dottor Lalla, chiede al giudice per le indagini preliminari la convalida degli arresti e le misure cautelari per i 78 stranieri arrestati. Dispone invece la scarcerazione dei 15 italiani, con una disparità di trattamento poco comprensibile, ma che non cancella la sostanza: tutti i fermati sono considerati probabili esponenti del Black Bloc. È una decisione che viene presa senza coinvolgere l’intero ufficio. “Normalmente,” ricorda Pinto, “c’erano discussioni collegiali, in quel caso se ne fece a meno.” In una discussione collettiva, probabilmente, si sarebbe riproposta l’obiezione esposta da Pinto nell’intervista a “la Repubblica”, corroborata dalle testimonianze nel frattempo acquisite. Ma la scelta, in quel momento, è di avallare la condotta della polizia. D’altronde era stato lo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nella mattinata di domenica 22 luglio, a offrire ai giornalisti la spiegazione ufficiale della perquisizione, con un linguaggio peraltro condito di imprecisioni (per Global forum si deve intendere Genoa social forum). “Una telefonata del ministro degli Interni,” dice il presidente del Consiglio nella conferenza stampa internazionale, “mi ha rappresentato il ritrovamento di armi improprie all’interno del Global forum e la individuazione di 60 persone appartenenti alle squadre violente e che si erano occultate, a dire del ministro, con la connivenza degli esponenti del Global forum fra gli esponenti stessi del Global forum.” Procura e polizia sembrano a quel punto allineate alla versione ufficiale del governo. Ma passano poche ore e lo scenario si ribalta. I giudici per le indagini preliminari, chiamati a esaminare gli arresti, sconfessano radicalmente le scelte della procura genovese. Solo uno dei cinque gip chiamati in causa accoglie la richiesta di convalida degli arresti, accordando tuttavia le misure cautelari per un unico caso sui 12 presi in esame. Gli altri gip rifiutano la convalida dei rimanenti 66 arresti e rinviano gli atti alla procura, indicando come notizia di reato le denunce delle violenze compiute dagli agenti. I gip trasmettono gli atti anche al procuratore generale della Repubblica, compe72

tente per i provvedimenti disciplinari a carico della polizia giudiziaria. È una decisione clamorosa, con pochi precedenti nella nostra storia giudiziaria: 66 rifiuti su 78 richieste di convalida degli arresti, un’unica conferma di misure cautelari su 78 e l’esplicita indicazione di possibili irregolarità della polizia giudiziaria. Un’autentica caporetto per la procura. In sostanza i gip giudicano senza fondamento l’arresto collettivo in flagranza di reato per associazione a delinquere e indicano che bisogna indagare senza indugi sul comportamento degli agenti. La procura, con le sue scelte, ha mandato un chiaro messaggio di vicinanza alla polizia di stato, scontrandosi però contro un muro di valutazioni diverse e di prevedibili (e previste) obiezioni giuridiche alzato prontamente dai gip. È molto eloquente, in questo senso, un passaggio della relazione di Pippo Micalizio, l’alto funzionario incaricato da Gianni De Gennaro di condurre un’indagine interna sulla perquisizione alla Diaz. “Il dottor Lalla,” scrive Micalizio nella relazione, datata 31 luglio 2001, “ha evidenziato di aver richiesto senza esitazione la convalida di tutti gli arresti e, laddove possibile, l’adozione da parte del gip di idonee misure cautelari, ma di aver dovuto constatare come, nonostante le raccomandazioni anticipatamente formulate alle forze dell’ordine, fosse stata adottata, nel caso specifico, una linea di condotta diretta a contestare in maniera generalizzata, nei confronti di un considerevole numero di persone, fattispecie delittuose che, nell’impossibilità di ricondurre le stesse agli indagati in termini puntuali e personali, non avrebbe potuto far conseguire un adeguato risultato in termini processuali.” Stando a Micalizio, dunque, lo stesso Lalla era ben cosciente dei limiti tecnici delle richieste di convalida. Il pm Enrico Zucca Il no dei gip è il punto di svolta. A quel punto un’indagine sui poliziotti non può essere evitata e anche in procura l’atteggiamento deve cambiare. In questo mutato scenario entra in gioco un nuovo personaggio, destinato a impegnarsi nell’inchiesta più difficile della sua vita professionale: Enrico Zucca. Rimasto fuori dal pool G8 – in quella fase della carriera si occupa prevalentemente di reati contro la pubblica amministrazione, e in vista del caldo luglio genovese non si è offerto di entrare nella “squadra” –, gli eventi gli fanno cambiare idea. “Ricordo,” racconta oggi Zucca, “di aver incontrato in quei giorni per caso nel palazzo di giustizia due colleghi giudici per le indagini preliminari. Mi chiesero che cosa facesse la procura in merito ai fatti che si apprendevano dai media. Risposi che avevo percepito una certa riluttanza all’azione e all’apertura di inchie73

ste contro la polizia. Mi dissero, con un sorriso eloquente: ‘Non potete nascondere la notizia di reato sulla polizia. È troppo grossa. È tutto troppo evidente’.” Dopo il no alle richieste di convalida, in procura la tensione resta alta. “Nei giorni successivi,” racconta Zucca, “c’era una forte resistenza a muoversi verso le forze dell’ordine. Era chiaro per tutti che, avviando un’inchiesta, a qualche risultato saremmo arrivati.” Alla fine di luglio i quotidiani pubblicano alcune dichiarazioni di Francesco Lalla, il procuratore aggiunto incaricato di coordinare le inchieste. Lalla sembra circoscrivere la possibilità di un intervento giudiziario. Titolo del “Corriere della Sera” del 29 luglio: “Il procuratore Lalla: sarà difficile identificare gli agenti, avevano il volto coperto”. E nel testo: “Non sarà affatto semplice identificare quali tra i 70 agenti che hanno partecipato all’operazione si sono eventualmente macchiati di reati. E il motivo è presto detto: quando sono entrati in quella scuola, gli agenti erano quasi tutti a volto coperto, con caschi e fazzoletti. E poi c’era una gran confusione, urla, gente che scappava: davvero difficile risalire ad eventuali responsabilità individuali”. Titolo della “Stampa” del 31 luglio: “I pm: le denunce? Poche e generiche”. Nel testo: “Ammette il procuratore aggiunto, Francesco Lalla: ‘Le denunce trasmesse dall’ufficio del gip sono generiche e indistinte. Con quelle non si va lontano’”. L’inchiesta Diaz rischia di morire allo stato nascente: le parole di Lalla non lasciano dubbi. Fuori, il mondo politico e istituzionale preme affinché tutto sia minimizzato; al palazzo di giustizia si ipotizza l’impossibilità di procedere con accuse formali. Intanto la procura deve comunque organizzarsi per dare una risposta giudiziaria ai crimini accertati e alle innumerevoli denunce ricevute. “In quel frangente,” ricorda Zucca, “si decide che a occuparsi delle eventuali inchieste contro le forze dell’ordine sia il gruppo di magistrati specializzato per i reati contro la pubblica amministrazione, per una questione di competenza, trattandosi di abusi commessi da pubblici ufficiali.” È così che Zucca entra nel gruppo di magistrati che affianca Lalla. Si formano subito due sottogruppi: uno incaricato di indagare sui reati compiuti in piazza da semplici cittadini, l’altro sulle forze dell’ordine. Il primo, coordinato dal procuratore aggiunto Giancarlo Pellegrino, comprende Canepa e Canciani, due pm impegnati normalmente nelle inchieste contro la criminalità organizzata. Il secondo è composto da Zucca, Pinto (a quel punto rientrato in gioco), Vittorio Ranieri Miniati, Francesco Cardona Albini, Patrizia Petruzziello, Monica Parentini, tutti specializzati nei reati contro la pubblica amministrazione. 74

Nel fascicolo Diaz aperto dopo la sollecitazione dei gip prendono immediatamente corpo due filoni: gli accertamenti sull’accoltellamento dell’agente Nucera; la raccolta di testimonianze degli ospiti della scuola, ormai espulsi dall’Italia. Nucera ha raccontato d’essere stato accoltellato al secondo piano della Diaz-Pertini e di essersi salvato grazie al corpetto protettivo. L’aggressore, sul momento bloccato, sarebbe poi riuscito a confondersi fra i 93 cittadini arrestati nella scuola. Il racconto non convince i pm. Com’è possibile farsi sfuggire l’autore di un tentato omicidio? Perché non si è cercato di individuarlo subito fra i 93? E perché Nucera e altri agenti hanno maneggiato il coltello, anziché preservarlo per il rilievo delle impronte digitali? Già a caldo un magistrato bolognese, Libero Mancuso, ha ironizzato durante un’intervista sull’improbabile episodio, definendolo l’unico caso conosciuto in cui si arresta il coltello invece dell’aggressore. I primi riscontri dei pm genovesi mostrano che i dubbi sono più che fondati: la versione ufficiale dei fatti vacilla seriamente. Qualche tempo dopo, una perizia del Ris dei carabinieri definirà incompatibili i tagli trovati sul corpetto con il racconto di Nucera, che in seguito cambierà versione. Allo stesso modo, le testimonianze raccolte all’estero danno frutti evidenti. Enrico Zucca, Vittorio Ranieri Miniati e Francesco Pinto trascorrono cinque settimane in Germania. Trovano un clima di ostilità, o almeno diffidenza, perché le vittime-testimoni del blitz vedono nei magistrati uomini di quello stesso stato “servito” dagli agenti picchiatori. Le testimonianze sono tuttavia raccolte e confermano senza alcun dubbio l’enormità dei fatti. Dettagliati, perfettamente compatibili gli uni con gli altri, i racconti non lasciano scampo alla polizia italiana: emerge il quadro di un’autentica spedizione punitiva, con pestaggi brutali e l’annullamento di qualsivoglia garanzia legale. Al ritorno in Italia dei tre magistrati, il “partito del no all’inchiesta” si trova chiuso in un angolo: gli accertamenti mostrano la necessità di indagare ancora. Non si possono chiudere gli occhi di fronte agli elementi raccolti. Il primo grosso nodo tecnico da affrontare è l’iscrizione nel registro degli indagati degli altissimi dirigenti di polizia presenti alla Diaz. “È noto,” racconta Zucca, “che il dottor Lalla si oppose decisamente. Sosteneva che occorreva trovare indizi individualizzati per ciascuno. Lo scrupolo ci sorprese non poco, perché appariva capzioso rispetto ai criteri costantemente seguiti per tutti i processi. E poi per i 93 della Diaz si era chiesta la convalida dell’arresto e delle misure cautelari: lì c’erano forse indizi individualizzati?” L’avversione di Lalla non può essere però ignorata: è lui il coordinatore dell’inchiesta. “A quel punto, per uscire dall’impasse,” 75

spiega Zucca, “ci trovammo costretti a scrivere un documento, firmato da tutto il gruppo di sei magistrati, in cui si chiedeva l’iscrizione nel registro degli indagati dei funzionari e dirigenti che avevano personalmente partecipato con funzioni di comando alla perquisizione. Il procuratore capo Meloni accettò la nostra posizione, probabilmente a malincuore, vista l’amicizia che lo legava al dottor Lalla. Ma evidentemente la nostra richiesta non era così eccentrica.” L’impasse è quindi superata grazie all’avallo del procuratore Meloni, ma produce una frattura destinata a condizionare tutta l’inchiesta e il successivo processo. “All’inizio,” riprende Zucca, “la cautela è stata così evidente che la nostra indagine appariva sotto tutela. Neppure la presenza di un intero gruppo di magistrati specializzati, fra i più anziani e più esperti dell’ufficio, sembrava dare affidamento adeguato. Il ruolo di garanzia lo esercitò il procuratore capo, un magistrato da sempre pubblico ministero, che aveva attraversato tempi e inchieste difficili, ma che aveva soprattutto fama di grande mediatore. Il suo compito si dimostrò difficilissimo, perché le alternative si presentarono ben presto come radicali. Si trattava di fare un’inchiesta sul serio, senza obiettivi se non quelli di accertare i fatti, o di far finta e non urtare certi interessi. Il procuratore, sia pur invocando la cautela più assoluta, appoggiò ogni nostra iniziativa, sconfessando le spinte antitetiche. Inutile dire che l’equilibrio si ruppe con il pensionamento del procuratore. Ma il suo ultimo atto, il giorno stesso della sua cessazione dal servizio, fu emblematico. Il dottor Meloni controfirmò il mandato a comparire inviato ai dirigenti apicali sotto processo per le accuse più infamanti di falso e calunnia per la fabbricazione della falsa prova delle molotov. Il suo vice Lalla, titolare dell’inchiesta come noi e che avrebbe preso il suo posto come reggente dell’ufficio quello stesso giorno, invece si rifiutò.” Questi travagli e queste divisioni, sul momento, non passano certo inosservati. Prosegue Zucca: “All’esterno, fu subito chiaro per tutti, specie per la polizia di stato, che la nostra non era un’inchiesta della procura, ma di singoli magistrati ora sconfessati dal loro nuovo capo. Né tutela all’inchiesta fu offerta dagli altri due procuratori aggiunti, l’uno impegnato a coordinare le indagini sul fronte opposto, quello dei manifestanti, e l’altro con compiti completamente estranei al settore. Eppure l’inchiesta, procedendo, metteva in luce responsabilità ancora più ampie e illeciti ancora più devastanti di quelli, pur gravi, della prima ora. Non si trattava più ‘soltanto’ dell’uso eccessivo della forza contro persone inermi, ma di un’azione dai contorni più deliberati e la cui responsabilità era stata condivisa e coperta dai vertici della polizia”. È in questa fase, secondo la ricostruzione di Zucca, che comincia una sorta di accerchiamento. “Come in tutte le inchieste 76

scomode e impopolari,” racconta oggi il pm, “l’isolamento dei magistrati impegnati divenne ben presto obiettivo e pratica quotidiana. Con una variante ancor più insidiosa, per chi non gode di adeguate coperture: la personalizzazione del confronto, addirittura con un singolo magistrato, individuato come più esposto, o considerato, a torto o a ragione, come più temibile per gli apparati di polizia sotto inchiesta.” Zucca, evidentemente, parla di se stesso. “Un potere,” aggiunge, “può forse consegnarsi a un altro potere, ma non a un possibile perdente. Se tu polizia sai che il tuo interlocutore, il magistrato che indaga su di te, potrebbe soccombere e finire cancellato, tu non collabori.” Zucca è un magistrato rigoroso ed è uscito dall’esperienza Diaz con molta amarezza, nonostante i risultati ottenuti. “Il nostro compito come pubblici ministeri,” dice, “è il controllo di legalità. È invece prevalsa, in molti frangenti, una logica del tipo ‘non possiamo sconfessare la polizia’. Si è agito verso funzionari e dirigenti di polizia seguendo un metro di misura diverso da quello usato per gli altri cittadini. È apparsa cioè tremendamente percepibile la fragilità dell’indipendenza della magistratura e quella del principio di legalità che governa ancora l’azione penale nel nostro paese. Forse perché questi non sono in realtà princìpi da enunciare, ma pratiche concrete.” Un’offerta indecente C’è un episodio, cui si è soltanto alluso nella requisitoria finale dei pubblici ministeri, che rende evidente quanto sia temuta, fin dall’inizio, l’inchiesta contro i vertici di polizia. Risale al settembre 2001, a ricambio già avvenuto alla questura di Genova, con l’arrivo di Oscar Fioriolli al posto di Francesco Colucci. In quei giorni è già noto l’esito dell’indagine interna alla polizia condotta da Pippo Micalizio. L’esperto funzionario, dopo tre giorni di lavoro, giudica l’operazione confusa e disorganizzata: “Risulta evidente,” si legge nella relazione, “che la fase organizzativa è stata predisposta in maniera molto approssimativa e carente sotto il profilo dei momenti direzionali”. Micalizio propone l’avvio di procedure disciplinari per il gruppo di dirigenti impegnati nel blitz e ipotizza la destituzione dalla polizia di Vincenzo Canterini. Tutte indicazioni che il capo della polizia riterrà di non considerare. “In quella fase,” ricorda Zucca, “arriva dalla polizia una richiesta esplicita, una sorta di patto: voi rinunciate ad andare a fondo nelle inchieste sulla polizia, noi facciamo altrettanto nelle indagini sui manifestanti. La proposta ci è riferita in questi termini dal procuratore aggiunto Giancarlo Pellegrino. È decisamente rifiutata.” “Si proponeva una sorta di pari e patta,” ricorda Patrizia Petruzziello, il pm che ha poi condotto con Vit77

torio Ranieri Miniati l’inchiesta e il processo sugli abusi nella caserma di Bolzaneto. Il patto è del tutto improprio: i magistrati non hanno alcun interesse a fermare le indagini sui manifestanti accusati di atti di violenza. Non vi è alcuno scambio possibile. Ma evidentemente in seno alla polizia la magistratura viene vissuta come una controparte, se non un avversario. Si capisce che si sta aprendo una partita cruciale, pericolosissima, perché ci sono inchieste esplosive in grado di colpire ai livelli più alti. Si sa delle divisioni interne alla procura. Si osa così l’inosabile, formulando una proposta – certo informale – fuori da ogni canone di correttezza istituzionale. Il patto non si realizza e dà l’avvio a rapporti difficilissimi fra gli inquirenti e le forze di polizia chiamate a collaborare con i pm nelle delicate indagini. “Ricordo telefonate del questore,” aggiunge Petruzziello, “preoccupato per l’eventualità di numerosi avvisi di garanzia agli agenti. Alla fine si decise di non inviarli tutti insieme, ma a gruppi, via via che esaminavamo i singoli casi.” Qui emerge un altro snodo quasi paradossale: i pm dell’inchiesta Diaz, già isolati in procura, si trovano a muoversi in un paludoso conflitto di interessi. Nel sistema italiano non esistono nuclei di polizia giudiziaria a disposizione dei pm e del tutto indipendenti dal resto della polizia. Per le inchieste ci si avvale di personale distaccato dalle questure. “In quel momento,” spiega Zucca, “non potevamo fare altrimenti. Non c’erano precedenti analoghi ai quali fare riferimento: mai si era indagato su dirigenti di polizia di così alto livello. Una richiesta di lavorare con i carabinieri era impensabile, sarebbe parsa una provocazione. Ci trovammo però in una situazione di estremo imbarazzo. C’erano agenti e funzionari che per noi erano indagati e intanto collaboravano con i nostri colleghi magistrati nelle indagini sui manifestanti.” L’intreccio fa saltare l’equilibrio trovato fra i due gruppi di magistrati. “All’inizio,” racconta ancora Zucca, “si lavorava separatamente ma con incontri frequenti per scambi di informazioni, visti i molti punti di contatto fra le rispettive inchieste. Avevamo anche una cartella informatica condivisa, nella quale confluivano documenti di comune interesse. Ma questa prassi durò poco. C’erano troppi casi di arresti eseguiti sulla base di verbali d’arresto contestati, con denunce incrociate. Molti di quei verbali, fra l’altro, si sono poi rivelati falsi.” “Le nostre,” commenta Vittorio Ranieri Miniati, “alla fine sono state inchieste condotte a mani nude, delegando il meno possibile.” Il no al “patto” dà anche impulso alle indagini sui reati compiuti dai manifestanti. Si capisce immediatamente, ai vertici di polizia come in procura, che le inchieste su Diaz e Bolzaneto so78

no destinate a produrre risultati, cioè accuse formalizzate e processi. C’è quindi l’esigenza, diciamo così politica, di compensare quelle inchieste con indagini sul conto dei manifestanti. Una sorta di ribaltamento del “patto” nel suo contrario. Nessun appartenente al Black Bloc, considerato il maggiore responsabile dei disordini e delle azioni violente, è stato però individuato durante le manifestazioni. Parte così un’inchiesta molto difficile: si tratta di esaminare innumerevoli foto e filmati sugli scontri con le forze dell’ordine e i vari episodi di vandalismo e di procedere all’identificazione delle persone riconoscibili. Un lavoro durissimo e dispendioso, che sfocerà in un processo contro 25 manifestanti, portati alla sbarra per un reato raramente contestato, devastazione e saccheggio, punito con pene altissime, da un minimo di otto a un massimo di quindici anni. Una scelta avversata duramente dai legali degli imputati e criticata fin dall’inizio da osservatori indipendenti. Dice Livio Pepino agli autori di questo libro: “Quell’imputazione a me parve allora e pare ancora oggi una forzatura. Era quantomeno egualmente possibile una contestazione di danneggiamento aggravato, del tutto plausibile sul piano tecnico e punita con pene assai più contenute e maggiormente proporzionate alle violazioni avvenute”. Zucca rincara: “Mi pare che la scelta abbia avuto una portata ideologica, forse inconsapevolmente. Per quanto sia stata presentata come un’imputazione più concreta rispetto a quella, dapprima percorsa e poi ripudiata, dell’associazione a delinquere, quella, per intenderci, che ha consentito alla polizia di fare le retate, rimane una imputazione sproporzionata che mira a pene esemplari, consentendo di punire alcuni anche per le azioni criminali dei molti (non individuati) che non si sono potuti portare al processo. Stupisce e deve indurre a riflessione il fatto obiettivo che azioni simili commesse negli altri paesi dell’Unione europea siano concretamente represse con pene che non superano i due anni”. Al processo d’appello, nell’ottobre 2009, 12 degli imputati sono stati condannati complessivamente a quasi cento anni di carcere, circa nove di media ma con punte di 12, 13 e 15 anni nei tre casi più gravi (gli altri 15 imputati sono stati assolti o hanno beneficiato della prescrizione). È bene ricordare che in nessun caso sono state contestate violenze contro le persone. Nel 2001 lo sdoppiamento del lavoro dei magistrati ha un’ulteriore conseguenza: acuisce gli effetti della scelta compiuta fin dall’inizio dal procuratore capo, e cioè la rinuncia a un’inchiesta a trecentosessanta gradi su tutti gli eventi del G8, includendo sia i comportamenti dei singoli cittadini, sia quelli degli uomini in 79

divisa. Si consegnano così gli unici accertamenti giudiziari sui “fatti di piazza” a chi indaga sui manifestanti. L’angolo visuale dell’inchiesta, per forza di cose, coincide con il punto di vista delle forze dell’ordine, cui non saranno mai contestati i comportamenti tenuti il 20 e 21 luglio in piazza, se non durante il contraddittorio processuale e grazie allo speciale impegno delle parti civili e dei loro avvocati. È lecito pensare che un’inchiesta “libera”, rivolta anche alla condotta di polizia e carabinieri, avrebbe offerto uno scenario diverso, più dettagliato, e fatto emergere precise responsabilità, anche di natura penale, nella pessima gestione dell’ordine pubblico. Si disse all’epoca che le scelte di gestione della piazza hanno carattere tecnico e amministrativo, competono a funzionari di polizia, e non possono essere valutate in sede giudiziaria. Una considerazione, alla luce dei processi, più che opinabile. Basti dire che i giudici, nello stesso processo concluso con le dieci condanne “esemplari” per devastazione e saccheggio, hanno assolto i manifestanti che reagirono alla carica dei carabinieri al corteo autorizzato delle Tute bianche lungo via Tolemaide, venerdì 20 luglio, perché esercitarono una sorta di diritto di resistenza di fronte a un’aggressione ingiustificata e illegittima. Un giudizio che non ha precedenti nella nostra storia giudiziaria. E anche in questo caso non è stata aperta alcuna inchiesta: i responsabili di quella carica non sono stati chiamati a risponderne sotto alcun profilo, né penale, né professionale. Insomma, mentre la mano della giustizia è calata con inusuale pesantezza sopra un ristretto gruppo di manifestanti, nulla si è contestato a uomini in divisa, dipendenti dello stato, responsabili di clamorose violazioni. Ne riparleremo nel quinto capitolo.

Il tentativo di ammaestrare il processo Parola d’ordine omertà Il 3 luglio 2008 Enrico Zucca apre la requisitoria finale del processo Diaz, protrattasi poi per sette udienze, con queste parole: “I processi ai poliziotti sono processi difficili. Sono stati accomunati a quelli per violenze sessuali o a quelli nei confronti della criminalità organizzata. Dei primi hanno il carattere non solo dell’elevato standard probatorio richiesto allorquando si tratta di vagliare dichiarazioni di una persona in assenza di riscontri, ma anche della facilità con cui si passa al discredito della fonte dell’accusa. La violenza e per converso la debolezza della vittima della violenza vengono amplificate. Il poliziotto si contrappone a chi talora non è presentabile. L’altro tipo di processi è richiamato per il muro di omertà, la copertura e l’impe80

netrabilità dell’ambiente in cui opera l’accusato. Sia alla parte offesa, sia all’accusa si consiglia di lasciar perdere. Anche se i fatti denunciati sono veri, i rischi in cui si incorre per provarli sono tanti. Ancora, i processi in cui il poliziotto è più assistito dall’aura di intangibilità, perché l’accusa dei suoi abusi proviene da chi è screditato per eccellenza, sono quelli in cui la vittima viene identificata più apertamente e facilmente come nemico, in particolare nei processi di terrorismo. Quelli dove si combattono i criminali nemici dello stato. Ma ci sono casi molto noti che inducono a ritenere, com’è stato osservato, che proprio quello è un settore dove il poliziotto più facilmente si sente legittimato a deviare dalle regole per raggiungere il suo risultato. È dunque difficile indagare e ancor più difficile giudicare”. Sono parole molto forti, che chiamano in causa gli apparati dello stato per comportamenti assai poco istituzionali, a prescindere da ogni valutazione di ordine giudiziario. Si parla di omertà, di inviti più o meno espliciti a lasciar perdere, di tentativi di far apparire “impresentabili” le vittime degli abusi. Le parole del pm trovano però poche orecchie disposte ad ascoltare. Del resto il processo Diaz, nonostante il suo rilievo, è stato seguito distrattamente dai media, e ben poco è arrivato all’opinione pubblica più ampia, a parte le notizie sulle sentenze e un’eco di qualche testimonianza colorita, come quella di Michelangelo Fournier quando ha definito la perquisizione “una macelleria messicana”. Poco si è detto dell’indifferenza, se non insofferenza, che ha circondato i testimoni in tribunale durante i loro drammatici racconti. E l’ostruzionismo degli imputati e dell’istituzione polizia è stato accettato anche dai media senza scandalo, come una fatalità o una normale prassi difensiva. La denuncia con la quale Zucca avvia la requisitoria è il frutto di un’esperienza diretta cominciata già nel 2001, perché, fallito il “patto” (chiunque lo avesse concepito), decollate le inchieste, scattò immediatamente un piano alternativo. Si trattava di ostacolare il lavoro dei magistrati, nella speranza di disinnescare l’inchiesta Diaz, destinata ad assumere i contorni di un “processo alla polizia” per il rilievo dei fatti contestati e dei protagonisti sotto inchiesta. “Proprio agli albori dell’indagine,” ricorda oggi Zucca, “pervenne un messaggio oscuro e sibillino, nel senso che si vociferava che pezzi deviati della polizia, al di fuori di ogni controllo, stavano tramando e non avrebbero tollerato alcuna inchiesta. Fu una voce poi non verificata, ma l’effetto intimidatorio, nella fase in cui erano in gioco le decisioni sulla stessa apertura di un’inchiesta e con le lacerazioni esistenti in procura, era garantito. Inoltre l’inchiesta si sommava ai normali carichi di lavoro. I fascicoli ordinari continuavano ad affluire. In procura eravamo 81

venticinque sostituti, ma non fu deciso, come forse era possibile, di dedicarne alcuni a tempo pieno alle inchieste sul G8.” Un motivo di particolare tensione, nella fase di avvio dell’inchiesta, è la posizione del VII nucleo antisommossa, entrato in massa nella scuola Diaz, ma non unico responsabile delle violenze. “Quando decidemmo di inviare gli avvisi di garanzia come indagati a tutto il VII nucleo,” dice Zucca, “ci arrivò il messaggio di aspettare, di essere cauti: ‘Non riusciremmo a contenere eventuali reazioni,’ ci fu detto.” Nei fatti, ben pochi uomini del reparto comandato da Vincenzo Canterini e Michelangelo Fournier, il primo a entrare nella scuola Diaz, sono stati poi processati e condannati: oltre ai due dirigenti, otto capisquadra, chiamati in causa per non avere impedito ai sottoposti di compiere abusi e violenze sugli ospiti della scuola. I picchiatori veri e propri – e ve ne furono anche al di fuori del gruppo di Canterini e Fournier – non sono stati mai chiamati in giudizio: la notte del blitz indossavano i caschi e molti celavano il volto con il foulard d’ordinanza, per cui nessuno è stato riconosciuto personalmente come autore delle violenze da parte dei testimoni. Chi materialmente provocò fratture e gravissime ferite, chi maneggiò i manganelli e i bastoni nella notte della Diaz non è quindi stato mai chiamato in causa: né in tribunale, né per un giudizio disciplinare. A G8 finito, il VII nucleo del reparto mobile di Roma è stato sciolto, ma senza alcuna conseguenza per gli agenti. L’esortazione giunta fino alle orecchie dei pm era dunque superflua, ma fa venire in mente un torbido episodio avvenuto a Napoli il 26 aprile 2002. Il gip Isabella Iaselli firmò otto ordini di custodia domiciliare chiesti dalla procura napoletana per due funzionari e sei agenti, accusati di sequestro di persona, violenza privata e lesioni su cittadini fermati per strada o in ospedale e condotti alla caserma Raniero dopo una manifestazione, citata nel capitolo precedente, del marzo 2001. I colleghi degli otto indagati reagirono con una clamorosa protesta: un centinaio di agenti formò una catena umana attorno alla questura. Per alcune ore fu fisicamente impedita l’esecuzione dei provvedimenti cautelari. Fu un episodio di straordinaria gravità: agenti di polizia si ribellavano a un atto della magistratura, creando un pericoloso precedente di plateale conflitto fra autorità giudiziaria e forze dell’ordine. Otto anni dopo, i due funzionari messi ai domiciliari – Fabio Ciccimarra, condannato in appello anche per il blitz alla Diaz, e il vicequestore Carlo Solimene – sono stati condannati in primo grado nel gennaio 2010 dal tribunale di Napoli a due anni e otto mesi ciascuno. 82

A Genova il timore di una rivolta degli agenti, ricorda ancora Zucca, è sollevato anche davanti alla richiesta di fornire l’elenco completo e le fotografie degli agenti che avevano partecipato al blitz. “Ci dissero: ‘Se chiediamo le foto a tutti scoppia la rivolta’. Alla fine ci inviarono prima un elenco di 90 agenti, poi un altro di 200. Figuriamoci che in questi elenchi, descritti come esaustivi, non figuravano né Troiani né Burgio, i due agenti che la sentenza di primo grado ha considerato gli unici responsabili del falso delle molotov... Quanto alle foto, erano per lo più inservibili, risalenti a molti anni prima, a volte fotocopiate dai tesserini. Ricordo che uno degli imputati, Salvatore Gava, nel 2001 era completamento pelato ma, nella foto che ci arrivò, pareva Jimi Hendrix.” Irriconoscibili gli agenti picchiatori, l’inchiesta si concentra ben presto sui capisquadra, sulla catena di comando e sugli autori dei falsi, a cominciare dal verbale d’arresto di coloro che dormivano alla Diaz la notte del blitz. Quel documento porta quattordici firme, ma solo tredici sono state decifrate: l’ultimo funzionario, a causa di una grafia illeggibile, è rimasto sconosciuto. I colleghi e i superiori non ne hanno fatto il nome. Per i comuni cittadini (e per i pm) è un caso tipico di omertà, per chi ha taciuto è forse spirito di corpo, ma secondo un’accezione che poco si concilia con l’etica di un’istituzione democratica, che dovrebbe riconoscere come propri valori e riferimenti la sovranità della legge, la lealtà verso un corpo dello stato qual è la magistratura e anche verso i cittadini, che hanno tutto il diritto di chiedere trasparenza e sincerità a chi indossa una divisa. Il caso della firma misteriosa, peraltro, non è isolato. C’è anche “Coda di cavallo”, ossia l’agente visibile in un filmato (ripreso dalla scuola Pascoli) mentre, davanti a una finestra, colpisce con il manganello (o forse con un bastone) un malcapitato ospite della Diaz-Pertini. Nonostante l’insolito aspetto – è lecito pensare che non vi fossero molti agenti con una lunga chioma di capelli fra i partecipanti alla perquisizione – la polizia non è mai riuscita a dargli un nome. Dopo una richiesta di identificazione inviata a tutte le questure d’Italia, arrivarono cinque segnalazioni, con altrettante fotografie, ma nessuna era quella giusta. “Coda di cavallo” per la polizia di stato è sempre stato un introvabile. “Ricordo che nelle audizioni del dottor De Gennaro e del dottor Manganelli, attuale capo della polizia,” racconta Zucca, “facemmo presente il disagio procurato dal mancato chiarimento di alcune circostanze, per noi intollerabile, che gettava discredito sull’immagine dell’istituzione. Era un segno troppo evidente della mancata collaborazione. La polizia di stato era addirittura incapace di individuare un suo appartenente con caratteristiche così rare e anche un sottoscrittore del verbale di arresto, 83

un atto pubblico e per di più diretto alla magistratura. La risposta fu in apparenza un impegno solenne: non preoccupatevi... Ma in quella occasione, considerato che stavamo per decidere sui rinvii a giudizio, era chiaro che l’altra parte avrebbe voluto sentire assicurazioni e impegni, secondo i desideri esternati, cioè che forse i poliziotti avevano sbagliato, ma non dolosamente. Di questo dovevamo tenere conto. Era evidente che l’inchiesta si sarebbe chiusa in altro modo e avrebbe coinvolto uomini di vertice. Il contatto cercato era reciprocamente fallito. Si preparava lo scontro finale.” “Coda di cavallo” alla fine è stato identificato, ma in modo del tutto fortuito e non per merito della polizia. Il riconoscimento è avvenuto grazie alla “segreteria legale” degli avvocati di parte civile raccolti sotto la sigla Genoa legal forum (Glf). Qualcuno a un certo puntò notò, in un filmato relativo a una manifestazione svoltasi a Genova, ma successiva al G8, un agente con caratteristiche simili a “Coda di cavallo”. L’agente della Digos genovese e quello ripreso la notte della Diaz – si chiesero i collaboratori del Glf – erano forse la stessa persona? Gli accertamenti hanno confermato l’intuizione della “segreteria legale”. Con un incredibile dettaglio: il confronto informale fra le immagini e la persona in carne e ossa è stato compiuto direttamente in aula, durante le udienze del processo Diaz, che “Coda di cavallo” ha seguito con assiduità. Il misterioso poliziotto, cercato invano nelle questure di tutta Italia, è un agente della Digos genovese, che è scampato all’imputazione ma non ha rinunciato a seguire le udienze: non è chiaro se in veste privata durante le ore libere dal lavoro, o comandato dai superiori. In ogni caso una beffa, quasi una provocazione per i magistrati, arrivati a identificarlo troppo tardi, con la prescrizione in arrivo, per poter procedere contro di lui. Beffa nella beffa, “Coda di cavallo” (ma con i capelli tagliati) ha assistito anche all’udienza finale, il 19 maggio 2010, quando la Corte d’appello ha letto la sentenza di secondo grado. Per quanto ormai scoperto, l’agente ha voluto esserci, incurante degli sguardi più disarmati che attoniti di avvocati, parti civili, semplici cittadini. La vicenda di questo agente si commenta da sola. È emblematica del comportamento di assoluta arroganza tenuto dalla polizia di stato nei confronti dei pubblici ministeri impegnati in udienza. Come apparirà chiaro dalle telefonate intercettate nel procedimento parallelo contro la falsa testimonianza del questore Colucci, che coinvolgerà anche Gianni De Gennaro, è l’intero corpo di polizia, compatto e unito, che ha difeso e protetto ognuno dei suoi membri dagli attacchi del pm. La solidarietà si è estesa dalla base, in ogni poliziotto di questura, fino ai vertici supremi. 84

Il pm nel mirino In una delle più sconcertanti telefonate, fra quelle intercettate per l’inchiesta di cui parleremo meglio nel prossimo capitolo, l’ex questore di Genova Francesco Colucci riferisce al suo interlocutore (Spartaco Mortola, imputato nel processo Diaz) di un colloquio con Antonio Manganelli, all’epoca vice di Gianni De Gennaro: “Manganelli stamattina m’ha detto: dobbiamo dargli una bella botta a ’sto magistrato, mi ha accennato che già qualcheduno sta pigliando delle carte non troppo regolari”. La telefonata è del maggio 2007 ed è resa pubblica nel novembre 2007. Inutile dire che il magistrato di cui si parla è Enrico Zucca. Le “carte” citate da Colucci riguardano probabilmente una contestazione che sarà poi rivolta ai pm per eccessive spese sostenute durante le indagini: un rilievo rivelatosi infondato ma che è stato un evidente tentativo di ostacolare e delegittimare l’inchiesta. Manganelli, a quel punto già promosso capo della polizia, nel novembre 2007 non nega la telefonata con Colucci ma fa sapere, con una nota scritta, che “è stata tradotta liberamente e con linguaggio inappropriato la mia manifestazione di vicinanza e di affetto a un collega in difficoltà”. L’esistenza di piani per attaccare personalmente Zucca, contestandogli presunti errori, abusi, irregolarità, è del resto un tema ricorrente nelle chiamate di alcuni imputati intercettate dall’autorità giudiziaria. Ma l’intero processo Diaz ha dovuto affrontare negli anni vari intralci. Il primo risale al 2004, dopo la chiusura formale delle indagini preliminari e in vista quindi dei rinvii a giudizio. La strategia scelta poggia sul coinvolgimento di uno dei magistrati inquirenti nelle accuse contestate agli imputati, situazione che avrebbe reso competente per l’intera indagine un altro distretto giudiziario. La richiesta di trasferimento proviene dai legali di alcuni imputati, fra cui Luperi, Caldarozzi e Gratteri. I legali contestano a Zucca di avere omesso di agire penalmente nei confronti del suo collega Pinto, chiamato in causa da Spartaco Mortola durante un interrogatorio. Mortola, rispondendo al pm, in effetti a un certo punto afferma che è stato Pinto, parlando al telefono con Filippo Ferri, un altro degli indagati, a consigliare di scrivere nel verbale che le molotov erano state trovate nell’atrio della scuola. Zucca gli fa subito notare l’assurdità e la gravità delle affermazioni; Mortola fa immediatamente marcia indietro, dicendo di essere agitato e di essersi sbagliato, ritrattando così le sue dichiarazioni. La cosa si chiude lì, senza alcun seguito (tra l’altro Ferri, in un successivo interrogatorio, negherà di aver mai parlato con Pinto). Ma su questo inspiegabile scivolone di Mortola e sulle sue oscure 85

dichiarazioni viene impostata l’istanza di trasferimento dell’intero processo. Gli stessi interessati probabilmente credono poco al reale contenuto dell’uscita di Mortola, ma l’affermazione, a loro avviso, imponeva comunque la trasmissione degli atti a un diverso ufficio. I pubblici ministeri rifiutano di trasferire spontaneamente l’inchiesta e si arriva così, secondo la procedura, al pronunciamento della procura generale della Cassazione a Roma. Siamo a un passo dal naufragio del processo Diaz, tramite un’iniziativa a dir poco audace. Ma la procura romana dichiara infondata la pretesa dei difensori e stabilisce di mantenere l’inchiesta a Genova. Il processo per il momento è salvo. Un altro, clamoroso tentativo di affossarlo avviene all’inizio del 2007. Ed è un autentico colpo di scena. Il 17 gennaio gli avvocati difensori di alcuni imputati chiedono di portare in aula le due bottiglie molotov al centro del processo. In quel momento, tutto già si sa delle due bottiglie: circostanze del ritrovamento in corso Italia, arrivo nei pressi della Diaz sopra un mezzo della polizia, trasporto nel cortile della scuola da parte dell’agente Burgio, consegna ai funzionari eccetera. Tutto documentato nell’inchiesta, a cominciare dal riconoscimento delle bottiglie da parte del funzionario, Pasquale Guaglione, che le ha trovate in corso Italia e poi consegnate a un superiore nel pomeriggio di sabato 21 luglio 2001. Ora però i legali chiedono di portare le bottiglie in aula. La sorpresa è in agguato: sono sparite. Affidate in custodia alla questura di Genova, come gli altri reperti delle inchieste sul G8, non si trovano più. Parte una nuova bagarre. I legali chiedono addirittura la fine del processo, per l’impossibilità di procedere a fronte della scomparsa della “prova regina” dei falsi. Ancora una volta il processo sembra sul punto di crollare. L’ipotesi è però scartata dal tribunale, perché le due molotov sono state fotografate e riconosciute in modo incontrovertibile, al punto da renderne superflua l’esibizione in aula. Ma c’è comunque da indagare sulle circostanze della clamorosa scomparsa, che desta molti sospetti. Alcuni legali degli imputati la attribuiscono a negligenza dei pm, che a suo tempo non avrebbero emesso un apposito verbale di sequestro. “In quel frangente,” spiega oggi Zucca, “anche il procuratore Lalla sembra convinto della tesi giuridica degli avvocati, smentita invece dal tribunale.” Durante un dialogo piuttosto acceso con Vittorio Agnoletto, Lalla spiega di avere chiesto lui, al momento di archiviare l’inchiesta contro i 93 ospiti della scuola, di distruggere tutto il materiale sequestrato alla Diaz. In realtà non esiste alcuna documentazione a comprovare la sorte delle due bottiglie. 86

“Noi,” riprende Zucca, “chiedemmo una relazione alla questura. Ci fu detto che erano state probabilmente distrutte in un’operazione di routine, insieme con altri materiali. Ma non vi era alcun atto a comprovarlo. E dire che gli artificieri, per tutti i reperti soppressi, compilavano verbali dettagliatissimi, con tanto di fotografie. La sbadataggine aveva riguardato proprio le molotov della Diaz...” Il caso ha grande clamore. E si capisce il motivo: c’è una procura impegnata in una delicatissima inchiesta contro la polizia, e la polizia medesima distrugge una delle prove del processo. Anche accettando la poco verosimile tesi dell’errore, non è un bell’esempio di collaborazione con la magistratura, né di efficienza, né di trasparenza. Oltretutto, la sparizione ha offerto l’occasione ai difensori dei poliziotti imputati di chiedere la fine del processo. Una vicenda davvero allarmante, sotto il profilo dell’etica istituzionale. E che si arricchisce presto di ulteriori particolari. Basti dire che il poliziotto artificiere responsabile dei reperti, Marcellino Melis, sottoposto a intercettazioni per un’altra inchiesta, viene ascoltato mentre commenta con un collega proprio l’episodio delle molotov sparite: “Quelli della Digos avevano detto: ah, ce le riprendiamo noi... Ma non lo posso dire al magistrato”. Chiamato dai pm, Melis sceglie infatti di confermare la tesi dell’errata distruzione, negando quanto affermato nell’intercettazione, e finendo così indagato per false comunicazioni ai pm. In un’altra telefonata, in stretto dialetto sardo, l’artificiere confida al fratello che in questura gli “hanno messo i cavalli in bocca”, cioè lo hanno indotto a dire e scrivere ciò di cui non è convinto. A quel punto il caso delle molotov è ricostruito in tutta la sua evidenza storica, ma è in agguato un ulteriore colpo di scena, una sorta di boomerang per chi punta a frenare e ostacolare il processo, perché da un’altra telefonata dell’artificiere prende il via una catena di accertamenti che porterà all’inchiesta su Gianni De Gennaro. All’epoca della scomparsa delle molotov, Melis è sottoposto a intercettazione nell’ambito di un’inchiesta per riciclaggio, condotta da Enrico Zucca, a carico di un discusso personaggio, Ahmad Fouzi Hadj, uomo d’affari di origine siriana ma genovese di adozione. Dopo l’incontro con il pm, Melis chiama dunque Hadj, il quale gli suggerisce di incontrare Spartaco Mortola, già capo della Digos, nonché imputato nel processo Diaz. Mortola, Melis, il questore Fioriolli e Hadj, spiega quest’ultimo al telefono, hanno un avversario in comune, Enrico Zucca, perciò è bene unirsi e agire insieme. Lo stesso Hadj informa Melis che contro Zucca sono state fatte denunce dall’interno della magistratura. Il contenuto della chiamata fra l’uomo d’affari e il poliziotto-artificiere, legati da 87

rapporti privati di collaborazione (Hadj risulta, fra l’altro, proprietario di miniere), spinge i pm a chiedere e ottenere l’intercettazione delle telefonate di Spartaco Mortola, sul cui cellulare arriveranno le chiamate di Francesco Colucci, alla base del processo contro De Gennaro e lo stesso Mortola. Un intreccio degno di un romanzo giallo. Con un torbido corollario. L’inchiesta su Ahmad Fouzi Hadj ha fatto emergere un quadro di sorprendenti relazioni fra agenti e funzionari di polizia genovesi e l’uomo d’affari di origine siriana, sotto inchiesta anche a Montecarlo per riciclaggio e sospettato dall’organizzazione umanitaria Human Rights Watch, sulla base di un rapporto di esperti dell’Onu, di coinvolgimento nel traffico internazionale di armi. Si può immaginare quale sia stata la sorpresa, quando fra i movimenti bancari della Katex Carrière Guinée Kcg, una società mineraria di Hadj, spunta un bonifico che attraverso una banca lettone (la Multibanka di Riga, inserita dal dipartimento di Stato Usa nella “black list” dopo l’11 settembre 2001) dirotta 53.000 euro sul conto di Oscar Fioriolli, fra il 2001 e il 2007 questore di Genova. Fioriolli ha spiegato che si trattava di un prestito personale – in via di restituzione – ottenuto da un vecchio amico del quale non conosceva le disavventure giudiziarie... Nello stesso burrascoso 2007, l’anno delle molotov sparite, dell’inchiesta su Colucci e De Gennaro, della sortita sulla “macelleria messicana” di Michelangelo Fournier, si colloca un altro anomalo episodio. Il 10 agosto Luca Delfino uccide a Sanremo l’ex fidanzata, una donna di trentatré anni. Un anno prima la squadra mobile di Genova aveva chiesto la custodia cautelare per lo stesso Delfino, sospettato di essere l’autore di un altro omicidio, risalente all’aprile 2006: un’altra sua ex fidanzata uccisa a coltellate in un vicolo nel centro storico di Genova. La procura aveva però respinto la richiesta d’arresto, per carenza di prove. Il pm responsabile del diniego era Enrico Zucca. Nell’agosto 2007, all’indomani del nuovo omicidio, il pm è chiamato in causa dal capo della squadra mobile genovese, Claudio Sanfilippo: “C’erano indizi sufficienti per arrestarlo,” dice il funzionario. Il caso divampa sui giornali, trovando un’eco nazionale e addirittura un titolo d’apertura sulla prima pagina del “Corriere della Sera” del 13 agosto: “Il rapporto sul killer: ucciderà ancora. Delitto della ragazza: così la polizia avvisò il pm. La replica: niente prove”. Zucca risponde alle accuse con composta fermezza. La madre della ragazza uccisa a Sanremo è arrivata a definirlo “assassino” per non avere fermato Delfino un anno prima. “Accetto le accuse di quella madre,” dichiara Zucca al “Corriere della Sera”, intervistato da Erika Della Casa. “Sono l’urlo di dolore della vittima. [...] Io sono un pezzo di stato che non è stato in grado di impedire che un crimine venisse commesso. [...] 88

C’è nella vita di un magistrato o di un poliziotto un momento drammatico in cui, agendo in base alla legge, si rende conto che non può fare nulla. È quanto accaduto in questo caso.” Gli elementi raccolti dalla polizia, dice Zucca, non giustificavano la richiesta di custodia cautelare. “Se non c’è la prova, non c’è la prova. Non sto facendo un discorso da intellettuale o da fine giurista. Io sono un pubblico ministero, ho una mentalità accusatoria, pratica. Non si tratta qui di teorie ma di fatti.” L’episodio si chiude com’era nato, cioè sui media, non essendovi contestazioni concrete verso il pm, ma in quei giorni Zucca si ritrova al centro dell’attenzione e delle critiche per le “scarcerazioni facili” e non vi è quotidiano o telegiornale che manchi di indicarlo come “il pm del processo Diaz”. Lo stesso “Corriere della Sera”, nel medesimo articolo prima citato, adombra un legame fra lo scontro con la squadra mobile genovese e il processo Diaz in corso, ma Zucca nega l’esistenza di una connessione. “Mi sentirei di escluderlo. Sarebbe un’eccessiva dietrologia.” Oggi il magistrato dà un giudizio più articolato di quella vicenda. “Un atto di accusa così unanime contro un magistrato individuato per nome e cognome, che tiene le cronache nazionali per mesi,” commenta, “mi pare insolito, direi senza precedenti. Nessuno conosce i nomi dei giudici e dei pubblici ministeri che scarcerano persone che poi commettono nuovi e più efferati delitti. Si legge di delitti commessi anche da parte di chi è stato condannato all’ergastolo. La cosa ghiotta, in questo caso, è stata quindi la contrapposizione tra la polizia giudiziaria e un magistrato, guarda caso colui che intendeva addirittura processare i vertici della polizia. Piuttosto, non si era mai visto un funzionario di questura che puntasse il dito contro un magistrato, senza che nessuno stigmatizzasse l’impropria esternazione. I vertici, compreso il ministro, parevano invece del tutto soddisfatti della gogna mediatica, incuranti che la credibilità del sistema fosse messa in discussione davanti all’opinione pubblica. Il messaggio era chiaro: il magistrato che se la prendeva con i poliziotti lasciava liberi gli assassini.” “Beninteso,” continua Zucca, “i giornalisti hanno fatto la loro parte, così come gli editorialisti e le penne fini del garantismo nostrano, in questo caso scomparsi. Nessuno che si sia chiesto se si possa mandare in galera senza solidi elementi, anche se il soggetto è ‘pericoloso’, e se il compito del magistrato non sia proprio quello di valutare il comportamento della polizia, cioè il peso e la tenuta sul piano processuale degli elementi investigativi forniti al magistrato, e non il contrario. Ancora una volta il merito della vicenda non interessava più di tanto, ma l’occasione per screditare l’accusatore non si poteva perdere. Le dichiarazioni della polizia eccitarono a tal punto l’opinione pub89

blica, che ben presto fui oggetto di minacce e insulti aperti, anche per strada. Ricevetti per posta dei proiettili. Le conseguenze furono paradossali. Per la prima volta fu messo sotto scorta un magistrato per proteggerlo dalle invettive scatenate da un’altra istituzione dello stato, o meglio da alcuni membri che si erano scordati di essere appartenenti a una istituzione dello stato, al pari del magistrato.” Nel febbraio 2011, la Corte d’assise di Genova ha assolto Delfino, con una formula che corrisponde alla vecchia insufficienza di prove. E la polemica si è ripetuta, con Enrico Zucca al centro della discussione e la campagna del 2007 di nuovo in primo piano. In un’intervista al “Secolo XIX” del 18 febbraio, il pm ricorda la telefonata di Colucci e la frase attribuita a Manganelli: “Bisogna dargli una bella botta a ’sto magistrato”. Segue un intervento del capo della polizia, che in una scarna nota di replica ricorda con stizza di aver già “smentito” la frase in questione e, senza prendere ancora posizione sull’attacco subìto dal magistrato, propone una sorta di pacificazione: “Ritengo assolutamente indispensabile produrre, reciprocamente, ogni sforzo,” scrive Manganelli nel suo breve intervento, pubblicato sulla prima pagina del “Secolo XIX” del 19 febbraio, “per superare finalmente frizioni e attriti del passato”. Netta la replica di Zucca affidata agli autori di questo libro: “Purtroppo le ostilità cui si dovrebbe por fine, appartengono al genere, tipico della Diaz, delle ‘colluttazioni unilaterali’, per le quali non si comprende che cosa dovrebbero ancora fare le vittime. La pace, per avere fondamento, deve poggiare sulla consapevolezza in entrambe le parti e qui siamo ancora lontani. Forse che un’istituzione di garanzia come la magistratura inquirente, dovrebbe rinunciare a svolgere la propria funzione solo perché la polizia non tollera controlli?”. Torniamo al 2007. Nel clima di ostilità creato dal caso Delfino partono altre iniziative. Una nuova campagna di stampa diffonde la notizia dello spreco di denaro pubblico che si sarebbe fatto con l’inchiesta sui poliziotti. Il bersaglio anche stavolta è il solo Zucca. Alcuni imputati del processo Diaz presentano infatti un esposto, evocando responsabilità disciplinari, contabili e anche penali per gli incarichi di consulenza affidati nel processo dai pubblici ministeri. Nonostante i provvedimenti incriminati portino la firma di altri magistrati, il solo nome che compare sulla stampa e nei dispacci di agenzia è quello del solito Zucca, il quale si trova ben presto a dover svolgere il lavoro parallelo della stesura di relazioni per gli organi disciplinari a giustificazione del suo operato. Gli attacchi a Zucca coincidono con una fase cruciale dei pro90

cessi e delle inchieste. Il boomerang delle molotov sparite e le testimonianze in aula di Andreassi e Colucci hanno dato un forte impulso alle tesi dell’accusa, mettendo anche nei guai Gianni De Gennaro. Qualcuno forse ha pensato, a quel punto, di screditare Enrico Zucca, in un ultimo tentativo di azzoppare il processo? “Io credo,” dice oggi il magistrato, “che non si possa negare che l’obiettivo concreto a un certo punto sia diventato l’attacco personale all’inquirente, cioè il sottoscritto. L’obiettivo è dichiarato esplicitamente nelle numerose telefonate intercettate, che mostrano quanto il corpo di polizia a ogni livello individuasse un nemico fisico, non riconoscendone neppure il ruolo. Il problema allarmante è che di questo atteggiamento diffuso non si è colto l’aspetto che non esito a dichiarare eversivo, considerandone la provenienza da soggetti istituzionali. La difesa personale degli imputati si è avvalsa di iniziative anche spregiudicate, di difesa dal processo e non solo nel processo: tutto legittimo, ma certo non ‘politicamente corretto’ per uomini delle istituzioni, accreditati come fedeli servitori dello stato. Il punto è tuttavia un altro: questa difesa si è inestricabilmente saldata con l’intero corpo della polizia, in una relazione di solidarietà totale. Si è creato un evidente cortocircuito: gli imputati erano i capi e i subordinati non potevano che dimostrare di essere a loro personalmente fedeli, anche se gli stessi erano in quel momento sotto processo per aver violato le leggi dello stato.” “Gli attacchi,” continua Zucca, “a un certo punto si sono smorzati, a mio avviso per due ragioni. Da un lato è apparso evidente il completo isolamento dei pubblici ministeri, anche all’interno della magistratura e dello stesso ufficio di appartenenza. Dall’altro lato, il dibattimento di primo grado in corso dava segnali nella stessa direzione. In aula eravamo impegnati a evidenziare le incongruenze dei testimoni della polizia che sfilavano di fronte al tribunale, ma le nostre iniziative e quelle delle parti civili non riuscivano a trovare accoglimento da parte dei giudici. Tutto ciò faceva presagire un esito finale non del tutto favorevole alle tesi dell’accusa.” L’esito è noto. Almeno in primo grado, i funzionari più importanti hanno ottenuto l’assoluzione. A sostegno degli imputati Un terzo incomodo, fra polizia e magistratura (o meglio fra imputati e vertice di polizia da un lato, e i pm dell’inchiesta Diaz dall’altro), ha sempre aleggiato sopra il palazzo di giustizia di Genova: la politica. Abbiamo già accennato alle posizioni assunte dalle maggiori coalizioni: la copertura piena garantita agli imputati e al vertice di polizia dal centrodestra; l’atteggiamento più ondivago ma certo non ostile del centrosinistra. 91

Anche sul piano locale il centrosinistra è rimasto preda delle sue ambiguità. Il sindaco di Genova in carica nel 2001, Giuseppe Pericu, è stato fino all’ultimo un sostenitore della commissione parlamentare d’inchiesta, convinto che si dovesse indagare sulle responsabilità politiche, oltre che penali, per l’infausta gestione del G8. Rispetto alle inchieste e ai processi, la giunta Pericu ha mostrato però negli anni notevoli imbarazzi, culminati con la scelta di costituirsi parte civile nel processo contro i 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio (l’istanza sarà poi respinta per vizi procedurali), senza però fare altrettanto per il processo Diaz, pur avendo annunciato l’intenzione contraria. Pericu all’epoca spiegò di avere cambiato idea perché, all’avvio del processo, il comune era stato già risarcito per i computer di sua proprietà distrutti durante l’irruzione alla scuola Pascoli. Una spiegazione che tuttora – a sei anni di distanza – non ha perso il sapore della scusa per togliersi dall’imbarazzo. Un processo alla polizia, evidentemente, è difficile da affrontare per tutti, anche per un’amministrazione locale, ma il ruolo del comune in una vicenda del genere è una questione prettamente politica, e non di danni materiali risarciti in modo più o meno adeguato. Il Comune di Genova ha preferito una posizione defilata, rinunciando a farsi interprete, dentro il processo Diaz, dell’attesa di giustizia dei suoi cittadini. In definitiva gli alti dirigenti imputati nel processo Diaz hanno costantemente goduto del sostegno ora esplicito ora implicito dei governanti di turno (oggi anche delle opposizioni parlamentari). Nell’estate 2001, lo si è già ricordato, caddero alcune teste, ma il tema delle dimissioni o della sospensione dagli incarichi degli imputati è stato sempre tenuto ai margini dell’agenda politica. A ogni scadenza processuale – gli avvisi di garanzia, le richieste e poi i rinvii a giudizio, le condanne di primo e secondo grado – l’argomento ha fatto appena capolino, per l’insistenza di pochi soggetti, come il Comitato verità e giustizia per Genova, il Comitato piazza Carlo Giuliani e i parlamentari delle forze di sinistra (azzerati però nel 2008), senza trovare alcuna sponda importante nel mondo dei media e delle istituzioni. Perciò i pm e i giudici si sono trovati a indagare e giudicare dirigenti nel pieno esercizio delle loro importanti funzioni e sostenuti apertamente dalle maggiori forze politiche del paese. Una situazione assolutamente impropria. L’etica istituzionale imporrebbe a dirigenti di polizia sotto processo – oltretutto per fatti di enorme gravità – di farsi da parte e collaborare con la giustizia, in modo da difendersi in piena libertà e allontanare ogni ombra dall’istituzione. Si tratta, in un caso del genere, di decidere qual è il bene supremo da tutelare: la dignità dello stato e i diritti dei cittadini sot92

toposti a soprusi da parte di uomini in divisa, o la continuità di un gruppo dirigente al vertice di polizia. Si è scelta, con tutta evidenza, la seconda opzione, pagando, in modo altrettanto evidente, un prezzo altissimo in termini di credibilità e di fedeltà ai valori della democrazia. Per pm e giudici questa scelta ha comportato ulteriori difficoltà, a cominciare dalla sensazione di trovarsi sulla sponda opposta rispetto a tutti gli altri corpi dello stato. Una condizione resa via via più pesante dall’impressionante serie di promozioni attribuite ai maggiori imputati nel processo Diaz. Non soltanto si esclusero a caldo le dimissioni del capo della polizia e la sospensione dei dirigenti mandati alla sbarra nel tribunale di Genova, ma si sono garantiti a quegli stessi dirigenti importanti avanzamenti di carriera. Facciamo i nomi. Francesco Gratteri, direttore dello Sco nel 2001, è dal 2006 capo del sovraordinato Dipartimento anticrimine, dopo un passaggio di alcuni mesi a Bari nelle vesti di questore. Giovanni Luperi, già vicedirettore dell’Ucigos, è dal 2007 capo del Dipartimento analisi dell’Aisi, il servizio segreto civile (l’ex Sisde). Gilberto Caldarozzi, vice di Gratteri nel 2001, ne ha preso il posto al vertice dello Sco nel 2005. Spartaco Mortola, già capo della Digos a Genova, è dal 2006 vicequestore vicario a Torino. Vincenzo Canterini, capo del reparto mobile di Roma, ha rango di questore dal 2005 ed è stato inviato a Bucarest come ufficiale di collegamento dell’Interpol nella lotta al traffico di organi. Tra gli imputati “minori”, ma sempre con ruoli operativi di un certo peso, hanno migliorato la propria posizione professionale anche Filippo Ferri, da capo della mobile di La Spezia a capo di quella di Firenze, e Alessandro Perugini, vicecapo della Digos genovese nel 2001, passato ad Alessandria come vicequestore nel 2006, mentre è imputato in due processi nei quali sarà condannato in primo e in secondo grado: quello per gli abusi di Bolzaneto e un altro per arresto illegale, lesioni e falso nei confronti di un ragazzino minorenne fermato senza motivo e pestato per strada il 21 luglio 2001. Un caso a parte, in quanto non indagato, ma altrettanto emblematico, è quello di Roberto Sgalla, il portavoce delle “ferite pregresse”, nonché organizzatore della conferenza stampa senza domande la mattina successiva al blitz alla Diaz. Nel 2008 è diventato capo della polizia stradale, nonostante la “performance” genovese e la discutibile esperienza del “caso Sandri”, nel novembre 2007. Ricordiamo l’episodio. Gabriele Sandri, tifoso laziale in viaggio al seguito della squadra, viene ucciso da un colpo di pistola sparato da un agente in un’area di sosta lungo l’autostrada A1, nei pressi di Arezzo. Nella successiva conferenza stampa nella questura di Arezzo, 93

definita “surreale” da molti cronisti, si presenta anche Sgalla, appena arrivato da Roma. Il portavoce della polizia chiede ai giornalisti di non fare domande – sullo stile del G8, evidentemente – mentre il questore Vincenzo Giacobbe fornisce informazioni assai sommarie: parla di due colpi sparati in aria dagli agenti e della scoperta, più tardi, che Sandri è “stato attinto [cioè colpito] al collo”. Il divieto di fare domande non aiuta certo la ricostruzione dei fatti (alla fine del 2010 l’agente sarà condannato in appello a nove anni e quattro mesi per omicidio volontario). Garante delle promozioni è stato anche Gianni De Gennaro, capo della polizia, a sua volta protagonista di una carriera in costante ascesa. Rimasto per ben sette anni al vertice della polizia, poi capo di gabinetto del ministro Amato, dopo una breve parentesi come commissario speciale per l’emergenza rifiuti a Napoli, ha raggiunto nel 2008 una poltrona di primissimo piano, come direttore generale del Dis, il Dipartimento informazioni per la sicurezza, creato con la riforma dei servizi segreti e incaricato di coordinare Aisi e Aise (eredi dei vecchi Sisde e Sismi). Da simile poltrona, De Gennaro ha affrontato il processo per induzione alla falsa testimonianza dell’ex questore Colucci. Enrico Zucca ha vissuto le promozioni dalla posizione più scomoda, come pubblico ministero incaricato di indagare sul conto di dirigenti sulla breccia e in continuo avanzamento di carriera: “Mi limito a osservare,” dice a processi conclusi, “che le promozioni degli imputati sono un modo evidente di mettere i magistrati di fronte a un fatto compiuto, una pressione indiretta che non giova alla serenità del giudizio. Non è un caso se la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito il principio cogente per cui il rappresentante dello stato posto sotto processo in casi del genere deve essere sospeso e, se condannato, rimosso”. “Vergogna” Il grido “Vergogna, vergogna” lanciato da una cittadina dal fondo dell’aula bunker del tribunale di Genova, è ciò che più si ricorda della sentenza di primo grado del processo Diaz. È il 13 novembre 2008. L’urlo, lanciato all’improvviso nel silenzio generale, appena compreso che la sentenza ha “salvato” l’intera catena di comando, ossia i “papaveroni” imputati, è ripreso e intonato a gran voce dagli altri (pochi in verità) cittadini presenti fra il pubblico e dalle parti civili arrivate anche dall’estero, Mark Covell in testa, per assistere all’atto finale – o meglio al primo atto della partita finale – del percorso giudiziario avviato sette anni prima. La sentenza di primo grado, a parte il “Vergogna, vergogna”, è a suo modo un documento storico. Vi si trovano condensate tutte le esitazioni e le cautele che hanno accompagnato l’inchiesta 94

e il dibattimento nel tentativo di minimizzare comportamenti abnormi ed escludere responsabilità dirette dei maggiori dirigenti imputati. A ben vedere, quella sentenza è un’espressione fedele della difficoltà incontrata dalle istituzioni democratiche nel fare i conti con le violenze e le violazioni di legalità compiute da uomini dello stato. Vi si intravede l’imbarazzo di dover giudicare dirigenti di polizia di grado altissimo, accusati di gravi e infamanti reati. Vi si ritrovano la freddezza che il presidente del tribunale mostrava in aula rispetto alle valutazioni dei pm Zucca e Cardona Albini, e la poca empatia che circondava i “ragazzi della Diaz” durante le loro drammatiche testimonianze. Il testo procede a strappi. Ora ammette l’enorme gravità dei fatti ma subito dopo mette in dubbio la credibilità dei testimoni; ora riconosce falsi e contraddizioni ma immediatamente trova plausibili spiegazioni farraginose o poggiate sull’inconsapevolezza dei protagonisti. Azzardando una parafrasi e un’estrema semplificazione, ma invitando a leggere per intero le motivazioni – a loro modo davvero istruttive –, la sentenza di primo grado può essere riassunta così. 1. Alla scuola Diaz fu eseguita una perquisizione legittima, alla ricerca di facinorosi, per quanto l’assalto alle volanti, indicato come motivo del blitz, forse non fu un vero e proprio assalto. 2. Le immagini mostrano che al momento dell’irruzione il lancio fittissimo di oggetti dichiarato dagli agenti non vi fu, ma qualche oggetto forse fu lanciato... 3. Le violenze contro gli ospiti della scuola vi furono, ma forse non furono sistematiche, se non nella percezione dei testimoni. Non si trattò in ogni caso di una spedizione punitiva di rappresaglia, ma di una “esplosione di violenza” che ebbe “un’origine spontanea” e si propagò “per un effetto attrattivo e per suggestione” fino a provocare comunque azioni “non solo al di fuori di ogni regola e di ogni previsione normativa ma anche di ogni principio di umanità e di rispetto delle persone”. 4. I testimoni tendono a ricordare, riferire e anche ampliare solo le cose favorevoli a loro e ai loro amici, per cui non si può escludere con assoluta certezza che davvero vi siano state colluttazioni con gli agenti all’interno della Diaz-Pertini, pur in assenza di riscontri credibili. 5. Quanto all’agente Nucera, è vero che ha cambiato versione sull’accoltellamento dopo la perizia del Ris che dichiarava incompatibili i tagli sul corpetto con la dinamica inizialmente esposta, è vero che è entrato in contraddizione e che l’aggressore non fu fermato, ma che avesse deciso di simulare una falsa aggressione è scarsamente logico e razionale. 95

6. I verbali di arresto e di sequestro sono pieni di attestazioni false, ma chi li firmò forse non ne era consapevole. 7. Le molotov furono introdotte nella scuola dall’agente Burgio e dal vicequestore Troiani, che trassero in inganno tutti i loro superiori, convinti davvero che le bottiglie ricevute nel cortile provenissero dalla scuola. Non si trattò dunque di una messinscena organizzata per accusare e arrestare i 93 cittadini e giustificare a posteriori la perquisizione per ricerca di armi, ma di un equivoco, o di un tradimento della fiducia. 8. Ne deriva che gli alti dirigenti imputati semplicemente presero per buone le sommarie informazioni ricevute, non fecero domande, non chiesero spiegazioni e così si arrivò ad attribuire erroneamente le molotov ai 93 ospiti della scuola Diaz. Ecco la sentenza di primo grado, davvero ardita in alcuni passaggi logici, e a dir poco generosa nell’accogliere le tesi difensive, poggiate sull’architrave dell’inesistenza di una catena di comando e sulla tesi che nessuno si rese davvero conto di nulla: né delle violenze, né dei falsi riferiti nei verbali, né del percorso delle molotov... Il tribunale mandò dunque assolti i “papaveroni” – Gratteri, Luperi, Caldarozzi –, i funzionari accusati di falso per i verbali d’arresto, l’agente Nucera e il suo presunto complice Panzieri. Assolto anche Gava per la perquisizione illegale alla scuola Pascoli, considerata un banale errore (una scuola scambiata per un’altra) senza conseguenze. Rimasero impigliati nella piccola rete della giustizia lanciata in primo grado, i due “traditori-ingannatori” – ossia l’agente Burgio, un semplice autista, che portò le due bottiglie dall’automezzo al cortile della scuola, e il vicequestore Troiani –, la coppia Canterini-Fournier che comandava il VII nucleo del reparto mobile di Roma e i capisquadra del medesimo. Una volta lette le motivazioni, è difficile sfuggire a un pensiero: ci risiamo. Siamo ancora allo stato che assolve se stesso. Si volevano assoluzioni, almeno per i dirigenti di grado più alto, e assoluzioni sono arrivate. Ma questa frustrante sensazione è durata pochi mesi, perché nel maggio 2010 in appello si è tornati su binari più comprensibili e convincenti. La nuova sentenza non cerca scuse, né azzarda supposizioni. Le fitte sassaiole senza sassi ora paiono ai giudici semplicemente un’invenzione. Un cambio di versione per un accoltellamento senza accoltellatore, “una delle più gravi e sfrontate messe in scena di questo processo”, come si legge a pagina 225 nelle motivazioni della sentenza. Un autista è di nuovo un semplice agente che esegue un ordine, per quanto equivoco e incomprensibile. I testimoni, decine di testimoni che forniscono pacatamente racconti incontestabili e perfettamente coerenti gli 96

uni con gli altri, sono finalmente persone rispettabili e con la memoria che funziona, diversamente da chi stava dall’altra parte dei manganelli e della notte della Diaz non ricorda nulla, o solo poche e confuse circostanze, delle quali – comunque – ha poca voglia di parlare. Il dirigente del Servizio centrale operativo nella sentenza d’appello torna a essere la figura di riferimento per gli operatori delle squadre mobili; il dirigente dell’Ucigos per gli uomini delle Digos. Un gruppo di grandi investigatori, con carriere brillanti alle spalle, non è più un insieme di ingenui osservatori e meri ricettori di bottiglie incendiarie e di confuse versioni dei fatti, ma un gruppo di funzionari ben consapevoli di quello che fanno, sia pure fuori dalle regole della legge.

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Foto di Luca Bruno © AP/La Presse

4. Il “capo” e gli altri

Poliziotti che scrivono È il 19 dicembre 2002 e “Il Secolo XIX”, antico giornale genovese, pubblica in prima pagina un articolo di Maurizio Maggiani, scrittore nonché editorialista del quotidiano. È una lettera aperta per il capo della polizia Gianni De Gennaro. Fra il serio e il faceto, Maggiani chiede spiegazioni per gli orrori del G8 al massimo responsabile dell’ordine pubblico, fino a quel momento assai parco di commenti e del tutto restio ad assumersi una diretta responsabilità per quanto accaduto. Maggiani comincia così il suo scritto: “Gentile signor De Gennaro, sto chiedendo a me stesso e sono qui a chiedere a lei, se mai sarà fatto dono alla città di Genova di vederle sciogliere il suo, encomiabile, voto di riservatezza e ascoltare dalla sua viva voce, dalla voce del capo della polizia, un’attendibile, esaustiva interpretazione di quella sorta di storia notturna della mia città che si è compiuta tra il 20 e il 22 luglio del 2001 e di cui le forze d’ordine da lei allora e tutt’oggi dirette, sono state interpreti d’eccezione”. Più avanti Maggiani chiede conto dei comportamenti tenuti in piazza: “Quante polizie c’erano signor De Gennaro a Genova nei giorni noti oggi nel mondo come ‘i giorni del G8 di Genova?’. Una, due, tre? Il poliziotto in assetto antisommossa che al ‘gomito di corso Italia’ mi ha indicato una buona via di fuga dalle manganellate dei suoi colleghi, faceva parte della stessa polizia che si è raccolta attorno alla scuola Diaz – e di quella facevano parte anche quelli che ci sono entrati? Quante polizie c’erano signor De Gennaro, e quante lei ne ha effettivamente dirette? Una, tutte, nessuna? I magistrati stanno facendo il loro lavoro che consiste nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità che li hanno 99

PERSONAGGI E INTERPRETI ANSOINO ANDREASSI:

vicecapo vicario della polizia. Oggi pensio-

nato. GILBERTO CALDAROZZI:

vicedirettore del Servizio centrale operativo (Sco), l’ufficio nazionale della polizia investigativa. Oggi direttore.

VINCENZO CANTERINI:

comandante del I reparto mobile di Roma.

Oggi pensionato. FRANCESCO COLUCCI:

questore di Genova. Oggi prefetto.

GIANNI DE GENNARO: capo della polizia, oggi capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), l’ufficio che coordina tutti i servizi segreti. FRANCESCO GRATTERI: direttore dello Sco. Oggi capo della Direzione centrale anticrimine. ARNALDO LA BARBERA:

direttore dell’Ucigos, la struttura antiterrorismo di coordinamento delle Digos italiane. È morto nel 2002.

GIOVANNI LUPERI: vicedirettore dell’Ucigos. Oggi capo del Dipartimento analisi dell’Aisi (il servizio segreto civile). ANTONIO MANGANELLI: direttore centrale della polizia criminale e vicecapo della polizia. Oggi capo della polizia. SPARTACO MORTOLA: capo della Digos di Genova. Oggi vicequestore vicario di Torino. ROBERTO SGALLA: direttore dell’Ufficio relazioni esterne della po-

lizia. Oggi capo della polizia stradale.

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generati; quanto dell’efficacia del loro lavoro può essere determinata dal suo riserbo? Alcune cose i giudici le stanno chiarendo, altre no”. Non è un testo ostile, quello di Maggiani, ma certo richiama De Gennaro alle sue responsabilità verso l’opinione pubblica. Non possono bastare, sostiene lo scrittore, le spiegazioni offerte l’anno prima al Comitato parlamentare d’indagine. E non si può delegare alla sola magistratura il compito di accertare fatti e responsabilità, che non sono di esclusivo ordine penale. Maggiani, probabilmente, non si aspettava una risposta dal suo interlocutore. La lettera aperta è un genere giornalistico molto praticato e serve a evidenziare un caso, un atto, un’omissione, ma non implica risposta. Invece De Gennaro scrive al giornale, rompendo “l’encomiabile voto di riservatezza” ironicamente evocato da Maggiani. Non si tratta di un semplice gesto di cortesia, di un breve messaggio poco più che formale. L’articolo di Gianni De Gennaro è un testo lungo, il doppio di quello di Maggiani. Il capo della polizia prende dunque la parola per spiegare finalmente le ragioni di quanto accaduto nei “giorni del G8”? Forse sceglie il principale quotidiano della città per indicare le condotte da censurare, per offrire le sue scuse ai cittadini e annunciare i provvedimenti necessari a scacciare il dubbio, implicito nel messaggio di Maggiani, che si vogliano coprire responsabilità collocate ad altissimi livelli? Niente di tutto questo. “Il Secolo XIX” pubblica l’intervento del capo della polizia il 30 dicembre 2002, ancora in prima pagina. Il testo è ricco di affermazioni di principio, contiene lodi al comportamento degli agenti e garanzie di lealtà democratica delle forze di polizia, ma in sostanza è una difesa a tutto campo degli operatori scesi in piazza, senza alcun riferimento a fatti concreti. Non si parla degli attacchi ai cortei e alla scuola Diaz, né dell’uccisione di Carlo Giuliani, né della caserma di Bolzaneto. De Gennaro si limita a rimandare alla magistratura il compito di accertare eventuali responsabilità di ordine penale. L’intento esplicito è circoscrivere gli abusi a meri comportamenti individuali. Nulla si dice delle violenze subite da decine di cittadini, nulla sui clamorosi falsi contenuti in relazioni, verbali d’arresto, ricostruzioni ufficiali dei fatti. Riportiamo i passaggi principali dell’articolo di De Gennaro. L’inizio, con il richiamo al “voto” argutamente indicato da Maggiani: “Caro direttore,” scrive il capo della polizia, “rispondo al cortese invito che Maurizio Maggiani mi ha rivolto dalle colonne del suo giornale, pur essendo fermamente convinto che chi come me ha scelto di servire lo stato debba prediligere – non per voto, ma per dovere – la discrezione e la riservatezza”. 101

Ecco il giudizio sulla gestione complessiva del G8, dopo avere indicato i rischi, all’epoca a suo avviso incombenti, del terrorismo internazionale e di quello interno: “Ebbene, nonostante questo quadro generale e nonostante le difficoltà operative accentuate dal particolare assetto urbano di Genova, le forze dell’ordine si sono dimostrate all’altezza della situazione”. La risposta alle domande di Maggiani sulle due-tre polizie: “La verità che dunque posso offrire ai cittadini di Genova è quella che – al di là di specifici episodi tuttora al vaglio del magistrato – emerge da una obiettiva ricostruzione di quei terribili giorni e dalla serena valutazione di numerose altre manifestazioni di protesta che si sono svolte successivamente in tutta Italia. Rispondo così a una precisa sollecitazione del suo editorialista. Una soltanto era la volontà delle autorità di pubblica sicurezza preposte a gestire un evento così difficile, quella di attuare in pieno le direttive del governo: sicurezza del vertice, protezione di Genova e dei suoi abitanti, garanzia delle libertà di manifestare e tutela dei manifestanti pacifici. Per il raggiungimento di questi obiettivi si è concordemente mossa una complessa macchina organizzativa che ha visto operare all’unisono oltre quindicimila uomini e donne delle forze dell’ordine e delle forze armate, migliaia di mezzi, decine di strutture di supporto. Carenze ed errori di singoli, ora all’esame della magistratura, non possono comunque mettere in dubbio la complessiva correttezza e l’efficacia dell’operazione”. Infine la rassicurazione: “La verità è che le forze di polizia, eredi di una profonda e radicata tradizione democratica di tutela delle libertà, credono nei valori della nostra Costituzione, detestano la violenza e ricorrono all’uso della forza solo quando è assolutamente indispensabile, preferendo invece l’arma del dialogo e il metodo della prevenzione. Vengono dalla sincera condivisione di queste verità le decine di manifestazioni pacifiche che quotidianamente si svolgono nelle strade e nelle piazze delle nostre città; e vengono da qui la capacità di fare autocritica per gli errori commessi e la forte richiesta delle donne e degli uomini delle forze dell’ordine di essere capiti nelle loro difficoltà e di essere aiutati a superarle per il bene di tutti”. Dopo questa lettera al “Secolo XIX”, Gianni De Gennaro non ha più preso la parola in pubblico sul G8 di Genova. Troppo scomodo l’argomento, troppo difficile riscattare l’immagine di forze dell’ordine compromesse con “una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia più recente”, per dirla con Amnesty International. In verità, almeno sulla vicenda per lui più delicata, la parola De Gennaro stava per ritrovarla, come testimone citato dalla pubblica accusa al processo Diaz. Il suo intervento era pro102

grammato il 9 maggio 2007, e stava suscitando una certa attesa, sia in tribunale, sia all’interno della polizia. Tuttavia saltò, per decisione degli stessi pm Zucca e Cardona Albini, dopo la clamorosa deposizione di Francesco Colucci, che cambiò versione in aula, il 3 maggio 2007, proprio sul ruolo avuto nella vicenda Diaz dal capo della polizia, di lì a poco finito sotto inchiesta e rinviato a giudizio per istigazione alla falsa testimonianza dell’ex questore. Nemmeno in quest’ultimo processo, di cui diremo più avanti, De Gennaro ha reso dichiarazioni pubbliche, poiché si è svolto con il rito abbreviato e a porte chiuse. Il “voto di riservatezza” ha fatto dunque premio sull’opportunità, o meglio sulla necessità, di offrire pubbliche spiegazioni su vicende che il passare del tempo ha forse allontanato dalla memoria dei più, senza però togliere loro l’importanza storica che rivestono. Per l’onore delle forze di polizia, il G8 di Genova è una macchia vasta e nerissima, che le sentenze dei tribunali hanno addirittura esteso. Chi puntava a minimizzare l’accaduto – come De Gennaro nella sua lettera al “Secolo XIX” – consegnando alla magistratura il compito di individuare i responsabili di pochi, circoscritti abusi, si è trovato di fronte a ricostruzioni dei fatti che chiamano in causa non le poche e insignificanti “mele marce” della retorica ufficiale, bensì il gotha della polizia italiana. Le stesse inchieste hanno portato alla luce manovre sotterranee e scontri aperti con la magistratura, che nulla hanno a che vedere con “la capacità di fare autocritica per gli errori commessi” e con “la profonda e radicata tradizione democratica di tutela delle libertà” evocate nella lettera di De Gennaro.

L’etica della polizia Lo scambio epistolare fra Maggiani e De Gennaro fa venire in mente un testo famoso, il messaggio che il questore di Parigi, Maurice Grimaud, inviò ai suoi uomini nell’infuocato maggio del ’68. Nei boulevard parigini, in quel mese tragico e grandioso, vi furono scontri e disordini ben diversi da quelli visti a Genova nel 2001, ma simile era l’esigenza, avvertita dal questore parigino, di tutelare l’onore e quindi l’affidabilità delle forze di polizia, già responsabili, in quegli anni, di gravi crimini, a cominciare dal “massacro di Parigi” del 17 ottobre 1961, che costò la vita a circa duecento manifestanti per l’indipendenza algerina. Grimaud, nel maggio ’68, mandò ai suoi ventimila agenti una lettera, consegnata alla storia come una delle pagini migliori scritte dalle istituzioni francesi in quel difficile passaggio. È un testo che non dev’essere noto a chi si trova ai vertici della polizia italiana. 103

“Voglio parlare,” scrisse Grimaud, “degli eccessi dell’impiego della forza. Se non arriviamo a una spiegazione molto chiara e molto franca su questo punto, vinceremo forse la battaglia della strada ma perderemo qualcosa di molto più prezioso e alla quale voi tenete quanto me: la vostra reputazione.” Dopo avere deplorato i “processi alla polizia” fatti sulla stampa senza mettere in luce il contesto ed espresso vicinanza e comprensione per le “botte e gli oltraggi” e le “aggressioni” contro gli agenti, Grimaud arriva al cuore della questione: “Colpire un manifestante finito a terra è colpire se stessi e mostrarsi sotto una luce che offende tutta la funzione di polizia. È ancora più grave colpire dei manifestanti dopo averli arrestati e dopo averli portati nei locali della polizia per essere interrogati. So bene,” prosegue la lettera, “che quanto dico adesso sarà male interpretato da alcuni di voi, ma so di avere ragione e che in fondo a voi stessi lo riconoscete anche voi. Se parlo così è perché sono solidale con voi. L’ho già detto e lo ripeterò: tutto ciò che fa la polizia parigina mi riguarda direttamente e non separerò le mie responsabilità dalle sue”. Parigi, non Genova; 1968, non 2001.

La catena dei falsi In Italia le cose vanno davvero in altro modo. La credibilità di chi indossa la divisa non pare preoccupare nessuno, nemmeno all’indomani di eventi e inchieste che certificano indecenze pari, se non peggiori, a quelle che tormentavano il questore parigino durante il Maggio francese. Quanto incidono i pestaggi di persone inermi, la costruzione di prove false, decine di arresti illegali, i maltrattamenti sui detenuti, le trame occulte per bloccare le indagini o colpire un magistrato, nella complessiva credibilità di un organismo di polizia? Quanto incidono, nella fattispecie, se coinvolgono i vertici di quell’organismo? Domande retoriche, ma non oziose. Ripercorriamo brevemente la catena dei falsi alla scuola Diaz e vediamo qual è stato il contributo dei vertici di polizia all’accertamento della verità e alla tutela del bene che Grimaud giudicava “il più prezioso” per un agente al servizio dello stato, ossia la reputazione. Ci limiteremo a considerare i fatti più macroscopici. Come sappiamo, sono già stati esaminati da entrambi i giudici di merito, ma possiamo valutarli anche in un’altra ottica, quella della lealtà civile e istituzionale.

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Un assalto, o quasi Il motivo ufficiale della perquisizione, lo abbiamo ricordato, fu l’aggressione a quattro mezzi della polizia di stato di passaggio in via Battisti, avvenuta secondo i verbali verso le 22.30 di sabato 21 luglio, in realtà collocata oltre un’ora prima dalle verifiche della magistratura. Il “fitto lancio di grosse pietre” descritto inizialmente, fu presto ridimensionato dagli stessi firmatari dei verbali, a cominciare da Massimiliano Di Bernardini, il funzionario capopattuglia che nella stessa serata avrebbe partecipato al blitz alla Diaz. Già nella sentenza di primo grado, piuttosto indulgente con la polizia di stato, si riconosce che al passaggio della pattuglia più che un assalto violento, vi fu una reazione definita “molto accesa”, consistente in “grida, minacce, insulti” e nel “lancio di almeno una bottiglia e qualche spinta e colpo al Magnum”. Secondo la versione ufficiale, mantenuta per tutto il processo dagli imputati, questo episodio fu all’origine della decisione di procedere a una perquisizione di grande portata e con molti rischi. Un’azione con centinaia di agenti, guidata da altissimi dirigenti nazionali della polizia di stato, sarebbe stata decisa nella convinzione che gli autori dell’aggressione in via Battisti – un episodio di per sé davvero modesto, con il lancio di una semplice bottiglia vuota in direzione di un’automobile! – fossero i militanti del Black Bloc e che a distanza di un’ora e mezzo (secondo quanto scritto nei verbali, in realtà quasi tre ore) sarebbero stati sorpresi all’interno della scuola Diaz-Pertini e lì identificati come responsabili non solo dell’assalto della serata ma anche degli atti di vandalismo commessi durante la giornata. Difficile credere a un’ipotesi del genere, che si scontra prima di tutto con il buonsenso. Eppure non è stata mai rettificata.

“Colluttazioni unilaterali” Nemmeno la dinamica ufficiale dell’irruzione ha retto l’impatto con le verifiche della magistratura. Nei verbali si dice che vi fu una forte resistenza, prima con un “fitto” lancio di oggetti dalle finestre della scuola, poi all’interno dei locali, con colluttazioni violente fra gli agenti e gli ospiti della Diaz armati di bastoni e altri oggetti. Tutte le immagini disponibili, esaminate dal Ris dei carabinieri, mostrano che non vi fu il “fitto lancio di oggetti” descritto nei verbali. L’ingresso degli operatori di polizia è stato filmato e in molte immagini è visibile il selciato di fronte all’ingresso: niente vola verso il basso, nulla di quanto descritto si vede a terra, tanto meno il maglio che sarebbe piovuto sugli agenti secondo 105

una prima testimonianza di Spartaco Mortola, capo della Digos genovese e figura chiave dell’operazione. La resistenza all’interno dei locali è stata smentita dalle testimonianze convergenti dei 93 arrestati, che hanno tutti descritto la medesima successione dei fatti: sfondamento del portone, irruzione nella palestra al piano terreno e ai piani superiori, pestaggio immediato dei presenti. Nessuno degli agenti e dei funzionari è riuscito a descrivere un solo episodio concreto di resistenza, a parte il (fasullo) caso Nucera. Michelangelo Fournier, entrato fra i primi alla testa del VII nucleo antisommossa del reparto mobile di Roma, nella sua deposizione in tribunale ha addirittura creato un ossimoro, parlando di “colluttazioni unilaterali”, ossia pestaggi, attribuiti peraltro ad agenti di altri contingenti e non ai suoi uomini. Nemmeno una parola, né all’interno dei verbali, né in dichiarazioni e interventi vari, è stata mai spesa dai protagonisti del blitz sulla brutale aggressione a Mark Covell, il giornalista londinese travolto e pestato all’esterno della scuola, in via Battisti, a fianco del cancello della Pertini. Un altro cittadino, Francesco Frieri, fu a sua volta picchiato per strada dagli agenti in avvicinamento verso la scuola. Covell rimase almeno venti minuti a terra, ben visibile a decine di agenti. Nei filmati si vedono e si riconoscono alcuni funzionari che gli passano molto vicino. Ma sul suo “incontro” con la polizia e sulle circostanze del suo arresto non esiste alcun atto ufficiale, se non la falsa indicazione che il suo fermo avvenne, come per gli altri 92 cittadini, dentro la scuola Diaz-Pertini. L’aggressione di Covell (e Frieri) è un episodio chiave dell’intera vicenda, perché dimostra che l’uso della violenza non dipese affatto dalla presunta resistenza opposta dagli ospiti della scuola. Covell era del tutto indifeso e l’irruzione vera e propria non era nemmeno cominciata. Inoltre, il tardivo soccorso al giornalista inglese è fra gli episodi più deplorevoli e ingiustificabili di quella tragica nottata. Il corpo a terra – ben visibile sul marciapiede – fu ignorato per molti preziosi minuti. Un carabiniere intervenuto per “cinturare” la zona, dopo averlo notato, entrò nel cortile della scuola e chiese a un personaggio che svolgeva funzioni di comando, poi identificato in Francesco Gratteri, di soccorrere l’uomo ormai svenuto. La risposta ricevuta dal militare – Luigi Cremonini – fu uno stizzito invito a riprendere posto, perché un’ambulanza era stata già chiamata. Il fatto che nessuno abbia mai espresso rammarico o indignazione per la vicenda di Mark Covell squalifica sotto il profilo morale e professionale, quanto e forse più dei falsi, i responsabili della “perquisizione” alla scuola Diaz. 106

Agenti che sbagliano Quanto all’irruzione alla scuola Pascoli, sede del Genoa social forum e del Media center allestito nei giorni della mobilitazione, è sufficiente confrontare la tesi difensiva sostenuta al processo dal funzionario – Salvatore Gava – imputato per falso, perquisizione abusiva e concorso in lesioni come responsabile dell’irruzione, con la comunicazione inviata a caldo dal questore di Genova al capo della polizia. Oltre a negare un proprio ruolo di comando se non sul drappello della squadra mobile di Nuoro (7 agenti su un totale di circa 40 impegnati nell’operazione), Gava ha sostenuto d’essere entrato per sbaglio con i suoi uomini alla scuola Pascoli, posta proprio di fronte alla Pertini, e di non avervi compiuto alcuna operazione di polizia giudiziaria, tanto meno una perquisizione. Nelle prime ore del 22 luglio 2001, quindi nell’immediatezza dei fatti, il questore Colucci inviò però al capo della polizia De Gennaro un lungo fonogramma informativo, nel quale si legge fra l’altro che “contemporaneamente alla perquisizione, veniva effettuata una verifica all’interno dei locali della sede stampa del Gsf sita in un edificio prospiciente il complesso scolastico Diaz, senza il compimento di ulteriori atti od operazioni per assenza di qualsiasi problematica concernente la sicurezza”. Non vi fu dunque alcun errore. Il processo ha dimostrato che l’irruzione alla Pascoli cominciò quattro minuti dopo il blitz alla Diaz. Ai presenti fu ordinato di sedersi o sdraiarsi a terra, come dimostra una registrazione audio fortunosamente salvata dal testimone Marco Trotta, corrispondente di una radio tedesca. Alcune persone furono percosse. La diretta di Radio Gap fu interrotta bruscamente dall’arrivo degli agenti, che portarono via alcune videocassette (senza redigere alcun verbale) e distrussero i cinque computer – solo quelli, ignorando tutti gli altri – utilizzati dagli avvocati del servizio legale del Gsf. Evidentemente ne conoscevano la collocazione. Sugli hard disc prelevati erano già state archiviate numerose denunce di manifestanti aggrediti e maltrattati per strada dagli agenti durante i disordini. L’operazione alla Pascoli durò fra i 30 e i 45 minuti, un lasso di tempo un po’ troppo ampio per sostenere la tesi dell’errore. Il tribunale, nella sentenza di primo grado, ha tuttavia accettato quest’ipotesi, spingendosi in valutazioni davvero ardite, come nel passaggio in cui nega un possibile interesse della polizia a prelevare o distruggere gli hard disc degli avvocati, o quando sorvola sulle ammissioni di alcuni agenti della Digos genovese, che hanno parlato esplicitamente di un’operazione che mirava a impedire riprese filmate. Il blitz alla Pascoli fu in realtà un intervento – assolutamente 107

illegittimo – volto a proteggere il blitz in corso nella scuola di fronte e a evitare che l’irruzione alla Diaz-Pertini fosse documentata con foto e video. Fu una sorta di occupazione temporanea del territorio. In un interrogatorio, prima di cambiare versione e sposare la teoria dell’errore, Spartaco Mortola usò l’espressione tecnica “messa in sicurezza”. Le riprese video furono in effetti interrotte e alcune cassette prelevate. Una parte della documentazione si è tuttavia salvata ed è finita fra i materiali di prova nel processo. Per i giudici d’appello l’ingresso alla Pascoli avvenne “intenzionalmente per evitare che dalle riprese audio-video che erano in corso da quella scuola rimanessero tracce dell’irruzione in corso presso la scuola Pertini, e se c’è stato errore questo è consistito nell’entrare nella sede del Gsf ove un intervento della polizia era politicamente controproducente. Non a caso l’occupazione è terminata solo dopo l’intervento della onorevole Mascia che ha ottenuto lo sgombero”. Salvatore Gava, assolto in primo grado, è stato condannato in appello a tre anni e otto mesi per falso come firmatario dei verbali d’arresto dei 93 ospiti della Diaz-Pertini; per la perquisizione illegale, la violenza privata e il danneggiamento alla Pascoli è scattata la prescrizione sotto il profilo penale, con l’obbligo però di risarcire le parti civili (Gava è stato invece assolto dall’accusa di peculato).

Il capo del Black Bloc L’arresto collettivo dei 93 ospiti della scuola, come abbiamo visto, fu possibile grazie all’imputazione per associazione a delinquere finalizzata a devastazione e saccheggio, corroborata dal ritrovamento di alcuni strumenti d’offesa, fra i quali solo le due bombe molotov avevano autentica dignità di armi. Nel verbale d’arresto la polizia toccò punte comiche, nel tentativo di accreditare l’improbabile appartenenza al Black Bloc dei 93 arrestati, che non si conoscevano fra loro e tanto meno erano noti alla polizia. Si indicò in uno dei 93, Jonas Szabo, cittadino tedesco di ventun anni, l’esponente di maggiore spicco, producendo come “prove” due reperti trovati nel suo zaino: uno schizzo indicato come un piano d’attacco preparato all’interno della scuola, e un documento dai toni sovversivi. Una rapida verifica permise di stabilire che Szabo non fu arrestato dentro la scuola Diaz, come indicato nel verbale (quindi falso anche su questo punto), bensì per strada; che lo zaino fu preso alla scuola Pascoli e non alla Pertini (altro falso); che lo schiz108

zo incriminato era un disegno realizzato allo stadio Carlini durante un’esercitazione pubblica delle Tute bianche in vista del corteo di venerdì 20 luglio, esercitazione fotografata e filmata da decine di operatori di tutto il mondo. Il documento “ideologico”, infine, non era che un passo di una biografia del reverendo Jesse Jackson, a suo tempo candidato alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti.

L’arresto del coltello Meno grotteschi, ma non meno gravi il caso Nucera e la vicenda delle due bottiglie molotov. L’accoltellamento dell’agente al primo piano della scuola, si è detto, apparve subito come un episodio assai sconcertante. Il contesto dell’operazione e la mancata identificazione dell’aggressore, oltre che l’assenza di ogni sforzo da parte della polizia per individuarlo fra i 93 arrestati, rendevano molto dubbio il racconto dell’agente Nucera. Quando la perizia del Ris di Parma definì incompatibile la dinamica descritta dall’aggredito con i tagli visibili sul corpetto protettivo, parve chiaro ai pm che si trattava di una messa in scena per rendere più credibile la tesi della forte resistenza incontrata nella scuola e quindi attenuare lo scandalo per le violenze sui 93 arrestati. L’agente Nucera corresse però il suo racconto. Secondo il Ris i due tagli sul corpetto non potevano essere il frutto di un unico colpo, e Nucera nella seconda versione parlò di una seconda coltellata, sferrata dall’aggressore al momento di indietreggiare e mentre perdeva l’equilibrio. Una nuova perizia, chiesta dal tribunale, non escluse la compatibilità fra i tagli e la nuova descrizione dei fatti. Ma intanto anche l’unico testimone dell’episodio, l’agente Antonio Panzieri, aveva corretto la sua versione. Nell’ultimo interrogatorio, successivo alla seconda versione dei fatti, Panzieri disse di non avere visto con certezza un coltello e di essersi allontanato ad azione in corso, senza intervenire e quindi senza fermare l’attentatore, come riferito invece in un primo momento. Il tribunale di primo grado, pur ammettendo l’esistenza di dubbi e contraddizioni, ha assolto Nucera, sostenendo che l’agente non aveva alcun interesse a inscenare una falsa aggressione. “Non appare possibile,” si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado, “ritenere provata con la dovuta certezza né la falsità dell’aggressione in esame né il suo reale accadimento.” Per la Corte d’appello si trattò invece di “un episodio inventato di sana pianta” per la “necessità di attribuire agli arrestati una serie coerente di fatti di reato tali da giustificare l’operazione e gli arresti stessi, una volta verificato l’esito infelice dell’irruzio109

ne”. Sia Nucera sia Panzieri, assolti in primo grado, sono stati condannati in appello a tre anni e otto mesi.

Il cielo si tinge d’azzurro Il falso delle molotov alla scuola Diaz è ormai celebre e degno d’entrare nei manuali di criminologia. Rilanciato dai media internazionali, l’episodio ha fatto il giro del mondo, minando la credibilità della polizia di stato italiana. La quale, peraltro, non ha fatto nulla per riscattarsi e tutelare la propria dignità. Non ha mai mostrato indignazione, né rinnegato l’episodio. Lo stesso capo della polizia, nel suo articolo-editoriale sul “Secolo XIX” del dicembre 2002, non ne fece la minima menzione. Eppure a quell’epoca si sapeva già tutto delle due bombe incendiarie. Da alcuni mesi i magistrati avevano ricostruito il vero percorso delle due bottiglie, dal ritrovamento pomeridiano in un cespuglio all’improvvisa comparsa nel cortile della scuola Diaz a perquisizione in corso. Il falso fu smascherato grazie a un’intuizione dei magistrati e alla sincerità di un funzionario di polizia. L’intuizione nacque dalla lettura delle relazioni di servizio raccolte dal Comitato d’indagine parlamentare e quindi inviate alla procura di Genova. I pm trovarono fra le carte la documentazione del ritrovamento, nel pomeriggio di sabato 21 luglio, di due molotov in corso Italia, lungo il percorso del corteo. Erano forse le stesse indicate come armi in possesso dei 93 arrestati alla Diaz? Ma perché, in quel caso, non avevano seguito il normale percorso, ossia il formale sequestro e la custodia in questura? Occorreva una prima verifica, controllando tutti i verbali relativi alle molotov sequestrate durante le manifestazioni. Per non insospettire la polizia di stato, i pm non chiesero direttamente l’elenco, ma domandarono al procuratore aggiunto Pellegrino di avanzare una formale richiesta a sua firma. L’elenco arrivò. E le molotov di corso Italia non vi comparivano. Non vi era quindi stato alcun atto di formale sequestro e custodia in questura. La pista era dunque buona. Ma serviva la prova definitiva, che arrivò grazie alla testimonianza di Pasquale Guaglione, il vicequestore (in servizio a Bari) che aveva firmato la relazione scritta sul ritrovamento in corso Italia. A Guaglione furono mostrate le fotografie delle due bottiglie: una portava l’etichetta di un vino dei colli piacentini, l’altra commemorava un raduno degli alpini. Non gli fu detto che si trattava delle molotov della Diaz. Gli fu semplicemente chiesto se riconosceva nelle immagini le bottiglie rinvenute nel cespuglio l’an110

no prima. Guaglione non ebbe alcuna esitazione: erano proprio quelle. Il cerchio si chiudeva. Le molotov erano state certamente introdotte alla scuola Diaz dagli stessi poliziotti. Ma il vero colpo di scena doveva ancora venire. Ebbe la forma di un breve video, ripreso dalla tv genovese Primo Canale nel cortile della scuola Diaz a perquisizione in corso. È un documento a suo modo memorabile, un piccolo monumento alla vergogna della polizia di stato. Le immagini ritraggono un gruppo di persone riunite quasi a cerchio davanti all’ingresso della Diaz-Pertini, a pochi metri dal portone. Discutono di qualcosa. Uno dei personaggi ha in mano un sacchetto azzurro. È l’involucro che custodisce le molotov. Il personaggio che regge il principale “risultato” della perquisizione è Giovanni Luperi. Accanto a lui si riconoscono Gilberto Caldarozzi, Spartaco Mortola, Vincenzo Canterini, Pietro Troiani, Francesco Gratteri, Lorenzo Murgolo. Di spalle c’è Giovanni Fiorentino (non indagato). Per i pm è la prova che tutti hanno fin lì mentito, negando negli interrogatori ogni contatto diretto con le bottiglie molotov. La sequenza, secondo i magistrati, riprende il “conciliabolo” durante il quale viene deciso l’esito dell’operazione, ossia l’attribuzione ai 93 ospiti della scuola del possesso collettivo delle bottiglie incendiarie portate dall’esterno, con il conseguente arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e la possibilità di giustificare a posteriori la perquisizione eseguita sulla base dell’articolo 41 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulps). “Scoprimmo il filmato,” racconta oggi Enrico Zucca, “grazie all’insistenza di uno degli indagati, Michele Burgio, che ricordava una telecamera in azione poco dopo la consegna delle molotov, che lui stesso aveva portato nel cortile della scuola. Avevamo ricevuto e già vagliato moltissimi filmati. Li riguardammo con occhi nuovi e ci accorgemmo di questa sequenza. Sequestrammo il video e lo battezzammo ‘Blue sky’, perché ci permetteva finalmente di vedere un po’ di cielo chiaro...” Era il giugno 2002, circa sei mesi prima della lettera-editoriale di Gianni De Gennaro al “Secolo XIX”.

Processo agli assenti È venuto il momento di esaminare il comportamento dei dirigenti finiti sotto inchiesta. Enrico Zucca, su questo punto, è molto netto: “Ci siamo trovati di fronte funzionari quasi stupiti d’essere interrogati e sottoposti a indagini; dirigenti che negavano ogni ruolo gerarchico nell’operazione, a dispetto degli incarichi di altissimo livello che ricoprivano e tuttora ricoprono. An111

che di fronte all’evidenza del filmato sul ‘conciliabolo’, non hanno saputo dire niente. Non ricordavano. Non conoscevano. Non avevano spiegazioni da dare”. Zucca fatica a celare la sua indignazione di uomo dello stato. Nella requisitoria di primo grado ha parlato esplicitamente di omertà, in altri documenti ha descritto la reazione della polizia come la risposta di “un esercito compattamente schierato” contro i pm e contro l’inchiesta. “In nessun paese al mondo,” aggiunge ora, “nel quale si arrivi all’imputazione di un poliziotto, questi rischierebbe di stare in silenzio di fronte al giudice, senza fornire direttamente la sua versione e men che mai di non partecipare al processo. Vi è un obbligo morale imperativo.” Il processo Diaz è stato invece un processo agli assenti. Solo due imputati – Vincenzo Canterini e Michelangelo Fournier – hanno rinunciato ad avvalersi della facoltà di non rispondere nell’aula di tribunale alle domande di pm, giudici e avvocati. Gli altri hanno scelto di sottrarsi alle domande, ottenendo così – a norma di legge – anche l’impossibilità per i magistrati di utilizzare le dichiarazioni rese da ciascuno nella fase istruttoria come materiale di prova contro gli altri imputati. Il rifiuto dell’esame in tribunale, beninteso, è un diritto di qualsiasi imputato, che indossi o meno una divisa. Ma siamo agli antipodi di un’accettabile etica istituzionale. In un caso del genere, i dirigenti imputati hanno due possibili strade. La prima: comportarsi come cittadini qualsiasi, con il diritto di mentire, di non rispondere ai pm, di utilizzare tutti gli strumenti disponibili per difendersi nel processo. Ma un uomo che indossa la divisa, oltretutto con ruoli di vertice, dovrebbe prima dimettersi, in modo da svincolare la funzione pubblica dalla sua condotta di privato cittadino. L’altra strada, ed è la via maestra, passa per un’autentica assunzione di responsabilità, con tutte le garanzie del caso, ma anche con tutti gli obblighi derivanti dal rilievo degli incarichi esercitati per conto dei cittadini. E l’obbligo precipuo non può essere che la leale collaborazione con la magistratura, a cominciare dalla rinuncia alla facoltà di non rispondere. È una questione etica, non formale, e dovrebbe accompagnarsi alla sospensione temporanea da ogni incarico di vertice, per evitare qualsiasi sospetto di ingerenza e pressione verso la magistratura. La nostra polizia, su questo punto, si è dimostrata del tutto impreparata, indifferente ai princìpi di lealtà e responsabilità tipici delle democrazie degne di rispetto. Ha addirittura agito in direzione opposta, garantendo promozioni ai principali indagati, e tollerandone la condotta processuale, con le reticenze, le menzogne e il rifiuto di rispondere in aula ai magistrati. Del resto, a questo censurabile comportamento, si è sommato un lavorio die112

tro le quinte ancor più deprecabile, se non eversivo. Ne parleremo più avanti.

I semplici osservatori Intanto soffermiamoci sulla questione chiave, sotto il profilo giudiziario ed etico-politico, dell’intero processo, ossia l’esistenza o meno di una riconoscibile catena di comando. Secondo logica e buonsenso il dubbio non esiste. La polizia di stato è una struttura civile, smilitarizzata con la riforma del 1981, ma nessuno dubita che vi sia una gerarchia interna da tutti osservata. Se anche nella riunione preparatoria in questura, poco prima del blitz, non fu individuato un unico responsabile, per i magistrati è sempre parso evidente che coesistevano due catene di comando. Una riguardava gli agenti delle squadre mobili e trovava la sua espressione gerarchica più alta nei dirigenti dello Sco (il Servizio centrale operativo, quindi il direttore Gratteri e il suo vice Caldarozzi). L’altra coinvolgeva gli operatori delle varie Digos impiegate nella perquisizione, con i massimi dirigenti dell’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, oggi Direzione centrale della polizia di prevenzione) come punti di riferimento, ossia il prefetto La Barbera e il suo vice Luperi. Lo stesso Pippo Micalizio, esperto ispettore, nonché fidato collaboratore di Gianni De Gennaro, lo scrisse nella sua relazione: “Nel corso del ‘briefing’,” vi si legge, “non si è, peraltro, provveduto a designare il funzionario responsabile, in termini unitari, dell’intero servizio, ma, implicitamente, ognuno ha ritenuto di dover fare riferimento alle figure apicali del proprio ‘comparto’ (polizia criminale, polizia di prevenzione e reparto mobile)”. Quest’evidenza è stata negata da tutti gli imputati, secondo i quali, alla fine, la perquisizione alla Diaz era competenza di funzionari locali, senza alcun ruolo dei dirigenti nazionali presenti sul campo. Chi può credere a un’operazione di polizia nella quale un sottoufficiale conta più dei generali? Nella quale investigatori di lungo corso nulla vedono, nulla fanno e semmai vengono tratti in inganno da semplici, maliziosi o maldestri agenti? È una versione dei fatti che va contro la logica, e infatti non ha superato la prova dei processi, ma non ha portato a tangibili sanzioni sul piano etico e professionale per chi si è ostinato a sostenerla. Esaminiamo i casi principali. Arnaldo La Barbera, vicecapo della polizia e direttore dell’Ucigos, inviato a Genova da Gianni De Gennaro proprio nel pomeriggio di sabato 21 luglio 2001, davanti al Comitato parla113

mentare d’indagine spiegò d’essere giunto a Genova “per incrementare l’attività della sala internazionale di polizia”. La Barbera si installò però in questura e partecipò a entrambe le riunioni di preparazione del blitz, nonché alla perquisizione, lasciando il campo all’arrivo delle televisioni, ma non prima di entrare nella Diaz-Pertini, intorno a mezzanotte e quattro minuti, quindi subito dopo l’irruzione, avvenuta a mezzanotte in punto. La Barbera disse ai parlamentari d’essere andato alla Diaz per “uno scrupolo del tutto personale: quando si opera anche solo, come nel caso di specie, in funzione di osservatore, io normalmente ci sono sempre”, precisando di non avere avuto alcun titolo per “assumere una posizione per quanto attiene l’attività di polizia giudiziaria”. Il prefetto si sarebbe dunque limitato a osservare e consigliare, nulla più. La Barbera, indagato e ascoltato come gli altri dirigenti dai pm Pinto e Zucca, è morto nel settembre 2002. Giovanni Luperi, fin dalle prime dichiarazioni spontanee ai magistrati, negò addirittura qualsiasi ruolo al vertice dell’Ucigos, subito sotto il prefetto La Barbera. A quell’epoca, sostenne, aveva meri compiti di studio e analisi nel comparto della polizia di prevenzione (Ucigos), con l’incarico specifico, al G8 di Genova, della gestione dei rapporti con le forze di polizia straniere. Partecipò all’operazione Diaz, a suo dire, per accompagnare il prefetto La Barbera: una sorta di cortesia istituzionale, senza alcuna funzione operativa. Su questo punto, va detto, Luperi è stato smentito non solo dai pm e dai giudici d’appello, ma anche dal tribunale e dall’ispettore Micalizio. Per i giudici di primo grado, che pure l’hanno assolto dalle accuse, “la funzione di comando da lui rivestita, [era] comunque esistente almeno di fatto atteso il suo grado”. Quanto a Micalizio, deponendo al processo come testimone, precisò che “la grande maggioranza dei colleghi sentiti hanno detto che non era stato detto chi era il responsabile delle operazioni e quindi ognuno aveva fatto capo a quello che era il suo responsabile di vertice, cioè quelli della Digos al dottor Luperi o ad altri funzionari della Digos, quelli del comparto di polizia giudiziaria e delle squadre mobili al dottor Gratteri o al dottor Caldarozzi”. Francesco Gratteri, a sua volta, ha negato qualsiasi ruolo di comando, pur avendo partecipato alle riunioni in questura e all’intera operazione Diaz, indossando a lungo un casco protettivo sull’abito scuro. “Ritenni di dover partecipare all’operazione,” spiegò ai pm nell’interrogatorio del 29 giugno 2002, “per stare vicino ai miei uomini, pur non avendo compiti di ufficiale di polizia giudiziaria, per questo motivo seguii una delle due colonne con un’auto di 114

servizio.” Anche nel suo caso i pm, Micalizio e i giudici di primo e secondo grado sono arrivati a conclusioni opposte, attribuendogli precise funzioni di comando. Gratteri fu in verità una figura centrale del blitz, anche per l’esperienza di investigatore e il prestigio riconosciutogli dai colleghi. Gratteri è un funzionario strettamente legato alla figura di Gianni De Gennaro. Come il “capo”, ha maturato una grande esperienza nella lotta alla criminalità organizzata ed è considerato uno dei più stretti collaboratori dell’attuale coordinatore dei servizi segreti. La puntigliosa ricostruzione dei pm, grazie alla rigorosa cronologia approntata dal Ris dei carabinieri e dai consulenti delle parti civili, ha permesso di stabilire che Gratteri presenziò a tutte le fasi del blitz, dallo sfondamento del cancello al “conciliabolo”, all’esposizione dei reperti sullo striscione steso nella palestra della scuola. La sua entrata nella scuola, come per Luperi, è collocata a mezzanotte 3 minuti e 30 secondi. Possibile che quella notte non abbia notato nulla di strano? Né le aggressioni a Covell e Frieri, né l’insussistenza del “fitto” lancio di oggetti dalle finestre della scuola, né l’esito troppo sanguinoso della perquisizione, né l’inesistenza di un tavolino con due bottiglie molotov all’ingresso della scuola, e così via? Gratteri, secondo la ricostruzione dei pm, chiese personalmente a Canterini di redigere un verbale sull’irruzione e di inserirvi il particolare della resistenza opposta dagli ospiti della scuola; suggerì agli agenti contusi di presentarsi dai medici per avere un referto; fu ripreso mentre ordinava con il manganello di inseguire alcune persone in fuga sulle impalcature della scuola; rispose con fare autoritario al carabiniere che chiedeva di soccorrere Covell. Non poco per un mero osservatore.

La verità di Andreassi A fronte di tante contraddizioni e di tante improbabili fughe da accuse circostanziate, restano le considerazioni di Micalizio e la deposizione di Ansoino Andreassi, all’epoca vicecapo vicario della polizia. Andreassi è stato il teste chiave per la pubblica accusa. A lui si deve la spiegazione più convincente del blitz, frutto a suo avviso della “svolta” voluta dal capo della polizia nella giornata di sabato 21 luglio per recuperare in termini di immagine il terreno perduto con la fallimentare gestione della piazza. Si trattava di equilibrare, con un congruo numero di arresti, gli scompensi mostrati per strada, il clamore suscitato dai disordini, il mancato intervento sui membri del Black Bloc. Perciò De Gennaro inviò a Genova il prefetto La Barbera; per115

ciò fu affidato a Gratteri il compito di imprimere subito una sterzata. Era in ballo il prestigio della polizia di stato, forse anche le carriere del “capo” e dei suoi più stretti collaboratori. Per Andreassi, che partecipò alla prima riunione in questura, nella quale venne deciso il blitz, ma non prese parte né al successivo “briefing” di preparazione, né alla spedizione, il momento della “svolta”, ancora prima del blitz alla Diaz, fu la perquisizione alla scuola Paul Klee, nella stessa giornata del 21 luglio, conclusa con 23 arresti per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio, lo stesso anomalo reato contestato ai 93 della Diaz. Sotto il profilo tecnico, fu un’operazione fallimentare, chiusa nell’arco di poche ore con la scarcerazione – in parte addirittura a opera del pm, per il resto con decisione del gip – di 21 arrestati su 23 per mancanza di credibili indizi. L’operazione alla Paul Klee, a dire di Andreassi, fu affidata da lui stesso a Francesco Gratteri, su indicazione del capo della polizia. Circostanza che Gratteri ha negato, sostenendo di essersi limitato a segnalare la necessità dell’intervento alla questura genovese, delegando a questa ogni funzione. Secondo i pubblici ministeri, Gratteri e lo Sco, come indicato da Andreassi, gestirono invece l’operazione Klee, anche in virtù della subordinazione gerarchica della squadra mobile genovese allo Sco. L’esperienza acquisita alla scuola Klee, con il rigetto degli arresti, fu secondo i pm un passaggio essenziale dell’intera vicenda, perché fu una sorta di prova generale di perquisizione con lo strumento dell’articolo 41 Tulps. La bocciatura degli arresti da parte dei giudici, secondo i pm, convinse i dirigenti impegnati alla Diaz della necessità di maggiori “prove” – le bombe molotov – contro i cittadini arrestati in flagranza per associazione a delinquere. Ecco i passaggi salienti della testimonianza di Ansoino Andreassi in tribunale, coerente con le affermazioni fatte fin dal 2001. “I problemi cominciarono verso le 11 quando le telecamere di un elicottero inquadrarono un furgone che distribuiva mazze e armi improprie ai manifestanti. Dovevamo fermare il furgone. Mi arrivò poi una telefonata dal capo della polizia che mi disse di affidare l’incarico al dottor Gratteri, che diresse così la perquisizione alla Paul Klee, nel corso della quale vennero rinvenuti anche pezzi di autoradio della polizia e vennero arrestate una ventina di persone. La direttiva di affidare l’incarico al dottor Gratteri preludeva a mio parere a voler passare a una linea più incisiva con arresti, per cancellare l’immagine di una polizia rimasta inerte di fronte agli episodi di saccheggi e devastazione. In questa linea, a mio parere, si pone anche l’invio del prefetto La Barbera per dirigere le operazioni. La manifestazione era ormai terminata quando arrivò La Barbera verso le ore 16.” Arrivato La Barbera, furono inviati per strada i “pattuglioni”, 116

con il compito implicito di individuare come e in che modo procedere ad arresti. Ancora Andreassi: “I pattuglioni voluti dal capo della polizia dovevano essere misti, affidati a funzionari della squadra mobile e dello Sco. La finalità era quella del rintraccio di Black Bloc coinvolti negli scontri”. Uno dei pattuglioni passò per via Battisti e fu all’origine del blitz alla Diaz. Andreassi, nelle sue testimonianze, è stato piuttosto preciso anche sul tema della catena di comando. A suo avviso la presenza sul campo, alla scuola Diaz, del prefetto La Barbera generò confusione, per il ruolo e il prestigio del personaggio, in assenza di un responsabile predefinito della perquisizione. Mancando una designazione precisa, ha spiegato Andreassi in tribunale, “succede che ognuno fa riferimento alla propria linea di comando, cioè le squadre mobili fanno riferimento al funzionario più alto in grado della squadra mobile, così le Digos e così gli altri reparti”. Andreassi, come detto, fu rimosso dall’incarico subito dopo il G8 e “parcheggiato” ai servizi segreti. Soprattutto apprese a cose fatte dell’esistenza di un decreto ministeriale che lo collocava fuori ruolo fin dal 1° luglio 2001. Insomma, il vicecapo vicario della polizia, che tale si considerava e in quella veste agì nei giorni del G8, in realtà non aveva, già allora, più formalmente quell’incarico! Va detto che Andreassi, in seno alla polizia di stato, non apparteneva al gruppo dirigente cresciuto attorno alla figura del prefetto De Gennaro, come gli altri protagonisti di questa vicenda, e non sorprende che sia stato rapidamente emarginato all’indomani del G8. Andreassi è stato l’unico fra i dirigenti di polizia a collaborare lealmente con i magistrati. La sua testimonianza, per quanto respinta in alcuni punti dai diretti interessati, non ha in realtà trovato autentiche smentite. Né la sua interpretazione dei comportamenti della polizia di stato, e in particolare del suo capo, ha trovato credibili versioni alternative. Lo stesso giudice di primo grado ha condiviso la sua valutazione sul “mutamento di strategia” nella giornata di sabato 21 luglio. Enrico Zucca, in memorie e documenti, ha messo in luce gli “attacchi” ai quali il testimone Andreassi è stato sottoposto, nel tentativo di accreditare, in particolare, la tesi dell’assenza di una catena di comando o che i responsabili del blitz alla Diaz fossero gli unici dirigenti ormai fuori dal processo: il defunto Arnaldo La Barbera e Lorenzo Murgolo, inizialmente indagato ma prosciolto in istruttoria. L’attuale capo della polizia Antonio Manganelli, all’epoca dei fatti vice di De Gennaro, nella sua testimonianza in tribunale – il 2 maggio 2007 – è arrivato a sostenere la scarsa conoscenza, da parte dei pm, delle strutture di polizia. 117

Il suo è un intervento sopra le righe, davvero improprio per un testimone, ma pronunciato in piena libertà, con il beneplacito del presidente del collegio giudicante. “D’altra parte, dottor Zucca,” parole di Manganelli in un momento di stizza, “per poter correttamente fare anche delle valutazioni, probabilmente bisognerebbe conoscere l’organizzazione di dipartimento della pubblica sicurezza, che probabilmente lei conosce poco. Perché se lei pensa che un prefetto vicecapo della polizia, direttore della polizia criminale, che sovrintende a tutta la parte che riguarda le investigazioni e quant’altro della polizia italiana, debba sapere come sono stati stesi i verbali oppure debba sapere se nel verbale c’è l’imputazione di associazione o quant’altro, vuol dire che proprio... vuol dire [essere] fuori dal mondo.” È un passaggio che Zucca, in altri documenti giudiziari, ha definito insultante e che a suo avviso dimostra la scelta dell’attuale capo della polizia di schierarsi a fianco dei colleghi nel fronte comune contro i pm e contro l’inchiesta. È una testimonianza, quella di Manganelli, che il giorno dopo Francesco Colucci in una telefonata con Francesco Gratteri commenta così: “Lui [Zucca] secondo me ha preso uno schiaffone da Manganelli”. Gratteri risponde: “E certo”. Colucci: “Ce n’ha preso un altro da me”. E Gratteri ridendo: “Ma diciamo anche due”.

Il sacchetto che scotta Meno risate, meno stizza e molti più imbarazzi troviamo negli interrogatori del giugno 2002, quando il filmato “Blue sky” viene mostrato per la prima volta agli indagati. Fioccano le amnesie, i ricordi confusi, l’improbabile ricerca di vie di fuga. “Non bastano evidentemente le riprese filmate così eloquenti,” scrivono i pm in una memoria per il tribunale, “a indurre gli imputati al chiarimento della gestione del reperto loro consegnato e di cui avevano sempre taciuto. Si evocano momenti antecedenti e momenti successivi a ogni fotogramma, ove risiederebbe la spiegazione, ma questa spiegazione, agli imputati nota, non viene fornita e se anche un altro fotogramma smentisce l’ultima affermazione resa, se ne invoca uno successivo ancora, confidando che non ci sia.” Giovanni Luperi, ripreso con il sacchetto delle molotov in mano, si avvale sul momento della facoltà di non rispondere. Non è difficile intuire quanto gli sia difficile affrontare il nuovo interrogatorio. Luperi non ha fin lì riferito di un contatto diretto con le molotov, ma solo – in una delle deposizioni – di avere notato un sacchetto in mano a uno sconosciuto agente: “Ho visto le due molotov conservate in un sacchetto di plastica; non ricordo chi 118

avesse in mano il sacchetto e non so dove le avessero trovate,” si legge in un verbale del 2002. Un anno dopo, il 7 luglio 2003, Luperi accetta di rispondere ai pm e non può che riconoscersi nel filmato. È lui stesso a reggere il sacchetto e la cronologia delle riprese chiarisce la successione degli eventi: il “conciliabolo” risale a mezzanotte e 41 minuti e segna la comparsa sulla scena delle bottiglie incendiarie. Luperi sostiene allora di avere ricevuto le molotov dal collega Caldarozzi, aggiungendo che a quel punto era già stato informato da Spartaco Mortola del ritrovamento. Né lui né altri, a suo dire, avrebbero chiesto notizie sulle circostanze del rinvenimento. Nello stesso interrogatorio Luperi propone anche una curiosa ricostruzione dei passaggi successivi alla scena di “Blue sky”. Dice che subito dopo il “conciliabolo” il gruppo si sciolse e lui consegnò le molotov alla dottoressa Daniela Mengoni, funzionaria in servizio alla questura di Firenze, con il compito di custodirle con cura, vista la pericolosità degli ordigni. E tuttavia le molotov ricomparvero poco dopo sullo striscione steso nella palestra della scuola, esposte insieme agli altri reperti (dove peraltro Luperi le vide, ma senza mostrare stupore, nonostante avesse appena chiesto alla collega di metterle al sicuro). La dottoressa Mengoni, dal canto suo, ha offerto in tribunale una versione dei fatti davvero sorprendente. Non sapendo come gestire gli ordigni, ha spiegato, chiese aiuto a un collega di Napoli, da lei conosciuto (ma di cui non è riuscita a ricordare il nome!). Insieme con questo collega la dottoressa Mengoni, stando al suo racconto, appoggiò le due molotov sul pavimento di una stanzetta all’interno della scuola e poi uscì a cercare altri colleghi del suo reparto. Al ritorno, sorpresa, non c’erano più le molotov né il collega napoletano. Poco dopo, come Luperi, rivide le bottiglie sullo striscione. È una ricostruzione così inverosimile che anche il tribunale, nella sentenza di primo grado, ha dovuto farne menzione: “Tali dichiarazioni,” si legge in un passaggio, “possono in effetti apparire imprecise e forse anche in parte illogiche: se si tiene presente che le bottiglie sarebbero state consegnate alla dottoressa Mengoni proprio a causa della loro pericolosità e con il preciso incarico di custodirle, è invero piuttosto strano che siano state poi affidate a un non meglio precisato ispettore di Napoli, da lei tanto conosciuto da non saperne indicare nemmeno il nome”. Va detto che ciononostante il tribunale ha in qualche modo accreditato la versione Luperi-Mengoni, sfidando a sua volta la logica: “Non sussistono peraltro,” ecco la conclusione, “elementi concreti che possano provare l’assoluta inattendibilità di quanto riferito dalla teste, anche tenuto presente lo scarso interesse da parte sua a elaborare una versione dei fatti non veritiera e le incerte motivazioni che potrebbero averla indotta a farlo”. 119

Per i pm e per il giudice di appello, i motivi sono invece ben determinati: la tesi del passaggio delle bottiglie nelle mani di altri agenti, prima d’essere esibite sullo striscione, serviva a spezzare il loro percorso e quindi ad alleggerire o sminuire la posizione dei dirigenti sorpresi dal filmato di Primo Canale. Quanto a Francesco Gratteri, la sua reazione alla vista del filmato, nel giugno 2002, è un prevedibile “non ricordo”. Fin lì aveva sostenuto di avere visto per la prima volta le molotov in mano a uno sconosciuto agente, e senza sacchetto; un’ipotesi smentita dal filmato, poiché solo dopo il “conciliabolo” le bottiglie saranno estratte dall’involucro. La memoria, certo, può ingannare, ma nemmeno il direttore dello Sco, prima d’essere posto di fronte all’evidenza del filmato, aveva menzionato il “conciliabolo” e tanto meno il sacchetto. In compenso, nello stesso interrogatorio del giugno 2002, Francesco Gratteri fornisce una perfetta ipotesi investigativa agli inquirenti: “Se dovessi impostare un’indagine su quanto è accaduto alla Diaz,” si legge nel verbale, “partirei dal dato che a determinare il caos all’interno della scuola potrebbe essere stato qualcuno del reparto mobile o di altri reparti, così come l’episodio dell’accoltellamento simulato possa essere servito a parare l’eccesso di violenza usato nei confronti di alcuni degli occupanti della Diaz; penso che anche l’episodio delle bottiglie sia stato montato per giustificare quanto accaduto all’interno della Diaz; ritengo che sarebbe importante determinare chi abbia comandato Troiani di venire alla Diaz; può essere che egli si sia mischiato con gli altri e che abbia fatto quello che hanno fatto gli altri del reparto mobile e che abbia pensato di coprire quanto accaduto all’interno; ritengo che comunque molti potrebbero essere i moventi concreti alla base dei fatti che sono stati contestati, da parte di una componente della polizia di stato che non ritengo rappresentativa del corpo della polizia di stato”. Il riferimento, piuttosto nitido, è al reparto mobile comandato da Canterini e Fournier. E lo scopo di questa inusuale presa di posizione, a quanto si evince dal testo, è un invito a concentrare gli sforzi investigativi su quella componente “non rappresentativa della polizia di stato”, rinunciando a salire più in alto. I magistrati, come sappiamo, non hanno seguito l’indicazione del direttore dello Sco, ma un’eco di questo “consiglio” si ritrova in un passaggio della sentenza di primo grado, laddove i giudici scrivono: “Non si intende in questa sede in alcun modo sindacare le scelte della pubblica accusa circa la richiesta di archiviazione delle imputazioni nei confronti dei possibili esecutori materiali delle violenze, evidentemente determinata dalle difficoltà incontrate nella loro individuazione, ma deve riconoscer120

si che tale decisione non ha sicuramente favorito l’accertamento delle singole responsabilità”. Come dire, avrebbero fatto meglio, i pm, a concentrarsi sugli esecutori materiali dei pestaggi, semplici agenti (in realtà irriconoscibili), evitando di chiamare in causa la catena di comando.

Smemorati e poco curiosi Torniamo al “conciliabolo”. Nessuno dei partecipanti ricorda con precisione di che cosa si sia parlato, tutti sostengono di non aver posto nessuna domanda ad alcuno sulle circostanze del ritrovamento: chi, come, quando avesse trovato gli ordigni, chi li detenesse e così via. Un comportamento davvero singolare per investigatori di chiara fama. Secondo lo stesso tribunale, Pietro Troiani, l’uomo che la sentenza di primo grado indica come il grande “ingannatore”, ha reso dichiarazioni “piuttosto confuse e in parte contraddittorie”. Fu comunque lui a consegnare le molotov, ricevute dall’autista Burgio, al collega Massimiliano Di Bernardini, che a sua volta le passò ai più titolati colleghi ripresi nel filmato “Blue sky”. Troiani ha sostenuto di avere precisato, al momento della consegna, che le bottiglie erano state ritrovate “nel cortile o nei pressi della scala d’ingresso”. Di Bernardini, che inizialmente aveva parlato di ritrovamento delle molotov nello stanzone al pianterreno vicino alla porta, ha poi ammesso di averle ricevute da Troiani, precisando che il collega, al momento della consegna del sacchetto, gli disse “genericamente” di averle trovate. Le testimonianze, in merito ai passaggi di mano dell’imbarazzante involucro, sono confuse e contraddittorie, e soprattutto reticenti. Fatto sta che dopo il passaggio attraverso il “conciliabolo” e l’esposizione sullo striscione, ritroveremo le molotov, nei verbali di polizia, sequestrate al primo piano secondo la prima “comunicazione di notizia di reato”, al piano terreno secondo il verbale d’arresto. Com’è stata possibile una così macroscopica e maldestra falsificazione? Il tribunale in primo grado se l’è cavata con una spiegazione che in realtà spiega ben poco. Secondo i giudici fu Troiani, con la complicità di Burgio, a trarre tutti in inganno, ma non si sa bene come né perché. Il funzionario avrebbe consegnato le molotov ai colleghi, inducendoli a credere che si trattava di armi in possesso dei 93 ospiti della scuola. “Non ci si nasconde,” si legge nelle motivazioni del tribunale, “la difficoltà di attribuire al solo dottor Troiani l’ideazione del falso rinvenimento delle bottiglie molotov. [...] Deve peraltro riconoscersi che in assenza di qualsiasi diversa concreta prova, non sia consentito avanzare altre ipotesi, che, pur certamente possi121

bili, resterebbero comunque prive di riscontri probatori certi, e debba quindi accettarsi quanto riferito in proposito dallo stesso dottor Troiani.” I protagonisti del “conciliabolo”, secondo questa versione, non erano consapevoli del percorso delle molotov e le avrebbero accolte come prova senza nulla chiedere, finendo ingannati da un ingannatore che in verità pare privo di un movente credibile e anche di una versione univoca dei fatti (in appello Troiani e Burgio saranno assolti per il reato di calunnia). Alla fine i dirigenti, nella migliore delle ipotesi, fanno la figura di ingenui e maldestri investigatori. In aggiunta, incredibile a dirsi, il dottor Troiani e l’agente Burgio, i grandi ingannatori, nemmeno compaiono nei due elenchi degli uomini impiegati nel blitz alla Diaz consegnati in tempi successivi dalla polizia di stato alla magistratura. I pm e i giudici di secondo grado non hanno invece dubbi su quel che avvenne durante il “conciliabolo”: in quel momento fu deciso di attribuire le molotov ai 93 ospiti della scuola, pur conoscendo il loro vero percorso. Perciò tutti i protagonisti non hanno mai menzionato l’episodio prima della comparsa di “Blue sky” e hanno fatto scena muta, o esibito un comodo “non ricordo”, di fronte al compromettente filmato. Un unico funzionario ha detto qualcosa sull’informale riunione nel cortile della scuola, il dottor Giovanni Fiorentino, l’uomo ritratto di spalle nella sequenza chiave. “Mentre ero nel cortile,” ha detto Fiorentino in aula, “vidi venire dalla scuola il dottor Luperi che teneva una busta di plastica e attraversava il cortile; si rivolse a me e disse: ‘Vedi, abbiamo trovato anche queste’. Nella busta vi erano delle bottiglie. [...] Non ricordo che cosa avvenne del sacchetto. Non riesco a ricordare che cosa dicessero i funzionari quando erano riuniti e Luperi teneva in mano la busta. Quando era insieme agli altri funzionari appariva soddisfatto del ritrovamento delle bottiglie molotov.” Questo racconto, sia pure infarcito di molti “non ricordo”, dimostra per i giudici almeno due cose. Primo: la reticenza degli imputati. Secondo: il loro diretto coinvolgimento nella gestione delle molotov. I giudici di appello, nel motivare le condanne, scrivono fra l’altro che “la condotta processuale successiva di tutti gli imputati costituisce ulteriore significativa conferma della loro concorsuale attività di illecita ideazione della calunnia reale: se fossero stati ingannati, o, comunque, avessero inizialmente creduto in buona fede che effettivamente le molotov erano presenti all’interno della scuola, non avrebbero inanellato la lunga serie di false dichiarazioni e contraddittorie tesi difensive chiaramente finalizzate solo a prendere le distanze da una situazione conosciuta come fonte di personale responsabilità diretta”. 122

Non è un bel biglietto da visita per chi riveste ruoli di comando nella polizia di stato e nei servizi segreti. Ma il meglio, anzi il peggio, deve ancora venire.

“Incompatibile” con le imputazioni Il procedimento contro Gianni De Gennaro, Spartaco Mortola e Francesco Colucci, nato da una costola del processo Diaz, è uno straordinario documento, quasi un romanzo, ambientato nel cuore di apparati dello stato incaricati di garantire la sicurezza collettiva. Le intercettazioni telefoniche disposte dai magistrati, e anche le posizioni prese durante l’inchiesta e davanti al giudice, fanno capire in che modo s’intende l’esercizio del potere in quegli ambienti. Il culmine, lo diciamo subito, si è toccato nelle udienze – non pubbliche – davanti al giudice chiamato a decidere con rito abbreviato sulla sorte di De Gennaro e Mortola, accusati di avere indotto l’ex questore Colucci alla falsa testimonianza durante il processo Diaz, nella deposizione del 3 maggio 2007. Ebbene in quella circostanza il difensore di De Gennaro, l’avvocato Franco Coppi, uno dei “principi del foro” nel nostro paese, è arrivato a sostenere un concetto inedito, ossia la “incompatibilità personale con l’imputazione” del suo cliente. Coppi, evidentemente, intendeva richiamare all’attenzione del giudice la lunga carriera del prefetto, un poliziotto di chiara fama, circondato nel suo ambiente da un’aura di leggenda. Nel suo curriculum, oltre a qualche spericolata impresa, come la liberazione di un gruppo di ostaggi nell’ambasciata belga di Roma, figura soprattutto la lunga collaborazione con Giovanni Falcone e la “gestione” del primo grande pentito di Cosa nostra, Tommaso Buscetta, le cui rivelazioni sono state all’origine della stagione dell’antimafia. De Gennaro, fra gli altri titoli, si fregia – unico straniero – della Medal of Meritous Achievement, un riconoscimento attribuito dall’Fbi statunitense, ottenuto nel 2006. Per molti, del resto, De Gennaro è “l’uomo degli americani”, o comunque, in una visione meno maliziosa, un alto dirigente dello stato stimato all’estero e impegnato nella tessitura di relazioni internazionali. Ma che valore può avere, in un processo, la brillante carriera di un uomo delle istituzioni? Quanto può contare la considerazione che lo circonda negli ambienti del potere? E come si concilia tanto prestigio con una condotta della polizia di stato, in merito al G8 di Genova e alle successive vicende processuali, che è parsa – per usare un eufemismo – tutt’altro che encomiabile? Enrico Zucca, nelle “note di replica” all’avvocato Coppi, ha da123

to alcune risposte, parlando di una linea difensiva che “non riesce a confrontarsi apertamente con i princìpi giuridici che devono presiedere alla fattispecie della valutazione concreta” e che arriva a “conclusioni evanescenti e addirittura ancorate a fideistiche opzioni di valore”, come la teoria della “incompatibilità personale con le accuse”, ossia – nella parafrasi di Zucca – “un tal servitore dello stato non può commettere un delitto contro l’amministrazione della giustizia”. A questo punto il pm, nel suo documento, cita appena l’ovvio principio di legalità, che imporrebbe di “laicamente rifiutare immunità e privilegi di sorta”, e punta subito al nocciolo della vicenda, ossia all’autentica intenzione dell’avvocato Coppi: sostenere che Gianni De Gennaro non aveva alcun interesse a indirizzare la testimonianza di Colucci. Nessun movente, quindi nessun dolo: ecco la tesi della difesa, valida sia in chiave processuale, sia in astratto, a dimostrazione della buona fede e della correttezza dell’alto dirigente. Una tesi opposta a quella dei magistrati inquirenti, secondo i quali De Gennaro intervenne perché fosse escluso ogni suo coinvolgimento nell’operazione Diaz. De Gennaro, ricordiamolo, non era imputato nel processo, ma non voleva – secondo l’accusa – essere associato a quella sciagurata operazione, per una questione di prestigio e di personale credibilità.

La giravolta del questore Ricapitoliamo i fatti. Atto primo: il 3 maggio 2007 l’ex questore di Genova Francesco Colucci depone in tribunale come testimone. A sorpresa, cambia versione rispetto alle precedenti dichiarazioni su almeno tre punti principali. Afferma di avere deciso personalmente, la notte della Diaz, di convocare alla scuola di via Battisti Roberto Sgalla, portavoce nazionale della polizia di stato. In precedenza, in tre diverse testimonianze – davanti al Comitato parlamentare nel 2001 e davanti al pm sia nel 2001 sia l’anno successivo – aveva detto d’avere chiamato Sgalla su ordine impartito per telefono da Gianni De Gennaro. Colucci definisce poi la perquisizione nella scuola Pascoli “un errore”, rinnegando il fonogramma da lui stesso inviato il 22 luglio 2001 al capo della polizia, nel quale si diceva che alla scuola Pascoli era stata “effettuata una verifica all’interno della sede stampa del Gsf”. La terza virata riguarda un passaggio essenziale dei preparativi del blitz alla Diaz, la telefonata fra Spartaco Mortola e Stefano Kovac, esponente del Gsf “responsabile” delle strutture di 124

via Cesare Battisti concesse dal comune. Colucci in aula dice di avere assistito alla telefonata fra i due e di avere addirittura ascoltato la conversazione, attraverso le parole dello stesso Mortola, che ripeteva a voce alta quelle del suo interlocutore. In precedenza Colucci non aveva mai fatto cenno a simili circostanze. Va detto che Mortola, durante il processo, è entrato in contraddizione con Kovac sul contenuto della breve conversazione, avvenuta dopo l’episodio delle volanti “aggredite”. Secondo il poliziotto, Kovac avrebbe ammesso che il Gsf non aveva più il controllo della situazione alla scuola Diaz, rafforzando quindi la convinzione che vi alloggiassero membri del Black Bloc. Kovac ha sempre negato questa circostanza, sostenendo anzi di avere invitato Mortola “a non fare cazzate”. Colucci chiude il suo “coup de théâtre” indicando i responsabili, in via gerarchica, del blitz alla Diaz in Arnaldo La Barbera, defunto nel 2002, e Lorenzo Murgolo, l’unico funzionario prosciolto in istruttoria. Per i pm Zucca e Cardona Albini ce n’è abbastanza per capire che è in corso l’ennesimo inquinamento. Perciò rinunciano alla deposizione di Gianni De Gennaro, in calendario la settimana seguente. Atto secondo: il retroscena dell’imprevista virata di Colucci è scritto nelle trascrizioni di alcune conversazioni telefoniche dell’ex questore con Spartaco Mortola e altri personaggi. Dall’aprile 2007, il cellulare di Mortola è sottoposto a intercettazione per la vicenda delle molotov sparite e delle pressioni sull’artificiere Melis. Pochi giorni prima della data fissata per l’interrogatorio, è il 26 aprile, sul cellulare di Mortola arriva una chiamata di Colucci. L’ex questore informa d’essere stato convocato in tribunale per il 3 maggio e aggiunge: “Sono stato dal capo oggi”. E più avanti spiega: “Il capo praticamente ha fatto marcia indietro in un secondo interrogatorio sul fatto che m’ha preavvertito Colucci. Ha fatto marcia indietro e io invece devo rivedere un po’ il discorso di quello che ho dichiarato io di Sgalla”. Il testo è una trascrizione letterale della telefonata intercettata e le frasi suonano un po’ sconnesse alla lettura, ma il significato è comprensibile. C’è stato un incontro a Roma fra De Gennaro e Colucci e si è parlato dell’imminente testimonianza in tribunale dell’ex questore di Genova. Mortola si limita ad annuire e Colucci spiega l’obiettivo: “Questo serve per aiutare i colleghi”. In un’altra chiamata Colucci ribadisce il contenuto della conversazione con De Gennaro: “Però dice, tu per quanto riguarda l’altra parte dovresti fare un po’ di marcia indietro, dare una mano ai colleghi”. In altre conversazioni Colucci appare del tutto immemore dei fatti della Diaz, confonde la scuola Pascoli con la Pertini, chiede 125

aiuto a Mortola per ricostruire i fatti e rintracciare verbali da consultare. In una delle numerose chiamate, si parla della telefonata con Kovac. Mortola ricorda a Colucci la sua versione: “Quando io feci la telefonata e gli chiesi: ma chi cazzo c’è lì dentro? Lui, lo stronzo, che poi non l’ha confermato [...] mi disse: eh Spartaco, lì ormai noi non abbiamo più il controllo, non sappiamo più chi c’è lì dentro”. Nel giro di contatti c’è anche un altro imputato, Carlo Di Sarro. In breve, dalle intercettazioni – che non riguardano direttamente De Gennaro – emerge una trama di contatti, accordi, scambi d’informazione che sfociano nella clamorosa ritrattazione di Colucci, definita da Enrico Zucca un “programma militante” in favore di De Gennaro, Mortola e degli altri imputati. Atto terzo: a ritrattazione avvenuta, il telefono di Colucci – a quel punto sottoposto a sua volta a intercettazione – è il terminale di nuove conversazioni: stavolta sono complimenti, vanterie, commenti sul “colpo” inferto ai magistrati. Colucci appare raggiante. I suoi colleghi Mortola e Di Sarro, quando ne parlano, lo definiscono “bollito” e ridono alle sue spalle; lui è convinto di avere superato una prova importante. C’è in ballo anche la sua promozione. Il giorno dell’incontro con il capo, era a Roma proprio per i lavori della commissione sugli avanzamenti di carriera. La promozione a prefetto, per inciso, arriverà qualche mese dopo, nel febbraio 2008 e sarà anch’essa motivo di attrito fra i pm e le difese degli imputati. Secondo queste ultime, il nuovo inquadramento è frutto di automatismi di carriera; i magistrati ribattono che all’epoca dei fatti non era ancora in vigore la legge che ha soppresso la qualifica di “dirigente generale di livello B”, con l’automatico passaggio al ruolo dei prefetti. Nei giorni seguenti alla deposizione, si succedono le chiamate fra gli imputati. Spuntano le voci di Luperi, Ferri, Gratteri e altri ancora. Commentano la deposizione di Colucci e prende forma una nuova strategia d’azione. I pm hanno rinunciato ad ascoltare De Gennaro, ma gli avvocati pensano di opporsi alla rinuncia e di chiamare in tribunale il capo della polizia, in modo che confermi la versione di Colucci. Giovanni Luperi, parlando con Mortola, riferisce una conversazione col “capo” e dice – riprendiamo dalla sintesi della trascrizione – che “questi gli ha consigliato di adottare una linea comune in modo che lui venga interrogato da tutti i difensori. Diversamente potrebbe apparire che la sua deposizione serva solo per alcuni [vengono proferiti i nomi di Luperi, Gratteri e Calderozzi]. Pertanto Luperi invita Mortola a contattare Mascia [avvocato di alcuni imputati] al fine di non far prestare il consenso [alla rinuncia a chiamare De Gennaro] anche a quest’ultimo”. De Gennaro alla fine non sarà chiamato in aula, ma il quadro 126

d’insieme è molto chiaro. Dietro le quinte la polizia di stato agisce compatta, organizza mosse e contromosse e si fa beffe delle prerogative della magistratura. Si scopre che una funzionaria dello Sco, la dottoressa De Meo, partecipa a tutte le udienze, osserva, registra e riferisce ai capi. Colucci intanto menziona le telefonate con Manganelli e De Gennaro, parla con Gratteri. Riceve i complimenti da avvocati, imputati, colleghi. Proponiamo qualche stralcio delle intercettazioni.

Cronaca vera Telefonata con Spartaco Mortola, il giorno dopo la deposizione a Genova. Colucci: “Ieri sera ho chiamato Manganelli”. Mortola: “Ah, non il capo, hai parlato con Manganelli”. Colucci: “Manganelli. Dico: Guarda Anto’... sei stato bravo, è andato tutto molto bene, ce l’hanno detto gli avvocati”. Mortola: “Sì, no, perché poi c’è lì... tu lo sai che c’è sempre la dottoressa De Meo”. Colucci: “No, chi è?”. Mortola: “La De Meo è una funzionaria dello Sco che va a sentirsi tutte le udienze. La mandano su, registra tutto al computer e fa ogni volta...”. Ancora Colucci: “Poi stamattina m’ha chiamato il capo. Dice li hai, li hai, li hai, li hai maltrattati, una cosa del genere. Li hai... li hai... gli hai fatto la..., come ha detto, li hai... e no sbranati, li hai... va be’ insomma, una frase ha detto”. Telefonata con Francesco Gratteri, che ringrazia anche a nome di Gilberto Caldarozzi: “Quando si dicono le cose e si dicono come giustamente e correttamente le hai dette tu, allora è doveroso, diciamo, da parte nostra insomma rendere omaggio, come posso dire, alle persone perbene” (è la stessa telefonata con lo scambio, già citato, sui “due schiaffoni” inferti a Zucca da Manganelli). Colucci a De Antoni, interlocutore non meglio identificato: “Fatto sta che ho dato due legnate al pm perché ho parlato di Murgolo, che era sparito dalla circolazione e altre cose. Per cui gli avvocati sono stati contentissimi, gli avvocati che difendono i nostri colleghi. Contentissimi perché ho dato uno spazio, uno squarcio diverso al processo. Per cui il pm è in difficoltà. Perché se ha assolto Murgolo in istruttoria, gli altri sono come Murgolo, perché gli altri li processi? Insomma è un casino. E anche il capo mi ha telefonato per dire: li hai messi alla sbarra. Domani doveva andare il capo, dopodomani doveva andare il capo e non ci va più perché il pm, evidentemente, ha capito che...”. Infine una telefonata molto particolare, quella fra Colucci e Achille Serra, poliziotto di spicco, amico di vecchia data dell’ex 127

questore di Genova e rivale storico di Gianni De Gennaro. All’epoca della conversazione Serra è prefetto di Roma. Colucci introduce l’argomento G8: “Io ho fatto un po’ di casino a Genova”. Serra, con tono molto confidenziale e un linguaggio che va rapidamente sopra le righe: “Ciccio, mi fai schifo, non toccare questo tasto perché mi fai incazzare eh”. Colucci si difende: “Perché? Ho detto la verità”. Serra: “No, no, hai, hai, tra l’altro ti hanno criticato tutti i giornali, gli avvocati...”. Colucci: “No, lascia stare, no ma che cazzo dici, che dici?”. Serra: “Hai salvato quel maiale schifoso [...]. Dice che..., che De Gennaro t’ha ringraziato”. Colucci: “Ma De Gennaro che cazzo, ma De Gennaro, perché non è venuto. Perché dopo che ho dichiarato io quello che ho dichiarato, il pm non ha più chiamato De Gennaro. Punto”. E Serra conclude: “Non l’ha chiamato, quindi l’hai salvato”. Achille Serra prefetto di Roma è lo stesso Achille Serra che nel 2010, da senatore del Partito democratico (poi è approdato all’Udc), interviene con il collega De Sena dopo la condanna di De Gennaro, per ricordare che esistono tre gradi di giudizio e per invitare “il sistema mediatico e quello politico a non giungere a condanne definitive sulla persona e sul suo lavoro come servitore dello stato anzitempo. Lasciamo lavorare i giudici, con l’auspicio che il drammatico capitolo del G8 genovese si chiuda al più presto”.

La “consonanza” Nel maggio 2007, quando “il capo”, il vice Manganelli e l’ex questore Colucci vengono chiamati a testimoniare a Genova, la carriera di De Gennaro è in una fase delicata. La sua uscita dalla polizia è imminente, negli ambienti di governo se ne parla da qualche tempo. Non sarà una giubilazione, tutt’altro, ma resta da definire il nuovo ruolo. E poi ci sono alcuni dei suoi più stretti collaboratori sotto processo a Genova. Quei dirigenti, nella sua ottica, vanno tutelati: vi sono rapporti umani e professionali da preservare, inoltre si tratta del gruppo dirigente della polizia di stato. De Gennaro sa bene che la pessima gestione dell’ordine pubblico durante il G8 del 2001 è una macchia nella sua carriera, nonostante l’impegno profuso per negare ogni diretto coinvolgimento nelle scelte compiute in quei giorni. Una brutta figura in aula potrebbe nuocergli: il caso Diaz è una mina vagante da disinnescare. L’uscita di De Gennaro dalla polizia, diciamolo subito, avverrà poco tempo dopo, nel mese di giugno, a sette anni dall’insediamento. Il mandato di capo della polizia non ha scadenze predeterminate, ma secondo il governo Prodi non è opportuno che 128

un incarico del genere sia mantenuto per un periodo più lungo del settennato indicato dalla Costituzione per il ruolo di presidente della Repubblica. Gianni De Gennaro, con grande sorpresa generale, viene nominato capo di gabinetto del ministro dell’Interno Giuliano Amato, un incarico delicato, di raccordo fra gli apparati di sicurezza e la politica, basato su uno stretto rapporto fiduciario con il ministro. È un ruolo mai ricoperto prima da un poliziotto, tanto che la nomina di De Gennaro suscita la pubblica protesta dell’associazione dei prefetti. Sul piano politico, per il governo di centrosinistra è una precisa scelta di campo, a protezione della figura e dei comportamenti dell’alto dirigente. Ma torniamo al maggio 2007. I pm ricostruiscono il contesto nel quale collocare i contatti fra De Gennaro e Colucci. Il primo sa che la testimonianza dell’ex questore è per lui pericolosa, perché può fornire la prova del suo diretto coinvolgimento nell’operazione Diaz. Il punto critico è proprio il ruolo di Roberto Sgalla. Colucci ha sempre affermato di averlo convocato alla Diaz su precisa indicazione telefonica del “capo”. De Gennaro, a suo tempo, ha negato questa circostanza, ma in una deposizione del 2002 ha anche fatto una piccola “marcia indietro” – quella evocata da Colucci parlando con Mortola – sul contenuto di un’altra telefonata con Colucci, poco prima del blitz alla Diaz. Inizialmente descritta, davanti al Comitato parlamentare d’indagine, come una semplice richiesta di autorizzazione a impiegare un contingente di carabinieri, la telefonata è poi diventata in una successiva testimonianza – più credibilmente e soprattutto in modo più coerente con la versione data nell’immediato da Colucci – un’informativa sull’imminente perquisizione. Per De Gennaro è un punto decisivo. Riguarda il suo livello di coinvolgimento nell’operazione. Secondo la sua versione, l’informativa fu comunque generica e non gli permise di comprendere la portata della perquisizione, né di capire che riguardava la sede del Gsf, quindi un “luogo sensibile” sotto il profilo politico. A suo dire, solo nella notte di sabato, grazie a una telefonata dell’onorevole Bertinotti, avrebbe compreso la natura e la gravità del blitz. Anche su questo punto, nell’ipotesi dei pm, Colucci potrebbe dire qualcosa di “sbagliato”, ovviamente secondo l’ottica del “capo”. L’ex questore, fanno ancora notare i pm, nelle telefonate con Mortola descrive con precisione l’incontro con “il capo”, che gli mostra il suo verbale d’interrogatorio con la “marcia indietro” e gli chiede di correggere il tiro sul ruolo di Sgalla, allo scopo di “aiutare i colleghi”. De Gennaro, interrogato sul punto, ammette l’incontro con 129

Colucci, ma nega di avergli consegnato il verbale e di averlo spinto a cambiare versione. Riconosce tuttavia di avere parlato con l’ex questore delle loro imminenti deposizioni. È un incontro quantomeno improprio, trattandosi di testimoni in un processo, tenuti a riferire in modo genuino fatti conosciuti per esperienza diretta, o a indicare le fonti delle informazioni eventualmente ricevute da altri. De Gennaro, davanti ai magistrati, spiega le ragioni del suo interessamento alla deposizione di Colucci: non certo un’interferenza, sostiene, ma un’azione tesa a trovare “la consonanza per l’accertamento della verità”. Non può sfuggire l’arditezza del concetto. Il capo della polizia intende far credere ai pm di avere chiamato un suo sottoposto, essendo entrambi prossimi testimoni in un delicato processo a importanti dirigenti di polizia, con l’intento di aiutare la giustizia nella ricerca della verità. Come? Cercando una “consonanza” preventiva fra le rispettive deposizioni. Sembra una confessione del reato, più che una spiegazione. Nella richiesta di rinvio a giudizio, Enrico Zucca definisce la giustificazione di De Gennaro un “atto di arroganza e onnipotenza di chi intende servire la giustizia non affidandosi al giudice ma proponendogli versioni omogenee, così sostituendosi a esso”. Il giudice di primo grado ha assolto Mortola e De Gennaro, il primo “per non avere commesso il fatto”, il secondo reputando insufficienti le prove. Qualche passaggio delle motivazioni. Sulla ricerca della “consonanza”: “Se anche i due hanno voluto confrontare le rispettive dichiarazioni, per verificare eventuali punti di contrasto o comunque da meglio puntualizzare, questo non è di per sé sufficiente per sostenere che De Gennaro abbia indotto Colucci a dire il falso”. Sulle ragioni della ritrattazione dell’ex questore: “Colucci è uno dei massimi esponenti della polizia italiana e, verosimilmente, è in grado di capire da solo cosa possa servire ai colleghi e se è così contento di averne riconquistato la stima e la considerazione, non è difficile pensare che possa avere autonomamente deciso di ‘aggiustare’ la sua testimonianza, in linea con quello che poteva giovare a costoro, magari dopo essersi chiarito parlando con l’uno o con l’altro, quale fosse l’impostazione dell’accusa”. Sulla condotta del gruppo di dirigenti emersa con le intercettazioni: “Seguono una serie di conversazioni in cui si comprende che gli indagati, spalleggiati dallo stesso capo della polizia ‘devono fare un’azione comune per essere pesanti nei confronti di questi magistrati; aggiungendo che il capo quando verrà interrogato smentirà tutto’. Indubbiamente non è molto ‘simpatico’ l’atteggiamento dei diversi interlocutori che formano un corpo unico e compatto contro il pm che ha diretto le indagini. L’affer130

mazione dell’allora vicecapo della polizia Manganelli ‘dobbiamo dargli una bella botta a ’sto magistrato’ non è certo meritevole di apprezzamento ma, dire che c’è una sorta di sodalizio criminale per ostacolare il corso della giustizia, come sostenuto da pm e parti civili, pare assurdo ed eccessivo”. Gli eufemismi fioccano – comportamenti “poco simpatici”, “non meritevoli di apprezzamento” – e si riconosce l’esistenza di un fronte comune “spalleggiato” da Gianni De Gennaro per “essere pesanti” contro i pm. Sul piano penale è un’assoluzione, ma fra le righe si leggono giudizi ben poco lusinghieri sotto il profilo etico-professionale. C’è davvero poco di cui gioire. Per chiunque: imputati, magistrati, cittadini. Del tutto diversa l’interpretazione del giudice di secondo grado, per il quale la relazione diretta fra le conversazioni con Mortola e De Gennaro e la ritrattazione di Colucci è ben provata dalle intercettazioni, che sono una fonte del tutto genuina. E sorretta da un preciso movente anche nel caso di De Gennaro, non imputato nel processo Diaz. Da qui la condanna di entrambi, con l’annotazione, sul conto di De Gennaro, della “particolare gravità del fatto”, per il rapporto di sovraordinazione gerarchica con Colucci e per l’abuso della funzione pubblica di direttore generale del Dipartimento di pubblica sicurezza.

Il “capo” Alla fine dei due giudizi di merito, su Gianni De Gennaro emerge una “verità processuale” coerente con la più credibile ricostruzione dei fatti. Ed è una verità impietosa, che andrebbe considerata anche al di fuori della logica penale, cioè sotto il profilo morale e della lealtà verso le istituzioni democratiche. Nel processo Diaz, i giudici d’appello sono arrivati alla conclusione che “l’origine di tutta la vicenda è individuabile nell’esplicita richiesta da parte del capo della polizia di riscattare l’immagine del corpo e di procedere a tal fine ad arresti, richiesta concretamente rafforzata dall’invio da Roma a Genova di alte personalità di sua fiducia ai vertici della polizia che di fatto hanno scalzato i funzionari genovesi dalla gestione dell’ordine pubblico”. Nel processo parallelo, il giudice ritiene provata la “consapevolezza e volontà dell’imputato della portata istigatrice e di suggerimento di una versione dei fatti al teste Colucci in maniera contrastante con le precedenti dichiarazioni e con la realtà dei fatti”. Insomma, abbiamo un capo della polizia, passato al vertice dei servizi segreti, che per i giudici di appello è responsabile morale e professionale della più indifendibile operazione di polizia 131

degli ultimi decenni (caso Diaz), e in aggiunta colpevole di avere spinto un suo sottoposto a rendere falsa testimonianza in un processo, un gravissimo reato per un uomo delle istituzioni. Nel respingere le dimissioni di Gianni De Gennaro all’indomani della condanna, ministri e leader politici hanno ricordato il principio costituzionale per il quale si è innocenti finché una sentenza non sia passata in giudicato. Vero. La Cassazione, nel momento in cui scriviamo, deve ancora esprimersi. Ma l’attesa di un intervento salvifico del giudice di legittimità è principalmente un alibi. I fatti storici accertati, sul blitz alla Diaz, sui falsi correlati, sugli ostacoli portati al corso della giustizia, costituiscono una condanna morale, per chi ha guidato la polizia in questi anni, non meno pesante delle condanne penali inflitte dai giudici d’appello.

Che polizia è? Il giudice di primo grado del processo Mortola-De Gennaro, lo abbiamo visto, ha definito “assurda ed eccessiva” la tesi che il vertice di polizia abbia agito come un blocco compatto contro il corso della giustizia. D’altronde possiamo esaminare i dati processuali anche al di fuori della logica penale, quindi sotto il profilo storico, come sequenza di fatti e di comportamenti. Le conversazioni intercettate, di per sé, sono molto eloquenti, come la condotta reticente di molti protagonisti, e gli attacchi al processo e al pm di cui abbiamo parlato. Dobbiamo allora chiederci qual è il profilo professionale e culturale di chi sta occupando, in questa fase storica, i posti di comando al vertice degli apparati di sicurezza. Dobbiamo domandarci qual è l’etica corrente nella polizia di stato. C’è un documento che possiamo prendere come punto di partenza. È l’istanza di appello del procuratore generale Pio Macchiavello nel processo Diaz. Macchiavello, con inconsueta fermezza, chiede al giudice di secondo grado, prima ancora di entrare nel merito delle assoluzioni concesse dal tribunale, di ammettere l’utilizzo, anche contro i coimputati, delle testimonianze rese in istruttoria dagli imputati (quasi tutti) che si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Secondo Macchiavello, per molti imputati la scelta di non testimoniare non è stata libera e quindi la norma non va applicata. Scrive il procuratore generale: “Il rifiuto degli imputati di sottoporsi ad esame è stato determinato (anche) da una situazione generale di coartazione della loro volontà, come i fatti e le prove acquisite ampiamente dimostrano: l’acquisizione a fini di prova dei verbali dei loro interrogatori avrebbe riguarda132

to anche e soprattutto le gravissime responsabilità dei loro diretti superiori gerarchici, fino ai massimi livelli della polizia”. Macchiavello elenca quindi casi e fattispecie: la mancata individuazione del quattordicesimo firmatario del verbale d’arresto; il mancato riconoscimento dell’agente “Coda di cavallo”; le pressioni e le sanzioni subite dall’artificiere Melis, dai funzionari Guaglione e Di Bernardini; il rinvio a giudizio per falsa testimonianza di Colucci e Mortola; i ripetuti riferimenti, di Andreassi e altri, al coinvolgimento dei massimi vertici di polizia (in particolare la risposta di Andreassi a Vittorio Agnoletto durante la perquisizione: “Non si può fare nulla”). A sostegno della propria tesi, Macchiavello cita anche alcuni passaggi della sentenza di primo grado, nei quali si parla di patti per il silenzio più o meno espliciti fra dirigenti e semplici agenti. Ecco un brano sull’origine delle violenze: “Se non può escludersi che le violenze abbiano avuto inizio spontaneo da parte di alcuni, è invece certo che la loro propagazione, così diffusa e pressoché contemporanea, presuppone la consapevolezza degli operatori di agire in accordo con i loro superiori, che comunque non li avrebbero denunciati”. Non è una valutazione da poco, specie se consideriamo che è inserita in un giudizio di assoluzione per i funzionari e i dirigenti di grado più alto accusati di falso e calunnia. In un altro passaggio riportato da Macchiavello, il tribunale trova conferme della propria valutazione nel fatto che nessuno dei capisquadra e dei singoli operatori “abbia denunciato quanto avvenuto, pur avendone l’obbligo” per legge. Sempre per il tribunale, il fatto che Vincenzo Canterini non abbia fatto cenno alle violenze degli agenti dentro la scuola nella sua prima relazione e che Michelangelo Fournier “a sua volta non abbia neppure pensato di denunciare quanto lo aveva successivamente portato a dire che la situazione richiamava alla mente una macelleria messicana [...] costituiscono ulteriori, precise conferme della sussistenza di una sorta di accordo”. La Corte d’appello ha respinto la richiesta di Macchiavello, giudicando insufficienti le sue motivazioni, ma il procuratore generale ha avuto il merito, a prescindere dalle questioni strettamente giudiziarie, di affrontare un tema tutt’altro che secondario, ossia il clima interno alla polizia di stato, la sua lealtà istituzionale, gli effettivi spazi di autonomia e di libertà di agenti e funzionari. Gli indizi elencati da Macchiavello, sotto questo profilo, non si possono liquidare facilmente e abbiamo visto, parlando del processo Mortola-De Gennaro, quanto sia stato articolato e potente il gioco di squadra fra imputati e altissimi dirigenti.

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Un’altra polizia è possibile Colpisce, sotto questa luce, la sorte toccata ad agenti e funzionari che non si sono allineati alla logica dell’omertà e della reticenza sui fatti conosciuti. Prendiamo Michele Burgio, l’autista che portò le molotov nel cortile della Diaz. Condannato in primo grado a due anni e sei mesi per calunnia e porto d’armi, è l’unico pienamente assolto in appello. È anche l’unico, fra gli imputati, ad aver lasciato la polizia di stato. All’indomani dell’assoluzione, è stato intervistato dal “Secolo XIX” e ha raccontato le pressioni e le intimidazioni subite a causa della sua testimonianza. Ecco i passaggi chiave dell’intervista di Graziano Cetara: “‘Sono stato tra i primi a essere interrogato dai due pm, Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini. Mi tennero per quindici ore sotto il torchio. Ero solo un testimone e difatti quelle parole dette senza avvocato non sono state usate al processo. Ma le ho pagate care.’ Come? ‘Il giorno dopo, uscendo di casa per andare a fare la spesa con mia madre, trovai le quattro ruote dell’auto tagliate. Denunciai l’episodio alla questura di Genova, mi misero sotto scorta per qualche mese e poi tra gli obiettivi sensibili. La situazione era tesa. Anche con certi colleghi. Come se mi ritenessero responsabile di qualcosa.’ Lei aveva risposto alle domande, forse contribuì all’identificazione di Pietro Troiani. ‘Feci solo il mio dovere. I miei capi di allora mi dissero di dire tutto quello che sapevo, anche se in seguito le pressioni aumentarono per aggiustare un po’ le cose.’ E le reazioni? ‘La maggioranza dei colleghi e degli amici veri era al mio fianco. Pochi altri, invece, li sentivo parlare alle mie spalle, quando passavo. Facevano battutine idiote, che non voglio neanche più ripetere. È facile giudicare quando le cose capitano agli altri. Quando toccano a te è diverso ed è difficile fare ironia. Così un bel giorno ho detto basta. Ne ho parlato alla mia famiglia. Era giusto che lo facessi con loro e ho mollato’”. Anche Pasquale Guaglione, il vicequestore cui si deve il riconoscimento delle molotov, ha fatto riferimento a conseguenze negative delle sue testimonianze. “Pressioni o minacce non ne ho ricevute,” ha detto in tribunale, “se invece debbo dire che ci sono state discriminazioni nei miei confronti, queste sì. Anche perché sembra che l’unica testa caduta fino adesso, di tutto questo processo e di quello che si è verificato a Genova, sia stata la mia, sia per gli incarichi ricevuti sia per come sono stato trattato, dei rapporti personali con i questori che si sono succeduti nell’ambito della questura di Bari. Però questo non ha influito e non influisce minimamente su quella che sarà la mia deposizione.” Guaglione in aula non ha detto di più, non ha quindi spiega134

to nel dettaglio le ritorsioni subite o gli effetti pratici della discriminazione di cui si ritiene vittima. Di certo il suo nome non compare nell’elenco dei funzionari promossi a inchiesta e processi in corso, elenco nel quale figura fra gli altri Spartaco Mortola, che all’epoca della sua riservatissima e decisiva testimonianza cercò di raggiungerlo al telefono, come si evince da una conversazione fra Mortola e Di Sarro intercettata nell’inchiesta Colucci-Mortola-De Gennaro. Che un indagato si metta in contatto con un importante testimone, in qualsiasi processo, è un’interferenza inaccettabile, per quanto non vi siano precise sanzioni penali. Se poi l’indagato è un poliziotto esperto in materia legale, l’infrazione è ancora più grave. Ma i processi genovesi ci hanno abituato a continue e vistose violazioni dell’etica pubblica. Un leale e importante contributo all’inchiesta Diaz lo ha dato anche Luca Salvemini, funzionario della questura di Palermo. A lui si deve la precisa ricostruzione cronologica dei filmati ripresi all’esterno della Diaz e in particolare la collocazione oraria del decisivo “conciliabolo”. È stato Salvemini a riconoscere un personaggio ripreso in secondo piano, mentre telefona, nel filmato “Blue sky”: il sovrintendente Giovanni Alagna. Nello stesso fotogramma si nota che anche Giovanni Luperi sta telefonando, con la mano libera dal sacchetto delle molotov. Spulciando i tabulati di tutte le telefonate di quella notte, i pm hanno scoperto che in un unico momento Alagna e Luperi sono simultaneamente al telefono: a mezzanotte e 41, a quel punto ora ufficiale del “conciliabolo”. Senza il contributo di Salvemini, i pm non sarebbero riusciti ad avere certezze. Inutile dire che nemmeno Salvemini ha ricevuto encomi o promozioni.

Un urlo nella notte Un caso a parte è quello di Michelangelo Fournier, capo del nucleo antisommossa, lo specialissimo reparto addestrato in vista del G8 e protagonista dell’irruzione alla scuola Diaz. La sua testimonianza in tribunale, il 13 giugno 2007, conquista le prime pagine dei giornali, grazie a un’espressione utilizzata dal funzionario per definire quel che avvenne all’interno della scuola: “una macelleria messicana”. È una citazione di Ferruccio Parri, capo partigiano e presidente del Consiglio nel ’45, che così avrebbe definito – deprecandola – l’esibizione a piazzale Loreto dei corpi di Benito Mussolini, Claretta Petacci e altri gerarchi del fascismo uccisi dai partigiani. In realtà, la locuzione nemmeno compare nei verbali dell’esame in tribunale di Fournier, se non in una sollecitazione del pm, che legge il verbale di un interrogatorio del 2001, durante il VII

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quale il funzionario aveva appunto parlato di una “macelleria messicana” all’interno della scuola. L’espressione piace ai mezzi d’informazione. È percepita come una colorita certificazione, dall’interno della polizia, delle testimonianze rese dalle vittime della sanguinosa notte della Diaz. E così la deposizione esce dalla catacomba mediatica del processo Diaz, normalmente ignorato dai grandi mezzi d’informazione. In aula Fournier dice in effetti cose nuove rispetto ai precedenti interrogatori. Ammette per la prima volta di avere assistito personalmente alle violenze all’interno della scuola. Le definisce “colluttazioni unilaterali, uno le dava e l’altro le prendeva”. Fin lì aveva sostenuto d’essere intervenuto, gridando “Basta” e ordinando ai suoi uomini di uscire dalla scuola, dopo aver visto un corpo esanime a terra (Melanie Jonasch), ma senza avere assistito alle violenze. Fournier in aula rivela di essere stato testimone anche di uno dei gesti più odiosi fra i tanti avvenuti durante il blitz: un poliziotto che mima l’atto del coito al cospetto di una ragazza ferita. “Non ne ho riferito prima,” dice in aula, “per carità di patria, perché era un gesto indegno.” Fournier aggiunge poi una valutazione sul tonfa, lo speciale manganello in uso al suo reparto. Lo definisce uno strumento che “non può essere usato con la leggerezza con cui si utilizza quello ordinario, i colpi in testa possono essere mortali”. È anch’esso un particolare importante, perché sappiamo da numerose testimonianze che i tonfa alla Diaz furono addirittura utilizzati a rovescio, in modo da colpire col manico: una modalità ancora più pericolosa e che procura squarci nella carne. I pm, ascoltate le novità di Fournier, fanno subito notare il grave ritardo delle rivelazioni e chiedono conto dell’assenza di ogni riferimento a quegli episodi nei verbali. Fournier dà una risposta per noi rivelatrice: ammette che la sua relazione del luglio 2001 fu “relativa”, cioè priva di ogni riferimento alle violenze “per non arrecare ulteriore danno all’amministrazione”. Soprattutto spiega il motivo del silenzio fin lì osservato: “Ho taciuto questo aspetto per senso di appartenenza. [...] Mi sono portato questa croce addosso per sei anni, ne ho parlato solo con il mio avvocato”. Il “senso di appartenenza”, in questa chiave, ha un’accezione del tutto deteriore: segnala un clima claustrofobico, il rifiuto di sguardi dall’esterno, l’indifferenza per l’opinione pubblica e per il diritto dei cittadini a sapere che cosa si fa in loro nome. Segnala anche l’esistenza di una consegna del silenzio che non ammette deroghe. È l’atteggiamento che ha caratterizzato l’intera condotta della polizia di stato nei mesi e negli anni seguiti al G8. 136

Ancora una volta, siamo ben distanti da canoni degni di organi di polizia in un sistema democratico. Fournier, in tribunale, attribuisce le “colluttazioni unilaterali” a quattro o cinque agenti, non appartenenti al suo reparto: dice che un paio avevano una cintura bianca (i suoi uomini indossavano una cintura scura), gli altri erano in borghese con una pettorina. Possibile che Fournier, entrato nella scuola fra i primi, non abbia assistito alle violenze compiute dal VII nucleo antisommossa, descritte da numerose testimonianze? Comunque, perché non ha identificato e denunciato gli autori dei pestaggi avvenuti sotto i suoi occhi? Ecco la sua giustificazione: “Urlai basta, basta,” si legge nel verbale dell’esame in tribunale, “non so se mentre mi scagliavo contro gli uomini o prima. I quattro lì per lì non hanno gradito il mio intervento, mi insultarono, poi vedendo che ero un funzionario hanno desistito. Non era possibile identificarli in quel momento e denunciarli”. Questa testimonianza è valsa a Fournier, unico fra gli imputati, un’attenuazione della pena, per quanto il giudice d’appello non abbia mancato di rimarcare i punti deboli della sua posizione: “Benché in ritardo e ingiustificatamente passivo prima e durante lo svolgimento delle operazioni,” si legge nelle motivazioni della sentenza di secondo grado, “si deve al suo intervento l’interruzione del massacro, che poteva avere ulteriori e ben più gravi conseguenze. Dal punto di vista processuale al dibattimento, seppur tardivamente e sempre cercando di scagionare i propri uomini, Fournier ha ammesso la vera natura e consistenza della condotta violenta degli operatori entrati nella scuola”. Fournier, condannato in primo grado a due anni (con pena sospesa) per concorso in lesioni, ha beneficiato in appello della prescrizione, “in conseguenza delle ritenute attenuanti generiche”. Nel processo d’appello i pm si erano opposti alla concessione delle attenuanti, dando un’interpretazione negativa della condotta di Fournier. Secondo Zucca e Cardona Albini la sua deposizione in tribunale è stata “l’ultimo atto di sfida”, con “dichiarazioni di apparente resipiscenza, [...] in realtà dettate dalla volontà di coprire le altrui responsabilità, secondo il codice omertoso e solidaristico del corpo di appartenenza. Mentre il diritto al silenzio è totale privilegio dell’imputato, altrettanto non lo è la mera possibilità di mentire. Di fronte al giudice l’ossequio è prestato non alla legge dello stato, cui l’imputato ha giurato fedeltà, ma ad altri. Ed è certo che non si possono servire due padroni”. La questione giuridica, come si vede, s’intreccia con una valutazione etica, ed è difficile, in quest’ottica, dare torto ai pm. La figura di Michelangelo Fournier, in altre parole, non è quella di 137

un “pentito”, da lui stesso rifiutata, e nemmeno quella del “poliziotto buono” da contrapporre agli altri “cattivi”. Il suo intervento nella scuola – il grido “Basta, basta” – indubbiamente c’è stato e forse ha impedito ulteriori violenze, ma i suoi uomini sono stati comunque autori di brutali pestaggi, grazie alla “garanzia” di impunità in qualche modo assicurata dall’intera catena di comando del blitz e descritta dallo stesso giudice di primo grado. Quanto alla testimonianza in tribunale, essa ha avuto una precisa ragione processuale, al di là di eventuali e insondabili motivazioni interiori: è servita ad attenuare la sua posizione di imputato, senza aggiungere nulla ai risultati d’inchiesta già conseguiti dalla pubblica accusa. Ben diverso sarebbe stato se Fournier (o altro protagonista della vicenda) avesse offerto contributi concreti per ricostruire i numerosi passaggi oscuri dell’operazione, o per individuare i responsabili di singole azioni di violenza. In quel caso sì che avremmo avuto uno o più poliziotti “buoni”, cioè fino in fondo leali, da contrapporre a chi è rimasto al riparo del codice omertoso chiamato “spirito di corpo”.

Lo spirito di corpo Alla fine proprio questo malinteso concetto, più forte, molto più forte del principio di lealtà istituzionale, è il volto della polizia di stato che emerge dagli orrori del G8 e dai successivi processi. Enrico Zucca ne individua le radici secondo due ordini di valutazione. In primo luogo c’è la condizione strutturale degli apparati di polizia, tutori della legalità e quindi restii ad accettare d’essere messi in discussione per i propri comportamenti, anche se devianti. In secondo luogo, c’è la specifica, attuale realtà della polizia di stato italiana. “I processi ai poliziotti,” osserva il magistrato, “sono difficili ovunque e hanno una loro specificità. Il corpo di polizia si sente attaccato come tale e reagisce compatto reclamando copertura e solidarietà dagli organi dello stato.” Nel caso di Genova, c’è stato un elemento in più, il coinvolgimento personale dei massimi dirigenti. “L’azione della magistratura è stata vissuta come uno scandalo: un atto contro natura. La mancanza di organi indipendenti di controllo all’interno della polizia ha impedito ogni processo di autorevisione critica. Se non v’è coscienza della malattia la guarigione è difficile. All’estero la devianza nei corpi di polizia è chiamata ‘corruzione per nobile causa’, cioè l’abuso del potere non per scopi personali, ma per conseguire un vantaggio istituzionale o di organizzazione. Alla base c’è l’idea diffusa che 138

la violazione delle regole sia giustificata, se lo scopo è assicurare alla giustizia i soggetti ritenuti colpevoli. Quest’idea può legittimare addirittura la creazione di prove false. La conseguenza più ovvia è che il fine ‘istituzionale’ genera istintivamente una copertura dell’intero corpo di polizia, in un regime di reciproco ricatto omertoso.” In un simile clima di controlli e di veti interni, non vi è spazio per il principio di trasparenza, né per scelte individuali di lealtà alla legge e alle istituzioni, se non al prezzo d’essere messi al bando dalla “comunità” dei colleghi. “Mark Covell,” dice Zucca, “deve la sua vita all’intervento di un poliziotto, un graduato, che ha impedito ai suoi colleghi di infierire ancora sulla vittima. Questo è il poliziotto che dovrebbe rappresentare la polizia, ma è rimasto sconosciuto, prigioniero del ricatto, nell’impossibilità di denunciare quei colleghi. E la polizia è stata invece rappresentata dalle trionfalistiche dichiarazioni di chi ha arrestato i feriti con prove fabbricate.” Dieci anni dopo, sono quindi di pressante attualità domande che scavano a fondo nelle relazioni fra corpo di polizia, istituzioni, cittadini. È in discussione, diciamola tutta, l’affidabilità democratica degli apparati di sicurezza, fortemente compromessa dallo scontro ingaggiato con la magistratura. È difficile dire come si possa voltare pagina, ma un requisito essenziale è il radicale rinnovamento al vertice degli apparati di sicurezza. Altro passaggio ineludibile: la ripresa dello scettro da parte del potere politico e parlamentare, che in questi anni ha rinunciato alle sue prerogative, limitandosi sciaguratamente a proteggere un pugno di uomini al comando. Livio Pepino ci aiuta a riflettere su questo punto: “La mancata collaborazione con l’autorità giudiziaria apre una ferita enorme nelle relazioni istituzionali. È un fatto grave che i vertici della polizia, imputati di aver falsificato le prove durante un’operazione, scelgano in modo generalizzato di non rispondere alle domande dei magistrati. Posso capire le scelte difensive di singoli ma la decisione collettiva di tacere altro non è che un boicottaggio alla possibilità di accertare l’esatta dinamica dei fatti (che è compito istituzionale dell’autorità di polizia...). È inevitabile che una scelta siffatta determini una caduta verticale nella fiducia dei cittadini verso gli apparati di polizia”. Per Pepino c’è anche una diretta responsabilità del potere politico: “Di fronte a un atteggiamento diverso della politica, alcuni funzionari di polizia avrebbero probabilmente collaborato alle indagini, magari anche ammettendo errori o sottovalutazioni o perdita di controllo propri o di altri. Ma in presenza di un sistema politico che ha fatto quadrato difendendo tutti a prescindere dalle circostanze accertate e dalle responsabilità morali e professionali (prima ancora che penali) emerse, la scelta del si139

lenzio e della non collaborazione è stata facilitata se non addirittura suggerita. L’intervento alla Diaz sarebbe stato comunque lacerante, anche senza i falsi, vista l’entità delle violenze praticate. Ma la costruzione di prove false da parte di esponenti della polizia ha determinato uno strappo ulteriore nella collaborazione tra istituzioni dello stato e, in particolare, tra magistratura e polizia. Ogni generalizzazione è sbagliata ma è inevitabile, dopo fatti di questo genere, con queste compromissioni e queste coperture, l’insorgere di diffidenze e sospetti, quando si tratta di indagini delicate, a fronte di verbali di polizia”. Sono argomenti che la polizia di stato ha evitato di affrontare in questi anni, puntando tutto sulla guerra ai processi e sulla protezione garantita dal potere politico.

L’ultima lettera Chiudiamo allora come abbiamo cominciato il capitolo, cioè con una lettera a un giornale, scritta stavolta dall’attuale capo della polizia, Antonio Manganelli, all’indomani della sentenza di primo grado nel processo Diaz, un giudizio che fu accolto con malcelata soddisfazione dai vertici del corpo, ma che segnò comunque un’indecorosa tappa nella storia della polizia di stato, con la condanna di 13 agenti e funzionari. Scrive dunque Manganelli al quotidiano “la Repubblica” il 16 novembre 2008: “Caro direttore, leggo che ‘Repubblica’ si aspettava (anche) dai vertici della polizia segnali di fedeltà alla Costituzione. Il vertice della polizia è uno solo. Sono io. Credo perciò di doverle una pacata spiegazione. Metterei intanto da parte il richiamo alla fedeltà alla Costituzione che è assai suggestivo mediaticamente, ma anche questione troppo seria per essere messa in discussione dalla vicenda che trattiamo. Oltre 150 anni di storia, i nostri morti e il lavoro diuturno per il bene dei cittadini di migliaia di persone sottopagate onorano la Costituzione ogni giorno. Non credo perciò che nessuno abbia bisogno di essere rassicurato sulla fedeltà alla Costituzione delle forze di polizia. Credo invece, e sono d’accordo con ‘Repubblica’, che il paese abbia bisogno di spiegazioni su quel che realmente accadde a Genova. L’Istituzione, attraverso di me, si muove e si muoverà a tal fine senza alcuna riserva, non attraverso proclami via stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali. Si muove, e si muoverà, inoltre, con i fatti. Dall’inizio del mio mandato, ad esempio, mi sto adoperando per approfondire, e anche correggere, tutte le modalità di intervento ‘in piazza’ anche avviando la costituzione della prima scuola di polizia per la tutela dell’ordine pubblico che sarà inaugurata il prossimo 3 dicembre. Abbiamo ai vertici dei reparti, investigativi e operativi in genere, persone pulite. Dal lu140

glio dello scorso anno, io sono il loro garante e mi assumo, come ho già fatto, la responsabilità per gli errori che possano commettere. Caro direttore, sto scrivendo l’ultimo capitolo della mia storia professionale e non lo macchierò certo per reticenza, per viltà o per convenienza”. Manganelli dunque promette spiegazioni “su quel che realmente accadde a Genova”. Sembra incredibile, ma questa lettera è scritta a sette anni di distanza dalle giornate del G8. Il capo della polizia indica “sedi istituzionali e costituzionali” che non vengono meglio specificate, ma che non devono essere le aule di giustizia. In sette anni e decine fra udienze, audizioni, testimonianze e interrogatori le occasioni per dare spiegazioni e assumersi le dovute responsabilità non sono certo mancate. Si è invece assistito a una saga, interpretata da capi e dirigenti di polizia, fatta di non ricordo, non comandavo io, non toccava a me intervenire, non mi sono accorto di niente. Per non parlare dello scontro frontale con i magistrati e delle azioni di ostacolo ai processi. Siamo lontani, davvero troppo lontani, da canoni accettabili per una democrazia matura.

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Foto di Rosanna Sirtori

5. Forze di quale ordine?

Gli orrori di Bolzaneto Torturati “È strano che in una nazione democratica con una costituzione democratica si sequestrino dei cittadini, si torturi e si arresti senza nessuna garanzia, senza aver commesso nessun reato, senza poter parlare con gli avvocati, senza poter avvisare i familiari, ma ancora più strano è giungere sino al punto di considerare il carcere come una liberazione dagli aguzzini”: dalla memoria di S.P., uno dei tanti giovani rinchiusi a Bolzaneto e poi condotto nel carcere di Alessandria. M.T., 52 anni, poliomielitico, claudicante, con una protesi alla gamba, subisce un pestaggio all’interno della cella quando crolla a terra, dopo essere stato in piedi contro al muro per tutta la notte; un gruppo di agenti si accanisce su di lui con calci, pugni e manganellate su tutto il corpo, forzandolo a riprendere la posizione del cigno: per numerose ore in piedi, con il volto rivolto verso il muro della cella, le braccia alzate, le gambe divaricate, senza poter mutare tale postura. La caserma di polizia di Bolzaneto, nelle giornate del G8, è organizzata come un ufficio matricola. Si è deciso, in previsione dei numerosi arresti, di eseguire lì le prime operazioni di identificazione e verbalizzazione, per poi trasferire i detenuti in alcune prigioni del Nord Italia. Si è anche deciso, alla vigilia del G8, di sospendere uno dei diritti previsti dal codice per le persone in stato di fermo, ossia la comunicazione immediata con il proprio avvocato. Il differimento dei colloqui è firmato dal procuratore capo: è un provvedimento straordinario, ma non solleva sul momento particolari obiezioni. Presa per ragioni pratiche, cioè per 143

favorire lo smistamento dei fermati in una città in cui si prevedevano grandi difficoltà di spostamento, la misura si è rivelata una grave menomazione dei diritti fondamentali e ha sicuramente reso più facili gli abusi. Il contatto con gli avvocati sarebbe stato un forte deterrente per gli agenti responsabili di violenze, intimidazioni, vessazioni. La lista delle angherie subite dalle oltre duecento persone rinchiuse nella caserma di Bolzaneto fra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, è lunghissima. Si potrebbe andare avanti per pagine e pagine. D.G., 22 anni, percosso con un colpo di manganello all’ingresso della caserma mentre gli intimano di non appoggiare la testa sanguinante contro il muro per evitare di sporcarlo, percosso nuovamente nel corridoio con calci e pugni, riporta lesioni e sanguinamento al naso – già colpito con un pugno nel corso dell’arresto – e un ematoma al polpaccio destro; ingiuriato nel corridoio con frasi del tipo “Bastardi comunisti, è ora che impariate”, ancora percosso con calci nella cella mentre è nella posizione del cigno, gli viene fatta sbattere la testa contro il muro; picchiato con schiaffi e calci in corridoio, sviene e viene messo sotto flebo in infermeria. Le violenze subite da D.G. rappresentano il trattamento base al quale sono stati sottoposti quasi tutti coloro che sono transitati per Bolzaneto. Altro trattamento comune è il passaggio attraverso il cosiddetto “comitato di accoglienza”, nel cortile della caserma, consistente, nelle parole dei pubblici ministeri che hanno condotto l’inchiesta, Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello, “in percosse, minacce, sputi, risate di scherno, urla canzonatorie, insulti di ogni genere anche in riferimento alle condizioni sociali e alla fede politica che venivano rivolti, con evidente fine di disprezzo e di intimidazione, ‘a mo’ di saluto’ alle persone arrestate e/o fermate”. A questa via crucis si aggiungono, di volta in volta, trattamenti particolari, individualizzati. L.G., 29 anni, pestato, riporta la frattura di alcune costole, è nuovamente percosso e ingiuriato da due agenti, che minacciano di violentarlo con un manganello mentre davanti al wc gli dicono “Orina, finocchio”. P.E., 21 anni, ingiuriata nel bagno con epiteti quali “troia” e “puttana”, è costretta con violenza a mettere la testa dentro la turca e a subire da altri agenti frasi ingiuriose con riferimenti sessuali del tipo “Che bel culo”, “Ti piace il manganello”. V.A., 20 anni appena compiuti, è costretto a urlare “Viva il Duce e viva la polizia penitenziaria”; è ingiuriato con ripetute frasi quali “Sei un gay o un comunista?”; viene scottato alle mani con un accendino. 144

B.D., 17 anni, minacciato con frasi del tipo “Non vi scorderete della polizia penitenziaria”; “Comunisti di merda”; “Uno, due tre, viva Pinochet; quattro, cinque, sei, a morte tutti gli ebrei”; è percosso in cella con colpi sul rene destro e sul ginocchio destro, subisce esalazione di gas asfissianti-urticanti, è insultato da agenti che premono il grilletto della pistola simulando delle esecuzioni e minacciandolo di morte. D.S., 26 anni, viene percosso fuori dall’infermeria con strizzate ai testicoli e colpi al piede; è ingiuriato ripetutamente da agenti che mentre intonano in coro “Uno di meno, siete uno di meno”, con chiaro riferimento all’uccisione di Carlo Giuliani, si vantano di essere nazisti; dicono di provare piacere a picchiare un “frocio, ebreo, omosessuale, comunista, merdoso come lui”. R.S.A., 20 anni, è ingiuriato con epiteti e ritornelli di ispirazione fascista (“Heil Hitler”, “Viva il Duce”, “Bastardi”, “Uno, due, tre, viva Pinochet...”); percosso nel corridoio da due ali di agenti è costretto in cella ad accucciarsi a quattro zampe come un cane mentre viene percosso con calci nel sedere. H.J., 28 anni, percosso, viene costretto a spogliarsi nudo, a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania. S.A., 25 anni, picchiata nel corridoio da agenti della polizia penitenziaria, subisce, insieme ad altre ragazze, minacce anche a sfondo sessuale: “Entro stasera vi scoperemo tutte”. U.P., 26 anni, percosso, insultato, gli strappano i vestiti di dosso lasciandolo in mutande; un poliziotto mostrandogli una spranga di ferro e tirandogli l’elastico delle mutande gli dice: “Vedi questa spranga, adesso te la infiliamo in culo, zecca comunista”; “I tuoi compagni stronzi comunisti hanno ammazzato tre carabinieri e adesso te la facciamo pagare”; “Adesso devi gridare Viva il Duce”. B.A., 20 anni, riceve ingiurie e minacce: “Comunisti di merda, puttane e zecche”; “Entreremo nella cella e dipingeremo i muri con i nostri manganelli dello stesso colore della vostra bandiera”; “Siete delle bocchinare, puzzate, sporche bastarde”; subisce l’esalazione di gas asfissiante e urticante spruzzato in cella e quando chiede di andare in bagno per cambiare l’assorbente, le viene gettata della carta appallottolata sul pavimento ed è costretta a sostituirsi l’assorbente in cella con dei pezzi di vestiti alla presenza di altre persone anche di sesso maschile. S.A.P., 17 anni, è costretto con violenza a eseguire flessioni nudo mentre un agente lo tiene per i capelli facendolo andare su e giù ed è ingiuriato con ritornelli di ispirazione fascista (“Uno, due, tre, viva Pinochet”, “Mussolini, olè”). Per paura di subire ulteriori pestaggi e minacce molti rinunciano a chiedere di andare in bagno e preferiscono farsela addosso. 145

“I racconti delle parti lese,” scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado, “hanno trovato puntuale riscontro sia nell’incrocio tra le diverse dichiarazioni, sia attraverso le testimonianze di appartenenti alle stesse amministrazioni di cui fanno parte gli attuali imputati (per esempio le dichiarazioni degli infermieri Poggi e Pratissoli, dell’ispettore della polizia penitenziaria Vacca Mariano) nonché in virtù delle parziali ammissioni di alcuni degli imputati stessi.” Nemmeno Forte San Giuliano, l’altro sito – presidiato dai carabinieri – destinato a ospitare gli arrestati e i fermati viene risparmiato da episodi di violenza, seppure di minor entità rispetto a quanto accaduto a Bolzaneto. Paolo Fornaciari, oggi attivista del Comitato verità e giustizia per Genova, vi è condotto dopo il fermo nei pressi di via Tolemaide: “Mentre due carabinieri mi continuano a tenere per le braccia,” racconta, “un uomo in borghese (jeans e maglietta) con lunghi capelli neri raccolti in una coda, e con orecchino, mi fa più volte il segno della croce con il pollice su bocca e fronte e mi picchia sulle due tempie contemporaneamente, tramortendomi. In quel momento sono ammanettato, il mio accompagnatore mi sbatte due volte la testa contro il muro. Tenta di farmi cadere spingendomi giù dalla rampa di scale; rotolo, mi rialzo prima che riesca a raggiungermi. Tento di sottrarmi da lui, urlo a squarciagola. Arriva un altro militare e mi picchia con la mano guantata gettandomi a terra”. Nessun processo è mai stato aperto su quanto è avvenuto a Forte San Giuliano. Medici o aguzzini? Le violenze non si fermano nemmeno alla soglia dell’infermeria. Racconta l’infermiere Marco Poggi nell’interrogatorio del 6 febbraio 2007: “Ricordo il primo ragazzo arrestato, gli è stato chiesto di fare la flessione. Lui non capiva e uno dei due agenti gli ha dato due forti pugni all’altezza dei reni”. Altri episodi sono ricordati, nello stesso interrogatorio da un altro infermiere, Ivano Pratissoli: “Era lì in piedi a dire, a esprimere nome e cognome, quello che gli veniva richiesto, l’agente inaspettatamente ho visto che si è infilato i guanti, poi gli ha detto: ‘Tu che cazzo hai intenzione di fare, stronzo?’. Poi gli ha dato un cazzotto alla bocca dello stomaco e il ragazzo è caduto sul tavolo. [...] Dopodiché lui si è rimesso in piedi [...] e poi si è appoggiato sul lettino che stava dietro con lo stomaco e dopo hanno continuato a dargli un po’ di pugni ai reni”. I magistrati chiedono ulteriori informazioni: “Questo agente che ci ha descritto, che ha riconosciuto, che ha colpito lo spagnolo, ha colpito altre persone in infermeria?”. “Era molto of146

fensivo,” risponde Pratissoli, “e poi un qualche calcio, cazzotto, insomma, li dava, li dava, non so perché.” “Ma li dava nel corso delle perquisizioni?” “Sì, sì.” “Ha detto offensivo, vuole ricordare?” “Diceva: stronzo, pezzo di merda, ti piscio, ti apro la testa e ti piscio dentro, testa di cazzo, non capisci niente.” La testimonianza di Pratissoli coinvolge direttamente anche i medici. “Il dottor Toccafondi ha compiuto atti di violenza nella infermeria?” domandano i magistrati. “Mah, gli schiaffi sì,” risponde l’infermiere. “Vuole descrivere quando li ha visti, in che circostanza?” “Quando faceva la visita ai ragazzi, quando erano a torso nudo, era capace di dare uno schiaffone e dire: ‘Dov’è che hai il male? È qui che hai male’. [...] C’è stato un ragazzo che quando l’hanno fatto spogliare, lui l’ha visitato e gli ha detto: ‘T’insegno io a fare il benzinaio’. [...] ‘Chiama Che Guevara e così ti viene in aiuto.’” Il dottor Toccafondi, coordinatore del servizio sanitario di Bolzaneto, almeno per una parte significativa del tempo non indossa il camice, ma una tuta mimetica della polizia penitenziaria; porta con sé una pistola e raccoglie come “trofei” oggetti ricordo appartenenti alle persone visitate. Il medico motiva tale abbigliamento con la necessità di rendersi riconoscibile dai poliziotti per evitare, come sarebbe accaduto in un’occasione, di ricevere spintoni dal personale di polizia. Giustificazione originale, dalla quale si è autorizzati a dedurre che tutti gli altri, non in divisa, erano potenzialmente a rischio di spintoni da parte dei poliziotti. Il dottor Toccafondi durante l’interrogatorio sostiene di aver “raccolto solo cartine con nomi, numeri di telefono. [...] Non sottraevo l’oggetto dalle tasche della persona, a visite finite c’era questo scatolone. [...] Mi è capitato di darci un’occhiata, su un paio che ho ritenuto che in qualche modo mi colpissero, mi sono permesso di prenderle”. Il medico nega di aver chiamato “trofei” questi oggetti, nega di aver strappato piercing, di aver dato schiaffi e di aver insultato. Su un episodio riferito da Pratissoli dice: “Per, come dire, calmare un po’ la situazione l’ho preso per un braccio e lo spinsi verso l’area, spinsi nel senso che accompagnai col braccio verso l’area della polizia penitenziaria dicendo e sì, va be’, farà il benzinaio...”. Il dottor Toccafondi conferma di aver avuto una pistola: “Sono dotato di regolare porto d’armi, depositavo l’arma appena entrato nella struttura come previsto dal regolamento penitenziario e la ritiravo immediatamente prima di uscire...”. Gli abusi dei medici sono considerati dai pm estremamente gravi: violenze e umiliazioni sono inflitte in un’infermeria, un luogo in cui le persone si aspettano di essere assistite, e anche un 147

ambiente nel quale per il personale sanitario sarebbe stato più facile intervenire e censurare gli aguzzini. Diverse donne testimoniano che durante la visita furono fatte rimanere nude per un tempo ben superiore al necessario, fatte girare più volte su se stesse, di fronte anche a personale maschile, non del comparto sanitario, che assisteva anche alle perquisizioni personali. “Mi hanno portato a fare la perquisizione corporale,” ha raccontato ai giudici F.A., una giovane donna. “Mi hanno fatto spogliare, poi si sono accorti che avevo dei piercing anche intimi, quindi mi hanno obbligato a toglierli, sono venuti tutti a guardare. Ricordo cinque soggetti, uomini, pensavo fossero infermieri. [...] Io ho detto che non volevo toglierli, allora sono venuti, mi hanno dato una pinza in mano e mi hanno detto: ‘O lo fai tu o lo facciamo noi, quindi è meglio che lo fai tu’. Allora me li sono tolti, per terra, seduta per terra, nuda, a gambe larghe, con loro che mi guardavano.” Al dottor Toccafondi i pm hanno contestato tra l’altro violazioni dell’ordinamento penitenziario per “aver effettuato ed aver comunque consentito che altri medici effettuassero i controlli e il cosiddetto ‘triage’ [un sistema utilizzato per classificare i pazienti in base alla gravità delle lesioni riportate e che può precedere, anche di parecchio tempo, la visita vera e propria] e le visite mediche al primo ingresso con modalità non conformi ad umanità e tali da non rispettare la dignità della persona visitata, così sottoponendo le persone a un trattamento penitenziario, anche sotto il profilo sanitario, inumano e degradante”. Le vittime dichiarano che né durante il “triage”, né durante le visite mediche fu mai chiesto dove si fossero procurati le ferite e chi ne fosse il responsabile. Il dottor Toccafondi sì è difeso affermando che per il “triage” adottò il modello “start” consigliato per grandi calamità, come i terremoti (“Però qui non c’è un terremoto,” controbatte il pm) e che in tali occasioni anche la valutazione della gravità delle ferite, e quindi la conseguente decisione di inviare o meno il ferito in ospedale, risponde a criteri differenti: “Un sanguinamento al volto che soggettivamente viene percepito come un evento estremamente calamitoso [...] è del tutto secondario, purtroppo, quando si parla di medicina dei grandi numeri”; “Non c’era un’urgenza, un braccio rotto non richiede un trattamento di urgenza”. E così via. Messo alle strette dai pm, Toccafondi dichiara di non aver fatto alcun certificato per lesioni anche perché sprovvisto del formulario, ma il pm gli mostra un certificato rilasciato dallo stesso medico a Bolzaneto a un ispettore di polizia. “Sì la firma è assolutamente la mia,” conferma Toccafondi. “La motivazione anche di questo certificato, peraltro redatto su un foglio qualsiasi col timbro apposito, era semplicemente perché l’ispettore non 148

aveva la possibilità di rivolgersi ad alcun altro medico...” Dai medici di Bolzaneto non arrivò nemmeno una segnalazione all’autorità giudiziaria sulle ferite osservate nelle centinaia di visite. Il pm contesta al dottor Toccafondi alcuni episodi precisi, un ragazzo con il rischio di rottura di un testicolo e un altro con problemi alla milza, entrambi non rilevati al triage, ma a una successiva visita. Il pm chiede al medico se abbia o no ipotizzato che le lesioni siano avvenute dentro la caserma, fra una visita e l’altra. Il medico risponde che in ambedue i casi le lesioni possono manifestarsi anche a distanza di tempo dall’effetto traumatico. Episodi di violenza a Bolzaneto, il medico in mimetica non li ha proprio visti. Il dottor Toccafondi è stato condannato in primo grado a un anno e due mesi di reclusione. In appello è scattata la prescrizione per molti capi di imputazione, ma il giudice ha obbligato il medico a risarcire numerose parti civili, riconoscendone quindi la responsabilità per quegli episodi. Giacomo Toccafondi continua a fare il medico, come gli altri suoi colleghi responsabili di comportamenti analoghi. “Infami” per amore della verità Marco Poggi, bolognese, nel 2001 è in servizio ordinario al carcere della Dozza di Bologna; Ivano Pratissoli, reggiano, lavora all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Entrambi vanno a Genova rispondendo al “reclutamento” straordinario in vista del G8. Ne usciranno scioccati. Le loro testimonianze sono state il primo riscontro dall’interno delle denunce dei detenuti e hanno quindi reso evidente, anche agli scettici, che i racconti degli abusi corrispondevano al vero. Hanno mantenuto ferme le loro testimonianze reggendo sino alla fine del processo, anche di fronte a fortissime pressioni, alle denunce per calunnia, all’esame in tribunale e al confronto con gli imputati e con i loro superiori. All’indomani del G8 i due infermieri decisero di parlare dopo giornate di grande sofferenza. “Stavo male, piangevo,” racconta Poggi. “Sono rimasto chiuso in casa, da solo, a letto, ero sotto shock. Sapevamo che parlando non l’avremmo passata liscia, perché noi conoscevamo l’ambiente.” Ricorda Pratissoli: “Io avevo vissuto malissimo i giorni di Genova. Ricordo una giornata intera, sabato 21 luglio, passata a piangere: ero libero dal servizio e non riuscivo a darmi pace per quel che avevo visto il giorno prima. Mi sono detto: se io e Marco non parliamo, non si saprà mai la verità; siamo solo noi a sapere quello che è accaduto. Abbiamo il dovere di dirlo, poi accadrà quel che accadrà”. “A metà agosto,” racconta Poggi, “siamo a Milano dall’avvocato Giuliano Pisapia. Dopo qualche giorno andiamo a Genova 149

dal dottor Pinto, che ci interroga come persone informate dei fatti. Raccontiamo tutto, con nomi e cognomi. Mentre firmo la trascrizione della mia testimonianza, gli dico: sto firmando la mia uscita dal carcere. E lui mi risponde: no, sono altri che non potranno più lavorare in carcere. È andata come dicevo io.” Il giorno seguente le deposizioni dei due infermieri sono sui giornali. Alle 8 Marco Poggi deve essere nel carcere di Bologna dove lavora. “Alle 7.30 mi chiama un agente e mi dice di non andare. Incontro Paolillo, il direttore sanitario, e mi spiega che in carcere era tutto pronto: se fossi entrato in mensa, sarebbero usciti tutti. Mi hanno consigliato, per la mia salute, di non entrare.” Da quel giorno Marco Poggi ha smesso di andare al lavoro. “Mi hanno detto informalmente di dare le dimissioni. Io dicevo: guardate che quelli hanno infangato la vostra divisa. Ma per loro ero un traditore. Se vedi un collega uccidere, devi negare fino alla morte: questa è la logica. Me ne sono andato a lavorare all’Opg di Reggio Emilia e ora sono in pensione.” Marco Poggi ha intitolato il suo libro uscito nel 2003 Io, l’infame di Bolzaneto. Il 29 agosto 2001 Marco Poggi manda una lettera al presidente del Comitato parlamentare d’indagine, Donato Bruno, chiedendo di essere ascoltato, ma non verrà mai convocato. Poggi e Pratissoli vengono invece convocati più volte a Roma e Bologna dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Presiede la commissione d’indagine interna lo stesso dottor Alfonso Sabella, in quel momento indagato come responsabile delle attività del Dap durante il G8 (la posizione di Sabella verrà poi archiviata tra molteplici polemiche). “Una volta a Bologna,” racconta Pratissoli, “incrocio il dottor Amenta, uno dei medici di Bolzaneto. Io entravo e lui usciva dall’interrogatorio. Mi dice: ‘Avete combinato un bel casino’. ‘Il casino l’abbiamo fatto noi? Cosa stai dicendo? Insomma, c’eri anche tu quando lo spagnolo ti è caduto sul tavolo e io ero lì di fianco.’ E lui: ‘Non dire stronzate, io non ho visto niente’. Pensavano di poter mettere a tacere tutta la vicenda come se niente fosse, anzi, magari anche con un’onorificenza. Io, come tutti,” sorride amaramente Pratissoli, “ho ricevuto una lettera d’encomio dal dottor Giacomo Toccafondi, responsabile sanitario di Bolzaneto: l’aveva scritta prima che sapesse delle nostre testimonianze.” Anni dopo, nel 2008, Marco Poggi è stato nominato cavaliere del lavoro da Napolitano per “meriti sociali”. “Il decreto,” sorride Poggi, “doveva essere firmato da Prodi, ma il governo cadde e così c’è la firma di Berlusconi, che evidentemente non sapeva il perché di quella onorificenza.”

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Torture senza legge Il processo d’appello si conclude il 5 marzo 2010 con 44 condanne e oltre 10 milioni di euro di risarcimento per le vittime. Tra i condannati a pagare i risarcimenti, oltre ai ministeri dell’Interno, della Giustizia e della Difesa, figurano tutti i personaggi più alti in grado presenti a Bolzaneto. Per la polizia di stato: Alessandro Perugini (vicecapo della Digos di Genova), Anna Poggi, commissario capo, Franco Valerio e Daniela Maida, ispettori superiori. Per la polizia penitenziaria: Oronzo Doria, all’epoca colonnello del disciolto corpo degli agenti di custodia; Antonio Biagio Gugliotta, responsabile della sicurezza di Bolzaneto; Ernesto Cimino e Bruno Pelliccia, allora capitani. Per i carabinieri: Giammarco Braini, tenente. Per il comparto sanitario: Giacomo Vincenzo Toccafondi, e gli altri medici Aldo Amenta, Adriana Mazzoleni, Sonia Sciandra e Marilena Zaccardi. Ma a nove anni di distanza dai fatti, la maggior parte dei reati è prescritta, per questo le condanne penali sono solo sette: tre anni e due mesi al poliziotto Massimo Luigi Pigozzi; un anno agli agenti penitenziari Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia; due anni e due mesi al medico Sonia Sciandra; un anno ciascuno agli ispettori della polizia Mario Turco, Paolo Ubaldi e Matilde Arecco. I giudici d’appello, nelle motivazioni, sono molto netti: “Il richiamarsi platealmente al nazismo e al fascismo,” scrivono in un passaggio, “al programma sterminatore degli ebrei, alla sopraffazione dell’individuo e alla sua umiliazione, proprio mentre vengono commessi i reati contestati [...] esprime il massimo del disonore di cui può macchiarsi la condotta del pubblico ufficiale. Non solo, questo richiamo ai principi posti a fondamento dei regimi sterminatori e razzisti [...] costituisce il più infimo grado di abiezione di cui può macchiarsi la condotta del pubblico ufficiale della Repubblica italiana, che ha prestato giuramento di fedeltà alla sua Costituzione”. “Questa sentenza è due volte importante, perché fatti come quelli accaduti a Bolzaneto non dovranno ripetersi mai più,” dichiarano i due pm Petruzziello e Miniati. “Una normativa ad hoc sulla tortura,” spiega Patrizia Petruzziello, “avrebbe probabilmente previsto pene più severe di quelle che sono state inflitte e quindi non sarebbe scattata la prescrizione. E in alcuni disegni di legge all’esame del Parlamento il reato non è prescrittibile.” Nonostante la Convenzione contro la tortura sia stata adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984, finora il nostro paese non ha trasformato in legge quanto previsto dalla convenzione. E non ha alcuna intenzione di farlo, come dichiarato dalla nostra ambasciatrice all’Onu, a Ginevra, nel 2010. 151

Nell’aprile 2005, in verità, si arrivò vicinissimi all’approvazione. Maggioranza e opposizione avevano concordato un testo comune, ma vi fu un colpo di mano dell’ultimo minuto. Carolina Lussana, parlamentare della Lega, riuscì a inserire un emendamento, che finiva per considerare tortura solo violenze “reiterate”, con il paradossale risultato di legittimare in qualche modo singole violenze. Di fronte al moto di vergogna che si sollevò da più parti, la legge fu accantonata. Ma anche nella breve legislatura successiva, fra il 2006 e il 2008, la maggioranza di centrosinistra ha fatto ben poco per avvicinarsi al varo di una legge. Anziché spingere i parlamentari a colmare finalmente la lacuna, l’incombere dei processi Bolzaneto e Diaz ha avuto l’effetto opposto, mettendo in moto una diffusa e potente lobby bipartisan avversa a uno strumento di legalità percepito come ostile negli ambienti delle nostre forze dell’ordine. “L’assenza di una legge sulla tortura ha avuto effetti pratici notevoli sul nostro lavoro,” ci spiega oggi Vittorio Ranieri Miniati. “Sul piano strettamente giudiziario ci ha costretti a spezzettare la condotta complessiva di molti imputati. Anziché ricondurre un insieme di fatti a un’unica fattispecie, cioè un caso di tortura, abbiamo dovuto considerarli uno per uno: uno sputo, un calcio, il taglio di una ciocca di capelli, in modo da inquadrarli via via come lesione, lesione grave, violenza privata a seconda dei casi. Con questa frammentazione c’è il rischio di perdere di vista l’insieme.” I giudici di merito hanno riconosciuto come verità giudiziaria quanto affermato da chi ha subìto le violenze. L’obbligo rivolto ai ministeri di partecipare ai risarcimenti acquista un preciso significato: vi sono anche responsabilità politiche per quanto accaduto a Bolzaneto e queste responsabilità vanno ricercate nei ministeri diretti allora da Claudio Scajola, Roberto Castelli e Antonio Martino. Sentenze che cambiano Come nel caso della Diaz, così nel processo per le torture a Bolzaneto la sentenza di appello è stata complessivamente più pesante del giudizio di primo grado: nel luglio del 2008 i giudici avevano deciso 15 condanne e ben 30 assoluzioni. Il tribunale, anche in quell’occasione, aveva comunque riconosciuto valide le testimonianze delle vittime e aveva lamentato come “la mancanza, nel nostro sistema penale, di uno specifico reato di tortura [avesse] costretto l’ufficio del pm a circoscrivere le condotte inumane e degradanti (che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di ‘tortura’ adottata nelle convenzioni internazionali) compiute in danno delle 152

parti offese transitate nella caserma di Genova-Bolzaneto durante i giorni del G8, condotte che questo collegio ritiene pienamente provate”. I giudici non avevano potuto nemmeno ignorare alcune dichiarazioni rese dagli imputati e che sembravano quasi prendere in giro il tribunale. “Secondo il Gugliotta l’imposizione della postura in questione [la posizione del cigno] si sarebbe resa necessaria per assicurare: – la possibilità di distinguere le persone da perquisire da quelle già perquisite; – l’esclusione di contatti tra arrestati appartenenti a gruppi dell’area ‘No global’ in contrasto tra loro; – la separazione degli uomini dalle donne; – l’impossibilità, per i reclusi, di svellere le grate dei finestroni delle celle. Si tratta di motivazioni ictu oculi prive di qualsiasi concreto fondamento e, addirittura, risibili.” I fatti sono veri, le violenze vi sono state, ma nella maggioranza dei casi, secondo i giudici di primo grado, non è possibile sapere chi le ha commesse e comunque sono episodi che non prevedono aggravanti a carico di chi è stato giudicato colpevole. I giudici di primo grado sembrano compiere ogni sforzo per tutelare i ruoli apicali e la catena di comando delle forze dell’ordine e del comparto sanitario. “La differenza più vistosa fra primo e secondo grado,” spiega l’avvocato di parte civile Stefano Bigliazzi, “è il trattamento del personale sanitario, una questione molto importante sotto il profilo simbolico. In appello sono stati pesantemente condannati, in primo grado il giudizio era stato molto più lieve.” Anche i giudici di Bolzaneto, sia pure in misura ridotta rispetto a quelli impegnati con il caso Diaz, hanno agito sapendo di avere gli occhi del mondo politico puntati addosso. Prendiamo l’intervista concessa a “la Repubblica”, subito dopo la requisitoria dei pm in primo grado, da Roberto Castelli, leghista, ministro della Giustizia all’epoca del G8 e protagonista di una discussa visita alla caserma di Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. Ecco un brano dell’intervista del 20 marzo 2008. Chiede il giornalista: “A Bolzaneto non furono sospesi i diritti umani?”. Risponde Castelli: “Lo nego. Alcuni fatti sono stati equivocati dagli imputati”. Il botta e risposta va a avanti: “Chi mise gli arrestati nella posizione del cigno applicava la legge? ‘[...] Mi fu data una risposta strana, per evitare che i ragazzi toccassero le ragazze. Rimasi perplesso. Dalla commissione emerse che fu necessario per separare gli immatricolati dagli altri. Deciderà il giudice se stare in piedi quattro ore vuol dire sospendere i diritti.’ Per lei è normale? ‘I metalmeccanici stanno in piedi otto ore al giorno e non si sentono umiliati e offesi.’ Donne tenute nude, gente costretta a gridare: Viva il Duce... ‘Fatti gravissimi, ma singoli.’ Perché, da ministro, non ha cacciato quei singoli? ‘Prima di rovinare la vita di qualcuno bisogna 153

aspettare i risultati del processo. Sono convinto che emergerà la verità’”. La verità è emersa in modo inequivocabile; ma nessuno è stato cacciato né dopo la sentenza di primo grado, né dopo l’appello. Le lezioni di Bolzaneto Marco Poggi, in un suo intervento di qualche anno dopo, riflette sull’esperienza compiuta a Genova: “In quindici anni di lavoro in carcere ne ho viste di tutti i colori, ad esempio mi è capitato di assistere alla prima visita successiva all’arresto di un ragazzo che aveva violentato e ucciso la sorella minore della fidanzata e a nessuno è passato per la testa di dargli neppure uno schiaffone. In questi quindici anni mi hanno detto che lo stato ha il dovere di punire, ma non il diritto di vendicarsi”. A Bolzaneto si è quasi applicata la regola contraria. Il “comitato d’accoglienza”, con le umiliazioni, gli insulti, i colpi inflitti all’ingresso dei detenuti, cos’altro era se non un’occasione di sfogo, di rivalsa, di affermazione di un aberrante senso di impunità? Com’è possibile tollerare simili comportamenti? Nel dopo Bolzaneto, durante le inchieste e i processi, in modo del tutto simile ad altre vicende genovesi, non c’è stato alcuno sforzo di riflessione, né una credibile assunzione di responsabilità. I vertici gerarchici della struttura hanno minimizzato il proprio ruolo di comando e di controllo. I colleghi degli imputati, chiamati a testimoniare, hanno dichiarato di avere visto, sentito, capito, percepito ben poco. Tra gli imputati, solo 14 su 45 hanno deciso di sottoporsi all’esame dibattimentale. L’autocritica è stata debole anche ai livelli più alti. Il ministro Castelli ha sempre minimizzato l’accaduto, invece di pretendere spiegazioni e ordinare inchieste amministrative. Alfonso Sabella, già davanti al Comitato parlamentare d’indagine, si mostrò propenso a circoscrivere il caso: “Probabilmente si è creata una situazione di confusione che ha favorito eccessi di qualche funzionario, di qualche agente poco corretto, poco ligio ai suoi doveri, che ne ha approfittato per appagare qualche strana soddisfazione”. Nella relazione della commissione ispettiva del Dap, istituita per valutare eventuali comportamenti illegali di appartenenti all’amministrazione penitenziaria, firmata oltre che dallo stesso Sabella anche da Francesco Patrone, Luigi Pagano, Maria Concetta Altavista e dal colonnello Giuliano Darreggia, si legge: “Mentre si nega qualsiasi violenza od abuso, si ammette che si è registrata una ‘ruvidità di comportamento’, che è stata usata una ‘certa durezza’, che si è proceduto a ‘vincere qualche resistenza passiva’. Si nega che siano state sbattute le teste dei detenuti contro 154

il muro, le teste invece venivano ‘premute con forza contro il muro’”. Non risulta che siano stati presi provvedimenti disciplinari, né “formulate conclusioni definitive”, come invece era stato preannunciato, sui fatti indagati. C’è stata solo, per l’amministrazione, qualche “ruvidità di comportamento”. Secondo i programmi, gli arrestati avrebbero dovuto essere trattenuti nella caserma di Bolzaneto solo per qualche ora. Vi sono rimasti invece per intere giornate, sottratti a qualunque controllo di legalità. “Il differimento dei colloqui con i legali,” dice l’avvocato Bigliazzi, “ci fu presentato come un’esigenza di ordine pratico, dovuta alla difficoltà di organizzare i servizi di identificazione e custodia di un numero di fermati che si prevedeva notevole. Ma non c’è dubbio: questa decisione ha sicuramente agevolato gli abusi verificatisi in quei giorni.” Anche la procura e l’avvocatura hanno qualcosa da rimproverarsi. Nell’insieme, a dieci anni dai fatti, non emerge un serio ripensamento all’interno degli apparati e nel discorso pubblico. Il fatto che in Italia, durante un grande evento internazionale, siano avvenuti episodi di tortura, non sembra scuotere granché. C’è un tentativo, più o meno dichiarato, di mettersi tutto alle spalle. Di dimenticare che parole sgradevoli, come “tortura”, o come “desaparecidos”, sono state usate per descrivere fatti avvenuti in Italia. Enrica Bartesaghi, fondatrice e presidente del Comitato verità e giustizia per Genova, ha raccontato in un libro – Genova, il posto sbagliato (Nonluoghi, 2004) – la sua esperienza di madre e di cittadina. “Per me,” scrive in una lettera a sua figlia Sara, in un passaggio del volume, “è stato drammatico scoprire che non ti ho saputo difendere, che non è possibile difendere i propri figli e risparmiarli dal dolore e dalla violenza, se non agendo per difendere i figli di tutti.” Per due giorni Enrica Bartesaghi e suo marito cercarono disperatamente Sara, senza trovarne traccia, pur avendo telefonato anche al carcere dove la ragazza era detenuta – ma lo sapranno dopo. Picchiata e arrestata alla Diaz, portata a Bolzaneto, Sara finì nel carcere di Vercelli e lì sarà ritrovata dai genitori. Enrica e il marito Roberto non furono i soli a vivere la drammatica esperienza di avere un familiare o un amico introvabile. Furono centinaia, sicuramente oltre duecento, le persone scomparse nelle notti di venerdì e sabato e delle quali, in alcuni casi anche per tre o quattro giorni, non si avrà alcuna notizia. È stato il primo caso di “sparizioni” di massa nella storia dell’Italia repubblicana. Ed è qualcosa che lascia il segno. Quando il diritto viene sospeso e ogni tutela costituzionale viene rimossa, il singolo cittadino si sente nudo, in questo caso non solo metaforicamente, e impotente di fronte all’arbitrio del più 155

forte. Quando la forza e le armi, che lo stato ha consegnato ai guardiani del diritto perché proteggano i cittadini, si trasformano in minacce imprevedibili e incontrollabili contro quegli stessi cittadini, significa che è stato celebrato il funerale di interi secoli della storia umana. Nelle aule dei processi genovesi sono stati chiamati anche medici e psichiatri, che hanno spiegato come i soggetti che a Bolzaneto hanno subìto maltrattamenti e violenze debbano far fronte a un “disturbo post-traumatico da stress”, simile allo stress provato dalle vittime di grandi disastri naturali, ma più insidioso, perché causato direttamente da propri simili, in maniera del tutto inaspettata. Scriveva Primo Levi nel suo libro I sommersi e i salvati: “Chi è stato torturato rimane torturato. Chi ha subìto il tormento non potrà più riambientarsi nel mondo, l’abominio per l’annullamento non si estingue mai”.

Il processo ai “25” La legittima difesa del manifestante Altissimi dirigenti di polizia condannati, riconoscimento della tortura, pene altissime inflitte a un pugno di imputati accusati di devastazione e saccheggio: qual è stato l’esito giudiziario più clamoroso del G8? Difficile definire una gerarchia. Ma un posto speciale spetta certamente a un passaggio della sentenza che ha chiuso il processo di merito contro i 25 manifestanti. “L’ordine pubblico,” si legge nelle motivazioni del giudizio d’appello, “fu turbato in conseguenza della carica dei carabinieri, illegittima e arbitraria...” Anche in questo caso è difficile individuare precedenti nella nostra storia giudiziaria: un giudice che “condanna” la condotta di piazza delle forze dell’ordine. Ripercorriamo la scena. Alle 14.56 del 20 luglio, lungo via Tolemaide, il capitano dei carabinieri Antonio Bruno comanda la carica contro il corteo delle Tute bianche, regolarmente autorizzato e ben lontano dal suo punto d’arrivo. È il momento in cui il G8 si trasforma in tragedia: i disordini di via Tolemaide culmineranno due ore e mezzo dopo nell’uccisione di Carlo Giuliani. La carica è l’atto conclusivo di una catena di eventi che inizia nel primo pomeriggio, quando la centrale operativa della questura coordina gli interventi per contrastare in qualche modo le azioni del Black Bloc. Alle 14.30 il dirigente di polizia Mario Mondelli, responsabile del III battaglione carabinieri Lombardia, riceve l’ordine di raggiungere la zona di Marassi, passando per piazza Giusti. Verso le 15 la questura invia a Marassi anche un re156

parto di polizia, guidato dal dirigente Salvatore Pagliazzo Bonanno. I due contingenti partono entrambi dalla questura, ma seguono vie diverse. Bonanno arriva a Marassi in dieci minuti, tramite il sottopasso di via Canevari. Non trova però le “Tute nere”. Dalla centrale riceve l’indicazione di mettersi all’inseguimento, puntando su piazza Manin. Arrivato sul posto, il reparto di polizia carica chi trova, ossia gli attivisti della Rete Lilliput e altri gruppi pacifisti, che lì hanno allestito la loro “piazza tematica”. È uno degli episodi più grotteschi e brutali dell’intera gestione dell’ordine pubblico, come vedremo più avanti. Il reparto comandato da Mondelli, intanto, avanza ben più lentamente: impiega circa venti minuti per raggiungere via Invrea all’incrocio con corso Torino. A quel punto si ferma: il corteo delle Tute bianche sta scendendo per via Tolemaide e si prepara ad attraversare proprio corso Torino per concludersi in piazza delle Americhe, vicino alla stazione Brignole. Dalla centrale invitano Mondelli ad affrettarsi, proprio per evitare un contatto con il corteo, che peraltro avanza pacificamente: i partecipanti non dispongono di alcuno strumento di offesa. Mondelli non risponde. I carabinieri intanto si preparano all’azione e sparano i primi lacrimogeni (anche ad altezza d’uomo). A un certo punto il capitano Bruno, scavalcando Mondelli, che in quanto poliziotto è il responsabile formale delle operazioni, ordina la carica. È un intervento a freddo, senza motivo, senza preavviso e senza alcuna trattativa con il “gruppo di contatto” composto da parlamentari, giornalisti, sacerdoti che precede il corteo. La Corte d’appello dirà che “il lancio dei lacrimogeni ad altezza d’uomo [...] non era giustificato in alcun modo. [...] La traiettoria quasi tesa invece avrebbe potuto arrecare gravi lesioni ai soggetti che fossero stati colpiti”. E ancora la Corte sottolinea “la mancanza dell’ordine di scioglimento del corteo – peraltro non vietato – e che sino a quel momento non aveva posto in essere alcun turbamento dell’ordine pubblico”. La conclusione è che “la carica si pone come un atto illegittimo, poiché attuata contro un corteo non vietato e pacifico”. “I componenti delle Tute bianche non erano scesi in piazza con il proposito di aggredire la proprietà privata o pubblica,” aggiungono i giudici. Sotto l’impatto di una carica violentissima i manifestanti sono obbligati ad arretrare, ma in condizioni difficilissime. Il corteo è formato da migliaia e migliaia di persone, sul lato destro via Tolemaide è chiusa dal muro della ferrovia, sul lato sinistro le vie di fuga sono poche e vengono presto bloccate dalle forze dell’ordine. La Corte si sofferma sulle modalità con cui è stata condotta la carica: “I blindati sono usati in pericolose retromarce in velocità verso le persone e sono pure lanciati contro le stesse, che 157

scappano nella via quasi senza possibilità di fuga laterale. [...] Si richiama la preoccupante immagine di un blindato che insegue, anche salendo sul marciapiede, un giovane che scappa correndo e ne segue a zig zag la traiettoria ondivaga, quasi a volerlo investire”. Spartaco Mortola, chiamato a testimoniare al processo, commenta questo episodio con crudezza: “È un crimine caricare con dei blindati”. È fuori e contro la legge anche usare armi improprie, diverse da quelle di ordinanza. Ma in via Tolemaide è quasi la regola. Decine di agenti usano spranghe e bastoni, oltre ai manganelli in dotazione. “Ce ne siamo accorti esaminando bene le fotografie,” racconta l’avvocato Emanuele Tambuscio. “A un certo punto ho notato qualcosa che non andava nelle uniformi. Guardando meglio ho visto dei manganelli spuntare dagli scarponi. Scorrendo le foto, abbiamo scoperto che non era un caso isolato, tutt’altro.” Al processo il capitano Bruno, messo di fronte all’evidenza delle immagini, è stato costretto ad ammettere la presenza dei bastoni illeciti: “O hanno portato degli oggetti non autorizzati per conto proprio,” ha detto, “o nella mischia hanno utilizzato altri oggetti contundenti per l’azione”. Naturalmente nessuno – ufficialmente – si era accorto di nulla. In simili circostanze, di fronte alla violenta carica, i manifestanti non hanno altra scelta che resistere alle cariche dei carabinieri, con lanci di pietre e altro. La Corte riconosce quindi nella reazione delle Tute bianche, almeno nella fase iniziale, e non per i danneggiamenti avvenuti più tardi, un’azione di legittima difesa per la tutela della propria incolumità e del proprio diritto di manifestazione. È il punto chiave della sentenza. “È un principio che ha una storia importante,” fa notare l’avvocato Fabio Sommovigo, difensore di uno degli imputati. “Fu una scriminante introdotta nel settembre 1944 con un decreto luogotenenziale: era ritenuta una norma indispensabile in una prospettiva democratica, secondo una visione non autoritaria, contro gli abusi del potere.” I giudici hanno insomma riconosciuto una sorta di diritto di resistenza di fronte agli eccessi delle forze dell’ordine. È un precedente importante. Durante il processo è emersa la palese mancanza di coordinamento tra carabinieri e polizia. Molti operatori non conoscevano la città, i dirigenti di piazza non avevano le piantine stradali, le comunicazioni provenienti dalla centrale contenevano informazioni errate. Grazie al lavoro della segreteria legale del Genoa legal forum è stato possibile ricostruire nei particolari la successione dei fatti. “Il capitano Bruno,” si legge nella memoria conclusiva dell’avvocato Dario Rossi, “afferma che non sapeva che quello era il corteo delle Tute bianche e di averlo appreso solo i giorni suc158

cessivi leggendo i giornali. In verità, sia Mondelli sia Bruno avevano ricevuto l’ordinanza del 19 luglio 2001 con la quale si dava notizia del percorso autorizzato del corteo delle Tute bianche. Dunque, o mentono entrambi o deve ravvisarsi una loro inescusabile negligenza.” Bruno e Mondelli in tribunale giustificano la carica come una risposta all’aggressione dei manifestanti, ma tutti i video dimostrano che non c’è stata alcuna aggressione. “Non è facile,” scrive la Corte nelle motivazioni alla sentenza d’appello, “comprendere a questo punto perché Bruno e Mondelli ritennero di contrastare il corteo: non avevano avuto ordine in tal senso (anzi avevano avuto l’ordine di sfilare in fretta per precedere e non incontrare il corteo; infatti come in sala operativa si capì che essi avevano iniziato ad attaccare i manifestanti si levarono delle grida anche colorite di disappunto).” “Noooo!!! Stanno caricando le Tute bianche, porco giuda! Dovevano andare in piazza Giusti, non verso via Tolemaide. Stanno caricando le Tute bianche che dovevano andare in piazza Verdi!” urla Pasquale Zazzaro, responsabile della centrale operativa della questura, quando osserva sui monitor la carica dei carabinieri. È una registrazione che rende molto evidente l’inefficienza, per non dire peggio, delle comunicazioni fra i diversi corpi e fra la centrale e i gruppi operativi. In un’altra registrazione, anch’essa acquisita agli atti del processo, Angelo Gaggiano, dirigente di pubblica sicurezza, mentre attende il corteo in piazza delle Americhe, assiste alle cariche dei carabinieri e chiede insistentemente alla centrale operativa di richiamare il contingente di Mondelli: “Dobbiamo togliere quei carabinieri dal fondo di via Tolemaide. Il personale dell’Arma deve venire in piazza Brignole. Vorrei sapere,” insiste, “il contingente dei carabinieri in via Tolemaide perché non lo facciamo arretrare e venire qui. Per cortesia”. “Dottore,” risponde la centrale a Gaggiano, “bisogna andare a contattarli direttamente, non riusciamo a comunicare con loro in nessun modo.” Il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulps) prevede che in ordine pubblico i carabinieri siano diretti da un funzionario di polizia, ma il 20 luglio l’ordine di caricare viene dato dal capitano dei carabinieri. “Mondelli al processo era imbarazzato. Ha ammesso,” ricorda Fabio Sommovigo, “di non aver dato l’ordine ai carabinieri di caricare, ma di averlo condiviso. La mia impressione è che i carabinieri rispondessero a ordini propri, diversi da quelli della polizia.” In quelle stesse ore due parlamentari di Alleanza nazionale e uno della Lega Nord sono nella sala operativa del comando provinciale dei carabinieri stessi. A chi obbedivano in quel momento i carabinieri? È un dubbio destinato a rimanere tale. “Il tribunale,” commenta Emanuele Tambuscio, “in relazione 159

al comportamento dei carabinieri non nasconde e non scarta nemmeno la possibilità della preordinazione, dicendo che resta aperta ogni ipotesi. Il comportamento dei carabinieri era completamente fuori controllo nell’attacco alle Tute bianche; è stato uguale al comportamento della polizia alla Diaz. Avrebbe dovuto esserci un’indagine sulla carica contro le Tute bianche, ma un terzo o quarto processo contro le forze dell’ordine, evidentemente, è stato ritenuto insostenibile.” Anche per l’avvocato Dario Rossi il processo ai 25 ha messo a nudo arbìtri compiuti dalle forze di polizia: “Ci si chiede,” ha scritto ancora nella memoria conclusiva, “se il ruolo dell’accusa non fosse anche quello di dare impulso ad altri processi per reati perseguibili d’ufficio, quali violenza privata, l’uso di armi improprie, le lesioni ingiustificate, l’attentato all’esercizio di un diritto politico ecc., rispetto ai quali è stato invero osservato da parte dei pm un imbarazzato e imbarazzante silenzio”. La procura, sul punto, è rimasta inerte, e ha fatto perfino opposizione alla documentazione presentata in tribunale sui manganelli fuori ordinanza. La corte, in compenso, ha inviato alla procura gli atti relativi a quattro funzionari – i carabinieri Antonio Bruno e Paolo Faedda, i poliziotti Mario Mondelli, oggi questore di Biella, e Angelo Gaggiano – per valutare l’ipotesi di un’accusa di falsa testimonianza. Quanto agli imputati chiamati in causa per i disordini seguiti alla carica al corteo e successivi alla fase coperta dal diritto di resistenza, alcuni sono stati assolti, gli altri hanno beneficiato della prescrizione: a nessuno è stato attribuito il reato di devastazione e saccheggio. Un reato che pareva dimenticato Nella sentenza d’appello il reato di devastazione e saccheggio viene invece attribuito ad altri dieci imputati, non appartenenti al gruppo delle Tute bianche. I pm, ancora prima di iniziare il processo, inquadrano i fatti in un contesto generale, ipotizzando un’unica e continuativa azione di devastazione della città. “Un’azione,” commenta Dario Rossi, “che si sarebbe svolta senza soluzione di continuità per due giorni, se si eccettua l’intervallo della notte tra il venerdì e il sabato. Un tentativo di criminalizzare tutto il Gsf; tentativo che sembrava pilotato a livello politico tanta si è rivelata la sua inconsistenza giuridica.” Da questo assunto è nato il “processo dei 25”: 15 Tute bianche, o comunque partecipanti al corteo di via Tolemaide, di cui abbiamo appena parlato, più 10 persone accusate di episodi avvenuti in luoghi e tempi diversi e senza alcuna connessione fra loro. All’inizio dell’inchiesta i pm Anna Canepa e Andrea Canciani 160

si impegnano soprattutto nella ricerca di documentazione video e fotografica relativa al maggior numero possibile di episodi di vandalismo. L’obiettivo sembra essere proprio quello di imbastire un megaprocesso contro il movimento. È l’inchiesta destinata a fare da contrappeso alle evidenti responsabilità delle forze dell’ordine, oggetto di altri delicati procedimenti. Per le forze di polizia, in modo fin troppo visibile, il processo ai manifestanti è una necessità vitale. Idem per la politica, che tiene il fucile puntato e si aspetta una vigorosa azione giudiziaria sulle “violenze dei No global”. L’inchiesta procede spedita e arriva a uno sviluppo clamoroso il 4 dicembre 2002: 23 persone vengono arrestate. I più sono incensurati. Siamo a un anno e mezzo di distanza dai fatti; pressoché nessuno degli arrestati è stato fermato sul fatto durante il G8. “Il procedimento è iniziato con un fascicolo contro ignoti, rimasto fino a oggi come contenitore degli atti di accusa,” ricorda Fabio Sommovigo, “al quale gli avvocati non possono accedere, perché ovviamente non c’è nessuno che possa indicare un difensore; poi man mano che si identificavano dei possibili imputati veniva aperto un altro procedimento, questa volta verso persone specifiche con nome e cognome.” Il procedimento è avviato velocemente, prima di quelli su Bolzaneto e la Diaz, quasi a occupare la scena; poi resta fermo a lungo, in attesa che i pm individuino degli imputati. “È stata un’operazione più mediatica che processuale,” dice Sommovigo. “L’individuazione degli imputati è stata solo casuale. Basti dire che la maggioranza dei responsabili di danneggiamenti avvenuti durante il G8 erano stranieri e che il processo ha riguardato 25 italiani, anzi 23, ma gli unici due imputati di origine straniera sono comunque stabilmente residenti in Italia.” Gli imputati, ecco la spiegazione, sono stati individuati tutti a posteriori, sulla base delle immagini disponibili e in funzione della loro qualità (cioè della riconoscibilità delle persone ritratte). Agenti e funzionari di polizia hanno passato intere giornate a esaminare foto e immagini da inviare agli uffici Digos di tutta Italia chiedendo di identificarne i protagonisti. Con questo sistema, ovviamente, non sono stati portati a processo i responsabili dei fatti più rilevanti, ma semplicemente quelli che è stato possibile individuare. La novità più importante del processo ai 25 è comunque un’altra, ossia la scelta compiuta dalla procura di contestare il reato di devastazione e saccheggio. È un reato, questo, introdotto durante il fascismo con il codice Rocco ed è stato applicato durante la Seconda guerra mondiale per punire con grande severità i responsabili di saccheggi nelle città sottoposte a bombardamen161

ti. Prevede pene molto alte – da un minimo di otto a un massimo di quindici anni – e si applica quando gli atti di devastazione compromettono l’ordine pubblico. Nella storia giudiziaria italiana è comparso raramente e si capisce il motivo: si avvicina, per sua natura, al reato di danneggiamento aggravato, ma prevede pene altissime ed è quindi da collegare a eventi abnormi, del tutto eccezionali. Livio Pepino, che non ha mai nascosto la sua contrarietà alla contestazione di questo reato nella fattispecie genovese, ha condotto una ricerca nelle raccolte delle sentenze della Corte di cassazione. “Ne è emerso,” ci spiega, “che il reato di devastazione e saccheggio è stato contestato molto raramente nell’Italia repubblicana. Se ne trova traccia nei procedimenti per gli attentati in Alto Adige a tralicci dell’energia elettrica, e in alcune rivolte carcerarie degli anni sessanta e settanta. Ma, per citare casi clamorosi ed eclatanti, non è stato contestato (o, in ogni caso, non è stato ritenuto sussistente) con riferimento ai ‘disordini’ seguiti all’attentato a Palmiro Togliatti, che in alcune zone portarono a pesanti danneggiamenti anche a uffici pubblici con grave turbamento dell’ordine pubblico, né per gli scontri durissimi avvenuti a Genova nel luglio 1960, e prima ancora in piazza Statuto a Torino, situazioni definite allora di guerriglia urbana. È solo sul finire del secolo scorso che il delitto di devastazione ha conosciuto una stagione di intensa applicazione, per di più in presenza di fatti oggettivamente circoscritti commessi da hooligans, soprattutto a Roma, o da oppositori politici radicali, soprattutto a Torino e Milano.” Secondo i pm Canepa e Canciani a Genova nel luglio 2001 fu realizzato un disegno che prevedeva un consapevole attentato all’ordine pubblico, messo in atto da centinaia, se non migliaia di persone. “I pm,” aggiunge Fabio Sommovigo, “hanno inoltre sostenuto che per vedersi addebitato il reato, basta essere stati presenti a certe azioni, applicando così una forma di concorso morale. È emblematico il caso di una ragazza, poi assolta, per la quale è stata chiesta la condanna per devastazione e saccheggio, pur non avendo fatto assolutamente niente, se non rimanere poco distante dal fidanzato, colpevole di avere partecipato alla reazione dei manifestanti contro la carica illegittima dei carabinieri. I pm, dopo l’assoluzione in primo grado, hanno presentato appello. E la ragazza è stata assolta di nuovo.” È chiaro che un’applicazione larga e insidiosa del reato di devastazione e saccheggio, se fosse generalizzata, minaccerebbe pesantemente la libertà di espressione del dissenso, rendendo pericolosa la stessa partecipazione a manifestazioni di piazza. Le formule della “compartecipazione psichica” e del “concorso morale” rischiano di configurare una nuova fattispecie d’accusa, che potremmo definire “reato di presenza”. Quasi un paradosso, ma 162

non troppo distante dalle contestazioni rivolte alla ragazza citata dall’avvocato Sommovigo. Come abbiamo ricordato, la sentenza di secondo grado ha confermato il reato di devastazione e saccheggio a carico di dieci imputati, con una condanna complessiva a oltre novantotto anni, con pene ai singoli fino a quindici anni di reclusione. Anche chi ha sempre condannato senza alcun tentennamento, come chi scrive, gli episodi di violenza e di vandalismo avvenuti a Genova, non può tacere la propria indignazione di fronte a una sentenza che attribuisce più importanza allo sportello di un bancomat che a una vita umana. “La sentenza di oggi è scioccante,” ha scritto il Comitato verità e giustizia per Genova il 9 ottobre 2009. “Pene così pesanti, fino a 15 anni, per persone accusate di reati contro le cose, e non contro le persone, sono del tutto sproporzionate e fuori anche dal senso comune. Al G8 di Genova l’uccisione di una persona è stata archiviata senza processo e le violenze compiute da uomini in divisa contro persone indifese, alcune ferite molto gravemente, sono state punite con pene lievi, per lo più coperte dalla prescrizione. Questa ingiusta e inedita sproporzione, più che a un paese democratico fedele allo stato di diritto, fa pensare alle sanzioni inflitte dagli stati autoritari contro i dissidenti. È una sentenza inquietante e dovrebbe allarmare tutti.”

Abusi di strada “Fate prigionieri” Il bilancio giudiziario di Genova G8 comprende alcuni processi che i media hanno quasi ignorato e che tuttavia danno una perfetta rappresentazione della disastrosa gestione dell’ordine pubblico. Sono processi per episodi considerati minori e sentenze di giudici civili, chiusi con la condanna del ministero dell’Interno a risarcire cittadini ingiustamente picchiati e arrestati per strada. Non sono casi numerosi, ma di segno univoco. Con il senno di poi, potremmo osservare che troppo poche furono le denunce. Solo alcuni cittadini, di propria iniziativa, scelsero la via del processo civile, che implica una responsabilità dello stato per gli abusi commessi dagli agenti, senza che questi siano personalmente identificati e chiamati in causa. Centinaia di altri, che subirono trattamenti simili, non pensarono di presentare denuncia. Se lo avessero fatto, avremmo probabilmente oggi decine e decine di sentenze di condanna, una sorta di informale giudizio senza appello per la gestione dell’ordine pubblico. Prima ancora dei giudici, del resto, erano stati i sanitari del 163

Gsf a segnalare l’inedita quantità delle violenze: “In due giorni,” si legge in Obbligo di referto (Frilli, 2001), il libro curato da infermieri e medici che nel 2001 si erano messi a disposizione del Gsf, “abbiamo effettuato più di 500 interventi di primo soccorso in strada, riscontrando sui feriti traumi da difesa: fratture sulle mani e sulle braccia colpite nell’atto di proteggere la testa e il corpo. [...] 1000-1200 persone hanno necessitato di cure mediche per lesioni fisiche dirette e temiamo che il numero sia stimato per difetto”. Nel conto vanno inclusi poi gli effetti della “guerra chimica”: “In due giorni sono stati sparati oltre 6000 candelotti lacrimogeni, un record assoluto per il nostro paese,” afferma il giudice Giovanni Palombarini nella prefazione a Genova per noi. Livio Pepino, nel suo scritto del 2001, già descriveva uno scenario poi confermato dai tribunali: “Quando è stato chiaro che il vero protagonista sulla scena mediatica era la protesta, contro quest’ultima si è scatenata una repressione cieca: uso di armi da fuoco (almeno in due episodi, in uno dei quali è rimasto ucciso Carlo Giuliani), cariche, arresti nel mucchio (non altrimenti potendosi spiegare la valanga di mancate convalide), pestaggi per strada e nelle caserme...”. Anni dopo, in un’intervista l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola dichiarerà che “la polizia non era preparata...”. Ma a questa ammissione non ha fatto seguito alcun provvedimento legislativo o amministrativo. Fra gli episodi considerati minori, ma fortemente emblematici del G8, c’è l’arresto e il successivo pestaggio di un ragazzo minorenne. Il giovane viene fermato, con altri ragazzi, mentre attua un sit-in vicino alla questura: sono tutti seduti in terra, con le gambe incrociate. Nei verbali d’arresto è scritto che stavano lanciando pietre contro gli agenti, ma un filmato prova l’assoluta falsità delle accuse e mostra anzi il ragazzo urlante, con un occhio gonfio, inginocchiato, circondato da un gruppo di agenti. Uno di questi, in borghese, con una maglietta gialla, è ripreso nell’atto di sferrare un calcio. È Alessandro Perugini, all’epoca vicecapo della Digos genovese, oggi vicequestore ad Alessandria. Il 10 novembre 2009 la Corte di appello di Genova ha condannato gli agenti coinvolti nell’episodio. I reati di calunnia, percosse, minacce e ingiurie sono caduti per la prescrizione, ma Alessandro Perugini, che a processo in corso ha concordato il pagamento di un risarcimento con la giovane vittima degli abusi, ha avuto un anno di reclusione (pena sospesa), che si è sommato alla condanna avuta in appello nel processo Bolzaneto. Un anno di pena è stato inflitto anche ad Antonio Del Giacco; otto mesi a Luca Mantovani, Enzo Raschellà e Sebastiano Pinzone (sempre con pena sospesa). La sentenza è già passata in giudicato e quindi le condanne sono definitive. Tutti gli agenti sono rimasti al loro posto. 164

Veniamo a piazza Manin, altro caso chiuso che si conclude con un esito negativo per le forze dell’ordine. Nella piazza dei nonviolenti e pacifisti, nel primo pomeriggio di venerdì 20 luglio arriva il contingente di polizia inviato per contrastare il Black Bloc, in fuga dopo un’azione al carcere di Marassi (una molotov che incendia il portone). Quando il contingente raggiunge la piazza, le “Tute nere” sono già passate, ma parte ugualmente un lancio di lacrimogeni. Il responsabile del reparto, Salvatore Pagliazzo Bonanno, intanto chiama la centrale e chiede istruzioni. Dalla centrale arriva una precisa indicazione: “Cerchiamo di fare degli arrestati, cerchiamo di fermare delle persone, cerchiamo di fare dei prigionieri”. È un breve brano audio, acquisito agli atti giudiziari, che compendia bene il clima di quel giorno. L’operatore di polizia parla di “prigionieri”: il linguaggio di guerra è applicato a un’operazione di ordine pubblico, oltretutto condotta contro attivisti che all’arrivo della polizia alzano le mani e nemmeno accennano a opporre resistenza. L’indicazione è quella e le forze dell’ordine si scatenano con violenza contro persone inermi; alla fine i feriti sono una sessantina. Così Bonanno riassume la situazione alla centrale: “Occorre un’ambulanza, gli altri sono qua tutti con le mani alzate. I manifestanti, quelli più facinorosi, si sono allontanati, purtroppo”. Durante l’operazione vengono arrestati due studenti spagnoli: Adolfo Sesma è accusato di aver lanciato una molotov e Luis Alberto Morente García di essersi scagliato contro gli agenti con una mazza di ferro. Ma le loro posizioni vengono in seguito archiviate, le accuse sono false. Il 13 luglio 2010, a nove anni di distanza, i quattro poliziotti che hanno eseguito l’arresto sono condannati in appello: a quattro anni Luciano Beretti, Marco Neri e Simone Volpini, a quattro anni e otto mesi perché recidivo Antonio Cecere. Erano accusati di falso ideologico in atti pubblici, calunnia e abuso d’ufficio, per gli ultimi due reati è scattata la prescrizione. “Nonostante le oltre 70 denunce presentate dai pacifisti pestati in piazza Manin, il processo penale per quell’operazione di polizia non è mai iniziato,” spiega l’avvocato Tambuscio. “La procura ha sostenuto che non poteva occuparsi di ordine pubblico perché è un campo di discrezionalità amministrativa delle forze dell’ordine e i magistrati non possono entrarci. Sono andate invece bene le cause civili nelle quali è sufficiente dimostrare che si è stati picchiati da un dipendente statale, anche se non si è in grado di identificarlo.” È il caso di un medico che stava prestando la propria opera con i sanitari del Gsf: il 20 luglio viene percosso dalle forze dell’ordine in piazza Savonarola e la scena è ripresa dalle telecamere. Dopo la condanna in primo grado, il ministero dell’Interno ha 165

Foto di Dylan Martinez © Reuters/Contrasto

In alto: La scena di piazza Alimonda poco prima degli spari. La jeep dei carabinieri si ferma davanti al cassonetto, senza spingere, perché dietro c’è un carabiniere (nel cerchio) che spruzza del liquido urticante con la bomboletta. In basso: Carlo arriva fra gli ultimi dalle parti della camionetta, e vede la pistola puntata e caricata (nel cerchio).

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impugnato la sentenza, rifiutandosi di risarcire il medico, vittima secondo il ministero di condotte di singoli rappresentanti delle forze dell’ordine. La Corte d’appello ha confermato la condanna al risarcimento e ha sottolineato la grave violazione dei diritti costituzionali del medico. Un altro esempio è la sentenza del tribunale di Genova nei confronti di Rita Sieni, risarcita per i danni fisici e morali subiti a seguito delle cariche in corso Italia il 21 luglio. Nella sentenza si legge che Rita Sieni dopo essere stata manganellata “fu inseguita sulla spiaggia dove si era diretta e ferita da un poliziotto che le spruzzò negli occhi del gas urticante”, e che si trattava di “manifestazione tranquilla con gente di tutte le età, non travisate, e che i poliziotti davano manganellate sulla testa e sulla schiena indistintamente a donne e persone anziane”. In quel contesto, valuta il giudice civile, “la tutela dell’ordine pubblico non richiedeva quegli interventi”. Fra i risarciti figura anche Marina Spaccini, pediatra triestina colpita dai poliziotti in piazza Manin. “Quando ho preso la manganellata,” ha commentato, “in quel momento mi è caduto in testa lo stato.”

Omicidio in piazza Alimonda Perché si uccide un ragazzo Uno dei documentari più riusciti sul G8 genovese, fra i tanti usciti in dieci anni, è sicuramente OP (ordine pubblico), realizzato dalla segreteria legale del Genoa social forum. Non è un’opera d’insieme, ma si concentra su un episodio chiave: la carica dei carabinieri al corteo autorizzato delle Tute bianche. Mettendo insieme video, registrazioni audio, fotografie, testimonianze, è il video che meglio rappresenta le conclusioni poi raggiunte anche dai giudici: fu una carica incomprensibile e illegittima, al punto da giustificare anche sul piano giuridico la reazione dei manifestanti. OP è importante perché ribalta, con cognizione di causa, la visione corrente dell’ordine pubblico durante le giornate di Genova. Nella vulgata diffusa dalle forze dell’ordine, dal potere politico e dai maggiori media, l’ordine fu destabilizzato da gruppi di manifestanti violenti, che “misero a ferro e fuoco la città”, come disse Gianfranco Fini la sera del 20 luglio 2001 e come hanno ripetuto fino alla noia i seguaci di questa versione di comodo. OP mostra fatti e dinamiche che portano nella direzione opposta: l’ordine pubblico fu turbato, in primo luogo, dalle stesse forze dell’ordine, o almeno da una parte di esse. 167

Foto di Alessandro Di Gaetano © AP/La Presse

In alto: Ingrandimento della fotografia precedente, che mostra la messa in canna del proiettile. In basso: Carlo nota un estintore rotolato a quattro metri dalla jeep e si china a raccoglierlo (nel cerchio a destra). La pistola è ancora puntata (nel cerchio a sinistra). È utile contare i manifestanti che sono dalle parti della jeep, non certo le centinaia proposte da diverse testimonianze.

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Nel libretto che accompagna il dvd, gli autori mettono in fila alcuni elementi emersi nel corso delle inchieste e dei processi: la mancanza di coordinamento fra polizia e carabinieri, decisiva nell’episodio di via Tolemaide; l’anomala presenza in piazza di corpi speciali: il VII nucleo antisommossa più volte citato per la polizia, le compagnie di contenimento e intervento risolutivo all’interno dei battaglioni Lombardia, Lazio, Toscana, Campania, Sicilia per i carabinieri; la presenza, fra i comandanti, di ufficiali con esperienze su scenari di guerra, dalla Somalia al Kosovo; il largo uso di armi improprie, documentato sia alla Diaz, sia in via Tolemaide, con mazze, spranghe e in almeno un caso anche manganelli elettrici, in aggiunta al materiale d’ordinanza. OP è un’opera realizzata con i materiali acquisiti durante i processi, in particolare quello contro i 25 cittadini accusati di devastazione e saccheggio, ed è la premessa logica di un altro documentario-inchiesta, denominato La trappola nella sua versione più aggiornata, frutto dell’impegno di Giuliano Giuliani, padre di Carlo, e del comitato nato per iniziativa di familiari e amici del ragazzo ucciso in piazza Alimonda. Conviene partire da qui, dall’ordine pubblico, da OP e La trappola, per raccontare l’omicidio di Carlo e quello che non ne è seguito, cioè un processo, negato dal giudice per le indagini preliminari Elena Daloiso, che il 5 maggio 2003 ha archiviato, su richiesta del pm Silvio Franz, il procedimento per omicidio contro il carabiniere Mario Placanica. È un’archiviazione che ha lasciato aperti innumerevoli dubbi. L’inchiesta della famiglia Giuliani, tutta basata su materiali acquisiti dal tribunale, compresi quelli presenti in un altro procedimento, dimostra quanto sia stata grave la negazione di un dibattimento, che avrebbe giovato alla stessa credibilità delle istituzioni, compromessa dalla frettolosa chiusura del caso. Le parole di Giuliano Giuliani, consegnate a un libro-inchiesta inedito, messo a disposizione degli autori di questo libro, sono una sincera espressione della delusione per la “risposta” dello stato. Alla fine del testo Giuliano riconosce che la scelta di cremare il corpo di Carlo fu un errore, perché una seconda autopsia sarebbe stata necessaria per chiarire alcuni aspetti oscuri, e spiega le ragioni di quella decisione. “Fu,” scrive, “una scelta convinta della famiglia. Ci avevano anche detto che, dato l’affollamento del cimitero di Staglieno, la sepoltura avrebbe potuto essere soltanto temporanea, mentre nei loculi cinerari c’era posto. Ma ha inciso soprattutto la fiducia nelle istituzioni, nei corpi civili dello stato e della pubblica amministrazione, quella stessa fiducia che non fece nominare un perito di parte durante l’autopsia, quella stessa fiducia che fu riposta nella conduzione delle in169

Foto di Marco D’Auria Foto di Dylan Martinez © Reuters/Contrasto

In alto: Carlo ha raccolto l’estintore e cerca di lanciarlo verso la jeep per disarmare lo sparatore. È l’attimo dello sparo. Si può apprezzare la reale distanza dalla camionetta. In basso: Ecco la fotografia più diffusa in assoluto: le distanze sono alterate e falsate perché è scattata con il teleobiettivo. Carlo sembra vicinissimo alla camionetta. Il cassonetto sembra attaccato al muro, in realtà è in mezzo alla piazza e distante dal muro oltre sette metri. Si noti che la fotografia è assolutamente sincrona con la precedente. 170

dagini. Oggi dovremmo dire mal riposta. Una ragione in più per proseguire una battaglia di verità.” È la battaglia che i genitori di Carlo cominciarono subito, dimostrando una sensibilità e un senso di responsabilità fuori dal comune. L’intervento televisivo di Giuliano Giuliani, nella tarda mattinata di sabato 21 luglio, per invitare tutti alla calma, a non aggiungere violenza a violenza, resta uno dei momenti più alti, sotto il profilo umano e civile, delle giornate genovesi. Giuliano e Haidi sono persone di profonda cultura democratica, avvezzi all’impegno politico e sindacale, e hanno vissuto la tragedia che li ha colpiti come un fatto anche pubblico. Il loro lavoro, dal 2001 in poi, è stato prezioso, sia per giungere a una credibile ricostruzione dei fatti di piazza Alimonda, sia per collocare l’omicidio di Carlo nella storia d’Italia, guardando sia al passato, sia “ai figli ammazzati dopo Carlo”, per usare le parole dette da Haidi in innumerevoli incontri pubblici. Non racconteremo minuto per minuto i fatti di piazza Alimonda, ma seguiremo il filo di ragionamento che scaturisce dai documenti disponibili, un filo che in diverse condizioni avrebbe portato a due processi che invece non ci sono stati: uno sulla gestione fuori e contro la legge dell’ordine pubblico, uno sull’uccisione di un ragazzo di ventitré anni. E forse, ma è fantagiustizia, avremmo avuto un unico processo, perché non si può parlare di piazza Alimonda senza partire da via Tolemaide. La carica (illegittima) al corteo, la reazione (legittima) dei manifestanti e i disordini conseguenti, sono la premessa di quella che Giuliano Giuliani definisce “la trappola”. Due versioni inconciliabili Secondo la versione ufficiale, consegnata alla storia giudiziaria del nostro paese, il giorno 20 luglio 2001 in piazza Alimonda due camionette dei carabinieri sono costrette ad arretrare per la forte e aggressiva pressione di un grande numero di manifestanti, provenienti da via Tolemaide; per un errore di manovra, una delle camionette resta isolata e viene presa di mira con violenza da un gruppo di facinorosi, che lancia pietre, estintori e altri oggetti; un carabiniere, dall’interno della camionetta, spara due colpi di pistola in rapida successione, per difendersi da un’incombente minaccia; un ragazzo di ventitré anni, Carlo Giuliani, è raggiunto al volto e ucciso mentre tenta di scagliare un estintore contro i carabinieri. Secondo la versione del pm Franz e del gip Daloiso, il carabiniere ha correttamente sparato in aria, con l’intento di spaventare, e non di colpire gli aggressori. Uno dei colpi è stato però intercettato da un calcinaccio, lanciato da mani ignote verso la camionetta: il proiettile, deviato verso il basso, avrebbe raggiunto 171

I momenti dei due spari, nel cerchio la pistola.

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Carlo Giuliani al volto. Il procedimento per omicidio volontario contro il carabiniere che ha sparato, Mario Placanica, è archiviato: l’indagato, secondo l’ordinanza del gip, ha sparato in condizione di legittima difesa e comunque facendo un “uso legittimo delle armi”. Ha cioè usato la pistola per difendere la sua persona da una concreta minaccia di morte (la legittima difesa), ma se anche una minaccia del genere non vi fosse stata, sarebbe stato comunque assolto, perché in quella specifica situazione l’uso dell’arma, con i colpi diretti verso l’alto, era comunque lecito. Dai documenti e dall’inchiesta condotta da Giuliano Giuliani e collaboratori emergono altre verità e molti dubbi. Proviamo a riassumere la versione alternativa, per esaminare poi i punti divergenti più delicati. I carabinieri del battaglione Sicilia, com’è evidente in un filmato, da piazza Alimonda si spostano sul lato di via Caffa che immette su via Tolemaide, dove il corteo delle Tute bianche sta sopportando da più di due ore la carica lanciata dai carabinieri del Lombardia. È una manovra insensata e pericolosa, perché priva il corteo sotto pressione di una via di fuga, e si risolve rapidamente in una maldestra ritirata. Le due camionette, improvvidamente andate al seguito del contingente, fanno marcia indietro, ma si ostacolano a vicenda. Una riesce ad allontanarsi, l’altra si ferma davanti a un cassonetto, al quale si appoggia, senza però spostarlo, perché rischierebbe di investire un carabiniere che dietro il cassonetto sta spruzzando gas urticante in direzione dei manifestanti. Attorno alla camionetta si avvicina un gruppo di dimostranti e fotografi, in tutto una ventina di persone. Uno dei carabinieri estrae una pistola e la punta verso i manifestanti. Carlo Giuliani se ne accorge e raccoglie da terra un estintore guardando verso l’alto, in direzione della camionetta. Il carabiniere fa scattare il colpo in canna con la mano sinistra e spara due colpi ad altezza d’uomo. Carlo Giuliani viene colpito alla testa e cade, forse ucciso sul colpo. La camionetta a quel punto ingrana la marcia indietro e passa due volte sul corpo di Carlo, allontanandosi nel giro di cinque secondi. Fra la prima e la seconda versione corrono sostanziali differenze. La più evidente riguarda la traiettoria del colpo. La tesi della collisione fra il proiettile e il calcinaccio è frutto di una perizia, chiesta dal pm Franz e firmata da quattro consulenti, fra i quali spicca Carlo Torre, autore di perizie su casi celebri, dal delitto di Cogne all’assassinio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, nonché del secondo esame sul giubbotto dell’agente Nucera “aggredito” alla Diaz, quello compatibile con la tesi della doppia coltellata. La perizia di Torre e dei tre col173

Foto di Dylan Martinez © Reuters/Contrasto

Nei tre secondi successivi allo sparo la jeep passa due volte sul corpo di Carlo. Si può notare all’interno un occupante sopra lo sparatore. Raffone ha dichiarato in tribunale che lui era sotto e Placanica sopra. Allora chi ha sparato?

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leghi è la terza fra quelle affidate dal pm Franz durante la sua inchiesta. La prima, firmata da Valerio Cantarella, ha dato risultati sorprendenti: uno dei due bossoli trovati in piazza Alimonda (quello rivenuto in terra, l’altro era sulla camionetta) presentava secondo il consulente “coincidenze limitate a circa il 10 per cento di compatibilità con la pistola”, per cui, concludeva, “vi sono scarse possibilità che sia stato esploso da questa”. Le conclusioni di Cantarella sono del 5 dicembre 2001. Pochi giorni dopo, il 18, Franz affida una nuova consulenza a Biagio Manetto, in servizio alla polizia scientifica di Palermo. Il confronto stavolta è fra i due bossoli e sei pistole, quelle dei tre carabinieri che erano sulla camionetta di piazza Alimonda e le Beretta di ordinanza di altri tre militari. Il quesito del pm stavolta è più ampio: chiede al perito di giudicare sia la compatibilità fra bossoli e pistole, sia di valutare se la posizione dell’arma visibile in video e fotografie sia “compatibile con la traiettoria del proiettile che ha attinto il Giuliani”. La risposta di Manetto arriva in meno di un mese. Il 15 gennaio 2002 il consulente scrive che i due bossoli sono stati sparati da un’unica pistola semiautomatica, la Beretta di Placanica. E aggiunge alla consulenza un disegno che mostra la traiettoria del proiettile. “È un disegno,” spiega Giuliano Giuliani, “che non lascia adito a interpretazioni: il colpo è esploso dall’alto verso il basso, diretto, senza alcuna deviazione.” Il 6 febbraio Cantarella, riconvocato dal pm perché produca un’integrazione del suo elaborato iniziale, corregge il suo giudizio e alza al 60 per cento la “percentuale di coincidenza” fra il bossolo trovato in terra e la pistola di Placanica. “Se la perizia dell’ispettore capo Manetto sgombra l’inchiesta dalla questione dei bossoli,” commenta Giuliano Giuliani, “apre però, così devono avere pensato, un nuovo problema”, perché si parla di un colpo diretto, dall’alto verso il basso, quindi sparato ad altezza d’uomo. È qui che entrano in scena i quattro nuovi periti e la teoria del calcinaccio, alla quale si arriva dopo una serie di simulazioni, in un poligono di tiro, che inizialmente ipotizzano una collisione con l’estintore (che viene infatti crivellato di colpi). A inficiare la teoria del calcinaccio esistono almeno due documenti: il filmato che mostra il momento dello sparo, con la pistola impugnata parallelamente al terreno; le immagini che mostrano un calcinaccio, effettivamente lanciato verso la camionetta, che s’infrange sulla parte superiore della copertura, lasciando una visibile ammaccatura sulla carrozzeria. È un punto decisivo. La versione ufficiale vacilla e ogni singolo aspetto meriterebbe d’essere approfondito: un dibattimento, con il confronto pubblico di tutte le ipotesi, avrebbe sciolto molti dubbi. 175

Foto di Alessandro Di Gaetano © AP/La Presse Foto di Dylan Martinez © Reuters/Contrasto

I primi soccorsi a Carlo sono prestati da alcuni suoi compagni. Vicino al braccio di Carlo si nota un accendino bianco.

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Giuliano Giuliani contesta anche la ricostruzione ufficiale della scena del delitto. La camionetta, sostiene, non era affatto isolata, vista la presenza poco distante di decine di carabinieri, e Carlo non era nella condizione, se anche avesse voluto, di nuocere alla salute, tanto meno alla vita, dei carabinieri all’interno della camionetta. Un ragazzo esile, alto un metro e 65 centimetri, come può uccidere qualcuno lanciando un estintore vuoto da più di tre metri di distanza? Tanto più se consideriamo che l’altezza del finestrino posteriore del fuoristrada non è più grande della suola di uno scarpone: un precedente lancio del medesimo estintore – da parte di un altro manifestante – era stato respinto con un calcio. Scrive Giuliano Giuliani: “Sono certo che Carlo abbia visto la pistola minacciosamente puntata all’indirizzo dei manifestanti che si trovavano nei pressi; che si sia accorto che era stato messo il colpo in canna; che abbia udito le frasi minacciose provenienti dallo stesso mezzo (‘Bastardi comunisti, vi ammazzo tutti’). La mia convinzione è che intenda lanciare l’estintore verso la jeep per disarmare chi impugna la pistola”. Giuliano rigetta anche la tesi dell’aggressione subita dal contingente dei carabinieri a opera di “centinaia di manifestanti”. Un filmato amatoriale, consegnato alla procura e riprodotto nella Trappola, mostra in effetti l’assurda quanto inefficace carica dei carabinieri, condotta senza motivi apparenti e con modalità quasi grottesche. In alcune immagini si vedono agenti che raccolgono pietre in terra e le lanciano in direzione dei manifestanti. In una memorabile testimonianza in tribunale il vicequestore Adriano Lauro, responsabile operativo dei carabinieri schierati in piazza Alimonda, è costretto a riconoscere se stesso come uno dei lanciatori di sassi, incalzato dalle domande dell’avvocato Emanuele Tambuscio. Per Giuliani la successiva ritirata è “una vera e propria fuga ingloriosa, molto rapida, senza soste, un invito vero e proprio ai manifestanti a inseguirli. Insomma, una trappola”. Gli stessi graduati del Sicilia, davanti ai magistrati, ammettono una serie di errori, leggerezze, incongruenze. Il capitano Claudio Cappello, davanti al pm Franz nel settembre 2001, riconosce che il reparto era stressato e impreparato, e tuttavia venne spinto a eseguire la carica: “Fui sollecitato dal dottor Lauro a imboccare via Caffa in direzione di via Tolemaide per collaborare con le forze che operavano in via Tolemaide per respingere i dimostranti. Io ero un po’ perplesso sia per il ridotto numero degli uomini a disposizione che per la stanchezza degli stessi”. Nella testimonianza in tribunale del 20 settembre 2005 Cappello si sofferma sulla pericolosa presenza delle due camionette dei carabinieri alle spalle degli uomini a piedi impegnati nella carica: “Non dovevano star lì. Non c’è alcun motivo per cui 177

In alto: Nel giro di un minuto e mezzo carabinieri e poliziotti circondano il corpo di Carlo e allontanano i pochi manifestanti rimasti. In basso: Nell’ingrandimento della foto precedente, si noti la pietra (nel cerchio a sinistra) distante un paio di metri dalla testa; si vede ancora l’accendino (nel cerchio a destra). Subito dopo avviene lo scempio del corpo di Carlo.

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due Land Rover debbano seguire il contingente. Non ricordo neanche se gliel’ho specificato o davo per scontato che se ne sarebbero andati, perché su un mezzo c’erano il maresciallo Primavera e il colonnello Truglio, sull’altro Cavataio e poi Placanica. Truglio non aveva nessuna competenza di tipo tecnico, era venuto esclusivamente per dare conforto psicologico nonché sussistenza con acqua e panini”. E più avanti: “Se mi fossi accorto che continuavano a seguire il contingente li avrei mandati via in malo modo”. Il tenente colonnello Giovanni Truglio, venuto a portare acqua e panini secondo il capitano Cappello, è in realtà il militare di grado più alto fra quelli presenti quel giorno nelle strade di Genova e in piazza Alimonda e compare in gran parte delle immagini e dei filmati disponibili. Forte di un’esperienza sul campo molto particolare, sui teatri di guerra in Somalia, Albania, Bosnia (e dopo Genova sarà in Iraq), Truglio è l’interlocutore, nei minuti successivi all’uccisione di Carlo, dei vertici dei carabinieri. In un’altra udienza in tribunale il capitano Nicola Mirante (all’epoca tenente), in un botta e risposta con l’avvocato Tambuscio sulla consistenza numerica del contingente rispetto ai manifestanti da affrontare, fa esplicita menzione della logica militare attuata nelle giornate di Genova: “Tambuscio: ‘Cioè, sui manuali non c’è scritto: se siete dieci volte di meno non avanzate, non provate...’. Mirante: ‘Cioè mi sta chiedendo se c’è la chiave di volta di tutte le guerre. Se fosse così io so...’. Tambuscio: ‘Non parliamo di guerre...’. Mirante: ‘...per poter conquistare il Kuwait mi servono dieci persone in più di quelle che hanno loro...’. Tambuscio: ‘Non parliamo di guerre. Lei ha una mentalità giustamente militare, parliamo di ordine pubblico’. Mirante: ‘È uguale. È uguale. Cambia solo la tipologia dello strumento dell’offesa’”. Fra ufficiali perplessi e altri che portano conforto, assurde logiche militari, camionette che compiono movimenti errati, restano i fatti: una carica incomprensibile, una fuga precipitosa che somiglia a un invito a inseguire chi scappa. Chi ha davvero turbato l’ordine pubblico? Chi è davvero responsabile dell’omicidio di un ragazzo di ventitré anni? Forse non fu Placanica Mario Placanica, carabiniere ausiliario, nel luglio 2001 in servizio da pochi mesi, è ufficialmente l’uomo che ha ucciso Carlo Giuliani. Ma è una verità che non convince fino in fondo. Ci sono elementi che fanno sospettare che non sia stato lui a sparare. In alcune immagini si vede un carabiniere, all’interno della camionetta, che sembra Placanica ripreso di profilo; nello stesso fotogramma, nella direzione opposta, si vede anche la pistola puntata: se l’uomo di profilo è davvero Placanica, a sparare è ne179

In alto: Pochi secondi dopo un carabiniere è accovacciato vicino a Carlo, con le mani sul corpo. In basso: L’ingrandimento della foto precedente mostra che la stessa pietra di prima ora è (nel cerchio a destra) vicino alla testa di Carlo. Nel cerchio a sinistra: la posizione iniziale della pietra.

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cessariamente un altro. Alcune affermazioni rese davanti ai giudici dagli occupanti della camionetta, ufficialmente tre (Placanica, Dario Raffone e Filippo Cavataio, l’autista), fanno sospettare che vi fosse un’altra persona. Ma perché, allora, Placanica avrebbe detto d’essere stato lui a sparare? Un’ipotesi è che sia stato costretto ad accusarsi, con la garanzia dell’impunità, per proteggere il vero autore dell’omicidio, magari un graduato, o comunque un militare esperto. “È molto più semplice presentare all’opinione pubblica,” osserva Giuliano Giuliani, “un carabiniere inesperto e spaventato, come responsabile degli spari, e additare Carlo come un facinoroso che se l’è andata a cercare.” Oltretutto, potremmo aggiungere, lo schema dell’agente inesperto e impaurito che causa “il morto” dev’essere una specie di “caso di scuola” nei manuali degli agenti segreti; è la “previsione” comparsa nel misterioso documento trovato a Roma nel maggio 2001 e attribuibile ai servizi. Rileggiamo il passaggio: “È fin troppo facile prevedere che giovani poliziotti, magari inesperti o esausti dopo giorni di ‘veglia’, se isolati possano reagire sparando, realizzando così il sogno di chi sicuramente ‘cerca il morto’, per dimostrare che l’Italia del luglio 2001 è retta da un governo autoritario e dispotico”. Va ricordato che Mario Placanica, addetto al lanciagranate, trovò ricovero sulla camionetta perché stremato e intossicato dai gas. Ma non fu disarmato né allontanato e condotto in infermeria. Altro elemento che spinge a ipotizzare l’esistenza di un quarto uomo sulla camionetta: il tipo di proiettile che ha ucciso Carlo. Un proiettile ordinario, “calibro 9 parabellum”, fa notare Giuliano Giuliani, “avrebbe avuto, a una distanza di quattro metri, effetti devastanti sul cranio della vittima”. Effetti che non ci sono stati. “Ma un proiettile diverso dal 9 parabellum,” insiste Giuliani, “sarebbe stato fuori ordinanza. Un carabiniere ausiliario, con soli sei mesi di permanenza nell’Arma, può usare proiettili fuori ordinanza?” Il sospetto è che si tratti di un proiettile speciale, preparato da mani esperte. D’altro canto, la teoria del calcinaccio può spiegare tutto: sia la deformazione riscontrata sul proiettile, sia gli effetti limitati sul volto di Carlo. Ma chi è davvero convinto che il colpo sia stato sparato in aria e deviato in volo? Infine, fra gli elementi che fanno sospettare un autore diverso dell’omicidio, ci sono alcune dichiarazioni dello stesso Mario Placanica. Nell’estate 2002 al Tg1: “Non mi rendo conto se sono stato io, perché ho sparato in aria, non ho sparato contro persone. Davanti a me non c’era nessuno, non c’era Carlo Giuliani. Spero che si farà luce su questa questione”. Negli stessi giorni al quo181

In alto: Il vicequestore Adriano Lauro (il poliziotto sulla sinistra dello schieramento, nel cerchio) sta iniziando di fronte alla telecamera di Canale 5 la sua performance: “...bastardo, l’hai ucciso tu, col tuo sasso...”. In basso: La profonda ferita sulla fronte di Carlo è il risultato dello scempio, che serve a mettere in piedi un tentativo di depistaggio. Accanto alla testa, la pietra insanguinata. Le ultime sei fotografie sono state scattate da un privato cittadino, abitante in piazza Alimonda, che le ha consegnate alla procura. 182

tidiano “La Stampa”: “C’era gran confusione. Si sentivano botti da tante parti. Con questo non accuso nessuno: ma non sono stato il solo a sparare. Potrei non essere stato io. Se non sono stati i miei due colpi a uccidere Giuliani, allora mi hanno fatto vivere un anno terribile senza che lo meritassi”. Il 21 luglio 2002 su “la Repubblica”: “Non voglio pagare per colpe che non sono mie. Non so nemmeno se sono stato io. [...] Adesso posso solo confermare di avere sparato in aria”. Lo stesso giorno sul “Corriere della Sera”: “A volte ho la sensazione di essere stato usato per coprire responsabilità più grandi delle mie, ma adesso non ci sto più. [...] Anzi, non credo di essere stato io a uccidere Carlo Giuliani. [...] La verità è che io non ho mai avuto un ricordo nitido di quei fatti. Ma in piazza Alimonda quel giorno è successo qualcosa di strano, mi hanno lasciato solo”. Sono solo interviste, spesso contraddette da altri interventi, ma sufficienti ad alimentare il dubbio. Nell’unica occasione avuta per testimoniare con tutti i crismi dell’ufficialità, al processo contro i 25 cittadini accusati di devastazione e saccheggio, Mario Placanica si è avvalso della facoltà di non rispondere. Giuliano Giuliani osserva che l’ex carabiniere avrebbe un modo per superare la sensazione d’essere stato usato come capro espiatorio: “Dire finalmente chi c’era con lui su quel Defender, indicare chi ha sparato. Certo,” conclude amaramente il padre di Carlo, “avrebbe dovuto essere un compito preciso degli inquirenti, che invece hanno preferito archiviare”. Il sasso Giuliano Giuliani la chiama “sceneggiata”: di certo è difficile dimenticare una delle videosequenze più viste di tutto il G8. Lo scenario è piazza Alimonda, poco dopo l’omicidio di Carlo Giuliani, il cui corpo, in quel momento, è circondato da un cordone di carabinieri e poliziotti. Le riprese sono della troupe di Canale 5 appena arrivata sul posto. Adriano Lauro, il vicequestore responsabile della piazza, prende di mira un anonimo manifestante e lo apostrofa: “L’hai ucciso tu, tu l’hai ucciso, bastardo! Tu l’hai ucciso, col tuo sasso, pezzo di merda, col tuo sasso l’hai ucciso!”. Il malcapitato si allontana a passo svelto e il vicequestore accenna una corsetta, senza tuttavia organizzare un vero inseguimento, come si dovrebbe fare di fronte a un uomo che si pensa responsabile di un omicidio. È davvero uno strano episodio, che la trasmissione Terra ha consegnato alla storia mediatica del G8. Che significato ha la “sceneggiata” di piazza Alimonda? Sul momento, a chi l’ha vissuta in diretta, è parsa la prima spiegazione ufficiale – vera o falsa che fosse – di quanto accaduto: il ra183

gazzo ucciso da una pietra lanciata da un dimostrante e non per colpa dei carabinieri. A caldo, in effetti, si parlò di un manifestante ucciso da una pietra, ed è difficile capire se si trattò di una voce incontrollata o di un maldestro tentativo di immediato depistaggio. Tuttavia si continuò a parlare del sasso anche dopo che si era diffusa la notizia del proiettile. Giovanni Truglio, in una telefonata delle 18.04, informa il generale Desideri, vicecomandante del Ros dei carabinieri: “Sembra che ci sia stato uno dei nostri che ha sparato un paio di colpi”. Desideri: “Allora, siccome qui è arrivata una notizia, da un’altra fonte, che questo giovane sarebbe stato colpito da una sassata, durante la carica, nella mischia, tu che hai il morto davanti che cosa evidenzi?”. Truglio risponde che ci sono più ferite e che il ragazzo “è stato arrotato da una campagnola”; non cita più gli spari. E Desideri chiede ancora: “Potrebbe essere un colpo sulla testa da una pietra?”. Truglio: “Potrebbe essere anche questo, sì”. Desideri: “Quindi potrebbe essere quello per cui è caduto ed è stato investito”. Truglio: “Sì, esatto, esatto, che è stato investito è sicuro e quell’altra cosa io non l’ho verificata”. Con il tempo e con l’esame dei documenti via via emersi, il quadro è cambiato, prospettando un nuovo scenario, nel quale non vi sono sassi fantasma lanciati da anonimi dimostranti, ma una pietra usata per sfregiare il volto di Carlo Giuliani. Le testimonianze di chi prestò soccorso, i referti immediati e l’autopsia sono concordi: oltre al foro di entrata del proiettile, la testa di Carlo presentava una vistosa ferita a forma di stella sulla fronte. L’ingrandimento di alcune foto, nella ricostruzione di Giuliano Giuliani, permette di stabilire una terribile sequenza degli eventi. Un primo scatto mostra il corpo di Carlo a terra: vicino alla testa c’è solo un accendino, a poca distanza si distingue una pietra. In una foto di poco successiva, compare una pietra insanguinata vicino al corpo. È una fase in cui le forze dell’ordine hanno il controllo della piazza, nessun altro può avvicinarsi al cadavere. Il padre non ha dubbi: qualcuno, “quasi certamente un carabiniere”, infierì sul corpo di Carlo, usando una pietra, nell’intento di inquinare le prove, accreditando la tesi del sasso omicida, e di applicare “una vendetta biblica, una spietata legge del taglione”. “Giravano voci,” scrive Giuliani nel suo libro-inchiesta, “che ci fosse un carabiniere grave per una sassata di un manifestante, voci, appunto, nulla di più. Ma testimonianza anch’esse di un clima creato ad arte per giustificare paure, allarmismi, voglia di vendette. Tutto il contrario di quella che dovrebbe essere la conduzione dell’ordine pubblico anche in situazioni complicate.” 184

La ferita alla fronte di Carlo non ha alcuna spiegazione nella versione ufficiale dei fatti. L’autopsia si limita a descriverla: “In regione frontale mediana si osserva una ferita lacero contusa di forma irregolarmente stellare, inserita in un’area escoriata di circa cm 3x2”. È una lesione che non ha alcuna attinenza con lo sparo, né con il passaggio sul corpo della camionetta: le ruote passano prima sul bacino, poi sulle gambe. Non vi sono spiegazioni alternative a quella di Giuliano. Fotografie e filmati anzi confermano che attorno al corpo di Carlo vi furono strani movimenti, un’anomala concitazione. Due episodi, in particolare, meriterebbero un approfondimento. Il primo è il trattamento riservato da alcuni poliziotti, nel frattempo accorsi in piazza Alimonda, a un fotografo, Eligio Paoni. L’uomo viene strattonato con violenza e picchiato, poi la sua faccia è avvicinata a quella di Carlo steso sull’asfalto: tutto fa pensare che in quel momento Paoni sia minacciato di fare la stessa fine. Probabilmente ha visto o addirittura fotografato qualcosa di compromettente. La macchina fotografica, ovviamente, gli viene sottratta. Quanto a lui, uscito dal trattamento degli agenti con una frattura alla mano, cinque punti di sutura in testa e contusioni varie, non ha mai riferito, nemmeno in privato con la famiglia Giuliani, che cosa abbia visto. “Devono averlo spaventato al punto giusto,” commenta Giuliano, “per convincerlo a non sporgere denuncia e a non parlare.” L’altro episodio, documentato da filmati e fotografie, è un violento litigio fra un poliziotto e un carabiniere, che si prendono a manganellate, mentre altri agenti assistono alla scena, in un clima di visibile nervosismo. Nella ricostruzione di Giuliano Giuliani la “sceneggiata” del vicequestore Lauro è successiva al colpo di pietra sulla testa di Carlo, e precedente l’arrivo dell’infermiera del Genoa social forum, che tenta di soccorrere il ragazzo e nota subito, spostando il passamontagna blu, sia il foro d’entrata del proiettile, sia la lesione sulla fronte. Niente di tutto ciò, né la questione della ferita a stella, né l’aggressione al fotografo, tanto meno la “sceneggiata” del vicequestore, compare negli atti giudiziari. L’archiviazione dell’inchiesta sull’omicidio di Carlo e il mancato avvio di un possibile procedimento per vilipendio di cadavere, consegnano questo episodio alla conoscenza di pochi, anche per la disattenzione dei maggiori mezzi d’informazione. Ma c’è anche di più. Il materiale disponibile è così vasto e così vario, le questioni da chiarire così numerose e così importan185

ti, che il mancato processo per l’omicidio di Carlo Giuliani ha impedito di ricostruire con pienezza e profondità la gestione dell’ordine pubblico nelle giornate del G8. Una riprova è arrivata con i giudizi – in parte contrastanti – di primo e secondo grado della Corte europea per i diritti umani. La Grande Chambre, composta da diciassette giudici, nel marzo 2011 ha respinto, con sentenza definitiva, il ricorso presentato dalla famiglia Giuliani contro lo stato italiano. Ha cioè decretato che il carabiniere Mario Placanica agì in condizioni di legittima difesa, che non vi fu un uso sproporzionato della forza e che l’inchiesta della magistratura italiana è stata corretta. Su un punto in particolare la Grande Chambre ha ribaltato il giudizio di primo grado. Nel 2009 la Corte di Strasburgo, con il voto di quattro dei sette giudici, aveva condannato lo stato italiano a risarcire la famiglia Giuliani (quarantamila euro), a causa di precise lacune dell’inchiesta giudiziaria. Secondo la Corte di primo grado, l’inchiesta dei magistrati genovesi, fra le altre cose, “non ha esplorato le ragioni per cui Mario Placanica – ritenuto dai suoi superiori incapace di proseguire il suo servizio in ragione del suo stato fisico e psichico – non sia stato immediatamente condotto all’ospedale, sia stato lasciato in possesso di una pistola carica e collocato in una jeep priva di protezione che si è trovata isolata dal plotone che aveva seguito”. Secondo la sentenza europea del 2009 “c’è un legame tra il colpo mortale e la situazione nella quale si sono ritrovati Filippo Cavataio e Mario Placanica. In altri termini l’inchiesta non è stata adeguata nella misura in cui non ha ricercato quali siano state le persone responsabili di questa situazione”. La Grande Chambre con la sentenza del marzo 2011 ha ribaltato il giudizio e cancellato il risarcimento, ma con un voto a maggioranza – dieci contro sette – che nasconde valutazioni radicalmente diverse e lascia aperte molte questioni. I sette giudici finiti in minoranza, oltre a muovere vari appunti sull’inchiesta della magistratura, hanno sottolineato un aspetto politico-amministrativo: “È incredibile,” hanno scritto in un documento messo agli atti della Corte, “che il governo italiano, a fronte dell’uccisione di un manifestante da parte di un agente dello stato (fatto rarissimo in Italia), abbia ammesso di non avere aperto alcuna inchiesta amministrativa o disciplinare nei confronti delle forze dell’ordine”. D’altra parte non va dimenticato come fu accolta la sentenza di primo grado nel 2009: grande risalto alle parti che davano ragione allo stato, silenzio sulla parte che dava ragione ai Giuliani. Addirittura, Gianfranco Fini, ospite della Festa democratica pro186

prio a Genova un paio di giorni dopo la decisione dei giudici europei, si felicitò pubblicamente per la conferma del giudizio che riconosceva la legittima difesa da parte di Placanica, ricevendo anche gli applausi di molti dei presenti, forse ignari dei vari aspetti della sentenza, ma di certo dimentichi del ruolo avuto all’epoca dal vicepremier Fini e altri esponenti del suo partito di allora. Il caso giudiziario a questo punto è chiuso (salvo ricorsi al giudice civile), ma l’omicidio di piazza Alimonda è stato consegnato alla storia d’Italia come l’ennesimo “delitto di stato” circondato da un alone di mistero e d’imbroglio.

La memoria e l’azione Altri figli, altri fratelli, altri compagni sono venuti dopo Carlo. Morti in carcere in circostanze oscure, fra le mani di agenti, in stato di fermo, in ospedale dopo una sosta in caserma e così via. Una scia di sangue e di orrore seguita da silenzi, imbarazzi, ostacoli alla verifica dei fatti e delle responsabilità. I nomi di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi sono i più noti, ma ce ne sono molti altri. Da qualche tempo di loro, anche di loro, si parla a luglio a Genova, negli anniversari del G8 genovese. Prendiamo l’elenco dei relatori al seminario organizzato nel luglio 2010 dal Comitato piazza Carlo Giuliani: è come una mappatura, parziale ma significativa, del peggio avvenuto in questi anni nelle strade, nelle caserme e nelle carceri d’Italia. In una saletta della Regione Liguria, hanno parlato i genitori di Stefano Cucchi, morto a trentun anni all’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009 in stato d’arresto dopo avere subìto maltrattamenti e violenze; la sorella di Giuseppe Uva, morto a quarantatré anni all’ospedale di Varese, poche ore dopo una lunga sosta e un pestaggio – nella denuncia di Lucia Uva – in una caserma dei carabinieri; i genitori di Federico Aldrovandi, morto diciottenne il 25 settembre 2005 a Ferrara, mentre è sottoposto a un controllo di polizia a pochi passi da casa; amici di Stefano Frapporti, operaio cinquantenne di Rovereto, portato in carcere il 21 luglio 2009 e trovato morto in cella poco dopo, ufficialmente suicida; amici di Aldo Bianzino, morto in carcere a Perugia il 14 ottobre 2007 all’età di quarantaquattro anni, ufficialmente per cause naturali ma con segni sospetti sul corpo; Giuseppe Galzerano, amico e compagno di lotte di Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare morto il 4 agosto 2009 nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania (Salerno) durante un trattamento sanitario obbligatorio, in circostanze poco chiare. 187

C’erano anche parenti, compagni di altri personaggi venuti prima, già inseriti nelle pagine più nere della storia d’Italia: Francesco Lorusso, ucciso per strada dai carabinieri a Bologna l’11 marzo 1977 all’età di venticinque anni; Pino Pinelli, il ferroviere anarchico di quarantun anni precipitato da una finestra al quarto piano della questura di Milano il 16 dicembre 1969; Franco Serantini, morto a ventun anni il 7 maggio 1972 in una cella del carcere di Pisa due giorni dopo un pestaggio subìto per strada; Fausto e Iaio, i due ragazzi di diciotto anni, frequentatori del centro sociale Leoncavallo, uccisi a colpi di pistola a Milano il 18 marzo 1978. E sarebbe stato possibile aggiungere altri nomi, altri casi, altre storie. C’è un “prima di Carlo” e un “dopo Carlo”, dice Haidi Giuliani, che nella connessione fra il “prima” e il “dopo” ha individuato la strada per tutelare la memoria di suo figlio trasformandola in azione civile e politica. “Reti-invisibili” è il sito (www.retiinvisibili.net) e il punto di raccordo fra comitati, famiglie, singoli cittadini, nato secondo questo spirito. Ci sono degli “invisibili”, morti per le violenze dello stato, per gli abusi di uomini in divisa, nelle stragi che hanno funestato gli anni settanta e ottanta o in circostanze molto dubbie, che raramente hanno ottenuto giustizia e che sono stati spinti ai margini della storia, nei territori dell’oblio. “Reti-invisibili”, curato da Francesco Barilli, ne racconta le vicende, per tutelarne la memoria e per coalizzare chi ancora non si rassegna né all’ingiustizia né all’oblio. Il trattino, in fondo, permette di leggere anche “reti meno invisibili”, a mo’ di auspicio e anche di impegno. Haidi Giuliani è stata l’ideatrice e la principale promotrice della rete. “Quando è cominciata? Forse, per me, una cinquantina di anni fa, quando ho partecipato per la prima volta a una manifestazione, indetta in seguito all’uccisione di un ragazzo, schiacciato contro un muro da una camionetta delle ‘forze dell’ordine’; si chiamava Giovanni Ardizzone. O forse dopo che è stato ucciso mio figlio, dopo aver letto sui giornali che l’assassino era lui, che voleva violentare una povera camionetta indifesa. Più guardavo le fotografie, i filmati, le tante testimonianze, più pensavo: ‘La verità non si può nascondere. Non si potrà ottenere giustizia ma la verità, quella è impossibile negarla’. Avevo dimenticato il passato: le tante vittime di stato, le stragi, i depistaggi, le trame oscure. Era già successo tutto, avevano già ucciso i nostri figli tante altre volte: da Portella della Ginestra a piazza Fontana, dalla stazione di Bologna a oggi, non solo sono stati violati i più elementari diritti costituzionali ma, in seguito, si è taciuto, nascosto, imbrogliato; non si è fatta verità. Sapevo tutto ma avevo di188

menticato. È stato allora che ho lasciato piazza Alimonda per andare a cercare quegli altri figli, per mettere insieme le loro storie, tutte diverse, ma unite tutte dal filo della non verità, della mancata giustizia.” Haidi, nei primi mesi dopo l’omicidio di Carlo, è rimasta in disparte, sconosciuta all’opinione pubblica. In quella fase è Giuliano a comparire in televisione, intervenire sui giornali, partecipare alle iniziative pubbliche. Poi qualcosa cambia. Un invito in una scuola fa sì che la vocazione al dialogo con i ragazzi prenda il sopravvento. Haidi è una maestra elementare e non ha perso, con il pensionamento, la sua passione professionale, la sua capacità di comunicare con i ragazzi. Comincia a parlare, a raccontare: “Carlo,” dice spesso, “mi ha fatto girare l’Italia e il mondo, grazie a lui ho incontrato migliaia di persone stupende”. “A gennaio 2002,” racconta oggi Haidi, “sono a Milano, all’Università Bocconi, dove si ricorda uno studente modello, a cui la polizia aveva sparato alla nuca; si chiamava Roberto Franceschi. E di nuovo a febbraio per un giovane colpito a morte, ‘per sbaglio’, da un agente fuori servizio; si chiamava Luca Rossi. E ancora a marzo, quando conosco la mamma di Fausto Tinelli e la sorella di Lorenzo ‘Iaio’ Iannucci. Prima viene Bologna, con il padre e gli amici di uno studente mirato alla schiena da un carabiniere, e dicono che in Italia non c’è la pena di morte; si chiamava Francesco Lorusso. A Pisa arrivo in una bella giornata di maggio, in cui si ricorda un giovane ‘figlio di nessuno’ ridotto in fin di vita dalle botte di agenti in divisa ai margini di una manifestazione e lasciato morire senza cure in una cella; si chiamava Franco Serantini. Anche in quella piazza conosco persone straordinarie, come Teresa Mattei, compagni e compagne che avrei incontrato molte altre volte nel corso di questi anni alle manifestazioni per la pace, a dibattiti e convegni... Insomma, il calendario non mi basta. Manlio Milani, presidente dell’Associazione vittime di piazza della Loggia, a Brescia, osserva che il nostro è il paese dei comitati. Così penso di collegare in rete tutte le realtà che ancora fanno memoria e mi metto al lavoro; al primo incontro qualcuno dice che non si possono confondere le ‘vittime innocenti’ con quelle che, in un modo o nell’altro, ‘se la sono andata a cercare’. D’altra parte, c’è anche chi dice che non si possono confondere le ‘vittime consapevoli’ con quelle ‘morte per caso’... Continueremo a essere un paese di comitati. Riesco tuttavia ad arrivare a un accordo, confermato in incontri successivi in diverse città: la creazione di un sito comune, che verrà tenuto in vita dal lavoro volontario di alcune persone generose; una ‘banca dati’ per chi vuole sapere, per chi vuole informarsi; una ‘voce’ che insieme alla memoria continui a fare denuncia. Nel frattem189

po, nel mio ‘calendario’ si aggiungono altre date, altri nomi di giovani: qualcuno più noto all’opinione pubblica, qualcuno quasi sconosciuto. Per non parlare degli ‘invisibili’ in assoluto, quei migranti respinti in mare, scomparsi nelle campagne o nei cantieri, nel buio di una cella, vittime di leggi incivili, vittime di stato, come i nostri figli. Non sapremo mai neppure come si chiamavano.” A volte la giustizia porta a risultati importanti, più spesso no. Per la morte di Federico Aldrovandi lo stato italiano, nell’ottobre 2010, ha trovato un accordo con la famiglia per un risarcimento in denaro. Più dei soldi, che la famiglia userà anche per un’associazione fra le vittime delle violenze delle forze dell’ordine, conta il gesto, l’ammissione di una responsabilità a processi ancora aperti, dopo le condanne in primo grado a tre anni e sei mesi ciascuno – per eccesso colposo in omicidio colposo – inflitte ai quattro agenti della pattuglia che fermò Federico. Lo stato, per una volta, ha chiesto scusa. Per la morte di Stefano Cucchi è stato condannato a due anni (con rito abbreviato) un funzionario del Dap e sono stati rinviati a giudizio tre guardie carcerarie, sei medici e tre infermieri. Per Aldo Bianzino, Stefano Uva, Francesco Mastrogiovanni e tanti altri la giustizia nei tribunali non c’è stata o difficilmente ci sarà. Siamo il paese dei comitati anche perché siamo il paese che tollera caserme blindate agli occhi esterni e non ha una struttura indipendente alla quale denunciare gli abusi delle forze dell’ordine; siamo il paese dove non si riesce nemmeno a discutere di introdurre l’obbligo, per gli agenti in servizio di ordine pubblico, di portare sulla divisa un codice di riconoscimento. E dire che un provvedimento del genere fu consigliato addirittura da Pippo Micalizio, autore dell’inchiesta interna sull’operazione Diaz: l’anonimato, secondo l’ispettore, dev’essere evitato “in modo da assicurare, in termini sicuramente apprezzabili sotto molteplici profili, una maggiore ‘trasparenza’”. Fra i “molteplici profili apprezzabili”, si può senz’altro includere l’effetto deterrente che il timore d’essere identificati avrebbe su agenti violenti, malintenzionati o mandati all’assalto con la promessa dell’impunità. Ma è una proposta rimasta finora lettera morta, per l’indifferenza dei politici e la sordità degli apparati, con la complicità – va detto anche questo – dei sindacati di polizia, rimasti silenziosi e in fondo ostili anche su questo punto. Sono rimaste senza ascolto anche le proposte contenute in una petizione popolare promossa all’indomani del G8 del 2001 da Comitato verità e giustizia per Genova, Arci e Comitato piazza Carlo Giuliani: la formazione ai princìpi e alle tecniche della 190

nonviolenza per tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine; la messa al bando del gas CS; una legge sulla tortura. È un programma di concrete riforme che il passare del tempo ha reso ancora più urgente e che andrebbe semmai integrato con l’istituzione di un’autorità indipendente d’indagine sugli abusi commessi dalle forze dell’ordine. Ma certi argomenti, in Italia, sembrano tabù.

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Foto di Dino Fracchia

6. Fermare il movimento

Un G8 “bipartisan” “La strategia di prevenzione è coordinata dal vicecapo della polizia Ansoino Andreassi (noto per il suo mai nascosto impegno militante di estrema sinistra). [...] È fin troppo facile prevedere l’eventualità che giovani poliziotti, magari inesperti o esausti dopo giorni di ‘veglia’, se isolati, possano reagire sparando. [...] Rifondazione sta esercitando pressioni sul sindaco (Ds) di Genova per ottenere permessi di accesso alla ‘zona rossa’, a insaputa del prefetto, da destinare a militanti oltranzisti. [...] Lasciare Genova ‘aperta’ e difendere con ogni mezzo la ‘zona rossa’ è l’opzione alla quale lavora oggi l’attuale governo e che appare totalmente suicida. [...] Infatti in questo modo l’iniziativa viene lasciata tutta nelle mani di chi vuole trasformare Genova in un campo di battaglia, mentre sul fronte difensivo mancano idee chiare, un unico centro di comando e controllo, uomini e mezzi.” Questi brani sono tratti da un documento anonimo, intitolato “Genova G8 problemi e prospettive”, ritrovato, sembra casualmente, il 5 giugno 2001 in via della Vite a Roma da due agenti di pubblica sicurezza. È datato 28 maggio 2001, quindici giorni dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi. Lo stile, le notizie riportate, le modalità del ritrovamento fanno pensare a un testo che proviene dall’interno dei servizi segreti. Le dieci pagine contengono informazioni riservate: la scelta dei vertici della polizia e del governo di occuparsi unicamente della “zona rossa”, abbandonando il resto della città di Genova nelle mani del Black Bloc; l’assenza di un unico centro di comando tra carabinieri e polizia. Vi sono anche alcune previsioni, estremamente precise, su quanto poi è davvero accaduto, alme193

no secondo la versione ufficiale proposta all’opinione pubblica: Carlo Giuliani ucciso proprio da un giovane carabiniere di leva, inesperto e stressato per il proprio lavoro. Sono inoltre indicati per nome e cognome gli obiettivi contro i quali gli estensori del documento sollecitano un intervento prima del G8: Ansoino Andreassi, che sarà l’unico a non schierarsi contro la magistratura, e Rifondazione comunista, la sola forza politica aderente al Genoa social forum. Il 5 giugno 2001 è una giornata emblematica anche sul piano istituzionale. Quel giorno il ministro dell’Interno del governo uscente di centrosinistra, Enzo Bianco, ancora in carica per pochi giorni, emana un decreto con il quale autorizza la polizia a sperimentare il “tonfa”, un nuovo tipo di manganello, rigido e con l’impugnatura perpendicolare rispetto all’asta principale. Qualche giorno dopo, il 30 giugno, il nuovo ministro dell’Interno Claudio Scajola, insediatosi il 12, autorizza il I reparto mobile della polizia di Roma, e quindi il VII nucleo antisommossa creato al suo interno, a usare il “tonfa”, che sarà protagonista dei pestaggi alla scuola Diaz. Il tonfa è dunque un “manganello bipartisan”, affidato a un reparto speciale a sua volta creato nella fase di passaggio fra centrosinistra e centrodestra, protagonisti – nei fatti – di una cogestione della preparazione del G8 genovese. Il “nucleo sperimentale per interventi di ordine pubblico”, chiamato “VII nucleo”, collocato all’interno del I reparto mobile di Roma agli ordini del dirigente Vincenzo Canterini, viene formato nel maggio 2001, con Enzo Bianco sulla poltrona di ministro. È l’atto di nascita della formazione che si farà conoscere durante la “macelleria messicana” del 21 luglio. Il personale del reparto, destinato a compiere operazioni speciali, è selezionato poco prima del G8 da una commissione di esperti, composta anche da medici e psicologi. Il comandante Canterini, davanti al Comitato parlamentare d’indagine, ha spiegato che gli agenti furono scelti in base alle capacità professionali “e soprattutto caratteriali”, in vista di operazioni “presumibilmente ad alto rischio, ad alto impatto psicologico e adrenalinico”. Alla luce di quanto poi accaduto, viene da chiedersi quali siano stati i reali criteri di selezione del personale e quali orientamenti culturali dovessero manifestare i poliziotti desiderosi di entrare in questo nucleo sperimentale. Ben pochi, fra loro, hanno seguito le indicazioni impartite il 13 luglio 2001, nel briefing con i vari reparti, dal vicecapo vicario della polizia Ansoino Andreassi, che distribuì un decalogo intitolato: “Suggerimenti per i dirigenti dei servizi di ordine pubblico e per i comandanti di reparto”. 194

Nel documento si legge fra l’altro, al punto 9: “Farsi prendere dalla rabbia o dall’odio verso i manifestanti anche violenti e lasciarsi andare a reazioni singole, oltre a rappresentare un momento di sostanziale debolezza e di inciviltà, mina la saldezza del reparto e ne sabota la forza e la dignità. In ordine pubblico non ci sono questioni personali da regolare con i manifestanti!”. Al punto 10 c’è un preciso invito alla moderazione: “L’uso della forza deve essere indirizzato solo a contenere o a respingere le violenze della folla, non a punire i manifestanti. L’inseguimento del manifestante che scappa non è solo inutile, ma denota una volontà di rivalsa o di vendetta illegittima, incivile e fortemente dannosa per l’onore delle forze dell’ordine”. Queste parole non sembrano in sintonia con la preparazione pratica riservata ai reparti destinati al G8. In un articolo uscito sul settimanale “Diario” nel maggio 2002, i giornalisti Goffredo De Pascale e Mario Portanova raccontano l’esperienza compiuta l’anno prima da Giuseppe Boccuzzi, un agente del VII reparto mobile di Bologna, a un corso di addestramento al centro di Ponte Galeria in preparazione del G8: “Ci insegnavano soltanto a reprimere e non a prevenire,” racconta Boccuzzi. “Il movimento No global ci veniva presentato come il nemico, non c’è stata nessuna formazione sulle varie componenti del movimento, nessuna distinzione fra gruppi violenti e pacifici. Ci siamo preparati ai grandi lanci di molotov, a camminare tra le fiamme, a scendere dai mezzi in corsa.” A testimonianza di una preparazione al G8 secondo logiche “muscolari”, di tipo paramilitare, con reparti speciali (anche nei carabinieri e nella guardia di finanza) poco adatti a gestire manifestazioni politiche, c’è anche un particolare dell’equipaggiamento messo a disposizione delle forze dell’ordine. Fra gli strumenti in dotazione ci sono candelotti lacrimogeni contenenti il gas CS, ortoclorobenzalmalononitrile, entrato in uso nel 1991 con il decreto del presidente della Repubblica n. 359, ma compreso nell’elenco delle armi chimiche messe al bando con la Chemical Weapons Convention, ratificata in Italia nel 1995 ed entrata in vigore nel 1997. La convenzione proibisce l’uso del gas CS in operazioni di guerra, ma niente dice sugli usi civili: perciò la pericolosa sostanza è stata cosparsa copiosamente sui manifestanti (e sugli agenti) durante le manifestazioni genovesi. Qualcuno ha parlato in proposito di “guerra chimica”, dato l’abnorme utilizzo dei gas, denunciato dagli stessi sindacati di polizia, a fronte dei numerosi casi di intossicazione segnalati e documentati da agenti e semplici cittadini. La pericolosità del CS è documentata fra l’altro da uno studio, realizzato nel giugno 2000, dallo Stoa (Scientific and Technological Options Assessment), un organismo ufficiale del Parlamento europeo che indica dermatite, gastroenterite, edema polmonare, blocchi cardiaci, danni al 195

fegato, modificazioni genetiche e cancro come alcune delle patologie più gravi causate dalla sostanza. Una circolare dello stesso ministero della Sanità dell’ottobre 2001 colloca il CS tra gli agenti chimici che potrebbero essere usati durante un’aggressione bellica o terroristica. Nonostante Genova e le richieste di associazioni e poliziotti, la messa al bando del gas CS, anche al di fuori delle operazioni belliche, non è stata ancora formalizzata. Un’altra data chiave nella preparazione del G8 è il 2 giugno 2001, quando il prefetto di Genova, Antonio Di Giovine, emette l’ordinanza 288/D.P. con la quale istituisce dal 18 al 22 luglio la “zona rossa”. Al Viminale siede ancora il ministro Bianco, ma il centrodestra ha già vinto le elezioni e si prepara a insediarsi. La “zona rossa” comprende Palazzo Ducale e le aree del centro dove si svolgerà il summit e alle quali potranno accedere solo i giornalisti accreditati e i residenti muniti di apposito pass; a chiunque altro viene vietato l’accesso, compresi parenti e amici dei residenti, costretti a vivere sotto controllo militare, rinchiusi in una gabbia con inferriate alte quattro metri. Il provvedimento del prefetto deroga esplicitamente dalle garanzie previste dalla Costituzione. Lo riconosce lo stesso prefetto il 9 agosto 2001 di fronte al Comitato parlamentare d’indagine: “Il prefetto ha adottato un provvedimento limitativo, fortemente limitativo di diritti e facoltà riconosciuti dall’ordinamento costituzionale e su questo provvedimento ha costruito un sistema difensivo per raggiungere l’obiettivo principale di carattere internazionale”.

Alta tensione Il dispiegamento di uomini delle forze dell’ordine a Genova è imponente. Vengono schierate diverse migliaia di agenti della polizia di stato, oltre 4000 carabinieri, e anche – novità assoluta – 1200 finanzieri, alcuni dei quali saranno protagonisti di inseguimenti e pestaggi per strada di singoli manifestanti, immortalati da filmati che non hanno tuttavia portato a inchieste e tanto meno condanne. Sia i carabinieri sia la polizia impiegano reparti speciali, mentre la guardia di finanza si lascia coinvolgere pur disponendo, secondo l’ammissione del comandante generale Alberto Zignani davanti al Comitato parlamentare d’indagine, di solo 318 uomini “pienamente addestrati per l’ordine pubblico”. Il vicecapo della polizia Ansoino Andreassi, sempre davanti ai parlamentari, informa inoltre che “ufficiali delle forze armate [sono] presenti a Genova in numero consistente”. Non è stata ancora scritta una storia dettagliata della preparazione e del comportamento delle forze dell’ordine al G8 geno196

vese, ed è un peccato: è stata una tale disfatta che una ricostruzione rigorosa e dettagliata sarebbe nell’interesse di polizia, carabinieri e finanza, corpi dello stato che nelle strade di Genova hanno messo a repentaglio il rapporto di fiducia che dovrebbe legarli ai cittadini. Uno squarcio sul clima che si respira all’interno degli apparati di sicurezza nell’immediata vigilia delle manifestazioni è contenuto nell’ordinanza n. 2143/R firmata dal questore Francesco Colucci il 12 luglio. Questo documento è la principale e più articolata fonte sulla gestione dell’ordine pubblico e della sicurezza nelle giornate del G8. Nell’ordinanza, lunga più di duecento pagine, vengono riprese alcune informazioni derivanti dai servizi segreti. Vi si parla del possibile utilizzo da parte dei manifestanti di “un centinaio di fionde tipo falcon per lanciare a distanza biglie di vetro e bulloni di ferro allo scopo di perforare gli scudi di protezione e i parabrezza dei mezzi in uso alle forze dell’ordine”. I manifestanti “potrebbero prendere in ostaggio alcuni operatori delle forze di polizia individuati tra quelli più isolati”; sarebbero pronti al “lancio di frutta con all’interno lamette di rasoio”, all’utilizzo di “palloncini ricoperti di carta stagnola per arrecare disturbo agli strumenti di volo”, nonché di “deltaplani con cui sorvolare la zona dei lavori del vertice”. Sembra tutto incredibile, tanta è l’inverosimiglianza di simili azioni, ma nell’ordinanza di Colucci c’è anche di più. Si riferisce di una raccolta di sangue in corso “al fine di riempire migliaia di palloncini contenenti, almeno in parte, sangue umano, da lanciare nel corso della manifestazione”. “L’azione,” sostiene ancora Colucci nel documento, “avrebbe finalità deterrenti, per la paura di contagi da sangue ritenuto infetto.” Abbiamo già ricordato, nel secondo capitolo, come queste informative dei servizi segreti furono riconosciute non corrispondenti al vero persino dal direttore dell’Ucigos, Arnaldo La Barbera, e tuttavia servirono certamente a creare un clima di eccitazione e allarme all’interno di caserme e acquartieramenti. È bene ricordare che mentre il questore firma l’ordinanza e in qualche modo certifica le assurde informative dei servizi, in città vengono chiuse le stazioni ferroviarie e si decide di interdire lo spazio aereo. Si installano anche basi missilistiche. Il governo, intanto, sospende l’Accordo di Schengen sulla libera circolazione dei cittadini europei. Il capo della polizia Gianni De Gennaro, nell’incontro del 30 giugno con il Gsf, ostenta sicurezza. Afferma che non c’è alcun motivo di preoccuparsi: ha personalmente gestito eventi simili, per esempio il Giubileo, con la presenza di oltre un milione di persone e, secondo le sue informazioni, a Genova nelle giornate del G8 non sarebbero arrivate più di 40.000 persone. 197

De Gennaro, supportato dal ministro Scajola, garantisce che le forze di polizia non useranno armi da fuoco, pur respingendo la richiesta del Gsf di disarmare gli agenti in servizio. I numerosi colpi esplosi in piazza smentiranno entrambi. Lo stesso Scajola, qualche mese dopo, getterà un’ulteriore ombra sui preparativi del G8 da parte delle forze dell’ordine. Il 16 febbraio 2002 “la Repubblica” e il “Corriere della Sera” titolano rispettivamente: “Al G8 ordinai di sparare”; “Al G8 ordinai: se sfondano sparate”. Sono dichiarazioni gravi quanto avventate: nell’ordinamento italiano il ministro dell’Interno non ha alcuna facoltà di ordinare l’uso di armi da fuoco, che è disciplinato unicamente dalla legge. Tuttavia le dichiarazioni del ministro risuoneranno nelle parole del procuratore generale Domenico Porcelli, che il 18 gennaio 2003, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, torna a parlare del G8. Porcelli sostiene che qualora i manifestanti fossero penetrati nella “zona rossa”, non sarebbe stato possibile evitare spargimenti di sangue come conseguenza dell’azione dei servizi segreti stranieri. Le dichiarazioni di Scajola e Porcelli fanno intravedere un’ipotesi di tenore eversivo, ossia che le forze dell’ordine italiane e gli agenti segreti stranieri, presenti in forze in città, furono in qualche modo “autorizzati” a usare armi da fuoco, al di fuori delle leggi, anzi contro le leggi dello stato italiano. Nell’ordinanza del 12 luglio si parla anche di infiltrazioni nel movimento da parte dell’ultradestra, un episodio assai poco esplorato. “Si è appreso,” si legge nel testo firmato dal questore di Genova, “che Forza nuova, Fronte nazionale e Comunità politica d’avanguardia effettuerebbero a Genova una manifestazione. [...] In particolare è stato segnalato che alcuni membri torinesi di Forza nuova, costituirebbero un nucleo di 25-30 militanti fidati da infiltrare fra le Tute bianche. [...] Tale gruppo [...] avrebbe come obiettivo principale colpire, in caso in cui si dovessero verificare incidenti, i rappresentanti delle forze dell’ordine, screditando contestualmente l’area antagonista di sinistra anti-G8.” Scrive a questo proposito il giornalista Daniele Biacchessi in un intervento pubblicato sul Libro bianco, uscito nel 2002 a cura del Genoa social forum: “Dopo il G8 vengono fermati da una pattuglia della volante due tedeschi, un uomo di 27 anni e una donna di 32, nei giardini di via Gianelli a Quinto. Sulla loro auto ci sono k-way neri, sporchi di sangue, passamontagna e maschere antigas, nonché due rullini, sequestrati dalla polizia e sviluppati: i fotogrammi mostrano un campo di addestramento e una parata di naziskin. L’ambiente sembra nordico, quasi certamente la Germania, dicono gli inquirenti, ma i rullini non sono i soli di 198

questo tipo: immagini di manifestazioni neonaziste vengono trovate addosso ad altre ‘Tute nere’”. Un altro episodio significativo è frutto della segnalazione di una cittadina. Mercoledì 18 luglio, verso le 20, una signora chiama il centralino del Gsf e comunica che dalla città in cui vive sono partiti verso Genova due pullman di estremisti di destra. Del gruppo fanno parte due persone che conosce bene. Aggiunge un’indicazione sulla zona di Genova in cui troveranno alloggio. Vittorio Agnoletto informa immediatamente Ansoino Andreassi, chiedendogli di intervenire; ma la polizia nega che vi sia alcuna traccia della presenza di estremisti di destra. Alla fine di luglio la stessa donna richiama Agnoletto: conferma tutto e aggiunge diversi particolari sulle azioni vandaliche compiute dai suoi conoscenti, nonché sull’impunità garantita loro dalle forze di polizia. Fermati, sono stati subito rilasciati tutti senza nemmeno un verbale. La donna si dichiara disponibile a essere ascoltata dai magistrati. Quando, mesi dopo, Vittorio Agnoletto viene convocato come testimone dal pm Anna Canepa, racconta questi fatti e fornisce le generalità della donna. Nonostante altri episodi simili siano stati segnalati, non risulta che alcuna indagine approfondita sia stata avviata.

Le “Tute nere” Il cosiddetto Black Bloc, che le definizioni ufficiali qualificano come un “modo di stare in piazza” più che un’organizzazione, fa la sua comparsa in Europa, principalmente nei paesi nordici, nelle mobilitazioni del movimento altermondialista poco prima del G8 2001, suscitando forti dissensi e dure polemiche. In Italia il Black Bloc appare per la prima volta nelle manifestazioni genovesi, senza alcuna connessione con il Genoa social forum, i cui aderenti hanno sottoscritto un patto che impegna a escludere ogni violenza contro le persone e le cose. L’ordinanza del 12 luglio dimostra come la questura fosse già allora perfettamente consapevole dell’esistenza di un “blocco nero”. Circostanza confermata davanti al Comitato parlamentare d’indagine, il 28 agosto, dal prefetto Arnaldo La Barbera, che specifica: “L’ufficio che ho diretto aveva segnalato in tempo utile sia le modalità d’attacco utilizzate dal blocco nero, sia le potenzialità infiltrative in seno ai gruppi moderati, sia infine la sua pericolosità”. Nelle informative del Sisde (il servizio civile segreto, oggi Aisi), inviate alla vigilia delle manifestazioni, si specifica addirittura che il Black Bloc avrebbe fatto la sua comparsa venerdì 20 luglio in piazza Da Novi alle 12. Solo l’ora si è dimostrata er199

rata, ma non di molto: le “Tute nere” entrano in azione intorno alle 10, spaccando il selciato per procurarsi pietre nell’indifferenza totale della polizia, presente in forze sul posto ma rimasta inerte. Salvo poi aggredire violentemente, poco dopo, i manifestanti pacifici dei Cobas e del Network per i diritti globali. Sulla natura del Black Bloc e le infiltrazioni poliziesche al suo interno si è molto discusso in questi anni. Attende ancora una spiegazione il filmato realizzato dal regista Davide Ferrario e mostrato sabato 21 luglio in prima serata da Vittorio Agnoletto su La7. Nello spezzone si notano persone, vestite con il classico abbigliamento utilizzato dal Black Bloc, che si intrattengono tranquillamente con appartenenti alle forze dell’ordine. Come emerge dalle registrazioni del 113, la polizia, mentre la trasmissione è in onda, discute la possibilità di emettere immediatamente un comunicato stampa di smentita. Ma c’era un grave imbarazzo da affrontare: sotto il travestimento di un supposto componente del Black Bloc, mostrato nel video, si notano le mostrine di una divisa... In seguito, molti altri filmati e fotografie hanno documentato situazioni simili, per non parlare della testimonianza resa a caldo, nel pomeriggio di venerdì 20 luglio 2001, dal senatore Gigi Malabarba, rimasto per circa tre quarti d’ora nel centro operativo dei carabinieri: “Vi si aggiravano gruppi di persone,” riferisce Malabarba, “che entravano e uscivano regolarmente vestiti come manifestanti. Indossavano jeans e magliette di vari colori, nere, ma non solo. Alcuni avevano tra le mani tubi di metallo e pezzi di legno, in qualche caso avevano degli zainetti a tracolla. Alcuni parlavano tra loro in francese, i più numerosi; altri, una decina credo, in tedesco. Il rapporto con i carabinieri era tale da configurare una collaborazione, mentre era da escludere che si trattasse di aderenti alle manifestazioni”. I racconti degli operatori sanitari forniscono un’ulteriore conferma: “Sempre venerdì,” riferisce Gabriella Trotta, come riportato nel libro Obbligo di referto curato dai sanitari del Gsf, “un collega mi accompagna in corridoio: c’è un ragazzo vestito di nero, pantaloni neri imbottiti fino alle ginocchia, fazzoletto metà rosso e metà nero. [...] Chiedo sottovoce al collega se è uno dei famosi Black Bloc, ma no! È delle forze dell’ordine! Ha la maglietta nera, ma ancora si nota la piega della stiratura. Chiedo se ha bisogno di qualcosa. Mi risponde un carabiniere: ‘No grazie, questo è un collega’”. Riprese filmate e testimonianze mostrano come i gruppi del Black Bloc abbiano potuto agire indisturbati sotto gli occhi indifferenti delle forze dell’ordine, pronte invece a intervenire con cariche violentissime sui manifestanti pacifici una volta che i militanti del Black Bloc si fossero tranquillamente allontanati: è sta200

to così nel pomeriggio di venerdì 20 luglio in piazza Manin, e la mattina del giorno dopo nel lungomare durante il corteo e molte altre volte in varie zone della città. Colpisce il confronto tra l’agitazione di chi telefona alla centrale dei carabinieri per segnalare le azioni del Black Bloc e la totale indifferenza, talvolta il sarcasmo, di chi risponde: “Vorrei sapere,” chiede un cittadino esasperato, “le forze dell’ordine dove sono? Nel mio palazzo stanno distruggendo banche, stanno dando fuoco a tutto e non c’è un poliziotto, un carabiniere, vorrei sapere dove sono”. Risponde l’addetto della centrale operativa: “Lo vuole sapere subito?”. In più di un’occasione, anche in passato, le forze dell’ordine hanno giustificato la presenza degli infiltrati all’interno delle manifestazioni con l’obiettivo di impedire, o almeno limitare, le azioni violente e distruttive. Ma nulla del genere è avvenuto a Genova. Viene in mente semmai l’intervista con Francesco Cossiga, pubblicata il 23 ottobre 2007 sul “Quotidiano Nazionale” (“Il Resto del Carlino”-“La Nazione”-“Il Giorno”) a firma di Andrea Cangini. L’occasione del colloquio con l’ex presidente della Repubblica è offerta dalle mobilitazioni studentesche in corso in quel periodo, ma le valutazioni espresse hanno una valenza generale. Eccone un passaggio: “Cossiga: ‘Maroni dovrebbe fare quel che feci io quando ero ministro dell’Interno’. Ossia? ‘Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città.’ Dopo di che? ‘Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri.’ Nel senso che... ‘Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale’”. Va ricordato che in più di un’occasione, a Genova, l’obiettivo del Black Bloc è proprio il Gsf. Il 20 luglio verso le 14, mentre sono in piena attività le “piazze tematiche” allestite in città, i pochi attivisti rimasti nella scuola Pascoli devono precipitosamente chiudersi dentro per evitare che la sede del Genoa social forum sia invasa da un gruppo appartenente al Black Bloc. Sabato 21 luglio il portavoce Agnoletto subisce due aggressioni a opera di personaggi identificabili come “Tute nere”: la prima in tarda mattinata, dopo una conferenza stampa, nelle vicinanze della sede del Gsf; la seconda nel pomeriggio in via Caprera al termine del corteo. Nonostante emergano molte prove di infiltrazioni e connivenze non c’è dubbio che il “blocco nero” abbia una propria autonoma esistenza. La valenza simbolica del gesto contro oggetti e istituzioni in grado di rappresentare nel proprio immaginario 201

la faccia materiale del potere si è purtroppo mostrata capace di suscitare entusiasmo e condivisione, in particolare in alcuni ambienti giovanili. La sede di una banca, lo sportello del bancomat, l’ufficio di un’agenzia per il lavoro temporaneo vengono vissuti come la rappresentazione materiale dell’accumulazione, del consumismo e dello sfruttamento del sistema liberista. Il potere appare sempre più lontano e irraggiungibile, e anche quando è identificabile attraverso un nome e un volto, risulta impossibile per il singolo cittadino aprire un “conflitto” con il centro del sistema economico, per non parlare di quello finanziario. La materializzazione del sistema in un simbolo a portata di mano può dare a qualcuno l’illusione di un gesto in grado di arrecare un danno al Moloch del potere. Ma l’unico risultato concreto e misurabile di simili azioni è l’opportunità che offrono al potere e al suo apparato mediatico di produrre un ulteriore attacco all’insieme del movimento, a quelle lotte collettive che sono l’unica via, forse meno scenografica ma ben più concreta, per ottenere risultati tangibili e duraturi.

Una tenaglia perfetta Da un lato una durissima repressione, dall’altro una campagna mediatica martellante. È la tenaglia che cerca di stritolare il movimento. L’obiettivo è uno solo: bloccare la crescita di una corrente d’opinione e di una forza militante che in meno di due anni, dalla rivolta di Seattle nel novembre del ’99, è cresciuta impetuosamente in tutto il mondo, proponendosi come unica e credibile alternativa al pensiero liberista. Creare un clima di paura, meglio se di terrore, più simile a una guerra che a un evento politico-sociale, per dissuadere il maggior numero possibile di persone dal parteciparvi; colpire senza pietà i manifestanti per produrre ferite destinate a lasciare per lungo tempo il segno nel corpo e nello spirito, mettendo in conto anche la possibilità di uno o più morti; usare le azioni del Black Bloc come paravento per massacrare i manifestanti pacifici; realizzare una campagna mediatica attraverso un rigido e monopolistico controllo dei mezzi d’informazione per criminalizzare tutto il movimento e isolarlo dall’opinione pubblica; infine stroncarlo definitivamente accusando il Gsf di associazione sovversiva. Ecco il progetto messo in pratica nel 2001. L’ultimo episodio, l’ipotetica incriminazione dei portavoce del Gsf, è il meno conosciuto. Raccontiamolo. Lunedì 23 luglio 2001, sono da poco passate le 19, arriva una telefonata ad Agnoletto da una persona di assoluta fiducia: “A Roma si è appena conclusa una riunione tra i vertici del mini202

stero degli Interni, della polizia e dei carabinieri ed è stato deciso di chiedere il tuo arresto e di accusare tutto il Gsf di associazione sovversiva”. L’arresto, secondo questa “soffiata”, sarebbe avvenuto dopo i funerali di Carlo Giuliani previsti per mercoledì mattina. La sera di martedì 24 luglio, in risposta all’appello lanciato dal Gsf in difesa della democrazia, in tutte le città italiane si svolgono mobilitazioni pacifiche. Un numero enorme di persone scende in piazza, dando una grande dimostrazione di forza e di sdegno per le violenze compiute dalle forze dell’ordine nelle giornate del G8. Mercoledì 25 pomeriggio, dopo i funerali di Carlo, un giornalista chiama Agnoletto dal palazzo di giustizia di Genova e lo informa che non sarà arrestato, perché nessun magistrato si è sentito di sostenere l’accusa di associazione sovversiva contro il Gsf. Non sappiamo che cosa sia realmente avvenuto nelle “segrete stanze” del potere e che tipo di pressioni siano state esercitate sulla magistratura, che è titolare dell’azione penale: l’ipotetica volontà di forze dell’ordine e governo di eseguire un arresto, nel nostro ordinamento, non è sufficiente per incriminare chicchessia. Fatto sta che il progettato arresto del portavoce del Gsf non avviene, grazie ad almeno due elementi: la mobilitazione popolare, che rende evidente una vasta area di solidarietà attorno al movimento, e l’indipendenza della magistratura dal potere esecutivo, uno dei capisaldi della Costituzione. Questo episodio rammenta un’altra vicenda, esplosa nel novembre 2002, quando vengono arrestati, pochi giorni dopo la conclusione del Forum sociale europeo di Firenze, venti attivisti della Rete del Sud ribelle, accusati di associazione sovversiva e altri gravissimi reati in relazione alle giornate del G8 e del Global forum napoletano del marzo 2001. Fra gli arrestati c’è anche Francesco Caruso, uno dei leader dei centri sociali meridionali, ben conosciuto all’opinione pubblica per il ruolo avuto durante le giornate di Genova. L’impianto dell’accusa, formalizzata dal pm cosentino Domenico Fiordalisi, è frutto di un’inchiesta del Ros dei carabinieri. Le iperboliche accuse paiono subito poco supportate da fatti ed episodi concreti, tanto che i tredici attivisti poi finiti sotto processo sono stati assolti sia in primo sia in secondo grado. Se nel luglio del 2001 il tentativo è qualificare l’intero Gsf come un’associazione sovversiva, nel novembre 2002 l’accusa viene rivolta a un settore specifico del movimento, ma la logica non cambia. Non meno dura dell’azione repressiva è la criminalizzazione mediatica subita dal movimento. Emblematiche le parole di Maurizio Gasparri in un comunicato del 25 luglio 2001, in risposta alle critiche avanzate dalla Federazione nazionale della stampa 203

(Fnsi, il sindacato unitario dei giornalisti) sugli abusi compiuti contro alcuni cronisti e a detrimento della libertà di stampa: “Fare il giornalista in condizioni estreme è rischioso,” dice Gasparri. “E Genova era una di queste. Nelle situazioni di crisi bisogna andarci preparati come si va preparati quando si parte per un’area di conflitto.” Il messaggio del ministro delle Comunicazioni è sintetico e preciso: a Genova c’è stata una guerra, i giornalisti avrebbero dovuto saperlo e comportarsi di conseguenza. Ci pensa il nuovo questore di Genova, Oscar Fioriolli, a spiegare cosa concretamente questo significhi e come queste “regole” debbano valere anche in futuro per tutto quello che riguarda le vicende legate al G8. Il questore, poco tempo dopo il suo insediamento al posto di Francesco Colucci, invia un’informativa alla procura genovese contenente alcuni articoli di giornale: l’obiettivo è accusare la stampa di agire per costruire un’immagine negativa delle forze dell’ordine, contribuendo alla loro delegittimazione. Ritorna alla mente l’accusa di disfattismo dell’era fascista. Il questore, dopo le proteste dell’Ordine dei giornalisti e del sindacato dei giornalisti (Fnsi), cerca di correggere il tiro, prima smentendo e poi cercando di chiarire che il suo intento è quello di denunciare alcuni protagonisti del G8 per le affermazioni rilasciate ai giornali. Il procuratore aggiunto Francesco Lalla affida il fascicolo al pm Massimo Terrile, per un’inchiesta che peraltro non avrà alcun approdo. Ben più efficace, visto anche il forte dispiegamento di mezzi, è la campagna mediatica per diffondere una “verità di stato” sui fatti di Genova. La strategia è semplice: descrivere il movimento come un insieme di esagitati ignoranti e prossimi al terrorismo e il Gsf come connivente con il Black Bloc; demolire la credibilità pubblica dei portavoce; dipingere come “utili idioti” i gruppi di ispirazione religiosa vicini al movimento; descrivere le forze dell’ordine come garanti senza macchia dell’ordine e della sicurezza. È un copione per il quale non mancano certo gli interpreti. Facciamo qualche esempio, fra i tanti possibili. “Hanno tanto cercato il morto che alla fine l’hanno avuto. [...] E la verità è che in Europa oggi è stata allevata una povera generazione di giovani geneticamente modificati, di ingannati e degradati”: Paolo Guzzanti, “Il Giornale”, 21 luglio 2001. “A Genova è in corso un revival. [...] Se questa poltiglia umana sta insieme è perché ha identificato un nemico senza volto: la globalizzazione. [...] In fondo anche le Brigate rosse nei comunicati della direzione strategica lanciavano anatemi contro le multinazionali e ambivano a liberare i lavoratori”: Vittorio Feltri, “Libero”, 21 luglio 2001. “Il terrorismo, in questo contesto, non è un ciondolo, un ele204

mento di frangia: oggi il terrorismo è un fenomeno enorme, trainante rispetto persino ai movimenti stessi”: Fiamma Nirenstein, “La Stampa”, 21 luglio 2001. “Stracarichi di adrenalina, solo a guardarli te la fai sotto dalla paura. Giovani, atletici, praticamente enormi. Eccola qui la crema del reparto Celere assemblata in gran segreto nel bunker di Ponte Galeria, alle porte di Roma. [...] Il VII si precipita a ergersi a protagonista della carica più mostruosa dell’intera giornata: tra corso Torino e la ferrovia. Botte mai viste, l’apocalisse. Finito, si ricomincia. Ancora sui furgoni, sempre uniti. Sempre compatti. Zitti e duri anche quando la notizia del primo morto circola sugli auricolari”: Gian Marco Chiocci, “Il Giornale”, 21 luglio 2001. “Sparare per legittima difesa nello svolgimento del servizio non solo è lecito, ma lodevole. Propongo una medaglia”: Vittorio Feltri, “Libero”, 21 luglio 2001. “Ben vengano le irruzioni, anche pesanti, da parte della polizia. Mi auguro che in futuro tali irruzioni possano essere compiute anche nei centri sociali e in tutte le sedi che raccolgono questa feccia del mondo”: “La Padania”, 24 luglio 2001, dichiarazioni del senatore Roberto Calderoli. Del resto l’accusa più esplicita di una diretta responsabilità del Gsf per i disordini di piazza e per le azioni del Black Bloc proviene dallo stesso presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che nella conferenza stampa di chiusura del G8 afferma: “In base a quanto mi è stato riferito, non c’era distinzione tra coloro che hanno operato violenza e la guerriglia e gli esponenti del Gsf. Anzi per la notizia che mi è stata data avrebbero coperto questa presenza”. È un “refrain” che sentiremo a lungo, come la tesi di una città “messa a ferro e fuoco dai manifestanti”. La prima smentita per il presidente del Consiglio arriverà ben presto e da una fonte autorevole: Ansoino Andreassi, davanti al Comitato parlamentare d’indagine, è piuttosto netto nel suo giudizio: “Francamente, non mi sento di addebitare la colpa al Genoa social forum, perché isolare i violenti può essere un’operazione rischiosa, non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche da parte del Genoa social forum (da parte sua forse anche di più). Come è scritto anche nella relazione, il Genoa social forum [...] non ha potuto – diciamo potuto – isolare i violenti”. Il fuoco di fila mediatico è notevole e colpisce anche i gruppi religiosi vicini al movimento. “La Padania” il 24 luglio prende di mira l’arcivescovo di Genova Dionigi Tettamanzi, accusato di “benedizione dell’Agnoletto pensiero” e di “tolleranza verso il prete don Andrea Gallo, noto fiancheggiatore dei comunisti e del terrorismo”. Anche Angelo Panebianco, qualche settimana dopo le giorna205

te genovesi, attaccherà duramente i religiosi schierati a fianco del movimento. Ma nessuno arretra. Gli “Scalabriniani”, già il 26 luglio 2001, invitano a Loreto Vittorio Agnoletto, che viene accolto con un lungo applauso e omaggiato, dopo il suo intervento, con una targa ricordo. Anche “Famiglia Cristiana” non si piega e nel numero del 12 agosto pubblica un’intervista ad Angela Burlando, vicequestore di Genova, molto critica con la gestione dell’ordine pubblico durante il G8. Va aggiunto che la lettura dei principali quotidiani italiani nei giorni delle manifestazioni suscita spesso una sensazione di schizofrenia. I direttori e gli editorialisti, che scrivono da Roma o da Milano, si allineano alla versione ufficiale dei fatti: le prime pagine sono piene di articoli di fondo durissimi contro il movimento. Ma molti dei cronisti di quelle medesime testate, presenti nelle strade di Genova, non possono tacere, e nelle pagine di cronaca raccontano quello che vedono: le loro parole spesso sono in netto contrasto con quelle dei loro direttori. Curzio Maltese, testimone oculare, descrive su “la Repubblica” del 22 luglio con grande efficacia e con quel po’ di ironia possibile in simili giornate, la sua esperienza diretta: “Alle quattro del pomeriggio, senza una ragione, la polizia ha caricato il centro del corteo sul lungomare di Genova, dove sfilavano i terroristi del Wwf, i sovversivi dell’Arci e perfino un commando di missionari, e chi scrive si è ritrovato nella citata compagnia sugli scogli, braccati da mare dalle barche di carabinieri, da terra dai poliziotti e con due elicotteri sempre più bassi sulla testa, tanto per aumentare la paura”. Il “Corriere della Sera” pubblica una delle sequenze fotografiche più clamorose e scioccanti: il fermo e il pestaggio di un minorenne da parte di alcuni agenti di polizia. È la sequenza che ritrae Alessandro Perugini, vicecapo della Digos genovese, mentre sferra un calcio verso il ragazzino inginocchiato. E poi ci sono i cronisti genovesi del “Secolo XIX”, di “Repubblica-Il Lavoro”, del “Corriere Mercantile”, che cominciano nei giorni caldi del G8 un puntiglioso lavoro di cronaca che non verrà mai meno negli anni seguenti. Perfino su “Libero” qualcuno osa avanzare dei dubbi sul comportamento delle forze dell’ordine. “È il prologo di una spirale di violenza che in oltre tre ore di scontri ha devastato il quadrilatero che comprende corso Gastaldi, corso Torino, piazza Alimonda e via Fiume. Una spirale che poteva essere evitata o almeno contenuta se la prima carica della polizia non fosse partita quasi a freddo a ‘spaccare’ in due il lungo corteo delle Tute bianche...”: è un articolo di Mauro Bottarelli del 21 luglio.

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Mille occhi su Genova Sono però i media militanti e migliaia di cittadini muniti di foto e telecamere a dare il contributo più originale. Il G8 di Genova sarà probabilmente ricordato, nei futuri manuali di storia della comunicazione, come il primo grande evento di piazza coperto da una moltitudine di mediattivisti, a fianco, o meglio in aggiunta, al giornalismo ufficiale. Le cronache di Popolare network, Indymedia, Radio Gap, “Carta” e di tutti gli organi d’informazione vicini al movimento, nelle giornate di mobilitazione svolgono una preziosissima opera di informazione diretta, senza i filtri dei media tradizionali, e rendono anche possibile la circolazione delle informazioni in tempo reale tra gli attivisti. È una funzione che si rivela preziosa nei momenti più critici: senza, tanti altri cittadini non sarebbero riusciti a sottrarsi alle violenze della polizia. “Il manifesto” ogni giorno raccoglie testimonianze che aiutano a fare luce sui fatti: “Notte di rappresaglia”, il 23 luglio, sull’assalto alla Diaz; “La mattanza a Genova raccontata dai medici”, il 25 luglio; “Sciogliamo il reparto dei picchiatori”, il 27 luglio, sulla responsabilità del Gom (il Gruppo operativo mobile, il reparto speciale delle guardie penitenziarie) nelle torture di Bolzaneto, sono solo alcuni titoli fra i tanti che potremmo citare. Stesso importante ruolo svolge “Liberazione” che, per esempio, il 27 luglio riporta le prime dichiarazioni di alcuni funzionari di pubblica sicurezza in contrasto con il vertice del corpo. Uno di loro così racconta i rapporti con il Black Bloc: “[Gli agenti] li avevano ridotti spalle al mare nel primo caso, nel secondo in un cantiere di cui però non erano riusciti a sfondare il cancello. Hanno chiesto rinforzi: ma in entrambi i casi dal ministero è arrivato un input per non caricarli. In entrambi i casi i reparti si sono dovuti ritirare e gli accerchiati hanno potuto rientrare nel corteo: solo a quel punto i colleghi hanno avuto l’ordine per caricare a fondo”. Le redazioni di tv e giornali sono il terminale di un copioso flusso di filmati e fotografie che documentano le violenze delle forze dell’ordine, il clima di terrore creato con l’esagerato lancio di gas lacrimogeni, i vandalismi del Black Bloc. Le informazioni girano sul web, raggiungono le redazioni delle maggiori testate europee: non è possibile nascondere al mondo la scandalosa gestione dell’ordine pubblico durante il G8. Il tentativo di proporre una comoda verità preconfezionata si sgretola sotto i colpi di una comunicazione povera ma diffusa, organizzata attraverso decine di migliaia di occhi umani e digitali. Il 26 luglio anche il muro della televisione di stato comincia 207

a sgretolarsi: il Tg1 manda in onda alle 20 un filmato eloquente sulle violenze della polizia. Anche “Il Giornale” non può fare a meno di scrivere: “Ad alcuni poliziotti hanno ceduto i nervi e si sono lasciati prendere dalla rabbia. Si tratterà pure di casi isolati. Ma di abusi di quel tipo non ne doveva capitare neppure uno”. Qualcuno interviene tuttavia per bloccare la messa in onda di un altro filmato Rai Stracult 2 Speciale Bella Ciao – Social Forum. Paolo Conti sul “Corriere della Sera” lo descrive così: “Un filmato duro, visto con gli occhi, e con il cuore, di chi partecipava ai cortei”. Per i vertici Rai è troppo e Rai 2 obbedisce. Nei mesi seguenti si rivelano fondamentali, nella difficile battaglia per fare emergere la verità, due iniziative collettive: Genova. Il libro bianco realizzato dal gruppo comunicazione del Milano social forum, coordinato da Federico Mininni, tuttora un testo di riferimento per chiunque voglia ricostruire gli eventi, e il lavoro di trentatré registi, riunitisi su iniziativa di Citto Maselli nel “Cinema italiano per Genova” e accorsi nel capoluogo ligure per documentare la nascita di una speranza collettiva e trasformatisi, loro malgrado, in testimoni di una delle pagine peggiori della nostra storia repubblicana.

La politica: il centrodestra È l’ora di esaminare da vicino la condotta tenuta prima, durante e dopo il G8 dalle maggiori aggregazioni politiche. Silvio Berlusconi, tornato a Palazzo Chigi con le elezioni del maggio 2001, ha poco più di un mese di tempo per preparare il G8. La responsabilità della sicurezza è affidata al ministro dell’Interno Claudio Scajola, del medesimo partito del premier; la gestione dell’ordine pubblico è lasciata nelle mani del capo della polizia Gianni De Gennaro, nominato l’anno prima da Giuliano Amato. Il presidente del Consiglio è preoccupato soprattutto di curare la sua immagine come padrone di casa: si occupa dei vasi di fiori, chiede ai cittadini genovesi di non stendere ad asciugare le mutande, vuole fare bella figura con i potenti ospiti stranieri. Il suo principale partner politico, Gianfranco Fini, è vicepresidente del Consiglio, senza specifiche deleghe sul G8. Fini ha militato per quasi trent’anni nel Movimento sociale italiano, è stato il delfino di Giorgio Almirante, al quale è subentrato come segretario nazionale fino allo scioglimento del Msi e alla fondazione di Alleanza nazionale. Uno stretto rapporto tra settori consistenti dell’Arma dei carabinieri, una parte dei servizi segreti e il Msi, fondato nel 1946 da reduci della Repubblica sociale italiana e da ex esponenti del 208

regime fascista, è un fatto ampiamente documentato nella storia italiana del dopoguerra. I cori fascisti provenienti dagli alloggiamenti delle forze dell’ordine e le suonerie celebrative del duce sui cellulari di poliziotti e carabinieri, così come le filastrocche inneggianti a Pinochet, fatte cantare ai giovani arrestati, testimoniano quanto sia ancora radicata, almeno in alcuni reparti, l’ideologia fascista. An affronta il G8 scegliendo di rappresentare una nuova maggioranza silenziosa, sul modello degli anni settanta, ma questa volta da una posizione di forza, dalla cabina di regia. An sa di poter contare anche sulla vicinanza di alcuni sindacati di polizia e di alcuni giornali “amici”. È l’occasione tanto attesa. Berlusconi è impegnato nei colloqui ufficiali, Fini, fuori dalla “zona rossa”, svolge nei fatti un ruolo da premier. Per capire la strategia prescelta, è sufficiente ricordare la già citata dichiarazione del 28 giugno, quando aveva ipotizzato l’utilizzo a Genova “dei reparti speciali delle forze armate”. Già la sera di venerdì 20 luglio, poche ore dopo l’assassinio di Carlo Giuliani, il leader di Alleanza nazionale dichiara in televisione che il carabiniere ha sparato per “legittima difesa”, e aggiunge, durante la trasmissione Porta a porta: “Io non riesco a immaginare come si possa ritenere che quel che è accaduto oggi debba in qualche modo essere addebitato alle forze dell’ordine. [...] Non c’è stata alcuna proditoria aggressione ai manifestanti, c’è stata la violenza studiata a tavolino da gruppi criminali che hanno fatto di tutto per cercare e ottenere il morto”. Ventiquattr’ore dopo è sempre Fini a dettare la linea del governo: “L’esecutivo non ha niente da rimproverarsi, Scajola resterà al suo posto anche perché le forze dell’ordine hanno agito per legittima difesa [...] e in ogni caso sarebbe gravissimo criminalizzare l’azione delle forze dell’ordine che si sono comportate con grande senso di responsabilità”. Il vicepresidente del Consiglio trascorre gran parte di sabato 21 luglio a Forte San Giuliano, comando provinciale dei carabinieri. Filippo Ascierto, nel 2001 capogruppo di An nella Commissione difesa della Camera, accompagna Fini e motiva la visita con il desiderio del vicepresidente del Consiglio di “andare a portare il proprio saluto istituzionale alle forze dell’ordine ferite”. Per giustificarne la lunga permanenza all’interno della struttura, Ascierto spiega agli autori del documentario Fare un golpe e farla franca (Enrico Deaglio, Beppe Cremagnani, Mario Portanova), che proprio quel giorno “Forte San Giuliano fu assaltato un’altra volta; finito l’assalto sia il sottoscritto che il presidente Fini sono usciti dalla caserma e hanno ripreso la strada del ritorno”. Ma quel giorno Forte San Giuliano non subì alcun assalto. Fini non è il primo a visitare la centrale operativa dei carabinieri; il giorno precedente tre deputati – Giorgio Bornacin e lo 209

stesso Ascierto di An, oltre al leghista Federico Bricolo – si trattengono a Forte San Giuliano dalle 10-10.30 fino alle 16.30, come risulta dagli atti del Comitato parlamentare d’indagine. Filippo Ascierto è un ex maresciallo dei carabinieri; conosce il funzionamento dell’Arma, sa perfettamente quali sono i luoghi dove si esercita il comando e probabilmente, in virtù della sua collocazione, gode anche di un certo ascendente sugli ex colleghi. Ascierto non sembra consapevole della differenza istituzionale di ruoli tra un parlamentare e un dirigente dell’Arma dei carabinieri: il 5 agosto 2001, riferendosi ai manifestanti, dichiara a “la Repubblica”: “Non dormano tranquilli, perché noi li andremo a prendere uno per uno. Uno per uno!”. Il giornalista sorpreso domanda: “Andremo? Noi?”. Pronta la risposta di Ascierto: “Ho detto andremo perché mi sento ancora un carabiniere”. Perfino l’allora vicepresidente del Senato, Domenico Fisichella, anch’egli di Alleanza nazionale, afferma il 7 agosto 2001, in un’intervista a “la Repubblica”: “Quello che non trovo pertinente è che parlamentari di An, e di altre forze politiche, si trovassero nelle sale operative della questura e dei carabinieri in momenti particolarmente delicati”. Non è solo una questione di galateo istituzionale: è in gioco un principio fondamentale di separazione delle funzioni e di autonomia delle forze di polizia dal potere politico. Alcuni parlamentari dell’Ulivo, nel documento conclusivo presentato al Comitato parlamentare d’indagine, pongono esplicitamente l’interrogativo più scottante: “Non può non rilevarsi il carico di responsabilità politica che quei comportamenti assumono nei disordini di Genova e nel costruire il convincimento che in piazza, per reagire ai disordini, ci si poteva comportare secondo gli indirizzi di quel partito [cioè An] e non secondo i doveri imposti alle forze di polizia dal nostro ordinamento costituzionale”. Oggi, alla luce della minuziosa ricostruzione, avvenuta nelle aule del tribunale, di quanto accadde il 20 luglio, questi dubbi appaiono ancora più attuali. Ora, infatti, è documentato che tre deputati di centrodestra sono nella sala operativa dei carabinieri, nel preciso momento in cui il capitano Antonio Bruno, a capo di un contingente di 190 carabinieri, disobbedendo alle indicazioni della questura, anziché dirigersi verso piazza Giusti dove erano state segnalate azioni del Black Bloc, fa disporre i suoi uomini e dà l’ordine di caricare il corteo delle Tute bianche. La carica, illegittima e arbitraria contro le Tute bianche, secondo quanto scritto dalla Corte d’appello di Genova, ha rappresentato il punto di svolta del G8. E nessuno ha mai spiegato perché il capitano Bruno abbia assunto una simile decisione. Anche nei mesi immediatamente seguenti al G8 sono i rap210

presentanti di An a gestire in prima persona, nelle televisioni e nelle piazze, la campagna di criminalizzazione del Gsf. Nei dieci anni seguiti ai fatti di Genova abbiamo assistito a molteplici contorsioni politiche da parte di Gianfranco Fini, ma sul ruolo da lui svolto e sulle scelte da lui compiute durante il G8 non vi è mai stato nemmeno un accenno di autocritica. È impossibile dimenticare i suoi reiterati interventi, al momento dei rinvii a giudizio di agenti e funzionari, per rimproverare ai magistrati di avere incriminato più poliziotti che manifestanti, come se l’esercizio dell’azione giudiziaria dovesse corrispondere a criteri aritmetici. O ancora l’intervento a Genova alla “Festa democratica” del 2009, dove viene invitato grazie alla nuova veste di “oppositore interno” di Silvio Berlusconi. Come ricordavamo, in quella sede l’onorevole Fini, presidente della Camera, esprime soddisfazione per un giudizio di primo grado della Corte europea favorevole a Mario Placanica, ricevendo l’inopinato applauso dei presenti. Se An, per storia e attitudini dei suoi dirigenti, vive il G8 e le vicende seguenti con grande intensità, l’altro partner della coalizione di centrodestra, la Lega Nord, mantiene un ruolo defilato, anche per l’estraneità del partito ai rapporti con i vertici delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, dovuto al particolare retroterra storico-geografico del fenomeno leghista. Non va tuttavia taciuta la grave responsabilità di Roberto Castelli, ministro della Giustizia, sia per la scelta sia per la gestione della caserma-carcere di Bolzaneto. Quanto a Claudio Scajola, come ministro dell’Interno è il responsabile ultimo di tutta la vicenda. Durante le giornate del G8, Scajola sembra però assumere una posizione di secondo piano, tra il protagonismo di Fini e la gestione operativa del capo della polizia. Pare per esempio appurato che sia stato avvisato solo a cose fatte dell’assalto alla Diaz. Questa posizione defilata non gli impedisce di impartire indicazioni di estrema gravità, come – a suo dire – l’autorizzazione all’uso delle armi da fuoco. Dopo le manifestazioni, e di fronte alle durissime polemiche per la disastrosa gestione dell’ordine pubblico, Scajola sceglie comunque di gestire direttamente lo scontro politico al massimo livello: rivendica tutta la gestione dell’ordine pubblico e nel giro di qualche mese sostituisce Fini nelle principali iniziative pubbliche e nei dibattiti televisivi contro il movimento. Non si tratta di una semplice sostituzione tra singole persone, ma della scelta di Forza Italia e dello stesso Silvio Berlusconi di non lasciare alla sola An la titolarità della gestione del dopoGenova, in particolare nel clima creatosi con l’11 settembre.

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Il centrosinistra Una data importante, per comprendere certi equilibri istituzionali e certe scelte via via compiute, è il 31 marzo 2000. Quel giorno il governo guidato da Massimo D’Alema trasforma i carabinieri in forza armata autonoma nell’ambito del ministero della Difesa. È una decisione gravida di conseguenze, in controtendenza rispetto alla tradizione di quel riformismo democratico che aveva portato, nel 1981, alla smilitarizzazione della polizia di stato. Ma è anche una scelta, evidentemente, che qualifica la nuova indole del centrosinistra. Pochi giorni dopo la definizione del nuovo status dell’Arma, il governo D’Alema getta le premesse per il G8 che l’Italia dovrà ospitare l’anno dopo ed emana, il 5 aprile, il decreto legge numero 4566, con il quale si stabilisce che la sede dei lavori sarà la città di Genova. L’esecutivo affronta questa decisione come un atto di normale amministrazione. Gli eventi di Seattle risalgono a pochi mesi prima, ma il mondo politico italiano è lontano anni luce da una riflessione di qualche spessore sulla globalizzazione e ignora ostinatamente tutto ciò che si muove nella società italiana su quei temi. Massimo D’Alema non è più a Palazzo Chigi, sostituito da Giuliano Amato, quando a Napoli vi è la prova generale di gestione dell’ordine pubblico in vista del G8. Il 17 marzo 2001 la polizia scatena una violentissima repressione contro i manifestanti, in occasione del Global forum sull’e-government. Il ministro dell’Interno Enzo Bianco, a caldo, si complimenta con le forze dell’ordine, incurante delle denunce e delle prime ricostruzioni che documentano le scelte scellerate compiute dai responsabili dell’ordine pubblico. Un anno dopo, il 29 aprile 2002, a inchieste aperte sia sui fatti di Napoli sia su quelli di Genova, arriva a dichiarare al “Corriere della Sera”: “Stabilire una consequenzialità tra Napoli e Genova? Impossibile. La prova generale delle violenze ci fu, ma da parte dei manifestanti e non della polizia”. Passato il G8, e passato anche all’opposizione, Massimo D’Alema torna alla ribalta con un intervento parlamentare che sarà fra i più citati nei mesi e negli anni seguenti. Nel dibattito alla Camera sui fatti di Genova, definisce il blitz alla Diaz “una notte cilena”, alludendo, evidentemente, alle imprese della polizia di Pinochet. Mentre parla, la telecamera della televisione pubblica, che riprende il dibattito, si sofferma su Luciano Violante, seduto alla sua destra con le braccia ostentatamente conserte, immobile. È l’unico, fra i parlamentari del suo partito inquadrati, a non ap212

plaudire. Pare corrucciato. I suoi stretti rapporti con Gianni De Gennaro sono conosciuti, e non sembra che quanto avvenuto in quei giorni metta in discussione la saldezza della loro relazione. Un episodio, avvenuto qualche anno dopo, sarà rivelatore. È infatti sufficiente che Romano Prodi, di fronte all’avviso di garanzia a De Gennaro per istigazione alla falsa testimonianza, accenni alla possibilità di procedere a un avvicendamento ai vertici della polizia, per farlo insorgere. Il 23 giugno 2007 “La Stampa” riporta con grande evidenza le parole dell’onorevole Violante, in quel momento autorevole esponente della maggioranza di centrosinistra: “Non si licenzia così il capo della polizia”. Sandro Ruotolo, in apertura dell’intervista, spiega che “Violante è personalmente contrario” all’istituzione della Commissione d’inchiesta sui fatti del G8 di Genova, inclusa nel programma di governo del centrosinistra. “Il dottor De Gennaro,” spiega Violante al giornalista, “è il capo di un’istituzione delicatissima; non può essere delegittimato in Parlamento pena l’instabilità della polizia. [...] Da sei anni la magistratura di Genova sta indagando e non ha mai trovato nulla nei confronti del capo della polizia; adesso arriva l’avviso di garanzia per una vicenda diversa che francamente mi sembra poco credibile. Non posso immaginare che il capo della polizia dica a un questore di dichiarare il falso all’autorità giudiziaria. Mi sembra si sia trattato di un eccesso di zelo inquisitorio.” Ruotolo insiste sulle vicende genovesi: “Una pagina nera nella storia della polizia”. Pronta la risposta di Violante: “Si tratta della stessa polizia che ha arrestato Bernardo Provenzano, gli assassini di Biagi e D’Antona”. Il “teorema” di Violante è chiaro: il ruolo che De Gennaro ricopre lo pone di per sé in un’area di insindacabilità; i meriti guadagnati nella lotta alla mafia lo rendono insospettabile. Perciò l’ex magistrato divenuto politico, davanti a indagini a carico del capo della polizia, non esita a parlare di “un eccesso di zelo inquisitorio”. Del resto, in merito al G8, le certezze dell’onorevole Violante sono immediate e granitiche. Il 4 agosto 2001, mentre tutt’Italia ascolta scioccata le testimonianze delle vittime della Diaz e di Bolzaneto, dichiara all’Ansa: “Il dottor De Gennaro ha rivestito un ruolo importante nella difesa della democrazia italiana, riconosciuto in Europa e negli Usa”. Quando, nel luglio 2002, trascorso ormai un anno dai fatti, nessuno può più nascondere le violenze poliziesche, da Genova Violante dichiara: “All’interno delle forze di polizia ci sono state micro-organizzazioni sindacali che hanno puntato sull’uso della violenza nei confronti dei cittadini e queste organizzazioni alcune volte sono state coperte dal partito di Alleanza nazionale”. L’obiettivo è evidente: allontanare ogni ipotetica responsabi213

lità dai vertici della polizia; dirottare le colpe su gruppi di poliziotti esagitati coperti dalla destra. Le dichiarazioni e i comportamenti di Violante sono di fondamentale importanza non solo per capire come mai De Gennaro abbia sempre goduto, a prescindere dal proprio operato, di una forte copertura politica da parte del centrosinistra, ma anche per comprendere alcune delle difficoltà, non secondarie, che hanno dovuto superare i pm del processo Diaz. I maggiori imputati fanno parte del gruppo dirigente cresciuto e salito di grado insieme con “il capo”. È un gruppo che ha ottenuto importanti risultati professionali nella lotta alla criminalità e che gode di piena fiducia in un’area del centrosinistra che potremmo definire come una corrente di pensiero che attraversa la politica, una fetta dell’avvocatura e un pezzo della magistratura organizzata (in particolare un settore significativo della corrente Magistratura democratica). L’influenza esercitata da quest’area può spiegare perché il progetto di istituire una commissione parlamentare sia fallito e anche perché le clamorose vicende genovesi, ricche di risvolti giuridici e istituzionali, non abbiano attirato un’adeguata attenzione di studiosi e organizzazioni dei giuristi “progressisti”. La riflessione a caldo di Livio Pepino, che abbiamo più volte citato, è rimasta un caso quasi isolato. Sotto questa luce è più comprensibile anche la timidezza, per non dire altro, che ha caratterizzato la condotta del centrosinistra di fronte agli esiti dei processi genovesi. Emblematica degli imbarazzi è un’intervista a Giuliano Amato, ministro degli Interni, pubblicata da “la Repubblica” il 21 marzo 2008. Il giornalista Giuseppe D’Avanzo obietta al ministro: “Non aiuta a rimarginare la ferita di Genova la promozione dei funzionari coinvolti nelle violenze”. Amato risponde: “Prima della sentenza penale, è possibile sospendere un funzionario dal servizio soltanto se accusato di alcuni gravi reati. [...] Qui, però, davanti a reati trattati come abuso d’ufficio o violenza privata ciò è impossibile. Altro sarebbe il discorso se esistesse una norma che punisse espressamente gli atti di tortura o i comportamenti crudeli e disumani, che ritengo possano essere parificati, per gravità, alla collusione mafiosa”. Quella di Amato è una difesa a tutto campo dei dirigenti della polizia sotto accusa, ma ha una logica puramente formale e non dice nulla sulle promozioni ottenute da indagati e imputati. È un formalismo che si svela quando i giudici di primo grado del processo Bolzaneto ricordano le difficoltà incontrate per l’assenza di uno specifico reato di tortura, e quando, nella sentenza d’appello del processo Diaz, si legge che “di fronte al quadro complessivo dei reati accertati a carico degli imputati e all’entità del tradimento della fedeltà ai doveri assunti nei confronti della co214

munità civile l’incensuratezza diviene fatto assolutamente irrilevante”. A dispetto di queste parole né Amato, né alcun dirigente del centrosinistra, chiederanno sospensioni o dimissioni degli imputati, né si impegneranno per colmare il vuoto legislativo sulla tortura. D’Avanzo, nell’intervista citata, insiste: “È un fatto,” osserva, “che la permanenza di De Gennaro al vertice del dipartimento della sicurezza pubblica non abbia aiutato a scolorire le polemiche, a sciogliere il rancore che molti giovani nutrono nei confronti degli uomini in divisa, a restituire credibilità alle amministrazioni coinvolte nelle violenze di Genova”. “Il capo della polizia,” risponde Amato, “ha ritenuto di non dimettersi. Ha con fermezza detto di non essere il responsabile di quanto è accaduto. Le violenze di Genova gli sono apparse così lontane dalla sua cultura professionale, dalla sua storia di poliziotto che ha pensato di restare al suo posto, di difendere se stesso.” Amato ha parole di difesa anche per Gianfranco Fini: “Guardi, io escludo nel modo più assoluto che Gianfranco Fini, della cui presenza a Genova si è molto parlato, abbia potuto dare l’ordine di picchiare duro. Lo conosco. E so che la sua cultura è altra”. Conoscendo il retroterra politico e culturale di Fini, sarebbe interessante sapere a quale cultura Giuliano Amato facesse riferimento.

Le ragioni del blitz Perché ci fu l’assalto alla Diaz? Tutti concordano che l’operazione non solo si risolse in un fallimento, ma che, da qualunque collocazione la si osservi, non aveva alcun significato, né per la gestione dell’ordine pubblico, né per assicurare alla giustizia gli eventuali colpevoli di qualche reato. E allora perché ci fu quella “notte cilena”? Chi diede l’ordine di organizzare l’irruzione? Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, i giudici del processo d’appello hanno individuato una responsabilità precisa: l’ordine venne direttamente da Roma, per una “esplicita richiesta del capo della polizia”, spinto dalla volontà di “riscattare l’immagine del corpo e di procedere a tal fine ad arresti”. Anche per i giudici del processo De Gennaro-Mortola, scaturito dall’accusa di falsa testimonianza contro l’ex questore Francesco Colucci, De Gennaro “aveva con evidenza l’interesse a non far trapelare un suo diretto coinvolgimento nella vicenda Diaz”. Osservando i fatti da un’altra angolazione, potremmo dire che il G8 di Genova rischiava d’essere l’ultimo atto della carriera di un capo della polizia forse stimato anche a destra, ma certo nominato dal centrosinistra e quindi potenziale vittima di uno “spoil system” conseguente al cambio di maggioranza. 215

Immaginiamo di scattare un’istantanea che inquadri la situazione la sera di venerdì 20 luglio 2001. In quel momento la credibilità di Gianni De Gennaro, agli occhi del nuovo governo, è ai minimi storici. La gestione dell’ordine pubblico a Genova è stata una vera e propria Caporetto, che espone l’Italia a pesanti critiche sullo scenario internazionale. I carabinieri si sono mossi in contrasto con le indicazioni della questura, attaccando il corteo autorizzato delle Tute bianche; un carabiniere ha ucciso un ragazzo di ventiré anni; migliaia di persone sono state picchiate selvaggiamente e ferite; le drammatiche immagini delle violenze sono entrate nelle case di tutti gli italiani e hanno rapidamente fatto il giro del mondo. Nel frattempo Gianfranco Fini, il cui rapporto con il capo della polizia non è dei migliori, invoca repressione con ripetute dichiarazioni e interventi in televisione. Anche Scajola e Berlusconi quella sera sono in difficoltà. Il nuovo governo ha certo predisposto il necessario per mettere in campo un apparato repressivo senza precedenti, ma il presidente del Consiglio ha fatto di tutto per presentarsi alle potenti delegazioni straniere come un padrone di casa in grado di controllare la situazione. Un insuccesso anche per lui. E ora, con il ministro Scajola che non si muove da Roma, è il vicepremier Fini a indossare i panni del paladino di carabinieri e poliziotti; è lui a dettare le parole d’ordine: “la città messa a ferro e fuoco dai manifestanti”; “la legittima difesa del carabiniere che ha sparato uccidendo Carlo Giuliani”. Forza Italia è il partito di maggioranza della coalizione di governo, ma il suo gruppo dirigente ha poca familiarità con i vertici delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, ed è costretto a rincorrere il protagonismo di Alleanza nazionale e a gestirne, a posteriori, le conseguenze. In questo quadro, De Gennaro ha bisogno di recuperare il terreno perduto. Deve dimostrare di avere in mano la situazione e accreditarsi verso il nuovo governo, o almeno verso una sua parte, quella più potente, che può decidere il suo futuro, Forza Italia. Sabato 21 luglio i carabinieri non vengono mandati in piazza e la gestione dell’ordine pubblico è nelle mani della polizia. De Gennaro da Roma, come appurato dai processi, distribuisce incarichi e ruoli: Andreassi e il questore di Genova sono messi da parte; si passa a una gestione muscolare della piazza. I cortei sono attaccati e migliaia di pacifici manifestanti massacrati di botte. Si decide di procedere a un congruo numero di arresti e la giornata procede con arresti immotivati fino al tragico epilogo della Diaz, un’operazione fallimentare che però permette, almeno a livello mediatico, di presentare il Gsf come un’organizzazione che è tutt’uno con i gruppi violenti. 216

Dopo quella notte De Gennaro diventa inamovibile. Anche il centrodestra, a quel punto, è pronto a difendere e coprire politicamente il vertice della polizia, insieme con le forze dell’ordine nel loro insieme, messe sotto accusa da una parte dell’opinione pubblica e in procinto d’essere indagate dalla magistratura. Si tratta di fare quadrato e di offrire un’immagine di fermezza. Fini e An sono obbligati a compiere più di un passo indietro. Il “capo” e i suoi fedelissimi non vengono rimossi e anzi occuperanno via via ruoli di potere sempre maggiore. Lo stesso De Gennaro passerà alla guida di un nuovo organismo, deputato a coordinare tutti i servizi segreti. A questo punto è lui l’uomo forte degli apparati, potente conoscitore di molti dei segreti italiani, con saldi legami oltreoceano. È ormai sostenuto e temuto dai politici di ogni schieramento e non ha più ostacoli sul suo cammino, se non le inchieste e le sentenze della magistratura...

Forze dell’ordine Le vicende genovesi riportano in primo piano un tema rimasto in ombra nei quindici-venti anni precedenti: la cultura delle forze dell’ordine, la loro affidabilità democratica. Negli anni sessanta e settanta la natura e i compiti di esercito, carabinieri e polizia erano argomenti di primario interesse politico, in una logica di apertura e di riforma. Vi era nella società, e all’interno dei corpi, una spinta verso la democratizzazione. L’impegno sindacale clandestino di molti poliziotti e la riforma del 1981, che smilitarizza la polizia di stato, sono i momenti più alti di quella stagione. I fatti del 2001, all’improvviso, fanno capire che non conosciamo più le nostre forze dell’ordine. Che sta accadendo all’interno della polizia? Che cosa sappiamo davvero dei carabinieri? Come si spiegano gli slogan fascisti, le violenze gratuite contro cittadini inermi, la furia dei picchiatori alla Diaz, la pratica della tortura a Bolzaneto? Livio Pepino, nel 2001, riflette: “L’essenza dello stato di diritto sta nella sua capacità di opporre alla violenza il rispetto delle regole; ed è nei momenti difficili che si misura la solidità delle istituzioni e il livello di democraticità degli apparati”. Francesco Forleo, questore, fondatore del Siulp, il primo sindacato di polizia, confessa in un’intervista a “la Repubblica” del 15 agosto 2001 il suo tormento: “Mi danno l’anima per capire come è possibile che vent’anni di battaglie e riforme della polizia si siano macchiati in tre giorni”. Il contrasto stridente fra queste due affermazioni racchiude il fallimento dei nostri apparati di sicurezza e della nostra polizia. Pestaggi indiscriminati su manifestanti pacifici; torture, minac217

ce e umiliazioni su persone arrestate e private della loro libertà; uso immotivato delle armi da fuoco; stesura di falsi verbali d’arresto e di perquisizione; costruzione di prove false, rifiuto di collaborare con la magistratura; false deposizioni in tribunale e istigazione alla falsa testimonianza di un sottoposto; inquinamento e distruzione delle prove processuali; tentativi di intimidire i pubblici ministeri; uso improprio di strumenti come le perquisizioni ex articolo 41 Tulps, i fogli di via e le espulsioni; uso improprio dei tonfa e degli strumenti di ordinanza a propria disposizione; uso illegale, come denunciato dalla Fnsi, delle pettorine da giornalista per infiltrarsi nei cortei. L’elenco delle infrazioni e dei reati contestati alle forze dell’ordine nei giorni di Genova è impressionante. Andrebbero inoltre aggiunti i reati di apologia di fascismo, razzismo e antisemitismo per tutti coloro che hanno obbligato i cittadini arrestati a inneggiare al duce, a cantare inni neofascisti, a fare il saluto romano e a declamare filastrocche contro gli ebrei. La diffusione di questi comportamenti, tutti accertati nelle aule giudiziarie, rende impossibile parlare di poche mele marce all’interno di un’istituzione sana. Il documentato coinvolgimento dei massimi vertici della polizia in gran parte dei comportamenti descritti e la loro condanna in tribunale non permettono di rivolgersi a loro affinché provvedano a ristabilire un clima più civile e dignitoso. Essi sono i primi a essere incompatibili con il ruolo che ricoprono. D’altronde i comportamenti sono espressione della cultura di ciascuno: sotto questo profilo lasciano il segno conversazioni come quella registrata sulle frequenze del 113 il 21 luglio 2001. È un brano venuto alla luce nel processo contro i 25 cittadini accusati di devastazione e saccheggio. Gli interlocutori sono poliziotti, l’agente indicata con la sigla CO è una donna. R: “Iiihh... Ho visto tutti ’sti balordi, queste zecche del cazzo... Comunque...”. CO: “Speriamo che muoiano tutti”. R: “Eh eh eh, simpatica simpatica...”. CO: “Amica, amica, tanto uno già... Va be’ e gli altri... Uno a zero per noi, eh”. Il riferimento, evidentemente, è all’uccisione di Carlo Giuliani. Da più parti si è cercato di giustificare simili parole collocandole in un momento di grande stress psicologico. Ma il tenore dei discorsi non cambia se diamo un’occhiata a Doppia Vela, uno spazio intranet che la polizia di stato ha messo a disposizione dei poliziotti. Gli agenti possono collegarsi quando vogliono, con calma e senza stress. Ecco qualche brano, tratto dal libro di Carlo Bonini Acab (Einaudi, 2009). Cominciamo dai “refrain” che alcuni dei poliziotti più assidui intercalano nei loro interventi: “Sicut Nox Silentes. Credere, obbedire, combattere”; “Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di 218

essere uomo. Barcollo ma non mollo”; “L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino”. Sono espressioni che già offrono un’impressione del clima culturale della chat. F. da Roma spiega cosa significhi essere un poliziotto: “Il Reparto è un credo, una fede, per il quale sei disposto a sacrificare la tua vita. Il Reparto è odore di lacrimogeni misto a saliva, sangue, fango. Il Reparto è sensazione di onnipotenza, incoscienza, virilità, paura. Il Reparto è onore, forza, cameratismo. Il nemico che si prepara ad attaccare, [...] il cuore comincia a pompare sempre più forte. [...] Scariche di adrenalina si susseguono acutizzando i sensi. [...] Lo scontro diventa fisico. Un turbinio di emozioni ti pervade. Colpi dati, colpi presi. [...] E in quel frangente stai godendo di tutto ciò!!! In quel momento, e solo in quel momento, potrai capire di amare il lavoro che stai facendo, la missione. Perché tale è l’istinto del guerriero che contraddistingue il celerino dal resto”. La prosa richiama la retorica e la mistica fascista. Non è una voce isolata, e potremmo continuare con gli esempi presi da Doppia Vela, ma c’è un altro documento, stavolta pubblico, che merita d’essere preso in considerazione. Ecco un passaggio del testo: “Lasciamo tutte queste persone nei loro passamontagna e con i loro bastoni, diamogli l’illusione di aver vinto e facciamogli vedere che alla lunga saremo noi a vincere e potremo guardare loro negli occhi non con odio, ma con la serena consapevolezza della nostra INNOCENZA. Coraggio ragazzi, il vostro comandante vi è vicino e ancora indossa il casco insieme a voi. Ancora non ci hanno messo a terra”. È la conclusione della “lettera ai ragazzi del VII nucleo” scritta da Vincenzo Canterini e pubblicata da “la Repubblica” il 15 novembre 2008. Vincenzo Canterini, il suo vice Fournier e il gruppo dei capisquadra sono stati appena condannati in tribunale e in questo modo il comandante si rivolge ai suoi uomini. Parla di passamontagna e bastoni, ma nella notte della Diaz gli unici ad avere il volto coperto e un manganello in mano erano i poliziotti, inclusi quelli del VII nucleo, i primi a entrare nella scuola. Il tono e le modalità di gestione del proclama sono molto più consoni a un capomanipolo d’altri tempi, che a un dirigente di polizia di uno stato democratico. Ma Vincenzo Canterini, evidentemente, sa di potersi permettere questo e forse non solo questo. D’altronde anche lui figura nell’elenco dei dirigenti che hanno ottenuto promozioni nonostante la condizione di indagato. Il suo caso, più di altri, ha fatto scalpore, per la contestazione avvenuta in Parlamento, su iniziativa del senatore Gigi Malabarba, supportato da decine di parlamentari del centrosinistra. Nel giugno 2005 Malabarba contesta le promozioni di Canterini e Alessandro Perugini e avanza obiezioni circostanziate: “Vin219

cenzo Canterini e Alessandro Perugini,” scrive il senatore in un’interpellanza del 30 giugno, “sono stati promossi il 13 giugno scorso. [...] Si tratta di 13 funzionari promossi alla qualifica di dirigente superiore e di 60 alla qualifica di primo dirigente. [...] Il sottosegretario ci dirà probabilmente che tali promozioni sono rituali: si danno ogni anno e costituiscono atto discrezionale da parte del consiglio di amministrazione per il personale della polizia di stato. Già, ma la discrezionalità nella scelta è, in questo caso, fatto estremamente grave. [...] Il dottor Canterini è stato rinviato a giudizio dinanzi al tribunale di Genova, insieme ad altri 28 funzionari della polizia di stato, per concorso nei reati di falso ideologico, calunnia e lesioni personali aggravate per i fatti avvenuti la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, in occasione del vertice G8, presso l’istituto scolastico Diaz-Pertini. [...] Il dottor Canterini [...] credo sia l’unico che in quegli anni abbia rivendicato l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del G8, perché non voleva passare come l’unico imputato. Infatti, in un’intervista a ‘il manifesto’ del 16 gennaio 2003, diceva che: ‘La catena di comando era fatta di papaveroni. Io cosa c’entro in tutto quello che hanno deciso? In polizia contano i gradi e alla Diaz c’erano pezzi da novanta. Tutti o quasi provenienti dal mondo delle squadre mobili, dal mondo del capo della polizia Gianni De Gennaro... E i capi si mantenevano in contatto con Roma, prima, durante e dopo. Perché devo pagare solamente io?’”. “Dopo un certo lasso di tempo, la promozione del dottor Canterini,” prosegue Malabarba, “può essere interpretata come una sorta di ricompensa per la sua scelta di non procedere oltre nelle accuse ai suoi superiori e agli stessi vertici della polizia.” Contro l’interpellanza di Malabarba si pronunciano non solo i parlamentari di maggioranza, ma gli stessi sindacati di polizia.

Sindacalismo in declino Ecco un altro tema importante, quando si parla di cultura delle forze dell’ordine. La nascita del Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia) nel 1981 è il punto di arrivo di un decennio di lotte condotte dal Movimento per la smilitarizzazione, la riforma e la sindacalizzazione del corpo delle guardie di pubblica sicurezza, in stretto rapporto con Cgil-Cisl-Uil e con le organizzazioni della società civile democratica. A trent’anni di distanza il panorama sindacale è completamente cambiato. La rappresentanza si è frammentata, sono spuntati molti piccoli sindacati, per lo più corporativi, e il Siulp ha subìto varie scissioni. Lo spirito innovatore e democratico della riforma del 1981 si è perso per strada. Perciò la reazione del sindacalismo di polizia ai fatti di Genova è nell’insieme debole e am220

bigua. Oltretutto, a complicare le cose, c’è la presenza nelle vicende genovesi, e in un ruolo delicato, di un fresco ex dirigente sindacale come Roberto Sgalla, segretario generale del Siulp fra il 1992 e il 1996, poi fra i promotori della nascita del Silp-Cgil (1999), prima di diventare, nel 2000, portavoce nazionale della polizia di stato. Rita Parisi, segretaria provinciale del Siulp a Bologna, nel 2001 è fra le voci più ferme nella condanna delle violenze di polizia a Genova. Ricorda oggi: “Prima di Genova tra i poliziotti c’era un clima di tensione e preoccupazione, anche per le continue e allarmistiche notizie sulle intenzioni dei manifestanti. E i piccoli sindacati hanno usato il dopo Genova come un’occasione per aumentare il proprio consenso. Il messaggio usato era ‘i No global sono pericolosi e io ti difendo facendoti vedere quanto sono pericolosi’. Noi cercammo invece un rapporto diretto con il Social forum bolognese. E dopo il G8 denunciammo con il Gsf l’uso del gas CS, di cui anche i poliziotti erano stati vittime”. Nel Siulp, del resto, convivono posizioni assai diverse fra loro. A caldo, per una Rita Parisi che non esita a criticare la gestione delle forze dell’ordine, c’è un vertice nazionale che il 22 luglio 2001 emette un comunicato nel quale si esprime “un fermo e sentito ringraziamento agli esponenti del Governo che [...] hanno espresso la loro solidarietà ai poliziotti impegnati a Genova, al ministro dell’Interno e al capo della polizia. [...] Il Siulp esprime solidarietà al collega dell’Arma dei carabinieri, indagato perché costretto a una difesa più che legittima”. A meno di un mese dalla conclusione del G8, nell’agosto del 2001, Claudio Giardullo, segretario del Silp-Cgil, chiede un incontro a una delegazione del Gsf con l’obiettivo di “ricomporre una cesura pericolosa per tutta la società civile”. È un importante atto di apertura. L’incontro avviene nella sede sindacale. Al termine il segretario genovese del Silp Aldo Tarascio afferma: “Genova non ha rappresentato un incidente di percorso, ma una linea di demarcazione. A vent’anni dalla smilitarizzazione del corpo di polizia, la parola d’ordine ‘prevenzione’ è stata sostituita da un altro imperativo: ‘repressione’. E così la polizia si è trasformata da organo dello stato in organo del governo. O meglio, di uno o due partiti del governo”. Qualche giorno dopo, il 30 agosto, Giardullo in un’intervista risponde così a una domanda sul blitz notturno alla Diaz: “Ho come tutti molte perplessità sulle modalità di esecuzione e aspetto gli accertamenti dell’indagine che è in corso anche su questo specifico episodio. Sarebbe sbagliato, però, generalizzare nel giudizio sulle forze dell’ordine, che complessivamente si sono comportate in modo professionale, come ha riconosciuto anche il capo dello stato”. Perplessità, attesa degli accertamenti... Il 30 agosto le immagini delle persone massacrate alla Diaz e le notizie 221

delle torture di Bolzaneto hanno già fatto il giro del mondo, ma nemmeno Giardullo riesce a dire qualcosa di più. La sezione bolognese del Siulp e la segreteria nazionale del Silp esprimono il punto più avanzato nelle posizioni espresse dal sindacalismo di polizia sui fatti di Genova. Restano voci minoritarie e nel corso del tempo scoloriscono, prevaricate da posizioni corporative e di rifiuto di ogni dialogo. Resta così consegnato alla cronaca e alla storia del movimento, senza altri frutti duraturi, il coraggioso confronto organizzato a Genova, nel primo anniversario del G8, dalla rivista “Altreconomia” e dall’associazione Peacelink, nel solco della lezione nonviolenta. A Palazzo San Giorgio, il 14 luglio 2002, un gruppo di vittime dell’assalto alla scuola Diaz si mette a confronto pubblicamente con alcuni sindacalisti di polizia. È un dialogo difficile, per la breve distanza dai fatti e il grande carico di comprensibili tensioni. L’incontro mostra tuttavia che uno spazio aperto c’è: esiste in seno alla polizia una componente fortemente ancorata alla cultura democratica. Il suo peso e la sua efficacia sono però in flessione e i fatti di Genova sono un’arma a doppio taglio. Da un lato provano l’esistenza di un grave deficit culturale e professionale da colmare, dall’altro offrono l’occasione per un’ulteriore chiusura corporativa. Il dialogo del 14 luglio tiene aperta un’opportunità, che sarà però sprecata. Troppo timidi i sindacati di polizia nel denunciare gli abusi, nello schierarsi contro le promozioni dei dirigenti indagati a Genova, nel percepire le manovre in corso contro la magistratura. Sull’importante capitolo delle promozioni Rita Parisi ha un’opinione precisa, come spiega agli autori di questo libro: “Le promozioni fanno parte di un disegno di autodifesa dei vertici, dopo le forti accuse alla polizia. Va tenuto presente che una parte del giudizio sulle promozioni dipende direttamente dal capo della polizia, compresa la nomina a ‘primo dirigente’. Inoltre,” prosegue Parisi, “i funzionari, dal primo dirigente in su, non sono inquadrati nel contratto nazionale del comparto, per cui il loro rapporto di lavoro non può essere gestito dal sindacato. La loro progressione di stipendio dipende automaticamente dal governo. La mancata contrattualizzazione della dirigenza evidenzia la precisa volontà politica di limitare e contenere la penetrazione del sindacato all’interno della categoria. Allo stesso modo un poliziotto pensionato non può iscriversi al sindacato. Se fosse invece permesso, non solo avremmo maggiori risorse economiche, ma disporremmo anche di persone del tutto autonome dai giudizi dei vertici per le carriere”. Alla fine emerge una debolezza strutturale del sindacalismo di polizia, che appare disgregato, relegato a un ruolo marginale, 222

e con deboli connessioni con la società civile. Così, non sorprende più di tanto che il 12 agosto 2010 le segreterie provinciali genovesi di Silp e Sap (un sindacato politicamente vicino alla destra) emettano un comunicato congiunto di protesta contro un intervento, pubblicato da alcuni giornali, intitolato “I poliziotti del G8 hanno disonorato e tradito l’Italia”. Il comunicato dei due sindacati è una lunga difesa della categoria che ripropone la tesi delle mele marce, pur evitando questa esplicita locuzione. A loro risponde con una lettera aperta Carlo Gubitosa, giornalista e autore del libro Genova nome per nome (Altreconomia-Berti-Terre di Mezzo, 2003): “Come mai il Sap ha promosso sin dal 2001 una raccolta fondi per difendere i poliziotti accusati e successivamente condannati per abusi e violenze nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto? [...] Come mai entrambi i sindacati in questione sono sempre e da sempre avversi a ogni proposta di legge per l’introduzione di un codice identificativo su caschi e divise, come avviene in molti altri paesi europei? Questo aiuterebbe all’individuazione dei responsabili di abusi evitando che si faccia di tutta l’erba un fascio”. Le domande di Gubitosa sono pertinenti ma restano senza risposta. Lo stesso Silp sulla vicenda genovese non è mai andato oltre l’apertura di un’importante ma generica riflessione culturale. La denuncia degli errori nella gestione dell’ordine pubblico non si è mai trasformata nella denuncia circostanziata delle responsabilità dei vertici della polizia. Il muro di omertà che ha protetto i numerosissimi atti di violenza compiuti da poliziotti non è stato infranto. Gli appelli dei pubblici ministeri alle forze dell’ordine per una collaborazione fattiva nella ricostruzione della verità non hanno trovato alcuna risposta da parte delle organizzazioni sindacali; le proteste di fronte alle promozioni di indagati e condannati sono state flebili e non hanno coinvolto le promozioni dei massimi dirigenti. In più occasioni è sembrata manifestarsi una subalternità a Gianni De Gennaro e al gruppo dirigente raccolto attorno a lui.

La nuova filosofia di ordine pubblico La denuncia degli errori di gestione della piazza e la ricostruzione di un rapporto con la società civile sono destinate a rimanere senza conseguenze se alla fine prevale una difesa corporativa. Spiega Rita Parisi: “Nella polizia si pone sicuramente una questione culturale. Quando il Siap, qui a Bologna, produsse delle magliette con la scritta ‘G8 c’ero anch’io’ e l’immagine di un poliziotto con lo scudo inginocchiato sopra un manifestante, noi chiedemmo alla questura di intervenire, se non altro per una que223

stione di buonsenso, ma i vertici della questura sostennero di non poter far niente, se non ledendo l’autonomia di un’altra sigla sindacale. È un piccolo episodio, forse, ma importante, perché fa capire qual è il clima culturale all’interno della polizia. La responsabilità di questa situazione è anche dei vertici dell’amministrazione. Per esempio Doppia Vela, la rete intranet, è stata pensata per separare i poliziotti dagli altri cittadini: parlano sul web e non altrove. Doppia Vela è una caserma virtuale. In più sei controllato, e rischi sanzioni disciplinari se parli male del dirigente”. Lo svuotamento della riforma del 1981 passa anche attraverso i nuovi criteri di selezione del personale. Oggi l’ingresso in polizia è riservato a chi ha prestato servizio volontario nelle forze armate. È una forma di rimilitarizzazione della polizia di stato, introdotta nel 2004. “Per me,” commenta Rita Parisi, “è un aspetto molto negativo: la gestione dell’ordine pubblico non ha nulla a che vedere con la guerra. In aggiunta, un reclutamento così pone una grossa ipoteca culturale: la polizia non riesce più ad aggregare i nuovi assunti attorno a una visione democratica di se stessa. Una nuova identità viene imposta dall’alto.” A queste trasformazioni strutturali corrisponde un cambiamento nella concezione dell’ordine pubblico. Donatella Della Porta, sociologa, autrice con Herbert Reiter di uno dei pochi libri (Polizia e protesta, il Mulino, 2004) dedicati alla storia sociale della polizia, nella consulenza preparata per conto del collegio difensivo nel processo genovese contro i 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio, descrive due diversi modelli di controllo dell’ordine pubblico: “Nel primo, chiamiamolo ‘escalation nell’uso della forza’, viene data bassa priorità al diritto di manifestazione, le forme di protesta più innovative sono poco tollerate, la comunicazione tra polizia e dimostranti è ridotta all’essenziale, vi è un uso frequente dei mezzi coercitivi e anche di strumenti illegali, come gli agenti provocatori; nel secondo, definiamolo ‘controllo negoziato’, il diritto di manifestare pacificamente è considerato prioritario, forme anche dirompenti di protesta vengono tollerate, la comunicazione fra manifestanti e polizia viene considerata come fondamentale per un’evoluzione pacifica della protesta, si evita il più possibile l’utilizzo di mezzi coercitivi puntando alla selettività degli interventi”. Soppiantato per un lungo periodo dalla logica del dialogo, il primo modello è tornato in auge proprio nel luglio 2001. È un’analisi condivisa da Livio Pepino, che dichiara agli autori di questo libro: “In Italia uscivamo da un periodo avviato con il compromesso storico e che potremmo chiamare di ‘gestione contrattata’ della piazza. È una fase politica criticata e criticabile per altre questioni, ma che sull’ordine pubblico aveva garantito una sostanziale tranquillità. Nei due decenni pre224

cedenti ai fatti di Genova non vi erano stati, tranne rare eccezioni, scontri di piazza significativi e l’ordine pubblico era stato garantito attraverso trattative (pur faticose) tra apparati di polizia e manifestanti”. “Il salto di qualità,” continua l’ex magistrato, “inizia nella fase preparatoria del G8 e nella strategia mediatica che la caratterizza, creando un clima di allarme e paura diffusi; poi, in piazza, si assiste a un cambiamento profondo di strategia con il passaggio da una gestione concordata a una gestione autoritaria e antagonista dell’ordine pubblico (in maniera generalizzata e non solo con riferimento ai fatti più gravi). In breve, si abbandona l’idea della mediazione, del confronto fra polizia e protesta.” Secondo Pepino le ragioni di questa trasformazione, che investe il rapporto fra cittadini e istituzioni e tocca la qualità concreta della nostra democrazia, stanno nell’avvento di un nuovo clima politico generale. “Siamo passati, nell’arco di pochi anni, dallo stato sociale allo stato penale. Nella nuova logica le tensioni non vanno ‘assorbite’ ma ‘sradicate’ e la mediazione lascia il posto all’inasprimento del conflitto. Le conseguenze sono verificabili anche guardando al numero di detenuti, passati dai 23.000 nel 1990 ai 70.000 di oggi, senza che sia aumentato il numero dei reati. L’irrigidimento della risposta istituzionale, poi, si salda e si completa con le campagne mediatiche sulla sicurezza e con la retorica della tolleranza zero, mentre il tessuto sociale complessivo perde sempre più i soggetti un tempo capaci di mediare i conflitti, a partire dai grandi partiti di massa e dai sindacati.” Ecco un altro dei nodi politici e culturali emersi prepotentemente con le giornate di Genova ancora in attesa di risposte adeguate.

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Foto di Michel Spingler © AP/La Presse

7. Altermondialisti, per forza

La seconda superpotenza mondiale Centodieci milioni di persone; mai nella storia del genere umano tanta gente ha manifestato contemporaneamente per lo stesso obiettivo. Il 15 febbraio 2003 una marea umana da oriente a occidente accompagna il tragitto del sole; una sola la parola d’ordine declinata in tutte le lingue del pianeta: “No alla guerra, senza se e senza ma”. Quando in Europa è ancora notte iniziano a riempirsi le strade dell’Oceania, da Sydney a Melbourne; poi è la volta del continente asiatico: dal Giappone all’India è un brulicare di cortei e sit-in, principalmente davanti ad ambasciate e consolati statunitensi. Le più grandi manifestazioni, oltre a quelle svoltesi in Iraq, sono a Giacarta, più di 100.000 persone, a Damasco con 200.000 partecipanti e a Manila con oltre 10.000 presenze. Poi il testimone passa all’Africa, dall’Egitto al Sudafrica, e quindi all’Europa: un milione di partecipanti a Madrid e altrettanti a Barcellona, 250.000 a Siviglia, un milione e mezzo a Londra. Iniziative si svolgono a Salonicco, Atene, Varsavia, Parigi e in tutto il continente, da Dublino a Istanbul, da Stoccolma a Lione, da Lisbona a Mosca. E mentre in Australia la giornata volge al termine, i cortei riempiono le strade di tutto il Cono Sud, da Santiago a Montevideo, da San Paolo a Rio de Janeiro, dove organizzano una sorta di “Carnevale contro la guerra”. Non restano ai margini i pacifisti nordamericani: a Montréal sono oltre 150.000, a Toronto 80.000, a Vancouver 30.000; manifestazioni ovunque negli Stati Uniti: da Los Angeles a Seattle, da Minneapolis a Philadelphia, da San Francisco a New York, dove un sit-in di mezzo milione di 227

persone staziona per ore nel centro della città completamente circondato da poliziotti. Ma la manifestazione più imponente è quella di Roma, tre milioni di persone, la più grande che la capitale abbia mai accolto. L’appello alla mobilitazione mondiale era stato lanciato proprio dal movimento italiano il 9 novembre 2002 da Firenze, al termine di un enorme corteo, il più grande mai visto nel capoluogo toscano, a conclusione del primo Forum sociale europeo, durato cinque giorni, con delegati di 105 paesi. Il “New York Times”, all’indomani delle mobilitazioni, definisce il movimento pacifista la “seconda superpotenza mondiale”. È il momento di più alta visibilità e forse di maggiore forza per il “popolo” che ha attraversato Seattle, Porto Alegre, Genova...

L’impatto dell’11 settembre Gli eventi del luglio 2001 hanno assegnato al movimento italiano un ruolo di leadership internazionale nel Forum sociale mondiale. E proprio l’11 settembre 2001 Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace, e Vittorio Agnoletto sono appena giunti a Porto Alegre: sono i due portavoce scelti per presentare il secondo Forum, che si svolgerà nella città brasiliana nel gennaio 2002. La notizia dell’attacco terroristico alle Torri gemelle arriva improvvisa, poco prima dell’ora fissata per la conferenza stampa. Il piccolo gruppo, composto dai due portavoce e alcuni protagonisti del Forum, è sotto shock. Nella stanza d’albergo le facce sono tese, immobili, rivolte allo schermo della televisione. Ci sono i dirigenti della Cut, il più grande sindacato brasiliano, dei Sem Terra, i leader dei movimenti sociali più importanti dell’America Latina e dell’Europa. Sono a Porto Alegre per una riunione politica, prevista dopo la conferenza stampa. Nelle attese generali, è una giornata di impegno e anche di allegria, sulla scia di un movimento in impetuosa espansione. Pochi secondi e tutto è cambiato. All’angoscia per il dramma umano che si sta consumando a New York subito si unisce, nella mente e nelle parole dei presenti, la consapevolezza della tragedia collettiva che presto avvolgerà i movimenti sociali di tutto il mondo. È chiaro a tutti che da quel momento chiunque oserà opporsi alle scelte politiche dominanti sarà considerato un traditore dell’Occidente. L’accusa di essere fiancheggiatori del terrorismo è dietro la porta. Il rischio che le garanzie democratiche e le libertà individuali e collettive siano ridotte è in quel frangente quasi una certezza. 228

Fino a quel giorno, all’alba del nuovo millennio, sullo scenario mondiale si confrontavano a distanza il movimento antiliberista, raccolto idealmente attorno al Forum sociale mondiale, e le istituzioni finanziarie internazionali, sotto la leadership statunitense. Era un confronto politico e culturale, che pareva destinato a dominare la scena negli anni a venire. Con gli attacchi alle Torri gemelle e al Pentagono tutto cambia. Lo scontro fra il terrorismo integralista islamico, da un lato, e l’Occidente sotto la guida dell’amministrazione Bush, dall’altro, è il nuovo punto d’equilibrio della geopolitica mondiale. Il supposto “scontro di civiltà” s’impone nel discorso pubblico. La lotta al terrorismo è nel Dna del movimento, che viene però travolto dalla nuova retorica di guerra. Gli spazi di intervento sociale e politico si riducono enormemente: la logica manichea, con noi o contro di noi, prende il sopravvento. Si apre così una nuova fase, nella quale la pratica della diplomazia dal basso, come strategia per prevenire e fermare i conflitti e costruire reti di solidarietà tra i popoli, è messa davvero alla prova. Nell’ottobre del 2001 una delegazione italiana vola a New York per portare la solidarietà del movimento ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime. Alla fine di marzo del 2002 le diverse anime del movimento italiano, dai Disobbedienti a Lilliput all’Arci, organizzano un’interposizione pacifica in Palestina: decine di attivisti diventano scudi umani per difendere la popolazione civile, gli ospedali e alcuni campi profughi circondati dall’esercito israeliano. In quel momento è necessario tenere accesi i riflettori sul dramma palestinese, ritardare il precipitare dell’azione militare israeliana, guadagnare tempo nella speranza di un’iniziativa diplomatica dell’Unione europea. Ai primi di aprile, rispondendo all’appello di Action for Peace, parte un’ulteriore delegazione della quale fanno parte anche Luciana Castellina, il segretario della Fiom Claudio Sabattini e Vittorio Agnoletto. Ma in Palestina non arriveranno mai; giunti alle quattro di notte all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, vengono privati dei loro passaporti, trattenuti per ore e quindi reimbarcati con la forza. Luciana Castellina stesa sul pavimento viene trascinata per tutta la sala dell’aeroporto, Marco Revelli è per terra in una stanza, la stessa dove quattro poliziotti aggrediscono con pugni e calci Vittorio Agnoletto. Verranno spediti ad Atene, in dispregio di ogni convenzione internazionale e nel silenzio assoluto del governo italiano. Ma la diplomazia dal basso non si ferma e dall’1 al 6 dicembre 2002 l’organizzazione umanitaria Un ponte per Baghdad organizza una missione nella capitale irachena con una delegazione di attivisti delle associazioni italiane e alcuni parlamentari. L’obiettivo è quello di ritardare l’inizio della guerra annunciata dagli Usa attraverso la presenza a Baghdad di de229

legazioni della società civile provenienti da differenti paesi che da anni collaborano in progetti di sviluppo con comunità locali irachene. La delegazione italiana ha un ulteriore obiettivo: da settimane a Fiumicino è fermo un aereo, messo a disposizione da alcuni premi Nobel, contenente quattro tonnellate di farmaci raccolti da Un ponte per Baghdad, un aiuto essenziale in un paese dove l’embargo sta provocando, con la carenza di cibo e farmaci, una vera e propria strage tra la popolazione civile. Fabio Alberti di Un ponte per Baghdad, don Albino Bizzotto di Beati i costruttori di pace, Vittorio Agnoletto e i parlamentari Paolo Cento e Titti De Simone occupano a oltranza l’ambasciata italiana nella capitale irachena finché il governo italiano non autorizza il decollo dell’aereo. Una vittoria umanitaria ottenuta attraverso un’azione diretta in una situazione preconflitto. In questo clima di tensioni e di guerra imminente, le reti sociali internazionali organizzano il primo Forum sociale europeo, che si svolge a Firenze dal 6 al 10 novembre 2002. L’evento è preceduto e accompagnato da una fortissima campagna di stampa che paventa violenza e distruzione. Fra tutti, si distingue per la virulenza degli attacchi, pubblicati dal “Corriere della Sera”, la giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, fiorentina d’origine. Nonostante gli allarmismi, il Forum è un grande successo per qualità e quantità della partecipazione. Senza Black Bloc e con la polizia che mantiene le distanze e segue le manifestazioni con discrezione, il grande corteo conclusivo nelle strade della città è un’onda pacifica e multicolore che guadagna, per un momento, la scena pubblica nazionale. Ma pochi mesi dopo, il 20 marzo 2003, una coalizione internazionale a guida statunitense darà l’avvio all’invasione dell’Iraq: la “seconda superpotenza mondiale” non è riuscita a fermare la guerra.

L’infanzia brasiliana del movimento La crescita del movimento altermondialista, nella sua fase nascente, è impetuosa e coinvolge tutti i continenti. Il secondo e il terzo Forum si svolgono ancora a Porto Alegre; nel 2002 vi partecipa anche il filosofo e linguista nordamericano Noam Chomsky, uno dei simboli dell’opposizione alla guerra all’Iraq. Nel 2003 partecipano più di 80.000 persone e Lula tiene uno dei suoi primi interventi da presidente del Brasile in un clima di grande esaltazione: la sua vittoria elettorale è percepita come la vittoria dei movimenti sociali sudamericani e di tutto il Forum. Le idee discusse e sviluppate a Porto Alegre, è l’opinione corrente, hanno 230

ora l’opportunità di trasformarsi in realtà in uno dei più grandi paesi del mondo. Lula ha partecipato al Forum sociale internazionale fin dalla prima edizione nel 2001 e appena eletto presidente ha voluto incontrare il Consiglio internazionale del Forum, giungendo a indicare l’Fsm come “il fatto politico più importante della nostra epoca”. Questa vicinanza non diventerà tuttavia una piena adesione del movimento alle scelte compiute da Lula nel corso della sua presidenza. I movimenti sociali, fin dall’inizio, segnano una propria autonomia dal nuovo inquilino del Planalto di Brasilia (il palazzo presidenziale), contestando per esempio la decisione di Lula di recarsi a Davos, all’incontro tra banchieri, imprenditori e capi di stato che si tiene all’inizio di ogni anno nella cittadina svizzera, proprio nel 2003 immediatamente dopo Porto Alegre. Il grande salto per il Forum avviene nel 2004. Un soggetto che ambisce a definirsi mondiale non può rimanere patrimonio dei movimenti latinoamericani ed europei, è necessario uscire dall’egemonia della cultura occidentale. L’appuntamento è quindi nel continente asiatico, in India.

L’adolescenza indiana Mumbai accoglie gli attivisti di tutto il mondo con il suo brulicare infinito di persone. Una massa multicolore transita instancabilmente nei viali del Goregaon con cortei improvvisati, canti e danze. Partecipano al Forum organizzazioni e sindacati indiani che rappresentano milioni di attivisti: le loro voci raccontano conflitti sociali di vastissime dimensioni – del tutto ignorati dai mass media occidentali – che sono parte integrante del percorso che ha condotto l’India all’attuale collocazione sulla scena mondiale. I dalit, gli “intoccabili”, coloro che all’interno del sistema delle caste occupano la posizione più bassa e miserabile, partecipano numerosi al Forum. I mezzi di comunicazione di tutto il mondo, per una volta, parlano di loro e li intervistano. Le loro organizzazioni escono allo scoperto, acquistano visibilità, diventano una presenza dalla quale non sarà più possibile prescindere. Quello indiano è un Forum che parla al femminile. Tantissime donne raccontano le loro esperienze, alcune sono leader di importanti movimenti sociali. Una di queste è Medha Patkar, leader del Narmada Bachao Andolan (Save the Narmada), fondato nel 1986 con l’obiettivo di informare, attraverso mezzi pacifici e nonviolenti, sul disastro ecologico e sulla condizione dei poveri nella regione. La sua opposizione al Narmada Valley Project l’ha tra231

sformata in uno dei simboli della lotta contro la privatizzazione dell’acqua. Anche Arundhati Roy entusiasma il Forum. L’autrice del romanzo Il dio delle piccole cose, vincitore del prestigioso premio Booker nel 1997, sostiene che le grandi manifestazioni del 15 febbraio 2003 non sono state inutili, ma che ora è necessario proseguire la mobilitazione. “Io suggerisco di scegliere due delle maggiori aziende che stanno accumulando profitti dalla distruzione dell’Iraq,” dice durante il Forum. “Noi potremmo individuare i loro uffici in ogni città e in ogni nazione del mondo. Noi potremmo andare lì e tirarli giù. Il progetto di un nuovo secolo americano cerca di perpetuare l’ingiustizia e di stabilire l’egemonia americana a ogni costo, anche se ciò può produrre un’apocalisse. Il Forum sociale mondiale chiede giustizia e sopravvivenza. Per queste ragioni dobbiamo considerare noi stessi in guerra.” Il linguaggio è quello metaforico della donna di cultura, ma il messaggio è chiaro: ognuno, in qualunque luogo della Terra, deve assumersi le proprie responsabilità.

I riti di passaggio “Andate in tutto il mondo e proclamate il messaggio di Porto Alegre a ogni creatura”: così potremmo sintetizzare il messaggio lanciato dalla città brasiliana, dove il Forum torna nel 2005 dopo il successo di Mumbai. D’ora in poi l’Fsm diventerà biennale e si alternerà a forum continentali e tematici con il compito di organizzare vertenze specifiche a dimensione regionale; il Forum mondiale continuerà a garantire uno spazio per un confronto aperto dove potenziare la capacità di elaborazione del movimento. Bamako, Caracas, Karachi e Atene ospitano i forum regionali tra gennaio e marzo del 2006. “Pensare a un’altra Africa è possibile, svincolandosi dalle catene dei potenti, lottando per un mercato dal volto umano capace di imporre democrazia e diritti come presupposti fondamentali”: così Aminata Traoré, una delle voci più ascoltate nella denuncia dei tragici effetti prodotti dal neoliberismo e dal neocolonialismo in Africa, riassume l’obiettivo del Forum di Bamako. A Caracas è un Forum di forte spessore politico. Le trasformazioni in atto in America Latina si muovono spesso nella direzione indicata dai movimenti sociali, con significative conquiste, quali l’inserimento dell’acqua come bene pubblico nella Costituzione dell’Uruguay. Complesso e dialettico è il rapporto che si sviluppa con il governo di Hugo Chávez, presidente del Venezuela. Gran parte del 232

movimento ne condivide le politiche sociali: la lotta alla povertà, alla fame e per il diritto alla salute. Ma il Forum è estremamente geloso della propria autonomia e rivendica la sua indipendenza da qualunque governo. Un vero e proprio miracolo è il Forum a Karachi, con delegazioni dei movimenti pakistani e indiani che discutono insieme in una situazione di grande tensione, con il palpabile rischio di attentati per le ripercussioni del vicino conflitto afghano. Il messaggio del Forum è chiaro: un movimento globale per un mondo senza confini. Diverso è il clima ad Atene. Dal Forum di Firenze sono ormai trascorsi più di tre anni e vi sono stati gli appuntamenti europei di Parigi e di Londra. La difficoltà principale, nel Vecchio continente, è riuscire a mantenere il coinvolgimento di una rete ampia di realtà sociali senza che la partecipazione si riduca alle organizzazioni sindacali e agli attivisti delle varie formazioni della sinistra politica. Una difficoltà che si presenterà amplificata nel 2008 a Malmö e nel 2010 a Istanbul.

L’età adulta africana “Non abbiamo bisogno della beneficenza, bensì di una nuova cultura della cooperazione. Per questo, come voi europei, anche noi africani stiamo chiedendo ai nostri governi di rispettare gli impegni presi verso il Fondo globale per la lotta all’Aids, alla Tbc e alla malaria”: Olayide Akanni, segretaria della African Civil Society Coalition on Hiv/Aids, motiva così la sua adesione all’appello lanciato il 24 gennaio 2007 dal Fsm di Nairobi, e rivolto ai governi e ai vertici del Wto affinché siano modificate le regole degli accordi Trips (Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) sui diritti di proprietà intellettuale che garantiscono per vent’anni alle multinazionali farmaceutiche il monopolio nella produzione di farmaci. Una richiesta specifica è indirizzata all’Italia perché rispetti gli accordi con il Fondo globale e versi i 260 milioni di euro corrispondenti alle quote del 2006 e del 2007. Padre Alex Zanotelli, che a Nairobi ha passato una dozzina d’anni tra le persone sieropositive dello slum di Korogocho, definisce tale situazione “inammissibile in particolar modo per un governo [il governo Prodi] che intenda dare un segnale forte rispetto a una mutata politica di solidarietà internazionale”. Delle 60.000 persone che partecipano alla marcia di apertura del Forum dallo slum di Kibera al centro di Nairobi, almeno 15.000 sono sieropositive. L’Aids minaccia il futuro del continente. Un futuro che rischia di essere fortemente condizionato anche dagli Epa, gli Accordi di partenariato economico che l’Unio233

ne europea vuole imporre all’Africa su spinta del Wto. Gli Epa obbligherebbero gli africani a rinunciare a qualsiasi forma di protezione dei propri prodotti anche cancellando i dazi doganali, che per molti paesi costituiscono fino al 30-40 per cento del proprio Prodotto interno lordo (Pil). Una ricerca dell’Agenzia per lo sviluppo dell’Onu stima che il Burundi, per esempio, perderebbe 19 milioni di dollari, l’equivalente del 3 per cento del proprio Pil e il Kenya circa 350 milioni in un solo anno. L’Unione europea intanto continua a garantire centinaia di miliardi di dollari come sussidi ai grandi produttori agricoli europei per sostenere l’esportazione dei loro prodotti. L’attivismo di movimenti sociali africani come Roppa (la Rete delle organizzazioni contadine e dei produttori agricoli dell’Africa occidentale) ha contribuito a bloccare, per ora, l’approvazione degli Epa e ad aprire un profondo confronto con le organizzazioni non governative europee. È posta radicalmente in discussione una cooperazione che, per quanto responsabile e qualificata, spesso riproduce strategie puramente solidaristiche, lasciando in secondo piano l’impegno per la giustizia. Non raramente le Ong europee e nordamericane evitano di scontrarsi con i governi e con le agenzie internazionali nel timore di trovarsi tagliati, da un giorno all’altro, i propri finanziamenti. Ma in tal modo l’ingiustizia si prolunga, come le rispettive condizioni di eterni assistiti ed eterni samaritani. José Luiz Del Roio, membro del Consiglio internazionale del Forum sociale mondiale, allarga il discorso e sostiene che il quadro geopolitico sta cambiando più velocemente di quanto lo stesso Forum percepisca. “L’influenza neocoloniale europea è in declino,” sostiene, “e nuove forze si presentano, a cominciare da Cina, Brasile, India. È un quadro nuovo e complesso. Il Forum trova difficoltà ad analizzare questa situazione. Tuttavia le decine di forum realizzati nel mondo sono serviti da scuola per creare nuovi quadri e hanno agevolato in modo consistente le relazioni tra movimenti di diverse aree africane, nonostante distanze enormi, mancanza di mezzi e soprattutto di comunicazioni terrestri, marittime e aeree. Anche nel mondo arabo la realtà dei forum si è mostrata molto utile nel mettere in contatto fra loro i movimenti che lottano contro i governi autocratici, proimperialisti e patriarcali. Questo processo continua a essere attivo.”

La maturità latinoamericana Il 26 gennaio 2008 si realizzano migliaia di iniziative in ogni angolo della Terra che, grazie all’impegno del collettivo di mediattivisti Focuspuller (www.wsftv.net), sono trasmesse ovunque via satellite. Per la prima volta dal 2001 si realizza un forum iti234

nerante in tempo reale: dibattiti, cortei, azioni dirette dipingono un movimento vitale. La scelta di non realizzare un forum nel 2008, ma di lanciare la Giornata di azione globale permette a milioni di persone, impossibilitate a trasferirsi da un capo all’altro del pianeta, di essere protagoniste, ma rischia di far scivolare il movimento ai margini della scena politica mondiale, in una società mediatica alla ricerca del grande evento. Passa un anno, siamo al gennaio 2009, e il Forum si sposta di nuovo in Brasile, ma a Belém, in Amazzonia. È la nona edizione del grande appuntamento dei movimenti sociali. In quello stesso mese di gennaio, in un solo giorno sono ottantamila, senza contare l’indotto, gli esuberi annunciati dalle grandi corporation di Europa, Stati Uniti e Giappone, fra cui Caterpillar, Corus, Ing, Philips, Pfizer, General Motors. E mentre a Davos, nel tradizionale incontro dei “globalizzatori”, l’impegno è teso a salvare la pelle agli azionisti milionari, all’Universidade do Estado do Pará a Belém si tiene un dibattito davvero unico. Allo stesso tavolo siedono un militare, un vescovo, un indio e un “Chicago boy” con un master in Scienze dell’economia all’Urbana-Champaign, la prestigiosa università dell’Illinois. Formano un quartetto che nessuna sfera magica avrebbe potuto prevedere. Uno accanto all’altro siedono quattro capi di stato – Hugo Chávez (Venezuela), Fernando Lugo (Paraguay), Evo Morales (Bolivia) e Rafael Correa (Ecuador) – che si confrontano con i movimenti latinoamericani. Correa descrive il progetto di una macchina statale al servizio della dignità umana, alimentata dalla partecipazione dei cittadini, capace di produrre giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza, parità fra i generi, protezione delle culture indigene e tutela dell’ambiente. Con una differenza sostanziale rispetto al socialismo tradizionale: l’idea di sviluppo. Il socialismo classico, spiega Correa, ha fallito perché ha condiviso con il capitalismo la stessa idea di sviluppo e ha finito per sposare e attuare le stesse logiche di sfruttamento di risorse naturali e umane. Il socialismo del Ventunesimo secolo è diverso: è umanista, ambientalista e nonviolento. Il suo paese, spiega ancora Correa, non estrarrà il petrolio dal sottosuolo del parco Yasuni perché non intende distruggere le foreste dell’Amazzonia, che non sono proprietà dell’Ecuador ma patrimonio dell’umanità intera. È una concezione rivoluzionaria. Per i quattro presidenti le priorità riguardano precisi aspetti istituzionali: l’affermazione del Banco del Sur come banca centrale regionale, l’insediamento del Fondo del Sur nella prospettiva di sostituire il Fondo monetario internazionale e garantire in modo indipendente la stabilità finanziaria dell’area. È l’an235

nuncio della nascita di istituzioni che per genesi, obiettivi e governance si pongono all’opposto della Banca centrale europea, che nel Vecchio continente ha seguito un analogo percorso di superamento delle istituzioni finanziarie nazionali. Su scala globale la priorità è attribuita alla lotta ai paradisi fiscali, al rilancio di strumenti simili alla Tobin Tax per porre un freno alle transazioni finanziarie speculative, al risarcimento del debito ecologico accumulato dal Nord del mondo verso il Sud. Su scala locale i quattro presidenti annunciano politiche comuni su infrastrutture, energia e comunicazione fondate sulla sovranità alimentare, la filiera corta, la tutela dell’ambiente e il sostegno ai ceti più poveri. Sul momento le loro parole sono accolte con applausi e sventolio di bandiere. Ma João Pedro Stedile, leader storico dei Sem Terra, prende la parola e riporta ognuno al ruolo che gli compete: “Noi siamo felici della vostra elezione, condividiamo il progetto a medio-lungo termine rappresentato dal socialismo del Ventunesimo secolo, ma la crisi è oggi e noi soffriamo ora, non possiamo aspettare. Ci serve un programma pratico per domani, non per la fine del secolo. E chiediamo: la nazionalizzazione delle banche; una moneta regionale; un nuovo modello economico che non si potrà ancora chiamare socialismo ma che almeno risponda ai bisogni primari delle persone. Su questo vi misureremo e su questo i movimenti sociali nella loro piena autonomia di azione si muoveranno”. È un intervento che non cede alla devozione verso leader politici comunque stimati. Nessuno fra i leader dei grandi partiti socialisti, socialdemocratici o semplicemente democratici europei è presente a Belém. Pronti ad accorrere a Porto Alegre, fra il 2001 e il 2003, quando tutti i riflettori erano accesi, hanno poi preferito alzare bandiera bianca. Tutti scomparsi. In Amazzonia movimenti e governi discutono di come costruire un’alternativa alla crisi provocata dal neoliberismo; in Europa i leader del centrosinistra discutono su come rilanciare il sistema in crisi. In mezzo c’è un oceano, l’Atlantico, ed è una distanza sia fisica sia metaforica fra due diverse idee di sviluppo e di relazione con la Terra.

Da Porto Alegre a Il Cairo Nel febbraio 2011 il Forum si sposta in Senegal e quasi coincide con le rivolte popolari in Tunisia ed Egitto. Con il Nord Africa in ebollizione, il senso dell’incontro di Dakar è riassumibile in uno slogan: “Da Porto Alegre a Il Cairo”. La rivoluzione egiziana e quella tunisina non sono solo grandi movimenti di massa contro regimi autoritari. Per capire che cosa accade a Tunisi e al Cairo lo sguardo va rivolto verso Chicago, al Commodity 236

Stock Exchange, la Borsa mondiale dei prodotti agricoli. Dalle manovre speculative che si sviluppano attorno a quest’istituzione, sconosciuta ai più, nasce la fame che spinge alla rivolta milioni di persone. Un’opposizione intellettuale in Tunisia esiste da tempo, spiega durante il Forum un rappresentante del sindacato scrittori, e coinvolge soprattutto giornalisti, avvocati e giudici, fortemente repressi dal regime nel silenzio dell’Unione europea. “La ricchezza complessiva nei nostri paesi è aumentata, ma non vi è stata nessuna redistribuzione,” spiegano a Dakar alcuni attivisti dei movimenti sociali maghrebini. “Anzi, le differenze tra una minoranza ricca e la povertà di gran parte della popolazione è aumentata; il debito estero prodotto dalle politiche della Banca mondiale, dai piani di aggiustamento strutturale del Fondo monetario, dagli accordi commerciali imposti dall’Unione europea, dalle imposizioni dell’Organizzazione mondiale del commercio sono le cause principali dell’aumento dei costi dei beni primari, che è la causa determinante della rivolta.” Sono proprio queste le conseguenze della globalizzazione liberista previste dal movimento altermondialista fin dal primo Forum di Porto Alegre. La ribellione nel Nord Africa investe il dominio liberista, oltre che il dittatore di turno. Dietro le rivolte c’è anche il grande lavoro realizzato dai tanti gruppi nordafricani che hanno condiviso il percorso del Forum fin dal principio e che hanno partecipato agli incontri regionali nel Mashrek e nel Maghreb. Sono almeno sessantamila, forse di più, le persone che attraversano le vie di Dakar alla manifestazione di apertura del Forum sociale mondiale. La cosa più sorprendente è la presenza di delegazioni provenienti da moltissimi paesi africani, che vedono nel Forum un “ombrello” in grado di garantire una sorta di protezione e di visibilità alle proprie lotte. Tanta è la strada percorsa dal Forum di Nairobi del 2007. Nelle giornate senegalesi il Forum ritrova le sue ragioni profonde: la capacità di connettere tra loro le lotte che si realizzano da una parte all’altra del pianeta, senza limitarsi a una generica solidarietà, ma rintracciando sempre un comune denominatore politico. L’impegno dei Sem Terra in America Latina per la sovranità alimentare si salda con le lotte delle associazioni contadine africane contro gli Epa (gli Accordi di partenariato economico voluti dall’Ue) e le monoculture, e con le vertenze dei movimenti europei contro gli Ogm. “Siamo di fronte a una crisi di sovrapproduzione di capitali finanziari oltre che di merci; le riserve di prodotti finanziari della Banca d’America sono ampiamente superiori al Pil mondiale annuale. Con operazioni speculative sul terreno finanziario la Banca centrale europea, attraverso le ban237

che spagnole, può destabilizzare il sistema bancario latinoamericano con rischi di forti ricadute sul sistema sociale di quel continente,” così a Dakar Pedro Páez, ex ministro della Politica economica nel governo Correa in Ecuador, attualizza la storica denuncia del movimento sui rischi sociali di una sempre più crescente finanziarizzazione dell’economia. Páez oggi è presidente di una commissione che ha il compito di ridisegnare tutta l’architettura finanziaria del continente latinoamericano per renderlo autonomo da Banca mondiale e Fondo monetario internazionale. L’asse sud/sud a Dakar è una realtà. I movimenti africani guardano con estrema attenzione all’America Latina e sempre meno verso l’Europa. Grandi consensi riceve Evo Morales: il presidente boliviano ha ampliato la nozione di beni comuni, inserendovi, oltre all’acqua e alla terra, anche le materie prime e le fonti energetiche da nazionalizzare. “Ma la nazionalizzazione,” ammonisce nel suo intervento al Forum, “non dev’essere utilizzata per perseguire un modello di sviluppo simile a quello occidentale. Il miglioramento delle condizioni di vita della nostra gente deve essere compatibile con la conservazione del pianeta e con la garanzia di un futuro per le prossime generazioni.” A Dakar molti sono gli emigrati africani rientrati per il Forum, provenienti dall’Europa e anche dall’Italia. Costoro rappresentano per tutti una risorsa importantissima: vivono a cavallo di due mondi, di due culture, a cavallo di una tragedia dalla quale sono fuggiti e di un paradiso dimostratosi spesso solo un’illusione di una fantasia disperata. Una soggettività e una ricchezza culturale della quale vi sarà sempre maggior necessità nel prossimo futuro. Il Forum, massima espressione del percorso del movimento antiliberista, dopo dieci anni si conferma come uno dei pochissimi luoghi in cui è possibile analizzare la realtà globale ed elaborare alternative praticabili sullo scenario mondiale. Sono trascorsi pochi giorni dalla conclusione del Forum di Dakar quando la rivolta coinvolge altri paesi: Giordania, Yemen, Algeria, Bahrein, Gibuti e Libia, in particolare nella regione di Bengasi. In Libia le principali ragioni delle proteste non sono economiche, il reddito pro capite è molto superiore a quello dei paesi confinanti. È la richiesta di democrazia e di libertà ad animare i giovani che scendono in strada contro il regime di Gheddafi. Nella rivolta confluiscono, e assumono una posizione di rilievo, anche storiche contrapposizioni tra le popolazioni delle diverse regioni del paese. Lotta per la democrazia e guerra civile costituiscono un groviglio difficile da districare. 238

La repressione si scatena in vari paesi, vi sono diversi morti in Yemen, in Bahrein e in Libia. Quest’ultima non è una nazione qualunque: è il primo paese africano, davanti alla Nigeria e all’Algeria, per la presenza di petrolio nel sottosuolo. Molti stati europei, con l’Italia in prima fila, pur di assicurarsi vantaggiosi contratti e facilitazioni negli investimenti, non si sono mai posti alcun problema nel sostenere e armare Gheddafi; non solo non hanno battuto ciglio di fronte alla repressione interna, ma hanno affidato al suo regime, in cambio di ampi finanziamenti, il compito di bloccare i flussi migratori diretti in Europa. Migliaia di migranti sono stati rinchiusi nelle galere libiche e in veri e propri lager in mezzo al deserto. Di loro non si è mai saputo più nulla. L’11 marzo 2011, in seguito a un terribile terremoto seguito da uno tsunami, si verifica la tragedia nucleare di Fukushima in Giappone. Il controllo sulle risorse petrolifere e sul gas assume un’importanza strategica sempre maggiore. Il 17 marzo il Consiglio di sicurezza dell’Onu discute della Libia e approva la risoluzione 1973 che chiede un immediato cessate il fuoco, istituisce una “no-fly zone”, pone al primo posto la difesa dei civili escludendo qualsiasi azione che comporti la presenza sul territorio libico di una “forza occupante”. Nessun provvedimento viene assunto verso gli altri paesi coinvolti nelle rivolte e in sanguinose repressioni. Si forma una coalizione internazionale con la presenza degli Usa e di diversi paesi europei, compresa l’Italia, ma non della Germania, che si schiera per la ricerca di una soluzione pacifica. Il 19 marzo i caccia francesi eseguono il primo bombardamento su territorio libico. Inizia così la partecipazione occidentale a un’altra “guerra umanitaria”, a un’altra guerra per il petrolio. Il 31 marzo, su invito del Forum sociale maghrebino, una delegazione dei movimenti europei parte per il confine tra Tunisia e Libia. L’obiettivo è rafforzare i legami con i movimenti sociali del Nord Africa e discutere come rilanciare una campagna contro la guerra e per la ricerca di una soluzione pacifica.

Cassandra Torniamo a Genova, al luglio 2001, all’intervento di Walden Bello, il sociologo fondatore di Focus on the Global South. “La crisi,” dice nello spazio dibattiti allestito sul lungomare della città, a Punta Vagno, “è relativa al capitalismo e alla sua tendenza a trasformare ogni risorsa in un prodotto da vendere, un sistema antitetico all’interesse della biosfera. La crisi dei cambiamenti climatici si è acuita drasticamente e questa contrapposizione tra 239

economia capitalista ed ecologia è risultata evidente quando gli Stati Uniti, curando solo il sistema produttivo interno, non hanno firmato il Protocollo di Kyoto.” Walden Bello anticipa dinamiche che saranno ben evidenti negli anni seguenti, ma le sue parole, sul momento, restano inascoltate. La folle corsa liberista, dopo il G8 di Genova, è proseguita con la sua scia di morte e devastazione. Nel 2002 alluvioni in Germania, Repubblica Ceca e Polonia: decine di morti, migliaia di senzatetto; dicembre 2004, maremoto nell’Oceano Indiano: centinaia di migliaia di morti; luglio 2005, India, stato di Maharashtra, pesanti piogge: oltre 750 vittime; giugno 2005, Canada, alcune delle maggiori aree metropolitane sommerse dall’acqua: 72 morti; agosto 2005, l’uragano Katrina si abbatte su Bahamas, Cuba, Florida, Louisiana, Mississippi, Alabama: circa 1900 vittime; luglio 2006, tsunami sulle coste di Giava: 547 morti e 233 feriti; settembre 2009, tsunami sulle Isole Samoa: oltre 100 vittime; ottobre 2010, tsunami sull’Indonesia, oltre 300 morti... I dieci anni più caldi nella storia dell’umanità si sono verificati dal 1998 a oggi. La maggiore autorità mondiale in fatto di cambiamenti climatici, l’Ipcc – Intergovernmental Panel on Climate Change, istituito dalle Nazioni Unite nel 1988, premiato con il Nobel per la pace nel 2007 – nel suo quarto Rapporto di valutazione, diffuso proprio nell’anno del Nobel, è categorico nell’indicare le prove dirette della crescita delle temperature: l’aumento medio del livello del mare su scala globale, il ritiro dei ghiacciai, l’estremizzarsi delle precipitazioni in alcune aree, la desertificazione di altre aree del pianeta. Ancora Walden Bello a Genova nel luglio 2001: “Il sistema produttivo non produce più ricchezza. Entriamo in una grave fase di recessione economica. È una crisi di sovrapproduzione; gran parte dei profitti e dei capitali si è mossa dal settore reale a quello finanziario. In poche settimane, a Wall Street, oltre 4,6 trilioni di dollari sono stati bruciati. Il settore finanziario non è in grado di stabilizzare il capitalismo”. Parole semplici, ancorate ai fatti, premonitrici della drammatica crisi che solo qualche anno più tardi sconvolgerà il mondo. Nel 2006 il 30 per cento delle operazioni sui mercati finanziari era eseguito da algoritmi di computer senza alcun intervento umano. Nel 2009 queste operazioni, che si concludono spesso in millesimi di secondo e che non hanno alcun rapporto con l’economia reale, sono aumentate al 60 per cento del totale. L’importexport di beni e servizi nel mondo è stimato intorno ai 15.000 miliardi di dollari l’anno. Il mercato delle valute ha superato i 4000 miliardi al giorno: circolano più soldi in quattro giorni sui mercati finanziari che in un anno nell’economia reale, come dire che oltre il 90 per cento degli scambi valutari è pura speculazione. La finanziarizzazione dell’economia, priva di qualunque regola, non 240

è solo una delle cause principali dell’attuale crisi mondiale, ma ha anche favorito il rafforzamento delle economie illegali. La criminalità organizzata, non raramente, ha accumulato un potere ben maggiore di quello di singoli paesi. Le Borse dettano legge e non poche nazioni, anche in Europa, gareggiano per ospitare i paradisi fiscali. I confini tra economia legale, illegale e illecita sono sempre meno evidenti. “L’establishment teme che la crisi di legittimità si trasformi in un declino di egemonia, che la mancanza di credibilità metta in discussione la capacità di governo. È la grande sfida che i dirigenti politici ed economici vedono nel nostro movimento e che stanno cercando di evitare in ogni modo. Ed è anche la ragione per cui assistiamo ai loro sforzi di dipingerci come persone ignoranti e violente”: Walden Bello nel 2001 vedeva lontano.

Il mondo dieci anni dopo I limitati miglioramenti delle condizioni di vita globali sul pianeta sono principalmente dovuti alla diminuzione delle condizioni di estrema povertà in Cina, India e Brasile, paesi che raccolgono circa il 40 per cento della popolazione mondiale. L’Africa subsahariana non raggiungerà entro il 2015 gli Obiettivi del millennio stabiliti dalle Nazioni Unite. Gli affamati, oggi, sono 925 milioni. I paesi con malnutrizione a livelli “estremamente allarmanti” o “allarmanti”, secondo i dati del Global Hunger Index (Indice globale della fame), sono ventinove. La maggior parte di essi sono nell’Africa sub-sahariana e in Asia meridionale. Non sono state intaccate le cause strutturali della fame: decenni di investimenti insufficienti nell’agricoltura e politiche commerciali ingiuste hanno indebolito la capacità dei piccoli coltivatori di produrre, rendendo i poveri nei cosiddetti paesi in via di sviluppo (Pvs, nel gergo delle istituzioni internazionali) particolarmente vulnerabili all’insicurezza alimentare. L’aumento del prezzo del cibo ha messo in evidenza la fragilità di un sistema alimentare mondiale soggetto all’estrema volatilità delle quotazioni. Un’altra crisi dei prezzi delle derrate alimentari potrebbe ripetersi, poiché le cause strutturali sono ancora presenti: incentivi agli agrocarburanti, speculazioni sui mercati delle materie prime, una domanda crescente di carne ed energia da parte dei paesi emergenti e una produttività agricola stagnante, soprattutto nell’Africa sub-sahariana. Nella prima metà del 2008 in soli tre mesi il costo del riso sui mercati globali è aumentato del 59 per cento, quello del grano del 61 per cento. Il Fondo monetario internazionale ha grandi responsabilità: attraverso i suoi piani di aggiustamento strutturale impone un’agricoltura finalizzata all’esportazione, privilegiando le monoculture a discapito dell’agricoltura familiare e della filiera cor241

ta. Il mercato agricolo mondiale è nelle mani di otto multinazionali occidentali che sono in grado di determinare i prezzi anche attraverso il controllo del Commodity Stock Exchange di Chicago, la Borsa dei prodotti agricoli più importante del mondo. Gli speculatori traggono guadagni impressionanti. La Cargill nel 2008 ha aumentato i suoi profitti dell’86 per cento in un anno, portandoli a 1,03 miliardi di dollari. I più alti tassi di mortalità infantile si registrano ancora nell’Africa sub-sahariana, dove, dati del 2008, un bambino su sette muore prima del quinto compleanno. In tutto il mondo 884 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile e 2,6 miliardi di persone non hanno accesso a servizi sanitari di base, come bagni e latrine. Il numero assoluto degli abitanti delle baraccopoli continua a salire: oggi sono 828 milioni, rispetto ai 767 milioni nel 2000. Nel frattempo l’aiuto ufficiale allo sviluppo è pari allo 0,31 per cento del reddito complessivo nazionale dei paesi più ricchi, ancora lontano dallo 0,7 per cento, obiettivo indicato dalle Nazioni Unite. Solo cinque paesi donatori hanno raggiunto o superato l’obiettivo (l’Italia è l’ultimo fra i paesi dell’area Ocse). Nell’ottobre 2008 i governi della zona euro hanno deciso di stanziare 1700 miliardi per sostenere le banche, messe a rischio dalla crisi finanziaria globale; nello stesso anno, nell’arco di pochi mesi, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha perso un terzo dei suoi finanziamenti, passando da 6 a 4 miliardi di dollari, a causa dei tagli ai finanziamenti da parte dei paesi più industrializzati. La crisi è dura, morde pesantemente anche in regioni del mondo che fino a qualche anno fa si sentivano sicure o al massimo pensavano di dover sopportare qualche isolata sacca di povertà. I Sud si moltiplicano anche nei Nord. Due sono gli indicatori cresciuti vertiginosamente in questi dieci anni: le spese militari e il numero dei migranti. Nel 2010 le spese militari globali hanno raggiunto 1500 miliardi di dollari con un aumento di circa il 50 per cento rispetto al 2000. L’Italia spende oltre 23 miliardi di euro e si colloca all’ottavo posto nel mondo e, nonostante ciò, si è impegnata ad acquistare 131 nuovi cacciabombardieri F35 per un ulteriore costo complessivo di 13 miliardi. Secondo i dati della Iom (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni) i migranti internazionali sono cresciuti anch’essi, in dieci anni, poco meno del 50 per cento, passando dai 150 milioni del 2000 ai 214 milioni di oggi, pari al 3,1 per cento della popolazione mondiale e costituirebbero oggi la quinta nazione più popolosa del mondo. A Genova, con la manifestazione del 19 luglio, la figura del migrante emergeva come il paradigma di questa fase del liberi242

smo. Milioni di persone si spostavano da un continente all’altro, come manodopera a buon mercato. Ma le democrazie occidentali non parevano pronte a riconoscere a questi lavoratori gli stessi diritti conquistati nel tempo dai lavoratori autoctoni. È una contraddizione che nel frattempo è esplosa. Il movimento dei movimenti, nel 2001, non aveva sbagliato valutazione.

Non tutto è perduto Il Forum sociale mondiale, nel corso degli anni, ha dato una lettura del sistema economico dominante che ha spinto i movimenti a contrastare il distacco dei mercati finanziari dall’economia reale e la delocalizzazione selvaggia della produzione, rivendicando il diritto-dovere d’intervento con un ruolo regolatore delle istituzioni elette democraticamente (da riformare, queste ultime, in un’ottica di partecipazione dal basso). All’estremo opposto, le leadership dell’economia e della politica internazionale hanno esaltato la capacità di autoregolazione del mercato e la necessità di liberarlo dai “lacciuoli” dello stato. La crisi finanziaria globale, scoppiata nel 2008, ha messo a nudo tutti i limiti di questa impostazione ultraliberista. Oggi più di un capo di governo propone una Financial Transaction Tax (Ftt), che altro non è che una versione aggiornata della Tobin Tax, proposta a Porto Alegre nel 2001, snobbata e derisa sul momento, recuperata quando i fatti hanno dato ragione a chi la proponeva. Per evitare il crollo del sistema finanziario e il congelamento del mercato del credito, che rischiano di coinvolgere l’insieme delle attività economiche, oggi le stesse istituzioni sovranazionali chiedono ai tanto vituperati stati nazionali di risanare le banche mandate in crisi dagli speculatori, usando denaro pubblico, mentre un senatore americano parla di “socialismo finanziario”. E non mostrano alcuna vergogna nello stravolgere le regole che fino a ieri avevano presentato come dogmi di fede. In aggiunta non c’è commentatore politico che non esprima la sua condanna contro la straripante finanziarizzazione. Ma dove sono stati in questi anni? Perché non hanno prestato ascolto a chi indicava i rischi di così vistose distorsioni? Oggi il quadro complessivo dell’economia globale non permette più di ignorare il punto di vista che nel Forum mondiale ha sempre avuto un ruolo centrale. È necessario abbandonare il paradigma della crescita come ipotetico indicatore di benessere; l’aumento del Pil di per sé nulla dice sulle reali condizioni di vita di una popolazione. Ci sono dei vincoli indipendenti dalla volontà umana: le risorse non sono infinite, la biosfera non è immodificabile ed è necessario tutelarla. Oggi sappiamo che alla re243

sponsabilità sociale verso il presente dobbiamo aggiungere una responsabilità altrettanto forte verso le generazioni future. Se la generazione sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale è cresciuta con la consapevolezza di avere per la prima volta nelle mani uno strumento – l’atomica – in grado di distruggere il pianeta, le attuali generazioni devono essere coscienti che la vita umana può essere cancellata come conseguenza dei cambiamenti ambientali provocati dall’attuale modello di vita. Sotto questo profilo, è molto preziosa l’esperienza del piccolo Ecuador, perché ribalta di centottanta gradi le regole dell’economia e del commercio internazionali. Correa chiede 3,6 miliardi di dollari per lasciare il petrolio dov’è, nel sottosuolo del parco Yasuni in Amazzonia. Novecento milioni di barili di petrolio non saranno estratti; in cambio, stati nazionali, aziende e singoli cittadini possono acquistare certificati di garanzia, incassabili senza interessi nel caso in cui l’Ecuador cominciasse a sfruttare i giacimenti. In tal modo 400 milioni di tonnellate di anidride carbonica non vengono riversate nell’atmosfera, viene salvata la biodiversità di un’area in cui un solo ettaro di foresta possiede più qualità di piante che tutti gli Stati Uniti e il Canada insieme, e viene salvaguardata la vita delle popolazioni indigene residenti. È un patto per il futuro, un gesto di solidarietà collettiva promosso da uno stato sovrano. Nell’effervescente America Latina di questi anni, spiccano i profondi cambiamenti avvenuti in Bolivia, il paese con la più larga diffusione della povertà e dell’esclusione sociale. Cochabamba, città di seicentomila abitanti, capoluogo dell’omonimo dipartimento, è teatro nel 2000 di una protesta popolare che fa conoscere il suo nome in tutto il mondo: da allora è la città della “rivolta per l’acqua”. All’origine c’è l’arrivo di Aguas del Tunari, filiale della multinazionale inglese International Water Limited, che si era aggiudicata poco prima, a un costo irrisorio, la gestione dell’acqua potabile della città. Fra i primi interventi del nuovo gestore c’è l’aumento del prezzo dell’acqua per i cittadini privati. Migliaia di persone, impossibilitate a pagare, si trovano costrette a dissetarsi con acqua inquinata proveniente da pozzi e ruscelli. Una pratica che fa aumentare il numero di bambini morti per dissenteria. Comincia a montare la protesta che sfocia presto in grandi manifestazioni, guidate da una Coordinadora de defensa del agua y la vida, formata da sindacati, comitati di quartiere, gruppi ecologisti, singoli cittadini. Il governo non esita a schierare l’esercito. Dopo duri scontri, costati la vita a sei persone, la Coordinadora vince la sua battaglia e il governo è costretto a revocare la privatizzazione. La “guerra dell’acqua” è il preludio del terremoto politico de244

gli anni successivi, che porterà a un evento di straordinaria portata politica e simbolica: l’elezione alla presidenza del primo indio nella storia del paese, Evo Morales, già leader sindacale dei raccoglitori di coca. Con l’avvento di Morales le politiche neoliberiste vengono accantonate. Il nuovo presidente riporta sotto il controllo pubblico le risorse minerarie e agricole, il petrolio e il gas. Per continuare a estrarre le ricchezze della Bolivia, le multinazionali occidentali devono firmare nuovi accordi. Sull’onda del nuovo clima politico e in contrasto con l’Alca – l’Accordo di libero commercio delle Americhe sostenuto dagli Usa – viene lanciata l’Alba, l’Alleanza bolivariana delle Americhe. Mentre il primo risponde agli interessi del capitale transnazionale, la seconda pone al centro dell’azione la lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, puntando all’integrazione latinoamericana, antico sogno del grande rivoluzionario Simón Bolívar. Lanciata nel 2004 da Venezuela e Cuba, oggi l’Alba comprende anche Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Repubblica Dominicana, Saint Vincent e Grenadine, Antigua e Barbuda. In molte delle scelte compiute in questi anni in Bolivia, Venezuela, Ecuador e altri paesi del Cono Sud, non è difficile scorgere l’elaborazione compiuta fra Seattle, Porto Alegre e Genova. Sotto la spinta di imponenti movimenti popolari, le idee e le esperienze di comunità locali e grandi reti sociali sono diventate patrimonio di alcuni governi, trasformandosi in scelte concrete. Una dialettica simile si è sviluppata anche in Brasile, sia pure in una situazione ben più complessa, sia per il numero di abitanti e la vastità del territorio, sia per l’articolazione del sistema produttivo e il conseguente ruolo nello scenario internazionale. Gli otto anni della presidenza Lula sono segnati da forti ambivalenze: scelte economiche attente a evitare scontri significativi con le istituzioni finanziarie internazionali; promozione di una crescita industriale presentata come volano necessario per migliorare le condizioni di vita di ampie masse popolari e disponibile ad accettare “free zones”, come quella di Manaus, prototipi esemplari della politica liberista. La presidenza Lula si è così mantenuta in equilibrio fra l’originaria vicinanza ai movimenti sociali, con la loro spinta verso forti trasformazioni degli assetti economici ereditati dal passato, e il pragmatismo di una politica economica rimasta nel solco del sistema dominante, ma con un’attenzione inedita al miglioramento delle prospettive materiali e sociali dei ceti popolari. Fra i risultati più importanti vanno menzionati almeno il significativo aumento del salario minimo; l’imponente piano Bolsa Família, che ha consentito di sottrarre alla povertà estrema circa venti milioni di persone; lo scontro durissimo con le multinazionali del farmaco per ottenere la riduzione dei costi delle terapie e ampliarne l’accesso. L’ambivalenza della presidenza 245

Lula è ben rappresentata dalla convivenza di un ministero dell’Agricoltura strettamente legato alle politiche dell’agrobusiness e di un ministero per la Riforma agraria che incentiva la filiera corta e l’agricoltura familiare. Il giudizio finale di José Luiz Del Roio è articolato: “Pur in mezzo a queste contraddizioni,” osserva, “la segreteria di mobilitazione sociale del governo brasiliano ha creato un dipartimento specifico per dialogare e collaborare con i movimenti sociali dei paesi del Mercosul, il Mercato comune dell’America Latina. È un dialogo costante, che non comporta il fatto di essere sempre d’accordo. Ai movimenti sociali compete il compito di appoggiare, ma anche di elaborare, le politiche più avanzate e di denunciare le arretratezze e soprattutto di organizzare le ampie masse. In questo quadro non poche Ong locali e internazionali, durante la presidenza Lula, sono passate all’opposizione. Oggi ancora si riuniscono forum locali, di città, regioni, paesi o di tutto il continente americano. Quasi sempre vi prendono parte in modo consistente rappresentanti di governi progressisti e partiti politici di sinistra”.

Nemo propheta in patria In America Latina il movimento ha raggiunto un’ampiezza e una forza che gli ha consentito di esercitare una significativa influenza sull’azione di molti governi. In Africa i forum hanno stimolato lo sviluppo di movimenti e di reti sovranazionali in grado di riconoscere interessi comuni continentali. In Asia il movimento ha contribuito a costruire ponti in terre segnate da profondi conflitti e ha favorito l’abbattimento di antiche e odiose barriere. In Europa e in Italia, dove all’inizio del millennio si era sviluppato uno dei movimenti più ampi di tutto l’Occidente, il movimento altermondialista segna indubbie difficoltà. Non è l’obiettivo di questo libro analizzarne le ragioni; ci limitiamo a riassumere brevemente alcune nostre valutazioni, cominciando dalla specificità della situazione italiana, sperando in tal modo di contribuire a un dibattito del quale sentiamo una forte necessità. Il movimento che si era presentato a Genova come soggetto portatore di una visione complessiva del mondo alternativa a quella esistente, che aveva alfabetizzato la politica e la comunicazione nazionale sui grandi temi della globalizzazione, di fronte all’inaudita violenza repressiva, ha dovuto modificare il suo percorso, concentrandosi sulla dimensione nazionale, in particolare sul doppio obiettivo di sostenere la tutela legale nei processi e difendere gli spazi di azione democratica. L’attacco repressivo ha messo fortemente a disagio una parte consistente delle organizzazioni aderenti al Gsf: in particolare 246

l’associazionismo cattolico e più in generale i soggetti impegnati nel lavoro sociale quotidiano, nella cooperazione internazionale, nella costruzione di reti di economia alternativa. Per queste organizzazioni lo scontro frontale con le istituzioni è del tutto inedito e distante dalla propria cultura e prassi quotidiana; viene percepito come un rischio che può far deviare tempo e risorse dalla missione associativa. La strategia repressiva ha inoltre avuto gioco facile a indebolire i legami sociali del movimento, ad appannare la sua stessa credibilità agli occhi della cittadinanza. La criminalizzazione dei cortei e delle manifestazioni, grazie a un’efficace campagna mediatica, si è estesa alle stesse idee del movimento, ai suoi attivisti. La cultura della nonviolenza, patrimonio di una parte del movimento, aveva indubbiamente consentito di ampliare i punti di contatto con la società e di coinvolgere nuovi filoni di impegno civico e sociale, ma è stata posta fortemente in discussione dalla brutalità e dall’ampiezza delle violenze poliziesche. Le polemiche sulla necessità o meno del servizio d’ordine ne sono state un esempio. Alla fine la rete costruita attorno all’appuntamento genovese si è progressivamente lacerata. Anche per ragioni interne al movimento. Non tutti i gruppi dirigenti delle principali organizzazioni che avevano aderito al Gsf hanno colto la grande potenzialità dell’unità d’intenti tra soggetti fra loro differenti, ma con un comune orizzonte culturale e ideale di riferimento. La paura di non vedere sufficientemente riconosciuta la propria specifica identità, il desiderio di affermare il proprio logo, lo sforzo per conquistare l’egemonia dentro un’area ristretta, in diverse occasioni hanno prevalso sulla necessità di un’azione condivisa per ampliare l’area d’ascolto delle proposte comuni. Non si trattava di preservare all’infinito la struttura del Gsf, nato per gestire le contestazioni al G8, ma di rinnovare il “Patto di lavoro”, difendendo uno spazio comune, così come è avvenuto nel Forum sociale mondiale e nel Forum sociale brasiliano. Nel quale, peraltro, le diversità tra gli orientamenti delle varie organizzazioni che vi partecipano sono evidenti a tutti. In Italia la sconfitta di questa strategia ha contribuito sia alla dispersione del vasto consenso che prima di Genova il movimento aveva ottenuto attorno alle proprie proposte, sia alla dispersione dei tanti cani sciolti che avevano trovato nel Gsf una casa comune. Negli anni successivi, in particolare dopo la grande manifestazione contro la guerra del 15 febbraio 2003, al movimento è venuta progressivamente a mancare anche quella limitata, ma importante, sponda politica con la quale mantenere un rapporto dialettico. 247

L’avvicinarsi delle elezioni politiche e la conseguente costruzione di uno schieramento unitario del centrosinistra da contrapporre al governo guidato da Berlusconi ha avuto l’esito, per nulla scontato, né inevitabile, di spingere le forze della sinistra alternativa e in particolare Rifondazione, da sempre interna al movimento, a raffreddare il proprio sostegno alle richieste provenienti dai vari spezzoni del movimento. Le tematiche antiliberiste sono rimaste come orizzonte generale di riferimento, ma spesso sacrificate alle esigenze della realpolitik. La stessa evoluzione culturale avviata dentro Rifondazione ha subìto un arresto, così come ha perso rapidamente centralità il confronto sulla cultura della nonviolenza, una delle maggiori innovazioni avviate in quel partito dopo il G8 di Genova. Da parte loro, le componenti maggioritarie del centrosinistra italiano non hanno mai ricercato un vero confronto sui temi posti dal movimento. Anche durante i momenti di massima polemica con il centrodestra, hanno sempre mantenuto la loro azione all’interno del pensiero unico liberista: sia in relazione al modello di società da proporre, fondato sulle grandi opere, sulla crescita come paradigma fondativo e sulla privatizzazione di servizi di pubblica utilità, solo per fare alcuni esempi; sia nella sudditanza ai diktat delle istituzioni finanziarie internazionali e alle scelte di politica estera dettate da oltreoceano, come nel caso della guerra in Afghanistan. Dieci anni dopo, la freddezza, se non l’opposizione, verso il referendum sull’acqua pubblica, ne è un’ulteriore conferma. Non meno importante per il destino del movimento è stato il rapporto con il governo Prodi, arrivato al potere nel 2006. Non c’è stata, da parte del movimento, o di quel che ne restava, la capacità di salvaguardare come “bene comune” la propria unità attorno a un programma condiviso, a prescindere dalle scelte compiute da alcune sue componenti, pro o contro il centrosinistra. Il destino collettivo del movimento è rimasto così vittima di divisioni alimentate sia da chi sosteneva Prodi sia da chi lo riteneva del tutto indigeribile. D’altra parte il grande successo, nel corso del 2010, della raccolta di firme (oltre un milione quattrocentomila) per il referendum in difesa dell’acqua pubblica affonda le radici nella stagione di Porto Alegre, Genova e Firenze. Il movimento, scomparso come soggetto unitario e riconoscibile in grandi appuntamenti di massa, ha proseguito il suo lavoro in centinaia di vertenze locali, alimentando la propria cultura e il proprio impegno civile e politico con modalità carsiche, ma mostrandosi capace, in alcune importanti occasioni, di partecipare a una veloce quanto utile emersione collettiva, come nel caso della campagna per l’acqua come bene comune. 248

Da quanto si è reso evidente nei social forum europei degli ultimi anni, lo stato di salute del movimento antiliberista non è molto migliore negli altri stati europei. Due sono le principali ragioni di questa situazione: una riferibile a errori soggettivi, un’altra a condizioni strutturali. Il movimento dei movimenti aveva previsto, fin da Porto Alegre, che il modello liberista avrebbe prodotto una pesante crisi economico-finanziaria, ma non è riuscito a tradurre le proprie battaglie universali (l’alleanza Nord-Sud contro le diseguaglianze, la lotta alla fame, l’affermazione dei beni comuni, il superamento dell’attuale “modello di sviluppo” e così via) in opzioni concrete, in grado di far percepire quegli obiettivi globali come strettamente intrecciati con la quotidianità e con gli interessi materiali della popolazione più povera. Al sopraggiungere della crisi, che ha colpito soprattutto i ceti popolari, il movimento altermondialista è stato da molti percepito come una realtà impegnata in battaglie slegate dalle urgenze del momento. E ha avuto campo libero chi era pronto ad additare i colpevoli del collasso collettivo nelle persone più deboli, per esempio i migranti, sulle quali scaricare rabbia e paure. Fino a qui gli errori soggettivi. Ma non possono essere ignorate le cause strutturali del declino del movimento. Su questo punto è bene essere chiari e riconoscere che non è in Europa che in un futuro prossimo potranno sorgere movimenti in grado di modificare il corso della storia. Il Vecchio continente è fortemente inserito nelle istituzioni economico-finanziarie internazionali e gli interessi delle grandi corporation europee non solo condizionano duramente le politiche internazionali, ma hanno anche una forte pervasività in numerosi gangli strategici della società. L’Europa occidentale ha una stratificazione sociale incrostata, con una debole mobilità sociale e una forte, cementata, densità istituzionale. Resta ben poco spazio per possibili percorsi innovativi che non siano puri aggiustamenti dell’esistente. La costruzione di “un altro mondo possibile” richiede necessariamente una differente qualità e quantità di consumi, un abbandono progressivo del consumismo, l’approdo a un’idea di sviluppo secondo canoni di qualità e sobrietà: sono obiettivi che, per poter suscitare consensi, devono accompagnarsi a un forte processo di redistribuzione delle ricchezze e delle opportunità. È un percorso necessario ma lungo, non si intravede infatti chi potrebbe, in tempi brevi, attuare un così vistoso mutamento dei rapporti di forza. Ricorrendo a un esempio in contrasto con la nostra cultura antimilitarista, potremmo dire che oggi in Europa è possibile solo una guerra di trincea. Nella consapevolezza del contributo che questa strategia porterà all’avanzata, in altre parti del pianeta, di truppe alleate in grado di ottenere vittorie significative e di modificare quindi il destino collettivo dell’umanità. 249

Foto di Alberto Roveri

Per concludere

Minima efficienza, massima devianza A Genova nel luglio 2001, a questo punto possiamo davvero dirlo, furono cancellati i più elementari diritti di cittadinanza e le forze dell’ordine diedero prova di una grande propensione a violare regole e leggi. Non si trattava, in quei giorni, di affrontare manifestazioni particolarmente pericolose, se solo si pensa agli scontri di piazza degli anni settanta o anche dei decenni precedenti. Nel 2001 le forze di polizia hanno abbinato un basso grado di efficienza tecnica – nel garantire la libertà delle manifestazioni e fermare singoli e gruppi che trasgredivano la legge – e un alto tasso di devianza, con violenze gratuite contro singoli cittadini, l’uso inopportuno e in un caso mortale di armi da fuoco, l’impiego di bastoni e altre attrezzature fuori ordinanza, i maltrattamenti sui detenuti e un’impressionante attitudine a compilare verbali falsi. La maggior parte degli arresti eseguiti durante il G8 – il 70-80 per cento, secondo stime ufficiose – non è stata convalidata dai giudici di garanzia, perché pretestuosa o illegale. Sarebbe già abbastanza per domandarsi quale sia il reale stato di salute democratica delle nostre forze dell’ordine e quindi spingere a incisivi interventi di verifica e pulizia interna. Questi interventi sono mancati e la reazione al fallimento nella gestione dell’ordine pubblico è stata così inadeguata da suscitare ulteriore allarme. Per dieci anni i vertici delle forze dell’ordine hanno rifiutato con ogni mezzo, cocciutamente, di assumersi sia la piena responsabilità dell’accaduto, sia il compito di riguadagnare credibilità professionale e morale al cospetto dei cittadini. I comportamenti processuali sono stati per lo più gravissimi. 251

Altissimi dirigenti hanno platealmente ostacolato i processi e il lavoro dei magistrati; imputati di rango elevatissimo hanno avuto l’ardire di opporre ai magistrati il diritto di non rispondere in aula alle domande, comportandosi da comuni cittadini, pur occupando ruoli di grande prestigio e responsabilità, che dovrebbero consigliare la massima collaborazione con la magistratura. Si è arrivati al punto di capovolgere i ruoli fra carnefici e vittime, i primi protetti dalle autorità, i secondi additati come disturbatori o individui sospetti e privi di credibilità. C’è una scena che merita d’essere raccontata. Riguarda il processo Diaz, nella fase delle indagini preliminari, quando ancora i “papaveroni” partecipavano alle udienze. Per una di queste, particolarmente importante, arrivarono a Genova dall’estero molte delle parti civili, cioè i ragazzi picchiati e ingiustamente arrestati all’interno della scuola. All’ingresso del tribunale furono tutti sottoposti ad accurati controlli con il “metal detector”. Quando fu il turno di Lena Zuhlke, ragazza tedesca uscita dalla scuola Diaz in gravi condizioni e ripresa in barella con il volto insanguinato in una delle foto più note della “notte dei manganelli”, l’apparecchio squillò. Lena fu obbligata a cercare nelle tasche gli oggetti di metallo e poi a togliersi la cintura, in una puntigliosa applicazione del regolamento. Nel frattempo al suo fianco scorrevano alcuni indagati, funzionari e dirigenti di polizia, in qualche caso anche scortati da altri agenti, senza passare per il “metal detector”, anzi ricevendo gli ossequi degli agenti in servizio al tribunale. Era lo stato democratico in pieno cortocircuito.

Una riforma democratica La capacità delle forze dell’ordine di compiere verifiche interne e di correggere il proprio operato si è dimostrata pressoché nulla. È prevalsa una logica rigidamente corporativa, con la comoda quanto inconsistente tesi delle poche “mele marce” – gli agenti accusati di abusi – all’interno di un corpo sano. Non si è data alcuna spiegazione per l’uso smodato e incontrollato della violenza. Non si è offerta alcuna garanzia di trasparenza. Il principio di lealtà istituzionale è stato calpestato. La credibilità delle forze dell’ordine è stata così compromessa che, in assenza di una netta inversione di tendenza, è lecito dubitare della loro affidabilità democratica. In questi anni i comitati creati da vittime e testimoni degli abusi e le organizzazioni di tutela dei diritti umani hanno avanzato alcune proposte di riforma, come l’introduzione di una legge sulla tortura, l’obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici di riconoscimento sulle divise, un siste252

ma di formazione improntato alla prevenzione e aperto alle tecniche della nonviolenza. Sono interventi normativi e amministrativi ancora attuali e indispensabili, per quanto assenti dall’agenda politica. Il ritardo è grave, anzi gravissimo. I fatti e le omissioni di questi ultimi anni, inclusi i troppi episodi di violenza compiuti da personale in divisa, hanno peggiorato ancora il quadro, al punto da rendere insufficiente quel “pacchetto” di riforme. Oggi andrebbe aggiunto almeno un ulteriore intervento, ossia l’istituzione di un’autorità investigativa indipendente, deputata a raccogliere denunce dai cittadini e a compiere indagini sugli abusi attribuiti ad appartenenti alle forze dell’ordine. Essendo svincolata dai corpi di polizia, una struttura del genere darebbe garanzie di imparzialità: per le vittime degli abusi sarebbe più facile presentare le denunce; per le forze di sicurezza ci sarebbe la possibilità di superare l’ottuso corporativismo applicato in questi anni. Non potrebbe ripetersi quanto accaduto con il rapporto Micalizio, più volte citato in questo libro. L’ispettore consigliò l’avvio di procedimenti disciplinari per tutti i maggiori protagonisti del blitz alla Diaz, senza però trovare ascolto nel capo della polizia che pure l’aveva incaricato di svolgere quell’inchiesta interna... Una politica di rinnovamento non potrebbe tuttavia fermarsi a questi interventi, necessari ma non sufficienti. Oggi è urgente una seria, organica riforma democratica delle forze dell’ordine. La riforma di polizia dell’81, che portò alla smilitarizzazione del corpo, è stata svuotata dall’interno. La cultura della prevenzione e l’apertura alla società civile, cardini di quel progetto, sono ormai da classificare fra le promesse non mantenute. Si è arrivati, addirittura, a reclutare il personale direttamente fra i giovani che abbiano prestato servizio militare volontario: a ben vedere, una controriforma non dichiarata. I carabinieri, poi, hanno accentuato la loro tradizionale chiusura al mondo esterno, complice la loro sciagurata trasformazione in quarta forza armata. Quanto visto a Genova e negli anni successivi impone di collocare in un’ideale agenda democratica la riforma di tutte le forze di sicurezza, dalla polizia ai carabinieri fino alla guardia di finanza, coinvolta nel disastro genovese. Smilitarizzazione, trasparenza, reclutamento svincolato dalle forze armate, apertura alla società civile e al sindacalismo democratico sono gli obiettivi da perseguire. Sapendo che al momento conosciamo ben poco di quel che avviene dentro le caserme, che aria si respiri, quale sia la cultura prevalente, quali codici di condotta vengano seguiti. E quel poco che sappiamo desta spesso allarme. 253

Cambiare dirigenti subito Oggi ai vertici delle forze dell’ordine abbiamo funzionari fortemente compromessi sul piano professionale per la condotta tenuta al G8 di Genova e durante le inchieste e i processi, e oltretutto gravati da condanne penali pesantissime al termine dei giudizi di merito. Il rifiuto delle dimissioni ha fatto scuola, diventando la regola, osservata, oltre che dai personaggi citati in questo libro, anche dal generale dei carabinieri Giampaolo Ganzer, comandante del Ros (Reparto operativo speciale), condannato in primo grado nel luglio 2010 a quattordici anni di carcere per traffico di droga (con un’altra decina di carabinieri). Nelle motivazioni della sentenza i giudici hanno parlato di uno “scandaloso accordo” di Ganzer con i trafficanti, accusando il generale di avere tradito i suoi compiti istituzionali “con l’unico scopo di realizzare clamorosi arresti e sequestri di droga” utili alla sua carriera. Ganzer sostiene che i fatti sono stati travisati e va certamente considerato che il procedimento penale non è concluso, ma come si può ignorare il giudizio espresso dalla magistratura dopo la lunga indagine condotta? Quanto giova al Ros, all’Arma dei carabinieri, alle istituzioni democratiche, la permanenza al vertice del reparto di un imputato così gravemente giudicato da un tribunale della Repubblica? La verità è che un radicale cambio della guardia ai vertici della polizia, dei servizi segreti e degli stessi carabinieri non è rinviabile, se si vuole salvare la credibilità complessiva delle forze dell’ordine ed evitare uno scontro pericolosissimo con la magistratura, il cui giudizio è stato sostanzialmente respinto sia dai corpi di sicurezza interessati, sia dall’intero arco politico parlamentare. Sotto questo profilo, le maggiori forze politiche sembrano condividere una condizione di subalternità agli apparati di polizia. La retorica della sicurezza, lo slogan della “tolleranza zero”, le affermazioni di vicinanza incondizionata alle forze dell’ordine hanno portato a giustificare qualsiasi comportamento. Anche le forze politiche progressiste hanno smarrito ogni tensione riformistica, abbandonando al loro destino i molti agenti e funzionari fedeli ai valori costituzionali e disgustati dai fatti del G8 e dal comportamento tenuto dai massimi dirigenti di fronte alle inchieste e ai processi. Queste energie “pulite” rischiano il completo isolamento: sono invece una risorsa essenziale per il rinnovamento.

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Lo scontro istituzionale Non è meno importante, sul piano politico, la lezione che deriva dal confronto/scontro fra magistratura e forze dell’ordine. Le inchieste più delicate, quelle sui vertici di polizia, sono arrivate fino in fondo, ma solo grazie alla straordinaria capacità e tenacia dei magistrati incaricati di condurle e a una serie di regole formali e princìpi organizzativi che ne hanno reso possibile il lavoro. Come abbiamo documentato, i pm hanno incontrato grandi ostacoli, sia interni sia esterni alla magistratura. Capacità e tenacia non sarebbero state sufficienti, in assenza del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, o in presenza di un’organizzazione verticistica, rigidamente gerarchica degli uffici della procura. L’indipendenza della magistratura, sommata a un buon grado di autonomia del singolo magistrato: ecco la miscela che ha permesso agli inquirenti di superare e aggirare tutti gli ostacoli. È una lezione importante, da tenere a mente in una stagione politica segnata da progetti di riforma della giustizia – pensati non solo dalla destra –, che potrebbero indebolire sia l’indipendenza sia l’autonomia dei magistrati. Un’altra lezione riguarda la durata dei processi e il sopraggiungere delle prescrizioni. Molti reati, particolarmente gravi se commessi da dipendenti pubblici in divisa, come la calunnia e le lesioni, sono caduti in prescrizione prima delle sentenze di secondo grado. Emblematico, sotto questo profilo, è il caso del processo per le torture nella caserma di Bolzaneto, con la grande maggioranza dei reati prescritti a fronte di abusi e maltrattamenti accertati. L’eccessiva durata dei processi è uno dei mali più gravi della giustizia italiana, e si è rivelata, nel caso genovese, un’ulteriore via di fuga per funzionari e dirigenti imputati, già “liberati” dall’obbligo morale di dimettersi o almeno passare a ruoli amministrativi, senza contatto diretto con i cittadini, come avviene in altri paesi più attenti del nostro all’etica pubblica e ai doveri dei dipendenti pubblici. La Corte europea per i diritti umani ha sempre sostenuto che i giudizi penali per fatti di tortura o di maltrattamento, che costituiscono violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, non dovrebbero essere soggetti a prescrizione. È la giurisprudenza richiamata da Enrico Zucca ed Ezio Castaldi nel ricorso per Cassazione relativo al processo Diaz. In questo procedimento, dicono i pubblici ministeri citando diverse sentenze della Corte europea, ci si è occupati di episodi che costituiscono violazione dell’articolo 3 della Convenzione (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). La normativa italiana vigente, aggiungono, consente la prescrizione per tali reati e si pone quindi in contra255

sto con i princìpi stabiliti dalla Corte europea, perciò dovrebbe essere dichiarata incostituzionale. Secondo la Corte costituzionale, dicono ancora Zucca e Castaldi, i princìpi stabiliti dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, così come interpretati dalla Corte europea, hanno un valore superiore a quelli stabiliti dalla legge interna ordinaria, ma non possono essere applicati direttamente dai giudici, cui non resta quindi che appellarsi alla Consulta per chiedere una pronuncia di incostituzionalità. È forse la prima volta che si sostiene simile principio e in un caso così sensibile: magari non sarà accolto – e comunque non potrebbe essere applicato in danno degli imputati, per il principio della irretroattività della norma penale più sfavorevole – ma è un’interpretazione da cui prendere ispirazione per aggiornare la normativa. Lo stesso vale per un altro principio sostenuto dalla Corte europea, ossia la necessità di sospendere gli agenti sotto processo (tecnicamente, in inglese, “suspension from duty of the agent under investigation or on trial”) e di rimuoverli se condannati (“dismissal if the person is convicted”). In Italia servirebbero, evidentemente, precise regole disciplinari, oltre che una legge specifica sulla tortura. Un altro intervento da programmare, sul piano legislativo, sarebbe la revisione di tutte le norme vessatorie introdotte con il codice Rocco e rimaste in vigore fino a oggi, a cominciare dal reato di devastazione e saccheggio.

Una risposta incompleta In sede di bilanci c’è un’altra scomoda verità che non può essere trascurata: la complessiva risposta della magistratura ai fatti del G8 è stata assolutamente parziale. Sull’omicidio di piazza Alimonda, lo abbiamo detto, è mancato un dibattimento che sarebbe stato opportuno, e in seguito non è stata raccolta in alcun modo (nemmeno dai responsabili di polizia e carabinieri) la pubblica denuncia della famiglia Giuliani, riproposta in questo libro, sul vilipendio del cadavere di Carlo. È un silenzio che indigna. E poi decine di denunce, interi filoni investigativi sono stati ignorati. Solo pochissimi dei tanti episodi di abusi avvenuti per strada a danno di cittadini inermi sono arrivati al vaglio del tribunale. Le altre denunce sono rimaste lettera morta. Non ci sono state inchieste sui maltrattamenti di alcuni cittadini condotti in stato di fermo al Forte San Giuliano; niente si è fatto su quanto accaduto all’interno di alcuni ospedali, nei pronto soccorso presidiati in modo del tutto improprio da agenti delle forze dell’ordine. 256

Le carte riguardanti quattro funzionari di polizia e carabinieri, sospettati di falsa testimonianza, inviate alla procura dai giudici del processo ai 25 manifestanti, non hanno portato ad alcun procedimento. Il giudizio d’insieme sulla risposta giudiziaria ai fatti del G8 deve tenere nel debito conto queste mancanze, solo in minima parte imputabili alle forze limitate della procura genovese. Molte scelte sono state “suggerite” dalla “ragion di stato”, e la stessa organizzazione degli uffici, cioè l’entità delle forze dedicate alle inchieste sul G8, non è stata adeguata alla gravità e all’importanza dei fatti da sottoporre al vaglio giudiziario. Oltretutto, i magistrati impegnati nelle maggiori inchieste, come abbiamo visto, non sono stati esentati dagli altri compiti d’ufficio, né si è riusciti ad aggirare l’ostruzionismo e i conflitti d’interesse della polizia giudiziaria. I pubblici ministeri hanno spesso condotto le inchieste, come si dice in questi casi, “a mani nude”, cioè minimizzando il supporto degli investigatori in divisa: ma si trattava, stavolta, di procedimenti delicatissimi e decisivi per gli equilibri democratici all’interno delle istituzioni. Una riflessione meriterebbe anche l’esito dei due processi più delicati (Diaz e De Gennaro) e dello stesso processo per Bolzaneto: abbiamo avuto sentenze miti in primo grado, giudizi più severi in appello. Di solito avviene il contrario, con i giudici d’appello più clementi dei colleghi. C’è una ragione per questa coincidenza? Forse sì. Forse i giudici di primo grado, impegnati in un maggior numero di udienze e quindi molto più a contatto con gli imputati, hanno avvertito con più forza la straordinaria pressione esercitata dagli apparati. I giudici d’appello, più distaccati, hanno forse valutato gli atti con più serenità. La lettura delle rispettive motivazioni avvalora questa interpretazione. Contorte, in alcuni punti poco logiche, spesso generose nel valutare le singole posizioni quelle di primo grado, ben più lineari e coerenti quelle di secondo. Stupisce che la magistratura organizzata, compresa quella di matrice progressista, non sia riuscita a compiere un’approfondita riflessione su questi temi, in modo da farne tesoro e da rendere più completo il dibattito sull’eredità del G8 genovese.

Il mondo politico succube Su tutti questi argomenti, dai dubbi sulla reale affidabilità degli apparati di sicurezza alla fragilità mostrata dalla magistratura una volta che si è trovata alle prese con le scomode inchieste descritte in questo libro, il mondo politico ha finora chiuso gli occhi. 257

L’agenda politica è rimasta avulsa dallo shock subìto dalla democrazia italiana nel luglio 2001. Si è rinunciato a qualsiasi verifica, si è evitata qualsiasi scelta anche potenzialmente sgradita ai dirigenti in carica. La politica è sempre parsa succube degli apparati. I ministri e i capi di governo passati per il Viminale e per Palazzo Chigi nell’ultimo decennio hanno garantito – senza eccezione alcuna – la massima protezione ai dirigenti in carica, mostrando così tutta la loro debolezza. Il Parlamento ha rinunciato ai suoi compiti istituzionali d’inchiesta e di riforma legislativa, come se nulla fosse accaduto. In sintesi, è totalmente mancato un controllo democratico sui corpi di polizia; non vi è stata quell’azione di indirizzo che distingue, specie in situazioni di crisi o di grave stress, i regimi davvero democratici da quelli autoritari. Le forze politiche di centrosinistra (con poche, importanti ma deboli, eccezioni) non sono riuscite a esprimere alcuna autonomia, segno di una vistosa debolezza culturale. Hanno di fatto condiviso, anche nella breve stagione del governo Prodi (2006-2008), le scelte compiute dal centrodestra all’epoca del G8: coperture e promozioni non sono mai venute meno. In anni più recenti, anche di fronte alle decine di condanne nei processi genovesi, il centrosinistra ha taciuto, accodandosi al mantra recitato dai ministri di Berlusconi: fiducia confermata a tutti, con l’auspicio di una riforma delle sentenze in Cassazione. Sembra che il centrosinistra abbia a cuore più la relazione diretta con gli attuali dirigenti di polizia e servizi segreti, che non il corretto e leale funzionamento degli apparati. È noto che alcuni dei maggiori responsabili delle forze dell’ordine sono stati nominati ai più importanti incarichi da ministri di centrosinistra, ma se la relazione fra istituzioni elettive e apparati di sicurezza corre sui binari della fiducia diretta, o – peggio – di una presunta vicinanza politica, ecco che diventa impossibile tutelare i diritti costituzionali a fronte di gravi errori o abusi dei propri interlocutori. È quanto avvenuto con il G8 di Genova, ma non solo, e non può essere più tollerato. In tal modo non si tutela la nostra democrazia, già tanto fragile. È quindi necessario costruire una nuova cultura dei diritti e riformare gli apparati di sicurezza. È un progetto urgente, non rinviabile, se vogliamo evitare che in futuro si ripeta, magari in forme differenti, quanto accaduto nel 2001. Certo, la debolezza delle forze democratiche e di sinistra è tale da non lasciare intravedere spazi concreti per riforme così importanti, ma nel corpo della società vi sono risorse, energie e competenze che hanno solo bisogno di trovare uno sbocco poli258

tico. È il problema della politica italiana, e in particolare della sinistra italiana, alle prese con una profonda crisi d’identità.

Un avvenire per il movimento Alcune vie d’uscita da questa crisi, che ha evidenti radici culturali, riguardano anche il futuro del movimento nato e cresciuto lungo l’asse Porto Alegre-Genova, con il Forum sociale mondiale sullo sfondo. Il movimento, lo abbiamo visto, non è riuscito a mantenere un ruolo significativo nella vita pubblica nazionale. Passati Genova, il Forum europeo di Firenze e le mobilitazioni contro la guerra in Iraq, si è come inabissato, salvo ricomparire in specifiche lotte locali e nazionali. Non è riuscito nemmeno a trovare una completa legittimazione sul piano delle idee, nel mondo intellettuale e dei media. Il tempo però ha dimostrato che le “ragioni” del movimento globale sono più forti delle sue fragilità organizzative e delle sue carenze in questo o quel contesto nazionale. L’implosione del modello neoliberista, che sarebbe anche più evidente se non fosse mascherata da sistemi politici e comunicativi che ne sono diretta espressione, ha riportato al centro dell’attenzione temi e proposte del movimento altermondialista, a cominciare dalla sua acquisizione di fondo: la necessità di superare il “modello di sviluppo” che si è consolidato nel mondo occidentale per poi diffondersi in gran parte del pianeta. Quel modello è insostenibile sul piano ambientale, oltre che fortemente ingiusto per gran parte delle popolazioni, perciò qualsiasi progetto politico di lungo periodo deve proporsi la ricerca di forme nuove d’organizzazione economica e sociale. È un punto di partenza inedito anche per la sinistra storica, ancorata a modelli di produzione e distribuzione della ricchezza tipici del secolo scorso, quando non ha sposato direttamente la visione neoliberista. La crisi politica e ideologica è certamente grave, ma fuori non c’è il deserto. In varie parti del pianeta, vasti settori della società civile stanno compiendo sperimentazioni e innovazioni di grande respiro, spesso in collaborazione con amministrazioni pubbliche e governi. La sobrietà dei consumi, la sovranità alimentare, la tutela dei beni comuni, la riscoperta della priorità dell’indirizzo pubblico rispetto all’iniziativa privata, la difesa dei diritti di lavoratori e lavoratrici non sono semplici affermazioni di principio, ma concrete esperienze di vita compiute da milioni di persone, oltre che spezzoni di un pensiero alternativo che si è tentato, per fortuna inutilmente, di escludere dalla vita pubblica. È da qui che possiamo ripartire. 259

Appendice Strane coincidenze

2 agosto 2010, la mia pagina di Facebook, Vittorio Agnoletto, 5000 amici, è bloccata. Contatto il social network: per loro tutto funziona normalmente, non sono loro a impedirmi l’accesso. Quarantotto ore prima avevo lanciato insieme a Lorenzo Guadagnucci un comunicato intitolato: “I giudici individuano la responsabilità di De Gennaro nella vicenda Diaz. Ora i condannati devono dimettersi”. Solo dopo due mesi rientro in possesso della mia pagina, grazie a una particolare chiave d’accesso fornitami da Facebook. Questa è l’ultima, e certamente non la più grave, delle tante strane coincidenze verificatesi in questi dieci anni. L’11 dicembre 2006 spariscono i computer dei miei due collaboratori; qualcuno è entrato nel nostro ufficio di Milano. Non è un furto come tanti altri: sul tavolo hanno lasciato soldi e carta di credito. Solo qualche giorno prima, durante un duro confronto televisivo con Placanica, avevo denunciato con forza le responsabilità dei vertici della polizia a Genova. Fino a quel momento, con l’eccezione dei mesi immediatamente seguenti al G8 quando ricevevo minacce, lettere anonime e ogni sera dovevo cambiare posto per dormire, si erano verificati solo episodi “minori”. La mia linea telefonica, per esempio, cadeva improvvisamente e il mio cellulare restava a lungo senza dare segni di vita ogni volta che rilasciavo interviste sulla responsabilità delle forze dell’ordine nelle giornate genovesi. Ma ora la situazione è diversa, il furto dei computer non resta un fatto isolato. Il 19 febbraio 2007 arriva nello stabile dove abito una lettera manoscritta che minaccia di far saltare in aria tutto il palazzo se “quel delinquente di Vittorio Agnoletto non la smette”. Pochi gior261

ni prima ero stato a Genova dal procuratore capo per chiedere conto della scomparsa delle bottiglie molotov collocate dalla polizia alla Diaz. Si avvicina il sesto anniversario del G8, i processi genovesi ormai sono nella fase più critica, sotto accusa ci sono i vertici delle forze dell’ordine, non più solo gli esecutori materiali delle violenze. A Genova con Gigi Malabarba, membro dal 2001 al 2006 del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, analizziamo, in un’assemblea pubblica, il ruolo di De Gennaro e i rapporti tra polizia italiana e servizi segreti stranieri nelle giornate genovesi. Pochi giorni dopo, ai primi di agosto del 2007, trovo la porta del box aperta, le portiere dell’auto pure, la radio è staccata e appoggiata sul sedile. Nessuno sapeva che mi ero appena trasferito in quella casa; io ufficialmente vivevo ancora nella mia abitazione precedente. Passano pochi mesi, il 31 ottobre due persone sconosciute spacciandosi per parenti, si presentano a casa mia e insistono perché li faccia entrare, “devono solo dirmi due parole”. In quel momento sono al telefono con l’avvocato Giuliano Pisapia che mi aveva seguito nelle denunce, tutte archiviate, relative agli episodi precedenti; mi consiglia di chiamare immediatamente la Digos. Arrivano gli agenti, fanno domande, ricostruiamo insieme l’accaduto e presento un’altra denuncia. Che cade nel vuoto. Per quella stessa sera su Rai 2 era stata ampiamente annunciata una trasmissione sulle vicende genovesi alla quale ero stato invitato. Nella notte tra il 7 e l’8 aprile 2008 viene letteralmente picconato il muro dell’ufficio milanese dove lavorano sette persone, vengono nuovamente rubati solamente i computer dei miei due collaboratori. Ennesima, inutile denuncia all’autorità giudiziaria. Qualche giorno prima, di fronte alla conferma della richiesta di rinvio a giudizio di De Gennaro, ne avevo reclamato le dimissioni. Il 17 giugno 2010 Gianni De Gennaro viene condannato. Mi chiama una giornalista di una radio nazionale: “Non riesco ad avere materiale per suscitare una discussione; ho sentito diversi esponenti dell’opposizione, ma nessuno chiede che De Gennaro si dimetta. La sua è una voce isolata nel mondo politico”. Settembre 2010, a Roma, un pezzo grosso degli apparati dello stato mi consiglia, “per il mio bene”, di non scrivere questo libro.

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Bibliografia

Per scrivere questo libro, oltre che alle esperienze personali e agli incontri con altri protagonisti delle vicende che raccontiamo, abbiamo attinto materiali e osservazioni da libri, opuscoli, documentari. Fra i testi è stato molto prezioso il libro-inchiesta di Carlo Gubitosa Genova nome per nome (Altreconomia-Berti-Terre di mezzo, 2003), il cui impianto ha retto al passare del tempo e al procedere delle inchieste e dei processi. Ugualmente prezioso Genova. Il libro bianco, uscito nel 2002 a cura del Gsf e del Gruppo comunicazione del Milano social forum. Molto utili, per i singoli aspetti che trattano, sono stati Obbligo di referto, curato dai sanitari del Gsf (Frilli, 2001); Dalla parte del torto. Avvocati di strada a Genova (Frilli, 2002), curato dal Genoa legal forum; Le parole di Genova, idee e proposte del movimento, curato da Anais Ginori (Fandango, 2002) e dedicato ai principali interventi nelle giornate del Public forum; Scuola Diaz: vergogna di Stato (Edizioni Alegre, 2009), a cura di Checchino Antonini, Francesco Barilli e Dario Rossi. Alcuni documentari sono stati altrettanto importanti dei libri. Genova per noi (realizzato da Paolo Pietrangeli, Roberto Giannarelli, Wilma Labate, Francesco Martinotti) uscì poco dopo i fatti in videocassetta con “l’Unità”, “il manifesto”, “Liberazione”, “Carta” e ha contribuito a diffondere una versione credibile dei fatti. Per una visione d’insieme, è stata utile un’altra videocassetta, uscita con “L’Espresso” nel 2001, Un mondo diverso è possibile, a cura dei trentatré registi chiamati a Genova da Francesco Maselli. OP – Genova 2001, l’Ordine Pubblico durante il G8, curato dalla segreteria legale del Genoa legal forum, ricostruisce alcuni episodi chiave con i materiali acquisiti durante i processi. La trappola, a cura di Giuliano Giuliani, è l’inchiesta video che meglio documenta l’omicidio e gli scempi di piazza Alimonda (ora anche sul sito www.feltrinellieditore.it). Altri documenti importanti, oltre ai materiali processuali messi a disposizione di chiunque dalla segreteria legale del Glf nel sito www.processig8.org, sono il testo di Livio Pepino Genova e il G8: i fatti, le istituzioni, la giustizia (in “Questione Giustizia”, n. 5, 2001), e la consulenza di Donatella Della Porta al “processo ai 25”. 263

Per chi volesse approfondire aspetti particolari delle vicende trattate in questo libro, segnaliamo alcune opere che abbiamo consultato, senza avere pretesa d’essere esaustivi, vista la mole delle pubblicazioni uscite in questi anni. Intanto i nostri due libri: Lorenzo Guadagnucci, Noi della Diaz (Altreconomia-Terre di mezzo, 2002); Vittorio Agnoletto, Prima persone (Laterza, 2003). Fra le opere generali, segnaliamo Giulietto Chiesa, G8/Genova (Einaudi, 2001); Aa.Vv.: La sfida al G8 (Manifestolibri, 2001); Concita De Gregorio, Non lavate questo sangue (Laterza, 2001); la relazione di minoranza di Graziella Mascia al Comitato parlamentare d’indagine, pubblicata con una prefazione di Giovanni Palombarini con il titolo Genova per noi (Odradek, 2001); il documentario in dvd di Carlo Lucarelli (con libro allegato) G8. Cronaca di una battaglia (Einaudi, 2009); il libro e i cinque dvd raccolti da Radio Popolare in Genova/luglio 2001. Cronache (2001). Su Bolzaneto vanno visti Marco Poggi, Io, l’infame di Bolzaneto (Yema, 2003); Massimo Calandri, Bolzaneto. La mattanza della democrazia (Derive e Approdi, 2008); Mario Portanova, Inferno Bolzaneto (Melampo, 2008). Testimonianze importanti sono quelle di Enrica Bartesaghi, Genova, il posto sbagliato (Nonluoghi, 2004) e il Diario dal carcere di Paolo Fornaciari, in appendice all’edizione del 2008 di Noi della Diaz di Lorenzo Guadagnucci. Sulle forze di polizia si possono leggere Acab di Carlo Bonini (Einaudi, 2009) e Polizia e protesta. Ordine pubblico dalla Liberazione ai No global di Donatella Della Porta e Herbert Reiter (il Mulino, 2004). Abbiamo consultato e consigliamo anche Insieme contro la fame: ricette globali per un’azione vincente, un documento di Oxfam Italia (reperibile su www.oxfamitalia.org) e Jean Ziegler, L’odio per l’Occidente (Tropea, 2010), in particolare per le parti sull’America Latina.

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Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare a Enrico Zucca, per la sua insostituibile testimonianza. Ringraziamo anche Francesco Cardona Albini, Vittorio Ranieri Miniati, Patrizia Petruzziello, Francesco Pinto della procura di Genova. I magistrati hanno accettato di raccontare le vicende e la difficoltà delle indagini, con la consapevolezza di non poter esprimere giudizi nel merito delle vicende, se non quelli pubblicamente esplicitati nella sede processuale. Grazie a Livio Pepino, già presidente di Magistratura democratica, per l’aiuto nella “lettura” della risposta giudiziaria ai fatti del G8 e agli avvocati Stefano Bigliazzi, Dario Rossi, Fabio Sommovigo, Emanuele Tambuscio, impegnati nei processi con un numeroso gruppo di appassionati legali. Grazie a Rita Parisi, segretario bolognese del Siulp, per la sua lettura del G8 nell’ottica di una polizia democratica. A Marco Poggi e Ivano Pratissoli per avere ripercorso con noi l’origine delle loro importanti testimonianze. Ad Haidi Gaggio Giuliani e Giuliano Giuliani per l’impegno civile e l’aiuto nella ricostruzione dei fatti. A José Luiz Del Roio per il contributo all’analisi della dimensione internazionale del movimento. Siamo profondamente riconoscenti a Federico Mininni e al gruppo Comunicazione del Milano social forum per come ci hanno aiutato a scegliere e reperire le immagini pubblicate; grazie ai fotografi che ci hanno permesso di utilizzare i loro scatti. Grazie a Gigi Malabarba, Roberto Giudici, Daniele Biacchessi, Luca Moro, Paolo Fornaciari per l’aiuto nella ricostruzione dei fatti. Tutta la responsabilità delle ricostruzioni e delle interpretazioni è naturalmente dei sottoscritti. 265

Un ringraziamento generale va al Comitato verità e giustizia per Genova, al Comitato piazza Carlo Giuliani, alla segreteria legale, al Genoa legal forum, ai testimoni, a tutti quanti si sono battuti in questi anni per ottenere verità e giustizia e per affermare le buone idee sostenute a Genova durante il Public forum. Un ringraziamento particolare a Valentina Alferj. Grazie a Stefano Agnoletto per la continua consulenza “strategica” fornita a suo fratello, a Barbara Battaglia per la collaborazione a Vittorio nella ricerca del materiale sulla dimensione internazionale del movimento. Grazie a Teresa e a Enrico per la sopportazione degli impegni e dello stress causati da questo libro; a Camilla per il sostegno, la pazienza e l’intelligente rilettura dei testi.

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Foto di Roberto Arcari

Il corteo dei migranti di giovedì 19 luglio 2001. Una manifestazione festosa, per la libertà di movimento e i diritti civili universali.

Foto di Andrea Semplici

In alto: La preghiera interreligiosa alla chiesa francescana di Sant’Antonio di Boccadasse, sul lungomare della città. In basso: La scena di un’assemblea. Convegni e seminari caratterizzano per un’intera settimana le contestazioni al G8. È una sorta di “università” del movimento.

Foto di Federico Mininni

In alto: Il bus londinese di Drop the Debt (cancella il debito) nelle strade di Genova: è una della campagne internazionali con maggiori capacità di coinvolgimento. In basso: Uno striscione con uno slogan del movimento.

Foto di Renzo Piccarreta

In alto: La notte della Diaz. Vittorio Agnoletto si avvicina a un ferito in barella, “scortato” dalla polizia verso le ambulanze. In basso: La notte della Diaz. La schiena di Lorenzo Guadagnucci due settimane dopo. La crosta circolare sulla spalla sinistra, secondo il dermatologo consultato, è dovuta a una scossa elettrica (probabile esito dell’utilizzo da parte di un agente di un manganello elettrico fuori ordinanza).

Foto di Nicola Fossella Foto di Renzo Piccarreta

In alto: La notte della Diaz. Le violenze della polizia cominciano per strada, ancora prima di entrare all’interno della scuola. In basso: La conferenza stampa in questura la mattina di domenica 22 luglio. La polizia mostra gli oggetti sequestrati (in primo piano gli attrezzi del cantiere edile aperto in un settore della scuola) e legge un comunicato, ma non ammette domande dei giornalisti. Nel riquadro le due bombe molotov portate dentro la Diaz dalla stessa polizia.

Foto di Luca Zennaro Foto di Vince Paolo Gerace

Marco M., all’epoca minorenne, viene arrestato – con altri – mentre partecipa a un sit-in nei pressi della questura (le accuse descritte nel verbale si riveleranno false). Subito dopo il fermo viene malmenato (nella foto sotto). L’uomo in secondo piano con la gamba alzata verso il ragazzo è Alessandro Perugini, vicecapo della Digos genovese. Per questo episodio Perugini e altri quattro agenti sono stati condannati per falso a pene che vanno da otto mesi a un anno (prescritte le accuse di calunnia, percosse, minacce e ingiurie).

Foto di Brioga Foto di Luca Zennaro

In alto: Il Black Bloc in azione con tamburi, marcette e bandiere. In basso: La caserma di polizia di Bolzaneto, nella periferia di Genova. Nei giorni del G8 è adibita a ufficio matricola per agevolare il trasferimento degli arrestati in alcune carceri del Nord Italia.

La notte della Diaz. Fotogrammi estratti dal filmato “Blue sky”. È l’immagine chiave dell’inchiesta. Sulla sinistra e nell’ingrandimento Giovanni Luperi, vicedirettore dell’Ucigos, regge il sacchetto celeste che contiene le due bottiglie molotov. Intorno a lui, davanti all’ingresso della scuola, sono riconoscibili altri imputati: gli alti dirigenti Francesco Gratteri e Gilberto Caldarozzi, i funzionari Vincenzo Canterini, Spartaco Mortola, Pietro Troiani.