Il colore della parola. Saggi sul simbolismo [PDF]

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Zitiervorschau

I saggi qui raccolti, tratti da Simvolism, Arabeski e Lug zelenyj sono le riflessioni di Belyj lungo l’arco del primo decennio del secolo. Sono scritti che rispondono alla geniale caoticità che è la forma stessa del pensiero di Belyj, alla sua ossessione che lo rende quanto mai attuale: il conflitto tra ordine e caos, in cui risiede in ultima istanza la lotta per il futuro. L’imperativo categorico alla sopravvivenza è decifrabile solo a tratti e in frammenti, nel simbolo e nella maschera. “Dalle maschere si riconoscono i cospiratori della futura azione”, esseri enigmatici, mimetizzati, che sanno tutto, vedono tutto e non parlano. Svelano, però, il carattere fittizio di ciò che sembra reale, proiettando modelli e prototipi metafisici, risvegliano dimenticati terrori e dietro alla superficie della coscienza, sotto al visibile, spalancano l’invisibile. Nelle “prospettive rovesciate” di Belyj tecnica e conoscenza si avviano a farsi magia, al pari della musica che innalza il sapere matematico da puro dato quantitativo a mistero – “Orfeo, com’è noto, fa danzare le pietre”. Di questo potere, che è tecnica e creatività insieme, Belyj è portavoce irritante e provocatorio. Non meraviglia l’esasperato fascino esercitato su più generazioni di poeti e narratori e teorici del formalismo. Un fascino così indiscreto da fomentare ribellioni e rifiuti tra gli stessi adepti. A distanza di tempo, è dato oggi misurarne la portata e la contraddizione, valutando forse, attraverso un misurato giudizio storico, la violenza profetica di un messaggio eccessivamente aristocratico.

In copertina: Vassilij Kandinskij Chiaro di luna

Il fiore azzurro 5

ANDREJ

BELYJ

Il colore della parola Saggi sul simbolismo A cura di Rossana Platone

GUIDA EDITORI

Traduzione di Raffaella Belletti

Copyright 1986 Guida editori Napoli Grafica di Sergio Prozzillo

Introduzione

Andrej Belyj nasce quando Boris Bugaev compie ventun anni: è il suo primo grande mito letterario. Nell'infanzia il piccolo Boren'ka, lacerato dalle discordie tra i genitori, aveva imparato a «giocare alla vita» ispirandosi alle favole, si era creato un mondo fantastico; poi, adolescente, aveva scoperto il mito e la propria inclinazione a creare miti. I suoi primi tentativi letterari esigevano uno pseudonimo: il padre, noto matematico e razionalista, avrebbe mal tollerato che il suo illustre nome professorale fosse contaminato dal figlio 'decadente'. E poco importa che quello pseudonimo Andrej Belyj, Andrea il Bianco- non sia una sua invenzione, ma gli venga suggerito da Michail Solov'ev, fratello di uno dei suoi grandi maestri, il poeta e filosofo Vladimir Solov'ev. L'adesione totale a questo nome, ricco di echi apocalittici e di connessioni con la simbologia dell'occultismo, è tutta opera sua. Nel 1928 1 , ricostruendo in chiave antroposofica - con non

1 A. BELYJ,

Pocemu ja sta! simvolistom i pocemu ja ne perestal im byt' vo vsech

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poche forzature la sua esperienza di uomo e di scrittore, Belyj traccia il suo precocissimo cammino di simbolista inconsapevole, un percorso che precede di molto l'approdo al simbolismo come scuola letteraria, affermando di non essere mai diventato simbolista, ma di esserlo sempre stato, anche prima di conoscere questa parola. Ricordà, in proposito, un gioco che faceva a quattro anni, quando voleva esprimere uno stato di paura: nascondeva nell'ombra il coperchio rosso vivo di una scatola di cartone, in modo da non scorgere l'oggetto, ma solo la macchia di colore, e sussurrava tra sé: «qualcosa di purpureo». Da adulto il simbolista-antroposofo darà questa spiegazione di quel gioco infantile: «'qualcosa' è l'esperienza interiore; la macchia purpurea è la forma dell'espressione; presi insieme sono un simbolo. L'oggetto esteriore (il coperchio) non ha rapporto con 'qualcosa', che risulta invece dalla fusione di QUELLO (la macchia informe) con QUESTO (l'oggetto) in un TERZO elemento, il simbolo, grazie al quale il bambino supera il mondo caotico della paura e il mondo esteriore, dal quale proviene l'oggetto concreto, creando un TERZO mondo>>. Belyj è un grande mistificatore; le sue interpretazioni antroposofiche destano legittime perplessità; non si può, tuttavia, mettere in dubbio il valore dell'elemento fantastico nella formazione della sua personalità, la vividezza delle impressioni della prima infanzia, spesso ricordate nei testi memorialistici, e che sono all'origine di una scrittura innovativa nella forma-romanzo, soprattutto in Kotik Letaev. Più tardi il giovane Bugaev inventerà un leggendario LUI, in cui si assommano gli infiniti ruoli eroici che si attribuisce nei suoi giochi solitari. Le ultime tracce di questo gioco permanente, forma del suo vero mondo interiore, scompaiono solo negli anni universitari, quando il mito della vita si fonde con quello di un secondo «Io», appena scoperto: «alle mie spalle si erano appena cancellate le tracce di LUI, che davanti, dinanzi agli Occhi, c'era già lo SCRITTORE, presto divenuto ANDREJ BELYJ » 2 • jazach moego idejnogo i chudo:iestvennogo razvitija, scritta nell928, pubblicato nel 1982 da Ardis, Ann Arbor, Michigan. 2 Ibidem, p. 19.

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Al 'qualcosa di purpureo' si sostituisce 'qualcosa di bianco', al gioco infantile la gnosi teosofica della percezione del colore. Il bianco rappresenta la pienezza dell'essere. Lo studente Bugaev scorge nel bianco il colore del cristianesimo, l'unione delle sette chiese, dei sette princìpi, dei sette fiumi sgorganti dal paradiso in un unico torrente che balza nella vita infinita, dei sette sensi (tra i quali annovera l'intuizione e la chiaroveggenza) 3 • Boris Bugaev offre allora un saggio delle sue doti trasformistiche e diventa scrittore, diventa e rimane Andrej Belyj, anche se nel corso della sua attività pubblicistica userà molti altri pseudonimi. Né l'adozione di questo pseudonimo è casuale: implica un modo di vedere se stesso e di offrirsi allo sguardo degli altri. Non è uno schermo, ma la scelta delle armi con cui Boris Bugaev combatterà il suo duello con l'esistenza. Con l'amico adolescente Sereza Solov'ev condivide le prime esperienze mistiche, soffuse di biancore, esplorando i «bianchi princìpi della vita». Per il pubblico dei suoi esordi il bianco si attaglia perfettamente all'immagine del poetateurgo che Belyj vuol incarnare. Affascinato dal misticismo escatologico di Vladimir Solov'ev, Belyj vive con trepidazione l'attesa della fine profetizzata dal poeta. La Donna vestita di Sole sta per generare il Verbo, la verità; il serpente raccoglie le ultime forze contro di Lei. Tutto è stato predetto, anche la fine, e alla fine l'Eterna Bellezza diventerà feconda, da lei verrà la salvezza del mondo. Per primo Solov'ev aveva introdotto nella poesia russa l'idea dell'Eterno Femminino come rivelazione mistica, ripresa dal simbolismo. Questo nucleo tematico, centrale nell'opera di Belyj giovane, lo apparenta a Solov'ev, mentre il motivo del sacrificio, della sofferenza come destino lo lega a Nietzsche. Belyj legge molto in quegli anni e avverte drammaticamente la «forbice» che è in lui, la scissione tra la razionalità 3 Si veda la sua Lettera alla redazione, firmata «Uno studente naturalista>>, a proposito del libro di D. MEREZKOVSKIJ, Tolstoi i Dostoevskij; la lettera, apparsa su >, dove il «sordomuto, azzurro Atlante>> si getta sulla terra come un deliquio, risuona l'eco dell'impeto titanico, del voler «diventare l'Atlante di tutti i singoli e di portarli sul dorso sempre più in alto e sempre più lontano>> (La nascita della tragedia). Alla maschera della Gorgone di Belyj fa riscontro la testa di Medusa di Nietzsche, e il sogno, l'abisso, l'ebrezza, la danza, la chiarezza apollinea, i terrori dionisiaci appaiono come nomenclature dell'amato filosofo-musicista. Ed è proprio la musica, la funzione tutta nietzscheana attribuita alla musica come nei testi dedicati al direttore d'orchestra Nikisch che più sembra evocare il ritmo che scandisce tutta l'opera di Belyj e ne esalta la danzante levità. Anche il saggio successivo, Una finestra sul futuro, sempre del 1904, rivela una consuetudine quotidiana con l'opera del filosofo tedesco e la ricerca di un'affinità voluta con l'uomo Nietzsche, tipo ideale del simbolista 10 • IO Si veda a questo proposito

il volume autobiografico di Belyj Na rubeie dvuch

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Da Nietzsche viene la nota dominante della musica di Arabeski, e poiché la musica, per ogni simbolista, esprime idealmente il simbolo, anche i simboli di questo volume sono molto spesso di derivazione nietzscheana. Diversa è la musica di Lug zelenyj (Il prato verde). Il primo saggio, che dà il titolo alla raccolta, è del 1905. Il tema musicale che lo attraversa è quello della canzone popolare russa; alla Russia è tematicamente vicina l'intera raccolta. La Russia sconvolta dalla prima rivoluzione appare a Belyj come un Bella addormentata in procinto di risvegliarsi, come la gogoliana pani Katerina alla quale uno stregone ha rubato l'anima. L'Apocalisse continua ad offrire a Belyj le sue immagini, la società è la «Donna vestita di Sole», ma accanto ai simboli religiosi, accanto ai miti antichi, come quello di Orfeo ed Euridice, compare la mitologia popolare del folclore russo, che aveva già popolato il mondo del diletto Gogol'; di quel Gogol' che, facendo suo l'atteggiamento dei comuni maestri tedeschi, aveva espresso una chiara preferenza per la musica, tra tutte le arti, dalla musica soltanto sperando salvezza 11 • È nel nome di Gogol' che il folclore irrompe nella saggistica di Belyj, contrassegnando il suo periodo «populista». Per Gogol', come per il popolo e, si direbbe, anche per Belyj, il nemico è il diavolo; contro di lui tutti sono uniti. Perciò il simbolismo occidentale, entrando in Russia, ha assunto una sfumatura mistico-religiosa. È noto che nell905 Belyj andava facendo discorsi anarchici nelle aule universitarie; non è facile, però, distinguere nei suoi scritti di quegli anni la lotta contro il diavolo dalla rivoluzione sociale, e forse non è neppure importante: per lui la rivoluzione ipotizzata da Marx non è che un aspetto particolare della teoria di Solov'ev, che prevede un'esplosione catastrofica, seguita dal Secondo

stoletii, Moskva-Leningrad, 1930, ristampato dalla Bradda books, Letchworth, 1966, p. 388. Il Cfr. N. GOGOL', Skul'ptura, zivopis' i muzyka, in: Sobranie soéinenii v sesti tomach, t. VI, Moskva 1959.

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Avvento 12 • Belyj è in cerca di un socialismo religioso, identificato con l'apocalisse come fine. Le attese millenaristiche si rispecchiano nelle speranze socialiste. Il suo simbolismo diventa sempre più apocalittico, con venature neoslavofile; attribuisce alla Russia e al suo popolo un ruolo messianico, si allontana dalla tradizione del simbolismo colto, «decadente». Lo scrittore raffinato per eccellenza, che trasforma ogni cosa in letteratura per letterati, subisce ciclicamente il fascino del «popolare», del «barbarico». Lo si vede nella sua critica alla cultura occidentale, poi nell'adesione allo «scitismo». Nella letteratura russa, secondo Belyj, l'elemento popolare ha vinto l'occidente individualista. «Noi che scriviamo e leggiamo abbiamo qualcosa in comune. Siamo tutti nelle affamate, sterili pianure russe, all'interno delle quali ci guida da tempo immemorabile una forza impura» (Il presente e il futuro della letteratura russa). È facile capire perché Belyj sia stato oggetto di critiche severe, tali da alimentare la sua mania di persecuzione. Sembra che scriva apposta per attirare gli strali di tutti: delude chi cerca in lui un organico sistema di pensiero, irrita i razionalisti, sconcerta i mistici, provoca la derisione dei politici, l'indignazione dei perbenisti, i rimbrotti degli accademici. Eppure nessuno può evitare di fare i conti con lui, e tutti coloro che si occupano della sua opera, critici compresi, lo considerano geniale. Brjusov, in una recensione del 1910, definisce Simvolizm «uno di quei libri in cui si parla de omni re scibili et quibusdam aliis » e accusa ironicamente l'autore di eccessiva modestia perché nel sommario indica soltanto una minima parte del contenuto dell'opera, che va dal coefficiente di dilatazione dei gas alla letteratura vedica. Poi gli muove alcuni appunti precisi su questioni di metrica. Ha ragione in tutto. Simvolizm non contiene una compiuta teoria del simbolismo, lo riconosce Belyj per primo. Alcuni articoli e tutti i commenti sono prolissi, scritti in gran fretta, 12

Cfr.

N. VALENTINOV,

Dva goda s simvolistami, Stanford, 1969, p. 66.

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pieni di inesattezze. Simvolizm resta tuttavia un'opera centrale del simbolismo russo, eguagliata soltanto da alcuni saggi di Vjaceslav Ivanov. E Brjusov non lo ignora. Gli specialisti di metrica e di teoria della versificazione (:Zirmunskij, per esempio) trovano molte pecche nei suoi studi, nessuno, però, gli nega il pregio dell'originalità. Nel 1922 il poeta acmeista Osip Mandel'Stam 13 , sostenitore della parola dura e concreta come pietra, condanna senza appello Belyj che ha sacrificato la lingua russa all'intuizione mistica, destinandola a un uso liturgico, lo considera un «fenomeno negativo e patologico» nella vita della lingua russa, perché ha sfruttato il «verbo per i comodi delle proprie intuizioni». Giudizio in parte esatto (ma Belyj ha tanti altri meriti «nella vita della lingua russa» l), purché sia chiaro che in quell'uso della lingua Belyj è maestro incontrastato. Da qualunque punto di vista lo si osservi Belyj mostra le sue debolezze insieme a una straordinaria ricchezza. I suoi saggi, chiaramente nutriti di cultura ottocentesca, imbevuti delle idee del romanticismo tedesco, appartengono tuttavia inequivocabilmente al nostro secolo. In Belyj non c'è mai nulla di ovvio, anche le idee già note sembrano inedite, inventate da lui. Inoltre, la sua faccia veramente nuova, novecentesca, è di gran lunga la più importante. Per gli occidentali che lo conoscono, Belyj è noto come il Joyce russo, con una definizione coniata nel 1936 da Evgenij Zamjatin e riferita al romanziere, non al saggista. Una definizione non del tutto convincente, che lascia però intendere la statura letteraria di Belyj e il posto che gli deve essere attribuito, secondo la critica più sensibile, nell'àmbito della letteratura russa. La prosa russa del novecento gli è debitrice di un radicale rivolgimento - che precorre, cronologicamente, quello joyciano - nelle strutture narrative, di audaci innovazioni sintattiche e lessicali; la poesia di un sovvertimento della metrica mediante l'uso di catene di parole 13 Cfr. o. MANDEL'$TAM, Della natura della parola, in: La quarta prosa, Bari, 1967, pp. 64-65.

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collegate tra loro verticalmente, anziché orizzontalmente, in base all'intonazione suggerita dagli accenti e dalle pause. In lui la distinzione tra i generi si attenua; la prosa ha una sua misura interna, un ritmo che l'avvicina ai generi poetici, la saggistica si trasforma spesso in prosa lirica. I suoi scritti di teoria e di critica letteraria aprono la strada alle successive teorizzazioni dei formalisti e capovolgono alcune interpretazioni consolidate. Come può il simbolista, il mistico, essere un precursore dei formalisti ai quali interessa solo l'« artisticità» dell'opera d'arte? Belyj, si è visto, è una personalità sfuggente, non lo si può definire con un aggettivo, né etichettare una volta per tutte. Il suo primo saggio si intitola Le forme dell'arte, anche se allude ad «altro». Fin dall'inizio vuol costruire l'estetica come una scienza esatta. E si accorge ben presto che se, come egli pensa, il vero senso dell'arte è religioso, nessuna estetica rigorosa è possibile. Giunge dunque a una conclusione pratica: «È compito delle estetiche esistenti non indicare il senso dell'arte, ma analizzare le sue forme» (Il senso dell'arte). Si mette subito al lavoro, febbrilmente, accumula e analizza un'enorme quantità di materiale poetico (ma non abbastanza, diranno i suoi critici) e scrive rapidamente i saggi che lo fanno considerare l'iniziatore del metodo formale: Lirica ed esperimento, Tentativo di definizione del giambo tetrapodico russo, Morjologia comparata del ritmo dei lirici russi nel dimetro giambico. Sono scritti poco noti all'estero, data la difficoltà di presentarli al lettore straniero, ma introducono un nuovo approccio allo studio del verso. Belyj era consapevole dell'importanza del suo lavoro. Chodasevic ricorda una sua telefonata: «Se è libero, venga al più presto in città. Io sono arrivato stamattina. Ho fatto una scoperta. Proprio così, una vera scoperta, come quella di Archimede! ». E quando si incontrano, spiega: «Eccole qui il giambo tetrapodico. Tutto qui, come sul palmo di una mano. I versi dello stesso metro si differenziano per il ritmo» 14 • 14

Cfr. v.

CHODASEVIé,

Nekropol', Bruxelles 1939, Paris 1976, p. 78.

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E Chodasevic, che ha tante volte discusso con lui di alcune particolarità inafferrabili del verso russo, condivide il suo entusiasmo: è una vera, grande scoperta. In seguito si è rilevato che Belyj aveva avuto troppa fretta di giungere a conclusioni generali; ma per tutti è evidente la novità del nucleo centrale di queste ricerche; molti hanno attinto a piene mani alla fonte delle sue idee. Belyj scopre che la deviazione dal metro regolare è tanto frequente da non poter essere considerata un'eccezione, si accorge che le irregolarità metriche sono un forte elemento espressivo della poesia e, in un certo senso, le codifica. Applica il metodo statistico - già usato in Russia nello studio della poesia classica latina e greca - al verso russo. Non si accontenta più di criteri generici, come la «musicalità» del verso, sostiene la necessità di studiare con rigore la tecnica poetica. Nel 1910, mentre ripubblica i suoi saggi, dirige a Mosca un seminario di «metrica statistica», al quale partecipa, tra gli altri, Boris Pasternak. Zirmunskij fa partire da lui l'inizio del formalismo. Toma5evskij e Jakobson riprendono - modificandoli - alcuni suoi metodi di lavoro. Gli altri formalisti, indifferenti alla metafisica, alla parola come veicolo di realtà ultraterrene, non sono propensi a riconoscere la paternità di Belyj. Ma proprio a lui, probabilmente, si deve l'interesse preminente del formalismo russo per le arti della parola. Nella percezione del ritmo sembra richiudersi la «forbice» tra scienza e arte che lacera Belyj. Nella conservata capacità di simbolizzazione infantile si ricompongono - a tratti - le contraddizioni del suo simbolismo. La parola-suono esorcizza e crea. La cosa nominata esiste, è realtà. L'arte resta, per Belyj, profezia, anticipazione: non di una nuova arte soltanto, ma di una nuova realtà. Nel presente, oscuro e terrificante, protegge dalle tenebre, vince l'angoscia. «Il gioco di parole è segno di giovinezza; coperti dalla polvere e dai frantumi di una cultura che crolla, noi invo19

chiamo e esorcizziamo coi suoni delle parole. Sappiamo che questa è l'unica eredità che sarà utile ai figli. Essi forgeranno con parole luminose i nuovi simboli della fede; la crisi della conoscenza sembrerà loro soltanto la morte di vecchie parole. L'umanità è viva finché esiste la poesia della lingua; la poesia della lingua è viva. Rossana Platone

Il colore della parola

Nel rendere la terminologia filosofica delle opere di Schopenhauer e Kant cui l'autore fa costantemente riferimento nei saggi Le forme dell'arte e Il senso dell'arte, ci siamo basati sulle seguenti edizioni italiane: A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, introduzione di Cesare Vasoli, Bari, 1968. I. Kant, Critica del giudizio, a cura di Alfredo Gargiulo, Bari, 1970.

Nel caso di palesi inesattezze nelle citazioni da queste opere abbiamo lasciato la versione di Belyj con quella esatta tra parentesi quadre. Le bibliografie in nota ai saggi Le forme dell'arte, Il senso dell'arte e La magia delle parole sono state riportate lasciando immutati i criteri adottati dallo stesso Belyj. Per quanto riguarda i brani biblici citati in modo incompleto o tale da provocare incomprensioni, sono stati da noi integrati con aggiunte poste tra parentesi quadre. (R. B.)

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Da Arabeschi

La maschera

Dedicato a Vjaèeslav Ivanov.

L'anima notturna Da molto tempo l'umanità non prestava orecchio con tale intensità alle risuonanti corde dell'anima. Nei pensieri nascosti si sono rivelate inaspettate inclinazioni. Si sono manifestati strani labirinti di emozioni che celano l'ignoto. Si sono aperte strade là dove sembrava non ve ne potesse essere alcuna. Si è avvicinata una soglia fatale, oltre la quale vi è o la morte o la vittoria. Ed ecco, con segreto terrore si sono immersi vigili nei labirinti delle emozioni, temendo che dalle profondità potesse quasi scagliarsi su di loro il sembiante taurino di un folle minotauro, che minacciasse con un mugghio di conficcare le aguzze corna nell'intrepido eroe. Ecco, nella profondità dei corridoi risuona già un prolungato gemito, e la terra freme per lo scalpitio di zoccoli furiosi. Ancora un istante - ed il temerario vedrà innanzi a sé due fiammelle trapassare l'oscurità. La notte «cupa, come una fiera dai cento occhi» è calata dalle segrete viscere. Quando vola la tempesta notturna, 25

Allora è più fitta la notte, come caos sulle acque, Il deliquio, come Atlante, opprime- l'anima.*

Sopraggiunge un «silenzio universale», del quale dice il poeta: Chi di noi senza angoscia sentiva, nel mezzo del silenzio universale, i sordi gemiti del tempo, la profetica voce dell'addio! Ci sembra: un destino ineluttabile ha colto il mondo orfano, e noi nella lotta con la natura tutta siamo abbandonati a noi stessi. .. **

I più sensibili tra noi si tappano spontaneamente le orecchie per non sentire le tempeste notturne del temp9 «che geme»il sordo ruggito del silenzio, simile alle urla del minotauro nella deserta oscurità dei labirinti notturni. Involontariamente distogli lo sguardo dalle profondità verso la superficie della coscienza, sebbene sappia che vi giungerai inevitabilmente, che è terribile andarvi. Levigate sono le superfici della coscienza, ma all'orizzonte si annida il pericolo. All'orizzonte si è levata una torre nebulosa che ha rimbombato sordamente, balenando di fuoco. Chi verrà in aiuto, chissà? Ma tacciono coloro che dormono di un sonno profondo. Un vecchio decrepito, allarmato da un'impetuosa raffica di gelido vento, si rigira da un fianco all'altro, borbotta nel dormiveglia: «È tutto tranquillo: dormi» ... E di nuovo tace in una beata ignoranza. Si approssima il tempo in cui: La notte cupa, come una fiera dai cento occhi, guarda da ogni cespuglio,*** • Togda gustee noc, kak chaos na vodach, l Bezpamiatstvo, kak Atlas, davit du.Su. • • Kto bez toski vnimal iz nas, l Sredi vsemirnago molcani;a, l Gluchiia vremeni stenan'ia, l proroceski-proscal'nyi glas! l Nam mnits;a: mir osirotelyi l Neotrazimyi rok nastig, l I my v bor'be s prirodoi celoi l Pokinuty na nas samych ... ••• Noc, chmura;a, kak zver' stookii, l Gliadit iz kaidago kusta.

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e follemente si struggono le notturne .anime degli sgomenti. Sfreccia la gelida tempesta in un assalto ruggente, furioso, sollevando polvere, e come una torre si innalza il sordomuto, azzurro Atlante, che si è gettato sulla terra come un deliquio.

Le maschere Esistono esseri enigmatici, strani. Della loro esistenza non sospettano gli inerti, poiché li considerano persone come tutte le altre, in nulla diversi da queste. Ma come spettri esangui essi si librano innanzi al perspicace - questi lupi mannari che hanno indossato la maschera. Essi sanno tutto. Essi vedono tutto. Ma non parlano. I loro occhi penetrano attraverso lontananze abissali, le loro labbra serpeggiano in un sorriso. I loro volti sono le maschere indossate. Guarda quante ne sono apparse tra noi! I dimenticati terrori si sono nuovamente appressati alle superfici della coscienza, ed è risorta la maschera dell'antica Grecia. Gli occhi riflettono soltanto ciò su cui sono diretti. Dove hanno fissato gli occhi enigmatici, se questi sono fessure alle quali si è stretto l'abisso? Sulle labbra ghignanti, piene di paura, il vento di mezzanotte suona i propri canti solitari: ecco perché dalle loro parole prende a spirare un refolo. Ci sono poi coloro che si sono inebriati di profondità, ma questi hanno indossato la maschera del sogno, e tacciono sul profondo, affinché nessuno venga a sapere su cosa sono stati sospesi. Da sotto la maschera del visibile si spalanca l'invisibile. Le maschere fondono il piano con la profondità, ed è per questo che sono marcate dal simbolo: qualcuno, profondo, ha gettato uno sguardo sul loro semoiante assottigliato. Non diremo mai chi ci guarda là, di sotto la maschera, ma proviamo terrore quando ci ~eguono mascherati. Dicono che il simbolo sia il seme del mito, ma nella mitopoiesi il genio si fonde con la folla*. Dalle maschere si riconoscono i cospiratori della futura azione. • Vedi l'articolo di Vjaeeslav Ivanov Poeti cem [Il poeta e il volgo].

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La maschera tragica - simbolo dell'azione che matura, capace con il suo ineffabile aspetto di trasformare il contemplatore in statua - è la terribile maschera della Gorgone che guarda con occhi vuoti, in un'aureola di capelli serpentini. Ecco perché cominciamo a sospettare che i volti, capaci nonostante l'aria dignitosa di comunicarci terrore, siano maschere da sotto le quali si è fissato su di noi l'orrore della Medusa.

L'azione L'ineffabile è muto. In coloro che hanno conosciuto la profondità dell'ineffabile non si esaurisce la necessità di comunicare. Al contrario, questa necessità cresce, perché la solitudine è straziante, quando da ogni parte ci seguono i penetranti occhi dell'epoca calamitosa. Si vuole allo stesso tempo vedere, allo stesso tempo imbattersi nella profondità. La parola non è in grado di esprimere l'ineffabile: resta la musica. Ma la musica è incitamento all'azione. E dal momento che in essa si esprime il fondamento incondizionato dell'esistenza (la volontà), la musica costituisce il segno incondizionato dell'azione che dà espressione all'esistenza. Ciò che è indicibile mediante la parola può essere detto mediante l'azione. La maschera tragica apparsa in mezzo a noi chiama noi, che abbiamo conosciuto, all'azione comune. L'eguaglianza delle ebbrezze, che determina il turbine degli impeti dell'anima - ecco il principio dell'azione. Il turbine vorticoso delle singole emozioni, vicendevolmente trapassate e versate dalla musica nella purpurea fiamma dionisiaca, che innalza gli infuocati alla coppa di zaffiro dei cieli - non deve forse tale turbine creare anche i riti dell'azione circolare, i girotondi, le danze, i canti? Verranno giorni in cui di nuovo sui prati primaverili in fiore, tra viole e mughetti, al frenetico gemito di lunghe trombe lamentose, alle forti risa del tamburello, inizieranno a roteare alla luna giovani nudi con pelli di tigre, coronati da 28

ghirlande di verdi foglie, per consacrare con una casta danza la grande azione.

Friedrich Nietzsche Le parole sono le ombre delle emozioni. Rendendo pm profonda l'emozione, rendiamo difficile la sua trasmissione. Nell'anima resta una dovizia di entusiasmi e di tormenti che non è possibile trasmettere. Come può esprimersi il cuore? Come ti può capire l'altro? Capirà di cosa vivi? Il pensiero enunciato è menzogna. Scavando, agiti le fonti: Nutriti di esse e taci!*

L'arte cessa di appagare. Invece di immagini abissali l'anima reclama una vita senza fondo. Gli artisti, i poeti, i musicisti - ecco i pochi ai quali è accessibile la contemplazione degli abissi. Ma intanto l'artista, rappresentando l' abissale, invece di immergersi nell'abisso si allontana da esso, se la cava con una rappresentazione, si libera per nuove contemplazioni. Dinanzi a lui c'è un turbine di contemplazioni, e non di azioni. Ecco perché l'artista non può essere la guida della nostra vita. Cerchi un'altra guida, che è passata silenziosamente sugli abissi ed ha terminato il cammino riposando sull'altra riva. Attraverso il suo tragico, lacerato sembiante, se ne sprigiona uno nuovo, acquisito per sempre - il sembiante di un fanciullo placato sull'altra riva, un sembiante che ci guarda con un sorriso di lieve tristezza. I terribili tratti brillanti sono delicatamente trasparenti di gioia, tenerezza, quiete. • Kak serdcu vyskazat' sebja? l Drugomu kak ponjat' tebja? l Pojmet li on, cem ty zives'P l Mysl' izrecennaja est' loz'. l Vzryvaja, vozmutiJ' kljuCi: l Pitajsja imi i molCi! (Tjutèev)

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Negli ultimi anni di vita Nietzsche, quieto, taceva. La musica suscitava il sorriso sulle sue labbra estenuate. Quando ci colgono segreti terrori, segrete paure, nessuno di coloro che ci circondano può consolarci. Il folle Nietzsche sapeva certo come avvicinarsi nel momento del segreto pericolo ed incoraggiare con un lungo sguardo muto. I tratti trasparenti, sottili, raggelati, pallidi, ora come una speranza ora come un ammonimento balenano per noi raramente anche nella folla. Ti volgi- vedi soltanto una schiena e un cappello floscio sul marciapiede. Ecco, la figura balenata si è già nascosta ad una svolta delle vie. E non sai se tutto ciò sia apparso in sogno, o se qualcosa sia realmente avvenuto. In qualche luogo nella strada immagino l'elegante, raggelata figura, il bianco volto dai morbidi baffi biondi sollevato in alto, il cilindro bianco, lo sguardo profondo, infantile, avvolto in una mollezza felina come in una nebbia dove potrebbero scintillare i dardi di una furia tigresca. Mi immagino la mano calzata dal guanto che serra la rossa borsa di marocchino - la figura, come una visione, che scivola tra le vie. Ecco, due studenti corrono da questa parte, si tolgono rispettosamente i berretti, ed egli, riavutosi, come destatosi da un sogno, con cortesia insinuante solleva il suo bianco cilindro. Un passante dice all'altro: «Herr Professar Nietzsche» ...

Arthur Nikisch Arthur Nikisch ha uno strano volto. Quando sale piano al suo posto, circonda lentamente i musicisti con uno sguardo pensoso, solleva con cautela il braccio, quasi placando il ruggito degli elementi non ancora scatenati, e poi, teso come una corda, trasfigurato, strappa suoni tonanti, nei quali risuonano per noi i sordi gemiti del tempo, la profetica voce dell'addio, 30

quando la sua elegante, bianca mano sembra fluttuare, arrestandosi, sembra sciogliersi in aria - a che punto è indimenticabile questo volto dagli occhi socchiusi! Pallido, pallido, con i capelli arruffati che pendono sopra la fronte, con la barbetta triangolare che incanutisce - è come se avessi già visto un tempo questo antico sembiante, quando esso si stendeva fuori delle oscure onde del caos con un triste sorriso, svelando i labirinti del terrore. Ed ecco, è apparso di nuovo l'antico volto dei sogni infantili, segnando il ritorno del dimenticato delirio ... Ma ecco, arrestandosi, ha steso le braccia, per abbassarle impetuosamente e restare raggelato, quasi avesse troncato l'ebbra isteria dei suoni. Ed allora dagli antichi labirinti si è sollevato il tema fatale della sinfonia. Ecco, come prima, è sfrecciato con un urlo furioso il sembiante taurino del minotauro, infrangendo le speranze del cuore. . ... è più fitta la notte, come caos sulle acque, Il deliquio, come Atlante, opprime l'anima ...

Il mago Ascoltando l'esecuzione di Hoffmann delle fughe di Bach, cominci a capire come anche alla musica sia accessibile la chiarezza apollinea. Apprezzi meglio l'acuta definizione di Schlegel della musica come architettura fluida. Ascoltando Nikisch, l'anima squarcia gli argini delle forme e fugge in un caotico vortice. Mi è capitato di assistere alle prove di Nikisch. Mi stupivo allora della consapevolezza che traspariva in lui nella interpretazione di certi passi della sinfonia. Tranquillamente e con chiarezza egli motivava davanti all'orchestra la necessità di un certo rallentamento o di un'accelerazione del ritmo, come invitandola a condividere liberamente e consapevolmente i suoi punti di vista. Mi convinsi allora con i miei occhi che la limpidezza esemplare, la singolarità dell'interpretazione, ·la chiarezza dei dettagli - tutto ciò era il risultato di una lunga 31

e minuziosa meditazione, dove non c'era posto per il cosiddetto «viscerale». Ricordo che nella sinfonia in do maggiore di Schubert egli metteva in rilievo i passi che di solito restano innosservati. I risultati erano sorprendenti. La sinfonia di Schubert ne risultò completamente approfondita. Il suo disegno formale cominciò a trasparire. Sul suo fondo comparivano le lontananze abissali dei terrori dionisiaci. Ma quando tutto ciò è appreso e migliaia di persone aspettano da lui suoni divini, egli esce lentamente sul palcoscenico, con cautela avvolge tutti con uno sguardo incantatore, solleva piano il braccio e poi, teso come una corda, dischiude una cascata di suoni. Il vino spumeggiante dell'ispirazione sprizza dai suoi occhi socchiusi come un'aurora, come un fuoco dorato-purpereo.

L'invasato Le visioni si stendono sopra gli abissi dell'anima. È come se un invasato gridasse, dopo aver infranto il suo aulos sulla roccia: «Ora sono solo! Perché mi inebri, sole, creatore del vino? Ho dimenticato tutto! L'abisso ha digrignato i denti per il silenzio! Mi sento strano! Dove son capitato? Non c'è più nessuno qui! Tutto è fuggito- svanito!». Sopra di lui si librano uccelli dal petto bianco - stridenti trombe dell'entusiasmo- e gridano. Gli atomi dell'universo spargono luce. La luce ha inondato ogni cosa! Getti di luce hanno squarciato il petto che respira avidamente. Getti di luce sono penetrati nel cuore - dorate frecce, dorate! Una pelle di leopardo freme dietro le spalle dell'invasato. Nella danza egli si è cinto di spine la pallida fronte. La pallida fronte è lacerata dalle spine. Stilla sangue. E grida, esultando: «Non esisto! Non esisto! Il mio sangue si è trasformato in vino! Venite da me, cantate, cantate, dilaniate - rischiarati dalla luce serale, trasformate in vino la porpora del sangue - in eb32

brezza dorata del colore del tramonto - trasformate, oh, voi, vinopurpurei l » Era ebbro di felicità. Ma aprì l'anima al tramonto, e discese su di lui un vivo fuoco purpureo: la face ardente del fragrante etere primaverile.

Dopo l'ebbrezza Passandosi la mano sui capelli, Arthur Nikisch volge alle folle entusiaste il suo noto volto stanco e pallido, si inchina con cautela e poi lentamente si allontana con la testa abbassata, per tornare di nuovo.

La schiarita Non appena gli uccelli del malaugurio, gemendo, sfrecciano e azzurre folle di Atlanti strisciano come montagne su di voi - sappiate, anime notturne che celate la tempesta, che gusterete la dolcezza di una smisurata esultanza. Nessuno che tema la tempesta e la morte conoscerà quelle beatitudini. Abbandonatevi a tutti i venti, a tutte le tempeste - oh, anime notturne! Ecco, dal cielo dorato come vino vi copre l'ombra del gigante azzurro e tempestoso. Ecco, ha alzato su di voi una roccia tonante. Le sue fumide mani si innalzano nei cieli serali. Anime notturne, che celate le tempeste, non abbiate paura! Tessuto della serica morbidezza del vapore, il colosso tonante si riversa in una pioggia dorata. Con zampilli d'oro, brillando nelle aurore, tornerà di nuovo al mare natio - al grande mare; dall'umore marino ha strappato il turchese respiro, innalzandolo nei cieli come un suonante cirro azzurro-pallido. (1904),

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Una finestra sul futuro

Il turbine Milioni di secoli volano negli spazi e trascinano via i soli, avvicendandosi come onde fugaci. Qui un mondo è crollato sull'altro. E i pianeti ormai freddi si sono nuovamente infiammati. Ma là si addensa una solitaria nebulosa, per liberare un giorno soli e gettare verso la riva dei tempi un abisso di ardenti gemme. I popoli si combatteranno nel mezzo di immutabili spazi ignoti, sulla fredda scorza del fuoco eruttato dalle viscere di centinaia di vulcani. Poi tutto si dileguerà. Il noto si inebrierà di ignoto, e questa città con le case, i palazzi e i templi svanirà come un antico fantasma, che già più di una volta ha turbato la quiete dell'Eternità. L'ignoto faceva rapprendere le nebulose. I saggi cinesi lo chiamano «Tao». Il «Tao» scuote le eteree pieghe dei mondi. Dalle eteree pieghe si spargono, come laceri schizzi di razzi, milioni di immagini sfavillanti. Il «Tao» non cessa di balenare. Ora vola, bianca perla sul raso azzurro, ora si stacca dall'erta e zampilla come pioggia sui graniti. Noi diciamo allora che vediamo l'idea. 35

Noi - creature nate sulla fredda scorza di un delirio infuocato - noi abbiamo avvolto la raggiante essenza nelle tele di ragno dei concetti. E quando il «Tao» ci guarda, aprendo la ragnatela, noi diciamo che arriva la follia. Ma non siamo forse folli, quando solitari ci riposiamo nell'antico ignoto e quanto ci è vicino si dissolve, come nebulosa, nell'universo? Non ci sembra strano allora chiamare le feritoie sull'immensità finestre, e la rilucente torcia - lampada?

Il simbolo Un raggio di luce può trapassare una serie di vetri immaginari, senza potere però distendervi sopra la realtà. È necessario trasformare il vetro in specchio, dopo averlo ricoperto di amalgama. Soltanto allora l'immensità del mondo si ribalterà nella superficie speculare. Ecco come deve essere la conoscenza, poiché il concetto è un vetro, mentre lo specchio rappresenta il concetto innalzato ad idea. Ogni cosa ha la propria ombra. Questa ombra dell'idea è il concetto. Ma il concetto non è l'idea. L'idea può toccare il concetto, come la tangente la circonferenza, soltanto in un punto. Questa possibilità di fugace contatto è fonte di perpetui errori, giacché si confonde l'idea con il concetto. È compito del processo logico del pensiero innalzare ad idea il concetto chiarito, facendogli compiere una sorta di spostamento lungo la circonferenza fino al punto di contatto di questa con la retta. I dati dell'esperienza esteriore coincidono allora con quelli dell'esperienza interiore. Con stupore vedi là, dove solo poco prima comprendevi. Nel mezzo della superficie uniformemente illuminata del pensiero si forma una cavità, dalla quale prende a scaturire un fascio di luce. Nell'arte noi conosciamo le idee elevando l'immagine a 36

simbolo. Il simbolismo è il metodo per rappresentare le idee in immagini. L'arte non può rinunciare al simbolismo, che può essere ora mascherato (arte classica), ora manifesto (romanticismo, neoromanticismo). Nell·arte c'è sempre un elemento di coesione. Prendiamo qui in considerazioni il momento in cui si tendono le pieghe della ragnatela universale: ciò che era esteriore cessa di apparire come tale. Il confronto di un oggetto o di parti di esso con un altro innalza l'oggetto dato ad una terza cosa. Questa terza cosa diviene il rapporto che riunisce il molto in uno, cioé il simbolo. E dal momento che in questo rapporto si confrontano i tratti relativi (fenomenici) degli oggetti, esso mette in luce la relatività del relativo, dirigendo in tal modo la vista interiore verso ciò che esce da sotto la maschera della relatività, una volta che essa sia stata svelata. Ecco perché nel simbolismo ogni complicazione dei rapporti manifesta più pienamente l'elemento interiore che scaturisce dalla complessità. Ecco perché i mezzi della raffigurazione (paragone, metafora, metonimia, etc.) costituiscono lo strumento del simbolismo. Il simbolo è l'involucro delle idee, l'involucro del «Tao». Se il concetto può essere innalzato a idea e l'immagine a simbolo, se il simbolo rappresenta sempre l'involucro delle idee, nel simbolismo si stringe un vincolo tra le vette della conoscenza e dell'intuizione. Si dà inizio al metodo che unisce la conoscenza alla creazione. Risulta qui che i dati dei diversi metodi appaiono come la proiezione dello stesso metodo sui vari piani dell'esistenza. Si apre la possibilità di cercare il senso esoterico delle diverse verità tracciate esteriormente. Attraverso la formula di Van der Waals possiamo intravedere ciò che nell'azzuro ha plasmato le nuvole, infilandole in una collana che ha poi disteso lungo l'orizzonte. Se il simbolo viene concepito partendo dal rapporto di due fenomeni che si toccano in uno, il rapporto dell'essenza (musica) rispetto alla sua manifestazione genera una particolare classe di simboli - quelli tragici. Dal carattere del rapporto dell'idea con l'apparenza è determinata la nostra concezione del mondo: o la diversità delle immagini viene 37

annientata, immersa nella profondità, o la profondità stessa, incarnandosi in questa diversità, attribuisce ad essa una sempre maggiore precisione. Ha qui le proprie radici l'inevitabile dualità del rapporto con il mito tragico. «Abbiamo considerato il dramma e siamo penetrati con sguardo chiaroveggente», dice Nietzsche, «nel mondo interiore, agitato dai suoi motivi, e nel far ciò ci è sembrato che dinanzi a noi non si dispiegasse null'altro che un quadro simbolico. L'assoluta chiarezza del quadro non ci soddisfaceva, poiché essa sembrava allo stesso tempo celare e palesare qualcosa» ... La maschera tragica che ci guarda col sorriso della Medusa suscita turbamento. Cosa ci guarda di lì sotto? Non è stato forse il vuoto a fissarci? Cosa dovremo fare, se strapperemo la maschera e vedremo che sotto di essa non si nasconde nessuno? Quale forza è racchiusa nel fatale sorriso della Medusa Gorgone, incatenata allo scudo di un Perseo a noi ignoto, se questa maschera è talvolta capace di trasformarci in atterrite statue di pietra? E nondimeno questo orrore è illusorio. Non è forse capace di accecarci lo splendore inaspettatamente balenato da sotto le nebulose pieghe della vita? Forse nell'istante successivo i raggi infrangeranno l'enorme, nera macchia illusoriamente cresciuta tra noi e la luce. Ci fisserà un bianco sembiante, su di noi sfavillerà la folgorante armatura di Perseo - nuovo Apollo a noi rivelato. «Ovunque si sollevino impetuosamente le onde dionisiache», dice Nietzsche, «deve discendere anche Apollo celato da una nube». Non apparirà forse talora la terribile maschera della Gorgone, circondata da un'aureola di capelli serpentini, dalla nube caliginosa con la quale è furtivamente arrivata a noi la divinità raggiante? Ecco che si è dissipata la nube. Ecco che non c'è più. Le piccole strisce serpentiformi dei grigi nembi volano via, svelando il bagliore dell'armatura divina.

Il mistero La questione del rapporto tra il principio dionisiaco e 38

quello apollineo si sviluppa per la prima volta in tutto il suo senso storico universale in Nietzsche. Il mistero diede la forma per il dramma musicale. Gli abissi da esso rivelati risultarono successivamente stretti dalla ragnatela dell'eclettismo alessandrino. Abbiamo ora visto come da questa tela sia di nuovo zampillata su di noi la musica. Il mistero non costituisce dunque l'anello finale dell'evoluzione vissuta? Se è così, se il dramma si trasforma in mistero, 1'attore deve divenire il sacerdote, e lo spettatore il partecipante al mistero stesso. Il dramma passa nella vita per forgiarvi simboli sacri. Ciò che nel momento dell'azione tragica ci costringeva in certo modo a fissare gli sguardi oltre il mito, per la comprensione del suo senso sacro, di prototipo - questo costituisce una buona novella sul nuovo giorno in cui la maschera tragica cadrà dal volto della divinità tanto a lungo attesa, che sta per giungere nel mondo. Nietzsche, che sottolinea immancabilmente le deduzioni derivanti dal suo pensiero, in questo caso tace come una tomba. Capiva troppo bene il pericolo di definire il mistero l'ultima conclusione della nostra cultura. Questa conclusione lo avrebbe posto nella necessità di parlare della religione, ed inoltre da un punto di vista completamente nuovo, forse rovinoso per lui stesso. Ecco perché egli cercava la salvezza nella musica, definendo il dramma musicale l'ultimo anello conclusivo della cultura. Ecco perché si affrettò a riunire le linee convergenti della poesia e della musica nel nome di Wagner, non considerando come questi fosse soltanto uno dei pionieri che ci annunciavano la fusione di poesia e musica - fusione che conduce inevitabilmente al mistero. Avvicinandosi ulteriormente al punto centrale del valico della nostra cultura, W agner con il Parsifal ci fece chiaramente intendere di che punto si trattasse. Egli iniziò a parlare, per la verità in modo ancora maldestro, là dove Nietzsche si sarebbe morso la lingua; è chiaro che si rivelò un traditore per Nietzsche. Nietzsche compie allora il suo balzo fatale da Wagner e Bizet, da Schopenhauer al positivismo. Questo balzo si rifletté in 39

maniera indelebile su tutta -la sua attività successiva, introducendo caos e scetticismo là, dove il sole non può ancora sfolgorare. Se Nietzsche avesse guardato negli occhi il futuro che si appressava, non avrebbe potuto attendere qualcosa di autenticamente tragico dalle opere di Wagner. La tragicità approfondita fino al mistero è inevitabilmente legata alla semplicità. Nell'antichità la gente si riuniva per le preghiere davanti alla statua del dio. Ora si innalzano teatri con la scena girevole. Manca però la vera preghiera. Se l'essenza del mistero è religiosa, essa non deve sorgere né nel dramma né nell'opera.

La Olenina d'Alheim Quando è di fronte a noi - questa interprete delle profondità dello spirito, quando esegue per noi i suoi canti, non osiamo dire che la sua voce non sia perfetta, che soprattutto non sia forte. Dimentichiamo le qualità della sua voce perché ella è più di una cantante. Il rapporto della musica verso i simboli poetici approfondisce questi ultimi. La Olenina d' Alheim trasmette i simboli .approfonditi con notevole espressività. Accentua il proprio rapporto verso i simboli trasmessi con un incomparabile gioco del volto. Il simbolo poetico, complicato dal rapporto della musica nei suoi confronti, trasfigurato dalla voce e accentuato dalla mimica, si amplia immensamente. L'idea esce in rilievo dal simbolo ampliato, approfondito. Infine, un'abile combinazione dei simboli dà all'idea la possibilità di esprimersi più semplicemente. Ecco perché la Olenina, che trae un accordo tanto complesso sulle corde della nostra anima, oltrepassa il confine di musica e poesia. Noi non possiamo immaginare un'arte che unisca più compiutamente la poesia alla musica al di fuori del dramma e dell'opera. Ma il dramma e l'opera, per la comples40

sità dei mezzi necessari alla loro realizzazione, indeboliscono il getto immediatamente zampillante dell'Eternità. Il dramma e l'opera contemporanei minacciano di cadere sotto il peso di una sempre più complicata tecnica artistica. Ecco perché il potenziale spirituale manifestato dal dramma e dalla musica deve trasformarsi in qualcosa di semplice, che sopprima l'uno e l'altra, per elevarsi ad un'altezza ancora maggiore. Non deve forse il mistero nascente ricevere la forma infuocata delle profezie del canto? La fusione assoluta della musica con la poesia è possibile soltanto nell'anima umana, e perciò la loro unione è in grado di generare non opere artistiche, ma personalità forti nello spirito. Queste personalità debbono divenire il prototipo dei futuri sacerdoti. L'apparizione di Vladimir Solov'ev, di Nikisch, della Olenina d'Alheim, è significativa per la nostra cultura. È passata l'epoca dei geni e dei grandi pensatori. In loro vece ci appaiono innanzi qua e là volti, nei quali scorgiamo il pathos profetico, ai quali toccherà in futuro di unire la vita al mistero. La Olenina d' Alheim dispiega innanzi a noi le profondità dello spirito. Su come possa farlo e su quanto rivela innanzi a noi - su tutto ciò giace l'ombra della profezia sul futuro. Ecco perché si impone con particolare insistenza l'idea che sia ella stessa un anello che ci unisce al mistero. La nostra coscienza è un sottile confine tra il subconscio e il superconscio. I differenti rapporti tra tali sfere psicologiche rendono variabile questo confine. Introducendo nella nostra anima attraverso i simboli dispiegati nuove combinazioniemozioni, noi forniamo nuovo materiale ai nostri nervi. E dal momento che l'una o l'altra atmosfera delle percezioni nervose costituisce il terreno per un nuovo riordinamanto del materiale della nostra attività cosciente, questa atmosfera è in grado di incidere sul mutamento del confine tra superconscio e subconscio. La mistica che zampilla dagli antichi canti nella esecuzione della Olenina d'Alheim può rivelarsi la leva con la quale in seguito gli uomini rovesceranno l'intera realtà. 41

Mutando la nostra psiche, essi sono in grado di mutare non solo gli elementi particolari della coscienza, ma anche le sue forme generali. Esteriormente determinabile, la religione costituisce un sistema di simboli dispiegati in successione. Questa interiore connessione dei simboli distingue la rivelazione religiosa dalla creazione artistica. Dal lato esteriore manca il confine tra arte e religione. Esiste soltanto la diversità nella qualità e nella quantità delle immagini interiormente connesse. La destinazione dell'arte è l'espressione delle idee; l'approfondimento e la purificazione di ogni idea dilata immancabilmente questa idea fino all'universale. Interviene qui la sfumatura religiosa di ogni idealità nell'arte. Perciò il simbolo, approfondito e dilatato analogamente all'idea, è legato al simbolo universale. Quest'ultimo è lo sfondo immutabile di tutti i simboli. Tale simbolo è il rapporto del Logos con l'Anima universale, come principio mistico dell'umanità. Ecco perché i fondamenti del simbolismo sono sempre religiosi. Ecco perché la complessità delle idee-simbolo accennate nel canto della Olenina d'Alheim gli imprime il marchio del servizio religioso.

Il concerto Con la maschera saldamente serrata al volto, nel mezzo delle sale illuminate dall'elettricità scivola una nera sagoma noncurante, sprezzante. Sopra l'abisso scivolano dame levando gli occhialini e facendosi vento coi ventagli. Sopra l'abisso ondeggiano le falde delle finanziere abbottonate da cima a fondo. Tutti senza esclusione sigillano con le maschere la profondità spalancata delle proprie anime, affinché dagli abissi dello spirito non spiri neanche un refolo. Quando spira l'Eternità, queste persone temono di buscarsi la febbre universale. Un tizio sussurra ad un altro: «Una cantante di talento» ... E basta? No, no, certo, non solo, ma non chiedete nulla, non 42

strappate i veli dall'anima, quando nessuno sa cosa fare con la profondità, sopraggiunta furtivamente. Tutto è troppo inaspettato. E come svelare ai nani l'impeto del titano - i grandi sentimenti atterriscono quando giungono senza grandi imprese. Ella è strana sul palcoscenico da concerto, ella che, dopo avere aperto gli occhi ai dormienti, li abbandona invece di condurli al sole. Che sobbalzino, celando l'anima, quei due signori: ecco che con le dita danno colpetti al manifesto. Ecco che chinano i propri volti l'uno verso l'altro, come cospiratori, per scambiarsi una volgarità. Ma non è una superficie che si è avvicinata all'altra, bensì due nere voragini di profondità, nascoste dalle maschere. Ma silenzio, silenzio! Una donr~a alta in nero entra un po' a disagio sul palcoscenico. Nella sua figura c'è qualcosa di schiacciante, di troppo grande per l'uomo. La si dovrebbe ascoltare tra gli abissi, la si dovrebbe vedere negli squarci delle nubi. Nei tratti marcati del suo volto la semplicità si è combinata alla estrema eccezionalità. È tutta semplicità, è troppo singolare. Gli occhi vaghi ci bruciano con una smisurata lucentezza, come se si appressasse alle stelle attraverso i voli della vita nebulosa. Canta. Su ciò che abbiamo dimenticato, ma che non ci ha mai dimenticato - sull'alba della dorata felicità. E a questa alba non vi sarà limite, perché non vi sarà limite alla felicità. Sarà infinita. I suoi gemiti sono come il pianto di una tormenta di neve invernale su come il fratello ha ucciso il fratello ... Dai lontani spazi universali risuona il lamento del vecchio Atlante, che in solitudine sostiene il mondo. I eh ungliicksel'ger Atlasl eine Welt, Die ganze Welt der Schmerzen muss ich tragen ...

Bisogna aiutare il vecchio titano. Tonante Atlante, avvolto di nubi all'orizzonte, dove vai fuggendo da noi insieme all'orizzonte, per lamentarti nuovamente della tua solitudine? 43

Le nere sagome degli uomtm m finanziera, le loro maschere, diventano trasparenti, vitree. Tutto annega nell'antico spazio universale. Esso plasma eternamente i propri sogni e fa girare i soli. Qui un mondo è crollato sull'altro. E i gelidi pianeti si sono infiammati. Esplodono rosse lingue di fuoco, come rosse chiome trascinate dal vento. Ma là si addensa una solitaria nebulosa, per liberare un giorno soli - rubini scarlatti, ametiste universali, e gettare verso la riva dei tempi un abisso di gemme. I popoli si combatteranno nel mezzo di immutabili spazi ignoti. Poi tutto si dileguerà. Il noto si inebrierà di ignoto, e questa città con le case, i palazzi e i templi svanirà come un antico fantasma, che già più di una volta ha turbato la quiete dell'Eternità. Ecco, ciò che sembrava trasparente e faceva trasparire l'abisso del mondo si è di nuovo offuscato e non fa trasparire più nulla. Ecco, ristà in un impeto ammutolito. Uno snello abete, reso folle dal dolore, si raggela così nella supplica. Ma si allontana. Il tuono degli applausi le risuona appresso. Sono vani gli impeti del titano presso i nani. Grandi sentimenti e piccole imprese. La mascherata ricomincia. Gli abiti frusciano. Una maschera chiede all'altra: «Ebbene?» Una maschera risponde all'altra: «Sorprendente». Discorsi animati e gesti troppo vivaci. Uno studente si è spellato le palme. Gli uomini in finanziera sobbalzano. Svolazzano le falde dei loro vestiti. - Una lugubre danza di mascherati sopra un abisso sempre uguale. Quando canta, tutto fa trasparire la profondità. Ma se vuoi immergerti in questi abissi, ti infrangi ancora invariabilmente contro la superficie. Quando finirà tutto ciò? (1904)

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L'arte

- L'arte è arte di vivere. Così io definisco l'arte. Ma ho diritto di dare tale definizione? La mia è una definizione? Cosa significa definire? Definire un giudizio enunciato significa indicare il rapporto tra il concetto di soggetto e quello di predicato. Nel caso presente il concetto arte è la limitazione di uno più generale; quest'ultimo è il concetto di capacità di vivere. Io debbo definire l'arte capacità di vivere. Saper vivere, dico io, e capisco il senso di queste due parole. Saper vivere, voi leggete le mie parole e le capite. La loro combinazione, la loro unione è comprensibile. Ma le parole in sé lo sono? Che cos'è la capacità? Che cos'è la vita? Ecco che la chiarezza della comprensione sparisce già. «X+ Y» è comprensibile, chiaro; «X», «Y», considerate separatamente, ci guardano come enigmatiche sfingi. È sempre così: la combinazione delle parole avvicina il loro senso concreto, inesprimibile in termini, vissuto; la loro separazione è la scomposizione di una integrità, la scomposi45

zione dell'esperienza legata ad un determinato gruppo di parole; la definizione delle parole del gruppo è già la sua scomposizione, scomposizione del senso vissuto, trasformazione della rappresentazione in concetto. Il fine viene qui trasferito alla parola, che diventa il fine della definizione, mentre precedentemente era il mezzo di espressione dell'integrità vissuta. L'integrità vissuta della vita viene scomposta dalla conoscenza. La conoscenza viene scomposta dalla vita. La definizione di capacità di vita mediante quella dei concetti di vita e di capacità è incapacità di vivere, mortificazione della vita, poiché per definire esattamente questi concetti io debbo dedicare la mia vita alla soluzione dei più sottili problemi del metodo della conoscenza, senza sperare di risolver li. Debbo filtrare la parole attraverso il prisma delle varie discipline· scientifiche e filosofiche. La vita è un processo fisico-chimico, cioè un processo di formazione e di scambio di albumine. Ma il processo di formazione delle albumine non è stato definito dalla chimica. La vita è un insieme di norme di comportamento che predeterminano le questioni teoriche della ragione. Ma l'insieme delle norme e la stessa predeterminazione da parte di esse delle forme teoriche del sapere è sempre un problema etico. La vita è un nesso di esperienze, ma le leggi della correlazione sono ignote. La vita è causalità interiormente percepita, la vita è finalità reale, etc. etc. Così definiamo la vita noi metodologi, noi teorici, definendo in tal modo un'entità ignota mediante un gruppo di entità ignote. Allo stesso modo definiamo la «capacità»; ed allo stesso modo questa definizione è un equilibrismo di entità ignote. Noi correliamo poi entrambi i gruppi di entità ignote, e questa elevazione di ignoto al quadrato ci crea l'illusione di aver definito qualcosa. 46

Un trattato in molti volumi renderà conto alla nostra coscienza del grado del nostro non-sapere. Questa consapevolezza del non-sapere noi la chiamiamo sapere. Ci sembra sempre che se ammetteremo apertamente l'impossibilità di comprendere qualcosa nei termini della scienza ci dimostreremo dei selvaggi. Se invece formuleremo una qualsiasi domanda in modo che a tutti sia chiaro come una via di ricerca non risponda in un modo, ed una seconda non risponda in un altro modo alla domanda posta, si tratterà già di conoscenza. Il fine della conoscenza, il suo contenuto si trasforma così in metodo. Cos'è la vita? Il metodo del giudizio. Cos'è la verità? Il metodo di interpretare i metodi. Questa forma particolarmente grave di non-sapere, nonsapere per punti, è oggetto di orgoglio in alcune scuole teorico-conoscitive. In che cosa si distingue il semplice non-sapere dalla teoria del non-sapere ... scusate, dalla teoria della conoscenza? Il semplice non-sapere è modesto, mentre il non-sapere tutelato da norme ha l'aria di un'armatura cavalleresca, che modelli il contorno del cavaliere... senza che il cavaliere ci sia. Oggi è un guardiano che difende i templi del sapere dal bazar dell'onniscienza, domani sarà uno spauracchio in vendita a basso prezzo in quello stesso bazar. Ma torniamo in argomento. «Bisogna saper vivere», affermo io. «Bisogna saper vivere», affermate voi. Cos'è la vita? «La vita è l'insieme delle norme della ragion pratica», affermo io. «La vita è il processo fisico-chimico di formazione e di scambio delle albumine», affermate voi. Non ci capiamo più: il nostro accordo si è rivelato fittizio; oppure esso non aveva le proprie radici in un'affinità di definizioni del metodo, ma in qualcos'altro. In ogni caso, noi dobbiamo comprenderci l'un l'altro,

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dobbiamo assimilare i reciproci termini o rigettare del tutto una definizione della vita. Nel primo caso il processo di comprensione ha le proprie radici nel processo di presa di coscienza delle esperienze. Nel secondo caso la comprensione si radica nella scura notte della coscienza. Nel primo caso debbo raccomandare al lettore un breve elenco di opere di filosofia teoretica, affinché i concetti di «insieme» e «norma», che definiscono la vita, siano comprensibili nel senso più esatto di questi termini; richiedo quindi con insistenza al lettore la conoscenza di entrambe le Critiche di Kant, per la comprensione di: l) cos'è la ragione? 2) cos'è la ragion pratica? Il breve elenco di opere proposto ne richiama di nuovi. Il lettore deve mettere mano ad un'intera biblioteca; non può sfuggirli il Kommentar zu Kant. Il lettore non deve andare in collera; in effetti la sua definizione della vita come processo fisico-chimico mi sospinge nelle aule e nei laboratori, dove personaggi onorevoli mi fanno conoscere la chimica e la fisica teoriche; inoltre: la chimica organica non mi sfuggirà, proprio come la fisiologia. La nostra definizione della vita sarà rimandata di alcuni anni; alla fine ci incontreremo: io- armato della conoscenza esatta, voi - della teoria della conoscenza. La comprensione reciproca è garantita, l'accordo -non c'è ancora. Il rapporto della conoscenza esatta verso la teoria della conoscenza solleva il problema della correlazione e della critica dei metodi. Ed ecco, la nostra disputa viene rinviata ancora di alcuni anni. «È una caricatura», vi indignate, «l'affermazione e la motivazione del giudizio non è possibile nel corso degli anni, perché allora un discorso di cinque minuti, che sia logicamente motivato, esige un'intera vita per l'argomentazione». «Sì», affermo io: «se si deve argomentare, facciamolo pure, ma ogni altra argomentazione è una confusione del sentimento interiore con i luoghi comuni, non verificati, cioè una serie di secolari errori correnti, affermati come verità del cattivo gusto». O si conosce o non si deve affatto pretendere la conoscenza: 48

non bisogna confondere. Qualsiasi giudizio comune che noi ci scambiamo l'un l'altro nella ingannevole supposizione di comprenderlo ci trascina all'analisi, cioè al non-sapere. Tutta la nostra vita si riduce a una decina di giudizi fraudolenti che aenerano chimere. La verifica di questi giudizi occuperebbe o tutta la vita - ed anzi non basterebbe! La verifica dei giudizi sulla vita in luogo della vita - ecco la sorte di colui che conosce. Ed io affermo la vita, nego cioè la conoscenza come fine. Ma procedendo in tal modo io affermo il non-sapere. Tutti procedono come me, ma non tutti lo confessano. Qui torniamo però alla conoscenza attraverso l'esperienza, tralasciando l'esattezza delle definizioni. Tutti procedono così, ma non tutti lo confessano: per una simile confessione è necessaria o una ingenuità da colomba nelle questioni della conoscenza, o la saggezza serpentina del metodologo, che non ha smarrito il valore della vita. Anche la saggezza serpentina sottintende a volte l'analisi teorica ma, purtroppo, a questa proprietà del serpente si unisce talvolta anche la perfidia. Inoltre è questo un serpente velenoso, che conserva la vita per sé e la avvelena agli altri; avvelenare la vita agli altri - in questo sta la voluttà dello gnoseologo. Paragonato a Kant Alessandro Magno è un ignorante; tuttavia l'opera della sua volontà innalzò ed annientò i regni, quando egli passò come una tempesta per l'Asia. Noi possiamo essere d'accordo con la Critica di Kant, ma non possiamo negare che nel suo studio Kant era l'ottavo scaffale in mezzo agli altri sette della sua biblioteca. Ed ecco che poniamo una domanda. Può uno scaffale avere un'attività creativa personale? Il regno di Alessandro crollò appresso a lui. Kant avvelena di acido cianidrico l'universo intelligibile già da cento anni. Chi è più distruttivo? La consapevolezza del non-sapere è più pericolosa del non-sapere stesso. Ci fu creazione personale della vita in Kant? Forse. Ma 49

anche il fachiro che per decenni si irrigidisce su una pietra crea per sé vita nella vita. Il senso della vita non è nel suo oggetto, ma nella personalità oggettivata. Forse Alessandro percepiva in sé il vuoto creativo. La creazione della vita è un mistero della personalità: gli scopi oggettivi della vita (creazione della scienza, dell'arte, della società) sono gli emblemi esteriori dei misteri creativi individualmente vissuti. La capacità di vivere è una creazione individuale, mentre le regole universali della vita sono maschere dietro le quali si cela l'individualità. La vita riconosciuta nelle leggi è un'allegra mascherata, dove il sincero riconoscimento dell'oscurità della vita è la maschera buona, e l'affermazione delle norme- la maschera cattiva. La vita è una creazione individuale. La capacità di vivere è una creazione ininterrotta: è un istante che si dilata nell'eternità: le condizioni della necessità esteriore squarciano la serie creativa e l'istante. L'eternità si disgrega in una cascata di attimi, l'immagine della vita - in migliaia di immagini, la forma della vita - in migliaia di forme. Queste forme sono allora le forme dell'arte, cioè frammenti della forma unica, che è la vita vissuta creativamente. La vita vissuta creativamente è vita nella quale, come nella libertà, è fusa la necessità, oppure è vita dalla quale la necessità è stata dal tutto sottratta. Nel secondo caso io mi racchiudo, fuggo dalle condizioni di necessità nella quiete infinita, nel torpore: tale è il fachiro che arresta il respiro; tale è Kant che scrive le Critiche, intorpidito nella poltrona: gli era facile prescrivere le norme della morale, mentre sfuggiva ad ogni morale, avendo convertito la linea della propria creazione, la linea della vita individuale nel punto della poltrona del suo studio. Egli scriveva per i fachiri - non per gli uomini; non aveva bisogno di morale, poiché era al di fuori dell'azione; intanto, il veleno delle sue parole si estendeva sull'azione stessa. I fachiri tacevano; essi erano palesemente muti; Kant parlava: egli era la mutezza in una maschera di parole: una maschera malvagia. 50

Se voglio fondere l'azione della legge nell'azione della libertà in modo che la libertà e la legge si uniscano in una cosa sola, io scendo in lotta con un'immagine inerte della vita; questa lotta è la tragedia. La mia creazione è una bomba che io lancio; la vita che si trova al di fuori di me è una bomba lanciata in me; il colpo di una bomba contro l'altra provoca una pioggia di schegge, due serie di successioni intersecantisi; le schegge della mia creazione sono le forme dell'arte; le schegge dell'apparenza sono le immagini della necessità che lacerano la mia vita individuale. La varietà delle forme (cioè io, lacerato all'esterno, ed il mondo, lacerato dentro di me) è la collisione delle forme della vita con quelle della creazione, cioè la natura nelle leggi e la libertà nelle forme; la libertà nelle forme - ecco la definizione primaria delle forme dell'arte. Ciò che distacca l'integrità del mio «io» dall'integrità del mio «non io» è un prodotto; il rapporto dell'«io» rispetto al non «io» è l'ingresso dell'«io» nel «non io» e viceversa: l'«io» diventa «non io))' come prodotto creativo; il «non io )) si anima nell'«io)), sempre come prodotto. La forma dell'arte è un'arena di lotta, dove l'« io)) difende la propria libertà; la tragedia - ecco la condizione della creazione estetica. L'arte di vivere è creazione estetica nella sua definizione esteriore. L'esteriorità della vita è il materiale della creazione nella sua definizione interiore. L'arte di vivere è l'arte di prolungare il momento creativo della vita nell'infinità dei tempi e degli spazi; qui l'arte è già creazione di immortalità individuale, cioè religione. L'intrusione· della creazione individuale nelle condizioni della necessità - questo è la forma: di nuovo una definizione accessibile dell'arte; la condizione di questa intrusione (superamento della resistenza, lotta) è la tragedia; i gradi di superamento della tragedia sono quelli dell'evoluzione religiosa. E viceversa: la religione nel processo di conquista del mondo è tragedia; la tragedia nel processo di genesi è canto mitico (cioè poesia e musica); il canto è una forma d'arte. 51

L'arte è sempre tragica; la tragedia è religiosa: tale è l'approfondimento dell'arte dall'esterno verso l'interno. La religione è sempre tragica; la tragedia è sempre una forma d'arte: ecco lo svolgimento dell'arte dall'interno verso l'esterno. La vita è la risultante di queste due direzioni; c'è in essa la lotta di due tendenze: scolpire il volo nella pietra, e viceversa: far volare la pietra. L'estrema conclusione della prima tendenza: la vita è un prodotto morto, dove manca un artefice; la conclusione della seconda tendenza: la vita è un artefice in una varietà di manifestazioni. La conclusione vitale dalla prima tendenza: la morte individuale. Dalla seconda: l'innalzamento delle pietre della terra e di tutto ciò che è divenuto terra, cioè la resurrezione dai morti. La vita è lotta di un cadavere con un risorto. Il simbolo religioso di questa lotta: la lotta dell'uomo, divenuto Dio, con l'immagine della forma morta, fossile. Questa forma fossile è una sorta di pterodattilo paleontologico*, riprodotto dalla creazione individuale come drago. Dio è come un altro uomo; il diavolo è come il drago, cioè un antenato fossile: lo pterodattilo. Vivere significa conoscere, potere (Konnen). Sapere: cioè saper lottare con millenni di passato. Conoscere: cioè vedere l'immagine delle mie aspirazioni, il futuro; questa non è consapevolezza del non-sapere (metodica), ma desiderio di immortalità individuale. Potere: cioè osare scendere in combattimento con il mio passato che mi avvolge (la natura, dalla quale nella mia rappresentazione io sono sorto); potere significa incantare l'immagine delle mie aspirazioni, essere incantato, incantarsi, cioè gioire dell'ardimento: potere è essere eroe. lo, evidentemente, mi disgrego nei metodi di scomposizione dell'apparenza. Costruire me stesso dalle infinite serie di non-sapere - questo è il mio compito; potere significa poter risorgere: questo è il fine della vita. • Lo pterodattilo è un rettile alato fossile.

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Proprio per questo vivere significa sapere, conoscere, potere, essere abile; proprio per questo la capacità di vita è la radice di ·qualsiasi arte. Questa capacità è il ritmo vitale. La conoscenza della vita è capacità di conservare ogni vita (la mia, l'altrui, della specie): ecco dove la radice dell'arte si unisce alla vita. L'arte è perciò profondamente vitale; il mio è un ruolo risanatore. L'arte è il principio che crea l'individualità; la creazione della individualità nella sua forma, nella sua emozione; nel corpo, come anche nell'anima. Per questo tra le varie forme di arte la scultura è quella che esprime il ritmo del corpo, mentre la musica - il ritmo dello spirito. Ma la scultura e la musica sorgono in uno stadio posteriore della vita, nell'epoca della separazione dell'arte dai fini fondamentali e diretti di quest'ultima, nell'epoca della dissoluzione delle forme; questa epoca è sempre indice della dissoluzione della individualità primordiale. Nella storia dell'umanità vi sono due epoche nelle quali la forma dell'arte non esiste come qualcosa di concluso in sé, e nelle quali per arte noi intendiamo una forma che esiste separatamente dalla vita. Faccio un esempio: il canto improvvisato naturale - ecco una forma che confluisce immediatamente nella vita, scaturisce dalla vita; l'ascia ornata di intagli è un altro tipo di forma naturale di arte. Ma il ditirambo lirico, subordinato alle regole della metrica, o il bassorilievo che adorna il portico di un tempio - sono invece forme artificiose, cioè forme d'arte nel nostro senso. Perché dunque le forme artificiose hanno sostituito le precedenti forme di creazione? Perché la vita quale era precedentemente intesa ha cessato di essere vita. La vita intesa da noi è vita frantumata: vita in una varietà di forme, dove nessuna forma dà pienezza, integrità, unità. Perciò l'integrità della vita, la sua unità, è una deduzione della nostra coscienza; è sempre astrazione dalle forme. Essa ci è data nel concetto, ma non nell'emozione. 53

Io vivo frammenti di integrità. Soltanto il mio ricordo collega il vissuto. Sia la forma del nesso delle deduzioni che la somma delle deduzioni stesse sono un'esperienza vitale, mentre l'unità dell'esperienza è teoria. Nella teoria io comprendo l'integrità della vita, la sua coerenza; nella pratica sono sempre nell'incoerenza dell'esistenza, nel caos dei pensieri, dei sentimenti, delle azioni, frantumato nella infinità delle forme, smarrito nelle forme. Non era così in epoca preistorica. Allora non esisteva varietà di forme sociali, conoscitive, estetiche. L'uomo nella foresta, l'uomo e la natura - ecco l'unica forma di vita; l'uomo lottava invece di conoscere; la lotta per l'esistenza - ecco l'unica condizione di vita; la vittoria sulla morte in ogni dato momento della vita - ecco l'unica condizione di conoscenza; il senso tragico di questa lotta - ecco la forma estetica delle emozioni. Le forme sociali, estetiche e conoscitive della vita si univano nella creazione. La vita era creazione. La vita era l'arte sublime della individualità (tragedia), ed allo stesso tempo anche conoscenza. Proprio per questo l'integrità della vita era vissuta in ogni istante, senza essere mai recepita dalla coscienza. L'epoca preistorica creava l'individualità. Nell'astrazione la coscienza dell'uomo preistorico fluttuava nel caos; nella coscienza della vita l'uomo preistorico era integro, armonico, ritmico; non era mai frantumato dalla varietà delle forme di vita; era egli stesso la sua propria forma. La coscienza della vita era determinata dalla creazione. Dov'è ora l'integrità della vita? In cosa consiste? (1903)

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Il simbolismo come concezione del mondo

I

Ancora di recente si pensava che il mondo fosse ben conosciuto. Scomparsa ogni profondità all'orizzonte, si estendeva una grande superficie piana. Erano venuti a mancare i valori eterni, capaci di dischiudere prospettive. Ogni cosa aveva perduto valore. Ma nei cuori non era scomparsa l'aspirazione alla lontananza. C'era voglia di prospettive. Il cuore richiedeva nuovamente valori eterni. In quel periodo si spalancò una profonda voragine tra sentimento e ragione. Il terrore tragico della discordia crebbe dalle profondità inconscie fino alla superficie della coscienza. Uno scetticismo senza princìpi risultò la conseguenza dell'incapacità di conservare i valori eterni e della simultanea impossibilità di cavarsela senza di essi. Allora la filosofia di Schopenhauer, che aveva i tratti della negazione, attirò molti. Via via che il pessimismo si manifestava, si sentiva un sempre maggiore sollievo nel riconoscimento sincero di tutti gli orrori dell'esistenza. Questa si rivelò illusoria. Attraverso di essa guardava una nera oscurità. Una tensione febbrile sostituì l'inerzia contemplativa. Il corso della vita si ritrasse

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da parte. Con strepito e fracasso sfrecciava lungo di esso il carro della volgarità. In questa contemplazione c'era un significato singolare. Il pessimismo, elevato a principio, smussava l'aculeo delle disillusioni. L'uomo, allontanandosi dalla vita, rifletteva tristemente, affascinato dalla grandezza della propria tragicità. Nell'inattività si raccoglievano le energie spese. L'individualità soffocata iniziava a spiegare le ali. Nella impercettibile evoluzione dalla passività all'attività, dal pessimismo alla tragicità, risuonava per noi il primo fremito, il primo palpito di queste ali. Quando chi è cullato dalle visioni si addormenta, abbiamo l'apparenza della morte. È il sonno che ristora le energie. Tale deliquio di sonno, gravido di conseguenze, fu l'entusiasmo della società europea per il pessimismo filosofico. Ed ecco, quando l'oscurità chiuse gli occhi a questi entusiasti, qualcuno di loro gridò parole che suonavano strane: «Il tempo dell'uomo socratico è passato: cingete di edera la vostra fronte, prendete in mano il tirso e non meravigliatevi se la tigre e la pantera si distendono carezzevolmente ai vostri piedi, poiché voi dovete diventare liberi. Voi dovete accompagnare il solenne corteo dionisiaco dall'Indo alla Grecia. Armatevi a dura lotta, ma credete ai miracoli del vostro Dio» (La nascita della tragedia). Queste parole suonarono strane. Chi le comprese? Forse da quel momento presero a diffondersi nell'aria i presentimenti delle future rivelazioni. Un venticello cominciò a sfiorare i dormienti. Si riscossero i sogni immobili e allettanti, torpidi e dolci. Si accese l'alba. Il pessimismo si rivelò un crogiolo che bruciava la volgarità. Distinguendo la forma della conoscenza diretta, contemplativa, intuitiva e quella della conoscenza pensante, astratta, e preferendo la prima alla seconda, Schopenhauer non solo gettò le basi del metodo simbolista in contrapposizione a quello logico, ma offrì anche la possibilità futura di attribuire tutto il significato a questo metodo. Se la filosofia è completamente subordinata alla conoscenza astratta, Schopenhauer è l'ultimo filosofo. C'è in lui l'inizio della fine della filosofia. Fu 56

scoperta la fonte delle essenze scintillanti - e impallidirono gli aerei castelli del pensiero. La riduzione a zero delle questioni filosofiche non indica ancora la vittoria del positivismo scientifico. Di fronte a noi non c'è un edificio cm;onato da una cupola, ma soltanto mura a molti piani prive di tetto e deturpate da impalcature. Per secoli si è creduto nella possibilità di una soluzione scientifico-filosofica dei problemi dell'esistenza. Quanti titani hanno eretto un baluardo per darle la scalata! I tempi della lotta tra dei e titani si sono forse ripetuti di nuovo? Forse questi sono stati di nuovo precipitati nel Tartaro? Dov'è il nostro passato? Perché la terra ha cominciato ad oscillare sotto di noi? Da dove vengono queste lacrime involontarie? Cari nomi, cari errori! È come se tu sedessi nell'accogliente capanna di un pescatore prima di metterti in cammino. Il mare romba. Il vento e la pioggia torrenziale accecano. Stai per l'ultima volta davanti al vecchio pescatore, per l'ultima volta stringi la mano callosa. Te ne andrai e non tornerai indietro. È tempo di mettersi in cammino. Schopenhauer è la vetta sulla quale si issano coloro che si levano al di sopra dell'inerzia della vita. È una punta attraverso la quale si incrociano due direzioni che spirano un fuoco di eterna vitalità. Si incrociano per subito allontanarsi di nuovo. Si tratta del razionalismo filosofico, che si tramuta in panteismo religiosamente astratto, e dell'empirismo, trasfigurato in individualismo di sfumatura mistico-profetica. Tali sono le due direzioni che vanno al di là del criticismo, al confine col simbolismo. Nietzsche e Hartmann sono passati attraverso Schopenhauer. Si sono sfiorati in lui. E si sono allontanati irrevocabilmente. Analizzando il principio dell'apparenza (rappresentazione), Nietzsche gli contrappone il principio orgiastico che distrugge l'illusione (volontà). La fusione di questi principi nella tragicità annienta l'antinomia schopenhaueriana tra volontà e rappresentazione nel principio individuale dell'uomo. L'inconscio, secondo Hartmann, giace profonda57

mente nella natura umana. Esso non sbaglia mai. V. Solov'ev vede in esso la congiunzione tra Dio e l'uomo. Anche nel nostro inconscio abbiamo la fusione della volontà metafisica con il mondo dei fenomeni. Secondo Hartmann il processo storico non è inutile. Il suo fine è la rivelazione dello spirito unitotale. Nietzsche propone come fine dell'evoluzione storica la manifestazione dell'individualità unitotale, del superuomo. Ma il problema della manifestazione dello spirito unitotale nell'individualità indica alla storia il cammino verso la divina-umanità. Vladimir Solov'ev, definendo la Chiesa come l'organizzazione della divina-umanità, tende alla riconciliazione tra scienza, filosofia e religione. All'incirca simili sono poi gli scopi della teosofia; con le sue singole tesi si può non essere d'accordo, ma del suo corso generale bisogna tener conto come di un indirizzo pienamente consolidato, recentemente risorto e che ha messo radici. Dopo aver descritto un cerchio, nel suo sviluppo la conoscenza logico-formale ha dato libertà al simbolismo. Secondo Schopenhauer quella che si compie nel processo di simbolizzazione è una conoscenza geniale. Dopo la crisi del pensiero l'arte doveva inevitabilmente intervenire al posto della filosofia, come faro-guida dell'umanità. L'idea è un grado di aggettivazione della volontà. La volontà è il più profondo principio di esistenza. Se si tratta di ciò che rivelandosi" nelle profondità dello spirito trascina verso lo stellato, palesa i neri abissi dello spirito, illumina le voragini con un che di raggiante - se si tratta di ciò, la definizione del più profondo principio di esistenza come volontà è infelice. Si tratta di qualcosa di diverso dalla nostra volontà, che di tanto in tanto vi balugina. È volontà nella volontà. Indubbiamente Schopenhauer ipertrofizzò la volontà individuale mescolandola con la volontà del mondo. Ciò che nella volontà viene e va, illumina e spegne - è l'essenza. Ciò che invece, non illuminato dall'esterno, opprime con la spontaneità del caos - non è essenza. È il confine dell'apparenza, la definizione negativa dell'essenza, la volontà individuale. Il principio ultra-individuale di specie condiziona 58

l'individualità. Questo principio universale deve essere assoluto. In quanto tale, esso abbraccia le forme della conoscenza. Mentre la forma generale della conoscenza è la scissione in soggetto e oggetto, in rappresentazione e volontà, l'assoluto comprende sia la volontà che la rappresentazione. Tale è la sua definizione formale. Tale è l'inconscio di Hartmann. L'idea non è un concetto. Come intervento deil'inconscio nell'apparenza, essa sopprime la divisione convenzionale in estensione e contenuto. Con l'aumento di estensione del concetto diminuiva il suo contenuto formale. Nell'idea questo non c'è. Definibile per assurdo, essa muta il rapporto tra estensione e contenuto da inverso in diretto. L'idea è una restrizione dell'assoluto. Se l'assoluto ha un carattere di unità, il suo intervento nell'apparenza è limitato alla pluralità dei gradi. Da ciò la pluralità delle idee. È possibile parlare di idee di genere e di specie. Le prime sono più intense delle seconde. Con la eliminazione del contrasto tra estensione e contenuto le idee di genere sono distinguibili da quelle di specie dal grado di intensità. Questa intensità è espressa dal grado della loro influenza su di noi. Per la conoscenza delle idee è indispensabile la rappresentazione. Se il tempo è la forma che sistematizza le rappresentazioni dei sentimenti interiori, l'intuizione delle idee temporali influisce più intensamente sulla nostra anima. Si può perciò parlare convenzionalmente della maggiore intensità delle idee temporali, che sono perciò «generiche» rispetto a quelle spaziali. Il contenuto dell'arte è la conoscenza delle idee. Le forme temporali delle arti danno la più essenziale delle conoscenze. Ecco perché le idee musicali sono simboli essenziali. Esse sono idee «generiche» rispetto alle idee delle altre arti. Per questo si può parlare di musicalità delle immagini, ma non del contrario. La musica figurata non aggiunge nulla alle immagini espresse. Per questo si può parlare di radice musicale di tutte le arti. Si può parlare dello spirito della musica nella scultura, e non del contrario. Nella musica c'è il massimo avvicinamento delle profondità dello spirito alle superfici della coscienza. 59

Tutto l'essere dell'uomo è preso non dagli eventi, ma dai simboli di altro. La musica esprime idealmente il simbolo. Perciò il simbolo è sempre musicale. Il valico dal criticismo al simbolismo è immancabilmente accompagnato dal risveglio dello spirito della musica. Quest'ultimo è indice di un valico della coscienza. Non al solo dramma, ma a tutta la cultura è rivolta l'esclamazione di Nietzsche: «Cingete di edera la vostra fronte, prendete in mano il tirso e non meravigliatevi, se le tigri e le pantere si distendono carezzevolmente ai vostri piedi.. . Voi dovete accompagnare il solenne corteo dionisiaco dall'lndo ... ». L'umanità contemporanea è turbata dall'avvicinamento della musica interiore alla superficie della coscienza. Essa è presa non dall'evento, ma dal simbolo di altro. Finché l'altro non si incarnerà, non si chiariranno i simboli della creazione contemporanea che ci turbano. Soltanto i miopi nelle questioni dello spirito cercano la chiarezza nei simboli. La loro anima non risuona- essi non conosceranno nulla. A ciò che era prima dei tempi, a ciò che sarà, è rivolto il simbolo. Dal simbolo zampilla la musica. Essa non tocca la coscienza. Chi non è musicale non capirà nulla. Il simbolo risveglia la musica dell'anima. Quando il mondo giungerà nella nostra anima, essa non cesserà di risuonare. Quando l'anima diverrà mondo, essa sarà al di fuori del mondo stesso. Se è possibile l'influenza sulla distanza, se è possibile la magia, noi sappiamo cosa conduce ad essa. La risonanza musicale dell'anima smisuratamente rafforzata questo è magia. L'anima accordata musicalmente incanta. Nella musica c'è incantesimo. La musica è una finestra, dalla quale scorrono in noi i torrenti incantatori dell'Eternità e zampilla la magia. L'arte è conoscenza geniale. La conoscenza geniale dilata le sue forme. Nel simbolismo, come metodo che unisce l'eterno alle sue manifestazioni spaziali e temporali, ci imbattiamo nella conoscenza delle idee platoniche. L'arte deve esprimere le idee. Ogni arte è in sostanza simbolica. Ogni conoscenza simbolica è ideale. Il compito dell'arte, come particolare 60

genere di conoscenza, è immutabile in tutti i tempi. Mutano i mezzi di espressione. Lo sviluppo della conoscenza filosofica come dimostrazione per assurdo la mette in dipendenza dalla conoscenza come rivelazione, conoscenza simbolica. Con il mutamento della teoria della conoscenza muta il rapporto verso l'arte. Essa non è più una forma indipendente; non può essere chiamata in aiuto dell'utilitarismo. Essa diventa una via verso la conoscenza essenziale - la conoscenza religiosa. La religione è un sistema di simboli spiegati in successione. Tale è la sua originaria definizione esteriore. Al valico che si apre nella coscienza corrisponde il mutamento del modo di espressione dei simboli dell'arte. È importante gettare uno sguardo al carattere di questo mutamento. Il tratto caratteristico dell'arte classica è costituito dall'armonia della forma, armonia che imprime il marchio della discrezione all'espressione delle illuminazioni. Goethe e Nietzsche parlano spesso della stessa cosa. Se il primo quasi casualmente solleva un angolino della tenda, svelando la profondità, il secondo cerca di respingere la profondità verso la superficie, sottolineando insistentemente la sua manifestazione fenomenica. Le geniali opere classiche hanno due lati: il diritto, nel quale è data la loro forma accessibile, e il rovescio, sul quale esistono solo allusioni comprensibili agli eletti. La folla, soddisfatta dal fenomenalismo ad essa accessibile degli eventi, del disegno e della psicologia, non sospetta i tratti interiori che servono di sfondo ai fenomeni descritti, tratti accessibili a pochi. Tale è l'aristocraticismo dei migliori esempi dell'arte classica, che sotto la maschera della prosaicità si salva dall'irruzione della folla nelle sue arcane profondità. Simili esempi sono allo stesso tempo fonte di profondità e di banalità. Vengono qui soddisfatti sia la massa che gli eletti. Tale dualità deriva inevitabilmente dalla dualità stessa del criticismo, che sorge anche dal desiderio dei geni di non vedere i propri simboli ridotti a oggetto di errate interpretazioni dogmatiche del razionalismo, dell'utilitarismo, etc. Qui c'è sia disprezzo per «questi piccini», sia aristocratica ironia verso i ciechi che pur non vedendo lodano, sia civetteria di 61

fronte agli spiriti eletti. Il Faust è comprensibile a tutti. Tutti all'unanimità lo definiscono una geniale opera d'arte; intanto, i suoi abissi teosofici sono spesso celati ai contemporanei amanti di tutti i possibili abissi - gli ammiratori della nuova arte. Questi ammiratori comprendono tuttavia l'intrusione degli abissi in Zarathustra, che lacera i contorni esterni delle immagini e la chiarezza· del pensiero. Sotto questo aspetto la nuova arte, apparendo come intermediario tra l'abissale comprensione dei pochi e la banale comprensione della folla, è piuttosto democratica. Il suo compito non sta nell'armonia delle forme, ma nella diretta spiegazione delle profondità dello spirito; in conseguenza di ciò essa grida, dichiara, invita a riflettere là dove l'arte classica volgeva la schiena a «questi piccini». Tale cambiamento del modo di espressione è in relazione al cambiamento della teoria della conoscenza, secondo il quale la conoscenza dell'eterno nel temporale cessa di sembrare impossibile. Se è così, l'arte deve insegnare a vedere l'Eterno; viene strappata, frantumata l'irreprensibile, pietrificata maschera dell'arte classica. Lungo le linee di rottura fuoriescono da tutte le parti contemplazioni abissali, impregnando e rompendo le immagini, delle quali viene infatti riconosciuta la relatività. Le immagini si trasformano in metodo di conoscenza, e non in qualcosa a sé stante. La loro destinazione non è suscitare il sentimento della bellezza, ma sviluppare la capacità di scorgere nei fenomeni della vita il loro senso di prototipo. Quando lo scopo è raggiunto, le immagini non hanno più nessun significato; ciò fa comprendere il senso democratico della nuova arte alla quale, senza dubbio, appartiene il prossimo futuro. Ma quando questo futuro diverrà presente, l'arte, dopo aver preparato l'umanità a ciò che è oltre di essa, deve scomparire. La nuova arte è meno arte, è profezia, anticipazione. Il cambiamento del modo di espressione dell'arte si compie gradualmente. Di fronte ad esso l'arte contemporanea è spesso andata tastoni. Molti trovavano ostacoli su questa via. Le acque artesiane, affiorando, scaturiscono sotto forma di 62

fango. Soltanto in seguito il sole accende la purezza del cristallo d'acqua di milioni di rubini. Non bisogna essere duri con coloro che sono andati avanti. Infatti noi procediamo sui loro corpi ricoperti di ferite. Riconoscenza e compassione! Che taccia ogni denigrazione! Perché c'è Nietzsche fra loro. Dunque, che la nostra mano, levata sul martire, non ricada macchinalmente quando il capo mortalmente pallido, coronato di spine, con i baffi all'ingiù, con il t'errore sulla fronte, tutto illuminato, all'improvviso annuirà con amaro rimprovero - che questo capo non apra i profondi occhi per penetrare con il chiaro sguardo l'anima divenuta folle. Che non ci bruci il mantello purpureo del «Dioniso crocifisso», che non ci sbranino le pantere che gli fanno moine. Bisogna guardare fiduciosamente il defunto, perché le pantere si trasformino in miti gatte. La sua immagine ci contempla in modo così penosamente triste dalle lontananze immortali! Il suo sguardo infantile ci parla della felicità infantile - della bianca isola dei fanciulli lavata dall'azzurro. Silenzio! È una tomba sacra.

II Gli arabeschi adamantini delle costellazioni sono immobili nel nero delirio universale, dove tutto fugge e non c'è nulla che sia. La terra ruota attorno al sole, che vola a sua volta verso la costellazione di Ercole! Ma dove vola la costellazione di Ercole?- Danza folle di un universo senza fondo. Dove voliamo? Quali spazi attraverseremo, fuggendo via? Volando, fuggiremo via? Chi ci volerà incontro? Ora qua ora là, ribadendo strani pensieri, punti dorati si accendono nei cieli; si accendono, bruciano nelle pieghe eteree del velo terrestre. Si accendono, si estinguono - e volano, volano via dalla terra attraverso le abissali regioni del non-essere, per accendersi nuovamente dopo milioni di anni. 63

Si ha voglia di gridare ai fugaci conoscenti: «Salve!.. Dove volate?.. Inchinatevi all'Eternità! .. » Tutto questo si compie ad altezze irraggiungibili. Non una sola scintilla guizzata nel cielo strapperà il filo della conversazione. Soltanto un involontario sospiro sgorgato dal petto rivelerà che l'anima non ha dimenticato in cosa sono immerse le superfici di cartone dell'esistenza. Ma quando il fulmine lampeggerà nel cielo senza nubi e sopra il capo degli atterriti si librerà la vivida stella purpurea, illuminando di un delirio fiammeggiante chi si è coperto di pallore, per poi scivolare lentamente da parte spandendo una pioggia di scintille, il grido generale: «Un meteora!.. Così bassa! .. » strapperà i fili di tutte le conversazioni. Tutti sentono che troppo vicina si è compiuta l'irruzione dell'Eternità, troppo insignificanti sono a suo confronto i nostri principi, capaci di celare solo fino a un dato istante la profondità ... La conversazione riprenderà, ma tutti diverranno pensosi. Nietzsche era questa meteora. Egli portò la profondità da lontananze immortali. E sebbene le unanimi ingiurie non si siano taciute su colui che si è allontanato nell'Eternità, dopo di lui noi tutti siamo in certo modo più seri. Non c'è in noi la miope ingenuità di una volta. Perché, se oggi la carica del fuoco eterno ci è sfrecciata così vicina, nulla ci proteggerà dagli eterni pericoli. Un nuovo tratto indelebile è rimasto negli uomini dopo il saggio Nietzsche. La saggezza è una scappatoia dall'« azzurra prigione» delle tre dimensioni. L'uomo cresce fino al mondo e già si approssima al nulla. Qui si scopre come il pensiero, appesantito dalla carica delle dimostrazioni ed interamente espresso, ricordi un grosso rospo. Esso trascinerà il saggio dietro altri pensieri antiveggenti. Egli preferisce le rondini che si librano in aria agli intelligenti rospi. Sa che se le rondini annegheranno nell'azzurro, i rospi lo condurranno in un pantano. Meglio sognare l'azzurro che la palude. Il saggio è il più astuto dei pazzi, un felice buontempone, serio e importante per coloro che non sono in grado di unire la saggezza alla spensieratezza. Eccolo irrigidirsi in una posa ieratica. Il saggio si distrae, ma 64

non dal pensiero. Egli pensa liberamente. Il suo pensiero si libra in aria. È musica. Soltanto per gli eletti il saggio lascia cadere la serica tenda dell'indifferenza. L'espressione di ardente potenza e di soavità sovrumana palpita come un lampo lontano sul volto che si è fatto raggiante, per poi impietrirsi di nuovo. L'uomo che racchiude in sé lo spirito della musica è una fontana eternamente sgorgante; nei suoi zampilli si riflettono il sole e la luna. Privo di musica interiore - egli è un'immobile pozza putrida, nella quale sono comparsi i vermi e che non riflette più nulla. Il rapporto verso il contenuto delle concezioni enunciate, questo accompagnamento dell'anima alle parole, ecco la cosa più importante nel saggio. La differenza sostanziale tra lui e lo sciocco consiste in ciò, che lo sciocco, anche quando dice cose intelligenti, sembra comunque stolido, mentre il saggio che dice sciocchezze non inganna nessuno tranne gli sciocchi. Nietzsche non è più un filosofo come lo si intendeva un tempo, ma un saggio. Le sue tesi sono spesso simboli. Dio sa dove si penetra seguendolo, quanti muri di granito si sciolgono davanti ai suoi occhi infantili. La stessa realtà comincia a sembrare di vetro. È la custodia di altro. Gli errori di Nietzsche appaiono solo quando si inizia a presentargli le esigenze della rivelazione religiosa. Questa è un sistema di simboli regolarmente schierati. Tale è la sua definizione interiore. Se il simbolo è una finestra sull'Eternità, un sistema di simboli non può sembrare ininterrotto, come i sistemi del dogmatismo e del criticismo, dove tutto è legato dalla forma logica. È una serie di immagini interrotte, che rivelano le diverse parti dell'uno. In Nietzsche i simboli non sono ricondotti a sistema, e tuttavia i sistemi logico-formali non possono soddisfarlo. Nietzsche si muoveva dal criticismo al simbolismo. Per questo c'è in lui la confusione dei metodi di conoscenza. Egli parla spesso della stessa cosa, ma con linguaggi diversi. Ciò accresce le apparenti contraddizioni del suo pensiero, illuminando in parte il suo destino. La follia di Nietzsche non costituisce forse il risultato dell'incapacità di delimitare il simbolismo con il criticismo? La rigorosa preci65

sione di quest'ultimo scompare con l'intrusione di immagini abbaglianti, che trascinano il pensiero qua e là invece di concentrarlo. Al contrario: la saggezza genera valori. Il criticismo non è in grado di generare nulla. Non è forse per questo che le tinte, brillanti come la Salamandra, sono talvolta intossicate in Nietzsche? Ma anche le medicine sono tossiche. La forma prevalentemente usata da Nietzsche è l'aforisma, che permette di abbracciare in un attimo qualsiasi orizzonte, rispettanto il rapporto tra le parti. L'aforisma è la più diretta forma di comunicazione dell'autore con i lettori, a condizione che il primo si esprima abilmente, ed i secondi comprendano. È una porta aperta su una strada indipendente, dove l'autore si limita a disporre le pietre miliari. Da un buon aforisma è possibile estrarre più perle che da un buon libro ponderoso. Lo specchio del cuore nasconde nel suo seno più di un mostro. L'aforisma è un punto di partenza, dal quale è già prevista la strada. Sono ingenui coloro che non vedono in esso, con tutta la sua apparente incapacità di persuadere, il mezzo migliore per attirare nelle proprie reti. Cosa c'è di buono in una trappola che si vede a molte verste di distanza? L'aforisma si trova più in alto o più in basso del pensiero rigoroso. Il problema sta nel suo autore. Non è forse per questo che l'immagine aforistica del pensiero ha così tanti nemici, che la maggioranza di coloro che si esprimono aforisticamente subiscono un insuccesso? Piombando rabbiosamente sull'aforisma essi, probabilmente, hanno innanzi agli occhi esempi della propria produzione. Il simbolo, determinato dall'esterno, è un aforisma teso all'estremo. L'aforisma è perciò un ponte verso il simbolo. Attraverso questo ponte Nietzsche procedeva dal criticismo al simbolismo. In alcuni dei suoi aforismi il germe è simbolico, e l'esteriorità - razionale. Ciò non deve apparire strano, perché la conoscenza genialmente folle si distingue da quella razionale soltanto per l'ampliamento delle forme. Il simbolo è l'ideale dell'aforisma. Gli aforismi di Nietzsche sono spesso tutt'altro che ideali. Nietzsche non è ovunque simbolista. Si può parlare convenzionalmente delle 66

concezioni metzschiane come di quak>Osa di sistematico. Questa sistematicità è un fenomeno ~tèriore. Dall'interno si tratta di simboli. Dall'esterno - di concezioni. Spesso nell'analisi esse sono vacillanti ed ancora non abbastanza convincenti, per non provocare dimostrazioni. Sfiorando tali concezioni, passerai dal simbolismo alla filosofia e viceversa. Il nietzschianesimo, come ogni teoria che sconfini nel simbolismo, ha più piani di comprensione. C'è già in esso una via interiore. Noi sfioreremo almeno due degli stadi di interpretazione del nietzschianesimo: come tendenza alla tragicità e come tendenza alla teurgia. L'abisso si spalanca ai nostri piedi, quando strappiamo la maschera ai fenomeni. Inorridiamo della voragine che ci separa dai dormienti. Inorridiamo della diversità tra le visioni e l'esistenza. Isolati ci allontaniamo a milioni di verste. Non bisogna superare l'abisso. Il velo illusorio dei fenomeni e i ragionamenti per assurdo sull'essenza fanno venir meno la forza d'animo quando si incontra la profondità. La profondità si avvicina in modo così insinuante al cuore palpitante ed ecco, ci troviamo a gambe all'aria a guardare là! Ciò che è apparso è tanto insolito da atterrire. Si ricava l'impressione del risveglio di chissà quali mostri dello spirito, rimasti fino ad ora addormentati. La piatta superficie del mare nasconde più di un mostro. Il caos inizia ad invitare. Dapprima è l'insinuante miagolio di una gatta. Poi - il mugghio degli elementi. Il caos irrompe con un sibilo nella nostra vita dalle aperture da noi stessi svelate. Per sostenere l'impeto dell'essenza sorgente, a causa della novità simile al caos, noi mettiamo artificiosamente una cortina alla finestra sulla profondità. Con sgomento osserviamo i veli gonfiarsi per la sua sibilante tempesta. Nasce da ciò il nostro dramma. Ma per quanto noi copriamo con una cortina il caos, rimaniamo sempre al confine che lo separa dalla vita. Questa unione dell'essenza (spirito di Dioniso) con l'apparenza (spirito di Apollo) è la nostra tendenza alla tragicità, il movimento che porta le mani agli occhi, quando una luce abbagliante li acceca e vi appaiono circoli- mostri, che noi scambiamo per 67

la reale espressione dell'essenza. Deve venire il giorno in cui toglieremo le mani dagli occhi, oppure crederemo per la seconda volta nella maschera che ci ricopre, torneremo cioè all'esteriorità. Ma dimenticare quanto è stato visto una volta non è possibile. È possibile voltare le spalle. Quest'ultima cosa è orrore per noi, mentre la prima, cioè la nostra fuga nella profondità, è orrore per coloro che ci circondano. Entrambi gli orrori ci spiano al confine tra pessimismo e tendenza alla tragicità, tra criticismo e simbolismo. È questo il primo stadio di interpretazione del nietzschianesimo. I colori dell'arcobaleno, che in Zarathustra cangiano iridescenti, sono colori che tremolano sulle torbide onde del caos. Ecco, la variopinta ragnatela si lacererà in migliaia di brandelli colorati. L'Eternità digrignerà i denti. Si spalancheranno le sue fauci, minacciando di inghiottirei. L'accecante oro del nietzschianesimo, il procedere per vette - è qualcosa di selvaggio, di antico, che richiama i titani dal Tartaro. Tutto il nietzschianesimo sembra quasi assaporare l'«Ora silenziosa» di Zarathustra, quando non egli, non ella, ma un terribile esso insinua timori. «Sentii parlarmi senza voce: 'Lo sai tu, Zarathustra?' Ed io gridai di paura ... Allora sentii di nuovo parlarmi senza voce. 'Tu sai, Zarathustra, ma non lo dici' ... Sì, lo so, ma non voglio dirlo ... Allora sentii di nuovo parlarmi senza voce: 'Non vuoi, Zarathustra? Ma è poi vero? N on nasconderti nella tua ostinazione'». . . Lo stesso Nietzsche assomiglia ad un uomo in un'abitazione solitaria. Tentano di sfondare la porta. Ignoti la abbattono. Credendolo uno scherzo di amici, nell'ultima speranza l'assediato inizia a gridare: «Vi conosco, burloni!» Si sforza di sorridere. Nietzsche appare qui come la stella dell'Apocalisse, della quale è scritto: «Il quinto Angelo suonò la tromba, ed io vidi una stella caduta dal cielo sulla terra, e le fu data la chiave del pozzo dell'abisso: essa aprì il pozzo dell'abisso» (Apocalisse, 9, 1-2). Nello stesso tempo Nietzsche è rapimento; la fontana dell'arguzia, il gioco dei pensieri zampillanti - sono questi i balzi del gigante di cima in cima. Tu vuoi bere alla fonte, 68

chini verso il liquido le labbra disseccate - ed ecco soltanto schiuma palpitante. Non si può berla né raccogliere in recipienti: volerà via in un gorgoglio. Ma se non si abbassa lo sguardo davanti a Nietzsche e si sostiene l'iniziale orrore delle sue immagini, un'inattesa brezza rinfrescante - dolcemente vellutata, mestamente soave - soffierà come una timida speranza. Il ruggito del caos si tramuta nel velluto di un canto insinuante. Ciò che terrorizzava, minacciava di bruciare col fuoco, di ricoprire di detriti, di inondare di lava, non si rivela che una parte della passata minaccia. Solitari, muti baleni lontani, «Come demoni sordomuti, conversano tra loro». *

Tre idee dominano la filosofia di Nietzsche. Sono le idee della convenzionalità della legge morale, del superuomo e dell'eterno ritorno. In ogni religione la legge morale costituisce non un fine a sé ma un mezzo per raggiungere i valori eterni. Contribuire per noi e per quanti ci attorniano a sgomberare le vie (cioè la morale) che conducono al fine (la divinizzazione della personalità), significa adempiere la legge morale. La legge si sposa con la bontà suprema. Questa, racchiudendo la pienezza della legge, presenta qualcosa che, per così dire, supera la legge stessa. C'è qui la linea di contatto di ogni morale con la simbologia religiosa che guida la morale. Non c'è una morale: esistono morali subordinate a principi supremi. Nel cristianesimo la morale senza Cristo - è nulla. Cristo la incarna. «Avendo infatti la legge», dice l'apostolo Paolo, «un'ombra soltanto dei beni futuri, non la loro stessa realtà, non può mai mediante quei sacrifici, sempre gli stessi, che offrono incessantemente ogni anno, rendere perfetti coloro che si accostano a Dio». «Ma allorché il tempo raggiunse la sua pienezza, Dio inviò Suo Figlio». «Prima della venuta [della fede] eravamo • Kak demony gluchonemye, l vedut besedu mei soboj (Tjutcev).

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tenuti sotto la guardia della legge [ ... ]. La legge è stata dunque per noi il pedagogo per condurci a Cristo [ ... ]. Ma dopo la venuta della fede non siamo più sotto la guida di un pedagogo» (Ai Galati). «Noi ora siamo figli di Dio», dice l'apostolo Giovanni, «ma ancora non si è manifestato quel che saremo. Sappiamo soltanto che quando si manifesterà, saremo somiglianti a Lui, perché Lo vedremo quale Egli è. Chiunque ha questa speranza in Lui, si rende puro, così come Egli è puro» (Prima lettera). «A colui che vince», dice il Signore, >. Sestov mette molto bene in rilievo la mancanza di coesione di Nietzsche in tutto ciò che riguarda l'idea dell'eterno ritorno. È questo il simbolo ideale nel quale, come in un punto focale, si incontrano i raggi del nietzschianesimo. Ogni sua spiegazione è soltanto un ponte verso l'incanto immediato di questa idea. Sestov segnala come convenga far risaltare il concetto di eternità, e non quello di ritorno. In questa interpretazione l'eterno ritorno è il ritorno dell'Eternità delle epoche a proposito delle quali Maeterlinck dice: «Secondo tutti i dati in un'epoca remota della storia dell'India l'anima si avvicinava alla superficie della vita ... Forse, verrà il giorno in cui le nostre anime si scorgeranno l'un l'altra senza 71

il tramite dei sensi». Nel viaggio a spirale dell'anima attraverso il tempo si notano periodi di avvicinamento alla superficie - il ritorno periodico dell'Eternità. Si tratta del «giorno del grande meriggio», a proposito del quale dice l'apostolo Paolo: «Ma allorché il tempo raggiunse la sua pienezza, Dio inviò Suo Figlio» (Ai Galati). Ognuna delle tre idee - i simboli di Nietzsche - tocca inconsapevolmente problemi mistico-religiosi. La confusione dei metodi di conoscenza di Nietzsche gli impediva di vedere in quale direzione stesse gettando il ponte dal criticismo. Egli rimase a metà del ponte, egualmente lontano sia dal criticismo, sia dai vaghi contorni delle coste della terra promessa l'isola dei fanciulli in mezzo all'azzurro. Nietzsche guardava alla verità religiosa attraverso il prisma della lontananza, la quale è in grado di sostituire la verità e creare la fantasmagoria. Nietzsche si opponeva alla fantasmagoria. Scambiava la religione per quello che la nasconde. Partiva dai valori eterni per poi tornarvi. Avendo descritto un cerchio, si accostava ad essi da un altro lato. Il suo cammino era opposto a quello teosofico. Rigettato l'eterno tempio azzurro, egli giunse all'azzurro tempio dell'Eternità e gettò inconsapevolmente sotto di esso solidissime fondamenta. Respinti i vecchi dogmi, cominciò a crearne di nuovi. E nella sua incompiuta creazione un occhio acuto comincia a scorgere sempre gli stessi tratti. Nella profondità dei vecchi dogmi è racchiusa un'infinità di nuovi tratti, che si rivelano gradualmente a «questi piccinh>. «Faccio nuove tutte le cose», è detto nell'Apocalisse. «A colui che vince darò da assaggiare la manna nascosta, e gli darò un sassolino bianco, e su di esso è scritto un nome nuovo, che nessuno conosce, all'infuori di chi lo riceve» (Apocalisse). Nietzsche voleva assaggiare la manna nascosta, chiamare il nuovo nome. Per questo egli si isolò, e via via che si isolava dalla volgarità, egli costruiva. Ma oltre lo strato di polvere egli non scorse l'eterna verità. Accogliendola, noi ci avviciniamo al nome nascosto, quel nome nascosto che Nietzsche non chiamò. I dogmi religiosi fissano, tra l'altro, esperienze che hanno il 72

carattere della rivelazione divina. Nel cristianesimo è concentrato tutto ciò che di più significativo c'è in tali esperienze. Il cristianesimo è una sintesi sostanziale, non formale. La cultura europea ha ricevuto questo prezioso frutto, spesso senza poter comprendere tutta l'immensità dei suoi simboli. Era necessario negare Cristo o alterare la concezione religiosa. Rinunciando alla propria incapacità di comprendere, molti rinunciano alla verità. Ecco tutto l'errore. Ecco dov'è la forza. Nel nostro atteggiamento verso le questioni religiose deve avvenire un cambiamento sostanziale. Il secondo sviluppo della cultura europea ha avuto inizio dal momento del ritorno al paganesimo, dall'epoca del Rinascimento. Non di meno questa cultura, annullandosi, volge lo sguardo all'Oriente. Rimane una perplessità: la religione stessa non è capace di soddisfare l'umanità ed il ricorso ad essa è indice di disperazione, oppure nell'interpretazione delle verità religiose si sono insinuati degli errori. L'unione tra le vette del simbolismo come arte e la mistica veniva definita da Vladimir Solov'ev con un termine particolare. Questo termine è teurgia. «Porrò la mia dimora in mezzo ad essi[ ... ] e vivrò in mezzo ad essi, e sarò il loro Dio», dice il Signore. La teurgia - ecco cosa innalza i profeti e introduce nelle loro labbra la parola che frantuma le rocce. La saggezza di Nietzsche, ad uno stadio di interpretazione più approfondito rispetto alla tendenza alla tragicità, può essere definita come aspirazione alla teurgia. Singoli brani di questa saggezza fanno trasparire chiaramente la tendenza alla teurgia. Se nel simbolismo noi abbiamo il primo tentativo di mostrare l'eterno nel temporale, nella teurgia c'è il principio della fine del simbolismo. Qui si tratta ormai dell'incarnazione dell'Eternità attraverso la trasfigurazione dell'individualità risorta. L'individualità è il tempio Divino, nel quale il Signore pone la propria dimora: «Porrò la mia dimora in mezzo ad essi[ ... ] e vivrò in mezzo ad essi» (Levitico, 26, 12). 73

La dogmatica del cristianesimo viene rigettata da Schopenhauer. La tecnica di vita - da Nietzsche. Affermando l'individualità come vaso che contiene la divinità, ed il dogma come cerchio tracciato all'esterno e prolungato all'infinito a concludere il cammino, senza spezzare il legame con le vette del nietzschianesimo, ma cercando di superarle dall'interno come Nietzsche aveva superato Schopenhauer - i cristianiteurgi sperano nella vicinanza di una nuova buona novella, alla quale si fa accenno nella Scrittura. La soluzione dei secolari enigmi dell'esistenza è trasferita a questa parte del nietzschianesimo. Sotto la mina viene collocata una contro-mina. Ma c'è l'orrore qui. Viene meno il respiro. Perché oltre Nietzsche c'è il baratro. Proprio così. Ed ecco, riconoscendo la disperazione di trovarsi sul baratro e l'impossibilità di tornare alla pianura del pensiero, sperano nel miracolo del volo. Quando le macchine volanti non erano ancora perfezionate, generalmente i voli erano una cosa pericolosa. Recentemente è perito Lilienthal - l'aeronauta. Recentemente abbiamo visto il volo, agli occhi di molti sfortunato, e la morte di un altro aeronauta - Nietzsche, il Lilienthal di tutta la cultura. L'interpretazione del cristianesimo da parte dei teurgi attira spontaneamente l'attenzione. Si tratta o di una viltà estrema, che rasenta l'arditezza - un balzo (perché soltanto la capre cocciute si gettano a capofitto nell'abisso), o dell'audacia profetica dei neofiti, convinti che nel momento della caduta spunteranno le ali della salvezza che porteranno l'umanità al di sopra della storia. Il compito dei teurgi è complesso. Debbono andare là, dove Nietzsche si è fermatomuoversi nell'aria. Essi debbono allo stesso tempo tener conto dell'interpretazione teosofica del problemi dell'esistenza e non staccarsi dalla Chiesa storica. Allora, forse, si avvicineranno gli orizzonti delle visioni di Nietzsche, che egli stesso non poté raggiungere. Soffrì troppo prima di ciò. Troppo lungo era il suo cammino. Egli poté soltanto, stanco, giungere alla riva del mare e contemplare in un beato torpore i riflessi delle nubi al tramonto fuggire nel torrente serale di raggianti smeraldi. Poté soltanto sognare che il tramonto fosse fatto di barche

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d'oro infuocato, sulle quali salpare: «Oh, anima mia, tu stai ora rigogliosa e pesante, albero di vite dai grappoli d'oro scuro, soffocata dalla propria felicità. Guarda, io stesso sorrido, finché per i quieti mari malinconici non passerà rapida una nave, un prodigio dorato» (Zarathustra). È poi salpato Nietzsche nel mare azzurro? Nel nostro orizzonte non c'è. Il nostro legame con lui è spezzato. Ma anche noi siamo sulla riva, e la barca dorata ancora sciaborda ai nostri piedi. Dobbiamo imbarcarci su di essa e salpare. Dobbiamo navigare e annegare nell'azzurro. Alcuni di noi sono rivolti al passato, dove oro antico viene bruciato in onore dei torrenti solari. Nei loro occhi c'è il sole che fugge via ed essi piangono forse sull'oro bruciato. L'etere indorato si illuminerà ardendo nell'estasi. E sul mare si posa lo scudo solare che scivola via. E sul mare dal sole tremano lingue dorate. C'è ovunque un riflesso d'oro tra zampilli di malinconia. Si sono levati i petti degli scogli tra il palpitante tessuto solare. Il sole si è posato. Di singhiozzi è pieno il grido degli albatri: Figli del sole! Di nuovo il gelo dell'indifferenza: esso è tramontato dorata, antica felicità, vello d'oro*.

• Sia questo brano che il seguente sono tratti dalla poesia di Belyj Zolotoe Runo [Il vello d'oro], inserita nella raccolta Zoloto v lazuri [Oro in azzurro] dell904 (n.d.t.). Zoloteja, efir prosvetitsja l I v vostorge sgorit. l A nad morem saditsja l Uskol'zaju8éii solneényj séit. l A na more ot solnca l Zolotye droiat jazyki. l Vsjudu otblesk éervonca l Sredi vspleskov toski. l Vstali grudi utesov l Sred trepciéuSéei solneénoj tkani. l Solnce selo. Rydanij l Polon krik al'batrosov: l Deti solnca! Vnov' cholod besstrast'ja: l Zakatilos' ono - l Zolotoe, starinnoe séast'e, l Zolotoe runo.

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Credendo infinitamente nel prodigio del volo, altri possono rispondere loro: Gli argonauti chiamano al convito solare, suonando la tromba nel mondo che indora. Ascoltate, ascoltate: Basta tormenti. Indossate la corazza di tessuto solare! Tutto il cielo risplende di rubino. La sfera del sole si è spenta. Tutto il cielo risplende di rubino sopra di noi. Sulle cime dei monti la nostra Argo, la nostra Argo, preparandosi a volare, ha preso a battere le ali dorate *. (1903)

• Zovut argonavty l Na solnecnyj pir, l Trubja v zoloteju8Cij mir. l Vnimajte vnimajte: l Dovol'no stradanij. l Bronju nadevajte l Iz solneenoj tkani! l Vse nebo v rubinach. l Sar solnca poCil. l Vse nebo v rubinach l nad nami. l Na gornych verSinach l Na8 Argo, l Na8 Argo, l Gotovjas' letet', zolotymi krylami l Zabil.

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Il simbolismo*

La fine del XIX secolo ha posto all'ordine del giorno una serie di nuovi problemi. Particolarmente radicale è stata l'impostazione di quelli legati all'arte, alla morale, alla religione. Alla superficie della vita letteraria il rovesciamento dei valori del recente passato si è espresso nella ribellione contro le angustie del materialismo e del naturalismo, più esattamente - contro il limitato dogmatismo delle scuole naturalistiche. La nuova scuola letteraria non esortava però affatto al razionalismo o all'idealismo. Per la verità c'erano in essa impeti idealistici, mentre in alcune questioni non ci si distaccava dai classici; nelle nuova scuola artistica si era inoltre ulteriormente diffuso l'alito del romanticismo. Tuttavia alcuni segni, riflessi sia nella forma che nelle immagini della creazione, erano ugualmente distanti sia delle tradizioni delle scuole romantiche che da quelle delle scuole naturalistiche. Per distinguerla da quelle precedenti, davano alla nuova corrente artistica la definizione di simbolismo. Furono compiuti tentativi per far derivare il simbolismo • Questo articolo costituisce la prima parte dei saggi N a perevale [Sul valico J (n.d.t.).

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dai classici, e ne furono compiuti di opposti per trovarne le radici nel romanticismo; la nuova arte era definita di volta in volta neo-classicismo, neo-romanticismo, neo-realismo. In effetti, in alcuni rappresentanti del simbolismo noi incontriamo i tratti del realismo, del classicismo e del romanticismo; è vero altresì che le migliori opere di artisti contemporanei sono fedeli alle migliori tradizioni del buon tempo antico. Ma se riconoscessimo questo, noi cancelleremmo il confine che separa l'arte contemporanea da quella passata; essendo per via ereditaria sempre la stessa arte, essa è animata dalla coscienza di un certo limite invalicabile tra noi e l'epoca appena passata; è il simbolo della crisi delle concezioni del mondo, una crisi profonda; e noi presentiamo vagamente di trovarci al confine di due grandi periodi dell'evoluzione dell'umanità. L'arte contemporanea è rivolta al futuro, ma questo futuro è nascosto dentro di noi; in noi prestiamo orecchio al fremito dell'uomo nuovo, come anche alla morte e alla decomposizione; siamo cadaveri che decompongono l'antica vita senza essere però ancora nati a una vita nuova; la nostra anima è gravida di futuro: in essa lottano decadenza e rinascita. Soltanto nel momento in cui solleveremo il problema della vita e della morte dell'umanità in tutta la sua inesorabile crudeltà, lo porremo al centro delle nostre aspirazioni vitali, e diremo un fermo «SÌ» alla vita o alla morte possibile - soltanto allora ci avvicineremo a ciò che muove la nuova arte: il contenuto dei suoi simboli è costituito o dalla definitiva vittoria dell'umanità rigenerata sulla morte, o dalle tenebre profonde, dalla decomposizione, dalla stessa morte. I migliori rappresentanti dell'arte contemporanea sono infatti decisi araldi ora della vita, ora della morte. Alcuni di loro possono lottare con la vita, altri con la morte, ma sia gli uni che gli altri odiano la beata mediocrità. Su questo punto essi si distaccano nettamente dall'epoca precedente. Negano qualsiasi «ciò non di meno», o «sebbenetuttavia», e soprattutto i «da un lato - dall'altro». Echeggia sopra di loro l'imperativo categorico della morte ineluttabile o della creazione vitale.

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Noi viviamo in un mondo crepuscolare, né luce né tenebragrigia penombra; giorno senza sole o notte non del tutto nera. L'immagine della vita vittoriosa, come quella della fine, non è contenuta nella nostra coscienza. Riproducendo la pienezza della vita o della morte l'artista contemporaneo crea il simbolo; ciò che fa caricare le tinte e creare straordinarie combinazioni vitali è l'imperativo categorico della lotta per il futuro (la morte o la vita). Alle persone con emozioni mediocri tale atteggiamento verso la realtà sembra fittizio; esse non percepiscono come reale la questione se «l'umanità debba esistere o meno». Mancano di realismo interiore nei riguardi della vita, e non sono in grado di prestare orecchio alla voce del futuro nella propria anima. Sono illusionisti. Questo illusionismo interiore coesiste naturalmente in loro con la corrente intermedia della vita circostante, dove per l'umanità non risuona ancora né un deciso «SÌ» né un deciso «no»; essi non capiscono come le cause che compongono la superficie della vita siano al di fuori di tale superficie: scambiano il post-jactum per il prius. Ecco perché talvolta non sono in grado di riconoscere l'illusionismo della loro rappresentazione della realtà. Ecco perché rimproverano ai simbolisti il distacco dalla vita: per vita essi non intendono né la luce né le tenebre, ma uno scialbo crepuscolo. Ecco perché il simbolismo non è in contraddizione con l'autentico realismo: e allo stesso tempo i simbolisti considerano il realismo dell'apparenza circostante come il riflesso di una possibile pienezza. La vita circostante è il pallido riflesso della lotta delle forze vitali dell'uomo contro il fato. Il simbolismo approfondisce o la tenebra o la luce: trasforma le possibilità in realtà: le provvede di vita. Allo stesso tempo nel simbolismo l'artista si trasforma in un combattente (per la vita o per la morte). La possibilità della pienezza non è reale soltanto per cause che contrastano la sua incarnazione. L'artista incarna nell'immagine la pienezza della vita o della morte; egli non può non modificare l'immagine stessa dell'apparenza, perché nell'immagine la vita e la morte sono unite; l'immagine modificata è il simbolo. 79

Ma la pienezza della vita e della morte può manifestarsi in duplice modo: essa può echeggiare nelle emozioni dell'artista o, viceversa, può essere l'immagine dell'apparenza a risvegliare in lui l'aspirazione alla pienezza. In entrambi i casi l'artista-simbolista, impregnando di emozione l'immagine, la traduce in una propria creazione; l'immagine tradotta è il simbolo. Le vie dell'incarnazione del simbolo sono però diverse: se nel primo caso l'emozione suscita l'immagine, nel secondo avviene il contrario. Nel primo caso l'apparenza dell'immagine è assorbita dall'emozione, mentre l'immagine dell'apparenza è soltanto un pretesto per trasmettere quest'ultima; la forma dell'immagine muta perciò liberamente, ed altrettanto liberamente si combinano le immagini (fantasia): tale è il romanticismo del simbolismo; tali sono le ragioni per chiamare il simbolismo neo-romanticismo. Nel secondo caso, l'emozione è vincolata dall'immagine dell'apparenza, è soltanto un pretesto per modificare l'immagine; gli elementi della sua forma sono emblemi che mostrano il carattere simbolico dell'immagine. Poiché la forma dell'incarnazione dell'immagine (tecnica delle arti) riguarda l'immagine stessa, componendo quasi la sua carne, le questioni tecniche della forma iniziano ad avere un significato primario. Deriva da ciò il legame tra il simbolismo e l'arte classica della Grecia e di Roma, come anche l'interesse dei simbolisti per i monumenti dell'antica cultura, il recupero dei poeti latini e greci, lo studio del ritmo, dello stile e della strumentazione verbale dei geni universali della letteratura. Per questo il simbolismo viene chiamato non senza motivo neo-classicismo. L'elemento realistico è sempre presente nel simbolismo, come lo sono il romanticismo e il culto della forma. Il simbolismo si è perciò impresso nella letteratura con tre massime essenziali: l) il simbolo riflette sempre la realtà: 2) il simbolo è l'immagine modificata dall'emozione; 3) la forma dell'immagine artistica è inscindibile dal contenuto. Dal momento che per l'artista-simbolista la realtà non coincide con l'apparenza sensibile dei fenomeni, costituendo solo una parte di essa, la predicazione del simbolismo inizia 80

sempre dalla protesta contro gli antiquati e angusti dogmi dell'ingenuo realismo nell'arte. Nella scienza questo realismo non esiste più; inoltre: la fisica teorica ha da tempo annientato la materia come sostanza dei fenomeni; tutti i dotti scienziati lo sanno; nell'arte continuano invece a prevalere i detriti di dogmi scientifiCi infranti in passato. Sia i teorici dell'arte che i critici non sono spesso allivello di una concezione scientifica del mondo; proprio per questo, armandosi contro il simbolismo, essi fanno sovente violenza al sano istinto creativo; e per questo il tratto caratteristico della nuova arte è la protesta contro il monopolio d.el realismo pseudoreale nell'arte. Non c'è che dire - i simbolisti non negano il realismo. Ma poiché il simbolo è l'immagine tradotta dall'emozione, i simbolisti mostrano il suo triplice principio; ogni simbolo è una triade « abc », dove «a» è l'unità creativa indivisibile, nella quale si combinano due termini («b» -l'immagine della natura incarnata in suono, colore, parola, «C» - l'emozione che dispone liberamente il materiale dei suoni, dei colori e delle parole, per essere interamente espressa da esso); qui la libertà non è arbitrio, ma sottomissione alla sola norma della creazione che, non essendo data dall'esterno da nessuna legge, realizza i propri fini. A volte si obbliga la creazione a essere ideologica, a esprimere le une o le altre tendenze o, al contrario: a non esprimerne alcuna. La tendenza dell'«arte per l'arte», come quella dell'« arte come mezzo di lotta di parte», sono egualmente limitative per l'artista-simbolista. Proprio per questo i rappresentanti dell'arte di parte, come quelli dell'«arte per l'arte», hanno accolto in modo egualmente ostile la predicazione del simbolismo. Infine, la tesi secondo la quale «la forma della creazione artistica è inscindibile dal contenuto» significa questo: poiché l'immagine creatrice è un simbolo, nella sua forma si riflette già il contenuto, che è costituito dalla pienezza vissuta dell'annientamento o della vita; la pienezza di ogni artistasimbolista è la consapevolezza vissuta che l'umanità si trova su un confine fatale, che lo sdoppiamento tra vita e parola, tra 81

conscio e inconscio è condotto a termine. La via d'uscita dallo sdoppiamento è la morte, o la conciliazione interiore delle contraddizioni in nuove forme di vita: l'elemento artistico riflette in maniera più piena e indipendente sia la gravità delle contraddizioni che il presentimento dell'armonia ricercata: l'arte, perciò, è ora un importante fattore della salvezza dell'umanità; l'artista è il predicatore del futuro; la sua predicazione non consiste nei dogmi religiosi, ma nell'espressione del proprio «io)) interiore; questo «im) è l'aspirazione e la via verso il futuro; l'artista stesso è il simbolo fatale di ciò che ci attende in avvenire. Partendo da queste emozioni egli cerca di imprimerle nella forma, costituita dal materiale dei suoni, dei colori, delle parole; la stessa immagine artistica scolpita nella parola è un ponte tra il mondo del morto materiale e la pienezza eloquentemente riflessa; lo stile, il ritmo, i mezzi della raffigurazione non sono combinati casualmente dall'artista; nell'unione di tali elementi è riflessa l'essenza del processo creativo; il contenuto è dato in essi, e non al di fuori di essi. Analizzando l'individualità di un artista della forma, noi studiamo l'ineffabile profondità dell'anima che crea. Per questo gli artisti-simbolisti hanno posto in primo piano i problemi della forma; si è espresso qui non un morto accademismo, ma l'aspirazione ad un'incarnazione ancora più profonda del contenuto dell'immagine nel medesimo materiale dal quale essa è stata costruita. Queste sono le tre basi della formula simbolista: il simbolismo dell'arte contemporanea non nega il realismo, e neanche il romanticismo e il classicismo. Esso si limita a sottolineare che realismo, romanticismo e classicismo sono la triplice manifestazione dell'unico principio della creazione. In questo senso ogni opera d'arte è simbolica. Ora lo ammette persino ... Lunacarskij. Non bisogna però dimenticare che questa massima dell'arte è stata presentata in modo nuovo dalla scuola letteraria simbolista. In che modo, dunque, la scuola dei più recenti simbolisti si riferisce al simbolismo di ogni genere di arte? 82

Non c'è bisogno di soffermarsi sulla manifestazione dei tre aspetti essenziali del simbolismo (realismo, romanticismo e clas~icismo) nella storia letteraria del XIX secolo: su questo argomento parlerà a sufficienza qualsiasi storia della letteratura, che definirà Goethe un classico, Byron un romantico e Zola un realista. L'evoluzione dei tre aspetti dell'arte simbolica ci è data in quella delle scuole letterarie del realismo, del romanticismo e del classicismo. Ebbene? Il classico Goethe corona la propria creazione con la seconda parte, profondamente simbolica, del Faust; il simbolismo del Faust è però intensamente contemplativo; esso riguarda in generale il simbolismo dell'evoluzione umana. Il romantico Byron ci dà il suo Manjred, profondamente simbolico, ed il realista Zola, nell'ultimo periodo della sua creazione, la trilogia simbolica Lourdes-Roma-Parigi; i suoi simboli, che parlano del futuro dell'umanità, sono però troppo astratti. Nei punti più alti della propria evoluzione ognuna delle tre scuole conduce al simbolismo; la sorte dell'uomo e dell'umanità è qui data in immagini. La scuola letteraria del simbolismo si apre con Baudelaire, Nietzsche e Ibsen. Gli ultimi due anzi non giungono al simbolismo, ma ne partono; per quanto concerne i procedimenti della sua scrittura, Baudelaire non rompe con i parnassiani; Ibsen a sua volta non rompe col realismo, mentre Nietzsche rimane per tutta la vita un romantico. Tuttavia, qualcosa li unisce tutti e tre; tuttavia, la critica ufficiale del loro tempo rigetta tutti e tre; tuttavia, sono tutti e tre reietti della società. Ognuno dei tre mostra la profondissima crisi dell'umanità; ognuno dei tre è nemico del compromesso. Baudelaire descrive la profondità dello sdoppiamento della personalità e con le proprie immagini traccia il quadro della morte e del disfacimento dell'antica vita. Nietzsche e Ibsen invitano al futuro. Nietzsche presagisce l'uomo nuovo, del quale sembra per di più vedere il sembiante; il «superuomo)) è l'icona da lui creata; Nietzsche la adora. Ibsen proclama il «terzo regno dello Spirito)): predica che questo regno sta già arrivando. 83

Ognuno dei tre trasforma il simbolismo della contemplazione in simbolismo dell'azione. D'ora in poi sopra la nuova arte si è inconsapevolmente diffuso lo spirito della predicazione; le immagini stesse predicano, disegnano eloquentemente la morte dell'antica vita (il suo demonismo), oppure il quadro presagito dell'umanità rigenerata; la scala delle possibili trasformazioni dello spirito umano è tracciata nelle immagini dei geni del XIX secolo. Con le proprie immagini la corrente simbolista dell'ultimo periodo indica che ci stanno già trasformando, che stiamo rinascendo; alcuni dicono che rinasceremo alla morte; altri rispondono: «No, alla vita». Attraverso le immagini' dell'arte le schiere avanzate dell'umanità lottano ora contro le chimere della morte che le assediano. L'attuale corrente simbolista si distingue inoltre dal simbolismo di ogni arte per il fatto di operare al confine di due epoche: essa viene uccisa dal crepuscolo del periodo analitico, e vivificata dall'alba del nuovo giorno. (1909)

Il teatro simbolista*

I

Negli ultimi tempi si è scritto molto sul teatro della Komissadevskaja; se però si riduce ad unità tutto ciò che durante questo periodo è stato scritto a proposito di Sorella Beatrice, di Balagancik [La baracca dei saltimbanchi] e della Fiaba eterna di Przybyszewski * *, si otterrà un punto esclamativo biforcantesi. Esclamavano gli amanti delle innovazioni, ed esclamavano coloro che ne erano sdegnati: «Rivelazione! Degenerazione! Stilizzazionel Profanazione!» Infine, ci sono stati tentativi di conciliazione tra coloro che lanciavano esclamazioni in un senso o nell'altro sulla base della formula: «Sebbene - tuttavia»... Tale formula ha finalmente assunto l'aspetto seguente: «Sebbene l'allestimento di Sorella Beatrice e della Fiaba eterna testimoni serie ricerche nel campo della • Questo articolo costituisce la dodicesima parte del saggio Ne perevale [Sul valico]. (n.d.t.). • • Sorella Beatrice è di Maeterlinck, La fiaba eterna di Przybyszewski, La baracca dei saltimbanchi di Blok. I tre drammi furono messi in scena dal > ma il legame morale con la patria, che determina l'individualismo della creazione generalmente popolare (non bisogna affatto scrivere sul muiik o su >. Esaminando i grafici di Belyj in quest'ottica, si avrà un'idea della sua teoria ù.el simbolismo (n.d.t.) vd. Grafici p. 301.

l Dice Schopenhauer: (Il mondo come volontà e rappresentazione, III libro, § 43). Kant divide le arti in arti della parola e arti plastiche; tra queste ultime egli distingue poi quelle che esprimono un'idea attraverso la intuizione sensibile; sono le arti della «verità sensibile>>, per usare la sua espressione; tra queste egli annovera l'architettura: (Critica del giudizio, § 51). Secondo Lipps il piacere estetico deriva dal ritmo generale della condizione psichica; il ritmo in senso generale è costituito a suo giudizio dalla successione ritmica non degli elementi della sensazione, ma dalle intere sensazioni; esso rappresenta inoltre un principio estetico fondamentale. Nell'architettura è per noi importante la netta scomposizione in parti del ; questo generale è costituito dalla rigidità. (LIPPS, Die Kultur der Gegenwart). Le condizioni elementari delle sensazioni estetiche vanno ricercate secondo Wundt nei rapporti delle rappresentazioni nel tempo e nello spazio. «Nel campo dell'udito, il senso che dà la rappresentazione del tempo, la fonte delle sensazioni estetiche è costituita dall'unione delle rappresentazioni uditive nel tempo; nel campo della vista ... , invece, dal rapporto spaziale delle rappresentazioni; il significato estetico dei movimenti si ricava da entrambe queste fonti... Noi distinguiamo due condizioni dell'attività estetica elementare: la scomposizione della forma esteriore e l'andamento delle linee di contorno>> (Il fondamento fisiologico della psicologia). Wundt mette in rilievo il ruolo della simmetria e della proporzione in rapporto alle forme visive. La proporzione più elegante secondo Zeising è quella della sezione aurea (Neue Lehre von den Proportionen). La sua teoria è sviluppata sperimentalmente da Fechner (Zur experimentalen Aesthetik. Vorschule der Aesthetik). Fechner, il fondatore dell'estetica sperimentale, ha sviluppato in estetica l'idea herbartiana della necessità di iniziare lo studio delle impressioni estetiche da quelle elementari. (Fechner). Per un certo periodo molti, sotto l'influenza delle idee di Fechner, si dedicarono all'analisi e alla statistica delle impressioni estetiche suscitate dalle forme geometriche. Interessanti risultati di esperimenti in questa direzione sono quelli pubblicati da Baltalon nel suo articolo Nabljudenie i opyty po estetike zritl'nych vosprijatij [Osservazioni ed esperimenti di estetica delle percezioni visive) (V. «Voprosy filosofii e psichologii>> [Questioni di filosofia e psicologia), 1900, fase. V, p. 492), da me qui trascritti: l) «Il piacere estetico derivante dalle forme geometriche non dipende in modo diretto dalle loro proprietà e correlazioni matematiche. 2) I diversi rapporti matematici secondo i quali esse sono costruite p9ssono produrre un'impressione estetica piacevole, allo stesso modo in cui, al contrario, le stesse figure, con rapporti matematici immutati, sono in grado di suscitare un sentimento ora estetico, ora antiestetico. 3) In psicologia l'estetica delle forme spaziali si limiterà difficilmente a rimanere estetica dei rapporti spaziali, come accade in Fechner e nei suoi seguaci, ma dovrà anzitutto essere estetica delle percezioni e della sensazione che nasce in seguito alla loro combinazione. 4) Il piacere estetico derivante dalle forme semplici dipende dalle correlazioni delle percezioni visive e dei riflessi optocinetici. 5) Quanto più queste condizioni favoriscono una rapida, agevole e chiara percezione della struttura affine delle parti di una data figura, tanto più intenso è il sentimento estetico da essa suscitato. 6) La proporzionalità e la simmetria possono essere condizioni di bellezza solo nella misura in cui esse determinano l'affinità delle impressioni ricevute>>. In conclusione dirò che la definizione dei compiti dell'architettura dipende dal

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metodo con il quale ci si pone nei confronti dell'arte, che può essere esaminata da due principali punti di vista; le arti vengono classificate sulla base del loro contenuto e della loro forma. 2 La definizione di Schopenhauer della materia come causalità trova conferma, per quanto riguarda la concezione della materia, in Wundt; in generale Schopenhauer trova in molti punti riscontro nella metafisica di Wundt che, pur non possedendo le sue intuizioni, giunge a conclusioni molto più fondate. In Schopenhauer, Wundt ed altri la definizione metafisica della materia deve essere argomentata con l'aiuto delle scienze esatte, o viceversa; così, nel chiederci che cos'è la materia, noi dobbiamo trovare le nostre opinioni confermate dalla fisica e dalla chimica, o viceversa; noi deduciamo le concezioni fisico-chimiche sulla materia dalle categorie del pensiero. Una volta sostenuto il punto di vista materialistico, noi inevitabilmente lo abbandoniamo, perfezionando l'esperienza. La materia, secondo Fechner, è ciò ; a questa sua proprietà ne sono però legate, secondo Ulrici, ancora altre, più opportunamente osservabili con la vista che non con il tatto (fenomeni di equilibrio e movimento). Fechner sostiene che le percezioni sensoriali si trovano in connessione con i fenomeni dell'apparenza, legati l'uno all'altro causalmente (Die physikalische und philosophische Atomenlehre, 1864). Le scienze naturali stabiliscono inoltre la divisibilità della materia oltre i limiti della percezione sensoriale (atomi); gli atomi sono di due generi: ponderabili (chimici) e imponderabili (eterei). Nella sua opera Il corpo e l'anima Ulrici segnala tre distinti concetti di materia nelle scienze naturali: l) materia, cioè massa tattile, 2) particelle complesse, non soggette alla percezione, 3) particelle elementari (atomi). Mentre lo studio dell'etere è già studio della meccanica, non verificabile attraverso l'esperienza, lo studio della materia come insieme di particelle ponderabili diventa studio delle forze. Già Descartes deduceva il concetto di forza dalla materia eterea, mentre per Newton era il concetto di materia a derivare dalla forza. In tutto il successivo sviluppo della fisica noi ci imbattiamo in una serie di teorie, che utilizzano come punto di partenza delle proprie costruzioni la rappresentazione cartesiana o quella newtoniana. Nell'evoluzione delle scienze esatte noi assistiamo alla lotta tra questi due punti di vista: si accumulavano i dati sperimentali, e l'interpretazione cartesiana della materia tornava ad apparire la più adeguata interpretazione dell'esperienza; se ne accumulavano ancora, e si passava nuovamente alla concezione newtoniana; e così via (v. ROSEMBERGER, Storia della fisica; WHEWELL, Storia della scienze induttive). Alla base del concetto di materia venivano poste due ipotesi contrastanti; la concezione scientifica del mondo ruotava tra movimento ed etere, due punti estremi, contrapposti, che rappresentano quasi l'ampiezza del movimento del pendolo scientifico. Il concetto di forza mutava però anche nei limiti della rappresentazione newtoniana del cosmo; il punto di applicazione delle forze risultava ora nello spazio, ora al di fuori di esso; la forza appariva ora un lavoro meccanico, ora una « qualitas occulta» (per quest'ultima interpretazione propendeva lo stesso Newton); il concetto di forza incontrò il concetto di causa; uno dei due deve essere un concetto derivato. Trendelenburg mostrava come le definizioni del movimento, in quanto puro movimento, siano presupposte da ciò che è definito (Logische Untersuchungen); la definzione scientifica della materia si riduce a quella di energia di1"esistenza (wuNDT, Il sistema della filosofia). Infine Lange, nella sua Storia del materialismo, dimostrata la convenzionalità dei concetti scientifici di atomo, molecola e forza nella formula-

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zione fornitane da Boyle, Newton, Dalton, Avogadro, Ampère, Cauchy e altri, giunge alla necessità di considerare il problema stesso della materia e della forza un problema di teoria della conoscenza. Un allievo di Lange, Vaihinger, diventa un convinto kantiano; i lavori di Cohen suscitano sempre maggiore interesse. In questo modo si organizza e si rafforza il movimento neokantiano, il sorgere del quale è questa volta provocato dalla evoluzione delle scienze esatte. Nelle analogie dell'esperienza (Critica della ragion pura) Kant stabilisce a priori i seguenti principi: In primo luogo: in ogni mutamento dei fenomeni l'essenza (sostanza) permane invariata e la quantità di essa nella natura non aumenta né diminuisce; la scienza empirica al contrario stabilisce in primo luogo la legge di permanenza della materia (la chimica), in secondo luogo la legge di permanenza dell'energia (la meccanica). In secondo luogo: tutti i mutamenti avvengono secondo la legge del nesso di causa ed effetto (in questa seconda analogia dell'esperienza viene stabilita la causalità come principio conoscitivo). «La causalità>>, dice Kant, «conduce al concetto di attività, quest'ultimo al concetto di forza e quindi a quello di essenza (sostanza)». In terzo luogo: tutte le essenze, che noi possiamo osservare nello spazio come simultanee, sono in assoluta azione reciproca. Tali sono secondo Kant le tre analogie dell'esperienza, che costituiscono i fondamenti dinamici del giudizio puro, cioè le regole di applicazione delle categorie; questi fondamenti determinano l'esistenza dei fenomeni nel tempo. Così gli stessi concetti di materia, forza e atomo sono riconducibili alle categorie dinamiche di Kant; il loro carattere emblematico si rivela alla luce dell'idealismo gnoseologico. Anche indipendentemente dai presupposti del pensiero teorico gli scienziati contemporanei sono comunque giunti alla comprensione convenzionale dei fondamentali concetti fisici e meccanici. Ecco cosa scrive Poincaré ne La scienza e l'ipotesi: «Si può dire che l'intelletto abbia la capacità di creare simboli; grazie a questa capacità esso ha costruito la continuità matematica, che rappresenta soltanto un particolare sistema di simboli>> ... E più avanti: «Noi siamo costretti a concepire un sistema di simboli sempre più complicato>> ... Così, o la costruzione dei concetti legati alla materia è predeterminata dall'attività conoscitiva, ed ha perciò una sistematicità logica (posizione dell'idealismo), oppure la costruzione di queste teorie per l'interpretazione empirica si riduce ad un'attività puramente creativa - l'immaginazione (posizione dell'emblematismo e del simbolismo); gli scienziati sono più inclini al secondo punto di vista, i filosofi al primo. 3 Nella sua Introduzione all'estetica contemporanea Meumann nota del tutto giustamente: «Ciò che il vero artista esprime nella propria opera d'arte costituisce, per quanto concerne il contenuto, un'esperienza puramente individuale ... Il vero artista possiede anche una forma di rappresentazione individuale. Egli ha una sua forma, un suo stile, una sua pennellata, una sua propria lingua» ... In forza di tutto ciò la psicologia delle creazione artistica rappresenta un difficilissimo problema di estetica, che soltanto parzialmente si risolve con i mezzi della scienza. Meumann sottolinea inoltre il significato dei lavori di Konrad Fiedler, Hirt e Max Dessoir in questa direzione. Dal suo volume traiamo la seguente bibliografia sull'argomento: HERMANN GRIMM, Ueber Kiinstler und Kunstwerke, Berlin 1865. KONRAD FIEDLER, Der Ursprung der Kunsteerischen Tittigkeit, 1887.

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F.v. HAUSEGGER,

Das ]enseits des Kunstlers, 1899; Die Kunstlerische Personlich-

keit, 1897. w. DILTHEY, Ueber die Einbildungskrajt der Dichter.

-, Dichterische Einbildungskrajt. Volkerpsychologie, 1905. EDUARD V. HART).lAN, Aesthetik. LIPPS, Kultur der Gegenwart. RIBOT, La forza creatrice dell'immaginazione. H. TùRK, Der geniale Mensch. MùBIUS, Ueber Kunst und Kunstler. -, Ueber des Pathologische bei Goethe. -, Ueber Schopenhauer. - , Ueber des Pathologische bei Nietzsche. LUDWIG VOLKMANN, Grenzen der Kiinste. JOHANNES SCHILLING, Kiinstlerische Sehstudien. GUSTA V FREITAG, Die Technik des Dramas. E. GUHL, Kunstlerbrieje. AD. HILDEBRANDT, Das Problem der Form. j. REYNOLDS, Akademische Reden. A questo elenco aggiungiamo tutte le opere di J. Ruskin. 4 Queste parole di Helmholtz confermano essenzialmente l'antica teoria del principio estetico unico (unità nella pluralità); nell'analisi psicologica esso ci appare come esigenza dell'unità indivisi bile degli elementi del pensiero, della volontà e della sensazione nelle esperienze artistiche. Afferma giustamente Ostwald: «Lo stesso pericolo (quello di divenire puramente razionale) minaccia la poesia di fronte all'avanzare troppo potente del materiale del pensiero e dell'intuizione>>. L'esperienza (Perezivanie) è autonoma, non può essere confusa con la volontà; ancora più lontani da essa sono la sensazione ed il pensiero. La sensazione, il giudizio, la volontà sono accessibili all'analisi della psicologia empirica, che scompone l'attività dello spirito. L'emozione è la forma di espressione dell'unità della vita dell'anima, unità indipendente sia dalla teoria della conoscenza che dalla psicologia. Quest'ultima, al contrario, è possibile soltanto nel caso postuli l'unità autonoma dell'emozione, l'inscindibile integrità della quale viene sempre data potenzialmente, una volta stabilita l'una o l'altra delle sue attività (pensiero, sensazione, volontà). Da questo punto di vista ogni atteggiamento razionale non si limita al tempo stesso ad essere tale; il principio che lo determina non può avere radice nella dipendenza che si stabilisce tra un dato atteggiamento e l'altro secondo le leggi della logica generale, ma deve giacere nell'esperienza inscindibilmente integra. Secondo questa posizione le svariate forme di nessi tra i singoli atteggiamenti razionali avvengono in una duplice direzione: periferica, cioè mediante le leggi della logica generale, e centrale, cioè attraverso l'emozione unificante. Queste direzioni appaiono quasi reciprocamente perpendicolari. La determinazione del nesso centrale, non turbando quella del nesso periferico, attribuisce a quest'ultimo un carattere di profondità. Gli atteggiamenti razionali uniti dall'interno dall'esperienza sprizzano lampi di saggezza. L'esistenza di un nesso interno che attribuisca a questi atteggiamenti un carattere di precisione scientifica non basta a mostrare la profondità in essi esistente. La chiarezza diurna del pensiero logico è un tappeto dorato gettato sull'abisso che w. wuNDT,

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si manifesta ogni volta che noi fermiamo arbitrariamente l'incessante flusso delle associazioni logiche su uno degli atteggiamenti che compongono il tessuto del pensiero e guardiamo fisso in esso. Ogni atteggiamento razionale da noi fissato con la nostra vista spirituale diventerà profondo all'infinito. Il dogma razionalistico è di per sé trasparente e vuoto, giacché riflette l'emozione. Proprio per qu~ta sua capacità di riflettere, o meglio, per la nostra capacità di vedere al suo interno, esso non è soltanto razionalistico, poiché costituisce l'unione della forma logica, che rifrange in maniera originale l'unità viva dell'emozione. Tale unione, se noi siamo in grado di percepirla, è il simbolo, cioè l'idea di Platone. L'attività logica è dunque un ininterrotto mutamento nella configurazione delle vuote forme che delineano variamente l'unità viva. Se invece si considera il mutamento nella configurazione delle forme come attività dell'unità viva, cioè non si guarda dall'esterno all'interno ma viceversa, la stessa attività logica appare l'involucro esterno di un'incessante simbolizzazione. Si racconta a proposito di Socrate di come lo si vedesse talvolta per le strade di Atene dedicarsi immobile per parecchie ore alla contemplazione. Non stupisce che il suo razionalismo, che ha tanto indignato Nietzsche, recasse in sé più fuoco di qualsiasi sproloquio poetico sul fuoco stesso. Davvero Nietzsche non intravvedeva in Socrate se stesso, impegnato ad introdurre simboli infuocati nella cornice delle vacillanti ipotesi del naturalismo? Vladimir Solov'ev, questa aquila che abbiamo visto non una sola volta innalzarsi verso i futuri destini del mondo, all'occorrenza sapeva ben fingersi cammello e portare su di sé il peccato del nostro fardello. Quando la tempesta incresperà il liscio specchio delle acque ed una bianca spuma coprirà agitandosi l'azzurra superficie del lago, noi non potremo guardare nel profondo. Quando poi le bianche bollicine di spuma scompariranno ed il lago si tramuterà in specchio, l'imo fondo sarà di nuovo accessibile allo sguardo. L'attività logica, scorrendo in qualsiasi direzione, frantumando e limitando le posizioni iniziali per mezzo di migliaia di singoli anelli intermedi, offusca la chiarezza di tali posizioni; l'attitudine contemplativa verso il pensa bile viene sostituita da una febbre di ricerca di punti di appoggio per una nuova contemplazione sempre dello stesso oggetto. Trovato il principio incognito, le singole correnti di pensiero confluiscono in un alveo comune; la posizione razionale, liberata dalle posizioni confinanti, diventa nuovamente trasparente e trascina il nostro > là dove termina ogni logica. In questo senso la profondità di qualsiasi principio normativo fugge nel profondo alveo di ciò che ha eterno valore. Lo stesso si può dire per quanto concerne l'attività delle sensazioni. Le singole impressioni sensitive, combinandosi, formano una serie sensitiva che si va ora allargando ora restringendo. Dobbiamo qui individuare la dipendenza di duplice genere che determina una data sensazione: l) dipendenza della sensazione dalla serie sensitiva nella quale essa ha avuto origine; 2) sua dipendenza dall'esperienza, che si trova al di fuori della psicologia scientifica ma va necessariamente postulata. Da questo punto di vista qualsiasi sensazione cessa di essere tale una volta che si sia manifestata l'esperienza sottostante. Dal grado di manifestazione dell'unità di esperienza, dal grado del suo avvicinamento alle superfici della coscienza è determinata la profondità di qualsiasi sensazione. Da questo punto di vista l'inutile avvicendamento di sensazioni, che ci getta nel caos, non può apparire un cardine della creazione artistica: l'emozionalismo non ha nulla in comune con l'individualismo, vero criterio della creazione artistica e nello stesso tempo altare del futuro agire universale. L'individualismo è legato all'avvicinamento dell'unità di emozione alle

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superfici del pensiero, della sensazione, della volontà. La combinazione di questa unità con le forme di vita logiche, artistiche e religiose dà origine a serie di simboli scientifici, estetici e liturgici. L'emozionalismo (soggettivismo), gettandoci nell'abisso delle sensazioni casuali, rovina ed indebolisce queste forme. Nell'arte l'individualismo è segno di rinascita, il soggettivismo (emozionalismo) di decadenza, quando non sia ciarlataneria. Sono veramente squallidi gli incolti sforzi di molti adepti dell'arte contemporanea, che hanno purtroppo vissuto da parassiti le potenti fughe della creazione nei campi della parola, della pittura, della musica. Quando ci troviamo di fronte ad una certa immagine della realtà, noi possiamo determinare in due modi il nostro atteggiamento nei suoi confronti: da una parte, essa susciterà in noi il processo logico del pensiero, diretto dalla sensazione; dall'altra, al contrario, una certa sensazione costituità il risultato del nostro atteggiamento razionale verso una data immagine. Nel primo caso l'oggetto è determinato dall'influenza della sensitività sul giudizio, e dobbiamo concordare con Kant su come questa influenza origini una serie di errori. Nel secondo caso la sensazione, diretta dal giudizio, sarà strappata dal proprio alveo ed alterata. In un terzo caso il processo logico ed il processo sensitivo si svilupperanno l'uno indipendentemente dall'altro, oppure i singoli anelli di questi processi, rivelandosi di per sé trasparenti, diverranno per noi finestre sull'unità di esperienza. In tal caso le forme razionali e sensitive, ampliandosi, non si limiteranno più ad essere tali ma diventeranno simboli dell'unità, e, giacché si rifletterà in essa la sola emozione che le determina, vi coQfluiranno. Il giudizio e la sensazione, in quanto attività dell'emozione, unendosi provocano inevitabilmente una terza attività - la volontà, diventano cioè palesemente attive. L'immagine che ha risvegliato in noi i processi intellettivi e sensitivi suscita inoltre l'azione della nostra volontà. Nell'estasi, quasi una soglia verso la realizzazione dell'emozione, viene strappato il velo che divide l'intelletto dalla sensazione, mentre la volontà viene trapassata religiosamente dalla pienezza dell'emozione. L'estasi è il mezzo per realizzare l'emozione mistica. La creazione artistica e quella scientifica tracciano davanti a noi simboli e idee nei quali riluce l'emozione. L'estasi, coronando l'una e l'altra creazione, fonde le immagini contemplate nell'azione, creando per mezzo di essa un'immagine e una parvenza nella realtà empirica; si rivela qui l'ineluttabilità della religione, che realizza liberam"ente il contenuto spirituale delle varie individualità, generando dalla loro profondità l'azione universale. Il giudizio e la sensazione, avvolti per così dire dall'amalgama dell'uno, si trasformano in specchi diretti da parti opposte su una qualsiasi immagine, che viene ripetuta un infinito numero di volte nell'infinità speculare, simbolizzando con la nuova iterazione un nuovo avvicinamento all'unità intera. Deriva da ciò l'inizio della simbolizzazione. L'estasi è la condizione indispensabile per la condensazione delle emozioni, che fioriscono come freschi fiori di vetta. Vale la pena di prendere anche se superficialmente conoscenza dei libri mistici, per convincersi dell'identità delle emozioni mistiche indipendentemente dai dogmi religiosi. Nelle emozioni, e non nei dogmi, sta la base della religione, la sua universalità. L'identità delle profondità dell'anima, a prescindere dal carattere delle concezioni del mondo e delle sensazioni, è ancora una volta confermata dagli artisti e dai pensatori contemporanei, insoddisfatti del dominio esclusivo del dogmatismo scientifico-filosofico. Nei loro simboli inquietanti, stimolanti, noi cominciamo ora ad intuire i lontani lampi delle eterne rivelazioni che illuminarono sia l'Oriente che l'Ellade. 5 Non per nulla la scuola pitagorica metteva la musica in relazione con la

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matematica; già allora era noto che la consonanza (ottava, quinta, quarta) viene determinata dal semplice rapporto delle lunghezze delle corde. Secondo Leibniz >; Stoletov sottolinea come questo pensiero sia stato sviluppato più dettagliatamente dal matematico Eulero. Wheatstone e Donders lavoravano nel campo dell'acustica musicale ancor prima di Helmholtz. Quest'ultimo, secondo Wundt, >. Tra la poesia, la vita, l'amore e la musica per il romantico non c'è differenza. Ecco alcuni brani di romantici, riportati da Ioel... TIECK: ... ... ... ... Per Tieck la lingua dei toni è più ricca di quella della parole. Per lui i profumi dei fiori sono suoni. SCHLEGEL: «La musica è l'arte dell'amore>> ... Nel volto di Carolina Schlegel vede «una musica eternamente nuova di sguardi ispirati e di dolci pose>> ... «Lievi e melodiosi scorrevano gli anni come un magnifico canto>>. Le lettere di Lucinde . La lirica è per Schlegel poesia musicale. NOVALIS: Gli occhi sono «un clavicembalo luminoso>> ... Egli sente > ... > ... «Tutti gli uomini sono variazioni dell'individuo perfetto>> ... ... La malattia è «un problema musicale>> ... La guarigione è ... ... ... > (wuNDT, Fondamenti fisiologici di psicologia). Le forme di battuta si dividono in binarie (alternanza regolare di arsis e thesis),

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ternarie (per ogni elevazione due abbassamenti), miste (si compongono contemporaneamente di binarie e ternarie). Un certo numero di battute costituisce la serie ritmica (nel metro poetico è il singolo verso). Fra le opere che studiano i compiti del ritmo annoveriamo tra l'altro: WESTPHAL, System der antiken Rhythmik, 1865; HAUPTMANN, Die Natur der Harmonik und Metrik, 1853; MAX ETTLINGER, Zur Grundlegung einer Aesthetik des Rhythmus; H. RIEMANN, Elemente der musikalischen Aesthetik, 1900. Per quanto concerne il rapporto del ritmo musicale con il ritmo e il metro in poesia, si tratta di un problema tanto complesso, che per un quadro completo di tali rapporti semplicemente non ci bastano i dati sperimentali. Esattamente allo stesso modo delle forme di battuta, anche tutte le forme della nostra metrica si dividono in binarie e ternarie; com'è noto, nella versificazione tonica si usano i seguenti metri: giambo, coreo (binari); dattilo, anapesto, anfibraco (ternari). Qui il metro musicale e quello poetico sembrano coincidere; ma non bisogna dimenticare che, se nella versificazione tonica una sillaba lunga corrisponde ad una accentata ed una sillaba breve ad una non accentata, non sapremo come considerare lo spondeo, la cui essenza è l'iterazione consecutiva di due accentate («Tvoj Bog» [Il tuo Dio]). Nella versificazione latina e greca c'erano inoltre quattro piedi quaternari: l) il dispondeo (_ _ _ _): 2) l'epitrito: primo (u _ _ _), secondo(_ u _ _),terzo(_ _ u _),quarto(_ _ _ u); 3) il peana (o peone): primo (_ u u u), secondo (u _ u u), terzo (u u _ u), quarto (u u u _); 4) il dipirrichio (u u u u); 5) il piede ionico maggiore (_ _ u u); 6) il piede ionico minore (u u _ _). Nella versificazione tonica sono presenti tutti questi piedi. Il dispondeo si incontra in un verso di Baratynskij: «Ni iit' im, ni ljubit' clée ne nadoelo>> [Ancor non gli è venuto a noia il vivere né l'amare] (A Bogdanovic). Sempre in Baratynskij si trova l'epitrito primo: [Perché voi i giorni!] (u _ _ _). > [Voi con la vostra leggerezza]), secondo ( [Sul mio pavimento laccato], Der2:vin): A e b. ( [Esse mi ricordano], Pu5kin). Lo stesso si può dire riguardo ai piedi ionici. La presenza di piedi quaternari, ed anche di piedi binari composti da due arsis o da due thesis, ci conduce alla conclusione che il piede non coincide affatto con la forma della battuta musicale; per esprimere la divisione metrica in quella musicale, in una battuta binaria dobbiamo scindere i membri della divisione in ottavi, in una ternaria in dodici unità. Ci troviamo di fronte ad un'alternativa: o scindere i cinque piedi ammessi nella nostra metrica negli stessi ventotto che incontriamo nella versificazione greca, e considerare poche misure metriche come composti creati dalla trasposizione e dalla combinazione dei ventotto possibili piedi; In tal caso ogni regola metrica si infrange contro i composti che si trovano alla base della versificazione tonica; oppure dedurre il fondamento della nostra metrica dalle particolarità ritmiche della lingua, invece di applicare forzatamente le forme a noi estranee della versificazione latina e greca; in quest'ultimo caso noi subordiniamo le leggi del ritmo poetico a quelle del ritmo musicale. A tal fine è necessario in primo luogo che siano solidamente stabilite le leggi del ritmo musicale, in secondo luogo che ci siano perfettamente noti i confini di ciò che noi chiamiamo ritmo in poesia; intanto il ritmo poetico non è affatto studiato, come non lo è tutta la complessità

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dell'accentazione nella versificazione tonica; innanzi tutto il verso russo non è descritto, o lo è parzialmente; tutti i tipi di irregolarità e deviazioni che normalmente si trovano alla base di un verso metricamente determinato, come il corea o il giambo, non sono ricondotti a sistema. Perciò in poesia non esiste teoria del ritmo; quest'ultimo è una unità, alla quale viene ricondotta la varietà dei composti metrici; bisognerà inizialmente designare la somma delle deviazioni nei limiti di un metro formalmente accettato, come il giambo, il corea, il dattilo, come elementi del ritmo poetico; il rapporto di questi elementi l'uno verso l'altro e verso gli elementi metrici è il gradino successivo per la ricerca di una vera successione nell'uso delle sillabe accentate, semiaccentate e non accentate; il ritmo ricercato è l'unità nella correlazione delle composizioni esistenti nell'alternanza degli accenti; le leggi dì questa unità hanno la propria radice in quelle del ritmo musicale. Per lungo tempo si è confuso il ritmo con il metro. La stessa parola Rhythmus era usata inizialmente nel senso di armonia nella danza e nel discorso: «Ma nel latino barbarico del medioevo», dice Ostolopov, «questa denominazione fu attribuita alle terminazioni assonanti, ed i versi con tali terminazioni furono chimati ritmici, cioè armoniosi, fluidi. Nella lingua russa, al contrario, le parole virsa e verso sono scambiate a volte per rima. Il primo di questi termini, ora obsoleto e derivante dal polacco weirsz (versus), fu usato da Apollos nelle regole poetiche (ed. 1790). Ancora nell744 nel panegirico da lui composto in onore dell'imperatrice Elizaveta Petrovna in occasione della sua visita a Kiev, lo ieromonaco Michail Kozacinskij usa la parola ritmo, Rhythmus, Rythm nel significato qui espresso. Simeon Polockij chiama i propri versi rime>> (NIKOLAJ OSTOLOPOV, Slovar' drevnei i novoi poezii [Dizionario di poesia antica e moderna], parte terza, 1821). Denisov mostra che il ritmo può essere semplice o composto; il ritmo semplice è un'alternanza di elementi temporali forti e deboli; il ritmo composto è formato dalla combinazione di gruppi ritmici periodicamente ricorrenti; nella metrica esistono a suo parere quattro tipi di gruppi successivi: il piede, il membro metrico, il periodo e il sistema (DENisov, Osnovaniia metriki u drevnich grekov i riml;an [Fondamenti di metrica presso gli antichi greci e romani], Mosca, 1888). In tal modo egli unisce il concetto di metro a quello di ritmo; l'applicazione di quest'ultimo alla poesia dà vita alla metrica. Ma nella poesia russa non c'è corrispondenza tra ritmo e metro, perché il suo fondamento è la tonica; la varietà dei piedi metrici presso gli antichi e l'uniformità dei metri formalmente assimilati dalla lingua russa dà origine a una contraddizione nella teoria del metro del verso russo. La varietà nella combinazione delle lunghezze presso gli antichi creò una grande quantità di tempi di enunciazione (possibilità di pronunciare una differente quantità di sillabe in una eguale quantità di tempo). Il tempo di enunciazione più breve era chiamato presso gli antichi xp6vo~ n:pw(oç; una sillaba lunga equivalevaa due XP6VOL n:pw-rot (_ = u u), e in alcuni casi a più di due (tre, quattro, cinque). Prendiamo qui alcuni dati dall'opera di DENisov Fondamenti di metrica presso gli antichi greci e romani: Il piede è il più breve gruppo ritmico (ma per noi metrico); il piede più piccolo si compone di tre XP6vOL n:pw-rot, il più. grande di sei; i piedi si dividevano secondo il rapporto della parte forte verso quella debole: se questo rapporto era di 2: l si avevano: il corea _ 2 1u 1 , il giambo u 1 1_2 , lo ionico discendente _ 4 _ l u 2u, lo ionico ascendete u 2 u l _ 4 _ ; se era di 2: 2- il dattilo _ 2 1 u 2 u, l'anapesto u 2 u l _ 2 ; se

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era di 3: 2- il peana (o peone); se era di 3: 4- gli epitriti; se era di 3: l u 3 _ l u 1 ; se era di 3: 5 u 3 _ l _ u 5 _o u 3 _ l u u 5 u _ , cioè una combinazione di giambo e peana. È proprio quest'ultimo caso ad interessarci; la metrica russa non accenna alla combinazione di piedi giambici con peanici; ma intanto le varietà di giambi sono basate su questa unione di piedi; essa dà vita alla cosiddetta unione di due piedi che formano qualcosa di intero; oppure la dipodia è un complesso di lunghezze e brevità, nel quale rientrano i cosiddetti piedi irrazionali, nei quali cioè l 112 )(p6voç 1rp&i-coç va alla thesis e soltanto 314 all'arsis; in essi Westphal riconosce come thesis una lunga + una breve, e come arsis una sola breve; in tal modo sarà chiamata dipodia una combinazione di piedi, nella quale un piede giambico è unito ad un peanico u _l u u u _; infine, nell'antica metrica si accenna ad una battuta composta - il cosiddetto docmio, formato da 8 XP· 1rp., cioè: u _ u u u u u; tale combinazione di lunghe e brevi può anche incontrarsi nel verso russo; ad esempio [boschi maestosi]. Due brevi possono formare una lunga, e viceversa: nel primo caso si tratterà di una unione, nel secondo di una soluzione; su questo sono fondate le combinazioni delle forme esametriche (alternanza di spondei e dattili). Nell'esametro russo agli spondei corrispondono i trochei, ma in modo non sempre regolare; nell'anapesto e nell'anfibraco russo abbiamo qualcosa che corrisponde all'unione; particolarmente interessante è l'impiego delle pause nel verso russo; com'è noto, nella versificazione greca in alcJlni piedi non si aveva la quantità di sillabe necessaria; alla mancanza di sillabe si poteva supplire con una pausa, che presso gli antichi era chiamata xp6voç xtv6ç; in Goethe e in Heine il verso tonico abbonda di xp6voL xtvo(, mentre da noi la pausa è stata introdotta soprattutto dai modernisti e la incontriamo per la prima volta in Z.N. Gippius e Brjusov, in metri di tre unità (« Tvoja deiva so vzolrom ';;' zgu!Cim >> [La tua fanciulla con lo sguardo ardente]); in modo particolarmente felice impiega le pause AL. BLOK. (> [Come demoni sordomuti] ... Dattilo-trocheo; unione del dattilo con il trocheo; nel caso di unione di membri appartenenti ad un diverso metro, avviene o l'assimilazione dei piedi, o il cambiamento dell'andamento ritmico. Epitrito; quattro forme: epitrito primo: u _ _ _;secondo: _ u _ _ ; terzo: _ _ u _; quarto: _ _ _ u; si incontrano nel giambo russo l'epitrito primo e terzo; nel coreo c'è l'epitrito secondo e quarto; Boeckh ha espresso l'ipotesi che • L'oriente risplende di una luminosa aurora ... l Al suo apparire il mattino vivifica la terra, l risveglia tutto il mondo, etc.

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!'epitrito sia una dipodia trocaica con uno spondeo irrazionale nel secondo piede; egli intende propriamente la seconda forma: _ u _ _ ; la distribuzione dei )(p6voL

7tpw~oL in questo epitrito è questa:_g_(,

1217 917

; attenendosi qui alla teoria metrica degli antichi, Hermann considera tale la distribuzione degli elementi del

tempo:_g_(, _g_ _g_; Westphal assimila il piede dell'epitrito a quello dattilico, cosicché 813 ~ _g_ _g_; l'epitrito si unisce con il nel dattilo si avrà:_g_ (, (,, e nell'epitrito dattilo nel dattilo-epitrito; la soluzione della sillaba lunga nell' epitrito è rara; i dattiloepitriti si incontravano nella lirica corale, in Pindaro, nel Prometeo di Eschilo, più spesso in Sofocle e in Euripide. Fra i piedi rari, ma pure esistenti, bisogna annoverare ancora: Molosso: _ _ _ ; si pensa che questa parola derivasse dagli inni che venivano cantati nel tempio di Giove Molosso, o dai canti in onore di Molosso, figlio di Pirro e Andromaca, oppure da un popolo deii'Epiro, i molossi, che cantavano lenti canti prima del combattimento. Tribraco: u u u; da ~ptLç (tre) e ~pOLxuç (breve). Anjibraco: u _ u· Dispondeo: _ _ _ _ .

Dipirrichio: u u u u· Metri misti: fra i metri misti si annoverano quelli che avevano solo un membro composto di piedi eterometrici; i metri misti si chiamavano logaedici; le loro forme erano varie; nel novero di queste forme le più usuali erano considerate: l. Verso adonio:_ u u _ u; ricevette la propria denominazione dagli inni in onore di Adone; comprendeva spesso una strofa saffica. 2. Verso jerecrateo: _ u u _ u _ u; o u _ u u _c;; nell'antica metrica solo la seconda forma era chiamata verso ferecrateo. 3. Verso gliconeo: - u u - 1 u-u~ o: _CJI - u u - 1 u-..!.L· 4. Verso alcaico: il suo inventore era considerato illirico Alceo; esistevano due versi alcaici- maggiore (endecasillabo) e minore (decasillabo): la strofa si componeva di quattro versi alcaici; Ostolopov riporta in russo un modello di questo verso: > ... «Nei frammenti di un ditirambo di Bacchilide recentemente scoperto il soggetto è il ritorno di Teseo ... ; il corifeo esegue la parte di Egeo, il coro rappresenta le ateniesi: esse interrogano il re sulla comparsa di un cavaliere sconosciuto... Egeo risponde. Si sono conservate quattro strofe, nell'alternanza di domande e risposte>>. «> (V. l'articolo di A. Veselovskij Epiéeskaia povtoreniia, kak chronologiéeskti moment [Ripetizioni epiche come momento cronologico], «Zurnal Ministerstva Narodnogo Prosve5cenija>> (Rivista del Ministero della Pubblica Istruzione], 1897, Aprile). All'origine della poesia dalla musica e dalla danza attraverso il canto è legata la questione delle forme poetiche iniziali; Cupper rileva come i rapsodi fossero abbigliati con vesti rosse

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quando cantavano l'Iliade, ed azzurre quando cantavano I'Odissea. Il momento del canto e della danza ci fa supporre che la forma originaria fosse la poesia lirica e non quella epica, mentre secondo Hegel avvenne il contrario; la poesia drammatica coronava la lirica con l'epos; un punto di vista simile è espresseo da Carrière. Nel contempo Jean Paul-Richter, Benard, Benloew, Léon Gautier hanno sostenuto che le prime forme di poesia fossero liriche. La scuola etnografica con Miillendorff, Wackernagel, Von Liliencron e Uhland ha invece affermato il sincretismo corale. Nell'opera Urlyrik Jakobowski sostiene il soggettivismo della poesia; in essa il ritmo mostra la sua origine dalla danza accompagnata da esclamazioni, nella quale è già presente il principio del verso. Al problema qui affrontato si riferiscono tra l'altro le seguenti opere (cito da V eselovskij): ALEKSANDR VESELOVSKIJ,

Tri glavy iz i.storiéeskof poetiki [Tre capitoli della poetica

storica). CARRIÈRE, Wesen und Formen der Poesie. - , Die Kunst im Zusammenhang mit der Kulturentwicklung. WERNER, Lyrik. LACOMBE, Introduction è l'hi.stoire littéraire. JAKOBOWSKI, Urlyrik. BRUGMANN, Poetik, Naturlehre der Dichtung. WOLF, Poetik.

L'opinione di Jakobowski sull'origine delle forme poetiche posteriori dalla lirica è appoggiata dallo stesso Westphal. Nell'antichità l'accompagnamento eseguiva la stessa melodia della voce; più tardi, ogni strumento svolgeva in esso la propria parte; durante l'esecuzione delle proprie odi Pindaro introdusse l'accompagnamento della phorminx ai flauti; tra gli strumenti a fiato in uso presso gli antichi Denisov indica !'atùÀoç (una specie di clarinetto); gli strumenti a corda, tra i quali c'erano la Àupat, la xL9tipat, la cpopfLLY~ e il ~tip~L-rov, erano usati nelle feste in onore di Apollo; quelli a fiato lo erano nelle feste in onore di Dioniso; tra la declamazione e il canto si eseguiva una sorta di recitativo (1tatpatxat-ratÀorTi); l'unione della danza con il canto avveniva in modo che i cantori fossero anche esecutori della danza, o che il canto fosse eseguito dagli uni e la danza dagli altri. La tragedia derivò dal ditirambo; nell'esecuzione del ditirambo il ruolo principale era svolto dal corifeo; da lui derivò l'attore; «con la separazione del corifeo>>, dice Aleksandr Veselovskij, «anche il testo del suo racconto doveva assumere forme stabili, sostituendo i capricci dell'improvvisazione... il coro ditirambico accompagnava cantando il corifeo, cominciava il dialogo ... la partecipazione del coro, che si riduceva gradualmente nella tragedia, ... scomparì al punto ... , che bisognò interpretarlo di nuovo ... Schlegel lo chiamò spettatore ideale>> ... «Per Nietzsche il coro è simbolo di tutta la massa dionisiaca eccitata>> (Istoriéeskafa poetika [Poetica storica]. L'architettura del piede - del verso, della strofa - in poesia è strettamente legata alla musica; questo legame della poesia con il pathos musicale dell'anima, che si è mantenuto ed è vivo ancora oggi, distingue il ritmo poetico dal metro; il metro è il ritmo cristallizzato in fortne storicamente formatesi; ma la forma stessa è cristallizzata soltanto dall'esterno in confini determinati; nei suoi limiti c'è una serie di

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momenti temporali irrazionali - di impercettibili accelerazioni e rallentamenti; l'accumulo in una direzione di tali accelerazioni e rallentamenti è in grado di creare una serie di nuove forme metriche transitorie, senza violare esplicitamente i limiti della forma originaria; ecco perché nella poesia noi distinguiamo il ritmo dal metro. Nello sviluppo genetico delle forme poetiche il ritmo musicale è qualcosa di intimamente affine rispetto al metro; in una data forma poetica è il contrario: il ritmo è sempre qualcosa di individuale rispetto alla forma; tra ritmo e metro si svolge sempre una sorda lotta, l'espressione della quale ci imprigiona più in ogni altra cosa in forme individuali. Se in poesia non si stabiliscono le leggi del ritmo, la teoria delle forme metriche rimarrà sempre un'arida e talvolta psicologicamente oscura enumerazione di forme. Nella lingua russa sono possibili i più vari piedi metrici, e sono altresì teoricamente ammessi tutti i versi metrici citati; inoltre: la peculiarità della versificazione russa, in quanto versificazione tonica (tale cioè da non dipendere dalla lunghezza e dalla brevità delle sillabe, né dalla loro quantità, ma dall'accento), ammette l'infinita combinazione dei piedi citati. In un solo metro apparentemente giambico (u _) noi incontriamo: l) Piedi coreici («

  • > [O profeta o poeta]) ... 2) Spondaici ( [Non, non sono Byron] ... Lermontov) 3) Pirrichii ("Napolminaliut mnelone>> [Esse mi ricordano] ... Pu~kin) 4) Dattili ( = falcicorne, abbiamo insieme tutte e tre le forme: la metafora, la metonimia e la sineddoche, secondo il modo di apporre l'epiteto: di per sé jalcicorne è un epiteto metaforico; come ogni epitheton ornans è inoltre, secondo Potebnja, anche una sineddoche; dicendo: «la jalcicorne capra» noi non soltanto riferiamo la specie (capra) al genere (animali muniti di corna), ma attribuiamo a un esemplare di questo genere un carattere qualitativamente nuovo, e precisamente che quella data capra non ha soltanto le corna, ma che le sue corna hanno una certa somiglianza con quelle della falce lunare. Psicologicamente ogni formazione di parole attraversa tre stadi di evoluzione: l) lo stadio di epiteto, 2) lo stadio di paragone, quando l'epiteto evoca un nuovo oggetto, 3) lo stadio di allusione (accenno, simbolismo), quando la lotta di due oggetti ne forma uno nuovo, non contenuto nei due termini del paragone: lo stadio dell'allusione attraversa diverse fasi, quando si compie il passaggio del significato secondo la quantità (sineddoche), secondo la qualità (metanimia), e quando si compie una sostituzione degli oggetti (metafora). Nell'ultimo caso otteniamo un simbolo, cioè un'unità indivisibile; i mezzi di raffigurazione sono in questo senso mezzi di simbolizzazione, cioè della primissima attività creativa, che la conoscenza non può scindere. La creazione della metafora verbale (del simbolo, cioè dell'unione di due oggetti in uno) è lo scopo del processo creativo; ma non appena si raggiunge questo scopo con i mezzi della raffigurazione e il simbolo è creato, siamo al confine tra la creazione poetica e la creazione mitica; l'indipendenza della nuova immagine «a» (metafora compiuta) dalle immagini che l'hanno generata («b», «C», dove «a» si 277

    ottiene dalla traslazione di «h» in «c», o viceversa: di «c» in «h»), è espressa dalla sua esistenza ontologica, indipendente dalla nostra coscienza, conferitale dalla sua creazione; tutto il processo si capovolge: lo scopo (metafora- simbolo), una volta ottenuta l'esistenza, diventa una reale causa efficiente (una causa generata dalla creazione 5): il simbolo diventa incarnazione; esso rivive e agisce autonomamente; il bianco corno della luna diventa il bianco corno di un essere mitico: il simbolo diventa mito; la luna è ora l'immagine esteriore di un toro o di una capra celesti, a noi misteriosamente celati: vediamo il corno di questo animale mitico, non vediamo l'animale. Ogni processo di creazione artistica è in questo senso mitologico, ma la coscienza ha un duplice atteggiamento verso la leggenda creata. Potebnja dice: «0 ... l'immagine si ritiene oggettiva e perciò si trasferisce interamente nel significato e serve da base per ulteriori deduzioni sulle proprietà della cosa significata; oppure ... l'immagine è considerata soltanto come mezzo soggettivo per il passaggio al significato e non serve a nessuna ulteriore deduzione». La creazione mitica preesiste alla creazione estetica (l'uso consapevole dei mezzi della raffigurazione è possibile soltanto nello stadio della disgregazione del mito), oppure la segue (nelle epoche di disgregazione della conoscenza, di scepsi generale, di decadimento della cultura), risorgendo nelle fratellanze mistiche, unioni di uomini che con la coscienza hanno perduto la fede nella scienza, nell'arte e nella filosofia, ma che inconsciamente celano ancora in l'elemento vivo della creazione. Tale è l'epoca che noi stiamo vivendo. La concezione religiosa del mondo ci è estranea. La filosofia ha da tempo sostituito i dogmi dei sistemi metafisici alla religione, vissuta in simboli. Dall'altro lato, la scienza ha ucciso la religione. Invece delle affermazioni dogmatiche sull'esistenza di Dio e sull'immortalità dell'anima, la scienza ci dà emblemi matematici di correlazioni tra i fenomeni, nella cui essenza mistica credevamo ancora ieri, ma non possiamo credere ora che sono note le leggi della meccanica che li guidano.



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    La poesia è direttamente legata alla creazione della lingua, e indirettamente alla mitopoiesi; la forza dell'immagine è direttamente proporzionale alla fede (magari inconsapevole) nell'esistenza di questa immagine. Quando dico: «La luna è un corno bianco», naturalmente non affermo con la mia coscienza l'esistenza dell'animale mitico del quale vedo in cielo il corno, in forma di luna; ma nell'essenza più profonda della mia autoaffermazione creativa non posso non credere nell'esistenza di una realtà, della quale l'immagine metaforica da me creata è simbolo o riflesso. Il linguaggio poetico è direttamente legato alla mitopoiesi; la tendenza alla combinazione metaforica di parole è un tratto essenziale della poesia. La forza reale della creazione non può essere misurata dalla coscienza; la coscienza segue sempre la creazione; la tendenza a combinare le parole, e a creare quindi immagini che sgorghino dalla nuova formazione di parole indica che la radice dell'affermazione creativa della vita è viva, che la coscienza giustifichi o no questa tendenza. Questa affermazione della forza creativa delle parole è un'affermazione religiosa; avviene malgrado la coscienza. Proprio per questo la parola nuova della vita nelle epoche di decadimento generale nasce nella poesia. Ci inebriamo di parole perché riconosciamo il significato delle nuove parole magiche con le quali riusciamo, sempre di nuovo, a esorcizzare le tenebre della notte che incombe su di noi. Siamo ancora vivi, ma lo siamo perché ci atteniamo alle parole. Il giuoco di parole è segno di giovinezza; coperti dalla polvere e dai frantumi di una cultura che crolla, noi invochiamo ed esorcizziamo con i suoni delle parole. Sappiamo che questa è l'unica eredità che sarà utile ai figli. Essi forgeranno con parole luminose i nuovi simboli della fede; la crisi della conoscenza sembrerà loro soltanto la morte di vecchie parole. L'umanità è viva finché esiste la poesia della lingua; la poesia della lingua è viva. Noi siamo vivi. (1909)

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    Note Questo articolo, che viene pubblicato per la prima volta, è stato presentato sotto forma di relazione nell909 all'associazione ccSvobodna;a estetika» {Libera estetica].

    l Sarebbe possibile sviluppare più compiutamente il nostro punto di vista sullo spazio sonoro partendo dallo schematismo dei puri concetti del giudizio, come fa Kant. 2 Certamente non tutte le formazioni di parole hanno origine da elementi onomatopeici; il simbolismo della lingua è incomparabilmente più sottile e profondo. A ciò si riferiscono gli Zapiski po russkoi grammatike [Appunti di grammatica russa] di Potebnja. Per la definizione della creazione verbale troviamo un ricco materiale nella linguistica comparativa; di fronte a noi c'è la storia dello sviluppo delle lingue vive. Tutto questo materiale non ci svela però ancora nulla di sostanziale sulle primitive forme del linguaggio; ogni deduzione dalle leggi di sviluppo delle lingue note applicata alla storia dello sviluppo del linguaggio primitivo è una deduzione per analogia, e soltanto per analogia; d'altra parte, noi ci troviamo di fronte al processo del linguaggio vivo; basta osservare più attentamente l'origine delle nuove parole, per vivere in parte interiormente il processo di formazione del linguaggio vivo. La psicologia della creazione poetica (mitica) e il materiale storico formano due punti estremi, tra i quali oscillano tutte le deduzioni sulla creazione della lingua. 3 «Nell'esistenza quotidiana, permeata dalle idee della specie>>, afferma Aleksandr Veselovskij, , (Poetica storica). Queste leggende sono però a loro volta legate alla lingua metaforica; la creazione dei simboli abbracciava in una parola il sapere, la conoscenza e lo scongiuro. In alcune scuole della saggezza orientale la stessa magia delle parole ha le proprie radici nel solo fatto che la parola è inscindibile dalla respirazione; la respirazione è simbolo di vitalità; in essa è il senso esoterico dello stesso movimento; la respirazione è già nel Pralaya. Nella dottrina segreta la questione della respirazione è legata a quella del suo principio; nel Vediinta e nel Nyiiya nimitta (causa della creazione) si contrappone a upadana (causa materiale). Nel Siinkhya pradhana unisce la causa della creazione a quella materiale; secondo i seguaci del VedantaAdvaita i nostri mezzi di conoscenza ci parlano soltanto dell'upadana; ecco perché si può dire che la respirazione non ha coscienza di sé. Secondo la Blavatsky essa è onniesistenza, ma non Onnisostanza; è inoltre la causa delle parole; per questo la pratica mistica dell'India attribuisce tale significato alla respirazione nel nostro senso, facendo coincidere con l'inspirazione e l'espirazione i suoni delle parole; così, la parola mistica Om veniva pronunciata nel modo seguente: aa (con una profonda inspirazione); quindi - eou (con una profonda espirazione); infine il troncamento dell'espirazione m (chiusura delle labbra). La parola Om era pronunciata in tre fasi: l) inspirazione, 2) espirazione, 3) interruzione dell'espirazione (Brahmii); il secondo - con quello della conservazione della creazione (Visnu); il terzo- con la morte del mondo (Siva). Tuttavia la parola o simbolizzava la trinità, oppure costituiva la chiave magica per comprendere il simbolo della Triade (Trimurti); nello Yoga pratico, nell'esercizio di respirazione era necessario pronunciare la parola sacra Om. Questa, che univa il suono, il simbolo religioso e la pratica della respirazione, era veramente una parola magica.

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    Il grande significato delle parole è stato espresso nella cosiddetta letteratura magica; questi libri si fondano spesso sulla letteratura ermetica, attribuita ora ad Ermete Trismegisto, ora al più antico, mitico legislatore dell'Egitto Thoth. Secondo i dati ufficiali l'epoca di origine della letteratura ermetica è il periodo alessandrino; difficile è la verifica dei dati non ufficiali. Lattanzio afferma che Ermete Trismegisto aveva quasi penetrato la verità; Louis Ménard (Hermès Trismégiste, traduction complète) riporta i seguenti dati sulla letteratura ermetica: «Durante il Rinascimento si guardava alla letteratura ermetica come all'autentico dato dell'antica teologia egizia, e si vedeva in essa la fonte originaria della filosofia di Platone e dell'orfismo; successive ricerche stabilirono il carattere apocrifo dei libri ermetici>>. Casaubon li attribuisce ad un ebreo o ad un cristiano, Jablonski (Pantheon Aegyptiorum) riferisce l'ermetismo allo gnosticismo. Creuzer, pur scorgendovi le tracce di una precedente teologia (egizia), riporta le opere del Trismegisto ai più tardi monumenti della filosofia greca. Quattordici frammenti di"libri ermetici sono stati pubblicati sotto il titolo comune di Pimandro, sebbene questo si riferisca in realtà soltanto ad uno di essi. C'è poi il dialogo Asclepio, noto in una traduzione erroneamente attribuita ad Apuleio; esistono inoltre numerosi brani di libri ermetici, conservati da Cirillo d'Alessandria, Lattanzio ed altri. Tra questi il più importante è l'estratto dal dialogo Il libro sacro. Louis Ménard considera la letteratura ermetica una letteratura nella quale si fondevano la filosofia della Grecia e le concezioni religiose dell'Egitto: è possibile stabilire un legame tra il Libro dell'Esjstenza, il Pastore dei popoli e le opere di Filone. La metafisica cristiana è il risultato dei fenomeni incrociati dell'ermetismo, dello gnosticismo e della filosofia dei neoplatonici. La dottrina cristiana del Logos (Parola, il Verbo come inizio) ha conservato nel processo della sua origine un duplice principio: la Parola come principio metafisica, e la Parola come scongiuro magico (o teurgico); non per nulla le sette misteriche di quel tempo fecero coincidere la metafisica della Parola e la dottrina dell'ermetismo con l'affermazione dell'esistenza di un alfabeto dei maghi, dove ad ogni lettera corrispondeva un numero ed un'immagine; dal significato numerico delle lettere si sviluppò la cabbala. Tutto il medioevo è pieno di questa multiforme reminiscenza dell'ermetismo. La questione della reale interazione tra Egitto e Grecia è confusa; secondo l'opinione di molti la Grecia non comprendeva l'essenza dell'Egitto, al quale è stata avvicinata da Erodoto. Diodoro considera gli dei egizi eroi divinizzati, e Plutarco, al contrario, demoni. Porfirio vede nelle divinità egizie la natura divinizzata; Giamblico lega la religione egizia alla propria teosofia, assicurando che le arcane concezioni religiose degli egizi si manifestano nell'ermetismo. Spesso il Pimandro del Trismegisto era avvicinato al Pastore di Erma, contemporaneo degli apostoli. Il Pastore è un libro apocalittico, che godeva di grande rispetto presso i primi cristiani. Secondo Louis Ménard il suo autore era un ebreo che era stato sfiorato appena dall'ellenismo. L'autore del Pimandro conosceva invece la mistica egizia, alcune credenze caldee e Platone; secondo Louis Ménard il Vangelo di Giovanni e il Pimandro furono scritti all'incirca nella stessa epoca. In contrapposizione agli studiosi che fanno risalire la letteratura ermetica ad una fase già relativamente tarda dell'epoca alessandrina, esiste ancora oggi presso gli occultisti la tendenza a legare l'ermetismo alla più antica teosofia dei maghi; l'influenza di Platone e Filone sulla letteratura ermetica si spiegava con l'influenza contraria dell'Egitto su Platone. Esiste una leggenda secondo la quale Platone era

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    stato iniziato ai misteri egizi ed aveva studiato tredici anni la scienza ermetica sotto la guida dei maghi Ochoapsi, Sechnufis ed altri; presso gli occultisti c'è la leggenda secondo la quale il sacro mistero delle parole è unico nei vari popoli. La diversa interpretazione della lingua sacra generò i diversi dogmi. Nella Doctrine secrète la Blavatsky dimostra come l'India sia l'unico paese dove gli adepti iniziati abbiamo conservato la chiave per la comprensione di tale lingua; in Egitto invece dopo la rovina di Menfi questa chiave cominciò a smarrirsi; a conferma della sua idea la studiosa riporta l'opinione di Gaston Maspéro, che testimonia la varietà delle credenze religiose dell'Egitto non ridotte ad unità (Guide au Musée de Boulacq). I teosofi contemporanei si fondano sulla Blavatsky; essi affermano con lei che gli iniziati ai gradi superiori avrebbero ricevuto la chiave per comprendere la lingua sacra in biblioteche segrete, secondo manoscritti non esistenti nelle nostre, e attraverso l'insegnamento orale. Con la distruzione della biblioteca di Alessandria, le confraternite mistiche ricercarono e ricostruirono tutto ciò che poteva riguardare il sapere segreto; in India gli ultimi preziosi manoscritti furono ritirati dalla circolazione durante il regno dell'imperatore Akbar; così fu nascosto il testo originale dei ':' eda; la Blavatsky fa riferimento agli orientalisti che rilevano la scomparsa di manoscritti precedentemente noti; così andarono perduti i libri di Lao-T se; senza commenti il suo Tao Te ching è completamente incomprensibile a M. Miiller; a Lao-Tse si attribuisce un'enorme quantità di libri ora perduti; è andata smarrita una serie di documenti che stabilivano un legame tra i libri ebraici e caldei; così, nel primo secolo a.C. Alessandro Poliistore fece estratti dall'opera di Beroso, sacerdote del tempio di Bel, opera che però, come anche gli estratti del Poliistore, si è perduta. Lo stesso vale per la letteratura buddista. Dei 333 tomi del Kangfur e del Tangfur molto è andato smarrito. Alcuni occultisti considerano il Sifrii di-~enifutiih degli ebrei il più antico documento del sapere segreto; inizialmente esso fu scritto nella lingua segreta , sotto l'ispirazione degli esseri supremi che avevano dato il libro ai Figli della Luce nell'Asia centrale; il Sejer Y~riih, i tomi del Chiu Ti presso i cinesi, i Purana e il Libro dei Numeri costituiscono varie trascrizioni e compilazioni del libro originario del Sifrii. All'incirca della stessa opinione si mostra S~qi:;Yves d'Alveydre nella sua menumentale opera Mission des ]uifs (Paris, Calmano Lévy, 1884); _i fondamenti della nostra scienza e della nostra mitologia sono il risultato della democratizzazione del segreto dei sacri templi. «Nel Vediinta di Vylisa, nel Mlmiimsii, nel Vaii~ka di Kapada, nel Nyiiya di Gotama, nello Yoga di Patafijali, nel. Siinkhya di Kapila si riflettono le dispute di questa epoca (cioè dell'epoca d'inizio della democratizzazione), e le sentenze attraverso le quali l'esoterismo penetrò in Grecia, a Roma, ad Alessandria, a Bisanzio, nella scolastica, nella filosofia cristiana, partendo da Scoto Eriugena per finire con Biichner e Malechott (Mission des ]uijs). Secondo l'insegnamento dei cabbalisti e dei teosofi i nomi particolarmente sacri, come quello del Dio vivente (Jahvè, ]ehova) degli ebrei, sono composti in modo che ogni lettera del nome abbia un particolare senso sacro. È interessante quando dice a questo proposito Fabre D'Olivet (La langue hébraique restituée 1815): «Questo nome (ieve) mostra innanzitutto il segno che indica la vita e che, raddoppiato, forma la radice «EE>>; questa radice non è ancora usata come nome, è un verbo dal quale tutti gli altri si limitano ad essere generati. Nel mezzo si trova il segno V - il segno dell'esistente; quest'ultimo è collocato tra il passato senza inizio e il futuro; a queste

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    tre (EVE = Eva, la vita) è aggiunta la lettera J - segno della potenziale manifestazione dell'Eternità. I quattro segni magici I E V E Gahvè = Jehova) danno il Nome al Dio Vivente». «L'unità divina sotto il nome «Wodh>> era considerata in sostanza incomprensibile, collocata al di fuori della sintesi del sapere» dice Saint-Yves d'Alveydre. «La prima manifestazione di questa unità, accessibile all'Anima e allo Spirito Umano, appariva come una diade unita in senso androgino. Nei santuari essa era chiamata I - E V E, lsvara-Prakrti, Osiride-lside, etc. etc. Mosé prese la denominazione di questa diade dai santuari dell'Egitto e dell'Etiopia; una volta all'anno il sommo sacerdote ebraico pronunciava davanti ai sacerdoti questo Nome: I E V E. Tale era il Dio di Mosè, le quattro lettere del quale corrispondono ai quattro gradi del sapere; la prima lettera esprime il principio maschile dell'universo o Spirito Universale; le tre lettere seguenti indicano il principio femmineo del mondo, l'Anima del Mondo, la Vita (Eterna Eva)>> (Mission des J uifs, p. 257). Nella sua opera Les grands initiés Schuré divulga le opinioni di Fabre d'Olivet e d'Alveydre; egli scrive: «> ... La Blavatsky afferma quindi che la creazione della donna dell'Adamo terreno da una costola rappresenta la separazione della Vergine e la sua caduta nel peccato della nascita; la Vergine diventa allora Scorpione, cioè emblema della materia e del peccato; in tal modo la Blavatsky fa derivare lo stesso carattere emblematico dei simboli biblici non solo da quello delle lettere e dei numeri, ma anche da quello delle costellazioni zodiacali; qui l'astrologia, la Cabbala e le immagini del Libro dell'Esistenza sembrano essere ricondotti all'unità; i dieci patriarchi veterotestamentari (prima del Diluvio), attraverso i quali parlava la stessa Divinità, sono i dieci raggi Sefirot della cabbala. Più tardi, nella Dottrina segreta la Blavatsky afferma quanto segue: «La parola Jehova ha molti tracciati etimologici, ma quelli originali si incontrano unicamente nella Cabbala. lève è il tracciato dell'Antico Testamento; veniva pronunciato nel modo seguente: la-va ... Teodoreto sostiene che i samaritani pronunciavano questa parola lahva, gli ebrei- Iabo>> (Doctrine secrète, 3° volume, p. 159-160). È interessante come l'unione della prima lettera (Iod) con la seconda (Hed) dia vita a Binah. Se si tiene conto che la lettera ebraica !od simbolizzava l'organo sessuale maschile, mentre «Hovah>> era Eva, madre del vivente, l'unione di questi tracciati nel nome di Dio Gehova) simbolizzava la causa prima della nascita della vita, come Essere Ermafrodito. Lo stesso accade con la parola Elohim (Aelohim); Fabre d'Olivet fa notare che si tratta di una parola composta, formata da Aelo e Hoiì; Aelo deriva dalla radice Ael, che esprime elevatezza, forza; Hoiì è uno dei nomi sacri di Dio; è curioso come d'Alveydre, rilevando l'origine celtica delle leggende ebraiche e caldee, faccia derivare la parola Celto dalla radice Eld o Old; si manifesta qui il legame delle radici Ael (elevatezza) e Eld; la parola Ka-Eld (Celte) designava l'assemblea degli anzini, etc. etc. Tra le opere riguardanti la questione affrontata, citeremo fra l'altro le seguenti:

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    FABRE D'OLIVET, La langue hébraique restituée, 1815. - , Hi8torie philosophique du genre humain. - , Vers dorès de Pythagore. LENORMAN, Hi8toire de la Magie. MAURY, Le magie et l'astrologie. ELIPHAS LEVI, Dogmes et rites de la haute magie. - , Hi8toire de la Magie. SAINT-YVES D'ALVEYDRE, Mi8sion des souverains. - , Mi8sion des ]uifs. H.P. BLAVATSKY, Jsis Unveiled (I e Il v.). -,La doctrine secrète (I-III v.). LOUIS MÉNARD, Hermès Tri8mégi8te. KIESEWETTER, Geschichte des 0cculti8mus.

    Accenniamo qui soltanto ad alcune opere; i libri di Lenorman e di Kiesewetter hanno un carattere informativo. Quelli della Blavatsky rappresentano un'eterogenea miscela di sorprendenti generalizzazioni, nelle quali la confusione, la fantasticheria ed il trattamento talvolta incauto delle citazioni contrastano con il talento e la sottile acutezza. La bibliografia riguardante i sa peri segreti è sconfinata. Noi separiamo qui le fonti originarie (come la Zohar, le opere di Maimonide, etc.) dalle compilazioni, la interpretazioni, etc. Un posto a parte è occupato dalla letteratura teosofica attualmente in sviluppo, nella quale si annoverano le opere di A. Besant, Schuré, Pasca!, Leadbeater, Mead, R. Steiner, Hartmann, Sinnet, etc. Tra le riviste che trattano di questioni teosofiche indichiamo: . Louis Ménard riferisce una notevole coincidenza col Piamandro: .

    Vangelo secondo Giovanni

    Ermete Tri8megi8to.

    .

    >.

    È una parola santa discese nella natura della luce>>.

    «La luce vera, che illumina ogni uomo, stava per venire nel mondo>>.

    «Ciò che vede e sente in te è il Verbo Supremo; e la Ragione è Dio Padre>>.

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    Riprendo questo parallelo dal libro di Louis Ménard. In Filone la parola Logos è, come dice Trubeckoj, in primo luogo l'energia della Divinità, in secondo luogo una sorta di legame del mondo attraverso la sua anima e, in terzo luogo, l'intermediario creato tra Dio e il mondo; Plutarco identifica il Logos con Osiride, la mistica cristiana con Cristo. Citiamo a questo proposito: Entstehung d. Altkatholischen Kirche. Quaestiones Musonianae de Musonio stoico Clementis Alexandrini aliorumque auctore, 1886. EDERSHEIM, Life and Time oj Iesus the Messiah, 1894. DEMBOWSKI, Die Quellen d. christl. Apologetik, 1878. CLEMENS ALEXANDRINUS, Stromata. SIEGFRIED, Philo d. Alexandrier. VON ARNIM, Quellenstudien ZU Philo V. Alex., 1888. MASSÉBIAU, Le classement des oeuvres de Philon, 1884. WEBER, Die Lehren des Talmud. WENDLAND, Neu endeckte Fragmente Philos, 1891. VOLKMANN, Leben, Schriften und Philosophie d. Plutarch von Chaeronea, 1869. R. HEINZE, Xenocrates, 1892. PRINCIPE SERGEJ TRUBECKO), Uéenie O Logose (Una teoria del Logosj, tomo primo, 1900. CORNILL, Einleitung in dasA. T .. HAKMAN, Zukunjteserwartung d. Iesaia, 1893. ROBERTSON SMITH, The prophets oj Jsrael. BATHGEN, Beitriige z. Semit. Religionsgech., 1888. BERTHOLET, Zu Jesaia, 1899. SELLIN, Serubabel, ein Beitrag zur Gesch. d. messianischen Erwartung, 1898. IENSEN, Babylonische Kosmologie. HERMANN SCHULTZ, Alttestamentliche Theologie, 1885. MASPÉRO, Histoire ancienne des peuples de l'Orient. DALMAN, Der leidende und sterbende Messias, 1888. - , Die W arte lesu. HOLTZMANN, Lehrbuch d. Neutestam. Theologie, 1897. MEINHOLD, Jesu und das Alte Testament, 1896. FREUDENTHAL, Der vorchristliche judische Gnostizismus, 1899. BLAU, Das altjiidische Zauberwesen, 1898. SCHWAB, Vocabulaire de l'angélogie, 1897. EVERLING, Die paulinische Angelogie und Diimonologie, 1888. STùBBE, ]iidisch-babylonishe Zaubertexte, 1895. GUNKEL, SchOpfung und Chaos. Pistis Sophia, ed. Schwarze-Petermann, 1851. ANZ, Ursprung d. Gnost. HùNIG, Die Ophiten. HARNACK, Gesch. d. altchristl. Litteratur. - , Lehrbuch der Dogmengeschichte. ANRICH, Das antike Mysterienwesen in seinem Einfluss auj das Christentum. BIGG, The christian platonists oj Alexandria. A. RITSCHL,

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    LIETZMANN,

    5 Secondo Veselovskij, la forza del canto è divenuta un luogo comune delle ballate europee. «Da dove proviene il canto in chi lo esegue? Il suo canto-esorcismo ha potere sugli dei>> (A. Veselovskij). Il processo stesso della creazione poetica del canto è un processo di esorcismo; l'esorcismo crea le immagini, la parola la carne; la parola che si è incarnata nell'immagine diventa successivamente una visione del demone che si manifesta al creatore del canto. L'antica rappresentazione di Apollo come immagine poetica si trasforma in quella di Apollo protettore delle Muse, con in mano la lira datagli da Ermes; così Veselovskij spiega la nascita della leggenda di Apollo Musagete.

    Appendice biobibliografica

    Nota biografica

    Boris Bugaev (pseudonimo: Andrej Belyj) nacque a Mosca il14 (26) ottobre 1880. Il padre era un noto professore di matematica dell'Università di Mosca, distratto e stravagante. La madre una donna graziosa e mondana, con spiccate attitudini musicali. Il dissidio tra i genitori segnò profondamente la personalità di Belyj e la sua opera di scrittore. Nell'infanzia ebbe una governante tedesca che seppe suscitare in lui l'amore per la poesia tedesca. Frequentò il ginnasio di L.l. Polivanov, uno dei più prestigiosi della città, poi la sezione di scienze naturali della Facoltà di Fisica e Matematica, laureandosi nel 1903. Dal1904 frequentò per alcuni anni la Facoltà di Storia e Filologia. Dagli anni del ginnasio, la conoscenza con la famiglia di Michail Solov'ev, fratello del filosofo Vladimir, ebbe molta importanza per la sua formazione. Incominciò a scrivere negli anni del ginnasio. Le prime pubblicazioni sono del 1902. Da allora scrisse su varie riviste simboliste o variamente legate al simbolismo. Conobbe prestissimo i più insigni poeti del suo tempo. Appartenne, con Vjaèeslav lvanov, Blok, S. Solov'ev, Ellis, alla «giovane generazione)) simbolista. Fu attivo collaboratore della casa editrice « Skorpion)) e, più tardi, membro del Comitato di redazione della casa editrice «Musaget)). Negli anni 1900-1910 lavorò con prodigiosa intensità come poeta, prosatore, teorico della letteratura, critico, polemista, conferen289

    ziere. Protagonista della vita letteraria, fu membro di vari circoli e associazioni, dal giovanile gruppo degli «Argonauti)) alla Società filosofico-religiosa di Mosca, dalla Società di libera estetica al Circolo artistico-letterario, ecc. Nel 1910-11 compì un lungo viaggio in Italia e nell'Africa del Nord. Dal1912 al1916 visse all'estero, prevalentemente in Germania e in Svizzera e divenne un fanatico seguace delle teorie antroposofiche di Rudolf Steiner. A Dornach, con la prima moglie, Asja Turgeneva, partecipò con entusiasmo alla costruzione del Joanneum steineriano. Nel 1916, richiamato in patria per il servizio militare, tornò in Russia. Negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione d'Ottobre tenne corsi di versificazione e di ritmica allo Studio letterario del Proletkul't di Mosca, diresse una sezione del TEO (Sezione teatrale) del Commissariato del Popolo per l'Istruzione, fece l'archivista, si occupò della tutela dei monumenti dell'antichità. Aderì allo «scitismo)) di lvanov-Razumnik. Fu tra i promotori della Libera associazione di filosofia di Pietrogrado. Dall'autunno del1921 al1923 visse in Germania, quasi sempre a Berlino. Diresse la rivista «Epopeja))' collaborò alla gor'kiana «Beseda)), Furono anni di estrema eccitazione nervosa. Belyj beveva e si esibiva ballando il fox-trot nelle bettole berlinesi, circondato dalla GOmmiserazione, ma più spesso dalla malevola ironia dei suoi connazionali. Tornò a Mosca nel1923, in compagnia dell'antroposofa Klavdija Nikolaevna Vasil'eva (nata Alekseeva), che divenne in seguito la sua seconda moglie. Pur restando ai margini della vita letteraria ufficiale, continuò a scrivere e a pubblicare poesie, romanzi, lavori teorici, e, soprattutto, i volumi delle sue memorie. Morì a Mosca 1'8 gennaio 1934 per i postumi di un colpo di sole.

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    Nota all'edizione

    I testi pubblicati in questa antologia sono tratti da tre volumi di Belyj: Lug zelenyi (Il prato verde) e Simvolizm (Simbolismo) del 1910 e Arabeski del 1911. I tre volumi sono raccolte di scritti precedenti, curate dall'autore stesso. Soltanto qualche saggio è apparso per la prima volta in uno di questi volumi. Gli scritti da noi ora pubblicati in italiano sono dunque stati tutti concepiti come opere autonome. In Simvolizm l'autore riunisce alcune sue tesi sull'arte che dovrebbero servire da fondamento all'estetica del futuro, a un'estetica, cioè, «legata al simbolismo come concezione del mondo». In Arabeski vuol render concrete le tesi di Simvolizm, «mostrare», ciò che prima ha cercato di «dimostrare». Lug zelenyi raccoglie articoli più specificamente dedicati alla letteratura russa. Poiché Belyj, già parzialmente noto in Italia come poeta e romanziere, è quasi completamente sconosciuto nella sua veste di teorico, critico e polemista, è sembrato opportuno offrire inizialmente al lettore italiano una scelta di scritti del primo decennio del secolo, cioè del periodo in cui più feconda è stata la riflessione di Belyj sul simbolismo, sull'arte, sulla scrittura.

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    Indice dei testi - Prime edizioni

    Maska, in «Vesy», 1904, n. 6, pp. 6-15. Okno v budu8see (Olenina d'Al'gejm), in «Vesy», 1904, n. 12, pp. 1-ll; nell'indice ha il titolo di Okno v vecnost'. Iskusstvo, in Arabeski, Moskva, 19ll. Non risulta precedentemente pubblicato. Simvolizm kak miroponimanie, in «Mir iskusstva», 1904, n. 5, pp. 173-186. Simvoliceskif teatr, in Teatr, Sb.statej. Sipovnik, 1908. Simvolizm, (Na perevale, 1), datato 1909, pubblicato in Arabeski, Moskva, 19ll. Lug zelenyf, in «Vesy», 1905, n. 8, pp. 5-16. Simvolizm, in «Vesy», 1908, n. 12, pp. 36-41. Nastofa8cee i budu8cee russkof literatury, in «Vesy», 1909, n. 2, pp. 59-68 e 1909, n. 3, pp. 71-82. Formy iskusstva, in «Mir iskusstva», 1902, n. 12, pp. 343-361. Smysl iskusstva, in Simvolizm, Moskva, 1910. Il testo, con poche varianti, era stato scritto nel 1907 e letto in alcune conferenze a Mosca, Pietroburgo, Kiev. Magifa slov, in Simvolizm, Moskva, 1910. Testo letto nel1909 alla «Società di libera estetica».

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    Bibliografia

    Nella presente bibliografia sono indicati, in ordine cronologico, i titoli delle opere di Belyj pubblicate in volume. Si omettono, invece, i numerosissimi articoli, le recensioni, le poesie uscite in riviste. Viene riportato per intero il sommario dei tre libri di saggi dai quali sono tratti gli scritti inclusi nel presente volume. Seguono le traduzioni delle opere di Belyj in italiano e una breve rassegna della letteratura critica su Belyj, necessariamente molto selettiva, che privilegia - esclusivamente per comodità del lettore - le opere scritte o tradotte in italiano. Non è ancora disponibile una bibliografia completa delle opere di Belyj né un'edizione critica delle sue opere. Si possono, tuttavia, utilmente consultare: l'indice bibliografico (Bibliograjiceskif ukazatel) della Muratova (1963), il vol. 27/28 di Literaturnoe nasledstvo, Mosca 1937, che contiene una bibliografia commentata di Belyj curata da K.N. Petrovskij e K.N. Bugaeva, la bibliografia di Samuel Cioran in The Apocalyptic Symbolism oj Andrei Belyf. Mouton, The Hague-Paris 1973, e quella delle opere polemiche, critiche e giornalistiche di Belyj, curata da Georges Nivat, in «Cahiers du Monde russe et soviétique)), vol. XV, n. 1-2, 1974. L'indice bibliografico sovietico più recente è Russkie sovetskie pisateli. Poety. Bibliograjiceskif ukazatel', ancora in corso di stampa. La bibliografia di Belyj si trova nel vol. 3, parte I, Moskva 1979.

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    La diversa grafia del nome di Belyj dipende dal sistema di traslitterazione usato dai vari autori.

    Opere di Belyj uscite in volume: Simfonija (2-aja, dramaticeskaja), Moskva, 1902. Zoloto v lazuri, Moskva, 1904. Severnaja simjonija (1-aja, geroiéeskaja), Moskva, 1904. Vozvrat. III Simjonija, Moskva, 1905. Kubok metelej. éetvertaja simjonija, Moskva, 1908. Urna, Moskva, Grif, 1909. Pepel, Peterburg, Sipovnik, 1909. Simvolizm, kniga statej, Moskva, 1910. Contiene: Predislocie, I-III; Problema kul'tury, 1-10; O naucnom dogmatizme, 11-19; Kriticizm i simvolizm, 20-30; O granicach psichologii, 31-48; Emblematika smysla, 49-143; Formy iskusstva, 149-174; Princip formy v estetike, 175-194; Smysl iskusstva, 195-230; Lirika i eksperiment, 231-285; Opyt charakteristiki russkogo cetyrechstopnogo jamba, 286-330; Sravnitel'naja morfologija ritma russkich lirikov v jambiceskom dimetre, 331-395; «Ne poj, krasavica, pri mne ... » A. S. Puskina. (Opyt opisanija), 396-428; Magija slov, 429-448; Buduscee iskusstvo, 449-453; Kommentarii, 457-633. Lug zelenyj, kniga statej, Moskva, 1910. Contiene: Lug zelenyj, 1-18; Simvolizm, 19-28; Simvolizm i sovremennoe russkoe iskusstvo, 29-50; Nastojascee i buduscee russkoj literatury, 51-92; Gogol', 93-121; Cechov, 122-133; Merezkovskij, 134-151; Sologub, 152-177; Brjusov, 178-205; Bal'mont, 206-221; Apokalipsis v russkoj poezii, 222-247. Serebrjanyj golub', povest' v vos'mi glavach, Moskva, HHO. Arabeski, kniga statej, Moskva, 1911. Contiene: Predislovie, V- VII. Prorok bezlicija, 3-16; Teatr i sovremennaja drama, 17-42; Pesn' zizni, 43-59; Fridrich Nicse [Friedrich Nietzsche], 60-90; Ibsen i Dostoevskij, 91-100; O celesoobraznosti, 101-114; Svja5cennye cveta, 115-129; Maska, 130-137; Okno v buduscee, 138-146; Feniks, 147-157; Krizis soznanija i Genrik Ibsen, 161-210; Iskusstvo, 211-219; Simvolizm, kak miroponimanie, 220-238; Na perevale: I. Simvolism, 241-248; Il. Sarl Bodler (Charles Baudelaire), 248-255; Ob itogach razvitija novogo russ294

    kogo iskusstva, 256-262; IV; Detskaja svistulka, 263-268; V. Teorija ili staraja baba, 268-272; VI. Otcy i deti russkogo simvolizma, 273-274; VII. Mesto anarchiceskich teorij, 277-280; VIII Genrik Ibsen, 281-283; IX. W eininger o pole i charaktere, 284-289; X. Literaturnyj raspad, 290-294; Xl. Slovo pravdy, 295-298; XII. Simvoliceskij teatr, 299-312; XIII. Realiora, 313-317; XIV. Iskusstvo i misterija, 318-321; XV. Literator prezde i teper', 322-325; XVI. Chudoznik oskorbiteljam, 326-330; XVII. Vol'nootpuscenniki, 331-334; XVIII. Ljudi s «levym ustremleniem », 335341; XIX. Stempelevannaja kalosa, 341-345; XX. Sanctus amor, 345-348; XXI. Sinematograf, 349-352; XXII. Gorod, 353-357; XXIII. O p'janstve slovesnom, 358-361; XXIV. Mjunchen, 362368; XXV. Rozovye girljandy, 369-371; XXVI. Nikolaj Metner, 372-375; XXVII. Zemcug zizni, 376-379; XXVIII. Raduznyj gorod, 380-384. Vladimir Solov'ev: lz vospominanij, 387-390; Cechov: A.P. Cechov, 391-400; «Visnevyj sad», 401-404; «Ivanov», 405-408; Merezkovskij: Siluet, 409-414; Trilogija, 415-428; «Gogol' i cert», 429-432; «Ne mir, no meC», 433-436; Gippius: «Alyj meC», 437-440; «Literaturnyj dnevnik», 441-444; «Cernoe po belomu», 445-447; Brjusov: Poet mramora i bronzy, 448-452; «Ognennyj angel», 453-457; Blok: «Necajannaja radost'», 458462; Oblomki mirov, 463-468; Vjaceslav lvanov: Siluet, 469-474; Remizov: «Prud», 475-477; «Certov log», 478-479; Sestov: Nacala i koncy, 480-484; Andreev: Prizraki chaosa, 485-486; Vtoroj tom; 487-490; Smert' ili vozrozdenie, 491-497; «Anatema», 498-501. Tragediia tvorcestva. Dostoevskii i Tolsto;, Moskva, 1911. Peterburg, roman «Almanach Sirin», l-III, Peterburg, 1913-1914. Peterburg, roman v vos'mi castjach s prologom i epilogom, in «Al'manach Sirin», Peterburg, 1916. Kotik Letaev, «Skify>> l-II, Peterburg 1917-1918. In volume separato: «Epocha», 1922. Sobranie socineni;. Tom IV. Sobranie epiceskich poem. Kniga pervaja. Severna;a simfoniia (1-;a, geroiceska;a), Simfoni;a (2-ia dramaticeska;a), Moskva, 1917. Sobranie socinenii. Moskva, 1917. Revol;uciia i kul'tura, Moskva, 1917. Rudolj Ste;ner i Gete v mirovozzrenii sovremennosti, Moskva, 1917. Christos voskrese, poema, in «Znamja truda», 10 maggio 1918; in volume separato SPb, 1918. 295

    Krizis mysli, Peterburg; 1918. Krizis zizni, Peterburg, 1918. Korolevna i rycari, Peterburg, 1919. Krizis kul'tury, Peterburg, 1920. Pervoe svidanie, Peterburg, 1921. Ofejra, putevye zametki, Moskva, 1921. In copertina datato 1922. Zapiski cudaka, Moskva-Berlin, 1922, 2 voll. Vozvra8cenie na rodinu, (otryvki iz povesti), Moskva, 1922. Zvezda, Peterburg, 1922; Moskva, 1922. Glossolalija, poema o zvuke, Berlin, 1922. (Per errore il titolo stampato~ Glossololija). Posle razluki. Berlinskij pesennik. Peterburg-Berlin, 1922. Sirin ucenogo varvarstva, Berlin, 1922. O smysle poznanija, Peterburg, 1922. Poezija slova, Peterburg, Epocha, 1922. Putevye zametki. 1: Sicilija i Tunis, Moskva-Berlin, 1922. Stichi o Rossii, Berlin, 1922. Peterburg, Berlin, Epocha, 1922, 2 voll. Testo rimaneggiato rispetto a quello del 1916. Na perevale. I. Krizis zizni; Il. Krizis mysli; III. Krizis kul'tury, Berlin-Peterburg-Moskva, 1923. Stichotvorenija, Berlin-Peterburg-Moskva, 1923. Odna iz obitelej carstva tenej, Leningrad, Giz, 1925. Moskovskij cudak, (pervaja cast' romana Moskva), Moskva, 1926. Moskva pod udarom, (vtoraja cast' romana Moskva), Moskva, 1926. Kretcenyj kitaec, Moskva-Leningrad, 1927. Veter s Kavkaza, Moskva, 1929. Ritm kak dialektika i 'Mednyj vsadnik' Puskina, Moskva, 1929. Pepel, (2a ed. riveduta), Moskva, 1929. Moskva: I. Moskovskij cudak; II. Moskva pod udarom, Moskva, 1929. Na rubeze dvuch stoletij, Moskva-Leningrad, ZiF, 1930; 2a ed. 1931. Maski, Moskva, 1932. Nacalo veka, Moskva-Leningrad, 1933. Masterstvo Gogolja, Moskva-Leningrad, 1934 (postumo). Mezdu dvuch revoljucij, Leningrad, 1934 (postumo). ALEKSANDR BLOK 1 ANDREJ BELYJ. Perepiska, pod red. V. Orlova. Moskva, 1940. 296

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    Tavole relative al saggio L'emblematica del senso TAVOLA l SIMBOLO INCARNATO

    NUMERO

    PSICOLOGIA

    IMMAGINE

    ELEMENTO

    DELL'AUTOCOSCIENZA

    MUSICALE

    AUTOCOSCIENZA

    TAVOLA Il

    NORMA EnCA

    TAVOLA 111

    TEOSOFIA CONOSCENZA ETICA

    CRWIONE ETICA

    a,r---------------------------~c,

    CAOS

    Indice

    Introduzione

    5

    Il colore della parola Da Arabeschi La maschera Una finestra sul futuro L'arte Il simbolismo come concezione del mondo Il simbolismo Il teatro simbolista

    25 35

    45 55

    77 85

    Da Il prato verde Il prato verde Il simbolismo Il presente e il futuro della letteratura russa

    103 115

    123

    Da Il simbolismo Le forme dell'arte Il senso dell'arte La magia delle parole

    155 197 259

    Appendice biobibliografica Nota biografica Nota all'edizione Indice dei testi - Prime edizioni Bibliografia Tavole relative al saggio L'emblematica del senso

    289 291 292 293 301

    Finito di stampare nel maggio 1986 per conto di Guida editori, Napoli presso La Buona Stampa, Ercolano

    ISBN 88-7042-722-6