Le quattro casalinghe di Tokyo 9788854503229 [PDF]


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Italian Pages 357 Year 2009

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Table of contents :
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Turno di notte......Page 4
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Il bagno......Page 54
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Corvi......Page 104
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Il lato oscuro......Page 135
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La ricompensa......Page 222
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Appartamento 412......Page 266
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La via d’uscita......Page 310
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NATSUO KIRINO

Le quattro casalinghe di Tokyo

traduzione di Lydia Origlia Neri Pozza Editore

Avviso di Copyright © Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo eBook può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma tramite alcun mezzo senza il preventivo permesso scritto dell’editore. Il file è siglato digitalmente, risulta quindi rintracciabile per ogni utilizzo illegittimo. Norme tecniche di utilizzo Il file acquistato può essere visualizzato su tutti i lettori eBook, oppure stampato su carta. I edizione eBook 2010-12 Collana BIBLIOTECA ISBN 978-88-545-0489-9 Titolo originale: Out © 1997 by Natsuo Kirino Original Japanese edition published by Kodansha Ltd. Italian translation rights arranged with Kodansha International Ltd. through Japan Foreign-Rights Centre © 2003 Neri Pozza Editore, Vicenza traduzione di Lydia Origlia www.neripozza.it Copia dell’opera è stata depositata per la tutela del diritto d’autore, a norma delle leggi vigenti. Il seguente E-BOOK è stato realizzato con T-Page

Turno di notte

1. Arrivò al posteggio prima dell’ora stabilita. Scesa dall’auto fu avvolta dall’umida, fitta oscurità di lu­glio. Era forse il caldo afoso a farle apparire ancora più cupe quelle tenebre. Masako Katori si sentì soffocare e levò lo sguardo al cie­lo senza stelle. La pelle, che in auto si era mantenuta fresca e asciutta grazie al climatizzatore, divenne subito sudata e ap­piccicosa. Un odore di olio fritto, proveniente dallo stabilimento di pasti precotti in cui tra poco avrebbe iniziato il suo turno di notte, si mescolava quasi indistintamente alle folate di gas di scarico che giungevano dalla Shin-Oume-Highway. «Voglio tornare». Queste parole le affiorarono alla mente non appena l’o­dore raggiunse il suo naso. Non sapeva come le fosse venuta in testa quell’idea, né dove voleva tornare. Ovviamente non nella casa da cui era appena uscita. Perché non voleva torna­re a casa? E dove avrebbe voluto andare? La sensazione di avere smarrito la strada irritò Masako. Nelle lunghe ore tra la mezzanotte e le cinque e mezzo del mattino avrebbe dovuto riempire di cibo le scatole che le sa­rebbero passate davanti sul nastro trasportatore, senza un at­timo di pausa. La paga oraria era alta, per essere un’attività a part-time, ma il lavoro era faticoso, poiché la costringeva a rimanere in piedi. Non si sentiva per niente in forma: non era la prima volta che, al pensiero della sfacchinata che l’a­spettava, veniva assalita dai crampi. Tuttavia quella notte provava una sensazione diversa, indefinibile. Si accese una sigaretta, e per la prima volta le venne in mente che lo faceva per coprire l’odore dello stabilimento. L’edificio sorgeva solitario alla fine della strada che costeg­giava il muro grigio di una gigantesca officina meccanica, nel cuore di Musashi-Murayama. Intorno non vi erano che cam­pi polverosi e piccole autofficine, disseminate in un territo­rio piatto su cui dominava un cielo immenso. Il parcheggio si trovava a tre minuti a piedi dalla fabbica, oltre l’area deso­lata dello stabilimento. Per costruirlo si erano limitati a spianare un ampio terre­no e a segnare provvisoriamente i posti per le auto con stri­sce di plastica, ricoperte a tratti di polvere e sabbia e poco vi­sibili. I furgoncini e le utilitarie degli operai erano posteg­giati alla rinfusa. Era praticamente impossibile accorgersi se qualcuno era laggiù in agguato, nascosto nell’ombra dei ce­spugli o delle auto. Quest’idea rendeva il luogo ancora più inquietante. Masako si guardò intorno con circospezione e chiuse a chiave la macchina. Udì uno stridio di gomme e la luce gialla dei fari illuminò per un attimo i cespugli. Una Golf cabriolet verde con la ca­pote sollevata entrò nel parcheggio e si avvicinò. La faccia pienotta di Kuniko Jonouchi accennò un inchino. «Scusa, sono in ritardo». Kuniko parcheggiò distrattamente l’auto vicino alla Toyota Corolla rossa di Masako, senza preoccuparsi del fatto che la macchina era troppo spostata a destra. I rumori che provocava – tirando il freno a mano, sbattendo la portiera – risuonavano inutilmente troppo forti. Tutto in lei era stri­dente e fuori tono. Masako spense la sigaretta con la punta della scarpa da ginnastica. «Che auto elegante!» Perfino in fabbrica la Golf era argomento di conversa­zione. «Trovi davvero?» Visibilmente compiaciuta, Kuniko si passò la lingua sulle labbra: «Comunque sono stata una bel­la stupida a riempirmi di debiti per comprarla!» Masako sorrise ambiguamente. I debiti di Kuniko non ri­guardavano soltanto l’automobile. Comprava quasi esclusi­vamente articoli firmati e spendeva molto anche per vestirsi.

«Dai, andiamo!» Dall’inizio dell’anno il sentiero che portava dal posteggio alla fabbrica era stato spesso teatro delle incursioni di un ma­niaco sessuale. Era successo più di una volta che un’operaia del turno di notte venisse trascinata nel buio tra i cespugli e molestata. Anche il giorno prima la direzione aveva racco­mandato di recarsi al lavoro possibilmente in compagnia. Le due donne si avviarono lungo il sentiero non asfaltato e privo di illuminazione. Sulla destra erano disordinatamen­te allineati condomini e fattorie con grandi giardini: un bel caos, ma almeno si avvertiva la presenza degli uomini. Sulla sinistra si estendeva un’area deserta e inselvatichita: oltre il canale, completamente sommerso dalle erbacce, rimanevano soltanto le rovine del vecchio stabilimento e di un bowling ormai chiuso, e altri edifici abbandonati. Si diceva che le operaie cadute nelle mani del maniaco fossero state trascina­te nella zona della fabbrica dismessa. Masako lanciò attentamente uno sguardo a destra e a si­nistra e si incamminò a passi veloci accanto a Kuniko. Da un piccolo condominio alle loro spalle, sulla destra, provenivano le voci di un uomo e una donna che litigavano in portoghese. Anche loro dovevano essere operai dello stabilimento. Oltre a casalinghe come Masako, che lavoravano part-time, erano stati assunti molti brasiliani di origine giap­ponese o di razza bianca, tra cui numerose coppie. «Dicono che il maniaco potrebbe essere un brasiliano», commentò Kuniko aggrottando la fronte. Masako continuò a camminare in silenzio senza reagire. Le origini dell’uomo non erano determinanti. C’era qualcosa di ineluttabile in tutto ciò: finché avesse continuato a lavorare in quella fab­brica nulla avrebbe potuto rimediare alle frustrazioni che gli ristagnavano nel corpo e nell’anima. Alle donne non rima­neva altro da fare che cercare di difendersi come potevano. «Dev’essere un uomo grande e grosso. Che ti afferra e ti abbraccia con forza senza dire una sola parola». Nel tono di Kuniko risuonava come una punta di nostalgia. Masako in­tuì che l’animo di Kuniko era offuscato da qualcosa, come un cielo stellato nascosto dalle nuvole. Alle loro spalle udirono stridere i freni di una bicicletta. Si girarono tese e riconobbero la piccola sagoma di una don­na più anziana di loro. «Ah, siete voi. Buongiorno!» Era Yoshie Azuma, una grande lavoratrice. Aveva più di cinquantacinque anni ed era vedova. Le sue mani erano agili e capaci, e lavorava per due. Le compagne, con una punta di ironia, la chiamavano “mae­stra”. Masako la salutò sollevata: «Grazie a Dio sei tu! Buongiorno, maestra!» Kuniko indietreggiò di mezzo passo, come se la presenza di Yoshie non la riguardasse. «Adesso non mi chiamerai maestra anche tu!» replicò Yo­shie, anche se non sembrava che le dispiacesse davvero esse­re chiamata così.Scese dalla bicicletta e proseguì a piedi in­sieme a loro. Il suo fisico pareva creato per il lavoro manua­le: bassa ma forte, come un granchio. Il viso, invece, troppo piccolo in rapporto al corpo, sembrava fluttuare bianco co­me il gesso nel buio della notte; vacuo e inespressivo com’e­ra, le conferiva un’espressione infausta. «È a causa delle chiacchiere sul maniaco che andate al la­voro insieme, vero?» «Esattamente. Kuniko è ancora giovane, infatti». Kuniko ridacchiò. Aveva ventinove anni. Yoshie evitò una pozzanghera che luccicava nel buio e guardò Masako in fac­cia. «Ma anche tu sei ancora sulla breccia, hai solo quaranta­tré anni, o sbaglio?» «Ah, basta con le stupidaggini», rispose Masako senza ri­dere. Negli ultimi tempi le capitava raramente di avere una qualche consapevolezza della propria femminilità. «Ti senti già inaridita? Fredda e distaccata?» Yoshie vole­va scherzare, ma Masako pensò che era esattamente così. Fredda e inaridita strisciava sul terreno. La sua attuale esi­stenza era quella di un rettile. «Tu piuttosto, maestra, sei in ritardo rispetto al solito», replicò Masako cambiando discorso.

«Eh già, di nuovo problemi con la nonna». Yoshie fece una smorfia. Da anni assisteva la suocera costretta a letto, ed era chiaro che non ne voleva parlare. Masako – lo sguardo fisso davanti a sé – non chiese più nulla. Là in fondo a sinistra, dove finiva la fila degli edifici abbandonati, erano posteggiati in formazione i camion bian­chi del corriere espresso che avrebbero trasportato le colazio­ni confezionate ai supermercati aperti ventiquattro ore su ventiquattro. Dietro ai furgoni si ergeva la fabbrica, che spic­cava nella notte illuminata a giorno dall’azzurro pallido del­le luci al neon. Attesero che Yoshie andasse a depositare la bicicletta nella rastrelliera accanto allo stabilimento, poi salirono tutte e tre la scala esterna su cui era stesa una logora moquette verde. Al primo piano c’era l’atrio, a destra gli uffici. In fondo al corridoio una sala e lo spogliatoio. Lo stabilimento era al pia­no terra, e così gli operai dovevano cambiarsi e scendere di nuovo. Nell’atrio iniziava la moquette rossa che non era permes­so calpestare con le scarpe da strada. Il rosso assorbiva la lu­ce dei neon e il corridoio assumeva un aspetto cupo. Il colo­re si rifletteva anche sui visi delle tre donne, dando loro un’e­spressione fosca e truce. Masako osservò le facce stanche del­le compagne domandandosi se anche la sua fosse così. Komada, l’incaricato al controllo igienico, era fermo da­vanti all’armadio delle scarpe e aveva in mano un rullo rico­perto di nastro adesivo. Senza una parola e con espressione insofferente lo passò sulla schiena di ognuna di loro per eli­minare la polvere e lo sporco portati dall’esterno. Entrarono nella grande sala con il pavimento coperto di tatami. Gli operai sedevano a gruppi e chiacchieravano. Si erano già tutti cambiati e indossavano la divisa bianca da la­voro, alcuni mangiavano dolci e altri sorseggiavano del tè in attesa dell’inizio del turno. Qualcuno si era persino sdraiato e a occhi chiusi cercava di recuperare un po’ del sonno per­duto. Del centinaio di operai addetti al turno di notte un ter­zo era costituito da immigrati brasiliani, uomini e donne più o meno in pari numero. Nel periodo delle vacanze lavorava­no nella fabbrica anche molti studenti, ma per lo più erano casalinghe part-time quelle che coprivano il turno di notte. Le tre donne si fecero strada verso lo spogliatoio, salu­tando qui e là i compagni più anziani, e si accorsero di Yayoi Yamamoto che sedeva sola in un angolo della stanza. Come se avesse qualcosa che la opprimeva, stava rannicchiata su se stessa sul tatami e non accennò neppure un sorriso quando riconobbe le compagne. «Buon mattino, Yama-chan», le si rivolse Masako. Sul viso di Yayoi comparve un sorriso di sollievo, che tut­tavia si dileguò subito come una bolla di sapone. «Sembri stanca». Yayoi annuì prontamente e serrò le labbra con espressio­ne depressa. Era la più bella, non solo tra loro ma tra tutte le operaie del turno di notte. Aveva lineamenti perfetti: fronte alta, sopracciglia e occhi ben disegnati, un nasino all’insù e labbra piene. Anche il corpo era bello, esile ma ben propor­zionato. Era diversa da tutti gli altri e perciò la prendevano in giro, ma anche la viziavano. Masako la proteggeva. Diversamente da lei, che rifiutava con forza tutto ciò che non era logico e razionale, Yayoi si portava dietro una sensibilità esagerata. Per Masako l’amica, che inconsapevolmente possedeva ciò di cui lei col tempo aveva imparato a liberarsi per evitare di deprimersi, era una piccola donna graziosa, ogni giorno alle prese con nuovi insospettati angoli del proprio cuore. «Che cosa ti succede, sembri un po’ giù». Yoshie le batté la mano arrossata sulla spalla. Yayoi sobbalzò, tremava in tut­to il corpo. Yoshie, meravigliata per la reazione, si volse ver­so Masako che con lo sguardo le fece cenno di andare avan­ti e si sedette vicino alla compagna. «Non stai bene?» «Già, ma non è niente». «Hai litigato con tuo marito?» «Ah, se si trattasse solo di questo non ci sarebbero pro­blemi», rispose Yayoi con tono allusivo, continuando a fissa­re con sguardo cupo e assente un punto dietro la schiena dell’amica. Per

guadagnare tempo Masako si raccolse i capelli lunghi fino alle spalle trattenendoli con un fermaglio e do­mandò: «Cos’è successo?» «Te lo racconto più tardi». «Perché non adesso?» la sollecitò dopo aver dato un’oc­chiata all’orologio sulla parete. «No, lascia perdere. È un discorso troppo lungo». Per un attimo l’ira infiammò il volto di Yayoi e svanì immediata­mente. Masako si alzò rassegnata: «Come vuoi». Entrò in fretta nello spogliatoio e cercò la divisa. Chia­marlo spogliatoio era forse eccessivo, si trattava soltanto di uno spazio isolato dal salone per mezzo di una tenda. Come a una svendita in un grande magazzino, nello spazio angusto erano allineati dei robusti attaccapanni: da un lato, sulle grucce portate da casa, erano appese le divise bianche degli operai che lavoravano di giorno, dall’altro gli abiti colorati dei compagni del turno di notte che si erano già cambiati. «Noi andiamo avanti». Yoshie e Kuniko uscirono insie­me, con in mano la reticella e la cuffia che si sarebbero infi­late in testa. Era ora di inserire il cartellino di presenza. Do­vevano timbrarlo tra le ventitré e quarantacinque e la mezza­notte e poi aspettare all’entrata dello stabilimento al pianter­reno: questa era la regola. Masako cercò la sua gruccia, alla quale erano appesi una sorta di corto camice chiuso davanti da una zip e i calzoni da lavoro con un elastico in vita. Infilò velocemente il camice sulla T-shirt, si tolse i jeans e infilò i calzoni da lavoro stando attenta a ripararsi dagli sguardi degli uomini che erano nella sala. Non c’erano spogliatoi separati per le donne e per gli uomini. Erano due anni che lavorava in quello stabilimento, e ancora non si era abituata a una simile mancanza di privacy. Avvolse con una reticella nera i capelli trattenuti dal ferma­glio e indossò il copricapo di carta, simile a una cuffia da doc­cia, che tutti chiamavano berretto da cuoco. Prese il lungo grembiule di plastica trasparente, uscì dallo spogliatoio e vide che Yayoi era ancora seduta apatica nello stesso posto. «Sbrigati, Yama-chan». Quando si accorse della pesantezza con cui Yayoi si met­teva in movimento si sentì più in ansia che irritata. Quasi tutti i compagni erano usciti dalla sala. Rimanevano soltan­to alcuni brasiliani. Se ne stavano seduti a fumare con aria stanca, le lunghe gambe stese in avanti e la schiena appog­giata alla parete. «Buon mattino», salutò uno di loro alzando le dita tra le quali stringeva un mozzicone di sigaretta. Masako sorrise lie­vemente e rispose con un cenno del capo. Sul distintivo che portava sul petto era scritto un nome giapponese, Kazuo Miyamori, ma il colorito era olivastro, e il volto lungo e le sopracciglia folte erano quelli di uno straniero. Sicuramente Kazuo si occupava del lavoro pesante: trasportare con un car­rello il riso bianco cotto e versarlo nella macchina automati­ca che avrebbe riempito i vassoi. «Buongiorno», l’operaio salutò anche Yayoi. La donna, immersa nei propri pensieri, non si girò neppure. Sul volto di Kazuo apparve la delusione. Gli capitava spesso in quell’odioso stabilimento. Dopo essere andate al bagno si misero la maschera e il grembiule, si lavarono mani e braccia con una spazzola e le immersero in un liquido disinfettante. Timbrarono il cartellino, infilarono gli stivaletti da lavo­ro bianchi e passarono l’esame dell’addetto all’igiene che le attendeva sul pianerottolo in cima alla scala che portava giù allo stabilimento. Komada sfregò sulla loro schiena il rullo adesivo e scrutò severamente mani, dita e unghie. «Abrasioni, graffi, ferite?» Non potevano toccare il cibo se avevano anche la più pic­cola escoriazione. Mostrarono le mani e superarono il con­trollo. Yayoi barcollava, ma sembrava non rendersene conto. «Ma stai bene, oggi?» «Diciamo di sì». «E i bambini?»

«Uhm», rispose elusiva. Masako le lanciò un altro sguar­do indagatore. Si vedevano soltanto gli occhi stanchi, perché il resto del viso era nascosto dal copricapo e dalla mascheri­na. Di nuovo sembrò che Yayoi non si accorgesse del suo sguardo. Scesero al pianterreno e vennero avvolte dall’aria fredda e dagli odori dei cibi, come se avessero aperto la porta di un frigorifero. Il gelo saliva dal pavimento di cemento. Il locale dove lavoravano era freddo anche d’estate. Si unirono alla fila delle operaie in attesa che aprissero il portone. Yoshie e Kuniko, che erano in testa alla coda, si vol­tarono verso di loro e fecero un cenno d’intesa. Le quattro donne lavoravano sempre insieme e si davano una mano. Il lavoro era troppo duro e non avrebbero potuto affrontarlo senza aiutarsi reciprocamente. Finalmente il portone si aprì. Gli operai entrarono, si la­varono ancora una volta mani e braccia e si disinfettarono. Dovevano passare con il disinfettante anche il grembiule che arrivava fino alle caviglie. Quando Yayoi, che si muoveva a fatica, e Masako, che l’attendeva, ebbero finito di lavarsi e di­sinfettarsi raggiunsero il nastro trasportatore e videro che le altre avevano già cominciato a preparare il lavoro. «Presto, siete in ritardo!» Yoshie rimproverò Masako con tono impaziente. «Nakayama è già in giro!» Nakayama era il responsabile del primo turno, come ve­niva chiamato il turno di notte. Era ancora giovane – aveva più o meno trent’anni – ma gli operai lo odiavano a causa della sua linguaccia velenosa e della sua pignoleria. «Okay, scusaci». Masako andò in fretta a prendere i guan­ti di gomma e gli stracci per asciugare le mani dal disinfet­tante e li portò anche a Yayoi. Questa guardò le cose che l’a­mica le aveva ficcato in mano come se le vedesse per la pri­ma volta. «Adesso fatti forza». «Sì, grazie». Quando Masako tornò al nastro trasportatore, Yoshie le mostrò il foglio illustrato con il piano di lavoro. «Iniziamo con le scatole per il curry. Milleduecento. Io faccio le porzioni di riso e tu, come sempre, mi passi il con­tenitore. Chiaro?» Quello che “faceva le porzioni” aveva la posizione chiave alla catena e stabiliva il ritmo del lavoro. Yoshie, che era la più esperta, si occupava sempre di versare il riso e decideva la velocità del nastro trasportatore. Si fidava di Masako, e si assicurò che fosse lei a passarle le scatole da riempire. Masako staccò uno dall’altro i contenitori di plastica impilati, in mo­do da poterli afferrare più facilmente, e lanciò un’occhiata a Yayoi. L’amica non era abbastanza svelta e aveva appena la­sciato che qualcun altro le portasse via il facile compito di versare il curry. All’altro capo del nastro Kuniko, che era riu­scita ad assicurarsi quel lavoro, alzò le spalle. Che cosa doveva fare se Yayoi, che le compagne cercavano di coprire, sem­plicemente non reagiva? «Che cos’ha la piccola? Non sta bene?» Yoshie aggrottò la fronte. Masako scosse silenziosamente la testa. Yayoi oggi non si comportava come al solito. Si era ormai lasciata rubare la sua usuale mansione, era isolata dal­la lavorazione e aveva dovuto rassegnarsi a “spianare il riso”, funzione trascurata dalle altre. Quando le si mise vicino Ma­sako si trattenne dallo schioccare la lingua in segno di disap­punto e sottovoce le disse: «Ma è troppo difficile per te!» «Lo so». Arrivò di corsa Nakayama, il responsabile. «Sbrigatevi, mettete in moto il nastro! Cretine, che cosa state a meditare?!» Non si riusciva a distinguere la sua espressione perché portava un berretto a visiera sopra la cuffia, ma dietro alle lenti degli occhiali cerchiati di nero i piccoli occhi lampeg­giavano minacciosi.

«Eccolo, adesso ci prendiamo le nostre!» esclamò Yoshie schioccando la lingua. «Quello scimmione!» commentò a bassa voce Masako, furibonda per essere stata insultata. Non poteva proprio sof­frire quel prepotente di Nakayama. «Mi hanno detto di spianare il riso, ma come si fa?» do­mandò timidamente una donna di mezza età che sembrava affrontare quel lavoro per la prima volta. «Con questa spatola devi semplicemente schiacciare il ri­so in modo da appiattirlo. Io – ecco, così – lo verso nel con­tenitore. Quindi deve essere pressato con le mani e infine lo si copre con la salsa al curry. Guarda quella di fronte a te, an­che lei sta facendo lo stesso lavoro. Basterà che la imiti», spiegò Yoshie, stranamente gentile, additando Yayoi che si trovava dall’altra parte del nastro. La donna annuì, ma sembrava non aver capito bene e si guardava intorno sperduta. Yoshie, tuttavia, avviò implacabi­le la macchina. Si udì un rumore sordo e il nastro cominciò a muoversi. Masako si accorse che Yoshie lo faceva andare più velocemente del solito: dal momento che il lavoro sten­tava ad avviarsi, aveva intenzione di ridurre i tempi. Con gesti esperti incominciò a passarle i contenitori. Dall’apertura della macchina automatica uscivano i blocchi di riso. Yoshie li raccoglieva uno alla volta nel contenitore, con­trollava sulla bilancia che il peso fosse esatto e rimetteva la scatola sul nastro. Gesti veloci e precisi. Vi era chi spianava il blocchetto di riso, chi lo ricopriva di salsa al curry, chi tagliava il pollo fritto alla cinese, chi lo adagiava sul curry, chi preparava la porzione di verdure e la versava nel vasetto, chi chiudeva la scatola con il coperchio di plastica, chi vi fissava il cucchiaio con del nastro adesivo, chi incollava l’etichetta; e ciascuno di questi piccoli gesti contribuiva a confezionare la scatola per la colazione al curry, finalmente completa. Il turno iniziava sempre così. Masako diede uno sguardo all’orologio appeso alla parete. Erano passati cinque minuti dalla mezzanotte. Per cinque ore e mezzo avrebbero dovuto continuare a lavorare in piedi sul gelido pavimento di ce­mento. Se volevano andare alla toilette dovevano farsi sosti­tuire. E capitava di dover aspettare due ore da quando avevano prenotato prima che giungesse il loro turno. Perciò era necessario aiutare e farsi aiutare in ogni modo, e cercare di evitare per quanto possibile i movimenti più faticosi. Questo era il segreto per poter continuare a lungo quel lavoro senza rovinarsi la salute. Dopo circa un’ora la nuova operaia era evidentemente sfi­nita e diventava sempre meno efficiente. La linea di montag­gio tendeva a rallentare. Allora Yayoi allungò le mani in fretta e incominciò a spianare anche il riso della nuova compagna. È troppo gentile, pensò Masako. Dovrebbe pensare soltanto a se stessa. Soprattutto oggi, che sembra così provata. Tutte le veterane sapevano quanto fosse pesante “spiana­re il riso”, che era freddo e duro perché era trascorso troppo tempo dalla cottura, e spianare in un attimo quel blocco di riso solidificato richiedeva forza nel polso e nelle dita, e inol­tre bisognava lavorare curvi. Dopo un’ora si cominciava a sentire un indolenzimento nella schiena e negli avambracci e non si riusciva più a sollevare le braccia. Perciò si lasciava quell’incombenza alle nuove operaie, ignare del lavoro. Ma Yayoi, con espressione triste e rassegnata, andava stoicamen­te avanti. Milleduecento colazioni al curry erano pronte. Il gruppo di lavoro doveva sgombrare velocemente il nastro trasporta­tore, pulirlo e spostarsi a un altro nastro. Il lavoro successivo riguardava duemila scatole per una colazione speciale destinata a essere consumata a teatro, du­rante l’intervallo. Era una linea di produzione lunga, perché gli ingredienti da stipare nella scatola erano molti. Si unirono a loro degli operai brasiliani con berretti da cuoco azzurri. Yoshie e Masako, come sempre, si occupavano della “di­stribuzione del riso”. Kuniko, che era molto abile, fu strana­mente gentile con Yayoi e le riservò la mansione più sempli­ce, quella di versare la salsa sulla cotoletta di maiale. Si do­vevano prendere due cotolette, una per mano, immergerne un lato nella vaschetta con la salsa e quindi pressarle tra di loro. Era un buon lavoro, che concedeva un attimo di quie­te mentre il nastro trasportatore continuava a scorrere rapi­damente. Anche Yayoi

sarebbe stata capace di farlo. Masako, tranquillizzata, si dedicò alle proprie mansioni. Ma proprio quando l’ultima scatola era appena passata sul nastro e si incominciava a pulire e riordinare, si udì un gran fracasso che fece sobbalzare tutti. Yayoi era inciampata nel contenitore della salsa ed era caduta a terra. Il coperchio metallico del bidone era balzato sul nastro trasportatore del­la linea accanto, e tutto intorno a loro si stendeva un mare unto e lucente di salsa marrone. Il pavimento era sempre scivoloso per gli schizzi di gras­so e di salsa. Gli operai, che lo sapevano, facevano attenzio­ne e solo molto raramente accadevano incidenti del genere. «Maledizione, che diavolo è successo?» Nakayama, che aveva cambiato colore, si precipitò verso di lei e urlò: «Ma guarda che porcile!» Arrivarono trafelati alcuni uomini con degli stracci. «Scusi. Sono scivolata». Yayoi era rimasta seduta con aria sbigottita in mezzo alla salsa e non tentava neppure di alzar­si. Masako si precipitò verso di lei, la afferrò per le braccia e cercò di rimetterla in piedi. «Svelta, alzati!» Il camice di Yayoi si era sollevato e Masako si accorse di una larga macchia bluastra nella zona dello stomaco. Era forse quello il motivo per cui oggi l’amica non stava bene? La macchia spiccava sul candore della pelle come un divino, funesto sigillo. Masako schioccò la lingua e si affrettò a sistemare il camice di Yayoi, nascondendo la macchia agli sguardi degli estranei. Non c’erano abiti per cambiarsi e Yayoi dovette conti­nuare a lavorare con la divisa macchiata all’altezza delle nati­che e sulle maniche. La densa salsa che imbrattava il camice bianco si rapprese ben presto, assumendo una tinta marrone, e penetrò nelle fibre. L’odore toglieva il respiro. Ore cinque e mezzo del mattino. Il turno era finito e non c’erano straordinari da fare. La fiumana di operai tornò al piano superiore. Come al solito le quattro donne, dopo es­sersi cambiate, rimasero una mezz’oretta a chiacchierare da­vanti al distributore automatico di bevande nel salone. «Oggi non c’eri del tutto! Non stai bene?» domandò l’i­gnara Yoshie a Yayoi scrutandola con aria indagatrice. Dopo il lavoro della notte, ora Yoshie aveva la stanchezza stampata sul volto e dimostrava tutti i suoi anni. Yayoi bevve un sorso di caffè dal bicchierino di carta e, dopo aver riflettuto un attimo, rispose: «Ieri ho litigato con mio marito». «Mia cara, ma tutti litigano almeno una volta, non è ve­ro?» Yoshie sorrise a Kuniko, cercando la sua approvazione. Kuniko, con una sottile sigaretta al mentolo all’angolo della bocca, socchiuse gli occhi e con aria indifferente commentò: «Ma voi Yamamoto ve la intendete bene, no? Andate sempre a spasso con la figliolanza». «Negli ultimi tempi non è così», bisbigliò Yayoi. Masako la fissò in silenzio. Ebbe l’impressione che, se si fosse seduta, non sarebbe riuscita a rialzarsi per molto tempo. «Capita, sono le fasi della vita, alti e bassi…» Quando Yoshie, che era vedova, cercò di risolvere la que­stione con un luogo comune, Yayoi la interruppe tagliente: «Macché fasi, il disgraziato arriva e dice che ha speso tutti i nostri risparmi. E allora sono andata su tutte le furie!» Tacquero tutte e tre, colpite dalla violenza del tono di Yayoi e dalla gravità del fatto. «E come li ha spesi?» chiese Masako accendendosi una si­garetta. «Gioco d’azzardo, ha detto. Baccarat, o qualcosa del ge­nere». Yoshie spalancò gli occhi sbalordita: «Ma tuo marito sem­bra essere un impiegato molto serio. Come mai tutto d’un tratto ha cominciato a giocare d’azzardo?» «Chissà!» Yayoi scosse stancamente la testa. «C’è un loca­le, va lì e gioca. Non so nulla di

preciso». «E quanto avevate risparmiato?» domandò Kuniko con un bagliore negli occhi, incapace di nascondere la curiosità. «Più o meno cinque milioni di yen» 1, rispose Yayoi con voce fioca. Kuniko deglutì e il suo volto assunse per un attimo un’e­spressione di invidia. «No, su una cosa così non si può proprio passare sopra!» commentò, mentre sul viso di Yayoi ricompariva la stessa smorfia di rabbia di poco prima. «Vero? E poi mi ha anche picchiata sul ventre!» Sollevò la maglietta e mostrò a tutte il livido. Yoshie e Kuniko si scam­biarono un’occhiata. «Di sicuro adesso se ne sarà pentito», cercò di consolarla Yoshie. «Anch’io litigavo spesso con mio marito. Ci picchia­vamo anche. Mio marito era un violento, ma il tuo non dev’essere così, vero?» «Non lo so più!» sbottò Yayoi e sfiorò con le dita la ma­glietta accarezzandosi lo stomaco. Fuori era già chiaro. Sarebbe stato un altro giorno caldo e umido, come la notte precedente. Davanti all’ingresso Ma­sako e Kuniko si separarono dalle compagne, che sarebbero tornate a casa in bicicletta, e si diressero verso il posteggio. «A quanto pare quest’anno non piove neppure nella sta­gione dei monsoni». «Ci sarà sicuramente una siccità». Kuniko sollevò lo sguardo al cielo nuvoloso. Aveva il volto lucido. «Già, se va avanti così…» «Ascolta, Masako, che cosa farà Yayoi secondo te?» «Mah!» rispose Masako alzando le spalle. Kuniko continuò sbadigliando: «Se fossi in lei divorzierei. E senza pensarci tanto sopra! Guai se un marito si mangia da solo tutti i risparmi!» «Già», assentì Masako, ma i due figli di Yayoi avevano so­lo cinque e tre anni. La questione non era facile, non si po­teva prendere una decisione in quattro e quattr’otto. Masako evidentemente non era la sola a non sapere dove tornare. Camminarono in silenzio fino al posteggio, poi ognuna si diresse alla propria auto e aprì la portiera. «Be’, allora, buona notte, dormi bene!» «Buona notte». Da quando in qua si dice buona notte al mattino, pensò Masako lasciandosi cadere pesantemente al posto di guida. A un tratto la stanchezza le precipitò addosso. Levò lo sguardo al cielo: la luce era così abbagliante che le ferì gli occhi. 1 1 Equivalenti a circa cinquantamila euro. Cento yen corrispondono infatti a circa un euro (N.d.T.).

2. Kuniko girò la chiave nel cruscotto. Il ruggito del motore si propagò nel posteggio. Era felice di avere finalmente un’au­to che funzionava bene. L’anno precedente aveva speso più di duecentomila yen in riparazioni. «Ciao, allora». Masako – che non amava i complimenti – alzò una mano in segno di saluto e partì. Kuniko chinò educatamente il capo e rimase a guardarla finché non fu sparita. Quindi tirò un sospiro di sollievo, per­ché le era molto difficile trattare con Masako, che sembrava venuta da un altro pianeta e non si sapeva mai che cosa pen­sasse. Appena lasciava le compagne Kuniko sentiva cadere la maschera dietro la quale si nascondeva e rivelava il suo vero aspetto. L’auto di Masako era ancora ferma al semaforo all’uscita del parcheggio. Kuniko osservò la parte posteriore della Co­rolla tutta ammaccata e si domandò come ci si potesse ac­contentare di un simile catorcio. A giudicare dalla vernice rossa ormai opaca, probabilmente aveva più di centomila chilometri. E poi, che senso aveva quell’adesivo rosso che in­vitava a una guida sicura? Davvero non si poteva permettere un’auto come la sua, se non nuova almeno decente? Oppure avrebbe potuto comprarsi un’auto nuova a rate! Per la sua età Masako aveva un viso ancora passabile e una bella linea, ma non faceva niente per valorizzarli, e questo era il suo errore. Kuniko infilò una cassetta nello stereo. La voce acuta di una donna che cantava una canzone pop come se fosse una melodia giapponese invase l’abitacolo. Era insopportabile. Tolse subito la cassetta. Non aveva voglia di sentire musica, in realtà voleva solo provare le prestazioni della sua auto e go­dersi un attimo di relax. Kuniko sistemò le bocchette del climatizzatore in modo da ricevere l’aria direttamente sul corpo e azionò la capote che si alzò lentamente, come un serpente che si libera della vecchia pelle. Le piaceva molto l’attimo in cui qualcosa di as­solutamente banale si trasforma in qualcosa di straordinario. Ah, se anche la vita potesse essere così! Tuttavia continuava a pensare a Masako. Che strano tipo! Indossava sempre i soliti jeans e una T-shirt o una polo del figlio stinte per i frequenti lavaggi. D’inverno ci infilava so­pra un golfino o un pullover senza pretese o, peggio ancora, un giaccone tutto rotto, con i buchi tappati col nastro adesi­vo per impedire che ne uscissero le piume. Impresentabile! Masako le faceva venire in mente gli alberi secchi e nudi in inverno. Così era il suo corpo slanciato, senza un grammo di troppo, e il colorito del suo viso era simile a quello della corteccia. Il taglio degli occhi, il naso grazioso, le labbra sot­tili, tutto perfetto al millimetro. Se si fosse truccata un poco e avesse indossato vestiti un po’ più raffinati, come faceva lei, sarebbe stata molto carina e avrebbe dimostrato cinque o sei anni di meno. Che spreco! Kuniko provava un sentimento misto di invidia e disprezzo. Lei invece era brutta e grassa. Si guardò nello specchietto retrovisore e di nuovo la assalì la consueta delusione. Nonostante il viso fosse grande e gli zigomi pronunciati, gli occhi erano piccoli, il naso largo e schiacciato, la bocca storta e il labbro inferiore lievemente proteso. Una vera e propria catastrofe, tutto quello che avrebbe dovuto essere grande era piccolo e viceversa. Specialmente al mattino si sentiva brutta, alla fine del turno di notte. Prese un fazzolet­tino di carta dalla pochette firmata Prada e si picchiettò la pel­le nei punti in cui era più unta. Sapeva anche troppo bene che una come lei, senza particolari qualifiche, non poteva trovarsi un impiego migliore se non era almeno carina. Per questo aveva accettato quell’orrendo lavoro notturno. E più era stressata, più mangiava e ingrassava. Kuniko provò all’improvviso una sensazione di rabbia verso il mondo intero.Ingranò la marcia

con violenza, sollevò il piede dal freno e mandò il motore su di giri. La Golf fece un balzo in avanti e uscì dal posteggio. Nello specchietto re­trovisore notò compiaciuta la nuvola di polvere sollevata dall’auto. Percorse per un po’ la Shin-Oume-Highway in direzione del centro, quindi a un semaforo voltò a destra verso la Ku­nitachi. Oltre il boschetto di peri, a sinistra, si scorgeva il vecchio condominio. Lei abitava in uno di quegli angusti ap­partamenti in affitto. Detestava abitare lì, ma per il momento era l’unica solu­zione per lei e Tetsuya – l’uomo col quale viveva –, l’unica che potessero permettersi con i loro stipendi. Il suo più grande desiderio era essere una donna diversa, vivere una vita di­versa, in un luogo diverso, con un uomo diverso. Ovvia­mente “diverso” per lei voleva dire molte cose. Si chiese se non era un po’ pazza, dal momento che non riusciva a fare a meno di preoccuparsi continuamente della sua posizione e di pensare ad altro che a questo sogno. Posteggiò la Golf nello spazio riservato. Tutt’intorno c’e­rano solo utilitarie e neanche un’auto straniera. Era orgo­gliosa della sua macchina, e uscì sbattendo rumorosamente la portiera. L’aveva fatto apposta, sperando che qualcuno si svegliasse. Anche se sapeva che, se uno degli inquilini si fos­se arrabbiato, avrebbe finito col chiedere umilmente scusa. Alla fin fine bisognava tenere la testa a posto e comportarsi educatamente, anche se talvolta costava fatica. Entrò nell’a­scensore imbrattato di graffiti, salì al quarto piano e, strasci­cando i piedi, si avviò lungo il corridoio – ingombro di tri­cicli e scatole di polistirolo – fino alla porta del suo apparta­mento. Girò la chiave nella serratura, entrò nella stanza im­mersa nell’oscurità e udì subito il russare animalesco prove­niente dalla camera in fondo. Tutto come al solito. Appoggiò il giornale che aveva sfilato dalla cassetta delle lettere sul ta­volo da pranzo di compensato comprato a una televendita. Il giornale le serviva solo per i programmi televisivi. An­che Tetsuya, il suo uomo, leggeva soltanto qualche articolo di cronaca e lo sport. In fondo era uno spreco, avrebbe voluto disdire l’abbonamento, ma le interessavano le inserzioni. Ku­niko sfogliò le pagine finché non trovò, nascosta tra gli an­nunci immobiliari, la sezione delle offerte di lavoro per le donne e la mise da parte. Le avrebbe lette più tardi, con cura. Nella stanza il caldo era soffocante. Kuniko mise in fun­zione il condizionatore e aprì il frigorifero. A stomaco vuoto non sarebbe mai riuscita ad addormentarsi. Ma non c’era nulla. Dove erano finiti l’insalata di patate e gli o-nigiri 2 che aveva comprato al supermercato la sera precedente? Tetsuya si era fatto fuori tutto. Kuniko, furiosa, aprì una lattina di birra. Mentre beveva prese un pacchetto di patatine e accese il televisore. Saltò da un programma all’altro finché non trovò una delle rubriche scandalistiche del mattino. I pettegolezzi sui vip le tiravano sempre su il morale. Adesso doveva solo aspettare che l’alcol facesse effetto. «Abbassa quel cazzo di televisore, voglio dormire!» L’urlo di Tetsuya la colse alle spalle. «Perché? Tanto è ora che ti alzi!» «Non è vero, ho ancora almeno dieci minuti!» Qualcosa la colpì sul braccio. Un accendino di plastica. Il punto in cui era stata colpita stava diventando rosso. Con l’accendino in mano si avvicinò al letto di Tetsuya. «Cretino! Sono stanca, lo vuoi capire o no?» «Ma che hai?!» Tetsuya aprì gli occhi e sul suo volto ap­parve un’ombra di timore. «Sono stanco anch’io». «Ed è per questo che ti permetti di gettarmi addosso que­sto coso?!» Kuniko fece fuoco e glielo avvicinò alla faccia. «Smettila!» Tetsuya le strappò di mano l’accendino che cadde sul tatami e rotolò via. Kuniko lo colpì selvaggiamente sulla mano: «Ma che dia­volo fai?! Ne ho abbastanza, sai, abbastanza! Guardami, dai, guardami!»

«Lasciami, smettila! È ancora presto!» «E chiudi quella bocca, brutto schifoso! Ti sei ingozzato con la mia insalata e tutto il resto!» «Modera il linguaggio se vuoi che ti parli ancora!» Tetsuya era gracile, una spanna più basso di Kuniko. Di­stolse il viso, disgustato. Due anni prima era finalmente riu­scito ad avere un posto di rappresentante di articoli sanitari per ospedali e si era fatto tagliare corti i capelli che prima gli arrivavano alle spalle. Da allora sembrava ancora più min­gherlino. A Kuniko non piaceva proprio. Lo preferiva quan­do aveva i capelli più lunghi e gironzolava come uno scemo nel quartiere di Shibuya, dove si erano incontrati quando lei lavorava in una sala giochi. Allora era molto più magra e uomini come Tetsuya cade­vano ai suoi piedi a decine. Anche se, a causa dei debiti con­tratti a quell’epoca per comprare a rate vestiti e accessori fir­mati, ora era costretta a vivere sempre sotto pressione. «Ammetti che ti sei mangiato fuori tutto e chiedi scusa!» Kuniko gli saltò sopra a cavalcioni. Tetsuya, oppresso dal pe­so, gemette debolmente. «Smettila per favore!» «Confessa! Se confessi ti perdono». «Ho mangiato tutto. Mi dispiace. Ma in casa non c’era niente di pronto». «Perché prima di rincasare non ti compri qualcosa?» «Sì, sì, ho capito». Tetsuya girò la testa da una parte ma Kuniko, senza com­plimenti, lo afferrò tra le cosce. Quel coso chinava molle­mente la testa. «E allora? Impotente! Non si rizza più neanche al mat­tino!» «Squagliati» protestò Tetsuya con tono disgustato, «togli­ti di mezzo! Sei pesante! Ma ti rendi conto di quanto pesi?» «Come osi parlarmi così!» Kuniko strinse con forza tra le gambe il sottile collo dell’uomo. «Scusa», gemette Tetsuya con voce soffocata. Kuniko sbuffò e scese bruscamente stendendosi accanto a lui. Negli ultimi tempi la loro vita sessuale era un disastro. E pensare che era più giovane di lei. Un caso disperato, l’uomo, veramente! Furibonda tornò nel soggiorno e guardò Tetsuya che si alzava con fiacca. «Dannazione, sono in ritardo!» E chi se ne frega, pensò Kuniko voltandogli le spalle e ac­cendendosi una sigaretta. Tetsuya, con una T-shirt e un paio di incredibili calzoncini, trotterellò in soggiorno, si grattò il collo con una mano e con l’altra sfilò una sigaretta al men­tolo dal pacchetto che Kuniko aveva lasciato sul tavolo. «Non fumare le mie sigarette!» «E dai, solo una. Io le ho finite». «Allora dammi venti yen», disse allungando una mano. Tetsuya sospirò, intuendo dal tono che non stava scher­zando. Kuniko continuò a fissare lo schermo senza girare la testa. Quando, un quarto d’ora dopo, l’uomo uscì senza dire una parola, Kuniko si sdraiò nel solco, troppo stretto per un corpo come il suo, lasciato da Tetsuya nel futon. Si svegliò verso le due del pomeriggio. Accese subito il televisore, fumò una sigaretta e guardò un wild show alla televisione in attesa di svegliarsi del tutto. Il programma era quasi uguale a quello che aveva visto al mattino, ma non le importava. Aveva fame. Uscì di casa senza neppure lavarsi il viso. Al­l’inizio del quartiere c’era un supermercato. Manco a farlo apposta apparteneva alla catena che vendeva le colazioni prodotte nel suo

stabilimento. Scelse una scatola di colazione speciale “per teatro”. Sull’etichetta era scritto «Miki Foods, stabilimento di Higashi-Yamato, confezionato alle sette del mattino». Senza dubbio era una delle colazioni che avevano preparato poche ore pri­ma. Kuniko aveva svolto il facile lavoro di versare le omelet­te. Anche se Nakayama le aveva urlato: «Va’ piano con le uo­va!» Davvero quel Nakayama era un uomo odioso. Se non se la prendeva con qualcuno non era contento! Il turno era stato meno pesante del solito. Se avesse con­tinuato a stare con Yoshie e Masako, avrebbe potuto sce­gliersi sempre le mansioni più facili. Sì, avrebbe fatto proprio così. Kuniko ridacchiò. Tornò a casa, si sedette davanti al televisore e continuò a guardare il wild show mentre mangiava la colazione e beveva del tè Oolong. Infilandosi in bocca la cotoletta di maiale condita con la salsa marrone le venne in mente Yayoi Yama­moto, come era inciampata nel contenitore della salsa. Sem­brava particolarmente rimbambita stanotte, rifletté Kuniko con disprezzo, talmente fuori dal mondo che nessuno pote­va aiutarla. Proprio da cretini, farsi pestare dal marito. Lei al suo posto l’avrebbe picchiato a sua volta! Kuniko finì di mangiare la cotoletta, versò della salsa di soia su un involtino primavera – roba cinese congelata – e lo cosparse di senape. Pensava al viso di Yayoi. Quando si era così belle non c’era bisogno di massacrarsi ai turni di notte. Lei si sarebbe senz’altro trovata un posto in un piccolo risto­rante o in un’osteria. Oppure un qualche lavoro più redditi­zio, non importa se al limite della decenza. Quello che a lei mancava, purtroppo, era la fiducia nel proprio aspetto – que­sto e basta. Proprio in quel momento in TV trasmettevano un servi­zio sulle studentesse del liceo. Kuniko depose i bastoncini e fissò lo schermo con interesse. Veniva intervistata una splen­dida ragazza con lunghi capelli castani, lisci e tinti. Il volto era nascosto da un mosaico e la voce era stata contraffatta. «I nonni sono solo denaro, casseforti viventi! Che cosa ho avuto io da mio nonno? Un abito, per esempio. Da quattro­centocinquantamila yen». «Mi prendi in giro? Ma guarda quella pazza, inconcepibi­le!» sbraitò Kuniko verso lo schermo. Un abito da quattro­centocinquantamila yen! Ovviamente di Chanel o Armani. Anche a lei sarebbe piaciuto avere uno Chanel, ma purtrop­po c’erano tante ragazze graziose e giovani come quella che annullavano il valore commerciale di una donna come lei. «Aspettate, non mi conoscete ancora», borbottò più volte Kuniko tra sé. L’unica cosa positiva, lì allo stabilimento, era che aveva conosciuto Masako, pensò Kuniko continuando a divorare gli o-nigiri. Masako, infatti, in precedenza aveva avuto un ot­timo impiego, ma aveva perso il posto in seguito a una ri­strutturazione aziendale. Kuniko aveva la sensazione che una donna come Masako non sarebbe rimasta a lungo nei duri turni di notte allo stabilimento. Prima o poi sarebbe diven­tata una dipendente fissa. Non era neppure da escludere un posto in amministrazione o nella direzione. E se al momen­to giusto lei le fosse stata vicina, sarebbe potuto saltare fuori qualcosa di meglio anche per lei. Questo pensava. Il proble­ma era però che Masako non sembrava ricambiare la sua fi­ducia. Kuniko gettò nel secchio della spazzatura accanto al la­vandino la scatola della colazione, così accuratamente svuo­tata da sembrare pulita. Poi lesse l’inserto con le offerte di la­voro che aveva messo da parte. Con il suo miserabile stipen­dio poteva a malapena pagare gli interessi del debito, di sal­darlo non se ne parlava neppure. E i lavori part-time duran­te il giorno venivano pagati ancora di meno. Per cinque ore e mezza di turno di notte prendeva la paga di otto ore di la­voro diurno. Sarebbe stato stupido cambiare. Però così era costretta a dormire di giorno. Ormai era un circolo vizioso. Kuniko non voleva ammettere di essere una fannullona. D’altronde non amava neanche pensare troppo ai suoi debiti. Negli ultimi tempi non riusciva neppure a trovare il denaro per pagare gli interessi; non sapeva se il suo credito fosse calato, anzi, non aveva alcuna idea di quanti soldi aves­se ancora in banca.

Verso sera si truccò, indossò un finto Chanel e uscì. Ave­va trovato quello che faceva al caso suo: un lavoro che poteva fare la sera, prima di andare in fabbrica alle undici e mezzo. Al posteggio delle biciclette incontrò l’inquilina dell’ap­partamento accanto che stava rincasando. Indossava un completo estivo da pochi soldi, un modello da supermerca­to, e camminava stancamente con la borsa per la spesa appe­sa al braccio. Probabilmente nella ditta in cui lavorava la trat­tavano come una schiava. Kuniko chinò leggermente la testa, la donna la salutò con un sorriso e tirò su un paio di volte con il naso, dilatando le narici. Evidentemente annusa il mio profumo, pensò Kuniko. Oggi si era messa Coco. Quella lì probabilmente non ne aveva mai sentito neppure il nome. In fabbrica era proi­bito profumarsi, ma prima del turno avrebbe avuto tutto il tempo di fare un bagno. Salì sulla bicicletta e pedalò con fatica per la stretta stra­da trafficata. Il club si trovava vicino alla stazione del quar­tiere di Higashi-Yamato. L’unico difetto di quel lavoro era che avrebbe dovuto usa­re la bicicletta, perché non c’era possibilità di parcheggiare. Come avrebbe fatto nei giorni di pioggia? D’altronde la sua casa era troppo lontana dalla stazione dei treni. Se l’avessero assunta avrebbe potuto cambiare casa, pensò Kuniko. Venti minuti dopo arrivò davanti al locale. Si chiamava Velfarre. Era preparata a un eventuale rifiuto, ma chi poteva sapere? In fondo era così lontano dal centro che anche lei po­teva avere qualche chance. Kuniko si fece coraggio e per la pri­ma volta dopo lungo tempo sentì il cuore batterle nel petto. «Cercasi Floor lady dai diciotto ai trent’anni, paga oraria 3600 yen. Divisa fornita. Orario di lavoro: 17-1, possibilità di accompagnamento. Meglio se astemia». Kuniko ripensò al testo dell’inserzione e si disse che, se fosse stata assunta, avrebbe anche potuto abbandonare il la­voro allo stabilimento. Due ore di quello stupido lavoro con­tro una notte intera di dura fatica in fabbrica. Si era già di­menticata che poco prima aveva giurato di seguire le orme di Masako.Lei era fatta così. «Vengo per l’annuncio. Ho già telefonato prima…» Davanti al locale erano fermi alcuni giovani che indossa­vano abiti dai colori vivaci e una ragazza con una minigon­na cortissima – evidentemente per attrarre i clienti. L’uomo cui si era rivolta la guardò sbalordito. «Ah sì, allora passi dall’entrata sul retro». «Grazie». Kuniko intuì che i giovani ridacchiavano alle sue spalle. Raggiunse l’entrata che le avevano indicato svoltando in un vicoletto. Trovò una porta d’alluminio con una piccola targa su cui era scritto Velfarre. «È permesso? Ho telefonato poco fa», si annunciò apren­do adagio la porta e guardando all’interno. Un uomo di mez­za età, vestito di nero, era seduto a una scrivania e stava posando la cornetta del telefono. Si accarezzò con la mano le rughe sulla fronte, che sembravano incise con uno scalpello, e squadrò Kuniko da capo a piedi. «Sì, avanti». Lo sguardo incuteva timore, ma il tono della voce era bas­so e gentile. Le indicò un divano davanti alla scrivania. «Prego, si accomodi». Kuniko si sedette con sussiego sul bordo del divano, avendo cura di mantenere la schiena diritta, e lui le porse un biglietto da visita. Era il direttore. L’uomo chinò lievemente il capo, ma appena sollevò lo sguardo Kuniko comprese che la stava valutando velocemente dalla testa ai piedi. Si sentiva sempre più imbarazzata. Annunciò con voce tesa: «Ho letto l’inserzione, intenderei lavorare da voi come floor lady». «La ringrazio per aver risposto. Vogliamo parlare un po’?» replicò diplomaticamente l’uomo, sedendosi su una poltro­na davanti a lei.

«Quanti anni ha?» «Ventinove». «Ah sì? Ha un documento?» «Oh, mi dispiace, al momento non ho…» Il tono dell’uomo divenne subito brusco: «Già. Ha espe­rienza di questo lavoro?» «No. Sarebbe la prima volta». Kuniko si stava domandando come avrebbe dovuto rea­gire se l’uomo le avesse detto che non accettavano casalinghe, ma lui si alzò senza fare altre domande: «Per essere franco, si sono già presentate sei ragazze di diciannove anni. È vero che noi preferiamo donne non professioniste, ma i clienti sono più interessati alle giovani, sa com’è, tira di più». «Già, capisco». Era sicura che non era tutta la verità. Kuniko si sentì sprofondare all’improvviso come se stesse precipitando con un ascensore in caduta libera. Se avesse avuto un bel viso e una figura aggraziata, il fatto che fosse più vecchia non avrebbe avuto importanza. Ma il problema non era l’età. Di nuovo l’antico, ben radicato complesso di inferiorità mostra­va il suo ghigno beffardo. «Mi dispiace che sia venuta fin qui, ma per questa volta non è possibile…» Kuniko annuì, impaziente di dissipare la sensazione cupa che la opprimeva. «Sì, capisco». «Qual è il suo attuale lavoro?» «Lavoro a part-time qui vicino». «Continui così. È sicuramente meglio per lei. Il lavoro qui è molto duro. Quando spendono dieci o ventimila yen all’ora, gli ospiti si aspettano qualcosa, non se ne vanno a ca­sa senza una contropartita. Lei mi capisce, vero? E alla sua età…, sicuramente non le piacerebbe essere lasciata da parte! Non sarebbe carino, non trova anche lei?» L’uomo proruppe in una risata oscena e aggiunse: «Be’, dunque… Mi dispiace veramente che si sia disturbata. Prenda, è per il taxi». Le premette sulla mano una busta sottile. Probabilmente conteneva un biglietto da mille yen. L’uomo chiese dubbio­so: «In realtà lei ha passato i trenta da un bel po’, vero?» «Niente affatto». «Era solo una battuta», concluse l’uomo con palese di­sprezzo. Kuniko uscì delusa dalla porta sul retro. Voleva evitare l’uscita principale per non ritrovarsi di fronte ai giovani. Non voleva affrontare un’altra volta i loro sguardi, per cui preferì seguire il vicoletto fino all’angolo, dove c’era un ristorante specializzato in gyudon 3. Doveva trovare il posteggio dove aveva lasciato la bicicletta. Improvvisamente le venne una fame da lupi. Entrò nel ri­storante decisa a mangiarsi tutti i soldi appena ricevuti. «Un gyudon, per favore». Dopo aver ordinato si guardò intorno e sul grande spec­chio alle sue spalle vide riflessa la sua schiena larga e grassa e il volto dai lineamenti grossolani e dall’espressione ottusa. Inesorabile mostrava a tutti la sua vera età, trentatré anni. Distolse subito lo sguardo e raddrizzò la testa. Anche con le compagne di lavoro aveva mentito sull’età. Sbuffò e aprì la busta.C’erano due biglietti da mille yen. «Che fortuna! È andata bene anche così!» borbottò accostan­do a un angolo della bocca una sigaretta al mentolo. Aveva ancora tempo prima di andare al lavoro. 2 O-nigiri: gnocchetti di riso ripieni avvolti in alghe essiccate, praticamente il pane e burro dei giapponesi (N.d.T.). 3

Gyudon: piatto a base di riso e striscioline di carne di manzo e cipolla in salsa pic­cante

(N.d.T.).

3. Attenta a non fare il minimo rumore, Yoshie aprì la porta di casa e percepì subito il lieve odore di cresolo ed escrementi. Nonostante arieggiasse spesso e strofinasse a fondo i tatami con uno straccio ben strizzato, non riusciva mai a eliminarlo del tutto. Premette i polpastrelli sulle palpebre brucianti: non dor­miva abbastanza. Sarebbero passate ancora delle ore prima di riuscire a concedersi un po’ di riposo. Oltrepassò il gradino dello stretto ingresso con il pavi­mento in cemento ed entrò in una stanza larga tre tatami. Era così piccola da contenere a malapena un minuscolo ta­volo da pranzo, una vecchissima credenza e un televisore – non c’era quasi spazio per camminare. Era il soggiorno in cui Yoshie e la figlia Miki pranzavano e guardavano la televisio­ne. Poiché si trovava di fronte all’ingresso e non aveva la por­ta, chiunque arrivava poteva guardare direttamente all’inter­no e in inverno il vento penetrava da tutte le fessure, non c’e­ra modo di tenerlo fuori. Miki si lamentava, borbottava che era un’indecenza, ma l’appartamento era piccolo e non c’era altra soluzione. Yoshie depose in un angolo la busta di carta contenente il camice bianco e i pantaloni da lavoro che si era portata a casa per lavarli, e attraverso la porta scorrevole aperta diede un’occhiata alla camera di sei tatami. Le tende erano tirate e la stanza immersa nell’oscurità, ma si accorse subito dei pic­coli movimenti sul futon disteso sul pavimento. La suocera, costretta a letto da sei anni, doveva essere già sveglia. Tuttavia Yoshie rimase immobile in mezzo alla stanza, senza chiamarla. Nello stabilimento riusciva a farsi forza e a concentrarsi nel lavoro, ma appena arrivava a casa si sentiva stanca e molle come un vecchio straccio per spolverare. Sa­rebbe stato meraviglioso poter appoggiare la testa sul cusci­no almeno un’oretta! Si massaggiò le forti spalle irrigidite dalla stanchezza e si guardò intorno nella stanza disordinata, dalle pareti ormai ingiallite, nella quale non entrava mai la luce del mattino. La porta scorrevole della stanza di quattro tatami e mez­zo alla sua destra era chiusa, come a separarla dal resto del mondo. Era la camera di Miki. Fino alle medie aveva dor­mito insieme alla nonna nella camera di sei tatami, ma ormai era grande e la madre non avrebbe potuto imporglielo. Yo­shie era quindi costretta a prepararsi il futon accanto alla suocera, ma negli ultimi tempi soffriva di insonnia ed era un peso, questo, che si sovrapponeva agli altri della sua vita. Evi­dentemente anche lei cominciava a invecchiare. Si accosciò sui tatami, nel solo spazio libero della piccola stanza. Nella teiera sul tavolo c’erano ancora le foglie del tè ver­de che aveva bevuto la sera precedente, prima di andare al la­voro. Non aveva voglia di buttarle e di lavare la teiera. Non si risparmiava fatiche per gli altri, per se stessa invece non aveva voglia di fare nulla. Versò sulle foglie l’acqua tiepida ri­masta nel thermos e, mentre sorseggiava rumorosamente il tè, lasciò vagare lo sguardo nel vuoto per qualche istante. C’era un problema che la tormentava. Il padrone di casa le aveva comunicato che aveva inten­zione di abbattere il vecchio edificio in legno, sicuramente ormai poco confortevole, e di costruire un condominio. Yo­shie temeva che si trattasse solo di un pretesto per scacciarla. Una volta sfrattata non avrebbe saputo dove andare. E anche se il proprietario le avesse consentito di tornare nella casa ri­strutturata, avrebbe senza dubbio aumentato l’affitto, e co­munque avrebbe dovuto trasferirsi per qualche tempo in un altro appartamento, e tutto ciò sarebbe costato troppo. Non poteva permettersi una simile spesa. Quello che guadagnava bastava appena alla pura sopravvivenza. «Se avessi soldi!» Questo era il suo più grande desiderio, ma senza speran­za. Aveva speso per la suocera malata quel poco denaro che l’assicurazione le aveva versato dopo la morte del marito, e così anche tutti i suoi risparmi. Yoshie aveva potuto frequen­tare soltanto le scuole medie e desiderava che Miki potesse prendere almeno una laurea breve, ma per il momento non se lo potevano permettere; figuriamoci poi

riuscire a rispar­miare qualcosa per la vecchiaia! Perciò non poteva rinunciare ai faticosi turni di notte al­lo stabilimento. Avrebbe voluto lavorare anche di giorno, ma chi si sarebbe preso cura della suocera? Per quanto fosse co­raggiosa, Yoshie era agli sgoccioli. Semplicemente non sape­va più come fare per tirare avanti. Doveva avere sospirato profondamente, perché dalla ca­mera di sei tatami giunse la voce flebile della suocera: «Yo­shie, sei tu?» Era una voce esausta, a malapena avvertibile. «Sì, sono tornata». «Mi sono bagnata». Nel tono supplichevole si intuiva tut­tavia una prepotente cocciutaggine. «Vengo subito». Yoshie bevve un altro sorso di tè, tiepido e leggero, e si alzò risoluta. Ormai aveva dimenticato il modo odioso in cui l’aveva trattata nei primi tempi del suo matrimonio. Ora era soltanto una povera vecchia indifesa che non sarebbe riusci­ta a sopravvivere senza il suo aiuto. Senza di me non ce la farebbe. Questo pensiero era una ragione di vita per Yoshie. Anche nello stabilimento era lei a controllare la linea, per questo la chiamavano “maestra”. Tut­to ciò era per lei motivo di orgoglio. In fondo al cuore sapeva che evitava di guardare in faccia la realtà. Non voleva riconoscere che nessuno era disposto ad aiutare lei, non avrebbe potuto sopportarlo. Preferiva colti­vare quella sorta di orgoglio che la costringeva ai più duri la­vori. Yoshie si nascondeva la realtà e la riponeva accurata­mente in fondo all’anima: in tal modo aveva finito col fare della fatica la regola suprema della propria vita. Era quella la sua tecnica per sopravvivere. La donna entrò in silenzio nella camera di sei tatami. Vi gravava un intenso odore di escrementi. Soffocò il disgusto, scostò le tendine e aprì lentamente la finestra per cambiare l’aria. Proprio di fronte, a un metro di distanza, vi era la fine­stra della cucina di una casa di legno piccola e vecchia come la sua. Immediatamente la vicina, una casalinga che era soli­ta alzarsi presto, chiuse l’imposta rumorosamente per espri­mere la sua irritazione. Yoshie si sentì ribollire di rabbia. Ma poteva capire: non era certo piacevole sentire l’odore della cacca di un malato fin dal mattino. «Per favore, ti sbrighi a cambiarmi?» La suocera, che non si era accorta di nulla, si mosse impaziente nel futon. «Sta’ ferma, altrimenti il pannolone si sposta di nuovo». «Ma è già messo male e mi dà fastidio!» «Lo so, te la sei anche fatta addosso». Yoshie spostò la leggera coperta estiva e sciolse i lacci del kimono da notte della suocera pensando a come sarebbe sta­to meglio se si fosse trattato del pannolino di un neonato. Non le aveva mai dato fastidio cambiare un neonato, anche se si sporcava le mani di cacca o si bagnava il vestito di pipì. Chissà perché gli escrementi dei vecchi facevano così schifo? All’improvviso ripensò a Yayoi Yamamoto. I suoi bambi­ni erano ancora piccoli. Era felice che il più piccolo non aves­se più bisogno di pannolini? Yoshie si ricordava ancora mol­to bene che gioia fosse quella per una madre. E tuttavia oggi Yayoi era stata così strana. Aveva detto che il marito la aveva percossa sul ventre, ma chissà, forse lei l’a­veva provocato con qualche parola di troppo? Era comodo avere per moglie una grande lavoratrice, ma per un marito pigro poteva anche diventare una spina nel fianco. Anche per lei era stato così. Ripensò al marito, mor­to cinque anni prima di cirrosi epatica. Quanto più lei servi­va la suocera, contribuiva al bilancio familiare con qualche lavoretto e teneva la casa in ordine, tanto più lui diventava nervoso e depresso. Probabilmente anche il marito di Yayoi era di quella ri­sma, non apprezzava gli sforzi della moglie. Doveva essere un uomo egoista come lo era stato il suo. Chissà perché al mon­do gli egoisti e i fannulloni finiscono quasi sempre per spo­sare le donne migliori. Comunque non c’era altro da fare che stringere i denti e continuare a prodigarsi. Yoshie era con­vinta che Yayoi le somigliasse un po’.

Cambiò il pannolone con destrezza. Lo svuotò nel gabi­netto e poi lo lavò nella vasca da bagno. Sapeva benissimo che esistevano pratici pannoloni di carta usa e getta, ma co­stavano ed erano una spesa che non si poteva permettere. «Sono anche sudata», l’inseguì la voce della suocera men­tre usciva dalla camera. Voleva che l’aiutasse a indossare un kimono da notte pulito, ma questo poteva aspettare. «Ho capito. Una cosa alla volta!» «Ma lo sai quanto mi dà fastidio! E poi prenderò il raf­freddore». «Prima finisco quello che sto facendo». «Fai apposta a essere così lenta». «Ti sbagli», rispose Yoshie provando per un attimo la ten­tazione di ucciderla. Che si pigliasse pure il raffreddore. Che bello sarebbe stato se si fosse presa una polmonite e fosse morta. Finalmente sarebbe stata libera! Ma come al solito Yo­shie la zelante soffocò subito i propri sentimenti. Che orro­re! Augurare la morte a uno che ha bisogno di aiuto. C’era di che attirarsi la vendetta celeste. Lì accanto, nella camera di quattro tatami e mezzo, squil­lò la sveglia. Erano quasi le sette. L’ora in cui Miki si alzava per prepararsi ad andare al liceo statale. «Miki, è ora!» chiamò Yoshie. La porta scorrevole si aprì e apparve Miki in T-shirt e calzoncini. Aveva la luna storta. «Lo so!» rispose con aria irritata distogliendo lo sguardo. «Mamma, non vorrai entrare in camera mia con quella roba in mano?!» «Scusa!» Yoshie si precipitò confusa nel piccolo bagno ac­canto alla cucina, colpita dalla sgarbatezza della figlia. Era stata una bambina gentile e l’aveva sempre aiutata, se solo ne era capace. Naturalmente Yoshie capiva che attraversava un’età difficile, nella quale si confronta la propria vita con quella degli amici – per questo si vergognava dell’ambiente in cui era costretta a vivere. D’altronde Yoshie era consapevole di non avere la forza di rimproverarla, di domandarle che cosa c’era di cui vergo­gnarsi. Semplicemente non aveva il coraggio di parlarne con Miki, perché lei stessa si sentiva miserabile, perché era lei la prima a vergognarsi di se stessa. Ma non c’era nulla da fare. Chi avrebbe potuto aiutarla? Doveva sopravvivere. Anche se si sentiva una schiava, anche se temeva di essere costretta a servire in eterno, se non era lei a lavorare nessuno lo avrebbe fatto al suo posto. Doveva con­tinuare a impegnarsi con tutte le proprie forze. Nessuna al­ternativa. Altrimenti sarebbe stata punita. Già riaffiorava lo zelo di Yoshie, quello zelo che non le permetteva di pensare ad altre soluzioni. Miki si stava lavando la faccia con una nuovissima schiu­ma detergente. Yoshie se ne era accorta subito, il profumo era molto più gradevole di quello del sapone. La figlia si era comprata le lenti a contatto e una mousse per i capelli con i soldi guadagnati facendo lavoretti saltuari. I capelli ora ri­splendevano, castani, nella luce mattutina. Yoshie aveva fini­to di lavare il pannolone e si era disinfettata le mani. Si fermò alle spalle di Miki che tutta seria si spazzolava davanti allo specchio e le chiese: «Ti sei tinta i capelli?» «Appena un poco», rispose la ragazza continuando a spaz­zolarsi. «Ma non sta bene!» «Non sta bene! Siamo ancora all’età della pietra?» rise Miki. «Oggi tutte si tingono i capelli. Solo tu, mamma, hai ancora qualcosa da dire!» «Davvero?» Era preoccupata, perché negli ultimi tempi Miki si truccava e si vestiva in modo particolarmente visto­so. «Hai trovato un lavoro per le vacanze estive?» «Certo!» Miki si spruzzò la lacca trasparente sui lunghi capelli. «Dove?» «Al fast-food davanti alla stazione». «Quale sarà la paga oraria?» «Ottocento yen per le liceali».

Per Yoshie fu un vero colpo, e per un po’ non riuscì più a dire niente. Settanta yen più della paga che si prendeva nei turni di notte allo stabilimento. Valeva così tanto la gioventù? «Che c’è?» domandò perplessa Miki osservando il volto della madre. «Niente. Come è andata con la nonna stanotte?» Yoshie cambiò discorso. «Ha avuto un incubo. Chiamava continuamente il non­no, che fastidio!» Per qualche motivo la sera precedente la suocera aveva fatto i capricci e non voleva lasciarla andare a lavorare. Al momento di uscire l’aveva sentita urlare astiosa: «Hai inten­zione di abbandonarmi? Eh, lo so, tanto io per te sono solo un fastidio!» All’inizio, dopo l’ictus che l’aveva lasciata se­miparalizzata, la vecchia era stata stranamente mansueta, ma negli ultimi tempi era diventata capricciosa come un bam­bino. «Strano! Che sia l’arteriosclerosi?» «Non me ne importa. Risparmiami i particolari, non ne posso più!» «Perché invece di parlare così non vai ad asciugarle il su­dore?» «Non vorrai mica scherzare? Lasciami in pace!» rispose bruscamente Miki. Si prese una lattina dal frigo e incomin­ciò a bere con una cannuccia. Yoshie non si era accorta subi­to che quella bevanda, l’ultima novità in commercio, aveva finito per sostituire la colazione. Miki la comprava perché anche le sue amiche lo facevano. Era di moda, così diceva. Invece di bere quella roba potrebbe fare colazione con il riso e la zuppa di miso, pensò Yoshie. A che scopo la sera pri­ma aveva perso tempo a cucinare? E poi quella spesa inutile la preoccupava. Una volta Miki si portava da casa la colazione da consu­mare nell’ora di pausa – una scatola con qualche avanzo del­la sera prima –, ma negli ultimi tempi aveva preso l’abitudi­ne di pranzare con le amiche al fast-food. Dove trovava tut­ti quei soldi? Senza accorgersi Yoshie stava fissando la figlia con uno sguardo sospettoso. «Perché mi guardi così?» Miki la guardò incattivita, come se volesse annientarla. «Niente». «E per i soldi della gita scolastica? Domani è l’ultimo giorno». Colta di sorpresa Yoshie, che se ne era completamente di­menticata, spalancò gli occhi. «Quant’era la somma?» «Ottantatremila yen». «Così tanto?!» «Ma lo sai già da un pezzo!» gridò furibonda Miki. Yoshie non disponeva di una somma così alta. Si mise a rimuginare, mentre Miki si cambiava in fretta per andare a scuola. Sua figlia sapeva che ogni yen era guadagnato col su­dore e tuttavia le chiedeva soldi. Il cuore di Yoshie era sem­pre più oppresso. «Yoshie!» la chiamò petulante la suocera. La raggiunse di corsa con un kimono da notte fresco di bucato sul braccio. Dopo averla faticosamente cambiata, la aiutò a fare colazione, le cambiò di nuovo il pannolone e lavò una montagna di biancheria sporca. Finalmente poté sten­dere il suo futon accanto a quello della suocera. Erano quasi le nove. Anche la vecchia si assopì. Ma Yoshie non poteva dormi­re tranquilla, ben sapendo che verso mezzogiorno si sarebbe svegliata e avrebbe cominciato a lamentarsi perché voleva pranzare. Così Yoshie dormiva solo un paio di ore al giorno. Alle quali poteva aggiungere qualche pisolino pomeridiano negli intervalli concessi dall’assistenza all’ammalata. E poi riusciva a dormire ancora un po’ prima di andare a lavorare. In tutto facevano forse sei ore di sonno. Lo stretto necessario per mantenersi in salute nonostante le fatiche. Era questa la sua vita quotidiana. E prima o poi sarebbe potuto crollare tutto, per questo aveva paura. Yoshie telefonò all’amministrazione dello stabilimento per chiedere se era possibile avere un

anticipo sullo stipendio che le sarebbe stato versato a fine mese. «Per principio non facciamo eccezioni», rispose gelido il contabile. «Me ne rendo conto, ma lavoro per voi da molti anni…» «Lo so, ma un principio è un principio», replicò secco l’impiegato. «A proposito, signora Azuma, in futuro dovrà stare a casa almeno un giorno alla settimana. Non vorremmo avere noie con l’ispettorato del lavoro». «Ma…» Negli ultimi tempi Yoshie non aveva fatto pause infrasettimanali perché non voleva perdere neanche un gior­no di paga. L’impiegato continuò con tono di disprezzo: «Stia molto attenta, anche per il suo bene. Lei, se non sbaglio, gode dell’assistenza sociale, vero? Non può superare certi limiti!» E così doveva di nuovo scusarsi! Yoshie, depressa, riat­taccò la cornetta. Ormai le rimaneva soltanto Masako a cui rivolgersi. Non sarebbe stata la prima volta che la aiutava a uscire dai pasticci. «Sì?» rispose una voce bassa. Era Masako, forse stava dor­mendo. «Sono io. Ti ho svegliata?» «Ah, sei tu, maestra? Sì, ma non importa». «Ho un favore da chiederti. Ma se non puoi, dimmelo francamente, d’accordo?» «D’accordo. Di che si tratta?» Yoshie indugiò un attimo pensando che Masako, sincera com’era, avrebbe potuto rifiutare. Masako odiava i compli­menti e i convenevoli. In fabbrica molti venivano colti di sorpresa dal suo modo di fare così diretto. «Potresti prestarmi del denaro?» «Quanto?» «Ottantatremila yen. Mi servono per la gita scolastica di Miki. Al momento sono completamente al verde». «Va bene». Yoshie era felice. Sapeva che neanche Masako nuotava nell’oro. «Grazie. Sono in debito. È veramente un grande aiuto!» «Vado in banca e te li porto stanotte». Yoshie sospirò di sollievo e si lasciò cadere sul cuscino. Non le piaceva avere debiti con Masako, ma era anche felice di avere un’amica così. Sonnecchiava con il capo appoggiato al tavolino quando qualcuno suonò alla porta. Aprì. Masako era lì, con il sole del tramonto alle spalle, il volto olivastro come al solito sen­za trucco: «Maestra, ho pensato che è meglio non portare soldi in fabbrica. Perciò te li do subito». Masako le porse la busta della banca. Evidentemente era venuta subito dopo essere stata in banca a prelevare il dena­ro. Tipico di Masako, sempre pratica, sempre disponibile. Oltretutto in fabbrica qualcuno avrebbe potuto vederle. Ma­sako doveva aver pensato anche a questo, e Yoshie le fu gra­ta per la sua sensibilità. «Ti ringrazio. Te li restituirò senz’altro alla fine del mese». «Me li puoi tranquillamente restituire un po’ alla volta». «Niente affatto. Anche voi avete un mutuo da pagare, non è vero?» «È già tutto a posto». Masako accennò un sorriso. Yoshie la guardò stupita: in fabbrica non abbandonava mai la sua espressione impassibile. «Ma…» «Non ti preoccupare, maestra», la interruppe Masako con decisione, e il suo volto divenne di nuovo serio. Apparve allo­ra accanto al sopracciglio sinistro una piccola ruga verticale che pareva una cicatrice. Yoshie ne era sempre turbata, quasi fosse il segno di un’ansia che tormentava l’amica. Non sapeva di cosa si trattasse. E anche se l’avesse saputo – temeva – una donna semplice come lei non avrebbe potuto capire.

«Perché una come te lavora in un posto come quello?» «Ma che dici? Allora a più tardi». Masako le fece un cen­no di saluto con la mano e si incamminò verso la Corolla rossa posteggiata sul viale. Un attimo dopo Miki rientrò da scuola e Yoshie le tese la busta: «Ecco i soldi». Miki la prese con noncuranza e sbirciò dentro. «Quanti sono?» «Ottantatremila yen». «Thank you». Infilò disinvolta la busta nella tasca latera­le dello zainetto nero. Yoshie scorse sul suo volto un’espressione che sembrava dire: «Ce l’ho fatta», e l’assalì il dubbio che il viaggio in realtà costasse molto meno. Tuttavia, come sempre, istintivamente evitò di guardare in faccia la verità. Miki non aveva motivo di mentire. Sua figlia, che giorno dopo giorno vedeva come lei era costretta ad arrabattarsi? No, impossibile!

4. Gli occhi di Mitsuyoshi Satake seguivano come ipnotizzati i movimenti delle palline argentee. Aveva saputo che erano arrivate delle nuove slot-machi­ne, si era alzato presto e si era messo in coda per conquistar­ne una. Giocava da più di tre ore, prima o poi sarebbe suc­cesso qualcosa. Bisognava soltanto aver pazienza. Era stan­chissimo – aveva dormito poco – e gli occhi gli facevano ma­le a furia di fissare i colori abbaglianti della Pachinko, la slot­machine, ma tanto valeva. Prese il collirio dal borsello in pel­le di fabbricazione italiana che aveva posato davanti a sé. Fe­ce una pausa e si mise qualche goccia di collirio. Il liquido bruciava sulla cornea e Satake iniziò a lacrimare. Lui, che non piangeva da quando era bambino, provò piacere al te­pore del liquido che gli scorreva sulle guance e non fece nul­la per fermare le lacrime. La ragazza con lo zainetto che giocava lì accanto gli lan­ciò uno sguardo di sfuggita. Capì subito che cosa le passava per la testa: lo trovava interessante, ma non voleva avere rap­porti con un uomo vestito in modo così vistoso. Satake os­servò attraverso le lacrime le guance sode e lisce della ragaz­za. Vent’anni al massimo. Aveva l’abitudine di valutare all’i­stante l’età di tutte le donne che incontrava. Lui aveva quarantatré anni. I capelli tagliati cortissimi, il collo tozzo e le spalle possenti gli conferivano un aspetto ru­de. Ma, in contrasto con la corporatura, aveva piccoli occhi a mandorla dallo sguardo vivace, un naso perfetto e splendi­de mani con dita lunghe e sottili. Un corpo vigoroso e viso e mani delicati. Questa disarmonia gli donava un fascino am­biguo. Con quelle belle mani prese un fazzoletto firmato dalla tasca dei lucidi pantaloni neri e si asciugò gli occhi e le guan­ce. Sulla camicia di seta, nera come i pantaloni, erano cadu­te delle lacrime. Satake asciugò delicatamente anche quelle con il fazzoletto. L’abbigliamento vistoso e le ciabatte firma­te Gucci non erano per lui che abiti da lavoro. Se fosse stato vestito come un uomo d’affari la ragazza accanto a lui avreb­be mostrato un maggiore interesse, di questo era pienamen­te consapevole. Controllò l’ora sul Rolex d’oro massiccio al polso destro. Erano quasi le due del pomeriggio. Era ora di avviarsi all’ap­puntamento. Schioccò la lingua e diede un’occhiata alle pal­line che gli erano rimaste. In quel momento fece jack-pot. Una marea di palline si riversò nella vaschetta e rimbalzò al­legramente sul pavimento. «Maledizione!» imprecò Satake. Diede una gomitata al braccio della ragazza, che si voltò stupita. «Non ho più tempo. Se le va continui lei». «Cosa, davvero?» La ragazza sembrava contenta, ma gli lanciò un’occhiata diffidente: sembrava non volersi accostare alla macchinetta finché lui non se ne fosse andato. Satake sorrise amaro, prese il borsello e si alzò con agilità. Mentre camminava lungo la fila delle Pachinko, da cui usciva un ru­more sordo e cadenzato, si domandò che cosa pensasse ades­so la ragazza. La porta scorrevole si aprì e Satake abbandonò il rumore assordante del locale per trovarsi in mezzo a un frastuono di­verso: gli altoparlanti del cinema diffondevano musica per invitare i passanti, uomini gridavano e si udivano le canzo­nette dei karaoke. Sebbene in qualche modo lo tranquilliz­zasse sempre immergersi nell’atmosfera di Kabuki-cho 4, co­me se gli fosse già entrata nel sangue, tuttavia provava anco­ra una punta di disagio, un senso di non appartenenza. Alzò lo sguardo al fazzoletto di cielo limitato da sporchi edifici. Era grigio e nuvoloso: non ne poteva più di quel clima caldo e afoso, come se si dovesse mettere a piovere da un momen­to all’altro. Camminava veloce, il borsello infilato sotto il braccio. Poco prima del teatro Koma si accorse di aver pestato una gomma da masticare e cercò di staccarla sfregando la suola sullo spigolo del marciapiede. Quella maledetta gomma era diventata ancora più appiccicosa a causa dell’umidità e non si staccava più. Satake incominciò a irritarsi. Di notte nel quartiere bande di ragazzi bighellonavano

mangiando e be­vendo, e la strada era disseminata dei loro resti. Ovunque sull’asfalto stavano in agguato nere chiazze appiccicose. Andò avanti con cautela, attento a evitarle, e rischiò di urta­re la fila di vecchie in coda in attesa di assistere allo spetta­colo di canzoni al teatro Koma. Sollevò la mano destra per chiedere il passaggio, ma le donne erano talmente immerse nelle loro chiacchiere che non gli badarono proprio. Schioccò piano la lingua, ma poi le aggirò sorridendo. Inuti­le irritarsi con chi non ha niente a che fare con te. Ciò che lo rendeva furioso era invece il chewing-gum che gli era rima­sto appiccicato alla suola. I ragazzi che distribuivano volan­tini, quelli che adescavano i clienti per i locali a luci rosse, i gruppi di liceali trasandate a passeggio lo lasciarono delibe­ratamente in pace. Tutta gente che avvertiva le vibrazioni pe­ricolose trasmesse da Satake. Quando finalmente entrò nel vicolo aveva le mani in tasca e un’espressione cupa. Il suo locale, il Mika, si trovava in un fabbricato in una laterale della Kuyakusho-dori, la strada in cui aveva sede l’amministrazione del distretto di Shinjuku. Con l’agilità di un animale selvatico Satake salì veloce la scala fino al primo piano e sospinse la porta girevole nera in fondo al corridoio. All’interno tutte le lampade erano accese e la luce del giorno filtrava attraverso le decorazioni alla greca dei vetri smerigliati. Una donna era seduta in attesa a un tavolo vicino all’entrata. Segno che lo conosceva bene e sapeva quanto Sa­take, la puntualità in persona, odiasse chi lo faceva aspettare. «Grazie per essere venuta». «Sono io che devo ringraziare, Satake-san», rispose in un giapponese perfetto, nonostante un’intonazione esotica, Lì­huá-Zhàng. Era la “mama-san”, la donna cui Satake aveva af­fidato la gestione del locale, e veniva da Taiwan. Benché aves­se già più di trentacinque anni – una donna matura, quindi –, la sua pelle di un bianco puro era splendida. Per metterla in risalto indossava una camicetta con una profonda scolla­tura che lasciava scoperti il collo e l’attaccatura del seno; il vi­so era senza trucco a eccezione delle labbra rosso cupo. Il lungo e candido collo era ornato da una catena da cui pen­devano un’elegante giada scolpita e una grande moneta d’o­ro. Fumava una sigaretta che doveva avere acceso da poco, e volute azzurrine di fumo le uscirono dalla bocca mentre chi­nava leggermente il capo davanti a Satake. «Mi scusi se le rubo un po’ di tempo». «Non importa. Per lei ho sempre tempo». Satake si sedette fingendo di ignorare il tono civettuolo e invitante della donna. Si guardò intorno e osservò con sod­disfazione il locale. Era tappezzato di rosa scuro e arredato in stile rococò. All’entrata c’erano l’impianto per il karaoke, un pianoforte bianco e quattro tavoli. Scesi alcuni gradini si apriva l’ambiente principale, con dodici tavoli, più o meno come un club di Shanghai di media grandezza. Lì-huá si girò verso di lui e incrociò le mani bianche dal­le dita affusolate su cui spiccava una grossa giada. Satake, per frenare le sue aspettative, le indicò i grandi vasi di fiori disposti qua e là nel locale: «Lì-huá, così non va! L’acqua dei fiori deve essere regolarmente cambiata. Ci pensi lei!» Erano tutti fiori di lusso – gigli di Casablanca, rose e or­chidee – ma ormai appassiti, e l’acqua nei vasi era torbida. «Oh, sì!» annuì Lì-huá seguendo il suo sguardo. «E non si dimentichi di tagliare i gambi alle estremità!» osservò ridendo Satake, celando l’irritazione per la mancan­za di sensibilità della donna in questo campo. Ma non era fa­cile trovare una che sapesse fare così bene il suo mestiere, perciò riprese a guardarla come se niente fosse accaduto. Lì-huá voleva cambiare discorso e chiese con un dolce sorriso: «Perché voleva parlare con me? Vuole sapere come stanno andando gli affari?» «No, qualcosa su un cliente. Pare che abbiamo avuto qualche problema, non è vero?» «In che senso?» Lo sguardo di Lì-huá era diventato atten­to, come se il cervello le si fosse improvvisamente attivato. «Me l’ha raccontato Anna». Satake si sporse verso Lì-huá. Percepiva l’onda di tensione quasi

elettrica che la attraversa­va. Anna Lee, originaria di Shanghai, era la hostess più ri­chiesta del Mika, quella che guadagnava di più. Satake, te­mendo che qualcuno gliela sottraesse, la trattava con parti­colare gentilezza ed esaudiva tutti i suoi desideri. «Anna-chan? Che cosa le ha detto?» «Ha un cliente che si chiama Yamamoto, vero?» «Yamamoto? Il nome è piuttosto comune… ah sì, credo di sapere a chi si riferisce», annuì Lì-huá, come se si fosse al­l’improvviso ricordata. «Il cliente che si è innamorato folle­mente di Anna, vero?» «Così ha detto. Mi fa piacere se spende soldi qui dentro, ma pare che la aspetti all’uscita e la segua per strada». «Davvero?» La donna sussultò come se sentisse la storia per la prima volta. «Ieri mi ha telefonato. Pare che quell’uomo l’abbia segui­ta fino al suo appartamento. Sa il cielo come ha potuto ave­re l’indirizzo». «Che cosa spiacevole! Uno spiantato come quello…» Lì­huá sembrava veramente stupita. «Così pare. È talmente cretino che crede di potere avere gratis quello che si deve pagare. Perciò, la prossima volta che metterà piede nel locale, veda di fare in modo che sparisca. Non voglio che un miserabile come lui si attacchi ad Anna». «Capisco, ma cosa devo fare?» «Si faccia venire in mente qualcosa. In fondo questo è un suo compito, Mama-san», tagliò corto Satake. Lì-huá serrò le labbra come se si fosse svegliata da un so­gno e avesse rimesso i piedi per terra. Di colpo assunse un’e­spressione decisa, degna di una persona abile negli affari co­me lei. «Ho capito. Ne parlerò con il direttore». Anche il direttore era un giovane originario di Taiwan, ma mancava dal giorno prima perché aveva l’influenza. «E la prossima volta che Anna esce senza accompagnato­re, le chiami un taxi!» «Va bene, può contare su di me», Lì-huá annuì un paio di volte. Con ciò la questione era chiusa e Satake si alzò per andarsene. Lei lo scortò fino alla porta come era solita fare con i clienti. Satake, per precauzione, le ricordò: «E mi rac­comando l’acqua dei fiori!» Vide il sorriso ambiguo di Lì-huá e si ripromise di cercare al più presto un’altra mama-san. Le ragazze che lavoravano nel locale venivano scelte in base alla bellezza, alla giovane età e al fascino. Per lui erano solo mer­ce viva e la mama-san non doveva essere niente di più che un’accorta venditrice. Uscito dal Mika salì al piano superiore e si fermò davan­ti alla porta dell’altro locale di sua proprietà, il Parco dei Di­vertimenti. Era una sala di baccarat. Anche questo era gesti­to da un direttore, per cui Satake si faceva vedere solo un paio di volte alla settimana. Circa un anno prima si era accorto che al circolo di majong sopra al Mika gli affari non andavano bene, e allora lo aveva preso in affitto e trasformato in una sala di baccarat, dove potessero recarsi i clienti del Mika dopo la chiusura. Non aveva chiesto le autorizzazioni necessarie: non doveva essere che una prova, una piccola attività marginale, riserva­ta ai clienti del club e a quelli raggiungibili con il passaparo­la, ma aveva avuto molto successo e ora il casinò era sempre pieno di gente. All’inizio c’erano solo due tavoli di minibaccarat, ma quando i clienti erano aumentati Satake aveva assunto alcu­ni giovani, abili croupier e aveva fatto allestire un vero e pro­prio tavolo di baccarat. La posta minima era stata alzata e l’affare era esploso. In origine il locale veniva aperto solo do­po la chiusura del Mika, ma poi l’orario si era allungato dal­le nove di sera fino al mattino. Satake riavvolse il cavo elettrico bianco dell’insegna, che pendeva sciattamente, e strofinò con il fazzoletto la maniglia dorata della porta per cancellare le impronte delle dita. Lottò contro l’impulso di entrare e mettersi a fare un’ispezione. Aveva a cuore quel locale, e inoltre era una miniera d’oro. Squillò il cellulare nel borsello che teneva sotto l’ascella.

«Dove sei, O-nii-chan? Devo andare dal parrucchiere». Era una voce graziosa che parlava in un giapponese stentato. La voce di Anna. Lo chiamava sempre “O-nii-chan”, fratelli­no, senza che nessuno gliel’avesse chiesto. Anna era fantasti­ca quando si trattava di accattivarsi i favori degli uomini. Per Satake quella ragazza era un dono del cielo, e ci si divertiva pure. «Va bene, aspettami. Vengo subito». Anna si distingueva per bellezza e intelligenza fra le tren­ta hostess di Taiwan al suo servizio. Era giunto il momento di trovarle un buon protettore in grado di mantenerla. Era stato sempre Satake a sceglierle i clienti. Non poteva assolu­tamente sopportare che un poveraccio continuasse a girarle intorno. Satake attraversò il Kabuki-cho e tornò alla Mercedes bianca che aveva lasciato nel posteggio sotterraneo dell’Hy­geia-Health-Plaza. In dieci minuti sarebbe arrivato a casa di Anna, a Okubo. L’edificio era nuovo, ma non aveva l’im­pianto di allarme. Forse sarebbe stato meglio farla traslocare per sottrarla all’uomo che la infastidiva, pensò Satake men­tre suonava il citofono accanto alla porta di Anna, che abita­va al quinto piano. «Sono io, Satake». «È aperto», gli rispose una voce bassa e un po’ roca. Aprì la porta e si trovò subito tra le gambe un barbonci­no nano, così piccolo che sarebbe bastato un calcio a ucci­derlo. Doveva avere udito i suoi passi ed essere rimasto in ag­guato dietro alla porta. A Satake non piaceva, ma Anna lo amava alla follia, e così anche lui era costretto a vezzeggiarlo. Respingendolo con la punta della scarpa, gridò: «Ehi, ma sei un po’ fuori?» «Che significa “un po’ fuori”?» gli urlò Anna dall’interno. Satake non rispose e si mise ad aspettarla continuando ad allontanare con la punta della scarpa il cagnolino mugolante di piacere. Nel piccolo ingresso, sulla mensola della scarpie­ra, erano allineate fitte fitte moltissime paia di scarpe scolla­te e sandali di tutti i modelli e colori immaginabili. Era sta­to lui a metterle in ordine secondo i modelli, in modo che Anna non impiegasse troppo tempo a sceglierle al momento di uscire. Anna aveva raccolto in una coda di cavallo i lunghi ca­pelli neri lievemente ondulati e nascosto il viso privo di truc­co dietro un paio di occhiali da sole firmati Chanel. Indos­sava dei pantaloni alla marinara stampati a pelle di leopardo e una T-shirt altrettanto vistosa ornata di ricami in lamé. I grandi occhiali da sole celavano soltanto in parte la perfezio­ne dei suoi lineamenti e la carnagione di un bianco puro che non aveva alcun bisogno di trucco. Satake contemplò il suo viso pensando che quelle labbra carnose e un poco socchiu­se erano proprio quello che desideravano gli uomini. «Al solito posto?» «Già». Anna infilò i piedi nudi con le unghie laccate di rosso in un paio di sandali di vernice. Il cane, intuendo che sarebbe rimasto solo, si sollevò sulle zampe e incominciò ad abbaia­re furiosamente. Anna lo consolò come avrebbe fatto con un bambino: «Sì, sì, tesoruccio mio, mamma è cattiva con te, lo so, ma non si può fare diversamente. Tu devi rimanere qui…» Uscirono sul pianerottolo e attesero l’ascensore. Anna di solito si alzava dopo mezzogiorno, andava a fare shopping o dall’estetista, quindi si faceva sistemare i capelli dal parruc­chiere e infine, dopo una cena leggera, andava al lavoro al Mika. Satake cercava di trovare il tempo per accompagnarla nei vari spostamenti. Qualcuno della concorrenza prima o poi avrebbe potuto rubargliela. Erano appena entrati in ascensore quando il cellulare di Satake squillò di nuovo: «Sa­take-san?» «Ah, sei tu, Kunimatsu!» Satake diede uno sguardo ad Anna. Kunimatsu era il direttore del Parco. Anna ricambiò lo sguardo, poi lo posò con aria annoiata sulle unghie lacca­te delle mani, della medesima tinta di quelle dei piedi. «Cosa c’è?»

«Mi scusi per il disturbo, ma vorrei parlarle di una que­stione che riguarda il locale. Avrebbe un po’ di tempo oggi?» La voce acuta di Kunimatsu risuonava metallica nel piccolo apparecchio. Satake allontanò il cellulare dall’orecchio e ri­spose: «D’accordo. Vengo subito. Sto accompagnando Anna dal parrucchiere, ci possiamo vedere mentre lei è lì». «Dove?» «A Nakano. Prendiamo un caffè lì vicino». Fissato il luogo e l’ora dell’appuntamento Satake ripose il cellulare. L’ascensore era ormai al piano terra. Uscì per prima Anna e si girò con un sorriso seducente: «O-nii-chan, hai parlato con Mama-san?» «Sì, il tipo non metterà più piede al club, rilassati. Puoi continuare a lavorare in pace». «Bene», rispose Anna visibilmente sollevata, e da dietro le lenti colorate alzò lo sguardo verso di lui: «Ma anche se non potrà più entrare al club potrebbe sempre venire qui, no?» «Sta’ tranquilla. Ci sono io a proteggerti». «Ma io preferirei cambiare casa!» «Sì, lo so. Se continua ad andare avanti così mi farò veni­re in mente qualcosa, okay?» «Okay». «E al club come si comporta quel tizio?» Satake non si fa­ceva quasi mai vedere al Mika. «Ah, mi sta sempre addosso e si infuria se gli si avvicina un’altra ragazza», rispose Anna con una smorfia. «Ci mette tutte in imbarazzo. E poi ha cominciato a insistere per non pagare subito. Assurdo. Anche il divertimento ha il suo prez­zo, e le regole vanno rispettate», sentenziò con tono da sapu­tella accomodandosi sul sedile della Mercedes accanto a Sa­take. Sembrava una bamboletta graziosa, ma sapeva esatta­mente cosa voleva. Veniva da Shanghai, una purosangue in­dipendente, solida e con i piedi per terra. Viveva in Giappo­ne da quattro anni. Si era iscritta a una scuola di lingue e ogni sei mesi si faceva rinnovare il visto con la scusa di ap­profondire lo studio del giapponese. Accompagnata Anna dal parrucchiere, Satake andò al caffè dove aveva appuntamento con Kunimatsu. «Sono qui», lo chiamò alzando una mano l’uomo seduto a un tavolo appartato in fondo alla sala. «Mi spiace averla disturbata». Satake sedette sul soffice divano, accolto dal sorriso cor­diale di Kunimatsu che indossava pantaloni da golf e una po­lo. Sembrava un istruttore sportivo. Non aveva ancora com­piuto i quarant’anni, ma aveva una lunga esperienza di gio­co d’azzardo. Satake l’aveva scoperto quando lavorava in un circolo di majong della Ginza. «E allora, che succede?» chiese Satake accendendo una si­garetta e fissandolo dritto negli occhi. «Niente di particolare, ma sono un po’ preoccupato a causa di un cliente». «Oh, di che si tratta? Un poliziotto?» In quel mestiere chi si esponeva veniva colpito e non era detto che un poliziotto, informato del successo del Parco, non avesse avuto la malaugurata idea di fare di lui il capro espiatorio dell’organizzazione del gioco d’azzardo. «No, niente paura, il problema è un altro», Kunimatsu agitò la mano dalle lunghe dita. «Solo un cliente che viene ogni notte e continua a perdere». «Non c’è nessuno che giochi a baccarat e vinca sempre!» rispose ridendo Satake che vantava un’esperienza personale in quel campo. Rise anche Kunimatsu girando la cannuccia nell’aranciata. Né lui né Satake bevevano liquori. Satake trangugiò d’un sorso il suo caffè freddo. «Quanto ha perso?» «Mhm, negli ultimi due mesi quattro o cinque milioni. Non è ancora una grande somma rispetto

ai casi disperati, quando centinaia di milioni se ne volano via in un soffio». «Allora fa solo piccole puntate. Non mi sembra che ci sia di che preoccuparsi. Ma qual è il problema?» «Già, ieri, di punto in bianco, viene e mi chiede di anti­cipargli la posta». Generalmente nel casinò di Satake non si faceva credito ai giocatori di baccarat. Qualche eccezione era stata fatta con i clienti più affezionati, anticipando loro qualche centinaio di migliaia di yen. Forse l’uomo se n’era accorto. «Vogliamo scherzare? Buttalo fuori!» sbottò Satake con una smorfia. «È quello che ho fatto. Naturalmente con gentilezza ma con fermezza. Se fosse stato intelligente avrebbe capito che lo stavo minacciando. Lui invece se n’è andato imprecando co­me un carrettiere». «Non c’è altro da fare. Qual è la sua professione?» «È un semplice impiegato. Di una piccola azienda. Fosse solo per questo non l’avrei disturbata, Satake-san. Ma mi è venuto in mente che potesse essere quel cliente del Mika che dà dei fastidi e allora ho telefonato a Mama-san. E infatti mi ha confermato che è proprio lui. E che gli ha proibito di mettere ancora piede al club». «Ah, Yamamoto! Donne e anche denari, eh?» Satake sbuffò e schiacciò il mozzicone di sigaretta. Erano molti i clienti che perdevano la testa per le giovani e belle hostess ci­nesi. Ma la fine del denaro, come dice il proverbio, è la fine dell’amore. Invece quel Yamamoto tentava evidentemente di vincere a baccarat il denaro da spendere con la sua donna. O forse, sconvolto dall’aver dilapidato tutti i soldi con Anna, cercava di rifarsi giocando. A ogni modo quell’uomo aveva perso il senso della misura. Ormai sia il gioco che le donne non erano più un semplice divertimento. Ne aveva visti un mucchio come lui. Quel Yamamoto era una faccenda più se­ria di quanto avesse immaginato, una fonte di guai. Satake era preoccupato per il pericolo che quell’individuo avrebbe potuto rappresentare per Anna e per i suoi affari. «Perciò mi sono chiesto se non potrebbe scambiare qual­che parola con lui, lei che è il proprietario, nel caso che si ri­presentasse». «Va bene. Sembra che sia la cosa giusta da fare. Avvertimi quando arriva. E speriamo che qualche parola sia sufficiente con un tipo così». «Ah, su questo non ho dubbi. A prima vista lei sembra proprio uno yakuza! Vedrà che Yamamoto non si farà più ve­dere». Satake rise senza fare commenti, ma in un angolo oscu­ro dei suoi occhi sottili balenò una minaccia. Kunimatsu non se ne accorse e continuò a scherzare: «Davvero lei incu­te timore!» «Trovi?» «Se lo guarderà con questa espressione, vestito così, spa­rirà in un baleno, glielo garantisco!» aggiunse Kunimatsu ri­dendo. «Lei è capace di spaventare uno a morte!» «Ah sì? E perché, secondo te?» «Mah, forse perché lei sembra cordiale e tuttavia non si riesce mai a capire come regolarsi…» Lo squillo del telefonino di Satake interruppe la risata di Kunimatsu. «O-nii-chan? Qui ho finito, vieni a prendermi. Corri, presto!» Anna, la sua voce bassa che gli diceva «Corri, presto!» gli procurò un brivido gelato lungo la schiena. La donna gemeva sotto il corpo possente di Satake, com­pletamente imbrattato dal liquido scuro, caldo, denso e ap­piccicoso. Vischioso al tatto, strano… Il corpo della donna si stava ormai raffreddando e loro giacevano avvinghiati così strettamente da essere ormai fusi in uno… Lei oscillava tra l’estasi e la sofferenza. Satake sigillava con le sue le labbra del­la donna per farla tacere e non dover più udire quei gemiti indefinibili – i suoni del piacere o del dolore – e intanto affondava le dita nel buco che egli stesso aveva scavato nel suo fianco. Dalla ferita il sangue continuava a scorrere a fiot­ti e

tingeva tristemente il loro amplesso. Avrebbe voluto en­trare ancora più profondamente nella donna. Diventare tutt’uno con lei, sciogliersi in lei. Proprio nel momento in cui stava per raggiungere l’orgasmo, Satake allontanò le lab­bra dalla bocca della donna, che gli sussurrò all’orecchio: «Chiama il medico, corri, presto!» «Scordatelo. Taci!» Ricordava perfettamente anche il suono della propria voce. Satake aveva ucciso una donna. Quando era ancora al li­ceo aveva preso a bastonate il padre ed era scappato da casa per non tornarvi mai più. Era vissuto alla giornata, giocando a majong, e presto era stato accolto in un’organizzazione ma­lavitosa che controllava il giro della prostituzione e il traffico di anfetamine. A lui era stato affidato l’incarico di impedire la fuga alle prostitute, e un giorno accadde il terribile inci­dente. La donna che torturò a morte apparteneva a una se­dicente agenzia di collocamento, e aveva cercato di presenta­re una prostituta a un’altra organizzazione. Satake allora ave­va ventisei anni. Nessuno, né Kunimatsu, né Lì-huá, né An­na sapevano che era stato condannato e aveva passato in car­cere più di sette anni. Ed era esattamente questo il motivo per cui preferiva rimanere nell’ombra e affidare la gestione del club a Lì-huá e al cinese di Taiwan e quella della sala da gioco a Kunimatsu. Da allora erano trascorsi quasi vent’anni, ma ricordava perfettamente l’episodio. L’espressione del suo viso sotto le torture, il suono della sua voce. Sentì di nuovo un brivido giù per la schiena, come se lo accarezzassero le gelide dita striscianti della donna. Perché aveva dovuto uccidere prima di capire quali erano i suoi limiti, perché? Da una parte provava un grande rimor­so, dall’altra quell’esperienza gli aveva fatto prendere co­scienza per la prima volta della sua inclinazione al sadismo. Sapeva solo che torturare lo faceva godere profondamente e che l’ebbrezza che gli dava la vicinanza con la morte era esal­tante. «Sei andato troppo in là». Persino i suoi compagni, che non erano certo delicati con le donne e di solito non si tira­vano indietro di fronte a nessuna atrocità, lo avevano guar­dato con disgusto. Mai avrebbe dimenticato l’espressione di orrore e ripugnanza nei loro volti. Ma Satake era convinto che nessuno, oltre a lui e alla donna, avrebbe mai potuto ca­pire che cosa era veramente successo. In carcere le immagini ancora vivide di quel giorno, di come l’aveva portata alla morte, lo avevano a lungo torturato, ma non perché fosse schiacciato dai sensi di colpa… L’unico sentimento che lo riempiva era il desiderio di poter vivere ancora una volta quell’esperienza. Ma, ironia della sorte, uscito finalmente di prigione si era accorto di non essere più in grado di stare con una donna. Era diventato impotente. Dovette passare molto tempo pri­ma che riuscisse a capire che l’estasi provata con la donna che aveva ucciso era stata così esaltante e profonda da precluder­gli per sempre la possibilità di vivere altre esperienze. L’aver conosciuto il proprio limite aveva significato pre­cludersi ogni altro sogno. I suoi sogni erano ormai sigillati, e Satake faceva molta attenzione a non dischiuderli. Nessuno avrebbe potuto intuire la sua solitudine e il suo autocontrol­lo. Eppure le donne, ignare della sua vera natura, gli si offri­vano indifese, lo corteggiavano, tentavano di sedurlo. Ma non erano capaci di spezzare quei sigilli e per lui rimaneva­no soltanto dei graziosi animaletti da coccolare. L’unica donna che lo avesse veramente compreso, che era stata capace di trascinarlo nel paradiso e nell’inferno, era la donna che aveva ucciso, questo lo sapeva. Ormai avrebbe po­tuto godere di un amplesso soltanto nella fantasia. Ma ciò gli bastava. Non v’era ruffiano più gentile con le donne di lui. Perché nel suo animo era indelebilmente impresso il volto della donna uccisa. Il volto di una donna che aveva incon­trato un’unica volta. La vita era davvero bizzarra. Nonostan­te non avesse nessuna intenzione di aprire di nuovo il pen­tolone dell’inferno della propria anima, era bastata una pa­rola di Anna per spostarne un poco il coperchio. Satake si asciugò furtivamente il sudore dalla fronte in modo che Ku­nimatsu non se ne accorgesse.

Anna lo aspettava di fronte al parrucchiere. Satake le aprì la portiera e attese che si sedesse. Gli venne da ridere alla vi­sta della sua pettinatura, già in voga negli anni Settanta. «Che nostalgia! Quand’ero un ragazzo le donne si petti­navano tutte così». «Dev’essere stato molto tempo fa». «Già. Più di vent’anni. Tu non eri ancora nata». Satake la guardò con gli occhi socchiusi. Un miracolo, questo era per il mondo una donna così bella. Ed era anche intelligente e coraggiosa. E, come se non bastasse, negli ulti­mi tempi aveva raggiunto la superba consapevolezza di esse­re la migliore, al punto che da lei irradiava una dignità qua­si inaccessibile. Satake compativa in silenzio gli uomini che perdevano la testa per lei. Guidando lanciava lunghi sguardi al punto in cui le co­sce di Anna, fasciate dai pantaloni aderenti, si accavallavano. Si intuiva l’abbondanza di carni sode ma delicate. «Cerca di rimanere sempre così bella. Ti proteggerò io». Le sue parole sottintendevano che la bellezza è effimera e che con il trascorrere degli anni sarebbe stato costretto a cercare una nuova Anna. «Sì, allora dormi con me almeno una volta, O-nii-chan!» lo invitò la ragazza con un tono per niente scherzoso. Satake sapeva che i suoi dipendenti ignoravano il suo passato e lo consideravano un uomo refrattario a ogni seduzione. «Impossibile. Tu sei una merce preziosa». «Sono quindi una cosa?» «Sì, un giocattolo simile a un bel sogno». Nell’attimo in cui pronunciò la parola “giocattolo” gli riaffiorò alla mente il volto di quella donna, che subito svanì quando fu distratto dalle luci dei fanalini di coda dell’auto che lo precedeva. «Un giocattolo molto prezioso, destinato solo a uomini ricchi». «E a quello di cui mi innamorerò». «Ma tu, Anna, non lo farai, vero?» Satake la guardò in faccia. Anna, con un’espressione decisa, rispose: «Certo». Prese la mano destra di Satake appoggiata sul volante e la strinse delicatamente. Lui la riportò sulla sua morbida coscia. L’unica cosa che lo interessava era rendere ancora più bello quel giocattolo per offrirlo agli uomini che lo desideravano e manovrarlo abilmente. Lui doveva solo fare in modo che tut­to filasse liscio, e questo compito lo divertiva. Voleva che i due locali prosperassero, e perciò per prima cosa doveva to­gliersi dai piedi questo Yamamoto. Quella notte Satake stava uscendo dal suo appartamento in Shinjuku West quando Kunimatsu gli telefonò. «È appena arrivato Yamamoto. Dice che vuole puntare venti o trentamila yen. Cosa devo fare? Lo butto fuori?» «No, lascialo fare. Arrivo subito». Satake uscì. Indossava un completo grigio tagliato su mi­sura di seta cangiante, nuovo di zecca, e sotto alla giacca ave­va una camicia col colletto rigido. Posteggiò la Mercedes nel Batting Center di Kabuki-cho e quindi entrò al Mika. Anna, dal fondo del locale, fece un piccolo gesto di saluto con la mano. Il suo volto purissimo aveva assunto un’espressione professionale che le conferiva una grazia equivoca. Anche le altre hostess non erano da me­no, tutte splendide. Satake le passò in rassegna con grande soddisfazione e fece cenno a Lì-huá di raggiungerlo. Lei gli si avvicinò discretamente salutando i clienti seduti ai tavoli. «Mi scusi ancora per averla disturbata, oggi. Ho parlato subito anche con Kunimatsu. Grazie per averlo incontrato». «È stato un bene, non sapevo che il tipo trafficasse anche di sopra». «Già, e anche lì crea problemi». Lì-huá soffocò una risatina. Indossava un abito alla cine­se color giada. Sembrava più giovane e

più efficiente del so­lito, ma lo sguardo di Satake si posò su un vaso di fiori col­locato in un angolo. L’acqua era ancora torbida, e i fiori an­cor più appassiti. Tuttavia uscì dal locale senza dire niente, perché voleva vedere subito in faccia l’uomo che importuna­va Anna. Satake era in piedi davanti alla porta del Parco, intenzio­nalmente modesta per non dare nell’occhio. L’insegna al neon era spenta per timore di irruzioni, ma bastava aprire la porta per cogliere subito il tipico rumore e l’atmosfera ecci­tata di una casa da gioco. Entrò calmo nel locale e senza farsi notare lo ispezionò con lo sguardo. Era ampio circa una settantina di metri qua­dri, conteneva due tavoli di minibaccarat per sette ospiti ognuno e un tavolo regolare intorno al quale potevano acco­modarsi quattordici clienti. Tutti i tavoli erano al completo. I croupier, in uniforme nera, erano tre, Kunimatsu compre­so. Tre ragazze vestite da conigliette distribuivano bevande e rinfreschi. Erano tutti efficienti e indaffarati. Il croupier di uno dei minibaccarat riconobbe Satake e lo salutò con un’oc­chiata, continuando a distribuire velocemente le fiche di pla­stica. Satake annuì. Anche quel ragazzo, come lui, si era fat­to le ossa come giocatore professionista di majong, una scuo­la eccellente. Tutto nella sala sembrava andare per il meglio e Satake era soddisfatto. Il baccarat è un gioco semplice. I clienti scommettono sui giocatori o sul banco, e il croupier prende il cinque per cento di commissione sulle vincite del banco – il cosiddetto affitto del tavolo. Compito di un buon croupier è spingere i clienti a giocare uno contro l’altro. Le regole sono alla portata di tutti, la gente cade subito in preda all’ebbrezza del gioco e le punta­te aumentano velocemente: un gioco di successo. La clientela era costituita per lo più da giovani impiegati appena usciti dall’ufficio e tra loro c’erano molte donne. L’at­mosfera era elegante, non si poteva certo confondere con quella del retrobottega di un locale equivoco, tuttavia Satake era consapevole che più della metà dei suoi ospiti erano gio­catori incalliti e alcuni addirittura erano già stati interdetti. Insomma dei poveracci. Che comunque non potevano per­mettersi di creare confusione nel suo locale. «È lui. Ha finito anche stasera per perdere circa centomi­la», bisbigliò Kunimatsu indicando un uomo seduto in fon­do a un tavolo di minibaccarat. Sorseggiava un whisky e so­da e osservava, il mento appoggiato sulla mano, le puntate degli altri clienti. Satake rimase in un angolo a spiarlo di na­scosto. Poteva avere più o meno trentacinque anni. Camicia bianca a mezza manica, cravatta ordinaria, pantaloni grigi. Una faccia comune, assolutamente insignificante. Sembrava un impiegato qualsiasi. E dunque era questo zero assoluto che si era innamorato di Anna? Ma che cosa si era messo in mente? La ragazza ave­va solo ventitré anni ed era indiscutibilmente la più affasci­nante tra tutte le sofisticate bellezze del Mika. Come aveva detto Anna ogni piacere ha le sue regole, esattamente come il baccarat. A Satake, che abitualmente aveva un grande au­tocontrollo, bastava vedere un cliente come Yamamoto per diventare furioso. La partita si avvicinava alla fine. Ancora uno o due giri e le carte sarebbero state esaurite. Yamamoto finalmente si decise e puntò tutte le fiche che gli erano ri­maste sul giocatore. Tutti gli altri puntarono allora sul ban­co. Era da molto che avevano fiutato la sua sfortuna e non volevano fare la stessa fine. Il croupier continuava a distri­buire velocemente le carte con aria impassibile. «Che idiota, un giocatore senza speranza!» brontolò Sa­take tra sé e sé, mentre Kunimatsu, fermo accanto a lui, soffocava una risata. Il croupier del tavolo di Yamamoto fu sostituito da una ragazza. Anche alcuni giocatori si alzarono e altri presero il loro posto. Ma l’uomo, nonostante non avesse più una fiche, rimase ostinato a sedere. Una donna, probabilmente una squillo, in piedi dietro di lui lanciò a Ku­nimatsu un’occhiata in cerca di aiuto. Adesso è maturo, pen­sò Satake, fece un cenno d’intesa a Kunimatsu e si avvicinò a Yamamoto. «Mi scusi, signore…» «Che c’è?»

Yamamoto si voltò sorpreso a guardare Satake, la sua staz­za robusta, l’espressione cordiale, lo stile inconfondibile: tut­to prometteva guai. Ma la sua espressione caparbia rimase immutata. Evidentemente i suoi sensi erano già completa­mente intorpiditi. «Se non gioca più, le volevo chiedere di essere così genti­le da cedere il posto alla signora». «E perché?» «Perché sta aspettando il suo turno». «Può anche stare lì a guardare!» Yamamoto era ubriaco. Doveva essersi servito senza com­plimenti del whisky e soda che veniva offerto gratis nel loca­le. Davanti a lui era sparsa la cenere delle sigarette che aveva fumato. Satake chiamò il giovane vicedirettore, gli disse di ri­pulire il tavolo da gioco e si rivolse a voce bassa a Yamamo­ to: «Mi scusi, ma se mi segue avrei qualcosa da dirle». «Me lo può dire anche qui!» Gli altri giocatori lo guardarono stupefatti. Alcuni, evi­dentemente impauriti, non osavano neppure alzare la testa. «No. Mi segua, la prego». Satake scortò Yamamoto che sbuffava ostentatamente fuori dal locale e lo affrontò nella penombra del corridoio. «Lei ieri ha chiesto del denaro in prestito, ma noi non possiamo soddisfare la sua richiesta. Se non ha denaro per giocare cerchi di trovarlo altrove prima di tornare qui». «Ah, proprio un bel servizio! Che sfacciataggine!» rispose Yamamoto imbronciato come un bambino. «Esattamente, questo è un buon servizio. E ancora una cosa: in futuro faccia a meno di importunare Anna. È anco­ra giovane e ha paura». «Che diritto ha lei di dirmi queste cose?» Offeso, Yama­moto contorse il viso in una smorfia. «In fondo sono un vo­stro cliente! Ma lo sa quanti soldi vi ho lasciato?» «Grazie. Ma la smetta di dare fastidio alla ragazza. Fuori dal locale le nostre donne sono tabù». «Vale a dire?!» grugnì Yamamoto con disprezzo. «Mi vie­ne da ridere! Ma se sono tutte puttane!» Satake perse il controllo e scandì chiaramente: «Tu non la toccherai mai più nemmeno con un dito, amico, capito? E adesso squagliati e non farti più vedere. Lo riesci a capire o no, imbecille?» «Come osi parlarmi così, pezzo di merda!» improvvisa­mente Yamamoto cercò di colpire Satake, che parò il colpo con il braccio sinistro e lo prese per il colletto. Poi gli ficcò il ginocchio tra le gambe e lo spinse contro la parete. Incapace di reagire, Yamamoto pendeva come inchiodato al muro e annaspava in cerca di aria. Un gruppo di impiegati stava salendo le scale. Li videro e indugiarono prima di entrare nel Parco. Satake allentò la pre­sa. Non voleva influenzare negativamente l’andamento degli affari, sarebbe stato imbarazzante se per assurdo si fosse spar­sa la voce che il locale era gestito dalla malavita. Questo piccolo momento di distrazione fu sufficiente e Yamamoto ne approfittò per colpirlo al mento con un pu­gno. Satake mugghiò per il dolore. «Per te è finita, verme, adesso ti sistemo io!» Satake, fuori di sé per l’ira, gli diede una violenta gomi­tata allo stomaco e lo scaraventò giù dalla scala. Lo vide vor­ticare su se stesso e atterrare sul pianerottolo. Il sangue gli pulsava nelle orecchie e per un attimo provò ancora il fresco senso di piacere di quando da giovane passava da una rissa al­l’altra. Un solo istante e riprese il proprio autocontrollo, soffocando quelle emozioni. «Se ti vedo qui ancora una volta, ti ammazzo!» Satake non avrebbe potuto dire se Yamamoto aveva capi­to bene la minaccia, perché quello continuava a sedere lì in fondo alle scale stordito, asciugandosi la bocca insanguinata. Proprio in quel momento due ragazze che stavano salendo si misero a strillare e fecero dietrofront. Dannazione, adesso

aveva anche spaventato le ragazze. Questa fu l’unica cosa che pensò mentre si riaggiustava le pieghe del vestito. Non pote­va naturalmente immaginare che cosa il destino avesse riser­vato a Yamamoto per quella sera. 4 Quartiere di divertimento nel distretto di Shinjuku, a Tokyo (N.d.T.).

5. Odio, odio puro, ecco quello che provava. Yayoi Yamamoto contemplava la propria immagine nuda nel grande specchio. Al centro del suo candido corpo di tren­taquattrenne spiccava, all’altezza dello stomaco, un livido bluastro quasi circolare. Quello era il punto in cui suo mari­to Kenji, la sera precedente, l’aveva colpita con un pugno. Era stato questo fatto a risvegliare quel sentimento nel suo animo. O forse no, c’era già da tempo. Yayoi scosse più volte la testa, e così fece la donna nello specchio. C’era già da tempo. Ma fino ad allora non era riuscita a dargli un nome. Appena ebbe un nome, quel sentimento parve allargarsi come una nube nera e densa di pioggia e si impossessò in un batter d’occhio del suo cuore. Dove ora non c’era altro che odio puro. «Non glielo perdonerò mai!» Appena le parole le vennero alle labbra, le si riempirono gli occhi di lacrime che traboc­carono sulle guance e fluirono tra i seni piccoli ma ben for­mati. Quando raggiunsero lo stomaco venne nuovamente as­salita da un dolore che le toglieva il respiro e le piegava le gi­nocchia, così si lasciò cadere sul tatami. Le faceva male, sem­plicemente male. Bastava un soffio che le sfiorasse la pelle, o una lacrima. Niente e nessuno avrebbe potuto lenire quella sofferenza. I bambini che dormivano sui piccoli futon dovevano ave­re percepito qualcosa, perché incominciarono ad agitarsi. Yayoi si alzò di scatto, si asciugò le lacrime con la mano e si avvolse in fretta in un telo da bagno. In nessun caso i bambi­ni dovevano vedere il livido, e neppure la mamma che pian­geva. Si sentì terribilmente sola e seppe che da sola avrebbe dovuto cavarsela in questo mondo spaventoso, da sola avreb­be dovuto porre fine ai maltrattamenti di Kenji. Di nuovo le salirono le lacrime agli occhi. La cosa che più la feriva era che fosse proprio l’uomo su cui avrebbe dovuto poter contare a procurarle tutti i suoi guai. Come avrebbe potuto uscire da quell’inferno? Non lo sapeva proprio. Combatté contro l’im­pulso di mettersi a piangere come un bambino. Il più grande, che aveva cinque anni, aggrottò la fronte nel sonno e si girò dall’altra parte. Anche il piccolo – tre an­ni – si girò e si mise a pancia in su. Senza far rumore Yayoi si allontanò dallo specchio, uscì dalla stanza e chiuse con cautela la porta scorrevole, pregando in cuor suo che i bam­bini continuassero a dormire tranquilli. A passi felpati andò in soggiorno e si mise a cercare in mezzo alla montagna di biancheria appena lavata, appoggia­ta sul tavolo da pranzo in attesa di essere piegata. Tirò fuori un paio di mutandine e un reggiseno da pochi soldi com­prati in saldo al supermercato. Ripensò alla biancheria im­preziosita da meravigliosi pizzi che era solita acquistare pri­ma di sposarsi. Per far piacere a Kenji. Allora non si sarebbe neppure sognata che quello era il futuro che l’aspettava. Uno stupido marito che aveva perso la testa per una donna che non poteva avere, e una moglie – lei – che lo odiava. Due individui sulle sponde opposte di un grande fiume, separati da nere acque profonde che non sa­rebbero mai riusciti ad attraversare. Non avrebbero camminato più sulla stessa sponda, perché lei non l’avrebbe mai perdonato. Anche oggi probabilmente non sarebbe tornato a casa prima che lei uscisse per andare al lavoro. Per Yayoi era stra­ziante lasciare soli i bambini – soprattutto il più grande che era estremamente sensibile e vulnerabile –, poteva solo spe­rare che il loro inaffidabile padre non tornasse troppo tardi. Come se non bastasse erano già tre mesi che Kenji non portava a casa uno yen. Riusciva a malapena a provvedere a se stessa e ai bambini con la misera paga del turno di notte che portava a casa. Che razza di situazione! Un marito finito, che rientrava alla chetichella e striscia­va fino al suo futon quando lei era già uscita. Le infinite di­scussioni, sempre uguali, al mattino, quando lei tornava a ca­sa stanca morta. Gli sguardi freddi e taglienti che si lancia­vano a vicenda. Non ce la faceva più! Yayoi fece un profon­do sospiro e si chinò per infilarsi gli slip e immediatamente sentì una fitta lancinante all’addome. Senza

volere cacciò un urlo. Il gatto Milky, che dormiva acciambellato sul divano, sollevò il musetto, raddrizzò le orecchie e la guardò. La sera prima, per la paura, si era nascosto sotto il divano e aveva lanciato un lungo, sordo miagolio. Al ricordo Yayoi impallidì e venne sopraffatta da un’on­data di odio e di ira. Fino ad allora non aveva mai provato sentimenti così cupi nei confronti di un’altra persona. Era fi­glia unica, cresciuta sotto l’ombra protettiva dei genitori, una vita tranquilla in una piccola città di provincia. Dopo aver frequentato il liceo a Yamanashi, si era trasfe­rita a Tokyo e aveva trovato un posto come segretaria presso un’azienda che produceva mattonelle. La dolce, graziosa Yayoi era adorata da tutti gli impiegati della ditta, che la portavano in palmo di mano. Se ci pensa­va adesso, quello era stato il periodo più bello della sua vita. Allora non aveva che l’imbarazzo della scelta, ma si era inna­morata di Kenji, il rappresentante di un piccolo fornitore, che andava avanti e indietro dall’ufficio. Perché lui le aveva fatto una corte appassionata. Il periodo del fidanzamento era stato un sogno meraviglioso: Kenji l’aveva messa su un pie­distallo e la adorava, le dipingeva un futuro dagli splendidi colori e le prometteva il paradiso sulla terra. Ma subito dopo le nozze il suo sogno di principessa si era spezzato. Kenji aveva incominciato a bere e a giocare e stava fuori sempre più a lungo. Che fosse un uomo sempre attrat­to dalle donne più irraggiungibili lo aveva capito molto pre­sto. Anche lei era stata desiderata solamente perché era la dolce mascotte della ditta. Una volta che era diventata sua, l’interesse per lei era immediatamente svanito. Era un infeli­ce sempre a caccia di sogni impossibili. Questo era Kenji, suo marito. La sera precedente, per qualche strano caso Kenji era rientrato un po’ prima delle dieci. Yayoi era in cucina e sta­va lavando i piatti cercando di non fare rumore per non sve­gliare i bambini che si erano finalmente addormentati. Ebbe come un presentimento e si girò: Kenji era lì, fermo in piedi dietro di lei. Aveva lo sguardo fisso sulla sua schiena e un’a­ria cupa, come se guardasse qualcosa di estremamente odio­so. Yayoi, sbigottita, lasciò cadere la spugnetta bagnata nel la­vello. «Mi hai spaventata!» «Perché? Speravi che fossi un altro?» Kenji non era ubria­co, tuttavia era di pessimo umore, ma lei era ormai abituata alle sue lune. «Se vuoi proprio saperlo, sì! Ormai ti vedo soltanto quan­do dormi», sibilò sarcastica strizzando la spugnetta – avreb­be voluto non vedere più quel brutto muso. «Com’è che sei tornato così presto?» «Ho finito i soldi». «Come se non lo sapessi! Sono settimane che non porti più a casa uno yen!» Continuava a voltargli le spalle, ma in­tuiva il suo sorrisetto sarcastico. «Adesso li ho davvero finiti. Ho svuotato anche il libret­to di risparmio». «Svuotato?» ripeté Yayoi con voce tremante. Fra tutti e due erano riusciti a risparmiare più di cinque milioni. Anco­ra un po’ di pazienza e sarebbero stati in grado di comprarsi una casa. A che scopo aveva sfacchinato in fabbrica per tut­to quel tempo? «No, non può essere! Come è possibile, se ti sei sempre tenuto tutto quello che guadagnavi?!» «Il gioco. Il baccarat». «Vuoi scherzare, vero?» Non sapeva più cosa dire. «No». «Ma non erano tutti soldi tuoi!» «Se è per questo nemmeno tuoi». Poiché lei era ammutolita per la sorpresa, lui ne appro­fittò per proseguire: «Devo andarmene, eh? Sarebbe meglio, non è vero? Dai, dillo una buona volta!» Che cosa gli dava il diritto di essere così arrogante? Che cosa gli era andato per traverso? Perché ogni volta che torna­va a casa doveva coinvolgere la famiglia nelle sue beghe? In un’altra occasione non ci avrebbe fatto caso, avrebbe soppor­tato in silenzio, ma questa volta era davvero

troppo, questa volta doveva combattere. Rispose glaciale: «Andartene non ti servirà a niente, credimi!» «E cosa dovrei fare, eh? Dai, dimmelo tu!» La voleva mettere davanti al fatto compiuto, aveva la menzogna scritta in faccia. E ne era perfettamente cosciente, pensò Yayoi furiosa e disse: «Chissà che ti pianti presto! È lei la causa di tutto!» Improvvisamente sentì qualcosa di duro e pesante che la colpiva all’addome. Il dolore la fece quasi svenire e cadde sul pavimento. Respirava a fatica e si contorceva dal male, ma non riusciva a capire che cosa era successo. Gemeva tutta rannicchiata su se stessa quando un calcio la colpì sulla schie­na. Allora urlò. Kenji le gridò dietro un insulto e si diresse verso il bagno massaggiandosi la mano destra. Allora capì che era stato lui a colpirla con un pugno. Rimase sdraiata sul pavimento, tre­mante di dolore. Sentì giungere dal bagno il rumore dell’ac­qua che scrosciava. Quando finalmente riuscì a respirare, sollevò la T-shirt con la mano insaponata – evidentemente aveva continuato a stringere la spugnetta – e vide una macchia bluastra che si al­largava sull’addome. Le parve il segno che sigillava la fine del loro matrimonio. Respirò a fondo. In quel momento la por­ta scorrevole della camera da letto si aprì e vide Takashi, il primogenito, che la guardava impaurito. «Che succede mamma?» «Niente, sono solamente caduta. È tutto a posto, torna a dormire tranquillo, okay?» Per fortuna era riuscita a trovare qualcosa da dire. Tutta­via Takashi doveva avere capito e richiuse la porta senza far rumore: si preoccupava di non svegliare il fratellino! Se an­che un bambino così piccolo aveva queste premure nei con­fronti degli altri, come era possibile che un adulto come Kenji si comportasse così? Era diventato un’altra persona. O forse era sempre stato così? Yayoi, la mano premuta sullo stomaco, riuscì a sedersi al tavolo. Controllò il dolore stringendo i denti e si concentrò sulla respirazione. Sentì un fracasso provenire dal bagno – Kenji doveva avere dato un calcio al secchio di plastica. Ades­so se la prendeva anche con gli oggetti, pensò. Fece un sorri­so amaro e nascose il viso tra le mani. Era furiosa, ma so­prattutto annichilita: non riusciva a capire come aveva potu­to sposare un uomo di quel genere. Quando si risvegliò dai suoi pensieri si accorse di avere addosso ancora solo la biancheria intima. Si infilò una polo e un paio di jeans. Negli ultimi tempi era dimagrita e i pan­taloni le scivolavano sui fianchi. Cercò una cintura per te­nerli su. Aveva poco tempo prima di uscire. Avrebbe preferito non andare a lavorare, ma Masako e la maestra si sarebbero preoccupate. Masako. Niente le sfuggiva, notava subito ogni minimo cambiamento. In un certo senso le faceva paura, tut­tavia aveva assolutamente bisogno di confidarsi con lei. Per­ché proprio lei? Perché era affidabile. Se c’era qualcuno al mondo che non ti avrebbe mai piantata in asso, quella era Masako. Rinfrancata Yayoi si rimise in movimento. Udì un rumore in ingresso. Kenji? Rimase immobile ad ascoltare – niente, non arrivava. Che fosse un intruso che cercava di entrare in casa? Corse nell’ingresso. Kenji era se­duto sulla soglia e le voltava le spalle. Teneva la schiena cur­va e guardava il pavimento davanti a sé. La camicia era spor­ca. Non si era accorto della sua presenza, perché rimase im­mobile. A Yayoi ritornarono in mente gli avvenimenti della sera prima e all’improvviso sentì l’odio ribollire in sé. Se almeno non fosse più tornato a casa! Non lo voleva più vedere! «Ah, sei tu…» Kenji si voltò. «Com’è che sei ancora qui?» Che avesse fatto a pugni? Aveva le labbra gonfie e san­guinava. Tuttavia Yayoi non disse niente e rimase immobile come se avesse messo radici. Non sapeva come fare a conte­nere l’impetuosa corrente di odio che la attraversava. Kenji brontolò: «Be’, cos’hai da guardare? Una volta tan­to potresti anche essere carina con

me!» In quell’istante la pazienza di Yayoi si ruppe come un fi­lo. Veloce come un fulmine si tolse la cinghia dei pantaloni e la strinse attorno al collo del marito. «Ehi!» esclamò sorpreso Kenji cercando di voltarsi a guar­darla. Ma Yayoi continuò a tirare con forza, obliquamente, verso di sé. Kenji tentò di afferrare la cintura, ma ormai non c’era più spazio per le dita, la cinghia gli era penetrata nella carne del collo. Yayoi lo guardò con calma mentre tentava af­fannosamente di strappare la cintura. Quindi tirò verso di sé con tutte le sue forze. Era buffo vedere come il collo di Kenji si piegava all’indietro e le mani, che avevano ormai smesso di cercare di afferrare la cintura, annaspavano nell’aria. Doveva soffrire di più. Un uomo così non meritava di stare al mon­do, non lo voleva più tra i piedi. Yayoi puntò il piede sinistro ancora nudo sul pavimento e premette il destro sulla spalla del marito per spingerlo in avanti. Dalla gola dell’uomo usci­va un rantolo simile al verso di una rana. Che bella sensazio­ne! Era incredula, stupefatta della forza furiosa e della cru­deltà di cui era capace. Non sapeva da dove le venivano, ma di una cosa era certa: il godimento che ne traeva era infini­tamente rigenerante e liberatorio. Kenji era alla fine. I piedi ancora calzati, le gambe ab­bandonate storte sul pavimento di cemento dell’ingresso, ac­casciato sulla soglia, la testa tutta girata. «No, non ti perdono. Non ti voglio perdonare». Yayoi continuava a stringere sempre più forte. Crepasse pure qui, sul posto, pensava. Aveva in mente solo una cosa: non vole­va più vedere la sua faccia, ascoltare i suoi discorsi, questo era quello che voleva con tutta se stessa. Chissà quanti minuti erano trascorsi. Kenji giaceva sulla schiena e non si muoveva più. Yayoi gli mise la mano sul col­lo per sentire le pulsazioni. Niente. Sul davanti dei pantalo­ni si allargava una macchia bagnata, evidentemente se l’era fatta addosso. Yayoi rise. «Eri tu che dovevi essere carino con me!» Non sapeva quanto tempo era rimasta lì seduta a fissarlo. Tornò in sé udendo il basso miagolio di Milky. «Che faccio adesso, piccolo Milky? L’ho ucciso», mor­morò e il gatto bianco miagolò più forte. Anche Yayoi fece un gridolino. Aveva fatto qualcosa da cui non si poteva tor­nare indietro. Ma non provava rimorso, neanche un po’. An­dava bene così, non poteva fare altro, era la cosa giusta da fa­re, continuava a ripetersi. Tornò in soggiorno e osservò con freddezza l’orologio al­la parete. Erano le undici in punto. Ora di andare a lavora­re. Telefonò a Masako. «Katori». Masako in persona, per fortuna. Yayoi respirò profonda­mente e disse: «Sono io, Yayoi Yamamoto». «Ah, sei tu, Yama-chan? Che c’è, non vieni a lavorare?» «Non so. Non so cosa devo fare». «Perché?» La voce di Masako era preoccupata. «È succes­so qualcosa?» «Sì», incominciò Yayoi, e poi, decisa: «L’ho ucciso». Dopo un breve silenzio Masako domandò quieta: «È la verità?» «Certo, la verità. L’ho appena strangolato». Masako tacque di nuovo. Il silenzio fu più lungo, quasi mezzo minuto, tuttavia Yayoi intuiva che l’amica non era spaventata, stava semplicemente pensando. Come per dimostrarlo Masako chiese infine, con voce ancora più calma: «E cosa vorresti fare?» In un primo momento Yayoi non comprese il senso del­la domanda e rimase muta. Masako continuò: «Voglio dire tu che cosa vuoi fare? Ti aiuterò». «Io? Io voglio semplicemente continuare a vivere come prima. I bambini sono ancora piccoli…» Non fece in tempo a terminare la frase che gli occhi le si riempirono di lacrime. Finalmente

il nodo si era sciolto. Masako l’interruppe: «Ho capito. Ti raggiungo subito. Ma dimmi, qualcuno ti ha vista?» «Non lo so…» rispose, poi girò la testa e vide Milky che si era riparato sotto il divano. «Soltanto il gatto». «Ah, bene, il gatto», commentò la voce amichevole di Masako soffocando una risata. «A ogni modo aspettami». «Grazie». Yayoi depose la cornetta e si accovacciò sul pa­vimento. Le ginocchia le premevano sullo stomaco, ma or­mai non sentiva più male.

6. Masako rimise a posto la cornetta, guardò la data sul calen­dario appeso alla parete ed ebbe l’impressione di vedere dop­pio. Era la prima volta che le girava la testa per l’emozione. La notte prima si era preoccupata per le condizioni di Yayoi, ma non avrebbe mai voluto essere costretta a mettere il naso negli affari degli altri. Eppure si era appena offerta di aiutarla. Aveva agito saggiamente? Masako si appoggiò con le mani alla parete finché non vide di nuovo chiaramente, quindi si voltò per assicurarsi che non ci fosse qualcuno nel­la stanza. Suo figlio Nobuki, che fino a poco prima era sdraiato sul divano del soggiorno a guardare la televisione, non c’era più. Doveva essersi ritirato nella sua camera al piano superiore senza che lei se ne accorgesse. Yoshiki, il marito, si era fatto una tisana per dormire ed era già andato a coricarsi, dunque non doveva temere che qualcuno avesse ascoltato la conversazione. Sollevata si mise a riflettere sul da farsi. Tuttavia non c’era tempo. Doveva agire rapidamente. Decise che avrebbe meditato sul problema mentre guidava. Strinse in mano la chiave dell’auto e urlò a Nobuki: «Va­do a lavorare, sta’ attento a non dare fuoco alla casa!» Nessuna risposta. Masako sapeva che ultimamente No­buki aveva cominciato a bere di nascosto e a fumare. Avreb­be dovuto tenerlo d’occhio. In estate avrebbe compiuto diciassette anni e non aveva la benché minima idea di che co­sa voleva fare: nessuna prospettiva e nessuna passione. All’inizio della primavera era stato sorpreso a scuola con dei biglietti per un party. La direzione lo aveva accusato di aver cercato di venderli ai compagni e lo aveva espulso. Que­sta punizione esemplare era stata un trauma per il ragazzo, che si era rifugiato in un ostinato mutismo. Nessuno sapeva più come accedere al suo cuore. Probabilmente lui stesso era imbarazzato per lo spessore della porta che si era chiuso alle spalle, ma era passato il tempo in cui Masako aveva cercato disorientata una chiave che aprisse quella porta. Ora Nobuki lavorava come muratore senza perdere una giornata, e lei do­veva accontentarsi. Quelli con i figli erano legami difficili, che non si potevano sciogliere neppure quando le cose anda­vano diversamente da come si era previsto. Masako si fermò davanti alla camera a lato dell’ingresso. Udì il lieve russare del marito oltre la porta di compensato. Da quando aveva preso l’abitudine di dormire in quella ca­mera a nord che lei avrebbe voluto usare come ripostiglio? Masako rimase per qualche istante ferma in corridoio a pen­sare. Avevano incominciato a dormire in camere separate pri­ma di traslocare in quella casa, quando lei era ancora impie­gata nella vecchia ditta. Era ormai molto tempo che non le sembrava più innaturale, triste o strano che tutti e tre dor­missero in stanze diverse. Yoshiki, suo marito, lavorava per un’impresa edile appar­tenente a un grande gruppo immobiliare e svolgeva un inca­rico di tipo commerciale. Il nome dell’azienda era famoso, ma in realtà la filiale era segnata dalla recessione e i dipen­denti soffrivano di un forte complesso di inferiorità nei con­fronti della casa madre. Così le aveva spiegato una volta. Ma Masako non sapeva come gli andavano gli affari, perché lui storceva la bocca non appena lei accennava al suo lavoro. Il marito aveva due anni più di lei e si erano conosciuti al liceo. Lei amava la straordinaria bontà che gli era propria e che si poteva definire come una sorta di purezza del cuore. Yoshiki odiava ingannare o sopraffare il prossimo e non era adatto a quel tipo di lavoro. Infatti era ancora un semplice impiegato: da un pezzo aveva rinunciato alla carriera. Certa­mente soffriva di quella condizione, della propria incapacità di adattarsi al mondo. Nei giorni festivi tendeva a isolarsi nella sua camera come un eremita, un comportamento simi­le in qualche modo a quello del taciturno Nobuki. Masako se ne era accorta, e aveva incominciato a evitare di parlargli se non quando era strettamente necessario. Il figlio che era stato espulso dalla scuola e si era rinchiu­so nel mutismo, il marito con la preoccupazione del lavoro, lei che aveva dovuto abbandonare il suo impiego ed era fini­ta ai turni di

notte: ciascuno di loro era costretto ad affron­tare la realtà e a portare il proprio fardello da solo, così come da soli dormivano nelle loro stanze. Yoshiki non aveva mai espresso la propria opinione sul fatto che lei avesse accettato quel lavoro part-time nello sta­bilimento dopo avere cercato a lungo e inutilmente un altro impiego. Masako sapeva che non era il coraggio quello che gli mancava: aveva semplicemente smesso di combattere e aveva invece incominciato a costruire un bozzolo in cui rin­chiudersi. Un bozzolo in cui Masako stessa non poteva en­trare. Le dita del marito, che da lungo tempo non la sfiora­vano più, lavoravano senza sosta per costruire una fortezza. La sua inclinazione a escludere dalla propria vita la moglie e il figlio, come se appartenessero al mondo esterno, feriva profondamente Masako. Se non riusciva neppure a gestire la propria situazione fa­miliare, perché si impicciava degli affari di Yayoi? Scontenta di sé aprì la sottile porta del vestibolo e uscì. Faceva molto più fresco della notte precedente, e una luna rossa era sospe­sa nel cielo. Masako lo interpretò come un cattivo presagio e distolse lo sguardo. Poco prima Yayoi aveva ucciso il marito. Non era forse inequivocabilmente un cattivo presagio? La Corolla era posteggiata nello stretto spazio sotto il portico della piccola casa. Masako scivolò agilmente nello spazio lasciato libero dalla portiera che non si apriva del tut­to, e mise in moto. Nel silenzio della notte il rombo del mo­tore sembrò risuonare più forte del solito nel quartiere cir­condato da campi. Più che le eventuali lamentele per il ru­more da parte dei vicini, la preoccupavano le chiacchiere che sarebbero circolate perché era uscita così tardi. La casa di Yayoi era abbastanza vicina allo stabilimento, a Musashi-Murayama. Prima di posteggiare come al solito nel parcheggio della fabbrica, avrebbe dovuto avvicinarsi di nascosto alla casa dell’amica. Improvvisamente si ricordò dell’appuntamento con Kuniko. Avevano stabilito di trovarsi ogni sera alle undici e mezza al parcheggio, per proseguire a piedi insieme fino allo stabilimento. Oggi sarebbe arrivata in ritardo. Sperava soltanto che Kuniko, sospettosa e intuitiva com’era, non fiutasse qualcosa. Ma era inutile arrovellarsi così: forse i vicini sapevano già che cosa era accaduto nella casa degli Yamamoto e forse Yayoi era già andata dalla polizia. Inoltre poteva anche darsi che si fosse inventata tutto. Masako premette a fondo l’acce­leratore. Dal finestrino dell’auto entrava il dolce profumo dei ce­spugli di gardenia lungo la strada, per poi dileguarsi in un baleno nel buio. Anche la sua compassione per Yayoi stava dileguando, e a tratti le balenava nella mente l’espressione “fastidio”: che cosa pretendeva l’amica da lei? L’avrebbe guar­data in faccia e poi avrebbe deciso se aiutarla o meno. Davanti al muro di cemento all’angolo del vicoletto in cui abitava Yayoi scorse un’ombra bianca. Una donna. Ma­sako frenò immediatamente. «Masako-san!» la chiamò Yayoi disperata. Indossava una polo bianca e dei jeans troppo larghi. La maglietta bianca spiccava nel buio della notte e la faceva sembrare così fragile e bisognosa di aiuto che Masako dovette deglutire. «Cosa fai qui?» «È scappato il gatto!» Yayoi, in lacrime, era ferma accan­to all’auto. «I bambini gli sono così affezionati, ma adesso ha paura di me, perché ha visto che cosa ho fatto, ed è scappato!» Masako tacque e si premette l’indice sulle labbra. Final­mente Yayoi sembrò capire e si guardò intorno. Le dita ap­poggiate al finestrino dell’auto tremavano impercettibilmen­te. Nell’attimo in cui se ne accorse Masako decise di aiutarla a uscire dai pasticci. Riprese a guidare lentamente osservando dal finestrino le case intorno. Erano le ventitré di un giorno lavorativo e nel­la maggior parte delle abitazioni brillavano soltanto le tenui luci delle camere da letto. Regnava un grande silenzio. La notte era fresca e molte finestre erano aperte, segno che l’a­ria condizionata non era stata messa in funzione. Bisognava fare attenzione ed evitare i rumori. Yayoi portava i sandali e Masako era preoccupata per il ticchettio dei suoi passi.

La casa degli Yamamoto si trovava proprio in fondo al vi­colo. Era a un solo piano, costruita circa quindici anni pri­ma, piccola e brutta. E inoltre l’affitto era caro. Si sapeva che Yayoi e il marito avevano risparmiato per anni per potersene andare. Ma tutto ciò era ormai inutile. La gente a volte si comporta in modo strano, come spin­ta da un impulso ineluttabile, pensò Masako. Che cosa dun­que aveva spinto Yayoi ad agire così? Si era forse infuriata per un tradimento del marito, a sua volta mosso da qualche stra­no impulso? Quelli erano i pensieri di Masako mentre scen­deva dall’auto senza fare rumore e guardava l’amica arrivare di corsa. «Non ti spaventare adesso, va bene?» disse Yayoi, improv­visamente riluttante, aprendo la porta di casa. Non alludeva a ciò che aveva fatto, bensì alla vista che si offriva subito die­tro la porta. Kenji giaceva esanime afflosciato su se stesso, la cintura di pelle marrone stretta ancora intorno al collo, la lingua che spuntava tra le labbra, gli occhi semiaperti e la faccia di un pallore cadaverico. Masako, che aveva temuto di non reggere allo shock, fu stupita dalla propria reazione fredda e tranquilla quando si trovò di fronte al cadavere. Forse perché non aveva mai co­nosciuto di persona Kenji, il suo corpo senza vita non le sem­brava altro che quello di un uomo immobile, dal viso stra­namente rilassato. Soltanto non riusciva ad abituarsi all’idea che Yayoi, che tutti consideravano una moglie esemplare e una madre amorevole, fosse diventata un’assassina. «È ancora caldo», Yayoi sfiorò con la mano la gamba che spuntava dai calzoni rimboccati. Come per sincerarsi che fosse davvero morto gli passò più volte la mano sullo stinco. «È proprio vero», commentò con voce cupa Masako. «Credevi che ti avessi raccontato una bugia? Sai che non sono capace di mentire!» Yayoi sorrise e il suo sorriso contra­stava con la cupezza di Masako. O forse non aveva sorriso, forse era solo una smorfia. «E adesso cosa vuoi fare? Davvero non vuoi costituirti?» «No», Yayoi scrollò risoluta la testa, «forse sono impazzi­ta, ma non ho assolutamente l’impressione di aver fatto qual­cosa di male. Mi sembra giusto che sia morto. Se l’è merita­to. Perciò ho deciso che lui non è tornato in casa, che è spa­rito da qualche parte». Masako meditò e guardò l’orologio. Erano quasi le venti­tré e venti. Prima delle ventitré e quarantacinque dovevano essere in fabbrica. «C’è molta gente che sparisce e non torna più. Ma dav­vero nessuno lo ha visto rincasare?» «Non credo. Tra qui e la stazione non c’è mai nessuno per strada». «Ma se prima di tornare avesse telefonato a qualcuno? Per te sarebbe finita». «Potrei sempre dire che però non è tornato a casa», ribatté ostinatamente Yayoi. «Sì? Sei sicura di poter continuare a fingere anche quan­do ti interrogherà la polizia?» «Certo, vedrai. Te lo dimostrerò. Perciò…» annuì Yayoi sgranando gli occhi. Aveva un volto così incantevole, non si sarebbe detto che aveva già trentaquattro anni. Forse davve­ro nessuno avrebbe sospettato di lei. Però la posta era troppo alta per scommetterci sopra. Masako continuava a rimuginare dubbiosa: «Perciò cosa? Che cosa hai in mente?» «Per ora lo potrei nascondere nel tuo bagagliaio e poi…» «E poi?» «Domani andrò a gettarlo da qualche parte». Non c’era altra soluzione. Volente o nolente Masako do­vette acconsentire. «Va bene. Ti aiuto a portarlo fuori, abbiamo poco tempo e dobbiamo sbrigarci». «Grazie. Troverò il modo di ricompensarti». «Non mi importa del denaro». «Perché? Allora perché fai tutto questo per me?» do­mandò Yayoi infilando le braccia sotto le ascelle di Kenji. «Mah, ci penserò più tardi». Masako afferrò per le caviglie l’uomo che era stato mari­to di Yayoi. Benché non fosse più alto

di lei – un metro e ses­santotto circa – Kenji era pesante. In due riuscirono a fatica a trascinarlo fuori dalla porta. La sua espressione rilassata e la testa abbandonata avrebbero potuto far pensare a un ubria­co che venisse aiutato a stare in piedi dalle due donne. La cintura ancora stretta intorno al collo strisciava per terra. Masako guardò in silenzio Yayoi che strappava la cintura e se l’allacciava intorno alla vita. «Non è rimasto niente di suo in casa? Qualcosa che ave­va addosso, che so io?» «No, oggi era a mani vuote e indossava soltanto questi abiti». Gli piegarono le braccia e le gambe e lo sistemarono nel bagagliaio della macchina. Poi Masako disse a Yayoi: «Non possiamo assolutamente mancare dal lavoro. E tu devi crear­ti un alibi. Perciò lascerò l’auto al posteggio tutta la notte, okay? Poi in fabbrica penseremo a cosa farne». «Capito. Allora è meglio che io vada in bicicletta come sempre, o no?» «Certo, pensa solo che non è successo nulla». «Okay, allora ti posso affidare Kenji, Masako-san?» Da quando il cadavere era fuori di casa, Yayoi non era più così impaurita. Sul suo volto si poteva cogliere persino il sol­lievo di chi ha portato a termine un lavoro gravoso. Stava forse illudendosi che Kenji fosse semplicemente sparito al­l’improvviso dalla faccia della terra? Yayoi era irriconoscibile, e Masako ne prese atto con disagio. Salì in auto, si allacciò la cintura e quindi bisbigliò: «E smettila di sprizzare gioia da tutti i pori, se non vuoi che vada tutto per aria!» Yayoi si mise una mano sulla bocca, come se volesse soffocare l’orrore: «Davvero sembro così allegra?» «A essere sinceri, sì». «Ascolta piuttosto, Masako-san, che cosa devo fare ades­so con il gatto? I bambini si dispereranno. Che guaio, cosa posso fare?» «Tornerà». Ma Yayoi scosse la testa con sicurezza e ripeté: «Che guaio, cosa posso fare?» Masako avviò l’auto e si lasciò velocemente alle spalle la casa di Yayoi. Dopo pochi metri incominciò a preoccuparsi del cadavere di Kenji nel bagagliaio. E se fosse stata fermata dalla polizia per un controllo o la avessero tamponata? Per lei sarebbe stata la fine! Questi pensieri avrebbero dovuto indur­la a guidare con particolare prudenza e invece correva nella notte come se stesse scappando da qualcosa. In fondo al cuo­re sapeva che era il cadavere nel bagagliaio che la inseguiva. Adesso calmati una volta per tutte, cercò di convincersi. Finalmente arrivò al posteggio. La Golf di Kuniko era fer­ma al solito posto. Doveva essere già andata avanti per non arrivare tardi. Masako scese dall’auto, si accese una sigaretta e si guardò intorno. Quella notte, stranamente, non percepi­va né l’odore di fritto né la puzza dei gas di scarico. Forse era solo troppo eccitata. Girò attorno all’auto e restò un attimo a fissare il cofano. Lì dentro c’era un cadavere che la mattina seguente avrebbe tolto di mezzo. Stava facendo cose che non si sarebbe mai immaginata. Il corso della sua vita, che aveva creduto di co­noscere abbastanza bene, stava per cambiare completamente. Dopo che ebbe formulato questo pensiero, il senso di liberazione di Yayoi non le sembrò più incomprensibile. Masako controllò ancora una volta il portabagagli per ac­certarsi di averlo chiuso bene, poi – la sigaretta accesa tra le dita – si incamminò al buio lungo il sentiero. Le rimaneva poco tempo. Voleva che tutto fosse come sempre, per non at­tirare l’attenzione. Nel momento in cui affrettava il passo davanti allo stabi­limento dismesso, spuntò improvvisamente dal buio un uo­mo con un berretto in testa e le afferrò il braccio. Masako si spaventò a morte. Si era completamente dimenticata dell’e­sistenza del maniaco. Tutto accadde talmente in fretta: ancora prima che riu­scisse a gridare l’uomo la trascinò a forza

sotto la tettoia ca­dente ai margini del sentiero. «Mi lasci andare!» riuscì finalmente a urlare. La sua voce acuta parve lacerare la notte. L’uomo le chiuse in fretta la bocca con la mano destra e cercò di spingerla nel folto della boscaglia. Ma Masako era alta, gli diede una spallata e riuscì a scostare un poco la mano dalla bocca. Ne approfittò per agitare la borsetta ed evitare che l’uomo le tappasse di nuovo la bocca con la mano. Ma lui la teneva saldamente per il braccio sinistro e poteva farla cadere a terra da un momento all’altro. Non era alto come aveva detto Kuniko, ma era robusto e muscoloso, ed esalava un profumo speziato. «Che cosa vuole da me? Non ci sono abbastanza ragazze giovani in giro?» protestò furibonda e avvertì una leggera esi­tazione nella presa dell’uomo. Masako ora era sicura che si trattava di uno dei suoi com­pagni di lavoro e che la conosceva. Cercò di liberarsi dalla stretta e di raggiungere la strada. Lui però la riprese subito e la tirò di nuovo tra i cespugli. Lì intorno doveva esserci l’im­pianto di canalizzazione sotterraneo in cui scorreva un luri­do fiumiciattolo. Ricordava che la copertura di cemento era rotta in più punti. Doveva stare attenta a non cadere in un buco. Tastando il terreno sotto i piedi continuava a spiare il volto dell’uomo. Non riusciva a individuarne i lineamenti, ma nel chiarore della luna rossa vedeva chiaramente i suoi occhi neri sotto il berretto. «Lei è Miyamori, no?» Aveva tirato a indovinare, ma l’uo­mo reagì con stupore. «Lei è Kazuo Miyamori, vero?» insistette Masako. «Se mi lascia andare non lo dirò a nessuno. Oggi non voglio arriva­re in ritardo. Ci possiamo trovare un’altra volta. Davvero, di­co sul serio». L’uomo non si aspettava quelle parole e rimase senza fia­to. Sembrava valutare la proposta di Masako. «La prego, mi lasci andare», ripeté, «ci vedremo un’altra volta, solo noi due!» Allora l’uomo rispose in giapponese con un forte accento straniero: «Davvero? Quando?» Non si era sbagliata, era proprio la voce di Miyamori. «Domani notte, qui». «A che ora?» «Alle nove». Invece di rispondere l’uomo la strinse all’improvviso tra le braccia e la baciò. Schiacciata da quel corpo solido come una roccia, Masako stentava a respirare. Si dibatté con forza, si pestarono i piedi a vicenda e caddero battendo contro la saracinesca arrugginita della porta della fabbrica. Il rumore assordante spaventò l’uomo che si fermò e si guardò intorno impaurito. Masako colse l’occasione per sfuggirgli, raccolse la borsetta e corse via. Inciampò in una lattina di alluminio e, furiosa, si mise a imprecare: «Vatti a cercare una donna più giovane per i tuoi giochetti!» L’uomo la fissava inebetito, le braccia penzoloni. Masa­ko si ripulì la bocca col dorso della mano e si avviò fra l’erba alta. «Ti aspetto domani!» La voce bassa dell’uomo sembrava implorante. Masako tastò il terreno con i piedi cercando la copertura di cemento del canale di scolo, la superò, arrivò al­la strada e si mise a correre. Ma guarda cosa doveva capitar­le! Mai avrebbe immaginato di essere aggredita proprio quel giorno, quando era sempre stata attenta! La rabbia per la pro­pria imprudenza si mescolava all’ira, era da tanto tempo che non si sentiva prendere da un furore così cupo. E il maniaco era Kazuo Miyamori! Era irritata con se stessa anche perché la notte precedente si era fermata a salutarlo di sfuggita. Salì di corsa i gradini dello stabilimento riaggiustandosi i capelli con le mani. Komada, l’addetto all’igiene, stava per andarsene. «Buongiorno!» Komada, sorpreso dalla voce trafelata di Masako, si volse verso di lei e la incitò: «Si sbrighi. È l’ultima». Dopo averle passato il rullo sulla schiena Komada, con­trariamente alle sue abitudini, sorrise:

«Ma dica, da dove vie­ne? È piena di erba e di terra!» «Ero di corsa e sono caduta». «È caduta sulla schiena? Poveraccia. Si è anche ferita le mani?» Se si aveva anche il più piccolo graffio non si potevano toccare i cibi. Masako si esaminò in fretta le dita e i palmi: aveva le unghie sporche di terra, ma non era ferita. Sollevata scosse la testa. Non voleva assolutamente che si sapesse del suo scontro con il maniaco. Sorrise imbarazzata a Komada e si precipitò nello spogliatoio. Non c’era più nessuno. Indossò in fretta i pantaloni da lavoro e il camice bianco, prese il grembiule di plastica e la cuffia e andò in bagno. Si guardò allo specchio e notò una lieve traccia di sangue sul labbro. «Brutto porco!» borbottò tra sé e sé e si lavò con l’acqua fredda. Aveva anche un livido sul braccio sinistro, doveva essere stato quando Miyamori aveva cercato di trascinarla tra i cespugli. Voleva cancellare ogni traccia di quell’uomo sul proprio corpo. Avrebbe voluto spogliarsi per capire se ne aveva altre, ma non poteva tardare, doveva sbrigarsi a timbrare il cartellino. Cercò con tutte le forze di riprendere il controllo. «Ti aspet­to domani», quelle parole le tornarono in mente e la fecero infuriare ancora di più. Sapeva che non avrebbe potuto de­nunciarlo. Uscita dal bagno si asciugò attentamente le dita e scese di corsa al piano inferiore. Timbrò il cartellino: ventitré e cin­quantanove. Era riuscita ad arrivare appena in tempo, ma si era comportata in modo insolito, rischiando di attirare l’at­tenzione. Era furibonda anche con se stessa. Si accodò alla fila di operai che attendevano davanti alla porta proprio nell’attimo in cui cominciava la disinfezione delle braccia e delle mani. Yoshie e Kuniko si voltarono, la vi­dero e la salutarono. Masako alzò la mano e fece un cenno con la testa. All’improvviso comparve Yayoi con la cuffia e la maschera, che le copriva la faccia in modo che non si poteva vedere la sua espressione, e disse piano: «Hai fatto tardi. Ero preoccupata». «Mi dispiace». «È successo qualcosa?» chiese Yayoi fissandola negli occhi. «No, niente. Tu piuttosto non avrai dei graffi sulle mani? Sai che altrimenti rimarrà registrato». «Tranquilla. È tutto okay». Yayoi guardò attraverso la porta dello stabilimento: sembrava un grande frigorifero. «Sai, adesso mi sento in qualche modo più forte». Tuttavia a Masako non sfuggì il lieve tremito della sua vo­ce. «Cerca di dominarti. Non dimenticare che te la sei cer­cata». «Lo so». Si misero in coda per la disinfezione. Yoshie era già in pie­di vicino al nastro trasportatore e continuava a voltarsi verso di loro per sollecitarle a raggiungerla. «A proposito», sussurrò Masako mentre si lavava scrupo­losamente dal gomito alla punta delle dita sotto il forte get­to d’acqua del rubinetto, «come pensi di sistemarlo?» «Non so», rispose Yayoi con sguardo assente, come se ri­sentisse all’improvviso della stanchezza di quella notte. «È affare tuo e quindi cerca di farti venire un’idea!» con­cluse bruscamente Masako, dirigendosi verso Yoshie che l’at­tendeva alla catena di montaggio. Lanciò uno sguardo furti­vo al gruppo di brasiliani in cuffia blu, ma non vide Kazuo Miyamori. Era sicura che il maniaco fosse lui. «Ancora mille grazie per oggi», sussurrò Yoshie accoglien­dola con un inchino. Masako la guardò sorpresa: «E di che?» «Ma come? Non ricordi che mi hai prestato il denaro? Sei anche venuta a portarmelo a casa. È stato davvero un grande aiuto! Te lo restituirò appena mi daranno lo stipendio». Yoshie le diede una leggera gomitata sul fianco e le passò il foglio di istruzioni: “Costolette alla coreana, 850 porzio­ni”. Masako accennò un sorriso amaro: se ne era dimentica­ta, come se ciò che aveva fatto la sera precedente appartenes­se a un passato ormai remoto. Era stata una giornata molto lunga. «Ma che cosa hai oggi?» le chiese Kuniko, che aveva ap­profittato del ritardo di Masako per

accaparrarsi astutamen­te il posto di distributrice dei contenitori. «Ah, mi spiace. Ho perso tempo prima di uscire di casa». «Ah sì? Strano, prima di uscire ti ho telefonato». «Non ha risposto nessuno, vero? Dovevo essere appena uscita». «Già. Ma ci hai messo un bel pezzo». «Ho perso tempo con le compere», rispose seccamente Masako e Kuniko finalmente tacque, ma la sua insistenza le aveva dato sui nervi. Doveva davvero stare in guardia, quella aveva un fiuto eccezionale! Yoshie si preparava ad azionare la macchina che distri­buiva il riso, ma Masako si accorse che ogni tanto lanciava delle occhiate a Yayoi, ferma all’estremità del nastro traspor­tatore. Se ne stava lì imbambolata, col camice bianco della notte precedente ancora macchiato di salsa. «Che cosa vi è capitato?» domandò Yoshie. «Perché?» «Mah, la piccola è stralunata e tu sei in ritardo…» «Era così anche ieri. Piuttosto vedi di avviare il lavoro, maestra, prima che arrivi Nakayama». Masako prese il posto di chi sistemava la carne, mansio­ne che tutte avevano evitato. Yoshie annuì, si rassegnò a in­terrompere l’interrogatorio e avviò il nastro. Il primo a pas­sare fu il foglio con le istruzioni. Poi con un sordo rumore la macchina automatica incominciò a versare il riso. Dalla boc­ca d’acciaio cadde il primo blocco di riso pressato nel conte­nitore che Kuniko aveva passato a Yoshie. Il lungo, duro tur­no di lavoro era iniziato. Mentre Masako preparava le costo­lette fredde e raggrinzite separando e spianando le fette, av­vertì lo sguardo di Yayoi e sollevò gli occhi: era di fronte a lei, al di là del nastro trasportatore, e la stava fissando. «Che c’è? Cosa vuoi?» «Ridotto così nessuno lo riconoscerà, non credi?» rispose indicando con lo sguardo le fettine di carne. Nei suoi occhi brillava un lampo di follia. «Zitta!» la interruppe a bassa voce Masako. Di nascosto guardò le operaie vicine, ma nessuno prestava attenzione ai loro discorsi. Scrutò Yayoi con espressione arrabbiata e lei parve subito intimorita. Prima le era sembrata troppo disin­volta, e invece era bastato uno sguardo per incupirla e farle spuntare le lacrime agli occhi. Masako si domandò perplessa se sarebbe stata in grado di affrontare le difficoltà che l’at­tendevano. Sarebbe diventato un problema anche per lei, dal momento che aveva deciso di aiutarla.

7. Lo stabilimento era come un armadio in acciaio inossidabi­le, dal cui interno era impossibile capire che tempo facesse fuori. Quando alle cinque e mezza il turno finalmente ter­minò e Masako poté salire al piano superiore strascicando stancamente i piedi, sentì l’operaia che la precedeva esclama­re stupita: «To’, piove!» Subito le venne in mente la sua Co­rolla e il portabagagli sotto la pioggia scrosciante. Dovevano immediatamente decidere cosa fare. «Sei di corsa?» domandò Yoshie togliendosi la maschera e usandola per pulirsi le scarpe macchiate d’olio. «Perché?» le chiese a sua volta Masako cercando di elimi­nare con la maschera le macchie dalle scarpe da tennis che usava per lavorare. «Come perché? Hai un’espressione così angosciata!» La piccola, robusta Yoshie osservò con sguardo indagatore la compagna così diversa da lei. Ma Masako sistemò le scarpe nell’apposito armadietto sotto la finestra e si limitò a fissare il cielo grigio del mattino. La pioggerellina fine e delicata ba­gnava la pista di collaudo della fabbrica di automobili al di là della strada annerendo l’asfalto delle curve in forte pendenza. «È che incominci a preoccuparmi. C’è qualcosa che ti gi­ra per la testa. Altrimenti cosa sono quelle rughe sulla fron­te?» aggiunse Yoshie come se volesse farle un complimento. «Ho un impegno importante», borbottò Masako e ri­fletté. Yayoi aveva intenzione di eliminare in qualche modo il cadavere di Kenji subito dopo il lavoro, ma forse sarebbe stato meglio se fosse tornata a casa a interpretare la parte del­la moglie preoccupata. Ma allora doveva essere lei a occupar­si del cadavere. Era rassegnata a farlo, ma da sola non sareb­be mai riuscita a sollevarlo e a tirarlo fuori dal portabagagli. Masako fissò per un istante le sottili sopracciglia di Yoshie e quindi le disse decisa: «Maestra, devo chiederti un favore». «Per te qualsiasi cosa, lo sai! In fondo ti sono debitrice». Yoshie, che per carattere era incapace di rifiutare un favore, sembrava felice. Masako si mise in coda per timbrare il cartellino, rimuginando su come spiegarle cosa voleva da lei. Yayoi, trascinandosi per la stanchezza, stava ancora salendo. Kuniko invece era di sopra da un pezzo. Tipico! Anche lei pareva essersi accorta che c’era qualcosa fra lei e Yayoi. In un certo senso sembrava dispiaciuta di essere stata messa da par­te. Yoshie raggiunse Masako mettendosi in fila accanto a lei. «Mi prometti che non lo dirai a nessuno?» chiese Masako calcando le parole. «Perché dovrei?» si indignò Yoshie. «Qual è il problema?» Masako timbrò il cartellino e rimase in silenzio a braccia conserte, come se non riuscisse a decidersi. «Te lo dico più tardi. A quattr’occhi». «Come vuoi», rispose tranquillamente Yoshie voltandosi a guardare il cielo dalla finestra. Era venuta in bicicletta e non aveva nessuna voglia di tor­nare sotto la pioggia. «E soprattutto mi raccomando di non parlarne con Ku­niko». «Promesso». Yoshie doveva avere intuito che si trattava di una cosa importante, perché si chiuse nel silenzio. Attraver­sarono insieme il corridoio ed entrarono nella grande sala. Komada stava rimproverando Yayoi. «Signora Yamamoto, veda di lavarsi il camice. O vuole rallegrarci anche domani con questo puzzo di salsa?» «Sì, mi scusi», rispose docile Yayoi togliendosi il coprica­po e liberando i capelli dalla reticella. Poi si diresse verso Ma­sako. Aveva le occhiaie, ma sembrava ancora più bella del so­lito. Un ragazzo con i capelli tinti di biondo, probabilmente uno studente lavoratore, fissò affascinato il viso di Yayoi fi­nalmente libero dalla maschera e dal berretto.

«Ascolta», le disse Masako tirandola in un angolo, «è me­glio che tu torni subito a casa e ci rimanga tutto il giorno». «Ma…» «Di quello ci occuperemo io e la maestra. Ci faremo ve­nire in mente qualcosa». «La maestra?» domandò Yayoi sbalordita lanciando uno sguardo allo spogliatoio in fondo alla sala. «Le hai racconta­to tutto?» «Non ancora. Ma da sola non potrei trasportarlo. Se lei si rifiuterà dovrai essere tu ad aiutarmi. Ma una cosa è certa: sa­rai la prima a essere sospettata. Devi rimanere a casa e fare finta che non sia successo niente». Yayoi sospirò come se si fosse appena resa conto della si­tuazione. «Già, hai ragione». «Allora torna a casa e comportati normalmente, come sempre. Verso mezzogiorno telefona all’ufficio di tuo marito e chiedi se è andato a lavorare. Quando ti diranno che non si è visto, gli spiegherai che questa notte non è tornato a ca­sa e che sei molto preoccupata. E se ti dicono di denunciare la scomparsa fallo subito, chiaro? Altrimenti sarai subito so­spettata». «Ho capito. Farò come dici». «E non mi telefonare. Se avrò bisogno di parlarti penserò io a mettermi in contatto». «Sì, Masako, ma che cosa hai in mente? Che cosa vuoi fa­re di lui?» «Quello che era venuto in mente a te. Ecco cosa farò». «Cooosa!?» In un attimo Yayoi aveva cambiato colore ed era diventata pallida come un morto. «Dici sul serio?» «Sì, o almeno ci proverò». «Grazie». Yayoi aveva di nuovo le lacrime agli occhi. «Ti ringrazio di cuore. Non avrei mai pensato che saresti stata disposta a fare tutto questo per me». «Non so se ci riuscirò, vedremo. In ogni caso mi sembra una soluzione migliore che non andare in un bosco, scavare una fossa e seppellirlo. Così rimarrebbe, potrebbero trovarlo. Non dobbiamo assolutamente lasciare la benché minima traccia». Che l’idea di Yayoi non fosse del tutto sballata lo aveva pensato quando, durante il turno, era andata alla toilette e aveva visto i grandi contenitori blu per la spazzatura, dove si gettavano gli ingredienti caduti per terra. «Ma così commetti un delitto. E sono io che ti spingo…» mormorò Yayoi afflitta. «Me ne rendo conto. E so anche che è un modo atroce di fare sparire un cadavere. Ma sembra essere il sistema miglio­re. Ovviamente se per te va bene e se puoi sopportare che tuo marito venga fatto a pezzi e gettato tra i rifiuti. Ti sta bene?» «Certo», annuì Yayoi storcendo la bocca in una smorfia che si sarebbe potuta scambiare per un sorriso. «È quello che si merita». «Sei sempre più inquietante», commentò Masako fissan­do l’amica. «Davvero, potresti terrorizzare qualcuno». «Anche tu!» «No, per me è un po’ diverso». «In che senso?» «Lo vedo come un lavoro che deve essere portato a ter­mine». Yayoi la guardò perplessa: «Che razza di donna sei, Ma­sako-san?» «Esattamente come te: ho un marito, un figlio, un lavo­ro, e sono sola». Yayoi chinò improvvisamente la testa e si mise a fissare il pavimento, forse per nascondere le lacrime. Sembrava che le spalle le si fossero incurvate sotto un peso intollerabile. «Adesso non metterti a piangere». Masako le batté una mano sulla spalla. «È tutto passato. Tu stessa ci hai dato un taglio». Yayoi annuì un paio di volte; Masako le appoggiò una mano sulla schiena e la spinse nella sala

dove Yoshie e Ku­niko, che si erano già cambiate, stavano bevendo un caffè se­dute l’una di fronte all’altra. Kuniko, che aveva una sottile si­garetta accesa a un angolo della bocca, le guardò sospettosa. «Va pure a casa, Kuniko. Devo parlare un po’ con la mae­stra». Kuniko scrutò Yoshie con aria indagatrice: «Mi volete ta­gliare fuori? Che cosa avete di così importante da dirvi che io non possa ascoltare?» «Soldi, si tratta di soldi. Mi serve un prestito». Kuniko non sembrava convinta, tuttavia si mise a tracol­la la finta Chanel con la catenella dorata e si alzò: «Okay, al­lora scusatemi». Masako fece un cenno di saluto e sparì nello spogliatoio. Yoshie, che era abilmente riuscita a disfarsi di Kuniko, con­tinuò a sorseggiare con gusto il caffè ben zuccherato dal bic­chiere di carta. Masako si tolse velocemente la divisa, indossò i jeans e la polo, afferrò due grembiuli di plastica che da tempo non ve­nivano più usati e li infilò in un sacchetto di carta. In fab­brica aveva preso anche qualche paio di guanti usa e getta e li aveva messi in tasca. Tornò nella sala con aria indifferente, sedette sul tatami che manteneva ancora il calore delle natiche di Kuniko e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Yayoi, che si era cambiata d’a­bito, fece per sedersi accanto a lei, ma Masako le suggerì con lo sguardo di andarsene subito. «Scusate, ma ho fretta». Yayoi si voltò più volte a guardare Masako e uscì dalla sa­la portando sulla schiena il peso di una grande inquietudine. Quando infine la sua sagoma sparì, Yoshie bisbigliò: «Allora fuori tutto: che cosa succede? Tutta questa segretezza mi ha già innervosito». «Ascolta, ma non ti spaventare». Masako la fissò dritto negli occhi. «La piccola ha ucciso suo marito». Yoshie spalancò la bocca: «…ma è terribile!» «Già. Ma ormai l’ha fatto e non si può tornare indie­tro. Perciò ho deciso d’aiutarla. Ti andrebbe di darmi una mano?» «Ma sei impazzita?» urlò Yoshie, poi si guardò intorno e abbassò la voce. «Dille che deve andare subito alla polizia e costituirsi, questo è quello che deve fare!» «Ma i bambini sono ancora così piccoli! E poi lui l’ha pe­stata e tutto il resto, e lei ha perso la testa. Un atto dispera­to. Guardala in faccia, non si sente colpevole». «Ma arrivare a uccidere…» Yoshie deglutì. «Tu stessa hai pensato più volte di uccidere tua suocera, maestra!» Masako la guardò e i suoi occhi sembravano sape­re tutto. «Sì, è vero, ma c’è una bella differenza fra pensare una co­sa e farla!» Yoshie trangugiò rumorosamente il caffè. «Sì, è diverso. Ma per qualche oscuro motivo qualcosa non ha funzionato con la piccola, e lei ha oltrepassato il li­mite. Pensi davvero che non possa succedere, maestra? Co­munque credo di poter mettere a tacere tutto, in qualche modo». «Ma come, per amor di Dio?!» L’urlo di Yoshie sembrò un grido di aiuto. Gli altri operai che si erano fermati nella sala a chiacchierare si voltarono a guardare. Anche i brasiliani, come sempre radunati in un angolo con le spalle appoggiate al muro, interruppero i loro discorsi e la guardarono incu­riositi. Lei si fece piccola piccola. «…è una follia. Pura e semplice follia». «Follia o meno, cercherò di farlo». «Ma perché te ne vuoi occupare tu? Che cosa ci guadagni a essere complice di un omicidio? Io non voglio avere nien­te a che fare con una cosa del genere!» «Non è complicità. In fondo non l’abbiamo ucciso noi». «Sì, ma l’eliminazione del cadavere o come si chiama…»

«Credo trafugamento e distruzione di cadavere», com­mentò Masako mentre Yoshie, senza capire, si passava un paio di volte la lingua sulle labbra. «Di che cosa parli? Che cosa hai in mente?» «Lo voglio fare a pezzi e buttare via. Intanto Yama-chan potrà fingere di non saperne nulla. Suo marito semplicemen­te non è tornato a casa. E lei denuncerà la sua scomparsa». Yoshie scrollò la testa: «Senza di me. Io non riesco a fare una cosa del genere. Assolutamente». «Allora ridammi i miei soldi». Masako allungò la mano sul tavolo: «Ridammi immediatamente i miei ottantatremila yen». Yoshie, tormentata, si mise a rimuginare. Masako spense il mozzicone della sigaretta nel bicchiere vuoto. L’odore del tabacco si mescolò a quello dello zucchero e del caffè. Poi, con noncuranza, si accese un’altra sigaretta. Finalmente Yoshie sembrò aver preso una decisio­ne: «Non posso ridarti i soldi. Quindi non mi resta che aiu­tarti». «Grazie. Sapevo che non mi avresti abbandonato, mae­stra». «Però…» Yoshie sollevò il viso con aria accusatoria, «lo faccio solo perché ti devo un favore. Io non ho alternative. Ma vorrei sapere perché tu ti esponi così per Yama-chan». «Già, non lo so neppure io. So solo che farei lo stesso an­che per te». Quando uscirono quasi tutti gli altri operai se ne erano già andati. Era l’alba e piovigginava. Yoshie cercò l’ombrello nel portaombrelli davanti al portone. Masako non ne aveva uno e si sarebbe sicuramente bagnata andando al posteggio. «Allora, alle nove a casa mia». «Va bene, non mancherò». Yoshie si mise a pedalare sotto la pioggia con aria cupa. Masako rimase per qualche attimo a guardarla, quindi af­frettò il passo verso il posteggio. In quell’attimo si accorse di un uomo fermo davanti a un gruppo di platani. Era Kazuo Miyamori. In jeans, T-shirt bianca e berretto nero se ne sta­va lì in piedi a capo chino. Teneva in mano un ombrello di plastica trasparente, che però non aveva aperto. «Chissà come si dice “porco schifoso” in portoghese!» lo insultò Masako passandogli accanto, mentre Kazuo la guar­dava imbarazzato. Lei non si preoccupò e andò avanti. Lui la seguì. «L’ombrello», disse porgendoglielo. «Non mi serve!» Masako diede un colpo all’ombrello che cadde sull’asfal­to sconnesso. La strada lungo il muro grigio della fabbrica di automobili era deserta. Il tonfo dell’ombrello risuonò forte e Masako si accorse che Kazuo si rattrappiva un po’, come per ritirarsi in se stesso. L’espressione ferita del suo viso le fece ve­nire in mente la notte precedente, quando Yayoi lo aveva ignorato e non aveva risposto al suo saluto. È ancora giovane, pensò Masako, e si girò verso Kazuo che la seguiva con aria smarrita, come se non sapesse dove andare, e la sua gioventù le diede fastidio. Gli occhi neri e luminosi sotto il berretto avevano lo stesso sguardo di quando, poche ore prima, erano stati illuminati dalla luna rossa. «Smettila di seguirmi!» «Scusi». Kazuo la aveva superata e ora stava davanti a lei, le mani sul petto robusto. Capì che lui voleva esprimere la sua accorata costernazione, ma finse di ignorarlo e svoltò a destra. La strada era quella dello stabilimento abbandonato, dove soleva stare in agguato il maniaco. Sentiva che Kazuo la seguiva ancora. Provò una sensazione di fastidio e cercò di re­spingere il ricordo della notte. «Verrà stasera?» «Figuriamoci!» «Ma…» Masako si mise a correre per allontanarsi, lanciando uno sguardo alla porta di scarico dei

camion dello stabilimento abbandonato che incombeva alla sua destra. La saracinesca marrone arrugginita contro cui l’aveva spinta Kazuo non sembrava minimamente ammaccata e risplendeva lucida di pioggia. Anche l’erba calpestata si era rialzata rigogliosa co­me se non fosse successo niente. Il fatto che nulla fosse cam­biato la fece infuriare al calor bianco. Riaffiorarono in lei il senso di umiliazione e la rabbia verso se stessa. Si fermò e attese che Kazuo la raggiungesse. Era fuori di sé dall’ira. Kazuo, l’ombrello in mano, la guardò in faccia e rimase lì come impietrito. «Ascoltami bene: la prossima volta chiamerò la polizia! E ti farò anche licenziare, hai capito?» Kazuo annuì, come se si sentisse sollevato, e alzò il viso dal colorito scuro. Aveva un’espressione perplessa: doveva avere una gran paura di essere denunciato. «Non ti montare la testa. Non ti ho affatto perdonato», concluse bruscamente Masako e se ne andò. Lui non la seguì più. Arrivata al posteggio volse finalmente la testa. Kazuo era rimasto impietrito lì dove l’aveva lasciato. Idiota! avrebbe voluto gridare, ma riuscì a controllarsi e lentamente cercò con lo sguardo la Corolla, meditando se era proprio a lui che voleva rivolgere l’insulto. Naturalmente l’automobile era nel luogo esatto in cui l’aveva posteggiata la sera prima. Immaginò il corpo esanime nel bagagliaio, e le parve strano che fosse giunta l’alba e stesse piovendo. Era co­me se quel giovane egoista che le aveva appena chiesto affannosamente scusa esistesse al solo scopo di ricordarle la pre­senza del cadavere nel portabagagli. Oggetto della sua invet­tiva erano soltanto quel cadavere immobile e lei stessa, che si era lasciata coinvolgere in quella storia. Masako aprì il portabagagli chiuso a chiave. Sollevò un po’ lo sportello e lanciò uno sguardo furtivo. Scorse i panta­loni grigi e uno stinco peloso. Proprio il punto che Yayoi ave­va toccato dicendo che era ancora caldo. La pelle era color cenere e i peli secchi e sporchi sembravano cimature di fili. È una cosa, nient’altro che una cosa, borbottò Masako chiu­dendo il portabagagli.

Il bagno

1. Masako si fermò davanti alla porta del bagno 5 e rimase ad ascoltare il rumore della pioggia oltre la finestra. Nobuki, che aveva fatto il bagno per ultimo, si era preoc­cupato di mettere in ordine: aveva scaricato l’acqua e chiuso la vasca con i coperchi di plastica. Benché pareti e pavimento fossero già completamente asciutti, nel locale aleggiava anco­ra il profumo dell’acqua calda. Il profumo del tepore e della pace di una famiglia. Masako obbedì all’impulso di aprire la finestra per fare entrare l’aria pesante e afosa dell’esterno. Quella piccola casa le aveva già richiesto diverse cose. Di pulirla anche negli angoli più nascosti, strappare le erbe del minuscolo giardino, cancellare l’odore di fumo stantio e re­stituire a rate il denaro dell’ingente mutuo. E tuttavia non era mai riuscita a considerarla la propria casa. Perché conti­nuava a sentirsi un’estranea, una semplice inquilina? Perché non riusciva a trovare pace? Quando aveva lasciato il parcheggio con il corpo di Kenji nel portabagagli, Masako aveva già preso da tempo la sua de­cisione. Ne era prova la risolutezza con cui appena entrata in casa si era diretta subito al bagno, per analizzare in tutti i det­tagli come portarvi il cadavere e iniziare le operazioni. Era un programma folle, che tuttavia la stimolava come una sfida con se stessa e la sua capacità di affrontare la situazione. Scese a piedi nudi i bassi gradini della vasca piastrellata e provò a sdraiarsi sulla schiena. Kenji era alto più o meno co­me lei. Se lo metteva in diagonale ci sarebbe stato senza pro­blemi. Cinicamente pensò che Yoshiki aveva avuto una bella idea a costruire un bagno così grande. Godendosi il fresco delle piastrelle asciutte sulla schiena, alzò lo sguardo alla finestra. Il cielo era tutto grigio, senza profondità. Ricordò la faccia di Miyamori bagnata di piog­gia, si rimboccò la manica sinistra e guardò il livido sul brac­cio. Doveva essere stato il pollice di Kazuo. Nessun uomo l’a­veva mai stretta così forte da lasciarle il segno. «Ehi, che stai facendo?» la chiamò una voce dalla pe­nombra. Si sedette e vide il marito in pigiama che la scruta­va fermo nello spogliatoio. «Che cosa stai facendo qui?» le domandò di nuovo. Masako si rialzò in fretta, risistemò la manica della ma­glietta e lo guardò in faccia. Doveva essersi appena alzato, i capelli erano tutti arruffati e non si era ancora messo gli oc­chiali. Strizzava le palpebre cercando di metterla a fuoco. «Niente di speciale. Pensavo di fare una doccia». Era una misera bugia e il marito lanciò uno sguardo dub­bioso alla finestra. «Oggi non fa caldo. Sta piovendo». «Ho sudato in fabbrica». «Va bene, fa’ quel che ti pare. Per un istante ho pensato che fossi impazzita». «Perché?» «Te ne stavi ferma al buio. Mi chiedevo cosa stessi facen­do e all’improvviso ti butti per terra. Uno si può anche spa­ventare!» Masako provò una sensazione di fastidio al pensiero di Yoshiki che la osservava in silenzio senza che lei se ne accor­gesse. Negli ultimi tempi accadeva sempre più spesso che lui guardasse lei e Nobuki con aria distaccata. Il suo modo di prendere le distanze era una forma di difesa, una sorta di bar­riera invisibile che erigeva tra sé e il resto del mondo. «Avresti potuto dire qualcosa». Il marito alzò le spalle senza rispondere. Masako uscì dal bagno e scivolò nello stretto spazio tra Yoshiki e la lavatrice senza neppure sfiorarli. «Vuoi fare colazione?» Non udì la risposta, ma andò ugualmente in cucina e versò

rumorosamente i grani di caffè nel macinino. Come al solito avrebbe preparato fette di pa­ne tostato e uova strapazzate. Era passato molto tempo da quando in cucina si sentiva il profumo emanato dal bollito­re automatico del riso. Da quando aveva smesso di prepara­re la scatola per la colazione di Nobuki, non cuoceva più grandi quantità di riso al mattino. «Che malinconia la pioggia!» borbottò dopo aver dato uno sguardo fuori dalla veranda. Non si trattava solo del tempo, ma anche dell’atmosfera della casa, pensò. Starsene uno di fronte all’altro in un mattino piovoso senza la televi­sione o la radio accesa la faceva quasi soffocare. Masako si massaggiò con tutte e due le mani le tempie dolenti per la mancanza di sonno. Yoshiki trangugiò in un sorso il caffè e aprì il giornale. Dalle pagine cadde un opuscolo pubblicita­rio in carta patinata. Masako lo aprì e incominciò a leggere le offerte di un supermercato. «Cosa hai fatto al braccio?» Masako sollevò lo sguardo mostrando di non capire. «Il braccio. Il tuo braccio. C’è un livido», disse Yoshiki in­dicando il suo braccio sinistro. Tra le sopracciglia di Masako si formarono tante piccole rughe verticali. «Ho preso una botta in fabbrica». Non capì se era soddisfatto della risposta, comunque non fece altre domande. In bagno, esaminando il livido, aveva pensato alle dita di Miyamori. Yoshiki, sensibile com’era, poteva avere qualche dubbio. Ma non chiese niente. Non vo­leva sapere nulla. Rassegnata Masako si accese una sigaretta. Il marito, che non fumava, si voltò di lato con aria insofferente. Udirono un rumore di passi precipitosi giù per le scale. Yoshiki contrasse impercettibilmente i muscoli e si irrigidì e lei guardò verso la porta. Nobuki entrò in sala da pranzo. Più che indossare gli pendevano addosso sciattamente una T­shirt troppo lunga e dei bermuda decisamente fuori taglia. In lui non c’era più traccia dell’irruenza giovanile che lo aveva animato un attimo prima, mentre scendeva le scale. Masako conosceva bene la sua abilità nell’indossare da un momento all’altro la sua maschera mortuaria. Solo lo sguardo scintilla­va tagliente, come se volesse urlare la sua avversione nei con­fronti di tutti e di tutto, mentre la grande bocca era serrata in un ostinato silenzio. Se non fosse stato per l’espressione di caparbia determinazione, il suo viso era identico a quello del padre da giovane. Nobuki marciò diritto verso il frigorifero, aprì la porta, prese una bottiglia di acqua minerale e se la portò alla bocca. «Prendi un bicchiere», lo riprese Masako, ma lui la ignorò e continuò a bere. Masako fissò il pomo d’Adamo del figlio – ormai chiaramente visibile – che si muoveva in su e in giù, e non riuscì più a trattenersi: «Anche se sei muto non sei sor­do!» Istintivamente si alzò e cercò di strappargli di mano la bottiglia, ma lui, senza una parola, la allontanò con una go­mitata. Il colpo le fece male, perché ormai Nobuki era cre­sciuto parecchio in altezza e, lavorando in cantiere, si era an­che irrobustito. Masako indietreggiò e andò a sbattere con­tro il lavandino, mentre il ragazzo, senza cambiare espressio­ne, richiudeva flemmatico la bottiglia e la rimetteva in frigo. «Se non vuoi parlare taci pure, ma smettila di compor­tarti come se fossi il solo qui dentro!» Nobuki fece una smorfia annoiata e la guardò con fasti­dio. Improvvisamente le sembrò un estraneo, e per di più un estraneo che non le era simpatico. Quasi senza accorgersi gli diede uno schiaffo sulla guancia. Per un istante le sue dita premettero sulla carne tesa e soda – non era più la guancia delicata del suo bambino. La mano con cui l’aveva colpito le faceva male. Costernata rimase lì in piedi, come impietrita, e Nobuki le passò davanti, chiudendosi velocemente in bagno. Non una sola parola era uscita dalle sue labbra. Che cosa si aspettava? Quello che faceva o diceva era del tutto inutile, come versare acqua in un deserto sotto un sole implacabile. Masako si contemplò il palmo arrossato della mano destra e si voltò verso il marito che, come prima, se ne stava seduto immobile, gli occhi fissi sul giornale, come se Nobuki non esistesse proprio.

«Lascialo stare. Non serve a niente». Evidentemente Yoshiki aveva deciso di ignorare il figlio finché non fosse tornato in sé. Era talmente concentrato nel­la sua ricerca spirituale da provare un acuto senso di irritazione davanti a una persona immatura come Nobuki. E il ra­gazzo da parte sua non l’aveva mai perdonato per non aver­lo appoggiato quando aveva avuto quei problemi con la scuola. Tutti e tre continuavano a vivere isolati, ognuno per conto proprio. Davvero uno si sarebbe potuto chiedere per­ché stavano ancora sotto lo stesso tetto. Chissà come avrebbero reagito quei due se avesse confi­dato loro di avere un cadavere nel bagagliaio. Chissà se No­buki si sarebbe finalmente lasciato sfuggire un’esclamazione di stupore. O se il marito, finalmente scosso, le avrebbe da­to uno schiaffo. No, semplicemente non le avrebbero credu­to. All’improvviso Masako seppe con sicurezza che era stata proprio lei quella che più si era allontanata dalla famiglia, quella che aveva fatto i passi più lunghi. Ma questa consape­volezza non la fece sentire né triste né sola. Quando finalmente Yoshiki e Nobuki uscirono per anda­re a lavorare, la casa tornò tranquilla. Masako finì di bere il caffè e si sdraiò sul divano del soggiorno per fare un sonnel­lino. Ma non riuscì ad addormentarsi. Suonarono alla porta. «Sono io», annunciò Yoshie con voce esitante. Aveva quasi creduto che non si sarebbe fatta vedere, ma Yoshie era una donna di parola. Masako le aprì la porta. La maestra, che indossava gli stessi fuseaux con le borse alle gi­nocchia e la stessa scolorita T-shirt rosa del mattino, lanciò uno sguardo impaurito in casa. «Non è qui. È nel portabagagli», disse Masako indicando l’auto posteggiata accanto all’entrata. Yoshie si girò terroriz­zata. «No, davvero non posso. Con la migliore volontà. Ti pre­go, lasciami andare!» disse entrando in casa e cadendo in gi­nocchio davanti a Masako. Lei la guardò, rannicchiata sul pavimento come un rospo, la permanente che aveva bisogno di essere rifatta. Non era particolarmente sorpresa, in qualche modo aveva messo in conto questa reazione. «E se ti dicessi che non puoi rifiutare, cosa faresti? An­dresti dalla polizia?» Yoshie sollevò il viso e la guardò. Era pallida come un ca­davere: «No», rispose scuotendo la testa, «non lo farò». «Ma non puoi restituirmi il denaro, vero? Vale a dire che, benché ti abbia aiutato a pagare la gita scolastica di tua figlia, tu ti rifiuti di fare qualcosa per me l’unica volta che ti chie­do un favore!» «Sì, ma… non è un favore come tanti. Tu mi vuoi fare di­ventare complice di un omicidio». «Maledizione, è l’unica cosa che ti chiedo!» «Ma è un omicidio!» «Ah, e qualsiasi altra cosa andrebbe bene? Furto o rapi­mento, per esempio? E dove sta la differenza?» Masako si chiuse nei suoi pensieri e Yoshie sgranò gli oc­chi confusa e stupita. Poi increspò le labbra in un timido sor­riso. «Ma c’è una differenza abissale, lo sanno tutti!» «Come? Chi lo dice?» «Nessuno in particolare, ma nella società umana è sem­plicemente così!» Masako la osservò in silenzio. L’amica guardava a terra e tentava di sistemarsi con le mani i capelli scomposti. Lo fa­ceva sempre, quando era imbarazzata. «Okay, capisco. Ma almeno aiutami a portarlo dentro. Da sola non ce la faccio a trasportarlo fino in bagno».

«Ma io devo tornare subito a casa…, mia suocera si sarà svegliata!» «Non ci vorrà molto tempo». Masako infilò i sandali del marito e uscì. Pioveva ancora, quindi i passanti erano rari. Inoltre gli operai del cantiere di fronte sembravano essere in pausa, si vedeva solo il mucchio di argilla rossa che avevano scavato. La casa di Masako era strettamente affiancata da altre due abitazioni, ma la sua por­ta di entrata non era visibile perché si trovava in un angolo morto. Le chiavi della macchina strette in pugno, Masako scrutò velocemente intorno. Sulla strada non c’era anima vi­va – adesso o mai più. Ma Yoshie non si decideva a uscire. Ir­ritata Masako le gridò: «Che cosa c’è adesso? Mi aiuti sì o no?!» «Soltanto a trasportarlo…» disse Yoshie e uscì riluttante. Masako afferrò un telo di plastica blu che aveva già pre­parato davanti alla porta. Yoshie continuava a indugiare sot­to il porticato. Masako andò alla macchina e aprì il portabagagli. «Oh!» esclamò dietro di lei Yoshie con voce strozzata. Aveva guardato da dietro le sue spalle e visto il cadavere di Kenji, il viso flaccido, gli occhi semiaperti. La saliva, colata fuori dalla bocca in un rivoletto sottile, si era seccata sulla guancia. Braccia e gambe erano rigide, le ginocchia legger­mente piegate e le braccia sollevate, con le dita contratte co­me se avesse cercato di afferrare qualcosa. Il collo, allungato in modo innaturale, mostrava chiaramente i segni rossi dello strangolamento. Masako si ricordò di come Yayoi, la sera pri­ma, aveva sfilato la cintura dal collo di Kenji e se l’era rimessa intorno alla vita. Dietro di lei Yoshie borbottava qualcosa. «Cos’hai detto?» chiese girandosi verso di lei. Yoshie ave­va le mani giunte davanti al petto. Alzò un po’ la voce con­tinuando a ripetere: «Namu Aminabutsu, Namu Aminabut­su…» Stava pregando il Buddha. Masako le diede un colpetto sulle mani: «Lascia perdere, attirerai l’attenzione! Aiutami piuttosto a portarlo veloce­mente in casa». Senza badare all’espressione torva di Yoshie, avvolse con cura il cadavere nel telo di plastica e lo afferrò sotto le ascel­le. Con uno sguardo le fece cenno di sbrigarsi. Yoshie lo pre­se con riluttanza per i piedi e incominciò a tirare. Scambian­dosi istruzioni a bassa voce riuscirono a farlo uscire dal por­tabagagli. Il corpo era rigido, per cui non era difficile da tra­sportare, ma il suo peso e la posizione che aveva assunto complicavano l’operazione. Le due donne procedevano bar­collando. Per fortuna fino alla porta c’erano solo un paio di metri e in breve oltrepassarono la soglia. Senza fiato Masako ordinò: «Fino in bagno, maestra!» Yoshie si tolse le scarpe di tela in ingresso e salì il gradi­no: «Dov’è?» «Lì davanti, in fondo». In corridoio dovettero fermarsi diverse volte e posare il cadavere per riprendere fiato, ma alla fine riuscirono a portarlo nello spogliatoio. Masako tirò via il telo di plastica e lo stese sul fondo della vasca, perché non voleva che rimanesse­ro tracce nelle fughe delle piastrelle. «Dai, mettiamolo qui!» Yoshie annuì subito, come se avesse rinunciato a opporre resistenza. Lo sollevarono di nuovo e, come aveva progettato Masako, lo adagiarono sul fianco in diagonale, la stessa posi­zione che aveva avuto nel portabagagli. «Poveraccio, mi dispiace davvero per lui! Una così brutta fine! Di sicuro non gli sarà mai passato per la testa di venire ammazzato proprio dalla moglie, cosa ne pensi? Speriamo che la sua anima trovi pace e possa raggiungere il nirvana senza dover vagare senza fine di qua e di là!» «Già, chi può dire?» «Sei veramente senza cuore!» la biasimò Yoshie. Il tono della voce rivelava che si era un po’ calmata. Masako ne approfittò per chiedere un altro favore: «Vado a prendere le forbici per tagliare i

vestiti. Aiutami a spogliar­lo, okay?» «Va bene, e poi?» «Lo taglio a piccoli pezzi e lo butto via». Yoshie tirò un profondo respiro, ma la voce rimase tran­quilla: «Credo che abbia qualcosa in tasca». «Sì. Il portafoglio o la tessera dell’abbonamento, forse. Da’ un’occhiata, intanto». Quando Masako tornò dalla camera da letto con le gran­di forbici in mano, Yoshie aveva allineato sul gradino del ba­gno tutto quello che aveva trovato nella tasca di Kenji: un portafoglio di pelle nera dagli angoli logori, un mazzo di chiavi, la tessera dell’abbonamento, un po’ di spiccioli. Masako ispezionò l’interno del portafoglio. C’erano alcu­ne carte di credito e trentamila yen in contanti. Le chiavi do­vevano essere quelle della casa di Yayoi. «Dobbiamo far sparire tutto senza lasciare tracce». «E con i soldi cosa facciamo?» «Puoi tenerteli». «Ma sono di Yama-chan, no?» replicò Yoshie e borbottò: «Ma che vada bene ridarli… alla moglie che l’ha ucciso? No, sembrerebbe un po’ strano…» «Esattamente. Tieniteli tu, per il disturbo…» Sul volto di Yoshie apparve un’espressione di sollievo. Masako infilò il portachiavi, il portafoglio vuoto, le carte di credito, l’abbonamento e tutto il resto in un sacchetto di plastica. In quella zona vi erano molti campi e terreni abbando­nati dove avrebbe potuto sotterrare quegli oggetti. Nessuno se ne sarebbe mai accorto. Yoshie, con espressione dolente, infilò gli spiccioli nella tasca dei pantaloni. Poi, commossa, mormorò: «Poveretto, l’ha strozzato con la cravatta ancora annodata», e si mise a sciogliere il nodo. Non era facile, perché era molto stretto. Masako perse la pazienza: «Lascia perdere, non c’è tempo per queste cerimonie! Qualcuno potrebbe rincasare in anti­cipo! Tagliala semplicemente con le forbici!» «Possibile che tu non abbia il minimo rispetto verso i morti?» si irritò Yoshie. «Ti comporti come un diavolo. Mai mi sarei aspettata questo da te, proprio mai!» «Rispetto per un morto?» rispose Masako togliendo le scarpe a Kenji e infilandole in un sacco. «Per me non è altro che una cosa, ecco cos’è!» «Una cosa? Ma che dici? È un essere umano!» «Era un essere umano ma adesso è soltanto una cosa. Ho deciso di considerarlo così». «Questo non è giusto!» Masako non aveva mai visto Yo­shie così fuori di sé. La voce le tremava: «E allora la vecchia di cui mi occupo?» «Vive ancora e quindi è un essere umano». «No. Se quest’uomo è una cosa, anche mia suocera è una cosa. E anche noi siamo cose, tutti quanti. Non c’è alcuna differenza». Forse ha ragione, rifletté Masako, colpita dalle parole di Yoshie, e le venne in mente quello che aveva pensato il mat­tino, quando nel parcheggio aveva aperto il bagagliaio. Al­beggiava, pioveva, lei viveva e, proprio perché viveva, conti­nuava a cambiare. Invece il cadavere era rimasto uguale. Per­ciò aveva cercato di considerarlo solo una cosa. Forse per esorcizzare la paura… Yoshie continuò: «È proprio per questo che non è giusto pensare che un uomo è un uomo finché è vivo, e una cosa una volta morto. Questo è presuntuoso!» «Hai ragione. Ma mi è sembrato più facile». «Facile che cosa?» «Avevo paura, quindi ho cercato di dirmi che era solo una cosa. Ma forse va bene anche così, forse riesco a farlo anche se penso che è un essere umano esattamente come me». «Riesci a fare cosa?»

«A farlo a pezzi». «Ma per l’amor del cielo! Non riesco proprio a capire per­ché vuoi fare una cosa del genere!» urlò Yoshie. «Verrai puni­ta! Verremo punite entrambe! La punizione divina cadrà su di noi! » «Non importa». «Come? Perché non ti importa?!» Perché voleva sapere quale sarebbe stata la punizione di­vina, perché voleva fare questa esperienza. Una come Yoshie non era semplicemente in grado di capire questo desiderio e il sentimento che l’aveva portata così lontano. Masako non rispose e incominciò a togliere i calzini neri dai piedi di Kenji. Sfiorò per la prima volta la pelle dell’uomo morto con la mano nuda: era talmente fredda che le venne un brivido. Chissà se sarebbe veramente riuscita a farlo a pezzi. Sarebbe uscito molto sangue, e anche le viscere, una situazione di­sgustosa. Improvvisamente le venne meno il coraggio del mattino, la volontà di mettersi alla prova. Aveva il cuore in tumulto, stava perdendo il senso della realtà. Riconobbe che guardare e toccare un morto era qualcosa di assolutamente contrario alla natura umana. Yoshie doveva avere pensato la stessa cosa, perché im­provvisamente chiese, con un po’ timidezza: «Ascolta, mi fa ribrezzo toccarlo con le mani nude. Non hai dei guanti?» Masako si ricordò dei guanti usa e getta che si era procu­rata in fabbrica. Andò a prenderli e portò anche i due grem­biuli di plastica. Yoshie nel frattempo aveva piegato accura­tamente la cravatta e stava sbottonando uno a uno i bottoni della camicia di Kenji. Masako tese i guanti a Yoshie, si in­filò l’altro paio e cominciò a tagliargli i calzoni lungo la cu­citura. Ben presto Kenji fu completamente nudo. Aveva del­le macchie violacee nei punti del corpo che avevano toccato il fondo del bagagliaio, dove il sangue si era fermato. Lo sguardo sul membro raggrinzito, Yoshie mormorò: «Sai, quando è morto mio marito, l’ho spogliato così e l’ho lavato. Forse Yama-chan dovrebbe vederlo ancora una volta, per un ultimo sguardo, l’ultimo saluto, voglio dire. Che sia veramente la cosa giusta andare avanti così?» Indugiava con il grembiule di plastica in mano. Masako era nauseata da tutto quel sentimentalismo: «Macché! È lei che ha voluto così. Se poi in futuro avrà dei rimorsi o che so io, questo è affar suo». Yoshie la guardò impaurita e trasse un lungo sospiro. Ma­sako, infastidita, divenne ancora più crudele: «Prima di tut­to gli staccheremo la testa. Non è bello dovere vederlo in fac­ cia. È fisicamente ripugnante». «Ripugnante… hai un bel coraggio!» «Avrei dovuto dire che la punizione divina ricadrà sulle nostre teste?» «Non proprio, però…» «Dai, allora mostrami che cosa sei capace di fare, mae­stra!» «Per amor del cielo, no!» Yoshie inorridì. «Non ne sono capace, te l’ho detto». Masako sapeva che dissezionare da sola il cadavere sareb­be stata un’impresa molto faticosa, per cui doveva assolu­tamente trovare il modo di convincere Yoshie ad aiutarla. Aveva un piano: «Yama-chan ha detto che si sarebbe sdebita­ta: potremmo avere del denaro. E allora, cosa te ne pare, mi aiuti?» Yoshie sollevò la testa stupita. Un’espressione imbarazza­ta si fece largo nel suo sguardo vuoto. Masako continuò: «Io ho rifiutato la sua offerta, ma a pensarci bene sarebbe meglio accettare. In ogni caso il paga­mento rende la cosa più professionale». «Di che somma si tratta, più o meno?» chiese Yoshie a vo­ce bassa, fissando con timore le pupille opache e sgranate di Kenji. «Quanto vuoi? Tratterò io per te». «Centomila?» «Troppo poco. Cosa pensi di cinquecentomila?»

«Se li avessi, forse potrei cambiare casa…» mormorò Yo­shie. «Insomma, stai cercando di farmi abboccare, eh? Per questo mi sventoli i soldi sotto il naso, non è vero?» Proprio così. Tuttavia Masako non rispose, ma si limitò a chiedere ancora una volta: «Mi aiuterai, vero? Ti prego, mae­stra». «E va bene. Non mi lasci scampo!» Yoshie aveva un tale bisogno di denaro che smise subito di arrovellarsi. Indossò il grembiule di plastica, si tolse i calzini bianchi e si rimboccò in fretta i fuseaux. «Ci sarà sangue da tutte le parti. Meglio che ti togli i pantaloni». Masako ascoltò il consiglio, si liberò dei jeans e prese dei calzoncini dal cesto del bucato nello spogliatoio. Mentre li indossava si vide riflessa nello specchio: non riconosceva quello sguardo cupo e deciso. Si voltò a guardare Yoshie che, al contrario, aveva un’espressione confusa e imbambolata. Tornata in bagno ispezionò il collo di Kenji, cercando il punto in cui sarebbe stato più facile incominciare a segare. Suo malgrado lo sguardo si posò sul grosso pomo di Adamo e si ricordò di quello di Nobuki, che aveva notato quella mattina. Allontanò il pensiero e chiese a Yoshie: «Credi che sia meglio staccare la testa dal corpo con la sega?» «No, la sega si mangia la carne, meglio fare prima un’in­cisione con un coltello da pesce o da carne. Se non funziona penseremo a qualcos’altro». Yoshie, ormai convinta che si trattava di un lavoro come un altro, prese subito in mano le redini, come quando in fab­brica capeggiava la linea di produzione. Masako corse in cu­cina e prese il coltello più affilato e la scatola di attrezzi do­ve c’era la sega. Inoltre avevano bisogno di sacchetti di pla­stica per la spazzatura. La cosa migliore sarebbe stata infilare nei sacchetti i pezzi via via che li tagliavano. Masako contò la sua scorta: ne aveva un centinaio. Li aveva comprati nel supermercato del quartiere, ma non avrebbero costituito una traccia, perché erano del tipo più comune, quelli raccoman­dati dalla città di Tokyo. «Per usare i sacchetti doppi, dobbiamo tagliarlo in cin­quanta pezzi. Maestra, come è meglio incominciare?» «Per prima cosa dobbiamo segare le articolazioni, poi dobbiamo cercare di affettarlo in pezzi più piccoli possibile», rispose Yoshie esaminando la lama per capire se era ben affi­lata. Le mani le tremavano impercettibilmente. Masako tastò con le dita le vertebre del collo sotto il pomo di Adamo, vi posò decisa il coltello e tagliò. Arrivò subito all’osso e conti­nuò a tagliare intorno: venne investita da un copioso fiotto di sangue nerastro. Sbigottita dalla grande quantità Masako indietreggiò: «Era la carotide?» «Può essere». In un baleno il telo di plastica fu pieno di sangue. Ma­sako tolse veloce la reticella dal foro di scolo. Il liquido vi­scoso fluì via gorgogliando. Provò una strana sensazione al pensiero che il sangue di Kenji si sarebbe mischiato con l’ac­qua delle docce dei suoi familiari, che non avevano niente a che fare con tutto ciò. Le punte dei guanti si erano incollate e non riusciva più a muovere le dita. Yoshie cercò il tubo del­la doccia, lo collegò al rubinetto e le lavò le mani. Ma l’odo­re acre del sangue continuò a impregnare il bagno. Segare via la testa fu una cosa semplice. Cadde sul fondo con un tonfo sordo, e il corpo morto di Kenji divenne un og­getto dalla forma strana. Masako infilò un sacco di plastica dentro l’altro, vi imballò la testa e lo appoggiò sul coperchio della vasca. «È meglio se lo facciamo dissanguare», suggerì Yoshie sol­levando le gambe del cadavere decollato. Il buco della trachea era vuoto, si scorgeva la carne rossa, mentre dalle arterie continuava a colare il sangue. A quella vista Masako pensò: questa è opera del demonio e noi siamo due demoni. Le si accapponò la pelle ma rimase stranamen­te calma. L’unica cosa che voleva era riuscire a terminare pre­sto quel lavoro. Sapeva che, se si costringeva a seguire solo la successione delle operazioni, sarebbe riuscita a controllare anche la parte più scoperta dei suoi nervi, quella paralizzata dal terrore.

Con il coltello da pesce tagliò la carne intorno all’attac­catura delle gambe; la lama scivolava sullo strato di grasso giallo. «È esattamente come con un pollo», borbottò Yoshie. Arrivata al femore, Masako puntò il piede sinistro sulla co­scia di Kenji e incominciò a segarlo come se fosse un tronco. Ci volle del tempo, ma riuscì a segare le gambe più facil­mente di quanto non avesse immaginato. Le articolazioni delle spalle invece presentarono qualche difficoltà, perché non sapeva dove fare le incisioni. Inoltre la morte le aveva irrigidite e questo complicava la faccenda. Sulla fronte di Masako si formarono gocce di sudore. Yoshie era impaziente. «Se non ci sbrighiamo, mia suocera si sveglia!» «Lo so. Ma potresti anche aiutarmi un po’ di più a farlo a pezzi!» «Ma c’è una sola sega!» «Già, avrei dovuto dirti di portarne una da casa!» «In tal caso non sarei neppure venuta», rispose Yoshie stizzita. «Vero anche questo». Masako tentò di trattenersi dal ridere. Erano due scioc­che. Stavano lì a stuzzicarsi con quelle idiozie mentre taglia­vano a pezzi Kenji, col quale non avevano mai avuto nulla a che fare! Si guardarono per qualche istante, una di fronte al­l’altra, il cadavere tra di loro e le braccia grondanti di sangue. «Quando vengono a ritirare la spazzatura da voi?» «Il giovedì, cioè domani». «Anche da noi, per cui dobbiamo gettare via tutto do­mattina. Si può fare solo se tu ti prendi la metà dei sacchi». «Vuoi dire che devo tornare a casa con tutti i sacchi sul manubrio? Non posso portarli tutti!» «Ti porto a casa in macchina». «E allora tutti diranno che è arrivata una macchina rossa e ha scaricato un mucchio di sacchetti di immondizie. C’è sempre qualcuno che spia intorno alla spazzatura!» «È vero anche questo». Masako si accorse di non avere pensato alla difficoltà del­lo smaltimento dei sacchi e si morse le labbra. «Sbrighiamoci», la sollecitò Yoshie. «Penseremo poi a do­ve gettarli». «Va bene». Riprese la sega e incominciò a segare le articolazioni del­le spalle. Dopo avere eliminato le braccia dovettero occupar­si delle viscere. Masako si fece coraggio, afferrò il coltello e squarciò il cadavere dalla gola fino al pube. Gli intestini gri­gio cenere penzolarono fuori e immediatamente la puzza del­le viscere che incominciavano a marcire e dell’alcol che ave­va bevuto Kenji la sera prima riempì la stanza. Le due don­ne trattennero disgustate il respiro. «Dai, laviamo via tutto». Masako fece segno a Yoshie di togliere il tappo dal foro di scolo, ma subito cambiò idea: non voleva rischiare di ingor­garlo. Decise di infilare anche le viscere nei sacchi. In quell’istante suonarono alla porta e le due donne ri­masero impietrite. Erano già le dieci e mezza. «Sarà uno dei tuoi?» domandò spaventata Yoshie. Masako scosse la testa: «Impossibile. A quest’ora non pos­sono essere loro». «Allora fa’ finta di non sentire». Naturalmente. Suonarono ancora un paio di volte, quin­di ci fu silenzio. «Chi può essere?» chiese Yoshie senza nascondere l’ango­scia. «Ah, sicuramente un rappresentante. Se mi chiederanno qualcosa, dirò semplicemente che dormivo». Masako afferrò di nuovo la sega – la lama era lucida di grasso. Doveva resistere ancora un po’

in quell’inferno e fini­re quel lavoro diabolico, non poteva tornare indietro, per questo era ormai troppo tardi. 5 Il bagno giapponese è costituito da due ambienti. Nel primo, un’anticamera o spogliatoio, si trovano il lavandino, il tavolo da toilette e un armadio per appende­re i vestiti, nel secondo, completamente separato, una vasca da bagno molto profon­da e la doccia. Tutti i componenti della famiglia fanno il bagno alla sera, utilizzan­do la stessa acqua, a una temperatura oltre i 40 °C. Per questo ci si lava prima di entrare nella vasca che viene ricoperta con dei pannelli di plastica o di legno per evi­tare che l’acqua si raffreddi (N.d.T.).

2. Più o meno nelle stesse ore in cui Yoshie e Masako combat­tevano la loro disperata battaglia con il cadavere, Kuniko Jo­nouchi vagabondava in auto senza meta nel centro di Higa­shi-Yamato. Non c’era nessuno che potesse andare a trovare e con cui parlare, ed era piuttosto depressa per la sua relazione. Par­cheggiò nel piazzale della stazione, accanto alla fontana co­struita di recente. In quel mattino di pioggia l’acqua zampil­lante la rese ancora più depressa. Senza senso, completamen­te senza senso – come tutto del resto – quello che sto facen­do, si disse. Raramente si concedeva un esame di coscienza, al massimo una volta all’anno, e non le piaceva per niente. Si voltò più volte a guardare angosciata la cabina del te­lefono oltre la recinzione di un cantiere davanti alla stazione e continuò a pensare. Era il caso di farsi coraggio e telefona­re a Masako per chiederle del denaro in prestito? Dopo una lunga riflessione decise che sì, l’avrebbe fatto, anche se in fondo aveva un po’ paura di quella donna con la quale non si sentiva a suo agio, ma ormai aveva l’acqua alla gola. Do­veva riuscire a raggranellare il denaro in giornata, non aveva alternative. Uscì dall’auto e aprì l’ombrello. Un autobus si fermò ac­canto a lei e il sibilo fragoroso del freno la colse di sorpresa facendola sobbalzare. Il conducente aprì il finestrino e le urlò: «Qui è divieto di sosta, non può parcheggiare!» E lasciami in pace, idiota, pensò fra sé e sé, tuttavia con meno foga del solito. Tornò alla sua Golf – anche quella fa­ceva pietà con la capote afflosciata tutta zuppa di acqua – e avviò il motore. Riprese a guidare soprappensiero nel traffi­co congestionato della strada principale, senza riuscire natu­ralmente a trovare un’altra cabina telefonica. A causa della pioggia il traffico era più intenso del solito, e così ben presto si trovò imbottigliata. Ci mancava anche questo! E adesso come avrebbe fatto ad andare avanti? Sospirò, spiando la strada attraverso il parabrezza appannato – anche il ventilatore funzionava male e non si vedeva quasi niente – e le parve di impazzire perché non riusciva a trovare una via di uscita. Al mattino, rientrata dal lavoro, aveva trovato il letto vuoto. Di Tetsuya neppure l’ombra, neanche nelle altre stan­ze. Evidentemente era furibondo per le sue continue scenate e aveva passato la notte fuori, da qualche parte. Puah, anche se fosse e anche se non dovesse più tornare…, aveva pensato e si era infilata subito nel letto. Stava per addormentarsi quando era squillato il telefono. Alle sette del mattino! Aveva risposto di malumore. Una voce maschile le aveva domandato con un tono di finta cortesia: «Parlo con la si­gnora Kuniko Jonouchi? Mi scusi per averla disturbata così presto!» «Sì, sì, chi parla?» «Qui è l’agenzia Milione». Kuniko represse un grido. Di colpo fu di nuovo sveglia. Come aveva potuto dimenticare una cosa così importante? Aveva incominciato a maledirsi, mentre l’uomo impassibile continuava a recitare la sua solita parte: «Le ho telefonato perché ovviamente lei pare avere dimenticato. Ieri era il ven­ti, il termine ultimo per il pagamento, ma lei non ha ancora provveduto a versare la somma sul conto corrente. Immagi­no che sappia qual è l’importo dovutoci. A ogni modo glie­lo ripeto. Si tratta della quarta rata, cinquantacinquemila­duecento yen. Se oggi non provvederà a versare il denaro, dovremo applicarle l’interesse di mora, e passeremo perso­nalmente a ritirarlo. La preghiamo di provvedere». La telefonata proveniva da una finanziaria privata. Ku­niko da diversi anni era tormentata dalle rate, doveva anco­ra finire di pagare l’automobile e aveva anche un grosso de­bito con la banca. L’anno precedente si era accorta che riu­sciva a pagare soltanto gli interessi, senza intaccare il debito. Era riuscita, facendosi dare un anticipo sullo stipendio, a pa­gare l’ultima rata, ma ovviamente avrebbe dovuto restituire anche quei soldi. Insomma il debito era raddoppiato, e sa­rebbe finita sulla lista nera

dei creditori, sia nell’azienda in cui lavorava sia per quanto riguardava la banca. In questa situazione disperata si era recata in una finan­ziaria, cedendo all’invitante slogan pubblicitario: «Fai fatica a pagare a fine mese? Vieni subito a trovarci!» Era entrata in un circolo vizioso. Una donna di una certa età, dall’aria fal­samente gentile, le aveva sussurrato: «Immagino le sue diffi­coltà». E le aveva prestato trecentomila yen – era bastato esi­bire la patente e il nome dell’azienda in cui lavorava il mari­to. Era riuscita a pagare la somma dovuta alla banca e anche le rate. Però ora c’erano i debiti con la finanziaria. Mai avrebbe creduto che per trentamila yen avrebbero preteso il quaranta per cento di interessi. Ma Kuniko aveva dovuto adattarsi: per sopravvivere non le rimaneva che accontentarsi di una soluzione temporanea, senza pensare al futuro. Era riuscita comunque a restituire l’intera somma chiedendo un prestito a Tetsuya. La donna allora le aveva fat­to una nuova offerta: «Se vuole le posso dare cinquecento­mila». E naturalmente Kuniko aveva accettato. Aveva guardato nella scatola di biscotti in cui nascondeva il contante. Rimanevano soltanto gli spiccioli. Possibile che avesse speso tutto? Aveva preso dalla borsa il portafoglio, un falso Gucci, e lo aveva aperto. Il mese stava per finire, non conteneva che un biglietto da diecimila e uno da mille. Non rimaneva che cercare Tetsuya e farsi dare del denaro. «Dove si sarà cacciato?» Kuniko aveva sfogliato l’agendi­na e telefonato all’azienda in cui lavorava Tetsuya, ma era troppo presto, in ufficio non c’era ancora nessuno. Meglio così, la telefonata l’avrebbe messo in guardia e non si sareb­be più fatto vedere. Kuniko aveva cominciato a innervosirsi. Se non avesse pagato in giornata sarebbero di sicuro arrivati in casa un paio di delinquenti, magari yakuza, a minacciar­la: questo era ciò che più temeva, perché nonostante l’appa­rente sfrontatezza era paurosa come un coniglio. Era corsa in camera da letto e aveva aperto il cassetto in­feriore del comò dove di solito nascondeva un po’ di soldi per i casi di emergenza. Ma per quanto avesse frugato tra reg­giseni, biancheria intima e tutto il resto non era riuscita a trovare niente. Non era rimasto nulla. Assalita da un brutto presentimento aveva aperto gli altri cassetti e gli stipi: tutti i vestiti di Tetsuya erano spariti. Ci volle del tempo prima che si rendesse conto che se ne era an­dato e che per vendetta si era preso tutto il denaro che c’era in casa. Di dormire non se ne parlava neppure. Era salita in mac­china ed era corsa al bancomat di fronte alla stazione. Lì ave­va avuto la conferma che sul conto corrente comune non c’e­ra più uno yen. Tetsuya si era preso tutto. Così non sarebbe riuscita a pagare neppure l’affitto. Era talmente furiosa che aveva cominciato a strapparsi i capelli. Kuniko riuscì infine a uscire dall’ingorgo, svoltò a sinistra a un semaforo e raggiunse un quartiere di case a schiera a un piano di recente costruzione. Le saltò subito all’occhio una cabina telefonica nuova di zecca. Posteggiò e corse verso la cabina senza neppure aprire l’ombrello. «Pronto, è la Max? Vorrei parlare con il signor Jonouchi dell’ufficio commerciale». La risposta le gelò il sangue nelle vene: «Mi spiace, ma il signor Jonouchi si è licenziato il mese scorso». Tetsuya l’ave­va fregata! L’uomo che lei considerava un idiota, un tanghe­ro, una vera nullità! L’ira le salì alla tesa, sbatté a terra il la­cero elenco telefonico e si mise a calpestarlo con le scarpe fra­dice di pioggia. Le pagine sottili si strapparono e i pezzi di carta volarono in ogni angolo della cabina. Non contenta tirò con tutte le forze la cornetta, cercando di staccarla. Nonostante ciò non riusciva a calmarsi. Bestia! Carogna! Che cosa doveva fare adesso? Dove poteva nascondersi se ve­nivano a prendersi i soldi? Masako era la sua unica speranza di salvezza. Doveva pre­garla di prestarle qualcosa, decise Kuniko. In fondo anche Yoshie aveva fatto la stessa cosa quella mattina. E quindi… Se Masako non l’avesse aiutata, sarebbe stata una cattiveria pura e semplice! Kuniko era abituata a considerarsi il centro del mondo e di conseguenza le pareva ovvio che dovesse pre­stare dei soldi anche a lei.

Inserì di nuovo la carta telefonica e fece il numero di Ma­sako. Ma non successe nulla – possibile che il telefono fosse rotto? Per quanto continuasse a inserire la scheda, questa ve­niva regolarmente respinta. Kuniko schioccò la lingua, si ras­segnò e decise di andare direttamente a casa di Masako. Non doveva essere troppo lontana. C’era andata solo una volta e non ricordava bene dov’era, ma in qualche modo l’a­vrebbe trovata. Risalì in auto e imboccò la Shin-Oume-Hi­ghway sulla destra del vasto quartiere residenziale. La casa di Masako era piccola ma di costruzione relativa­mente recente, progettata secondo i desideri dei proprietari. Kuniko era invidiosa: se avesse potuto averne una lei! Ma, a giudicare da come Masako si vestiva, certamente l’arreda­mento non poteva essere lussuoso, si consolò senza pensare che andava lì per chiederle un prestito. Lì di fronte, dove una volta c’era un campo, avevano av­viato un cantiere edile. Kuniko fermò l’auto davanti a un cu­mulo di argilla, scese e si avvicinò alla casa di Masako. Davanti alla porta era appoggiata una bicicletta che le sembrò di riconoscere. La maestra! La maestra era da Masako. Evidentemente Yoshie era già arrivata a battere cassa, concluse Kuniko in fretta e si irritò. Era sicura che Yoshie non aveva un bisogno così impellente di denaro come lei – probabilmente non ave­va una scadenza di pagamento proprio oggi! Avrebbe chiesto a Masako di fare il prestito a lei per prima! Sì, avrebbe fatto così. Kuniko suonò alla porta ma non ebbe risposta. Suonò di nuovo, ma dall’interno non proveniva alcun rumore. Che fossero uscite? Ma allora la Corolla di Masako non sarebbe stata davanti alla porta! E la bicicletta di Yoshie! Strano. Che si fossero addormentate? Le venne in mente persino quest’i­dea, dal momento che anche lei era stanca morta. No, Yoshie aveva la suocera ammalata che l’aspettava, non poteva certo perdere tempo schiacciando pisolini a casa delle amiche! Diffidente, Kuniko fece il giro della casa riparandosi dal­la pioggia con l’ombrello. Dal giardino poteva guardare nel­la stanza oltre la veranda, probabilmente il soggiorno. Era si­lenzioso e immerso nell’oscurità. Ma al di là della tendina di pizzo si intravedeva il corridoio, e in fondo a questo una lu­ce. Forse erano lì dietro e non avevano sentito suonare. Decise di ritornare alla porta costeggiando l’altro lato del­la casa. Scorse una luce in quello che poteva essere il bagno. Quando si avvicinò udì le voci soffocate di Yoshie e Masako. Che diavolo stavano facendo? Infilò la mano attraverso la griglia di alluminio e bussò al vetro della finestra. «Ehi, sono io, Kuniko». Oltre il vetro si fece improvvisamente silenzio. «Scusami, Masako, sono venuta a chiederti un favore. C’è anche la maestra, vero?» Dopo alcuni istanti di silenzio la finestra si aprì di scatto e apparve il volto di Masako. Aveva un’espressione cupa: «Cosa fai qui? Che cosa vuoi?» «Devo chiederti un piacere», rispose Kuniko col tono più implorante e gentile che poteva. Doveva suscitare la compas­sione di Masako per ottenere del denaro in prestito. Le occorrevano almeno cinquantacinquemiladuecento yen, no, assolutamente di più – si poteva fare cifra tonda – altrimen­ti come avrebbe fatto a sopravvivere? «Quale favore?» «Qui non posso parlare…» rispose Kuniko accennando con la testa agli edifici intorno. Una piccola finestra della ca­sa accanto, probabilmente quella del bagno, era leggermente aperta. «Non è il momento adatto, sono impegnata. Dai, dim­mi!» la sollecitò Masako impaziente. «Ma…» Solo allora Kuniko divenne sospettosa e incominciò a chiedersi che cosa facessero Yoshie e Masako lì dentro. Per­cepiva un vago odore dolciastro, poco gradevole. Fiutò, dila­tando le narici, ma

in quell’istante Masako chiuse frettolosa­mente la finestra. «Aspetta per favore, Masako!» Kuniko non voleva cedere, premeva il vetro cercando di aprire dall’esterno. Doveva as­solutamente costringerla ad ascoltare: «Sono veramente nei pasticci!» «Va bene. Passa di là, ti apro la porta». Possibile che le desse fastidio che i vicini la sentissero? In ogni caso Kuniko si tolse un peso dal cuore quando Masako si dette per vinta. Sospirò di sollievo. Ma prima che Masako le chiudesse la finestra sul naso fece in tempo a sbirciare al­l’interno della stanza da bagno e vide qualcosa di molto stra­no. Il cuore cominciò a batterle furiosamente. Qualcosa che sembrava un mucchio di pezzi di carne. Che stessero disos­sando lì dentro la carne per il pranzo? Ma ce n’era una quan­tità immensa! Inoltre quelle operazioni non si facevano in bagno… strano, molto strano! E Yoshie non si era fatta ve­dere per tutto il tempo, eppure doveva essere lì, e anche il comportamento di Masako era singolare. La testa leggermente inclinata, rimase in attesa davanti al­la porta, ma Masako non veniva ad aprire. Kuniko era sulle spine. Tornò sotto la finestra del bagno e si mise ad ascolta­re: sciacquio d’acqua. Adesso sembrava che lavassero qualco­sa. Inoltre continuavano a parlottare. Doveva assolutamente sapere che cosa stavano facendo. Non capiva perché, ma sen­tiva l’odore dei soldi. A un tratto udì che qualcuno usciva dal bagno. Corse di nuovo davanti all’ingresso, assunse la sua espressione più in­nocente e si mise ad attendere. Finalmente Masako, in T­shirt e calzoncini corti, socchiuse la porta. Si sciolse i capelli che aveva raccolto in una coda di cavallo. Il suo atteggia­mento era ancora più insolente di quando si erano salutate la mattina presto alla fine del turno. Kuniko indietreggiò leg­germente. «Allora, cosa c’è?» «Posso entrare un attimo?» «Perché? Che cosa vuoi?» Era ancora possibile fare fiasco. Kuniko cercò di tirare fuori la sua vocina più dolce e disse: «Mi è difficile dirlo qui fuori». «Va bene, entra». Masako spalancò la porta con aria ras­segnata. Kuniko entrò e si guardò intorno. Non esattamente spazioso, ma pulito e in ordine. Però disadorno, senza un quadro o un mazzo di fiori. Molto simile a Masako! «E allora?» Masako le si mise davanti in tutta la sua sta­tura, come a dire: fino qui e poi basta, impedendole di guar­dare oltre. Una volta di più ebbe la sensazione che la respingesse e sentì l’odio crescere in sé. «Scusami, se te lo chiedo così, ma potresti prestarmi un po’ di soldi? Ieri dovevo pagare una rata, ma mi sono com­pletamente dimenticata, e adesso non ho più neanche uno yen!» «Ma ti resta sempre un uomo, chiedi a lui!» «Già, dici bene! Se l’è squagliata e si è portato via tutti i soldi che avevamo in casa!» «Squagliata?» disse Masako, e le sue guance contratte sembrarono rilassarsi un po’. Come se ne accorse, Kuniko si sentì di nuovo invadere dall’odio. Ma non poteva assolutamente permettersi di darlo a vedere. Con aria afflitta, a testa china, rispose: «Proprio così! Sparito senza lasciare tracce! E adesso non so più cosa fare!» «Ah, e quanto ti servirebbe?» «Cinquantamila, ma mi accontenterei anche di quaranta­mila». «Qui non ho tutti quei soldi, dovrei andare in banca». «Non potresti farlo? Ti prego». «Così all’improvviso è impossibile». «Ma alla maestra hai prestato qualcosa!» ribatté disperata Kuniko. Ma Masako aggrottò le sopracciglia: «Parliamoci chiaro: non credo che potrai restituirmeli». «Sì che potrò», mentì Kuniko. Sembrava che le sue sup­pliche incominciassero a fare effetto su Masako che si mise a pensare, la mano sotto il mento. Sotto le unghie c’era qual­cosa di rosso scuro

che sembrava sangue. Kuniko trasalì. «Ma oggi proprio non posso. Se puoi aspettare fino a do­mani, forse ti potrò aiutare». «Domani è troppo tardi! Se non pago oggi verranno quei delinquenti!» «Per questo non posso farci niente, sei tu la sola respon­sabile!» A questo punto Kuniko tacque. Masako aveva ragione, ma possibile che dovesse sempre chiamare le cose con il loro nome, per una volta avrebbe anche potuto avere un po’ di tatto! Improvvisamente, da qualche parte alle spalle di Ma­sako, giunse la voce di Yoshie. «Scusa se mi intrometto, ma potresti anche prestarle qualcosa, no? In fondo è una compagna!» Masako si voltò verso Yoshie con aria furibonda. Non sembrava che fossero state le sue parole a farla arrabbiare, quanto piuttosto semplicemente il fatto che si fosse presen­tata lì, davanti a loro. Yoshie era vestita come in fabbrica, ma le occhiaie scure ora erano molto più visibili. Si sarebbe det­to che fosse giunta alla fine delle sue forze. Non aveva più dubbi, quelle due stavano combinando qualcosa e non volevano che lei lo sapesse. Kuniko capì che doveva cogliere l’occasione al volo: «Cosa stavate facendo?» Masako non rispose. Yoshie distolse frettolosamente lo sguardo. Kuniko incalzò: «Che cosa facevate nel bagno?» «E tu che cosa credi?» Lo sguardo di Masako era perfido e a Kuniko venne la pelle d’oca. Non le succedeva mai. «Ma… non so». «Hai visto qualcosa?» «Sì, certo. Qualcosa che sembrava carne». «Adesso ti mostro. Vieni!» Yoshie, stupefatta, lanciò un gridolino di protesta. Ma­sako afferrò con forza Kuniko per il polso. Il coniglio pauro­so nascosto in lei le bisbigliò: presto, svignatela più in fretta che puoi! Ma la vocina venne zittita dalla curiosità di vedere di cosa si trattava e dalla speranza di riuscire a cavarne qual­che yen. Si sentiva tirata da due parti e la sensazione, che provava per la prima volta in vita sua, era quasi di piacere. Yoshie afferrò il braccio di Masako: «Ascolta, ma sai quel­lo che fai? Sei sicura di non sbagliare?» «Sì, ci può aiutare». «In ogni caso ti ho avvertita!» replicò Yoshie immusonita, ma sembrava piuttosto una richiesta di aiuto. Nervosa, Kuniko si rivolse a Yoshie: «Aiutare a fare che cosa, maestra?» Yoshie non rispose, chinò la testa e rimase a braccia con­serte. Masako, sempre tenendo Kuniko per il polso, se la tirò dietro per tutto il corridoio fino in bagno. Lei la seguì zampettando senza opporre resistenza. Quando, infine, vide una gamba umana in fondo alla vasca illuminata a giorno, fu sul punto di svenire. «Che… che cosa è?!» «Il marito di Yama-chan», rispose Masako soffiando fuo­ri lentamente il fumo della sigaretta che si era appena accesa. Kuniko ricordò i grumi di sangue secco sotto le unghie di Masako e l’odore dolciastro, e le venne da vomitare. Si coprì la bocca con la mano e riuscì a fatica a reprimere i conati. «Ma perché? Perché?!» Non riusciva a credere ai propri occhi, le sembrava uno scherzo di cattivo gusto, un baraccone degli orrori allestito dalle due compagne apposta per spaventarla. «È stata Yayoi a ucciderlo», spiegò Yoshie sospirando. «Ma perché voi gli fate questo?» Masako si voltò innervosita: «Ho deciso che si tratta sem­plicemente di un lavoro». «Ma questo non è un lavoro! È…»

«È un lavoro!» la interruppe bruscamente Masako. «E se vuoi avere i soldi, devi collaborare!» La parola “soldi” attivò un altro circuito nel cervello di Kuniko. «Cosa vuol dire collaborare… Che cosa dovrei fa­re?» «Quando avremo finito di farlo a pezzi e l’avremo messo nei sacchetti della spazzatura, dovrai solamente andare a but­tarli via, questo è tutto». «Davvero devo solo gettarli via?» «Sì». «E quanto mi darete?» «Quanto vuoi? Ne parlerò con Yama-chan. Tu in cambio però dovrai collaborare. Sarai nostra complice. Non ti dovrai lasciare sfuggire una sola parola, con nessuno!» «Lo so, è chiaro», disse Kuniko. Non poteva fare altri­menti e si accorse con stupore di essere caduta nel tranello ordito da Masako per indurla al silenzio.

3. Dopo aver lasciato la fabbrica prima delle compagne, Yayoi Yamamoto pedalava riparandosi dalla pioggia sotto il vecchio ombrello rosso. La luce penetrava attraverso la stoffa sottile proiettando sulle sue braccia nude un alone rosato – un colore gioioso, confortante. Forse anche le sue guance brillavano di quella luce, pensò Yayoi, come quelle di una ragazza. Fuori dall’a­lone, che si muoveva al ritmo lento delle sue pedalate, tutto il resto era cupo e minaccioso, pieno di ombre scure: l’asfal­to nero di pioggia, gli alberi ai due lati della strada e le case ancora addormentate dietro alle persiane chiuse. Sotto il suo ombrello tutto era rosa, tuttavia il mondo esterno si era trasformato in un paesaggio minaccioso che la stringeva da ogni lato. Non riusciva a smettere di pensare che era il mondo che doveva affrontare dopo l’omicidio di Kenji. Yayoi si ritrasse sotto l’ombrello, come se volesse scacciare quell’immagine. Ricordava ancora perfettamente come lo aveva ucciso. L’aveva assassinato con le sue mani, lo aveva strangolato. Ep­pure via via si rafforzava in lei l’illusione che Kenji fosse spa­rito chissà dove. Non le venne in mente che il suo era solo un tentativo di costruirsi una comoda falsa verità. Perché or­mai era passato tanto tempo da quando l’anima di Kenji se ne era andata da casa, da lei e dai suoi figli. Quella fantasia la aiutava a superare la realtà, la consapevolezza di aver ucci­so il marito. L’ombrello di nylon, ormai zuppo di pioggia, era diven­tato pesante e Yayoi lo abbassò. Uscì dal mondo rosato e con­templò le piccole case tutte uguali, allineate l’una accanto al­l’altra, tornare lentamente alla loro consueta tinta. Si lasciò bagnare dalla pioggia sottile e ben presto i suoi capelli furo­no grondanti. Le sembrò di essere rinata, animata da un nuovo coraggio. Arrivata al muro di cemento all’angolo della strada in cui abitava ripensò alla sera precedente, quando era rimasta lì ad aspettare che Masako arrivasse. Masako non l’aveva piantata in asso, l’aveva aiutata. Non avrebbe mai dimenticato quell’emozione per quanto a lungo fosse vissuta. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per Masako. Era sicura che con lei il cadavere di Kenji era in buone mani, che l’amica avrebbe fatto in mo­do che tutto filasse liscio. Le aveva tolto un bel peso dalle spalle. Aprì la porta ed entrò nella penombra. Forse per la pre­senza dei piccoli, la sua casa aveva il tenero, familiare odore di un cucciolo addormentato al sole. Ormai quella casa ap­parteneva soltanto a lei e ai suoi adorati bambini. Tirò un so­spiro di sollievo. Kenji non sarebbe più tornato. Era morto, ma nessuno doveva accorgersi che lei lo sapeva, doveva stare molto attenta. Sarebbe riuscita a interpretare bene la parte della moglie preoccupata per la scomparsa del marito? Que­sta era la sua più grande preoccupazione, ora. Quando ripensò alla faccia del marito morto, il collo stretto dalla cintura, proprio lì nell’ingresso, si sentì di nuo­vo favolosamente, assolutamente diabolica. «Ti ho beccato, ben ti sta!» pensò. Non si era mai servita di espressioni così ignobili e odiose: da dove le veniva quella bramosia selvaggia, come se stesse cacciando un piccolo ani­male nella prateria? Una sensazione strana per chi come lei non aveva esperienza di caccia! Possibile che lei fosse vera­mente così, che quella fosse la sua reale natura? Si tolse le scarpe guardandosi intorno e controllando freddamente che non fosse rimasta qualche traccia di Kenji. Aprì l’armadietto in cui riponevano le scarpe, domandando­si quale paio avesse calzato Kenji al momento della morte. Mancavano quelle nuove e questo la tranquillizzò. Non per­ché lui se ne era andato almeno con le scarpe nuove, ma per­ché aveva risparmiato a Masako il fastidio di maneggiare dei vecchi stivali schifosi. Per prima cosa andò in camera da letto per dare un’oc­chiata ai bambini. Si rassicurò vedendo che entrambi erano ancora profondamente addormentati. Rimboccò la coperta di cotone del più piccolo e solo allora provò un lieve rimor­so per aver loro sottratto il padre per sempre.

«Ma papà era così cambiato. Non era più il papà di una volta», bisbigliò. All’improvviso Takashi, il più grande, che aveva cinque anni, sbatté gli occhi inquieto e la cercò con lo sguardo. Yayoi, colta alla sprovvista, sussultò dallo spavento ma si riprese subito e, accarezzandogli affettuosamente la schiena, disse: «La mamma è tornata, va tutto bene. Conti­nua a dormire tranquillo». «C’è anche papà, vero?» «No, papà non è ancora tornato». Takashi, irrequieto, avrebbe voluto alzarsi, ma Yayoi con­tinuò ad accarezzarlo sulla schiena fino a quando non si riad­dormentò. Considerando tutto ciò che l’aspettava, pensò che fosse meglio anche per lei riposare un po’ e si infilò sotto le coperte sul futon accanto a quello dei figli. Non credeva che sarebbe riuscita veramente a dormire, ma non appena sfiorò con la mano il livido sullo stomaco la stanchezza le piombò addosso e si addormentò di colpo. «Mamma, mamma, dov’è Milky?» Yukihiro, il più piccolo, era piombato sul suo futon. Yayoi, che vagava nel mondo dei sogni, venne riportata alla realtà. Guardò irritata l’orologio: erano già passate le otto. Avrebbe dovuto accompagnare i bambini all’asilo prima del­le nove. Si era coricata vestita ed era in un bagno di sudore – che fosse tornato il caldo? Si asciugò la fronte con la mano. «Mamma, Milky non c’è più!» protestò di nuovo Yuki­hiro. «Ah, davvero? Sei sicuro di averlo cercato bene?» Ripiegò i futon e incominciò a riordinare, pensando a quanto era accaduto la sera precedente. Finalmente si ri­cordò che il gatto era scappato quando, dopo aver ucciso Kenji, aveva socchiuso la porta. Strano, tutto le sembrava co­sì incerto e lontano, come il ricordo di un remoto passato… «Ti ho detto che non c’è da nessuna parte!» piagnucolò Yukihiro. Era un piccolo monello, ma era molto affezionato al gatto. Yayoi si mise a chiamare il figlio maggiore, perché badasse al fratellino. «Dove sei Takashi? Aiuta Yukihiro a cercare Milky!» Takashi, in pigiama, aveva un’espressione cupa in volto: «Papà è già andato a lavorare?» Era da molto tempo che Kenji, che rientrava sempre tar­di dal lavoro, dormiva nella piccola camera vicino all’ingres­so. Evidentemente Takashi, appena alzato, doveva essere an­dato a guardare. «No, sembra che si sia fermato fuori. Ieri sera non è tor­nato a casa…» «Non è vero, è tornato invece!» Spaventata Yayoi lo guardò in faccia. Per essere un ma­schietto aveva incarnato pallido e lineamenti delicati. Sem­brava preoccupato. Notando una volta di più quanto le somigliasse, chiese: «E quando mai?» Si accorse che la voce le tremava. Sapeva che questa era solo una piccola prova, un saggio di quello che avrebbe do­vuto affrontare. «A che ora non lo so», rispose Takashi, «ma ho sentito dei rumori, come se fosse tornato». «Ah, dei rumori? Forse ero io che mi stavo preparando a uscire, mi avrai scambiato per papà. E adesso sbrigati, se no facciamo tardi!» «Sì, ma…» Takashi non era ancora soddisfatto, ma Yayoi smise di oc­cuparsene e si dedicò al piccolo Yukihiro che continuava a cercare il gatto sotto il divano e sotto gli armadietti della cu­cina: «Ci pensa mamma più tardi a cercare Milky. Sbrigati che dobbiamo andare!» Preparò velocemente la colazione, fece indossare l’imper­meabile ai bambini, li caricò uno davanti e l’altro dietro sul­la bicicletta e li portò all’asilo. Finalmente libera, ora non sa­peva cosa fare: aveva una gran voglia di telefonare a Masako per sapere come era andata – no, forse era meglio andare fi­no da lei e vedere di persona. Ma Masako le aveva ordinato di attendere la sua telefonata. Yayoi si rassegnò e tornò a ca­sa per la strada più breve. Nel vicolo prima della sua strada incontrò una donna di mezza età che, proteggendosi dalla pioggia con un ombrello, stava pulendo intorno ai raccoglitori per l’immondizia. Im­precando contro i

vicini, raccoglieva la spazzatura sparpa­gliata intorno al contenitore. A Yayoi non rimaneva altro da fare che salutarla cordialmente: «Buongiorno! Lei si prodiga come sempre per tutti!» La donna la riconobbe e le fece una domanda che non si aspettava: «Ah, guardi là dietro! Non è il suo gatto?» Indicò un palo della luce dietro al quale era raggomitolato un gatto bianco. Senza dubbio era Milky. «Oh, è vero! Vieni, Milky, vieni qui». Yayoi allungò la mano, ma il gatto si ritrasse e miagolò impaurito. «Vieni, Milky, torna subito a casa! Sei già bagnato fradi­cio!» Il gatto corse via. «Ma chissà cosa avrà? È proprio strano!» commentò me­ravigliata la vicina. La presenza della donna innervosiva Yayoi, che tuttavia continuò a chiamare il gatto: «Milky! Fa’ il bravo, dove ti nascondi? Milky! Vieni…» Ma il gatto era ormai scomparso per sempre nella pioggia. Come Kenji non sarebbe più tornato. Yayoi desistette. La vita di Yayoi non aveva un ritmo normale: quando tornava a casa al mattino dopo il turno, preparava la cola­zione per il marito e i bambini e mangiava con loro, quindi accompagnava i piccoli all’asilo e poi finalmente poteva dor­mire in pace. Il turno di notte non era mai stato la sua massima aspira­zione, ma con due figli sulle spalle non aveva altre possibi­lità. Prima o poi avrebbe dovuto prendersi dei giorni di ri­poso a causa di qualche malattia infantile o cose del genere, e nessuna ditta sarebbe stata disposta ad assumerla a tempo pieno. Aveva anche provato a lavorare part-time come cas­siera in un supermercato, ma era stata licenziata molto pre­sto perché non poteva lavorare di domenica ed era rimasta a casa diverse volte perché i bambini si erano ammalati. Il tur­no di notte era fisicamente stressante, ma la paga oraria era più alta e aveva il vantaggio di andare a lavorare in pace quando i bambini dormivano. Inoltre aveva avuto la fortuna di trovare delle amiche come Masako e Yoshie… Ma ormai non poteva più contare sullo stipendio del ma­rito. Come sarebbe andata avanti? Però, si disse, in fondo era lo stesso, se considerava tutte le difficoltà economiche che aveva avuto negli ultimi mesi. In qualche modo sarebbe riu­scita a risolvere il problema. Dalla sera precedente si sentiva più forte e sicura di se stessa. Avrebbe preferito fare subito la sua telefonata preoccupa­ta all’ufficio di Kenji, in modo da non doverci pensare più. Ma era troppo presto e avrebbe potuto suscitare dei sospetti. Allora, per ingannare il tempo, decise di comportarsi come al solito, ingoiò mezza pastiglia di sonnifero e si mise a letto. Tuttavia questa volta fece fatica ad addormentarsi. Quando alla fine si assopì sognò Kenji, ancora vivo, coricato accanto a lei. Tutta sudata continuava a girarsi di qua e di là. La svegliò lo squillo lontano del telefono. Forse era Ma­sako! Saltò su un po’ stordita: l’effetto della pillola non era ancora scomparso e le provocò una leggera vertigine. «Mi chiamo Hirosawa, suo marito è a casa?» Era un im­piegato della piccola ditta di costruzioni dove lavorava Kenji. È arrivato il momento, pensò Yayoi sospirando profonda­mente. «No, non è venuto a lavorare?» «No, non è ancora arrivato…» La voce dell’uomo sembrava confusa e allarmata. Yayoi si voltò e guardò l’orologio alla parete del soggiorno. Era l’una del pomeriggio passata da poco. «Voglio essere sincera: ieri non è tornato a casa per nien­te. Non so dove abbia passato la notte, ma speravo che fosse venuto direttamente a lavorare. Non ho osato telefonare in ditta per chiedere informazioni, perché non volevo che an­dasse su tutte le furie. Non sapevo proprio cosa fare…» «…già, capisco», rispose bruscamente Hirosawa, che evi­dentemente si sentiva in qualche modo solidale con il com­pagno. «Immagino la sua preoccupazione!» «Sì, in realtà è la prima volta che mi succede qualcosa del genere, e non so proprio come comportarmi. Stavo giusto pensando se non fosse meglio telefonare…» Yayoi si ricordò che Hirosawa

era il direttore commerciale, il diretto superio­re di Kenji, e, mentre pensava al suo aspetto magro ed ema­ciato, dovette fare uno sforzo per continuare a recitare la par­te della moglie in bilico tra la vergogna e l’ansia. «Non se la prenda troppo. Probabilmente ha esagerato con il bere e adesso starà smaltendo la sbornia da qualche parte. È vero che Yamamoto non è mai stato assente senza giustificazione, ma non si tratta che di una scappatella. Non si deve preoccupare per così poco: lo sappiamo tutti, troppo stress e prima o poi uno non ce la fa più!» «Ma senza avvertire a casa?» ribatté con veemenza Yayoi. Hirosawa, imbarazzato, bofonchiò qualcosa e poi tacque. «E adesso io cosa dovrei fare?» «Ascolti, signora Yamamoto, provi ad aspettare ancora fi­no a questa sera, e se non riceverà notizie sarà meglio che ne denunci la scomparsa». «Dove dovrò fare la denuncia? Al posto di polizia qui nel quartiere?» «No, non credo che sia di loro competenza. Facciamo co­sì: io mi informo e lei, signora, rimanga a casa e aspetti che la richiami. Non si preoccupi troppo, signora Yamamoto, so­no sicuro che si chiarirà tutto. A volte gli uomini si compor­tano in modo sciocco, ma non può essere sparito senza la­sciare tracce». La conversazione con Hirosawa era finita. Yayoi si guardò intorno nella casa silenziosa e si rese conto che aveva final­mente smesso di piovere. Si accorse di avere fame. Non ave­va mangiato nulla dalla sera precedente. C’era ancora del ri­so nel bollitore e lo mescolò con gli avanzi della colazione dei bambini, ma appena si mise di fronte al piatto sentì che non avrebbe potuto buttare giù niente. Stava ancora rigirando i bastoncini nel riso quando il telefono squillò di nuovo. «Signora Yamamoto? Sono ancora io, Hirosawa». «Ha qualche novità?» «Senta, qui in ditta saremmo propensi ad aspettare fino a domani mattina. Che ne dice?» «Capisco», rispose sospirando. «Sarebbe increscioso met­tere in allarme tutto il mondo per niente, vero?» «No, non per questo, semplicemente per il momento ci sembra la cosa migliore. Se domani mattina non sarà ancora rientrato, dovrà telefonare alla polizia perché nel peggiore dei casi potrebbe anche avere avuto un incidente». «La polizia?» «Sì. Chiami il centodieci». Dunque il giorno seguente prima di mezzogiorno avreb­be dovuto denunciare la scomparsa di Kenji alla polizia. Per­ché sapeva che non sarebbe mai tornato a casa. «Ma io sono preoccupata, voglio chiamare questa sera!» «La polizia?» «Sì. Provi a immaginare: se ha davvero avuto un inciden­te, ora probabilmente si trova tutto solo in un ospedale qual­siasi! No, non riesco proprio a darmi pace, una cosa del ge­nere non mi è mai successa prima!» «Va bene, se questo la può fare sentire meglio, chiami pu­re la polizia. Ma vedrà che fra poco tornerà a casa con la co­da tra le gambe!» No, questo non succederà, né ora né mai, puoi starne cer­to! rispose mentalmente a Hirosawa, e decise che avrebbe te­lefonato alla polizia in giornata. Così avrebbe rafforzato l’im­pressione di essere sconvolta per la scomparsa del marito. D’un tratto Yayoi era diventata una fredda calcolatrice. Poco dopo le quattro, mentre cominciava a prepararsi per andare all’asilo a prendere i bambini, suonò il telefono. «Sono io», annunciò una voce bassa e dura. Era Masako.

Yayoi si sentì sollevata, ma la assalì anche la preoccupa­zione che qualcosa non fosse andato liscio. In preda all’an­goscia chiese: «Com’è andata?» «Sta’ tranquilla, finito tutto. Solo che la situazione è un po’ cambiata». «In che senso?» «Oltre alla maestra mi ha aiutato anche Kuniko». Yayoi era rassegnata all’idea che l’amica avesse confidato l’accaduto a Yoshie, ma non si sarebbe mai aspettata che lo rivelasse anche a Kuniko. In fabbrica erano delle buone com­pagne, questo era vero, tuttavia non si fidava dell’ambiziosa Kuniko. Improvvisamente ebbe paura. «Kuniko? Credi davvero che possiamo fidarci di lei? E se si lasciasse sfuggire qualcosa?» «Proprio per questo. È arrivata all’improvviso e ci ha sco­perte nel bel mezzo del lavoro. Allora mi è stato chiaro che lei sapeva già troppo: che tuo marito ti ha malmenato e che si è giocato tutti i vostri risparmi a baccarat. E se ne avesse parlato con la polizia avrebbero immediatamente sospettato di te». Era esattamente così, pensò Yayoi impallidendo. Bastava sciogliere i fili uno alla volta e tutto si sarebbe spiegato da sé. Ma quando la sera prima si era confidata con le amiche, non aveva ancora pensato – non si era neppure sognata – di uc­cidere Kenji. Masako aveva ragione, era esattamente come aveva detto. Doveva fidarsi di lei. «Ci ha visto al lavoro, e così ho dovuto costringerla a col­laborare. Ma c’è anche dell’altro: tutte e due, sia la maestra che Kuniko, vogliono soldi. Non eri preparata, lo so, ma rie­sci a mettere insieme cinquecentomila yen?» Yayoi non si attendeva una richiesta del genere, ma era decisa a fare tutto quello che Masako riteneva giusto. «Basteranno cinquecentomila yen per tutte e due?» «Sì. Quattrocentomila alla maestra e centomila a Kuniko. Kuniko aiuterà solo a gettare i sacchetti nell’immondizia. Penso che saranno soddisfatte. Guarda la cosa da questo punto di vista: sei stata tu a ucciderlo e tu devi pagare perché il cadavere venga eliminato». «Ho capito. Chiederò un prestito ai miei genitori». La famiglia di Yayoi viveva a Yamanashi e non era parti­colarmente agiata. Il padre era impiegato e presto sarebbe an­dato in pensione. Non le piaceva chiedergli del denaro, ma prima o poi avrebbe dovuto farlo comunque, perché adesso, che anche tutti i risparmi se ne erano andati, avrebbe fatto fatica a procurare il minimo necessario per sé e i bambini. Sarebbe stata soltanto una questione di tempo. «Fallo. E a te come è andata?» chiese Masako senza esita­zione. «Poco fa mi hanno telefonato dalla ditta e mi hanno det­to che non era andato in ufficio. Che se non rientrerà prima di domani mattina dovrò denunciarne la scomparsa. Ma io ho risposto che sono terribilmente preoccupata e che telefo­nerò alla polizia stasera stessa». «Ti sei comportata bene, direi. Così crederanno che la si­tuazione sia del tutto nuova per te. Allora oggi non verrai a lavorare, vero?» «Già». «Meglio così. Ti chiamo domani». Masako, che aveva detto tutto ciò che le premeva, sembrava voler concludere la conversazione. Yayoi la fermò: «No, aspetta, Masako!» «Che c’è?» «Che cosa ne avete fatto?» «Ah! È stata un’impresa, ma siamo riuscite a farlo in tan­ti piccoli pezzi. Ognuna di noi si è presa un po’ di sacchetti e domani mattina presto andremo a buttarli nella spazzatu­ra. Perché al giovedì li portano all’inceneritore. Non può da­re nell’occhio, perché abbiamo usato i soliti sacchetti, quelli al carbonato di calcio». «E dove li portate?»

«Nei posti di raccolta vicino a casa. So che è un po’ peri­coloso, ma non possiamo allontanarci troppo dalle nostre ca­se. Cercheremo di abbandonarli quando nessuno ci vede e di nasconderli in mezzo all’altra spazzatura». «Va bene. A più tardi, speriamo che vada tutto bene!» Yayoi pensò alla vicina che imprecava mentre scopava in­torno al bidone dell’immondizia, e poté solo augurarsi che tutto andasse per il meglio. Riprese in mano la cornetta e di­gitò con decisione due volte l’uno e quindi lo zero, un nu­mero che non aveva mai chiamato prima. «Pronto intervento. Che cosa posso fare per lei?» «Sì, ecco… Mio marito non è ancora rientrato…» Si era aspettata una risposta evasiva, invece la voce ma­schile all’altro capo del filo era molto professionale. Le chie­se il nome e l’indirizzo, le disse di attendere e si rivolse a un collega. Un’altra voce maschile venne all’apparecchio: «Questa è la sezione della sicurezza sociale. Da quanto tempo è assente suo marito?» «Da ieri sera. Non è andato neppure in ufficio, mi hanno detto». «C’era qualche problema?» «No, nessuno che io sappia». «Allora faccia così: aspetti un’altra notte. Se domani mat­tina non sarà tornato, venga qui per fare la denuncia. Venga alla questura di Musashi-Yamato. Sa dov’è?» «Ma io non posso aspettare ancora. Sono troppo preoc­cupata». «Per il momento non possiamo fare altro che accogliere la sua denuncia. Prima non possiamo cercarlo». La voce dell’uomo era diventata un po’ più gentile. Yayoi fece un sospi­ro profondo, in modo di essere sentita. «Ma sono così preoccupata. Non mi è mai successa una cosa del genere!» «Abbia pazienza, non si tratta di un bambino né di un vecchio. Attenda ancora una notte e poi venga qui da noi». «Va bene, come vuole». E con questo per quel giorno era finita, aveva fatto quel­lo che doveva. Yayoi abbassò il ricevitore e tirò un sospiro di sollievo. A cena Takashi le domandò: «Mamma, oggi non vai a la­vorare?» «No, oggi no». «Perché no?» «Sono preoccupata perché papà non torna». «Per fortuna sei preoccupata anche tu!» esclamò Takashi sollevato, e Yayoi si spaventò un po’. Era impressionata: sem­bra sempre che i bambini non ci badino, e invece osservano con estrema attenzione quello che fanno gli adulti. Era pos­sibile che il piccolo avesse sentito tutto quello che era suc­cesso la sera prima, quando Kenji era tornato a casa? Yayoi fu colta dal terrore. In quel caso avrebbe dovuto trovare il siste­ma per farlo tacere. In quel momento Yukihiro si mise a pia­gnucolare: «Mamma, Milky è in giardino, continuo a chia­marlo ma non vuole entrare!» Allora Yayoi perse la pazienza e urlò: «E lascialo stare! Sempre con questo gatto! La mamma ha ben altro per la te­sta!» Yukihiro, spaventato dall’espressione della madre, di soli­to così dolce, lasciò cadere le bacchette. Takashi chinò lo sguardo come se non volesse vedere. Vedendo la reazione dei figli Yayoi fu presa dal rimorso e si ripromise di chiedere consiglio a Masako su come comportarsi con Takashi e per la questione del gatto. Ormai si fi­dava in tutto e per tutto solo dell’amica. Aveva già dimenticato come una volta, quando andavano ancora d’accordo, era solita appoggiarsi completamente a Kenji.

4. Masako stese un grande telo di plastica sul coperchio della va­sca da bagno e vi appoggiò i quarantatré sacchetti della spaz­zatura. I pannelli del coperchio si curvarono sotto il peso. «Anche se l’abbiamo dissanguato è ancora molto pesan­te», mormorò, mentre Kuniko commentava, sospirando e scuotendo il capo: «Che orrore! Incredibile!» «Che cosa hai detto?» Masako ebbe uno scatto. «Ho detto che è incredibile. È incredibile che tu te ne stia lì indifferente dopo quello che hai appena fatto!» la aggredì Kuniko a muso duro. «Ah, trovi? Se vuoi saperlo non sono per niente indiffe­rente», ribatté Masako. «E inoltre, ti dirò, vorrei avere un po’ del tuo sangue freddo: te ne vai in giro a fare debiti a destra e a sinistra a bordo della tua auto straniera e hai l’impuden­za di venire a chiedermi un prestito! Questo è quello che io trovo davvero incredibile!» Subito i piccoli occhi senza trucco di Kuniko si riempi­rono di lacrime. Di solito si truccava accuratamente, ma sembrava che quel giorno non ne avesse avuto il tempo. Sen­za trucco, però, pareva più giovane e naturale. «Ah, trovi? Non farmi ridere, il paragone non regge, io sono almeno dieci volte meglio di te. Chi è stato a tirarmi dentro, eh? Tu sei stata, solo tu!» «Ma non mi dire! Allora non hai bisogno di soldi?» «Certo che ne ho bisogno. Se non li trovo sono finita!» «Sarà la tua fine lo stesso, credimi, anche senza tutta que­sta storia. Ne conosco di gente come te!» «Come?» «Dove lavoravo prima ce n’erano tante del tuo genere!» Masako non aveva difficoltà a tenere testa a Kuniko. Con una donnetta come lei non c’era altro da fare che darle addosso. Per fortuna poteva concedersi ben altre amicizie. «E dove lavoravi prima?» chiese Kuniko, subito curiosa. Masako scosse il capo: «Questo non ti riguarda». «Certo che mi riguarda! Rispondimi piuttosto, invece di parlare a vanvera e fare tanto la misteriosa!» «Io non parlo mai a vanvera: se vuoi i soldi datti una mos­sa e fa’ qualcosa per guadagnarteli!» «Certo che lo faccio. Ma ci sono dei limiti. Ogni persona ha i suoi limiti, solo questo volevo dire!» «Per carità, senti un po’ da che pulpito!» Masako rise e Kuniko provò all’improvviso il desiderio di rimangiarsi le pa­role appena pronunciate, perché si era ricordata del debito con la finanziaria. Le lacrime si erano asciugate, ma adesso si potevano vedere gocce di sudore spuntare dai pori dilatati sulla punta del naso. «Tu volevi dei soldi e hai collaborato. Se questa non è complicità! Smettila di darti tante arie, come se fossi miglio­re di noi!» «Sì, ma…» incominciò Kuniko, ma poi tacque e le sali­rono di nuovo le lacrime agli occhi, di rabbia questa volta. «Scusate se vi interrompo, ma devo andare», si intromise Yoshie che non aveva nessuna voglia di essere coinvolta nel­la discussione. Le sue occhiaie erano ancora più accentuate. Lanciò uno sguardo apprensivo all’orologio: «La vecchia è sveglia da un pezzo. Il mio lavoro non è ancora finito, ho an­cora un sacco da fare». «Lo so, maestra, va’ pure via, ma prendine qualcuno an­che tu», disse Masako indicando i

sacchi. Yoshie fece una smorfia di disgusto: «Ma io sono in bici­cletta! Vuoi che li metta nel cestino? E dovrò anche tenere l’ombrello aperto!» Masako guardò fuori dalla finestra. Aveva smesso di pio­vere e ora si aprivano squarci di sereno tra le nuvole. Presto la temperatura sarebbe aumentata. Se non si fossero sbrigate la carne avrebbe cominciato a marcire. Le viscere stavano già imputridendo. «Non piove più». «Ma non mi va!» «E allora mi volete dire come facciamo a eliminare i sac­chetti?!» Masako, appoggiata a braccia conserte alla parete di piastrelle, osservava Kuniko che sembrava impietrita nello spogliatoio. «Anche tu te ne porti via un po’!» «Vuoi dire che dovrei mettere questi cosi nel portabaga­gli?!» «Naturale! O hai paura di sporcare la tua elegante auto­mobile?» Come facevano a non capire anche le cose più ov­vie? Possibile che non fossero capaci di usare il cervello? Ma­sako era indignata. «Questo lavoro non è come quello dello stabilimento, non finisce quando si ferma il nastro traspor­tatore. I sacchi devono essere abbandonati nel luogo giusto, e dobbiamo fare in modo che non vengano scoperti. Poi avrete i vostri soldi e poi, solo allora, sarà finito. E se venissero scoperti, speriamo che non riescano a identificare il ca­davere, ma se ci riusciranno pazienza, l’importante è che non scoprano che siamo state noi». «E se Yayoi confessa?» «Potremmo dire che ci ha costrette». «Allora io potrò dire tranquillamente che sei stata tu, Ma­sako, a costringermi», insistette Kuniko, che non voleva ri­nunciare ad avere l’ultima parola. «Fallo pure. In questo caso, però, non avrai da me nean­che uno yen». «Sei terribile. Sei davvero una persona tremenda!» Ku­niko trattenne un singhiozzo e cambiò argomento: «Ma non ti fa pena il morto? Nessuno lo compiange, nessuno prova pena per lui!» «Smettila!» si infuriò Masako. «Questo non ci riguarda! Questo riguarda solo lui e Yama-chan!» «Però, stavo pensando…» intervenne Yoshie guardando le amiche. «È uno strano discorso, ma ho l’impressione che la buonanima in fondo sia felice di essere stato oggetto di tante attenzioni da parte nostra. Avevo sempre creduto che tagliare a pezzi un uomo fosse una cosa terribilmente crude­le. Invece non è così. È come fare un’accurata autopsia, equi­vale in fondo a trattare con cura un venerabile defunto!» Masako attribuì quelle parole al razionalismo egoistico di Yoshie che valutava tutto in funzione della propria conve­nienza. Ma, in effetti, distribuire pezzi di carne in quaranta­tré sacchetti poteva essere considerato un lavoro accurato. Masako guardò di nuovo i sacchetti di plastica sopra il co­perchio della vasca. Avevano troncato la testa, quindi le gambe e le braccia se­guendo le articolazioni. La parte di gamba dalla caviglia in su era stata divisa in due, e così stinco e coscia, tagliati in due pezzi, in modo che da una gamba erano risultati sei pezzi. Il braccio era stato tagliato in cinque parti. I polpastrelli, nel caso i resti fossero stati sottoposti a indagine, erano stati spolpati da Yoshie, per ordine di Masako, come se stesse pre­parando il pesce per i sashimi. Perciò soltanto con le braccia e con le gambe si erano ottenuti ventidue pezzi. Il problema era stato il busto. Avevano impiegato molto tempo per risolverlo. L’avevano tagliato verticalmente, to­gliendo gli organi interni con i quali avevano riempito otto sacchi. Quindi avevano spolpato la carne e la avevano taglia­ta a fette, avevano spezzato le costole e segato le ossa. E con questo altri venti sacchi. Alla fine, compresa la testa, aveva­no riempito quarantatré sacchi. Ci avevano messo tre ore. Quando avevano finito era già l’una passata. E loro non ave­vano più tempo né

energie. I pezzi del cadavere erano stati infilati nei sacchi arricchi­ti con carbonato di calcio raccomandati dal comune di Tokyo: li avevano legati alla sommità e quindi, per pruden­za, infilati capovolti in un altro sacco in modo che non si po­tesse indovinarne il contenuto. Potevano dunque sperare che fossero distrutti dall’inceneritore. I pezzi erano stati mischia­ti in modo che quel chilo abbondante di materiale non ve­nisse facilmente riconosciuto come carne umana. Le viscere erano state imballate insieme a parti del dorso del piede, le spalle insieme ai polpastrelli e così via. Questo era stato il compito di Kuniko, anche se, piangendo, aveva cercato di opporre resistenza. Yoshie aveva suggerito di avvolgere i pez­zi in carta di giornale, ma avevano rinunciato all’idea perché la polizia avrebbe potuto individuare la zona di distribuzio­ne del quotidiano. Rimaneva il problema di dove abbando­nare i sacchi. «Tu, maestra ne avrai cinque, perché sei in bici. Kuniko quindici. Io mi sbarazzerò del resto e troverò una soluzione per la testa. E state attente a toccare i sacchi solo con i guan­ti: non dobbiamo lasciare impronte!» «Che cosa vuoi fare con la sua testa, Masako?» domandò Yoshie guardando con orrore il sacco di plastica nero che la conteneva. Il sacco con la prima parte che avevano tagliato troneggiava imponente sul coperchio della vasca. «La testa?» ribatté Masako trattenendo un sorriso per il tono con cui Yoshie aveva posto la questione. «La seppellirò in seguito. Non c’è altra soluzione. Guai se dovessero scoprirla». «Ma basterà che imputridisca, no?» domandò Yoshie. «Potranno riconoscerla dalla dentatura», interloquì Ku­niko con tono saccente, «fanno così quando si tratta di rico­noscere le vittime degli incidenti aerei o di altre catastrofi». «A ogni modo andate a scaricare i sacchi nei luoghi di raccolta, il più lontano possibile da casa vostra e in posti di­versi. E state attente che nessuno vi veda – ma credo che questo ormai vi sia chiaro». «Allora forse sarebbe meglio farlo questa notte prima del turno, non ti pare?» suggerì Yoshie. «Ma in questo caso i gatti o i corvi avrebbero tutto il tem­po di strappare i sacchi», obiettò Kuniko. «La cosa migliore mi sembra che sia domattina presto, dopo il turno». «L’importante è che nessuno ci osservi. E sarà opportuno abbandonarli il più presto possibile», concluse Masako. «Scusa, Masako, per tornare al discorso di prima», esordì timidamente Kuniko, «non potresti darmi adesso un po’ di soldi? Per oggi mi basterebbero cinquantamila o anche quarantacinquemila yen. Potrei almeno liberarmi dai creditori. Però non mi resterebbe niente per vivere, e dovresti darmi qualcos’altro domani… Sarebbe possibile?» «Pazienza. Lo sottrarrò dalla tua parte». «La mia parte? E a quanto ammonterebbe?» Un inequi­vocabile lampo di cupidigia balenò negli occhi di Kuniko an­cora gonfi di lacrime. Yoshie premette imbarazzata la mano sulla tasca dei pantaloni. Soltanto Masako sapeva che aveva preso il denaro dal portafoglio di Kenji. «Mah, centomila yen dovrebbero bastare, dato che non hai fatto nessun lavoro cruento, hai soltanto riempito i sac­chi. Invece la maestra ne avrà quattrocentomila. Sempre però che Yama-chan sia in grado di sborsare tutto questo denaro». Per un attimo gli occhi di Kuniko e Yoshie si incontraro­no. Sui loro visi comparve un’espressione delusa, ma non dis­sero niente, forse perché Yoshie era soddisfatta del compen­so extra ricevuto, mentre a Kuniko bastava sapere che le era stato risparmiato il lavoro peggiore. O forse perché entram­be avevano paura di Masako. «Bene, allora vado», annunciò Yoshie e uscì senza voltar­si indietro. Kuniko fece per seguirla ma poi si fermò: «Ah, Masako, ci vediamo al posteggio stanotte?» «No, non importa. Andiamo ognuna per conto proprio», rispose Masako stivando in un grande

sacco nero i sacchetti di Kuniko. La compagna la guardò perplessa: «È successo qualcosa ieri sera? Sei arrivata così in ritardo…» «No, niente». «Bene, allora». Squadrò Masako da capo a piedi: non sembrava per niente convinta. Dopo che le due donne se ne furono andate Masako si­stemò nel portabagagli la sua parte di sacchetti, i resti dei ve­stiti e gli altri oggetti personali di Kenji. Prima di recarsi al lavoro avrebbe fatto un giro per trovare un posto adatto do­ve lasciarli la notte stessa o il mattino seguente. Quindi pre­se una spazzola e si mise a pulire il bagno a fondo. Tuttavia, per quanto si sforzasse di sfregare vigorosamente con la spaz­zola dura le scanalature fra le piastrelle, aveva l’impressione che rimanessero sempre macchie di sangue raggrumato e, per quanto spalancasse la finestra e facesse girare il ventilatore, le sembrava che il fetore di sangue e viscere in putrefazione non se ne volesse più andare. Tutta immaginazione, pensò Masako, inganno dei sensi eccitati dalla paura. Yoshie si era strofinata le mani col creso­lo fino quasi a spellarle, per eliminare quell’odore nauseante. Kuniko, che aveva dovuto solo distribuire i pezzi nei sacchi, alla vista dei resti di Kenji era corsa in gabinetto a vomitare e aveva giurato che non avrebbe mai più mangiato carne in vita sua; poi aveva ripreso a lavorare con le lacrime agli oc­chi. Lei invece, almeno fino ad allora, era riuscita a mante­nersi calma. Se si accaniva così tanto con i detersivi e con la spazzola era solo perché temeva le eventuali indagini della polizia scientifica, che avrebbe potuto trovare delle tracce. Ammettere di dipendere dalla propria “immaginazione” sa­rebbe stato uno smacco per Masako, che aveva eliminato dal­la vita tutto ciò che non era razionale. Sulla parete era appiccicato un capello. Un capello ma­schile, duro e corto. Masako lo afferrò con le dita e si do­mandò se fosse di suo marito, di suo figlio o del cadavere di Kenji. Cosa le capitava, era forse uscita di senno? Non era al­tro che un capello, uno dei tanti capelli che si perdono ogni giorno e, finché non si fosse fatta l’analisi del DNA, nessuno avrebbe potuto stabilirne la provenienza! Nient’altro che spazzatura, sia che appartenesse a un uomo vivo che a un ca­davere. Lo sciacquò via e si gettò alle spalle anche la sua “im­maginazione”. Dopo aver chiamato Yayoi per sistemare la questione del denaro, poté finalmente andare a letto. Erano ormai le quat­tro del pomeriggio. Solitamente si coricava alle nove del mat­tino e si alzava a quell’ora. Adesso era fisicamente esausta, ma il suo sistema nervoso era sovraccarico e non riusciva a pren­dere sonno. Andò al frigorifero, prese una lattina di birra e la bevve in un sorso. Non era mai stata così eccitata da quando aveva la­sciato la ditta. Tornò a coricarsi, girandosi e rigirandosi nel letto, nel caldo afoso del crepuscolo estivo. Si era ripromessa di dormire soltanto poche ore, ma quando si destò si accorse che dalla finestra aperta entrava l’aria umida della notte. Guardò l’orologio da polso e si alzò. Erano le otto di sera. Benché fosse più fresco la T-shirt era fradicia di sudore. Aveva fatto un brutto sogno, ma non si ri­cordava più niente. Qualcuno aprì la porta di casa. Yoshiki o Nobuki. Si era addormentata senza neppure preparare la cena. Ancora as­sonnata si diresse lentamente verso il soggiorno. Nobuki stava mangiando una colazione in scatola. Dove­va essere rincasato e, visto che non c’era niente di pronto, do­veva essere uscito a comprarsi qualcosa al supermercato. Quando Masako si avvicinò al tavolo, Nobuki si irrigidì e non disse una parola. Poi però rimase a fissare il vuoto alle spalle della madre con aria impaurita, come se si fosse accor­to che vi era qualcosa di insolito. Masako, osservandolo, ri­cordò che era stato un bambino sensibile. «Hai comprato qualcosa anche per me?» chiese, ma lui abbassò lo sguardo sulla scatola della colazione e inalberò la sua espressione ostinata. Ma che cosa voleva proteggere, da chi o da che cosa

voleva difendersi? Lei in ogni caso aveva ri­nunciato già da tempo a occuparsi di lui! «Buono?» Nobuki depose le bacchette senza rispondere, lo sguardo fisso sul cibo. Masako prese il coperchio di plastica della sca­tola e guardò l’etichetta: «Miki Foods, stabilimento di Higa­shi-Yamato. Confezionato alle 15.00». L’avesse fatto apposta o per caso, Nobuki aveva scelto una delle colazioni del suo stabilimento confezionate durante il turno diurno. Una frec­ciata per lei. Masako si guardò intorno, osservando la stanza perfettamente in ordine. Le venne un leggero capogiro pen­sando a quello che aveva dovuto fare durante il giorno sotto quello stesso tetto. Nobuki prese le bacchette e ricominciò tranquillamente a mangiare. Masako gli si sedette di fronte e rimase a guardarlo men­tre continuava a mangiare muto, perso nei suoi pensieri. Di nuovo si insinuò in lei lo stesso sentimento che aveva provato nei confronti di Kuniko – un desiderio quasi selvaggio di fare pulizia nelle sue relazioni con gli altri – e fu colta da un senso di impotenza nel rendersi conto che il legame che la univa al figlio era uno di quei rapporti che non si potevano spezzare. Masako si alzò e si diresse verso il bagno immerso nel buio. Accese la luce: la stanza, spazzolata e lucidata da capo a fondo, brillava in tutto il suo splendore. Aprì il rubinetto e fece scorrere l’acqua nella vasca. Si spogliò osservando l’acqua che riempiva troppo lenta­mente la vasca, scese il basso gradino e fece una doccia in pie­di. Si ricordò di come la notte prima, nel bagno dello stabi­limento, aveva cercato di eliminare più in fretta possibile ogni traccia di Kazuo Miyamori dal proprio corpo. E poi aveva dovuto dissezionare quello di Kenji, completamente immersa nel suo sangue, i frammenti di pelle, carne e ossa che si insinuavano sotto le unghie. Tuttavia riusciva a pensa­re solo alle tracce di Kazuo Miyamori, e voleva lavarle via un’altra volta. Sotto lo scroscio della doccia ripensò alle pa­role di Yoshie: «Vivi e morti sono tutti uguali», e annuì. Un cadavere è ripugnante, ma non si muove. Mentre Kazuo avrebbe potuto cambiare la sua vita. Sì, i vivi procuravano più fastidi dei morti. Due ore prima del solito Masako uscì di casa e andò alla macchina nel cui bagagliaio aveva stivato i sacchetti con la te­sta e le altre parti del corpo di Kenji. Yoshiki non era ancora tornato. Con suo grande sollievo. Forse perché così poteva ancora evitare di ammettere che provava per lui gli stessi sen­timenti che nutriva nei confronti di Kuniko. Perché la rela­zione con Yoshiki era una di quelle che si potevano cambiare. Guidò sulla Shin-Oume-Highway immersa nel buio in direzione del centro di Tokyo. La strada era vuota, ma Ma­sako non aveva fretta. Guidando guardava a destra e a sini­stra, allontanando dalla mente il pensiero del turno di notte e di quello che trasportava nel portabagagli, concentrata sul­le sensazioni che suscitava in lei il consueto paesaggio. Sorpassò il grande cavalcavia sopra all’impianto di depu­razione delle acque. Dalla sommità vide le luci della gigante­sca ruota panoramica del parco di divertimenti di Seibu che brillavano nel cielo scuro come il bordo di una enorme mo­neta. Aveva dimenticato quel paesaggio. Una volta era salita sulla ruota, molto tempo prima, quando Nobuki era picco­lo. Ormai lui era un uomo, uno sconosciuto, e anche lei era cambiata, e aveva già oltrepassato i propri limiti. Sulla destra il muro di cemento del cimitero di Kodaira seguiva per un tratto la strada. Appena fu in vista della piaz­zola di allenamento del campo da golf, simile a una grande uccelliera, si diresse a destra verso il centro di Tanashi. Ol­trepassato un quartiere residenziale in mezzo ai campi, rag­giunse il grande caseggiato verso cui era diretta. A Tanashi aveva sede la ditta presso la quale aveva lavora­to, per cui conosceva bene il quartiere. Sapeva anche che in quell’edificio vi erano molti appartamenti, che la sorveglian­za era pessima e che il piazzale per la raccolta della spazzatura era accessibile a chiunque. Masako fermò l’auto e prese cin­que sacchetti dal portabagagli. I grandi cassonetti blu, con­trassegnati dalle scritte

COMBUSTIBILE e NON COMBUSTIBILE, erano quasi tutti pieni di sacchi buttati alla rinfusa. Masako distribuì i suoi sacchetti in uno dei contenitori e li pigiò ben bene verso il fondo. Ora tra i pezzi di Kenji e i rifiuti organici delle cucine e la carta non c’era più alcuna differenza. Risalì in macchina e riprese la sua strada, fermandosi ogni volta che trovava un condominio, cercando il piazzale dei ri­fiuti e scaricando senza farsi notare un paio di sacchetti. Continuò a correre nella notte per strade sconosciute, la­sciando dietro di sé ogni volta che poteva qualche sacco. Ora il corpo e i vestiti di Kenji non erano solo a pezzi, ma anche distribuiti qua e là in posti lontani fra loro. Rimanevano sol­tanto la testa e un paio di sciocchezze che teneva nelle tasche dei pantaloni. Se non voleva arrivare troppo tardi doveva affrettarsi ver­so lo stabilimento. Più il bagagliaio si svuotava, più si senti­va alleggerita. Era un po’ preoccupata al pensiero di come avrebbe fatto Yoshie, che non aveva un’auto, ad abbandona­re i sacchi, ma di sicuro si sarebbe arrangiata perché non ne aveva molti. E poi Yoshie era una donna in gamba. Il pro­blema era Kuniko. Era stata una sciocchezza affidare ben quindici sacchi a una come lei! Masako era pentita: forse, se non li aveva ancora gettati, avrebbe potuto riprenderseli e provvedere lei stessa a sistemarli nei cassonetti. Masako tornò indietro e dopo circa mezz’ora arrivò al po­steggio dello stabilimento. Kuniko non era ancora arrivata. Rimase per un po’ seduta in auto ad aspettare, ma la vistosa Golf verde non si faceva vedere. Forse gli avvenimenti della giornata l’avevano talmente scioccata che aveva deciso di ri­manere a casa. Masako si arrabbiò, ma poi decise che non sa­rebbe cambiato molto se Kuniko avesse saltato il turno. Quando scese dall’auto notò che l’aria della notte era ab­bastanza asciutta per essere in luglio. Rispetto al mattino era anche decisamente più fredda. Inconfondibile le giunse alle narici l’odore di olio fritto. Allora si ricordò del canale di scolo della fabbrica dismes­sa e dei fori sulla condotta di cemento. Nessuno si sarebbe accorto se avesse buttato il portachiavi e il portafoglio di Kenji in uno di quei buchi. Quanto alla testa avrebbe potu­to seppellirla il giorno seguente, magari nei boschi intorno al lago Sayama. Era ansiosa di liberarsi degli oggetti di Kenji al più presto possibile. Guardò la saracinesca dell’ex stabilimento e la vegetazio­ne lussureggiante e le tornarono in mente le parole di Kazuo Miyamori, la notte precedente: «Ti aspetto domani, qui». Ma, dopo il loro incontro del mattino, probabilmente aveva abbandonato quell’idea. Tuttavia per precauzione si guardò attentamente intorno: sembrava che non ci fosse davvero nessuno. Si avvicinò al bordo del canale di scolo e si mise a cerca­re i fori sulla condotta. Ne trovò una serie sul punto di con­giunzione di due elementi. Prese il portafoglio vuoto e il por­tachiavi e li gettò in un buco. Udito il tonfo, Masako si ras­serenò e si avventurò nel buio in direzione delle luci dello stabilimento. Non s’era assolutamente accorta che Kazuo Miyamori se ne era stato tutto il tempo accovacciato nell’ombra della sa­racinesca arrugginita contro cui l’aveva spinta la notte prece­dente.

5. Non appena si fu lasciata alle spalle la casa di Masako, Ku­niko tirò un profondo sospiro, come se si fosse liberata da un peso. Il tempo sembrava migliorare, si scorgevano lembi di az­zurro tra le nuvole. Dopo la pioggia l’aria era umida ma pu­lita, e le sembrò finalmente di respirare meglio. Se solo non avesse avuto quel sacco di plastica nero in mano, con il suo ripugnante contenuto! Kuniko rabbrividì e fece una smorfia. Persino l’aria che aveva appena respirato le parve di nuovo calda e disgustosa. Appoggiò il sacco per terra e aprì controvoglia il baga­gliaio della Golf. Anche l’odore di polvere e benzina tipico della sua auto le diede una sensazione di nausea. E adesso do­veva metterci dentro quella schifezza! Mentre faceva posto sulla moquette raggruppando da una parte i suoi oggetti – attrezzi, ombrello, scarpe e così via – continuava a doman­darsi incredula come avesse potuto acconsentire. Ricordava la terribile sensazione di quando, dopo avere infilato i guanti di gomma, aveva incominciato a maneggia­re i pezzi di carne rosata. Il taglio bianco delle ossa segate. La pelle livida con i peli ancora attaccati. Tutti quei particolari, che le si erano impressi a fuoco nel cervello, le sfilavano ora davanti agli occhi in tutta la loro chiarezza. Non era mai sta­ta una brava cuoca, ma una cosa era certa: in nessuna circostanza, mai più, avrebbe preparato un piatto a base di carne! Aveva giurato a Masako che avrebbe fatto tutto con ogni scrupolo, ma adesso non poteva più mantenere la promessa; voleva solo sbrigare più in fretta possibile quella disgustosa faccenda. Anzi non voleva quelle cose nella sua auto, nean­che per un minuto! Presto avrebbero incominciato a decom­porsi e avrebbero emanato un fetore terribile che avrebbe im­pregnato i lisci sedili di pelle e l’avrebbe tormentata in eter­no. Era escluso! Sicuramente anche il deodorante non sareb­be servito a niente. Quanto più ci pensava, tanto meno po­teva sopportare la presenza del sacco nero vicino a sé. Si guardò intorno cercando un posto lì vicino dove buttare via i sacchetti. Si trovava su una collinetta in mezzo ai campi. Eviden­temente avevano incominciato a costruire da poco tempo, perché c’era solo un gruppetto di piccole case nuove di zec­ca, tra cui quella di Masako. Tuttavia il caso volle che avesse fortuna: al limite della zona costruita scoprì un punto di rac­colta della spazzatura circondato da un muretto di cemento. Kuniko si girò verso la casa di Masako per assicurarsi di non essere vista. Prese il pesante sacco di plastica e lo portò fino ai bidoni. Se l’avessero trovato lì avrebbero potuto seguire le tracce senza difficoltà, ma a Kuniko ormai non importava più nul­la. Aveva forse chiesto lei di aiutarle?! Gettò semplicemente il sacco al di là del muretto, sul terreno ben spazzato. La pla­stica si lacerò su un lato, lasciando intravedere il sacchetto se­mitrasparente che si trovava all’interno. Kuniko girò la testa – non voleva più guardare quella roba – e stava per andarse­ne di corsa quando udì dietro di sé una voce maschile. Spa­ventata a morte si fermò. «Aspetti un po’!» Dal recinto spuntò fuori improvvisamente un vecchio ab­ bronzato in tuta da lavoro, l’ira dipinta sul volto: «Lei non è di queste parti, vero?» «Ehm…» «Non si sogni di fare una cosa del genere!» Il vecchio pre­se il sacco appena abbandonato da Kuniko e glielo tenne al­to davanti al naso. Poi – con un’espressione che voleva dire: «Ti ho pescata!» – con l’altra mano indicò i campi e disse: «Io me ne sto lì a sorvegliare, perché ogni tanto spuntano fuori delle svergognate come lei!» «Scusi». Kuniko, che non era mai riuscita a sopportare di essere rimproverata, prese il sacco che il vecchio le tendeva e si allontanò a passi precipitosi. Arrivata alla macchina gettò senza esitazione il sacco nel bagagliaio e avviò in fretta il mo­tore. Diede uno sguardo allo specchietto retrovisore e si

ac­corse che il vecchio continuava a spiarla. Kuniko premette sull’acceleratore. «Vecchio merdoso! Crepa!» lo maledì osservando la sua immagine riflessa nello specchietto, poi guidò senza sapere dove andare. Dopo un po’ si rese conto che non era così facile disfarsi del sacco senza attirare l’attenzione e divenne ancora più cu­pa. In che cosa si era lasciata invischiare! Ben quindici sacchi le aveva affibbiato Masako! E con tutto quello che pesavano! Non poteva continuare a portarseli dietro, prima o poi qual­cuno l’avrebbe notata. Ma voleva liberarsene il più presto possibile. Dove poteva portarli? Continuava a guidare ag­grappata spasmodicamente al volante, guardando nervosa a destra e a sinistra alla ricerca di un luogo sicuro. L’ansia le impediva di concentrarsi sulla guida e più di una volta le suonarono col clacson perché rimaneva ferma davanti al se­maforo verde. Attraversò il piccolo quartiere residenziale che aveva già percorso al mattino. Il suo sguardo si posò sulle giovani ma­dri intente a sorvegliare i figli che giocavano nel misero giar­dinetto. Proprio in quel momento una di loro stava gettan­do un sacchetto di caramelle vuoto nel cestino della spazza­tura accanto alla panchina. Quella era una splendida idea: li avrebbe lasciati in un parco! Nei parchi c’erano ovunque ce­stini per le immondizie ed era difficile che ci fosse molta gen­te. Sì, un parco andava benissimo! Meglio ancora un grande parco pubblico, dove si poteva entrare e uscire liberamente. Entusiasta dell’idea, Kuniko ritrovò il buonumore e con­tinuò a guidare canticchiando. Era già stata una volta al parco di Koganei insieme ai compagni di lavoro per vedere la fioritura dei ciliegi. Non era forse il parco più grande di Tokyo? Lì avrebbe potuto abbandonare quella terribile immondizia senza timore di esse­re scoperta. Kuniko posteggiò sull’argine del Shakujiigawa, dietro al parco. Era il pomeriggio di un giorno feriale e non c’era ani­ma viva. Si ricordò dei guanti di gomma che le aveva dato Masako, li infilò, prese dal bagagliaio il sacco nero ed entrò nel parco dall’ingresso posteriore. Si trovò in un bosco fitto di cespugli e alti alberi – l’intenso profumo del tenero fo­gliame era quasi soffocante! Si allontanò dal sentiero e pro­seguì nel sottobosco umido di pioggia; in breve le sue scarpe basse, bianche, furono bagnate fradice. Faceva molto caldo e le mani sudavano dentro i guanti. L’afa e il peso del sacco la facevano ansimare. Possibile che non ci fosse un posto dove abbandonare finalmente quel sacchetto senza farsi vedere? Non riusciva a pensare ad altro. Ma purtroppo nel bosco non c’era un solo cesto per le immondizie. A poco a poco il bosco si diradò e davanti a lei si aprì un vasto prato. Aveva appena smesso di piovere e non c’era qua­si nessuno – incredibile se pensava alla folla nei giorni della fioritura dei ciliegi! C’erano solo due ragazzi che si tiravano una palla da baseball. Un uomo che faceva una passeggiata. Una coppietta in costume da bagno che amoreggiava su un materassino color argento steso sul prato bagnato. Un grup­po di signore che guardavano i bambini giocare. Un uomo maturo che portava a spasso un grosso cane. Nessun altro. Il luogo ideale per sbrigare quella faccenda! Kuniko sorrise fra sé e sé. Camminò mantenendosi sotto l’ombra degli alberi in modo da non essere notata, cercando i cestini per le immon­dizie. Lanciò il primo sacco in un grande cesto vicino al cam­po da tennis. Ne abbandonò altri due in un cestino al limite di una piazzetta in cui erano installati degli attrezzi per i gio­chi dei bambini. Finì con l’imbattersi in un gruppo di vec­chi che passeggiavano, e con aria indifferente si affrettò a rientrare nel bosco. Con questo metodo – cercare i cestini, aspettare che nessuno la vedesse, disfarsi di un sacchetto – ci mise quasi un’ora a eliminare tutti i quindici sacchi. All’improvviso, forse per il sollievo, le venne fame. In tut­to il giorno non aveva mandato giù un boccone. Scorse un chiosco e si affrettò in quella direzione togliendosi i guanti di gomma, ripiegando il grande sacco nero e infilandoli in bor­sa. Comprò un hot-dog e una coca e si sedette a mangiare su una panchina. Gettando il piatto e il bicchiere di carta nel cestino della spazzatura, vide dei

resti di spaghetti di grano saraceno fritti coperti di mosche. Chissà quante mosche avrebbero ricoperto anche il contenuto dei sacchi che aveva appena buttato via, se si fossero lacerati! Ricoperto di mosche, e mangiato dai vermi… Le venne di nuovo da vomitare e la bocca le si riempì di saliva acida. Ora voleva solo andare a casa e dormire. Si alzò dalla pan­ca, si ficcò tra le labbra una sigaretta al mentolo e si mise a correre sull’erba bagnata in direzione della sua Golf. Quando – barcollante per la mancanza di sonno, lo shock di ciò che aveva visto in casa di Masako e il lavoro nel parco – si fermò finalmente davanti alla porta di casa, vide un gio­vane avvicinarsi lentamente dal fondo del corridoio. Non aveva proprio idea di chi fosse. Indossava un completo so­brio e portava una valigetta nera da rappresentante. Ci man­cava anche questa! Aprì frettolosamente la porta e cercò di ri­fugiarsi nel suo appartamento. Ma l’uomo l’aveva già chia­mata: «Signora Jonouchi?» Aveva già udito quella voce. Come mai sapeva il suo nome? Kuniko gli rivolse uno sguardo diffidente. L’uomo si avvicinò sorridendo. Sotto al completo di lino scozzese portava una cravatta gialla a piccoli decori. Sembrava avere gusto, era snello e aveva i capelli tin­ti di castano – non era male. Aveva qualcosa di quei giovani attori affascinanti delle serie televisive. Kuniko si incuriosì. «Mi scusi se la trattengo. Mi chiamo Jumonji». L’uomo prese un biglietto da visita dal taschino della giacca e lo tese a Kuniko con un gesto che doveva essergli usuale. Kuniko lo lesse e non riuscì a trattenere un urlo soffocato. Vi era scritto: «Agenzia finanziaria Milione - Aki­ra Jumonji - Direttore amministrativo». Era riuscita ad avere in prestito cinquantamila yen da Ma­sako ma, impegnata com’era nello smaltimento dei sacchi, si era completamente dimenticata di andare in banca. Ma per­ché mai aveva fatto tutta quella fatica! Era davvero troppo cretina! Kuniko, che di solito era capace di rimanere imper­turbabile, riuscì a malapena a dissimulare il nervosismo. «Ah sì, mi scusi. Ho il denaro, ma mi sono completa­mente dimenticata di cambiarlo. Ecco… ce l’ho davvero, aspetti!» Prese il portafoglio dalla borsetta e i guanti usa e getta caddero sul pavimento sporco. Jumonji si chinò a raccoglier­li, li guardò perplesso e glieli restituì. Kuniko era sempre più agitata, anche se era un sollievo vedere che non si trattava del solito yakuza incaricato di ri­scuotere con la forza i crediti, ma di un giovane che sembra­va anche sorprendentemente galante. Non le dispiaceva, for­se avrebbe potuto anche averci una storia! Tutto sommato in­cominciava a ritrovare la fiducia in se stessa. «Erano cinquantacinquemila e duecento yen, vero? Mi può dare il resto di seicentomila?» Kuniko gli tese i cinque biglietti da diecimila avuti da Masako, insieme a quello che già aveva. Jumonji scosse la testa: «Ma non qui, la prego!» «Ah, preferisce che andiamo in banca e li versiamo sul suo conto?» Kuniko guardò l’orologio. Erano quasi le quattro del po­meriggio, avrebbe potuto versarli al banco automatico. «No, no, non è necessario. Li può consegnare tranquilla­mente a me. Avevo solo pensato ai vicini…» «Ah, mi scusi, a quello non avevo proprio pensato», Ku­niko chinò leggermente la testa. «No, no, la capisco bene, sa? So che si trova in una situa­zione difficile e a maggior ragione apprezzo ancora di più la sua buona volontà». Jumonji scrisse la ricevuta e gliela con­segnò insieme al resto, quindi le sussurrò con aria preoccu­pata: «Inoltre sembra che suo marito abbia rinunciato al suo posto nella ditta farmaceutica, vero?» «Già, è vero», ammise Kuniko. Dunque lo sapevano già! Si erano presi la briga di fare delle ricerche così accurate… Un po’ impressionata Kuniko proseguì: «È molto bene infor­mato!»

«Sì, mi scusi, ma in certe situazioni ci permettiamo sem­pre di fare qualche controllo. E posso chiederle dove lavora adesso suo marito?» Jumonji continuava a sorridere. Benché fosse perfettamente consapevole che, nonostante il tono di voce soave e l’espressione gentile, lui stava cercan­do di imprigionarla nella sua ragnatela, si lasciò scappare quello che lui in nessun caso avrebbe dovuto sapere: «Ma, ve­ramente… non lo so». «Che intende dire?» Jumonji piegò la testa di lato come se non riuscisse a capire. Era terribilmente sexy. Sembrava uno di quei giovani per­sonaggi dei quiz televisivi, che chinano la testa dubbiosi an­che alla domanda più semplice. Kuniko, colta dal desiderio di confidarsi, finì con il lasciarsi andare del tutto: «Ieri non è tornato a casa. Sono preoccupata, forse mi ha lasciato». «Mi scusi se sono indiscreto, ma siete regolarmente spo­sati, vero?» «No… insomma, viviamo insieme», mormorò Kuniko. A quel punto Jumonji sospirò: «Ah, è così dunque». Si aprì la porta dell’appartamento attiguo e apparve una donna con il bambino legato sulla schiena e il carrello della spesa ancora ripiegato. Le fece un breve cenno, senza na­scondere la curiosità per l’uomo con cui stava parlando. Ju­monji annuì e tacque finché la donna non sparì. Sembrava sinceramente preoccupato per il buon nome di Kuniko. «E che cosa farà, se se ne è veramente andato? Mi scusi se glielo chiedo, ma ha soldi abbastanza per vivere?» Kuniko era disperata. Esattamente quello era il punto! I centoventimila yen che guadagnava in fabbrica bastavano appena a pagare gli interessi del mutuo. Alle spese di casa aveva sempre provveduto Tetsuya con il suo stipendio. E se lui se ne era veramente andato, naturalmente la sua paga da sola non sarebbe bastata. «No, ha ragione. Forse dovrei trovarmi un altro lavoro». «Uhm…» fece Jumonji e, come se volesse riflettere, in­clinò la testa di lato in quel suo modo particolare. «Anche con un altro lavoro potrà solo far fronte alle spese quotidia­ne. Mi scusi la franchezza, ma il suo problema sono i debiti, vero?» «Già». Kuniko era depressa. «Se vuole, forse potremmo parlare di un piano di restitu­zione, che cosa ne pensa?» Sembrava che Jumonji volesse entrare in casa. Kuniko si agitò: al mattino se ne era uscita arrabbiata nera, senza met­tere in ordine, e l’appartamento era nel caos più totale. Non poteva di certo invitare in casa un uomo così affascinante! «Sì, ma…» «Di sicuro c’è un ristorantino da queste parti. Vogliamo andare a sederci lì? Ho l’auto posteggiata qui fuori». Kuniko si calmò e dimenticò la prudenza: «Va bene, mi attenda un attimo qui. Vorrei dare un’occhiata in casa». «Naturalmente, la aspetto in macchina. È una Nissan Maxima blu scuro». Jumonji fece un inchino perfetto, ac­compagnato dal suo migliore sorriso, e sparì. Una Nissan Maxima blu scuro! Avrebbero discusso del piano di restituzione! Seduti in un ristorantino! Kuniko entrò nell’appartamento. Per l’eccitazione si era già dimenticata quello che era successo a casa di Masako. Perché proprio oggi era uscita di casa senza trucco? E perché proprio oggi si era messa quegli stupidi jeans e quella vecchia T-shirt? Quasi quasi sembrava la maestra! E inoltre, come le era venuto in mente che gli uomini che andavano a riscuotere crediti fossero tutti degli yakuza? Mai si sarebbe aspettata di ricevere la visita di un uomo così giovane e carino! Mentre si spalmava velocemente il fondotinta sul viso, Kuniko riprese in mano il biglietto da visita di Ju­monji e lesse: «Agenzia finanziaria Milione - Akira Jumonji ­Direttore amministrativo».

Direttore amministrativo era sinonimo di presidente. Non si chiese come mai un presidente andasse personalmen­te a riscuotere i crediti, né la insospettì quel nome che suo­nava come un nome d’arte – ora l’unica cosa che la interes­sava era il giovane uomo affascinante del quale si era com­pletamente infatuata.

6. Erano seduti al ristorante. Jumonji beveva il pessimo caffè che gli avevano servito e osservava il volto di Kuniko seduta di fronte a lui. Mentre l’attendeva in auto, Kuniko si era evidentemente presa la briga di truccarsi, perché era un po’ meglio di come non gli fosse sembrata nella penombra del corridoio, e tutta­via la spessa riga di eye-liner intorno agli occhi, il fondotin­ta steso male e il trucco pesante accentuavano l’impressione di una donna di età indefinibile, dalla personalità vagamen­te equivoca. Jumonji, che in ogni caso prendeva in considerazione so­lo le ragazze sotto i vent’anni, provava repulsione nei suoi confronti – anche se in fondo non gli aveva fatto niente di male. Era fermamente convinto, infatti, che dopo una certa età le donne diventassero più depravate. Anche questa un’obbligazione fasulla, pensò Jumonji fis­sando i denti sporgenti di Kuniko, che chiacchierava raccon­tandogli quanto fosse duro il lavoro allo stabilimento delle colazioni. Sugli incisivi si vedevano tracce del rossetto rosa. «Allora lei, signora Jonouchi, non ha alcuna intenzione di lavorare di giorno?» «Ce l’avrei. Ma è difficile trovare un lavoro adatto a me», rispose Kuniko con aria depressa. «Che cosa le piacerebbe fare?» «Un lavoro d’ufficio non sarebbe male, ma in questo campo non ci sono offerte». «Ma lei deve cercare, vedrà che lo troverà!» disse a caso Ju­monji e intanto pensava: anche se ce ne fossero, a te non ti prenderebbe nessuno. Che Kuniko fosse una megera inaffi­dabile era lampante. Nonostante avesse poco più di trent’an­ni, ne aveva incontrata un sacco di gente come lei. Apparte­neva a quel tipo di donne che ruba il materiale di cancelleria e usa il telefono dell’ufficio per le proprie conversazioni pri­vate se solo le si tolgono per un attimo gli occhi di dosso. Una di quelle che mancano dal lavoro senza giustificazione e che arraffano senza scrupoli tutto quello che possono. Se fos­se dipeso da lui, una come lei sarebbe stata sempre senza la­voro. «Allora, signora Jonouchi, questo significa che vuole an­dare avanti solo con la sua attività notturna?» «Ma che cosa dice! Attività notturna! Come se fossi una di quelle…» Kuniko rise con civetteria. Non c’era niente da ridere. Come se fosse troppo raffina­ta per fare quel mestiere! Quando era sommersa dai debiti fi­no al collo! Adesso ti sistemo io, pensò Jumonji disgustato e posò con decisione la pesante tazza del caffè sul piattino. Non poteva più sopportare quella donnaccia! «Posso parlarle francamente?» «Sì…» Kuniko assunse un’espressione seria. «Anche se può sembrare indelicato, sono costretto a chie­derle se è sicura di poter versare la prossima rata». Jumonji atteggiò il viso a un’intensa preoccupazione. Con le belle so­pracciglia aggrottate e l’espressione seria e vagamente inge­nua, aveva assunto un’aria compunta e affidabile, di cui an­dava orgoglioso. Sapeva che le donne non potevano resister­gli quando faceva quella faccia. Come aveva previsto, Ku­niko si sciolse e incominciò ad agitarsi per l’imbarazzo. Co­me se uno che prestava soldi potesse permettersi di essere in­genuo, pensò maligno il perfido Jumonji. «Certamente, le do la mia parola. In definitiva sono ob­bligata a pagare!» «Sì, ha ragione. Ma come pensa di fare? Dal momento che non sa dove si sia cacciato il suo compagno, ha bisogno di un nuovo garante». L’uomo di Kuniko, ora scomparso, aveva avuto un’occu­pazione stabile solo negli ultimi due anni, ma la ditta in cui era impiegato era quotata nella borsa di Tokyo. Solo per que­sto le avevano fatto subito un prestito di ottocentomila yen. Forse Kuniko aveva pensato che bastasse andare lì e chiedere per avere subito del denaro, ma senza il suo uomo – convi­vente o marito che fosse – non avrebbe più

visto uno yen. E dal momento che ora si era licenziato ed era sparito, per lo­ro era chiaro come il sole che mai avrebbero avuto indietro i soldi. Avrebbe voluto stritolarla: ma chi credeva che sarebbe stato disposto a fare un prestito a una come lei?! «Capisco, ma non mi viene in mente nessuno che possa garantire per me». Sembrava che non le fosse neppure passa­to per la testa che ci volesse un altro garante. Era costernata. «I suoi genitori vivono nell’Hokkaido, vero?» domandò Jumonji esaminando il formulario che aveva portato con sé. Kuniko aveva scritto l’indirizzo e il luogo di lavoro dei geni­tori, ma il rigo “Altri parenti” era vuoto. «Sì. Mio padre vive lì, ma è malato». «Ma la aiuterebbe di sicuro, se sapesse che la sua bambi­na è in difficoltà, vero?» «Escluso. Non fa che entrare e uscire dagli ospedali. E inoltre anche lui non ha uno yen». «Andrebbe bene chiunque, un parente o un amico. Mi basterebbe la sua firma e un timbro qualsiasi, non c’è biso­gno di autentica». «Non ho nessuno». «Male, e adesso cosa facciamo?» sospirò teatralmente Ju­monji. «Deve ancora finire di pagare la rata dell’auto, vero?» «Sì. Ancora due anni, no tre…» «E la carta di credito?» «Preferisco non pensarci!» Dopo questa vaga risposta, Kuniko restò inebetita a guar­dare davanti a sé, dimenticandosi persino di fumare la siga­retta. Il suo sguardo era fisso sull’hamburger che una came­riera in grembiulino rosa stava portando a un tavolo. Stupi­to Jumonji si accorse delle gocce di sudore che si formavano sulla fronte della donna. «Che cosa c’è adesso, si sente bene?» «Non è niente, è solo che quella carne mi ha fatto im­pressione». «Non le piace la carne?» «Non particolarmente». «Per questo ha una così splendida figura!» Poteva anche risparmiarselo, questa era davvero un’esa­gerazione. Jumonji fece un sorriso di circostanza ma decise di smetterla con i complimenti. Aveva un solo pensiero nel­la testa: come riuscire a riprendersi il denaro da quella svam­pita che non si rendeva conto della situazione in cui si tro­vava. In un altro caso l’avrebbe immediatamente infilata in un bordello, se avesse interrotto i pagamenti, ma con quella fac­cia e quel corpo non sarebbe riuscito a tirarne fuori molto. E se l’avesse mandata da qualche altro usuraio? Non era facile trovarne uno così stupido da prestarle dei soldi senza la ga­ranzia di un marito. Il vero problema era dunque scoprire dove si trovava l’uomo… Scocciato Jumonji pensò alla fati­ca che avrebbe dovuto fare per rintracciarlo. Tutto a un tratto Kuniko alzò la testa: «Però avrei un’al­tra possibilità di procurarmi denaro. Credo di farcela. E poi, naturalmente, mi cercherò un lavoro per il giorno». «Ah, e di che tipo di possibilità si tratterebbe? Un picco­lo lavoro part-time o qualcosa del genere?» «Già, si potrebbe anche chiamare così». «E quanto riuscirebbe a ricavarne?» «Senz’altro duecentomila». Che fosse una bugia buttata lì per tenerselo buono? Ju­monji la scrutò: il suo sguardo era irrequieto ma gli occhi brillavano selvaggi come quelli di una belva. Quel guizzo sinistro lo turbò. Prima, quando era impiegato in una società di riscossio­ne crediti e non aveva una propria agenzia, aveva incontrato spesso gente pericolosa, soprattutto uomini. Non si sarebbe­ro tirati indietro

di fronte a niente pur di tirarsi fuori dai guai: truffe, rapine, qualsiasi cosa andava bene. Quando uno si accorge di non avere vie di uscita, esplode e rivolge la pro­pria aggressività verso gli altri. Ma Kuniko non era una te­meraria, in lei si intuiva piuttosto un’ombra cupa, ancora più torbida. Solo una volta gli era successo di provare la stessa sensazione, e sempre con una donna. Frugò mentalmente nel cassetto della memoria alla ricerca di quel viso. Dopo la visi­ta di Jumonji e dei suoi compagni la donna aveva scritto una interminabile lettera di addio carica di odio, aveva gettato nel fiume da un ponte i figli ancora vivi e poi si era suicida­ta. Era scampato solo il marito. Donne di quel genere sono bravissime a rimuovere le proprie colpe e ad addossarle agli altri. Coltivano le proprie manie di persecuzione e, come se non bastasse, trascinano nel loro pantano anche chi non ha nessuna colpa. Jumonji ebbe l’impressione che un’aura malsana, quasi demoniaca emanasse da Kuniko. Infastidito abbassò lo sguardo e fissò le gambe nude di alcune liceali che sedevano fumando in pace al tavolo vicino. «Forse anche cinquecentomila, Jumonji-san…» aggiunse Kuniko con un lieve sorriso. Lui la interruppe: «Vuole dire un’entrata fissa?» «Questo no, ma…» ammise Kuniko guardandolo di tra­verso. «No, non un’entrata regolare, ma qualcosa di simile, credo». Forse aveva davvero una fonte segreta di guadagno, una vacca da mungere. A ogni modo che spillasse il denaro a un vecchio o che vendesse il suo corpo a lui non importava. Ju­monji decise di non occuparsi dei suoi affari personali. Ba­stava che lo pagasse. In ogni caso le avrebbe chiesto un ga­rante e avrebbe aspettato un poco per capire la situazione. «Va bene. In fondo non ha ancora ritardato i pagamenti. Facciamo così, venga in ufficio domani o dopodomani. Se preferisce, posso tornare io a trovarla. Nel frattempo si pro­curi la firma e il timbro di un garante», le raccomandò con­segnandole il formulario. «Ma è necessario un garante anche se posso pagare?» pro­testò Kuniko facendo una smorfia. «Ho paura di sì. Deve capire che la scomparsa del suo compagno costituisce un fattore di rischio per noi. La prego quindi di cercare qualcuno già entro questa sera. Mi racco­mando». «Se non si può fare diversamente…» Kuniko annuì rilut­tante. «Già, questo prima di tutto». «Ah». Kuniko abbassò gli occhi e si passò la punta della lingua sulle labbra come se volesse leccarsi via il rossetto. «La saluto». Jumonji afferrò il conto e si alzò. Il disap­punto sul volto di Kuniko era palese. Era stupita che lui non facesse nemmeno la mossa di riaccompagnarla a casa, ma persino un caffè era troppo per una come lei, pensò Jumonji lasciandola sola e uscendo in fretta dal locale. All’uscita, co­me per scuotersi di dosso il cattivo umore che lo assaliva ogni volta che aveva a che fare con i debitori insolventi, si tolse un filo dall’abito. Non che quel lavoro gli dispiacesse, al contrario. I più cercavano in qualche modo di evitare di pagare, pur sapen­do che comunque i debiti non si dissolvono nell’aria come bolle di sapone. Lui doveva anticiparli, prendere le misure necessarie e costringerli a sborsare. Si divertiva a metterli con le spalle al muro, anzi ne traeva un vero piacere. Tornato alla sua Maxima ferma nel grande posteggio del ristorante, notò una Nissan Gloria nera dai vetri azzurrati parcheggiata accanto alla sua. Prese la chiave nella tasca dei pantaloni e stava per aprire la portiera quando il finestrino della Gloria si abbassò e si affacciò un uomo dal viso magro: «Ehi, Akira! Che mi venga un colpo se non sei Akira!» Era Soga, uno che aveva conosciuto ad Adachi, il distret­to più settentrionale di Tokyo. Allora frequentavano le me­die nel quartiere di Takenozuka e Soga era di due anni avan­ti rispetto a lui. Finita la scuola era entrato in una banda di motociclisti e poi – a quanto ne sapeva – era diventato mem­bro effettivo di una cosca yakuza.

«Ah, Soga-san! Sono contento di vederla!» lo salutò Ju­monji sorpreso. Erano passati più o meno cinque anni da quando si erano incontrati in uno snack-bar di Adachi e ave­vano bevuto qualcosa insieme. Era magro come una volta, il volto affilato e la pelle livida e giallastra, come se soffrisse di fegato. Allora Soga era ancora un giovane scagnozzo, all’ulti­mo posto nella gerarchia degli yakuza, ma a quanto pareva aveva fatto carriera. Jumonji lo valutò con occhio esperto: aveva i capelli impomatati pettinati all’indietro e indossava un elegante completo azzurro cielo e una camicia color ama­ranto. «Sono contento di vederla… Puah, lascia stare i compli­menti! Piuttosto dimmi che cosa fai in questo posto dimen­ticato da Dio!» disse Soga scendendo dalla macchina con un largo sorriso. «C’è forse una riunione?» «Riunione? No, è un pezzo che non sono più nella ban­da!» Jumonji scoppiò a ridere. «Adesso mi faccio gli affari miei!» «Affari? E che razza di affari?» Soga, le mani infilate nelle tasche, spiò all’interno dell’auto di Jumonji. Tutto era per­fettamente pulito e in ordine, l’unica cosa che si vedeva era un atlante stradale sul sedile. «Uomo, manca qualcosa in questa carretta! Niente volante sportivo, niente sedili in pel­le, neanche una coda di volpe!» lo motteggiò Soga. «Ma che cosa va a pensare! Sono cose del passato!» «E poi guarda che taglio! Come fai a farti rispettare? Sem­bri uno sbarbatello!» Soga osservava stupito la scriminatura centrale dei capelli di Jumonji. «Ripeto che non ne ho alcun bisogno, adesso faccio un lavoro pulito!» «Non mi dire che sei diventato un normale borghesuccio qualsiasi!» Con una smorfia sarcastica Soga lo afferrò per il bavero. «Lavoro nel ramo dei finanziamenti, piccoli crediti e co­se del genere». «Ah, suona già un po’ meglio! Sei sempre stato irrime­diabilmente tirchio. Come si dice: ognuno ha quel che si me­rita!» «E lei, Soga-san?» domandò a sua volta Jumonji facendo un mezzo passo indietro. «Io sono uno di questi», rispose l’uomo, tracciando in aria uno stemma yakuza, ed esattamente quello di un sotto­gruppo della Tekiya che imperversava nel distretto di Adachi. «Questo lo sapevo già», replicò Jumonji con un sorriset­to. «Intendevo, che cosa la porta da queste parti?» «Uhm…» mugolò Soga guardando da una parte, verso due auto ferme al limite del posteggio. Jumonji seguì il suo sguardo. Sembrava che ci fosse stato un incidente. Un uomo di mezza età guardava per terra con l’aria spaventata. Davan­ti a lui un ragazzo in abiti sgargianti continuava a inveire. Una delle auto, di produzione nazionale, aveva il paraurti se­ riamente lesionato. «Un incidente?» «Sì, prova a immaginare, quel vecchio orbo ci è venuto addosso!» «Ah». Adesso capiva: qualcuno gli aveva detto che ulti­mamente si erano moltiplicate le bande specializzate nell’in­scenare incidenti stradali, che dal centro ora premevano ver­so i quartieri periferici. Pochi giorni prima un suo collega gli aveva perfino inviato una e-mail con le targhe delle auto con cui operavano. Cercavano una vittima, le si mettevano da­vanti e frenavano di colpo: il tamponamento era inevitabile. Quando il malcapitato scendeva sconvolto dall’auto, aveva­no tutto il tempo di osservarlo e valutare la sua reazione e de­cidere infine quale strategia usare per spillargli denaro. Ju­monji conosceva i metodi di queste bande, ma non sapeva che anche l’organizzazione di Soga operasse in quel settore. «Ne ho già sentito parlare. Quindi siete voi!». «Ah, la gente parla fin che ha fiato! Sempre i soliti di­scorsi! Ma è stato quello scemo a

tamponarci, e noi siamo i danneggiati!» piagnucolò Soga con una faccia da angelo innocente. Kuniko, appena uscita dal ristorante, li guardò im­paurita. Quando si accorse che la osservavano girò sui tacchi e se la diede a gambe. Probabilmente ne aveva avuto abbastanza, adesso avrebbe sicuramente cercato subito un garan­te, pensò Jumonji, congratulandosi tra sé e sé per l’insperato effetto “collaterale” del suo incontro con Soga. «Soga-san, adesso andiamo all’ospedale», venne ad avvi­sarlo uno dei giovani che discutevano con l’uomo di mezza età. L’altro, accovacciato accanto all’auto, si premeva la nuca con gesto teatrale. La vittima del raggiro gli rivolgeva timo­rosamente la parola. Quello è proprio un bel pollo, pensò Ju­monji. Non gli faceva pena. Gente così cretina non si meri­tava niente di meglio. «Ah, Akira», disse Soga con aria protettiva, tendendo la mano dura e nervosa a Jumonji, «dammi il tuo biglietto da visita». «Oh, mi scusi per non averci pensato!» Jumonji tirò fuo­ri un biglietto dal taschino interno della giacca e glielo por­se con disinvoltura professionale: «Mi raccomando a lei». «Che cosa vedo qui?!» Soga scoppiò a ridere non appena lesse il biglietto. «Non ti sei mai chiamato Jumonji!» In realtà il suo vero nome era Akira Yamada. Un nome troppo comune, perciò in quattro e quattr’otto aveva deciso di cambiare il cognome e di prendere quello del suo cam­pione di ciclismo preferito. «Suona strano?» «Ma senti un po’, certo che è strano. Un nome d’arte! Sei sempre stato un vanitoso! Bravo!» commentò Soga ficcando­si in tasca il biglietto. «Be’, era destino che ci incontrassimo qui. Vorrà dire che continueremo a beccarci come un tempo, eh?!» «Bella idea», annuì Jumonji per non rovinare l’atmosfera. Benché ora facesse di tutto per sembrare una persona per be­ne, una volta anche lui aveva fatto parte di una banda di mo­tociclisti insieme a Soga. «Sì, chissà che non riusciamo a fare qualcosa insieme! Se vuoi ti presto uno dei miei ragazzi per riscuotere i crediti». «Grazie, se ne avessi bisogno ne approfitterò senz’altro. Ma per ora trattiamo soltanto piccole somme, non è un gros­so giro d’affari!» Se avesse esagerato con le minacce ai clien­ti, sarebbero scappati tutti. E avrebbe perso interessi e capi­tale. I conigli devono essere trattati come conigli. In quel mestiere l’arte stava tutta nel trattare con la gente nel modo più adatto. «Okay, niente complimenti. Se hai bisogno di qualcuno, chiedimelo. Ma lo so che tu, con quella faccetta ingenua, sei un gran furbacchione!» Soga gli diede un buffetto sulla guan­cia. «Sei un tipaccio. Mi piacerebbe che qualcuno dei miei ragazzi avesse il cervellino che hai tu. E invece sono tutti cre­tini, non sai quanto devo faticare a stargli dietro! La cosa che mi piacerebbe di più sarebbe di fargli fare un bell’apprendi­stato nella nostra vecchia banda!» borbottò rivolgendo uno sguardo tagliente ai ragazzi. «Ma piuttosto, Soga-san, non ha per caso in vista qualche buon affare per me?» «Non farmi ridere! Come se non stessimo tutti cercando la stessa cosa!» Soga distolse lo sguardo da Jumonji e, di nuovo serio, ri­salì in macchina. Per tutto il tempo un ragazzo con i capelli biondi tinti, la cui unica funzione era evidentemente quella di fargli da autista, lo aveva aspettato tenendo la portiera aperta piegato in un inchino. Jumonji salutò e seguì con lo sguardo l’auto di Soga finché non ebbe lasciato il parcheggio. Poi se ne andò anche lui. Invece di offrirgli uno dei suoi stu­pidi scagnozzi, avrebbe potuto dargli l’occasione di fare un po’ di soldi! Alla fin fine i soldi non bastavano mai. In un vicoletto dietro alla stazione di Higashi-Yamato c’e­ra una squallida bottega di sushi specializzata nel servizio a domicilio. Le tendine erano sporche e il motorino che veni­va usato per le consegne era tutto schizzato di fango. Nel re­trobottega un ragazzo stava pulendo un mastello con una

spazzola da gabinetto. Era solo questione di tempo, prima o poi l’ufficio di igiene l’avrebbe fatta chiudere. Accanto alla porta una scala che sembrava costruita da poco portava al piano superiore dove, in fondo al corridoio, aveva sede la finanziaria di Jumonji. L’uomo salì la scala scricchiolante a passi veloci e vigorosi. Aprì la porta di com­pensato su cui era infissa una targa bianca con scritto «Agen­zia finanziaria Milione». «’Sera», lo salutarono i due impiegati girandosi verso di lui. C’erano un computer, alcuni telefoni, un giovane dalla faccia annoiata e una donna con una pettinatura arruffata al­la selvaggia, ricordo dei primi anni Ottanta, per la quale era decisamente troppo vecchia. «Sì, ’sera. È successo qualcosa?» «Negativo. Oggi pomeriggio nulla». Benché sapesse che il tentativo era destinato a fallire, Ju­monji incaricò il ragazzo di indagare su Tetsuya, l’uomo di Kuniko, per sapere dove se ne fosse andato. «Non servirà a molto, credo, ma va bene». «No, no, lascia perdere. Probabilmente hai ragione e inol­tre ci costerebbe». Il giovane impiegato, che non sembrava molto propenso a indagare, annuì rasserenato. La donna con la pettinatura selvaggia, che nel frattempo aveva continuato a guardarsi svagata le unghie laccate di rosso, si alzò e chiese: «Capo, posso andarmene adesso? Io lavoro fino alle cinque». «Sì, grazie, a domani». Aveva pensato spesso di sostituirla con una giovane im­piegata, ma aveva subito accantonato l’idea, perché una gio­vane non gli sarebbe servita a nulla. Molti clienti abboccava­no solo perché il primo contatto avveniva con una donna an­ziana. Che fosse meglio licenziare il ragazzo? Negli ultimi tempi non riusciva a pensare ad altro che a ridurre i costi. Guardò fuori dalla finestra domandandosi incuriosito quale fosse la fonte di denaro cui aveva accennato Kuniko. Si fermò a contemplare il sole estivo che stava tramontando ol­tre le erbacce e le sterpaglie che crescevano sull’area edifica­bile recintata davanti alla stazione.

7. Udiva qua e là il frinire dei grilli. Un brusio intenso e pacifico che dava una sensazione di umido, di erba bagnata dalla ru­giada notturna. Lì era diverso che a São Paulo. A São Paulo il clima era caldo e secco, e gli insetti in estate frinivano con un bel tono tintinnante, come campanelli agitati dal vento. Kazuo Miyamori era nascosto tra l’erba alta, le braccia in­torno alle ginocchia. Un paio di zanzare fastidiose lo tor­mentava da un pezzo, non volevano lasciarlo in pace. Lo ave­vano già morso più volte – non sapeva quante – sulle brac­cia nude, ma doveva rimanere immobile: era una prova che si era imposto. Aveva l’abitudine di imporsi sempre una pro­va da superare, era il suo modo di mantenersi a galla. Era convinto che, se non si fosse sottoposto di continuo a qual­che prova, si sarebbe perso. Aguzzò le orecchie nel buio e ascoltò, oltre il frinire dei grilli, il più lontano furtivo fluire dell’acqua. Non gorgoglia­va né mormorava: era piuttosto un borbottio sordo, che fa­ceva pensare a un liquido denso, viscoso. Kazuo sapeva che era l’acqua di scolo fangosa, torbida e dal fetore insopporta­bile che scorreva nel canale sotterraneo. Era sorprendente che persino quell’acqua putrida, in cui gli escrementi si mi­schiavano a carogne di animali e rifiuti di ogni tipo, potesse dare l’impressione di un incessante fluire. Soffiò il vento e si insinuò tra l’erba facendola ondeggia­re. La serranda arrugginita alle sue spalle vibrò e si mise a ge­mere come un animale ferito. Il suono triste gli riportò alla mente il vuoto desolato della fabbrica dismessa che si esten­deva come un antro alle sue spalle. Contro quella serranda aveva spinto la donna con tutte le sue forze. Un rivoletto di sudore freddo incominciò a scendergli giù per la schiena. Che cosa si era sognato di fare?! Cosa gli era successo la sera prima? Doveva essere uscito di testa! Ecco cosa gli succedeva quando si dimenticava di sottoporsi alle prove: diventava un individuo talmente abbietto! Strappò uno stelo d’erba e si mise a giocherellare con la spiga, morbida come la coda di un gattino. Il padre di Kazuo Miyamori era andato in Brasile da so­lo, nel 1953, quando, dopo la guerra, i giapponesi ebbero di nuovo il permesso di emigrare. La sua famiglia era originaria dell’isola di Kyushu, prefettura di Myazaki. Lui aveva appe­na compiuto diciannove anni. Era giunto in Brasile con l’in­tenzione di iniziare un’attività, confidando nell’aiuto di un parente che lavorava nella piantagione di un giapponese alla periferia di São Paulo. Tuttavia la differenza di mentalità fra la generazione dei vecchi coloni emigrati prima della guerra, che avevano dovuto lavorare duramente e sopportare infini­te privazioni, e la sua, che aveva respirato l’aria di libertà del dopoguerra, era troppo grande. Perciò il padre di Kazuo, do­tato di un forte senso di indipendenza, era fuggito dalla piantagione e si era messo a girovagare per le strade di São Paulo, dove non conosceva anima viva. Lì aveva incontrato un brav’uomo, un barbiere brasilia­no, che lo aveva assunto come apprendista e gli aveva inse­gnato il mestiere. A trent’anni aveva poi rilevato la bottega e, una volta sistemato, aveva sposato una mulatta. Poco dopo era nato Roberto Kazuo. Dopo dieci anni – il bambino era ancora piccolo – il padre morì in un incidente: era questo il motivo per cui Kazuo non sapeva quasi nulla della lingua e della cultura del padre. Del Giappone gli rimanevano sol­tanto la nazionalità e il suo secondo nome. Terminata la scuola superiore a São Paulo, incominciò a lavorare in una tipografia, e un giorno vide per strada un ma­nifesto. C’era scritto: «L’occasione della vostra vita! Venite a lavorare in Giappone!». Poi spiegava che i brasiliani di origi­ne giapponese che avevano mantenuto la cittadinanza pote­vano entrare in Giappone senza esibire alcun visto e lavorar­vi per tutti gli anni che desideravano.

Inoltre il Giappone era in pieno boom economico, mancava la manodopera e i la­voratori brasiliani erano molto apprezzati. Chissà se era vero. Chiese a un suo conoscente di origine giapponese, e questo gli spiegò che non c’era al mondo paese più ricco del Giappone. Nei negozi si trovava qualsiasi tipo di merce, e la paga di una settimana corrispondeva allo stipen­dio mensile della tipografia. Kazuo era orgoglioso di avere sangue giapponese nelle vene e aveva sempre sperato di potere prima o poi vedere con i propri occhi il paese paterno. Pochi anni dopo lo stesso conoscente ricomparve con un’auto nuova. Kazuo lo invidiava con tutta l’anima. In Bra­sile continuava una congiuntura economica di cui non si in­travedeva la fine. Con quello che guadagnava nella tipogra­fia non sarebbe mai riuscito a realizzare il suo sogno: com­prarsi un’automobile. Prese allora la decisione che avrebbe cambiato la sua vita: sarebbe andato in Giappone. In due an­ni di lavoro sarebbe riuscito a comperare una macchina e, se avesse avuto un po’ più di pazienza e avesse risparmiato, avrebbe potuto acquistare anche una casa. E inoltre avrebbe conosciuto il paese del padre. Kazuo disse a sua madre che voleva andare in Giappone. Temeva che si sarebbe opposta, invece approvò convinta il suo piano: «Va’, figlio mio, assolutamente! Anche se non co­nosci la lingua, se lì hanno un’altra cultura, il tuo sangue è per metà giapponese e quindi sei un patricio, un compatrio­ta, e i patricios vengono sempre trattati bene, è una questio­ne di educazione e umanità!» Lì in Brasile i figli degli immigrati giapponesi che aveva­no avuto successo avevano frequentato l’università e ricevu­to un’educazione raffinata e facevano parte dell’élite più ele­vata. Ma per lui era diverso. Era solo il figlio di un barbiere di periferia. Per questo doveva emigrare nella patria del pa­dre, risparmiare, ritornare in Brasile con i soldi e lì costruir­si un futuro. Non era forse quella la cosa più giusta da fare per il figlio di un uomo che aveva dimostrato un così gran­de spirito di indipendenza e un animo così intraprendente? Kazuo si licenziò dalla tipografia in cui lavorava da sei an­ni, e atterrò finalmente all’aeroporto di Narita. Questo era successo circa sei mesi prima. Quando pensava al padre emi­grato tutto solo in Brasile a diciannove anni veniva assalito dalla commozione. Lui aveva venticinque anni, era in Giap­pone e aveva un permesso di lavoro valido per due anni. Ma lì, nella patria di suo padre, per la gente Kazuo, nelle cui vene scorreva lo stesso sangue, non era un patricio. Al­l’aeroporto, per strada, ogni volta che incontrava qualcuno si sentiva guardato come un gajin, uno straniero, e avrebbe vo­luto urlare: «Io sono per metà come voi! Ho la cittadinanza giapponese!» Ma i giapponesi non ammetterebbero mai che uno con lineamenti diversi e che non parli la loro lingua sia uguale a loro. Kazuo dovette ammettere che i giapponesi alla fin fine giudicano le persone dal loro aspetto. E inoltre che per la gente di questo paese il concetto di patricio è quasi del tutto estraneo. Nonostante essere compatrioti sia un problema piuttosto metafisico, la quasi totalità dei giapponesi non rie­sce neppure a concepirlo. Alla fine Kazuo dovette riconosce­re che con quella faccia e quel corpo sarebbe stato sempre considerato un gajin e questa fu una grande delusione. An­che il lavoro da operaio nello stabilimento delle colazioni era duro e stupido rispetto a quello che aveva fatto in Brasile, e spegneva qualsiasi motivazione ed entusiasmo. A quel punto Kazuo aveva deciso di considerare i giorni in Giappone come una prova. Una prova che avrebbe supe­rato se per due anni fosse riuscito a lavorare e risparmiare per comperarsi un’automobile. Il suo modo di intendere una prova era tuttavia molto diverso da quello di sua madre, che era una fervente cattolica. La prova, secondo Kazuo, doveva essere scelta volontariamente – una sorta di astinenza e di au­tocontrollo in vista di uno scopo –, non imposta da Dio. La notte precedente aveva stranamente dimenticato di essersi dato delle regole. Si infilò uno stelo in bocca, si sdraiò sull’erba e alzò lo sguardo al cielo. Le stelle erano molto meno numerose che in Brasile.

Il giorno prima non era andato a lavorare. Gli operai bra­siliani avevano un giorno di riposo ogni cinque di lavoro, ma questo contrastava con il ritmo settimanale a cui erano abi­tuati e faceva sballare il loro orologio interno. Perciò alla vi­gilia del turno di riposo erano tutti sfiniti. Era il suo sospirato giorno di vacanza, Kazuo era stanco e avrebbe voluto rimanere a letto tutto il giorno. Era molto de­presso, senza una ragione precisa. Forse dipendeva dalla sta­gione delle piogge, che sperimentava in Giappone per la pri­ma volta, pensò Kazuo. A causa dell’elevatissima umidità i capelli neri e brillanti gli restavano appiccicati al cranio e il suo volto abbronzato sembrava sporco e livido. Inoltre la biancheria non si era asciugata. Era sempre più depresso. Senza indugiare oltre decise di fare una gita in una citta­dina chiamata Little Brazil, al limite fra le prefetture di Gun­ma e Saitama, dove avrebbe potuto fare qualche spesa. Con l’auto non avrebbe impiegato molto ma, non avendo né au­to né patente, dovette prendere prima il treno e poi l’auto­bus e ci mise circa due ore. Sfogliò delle riviste in una libreria della Brazilian Plaza, comprò dei cibi brasiliani che gli servivano e curiosò in un negozio di video. Al momento di tornarsene a Musashi-Mu­rayama la nostalgia del Brasile e di São Paulo era così forte che decise di fermarsi ancora un po’. Entrò in un ristorante e ordinò della birra brasiliana: anche se non c’era nessuno dei suoi amici, gli piaceva lo stesso stare lì a parlare con dei bra­siliani sconosciuti. Gli sembrava di essere nella città vecchia di São Paulo. Gli alloggi per gli operai scapoli si trovavano accanto allo stabilimento: monolocali per due persone con una piccola cucina. Kazuo divideva l’appartamento con un compagno di nome Alberto. Quando, dopo le nove di sera, tornò da Lit­tle Brazil, Alberto doveva essere uscito per la cena e la casa era immersa nel buio. Kazuo era ubriaco: era il suo giorno di riposo e grazie all’alcol si sentiva un po’ rilassato e stordito; si arrampicò al piano superiore del letto a castello e si ad­dormentò. Dopo circa un’ora venne destato da un gemito. Il suo compagno doveva essere rientrato e ora si agitava avvinghiato alla sua amica nel letto sotto al suo. Sembrava che non si fos­sero accorti della sua presenza, perché non facevano niente per non farsi sentire. Era molto tempo che non udiva la voce dolce e piena di piacere di una donna così vicino a sé. Si tappò le orecchie ma era ormai troppo tardi: gli sembrò di es­sere investito da un grande calore, come se gli avessero dato fuoco. Cercò di non mancare alla nuova prova, ma che cosa poteva fare se non riusciva a soffocare l’eccitazione? Poteva esplodere da un momento all’altro. Gli sembrò di impazzire, si tappò le orecchie con le mani, serrò le labbra e cercò di non far rumore mentre si contorceva senza tregua nel letto. Per i due era giunta l’ora di andare a lavorare. Si rivesti­rono e uscirono scambiandosi baci appassionati. Kazuo si buttò in strada e incominciò a vagare nella notte alla ricerca di una donna. Si sentiva il fuoco addosso e doveva trovare il modo di spegnere quell’incendio. Era la prima volta in vita sua che si trovava in una situazione del genere ed ebbe pau­ra: evidentemente le prove a cui si era sottoposto avevano in qualche modo contribuito ad aumentare la forza di quell’e­splosione e ora non riusciva più a controllarsi. Si ritrovò sulla strada buia che portava allo stabilimento. Vicino a lui la fabbrica dismessa e una pista da bowling chiu­sa da tempo – non c’era anima viva. Se avesse aspettato, forse sarebbe passata qualche operaia del turno di notte, pensò. La maggior parte di loro aveva almeno l’età di sua madre, quan­do non erano più vecchie, ma la cosa non gli importava. Ma forse era già troppo tardi, perché non passava nessuno. Grazie a Dio, si disse, continuando tuttavia a rimanere appostato come un cacciatore in attesa di una preda che tar­da a comparire. Ed ecco quella donna uscire dall’oscurità e avvicinarsi a passi veloci. Sembrava completamente immersa nei propri pensieri e non si accorse di Kazuo che si avvicinava per parlarle. Perciò l’aveva afferrata per il braccio. Lei lo aveva istintivamente re­spinto, e lui aveva visto, nonostante il buio, l’espressione di paura nello sguardo; così l’aveva trascinata tra i

cespugli. Non era forse vero che non aveva assolutamente avuto l’intenzione di violentarla? Il suo unico desiderio era di esse­re accolto dolcemente tra le braccia di una donna. Potere sfiorare con le mani il suo morbido corpo, la sua pelle deli­cata! Eppure, sentendosi respinto, era stato colto da un im­peto di violenza, dal desiderio di sopraffarla. La donna l’aveva riconosciuto e aveva domandato gelida: «Lei è Kazuo Miyamori, vero?» In quell’attimo era stato assalito dalla paura. L’aveva guar­data bene e si era accorto che anche lui la conosceva. Era la donna alta, che arrivava sempre insieme a quella carina e che non rideva quasi mai. A giudicare dalla sua espressione ave­va sempre pensato che, come lui, avesse una prova difficile da superare. Era proprio lei! La paura si mutò in un terribile ri­morso: era stato sul punto di commettere un delitto. Quando lei a un tratto aveva detto: «Ci vedremo un’altra volta, solo noi due!», si era aggrappato disperatamente alle sue parole. Per un attimo aveva addirittura pensato di esser­si innamorato di quella donna molto più vecchia di lui, ma poi, quando aveva capito che aveva parlato a caso, solo per tirarsi fuori da quella situazione, si era sentito ribollire di un’oscura, torbida rabbia. Perché non riusciva a capire che lui era solo triste e abbandonato? Non voleva violentarla! Voleva solo un po’ di gentilezza: perché non gliela concedeva? Incapace di resistere all’impeto dei sentimenti, Kazuo aveva premuto il corpo della donna contro la serranda e l’aveva ba­ciata con forza. Adesso si vergognava per quanto aveva fatto. Kazuo si nascose il volto tra le mani. Il pensiero di quel­lo che era successo in seguito gli era ancora più insopporta­bile. Dopo che la donna si era liberata dalla sua stretta ed era corsa via fuggendo, Kazuo aveva pensato con terrore che sa­rebbe andata a denunciarlo al responsabile dello stabilimen­to o alla polizia. Ricordò che stavano cercando un maniaco sessuale. Anche fra i brasiliani si parlava spesso, negli ultimi tempi, del maniaco che si appostava di notte intorno allo sta­bilimento: alcuni si chiedevano se non fosse tutta un’inven­zione, altri chi potesse essere il colpevole. In ogni caso il ma­niaco non era certamente lui, doveva assolutamente spiegar­lo a quella donna e chiederle scusa. Perciò non era riuscito a chiudere occhio per tutta la not­te ed era rimasto a gironzolare senza pace nei dintorni, in at­tesa che arrivasse il mattino. Si era messo a piovere: quella sottile, delicata pioggerella giapponese che Kazuo non pote­va soffrire. Era tornato all’appartamento a prendere l’unico ombrello che aveva ed era rimasto ad attendere la donna, fer­mo all’uscita dello stabilimento. Quando infine era apparsa, lei lo aveva respinto con gelida freddezza e non solo non ave­va voluto accettare le sue scuse, ma non gli aveva neppure la­sciato il tempo di spiegarle che non era lui il maniaco. C’era forse da meravigliarsi? Lui stesso, se alla sua ragaz­za o a sua madre fosse successa una cosa del genere, non si sarebbe rassegnato finché non avesse quasi massacrato il responsabile! Si era macchiato di una colpa gravissima e quin­di si propose di continuare a chiedere scusa alla donna fin­ché non lo avesse perdonato. Una nuova, difficile prova. Per­ciò fin dalle nove, l’ora dell’appuntamento, l’attendeva im­mobile nell’erba. Forse non sarebbe arrivata, ma lui avrebbe mantenuto ugualmente la promessa. Udì dei passi avvicinarsi dal posteggio. Si accovacciò ra­pidamente. La sagoma di una donna alta procedeva avvici­nandosi a lui. «È lei!» si disse con il cuore in tumulto. Pensò che forse gli sarebbe passata davanti senza vederlo, ma la donna si fermò proprio di fronte al prato. Che fosse venuta per mantenere fede alla promessa della notte precedente? Ka­zuo era contento. Ma dovette subito ammettere che non si trattava che di una dolce illusione. Senza degnare di uno sguardo l’erba fol­ta in cui era nascosto, la donna prese qualcosa dalla tasca e lo gettò, attraverso una fessura della copertura, nel canale sot­terraneo. L’orecchio di Kazuo distinse un rumore metallico, il tintinnio di qualcosa che cadeva sul fondo. Che cosa pote­va avere gettato in quel canale maleodorante? Kazuo era stupito. Che volesse prenderlo per il naso, perché sapeva che lui era lì, nascosto da qualche parte? No, non poteva assoluta­mente essersi accorta di lui. L’indomani mattina,

con la luce, avrebbe guardato con calma che cosa aveva buttato via. Appena la sagoma della donna scomparve dal suo campo visivo, Kazuo allungò le gambe intorpidite e si rialzò. Il san­gue riprese a circolare e le punture delle zanzare ricomincia­rono a prudere. Continuando a grattare fino quasi a scorti­carsi la pelle, cercò di distinguere l’ora sull’orologio da pol­so. Erano le undici e mezza, l’ora in cui avrebbe dovuto an­dare a lavorare. Al pensiero che la donna lavorava al suo stesso turno, lo assalì un misto di timidezza e gioiosa aspettativa. Per la pri­ma volta in quel periodo grigio e infelice che aveva deciso di chiamare “la prova”, quella sera Kazuo ebbe di nuovo la sen­sazione di essere vivo. Entrò nel salone e la vide subito: parlava a bassa voce con la compagna più vecchia con cui stava sempre insieme, da­vanti al distributore automatico delle bevande accanto all’entrata. Indossava una larga camicia sbiadita e un paio di jeans e teneva le braccia conserte. Così vestita sembrava quella di sempre, tuttavia Kazuo era stupito, perché l’impressione che faceva era completamente diversa da quella del mattino, alla fine del turno. Anche la donna lo aveva visto, ma al suo sguardo tagliente Kazuo si ritrasse e riuscì a malapena a bi­sbigliare un saluto. La donna non rispose e continuò a ignorarlo. Invece la sua compagna, più vecchia e bassa di statura, fece un cenno con la testa e gli sorrise. Anche fra i brasiliani si parlava spes­so di lei, della sua bravura ed esperienza, e si sapeva che per questo veniva chiamata “maestra”. Kazuo si sarebbe volentieri fermato a parlare, e cercò af­fannosamente qualcosa da dire fra i pochi vocaboli giappo­nesi che conosceva, ma nel frattempo le due donne erano sparite in direzione dello spogliatoio. Deluso Kazuo le seguì, cercò la gruccia a cui aveva appeso gli indumenti da lavoro e si cambiò in fretta. Poi sedette nell’angolo del salone dove si radunavano gli operai brasiliani, in modo da non essere no­tato, si ficcò una sigaretta fra le labbra e si mise a spiare ver­so lo spogliatoio, dalla parte delle donne. Riusciva a malape­na a controllare i battiti del proprio cuore. La tenda dello spogliatoio non era tirata del tutto e si po­tevano intravedere le donne che si cambiavano, nonostante cercassero di ripararsi tra i camici e i vestiti appesi. Scorgeva il profilo severo della donna: ai lati della bocca, dalle labbra ser­rate, si notavano delle rughe. Intuì che doveva essere più vec­chia di quanto non avesse pensato: non molto più giovane di sua madre, che presto avrebbe avuto quarantasei anni. Era la prima volta che incontrava una donna così misteriosa. Fino ad allora si era sentito attratto dalla sua compagna più giova­ne e carina, che le stava sempre accanto, ma ora provava una forte attrazione nei confronti di questa donna enigmatica. La osservò mentre si sfilava i jeans e gli tremarono leg­germente le dita che tenevano la sigaretta. D’istinto abbassò gli occhi ma subito risollevò la testa, perché voleva guardar­la ancora, e il suo sguardo incontrò quello della donna. Ave­va indossato i calzoni da lavoro e i jeans erano ammucchiati sul pavimento. Kazuo arrossì per la vergogna. Ma la donna non lo stava guardando e fissava la parete dietro di lui, senza espressione. Il suo atteggiamento era cambiato rispetto al mattino e Kazuo aveva sperato che lei non fosse più così in­furiata con lui. Ma non era così: lei adesso semplicemente non lo guardava più, e questo era molto peggio, gli faceva molto più male. La donna e la maestra ritornarono nel salone con la cuf­fia bianca in mano. Pareva che volessero scendere subito allo stabilimento e gli passarono davanti senza parlare. Kazuo cercò di imprimersi velocemente nella mente gli ideogrammi scritti sulla targhetta che la donna aveva appuntata sulla di­visa da lavoro. La maggior parte del personale era scesa nello stabili­mento, al piano inferiore. Kazuo si fermò davanti ai cartelli­ni e prese quello della donna. Poi cercò un brasiliano che sa­peva il giapponese e gli domandò: «Come si legge, per fa­vore?» «Ka-tori, Masa-ko». Kazuo lo ringraziò e l’uomo, un giapponese che trent’an­ni prima era emigrato in Brasile e ora era ritornato in patria, commentò: «Ma che? Ti piace? È troppo vecchia per te».

Kazuo assunse un’espressione seria: «Devo restituirle una cosa che mi ha prestato». «Soldi?» rise l’uomo. Magari si fosse trattato di soldi! Kazuo non rispose e andò a rimettere a posto il cartellino. Masa-ko Ka-tori.Sapere il suo nome gli rese la donna an­cora più speciale. Prima di rimettere a posto il cartellino ave­va letto che il suo giorno libero era il sabato. Aveva guardato il timbro del giorno prima: era entrata alle undici e cin­quantanove. Quel ritardo, di cui si sentiva colpevole, era tut­tavia anche l’unica prova del loro legame. In una scatola con un’etichetta su cui era scritto Katori Masako era riposto un vecchio paio di scarpe da ginnastica sformate. Kazuo ne im­maginò il tepore. Si lavò in fretta le mani con il disinfettante, si sottopose al controllo dell’addetto all’igiene e scese lentamente la scala che portava allo stabilimento. Sapeva che lì sotto erano fer­me le operaie in attesa dell’inizio del turno. Se ne stavano in fila, ansiose di incominciare. Era difficile distinguerle, con quelle cuffie e le mascherine, ma Kazuo cercò ugualmente Masako. Era in piedi di fronte a lui, isolata dalla fila, e fissava qual­cosa. Kazuo seguì il suo sguardo e si accorse con sorpresa che stava guardando il bidone di plastica blu della spazzatura. Chissà se conteneva qualcosa di preoccupante, si domandò Kazuo chinandosi a guardare: c’erano solo pezzi di cotoletta di maiale e di fritto di pesce caduti sul pavimento della cuci­na. Quando si voltò il suo sguardo incontrò quello freddo di Masako. Kazuo si fece coraggio e le parlò: «Ecco…» «Che c’è?» rispose Masako con la voce soffocata dalla ma­scherina. «Mi scusi, mi dispiace. A me dispiace!» disse Kazuo, che non conosceva altre parole in giapponese per chiedere per­dono. Poi aggiunse: «Vorrei parlarle!» Ma, come se non avesse udito l’ultima frase, Masako girò improvvisamente la testa e si mise a fissare la porta con l’e­spressione severa di chi non ammette intrusioni. Per Kazuo fu un vero colpo essere ignorato in quel modo e si sentì ter­ribilmente depresso, perché aveva creduto veramente di po­ter fare qualcosa per ottenere la sua comprensione. La porta si aprì, batté la mezzanotte – inizio del turno. Le operaie entrarono una dopo l’altra e incominciarono a lavar­si le mani e a disinfettarle. Kazuo faceva parte della squadra di operai incaricati di portare il cibo dalla cucina con un car­rello, perciò all’inizio del turno doveva trovarsi nel laborato­rio adiacente allo stabilimento. Si allontanò dalla coda delle operaie e si diresse verso il suo posto di lavoro. Quell’impegno, che fino ad allora aveva giudicato gravo­so, gli era diventato all’improvviso piacevole. Kazuo aveva il compito di versare nella macchina di distribuzione automa­tica, all’inizio del nastro trasportatore, il riso freddo conte­nuto in un pesante bidone. Era un lavoro duro e di grande responsabilità, perché se avesse tardato la linea si sarebbe fer­mata. Ma ai primi posti della linea di produzione aveva spes­so trovato la maestra e Masako. Come aveva immaginato le due donne stavano guidando la linea mediana. «Sbrigati a versarlo. Non ne abbiamo più!» Sollecitato dalla maestra, Kazuo sollevò con entrambe le mani il pesan­te bidone e versò il riso freddo nella macchina. Masako, che sistemava i contenitori, non lo degnò di uno sguardo. Kazuo la guardava furtivamente a un metro di distanza. Aveva il volto seminascosto dalla cuffia e dalla maschera, si vedevano soltanto le palpebre abbassate, come se qualcosa la oppri­messe. Anche la maestra, che di solito rideva o imprecava, quella notte era stranamente silenziosa. Kazuo si accorse che mancavano le altre due donne, la bella e la grassa, che di so­lito lavoravano insieme a loro.

8. «Finalmente! Dove ti eri nascosta, mamma?» Ma era possibile?! Non si sarebbe mai immaginata di udi­re quella voce. Yoshie era appena rientrata sfinita, anzi esau­sta, da casa di Masako. Sorpresa si tolse le scarpe in ingresso e andò in soggiorno. Proprio così: Kazue era lì. Le sue compagne in fabbrica non lo sapevano, ma Yoshie aveva due figlie. Di Kazue non aveva mai raccontato niente perché, sebbene fosse carne della sua carne e sangue del suo sangue, non la sopportava proprio. Kazue doveva avere ormai festeggiato il suo ventunesimo compleanno. A diciotto anni aveva interrotto gli studi ed era scappata con uno più vecchio di lei, poi non si era più fatta vedere né aveva dato sue notizie. Erano passati tre anni da quando l’aveva vista l’ultima volta. Yoshie sospirò profondamente: da una parte era con­tenta, ma aveva anche paura che le sarebbero piovuti addos­so un sacco di problemi. Sbandata o meno che fosse, tutta­via Yoshie era sollevata nel rivedere sua figlia dopo tanto tempo. Quello era un giorno strano, in cui capitavano cose incredibili: prima gli avvenimenti a casa di Masako e ora quell’inatteso ritorno! Yoshie cercò di nascondere come po­teva la sorpresa e i dubbi e per la prima volta dopo tre anni studiò il viso della figlia. La ragazza aveva i capelli tinti di color castano, lunghi fi­no ai fianchi. Teneva in braccio un bambino che stringeva nei pugni ciocche di capelli e osservava Yoshie. Doveva esse­re il suo primo nipote, nato, secondo le chiacchiere che le erano giunte all’orecchio, circa due anni prima. Era identico a quel fannullone. Yoshie lo guardò e non le piacque. Era magro, aveva un colorito poco sano e, particolare insolito al giorno d’oggi, gli colava il naso. L’uomo di Kazue era un ti­po inaffidabile, che se ne andava in giro per la città senza mai riuscire a trovare un lavoro serio. Come se potesse leggerle nel pensiero, il bambino guardava diffidente il volto stanco della nonna che sembrava piovuta dal cielo. «Dove sei stata tutto questo tempo? Non una volta che tu ti sia degnata di farmi una telefonata. E adesso eccoti qui al­l’improvviso. Non so proprio che cosa devo pensare!» le dis­se brusca. Ormai era passato il tempo in cui si preoccupava e si arrabbiava per lei. Ora la sua paura era che anche la figlia minore potesse diventare tale e quale la sorella. Se si fosse la­sciata convincere ad accoglierla, Kazue avrebbe indubbia­mente influito in modo negativo su Miki. E inoltre lei era appena diventata complice di un delitto, e doveva ancora nascondere le tracce. «Ma che bella accoglienza! Tua figlia torna a casa dopo tre anni e tu non sei felice?! Ecco, questo è il tuo nipotino!» Ka­zue sollevò le sopracciglia ritoccate, lunghe e sottili come quelle di una liceale. Anche se si truccava per apparire più giovane, bastava un’occhiata per capire che la vita l’aveva già segnata. Aveva la sconfitta disegnata in faccia. Tutti e due, madre e figlio, erano vestiti con vecchi abiti logori e sembra­vano persino sporchi. «Ah, mio nipote! E come si chiama?» domandò Yoshie amara. Neanche questo le aveva fatto sapere! «Issey. Scritto con l’ideogramma di “tutta la vita”. Ma sì, come lo stilista». «Non lo conosco», rispose Yoshie di malumore e Kazue fece una smorfia. «E che? Io torno a casa e tu mi fai questo muso! Che rot­tura! E guarda che faccia! Che cos’hai? Sembri strafatta. O hai la luna?» Il suo modo di parlare era volgare, come al solito. «Ho lavorato tutta la notte, faccio i turni in fabbrica». «Cosa, fino a quest’ora?» «No, mi sono fermata da un’amica». Le vennero improv­visamente in mente i sacchi con i pezzi del cadavere di Kenji. Li aveva stipati in un robusto sacchetto di carta. Mentre con­tinuava a parlare con Kazue, lo nascose furtivamente dietro la pattumiera in cucina.

«E quand’è che dormi? Vedrai che farai una brutta fine!» Kazue, che aveva messo su un po’ di carne sui fianchi e sem­brava più ben piantata di una volta, simulò preoccupazione. Anche lei, come adesso Miki, aveva sempre odiato quella casa troppo piccola, dove erano costrette a vivere con la vecchia malata, e non aveva trovato di meglio che scapparsene alla prima occasione! Non sarebbe stato di alcuna utilità tirare fuori adesso i tanti problemi che le aveva creato, pensò Yoshie. Tutto quello che non le andava bene, che non voleva sentire, contro cui non voleva sbattere la sua testolina, di tut­to aveva sempre incolpato la madre! Anche per Yoshie, che aveva scelto lo zelo come principio di vita, questo era troppo. «Già, e chi dovrebbe occuparsi della nonna? Di giorno non c’è mai nessuno a casa. Tu mi hai forse aiutato qualche volta?» «E piantala!» «Esattamente. Non è cambiato niente. Dimmi, piuttosto, come sta la nonna? Le hai dato un’occhiata?» Yoshie scrutò preoccupata la camera in fondo: si era infatti limitata a servire la colazione alla nonna e a cambiarle il pannolone, e poi era subito andata da Masako. La vecchia sembrava tranquil­la, ma doveva aver ascoltato la conversazione perché aveva gli occhi ben aperti. «Mi dispiace che sia così tardi», disse Yoshie rivolta alla vecchia. Non aveva fatto in tempo a scusarsi che la suocera fece subito una smorfia: «Be’, e tu dove sei stata, cosa hai fatto tutto il giorno in giro? Lasciarmi qui così! Potevo anche mo­rire!» D’un tratto Yoshie non ci vide più dall’ira e si mise a ur­lare come una furia. Perché tutti credevano di poterla tratta­re così? Cosa pensavano che fosse: un robot, un pezzo di ac­ciaio? Non riuscì più a trattenersi: «E allora crepa! E quando sarai morta ti farò a pezzi e ti butterò nella spazzatura! Sì, e per prima cosa ti taglierò quel collo rugoso, hai capito?!» Per un paio di secondi la suocera rimase paralizzata dallo spavento e poi incominciò a piangere. Poche lacrime, ma singhiozzava con tutte le sue forze e negli intervalli bronto­lava una specie di giaculatoria: «Finalmente mostri la tua ve­ra faccia! Tu sei un demonio, una strega infernale! Fai finta di essere buona, ma dentro sei cattiva e maligna! Continua così, sì, vendi la tua anima al diavolo, e vedrai che cosa ti ca­piterà!» Yoshie, cercando di ritrovare la calma, rimase immobile, gli occhi fissi sui piselli odorosi ormai scoloriti stampati sul futon estivo. A poco a poco le onde dell’oceano di sentimenti che la avevano investita si calmarono e fu colta da un rimor­so quasi doloroso. Che cosa aveva detto! A quali mostruosità era riuscita ad arrivare! Poteva dipendere solo dal fatto che Masako l’aveva costretta a fare quel lavoro. La colpa era di Masako. No, di Yayoi, che aveva ammazzato suo marito. No, no, era sua la colpa, che aveva accettato di diventare complice per soldi. Esattamente quella era l’origine di tutti i guai, la mancanza di soldi. Kazue, che per tutto il tempo se ne era stata seduta al ta­volo in silenzio, sbottò: «Su, su, calmati adesso! Non risolve­rai niente arrabbiandoti». «Hai ragione». Yoshie ritornò esausta in soggiorno. La suocera continuava a piangere sommessamente. Come per cambiare discorso Kazue aggiunse: «Mamma, poco fa le ho cambiato il pannolone». «Ah, bene. Grazie», sospirò Yoshie, ormai distrutta, e si sedette al tavolo. Tutto intorno erano sparse le automobiline del bambino, non si sapeva dove mettere i piedi. Yoshie die­de un calcio alle auto della polizia e dei pompieri e le mandò a finire sotto il tavolo. Il bambino non se ne accorse, perché era andato in camera di Miki e stava giocando. «Hai chiesto al comune un’assistente sociale? Adesso ven­gono in casa, qualche ora alla settimana». «Sì, ma vengono solo per tre ore alla settimana, giusto il tempo di fare la spesa». «Ah». Yoshie, che non aveva ancora chiuso occhio, girò a destra e a sinistra la testa che incominciava

a farle male e affrontò il discorso che le stava a cuore: «Ma che cosa sei venuta a fare qui?» «Ecco…» Kazue si leccò nervosamente le labbra. Era il suo gesto abituale quando stava per mentire, ricordò Yoshie. «Adesso lui è andato a lavorare a Osaka. Anch’io vorrei ini­ziare a lavorare, e ho pensato che potresti prestarmi qualcosa per partire…» «Ma sai bene che non ho soldi! Se è andato a Osaka do­vresti andare con lui! Un bambino deve stare con tutti e due i genitori!» «Ma io non so dov’è!» Yoshie rimase a bocca spalancata. Insomma, erano stati abbandonati. E adesso doveva prendersi in casa anche loro due! Che cosa poteva fare? Yoshie si innervosì. «Portalo al nido e va a lavorare». «È quello che voglio fare, perciò ho bisogno di soldi». Ka­zue tese la mano: «Ti prego, prestami qualcosa! Avrai qual­che risparmio, no? Prima ho parlato con la nonna e mi ha detto che vogliono demolire la casa per costruire nuovi ap­partamenti. Allora potremmo venire anche noi e abitare tut­ti insieme». «E dove dovrei trovare i soldi per il trasloco?!» «E smettila!» urlò Kazue irritata. «Hai la pensione sociale e in più il lavoro part-time. Manda anche Miki a fare qualche lavoretto, e poi hai anche il contributo di accompagnamento per gli invalidi, no? Ti prego, adesso non ho neppure i soldi per comprare un hamburger a Issey!» Kazue supplicava con le lacrime agli occhi. Il bambino le si avvicinò a passettini incer­ti e si mise a guardare stupito la madre che piangeva. Yoshie si rovistò nelle tasche e tirò fuori il danaro che ave­va preso a Kenji. In tutto quasi ventottomila yen. «Prendi. Cerca di farteli bastare, è tutto quello che pos­siedo. Ho persino dovuto fare debiti per pagare la gita scola­stica di Miki!» «Ah, grazie, mi hai salvata!» Kazue si infilò con cura il de­naro in tasca e si alzò. A quanto pareva lo scopo della sua vi­sita era stato raggiunto. «Bene, adesso vado a cercarmi un lavoro». «Dove abiti esattamente?» «Abbastanza in centro, a Minami-Senju. Costa un sacco arrivare fin qui», disse Kazue che era già nell’ingresso e stava infilandosi un paio di sandali dozzinali con un’alta suola di sughero. «E il bambino?» «Ah, non puoi guardarlo per un po’?» «Aspetta un momento, che cosa hai in mente?» «Per favore, tornerò subito a prenderlo!» tagliò corto aprendo la porta. Il piccolo la guardò confuso, come se intuisse che stava per essere abbandonato, e gridò allarmato: «Mamma! Dove vai?» «Issey, sta’ qui con la nonna e fa’ il bravo. La mamma tor­na subito». Yoshie non sapeva più cosa dire. Muta guardò la figlia an­darsene via di corsa. Non era stupita, aveva immaginato qualcosa del genere. Anche da dietro si capiva che la ragazza non aveva nessun rimorso nell’abbandonare il figlio, che si sentiva sollevata, anzi addirittura liberata. Yoshie avrebbe vo­luto imitarla. Avrebbe voluto andarsene lasciandosi alle spal­le, insieme a quella casa fatiscente, tutto ciò che vi era di dif­ficile e odioso nella sua vita. Continuò a fissare inebetita da­vanti a sé, piena di invidia nei confronti di Kazue. «Mamma! Mamma!» Il bambino, che era rimasto lì in piedi, aprì le mani e lasciò cadere a terra le automobiline. «Vieni. La nonna ti prende in braccio». Ma il bambino si sottrasse con forza inaspettata, si buttò a terra sulla pancia e scoppiò in singhiozzi. Dalla camera di sei tatami si udivano ancora i deboli lamenti della suocera.

Non ne poteva proprio più: Yoshie si lasciò cadere esau­sta sul pavimento e si mise a dormire sul tatami in mezzo al disordine. Chiuse gli occhi e rimase in silenzio ad ascoltare i due che piangevano. Il bambino si calmò per primo. Parlot­tando tra sé e sé riprese a giocare con le automobiline. Evi­dentemente era abituato a essere lasciato nelle mani di estra­nei. Ma Yoshie non provò compassione. Sono io che faccio compassione, si disse mentre le lacri­me le colavano sulle guance. Quello che la angustiava era avere sprecato in quel modo i bei soldi del povero Kenji, as­sassinato dalla moglie e fatto a pezzi da lei e Masako. Aveva superato ogni limite. Chissà se anche Yayoi si era sentita così quando aveva ucciso il marito… Quando quella notte, dopo avere affidato il bambino al­la riluttante Miki, Yoshie si recò allo stabilimento, Masako la stava già aspettando. Ferme in un angolo del salone si guardarono a lungo in silenzio. Masako sembrava aver eliminato ogni sentimento, e aveva un’espressione ancora più dura del solito. Forse era quella la sua vera faccia, pensò Yoshie guardandola. Le sa­rebbe piaciuto sapere qual era l’impressione che faceva lei. «Come ti senti oggi, maestra?» la salutò Masako. Il volto era imperturbabile, ma nel tono della voce c’era una punta di gentilezza. «Malissimo». Non riusciva proprio a raccontarle che la fi­glia, scomparsa da anni senza lasciare tracce, si era all’im­provviso ripresentata in casa, le aveva mollato il bambino e se ne era andata con il denaro di Kenji. «Hai dormito?» Le domande di Masako erano sempre puntuali e concise. Yoshie non aveva quasi chiuso occhio, ma annuì. «E che ne hai fatto della spazzatura?» «Sta’ tranquilla. Prima di venire ho gettato i sacchetti qua e là». «Grazie. Sapevo di potermi fidare di te. Quella che mi preoccupa invece è Kuniko». «Già». Si guardarono intorno. Mancava poco a mezzanotte, ma Kuniko non era ancora arrivata. «Non c’è». «Forse sta smaltendo lo shock a letto», buttò lì Yoshie, ma Masako schioccò piano la lingua. «Una bella noia! Forse sarebbe meglio se passassi da lei a vedere che cosa è successo». «Sì, fa così». «Se le capito davanti all’improvviso, probabilmente le verrà un colpo». «Già, ma se tutto va a monte per causa sua, è molto peg­gio per noi», rispose Yoshie guardando la dicitura “Resto esaurito” che si era accesa in quel momento sul distributore automatico. Se le avessero scoperte sarebbe stata la fine. Quel pensiero l’atterriva. Che anche nella sua vita si fosse messo a lampeggiare il segnale d’allarme? «Questo vale anche per lei, perciò non credo che correrà dalla polizia. Ma è troppo facile metterla alle strette, è que­sto che mi preoccupa», continuò Masako, e piccole rughe verticali si incisero tra le sopracciglia. «A ogni modo io mi affido in tutto e per tutto a te. Piut­tosto sei sicura che Yama-chan ci darà il denaro?» domandò Yoshie disinvolta. Adesso, quando tutto era stato fatto, era meglio lasciare ripensamenti e preoccupazioni a Masako. Già a casa ne aveva abbastanza di questo ruolo e incominciava a provare gusto ad affidarsi alla forza di Masako. Inoltre le interessavano solo i soldi che le avevano promesso. E se non glieli avessero dati? «Sì, quello è okay. Ha detto che pagherà, anche a costo di chiedere un prestito ai genitori. Al più tardi domani mattina denuncerà alla polizia la scomparsa del marito». Se ne stavano lì vicine a parlottare a bassa voce quando arrivò un giovane brasiliano che

conoscevano di vista e le sa­lutò. Doveva avere anche del sangue giapponese nelle vene, ma la corporatura era tozza e si vedeva subito che era stra­niero. Yoshie rispose automaticamente al saluto, ma Masako non lo degnò di uno sguardo. Stupita chiese: «Ma che co­s’hai?» «Cosa?» «Perché sei così scortese con lui?» Andando verso lo spogliatoio Yoshie lanciò un altro sguardo al brasiliano. Era rimasto lì imbarazzato e poi le ave­va seguite. Masako non si preoccupò di rispondere ma chie­se: «Sai dove abita Kuniko?» «Sì, in uno di quei grandi condomini di Kodaira, almeno credo». Yoshie si accorse che Masako stava consultando mental­mente la mappa e progettando i passi successivi. Per lei non era altro che una questione di affari. Affari che in nessun ca­so dovevano andare a monte. D’altronde anche per lei, che all’inizio aveva accusato Yayoi di essere un’assassina, il tutto si era trasformato in un’occasione di guadagno. Yoshie si vergognò. Di nuovo la tormentò il pensiero di quanto meschi­na riusciva a essere. «Com’è facile cadere per un essere umano, non trovi?» mormorò, e Masako le rivolse uno sguardo pieno di com­passione. «Sì. Poi è come scendere precipitosamente per una china con una bicicletta senza freni». «Vuoi dire che niente e nessuno riesce più a fermarti?» «Sì. A meno che non si vada a sbattere contro qualcosa». Che cosa le avrebbe fermate, dove sarebbero andate a sbattere? Che cosa le attendeva dietro l’angolo? Yoshie fu scossa da un brivido di terrore.

Corvi

1. Yayoi era in cucina e pelava le patate per la cena, quando d’un tratto venne abbagliata da un raggio del sole ormai al tramonto. Per ripararsi portò alla fronte la mano in cui tene­va il coltello e chinò la testa. Solo in quel periodo, quando le giornate erano più lun­ghe, vi era un’ora in cui il sole al tramonto penetrava diret­tamente dalla finestra nella cucina buia, illuminandola. Per un attimo Yayoi pensò che Dio l’avesse giudicata e che ora volesse punire il suo delitto colpendola con la sua luce, un raggio laser che avrebbe distrutto tutto il male che c’era in lei. Allora doveva morire, adesso. Perché si era macchiata di un terribile peccato, aveva ucciso suo marito. Era l’unico barlume di ragione che le fosse ancora rima­sto, perché in realtà, dopo che quella notte aveva seguito con lo sguardo l’auto di Masako allontanarsi con il cadavere, ave­va incominciato a credere che Kenji fosse semplicemente scomparso nell’oscurità. Quando i bambini le chiedevano dove fosse il papà, rispondeva: «Ma veramente, chissà dove è finito!» Non ricordava neppure il buio pesto di quella notte. Come era possibile che, nonostante fossero trascorsi solo tre giorni, avesse dimenticato persino la sensazione di quando lo aveva strangolato con le sue stesse mani? Sempre tenendo la testa abbassata tirò velocemente le tendine di cotone per ripararsi dal sole. Le tende blu scuro, che aveva fatto con della tela avanzata dai sacchetti per la merenda dei bambini, riportarono la penombra nella cucina. Per abituarsi all’oscurità Yayoi stette per qualche secondo im­mobile a occhi chiusi. L’ansia – che aveva cercato di allonta­nare dedicandosi ai figli e alle faccende di casa – riemerse nel suo animo come le mille bollicine di aria che risalgono dal fondo di una palude e quasi le spezzò il cuore. Ma non era per l’assassinio di Kenji che era angosciata. La nuova fonte di preoccupazione era Kuniko. Il pomeriggio del giorno prima Kuniko le era piombata in casa senza neppure avvertirla con una telefonata. «C’è qualcuno in casa?» Aveva sentito al citofono una voce femminile e aveva aperto. Davanti a lei c’era Kuniko tutta in ghingheri, in mi­niabito bianco senza maniche all’ultima moda e ciabattine bianche. Tuttavia non le stavano bene: era troppo grassa e pallida per quella mise. «Ah, sei tu!» Yayoi era talmente stupita per la visita inat­tesa che non sapeva se doveva farla entrare o meno. Era il pri­mo pomeriggio, l’ora in cui all’asilo i bambini stavano facendo il sonnellino. «Be’, non sembri davvero malata!» Kuniko l’aveva scruta­ta con aria critica. Dal suo tono di superiorità si capiva be­nissimo che voleva dire: «Sta’ pur tranquilla, che so esatta­mente quello che hai fatto!» Subito Yayoi si era messa sulle difensive. Dalle profondità del suo animo si era fatta strada una voce: «Ma guarda un po’ questa Miss Piggy in bianco! Insopportabile, mi viene male solo a guardarla!» «Già, non mi sento troppo bene», aveva risposto irritata, «…ma perché sei venuta qui?» «Diciamo una visita agli ammalati: è da tanto che non ti fai vedere in fabbrica, Yamamoto-san!» «Ah, grazie». Che cosa voleva da lei, come mai si era pre­sa la briga di venire a trovarla? Non era certo il tipo da far vi­sita agli ammalati! Sempre più diffidente Yayoi la aveva guardata negli occhi, molto simili a quelli di un maiale. Ma Ku­niko era talmente truccata che con tutta la buona volontà non se ne poteva cogliere l’espressione. Ignorando l’esitazione di Yayoi, aveva spalancato la porta dicendo: «Posso entrare?» «…sì». A malincuore Yayoi si era fatta da parte per la­sciarla passare. L’altra si era guardata

intorno e a bassa voce aveva chiesto: «Dov’è che l’hai ammazzato?» «Come?» «Ti ho chiesto dov’è che l’hai fatto secco!» In fabbrica Kuniko di solito manteneva un atteggiamen­to deferente e usava un linguaggio garbato. Chi era dunque quella donnaccia con quel sorriso sfacciato? Yayoi si era in­nervosita e le mani avevano incominciato a sudarle. «Non so a cosa ti riferisci». «Adesso non metterti a fare la finta tonta!» aveva sbuffato con disprezzo. «Alla fin fine sono stata io, con queste mani, a dover ficcare nei sacchetti della spazzatura la carne schifosa del tuo maledetto consorte. So bene di che cosa parlo!» Yayoi si era sentita mancare le forze. Era tutta colpa di Masako, come si era sognata di coinvolgere quella megera? Kuniko si era tolta le ciabattine e senza indugio si era avvia­ta verso l’interno della casa. I suoi passi schioccavano, pro­babilmente le piante dei piedi erano sudate e si incollavano al legno. «Allora, dove l’hai fatto fuori? Succede spesso, no, di te­nere le foto del luogo del delitto? Si dice anche che gli spiri­ti dei morti si aggirino spesso e volentieri in quei luoghi», aveva detto Kuniko, senza immaginare che il punto in cui si trovava era esattamente quello in cui aveva assassinato Kenji. Non avrebbe fatto neppure un altro passo in casa sua: Yayoi si era parata di fronte a Kuniko, molto più robusta di lei, con l’intenzione di non lasciarla andare oltre. «Che cosa vuoi? Non sei certo venuta solo per chiedermi questo!» «Ah, che caldo! Non hai l’aria condizionata?» Kuniko aveva spinto da parte Yayoi ed era entrata nel piccolo sog­giorno dove, per risparmiare, il condizionatore era spento. «Ma guarda che tipo! Perché non l’accendi? Come puoi resi­stere?!» Per carità, che non la sentissero! Yayoi aveva acceso il con­dizionatore ed era andata in fretta a chiudere le finestre. Ku­niko, in piedi a gambe divaricate davanti all’aria fresca del condizionatore, osservava divertita l’agitazione di Yayoi. Grosse gocce di sudore le brillavano sulla fronte e colavano sulle tempie. «Insomma, di’ perché sei venuta!» aveva ripetuto Yayoi senza riuscire a nascondere l’ansia. Kuniko non aveva cercato di dissimulare il suo disprezzo: «Devo ammettere, Yamamoto-san, che mi hai veramente sorpreso! Con un faccino così grazioso e innocente uccidere a sangue freddo il marito! Sono veramente scioccata! Già, è vero che l’apparenza inganna e non si può mai vedere fino in fondo nell’animo degli uomini. Ma che tu abbia potuto uccidere il padre dei tuoi figli! Mica male! Che cosa farai se da grandi i bambini verranno a sapere che la loro mamma è l’as­sassina del papà? Ci hai mai pensato?» «Smettila! Non voglio sentirne parlare!» Yayoi si era tappata le orecchie. Allora Kuniko le aveva af­ferrato il polso sinistro. Aveva la mano sudata e appiccicosa, e Yayoi aveva cercato inutilmente di divincolarsi. Kuniko era più forte. «Non mi interessa se non vuoi ascoltare, Yamamoto-san! Mi hanno costretto a raccogliere con queste mie mani la car­ne del tuo consorte e l’ho dovuta infilare nei sacchi. Riesci a immaginare di che razza di orribile, schifosa sensazione si tratti? Eh, riesci a immaginarlo? Rispondi se hai il coraggio!» «…sì». «No, tu non puoi immaginarlo!» Kuniko le aveva afferra­to anche l’altro polso. Yayoi aveva urlato dal male: «Lascia­mi!» ma Kuniko non aveva allentato la presa. «Mi stai ascoltando? Quelle là l’hanno fatto a pezzi, a pic­coli pezzi! Tu non hai la più pallida idea di quanto sia ripu­gnante fare questo! Tu sei troppo delicata anche solo per da­re uno sguardo al cadavere di tuo marito dopo che l’hai fat­to fuori! Io invece ho vomitato un sacco di volte da quanto faceva schifo e puzzava! Davvero è stata la cosa peggiore che mi sia capitata. Dopo una cosa così non

si è più gli stessi, cre­dimi, uno cambia per sempre, per tutta la vita!» «Ti prego, smettila, ti supplico!» «Ah, puoi piangere e pregare finché vuoi, ma io non riu­scirò a liberarmene mai più! Ero forse obbligata a fare una cosa del genere per te?» «Scusa, perdonami, per favore!» Yayoi si era rattrappita come un piccolo animale ed era caduta in ginocchio. Kuniko la aveva lasciata andare e con un ghigno astioso aveva detto: «Va bene, in fondo non sono venuta per questo. Ho sentito che sei disposta a pagare me e la maestra, è vero?» «Sì, pagherò, vi pagherò senz’altro!» Allora era per quello che era venuta? Yayoi si era calmata e aveva abbassato le braccia che teneva sollevate a proteggere la testa. Aveva guardato Kuniko in faccia e si era accorta che non era più sudata e la pelle della fronte era secca e piena di piccole rughe. Forse non era vero che aveva ventinove anni. Non era altro che una stupida bugia. Era evidente che era più vecchia di lei. Era talmente vanitosa da mentire su una scioc­chezza del genere anche con le compagne di lavoro! Le face­va proprio orrore! «Quando mi dai i soldi?» «Non ne ho così tanti, devo chiederli ai miei genitori. Puoi aspettare ancora un po’?» «Già. È vero che mi daresti centomila yen?» «Sì, così ha detto Masako… perciò si tratterà di quella ci­fra». All’udire il nome di Masako, Kuniko si era subito inalbe­rata e aveva incrociato le braccia sul pancione: «Ah, e quan­to si prende quella là?» «Non vuole niente». Incredula la compagna aveva sgranato gli occhi: «Chissà chi si crede di essere! Sempre pronta a dare ordini e a deci­dere che cosa è meglio o non è meglio fare!» «Ma mi ha aiutata». «Certo! Certo, ti ha aiutata». Kuniko, infastidita, aveva cambiato discorso: «Se le cose stanno così, allora i miei cen­tomila possono benissimo diventare cinquecentomila!» «…sì». Come poteva opporsi? Non le rimaneva che ac­cettare. «Però ci metterò un po’». «E quanto, più o meno?» «Prima devo parlare con mio padre. Due settimane, forse di più. E comunque potrò pagarti soltanto a rate…» Cinquecentomila yen erano più di quanto avrebbe avuto la maestra – e se si fosse lamentata? Yayoi, preoccupata, esi­tava. Kuniko era rimasta un attimo soprappensiero: «Va bene, ne parleremo più avanti. Intanto firmami questo documen­to e mettici anche il tuo timbro. Basta un timbro qualsiasi». Kuniko aveva estratto un foglio dalla borsetta di finta pel­le e l’aveva appoggiato sul tavolo. «Che cos’è?» «Ho bisogno di un garante e questo è il contratto». Ku­niko si era messa a sedere senza complimenti e si era accesa una delle sue solite, orribili sigarette al mentolo. Yayoi era andata a prendere il portacenere per gli ospiti, si era messa di fronte a Kuniko e, con un cattivo presentimento, aveva pre­so in mano il foglio. A quanto poteva capire Kuniko aveva ottenuto un prestito a un tasso del quaranta per cento da un’agenzia finanziaria che si chiamava Milione. A caratteri più piccoli c’era scritto “stessa percentuale per le dilazioni”, una frase di cui non comprendeva bene il significato; la co­lonna “Garante” era vuota e qualcuno vi aveva segnato a ma­tita una croce, come per indicare che era lì che si doveva ap­porre la firma e timbrare. «Perché dovrei sottoscrivere una cosa del genere?» «Te l’ho detto, ho bisogno di un garante. Ma sta’ tran­quilla, niente di importante, non ti assumi nessuna respon­sabilità, devi solo garantire per me. Il mio compagno se n’è andato e io mi trovo in un momento di difficoltà. Mi hanno detto che non importa chi è il garante. Accettano anche il timbro di

un’assassina». «Che cosa significa il mio compagno se n’è andato?» «Come che significa? A te non ti riguarda! In ogni caso io non l’ho ammazzato!» aveva abbaiato Kuniko con un sorri­setto sarcastico. «Sì, ma…» «Sentimi bene. Non ho nessuna intenzione di accollarti i miei debiti! Non sono così subdola. Hai detto che mi dai cinquecentomila, no? Basteranno quelli, e adesso sbrigati a firmare!» Yayoi, tranquillizzata in parte dalle parole di Kuniko, ave­va apposto il timbro sul foglio e aveva firmato. E che cosa avrebbe potuto fare? Quella donnaccia non se ne sarebbe mai andata, e ormai era ora di andare a prendere i bambini all’a­silo. E inoltre, se si fosse rifiutata, quella avrebbe avuto l’in­solenza di tornare anche quando i bambini erano a casa. «Va bene così?» «Thank you». Kuniko aveva schiacciato il mozzicone, si era alzata e si era avviata verso l’ingresso. Evidentemente ave­va raggiunto il suo scopo. Lì si era infilata le ciabattine e, co­me se le fosse venuto in mente ancora qualcosa, si era volta­ta: «A proposito, che sensazione si prova a uccidere una per­sona?» Yayoi non aveva risposto ed era rimasta a fissare stordita le macchie di sudore all’attaccatura delle maniche di Kuniko. Finalmente si era resa conto di essere stata ricattata. «Su, dimmi, che sensazione si prova?» «Come posso descriverla…?» «Prova», aveva insistito Kuniko. «Com’è stato?» «Io… in qualche modo… Pensavo solo: ti ho beccato, ti sta bene!» aveva risposto Yayoi con un filo di voce, e per la prima volta, come se tutto a un tratto avesse paura di lei, Ku­niko aveva fatto un passo indietro ed era inciampata. Se al­l’ultimo momento non si fosse aggrappata alla scarpiera, sa­rebbe sicuramente caduta dalle sue belle ciabattine col tacco da dieci centimetri. Poi la aveva guardata a occhi sbarrati. «Proprio qui gli ho tirato il collo», aveva continuato Yayoi pestando il piede sul pavimento. Negli occhi di Kuniko, che aveva chinato lo sguardo sui piedi di Yayoi, si poteva leggere la paura. Dunque quello che aveva fatto riusciva a terroriz­zare anche una donnaccia come Kuniko! Yayoi era sorpresa, non le era venuto in mente che forse, quella notte, qualcosa in lei si era intorpidito. «E così per un po’ non verrai a lavorare?» Kuniko, nel ten­tativo di ridarsi un contegno, aveva proteso il mento con ar­roganza. «Lo farei volentieri, ma Masako dice che per adesso devo rimanere a casa». «Masako, Masako, sempre e solo Masako! Che cosa siete, lesbiche o cosa?!» aveva sbraitato Kuniko andandosene senza neppure salutare. Sì, vattene, grassa troia bianca, aveva imprecato tra sé Yayoi, impietrita sulla soglia. Lì, dove tre notti prima suo marito aveva reso l’anima al diavolo. Aveva già in mano la cornetta. Voleva chiamare Masako e dirle che cosa era successo, ma poi, temendo di essere sgrida­ta per avere sottoscritto la garanzia, aveva subito riattaccato. Anche oggi non aveva parlato con nessuno di quello che era successo. Era inutile, doveva confidarsi con Masako, anche se pro­babilmente l’avrebbe sgridata. Finalmente si decise, mise in acqua le patate che aveva finito di pelare e andò al telefono. Proprio in quel momento suonarono alla porta. Yayoi trasalì e fece un piccolo grido. Che fosse di nuovo Kuniko? Rispose ansiosa al citofono e udì la voce lievemente rauca di un uomo: «Signora, siamo della polizia di Musashi-Yamato». «Oh, sì… un momento». La polizia! Il cuore incominciò a batterle forte. «La signora Yamamoto?» Il tono dell’uomo era cortese e amichevole, ma Yayoi si innervosì.

Perché erano venuti così presto? Che cosa era successo? Le venne in mente un pensie­ro terribile: forse Kuniko la sera prima era andata dalla poli­zia e aveva raccontato tutto! Ormai non c’era più niente da fare. Yayoi avrebbe voluto girarsi e scappare su due piedi. «Potrei parlare con lei?» «Certo, apro subito». Yayoi si fece coraggio e aprì la por­ta. Davanti a lei un uomo brizzolato, dall’aspetto dimesso, le sorrideva giovialmente tenendo un cappotto sul braccio. Era Iguchi, il capo della sezione locale della sicurezza. «Buonasera, signora Yamamoto. Suo marito nel frattem­po è tornato a casa?» Iguchi era il poliziotto che, in assenza dell’addetto allo sportello, l’aveva gentilmente ricevuta quando era andata in questura e l’aveva aiutata a compilare il modulo per la denuncia della scomparsa. Era stato lui a rispondere alla sua prima telefonata: quell’uomo le aveva fatto una buona im­pressione, perché era sempre stato gentile e premuroso. «No, non ancora», rispose Yayoi cercando di controllare il proprio disagio. «Oh, mi dispiace». Il volto di Iguchi si rannuvolò un po­co. «Purtroppo le devo comunicare che questa mattina, nel parco di Koganei, abbiamo trovato il cadavere di un uomo fatto a pezzi». A quelle parole Yayoi si sentì mancare. Le sembrava di non avere più sangue nelle vene, le si annebbiò la vista, per­se il controllo e vacillò. Si appoggiò alla porta per non cade­re. Dunque l’avevano scoperto! Che cosa doveva fare adesso? Ma Iguchi aveva interpretato il suo terrore come l’ango­scia di una moglie per la sorte del marito scomparso. Come per tranquillizzarla aggiunse in fretta: «Si calmi, signora, non è detto che si tratti di suo marito!» «…ah, crede?» «Abbiamo solo iniziato delle indagini nel circondario, chiedendo informazioni alle famiglie che hanno denunciato la scomparsa di un loro congiunto». «Capisco». Yayoi fece un piccolo sorriso di sollievo, ma in realtà era fuori di sé dalla paura, perché sapeva che non po­teva trattarsi di nessun altro se non di Kenji. «La possiamo disturbare un attimo?» Iguchi trattenne la porta con il piede e scivolò agile all’interno. Solo allora Yayoi si accorse degli uomini in divisa blu dietro di lui. «Fa un po’ buio qui», disse Iguchi entrando in soggiorno. I vetri della finestra erano ancora schermati dalle tendine che li proteggevano dai riflessi del sole al tramonto. Yayoi prese l’osservazione come un rimprovero e corse trafelata alla fine­stra per tirare le tende. Il sole era già molto basso e inondò la stanza di luce rosso fuoco. «Qui, nel pomeriggio, entrano i raggi del sole», si scusò, mentre lo sguardo di Iguchi cadeva sulle patate. «Già, la sua cucina è rivolta a occidente. In estate deve es­sere molto caldo». Iguchi tirò fuori un fazzoletto e si asciugò il sudore. Yayoi si precipitò al condizionatore, lo accese e chiuse tutte le finestre. Proprio come aveva fatto il giorno prima, quando era venuta Kuniko. «Non si disturbi, signora Yamamoto», disse Iguchi con tono pacato, ma i suoi occhi vigili scrutavano attentamente ogni angolo della stanza. Quando alla fine si fermarono su di lei, Yayoi sentì l’ansia afferrarla alla bocca dello stomaco. Per la prima volta nella vita si sentì come schiacciata dalla forza di gravità, un peso che la paralizzava. Il livido sullo stomaco! Quello poteva essere una prova del suo litigio con Kenji. Guai se il poliziotto se ne fosse accorto, pensò, e incrociò le braccia davanti a sé nel modo più disinvolto possibile. «Può darmi l’indirizzo del dentista di suo marito, per fa­vore? Inoltre avremmo bisogno di rilevare le impronte digi­tali e del palmo della mano». Finalmente Yayoi riuscì a rispondere con voce fioca: «Il dentista è il dottor Harada, davanti alla stazione». Iguchi prese nota in silenzio su un’agendina, mentre al­cuni uomini, probabilmente gli agenti

della scientifica, at­tendevano istruzioni in piedi dietro di lui. «Signora, potrebbe darci un bicchiere o un altro oggetto di uso quotidiano utilizzato da suo marito?» «Sì, subito». Con le gambe tremanti accompagnò gli uo­mini al bagno. Mostrò loro gli accessori da toilette di Kenji e gli agenti tirarono fuori una polvere bianca e incomincia­rono a lavorare. Tornata nel soggiorno, contrariamente a quello che aveva immaginato, trovò Iguchi davanti alla fine­stra. Guardava il triciclo e gli altri giocattoli sparsi nel minu­scolo giardino. «I bambini sono ancora piccoli, vero?» «Sì, ho due maschietti, di cinque e di tre anni». «Sono a giocare dagli amichetti?» «No, all’asilo nido». «Capisco, allora lei lavora, vero? Posso chiedere dove?» «Prima facevo la cassiera in un supermercato, adesso fac­cio i turni di notte in uno stabilimento che produce pasti confezionati». «Oh, turni di notte! Non è faticoso?» Sul volto di Iguchi era apparsa una sfumatura di compassione. «Già, ma posso riposare quando i bambini sono all’asilo». «Certo. Pare che negli ultimi tempi capiti la stessa cosa a molte donne. Quello lì è il suo gatto?» Yayoi, sorpresa, guardò nella direzione indicata da Iguchi. Accanto al triciclo era accovacciato Milky, che sembrava non sapere dove andare e guardava verso di loro. La pelliccia bianca era già un po’ sporca. «Ah sì, è nostro». «Un gatto bianco. Non è meglio farlo entrare?» Probabil­mente stava pensando alle finestre e alle porte che lei aveva chiuso prima di mettere in funzione il condizionatore. «No, non è necessario. Gli piace star fuori». Yayoi odiava quella bestia da quando, quella notte, era scappata e non ave­va più voluto rientrare. Il tono della sua risposta era stato un po’ sgarbato, ma sembrava che Iguchi non se ne fosse accorto, perché diede uno sguardo all’orologio e disse: «È quasi ora di andare a prendere i bambini, vero?» «Sì… Ma che cosa sono le impronte del palmo?» Quella domanda le aveva occupato la mente per tutto il tempo. «Si può identificare un uomo anche in base alle impron­te sul palmo della mano. La pelle delle dita di quel cadavere è stata strappata e non si possono più prendere le impronte. Però i palmi sono parzialmente intatti, e così cercheremo di identificarlo. Speriamo che non sia suo marito, ma il gruppo sanguigno e l’età coincidono. Questo è quanto le posso dire per ora». Iguchi aveva parlato in fretta, a occhi bassi. «A pezzi, mi diceva?» mormorò Yayoi. «Sì». Iguchi proseguì in tono didattico: «Nel parco di Ko­ganei sono stati trovati in tutto quindici sacchi che contene­vano pezzi di cadavere. Più o meno di questa grandezza. Ma il contenuto non corrisponde che a un quinto del corpo. Stiamo perlustrando a fondo il parco per trovare le altre par­ti. Sono stati i corvi a portarci sulle tracce». «Corvi?» Yayoi non capiva. «Sì, corvi. Una vecchia che tiene pulito il parco ha aper­to un bidone dell’immondizia per cercare qualche avanzo di cibo da dare ai corvi. Ha trovato un paio di sacchi e ha avvi­sato la polizia. Se non fosse stato per i corvi forse non ce ne saremmo mai accorti». Yayoi tentò con tutte le forze di controllare la propria emozione: «Ma se fosse proprio mio marito, perché gli sa­rebbe successa una cosa così orribile?» Senza rispondere, Iguchi domandò a sua volta: «Non è che negli ultimi tempi suo marito abbia

avuto difficoltà di qualche genere? Non le risulta niente? Sa se per caso avesse dei debiti?» «Non che io sappia». «Rimane spesso fuori fino a tardi?» «No, cerca sempre di essere a casa prima che io esca per il turno». «Si dedica al gioco d’azzardo o a qualche altro diverti­mento?» Alle parole “gioco d’azzardo” Yayoi pensò subito al bac­carat, ma scosse la testa. «Non me ne ha mai parlato, ma ne­gli ultimi tempi esce spesso per andare a bere». «Mi scusi per la domanda, ma litigavate spesso?» «Qualche volta, ma… è un buon marito… è molto at­taccato ai bambini». Yayoi si interruppe preoccupata, perché era stata sul punto di usare il verbo al passato. Poi ricordò che, in effetti, era sempre stato un buon padre, e le venne da piangere. Iguchi, che evidentemente voleva evitare scene pa­tetiche, si alzò. «Mi scusi, ma se dovessimo identificarlo – e speriamo proprio che non sia così – come il cadavere di suo marito, dovrò pregarla di venire al distretto». «Va bene». «Naturalmente spero per lei che non ce ne sia bisogno. Sarebbe terribile per i bambini, ancora così piccoli». Quando Yayoi alzò il viso vide Iguchi che continuava a fissare il triciclo. Il gatto era ancora accovacciato lì. Dopo che Iguchi e gli agenti se ne furono andati, Yayoi telefonò subito a Masako. «Che cosa c’è?» chiese subito Masako. Doveva aver intui­to dalla sua voce che era successo qualcosa di imprevisto. Yayoi le comunicò che la polizia aveva ritrovato pezzi del ca­davere nel parco di Koganei. «Di sicuro dobbiamo ringraziare Kuniko. Sono stata dav­vero troppo superficiale a fidarmi di una cialtrona come lei!» commentò Masako con voce cupa. «E adesso anche i corvi!» «Che cosa devo fare?» «Se è vero che è possibile identificare un uomo dalle im­pronte dei palmi, allora scopriranno di sicuro che è Kenji. È solo questione di tempo. D’ora in poi tu devi interpretare il ruolo di quella che non sa niente, a costo di morire. Non c’è altro sistema. Non è tornato a casa, lo hai visto per l’ultima volta al mattino quando è andato a lavorare, i vostri rappor­ti erano normali, come quelli di tutti i coniugi». «Ma se qualcuno, quella sera, l’avesse visto rientrare?» In­vece che rasserenarla, la conversazione con Masako sembra­va alimentare le sue paure. «Ma se sei stata tu a dire che non c’era pericolo che qual­cuno l’avesse visto!» «È vero, ma…» «Coraggio, tirati su. Finora non è successo niente che non avessimo previsto». «E se qualcuno ci avesse visto quando lo abbiamo porta­to in macchina?» Come sua abitudine, Masako rimase in silenzio a medi­tare prima di rispondere. Ma le sue parole non tranquillizza­rono Yayoi: «Questo non posso dirlo con assoluta certezza». «Ovviamente dovrò tenere nascosto il livido sull’addome, vero?» «È ovvio! Ma tu hai un alibi per quella notte, e inoltre non sai guidare. Sei andata a lavorare e il mattino seguente hai accompagnato i bambini all’asilo e qualcuno di sicuro ti ha visto, no?» «Sì, naturalmente. Ho anche incontrato una vicina e scambiato qualche parola con lei, accanto ai bidoni delle im­mondizie», aggiunse Yayoi come se volesse consolarsi. «Non preoccuparti. Non c’è alcuna relazione evidente fra te e me. E possono cercare quanto vogliono nel tuo bagno, non troveranno niente». «Già, questo è vero», cercò di convincersi Yayoi. Poi si ri­cordò di Kuniko. Un problema in

più! Finalmente decise di dire tutto a Masako: «Ascolta, ieri è venuta Kuniko e mi ha ricattato». «Che cosa vuole?» «Cinquecentomila yen invece che centomila». «C’era da aspettarselo! Avida com’è, è capace di rovinare tutto!» «E poi mi ha costretto anche a sottoscrivere una garanzia per i suoi debiti». «Che debiti?» «Pare che si tratti di una di quelle agenzie che prestano denaro, ma non so esattamente». A questo neppure Masako aveva pensato. Rimase di nuo­vo in silenzio all’altro capo dell’apparecchio. Yayoi aspettava col batticuore la furia che sicuramente ora si sarebbe scate­nata. Ma Masako rispose tutta tranquilla: «Questo è un bel guaio. Se quelli della finanziaria leggono la notizia del ritro­vamento del cadavere di tuo marito e portano quel docu­mento alla polizia, penseranno subito che Kuniko ti ha ri­cattato. Altrimenti, per quale motivo avresti dovuto fornirle la garanzia?» «È vero». «Ma penso che quelli della finanziaria se ne staranno quieti. E poi Kuniko non ti ha chiesto di estinguere subito il suo debito, vero? Quella è ormai sul lastrico, una fallita, ma questo è tutto». «Quando le ho detto che l’avrei senz’altro pagata ma che prima dovevo trovare i soldi, ha preteso solo che firmassi». Era ovvio che neppure Yayoi aveva preso per oro colato tutte le assicurazioni di Kuniko. Mentre cercava con tutta se stessa di controllare l’inquietudine che le saliva in petto, Ma­sako commentò con voce calma: «Mi è venuto in mente che c’è anche un vantaggio, se riconoscono il cadavere». «E cioè?» «Riceverai il premio dell’assicurazione. Tuo marito avrà avuto un’assicurazione sulla vita, immagino». Sì, naturalmente! Le sembrava di essere andata a sbattere contro un muro. Kenji aveva firmato una polizza sulla vita di cinquanta milioni di yen. Yayoi si era rotta la testa a pensare dove trovare il denaro per pagare le compagne che la aveva­no liberata dal cadavere e lo avevano fatto a pezzi – ma ora la cosa assumeva tutta un’altra piega! Yayoi rimase stupefatta nella penombra crepuscolare del­la camera, il ricevitore stretto fra le mani.

2. Deposta la cornetta Masako guardò l’ora: le cinque e venti. Ombre minacciose si addensarono improvvisamente sul­la sua serata, che aveva previsto di trascorrere tranquillamen­te a casa, senza figlio e marito che sarebbero rincasati chissà quando, e soprattutto senza dover andare a lavorare. La si­tuazione era cambiata troppo in fretta. Si stava ancora cul­lando nell’ingannevole sicurezza che tutto fosse andato per il meglio, ed ecco presentarsi davanti a lei il fallimento. Il pe­ricolo, che finora se ne era stato in agguato, era saltato fuori a farle lo sgambetto. Ma adesso era il momento di dimostra­re che cosa vuol dire essere padroni della situazione. Da ora in avanti, a ogni passo, dietro ogni angolo, poteva aprirsi una tenebra nera come le ali di un corvo, che non aspettava altro che inghiottirle tutte quante. Per qualche minuto Masako si concentrò intensamente sui propri nervi, con la cura con cui si fa la punta a una matita dalla mina particolarmente dura. Prese il telecomando, accese il televisore e saltò da un ca­nale all’altro alla ricerca di un telegiornale. Ma era troppo presto. Forse la notizia era già stata pubblicata sul giornale e lei non l’aveva vista. Spense il televisore e riprese il quotidia­no che aveva sfogliato e abbandonato sul divano. Nella terza pagina trovò un trafiletto intitolato Cadavere ritrovato a pezzi nel parco. Come mai non se n’era accorta pri­ma? Che fosse un segno del fatto che aveva preso tutto trop­po alla leggera? Rimproverandosi per la propria superficialità lesse velocemente il trafiletto: all’alba un addetto alle pulizie del parco di Tokyo aveva trovato in un cestino dei rifiuti un sacco di plastica pieno di pezzi di cadavere. La polizia aveva perlustrato il parco ed erano stati trovati complessivamente quindici sacchi che contenevano pezzi del corpo di un ma­schio adulto. Questo era quanto riportava l’articolo. A giudicare dal luogo e dal numero dei sacchi, era chiaro che si trattava di quelli di Kuniko. Dopo essere stata costret­ta a prendersi i sacchetti – cosa evidentemente troppo fasti­diosa per lei – se ne doveva essere subito liberata gettandoli nei cestini dei rifiuti del parco. Era stato un grave errore aver coinvolto Kuniko. Non si era mai fidata di lei, e non avreb­be proprio dovuto darle quei sacchi. Aveva fatto una enorme stupidaggine, pensò Masako, mordendosi le unghie per i nervi come non faceva più da molto tempo. Identificare il cadavere come quello di Kenji era ormai so­lo questione di tempo. Quel che era fatto era fatto, e non si poteva certo cambiare, ma per evitare altri inconvenienti do­veva dare a Kuniko una bella lezione. E una bella lezione per lei non poteva essere che una terribile minaccia, altro non avrebbe ascoltato. Inoltre era meglio informare Yoshie dello stato delle cose. Probabilmente sarebbe andata a lavorare an­che se era giorno di riposo. Era meglio sbrigarsi, pensò Ma­sako affrettandosi. Lei e le compagne avevano scelto di avere libera la notte tra il venerdì e il sabato, perché alla domenica la paga era più alta del dieci per cento. Yoshie invece era tal­mente attaccata ai soldi che non voleva perdere neppure un giorno di lavoro. Aveva appena premuto il brutto campanello di plastica giallastra della casa di Yoshie che subito la porta si aprì con un fastidioso cigolio. «Tu? Come mai…?» A quanto pareva Yoshie stava preparando la cena, perché dall’interno si diffondevano ondate di vapore che odorava di brodo, insieme al solito vago sentore di cresolo. «Puoi venire un attimo fuori, maestra?» chiese Masako a voce bassissima. Nella stanza di fronte all’ingresso, adibita a soggiorno, Miki, in calzoncini corti, stava guardando la televisione. Seduta sul pavimento a gambe tese era immersa, co­me una bambina, in un programma di cartoni animati e non si girò neppure una volta verso di lei. «D’accordo. Che cos’è successo?» Sembrava che avesse in­tuito qualcosa, perché era impallidita. Il suo viso, un po’ su­dato, era profondamente segnato dalla fatica. Faceva pena guardarla e

Masako volse lo sguardo altrove, si allontanò di qualche passo e aspettò che Yoshie la seguisse. A un lato dell’ingresso vi era un piccolissimo giardino trasformato in orticello. Masako guardò ammirata le piante di pomodoro con i rami carichi di rossi frutti maturi. «Sono qui. Cosa guardi?» le chiese Yoshie alle sue spalle. «Ah, i tuoi pomodori. Sarà un gran raccolto». «Se fosse possibile pianterei anche il riso!» commentò Yo­shie contemplando quel piccolissimo fazzoletto di terra. «Ho talmente tanti pomodori che quasi non li posso più vedere. Ma evidentemente è la terra adatta, perché sono dolcissimi. Dai, prendine uno!» Yoshie strappò il pomodoro più grosso e glielo mise in mano. Il contrasto tra quel frutto sodo, lucido e rigoglioso e la casa in rovina e la sua esausta proprietaria era stridente. Per qualche secondo Masako rimase in silenzio, il pomodoro sul palmo della mano. «Dimmi, che cosa è successo?» la sollecitò Yoshie. «Già», sbuffò Masako girandosi verso di lei, «hai già letto il giornale della sera?» «Noi non siamo abbonate», confessò Yoshie imbarazzata. «Comunque, hanno trovato alcuni dei nostri sacchi nel parco di Koganei». «Nel parco di Koganei? Non sono stata io!» esclamò me­ravigliata Yoshie. «Lo so, maestra. È stata senza dubbio Kuniko. In ogni ca­so la polizia è andata da Yama-chan, perché aveva denuncia­to la scomparsa di Kenji». «Sanno già che è suo marito?» «No, non ancora», rispose Masako osservando il volto di Yoshie, che aveva aggrottato le sopracciglia. Le occhiaie era­no ancora più profonde della notte precedente, in fabbrica. «Che cosa facciamo adesso?» sospirò Yoshie costernata. «Salterà fuori tutto!» «L’identità del cadavere verrà sicuramente fuori, ma non è questo il problema». «Che cosa vuoi dire? Come dobbiamo comportarci?» «Oggi vai a lavorare, vero?» «Non so…» Yoshie era incerta. «In realtà avevo pensato di andarci, ma adesso, da sola… Non so bene, devo farlo?» «Sì, vai tranquilla. È meglio se ci comportiamo come sempre e non facciamo cose strane. Ma un’altra cosa: qual­cuno sa che quel giorno eri da me?» «…no». Yoshie sembrò riflettere un po’, ma poi scosse la testa un paio di volte. «Non dirlo a nessuno, ma spero che questo tu lo sappia già. E un’altra cosa: Yama-chan verrà sospettata per prima, per cui in nessun caso dovrai raccontare alla polizia dei loro litigi e delle botte che si è presa, capito? Se no finiremo tut­te così», e Masako unì i polsi come se avesse le manette. «Ho capito». Yoshie deglutì continuando a fissare i polsi ossuti della compagna. In quell’attimo una piccola creatura le si accostò a passi vacillanti. «…nonna!» Quella creatura sapeva parlare, anzi balbetta­re. Un piccolo bambino magro si era aggrappato ai pantaloni di Yoshie, talmente consumati che lasciavano vedere le ginoc­chia. A quanto pareva era in casa e le era corso dietro. Aveva solo le mutandine, il resto del corpo e i piedini erano nudi. «E questo chi è?» «Mio nipote», bisbigliò Yoshie vergognosa, afferrandolo saldamente per la mano per impedirgli di scappare. «Hai un nipotino? Non lo sapevo». Stupita Masako acca­rezzò il bambino sulla testa. Le sue dita indugiarono sul gro­viglio di soffici capelli e ripensò con nostalgia a quando Nobuki era ancora piccolo. «Non te l’ho mai detto, ma ho un’altra figlia. E lui è suo figlio». «Lo ha lasciato qui da te?»

«Già». Yoshie sospirò, chinando lo sguardo sul bambino. Il piccolo tese la mano verso il pomodoro di Masako. Lei glielo diede e, quando vide come lo annusava e se lo preme­va sulla guancia, mormorò: «Un vero e proprio fascio di vi­ta, no?» «Sì», annuì Yoshie. «Però, se posso dirlo, mi è costato pa­recchio dovermi occupare di lui dopo quello che abbiamo fatto. Strano, no?» «Un bambino così piccolo è un grande impegno. Porta ancora il pannolone, vero?» «Sì, e ce n’è un’altra nelle sue condizioni!» Yoshie rise, ma in fondo al suo sguardo si intuiva l’angoscia di chi sapeva di avere in mano la vita e la morte di un altro essere umano. «Bene, se ci sarà qualcosa di nuovo tornerò». Masako stava per andarsene, ma Yoshie la trattenne. Esi­tante e a bassa voce, perché il bambino non sentisse, chiese: «Ascolta, che cosa ne hai fatto della testa?» Ma il bambino era occupato a portarsi in giro – come se fosse un tesoro – il pomodoro che riusciva a malapena a te­nere con le due mani, e non sembrava interessato alla loro conversazione. Masako si girò verso la strada, aspettò che un ciclista passasse oltre e rispose: «Tutto a posto. L’ho seppelli­ ta il giorno dopo». «E dove?» «È meglio che tu non lo sappia». Detto questo lasciò Yoshie e si diresse verso la strada prin­cipale dove aveva posteggiato la Corolla. Non voleva dire a Yoshie che Kuniko aveva ricattato Yayoi, né che forse Yayoi sarebbe entrata in possesso del premio dell’assicurazione sul­la vita di Kenji. A che cosa sarebbe servito darle altri pensie­ri? Ma, soprattutto, Masako non si fidava più di nessuno, neppure di Yoshie. Udì il suono della trombetta di un venditore ambulante di tofu. Dalle finestre spalancate giungevano rumori di sto­viglie e le voci della televisione. Era l’ora in cui le casalinghe erano tutte affaccendate a preparare la cena. Masako pensò alla sua cucina vuota e ordinata e al suo bagno, che era stato teatro di un lavoro così affannoso. Ormai era quel bagno freddo e scintillante il locale più adatto a lei. Controllò sulla mappa la posizione del quartiere di case popolari dove abitava Kuniko, alla periferia di Kodaira. All’entrata dell’edificio erano allineate sudice cassette di legno per la posta, tutte coperte di figurine adesive strappate e di scritte del genere: “Niente pubblicità erotica”. Evidente­mente gli inquilini cambiavano spesso, perché i nomi sulle targhette erano stati cancellati e riscritti più volte. Comun­que, come risultava dalla sua cassetta delle lettere, Kuniko abitava al quarto piano. L’ascensore non era meglio delle cassette della posta. En­trò e quella scatola scassata la portò al quarto piano. Davan­ti alla porta dell’appartamento di Kuniko premette più volte il campanello, ma nessuno venne ad aprire. La Golf verde era posteggiata di fronte a casa, e quindi Kuniko poteva solo es­sere andata da qualche parte lì intorno a comprare qualcosa. Masako decise di aspettarla e si appostò in un angolo del cor­ridoio in modo da non farsi notare. Attratti dalla luce blua­stra, innumerevoli piccoli insetti alati andavano a sbattere contro i tubi del neon e cadevano sul pavimento. Masako si accese una sigaretta e per ingannare l’attesa si mise a contare gli insetti morti ai propri piedi. Dopo una ventina di minu­ti le porte dell’ascensore si aprirono e ne uscì Kuniko con una borsa della spesa. Nonostante il caldo fosse ancora opprimente, indossava un elegante abito scuro ed era evidente­mente di buonumore. Mancava solo che si mettesse a can­ticchiare! Come la vide, Masako pensò ai corvi del parco. «Ah, mi hai spaventata!» esclamò Kuniko scorgendo Ma­sako ferma nella penombra. «Devo parlarti». «Che c’è di nuovo, adesso?» Kuniko la fissò diffidente.

«Mi fai proprio ridere! Hai rovinato tutto, ecco quello che c’è!» Masako sfilò bruscamente il giornale della sera dal­la buca delle lettere sulla porta e glielo ficcò davanti al naso. Kuniko si guardò intorno con apprensione: «Di che cosa si tratta?» «Dacci un’occhiata e capirai subito!» Forse impaurita dall’espressione feroce di Masako, infilò in fretta la chiave nella serratura e aprì: «È tutto in disordi­ne, ma vieni avanti. Qui fuori ci possono sentire tutti!» Masako la seguì nell’appartamento che non era poi così in disordine. L’arredamento, che voleva essere raffinato, era invece infantile e ordinario, proprio come la proprietaria. «Ma poi sparisci in fretta, okay?» Kuniko accese l’aria condizionata e si voltò angosciata verso Masako. «Sta’ tranquilla, finisco in un attimo!» Masako spiegò il giornale, trovò l’articolo in terza pagina e glielo mise davanti agli occhi. Kuniko appoggiò la borsa della spesa sul pavimento e scorse velocemente le righe. No­nostante lo spesso strato di fondotinta, si poteva vedere l’or­rore che l’agitava. Soddisfatta Masako la aggredì: «Sei stata tu, vero? Solo tu puoi avere lasciato i sacchi in un posto così impossibile!» «Pensavo che un parco fosse il luogo più adatto…» «Idiota! I parchi sono particolarmente sorvegliati! Per questo ti avevo detto di lasciarli nei bidoni delle immondizie vicino alle case!» «Questo tuttavia non ti dà ancora il diritto di darmi dell’idiota!» protestò Kuniko facendo il muso. «Ti do dell’idiota perché questo è quello che sei! A causa della tua imbecillità la polizia è andata a casa di Yama-chan!» «Come, di già?» «Sì, sono già andati. Non hanno ancora scoperto di chi si tratta, ma per saperlo basta che facciano due più due! Doma­ni sarà un putiferio, te lo posso garantire! E se scoprono che è stata lei a ucciderlo, noi saremo accusate di complicità!» Kuniko la guardava attonita, come se fosse ormai incapa­ce di pensare. Masako ricambiò lo sguardo: «Ti rendi conto di che cosa significa, vero?! E anche se va tutto bene e non ci scoprono, se arrestano Yayoi potete dimenticarvi i soldi!» Kuniko sembrava finalmente capire. «E non è ancora tutto: l’hai anche costretta a firmare una garanzia per i tuoi debiti! Questo sarà un altro problema per te. Infatti suo marito è stato fatto a pezzi. E tu non sarai so­lo accusata di complicità, ma anche di ricatto». «Figuriamoci!» esclamò Kuniko. «Non è mai stata la mia intenzione!» «Che dici?! L’hai ricattata, sì o no?» «No, le ho chiesto semplicemente di aiutarmi un po’, per­ché anch’io ero nei guai. Che male c’è ad aiutarsi reciproca­mente? Dopo tutto quello che ho fatto per lei…» Kuniko era talmente accaldata che il sudore le colava a ri­voli sulle guance. Masako la fissava gelida. Quello che più te­meva, adesso, era che il creditore di Kuniko saltasse fuori per incassare non appena l’assicurazione di Kenji fosse stata pa­gata. Sicuramente non avrebbe avuto riguardo neanche da­vanti a un omicidio. «Altro che aiutarsi reciprocamente! Tu hai cercato di so­praffarla, ecco cos’hai fatto!» Masako allungò una mano: «Dov’è quel documento? Prendilo e fammelo vedere!» «L’ho appena consegnato». Kuniko guardò nervosa l’oro­logio. «Dove?» «All’agenzia finanziaria davanti alla stazione. Si chiama Milione». «Ho capito. Dei prestasoldi. Telefona immediatamente e chiedi indietro il documento!» ordinò dura Masako.

Kuniko stava per mettersi a piangere: «Non posso farlo, è impossibile!» «Mettila così! Più a lungo aspetti, peggio sarà per te. Può darsi che domani stesso si diffonda la notizia, e allora il tuo creditore si metterà alle calcagna di Yama-chan». «Va bene». Kuniko prese il biglietto da visita dalla borsa e afferrò il cordless completamente ricoperto di adesivi. «Sono Jonouchi. Le dispiacerebbe restituirmi il docu­mento che le ho appena consegnato?» Doveva avere ricevuto un secco rifiuto, perché il suo to­no divenne supplichevole, ma l’interlocutore sembrava non sentire ragione. Masako coprì il microfono con la mano e la incalzò: «Al­lora digli di aspettarti, che andiamo subito da lui». Kuniko, come se le gambe non la reggessero più, si lasciò andare sul pavimento. «Devo venire anch’io?» «Mi sembra ovvio». «Perché?» «Perché sei tu la causa di tutto!» «Ma non sono stata io a farlo a pezzi!» «Non rompere!» le urlò furibonda Masako, lottando con­tro l’impulso di prenderla a botte. Kuniko si mise a piagnu­colare. «Quanto ti sei fatta prestare?» «Questa volta cinquecentomila». Evidentemente era caduta nella solita trafila: prima le avevano prestato trecentomila, poi erano stati a guardare co­me pagava e quindi le avevano messo a disposizione altri cinquecentomila yen. Era chiaro che Kuniko, nei debiti fino al collo, riusciva ormai a pagare soltanto gli interessi mensili. «Oltretutto non c’era bisogno che tu fornissi una garan­zia. Ti hanno preso per il naso!» Kuniko la guardò e protestò: «Ma ha detto che se non trovavo un garante dovevo restituire subito l’intera somma!» «Ti sei lasciata abbindolare da un imbroglione!» Kuniko scosse la testa incredula: «Non lo sembrava. Era cortese, un vero gentiluomo, assolutamente non il tipo yaku­za. Oggi mi ha ringraziato in modo perfino esagerato per la mia sollecitudine». «Naturalmente adatta il proprio comportamento alla vit­tima! Non gli è certo sfuggito che razza di tipo sei!» Masako era disgustata. Avrebbe voluto urlare di fronte a quella scon­finata imbecillità. Kuniko era stata probabilmente punta sul vivo, perché re­plicò velenosa: «Sembra che tu sappia molto bene come van­no queste cose! Non mi dire che anche tu hai avuto un’espe­rienza del genere!» «No, è che tu sei troppo imbecille. Sbrigati che andiamo!» Parlare con Kuniko era solo una perdita di tempo. Ma­sako corse in ingresso e si infilò rapidamente le scarpe da gin­nastica dalle suole consumate sui calcagni. Come per renderle la vita ancora più difficile, Kuniko la seguì con studia­ta lentezza. L’insegna dell’agenzia finanziaria Milione era spenta. Ma­sako non vi badò, salì la scala e bussò alla porta. «È aperto», rispose una voce maschile. Masako spalancò la porta ed entrò, seguita da Kuniko, nell’ufficio immerso nella penombra. Un giovane uomo era sprofondato sul divano sotto alla finestra e stava fumando in pace. Lì accanto un tavolino piuttosto sporco sul quale c’e­rano un giornale sportivo spiegazzato e una tazza da cui co­lavano gocce di caffè e latte. «Ah, venite avanti. Che cosa posso fare per voi?» Appena le vide l’uomo si alzò in piedi sorridendo cordialmente. In­dossava un completo grigio e una cravatta rossa. La sua ele­ganza perfetta era del tutto fuori luogo in quell’ambiente; so­lo i capelli tinti di castano chiaro rovinavano un po’ l’effetto. Sembrava confuso, forse non aveva creduto che Kuniko si sarebbe davvero ripresentata.

«Signor Jumonji. Il mio garante, cioè la persona che ha sottoscritto il contratto, ci ha ripensato e vuole assolutamen­te riavere il documento». «Si tratta della signora?» domandò Jumonji guardando Masako. Non cercava di nascondere la curiosità e una certa inquietudine. «No, io sono solo un’amica. Lei è sposata, e la cosa le pro­curerebbe grossi problemi. Ci restituisce il contratto?» «Non è possibile». «Allora me lo mostri». «D’accordo, come vuole». Jumonji andò riluttante alla scrivania, aprì un cassetto e porse a Masako un documento. Masako gli diede uno sguardo e sentenziò: «Non c’è nessun obbligo legale di presentare un garante, questo lo sa. Infatti le avete fatto credito senza quella condizione. Mi mostri la ri­cevuta!» «Guardi che si sbaglia!» Jumonji diventò improvvisamen­te serio. Aggrottò le sopracciglia e la sua espressione divenne minacciosa. Prese il contratto da uno schedario e le mostrò alcuni punti: «Qui, vede: “…fatta eccezione per il caso in cui vi siano notevoli variazioni di affidabilità”.Il marito della si­gnora Jonouchi ha lasciato il lavoro ed è sparito! Non è for­se una variazione notevole questa?» Masako sorrise all’evidente pretesto addotto da Jumonji e ribatté: «Può dire quel che vuole, ma non è questo il caso. È un fatto che questa è la prima volta che la signora Jonouchi è in ritardo con il pagamento, e per di più di un solo giorno. E questo non giustifica in alcuna maniera il vostro modo di procedere». Jumonji, che evidentemente non si era aspettato un con­trattacco, la fissò allibito. Kuniko si guardava intorno nervo­sa, come se temesse che da un momento all’altro qualcuno potesse saltare fuori a minacciarla. Il giovane contemplò per qualche istante il volto di Masako e poi disse: «Ci siamo già visti da qualche parte?» «No», rispose seccamente. «Davvero?» Jumonji chinò di nuovo la testa, poi aggiun­se in tono più pacato: «Mi spiace veramente doverlo dire, ma in questo caso il piano di restituzione è assolutamente privo di credibilità». «Farò in modo che faccia fronte ai pagamenti», assicurò Masako. «Quindi si vuole assumere la garanzia?» «No, questo no, ma farò in modo che le restituisca il de­naro, anche a costo di chiedere dei prestiti ad altre finanzia­rie». «Be’, allora aspettiamo di vedere come vanno i prossimi pagamenti e poi ci ripenseremo». Jumonji sembrava essersi rassegnato, tornò al divano e si lasciò cadere a gambe larghe. Kuniko perplessa guardò Masako, come se non avesse capito che il contratto di garanzia le era stato restituito. «Andiamocene», la sollecitò Masako, ma proprio in quel momento Jumonji esclamò: «Adesso ricordo! Lei è la signo­ra Katori, vero?» Masako si girò. Le tornò alla mente l’immagine di Ju­monji quando era ancora un giovane malavitoso con la testa rasata. Quello che avevano assunto nella sua ditta affinché si occupasse della riscossione dei crediti. Del nome non si po­teva ricordare, anche perché allora non si chiamava così, ma lo sguardo, che mutava a seconda della persona che si trovava di fronte, era sempre lo stesso. «Ah… Lei ha cambiato nome, per questo non l’ho rico­nosciuta subito». Jumonji scoppiò a ridere: «Katori-san! Adesso mi spiego: con lei nessuno può farla franca!» «Come mai lo conosci?» si voltò a chiederle Kuniko, che la precedeva per le scale e non stava più nella pelle dalla vo­glia di sapere. «Nella ditta dove lavoravo una volta avevamo spesso a che fare con lui». «E che lavoro facevi lì?» «Finanziamenti».

«Prestiti personali e cose del genere?» Masako non aggiunse una parola. Kuniko la fissò per qualche istante, poi, a testa avanti, affrettò il passo come se volesse fuggire da quel quartiere desolato ormai completamente buio. Masako invece, dopo quell’inaspettato incontro col pas­sato, si sentiva quasi prigioniera della polverosa tenebra di quel vicolo. Che cosa l’aspettava lì fuori? Assalita da un’improvvisa angoscia si addentrò nella direzione opposta, nel su­dicio dedalo di vicoli intorno alla stazione. Aveva voglia di rannicchiarsi in un angolo e di tenersi la testa fra le mani. Perché per lei non c’era più una casa né un luogo in cui tor­nare.

3. Perché in sogno poteva parlare con lui, anche se sapeva che era morto? Finalmente si era addormentata, ma il sonno era leggero. Sognava di vedere suo padre in giardino, in piedi, che osser­vava l’erba terribilmente rada e secca. Lui, che aveva dovuto lasciare questo mondo a causa di un tumore al mento, era fermo sotto il cielo nuvoloso e non faceva niente. Indossava lo jukata che usava sempre in ospedale. Poi si era accorto di Masako sulla veranda e le sue guance, tormentate dalle ripe­tute operazioni, si erano distese. «Cosa fai lì?» «Volevo muovermi un po’». Nel sogno il padre, che negli ultimi tempi della malattia non riusciva più a pronunciare parole intelligibili, parlava con estrema chiarezza. «Ma stanno arrivando ospiti!» Masako non sapeva chi doveva arrivare, ma per tutto il tempo si era aggirata trafelata per la casa, occupata nei pre­parativi. Il giardino era quello della vecchia casa di legno di Hachioji, che i suoi genitori avevano avuto in affitto. La ca­sa invece era la sua, quella nuova che aveva comprato con Yo­shiki. E inoltre il bambino che si aggrappava ai jeans di Ma­sako era Nobuki da piccolo. «Allora prima bisogna assolutamente che tu pulisca il ba­gno!» Alle parole preoccupate del padre Masako, in cuor suo, aveva tremato. Infatti in bagno c’erano ovunque i capelli di Kenji. Come faceva il padre a saperlo? Sicuramente perché era morto. Si era staccata di dosso le piccole mani di Nobuki e aveva incominciato affannosamente a giustificarsi. Allora il padre, con le gambe magre come quelle di uno scheletro, era andato verso di lei. Lo sguardo era vuoto, il volto livido. Era il viso di un morto. «Masako, lasciami morire!» le aveva bisbigliato all’orec­chio. Masako si svegliò di soprassalto. Il padre, quando ormai non riusciva più a parlare né a in­ghiottire cibo, alla fine, vinto dalla sofferenza, era riuscito tuttavia a dirle chiaramente quelle parole. Quella voce, che credeva sepolta nelle profondità della memoria, era giunta di nuovo alle sue orecchie e la faceva tremare di paura come se avesse incontrato un fantasma. «Ehi, Masako!» Yoshiki era fermo accanto al suo futon. Il marito non en­trava quasi mai in camera sua mentre dormiva. Masako, non ancora completamente uscita dall’incubo, lo guardò attonita. «Alzati e guarda! Non è una che conosci?» Yoshiki le mostrò un articolo sul giornale del mattino che teneva in mano. Masako si sollevò e lesse il titolo in terza pa­gina: Identificato il cadavere del parco: è un impiegato di Mu­sashi-Murayama. Come aveva immaginato, già la sera prece­dente la polizia era riuscita a identificare la vittima. In qual­che modo i caratteri a stampa rendevano i fatti meno reali e improvvisamente tutto le sembrò stranamente falso. Sorpre­sa da questa sensazione, Masako continuò a leggere: «Yayoi Yamamoto, la moglie della vittima, quando il marito Kenji è sparito senza lasciare tracce non era in casa. Lavora infatti part-time in una fabbrica ed è addetta ai turni di notte. Gli investigatori stanno ora cercando di ricostruire i movimenti di Kenji Yamamoto dopo che aveva lasciato l’ufficio». L’arti­colo non conteneva alcuna informazione precisa. Con un gusto macabro e grottesco si dilungava sul cadavere fatto a pezzi e buttato via in sacchetti per le immondizie. «E allora? La conosci, vero?» «Sì, certo, ma come lo sai?» «Non telefona spesso? Sono Yamamoto dello stabilimen­to, dice sempre. E poi non ci sono altre fabbriche con i tur­ni di notte, qui vicino». Che avesse sentito anche la telefonata di quella sera, quando Yayoi l’aveva chiamata per

chiederle aiuto? Istintiva­mente lo guardò negli occhi. Yoshiki, vergognandosi di aver rivelato la propria emozione, si girò di lato. «Ho solo pensato che dovessi saperlo al più presto possi­bile…» «Grazie». «Che cosa può essere successo? È possibile che qualcuno lo odiasse così tanto?» «Non credo che fosse il tipo da farsi odiare. Già, che co­sa può essere successo?» «Tu hai un buon rapporto con la signora Yamamoto, ve­ro? Non sarebbe meglio che andassi a trovarla?» domandò Yoshiki meravigliato dal contegno tranquillo della moglie. «Vedremo», rispose evasivamente Masako continuando a fingere di leggere con attenzione il giornale abbandonato sul letto. Yoshiki, che in qualche modo continuava a trovare strano quel comportamento, andò al suo armadio personale e prese un abito. Evidentemente voleva andare in ufficio, no­nostante il sabato fosse giorno di riposo. Masako si alzò in fretta e, ancora in pigiama, incominciò a risistemare il letto. «Ma, davvero, non credi che sarebbe meglio andare da lei e consolarla un po’?» domandò di nuovo Yoshiki mostran­dole la schiena. «Non deve essere facile per lei, adesso, con la polizia in casa e giornali e televisione fuori dalla porta!» «Proprio per questo forse è meglio non darle altri fastidi e lasciarla in pace!» rispose Masako, mentre Yoshiki si sfilava in silenzio la maglietta. Masako lo guardò: aveva i muscoli flaccidi e, nell’insieme, un aspetto macilento. Era ormai un vecchio, nel corpo come nello spirito. Yoshiki sembrò avere intercettato il suo sguardo e si irrigidì. I ricordi del tempo in cui era in armonia con Yoshiki era­no impalliditi non perché avessero smesso di toccarsi, ma perché a un certo punto avevano preso strade differenti e ora si trovavano in due luoghi diversi. Ora ognuno di loro si li­mitava ad adempiere le proprie funzioni. Non erano più ma­rito e moglie, padre e madre, ma un uomo e una donna che eseguivano scrupolosamente i loro compiti, sia sul lavoro che a casa. Lentamente ma inesorabilmente il loro matrimonio stava andando a rotoli. Yoshiki indossò una camicia bianca sulla pelle nuda e si girò: «Falle almeno una telefonata. Sei veramente insensibile!» Masako rifletté su quelle parole. Forse perché aveva avu­to un rapporto così stretto con l’accaduto, stava tralasciando ciò che nell’ambito di relazioni normali sarebbe apparso ca­tegoricamente ovvio. Era pericoloso dimenticare il buon sen­so comune. «Va bene, telefonerò», acconsentì di malavoglia. Yoshiki la fissò come se volesse pronunciare una senten­za: «Tu hai l’abitudine di eliminare subito quello che, a tuo parere, non ti riguarda». «Non ne avevo intenzione», obiettò Masako guardandolo in faccia. Negli ultimi tempi Yoshiki tendeva a giudicare il suo comportamento. Dal giorno dell’incidente di Yayoi lei era cambiata, e lui se ne era accorto. «Forse ho parlato troppo, scusa». Yoshiki storse la bocca come se avesse mandato giù un boccone amaro e la guardò. Ognuno cercava di scoprire negli occhi dell’altro il gelo rac­chiuso nei loro cuori. Masako abbassò lo sguardo e stese il copriletto. Annodandosi la cravatta Yoshiki disse: «Poco fa hai gridato nel sonno». Masako pensò che la cravatta non era adatta all’abito e ri­spose: «Ho fatto un brutto sogno». «Che sogno?» «Ho sognato mio padre. Era morto ma veniva da me e mi parlava». Yoshiki mugolò ma non disse nulla e infilò nella tasca dei pantaloni la tessera dell’abbonamento e il portafoglio. Si era sempre capito bene con il suocero. Ma non le chiese altri det­tagli, non voleva costringerla ad aprirgli il cuore, e Masako lo interpretò come un rifiuto. Forse non riteneva più neces­sario che lei si confidasse con lui. Forse neppure lei gli era più necessaria. Masako sistemò con cura i lembi del copriletto intorno al materasso, continuando a riflettere sul loro

matri­monio sprecato. Dopo che Yoshiki se ne fu andato, Masako telefonò a Yayoi. «Qui è casa Yamamoto», rispose una voce irritata ed esau­sta. Assomigliava a quella di Yayoi, ma non era la sua. Era più vecchia e aveva un forte accento. «Mi chiamo Katori. C’è Yayoi?» «Ha preso un sonnifero e adesso sta dormendo. Mi scusi, ma lei chi è?» «Lavoro con lei allo stabilimento. Ho letto il giornale e sono molto preoccupata». «La ringrazio. Ciò che è accaduto è talmente assurdo che le sono saltati i nervi. È da ieri sera che dorme». Il tono era brusco e indifferente. Quante volte aveva suonato il telefono quella mattina, quante volte aveva dovuto rispondere alle stesse domande? Parenti, colleghi di ufficio di Kenji, amiche di Yayoi, vicini, giornalisti… Aveva ripetuto sempre le stesse parole, come il nastro registrato di una segreteria telefonica. «Lei è la madre di Yayoi?» «Sì», rispose seccamente. Forse aveva paura di dire qual­cosa che non doveva. «È terribile, davvero terribile. Siamo tutti preoccupati, glielo dica. Le dica di aver cura di sé». Si sarebbe ricordata che aveva telefonato. Andava bene così, pensò Masako. Non telefonare avrebbe potuto suscita­re dei sospetti. Proprio nel momento in cui stava riagganciando entrò Nobuki. Muto come un pesce fece colazione e uscì subito di casa. Se andasse a lavorare o a divertirsi Masako non lo sape­va. Rimasta sola accese il televisore per vedere un telegiorna­le, ma tutti i canali ripetevano le stesse notizie; a quanto pa­reva non c’erano nuovi sviluppi. Arrivò una telefonata di Yoshie. Diversamente da Ma­sako, aveva lavorato nel turno di notte, aveva terminato i la­vori domestici ed evidentemente aveva aspettato che la suo­cera si addormentasse per telefonare. Parlava a bassa voce e sembrava depressa: «È proprio successo quello che avevi pre­visto. Quando l’ho visto in televisione mi sono spaventata a morte!» «Già. E presto la polizia verrà certamente a indagare an­che in fabbrica». «Cosa dici, che i nostri sacchetti siano al sicuro?» «Credo di sì», rispose Masako. «Ascolta, e adesso cosa dobbiamo dire alla polizia?» «Che non sappiamo niente, perché da quella notte Yama­chan non è più venuta a lavorare». «Sì, giusto, dovrebbe bastare». Yoshie ripeteva sempre le stesse domande e voleva sentire sempre le stesse risposte, per potersi tranquillizzare: a quan­to pareva era solo questo lo scopo della sua telefonata. Ma­sako si innervosì, avrebbe voluto essere lasciata finalmente in pace. All’altro capo del telefono si sentiva la voce querula del bambino. Masako ricordò di nuovo il sogno del mattino, la sensazione fisica di Nobuki che la tirava per i pantaloni. E si persuase di avere fatto quel sogno solo perché aveva visto il nipotino di Yoshie. Se fosse riuscita ad analizzare uno alla volta i singoli elementi di quell’incubo, la paura sarebbe presto scomparsa. «Sì, ma…» Di nuovo la voce angosciata di Yoshie. «Ci vediamo questa sera», la interruppe e riattaccò. Ku­niko non aveva ancora chiamato. Ma lei era una codarda, e dopo quello che le aveva fatto fare la sera prima, probabilmente se ne sarebbe stata tranquilla per un po’. Mentre cercava la biancheria sporca per il bucato, ripen­sò a Jumonji, che aveva incontrato di nuovo dopo tanti an­ni. Nel frattempo si era dato da fare nel settore dei prestiti a usura e doveva aver guadagnato un bel po’ sulle disgrazie dei suoi clienti. A Masako non importava nulla dei debiti di Ku­niko, ma una cosa era certa: se per caso Jumonji avesse letto il giornale e collegato il nome di Yayoi con quello della ga­rante di Kuniko, sarebbero stati guai seri.

Che razza di uomo era diventato Jumonji? Masako tentò di evocare i ricordi di quando era impiegata, un periodo che avrebbe voluto dimenticare del tutto. Fece scorrere l’acqua nella lavatrice e, quando il cesto fu abbastanza pieno, versò il detersivo. La polvere venne risuc­chiata dal vortice e si sciolse producendo piccole bolle di sa­pone. Masako si fermò a guardarle e lentamente aprì il cate­naccio con cui aveva chiuso il suo cuore. Ogni volta che ripensava al periodo in cui era stata im­piegata, le veniva in mente la festa di capodanno, quando le veniva dato l’incarico di riscaldare il sakè. Era la solita festa organizzata dall’istituto di credito Tanashi, dove Masako, dalla fine del liceo, aveva lavorato per ventidue anni. Sempre, alla vigilia del nuovo anno lavorativo, l’azienda offriva un banchetto al quale erano invitati i pezzi grossi delle più im­portanti società di affari e delle cooperative agricole da cui era finanziata. Quel giorno le impiegate dovevano presentar­si al lavoro con il kimono da cerimonia. L’obbligo valeva sol­tanto per quelle più giovani, che lavoravano in ditta da un solo anno. Le altre impiegate dovevano preparare spuntini, lavare bicchieri e intiepidire il sakè in un locale apposito, senza mai comparire. I compiti più faticosi erano assegnati agli uomi­ni, che portavano le birre e allestivano il salone, tuttavia le donne erano costrette a lavorare dal mattino alla sera, impe­gnate nell’allestimento, nel servizio e nel riordino. Nono­stante dal 30 dicembre, che segnava la fine dell’anno lavora­tivo, al 4 gennaio, inizio del nuovo anno di lavoro, fossero ufficialmente in ferie, dovevano sacrificare un giorno di va­canza senza ricevere alcun compenso – in fondo si trattava pur sempre di una festa! Comunque, da quando Masako era diventata l’impiegata più anziana, si era vista affidare soltanto il compito di intie­pidire il sakè. La cosa non le dispiaceva, perché detestava sta­re in mezzo alla gente, ma rimanere mezza giornata in piedi nel piccolo locale a intiepidire le caraffe piene di sakè non era un gran divertimento. Dopo un po’ i vapori dell’alcol la ine­briavano e la facevano star male. Inoltre i dipendenti maschi si ubriacavano presto e le altre donne dovevano andare a so­stituirli nel servizio in sala, per cui Masako rimaneva sola a scaldare il sakè e a lavare bicchieri. Era una situazione talmente miserabile da essere quasi grottesca. Negli anni peg­giori le donne dovevano persino pulire il vomito degli im­piegati ubriachi. Molte avevano rinunciato al posto pur di non dover sottostare a quell’inaudita ingiustizia. Ma, dopotutto, quella festa si faceva solo una volta al­l’anno, non era il caso di prendersela troppo! No, quello che la faceva arrabbiare di più era che, dopo tutti quegli anni di assiduo lavoro, non aveva mai avuto una promozione e con­tinuava a svolgere le stesse mansioni che le erano state asse­gnate quando era entrata in ditta. In quei dieci anni, neppu­re per un giorno le erano stati affidati compiti diversi, ben­ché si recasse al lavoro puntualmente alle otto del mattino e rimanesse a fare gli straordinari fino alle nove di sera. Per quanto si impegnasse, i compiti più delicati, come la con­cessione dei finanziamenti e cose del genere, erano riservati agli uomini, e Masako era obbligata a svolgere soltanto fun­zioni di assistente. Tutti gli impiegati maschi entrati in ditta insieme a lei avevano potuto frequentare corsi di perfezionamento e, in dieci anni, erano riusciti a diventare almeno caposezione, scavalcandola velocemente. Non avrebbe dovuto aspettare a lungo: ben presto avrebbe avuto un capoufficio più giovane di lei. Un giorno le era capitata tra le mani la distinta della bu­sta paga di un collega con la sua stessa anzianità e il sangue le era salito alla testa. Guadagnava quasi due milioni più di lei all’anno. Dopo vent’anni di lavoro Masako percepiva uno stipendio annuale di quattro milioni e seicentomila yen. Dopo aver riflettuto a lungo, aveva deciso di rivolgersi di­rettamente al dirigente della sua sezione, che aveva la sua stessa età di servizio. Dopo un lungo colloquio a quattr’oc­chi aveva ottenuto che le venissero assegnate le stesse man­sioni dei suoi colleghi maschi. Si sarebbe impegnata nel la­voro con tutta se stessa, ma voleva un posto di maggiore re­sponsabilità.

Il giorno successivo, senza che tentassero di nasconderlo, aveva avuto inizio il mobbing. Anzitutto la sua richiesta era stata riportata in modo distorto. Tutte le colleghe avevano incominciato a trattarla con freddezza, poiché erano convin­te che cercasse di fare carriera a loro spese. Non era più stata invitata alle cene delle impiegate, che si tenevano una volta al mese, ed era rimasta completamente isolata. Ogni volta che i colleghi avevano incontri di lavoro con i clienti, Masako doveva preparare il caffè o il tè, e molto più spesso di prima le chiedevano di fare fotocopie per loro. Ovviamente le rimaneva poco tempo per il suo lavoro e era co­stretta a fermarsi in ufficio sempre più spesso per gli straordi­nari. Tutto ciò aveva avuto dei riflessi sulla sua valutazione personale: era stata giudicata poco efficiente e le avevano asse­gnato un punteggio negativo e persino una nota di biasimo. Tuttavia Masako continuava a sopportare. Rimaneva a la­vorare fino a tarda ora e si portava a casa il lavoro da finire. Nobuki, che andava ancora alle elementari, ne soffriva mol­to ed era diventato ansioso, e Yoshiki aveva incominciato a brontolare che doveva decidersi a lasciare quel posto impos­sibile. Ogni giorno saltava come una pallina da ping-pong fra il lavoro e la famiglia, ed era completamente sola. Non c’era un luogo dove riuscisse a sentirsi al sicuro. Fu allora che accadde. Masako aveva fatto notare a un su­periore un errore su un finanziamento scoperto e si era pre­sa uno schiaffo. Il “superiore”, un uomo molto più giovane di lei e completamente incapace, la aveva colpita insultando­la: «Tieni la bocca chiusa, vecchia megera!» Era successo la sera tardi, nelle ore di lavoro straordina­rio, e non aveva avuto conseguenze, ma nell’animo di Ma­sako si era impressa una profonda, invisibile ferita. Era dun­que così importante essere un uomo? Bastava essere laureati? Dunque in quella ditta la sua esperienza e il suo desiderio di migliorare non valevano proprio niente? Anche prima di quell’episodio aveva spesso pensato di cambiare posto, ma le piaceva lavorare in un istituto di credito. Ma ormai era stato oltrepassato ogni limite ed era veramente disperata. L’incidente dello schiaffo si era verificato nel periodo in cui l’economia giapponese era nella fase di maggiore espan­sione. Le banche erano state colte dalla febbre dei finanziamenti, prestavano denaro a chiunque, senza fare i debiti ac­certamenti. Prestavano denaro anche a quei clienti che Ma­sako considerava pericolosi, e alla fine della bolla espansioni­stica l’azienda si era trovata ad affrontare una montagna di crediti non esigibili. I prezzi dei terreni erano crollati, le as­sicurazioni non valevano più niente. Gli immobili venivano venduti alle aste giudiziarie, ma non si riusciva a ricavarne denaro a sufficienza, per cui non era più possibile riscuotere i titoli di credito. Per la cassa di credito Tanashi era diventato sempre più difficile anche coprire le spese correnti, perciò ben presto un grosso istituto finanziario, che apparteneva a una società agricola, dovette intervenire nella gestione dell’azienda. Tut­to era avvenuto molto in fretta: girò voce dell’assorbimento in una joint venture e di una riduzione del personale. Masako era l’impiegata più anziana e inoltre veniva isolata da tutti. Immaginò che sarebbe stata la prima a essere licenziata e i suoi timori trovarono presto conferma. Venne chiamata dal­la direzione del personale: «Vorremmo trasferirla alla filiale di Odawara». Era l’anno precedente l’esame di ammissione al liceo di Nobuki. Odawara si trovava a più di cento chilometri: avreb­be dovuto lasciare i suoi familiari da soli e trovarsi una stan­za. Questo era impossibile! Aveva rifiutato e la avevano co­stretta a dimettersi. Non si sentiva una sconfitta, ma quello che era successo in seguito le aveva fatto molto male: quan­do avevano saputo che aveva dovuto dimettersi, le sue colle­ghe avevano battuto le mani e l’applauso era risuonato per tutta l’azienda. Jumonji aveva incominciato a lavorare per l’istituto di credito quando la bolla espansionistica era scoppiata e sem­pre più clienti non riuscivano a onorare i loro debiti. Anche una banca seria come la Tanashi si era rivolta a uomini di quel genere per farsi togliere le castagne dal fuoco. Avevano il compito di cuocere a puntino i debitori morosi, metterli alle strette e impedire loro di svignarsela.

L’istituto, avido di alti profitti, nei periodi di congiuntu­ra favorevole aveva prestato generosamente denaro, ma non appena la situazione era peggiorata non si era fatto molti scrupoli nell’esigere la restituzione dei crediti. Masako aveva osservato attentamente e da vicino la miserabile tragedia dei piccoli debitori. Aveva creduto che anche Jumonji la pensas­se come lei, benché fosse coinvolto nell’affare. Non gli aveva mai parlato personalmente ma, benché rispondesse sempre con un sorriso al comportamento arrogante e ai discorsi pre­suntuosi della gente della banca, nel suo sguardo le era sem­pre sembrato di vedere un lampo di orrore. Il sibilo della lavatrice la distolse dai suoi pensieri. Solo al­lora si accorse di essersi completamente dimenticata di infi­larvi i capi da lavare. L’acqua saponosa aveva vorticato ed era stata scaricata, era stata sostituita dall’acqua del risciacquo e alla fine era stata eliminata fino all’ultima goccia… Aveva continuato a girare a vuoto, da sola, inutilmente e senza sen­so, proprio come lei in quel periodo. Le venne da ridere.

4. Quando Jumonji si svegliò, il braccio che teneva ancora sot­to la testa della donna era intorpidito. Lo tirò via e aprì e chiuse la mano un paio di volte. A quel brusco movimento la donna aprì gli occhi e lo guardò stupita: le sopracciglia sot­tili erano appena segnate, come quelle di una bambina o di una vecchia: «Cosa c’è?» Jumonji guardò la sveglia accanto al letto. Erano le otto. Bisognava alzarsi. Dalle tende sottili penetrava già il sole esti­vo: in breve avrebbe invaso la piccola camera e il caldo sa­rebbe diventato insopportabile. «Dai, alzati!» «Non voglio!» esclamò la donna aggrappandosi al corpo di Jumonji. «Devi andare a scuola, no?» La donna era in realtà una studentessa del primo anno del liceo. Sarebbe stato più appropriato definirla una ragazzina, ma indubbiamente era una femmina, e Jumonji non prova­va desiderio che per le ragazzine. «Non importa, non ci andrò, tanto è sabato». «Io invece devo andare. E allora alzati!» «Accidenti!» La ragazza schioccò la lingua con disprezzo e spalancò la bocca in un grande sbadiglio. Denti bianchi, car­ne rosa. Tutto, nel bel corpo da adolescente, era bianco e ro­sa. La guardò un’altra volta, rimpiangendo di doversi separa­re da lei, si alzò e accese l’aria condizionata. Subito l’aria pol­verosa e maleodorante gli investì il viso. «Ehi, prepara qualcosa da mangiare!» «No, non ne ho voglia». «Ma sei fuori? Sei tu la donna, no, e allora mi prepari la colazione!» «Non sono capace». «Scema, e magari te ne vanti anche?» «Scema, sei fuori… piantala di parlarmi così! Sei capace di rovinare la giornata a chiunque!» La ragazza, imbronciata, prese una delle sigarette di Jumonji e se la ficcò tra le labbra. «Che rottura! Ma da un nonnetto come te non ci si può aspettare altro!» «Come, prego? Io ho solo trentun anni», si irritò Jumonji. La ragazza rise impudente e disse: «Abbastanza vecchio!» «E tuo padre, allora, quanti anni ha?» si arrabbiò Jumonji che si considerava ancora giovane. «Quarantuno, forse». «Solo dieci anni più di me…» Di colpo gli sembrò di es­sere invecchiato. Andò a orinare nel piccolo bagno accanto all’ingresso. Dopo essersi lavato la faccia tornò in camera sperando che la ragazza avesse almeno messo a bollire l’acqua per il caffè. Invece era ancora a letto, solo i lunghi capelli tin­ti di castano dorato spuntavano da sotto il lenzuolo. Jumonji andò su tutte le furie. «Ehi, sveglia! Fuori dai piedi!» «Be’? Hai perso qualche rotella? Imbecille!» La ragazza scalciò in aria un paio di volte con le gambe grassocce. D’un tratto Jumonji le domandò: «Quanti anni ha tua madre?» «Quarantatré. È più vecchia di mio padre». «Ah sì? Comunque le donne oltre i trent’anni non conta­no più». «Sfacciato! Mia madre è ancora giovane! E bella, per di più!» rispose la ragazza incollerita. C’era cascata. Jumonji, che non provava alcun interesse per le donne mature, rise. Era riuscito a vendicarsi! Non credeva di essere così infanti­le. La ragazza era ancora arrabbiata, ma lui non se ne preoc­cupò più, si infilò fra le labbra una sigaretta e prese il gior­nale del mattino. Si lasciò cadere sul

letto e si mise a leggere, mentre lei lo guardava con cattiveria, le braccia incrociate sul petto. Il suo sguardo sembrava terribilmente maturo, come quello delle donne più vecchie con le quali lui non voleva avere nulla a che fare. Come sarebbe stata da adulta? Provò a immaginare il volto della madre. Le prese il mento fra le di­ta, le sollevò la testa e la fece girare a destra e a sinistra, os­servandola di fronte e di profilo. «Ma che fai! Mi dai fastidio!» «Sta’ buona!» «E smettila. Che cosa hai da guardarmi così?» «Ah, pensavo solo che anche tu invecchierai». «Ovvio, e allora?» La ragazza allontanò con rabbia la ma­no di Jumonji. «Che strazio di discorsi fai fin dal mattino! Sei deprimente!» Quarantatré anni. Doveva essere più o meno l’età di Ma­sako Katori, che aveva incontrato il giorno prima. Era anco­ra magra come una volta, e assomigliava sempre più a una di quelle zitelle inacidite che lui cercava in tutti i modi di evi­tare. Tuttavia continuava a fargli una forte impressione. Aveva conosciuto Masako Katori all’ex cassa di credito Tanashi. Ormai la cassa era stata assorbita da una società più importante, poiché non era riuscita a riscuotere i crediti fon­diari e i mutui erogati nel periodo di massima espansione, che in seguito erano stati congelati. Nel tentativo di far rien­trare un po’ di denaro, la riscossione dei crediti era stata da­ta in subappalto a uomini come Jumonji. Si ricordava bene di Masako, che allora lavorava nell’ufficio amministrativo. Sedeva dignitosa davanti al suo terminale, impeccabile nella sua divisa grigia che sembrava sempre appena uscita dalla la­vanderia. Non si truccava in modo vistoso come le altre im­piegate, non si perdeva in complimenti e continuava a svol­gere precisa il proprio lavoro in silenzio. Benché non facesse nulla per mettersi in mostra e non si lasciasse avvicinare fa­cilmente, tuttavia sembrava che tutti gli uomini del servizio di riscossione la rispettassero, perché le sue indicazioni erano sempre più appropriate, precise e circostanziate di quelle de­gli altri impiegati della banca. A quell’epoca Jumonji non aveva il minimo interesse per le vicende interne della Tanashi, ma comunque non gli era sfuggito che Masako, una veterana con vent’anni di lavoro alle spalle, veniva emarginata da tutti. Gli era anche giunta voce che per questo sarebbe stata la prima a entrare nel no­vero degli esuberi. Ma il suo istinto gli diceva che doveva es­serci un motivo ancor più recondito. Era come se Masako fosse circondata da una barriera che impediva alla gente di avvicinarla, come se portasse una spe­cie di “sigillo” che contraddistingue chi lotta da solo contro il mondo intero. Non era affatto sorprendente che uno come lui se ne accorgesse. Lui stesso, in quanto vicino agli yakuza, era un emarginato e, si sa, il simile attrae il proprio simile. Probabilmente dietro al mobbing si nascondevano proprio quelle persone che erano sprovviste di tale “sigillo”. Ma co­me mai Masako Katori aveva a che fare con una piena di de­biti come quella Kuniko? Per Jumonji era un mistero. «Ho fame. Andiamo almeno al McDonald!» La voce della ragazza interruppe i pensieri di Jumonji che incominciò a sfogliare il giornale del quale si era completa­mente dimenticato. «Aspetta un momento». «Dai, che il giornale potrai leggerlo là!» «Zitta, mi dai fastidio!» Liberandosi dalla ragazza che lo voleva abbracciare, Ju­monji si fermò a leggere con attenzione l’articolo a pagina tre, nella colonna dedicata a Musashi-Murayama. Parlava del ritrovamento di un cadavere fatto a pezzi. Il suo sguardo cad­de sulla riga in cui si parlava di «Yayoi Yamamoto, moglie della vittima». Quel nome gli ricordava qualcosa. Non era forse il nome della garante? Era solo un vago ricordo, perché proprio quando aveva intenzione di fare delle ricerche su di lei era intervenuta

Masako e si era fatta consegnare il docu­mento. Ma gli sembrava che il nome fosse proprio lo stesso. La ragazza, che leggeva da dietro le sue spalle, ricominciò con le sue ciance: «Che schifo! E pensare che sono stata po­co tempo fa al parco di Koganei! Che orrore!» e cercò di prendergli il giornale. «Là ho incontrato un tipo che gira sempre in skate-board, che insisteva per farmelo vedere, e al­lora me ne sono andata…» «Tieni la bocca chiusa, sei noiosa!» Jumonji le strappò di mano il giornale e tutto serio rico­minciò a leggere l’articolo dall’inizio. Kuniko gli aveva detto che faceva i turni di notte in una fabbrica di pasti precotti. Probabilmente la stessa in cui lavorava anche Yayoi Yama­moto. E quindi non c’era dubbio, era proprio la garante di Kuniko, le due erano colleghe. Ma allora perché Kuniko ave­va chiesto proprio a quella donna di garantire per i suoi de­biti? Che ci fosse una relazione con il brutale assassinio del marito della Yamamoto? No, era assurdo, sembrava un ro­manzo di appendice! Il fatto che Masako Katori fosse venu­ta da lui e avesse preteso a tutti i costi la restituzione della ga­ranzia poteva significare solamente che sapeva già quello che era successo a Yayoi. Era stato un vero sprovveduto a lasciarsi convincere così in fretta! Non credeva di essere capace di farsi del male così stupidamente. «Che bestia!» Ma un momento, manteniamo la calma! si disse Jumonji e rilesse l’articolo. La notte di martedì la vittima non era tor­nata a casa e la polizia supponeva che fosse stata uccisa e fat­ta a pezzi quello stesso giorno. E dunque poteva darsi che Masako Katori si fosse affrettata a riprendere la garanzia sol­tanto per riguardo verso Yayoi che era in pena per la scom­parsa del marito. In questo non ci sarebbe stato niente di strano. D’accordo, ma allora perché Kuniko aveva chiesto la garanzia proprio a Yayoi, che si trovava in un momento così critico? E perché Yayoi non si era rifiutata? Una donna, il cui marito è appena scomparso nel nulla, dovrebbe avere ben al­tro di cui preoccuparsi che non farsi coinvolgere in una sto­ria di debiti! E quale poteva essere il ruolo di Masako Kato­ri in tutto questo? Quella vecchia volpe non era il tipo da far­si muovere a compassione per niente. Jumonji si ripropose di approfondire la questione, ripiegò il giornale e lo gettò sul tappeto polveroso. La ragazza, che era rimasta in silenzio per tutto il tempo, forse intimorita dall’atteggiamento di Ju­monji, lo raccolse con cautela e si mise a leggere i program­mi della televisione. Soprappensiero Jumonji seguì i suoi movimenti e poi respirò a fondo. Sentiva l’odore dei soldi. L’eccitazione accelerava il suo ritmo cardiaco. I tempi erano cambiati, ora i giovani prelevavano soldi in prestito dai di­stributori automatici. Ormai i piccoli finanziatori di quartie­re erano passati di moda – semplicemente non si tirava più fuori un ragno dal buco. Al più tardi nel giro di un anno l’a­genzia finanziaria Milione avrebbe fatto bancarotta, e lui aveva già preso in considerazione l’ipotesi di dedicarsi al traf­fico della prostituzione. Jumonji respirò di nuovo a fondo, come se avesse già di fronte agli occhi le mazzette di denaro. «Adesso ho veramente fame! Andiamo a mangiare», pro­testò la ragazza facendo il broncio. «Bene, andiamo!» rispose Jumonji spiazzandola con il suo improvviso buonumore.

5. Yayoi si dibatteva tra la pietà e il sospetto dei due visitatori. E veniva colpita di continuo da un sentimento o dall’altro, come una palla da tennis. Questo la confondeva, perché a quel punto non sapeva più come comportarsi. Era come un continuo cambiamento di tono. La com­passione che ancora nel pomeriggio le aveva dimostrato Igu­chi, il capo della sicurezza della questura di Musashi-Yama­to, dopo solo poche ore sembrava essersi mutata in sospetto. Avevano infatti identificato il cadavere di Kenji. «Grazie all’impronta della mano trovata insieme ad altre parti del cadavere nel parco di Koganei, abbiamo potuto sta­bilire che la vittima è suo marito. Si tratta ormai dei reati di profanazione ed eliminazione di cadavere, e d’ora in poi se ne occuperà la sezione investigativa e la prima sezione della sede centrale. A causa della gravità del delitto è stata istitui­ta una commissione speciale nella sede di Musashi-Yamato. Perciò, signora Yamamoto, la pregheremmo di collaborare». Nonostante nel pomeriggio le avesse raccomandato di presentarsi in questura, Iguchi era tornato a farle visita di persona. Nei suoi piccoli occhi non c’era più alcuna traccia della dolcezza con cui aveva osservato il triciclo in giardino, e questo bastava a Yayoi per farle gelare il sangue nelle vene. Ma quello non doveva essere che l’inizio. Poco dopo le dieci di sera erano arrivati due agenti della polizia criminale, e il loro sguardo era completamente diver­so da quello di Iguchi. «Sono Kinugasa, della sede centrale», si presentò un uo­mo mostrando un tesserino in una custodia di pelle nera. Andava verso i cinquant’anni e vestiva in modo giovanile – pantaloni in cotone e polo nera sbiadita –, ma la figura tar­chiata, il collo taurino e i capelli tagliati a spazzola a prima vista facevano pensare a un membro di una banda yakuza. Yayoi non sapeva che cosa fosse la “sede centrale” o di che co­sa si occupasse la prima sezione, ma la presenza di un indivi­duo così rude era sufficiente a farla tremare di paura. L’altro, magro magro e laconico, disse solo: «Mi chiamo Imai». Doveva essere l’agente della sede locale. Era più gio­vane e sembrava volersi tenersi in disparte rispetto a Kinuga­sa, perché subito si immerse nella consultazione della sua agenda. Appena entrati in casa dissero al padre di Yayoi, che se ne stava immobile e preoccupato accanto alla figlia, di accom­pagnare fuori i bambini. Quando la sera li aveva chiamati a Kofu, i genitori di Yayoi erano subito saliti in macchina per raggiungerla. Erano ancora sotto shock. Uscirono di casa portando con sé il nipote più piccolo che piagnucolava e il fratello più grande teso per l’eccitazione. Sicuramente non si sognavano neppure di pensare che la figlia potesse essere so­spettata. Per loro tutto era una disgrazia incomprensibile. «Signora, mi spiace disturbarla in un momento così deli­cato, ma avremmo alcune domande da farle», esordì Imai. Non appena entrarono in soggiorno, a Yayoi sembrò che il soffitto le crollasse sulla testa. Sospirò. Proprio adesso che avrebbe potuto vivere in pace con i bambini, senza Kenji e il suo eterno malumore! Si sentiva oppressa e soffocata dalla presenza dei due uomini. «…sì», rispose con un filo di voce, mentre Kinugasa la scrutava in silenzio dall’alto in basso. Se uno così l’avesse col­ta in fallo, sarebbe crollata immediatamente. Yayoi per rea­zione si raggomitolò su se stessa e Kinugasa incominciò l’in­terrogatorio. Il suo alito puzzava di nicotina e la sua voce aveva un tono inaspettatamente acuto, tuttavia amabile. Yayoi si irritò. «Signora Yamamoto, con il suo aiuto cattureremo presto l’assassino». «Sì». Kinugasa si passò la lingua sulle labbra e la fissò negli oc­chi. Forse sospettava di lei perché non piangeva. Yayoi si ir­ritò ancora di più. Perché non aveva più lacrime, la sorgente si era ormai

seccata. «Torniamo a quella notte. Secondo le informazioni che abbiamo raccolto lei quella sera è andata a lavorare nono­stante suo marito non fosse ancora rincasato. Quindi ha la­sciato i bambini a casa da soli. Non se ne è data pensiero? Po­teva anche scoppiare un incendio o venire un terremoto». Gli occhi piccoli e astuti di Kinugasa divennero due fes­sure sottili. Soltanto in seguito Yayoi si sarebbe accorta che succedeva ogni volta che sorrideva. «Di solito…» Stava per dire che di solito rincasava tardi, perciò si era abituata, ma che comunque ogni volta si preoc­cupava per i bambini. Si bloccò di colpo. Se avesse ammesso che Kenji era solito rientrare alle ore piccole avrebbero capi­to che i loro rapporti erano ormai compromessi! Riprese pre­cipitosamente a parlare: «Di solito tornava sempre in tempo, prima che io uscissi, ma quella notte era troppo tardi, e quando sono andata a lavorare ero molto preoccupata. Quando poi sono tornata a casa e ho visto che non c’era non ci ho visto più!» «Ah, non ci ha visto più. E perché?» Kinugasa prese un’a­gendina marrone dalla tasca dei pantaloni e scrisse qualche appunto. «Mi chiede perché…?» Improvvisamente Yayoi si infuriò. «Allora lei non ha figli, signor commissario?» «Certo! Il maggiore frequenta l’università, la minore il li­ceo. E tu Imai?» «I due più grandi vanno ancora alle elementari, e il più piccolo all’asilo», rispose Imai. «Allora dovreste sapere di cosa sto parlando. Lasciare soli i due piccoli per tutta la notte! Perciò in un primo momen­to ero semplicemente furiosa». Kinugasa prendeva nota. Imai, invece, anche lui con un’agendina aperta, sembrava voler mantenere un silenzio deferente nei confronti del collega. «Intende furiosa nei confronti di suo marito, vero?» «Naturalmente, che cosa crede! Tornare così tardi, quan­do sa che devo andare a lavorare!» Tornare così tardi… Per sfogare la sua rabbia per i conti­nui ritardi di Kenji aveva detto una parola di troppo. Inter­detta, rimase un attimo in silenzio. Poi si affrettò a corregge­re: «Ma poi non è più tornato…» Lasciò ricadere le spalle, come se per la prima volta si rendesse veramente conto che il marito non sarebbe mai più rincasato. Eppure sei stata tu a ucciderlo, bisbigliò una voce dentro di lei. Ma non vi badò. «Era successo altre volte?» «Che non tornasse?» «Sì». «Mai. Cioè, qualche volta rincasava tardi perché si fer­mava a bere in qualche bar, ma non quando dovevo andare a lavorare. In quel caso si affrettava sempre a rientrare». «Be’, gli uomini devono anche uscire qualche volta e col­tivare le loro relazioni sociali. Capita di far tardi», annuì Ki­nugasa con aria soddisfatta. «Sì, lo so, e qualche volta mi è anche dispiaciuto, perché la famiglia lo limitava e tuttavia lui si dava sempre da fare. Era un buon uomo». Bugiarda! La voce continuava a farsi sentire. Non una so­la volta quel disgraziato era rincasato presto. Ritornava sem­pre più tardi per evitare di incontrarla, anche se sapeva che lei era angosciata per i bambini e aspettava fino all’ultimo minuto prima di uscire, e alla fine ogni volta andava a lavo­rare col cuore pesante e un brutto presentimento. Mai si era occupato dei bambini, era stato davvero un uomo cattivo, terribilmente cattivo…! «Ma come mai si è arrabbiata se era la prima volta che sta­va fuori tutta la notte? Sarebbe stato più normale preoccu­parsi, non le pare?» «Ho pensato che fosse andato da qualche parte a divertir­si…» rispose Yayoi con voce fioca. «Non litigavate mai?» «Qualche volta».

«E a proposito di che cosa?» «Ah, solo cose di poco conto». «Già, quasi sempre marito e moglie litigano per cose da poco. Allora, mi racconti di nuovo che cosa accadde quel martedì. Suo marito al mattino è uscito come sempre per an­dare a lavorare…» «Sì». «Come era vestito?» «Come al solito, un completo estivo…» All’improvviso le venne in mente che quella notte, quando era tornato, Kenji non portava la giacca. No, non l’aveva addosso e non la por­tava neppure sul braccio. Che fosse ancora in casa da qual­che parte? O che, ubriaco, l’avesse persa per strada? Finora non aveva prestato attenzione a questo particolare. Fu colta dall’inquietudine e avvertì di nuovo le fitte allo stomaco, do­ve lui l’aveva colpita. Si sentì soffocare e solo a malapena riu­scì a controllarsi. «Che cosa c’è, signora Yamamoto, si sente bene?» do­mandò Kinugasa socchiudendo gli occhi. Il contrasto tra l’e­spressione apparentemente dura del suo viso e il tono genti­le della voce la turbarono. «Sì, mi scusi. Stavo pensando che era l’ultima volta che lo vedevo…» «È sempre doloroso perdere all’improvviso una persona cara», annuì Kinugasa lanciando un rapido sguardo a Imai. «Troppo spesso questo mestiere ci costringe a vedere cose strazianti. Anche se non siamo personalmente colpiti, non è facile neppure per noi. Vero, Imai?» «Sì, è sempre duro». All’apparenza sembravano comportarsi con tatto, come se provassero compassione, ma per Yayoi era chiaro che sta­vano solo aspettando che facesse un passo falso. Non doveva tradirsi, a nessun costo. Doveva arrivare fino in fondo, da so­la. Non poteva scoprire il più piccolo lato debole, tutto do­veva rimanere nascosto. Aveva provato e riprovato a mente la propria parte e ave­va creduto di essere in grado di dominare la situazione anche nel sonno. Ma ora, davanti a quegli sguardi sospettosi, si sentiva nuda e le sembrava che riuscissero a vederle persino l’e­matoma tra stomaco e ventre. Era una tale sofferenza che provava persino la tentazione di spogliarsi e di mostrarlo a tutto il mondo. Yayoi era disperata, stava quasi per arrendersi. Si torse le mani come se stesse strizzando uno straccio invisibile per far­ne sgocciolare la “volontà” che l’avrebbe potuta salvare. Per­ché in questo caso la “volontà” era l’unico mezzo col quale poteva salvaguardare il proprio istinto di libertà. «Scusate se sono così sconvolta». «Non si preoccupi. È così per tutti. La capisco perfetta­mente. Si sta comportando benissimo, signora Yamamoto. Molte al suo posto si metterebbero a piangere e urlare, e non riuscirebbero a parlare con noi», la consolò Kinugasa e atte­se che continuasse il suo racconto. «Poi indossava una camicia bianca e una cravatta blu scu­ro con dei piccoli disegni». Yayoi riuscì infine a calmarsi e ri­prese a descrivere l’abbigliamento di Kenji. «E scarpe nere». «Di che colore era il completo?» «Grigio chiaro». «Color cenere», scrisse Kinugasa sull’agenda. «E si ricor­da la marca?» «Non saprei, ma noi compriamo sempre tutto, anche le camicie, da Minami, un negozio di abbigliamento maschile che ha buoni prezzi». «Anche le scarpe?» «No. Non so di che marca siano, ma credo che le abbia­mo comprate in un grande magazzino qui vicino». «Come si chiama il negozio?» «Centro della calzatura di Tokyo, mi pare». «E la biancheria?» incalzò Imai. «Quella la compro io, al supermercato…» rispose Yayoi chinando pudicamente lo sguardo.

Allora Kinugasa richiamò all’ordine Imai: «I dettagli li potremo chiarire domani, ades­so non c’è tempo per questo». Imai tornò a tacere, ma sembrava seccato. «Di solito suo marito a che ora usciva di casa per andare in ufficio?» «Prendeva sempre l’espresso per Shinjuku delle sette e quarantacinque». «E da martedì mattina lei non l’ha più visto e non ha più ricevuto una telefonata da lui, vero?» «No», rispose Yayoi e si coprì gli occhi con le mani, so­praffatta dalla tristezza. Kinugasa, come se gli fosse venuto in mente solo in quel momento, si guardò intorno nella piccola stanza. Ovunque erano disseminati giocattoli e libri illustrati che i nonni ave­vano portato per i bambini. «Dove sono adesso i bambini?» «I miei genitori li hanno portati fuori». «Ah già, questo non va bene», si scusò Kinugasa. Sembrò che solo allora si ricordasse di averli fatti allontanare lui stes­so. Guardò l’orologio da polso: erano quasi le undici di sera. «Credo che siano andati a mangiare in un piccolo risto­rante qui vicino». «Be’, cerchiamo di chiudere in fretta». «Dove abitano i suoi genitori, signora Yamamoto, e da dove veniva suo marito?» domandò Imai sollevando la testa dall’agenda. «Mio marito è originario della prefettura di Gunma. Pre­sto dovrebbero arrivare mia suocera e mio cognato. La mia famiglia invece è originaria di Yamanashi». «Di sicuro tutti sono già al corrente della scomparsa di suo marito, vero?» «Non ancora…» balbettò Yayoi. «Non gliel’ho ancora detto». «E perché no?» domandò Kinugasa passandosi tutte e due le mani sui capelli a spazzola. «Perché? Be’… quelli dell’ufficio mi avevano detto che cose del genere capitano spesso con gli uomini, che non mi dovevo preoccupare, che sarebbe senz’altro ritornato, e allora non ho voluto sollevare subito un polverone…» Imai fissò la propria agenda con aria stupita: «Ma, signora Yamamoto, è da martedì notte che suo marito manca da casa. Vale a dire che mercoledì mattina non c’era. Eppure la sera di mercoledì lei ha subito telefonato alla polizia e voleva denun­ciarne la scomparsa. Anche se la sua domanda è stata accetta­ta solo il mattino di giovedì. Perché, se ha avuto così fretta di fare la denuncia, non si è premurata di informare la famiglia di origine? Di solito si consultano prima i familiari». «Sa, quando ci siamo sposati le famiglie erano contrarie, e in qualche modo non abbiamo mantenuto rapporti molto stretti. Quindi…» «Potrei chiedere perché le due famiglie si erano opposte?» «Perché? Be’, ai miei genitori Kenji non piaceva partico­larmente, e sua madre… come posso dire, anche lei ha cer­cato di mettersi tra di noi…» In effetti Yayoi non andava d’accordo con la madre di Kenji e da un pezzo non avevano più rapporti. Era terroriz­zata al pensiero di dovere incontrare la suocera che sarebbe arrivata tutta sconvolta quella notte. Forse era proprio a cau­sa dell’odio per quella donna che il suo amore per Kenji era completamente sparito. Quante volte aveva pensato che non c’era da meravigliarsi se Kenji era quello che era, con una madre come quella. Ma ormai… Le sue riflessioni vennero interrotte da Kinugasa: «Perché mai suo marito non andava a genio ai suoi genitori?» «Be’…» Yayoi esitò a rispondere. «È difficile da dire: for­se perché io ero figlia unica e avevano idealizzato il mio ma­trimonio». «Capisco. In fondo lei è una bella donna, signora Yama­moto». «No, non si tratta di questo». «E di che cosa si tratta allora?» le domandò Kinugasa in tono paterno. Sembrava volerle dire:

su, confidati. Con un padre puoi parlare di tutto! Yayoi non ce la faceva più. Non avrebbe mai creduto che le avrebbero fatto domande così personali. Probabilmente avrebbero continuato a scavare finché non avessero portato alla luce ogni particolare della loro vita di coppia, per poi co­struirne un’immagine a loro piacimento e giudicarla a loro arbitrio. «Prima che ci sposassimo, mio marito aveva la passione delle scommesse, sia che si trattasse di corse di cavalli o cicli­stiche. Per un certo periodo ha fatto persino dei debiti, ma per un periodo molto breve, davvero. In ogni caso i miei ge­nitori lo avevano saputo ed erano contrari al nostro matri­monio. Ma appena mi aveva conosciuto aveva smesso subito di giocare». Alla parola “scommesse” i due poliziotti si scambiarono uno sguardo di intesa. Poi Kinugasa chiese stringente: «E di recente?» Yayoi era confusa. Doveva parlare del baccarat o no? Non riusciva a ricordare se Masako le avesse ingiunto di tacere su quel particolare. Aveva paura che con la storia del baccarat sarebbe venuto fuori anche il fatto che lui la picchiava. Strin­se le labbra. «Su, si confidi tranquillamente, non c’è niente di male!» «Ecco…» «Aveva ricominciato a giocare d’azzardo, vero?» «Forse. Aveva detto qualcosa a proposito del baccarat». L’aria si poteva tagliare con il coltello e la paura le entrò nelle ossa. Yayoi si raggomitolò su se stessa. Non si era ov­viamente ancora resa conto che in quella rivelazione stava la sua salvezza. «Ah, baccarat. Ha idea di dove andava a giocare?» «A Shinjuku, mi pare», rispose Yayoi con voce quasi im­percettibile. «Ah, capisco. Grazie. Le siamo molto riconoscenti per averci confidato tutto. Vedrà, riusciremo senz’altro a scopri­re l’assassino di suo marito». «Potrei vederlo un’ultima volta?» L’interrogatorio stava per concludersi e né Imai né Kinugasa avevano ancora parla­to di questo. «Volevamo chiedere al fratello di suo marito di ricono­scere il cadavere. Credo che sia meglio che lei non lo veda», obiettò Kinugasa e tuttavia tolse una busta da una logora cartella. Quindi prese alcune fotografie in bianco e nero e, co­me se si trattasse di un gioco di carte, le tenne coperte, poi ne scelse una e la posò sul tavolo. «Se proprio vuole vederlo, si accontenti di questo». Yayoi, con le mani che le tremavano, prese la fotografia. Si vedeva solo un sacco di plastica e dei pezzi di carne, tra i quali distinse nitidamente una parte della mano di Kenji. Delle dita non erano rimasti altro che dei moncherini nera­stri. «Ah!» Per un istante odiò Masako e le altre due. Come lo avevano conciato! Si erano spinte troppo in là! Yayoi sapeva che i suoi pensieri non avevano nessuna logica, dal momen­to che era stata lei a ucciderlo e a pregare Masako di elimi­nare il cadavere, ma la vista del corpo di Kenji ridotto in quelle condizioni la fece uscire di sé. Si mise a piangere di­speratamente e lasciò cadere la testa sul tavolo. «Mi dispiace, signora Yamamoto». Kinugasa cercò di consolarla dandole dei colpetti sulle spalle. «So che è diffici­le, ma cerchi di farsi forza. Almeno per i bambini. Deve essere forte anche per loro!» A giudicare dalla loro espressione sembrava che i due po­liziotti fossero sollevati nel constatare che alla fine anche quella donnina coraggiosa era scoppiata in singhiozzi. Dopo pochi minuti Yayoi sollevò la testa e si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Era ancora completamente sconvolta. Parlò, e quello che disse esprimeva realmente i suoi senti­menti: «Voi non potete capire». Era esattamente così. In ef­fetti fino ad allora aveva continuato a ripetersi che Kenji era semplicemente sparito, e questo le aveva permesso di non perdere la calma.

«È sicura di star bene?» «Sì, scusatemi». «Domani venga da noi», l’invitò Kinugasa alzandosi. «Vorrei approfondire alcuni particolari». «…sì». Che cosa volevano ancora? Non sarebbe stato mai abbastanza? A quante domande avrebbe dovuto ancora ri­spondere? Imai, che era rimasto a sedere immerso nella lettura dei suoi appunti, le rivolse finalmente lo sguardo: «Mi scusi, ma abbiamo dimenticato di chiederle una cosa. Posso?» «Sì?» Per quanto continuasse ad asciugarsi gli occhi, le la­crime non si fermavano. «A che ora è tornata dal lavoro mercoledì mattina? Ci di­ca brevemente che cosa ha fatto quel giorno». «Il turno è finito alle cinque e mezza, mi sono cambiata e sono rincasata poco prima delle sei». «Torna sempre a casa subito dopo il lavoro?» le domandò freddamente Imai. «Sì. Di solito…» rispose Yayoi cercando di selezionare, nella sua testa ancora confusa per lo shock, quello che doveva dire da quello che doveva tacere. «Talvolta rimango a bere un tè e a chiacchierare un po’, ma quel giorno sono tornata subi­to. Ero in ansia perché non avevo visto mio marito». «Già, si capisce», annuì Imai. «A casa ho dormito per circa due ore, prima di accompa­gnare i bambini all’asilo». «In automobile? Mercoledì pioveva». «No, non abbiamo l’automobile, e poi io non ho la paten­te. Li porto sempre in bicicletta, uno davanti e uno dietro». I due poliziotti si scambiarono di nuovo un’occhiata. Il fatto che non sapesse guidare era un altro punto a suo favore. «E poi?» «Circa alle nove e mezza sono tornata indietro e vicino al deposito dell’immondizia ho incontrato una vicina con la quale ho scambiato due parole. Poi mi sono occupata del bucato, ho messo in ordine e alle undici ho cercato di addor­mentarmi di nuovo. All’una ho ricevuto una telefonata dall’ufficio di mio marito. Mi hanno detto che non si era anco­ra presentato, e la notizia mi ha sconvolto». Le risposte le salivano alle labbra senza difficoltà e Yayoi incominciò a sentirsi più tranquilla e a pentirsi di aver odia­to Masako, anche se per un solo istante. «Bene, molte grazie, per adesso è sufficiente. Ci scusi an­cora». Imai fece un inchino e chiuse con decisione l’agendi­na. Kinugasa era rimasto in attesa a braccia conserte; sembrava impaziente di andarsene. In ingresso si infilarono le scarpe. Mentre prendevano congedo Yayoi capì con certezza che, se all’inizio avevano avuto dei sospetti su di lei, ora provavano solo compassione. «Allora a domani». Chiusero la porta e si allontanarono. Yayoi guardò l’oro­logio, presto sarebbero arrivati la suocera e il cognato. Dove­va prepararsi a una scena patetica. Deglutì. Ma bastava che si mettesse a piangere. Durante l’interrogatorio aveva imparato come comportarsi. Non si sarebbe lasciata confondere tanto facilmente. Non era più disorientata né sconvolta. Si guardò intorno nella casa silenziosa e si accorse di trovarsi proprio nel punto in cui Kenji era morto, così lo evitò con un piccolo salto.

Il lato oscuro

1. I giorni della canicola sembravano essere arrivati. A braccia conserte Mitsuyoshi Satake spiava dalla tappa­rella del suo appartamento al primo piano le chiazze abba­glianti illuminate dal sole e le macchie d’ombra scurissime, quasi nere. La luce estiva del mezzogiorno tagliava in due la città. Le foglie degli alberi e dei cespugli ai lati della strada, brillanti sul lato superiore, oscure di sotto. I passanti e la lo­ro ombra. Le strisce bianche dei passaggi pedonali sembra­vano essersi sciolte. Pensò alla sensazione fastidiosa che si prova quando i tacchi affondano nell’asfalto molle surriscal­dato dal sole e deglutì. A un paio di isolati si vedeva il gruppo dei grattacieli a ovest della stazione di Shinjuku. Nelle strisce di cielo azzur­ro ritagliate dagli edifici non si vedeva una sola nuvola. Ovunque si guardasse si restava abbagliati. Satake chiuse istintivamente gli occhi ma l’immagine dell’estate, impressa a fuoco sulle sue retine, stentava a svanire. Chiuse accuratamente le tapparelle, in modo che non fil­trasse un raggio di luce, e si girò. A poco a poco gli occhi si abituarono di nuovo alla penombra dell’appartamento – due stanze da sei tatami separate da una porta scorrevole di carta ingiallita. Al centro di una delle due stanze, rinfrescata dall’aria condizionata, un televisore mandava i suoi bagliori az­zurri. Non c’erano altri mobili. Accanto all’entrata vi era an­che una piccola cucina senza pentole e piatti, dal momento che lui non cucinava mai. Questa era l’abitazione di Satake – spartana, quasi povera – che mal si accordava con l’imma­gine appariscente con cui amava presentarsi in pubblico. Quando era in casa il suo abbigliamento si adeguava al­l’atmosfera – camicia bianca e pantaloni grigi sformati alle ginocchia. Ecco il suo vero volto. Da questo si poteva capire quanto fosse diffidente nei confronti del mondo esterno, ap­pena fuori dalla porta, e quanto il personaggio di Mitsuyo­shi Satake, proprietario di un night club e di una sala da gio­co, fosse solo un ruolo che era costretto a recitare. Si rim­boccò le maniche della camicia e si lavò viso e mani sotto l’acqua corrente. Anche l’acqua era calda. Si asciugò e si accoccolò davanti al grande schermo del te­levisore. Proiettavano un vecchio film americano doppiato. Soprappensiero si passò un paio di volte le mani tra i capelli corti, poi distolse lo sguardo dal video. Non voleva vedere la televisione. Voleva solo tuffarsi in quella assurda luce artifi­ciale. Satake odiava l’estate. Non che soffrisse terribilmente il caldo, semplicemente detestava l’atmosfera estiva che si insi­nuava fino dentro ai vicoli della metropoli. Era in quella stes­sa atmosfera che si erano svolti i due fatti che avevano im­prontato la sua vita: durante le vacanze estive, al secondo an­no di liceo, aveva dato a suo padre un pugno così forte da rompergli il mento ed era fuggito di casa; e anche l’altro epi­sodio di violenza, che lo avrebbe cambiato per sempre, era accaduto in agosto, dentro una stanza, nel ronzio continuo del condizionatore. Avvolto dall’atmosfera della città soffocante per i gas di scarico e le esalazioni, non riusciva più a distinguere l’ester­no e l’interno di se stesso. L’aria corrotta della strada pene­trava nei suoi pori e lo insudiciava, e dentro di lui le emo­zioni si gonfiavano e strisciavano fuori dal suo corpo fino a traboccare nella strada. Aveva il terrore di essere contagiato da quella città vorace e dissoluta – da Tokyo nel colmo dell’estate. Perciò sarebbe stato meglio allontanare da sé quell’e­state, prima che si impadronisse di lui con tutto il calore vo­mitato sulle strade dai condizionatori. Il periodo delle piogge era finito, l’estate vera e propria era cominciata, e queste erano le ragioni del suo singolare stato d’animo. Doveva sbrigarsi a chiudere fuori dal suo appartamento la calura ardente della metropoli. Satake si alzò. Entrò nella camera accanto e aprì la fine­stra. Chiuse in fretta le imposte prima

che il calore puzzo­lente dei gas di scarico e il frastuono potessero entrare. Immediatamente il buio invase la stanza. Sollevato si lasciò ca­dere sui tatami ingialliti. Nella camera c’erano solo un armadio per gli abiti e un futon ripiegato con cura, con gli angoli perfettamente per­pendicolari, come se fossero stati tracciati con una squadra da disegno. Se qualcuno che conosceva la sua storia avesse potuto vedere, probabilmente avrebbe pensato che Satake aveva arredato la sua casa come una cella. Ma ovviamente in carcere non ci sono televisori. Quando era in prigione non era stato soltanto il ricordo della donna uccisa a tormentare Satake. Anche l’angusto spa­zio quadrato della cella aveva fatto la sua parte. Perciò finora aveva preferito evitare gli spazi ermeticamente chiusi dei palazzi di cemento, e aveva scelto una vecchia casa di legno. E questo era anche il motivo per cui il televisore rimaneva sempre acceso – come una porta sempre aperta sul mondo esterno. Tornò nella camera col televisore e sedette di nuovo da­vanti al video. Poiché in quella stanza non c’erano imposte, non si poteva evitare che dalle fessure delle tapparelle pene­trasse un po’ di luce. Satake abbassò il volume dell’apparec­chio. Ormai si poteva sentire solo il rombo lontano del traf­fico della circonvallazione di Yamate, non molto distante, e il fruscio del condizionatore. Accese una sigaretta, facendo una smorfia perché il fumo gli era entrato negli occhi, e si mise a guardare distrattamen­te lo schermo. Avevano appena incominciato a trasmettere un’inchiesta giornalistica. Il moderatore teneva in mano un grafico e lo spiegava – era un reportage sul cadavere trovato a pezzi in un parco la settimana prima. Satake, che non ave­va alcun interesse per il programma, si prese la testa fra le mani come se volesse allontanare tutto quel tumulto prove­niente dal mondo esterno. Proprio in quel momento squillò il portatile posato sul pavimento. «Sì, pronto». Esitante e a voce bassa Satake rispose al ri­chiamo di quell’altro aggeggio che lo manteneva in relazione con il mondo esterno. In giorni come questo, quando gli ri­tornava in mente il passato che credeva di avere seppellito con tanta cura, avrebbe preferito non avere a che fare con il mondo di fuori, ma d’altra parte ne aveva assolutamente bi­sogno per potersi distogliere da quei pensieri. Odiava la me­tropoli nel cuore dell’estate, ma poteva vivere solo lì. «O-nii-chan, sono io». Anna. Satake guardò il Rolex che sfoggiava al polso. L’una in punto. La routine quotidiana lo richiamava all’ordine. Indeciso se fosse proprio necessario uscire di casa con quella canicola, rispose: «Che cosa c’è? De­vi andare dal parrucchiere?» «No, pensavo, è così caldo, non potremmo andare in pi­scina…?» «…piscina? Adesso?» «Sì, dai, andiamo per favore!» Aveva un vago ricordo dell’odore di cloro, del profumo muschiato dell’olio solare e della brezza asciutta e fresca che spirava vicino alla vasca. Non era il tipo d’estate che avrebbe voluto evitare a qualsiasi costo, ma quel giorno proprio non se la sentiva. Gli serviva ancora un po’ di tempo per abituar­si all’estate. «Non è troppo tardi? Potresti andarci nel giorno di ri­poso». «Ma la domenica è sempre troppo pieno». «Questo non si può cambiare». «Dai, andiamo! Non hai voglia di nuotare? Anna ne ha una voglia terribile!» Satake si rassegnò: «Va bene. Vengo». Chiuse la comunicazione e si concesse una sigaretta. Sol­levò il mento, strizzò gli occhi e fissò le immagini mute sul­lo schermo. C’era una donna dall’espressione tesa, probabilmente la moglie della vittima. Era vestita in modo dimesso, in jeans e T-shirt sbiadita, i capelli erano raccolti in un nodo sulla nu­ca ed era truccata appena. Satake guardò bene il suo viso. Era sorprendentemente bella e aveva lineamenti molto regolari. Com’era sua abitudine la valutò. Poteva avere trentadue o trentatré anni. Con un po’ di trucco sarebbe stata molto ap­prezzata. Però, nonostante suo marito fosse stato appena assassinato, sembrava piuttosto

tranquilla! Sciocchezze, che co­sa gliene importava! Al margine inferiore dello schermo ap­parve più volte la didascalia: “Signora Yamamoto, la moglie della vittima”. Il nome di Yamamoto non gli disse nulla. Si era già dimenticato che un paio di giorni prima aveva cac­ciato dal locale e preso a pugni un uomo che si chiamava Ya­mamoto. Quello che lo deprimeva di più era l’aria soffocante di quel primo pomeriggio d’estate. Se quel giorno, tanti anni prima, avesse avuto anche il più piccolo presentimento, non sarebbe successo nulla! Se non avesse incontrato quella don­na, la sua vita sarebbe stata completamente diversa. E oggi aveva una specie di presentimento, lo sentiva chiaramente. Un quarto d’ora dopo si mise gli occhiali da sole e si di­resse a passi veloci verso il garage dove aveva preso in affitto un posto macchina. Le sagome delle auto che sfrecciavano in lontananza vibravano nell’aria come miraggi. Sotto i raggi infuocati e nell’afa della strada gli sembrò quasi di sentir ge­mere la propria pelle fresca, abituata all’oscurità della casa. Si asciugò con il dorso della mano il sudore che gli colava copioso sulla fronte e rimase pazientemente in attesa che la sua auto scendesse sull’ascensore. Spalancò la portiera, avviò il motore e accese subito il climatizzatore. Dopo un po’ che guidava il volante rivestito di pelle nera era ancora bollente. Era abituato ai capricci di Anna. Oggi voglio andare a fa­re shopping, voglio qualcosa di nuovo da mettermi addosso! Voglio un altro parrucchiere! Cercami un veterinario! Lo faceva correre per qualsiasi sciocchezza. Satake sapeva che in quel modo voleva mettere alla prova il suo attaccamento. Era proprio infantile, sorrise amaramente continuando a guidare. Non appena suonò Anna aprì la porta. Era già tutta in ghingheri ed evidentemente lo stava aspettando. Aveva un cappello giallo a tesa larga e un abito estivo dello stesso colore. Allacciandosi impaziente i sandali di vernice nera, fece il broncio e disse: «Potevi anche arrivare prima!» «Mi hai chiamato all’improvviso, non potevo fare altri­menti», rispose Satake spalancando la porta. Venne investito dall’odore tipico dell’appartamento di Anna, un miscuglio di profumo dei suoi cosmetici e di puzza di cane. «Dove vuoi andare?» «Ma in piscina, te l’ho già detto!» Anna si sporse dalla fi­nestra del corridoio a guardare il cielo blu, come per assicu­rarsi che il sole continuasse a splendere incontrastato. Era talmente allegra che pareva che volesse mettersi a correre da un momento all’altro. Non sembrava essersi accorta dell’u­more tetro di Satake. «Volevo dire dove vuoi andare: al Keio Plaza o al New Otani?» «Le piscine degli alberghi sono troppo care! Non sono mica matta!» «E allora dove?» La parsimoniosa Anna aborriva qualsiasi spreco, anche se era sempre Satake a pagare tutto di tasca propria. «Andrà bene la piscina del quartiere. Quattrocento yen in due». Le piscine pubbliche costavano poco, però erano so­vraffollate e rumorose. Ma andava bene lo stesso. Adesso che si era ormai rassegnato a sopportare quella calura spaventosa, poteva anche accontentare Anna, pensò Satake entrando in ascensore. La piscina era gremita di gruppi di studenti e giovani coppie. Intorno alla vasca erano state costruite delle terrazze per prendere il sole, sulla più alta delle quali c’erano delle piazzole ombreggiate con alberi e panchine. Si era appena se­duto su una di quelle panchine quando vide Anna che usci­va dallo spogliatoio con addosso un costume rosso brillante e lo chiamava. «O-nii-chan!» Satake ammirò quello splendido corpo che correva verso di lui. A parte il colore della pelle, forse troppo bianco in quell’ambiente, non aveva un solo difetto: natiche e petto formosi, gambe lunghe e affusolate, cosce carnose ma sode – insomma, proporzioni perfette. «Non vieni a nuotare?» domandò Anna respirando profondamente, come se non riuscisse a saziarsi dell’odore di cloro dell’acqua.

«Rimango qui a guardarti». «Perché?» Anna lo tirò per un braccio: «Dai, vieni!» «No, non ho voglia. Adesso va’ a nuotare, sbrigati. Hai poco più di un’ora di tempo e poi ce ne dobbiamo andare». «Così presto?» «Questo lo sapevi fin dall’inizio. Dopo devi andare anche dal parrucchiere!» Anna brontolò ancora un po’, ma si riprese presto e cor­se via felice. Prima di arrivare alla vasca raccolse una palla che le era rotolata tra i piedi e si mise a giocare con un gruppo di ragazzine. Era davvero affascinante. Satake sorrise. Le piace­va viziare una donna così seducente e ingenua, anche solo averla vicino lo faceva sentire meglio. Non c’era niente da di­re, lei aveva il potere di ridargli un po’ di serenità. Ma nep­pure Anna sarebbe stata in grado di sedare il tumulto che la torrida estate, facendo riaffiorare il suo passato, aveva scate­nato improvvisamente nel suo cuore. Dietro alle lenti scure Satake chiuse gli occhi. Quando dopo un attimo li riaprì non riusciva più a trovarla. Scorse infine un braccio bianco che si agitava a salutarlo al centro della vasca da cinquanta metri piena di bambini che si spruzzavano urlando. Anna, accerta­tasi che lui la vedesse, si esibì in un crawl piuttosto malde­stro: Satake seguì con lo sguardo le sue goffe bracciate fino a quando un ragazzo, che fino ad allora era rimasto vicino al trampolino, non la raggiunse a nuoto e si mise a parlare con lei. Satake chiuse di nuovo gli occhi. Anna era ritornata alla sua panchina. Le gocce d’acqua sul suo corpo brillavano come perle. Si strizzò i lunghi capelli neri e si guardò intorno. Il ragazzo di prima stava ancora guardandola. Teneva i capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo e portava un orecchino. «Guarda, c’è qualcuno che ti osserva». «Sì. Mi ha anche parlato». «Che cosa fa?» «Dice che suona in un gruppo», rispose lei come se non le interessasse particolarmente e si girò verso Satake per spiarne la reazione. Lui osservava le gocce d’acqua scivolarle sulla pelle di seta. Gli bastava gustare la gioventù e la bellez­za di Anna. «Allora va’ a nuotare ancora un po’ con lui. C’è ancora tempo». «Come?» domandò Anna guardandolo delusa. «Ti ha fatto gli occhi dolci o no?» «Ma tu, O-nii-chan, non sei seccato?» «E perché dovrei? Finché fai il tuo lavoro…» «Ah». Anna si chiuse in se stessa. Lasciò cadere a terra l’a­sciugamano e corse verso il ragazzo che, seduto sul bordo della piscina, guardava annoiato per aria. Evidentemente contento che fosse ritornata, si voltò a scrutare Satake come per assicurarsi che andasse tutto bene. In macchina, quando tornarono, Anna non disse una pa­rola. «Anna», le chiese infine Satake, «ti accompagno dal par­rucchiere, va bene?» «Sì, ma poi non serve che tu venga a prendermi». «Perché?» «Tornerò in taxi». «Va bene. Voglio farmi una doccia a casa prima di anda­re al Mika. Allora ci vediamo questa sera». Lasciò Anna dal suo parrucchiere preferito e imboccò la circonvallazione di Yamate. Il sole era ora più basso e lo col­piva direttamente negli occhi: per la seconda volta in quel giorno risvegliò in lui i ricordi con una tale forza che ebbe paura di se stesso. Di nuovo sentì il calore insopportabile di quella camera, e intanto guardava le strade di Shinjuku e le ombre che incominciavano ad allungarsi sui marciapiedi. E di nuovo fece fatica a controllare i nervi.

Quando alla sera arrivò al Mika, tutte le hostess, nello stesso momento e con lo stesso sorriso artificioso, si girarono verso di lui. Lo avevano scambiato per un cliente, ma quan­do lo riconobbero ripresero immediatamente la consueta espressione annoiata. «Cos’è successo? Tutti al mare?» domandò Satake a Chén, il direttore, guardandosi intorno e non vedendo l’ombra di un cliente. «Arriveranno fra poco, è ancora presto», rispose Chén e si tirò giù in fretta le maniche della camicia bianca. Il papillon era storto e i pantaloni neri spiegazzati. Satake, che non sopportava la sciatteria, lo afferrò per la cravatta: «Ehi, attento a come ti conci!» «Mi scusi, non accadrà più». Lì-huá, la mama-san, uscì in fretta dalla cucina, impres­sionata dal malumore del suo capo. Indossava un abito nero e una collana di perle. Satake distolse lo sguardo disgustato da quella tetraggine. Sembrava che stesse andando a un fu­nerale! «Buonasera, Satake-san. È talmente caldo, oggi, che sono tutti un po’ in disordine!» «In disordine?Altro che disordine! Ha telefonato per invi­tare un po’ di gente? Come se questa sera non ci fosse nessu­no che ha bisogno di compagnia! Incredibile!» Perlustrò con lo sguardo il club e quando vide che, come al solito, i fiori nei vasi erano appassiti, perse definitivamente la pazienza: «I fiori! Maledizione, quante volte ve lo devo ripetere!» Satake, che di solito con la calma e il distacco si guada­gnava il rispetto dei collaboratori, quella sera era irriconosci­bile. Chén, turbato dall’umore rabbioso del capo, si precipitò a prendere il grande vaso di cristallo sul tavolo vicino. Le campanule violette pendevano tristemente sullo stelo. Le hostess, in silenzio, guardavano ora il vaso ora Satake. Lì-huá, nel tentativo di placarlo, disse: «Allora, bambine, avete sen­tito: d’ora in poi diamoci da fare, forza!» «Già, forse pensate che i clienti vengano qui da soli a gi­rarsi i pollici?! Che bella presunzione! Muovete quel culo, an­date in strada e attivatevi!» «Va bene!» rispose Lì-huá con un sorriso compiacente, ma non sembrava che avesse tanta voglia di mettersi in mo­vimento così presto con quel caldo. Cercando di controllar­si, Satake si guardò di nuovo intorno e si accorse che Anna non c’era. «E Anna dov’è?» «Ah sì, Anna-chan oggi non viene». «E perché no?» «Ha appena chiamato e ha detto che non sta bene perché ha preso troppo sole in piscina». «Che cosa?! No, così non va. Vado subito a vedere come sta». «D’accordo», rispose sollevata Lì-huá e con questo anche l’atmosfera nel locale si rilassò. Satake inghiottì la rabbia e uscì dal Mika. La notte afosa di Kabuki-cho lo avvolse nelle sue spire. Il sole era ormai tramontato, ma la temperatura e l’umidità non accennavano a calare, tutto il quartiere sembrava im­merso in una sauna gigantesca. Satake sospirò profonda­mente e salì la scala esterna molto più lentamente del solito. Giù al club la disciplina perdeva colpi. Era solo l’inizio, ma doveva fare subito qualcosa. Non appena entrò al Parco, Kunimatsu lo vide e si af­frettò verso di lui. Satake lo salutò con voce soffocata e notò con sollievo alcuni impiegati seduti ai tavoli a giocare. «Buonasera, Satake-san. Oggi è arrivato presto!» lo salutò Kunimatsu guardandolo stupito. Satake seguì il suo sguardo e si accorse di avere la giacca macchiata di sudore. Se la tol­se e vide che anche la camicia di seta nera era completamen­te bagnata e aderiva al petto muscoloso. «È così caldo qui?» domandò preoccupato Kunimatsu prendendo in consegna la giacca. «No, va bene così», sospirò Satake sfilando dal pacchetto una sigaretta. Un giovane croupier che aspettava il proprio turno fece una piccola smorfia alla vista della camicia sudata

di Satake. Quello sguardo non gli piacque. «Come si chiama quello lì?» «Yanagi». «Deve stare attento a come guarda i clienti – noi siamo qui per intrattenerli, glielo dica!» «Sì». Davanti all’insolito malumore del capo Kunimatsu si allontanò. Satake rimase in piedi a fumare la sigaretta. Su­bito accorse una coniglietta a cambiare il posacenere. Satake si accese un’altra sigaretta e sporcò anche il nuovo portace­nere. I collaboratori si aggiravano a distanza di sicurezza, os­servando ansiosi tutti i suoi movimenti per prevenirne i de­sideri, più ancora di come avrebbero fatto con un cliente. Era il suo locale ma, chissà perché, si sentiva fuori posto. Era la prima volta che provava quella sensazione. «Satake-san, ha un po’ di tempo?» Kunimatsu gli si era avvicinato. «Che cosa c’è?» «Le dispiacerebbe venire un attimo in ufficio?» Lo seguì in una stanzetta sul retro arredata con un tavolo e una cassaforte: l’ufficio di Kunimatsu. «Un cliente ha lasciato qui questa, che cosa devo farne?» Kunimatsu aveva preso dall’armadio a muro una giacca gri­gia da giorno. A una gruccia sul fondo era appesa la giacca grigio argento che Satake si era appena tolto. «Di chi può essere?» domandò Satake prendendo in ma­no l’indumento. Fresco di lana, ma da quattro soldi, si rico­nosceva a prima vista. «Nessuno è venuto a richiederla?» «No, ecco… legga qui». Kunimatsu gli mostrò il nome ri­camato a macchina con filo giallo sulla tasca interna: Yama­moto. «Yamamoto?» «Non si ricorda? Ma sì, quel tipo che ha buttato fuori al­l’inizio della settimana scorsa». «Ah, lui?» Adesso gli veniva in mente: quel tizio che ave­va dato fastidio ad Anna e che lui aveva preso a pugni. «Non è venuto a riprenderla. Che cosa ne devo fare?» «La butti via». «Posso? E se dopo viene a reclamare?» «Stia tranquillo. Sicuramente non si farà più vedere, e an­che se lo facesse gli dica semplicemente che qui non abbia­mo trovato niente». «Bene, come vuole». Kunimatsu inclinò la testa un po’ perplesso, ma non disse altro. Poi parlarono ancora un po’ degli incassi e quindi uscirono dal piccolo ufficio. Nel frat­tempo erano entrate nel locale due giovani prostitute abbi­gliate vistosamente. Alla vista della loro abbronzatura artifi­ciale, Satake fu costretto a ripensare ad Anna. «Torno subito, faccio un salto a vedere come sta Anna». Kunimatsu annuì in silenzio, ma Satake non si lasciò sfuggire l’espressione di sollievo che gli era apparsa sul viso. In quei momenti aveva la sensazione che Lì-huá, le hostess del Mika e i collaboratori del Parco sapessero del suo passato e avessero paura di lui. Come se conoscessero il suo lato oscu­ro, quello che in tutti quegli anni si era strenuamente sforza­to di controllare e di mantenere segreto. Era sicuro che se qualcuno ne avesse intravisto anche solo i contorni sarebbe morto di paura. Ma solo lui e la donna sapevano quello che era successo. Nessuno avrebbe potuto capire per che cosa si struggeva veramente Satake. Lui l’aveva capito a ventisei an­ni, e per questo aveva accettato in cambio la solitudine. L’appartamento di Anna sembrava in qualche modo di­verso. Satake aveva suonato più volte ma lei non aveva aper­to. Stava prendendo in mano il telefonino per chiamarla quando finalmente sentì la sua voce al citofono:

«Chi è?» «Sono io». «…tu, O-nii-chan?» «Sì. Stai bene? Apri un momento». «Va bene». Sentì che apriva la catena. Strano, di solito Anna non chiudeva mai con la catena. «Scusa se non sono andata a lavorare», disse Anna affac­ciandosi. Indossava calzoncini corti e una T-shirt ed era pallida in volto. Satake guardò per terra e vide un paio di scarpe spor­tive alla moda davanti alla soglia. «È il tipo di oggi pomeriggio?» Anna divenne ancora più pallida, ma rimase in silenzio. «Non ho niente in contrario se ti diverti con gli uomini. Purché vieni regolarmente a lavorare. E purché la cosa non duri troppo a lungo». Anna fece un passo indietro come se l’avesse schiaffeggia­ta e lo guardò: «Non provi proprio niente, O-nii-chan?» «No». Quando vide gli occhi di Anna riempirsi di lacrime capì che c’erano guai in arrivo. Era affascinante e gli piaceva, an­che al di là degli interessi professionali, ma rimaneva solo un oggetto grazioso che in qualche modo era orgoglioso di pos­sedere. La relazione che aveva con lei era come la pelle che lo avvolgeva: assolutamente superficiale. «Cerca di non fare la furba alle mie spalle, capito?» sog­giunse, e accostò dolcemente la porta dietro di sé, pensando che sarebbe stato un vero problema se per questa storia la ra­gazza avesse voluto chiudere con lui e cambiare locale. Sulla strada del ritorno si domandò, irritato, perché mai quel giorno niente volesse andare liscio. Avvertiva il perico­lo, aveva la sensazione che qualcuno cercasse di strappargli il sigillo. Satake chiuse scrupolosamente a chiave la porta della propria anima. Senza passare per il Mika, Satake ritornò direttamente al Parco. Kunimatsu gli aprì la porta e chiese: «Come sta Anna? Rimane a casa oggi?» «Sì, ma non è niente di grave. Domani tornerà al lavoro». «Ah, bene. Inoltre sembra che qui sotto stiano incomin­ciando ad affluire i clienti. C’è abbastanza traffico». «Sì? Bene». Rassicurato, Satake contò di nuovo i clienti del Parco. Quindici persone in tutto, di cui circa la metà im­piegati, e gli altri uomini e donne che – saltava agli occhi – lavoravano nell’ambiente della prostituzione. Per la maggior parte erano frequentatori abituali. C’era abbastanza anima­zione. Satake ne fu soddisfatto, e il suo pensiero si spostò su come riuscire a tenersi buona Anna in futuro. Doveva asso­lutamente impedire che le venisse l’idea di passare alla con­correnza. Stava pensando a una strategia per salvare la situazione quando si aprì la porta ed entrarono due uomini di mezza età che indossavano camicie fantasia con le maniche corte. Gli sembrava di averli già visti, eppure non riusciva a ricordare chi fossero. Impiegati? Forse professionisti? Il loro sguardo tagliente gli suggeriva che non si trattava di clienti abituali. Stranamente per Satake, che di solito riusciva subito a valu­tare un cliente, quei due rimanevano un enigma. «Buonasera, accomodatevi!» Kunimatsu si affrettò ad ac­coglierli giovialmente e a guidarli all’interno del locale. Poi, rispondendo a una loro domanda, incominciò a spiegare le regole del gioco. Dopo che ebbe terminato le spiegazioni, uno dei due, che fino ad allora era rimasto a guardare in silenzio, prese dal ta­schino un astuccio nero, lo aprì davanti agli occhi di Kuni­matsu e annunciò con voce calma: «Questura di Tokyo, se­zione sicurezza. Il mio collega è del distretto di Shinjuku. Chi di voi è il gestore del club? Quanto a voi, signori, man­tenete la calma e rimanete ai vostri posti!»

L’atmosfera si raggelò. Nessuno osava fiatare, nessuno osava muoversi. Soltanto Kunimatsu si morse il labbro infe­riore, come se volesse dire: ecco che ci sono cascato, e diede un rapido sguardo a Satake. Dannazione, una retata! Volevano fargli chiudere il loca­le! Dunque era questo il cattivo presentimento che lo tor­mentava fin dal mattino? Adesso capiva perché gli sembrava di averli già visti: piedipiatti! Prese in mano una fiche e si mi­se a giocherellare cercando di controllare l’impulso di scop­piare a ridere.

2. Quando il poliziotto entrò nella stanza degli interrogatori e si presentò, Satake non voleva credere alle proprie orecchie. «Sono Kinugasa, prima sezione, sede centrale». «Di che cosa si tratta esattamente?» «E me lo chiedi?» rise Kinugasa. Era un individuo ripu­gnante – corporatura taurina e sguardo a cui sembrava non sfuggire niente – il tipico funzionario della polizia criminale. «Voglio solo farti un paio di domande su un altro caso che potrei mettere in relazione con il tuo». «E quale sarebbe questo altro caso?» Satake in un primo momento aveva pensato che l’accusa riguardasse soltanto l’organizzazione di gioco d’azzardo, ma dopo due settimane trascorse in cella spuntava improvvisa­mente uno della prima sezione, e per di più della sede cen­trale. Che cosa stava succedendo? Dentro di sé era spaventa­to, questo era un fatto, tuttavia non riusciva ancora a pren­dere la cosa troppo sul serio. «Mi spieghi perché dovrei avere a che fare con la prima sezione». «Si tratta del caso dell’uomo trovato a pezzi», rispose Ki­nugasa strofinando l’accendino sulla polo nera sbiadita. Quindi si accese una sigaretta, aspirò con gusto e rimase a osservare le reazioni di Satake. «Fatto a pezzi?» «Sei impallidito». Satake indossava una camicia blu che gli aveva portato Lì-huá. Quel colore non gli piaceva, ma la camicia di seta ne­ra era impregnata di sudore ed era contento che gli avessero portato qualcosa per cambiarsi. Comunque il blu non era il suo colore, lo faceva sembrare più pallido. Satake rise: «Non è vero, si sbaglia». «Non è vero cosa? E ha anche la faccia tosta di ridere! Questo sì che mi piace, ride e parla d’altro!» Indignato Ki­nugasa si girò verso il funzionario di Shinjuku che sedeva ac­canto a lui. Quello rispose con un sorriso amaro, evidente­mente irritato per avergli dovuto cedere l’iniziativa. «Sei così abituato alla galera che niente ti può far più per­dere la calma, vero?» «Per favore, una cosa alla volta. Mi dica infine di che co­sa si tratta!» Satake incominciava a innervosirsi. Non si sen­tiva più a suo agio e incominciava ad avere paura. Per tutto il tempo aveva pensato che l’operazione avesse come obietti­vo il suo casinò, che effettivamente andava abbastanza bene. Ma non si trattava di rovinargli gli affari, la retata era stata organizzata dalla omicidi, solo ora se ne rendeva conto! Per qualche assurdo equivoco gli avevano teso una trappola e adesso lo stavano mettendo al tappeto. Non sarebbe stato fa­cile rialzarsi una volta che fosse caduto in quelle sabbie mo­bili, questo lo sapeva anche troppo bene. «Bene, Satake, se bisogna proprio sbattertelo sotto il na­so… Si tratta di un tipo che girava nei tuoi locali, un certo Kenji Yamamoto. È lui la vittima. E allora, adesso ti ricordi qualcosa?» «Non conosco nessun Kenji Yamamoto», rispose Satake e si girò verso la finestra. Si vedevano i grattacieli a ovest della stazione e tra loro strisce di cielo estivo. La luce era accecan­te. Satake chiuse gli occhi. Proprio lì dietro l’angolo c’era il suo appartamento. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter­si rifugiare nella penombra della sua casa! «E questa la riconosci?» Kinugasa prese una giacca grigia da un sacchetto di supermercato che teneva in mano. Satake la guardò e si lasciò sfuggire un’esclamazione di sorpresa. Era la giacca che gli aveva mostrato Kunimatsu la sera della reta­ta. E lui gli aveva detto di buttarla via. «Sì, l’ho già vista. Era stata dimenticata da un cliente…» Satake deglutì. Certo, Yamamoto! Dunque quell’imbecille si era fatto ammazzare! Allora gli venne in mente di avere letto il nome Yamamoto sul giornale, e anche alla televisione ne avevano parlato, in relazione al ritrovamento del

cadavere fatto a pezzi. Era un guaio, un grosso guaio. Doveva stare molto attento a non lasciarsi fregare! I due funzionari conti­nuavano a osservarlo beffardi e maligni. «Su, Satake, vuoi dirci che cosa è successo al tuo cliente?» «Non lo so». Satake scrollò la testa. «Non lo sai? Davvero?» Kinugasa gli rifece il verso e sor­rise. Che individuo! Satake sentiva il sangue salirgli alla testa, faceva fatica a ragionare. E tuttavia si controllò: da quando, anni prima, era uscito dal carcere non aveva mai perso l’au­tocontrollo. «Veramente non lo so». Kinugasa aprì l’agendina che aveva preso dalla tasca po­steriore dei pantaloni e la consultò con calma: «Circa alle dieci di sera di martedì 20 luglio alcuni testi­moni ti hanno visto litigare con la vittima. All’uscita del tuo locale, il Parco dei Divertimenti, tu l’hai preso a pugni e l’hai fatto rotolare a calci giù dalla scala». «Questo… può darsi che l’abbia fatto». «Può darsi che l’abbia fatto? E poi, che cosa è successo?» «Non lo so». «Altro che non lo so! Da allora si sono perse le tracce del­la vittima. Che cosa ne hai fatto di lui? Dove sei andato e che cosa hai fatto quella notte?» Satake scavò nei ricordi. Aveva dimenticato tutto di quel­la notte. Forse era tornato a casa, o forse era rimasto nel lo­cale. «Avevo ancora da fare al Parco». «Contaballe! Tutti i dipendenti hanno dichiarato che te ne sei andato subito». «Ah, può essere. Sono tornato a casa e ho dormito». Kinugasa incrociò le braccia davanti al petto. Non era soddisfatto: «Quale delle due versioni?» «Sono tornato a casa e ho dormito». «Ma di solito rimani là fino alla chiusura. Perché proprio quella notte te ne sei andato così presto? Non è strano?» «Quella notte ero stanco, perciò sono tornato a casa pre­sto e sono andato subito a letto». Era vero, adesso se ne ricordava. Era tornato subito a ca­sa senza fermarsi da nessuna parte. E poi si era addormenta­to davanti al televisore. Ah, se fosse rimasto al Parco! Ma or­mai era troppo tardi per pentirsene. «Hai dormito da solo?» «Naturalmente!» «Perché eri così stanco?» «Avevo giocato a Pachinko tutta la mattina, poi ho dovu­to accompagnare in giro una hostess e infine mi sono incon­trato con Kunimatsu, il mio direttore, perché dovevamo par­lare. È stata una giornata faticosa e a sera ero molto stanco». «Di che cosa hai parlato con Kunimatsu? Hai architetta­to forse un piano per far fuori la vittima? Questo in ogni ca­so è quello che ha dichiarato Kunimatsu». «No, non è vero! Perché mai avrei dovuto fare una cosa così assurda? Io mi occupo solo di un night-club e di un ca­sinò». «Non sottovalutarmi!» lo minacciò Kinugasa alzando im­provvisamente la voce. «Con che faccia un delinquente come te, con i precedenti che hai, ha il coraggio di parlare così?! Mi occupo solo di un night-club e di un casinò… Come osi, credi che non sappia quello che hai fatto? Hai torturato a morte una donna, o vuoi forse negarlo? Quante volte l’hai pugnalata? Venti, trenta volte? Le hai conficcato il coltello nel ventre mentre te la scopavi! Come è stato Satake, ti è pia­ciuto, eh? L’hai conciata proprio bene! Quando ho letto il tuo incartamento ho sudato freddo. Non riesco proprio a concepire come abbiano potuto far uscire dopo solo sette an­ni una bestia come te! Non riesco a

farmene una ragione. Spiegamelo tu!» Satake sudava da tutti i pori. Il famoso coperchio sulla pentola! Il sigillo con cui aveva chiuso così accuratamente il suo passato era stato strappato come niente fosse. Il viso del­la donna agonizzante ondeggiava di nuovo davanti ai suoi occhi. Il suo lato oscuro era tornato in vita e con gelide ma­ni cercava di arrampicarsi sulla sua schiena. «Be’, Satake, cosa c’è? Stai sudando come un maiale!» «No, è solo che…» «Sputa la verità. Dopo starai meglio!» «Niente affatto! Io sono pentito di quello che ho fatto! Io non commetterò mai più un omicidio!» «Dicono tutti così. Ma il maniaco omicida prova piacere e ci ricasca sempre, di questo si può stare certi». Piacere. Colpito da quella parola Satake guardò Kinuga­sa negli occhi: era trionfante. Non è assolutamente vero, avrebbe voluto urlare. Aveva provato piacere soltanto perché gli era stato possibile condividere la morte di quella donna. In quell’istante la aveva amata con tutto se stesso e per que­sto era diventata la donna della sua vita, lo aveva legato a lei per sempre. Non era stato affatto piacere di uccidere. E so­prattutto la parola piacere non bastava a descrivere quello che era successo. Ma Satake guardò per terra e disse solo: «Questo non è vero». «Bravo, continua a tener duro ma, credimi, anch’io so es­sere altrettanto tenace! Troverò prove sufficienti contro di te. Farò in modo di farti crollare sotto il peso degli indizi. E poi non potrai più dire niente!» Kinugasa gli strinse la spalla come se stesse palpando un animale. Satake si scansò per sottrarsi alla grande mano cal­losa del poliziotto. «Davvero non è così, mi creda! Io gli ho solo detto di non farsi più vedere. Si era incapricciato della mia hostess mi­gliore e la tormentava, perciò gli ho fatto capire che doveva smetterla, questo è tutto. L’ho solo messo in guardia e nient’altro. Quello che gli è successo l’ho saputo solo da voi!» «Ah, l’hai “messo in guardia”? Può essere che tu dia un si­gnificato un po’ più ampio all’espressione?» «Che cosa vuole dire?» «Valuta tu. L’hai scrollato ben bene, no?» «Non dica assurdità!» «Assurdità? Hai ucciso una donna, fai il ruffiano, pesti a morte un cliente e lo fai a pezzi! Non hai scampo, Satake! Per te è come se la polizia non esistesse – e adesso non cercare di fare l’agnellino!» Satake rimase in silenzio. Kinugasa si accese un’altra siga­retta e insieme al fumo vomitò: «A chi hai dato l’incarico di farlo a pezzi?» «Cosa?» «Nel tuo locale lavorano anche dei cinesi. Quanto si fa pagare la mafia cinese per un lavoro di questo genere? A se­conda del prezzo del giorno, come nei negozi di sushi? Allo­ra, qual è il prezzo corrente?» «Ma vuole scherzare? In tutta la mia vita non ho mai pen­sato a una cosa del genere!» «Un settimanale ha scritto che eliminare un uomo costa circa centomila yen. Per te non dovrebbe essere un proble­ma, basterebbe attingere alla cassa per le spese correnti! Ah, per quanti cadaveri potrebbe bastare, una decina?» Satake rise. Finalmente riusciva a capire il salto logico: «Non sono così ricco». «Uno come te, che guida una Mercedes?» «Fa parte dell’immagine. Ma per le cose assurde di cui parla non butterei mai via così tanti soldi!»

«Macché, piuttosto che tornare in gabbia saresti pronto a pagare qualsiasi somma. Questa volta potrebbero anche con­dannarti a morte, lo sai benissimo», replicò serio Kinugasa. Satake capì che ormai lo avevano sistemato. Quelli pen­savano davvero che avesse ucciso Yamamoto e avesse incari­cato qualcuno di eliminare il cadavere. Come sarebbe riusci­to a cavarsela? Anche con una fortuna maledettamente sfac­ciata sarebbe stato difficile. Nella sua mente riaffiorò il ri­cordo della stretta cella quadrata della prigione e ricominciò a sudare. Allora l’agente che fino a quel momento era rimasto in si­lenzio, lasciando l’interrogatorio a Kinugasa, aprì finalmen­te la bocca: «Non ha mai pensato alla moglie di Yamamoto? Fa i turni di notte in fabbrica e ha due bambini piccoli da ti­rare su con la sua paga. Non le fa pena?» «La moglie?» A Satake vennero in mente le foto della mo­glie della vittima che aveva visto per caso alla televisione. Una moglie straordinariamente bella per un fannullone co­me Yamamoto. «Sì, i bambini sono ancora piccoli. Lei non può capire, perché non ha figli, ma il futuro sarà molto difficile per lei, adesso». «Ma questo non dipende da me». Il poliziotto si irritò per la risposta di Satake: «Non di­pende da lei. Davvero?» «No». «E pensa di avere il diritto di dire semplicemente così?!» «Ma davvero io non c’entro. Non ne so niente». Kinugasa assisteva al battibecco leccandosi il labbro infe­riore. Satake era irritato; lo fissò rabbioso, come per toglier­si di dosso il suo sguardo. Un pensiero gli occupava la testa, l’idea che il vero colpevole potesse essere la moglie. Suo ma­rito era improvvisamente sparito e poi avevano ritrovato il cadavere fatto a pezzi, tuttavia la signora Yamamoto sembra­va abbastanza tranquilla. Cercò disperatamente di ricordare la stonatura che gli era sembrato di notare guardando la televisione. Come quando si mangia un mollusco pieno di sab­bia. Sul volto di quella donna era scolpito un sentimento che solo chi aveva fatto una simile esperienza era in grado di ri­levare. Una specie di orgoglio per aver portato a termine qualcosa, per aver realizzato i propri desideri. E poi Yamamoto aveva perso la testa per Anna e tutte le sere era al Mika a spendere i suoi soldi. A giudicare dalle fo­tografie della moglie, non sembrava che vivessero negli agi. Non ci sarebbe stato niente di strano se lei l’avesse odiato, non le si poteva proprio dare torto… «Satake, che cosa ti frulla per la testa?» domandò beffar­do Kinugasa, e Satake accolse la provocazione. Ancora prima di rendersene conto disse: «Stavo pensando alla moglie: che sia proprio immacolata?» Furioso Kinugasa lo aggredì: «A questo tocca a noi pen­sarci, Satake, non c’è bisogno che tu ti rompa la testa! Per prima cosa la moglie della vittima ha un alibi, e inoltre non ha complici. Al tuo posto mi preoccuperei per me stesso: sei tu il nostro uomo!» Satake dovette prendere atto che la donna era stata com­pletamente esclusa dalla cerchia dei sospetti e che non avreb­bero fatto altre indagini in questa direzione. Kinugasa aveva già deciso che il colpevole era lui, si era concentrato solo su di lui. Aveva sbagliato completamente obiettivo, ma questo non migliorava la sua posizione, che anzi non poteva essere peggiore. Furioso Satake strinse i denti: «Mi scusi se ho det­to qualcosa di troppo. Ma io davvero non c’entro. Lo giuro!» «Sì, sì, continua pure a parlare a vanvera!» «Già, io parlo a vanvera!» sibilò Satake in direzione del pavimento. Kinugasa aveva evidentemente un buon orec­chio, perché gli sferrò una potente gomitata sulla tempia e ringhiò: «Non mi sottovalutare, capito?!» Ma Satake non sottovalutava affatto la polizia. Se avesse­ro voluto, avrebbero potuto costruire tutte le prove che oc­correvano. E lui era il colpevole che volevano. Era sopraffat­to dall’angoscia e allo stesso tempo bruciava di rabbia. Se fos­se riuscito a venirne fuori non avrebbe avuto pace finché non si fosse vendicato con le proprie mani dell’assassino. E per ora il suo obiettivo era proprio la

moglie di Yamamoto. Il risultato di tutto quel pasticcio sarebbe stato la chiusu­ra definitiva dei suoi locali, il Mika e il Parco, pensò Satake che da molto tempo non si faceva più illusioni su come an­dava il mondo. Da quando, dieci anni prima, era stato ri­messo in libertà aveva impiegato ogni momento delle sue giornate a organizzarli, e ora che andavano così bene era sta­to coinvolto in quel maledetto caso – una vera scalogna! L’e­state lo aveva messo un’altra volta in ginocchio. Satake se la prese col destino e sospirò. All’improvviso la stanza si era fatta buia; guardò fuori dal­la finestra e vide il cielo coperto di nuvole nere e le fronde di un grande olmo che ondeggiavano al vento. Aveva tutta l’a­ria di essere in arrivo un temporale. Quella notte, in cella, Satake sognò la donna che aveva ucciso. Giaceva sdraiata davanti a lui, il viso contratto dal dolo­re, e gemeva: «Chiama il medico, corri, presto…» Satake affondava le dita nella ferita che le aveva aperto nel ventre; le affondava per tutta la loro lunghezza, fino al palmo. Ma la donna sembrava non accorgersene, continuava ad aprire e chiudere la bocca in cerca di aria e a bisbigliare: «Chiama il medico…» Le dita di Satake erano grondanti di sangue. Le aveva asciugate sul volto della donna. Così, con le guance rosse del suo stesso sangue, la donna era talmente bella che sembrava una creatura di un altro mondo. «Chiama il medico, corri, presto…» «Scordatelo. Taci!» Alle parole di Satake la donna gli aveva afferrato con in­credibile forza le dita grondanti sangue e se le era portate al collo. Voleva fargli capire che doveva ucciderla più in fretta possibile. Ma Satake le aveva accarezzato i capelli con le ma­ni insanguinate: «Non ancora». Vedendo la profonda disperazione nel suo sguardo, Sa­take aveva sentito il cuore contrarsi per la pietà e per la gioia. Non ancora. Non morire ancora. Godi insieme a me… La aveva stretta a sé e il suo corpo era scivolato nel sangue di lei. Satake si svegliò. Era tutto insanguinato. No, non era sangue, solo sudore. Si guardò intorno: il suo compagno di cella, un falsario, era disteso sulla branda accanto alla sua e fingeva di dormire. Satake non si curò di lui e si rigirò nell’oscurità; infine si alzò a sedere. Era eccitato: erano passati più di dieci anni dall’ultima volta in cui si era sognato di quella donna. Che la sua anima aleggiasse ancora lì da qual­che parte? Scrutò nel buio della cella. Voleva rivederla.

3. Un giorno d’inverno di quattro anni prima Anna era salita per la prima volta su un treno delle ferrovie giapponesi. Era sera e la carrozza era strapiena. Anna non era abitua­ta a trovarsi in mezzo alla folla che la schiacciava e quella sen­sazione non le piaceva. Continuava a urtare contro le spalle e i bagagli dei vicini e alla fine si trovò nel mezzo della car­rozza. In qualche modo riuscì ad afferrarsi a una maniglia e guardò fuori dal finestrino: il sole rosso fuoco stava tramon­tando all’orizzonte. La sua luce creava un grande contrasto con le ombre scure delle stazioni e degli edifici che spariva­no velocissimi dal campo visivo di Anna, senza che potesse metterli a fuoco. Sarebbe riuscita a riconoscere la stazione in cui doveva scendere? E in quel caso ce l’avrebbe fatta a usci­re dalla carrozza? Nervosa e confusa continuava a lanciare oc­chiate verso la porta. Improvvisamente le parve di sentire l’idioma di Shanghai. Lì intorno dovevano esserci dei suoi concittadini. Sollevata guardò i visi dei passeggeri e aguzzò le orecchie: in realtà par­lavano in giapponese. I suoni della lingua giapponese e del dialetto di Shanghai erano simili. Improvvisamente venne colta da un profondo senso di abbandono: era sola in un pae­se straniero. Benché volti e suoni si somigliassero, lei era completamente sola in un mondo di sconosciuti… Guardò di nuovo fuori dal finestrino: il sole era ormai tramontato e diventava sempre più buio. Sul vetro si riflette­va l’immagine di una ragazza dallo sguardo cupo, infagotta­ta in un cappotto fuori moda. Si riconobbe in quell’immagi­ne e venne presa da una sensazione di solitudine talmente sconfinata da farle mancare il respiro, e i suoi occhi traboc­carono di lacrime. Anna aveva allora diciannove anni. Anche prima, naturalmente, l’opulento Giappone l’aveva intimidita e quella sensazione di totale smarrimento nella metropoli caotica non le era sconosciuta. Tuttavia non si era mai sentita così abbandonata da Dio come quel giorno. Certo, se fosse venuta in Giappone per studiare o dedi­carsi a qualche ricerca, sarebbe riuscita a sopportare molte difficoltà. Ma lei era qui per guadagnare denaro, quello era il suo unico scopo. E non aveva altre armi che la gioventù e la bellezza. Era venuta qui a cuor leggero, consigliata da un me­diatore che si trovava a Shanghai in cerca di ragazze e che le aveva detto che le cinesi, in Giappone, potevano fare soldi a palate. Ma la facilità con cui questo avveniva deprimeva An­na, che in realtà era una ragazza seria e intelligente. Era sem­pre stata una brava studentessa e aveva persino sperato di iscriversi all’università, e ora si era ridotta a guadagnare soldi facili grazie agli uomini giapponesi. E che cos’altro era se non depravazione? Il padre di Anna era autista di taxi, la madre vendeva frut­ta e verdura al mercato. Ogni sera si raccontavano con orgo­glio i risultati del loro lavoro. Saggezza, astuzia e presenza di spirito erano le armi con cui combattevano la concorrenza – così ci si guadagnava la vita, questa era l’essenza del com­mercio a Shanghai. Ma lei avrebbe potuto raccontare ai ge­nitori i risultati del proprio “commercio”? Era orgogliosa di essere nata a Shanghai, la più grande metropoli della Cina, e segretamente confidava nella propria bellezza, eppure non poteva rivaleggiare con le giovani ra­gazze di Tokyo, traboccanti di fiducia in se stesse, consape­voli di essere sostenute da una società opulenta. Anna non riusciva ad acquistare quella disinvoltura. Si trattava di una competizione impari. La tensione nervosa, la perdita di fidu­cia in se stessa e non per ultimo il suo isolamento l’avevano trasformata in una timida e paurosa ragazza di campagna. Anna, come le aveva consigliato il mediatore che le aveva anche fatto ottenere il visto di ingresso, si era iscritta a una scuola di lingue e di notte lavorava in un night-club di Shibuya. Si era dedicata con tutte le sue energie allo studio del giapponese e in breve tempo era stata in

grado di parlarlo, anche se non perfettamente. Se solo si concentrava riusciva anche a capire i discorsi della gente in metropolitana. Ades­so poteva finalmente comprarsi i vestiti alla moda nei gran­di magazzini, come le ragazze giapponesi. Ma la sua solitu­dine, come uno sfrontato gatto randagio, non la abbandona­va mai; per quanto cercasse con ogni mezzo di allontanarla se la trovava sempre a fianco. Ma prima di tutto voleva guadagnare denaro, possibil­mente tanto denaro, e tornare a Shanghai il più presto pos­sibile. E una volta che fosse tornata a casa, avrebbe aperto una splendida boutique e sarebbe diventata ricca… Ogni giorno Anna andava a scuola e ogni sera al club. Tuttavia, nonostante i suoi sforzi, non riusciva a risparmiare. Non avreb­be mai immaginato che la vita in Giappone fosse così cara. Anna era sempre più nervosa. Non era riuscita ad accumula­re neanche un quarto della somma che le serviva – così era impossibile tornare a casa. Ma non voleva neppure rimanere lì. La sensazione di essere in trappola e di non avere vie di uscita rendevano la sua vita fragile come una tazzina da tè in­crinata – aveva sempre paura di spezzarsi da un momento al­l’altro. Fu proprio allora che conobbe Satake. Satake non beveva alcolici ma era generoso e rientrava dunque nella categoria dei “migliori clienti”. Anna lo aveva già visto spesso prima di allora e si era accorta che tutti nel locale lo trattavano con particolare riguardo, ma aveva pen­sato che un uomo simile, al cui tavolino sedevano le hostess più contese, fosse irraggiungibile. Tuttavia quella sera l’aveva fatta chiamare al suo tavolo. «Sono Anna. Felice di conoscerla». Satake si comportava in modo diverso dagli altri clienti, non era timido né presuntuoso. Aveva chiuso gli occhi come se gli facesse piacere udire la sua voce, poi li aveva riaperti e le aveva guardato la bocca, come l’insegnante di giapponese quando voleva controllare la sua pronuncia. Anna si era qua­si alzata in piedi: le sembrava di essere una scolaretta chiamata improvvisamente alla lavagna. «Le va bene un whisky e soda?» Versando il whisky e di­luendolo con quanta più soda possibile, Anna lo aveva guar­dato di nuovo. Poteva essere vicino ai quaranta. Aveva car­nagione scura e capelli corti. Occhi piccoli e dal taglio al­lungato, labbra grosse. Non esattamente un bell’uomo, tut­tavia il viso irradiava una sorta di tenerezza che lo rendeva af­fascinante. Era però vestito in modo veramente troppo vi­stoso. Indossava un elegante completo nero e una cravatta sgargiante, evidentemente firmati, che mal si adattavano alla corporatura robusta. Rolex d’oro e accendino Cartier, anche quello d’oro. Lo sguardo cupo e profondo contrastava vio­lentemente con il suo aspetto indolente e dissoluto. I suoi occhi erano una palude. Le avevano subito fatto ve­nire in mente una fotografia di un paesaggio di montagna che aveva visto una volta: un lago nero, paludoso, tra il silenzio delle vette solitarie. Sembrava che sul fondo di quelle acque torbide, gelide come ghiaccio, tra lussureggianti erbe lacustri vivesse una creatura misteriosa. Fino ad allora nessu­no aveva saputo della sua esistenza, perché nessuno lì avreb­be mai osato nuotare né andare in barca. Di notte doveva in­ghiottire la luce delle stelle in quella sua acqua nera e sta­gnante. Forse Satake amava vestirsi così per distogliere gli sguardi della gente dalla palude della sua anima. Anna gli aveva guardato le mani. Nessun gioiello, nessuna traccia di lavoro manuale – proporzioni straordinariamente armoniose per un uomo. Belle mani. Non riusciva assolutamente a classificarlo. Non dava proprio l’impressione di eser­citare una professione onesta e lei aveva pensato che poteva anche essere uno di quegli yakuza di cui fino ad allora aveva solo sentito parlare. Era curiosa, ma aveva anche paura. «Dunque tu sei Anna-chan», aveva detto Satake infilan­dosi una sigaretta tra le labbra e continuando a osservare il suo viso. Nella palude di quegli occhi non si muoveva un ali­to di vento. Il suo sguardo non rivelava né ammirazione né delusione. Tuttavia la sua voce era piacevolmente calma e vellutata. Anna avrebbe voluto udirla di nuovo. Allora si era accorta della sigaretta e, come le era stato in­segnato, aveva preso in mano

l’accendino per porgergli il fuoco. Che distratta, doveva fargli una buona impressione! Si era innervosita e l’accendino le era scivolato tra le dita ed era quasi caduto. Satake se ne era accorto e la sua espressione si era addolcita: «Via, via, non così in fretta, in fondo non è importante!» «Mi scusi». «Quanti anni hai? Venti, più o meno?» «Sì, esattamente». Solo un mese prima Anna aveva fe­steggiato, in Giappone, il suo ventesimo compleanno. «L’hai scelto tu quel vestito?» «No». Indossava un vestito rosso fuoco, da pochi soldi, che le aveva ceduto una compagna d’appartamento. «Mi è stato regalato». «Era quello che pensavo. Non è della tua taglia». «Allora me ne compri uno lei», avrebbe voluto chiedergli Anna, ma non aveva osato. Si era limitata a sorridere imba­razzata. Non si sarebbe mai immaginata che in quel momento Satake si stava già divertendo a rivestirla come una bambolina di carta. «Non so bene come vestirmi». «A una come te sta bene qualsiasi cosa». Sebbene fosse così giovane, Anna capiva che Satake non apparteneva alla categoria dei clienti ingenui, che dicevano subito quello che gli passava per la testa. Dopo aver riflettu­to qualche istante, Satake aveva schiacciato il mozzicone del­la sigaretta e aveva chiesto: «Mi hai guardato bene. Che cosa pensi che faccia?» «È un impiegato?» «No», aveva risposto serio Satake scuotendo il capo. «Allora forse è uno yakuza». Satake aveva sorriso per la prima volta, mostrando i den­ti grandi e sani. «Sono senza dubbio un fuorilegge, ma non uno yakuza. Faccio il ruffiano». «Ruffiano? Che cosa vuol dire?» Satake aveva preso dal taschino una lussuosa penna a sfe­ra e aveva scritto con ideogrammi sottili, su un tovagliolo di carta, la parola ruffiano. Anna aveva letto aggrottando la fronte. «Sono uno che vende le donne». «E a chi le vende?» «Agli uomini che le desiderano». Così era un mediatore di prostitute. Anna, colta di sor­presa dalle parole così esplicite di Satake, era rimasta in si­lenzio. Allora lui, con lo sguardo fisso sulle dita di Anna che tenevano ancora il tovagliolo di carta, aveva chiesto: «Anna­chan, ti piacciono gli uomini?» La ragazza aveva inclinato la testa perplessa: «Sì, se sono belli». «E chi è bello, per te?» «Tony Leung, ad esempio. È un attore di Hong Kong». «Se lui ti volesse, ti piacerebbe essergli venduta?» «Sì. Ma sicuramente non mi vorrebbe. Non sono abba­stanza bella», aveva risposto lei dopo averci pensato un po’ su. «Ma va’, fra tutte le donne che ho incontrato finora sei si­curamente la più bella!» «Non è vero», aveva detto Anna ridendo. Non riusciva as­solutamente a crederci. Una come lei, che non era neppure tra le prime dieci più belle in quel piccolo locale. «È una bu­gia». «Io non dico mai bugie». «Sì, ma…» «L’unico problema è che non hai fiducia in te. Se vieni a lavorare con me, ti prometto che in breve tempo sarai la pri­ma a meravigliarti della tua grazia e della tua bellezza». «Ma diventerei una puttana!» aveva protestato Anna sporgendo le labbra.

«No, prima scherzavo. Ho un night-club.» Per lei comunque non sarebbe cambiato molto. Anna, che era già pentita da un pezzo di essere andata a lavorare in Giappone, abbassò la testa. Satake aveva continuato a guar­darla accarezzando con quelle sue lunghe, bellissime dita il bicchiere su cui il ghiaccio, sciogliendosi, aveva formato pic­cole gocce d’acqua. Nei punti in cui le sue dita sfioravano il vetro le gocce scivolavano giù, macchiando il sottobicchiere. Non aveva assaggiato neppure un sorso, e Anna si era fatta l’idea che tenesse in mano il bicchiere soltanto per accarez­zarlo. «Non ti piace questo lavoro?» «Ma sì, certo», aveva risposto Anna riluttante, sbirciando intimorita la mama-san che lì, nel club, faceva il bello e il cattivo tempo. Satake aveva seguito il suo sguardo. «Non sai che cosa fare, vero? Ma sei pur venuta per gua­dagnare soldi, o no? E allora devi farlo. Hai un formidabile talento che non sei ancora riuscita a tirare fuori». «Talento?» «Sì, la bellezza è un talento, come quello di uno scrittore o di un pittore. È un dono del cielo che non tutti hanno. Gli scrittori e i pittori si sforzano di raffinarlo. E anche tu devi darti da fare per levigare il tuo talento. È questo il tuo impe­gno, la tua professione. Insomma, sei un’artista Anna-chan, ne sono convinto. Ma sembra che tu voglia tirarti indie­tro…» Continuando ad ascoltarlo si sarebbe inebriata del tono dolce e suadente della sua voce. Improvvisamente aveva alza­to il viso: era triste. Quell’uomo usava le sue lusinghe solo per indurla a lavorare nel suo locale! L’avevano sempre mes­sa in guardia da gente di quel genere! Come se avesse intui­to le preoccupazioni di Anna, Satake aveva sorriso e con un profondo sospiro aveva detto: «Peccato, un vero spreco!» «Ma io non ho talento!» «Ce l’hai. Davvero non vorresti diventare la protagonista della tua vita?» «Certo che lo vorrei». «Quando riuscirai a esaudire anche solo un paio dei tuoi desideri, potrai riconoscere qualcosa». «Che cosa?» «Il tuo destino». «Perché?» «Perché c’è sempre qualcosa che non va esattamente come si desidera. È colpa del destino», aveva risposto serio Satake porgendole un biglietto da diecimila yen piegato con cura. Mentre pronunciava quelle parole, per un attimo Anna aveva creduto di scorgere qualcosa lampeggiare in quegli occhi cupi e aveva distolto in fretta lo sguardo, con la sensazione di aver visto qualcosa che non doveva vedere. «La ringrazio». «Ci rivedremo», aveva detto Satake guardandosi intorno come se avesse perso ogni interesse nei suoi confronti. Infine aveva fatto un cenno al direttore perché gli chiamasse un’al­tra ragazza. Anna era stata liquidata e aveva raggiunto il ta­volo di un altro cliente. Era scontenta di se stessa ed era si­cura di averlo deluso con la sua risposta. E se fosse stato vero quello che le aveva detto, cioè che sa­rebbe diventata molto più bella se fosse andata a lavorare da lui? Le sue parole l’avevano profondamente turbata e agitata. Voleva avere di più dal proprio destino! Possibile che avesse perso la sua occasione? Era pentita. Tornata all’appartamento aveva preso il biglietto da die­cimila yen che le aveva dato Satake e si era accorta che sopra c’era scritto il nome Mika e un numero di telefono. Quando era andata a lavorare nel suo night-club, Satake le aveva insegnato molte cose. Che con

i clienti doveva fin­gere di non sapere parlare bene il giapponese. Che agli uomini giapponesi piacevano le donne timide e che parlavano poco. Che però poteva comunicare con loro per iscritto, per­ché si sarebbe guadagnata la loro ammirazione se si fosse im­pratichita nell’arte della calligrafia. Gli uomini prediligono le donne intelligenti ma riservate. Che doveva assolutamente far credere loro di essere venuta in Giappone per studiare la lingua – faceva la hostess solamente per guadagnare qualche yen per le piccole spese. Anche se in fondo sapevano che era­no tutte bugie, gli uomini amavano cullarsi nell’illusione di essere superiori, e diventavano più gentili e generosi. Che doveva assolutamente far credere, alludendovi con noncu­ranza, di appartenere a una buona famiglia di Shanghai e di essere stata allevata come una signorina per bene. Così i clienti si sarebbero sentiti ancora più tranquilli. Satake non la lasciava mai e le insegnava tutto, da come truccarsi per pia­cere agli uomini a quali abiti scegliere. Qui erano in Giappone, e gli uomini giapponesi erano fondamentalmente diversi da quelli di Shanghai, che aveva­no imparato che le donne erano in grado di esprimere la pro­pria personalità nel mondo degli affari e di guadagnarsi da vivere. Anche prima Anna ne era stata consapevole, ma non avrebbe mai pensato di dover fare i conti con questa realtà. Satake le insegnò tutte le tecniche che le servivano e lei le im­parò in fretta. Non si trattava di diventare una donna di quel tipo, doveva solo essere professionale e dedicarsi completa­mente al lavoro. Questo le avrebbe garantito il successo “commerciale” e i suoi genitori non si sarebbero vergognati. Inoltre aveva davvero talento: più recitava quella parte e più diventava la donna bella ed enigmatica di cui aveva parlato Satake. Sì, lui aveva visto bene. In breve tempo era diventa­ta l’hostess più richiesta del Mika, e il successo l’aveva resa più sicura. Era riuscita finalmente a cancellare per sempre il gatto randagio che era stata. Aveva cominciato a chiamare Satake “O-nii-chan”, il mio fratello maggiore. Anche Satake aveva smesso di nascondere la predilezione che aveva per lei. Con il passare del tempo Anna aveva incominciato a credere che lui si fosse innamorato di lei. Infatti non le presentava mai clienti “speciali”, come faceva con le altre hostess. Ma un giorno Satake, come se le avesse letto dentro, le aveva telefo­nato: «Anna-chan, ho trovato l’uomo per te». «Che tipo d’uomo?» «È ricco e bello. Questo dovrebbe essere sufficiente, no?» Naturalmente si trattava di Tony Leung. Non era né bel­lo né giovane, ma nuotava letteralmente nei soldi. Per ogni incontro la pagava un milione di yen. In dieci notti avrebbe guadagnato dieci milioni, quello che poteva considerarsi un bel reddito per un anno di lavoro. E se lo avesse tenuto in caldo, in poco tempo sarebbe diventata miliardaria. Quando il suo conto in banca avesse raggiunto la cifra che si era pre­fissata, avrebbe potuto dimenticare Tony Leung. Ma il cuore di Anna era occupato da un altro uomo, l’o­scuro, impenetrabile Satake. Avrebbe voluto immergersi nel­la palude dei suoi occhi e scoprire la creatura che ne abitava il fondo. Anzi avrebbe voluto afferrarla con le proprie mani. Anna si sentiva come a caccia, eccitata e tesa. Si ricordava che cosa le aveva detto quando si erano incontrati per la prima volta: «Ci sarà sempre qualcosa che non andrà come avresti voluto. È il destino». Che cos’era quel lampo che aveva visto guizzare per un attimo nel lago paludoso dei suoi occhi? L’a­vrebbe saputo presto, di questo ne era certa. Perché lei era una donna speciale per Satake. Ma più tentava di conoscerlo e più si accorgeva di igno­rare tutto di lui. Perché Satake stava molto attento a non la­sciar trapelare il suo segreto. Nessuno conosceva il suo indirizzo e nessuno aveva mai visto la sua casa. Chén, il direttore, credeva di avere visto una volta un uomo come Satake davanti a una vecchia casa a due piani nella zona occidentale di Shinjuku. Ma quell’uomo era vestito in modo molto modesto, non con i ricercati abiti fir­mati che Satake prediligeva. Era uscito di casa per gettare l’immondizia con addosso un paio di vecchi pantaloni sfor­mati alle ginocchia e un golf logoro ai gomiti. Sembrava un impiegato male in arnese e, alla vista del disordine intorno al bidone delle spazzature, aveva fatto una smorfia di disgusto

e aveva incominciato a far pulizia. Era stato soprattutto que­sto che gli aveva messo in testa che poteva essere proprio Sa­take, il proprietario del Mika. Chén si era meravigliato ma anche spaventato, aveva raccontato ad Anna. «Il padrone che conosciamo si veste in modo appariscen­te, ma accurato ed elegante. L’ho sempre considerato uno sul quale si può contare, anche se non parla mai. Ma se quello che ho visto quel giorno è proprio lui, e quella è la sua vera personalità, il contrasto è troppo grande. Vorrebbe dire che qui, al club, il suo modo di fare è tutto una finzione. Strano, come mai avrebbe bisogno di nasconderci qualcosa? Possibi­le che non si fidi di noi? Non si può vivere senza fidarsi di nessuno. Perché significherebbe non fidarsi neppure di se stessi». Satake era un uomo misterioso, sembrava circondato da un segreto. Tutti i dipendenti trovavano inquietante la storia di Chén, ma allo stesso tempo si sentivano fortemente attratti da quell’uomo così enigmatico. Perché agiva in quel modo? Chi era realmente? Ognuno aveva la sua teoria. Ma Anna non si poteva accontentare dell’idea di Chén, che Satake in realtà diffidasse prima di tutto di se stesso. Era giovane e innamorata, ed era gelosa. Doveva esserci un’altra donna, una donna con la quale Satake non aveva bisogno di nascondersi, con la quale poteva essere se stesso… Finalmente un giorno Anna gli aveva chiesto: «O-nii­chan, vivi con una donna?» Satake l’aveva guardata stupito e per un attimo era rima­sto senza parole. Anna aveva interpretato la sua esitazione co­me prova di avere colto nel segno, e così aveva continuato: «E chi è?» «No, no», aveva risposto Satake ridendo, e per un istante i suoi occhi si erano offuscati, «non ho mai vissuto con una donna». «Allora non ti piacciono le donne, O-nii-chan?» Anna, benché tranquillizzata dal fatto che non ci fosse un’altra ra­gazza nella vita di Satake, aveva avuto paura che fosse omosessuale. «Certo che mi piacciono, e quelle che preferisco sono le ragazze belle e dolci come te, Anna-chan. Le considero un incredibile regalo, di cui sono veramente grato!» Così dicendo le aveva preso la lunga mano affusolata e se l’era appoggiata sul palmo della sinistra, continuando ad ac­carezzarla con la destra. Ad Anna era sembrato che stesse va­lutando la fattura di un oggetto prezioso e aveva capito che dicendo “mi piacciono” lui aveva solo manifestato la generi­ ca ammirazione di un uomo per la bellezza femminile. «Grato a chi?» «Al cielo, per il regalo che ha voluto fare agli uomini». «E le donne? Non c’è un regalo anche per loro?» «Mah… Uomini come Tony Leung, per esempio. Che ne dici?» Anna aveva inclinato la testa: «Non credo». Perché una donna vuole sempre riuscire a sfiorare l’anima di un uomo. Non si può accontentare dell’aspetto esteriore! E l’anima che una donna vuole sfiorare è solo una, un’anima in armonia con la propria. Sembrava invece che Satake, quando parlava di “ragazze belle e dolci”, si riferisse solo a piccoli oggetti graziosi da viziare a proprio piacimento. L’a­nima non lo interessava, evidentemente non ne aveva biso­gno. E, per quanto lo riguardava, qualsiasi donna andava be­ne, bastava che fosse carina. Per lei invece non era la stessa cosa, in tutto il mondo non c’era un uomo che potesse pren­dere il posto di Satake, aveva pensato Anna delusa. «Allora, O-nii-chan, ti basta che una donna sia bella e dolce?» «Sì. Gli uomini non desiderano altro». Anna era rimasta in silenzio. Aveva capito che qualcosa si era irrimediabilmente spezzato nell’animo di Satake. Forse una volta una donna lo aveva fatto soffrire molto. Aveva pro­vato compassione per lui e si era messa a pensare a come avrebbe potuto curare e guarire quelle ferite. Era convinta di esserne capace ed era felice di poterlo fare.

Ma il giorno in cui erano andati in piscina le illusioni di Anna erano svanite. Dapprima era stata contenta che Satake fosse andato in piscina con lei, ma la sua reazione ai tentativi di approccio del ragazzo l’aveva molto delusa. Come li aveva guardati! Il suo sguardo bonario come quello di uno zio comprensivo! Le aveva fatto male e si era arrabbiata perché lui si rifiutava di prendere sul serio i suoi sentimenti. Per questo aveva invita­to a casa il ragazzo la sera stessa, per ricambiarlo con la stes­sa moneta. Non si trattava che di una piccola vendetta, ma Satake sembrava non aver capito che lo aveva fatto perché era innamorata di lui. «Non ho niente in contrario se ti diverti con gli uomini. Purché vieni regolarmente a lavorare. E purché la cosa non duri troppo a lungo». Non avrebbe mai dimenticato il modo in cui aveva pronunciato quelle parole. Per lui non era altro che una merce da offrire in vendita al Mika, un giocattolo da uomini! Era per questo che l’aveva viziata e coccolata, perché era una bellissima bambola che doveva ballare come voleva lui. Quella notte Anna non era riuscita a dormire. Di nuovo si era sentita fragile come una tazzina da tè incrinata. E lei che aveva pensato di potere dimenticare per sempre quella sensazione! Ma il mattino seguente l’attendeva una sorpresa ancora più scioccante. Chén aveva telefonato: «Anna, hanno impacchettato il capo, per il baccarat. Forse non sai ancora niente, dal mo­mento che ieri non sei venuta». «Che cosa vuol dire “impacchettato”?» «Che è stato portato via dalla polizia. E così anche Kuni­matsu, il direttore del Parco. Oggi il Mika deve assoluta­mente rimanere chiuso. Se la polizia viene a farti delle domande tu non sai niente, capito?» Proprio adesso che aveva deciso di chiedere a Satake che cosa provasse per lei! A seconda della sua reazione avrebbe anche potuto licenziarsi. Frustrata di dovere aspettare anco­ra, Anna era andata in piscina e vi era rimasta tutto il giorno prendendosi una bella scottatura. La sera, guardandosi la pelle arrossata, aveva dovuto ri­pensare al giorno precedente, quando Satake era andato con lei. Forse non aveva del tutto ragione, forse non era vero che la considerava soltanto una cosa. Forse esitava a causa della differenza di età, anche questo era possibile. Del resto non si era sempre occupato amorevolmente di lei? Non era forse la sua prediletta, quella che preferiva? Era un’ingrata a non ri­conoscere quello che Satake aveva fatto per lei! Anna, di nuo­vo animata dai suoi migliori sentimenti, si era sentita in col­pa nei suoi confronti e all’improvviso la nostalgia si era im­padronita di lei. Il giorno successivo i dipendenti del Parco che erano sta­ti arrestati con Satake vennero rimessi in libertà. Presto avrebbero liberato anche lui, pensò Anna.Ma lui non torna­va. Il Mika era ormai chiuso da più di una settimana. Lì-huá, la mama-san, andò a trovarlo e Satake le ordinò di dire ai clienti che il locale rimaneva chiuso in vista della festa di O­bon 6. Anna continuò ad andare in piscina tutti i giorni. Adesso la sua pelle arrossata dal sole aveva assunto una luminosa to­nalità bronzo chiaro che esaltava la sua bellezza. Per strada si voltavano a guardarla. In piscina gli uomini la assediavano. Satake sarebbe stato orgoglioso di lei se avesse potuto ammi­rare questo nuovo aspetto della sua bellezza e quanto lei ne andava fiera. Peccato che non fosse lì! La sera stessa andò a trovarla Lì-huá: «Devo parlarti, An­na-chan. È una questione importante». «Che cosa è successo?» «Si tratta di Satake-san. A quanto pare passerà molto tempo prima che sia di nuovo libero». Con Anna Lì-huá par­lava in mandarino, perché veniva da Taiwan e non sapeva il cinese di Shanghai. «Ma perché?» «Be’, è proprio quello di cui ti voglio parlare. Non l’han­no arrestato solo per la faccenda del gioco d’azzardo. Anch’io l’ho saputo solo quando sono andata alla polizia a fare la mia deposizione: sembra che ci sia qualche collegamento tra lui e il cadavere trovato a pezzi nel parco».

«Il cadavere a pezzi?» Anna allontanò il cagnolino che ug­giolava eccitato ai suoi piedi. Lì-huá si accese una sigaretta e la scrutò in viso. «Sì, davvero non ne sai niente? Circa tre settimane fa hanno trovato un cadavere fatto a pezzi. E vuoi sapere chi era? Uno dei nostri clienti, quel Yamamoto, ti ricordi?» Anna era allibita: «Yamamoto? Vuole dire quel Yamamo­to che mi girava sempre intorno?» «Sì, proprio lui. Siamo tutti sbalorditi». «Ma com’è possibile? Non riesco a crederci…» Yamamoto la chiamava sempre al suo tavolo, non la la­sciava mai in pace. Quando lei gli sedeva di fronte, lui le af­ferrava la mano e una volta, ubriaco, aveva persino tentato di buttarla sul divano. Ma non era stata solo la sua insistenza a turbarla. Yamamoto si sentiva solo, questo era evidente, ed Anna se ne era accorta subito. Lei era molto disponibile fin­ché i clienti si limitavano a divertirsi e tutto rimaneva un gio­co, ma di uomini soli non ne voleva proprio sapere. Per que­sto quando non l’aveva più visto si era sentita sollevata, e or­mai l’aveva cancellato dai propri pensieri. «La polizia verrà senz’altro a cercarti molto presto. Sarà meglio che traslochi più in fretta possibile», disse Lì-huá guardandosi intorno nell’appartamento lussuosamente arre­dato, come se volesse stimarne il valore. «E perché?» «Credono che Satake abbia ucciso Yamamoto perché ti dava fastidio. E poi avrebbe incaricato la mafia cinese di fare a pezzi il cadavere». «No, O-nii-chan non farebbe mai una cosa del genere!» «Ma sembra che l’abbia preso a pugni davanti al Parco». «Questo lo so… ma non ha fatto altro». «Non sai ancora tutto». Lì-huá abbassò la voce: «Satake­san ha ucciso una donna». Anna si sentì soffocare. Aveva la gola completamente ar­sa e non riusciva più a deglutire. «E non l’ha uccisa in modo “normale”. Sono rimasta ve­ramente inorridita quando l’ho saputo, mi devi credere. Se le ragazze del Mika venissero a saperlo sono sicura che scappe­rebbero subito terrorizzate». «Come l’ha uccisa?» Ad Anna sembrava di rivedere la lu­ce sinistra che brillava sul fondo della palude di Satake. «Sembra che una volta Satake lavorasse come guardia del corpo o qualcosa di simile per un famigerato yakuza del quartiere. È una vecchia storia e quello adesso è morto. Era il capo di una banda attiva nel giro della prostituzione e del­lo spaccio di amfetamine. Satake-san aveva l’incarico di an­dare a riprendere le donne che scappavano e di riscuotere i crediti. Un giorno una donna se l’era svignata con l’aiuto di una mediatrice che di nascosto l’aveva sistemata in un altro bordello. Satake-san era riuscito a catturare la mediatrice. Sembra che l’abbia rinchiusa in una camera e lì l’abbia tor­turata a morte – la ha seviziata finché non è morta». «Torturata a morte… che cosa vuol dire?» Anna non riu­sciva più a controllare il tremito nella propria voce. Le tornò alla mente quando da bambina i suoi genitori l’avevano por­tata in gita a Nanchino – la vista terrificante dei manichini al museo della guerra, in ricordo del massacro che era avve­nuto in quella città. La palude di Satake. Era dunque questo il terribile passato nascosto nel fondo dei suoi occhi. «Ah, orribile!» Lì-huá aggrottò torva le sopracciglia sotto­lineate dal trucco. «Si è comportato in modo disumano. L’ha denudata, percossa e violentata fino a farle perdere i sensi e poi l’ha fatta rinvenire pugnalandola alla pancia con un col­tello. E quindi ha di nuovo violentato quel corpo da cui il sangue usciva a fiumi. A quanto dicono il cadavere era pieno di lividi e non aveva più denti in bocca; l’aveva conciata pro­prio bene. Persino il vecchio yakuza era talmente inorridito che lo aveva scacciato». Anna emise un lungo gemito. Lì-huá, chissà quando, se ne era andata. Solo il barboncino nano

era ancora accanto a lei e la guardava con aria interrogativa continuando ad agita­re la coda. «Ah, Gioiellino!» Anna si girò disperata verso di lui e il cane abbaiò felice in risposta al suo richiamo. Ricordò il gior­no in cui l’aveva comprato. Voleva avere accanto a sé qual­cosa che le scaldasse il cuore. Nel negozio aveva scelto la crea­tura più bella che avevano. Era la stessa cosa che aveva fatto Satake. Capì che ci sono uomini che desiderano le donne proprio per lo stesso motivo per cui lei aveva voluto il cane. E anche che per Satake lei non significava niente di più di quello che il cane significava per lei. Per Satake Anna era dol­ce e carina, così come Gioiellino era dolce e carino per lei. Non sarebbe mai riuscita a penetrare nella palude di quell’uomo. Anna scoppiò a piangere. 6 Festività in onore degli antenati che ha luogo tra il 13 e il 16 agosto. Insieme al­la festa del nuovo anno è la più importante festività giapponese (N.d.T.).

4. Quattro giorni dopo che la notizia era comparsa sulle prime pagine di tutti i giornali la polizia andò a casa di Masako. Erano già andati in fabbrica e le avevano posto alcune do­mande di routine, per cui era preparata a quella visita, dal momento che tutti i suoi colleghi sapevano che lei era la migliore amica di Yayoi. Ma nessuno avrebbe mai scoperto che il cadavere di Kenji era stato fatto a pezzi nel bagno di casa sua, di questo era sicura. Lei stessa non sapeva perché aveva aiutato Yayoi – e allora come avrebbe potuto, un estraneo, trovare una relazione? Masako era ottimista. «Mi scusi se la disturbo subito dopo il lavoro, di sicuro sarà stanca. Ma sarò molto breve». Era Imai, il più giovane dei due agenti che erano andati allo stabilimento. Evidentemente sapeva che lei faceva il tur­no di notte e le sue scuse sembravano sincere. Masako guardò l’orologio: erano le nove. «Non si preoccupi, avrò tempo per dormire più tardi». «Grazie. Lei ha un ritmo di vita piuttosto irregolare, la sua famiglia non ne soffre?» Imai, incoraggiato dalla schiettezza di Masako, venne subito al punto. Era giovane, ma in nessun caso da sottovalutare. Masako decise di stare in guardia. «È passato così tanto tempo che ormai ci siamo abituati». «Immagino. Ma suo marito e suo figlio non si preoccu­pano se sta fuori tutta la notte? Lei è la madre, e quindi il cuore della famiglia». «Mah, non saprei…» Masako dubitava di potersi consi­derare il “cuore” di quella famiglia. Sorrise amaramente e in­vitò Imai a entrare in soggiorno. «Ma certo che si preoccupano. Gli uomini sono così. Fa parte della nostra natura non stare tranquilli quando una donna sta fuori tutta la notte, non c’è dubbio», ribadì Imai con foga. Masako si sedette di fronte a lui, senza neppure fare il ge­sto di offrirgli un tè o qualcos’altro. Nonostante l’età, quel poliziotto aveva una mentalità piuttosto ristretta. Imai ap­poggiò con calma sulla sedia la giacca beige che teneva sotto il braccio. «Signora Katori, ha deciso di andare a lavorare di notte d’accordo con suo marito?» «D’accordo? Che cosa c’entra? La sua unica preoccupa­zione era che il lavoro non fosse troppo duro per me, ma…» Era una bugia bella e buona. Yoshiki non aveva neppure commentato la sua scelta, e Nobuki già allora aveva smesso di parlare. «Ah, così?» Imai scosse la testa come per dire che tutto questo era per lui inconcepibile e aprì l’agendina. «Sembra che anche in casa della vittima le cose andassero allo stesso modo, ma mi stupisce molto che un uomo come suo mari­to, un normale impiegato, possa tollerare che la moglie lavo­ri di notte». Masako alzò la testa perplessa, non riusciva proprio a ca­pirlo: «E perché mai?» «Anzitutto la vita viene capovolta. In famiglia non c’è più comunicazione, dal momento che marito e moglie riescono a malapena a incrociarsi. E inoltre chissà che cosa fa in realtà la donna quando dice che va a lavorare! È ovvio che uno pre­ferisce che la moglie abbia una normale attività diurna!» Masako incominciò a capire in quale direzione si stava orientando la fantasia del poliziotto: Imai sospettava che Yayoi avesse una relazione extraconiugale! «Mettiamo da parte il mio caso per un momento. Una volta Yayoi aveva un normalissimo lavoro part-time, ma ha dovuto rinunciarvi a causa dei bambini. Non le rimaneva al­tra scelta all’infuori del turno di notte. Almeno questo è quanto ha detto». «Sì, questo lo so già. Mi domandavo solo quale altro van­taggio potesse offrire il lavoro notturno per controbilanciare gli svantaggi».

«Credo proprio nessuno», tagliò corto Masako. L’ostina­ta ottusità di Imai la stava facendo arrabbiare, ma non vo­leva che se ne accorgesse. «L’unico vantaggio potrebbe essere la paga, che è del venticinque per cento più alta di quella diurna». «Solo questo?» «Provi a pensare: la stessa paga e tre ore in meno di que­sto stupido lavoro. Questo è senza dubbio un vantaggio, mi creda. Il tempo è prezioso, non lo si può buttare al vento». «Può darsi, ma…» Imai non sembrava ancora convinto. «Forse lei non riesce a capire perché non ha mai fatto un lavoro part-time…» «È ovvio che no, alla fin fine sono un uomo», rispose Imai tutto serio. «Se lei ci avesse provato, capirebbe subito che è molto meglio prendere la paga più alta e lavorare meno ore possi­bile, anche se la differenza è minima». «Anche quando si deve scambiare la notte con il giorno?» «Sì, anche allora». «Be’, se ne è convinta… Ma perché la signora Yamamoto doveva per forza andare a lavorare?» «Perché era necessario per sopravvivere, suppongo». «Vuole dire che lo stipendio del marito non bastava?» «Non so esattamente, ma credo di no». «Non sarà stato piuttosto perché suo marito si prendeva delle libertà e lei si era arrabbiata o addirittura non voleva più vederlo? Insomma, forse non si trattava solo di soldi». «Questo non lo so», rispose seccamente Masako, «non mi ha mai raccontato niente del genere, o almeno niente che av­valori questa interpretazione». «Quale interpretazione?» «Ripicca nei confronti del marito o qualcosa del genere, come lei ha insinuato. Yayoi si è sempre presa cura dei figli e ha sempre lavorato con grande impegno». Imai annuì: «Sì, forse ho esagerato, mi scusi. Però abbia­mo scoperto che il marito della signora Yamamoto aveva di­lapidato tutti i loro risparmi». Masako finse di stupirsi della notizia, come se la sentisse per la prima volta: «Davvero? E come?» «Secondo le nostre indagini li ha spesi nei bar e nelle sa­le da gioco. Ora le chiedo di rispondermi schiettamente, dal momento che in fabbrica lei è la persona più in confidenza con la signora Yamamoto: come erano i loro rapporti coniu­gali?» «Non saprei. Lei non me ne ha mai parlato». «Ma come è possibile? Le donne parlano sempre un sac­co e spesso e volentieri si lamentano dei mariti!» incalzò Imai guardandola diffidente. «Dipende dalle persone. Lei non è quel tipo di donna». «Certo. È una magnifica persona. Però dai vicini abbia­mo saputo che litigavano spesso e che si facevano sentire fi­no in strada». «Ah sì?… Questa mi giunge nuova». Era possibile che sa­pessero anche che quella sera lei era andata da Yayoi? Ma­sako, preoccupata, lo guardò negli occhi. Imai rispose tranquillo allo sguardo, come se la stesse valutando. «Sembra che negli ultimi tempi Yamamoto si fosse dato parecchio da fare – gioco d’azzardo, alcol, donne – e che i suoi rapporti con la moglie non fossero dei migliori. Abbia­mo raccolto queste voci nel suo ambiente di lavoro. Lui stes­so ne aveva parlato con i colleghi. Aveva detto che ultima­mente litigava sempre con la moglie e quindi non tornava mai a casa prima che lei non fosse uscita per andare in fab­brica, e così via. La signora Yamamoto, invece, insiste nel di­re che il marito era sempre stato puntuale, tranne che quella notte. È strano, no? Che bisogno ha di mentire su questo punto? Davvero non si è confidata con lei?» «No, non ne so assolutamente nulla». Masako scosse la testa e partì all’attacco: «Allora sospetta

di Yayoi, ispettore?» Immediatamente Imai fece un cenno di diniego e replicò: «Ma no, che cosa va a pensare! Ho solo cercato di mettermi nei panni della signora Yamamoto: al suo posto sarei stato furioso, se avessi dovuto arrabattarmi di notte in fabbrica mentre lui polverizzava tutti i risparmi giocando a baccarat, divertendosi nei bar con altre donne e tornando a casa ogni sera ubriaco. Non mi sarebbe piaciuto dovere raggranellare disperatamente ogni singolo yen per dargli la possibilità di gettare il denaro a piene mani fuori dalla finestra! Tutta la mia fatica non sarebbe servita a niente, mi sarei sentito im­potente. Una situazione insopportabile, non trova? Un uo­mo normale avrebbe preferito avere la moglie a casa, la not­te, e non l’avrebbe mandata a fare i turni, ma per Yamamo­to tutto questo cadeva a pallino. Perciò sospetto che non an­dassero d’accordo». «Crede? Non me ne sono mai accorta…» Masako conti­nuò a fingere di non sapere niente, ma dentro di sé ammise cinicamente che Imai aveva colto nel segno. «Dunque la signora Yamamoto è una persona così pa­ziente?» «Sì, credo di sì». Imai alzò gli occhi dall’agendina e la guardò: «Signora Katori, in situazioni come queste una donna di solito non si cerca un amante?» «Dipende dalla persona, e Yama-chan, voglio dire la si­gnora Yamamoto non è di quel tipo». «Allora non frequentava nessun uomo neanche nello sta­bilimento?» «No, assolutamente», rispose decisa Masako. Finalmente Imai era riuscito ad arrivare al punto. «E fuori dall’ambiente di lavoro?» «Non so». Imai esitò qualche istante prima di dire: «Quella notte cinque dipendenti non si sono presentati: mi dica se fra di loro vi era una persona particolarmente intima della signora Yamamoto». Le mostrò i suoi appunti. All’ultimo posto della lista c’era il nome di Kazuo Miya­mori. Il cuore le batté forte, ma scosse la testa e disse: «Non esiste. Lei è una donna seria». «Ah…» «Lei pensa dunque che Yayoi avesse un amante e che co­stui si sia sbarazzato del marito. È questo che pensa, signor ispettore?» «Che cosa dice! Lei ha troppa fantasia», sorrise Imai. E invece era chiaro dove si stava orientando la fantasia del poliziotto: Yayoi doveva aver avuto un complice, e precisa­mente un uomo. E quest’uomo l’aveva aiutata a uccidere Kenji e a liberarsi del cadavere. «La signora Yayoi è una buona moglie e una splendida madre. Non posso davvero definirla in altro modo, mi cre­da», dichiarò Masako pensando che era vero. Proprio perché era una moglie e una madre esemplare aveva potuto aggredi­re Kenji come una furia e ucciderlo, dopo aver scoperto di essere stata ingannata. Se avesse avuto un amante non si sa­rebbe comportata in quel modo. Invece le supposizioni di Imai avevano preso la direzione opposta. «Be’, se lo dice lei…» Imai non sembrava ancora convin­to e osservava l’agendina con aria insoddisfatta. Masako si alzò, prese dal frigorifero una caraffa con dell’infuso d’orzo e gliene versò un bicchiere. L’agente la ringraziò e lo bevve tut­to d’un fiato. Il pomo di Adamo si mosse su e giù. Masako fu costretta a pensare al pomo di Adamo di Nobuki e a quel­lo del morto: lo fissò per qualche istante, poi distolse lenta­mente lo sguardo. «Devo farle qualche altra domanda di routine: dove si trovava la sera del martedì della scorsa settimana scorsa e che cosa ha fatto mercoledì, dal mattino presto a mezzogiorno circa?» Dopo aver posato il bicchiere sul tavolo, Imai tossic­chiò e guardò Masako. «Come sempre sono andata in fabbrica. C’era anche Yayoi. Come al solito ho fatto il turno di notte e sono ritor­nata a casa alla solita ora».

«Ma lei è arrivata allo stabilimento più tardi del solito, ve­ro?» obiettò Imai cercando nell’agenda. Quindi sapeva anche che quella sera lei era arrivata in fabbrica appena in tempo prima dell’inizio del turno. Non aveva immaginato che avrebbero indagato anche su quei dettagli. Colta di sorpresa si innervosì, ma si sforzò di mantenere la calma e, senza cambiare espressione, rispose: «Può darsi. C’era molto traffico e avrò fatto un po’ tardi». «Ah, già. Certo, da qui ci vuole un’auto per raggiungere Musashi-Murayama. È sua la Corolla posteggiata fuori dalla porta?» «Sì». «La usa qualcun altro in famiglia?» «No, solo io». Aveva pulito il bagagliaio, ma se la scienti­fica l’avesse esaminato avrebbe potuto trovare qualcosa. Ma­sako accese una sigaretta per nascondere la propria inquietu­dine. Per fortuna le mani non le tremavano. «Che cosa ha fatto il giorno seguente, dopo la fine del turno?» «Dunque, sono tornata poco prima delle sei, poi ho pre­parato la colazione che ho mangiato insieme ai miei. Dopo che mio marito e mio figlio sono usciti ho cominciato a fare il bucato e a riordinare. Poco dopo le nove sono andata a dormire – tutto come sempre». «Nel frattempo ha parlato con la signora Yamamoto?» «No, non dopo che ci siamo viste in fabbrica». Improvvisamente risuonò nel soggiorno una voce che mai si sarebbe aspettata di udire: «Ma alla sera non ha chiamato la signora Yamamoto?» Si voltò stupita e vide Nobuki fermo sulla soglia. Le sembrava di avere preso un colpo in testa. Quella mattina non era ancora sceso; lei l’aveva lasciato in pace e nel frattempo si era dimenticata che era ancora in casa. «Chi è?» domandò calmo Imai. «…mio figlio». Imai salutò il ragazzo con un lieve cenno del capo. Poi li guardò entrambi con interesse e chiese: «Circa a che ora ha telefonato la signora Yamamoto?» Masako non rispose: continuava a fissare il figlio attoni­ta. Erano queste dunque le prime parole che doveva sentire dalla bocca di suo figlio dopo quasi un anno! Proprio della telefonata doveva parlare! Non poteva averlo fatto che per vendetta. Ma perché? Che cosa gli aveva fatto? «La telefonata, signora Katori», ripeté Imai, «a che ora circa? Signora Katori?» Masako ritornò in sé: «Mi scusi, era molto tempo che non mi rivolgeva più una parola». Come si accorse che parlavano di lui, Nobuki alzò le spal­le contrariato e fece per uscire dalla stanza. «Aspetta, che cosa volevi dire?» «Proprio niente!» brontolò Nobuki e corse fuori sbatten­do la porta. «Deve scusarlo per il suo comportamento, ispettore. Da quando è stato espulso dalla scuola non ha più detto una pa­rola in casa», spiegò Masako in tono materno. «Capisco. A quest’età i ragazzi sono difficili. Lo so bene perché ho prestato servizio in un riformatorio». «Era la prima volta che mi parlava, mi ha stupito». «Probabilmente questo caso lo ha scioccato», annuì Imai comprensivo, tuttavia si leccava impaziente le labbra ed era chiaro che non vedeva l’ora di tornare all’argomento princi­pale e sentire il resto della storia. Masako lo assecondò: «Adesso mi ricordo della telefona­ta: credo che sia stato martedì sera». «Ossia la sera del 20. A che ora circa?» incalzò Imai. «Sicuramente dopo le undici…» rispose Masako fingen­do di riflettere. «Mi ha chiesto che cosa doveva fare, perché il marito non era ancora rincasato. Credo di averle detto di stare tranquilla e di

andare a lavorare». «Ma questo doveva succedere spesso! Perché proprio quella notte le ha telefonato?» «Io non so se accadeva spesso. So solo che di solito suo marito tornava prima delle undici e mezza di sera. Ma quel­la sera era preoccupata perché i bambini facevano i capricci». «E come mai?» «Erano irrequieti e avevano la luna perché il gatto era scappato», improvvisò Masako. Più tardi avrebbe dovuto mettersi d’accordo con Yayoi su questa versione. Era indispensabile che se ne ricordasse. Ma non doveva essere un problema perché la faccenda del gatto era vera. «Ah». Imai era ancora diffidente. In quell’attimo la lavatrice segnalò che il bucato aveva terminato il ciclo. «Che cos’è?» «Solo la lavatrice». «Ah, posso dare un’occhiata al bagno?» chiese tranquilla­mente Imai e si alzò. Masako si sentì gelare il sangue nelle ve­ne, ma annuì e accennò un sorriso: «Non ho niente in con­trario, ma…» «Il mio interesse è di natura strettamente privata. Sa, ho intenzione di ristrutturare la casa e quindi approfitto sempre di tutte le occasioni per vedere come sono sistemati i bagni». «Be’, se è così…» Masako lo guidò al bagno. Imai la seguì osservando at­tentamente ogni particolare della casa. «È una bella casa. È ancora abbastanza nuova, vero?» «Sì, è stata costruita tre anni fa». «Ah, che bel bagno spazioso! La invidio!» esclamò Imai guardandosi intorno. Sapeva che cosa stava pensando: qui sa­rebbe senz’altro possibile fare a pezzi un cadavere. Masako doveva stare in guardia. Quando, dopo aver esaminato ben bene il bagno, si sta­va già infilando le scarpe sformate nell’ingresso, Imai si voltò verso di lei e le chiese: «Suo figlio è sempre in casa?» Nobuki usciva quasi sempre a un’ora fissa per andare a la­vorare, ma Masako decise di dire una piccola bugia: «Va e viene quando vuole». «Davvero?» Imai sembrò deluso e si mordicchiò il labbro, ma si riprese subito e si accomiatò giovialmente: «Mi scusi ancora per il disturbo». Dopo che se ne fu andato, Masako salì in camera di No­buki, da dove si poteva vedere la strada di fronte alla casa. Spiò da dietro le tendine di pizzo. Come si era aspettata Imai era ancora lì, fermo sul terrapieno del cantiere, e osservava la casa. No, non la casa, bensì la sua vecchia Corolla. Aspettò fino a quando se ne fu andato e poi telefonò su­bito a Yayoi. Non la aveva più chiamata dal giorno in cui la notizia era apparsa sui giornali. «Pronto», rispose una voce sommessa. Era Yayoi. Masako sospirò di sollievo. «Sono io, posso parlarti?» «Ah, Masako!» esclamò contenta Yayoi. «Parla liberamen­te. Sono sola in casa». «E i parenti di tuo marito, e tua madre?» «Mia suocera è andata alla polizia per fare la sua deposi­zione. Mio cognato è già tornato al paese e mia madre è usci­ta a fare la spesa». Sembrava sollevata e senza preoccupazioni, come se fosse ritornata nel seno protettivo della famiglia. «Allora non sei sotto sorveglianza?» «Macché, la polizia non si fa più vedere – strano, no?» ri­spose serenamente Yayoi. Sembrava quasi che quella storia non la riguardasse più. «Hanno trovato la sua giacca in una sala da gioco di Kabuki-cho, e adesso, a quanto pare, le in­dagini si sono spostate lì». La si poteva considerare una fortuna nella sventura. Ma­sako si tranquillizzò, pur continuando a nutrire qualche in­quietudine nei confronti di Imai. «Sta’ attenta all’ispettore Imai».

«Ah sì, quello giovane e alto, vero! So chi vuoi dire. Ma mi è sembrato carino!» «Carino!» esclamò Masako sconcertata. «Nella polizia cri­minale non ci sono persone “carine”!» «Davvero? Ma sembrano tutti provare compassione per me». Un po’ alla volta la spensieratezza sventata di Yayoi la sta­va facendo infuriare. «Ascolta: sanno che quella sera mi hai telefonato. Ho spiegato loro che i bambini erano irrequieti perché era sparito il gatto». «Che bella idea!» ridacchiò Yayoi. Sembrava essersi completamente dimenticata di essere stata lei a uccidere Kenji. Solo a sentirla a Masako venne la pelle d’oca. «Sta’ molto attenta a non contraddire la mia versione, hai capito?» «Ho capito. Ma sembra che vada tutto benissimo, io non mi preoccupo». «Cerca di non fare la spavalda!» «Sì, va bene. Sai, dopodomani arriveranno quelli della te­levisione». «Poco dopo il funerale?» «Sì. Ho cercato di rifiutare, ma erano così insistenti, sai, e alla fine ho detto di sì». «Sei impazzita? Lascia perdere! Ti potrà vedere chiun­que!» la rimproverò Masako. «Io non avrei voluto. Ma ha risposto mia madre e loro l’hanno convinta. Hanno assicurato che basteranno tre mi­nuti». Masako non aveva più parole e tacque depressa. Avrebbe dovuto costringerla ad aiutarle a fare a pezzi il morto. Ormai sembrava che avesse rimosso anche il fatto che era lei l’assassina! Ma al momento, anche con la migliore volontà, Ma­sako non riusciva a capire se l’atteggiamento di Yayoi, l’indi­ziata principale, nei confronti del mondo esterno fosse un bene o un male. Era ancora sconvolta dal tradimento di Nobuki. Non avrebbe mai immaginato che dopo un anno di silenzio avrebbe aperto bocca per fare una spiata! Evidentemente non poteva perdonarla di avere un po’ alla volta rinunciato a ri­durre la distanza tra loro e di essersi limitata al ruolo di spet­tatrice passiva. Si era sempre impegnata con tutte le sue forze sia nel la­voro che in famiglia. Ma se era vero che suo figlio non pote­va perdonarla, in che cosa aveva sbagliato secondo lui? Non aveva mai chiesto di avere qualcosa in cambio, non aveva mai sperato nella sua gratitudine, ma il suo tradimento l’a­veva colpita a morte. Masako era così sconvolta che dovette sorreggersi allo schienale del divano. Le dita affondarono nella morbida stoffa di lana. In lei ruggiva un dolore irrefre­nabile che cercava uno sfogo: avrebbe voluto strappare a pez­zi quel tessuto. Soffocò i singhiozzi e chiuse gli occhi. La lavatrice aveva continuato a girare senza che vi avesse introdotto la biancheria, aveva lavorato a vuoto, come lei quando era impiegata alla cassa di credito. Evidentemente anche a casa non era stato diverso. Che significato aveva dunque la sua vita? Per che cosa si era impegnata, per che co­sa aveva faticato, per che cosa era vissuta? Si sentì logorata, priva di una meta, e dai suoi occhi traboccarono le lacrime. Non riusciva più ad andare avanti. Forse proprio per questo aveva scelto di lavorare di notte. Dormire di giorno e lavorare di notte. Faticare fino a esauri­re tutte le forze, per non pensare a nulla. Vivere all’opposto della sua famiglia. Ma tutto ciò non aveva fatto che aumen­tare la sua rabbia e la sua tristezza. Nessuno, né Yoshiki né Nobuki, avrebbe più potuto salvarla. Forse proprio per questo aveva oltrepassato il confine, perché era talmente disperata che voleva solo un mondo di­verso. Improvvisamente capì quello che fino ad allora non le era stato chiaro: perché aveva aiutato Yayoi. Ma cosa la aspet­tava in quel mondo, oltre gli usuali confini? Nulla. Masako contemplò le sue dita, diventate ormai bianche, ancora ag­grappate alla stoffa del divano. Venisse pure la polizia ad ar­restarla, riuscissero pure a capire il movente che l’aveva in­dotta ad aiutare Yayoi, ormai nulla poteva più toccarla. Sen­tiva diverse porte che si chiudevano sbattendo alle sue spal­le.

Masako era rimasta sola con la sua solitudine.

5. Asciugandosi di quando in quando il sudore dalla fronte, Imai stava percorrendo una stradina che aveva tutta l’aria di essere stata un sentiero tra i campi. Si trovava in un quartiere di vecchie casette che parevano essere state dimenticate dalla moderna urbanizzazione. Sui tetti scuri la lamiera ossidata era staccata qua e là, le zanzariere erano sbrindellate e le grondaie arrugginite; dovevano esse­re passati più di trent’anni dalla loro costruzione. Tutte, senza eccezione, erano baracche di legno ormai cadenti, e sarebbe bastato un fiammifero a trasformarle in un rogo furioso. Kinugasa, il suo collega, si era trasferito temporaneamen­te dalla sede principale al distretto di Shinjuku e teneva sot­to tiro quello che credeva essere l’assassino, il proprietario della sala da gioco e del night-club di Kabuki-cho dove, se­condo gli accertamenti, si era recato Kenji Yamamoto il gior­no della sua scomparsa. Ma Imai aveva deciso di separarsi da Kinugasa e di proseguire le indagini per conto proprio. Non appena aveva saputo dei precedenti penali del pro­prietario della sala da gioco, Kinugasa si era subito convinto, ma così non era stato per Imai. Qualcosa nel comportamen­to di Yayoi lo disturbava, lei non lo persuadeva. Era una sor­ta di intuizione che difficilmente avrebbe potuto spiegare a parole. Aveva la sensazione che stesse tentando disperata­mente di nascondere qualcosa che stava al centro di tutta la faccenda. Quel pensiero non gli dava pace. Si fermò in mezzo alla stradina, prese l’agenda e si mise a rileggere gli appunti dall’inizio. Alcuni studenti con i capelli bagnati – evidentemente tornavano dalla piscina – gli passa­rono davanti guardandolo con curiosità. Immaginiamo che Yayoi abbia ucciso il marito. Conti­nuavano a litigare, dunque ci sarebbe stato un ottimo mo­vente. Potrebbe capitare a tutti di uccidere in preda a un rap­tus. Ma Yayoi era una donna minuta, persino più piccola del normale. Le sarebbe stato difficile uccidere il marito senza procurarsi delle ferite, a meno che non stesse dormendo o non fosse ubriaco fradicio. Se Kenji era rimasto a Shinjuku fino alle dieci e poi, uscito dal locale, era tornato diretta­mente a casa, doveva essere arrivato non prima delle undici. E in un’ora gli effetti dell’alcol dovevano essersi almeno in parte attenuati. Inoltre, se ci fosse stata una lite così feroce da avere un esito mortale, i vicini avrebbero sicuramente senti­to qualcosa e i bambini si sarebbero svegliati. Nessuno aveva visto Kenji Yamamoto né in treno, né alla stazione di Seibu-Shinjuku. Perché improvvisamente a Shinjuku si perdeva ogni sua traccia? Ammesso che Yayoi fosse riuscita a uccide­re il marito e poi fosse andata al lavoro come se niente fosse, chi allora si era occupato del cadavere? Il bagno degli Yama­moto era troppo piccolo, e d’altronde i sopralluoghi della scientifica avevano avuto esito negativo. Era possibile che una collega avesse avuto compassione di lei e l’avesse aiutata a eliminare il cadavere. Anche una don­na, in fondo, ne sarebbe stata capace. Contro ogni aspettati­va, non era poi così raro, nei casi in cui l’omicida faceva a pezzi il cadavere, che proprio le donne fossero le colpevoli. Imai aveva studiato gli atti e le analisi di casi precedenti; quelli in cui gli assassini erano donne avevano due fattori in comune: l’improvvisazione e la solidarietà. Per una donna che uccide in preda a un raptus la cosa più difficile è eliminare il cadavere, perché in genere non è fisi­camente in grado di trasportare da sola un corpo senza vita. Perciò spesso la sola alternativa che le rimane è farlo a pezzi. Mentre gli uomini fanno a pezzi le loro vittime per renderne più difficile il riconoscimento o per un gusto del macabro, le donne agiscono così semplicemente perché non riescono a trasportarlo. E questo dimostra che si tratta generalmente di un delitto provocato da un raptus. Per esempio nel caso dell’estetista di Fukuoka, era stata una donna a ucciderla e a far­la a pezzi. Dopo il delitto si era accorta che non avrebbe po­tuto trasportare il corpo e allora lo aveva smembrato ed eli­minato un pezzo alla volta.

Inoltre le donne, quando la situazione in cui vivono è si­mile a quella dell’assassina, facilmente scivolano dalla com­passione alla complicità. Ad esempio una donna aveva ucci­so il marito che si ubriacava e la picchiava ed era corsa a pian­gere dalla madre. Questa aveva avuto compassione – era la fi­ne che si meritava! – e l’aveva aiutata a fare a pezzi il cadave­re. In un altro caso due amiche avevano ucciso insieme un poco di buono, una specie di ruffiano che tormentava una di loro, l’avevano dissezionato e ne avevano gettato i resti nel fiume. Dopo la cattura avevano confessato tranquillamente che credevano di avere fatto una buona azione. Ogni giorno le donne cucinano, sono dunque più abi­tuate degli uomini ad avere a che fare con il sangue e la car­ne. Hanno confidenza con i coltelli e sanno come eliminare i rifiuti. Inoltre sono capaci di avere nervi di acciaio, perché quando partoriscono hanno un’esperienza che le avvicina al confine tra la vita e la morte. Sua moglie era un ottimo esem­pio, pensava Imai, ed era assolutamente serio. Supponiamo ancora che sia stata Masako Katori a occu­parsi del cadavere. Imai ripensò all’espressione calma e intelligente di Ma­sako e al grande bagno di casa sua. Aveva la patente e un’au­tomobile, ed era molto strano che Yayoi le avesse telefonato proprio quella notte. Immaginiamo che Yayoi abbia ucciso il marito e abbia te­lefonato a Masako per chiederle aiuto. Masako, prima di re­carsi al lavoro, poteva essere andata a casa di Yayoi e aver na­scosto il cadavere nella sua auto. Poi, però, erano andate en­trambe a lavorare come se non fosse successo niente. E se non fosse stata solo Masako ad aiutare Yayoi? Anche le altre due – Yoshie Azuma e Kuniko Jonouchi – con le quali in ap­parenza avevano buoni rapporti, si erano presentate al lavoro come al solito. No, sarebbe stato troppo – troppo temera­rio, e inoltre un progetto troppo elaborato… Imai ripensò ai casi di omicidio con smembramento di cadavere in cui era­no state coinvolte delle donne e alla loro caratteristica, l’“im­provvisazione”. Scosse cogitabondo la testa. Yayoi aveva dichiarato che il mattino seguente era torna­ta a casa e vi era rimasta tutto il giorno. E questo corrispon­deva a quanto avevano testimoniato i vicini. Perciò era difficile presumere che lei avesse partecipato allo smembramento del cadavere. Ma era possibile che Masako avesse trasportato a casa sua il cadavere di Kenji Yamamoto e lo avesse ridotto a pezzi da sola o con l’aiuto delle altre due? Mentre l’assassi­na, Yayoi, se ne stava comodamente seduta a casa? Quale motivo avevano Masako e le altre per fare una cosa del gene­re per lei? Era possibile che avessero sviluppato un odio così feroce nei confronti del marito della compagna? No, si era spinto troppo oltre, era semplicemente impensabile che una donna razionale come Masako prendesse anche solo in con­siderazione l’eventualità di affrontare un simile rischio. E poi la “solidarietà femminile” nel caso di Yayoi e Ma­sako era piuttosto improbabile. Le loro vite erano troppo di­verse. Anzitutto le separavano l’età e la condizione sociale. Yayoi era giovane, i bambini erano ancora piccoli e si dibat­teva in una situazione economica difficile. Al contrario la si­tuazione economica di Masako sembrava, se non decisamen­te agiata, almeno stabile, al punto che era lecito domandarsi come mai avesse scelto di fare i turni di notte. Il marito era impiegato in un’impresa piuttosto importante, e vivevano in una casa nuova, di loro proprietà. Imai, che viveva ancora con tutti i figli in un piccolo appartamento assegnatogli dal governo, la invidiava un po’. Poteva darsi che il figlio le pro­curasse qualche problema, ma aveva già diciassette anni e, per quanto riguardava la scuola, il peggio sembrava ormai passato. Anche senza il turno di notte Masako avrebbe potu­to vivere senza preoccupazioni. Inoltre le dichiarazioni che aveva raccolto concordavano su un punto: le due donne si frequentavano soltanto sul posto di lavoro. Di che cosa si trattava, allora? Di soldi? Imai si ricordò dell’espressione di Masako quando aveva parlato delle mise­re retribuzioni del lavoro part-time. Era proprio furiosa, o al­meno a lui aveva fatto questa impressione. Forse Yayoi la ave­va allettata con una promessa di denaro. Non era un’ipotesi da escludere del tutto. Magari le aveva detto: «Pensa tu a si­stemare il cadavere, perché io

devo costruirmi un alibi, e non ti preoccupare, ti pagherò il disturbo». E allo stesso modo potrebbero essere state coinvolte anche Yoshie Azuma e Ku­niko Jonouchi. Ma Yayoi non sembrava disporre di grandi somme di danaro. O forse aveva intenzione di pagarle con il premio dell’as­sicurazione? Aveva saputo che Yayoi era in attesa di una som­ma piuttosto cospicua. Forse si era davvero riproposta di pa­gare Masako e le altre con il premio dell’assicurazione. Ma al­lora non avrebbe avuto senso dissezionare il cadavere e ren­derlo irriconoscibile, perché l’identificazione doveva avvenire il più velocemente possibile. Imai continuava a cozzare con­tro qualche problema. E anche per quanto riguardava il mo­vente la sua teoria continuava a infilarsi in un vicolo cieco. Gli tornò alla mente la forte reazione di Yayoi alla vista delle foto del cadavere. Non era stata una recita, la sua, era veramente emozionata, inorridita e spaventata. No, sicuramente non era stata lei a fare a pezzi il marito. Quella notte la Corolla rossa di Masako non era stata vi­sta nei dintorni della casa degli Yamamoto e neppure nelle vicinanze del parco di Koganei dove erano stati abbandonati i sacchi contenenti i resti del cadavere. Imai dovette, suo malgrado, rinunciare alla tesi che Yayoi avesse ucciso il mari­to e avesse chiesto aiuto a Masako, oppure che Masako o una delle sue compagne avesse di propria iniziativa ridotto a pez­zi il cadavere. Poi incominciò a riflettere sull’idea che Yayoi potesse ave­re avuto come complice un uomo. Non si poteva escludere – Yayoi era una donna molto bella. Ma non c’era nessun indi­zio che supportasse questa ipotesi. Imai lesse ancora una volta alcuni appunti sottolineati con l’evidenziatore. Li aveva presi quando aveva interrogato i vicini di casa, e gli erano sembrati particolarmente interes­santi. I coniugi Yamamoto litigavano di continuo. Non dormi­vano nella stessa camera. Il bambino più grande aveva di­chiarato che quella notte il padre era tornato a casa (ma Yayoi continuava a negare e diceva che il bambino aveva si­curamente fatto un sogno). E da quella notte il gatto degli Yamamoto era sparito… «Il gatto…» ripeté mentalmente, e si guardò intorno. In un angolo del giardino di una casetta diroccata, fra i cespu­gli di enotere, era accovacciato un gatto tigrato marrone. Lo fissò negli occhi gialli. Forse quella notte il gatto di casa Ya­mamoto aveva visto qualcosa che lo aveva talmente spaven­tato da farlo scappare per sempre. Ma purtroppo non si po­teva interrogare un gatto, sorrise amaramente Imai. Dio se era caldo! Imai si deterse il sudore dal viso con il fazzoletto spiegazzato e si rimise in marcia. Dopo pochi pas­si trovò uno di quei negozi di dolciumi all’antica, si comprò una lattina di tè Oolong freddo e la svuotò tutto d’un fiato. Il proprietario, un grassone di mezza età, teneva gli occhi fis­si sullo schermo di un televisore portatile. Imai gli chiese: «Sa dirmi dov’è la casa della signora Azuma?» L’uomo gli indicò una casa all’angolo. «Grazie. Mi hanno detto che la signora è vedova…» «Sì. Ha perso il marito qualche anno fa. Poverina, deve occuparsi della suocera costretta a letto. E poi anche del ni­potino. Anche oggi è venuta a comprare dei dolciumi». «Ah sì?» In quel caso non avrebbe avuto tempo di occu­parsi del cadavere. Imai intuì che la sua teoria si stava scio­gliendo come neve al sole. «Permesso, c’è qualcuno in casa?» Imai aprì la porta della casa di Yoshie e venne immedia­tamente investito da un odore di escrementi che lo fece in­dietreggiare. Dall’ingresso col pavimento in cemento poteva vedere la stanza più interna della piccola casa, dove Yoshie stava pulendo la vecchia malata. «Oh, mi scusi!»

«Chi è lei?» «Mi chiamo Imai, del distretto di polizia di Musashi-Ya­mato». «Ah, l’ispettore della polizia criminale? Torni più tardi. Adesso, come vede, ho altro per le mani!» Sentendosi in qualche modo rimbrottato, Imai si do­mandò se davvero non fosse meglio rimandare tutto a un’al­tra volta. Ma aveva faticato per arrivare fino a lì e insistette: «Allora, per favore, continui pure e parliamoci così». «Come vuole, per me sta bene». Yoshie si voltò seccata. Aveva i capelli scompigliati ed era sudata. «Non sente che puzza?» «Non si preoccupi. Sono io che devo scusarmi perché la disturbo mentre è così impegnata». «Che cosa vuole sapere? Si tratta di Yama-chan?» «Esatto. Mi hanno detto che siete amiche». «Amiche? Non direi. In fondo è molto più giovane di me», e così dicendo sollevò le gambe della vecchia e inco­minciò a pulirle il didietro con la carta igienica. Imai, imbarazzato, distolse gli occhi e guardò il pavimen­to dove vide, vicino alla porta, un paio di scarpine da ginna­stica stampate con le figurine dei cartoni animati. Allora si accorse del bambino seduto a terra, intento a bere un succo di frutta, nella piccola cucina buia alla sua destra. Nel locale c’erano solo un lavello e il fornello a gas. Assolutamente im­possibile trasportare un cadavere e ridurlo a pezzi in un am­biente così angusto! E ovviamente sarebbe stato inutile fare un sopralluogo nel bagno. «Negli ultimi tempi non ha notato nulla di strano nella signora Yamamoto?» «Le dico di no, io non so niente». Yoshie aveva finito di pulire la suocera e le stava mettendo il pannolone. «Ah, allora mi dica la sua opinione sulla signora Yama­moto». «È una che si prodiga», sparò Yoshie, «sì, una che dà il meglio di se stessa, e proprio per questo mi dispiace che ab­bia perso il marito in quel modo». La voce di Yoshie tremava un po’, ma Imai ne attribuì la causa al lavoro faticoso che stava facendo. «Ho saputo che il giorno prima, in fabbrica, la signora Yamamoto è caduta». «È bene informato», rispose Yoshie guardandolo in faccia. «È scivolata sulla salsa delle cotolette di maiale». «Ma ci sarà stato qualche motivo, no? Forse era preoccu­pata». «Figuriamoci! In fabbrica capita a tutte di scivolare!» re­plicò Yoshie visibilmente seccata e si alzò per andare a getta­re il pannolone sporco. Lo lasciò semplicemente accanto al­la soglia della cucina dove giocava il bambino. Raddrizzò la schiena e si girò verso Imai: «E adesso, cosa vuole sapere an­cora?» «Mi dica che cosa ha fatto lei, signora Azuma, mercoledì mattina». «Quello che faccio ogni mattina, l’ha visto anche lei, no?» «E poi?» «Le stesse cose che farò oggi». Imai ringraziò e se ne andò in fretta, contento di potersi lasciare alle spalle quella casa. Era ancora frastornato dallo spettacolo della fatica che quella donna si assumeva accu­dendo, dopo avere lavorato tutta la notte, una vecchia mala­ta. Quando Kinugasa l’aveva interrogata allo stabilimento, Yoshie gli era sembrata ansiosa, anche un po’ reticente, e Imai si era insospettito, ma ovviamente si trattava di un equi­voco. Adesso gli rimaneva da far visita a Kuniko Jonouchi, l’ul­tima compagna di lavoro di Yayoi da controllare. Ma ormai era stanco. Tornò nel negozio di dolciumi e si fece dare un’al­tra lattina di tè. «Ha trovato la signora Azuma?» gli chiese il proprietario. «Sì. Aveva molto da fare. Che lei sappia, la signora Azu­ma è uscita mercoledì della settimana

scorsa?» «Mercoledì?» Imai vide balenare la diffidenza nei suoi occhi e si affrettò a mostrargli la tessera: «Si tratta di questo: la signora è una compagna di lavoro della vedova dell’uomo che è stato ritro­vato a pezzi». «Ah, quella storia!» Immediatamente gli occhi del nego­ziante brillarono di interesse. «Una gran brutta cosa, davve­ro, ne ho già sentito parlare. Ha ragione, la moglie della vit­tima lavora nello stabilimento delle colazioni!» «E che cosa ha fatto mercoledì la signora Azuma?» «Che cosa vuole che abbia fatto, imprigionata com’è in quella casa», rispose l’uomo, curioso di sapere il motivo di quell’interesse, ma Imai se ne andò senza dire altro. Per strada si fermò a un chiosco davanti alla stazione di Higashi-Yamato e mangiò un piatto freddo. Quando arrivò a casa di Kuniko era già pomeriggio avanzato. Suonò al ci­tofono ma nessuno rispose. Suonò ancora un paio di volte. Niente. Stava già per andarsene rassegnato quando una voce sgarbata di donna domandò: «Chi è?» Imai disse il proprio nome. Subito la porta si aprì e ap­parve la faccia imbronciata di Kuniko. Era evidente che sta­va dormendo. «Scusi se la disturbo proprio adesso». Kuniko distolse lo sguardo e si mise a guardare per terra: sembrava spaventata dalla sua visita improvvisa. Imai, che trovava interessante quell’atteggiamento, incominciò a guar­darsi intorno curioso. «Dorme sempre a quest’ora?» «Sì, in fondo lavoro tutta la notte». «Suppongo che suo marito adesso sia a lavorare». «Ah, be’…» brontolò Kuniko evasiva. «Dove lavora?» la incalzò immediatamente Imai, cercan­do di sfruttare il momento prima che lei potesse rendersi conto dell’interrogatorio. In tal modo, in genere, si arrivava presto alla verità. «In realtà si è licenziato. E ora viviamo separati». «Separati?» Il suo istinto di poliziotto incominciava ad attivarsi. Ma non sembrava che quel particolare potesse avere qualche re­lazione con Yayoi. «Posso chiedere perché?» «Perché, perché! Semplicemente perché non funzionava più!» Kuniko afferrò la borsetta e tirò fuori un pacchetto di sigarette.I seni, evidentemente non sostenuti dal reggipetto, le dondolavano sotto la maglietta. Imai si guardò intorno e vide il letto in disordine. Guardando Kuniko ficcarsi la siga­retta in un angolo della bocca, pensò che qualsiasi uomo si sarebbe sentito depresso all’idea di vivere con un tipo di quel genere. «Mi hanno detto che è amica della signora Yamamoto, perciò vorrei farle alcune domande». «Non siamo così amiche», rispose lei senza guardarlo. «Davvero? Eppure anche in fabbrica lavorate sempre in­sieme, voi quattro». «Sì, in fabbrica. Ma lei ha un po’ la puzza sotto il naso, ha un bel faccino ed è vanitosa. No, i nostri rapporti non so­no poi così buoni». «Ah, capisco». Kuniko era invidiosa e maligna. Ma era possibile che non sentisse un po’ di compassione per Yayoi? Che era pur sempre la moglie della vittima e che ora si tro­vava in una situazione così terribile? Come mai sia Yoshie che Kuniko si ostinavano a dichia­rare di non avere rapporti particolarmente amichevoli con la collega? Questo gli sembrava strano e continuava ad alimen­targli qualche dubbio. Da quanto aveva appreso allo stabili­mento quelle quattro donne stavano sempre insieme, e an­che dopo il lavoro bevevano insieme il tè e facevano quattro chiacchiere prima di andare a casa. E poi Imai sapeva che di solito, in quei casi, la gente mostrava una compassione per­sino

esagerata per la persona coinvolta nella disgrazia. «E quindi al di fuori dell’orario di lavoro non aveva a che fare con la signora Yamamoto?» «No, praticamente mai», rispose seccamente Kuniko, poi si alzò, andò al frigorifero, prese una bottiglia di acqua mi­nerale e si riempì il bicchiere. «Ne vuole anche lei? Comunque è acqua di rubinetto». «No, grazie». Quando Kuniko aveva aperto il frigorifero Imai vi aveva lanciato una rapida occhiata. Era perfettamente vuoto, come il frigorifero di uno scapolo. Non c’erano avanzi di cibo né di bevande, neppure una lattina d’aranciata. Dunque in quella casa non si cucinava? La cosa gli sembrava strana. Lo stupiva anche il fatto che Kuniko indossasse abiti e accessori che dovevano essere abbastanza costosi, ma in giro non si ve­deva né un CD né un libro e nel complesso l’appartamento era piuttosto misero. «Lei non cucina?» domandò Imai guardando le scatole vuote delle colazioni impilate in un angolo della stanza. «No, per carità, detesto cucinare!» sbottò Kuniko facen­do una smorfia, ma già un secondo più tardi sembrò vergo­gnarsi di quanto aveva detto. «Ah, così? Bene, signora Jonouchi, torniamo al caso che ci interessa: lei la notte di mercoledì non è andata a lavorare. Potrei sapere perché?» «Mercoledì?» domandò Kuniko spaventata, portandosi al petto la mano grassoccia. «La notte precedente, ossia la notte di martedì, il marito della signora Yamamoto è sparito senza lasciare tracce, e ve­nerdì è stato ritrovato a pezzi. Lei, signora Jonouchi, merco­ledì notte era assente dal lavoro. Io, secondo la routine, sono costretto a chiederle perché». Kuniko annaspò in cerca di una spiegazione: «Non stavo bene. Sì, in effetti avevo mal di stomaco e non ce l’ho fatta ad andare a lavorare». Dopo averle concesso una breve pausa di riflessione, Imai continuò: «La signora Yamamoto ha una relazione con un al­tro uomo?» «Chissà!» sospirò Kuniko stringendosi nelle spalle. «Non so, ma credo di no». «E la signora Katori?» «La signora Katori?» ripeté Kuniko in falsetto. Evidente­mente non si aspettava di udire quel nome. «Sì, Masako Katori». «Come se quella potesse avere un amante! Di lei uno può avere soltanto paura!» «Paura?» «Be’, insomma…» Kuniko tacque, come se non riuscisse a trovare altre parole per definire quello stato d’animo. An­che Imai rimase in silenzio, avendo intuito che la donna ave­va detto la verità. Ma perché Masako incuteva timore? Il po­liziotto inclinò la testa perplesso. «A ogni modo non starò ancora tanto a lungo in quella fabbrica. L’omicidio, il cadavere fatto a pezzi… a uno viene paura di essere perseguitato anche lui dalla sfortuna!» proseguì Kuniko cercando di cambiare discorso. Imai annuì. «Già, capisco. Allora sta cercando un altro lavoro?» «Sì, ma questa volta vorrei assolutamente lavorare di gior­no, e non in un posto così orrendo, dove fra l’altro si aggira quel maniaco… È anche troppo pericoloso, non crede?» «Maniaco?» Era la prima volta che ne sentiva parlare. Imai aprì l’agendina. «E si aggira intorno allo stabilimento?» «Si aggira! Come se si trattasse di un fantasma… che or­rore!» Cambiato argomento, Kuniko sembrava di nuovo nel proprio elemento. «Non credo che abbia nulla a che fare con il delitto, a ogni modo mi dica esattamente quello che sa».

E Kuniko incominciò a raccontare in ogni dettaglio tut­to quello che sapeva del maniaco che aveva incominciato a presentarsi all’inizio di aprile. Mentre prendeva nota, Imai continuava a riflettere sui disagi del lavoro notturno per del­le donne. Quando uscì dal condominio, i lunghi raggi del sole del pomeriggio ardevano inesorabili sull’asfalto del posteggio. Pensando alla fatica che lo aspettava – camminare nella ca­nicola fino alla fermata dell’autobus e stare lì ad aspettarlo – Imai sospirò. Per caso il suo sguardo scivolò sulle automobi­li di tutti i colori parcheggiate sulle piazzole, tra le quali spic­cava una Golf cabriolet verde scuro, la più appariscente. Chissà di chi era? Imai cercò di immaginarsi il proprieta­rio, ma mai gli sarebbe venuto in mente che quella era l’a­matissima auto di Kuniko, la stessa che viveva in quell’appartamento miserabile. Tutto da ricominciare. Quel giorno avrebbe dovuto in­terrogare ancora i cinque operai che avevano fatto il turno di riposo martedì notte, ma decise di rimandare all’indomani. Dal momento, però, che la sua teoria si era rivelata priva di fondamento, gli sarebbe toccato continuare a seguire le in­dagini di Kinugasa e sottostare ai suoi ordini. Imai, di cattivo umore, continuò a camminare sotto il so­le cocente. Dopo pochi passi incominciò a sudare e la cami­cia gli si incollò alla schiena.

6. I giorni della canicola sembravano essere arrivati. A braccia conserte Mitsuyoshi Satake spiava dalla tappa­rella del suo appartamento al primo piano le chiazze abba­glianti illuminate dal sole e le macchie d’ombra scurissime, quasi nere. La luce estiva del mezzogiorno tagliava in due la città. Le foglie degli alberi e dei cespugli ai lati della strada, brillanti sul lato superiore, oscure di sotto. I passanti e la lo­ro ombra. Le strisce bianche dei passaggi pedonali sembra­vano essersi sciolte. Pensò alla sensazione fastidiosa che si prova quando i tacchi affondano nell’asfalto molle surriscal­dato dal sole e deglutì. A un paio di isolati si vedeva il gruppo dei grattacieli a ovest della stazione di Shinjuku. Nelle strisce di cielo azzur­ro ritagliate dagli edifici non si vedeva una sola nuvola. Ovunque si guardasse si restava abbagliati. Satake chiuse istintivamente gli occhi ma l’immagine dell’estate, impressa a fuoco sulle sue retine, stentava a svanire. Chiuse accuratamente le tapparelle, in modo che non fil­trasse un raggio di luce, e si girò. A poco a poco gli occhi si abituarono di nuovo alla penombra dell’appartamento – due stanze da sei tatami separate da una porta scorrevole di carta ingiallita. Al centro di una delle due stanze, rinfrescata dall’aria condizionata, un televisore mandava i suoi bagliori az­zurri. Non c’erano altri mobili. Accanto all’entrata vi era an­che una piccola cucina senza pentole e piatti, dal momento che lui non cucinava mai. Questa era l’abitazione di Satake – spartana, quasi povera – che mal si accordava con l’imma­gine appariscente con cui amava presentarsi in pubblico. Quando era in casa il suo abbigliamento si adeguava al­l’atmosfera – camicia bianca e pantaloni grigi sformati alle ginocchia. Ecco il suo vero volto. Da questo si poteva capire quanto fosse diffidente nei confronti del mondo esterno, ap­pena fuori dalla porta, e quanto il personaggio di Mitsuyo­shi Satake, proprietario di un night club e di una sala da gio­co, fosse solo un ruolo che era costretto a recitare. Si rim­boccò le maniche della camicia e si lavò viso e mani sotto l’acqua corrente. Anche l’acqua era calda. Si asciugò e si accoccolò davanti al grande schermo del te­levisore. Proiettavano un vecchio film americano doppiato. Soprappensiero si passò un paio di volte le mani tra i capelli corti, poi distolse lo sguardo dal video. Non voleva vedere la televisione. Voleva solo tuffarsi in quella assurda luce artifi­ciale. Satake odiava l’estate. Non che soffrisse terribilmente il caldo, semplicemente detestava l’atmosfera estiva che si insi­nuava fino dentro ai vicoli della metropoli. Era in quella stes­sa atmosfera che si erano svolti i due fatti che avevano im­prontato la sua vita: durante le vacanze estive, al secondo an­no di liceo, aveva dato a suo padre un pugno così forte da rompergli il mento ed era fuggito di casa; e anche l’altro epi­sodio di violenza, che lo avrebbe cambiato per sempre, era accaduto in agosto, dentro una stanza, nel ronzio continuo del condizionatore. Avvolto dall’atmosfera della città soffocante per i gas di scarico e le esalazioni, non riusciva più a distinguere l’ester­no e l’interno di se stesso. L’aria corrotta della strada pene­trava nei suoi pori e lo insudiciava, e dentro di lui le emo­zioni si gonfiavano e strisciavano fuori dal suo corpo fino a traboccare nella strada. Aveva il terrore di essere contagiato da quella città vorace e dissoluta – da Tokyo nel colmo dell’estate. Perciò sarebbe stato meglio allontanare da sé quell’e­state, prima che si impadronisse di lui con tutto il calore vo­mitato sulle strade dai condizionatori. Il periodo delle piogge era finito, l’estate vera e propria era cominciata, e queste erano le ragioni del suo singolare stato d’animo. Doveva sbrigarsi a chiudere fuori dal suo appartamento la calura ardente della metropoli. Satake si alzò. Entrò nella camera accanto e aprì la fine­stra. Chiuse in fretta le imposte prima

che il calore puzzo­lente dei gas di scarico e il frastuono potessero entrare. Immediatamente il buio invase la stanza. Sollevato si lasciò ca­dere sui tatami ingialliti. Nella camera c’erano solo un armadio per gli abiti e un futon ripiegato con cura, con gli angoli perfettamente per­pendicolari, come se fossero stati tracciati con una squadra da disegno. Se qualcuno che conosceva la sua storia avesse potuto vedere, probabilmente avrebbe pensato che Satake aveva arredato la sua casa come una cella. Ma ovviamente in carcere non ci sono televisori. Quando era in prigione non era stato soltanto il ricordo della donna uccisa a tormentare Satake. Anche l’angusto spa­zio quadrato della cella aveva fatto la sua parte. Perciò finora aveva preferito evitare gli spazi ermeticamente chiusi dei palazzi di cemento, e aveva scelto una vecchia casa di legno. E questo era anche il motivo per cui il televisore rimaneva sempre acceso – come una porta sempre aperta sul mondo esterno. Tornò nella camera col televisore e sedette di nuovo da­vanti al video. Poiché in quella stanza non c’erano imposte, non si poteva evitare che dalle fessure delle tapparelle pene­trasse un po’ di luce. Satake abbassò il volume dell’apparec­chio. Ormai si poteva sentire solo il rombo lontano del traf­fico della circonvallazione di Yamate, non molto distante, e il fruscio del condizionatore. Accese una sigaretta, facendo una smorfia perché il fumo gli era entrato negli occhi, e si mise a guardare distrattamen­te lo schermo. Avevano appena incominciato a trasmettere un’inchiesta giornalistica. Il moderatore teneva in mano un grafico e lo spiegava – era un reportage sul cadavere trovato a pezzi in un parco la settimana prima. Satake, che non ave­va alcun interesse per il programma, si prese la testa fra le mani come se volesse allontanare tutto quel tumulto prove­niente dal mondo esterno. Proprio in quel momento squillò il portatile posato sul pavimento. «Sì, pronto». Esitante e a voce bassa Satake rispose al ri­chiamo di quell’altro aggeggio che lo manteneva in relazione con il mondo esterno. In giorni come questo, quando gli ri­tornava in mente il passato che credeva di avere seppellito con tanta cura, avrebbe preferito non avere a che fare con il mondo di fuori, ma d’altra parte ne aveva assolutamente bi­sogno per potersi distogliere da quei pensieri. Odiava la me­tropoli nel cuore dell’estate, ma poteva vivere solo lì. «O-nii-chan, sono io». Anna. Satake guardò il Rolex che sfoggiava al polso. L’una in punto. La routine quotidiana lo richiamava all’ordine. Indeciso se fosse proprio necessario uscire di casa con quella canicola, rispose: «Che cosa c’è? De­vi andare dal parrucchiere?» «No, pensavo, è così caldo, non potremmo andare in pi­scina…?» «…piscina? Adesso?» «Sì, dai, andiamo per favore!» Aveva un vago ricordo dell’odore di cloro, del profumo muschiato dell’olio solare e della brezza asciutta e fresca che spirava vicino alla vasca. Non era il tipo d’estate che avrebbe voluto evitare a qualsiasi costo, ma quel giorno proprio non se la sentiva. Gli serviva ancora un po’ di tempo per abituar­si all’estate. «Non è troppo tardi? Potresti andarci nel giorno di ri­poso». «Ma la domenica è sempre troppo pieno». «Questo non si può cambiare». «Dai, andiamo! Non hai voglia di nuotare? Anna ne ha una voglia terribile!» Satake si rassegnò: «Va bene. Vengo». Chiuse la comunicazione e si concesse una sigaretta. Sol­levò il mento, strizzò gli occhi e fissò le immagini mute sul­lo schermo. C’era una donna dall’espressione tesa, probabilmente la moglie della vittima. Era vestita in modo dimesso, in jeans e T-shirt sbiadita, i capelli erano raccolti in un nodo sulla nu­ca ed era truccata appena. Satake guardò bene il suo viso. Era sorprendentemente bella e aveva lineamenti molto regolari. Com’era sua abitudine la valutò. Poteva avere trentadue o trentatré anni. Con un po’ di trucco sarebbe stata molto ap­prezzata. Però, nonostante suo marito fosse stato appena assassinato, sembrava piuttosto

tranquilla! Sciocchezze, che co­sa gliene importava! Al margine inferiore dello schermo ap­parve più volte la didascalia: “Signora Yamamoto, la moglie della vittima”. Il nome di Yamamoto non gli disse nulla. Si era già dimenticato che un paio di giorni prima aveva cac­ciato dal locale e preso a pugni un uomo che si chiamava Ya­mamoto. Quello che lo deprimeva di più era l’aria soffocante di quel primo pomeriggio d’estate. Se quel giorno, tanti anni prima, avesse avuto anche il più piccolo presentimento, non sarebbe successo nulla! Se non avesse incontrato quella don­na, la sua vita sarebbe stata completamente diversa. E oggi aveva una specie di presentimento, lo sentiva chiaramente. Un quarto d’ora dopo si mise gli occhiali da sole e si di­resse a passi veloci verso il garage dove aveva preso in affitto un posto macchina. Le sagome delle auto che sfrecciavano in lontananza vibravano nell’aria come miraggi. Sotto i raggi infuocati e nell’afa della strada gli sembrò quasi di sentir ge­mere la propria pelle fresca, abituata all’oscurità della casa. Si asciugò con il dorso della mano il sudore che gli colava copioso sulla fronte e rimase pazientemente in attesa che la sua auto scendesse sull’ascensore. Spalancò la portiera, avviò il motore e accese subito il climatizzatore. Dopo un po’ che guidava il volante rivestito di pelle nera era ancora bollente. Era abituato ai capricci di Anna. Oggi voglio andare a fa­re shopping, voglio qualcosa di nuovo da mettermi addosso! Voglio un altro parrucchiere! Cercami un veterinario! Lo faceva correre per qualsiasi sciocchezza. Satake sapeva che in quel modo voleva mettere alla prova il suo attaccamento. Era proprio infantile, sorrise amaramente continuando a guidare. Non appena suonò Anna aprì la porta. Era già tutta in ghingheri ed evidentemente lo stava aspettando. Aveva un cappello giallo a tesa larga e un abito estivo dello stesso colore. Allacciandosi impaziente i sandali di vernice nera, fece il broncio e disse: «Potevi anche arrivare prima!» «Mi hai chiamato all’improvviso, non potevo fare altri­menti», rispose Satake spalancando la porta. Venne investito dall’odore tipico dell’appartamento di Anna, un miscuglio di profumo dei suoi cosmetici e di puzza di cane. «Dove vuoi andare?» «Ma in piscina, te l’ho già detto!» Anna si sporse dalla fi­nestra del corridoio a guardare il cielo blu, come per assicu­rarsi che il sole continuasse a splendere incontrastato. Era talmente allegra che pareva che volesse mettersi a correre da un momento all’altro. Non sembrava essersi accorta dell’u­more tetro di Satake. «Volevo dire dove vuoi andare: al Keio Plaza o al New Otani?» «Le piscine degli alberghi sono troppo care! Non sono mica matta!» «E allora dove?» La parsimoniosa Anna aborriva qualsiasi spreco, anche se era sempre Satake a pagare tutto di tasca propria. «Andrà bene la piscina del quartiere. Quattrocento yen in due». Le piscine pubbliche costavano poco, però erano so­vraffollate e rumorose. Ma andava bene lo stesso. Adesso che si era ormai rassegnato a sopportare quella calura spaventosa, poteva anche accontentare Anna, pensò Satake entrando in ascensore. La piscina era gremita di gruppi di studenti e giovani coppie. Intorno alla vasca erano state costruite delle terrazze per prendere il sole, sulla più alta delle quali c’erano delle piazzole ombreggiate con alberi e panchine. Si era appena se­duto su una di quelle panchine quando vide Anna che usci­va dallo spogliatoio con addosso un costume rosso brillante e lo chiamava. «O-nii-chan!» Satake ammirò quello splendido corpo che correva verso di lui. A parte il colore della pelle, forse troppo bianco in quell’ambiente, non aveva un solo difetto: natiche e petto formosi, gambe lunghe e affusolate, cosce carnose ma sode – insomma, proporzioni perfette. «Non vieni a nuotare?» domandò Anna respirando profondamente, come se non riuscisse a saziarsi dell’odore di cloro dell’acqua. «Rimango qui a guardarti».

«Perché?» Anna lo tirò per un braccio: «Dai, vieni!» «No, non ho voglia. Adesso va’ a nuotare, sbrigati. Hai poco più di un’ora di tempo e poi ce ne dobbiamo andare». «Così presto?» «Questo lo sapevi fin dall’inizio. Dopo devi andare anche dal parrucchiere!» Anna brontolò ancora un po’, ma si riprese presto e cor­se via felice. Prima di arrivare alla vasca raccolse una palla che le era rotolata tra i piedi e si mise a giocare con un gruppo di ragazzine. Era davvero affascinante. Satake sorrise. Le piace­va viziare una donna così seducente e ingenua, anche solo averla vicino lo faceva sentire meglio. Non c’era niente da di­re, lei aveva il potere di ridargli un po’ di serenità. Ma nep­pure Anna sarebbe stata in grado di sedare il tumulto che la torrida estate, facendo riaffiorare il suo passato, aveva scate­nato improvvisamente nel suo cuore. Dietro alle lenti scure Satake chiuse gli occhi. Quando dopo un attimo li riaprì non riusciva più a trovarla. Scorse infine un braccio bianco che si agitava a salutarlo al centro della vasca da cinquanta metri piena di bambini che si spruzzavano urlando. Anna, accerta­tasi che lui la vedesse, si esibì in un crawl piuttosto malde­stro: Satake seguì con lo sguardo le sue goffe bracciate fino a quando un ragazzo, che fino ad allora era rimasto vicino al trampolino, non la raggiunse a nuoto e si mise a parlare con lei. Satake chiuse di nuovo gli occhi. Anna era ritornata alla sua panchina. Le gocce d’acqua sul suo corpo brillavano come perle. Si strizzò i lunghi capelli neri e si guardò intorno. Il ragazzo di prima stava ancora guardandola. Teneva i capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo e portava un orecchino. «Guarda, c’è qualcuno che ti osserva». «Sì. Mi ha anche parlato». «Che cosa fa?» «Dice che suona in un gruppo», rispose lei come se non le interessasse particolarmente e si girò verso Satake per spiarne la reazione. Lui osservava le gocce d’acqua scivolarle sulla pelle di seta. Gli bastava gustare la gioventù e la bellez­za di Anna. «Allora va’ a nuotare ancora un po’ con lui. C’è ancora tempo». «Come?» domandò Anna guardandolo delusa. «Ti ha fatto gli occhi dolci o no?» «Ma tu, O-nii-chan, non sei seccato?» «E perché dovrei? Finché fai il tuo lavoro…» «Ah». Anna si chiuse in se stessa. Lasciò cadere a terra l’a­sciugamano e corse verso il ragazzo che, seduto sul bordo della piscina, guardava annoiato per aria. Evidentemente contento che fosse ritornata, si voltò a scrutare Satake come per assicurarsi che andasse tutto bene. In macchina, quando tornarono, Anna non disse una pa­rola. «Anna», le chiese infine Satake, «ti accompagno dal par­rucchiere, va bene?» «Sì, ma poi non serve che tu venga a prendermi». «Perché?» «Tornerò in taxi». «Va bene. Voglio farmi una doccia a casa prima di anda­re al Mika. Allora ci vediamo questa sera». Lasciò Anna dal suo parrucchiere preferito e imboccò la circonvallazione di Yamate. Il sole era ora più basso e lo col­piva direttamente negli occhi: per la seconda volta in quel giorno risvegliò in lui i ricordi con una tale forza che ebbe paura di se stesso. Di nuovo sentì il calore insopportabile di quella camera, e intanto guardava le strade di Shinjuku e le ombre che incominciavano ad allungarsi sui marciapiedi. E di nuovo fece fatica a controllare i nervi. Quando alla sera arrivò al Mika, tutte le hostess, nello stesso momento e con lo stesso sorriso artificioso, si girarono verso di lui. Lo avevano scambiato per un cliente, ma quan­do lo riconobbero

ripresero immediatamente la consueta espressione annoiata. «Cos’è successo? Tutti al mare?» domandò Satake a Chén, il direttore, guardandosi intorno e non vedendo l’ombra di un cliente. «Arriveranno fra poco, è ancora presto», rispose Chén e si tirò giù in fretta le maniche della camicia bianca. Il papillon era storto e i pantaloni neri spiegazzati. Satake, che non sopportava la sciatteria, lo afferrò per la cravatta: «Ehi, attento a come ti conci!» «Mi scusi, non accadrà più». Lì-huá, la mama-san, uscì in fretta dalla cucina, impres­sionata dal malumore del suo capo. Indossava un abito nero e una collana di perle. Satake distolse lo sguardo disgustato da quella tetraggine. Sembrava che stesse andando a un fu­nerale! «Buonasera, Satake-san. È talmente caldo, oggi, che sono tutti un po’ in disordine!» «In disordine?Altro che disordine! Ha telefonato per invi­tare un po’ di gente? Come se questa sera non ci fosse nessu­no che ha bisogno di compagnia! Incredibile!» Perlustrò con lo sguardo il club e quando vide che, come al solito, i fiori nei vasi erano appassiti, perse definitivamente la pazienza: «I fiori! Maledizione, quante volte ve lo devo ripetere!» Satake, che di solito con la calma e il distacco si guada­gnava il rispetto dei collaboratori, quella sera era irriconosci­bile. Chén, turbato dall’umore rabbioso del capo, si precipitò a prendere il grande vaso di cristallo sul tavolo vicino. Le campanule violette pendevano tristemente sullo stelo. Le hostess, in silenzio, guardavano ora il vaso ora Satake. Lì-huá, nel tentativo di placarlo, disse: «Allora, bambine, avete sen­tito: d’ora in poi diamoci da fare, forza!» «Già, forse pensate che i clienti vengano qui da soli a gi­rarsi i pollici?! Che bella presunzione! Muovete quel culo, an­date in strada e attivatevi!» «Va bene!» rispose Lì-huá con un sorriso compiacente, ma non sembrava che avesse tanta voglia di mettersi in mo­vimento così presto con quel caldo. Cercando di controllar­si, Satake si guardò di nuovo intorno e si accorse che Anna non c’era. «E Anna dov’è?» «Ah sì, Anna-chan oggi non viene». «E perché no?» «Ha appena chiamato e ha detto che non sta bene perché ha preso troppo sole in piscina». «Che cosa?! No, così non va. Vado subito a vedere come sta». «D’accordo», rispose sollevata Lì-huá e con questo anche l’atmosfera nel locale si rilassò. Satake inghiottì la rabbia e uscì dal Mika. La notte afosa di Kabuki-cho lo avvolse nelle sue spire. Il sole era ormai tramontato, ma la temperatura e l’umidità non accennavano a calare, tutto il quartiere sembrava im­merso in una sauna gigantesca. Satake sospirò profonda­mente e salì la scala esterna molto più lentamente del solito. Giù al club la disciplina perdeva colpi. Era solo l’inizio, ma doveva fare subito qualcosa. Non appena entrò al Parco, Kunimatsu lo vide e si af­frettò verso di lui. Satake lo salutò con voce soffocata e notò con sollievo alcuni impiegati seduti ai tavoli a giocare. «Buonasera, Satake-san. Oggi è arrivato presto!» lo salutò Kunimatsu guardandolo stupito. Satake seguì il suo sguardo e si accorse di avere la giacca macchiata di sudore. Se la tol­se e vide che anche la camicia di seta nera era completamen­te bagnata e aderiva al petto muscoloso. «È così caldo qui?» domandò preoccupato Kunimatsu prendendo in consegna la giacca. «No, va bene così», sospirò Satake sfilando dal pacchetto una sigaretta. Un giovane croupier che aspettava il proprio turno fece una piccola smorfia alla vista della camicia sudata di Satake. Quello sguardo non gli piacque. «Come si chiama quello lì?»

«Yanagi». «Deve stare attento a come guarda i clienti – noi siamo qui per intrattenerli, glielo dica!» «Sì». Davanti all’insolito malumore del capo Kunimatsu si allontanò. Satake rimase in piedi a fumare la sigaretta. Su­bito accorse una coniglietta a cambiare il posacenere. Satake si accese un’altra sigaretta e sporcò anche il nuovo portace­nere. I collaboratori si aggiravano a distanza di sicurezza, os­servando ansiosi tutti i suoi movimenti per prevenirne i de­sideri, più ancora di come avrebbero fatto con un cliente. Era il suo locale ma, chissà perché, si sentiva fuori posto. Era la prima volta che provava quella sensazione. «Satake-san, ha un po’ di tempo?» Kunimatsu gli si era avvicinato. «Che cosa c’è?» «Le dispiacerebbe venire un attimo in ufficio?» Lo seguì in una stanzetta sul retro arredata con un tavolo e una cassaforte: l’ufficio di Kunimatsu. «Un cliente ha lasciato qui questa, che cosa devo farne?» Kunimatsu aveva preso dall’armadio a muro una giacca gri­gia da giorno. A una gruccia sul fondo era appesa la giacca grigio argento che Satake si era appena tolto. «Di chi può essere?» domandò Satake prendendo in ma­no l’indumento. Fresco di lana, ma da quattro soldi, si rico­nosceva a prima vista. «Nessuno è venuto a richiederla?» «No, ecco… legga qui». Kunimatsu gli mostrò il nome ri­camato a macchina con filo giallo sulla tasca interna: Yama­moto. «Yamamoto?» «Non si ricorda? Ma sì, quel tipo che ha buttato fuori al­l’inizio della settimana scorsa». «Ah, lui?» Adesso gli veniva in mente: quel tizio che ave­va dato fastidio ad Anna e che lui aveva preso a pugni. «Non è venuto a riprenderla. Che cosa ne devo fare?» «La butti via». «Posso? E se dopo viene a reclamare?» «Stia tranquillo. Sicuramente non si farà più vedere, e an­che se lo facesse gli dica semplicemente che qui non abbia­mo trovato niente». «Bene, come vuole». Kunimatsu inclinò la testa un po’ perplesso, ma non disse altro. Poi parlarono ancora un po’ degli incassi e quindi uscirono dal piccolo ufficio. Nel frat­tempo erano entrate nel locale due giovani prostitute abbi­gliate vistosamente. Alla vista della loro abbronzatura artifi­ciale, Satake fu costretto a ripensare ad Anna. «Torno subito, faccio un salto a vedere come sta Anna». Kunimatsu annuì in silenzio, ma Satake non si lasciò sfuggire l’espressione di sollievo che gli era apparsa sul viso. In quei momenti aveva la sensazione che Lì-huá, le hostess del Mika e i collaboratori del Parco sapessero del suo passato e avessero paura di lui. Come se conoscessero il suo lato oscu­ro, quello che in tutti quegli anni si era strenuamente sforza­to di controllare e di mantenere segreto. Era sicuro che se qualcuno ne avesse intravisto anche solo i contorni sarebbe morto di paura. Ma solo lui e la donna sapevano quello che era successo. Nessuno avrebbe potuto capire per che cosa si struggeva veramente Satake. Lui l’aveva capito a ventisei an­ni, e per questo aveva accettato in cambio la solitudine. L’appartamento di Anna sembrava in qualche modo di­verso. Satake aveva suonato più volte ma lei non aveva aper­to. Stava prendendo in mano il telefonino per chiamarla quando finalmente sentì la sua voce al citofono: «Chi è?» «Sono io». «…tu, O-nii-chan?»

«Sì. Stai bene? Apri un momento». «Va bene». Sentì che apriva la catena. Strano, di solito Anna non chiudeva mai con la catena. «Scusa se non sono andata a lavorare», disse Anna affac­ciandosi. Indossava calzoncini corti e una T-shirt ed era pallida in volto. Satake guardò per terra e vide un paio di scarpe spor­tive alla moda davanti alla soglia. «È il tipo di oggi pomeriggio?» Anna divenne ancora più pallida, ma rimase in silenzio. «Non ho niente in contrario se ti diverti con gli uomini. Purché vieni regolarmente a lavorare. E purché la cosa non duri troppo a lungo». Anna fece un passo indietro come se l’avesse schiaffeggia­ta e lo guardò: «Non provi proprio niente, O-nii-chan?» «No». Quando vide gli occhi di Anna riempirsi di lacrime capì che c’erano guai in arrivo. Era affascinante e gli piaceva, an­che al di là degli interessi professionali, ma rimaneva solo un oggetto grazioso che in qualche modo era orgoglioso di pos­sedere. La relazione che aveva con lei era come la pelle che lo avvolgeva: assolutamente superficiale. «Cerca di non fare la furba alle mie spalle, capito?» sog­giunse, e accostò dolcemente la porta dietro di sé, pensando che sarebbe stato un vero problema se per questa storia la ra­gazza avesse voluto chiudere con lui e cambiare locale. Sulla strada del ritorno si domandò, irritato, perché mai quel giorno niente volesse andare liscio. Avvertiva il perico­lo, aveva la sensazione che qualcuno cercasse di strappargli il sigillo. Satake chiuse scrupolosamente a chiave la porta della propria anima. Senza passare per il Mika, Satake ritornò direttamente al Parco. Kunimatsu gli aprì la porta e chiese: «Come sta Anna? Rimane a casa oggi?» «Sì, ma non è niente di grave. Domani tornerà al lavoro». «Ah, bene. Inoltre sembra che qui sotto stiano incomin­ciando ad affluire i clienti. C’è abbastanza traffico». «Sì? Bene». Rassicurato, Satake contò di nuovo i clienti del Parco. Quindici persone in tutto, di cui circa la metà im­piegati, e gli altri uomini e donne che – saltava agli occhi – lavoravano nell’ambiente della prostituzione. Per la maggior parte erano frequentatori abituali. C’era abbastanza anima­zione. Satake ne fu soddisfatto, e il suo pensiero si spostò su come riuscire a tenersi buona Anna in futuro. Doveva asso­lutamente impedire che le venisse l’idea di passare alla con­correnza. Stava pensando a una strategia per salvare la situazione quando si aprì la porta ed entrarono due uomini di mezza età che indossavano camicie fantasia con le maniche corte. Gli sembrava di averli già visti, eppure non riusciva a ricordare chi fossero. Impiegati? Forse professionisti? Il loro sguardo tagliente gli suggeriva che non si trattava di clienti abituali. Stranamente per Satake, che di solito riusciva subito a valu­tare un cliente, quei due rimanevano un enigma. «Buonasera, accomodatevi!» Kunimatsu si affrettò ad ac­coglierli giovialmente e a guidarli all’interno del locale. Poi, rispondendo a una loro domanda, incominciò a spiegare le regole del gioco. Dopo che ebbe terminato le spiegazioni, uno dei due, che fino ad allora era rimasto a guardare in silenzio, prese dal ta­schino un astuccio nero, lo aprì davanti agli occhi di Kuni­matsu e annunciò con voce calma: «Questura di Tokyo, se­zione sicurezza. Il mio collega è del distretto di Shinjuku. Chi di voi è il gestore del club? Quanto a voi, signori, man­tenete la calma e rimanete ai vostri posti!» L’atmosfera si raggelò. Nessuno osava fiatare, nessuno osava muoversi. Soltanto Kunimatsu si morse il labbro infe­riore, come se volesse dire: ecco che ci sono cascato, e diede un rapido sguardo a Satake.

Dannazione, una retata! Volevano fargli chiudere il loca­le! Dunque era questo il cattivo presentimento che lo tor­mentava fin dal mattino? Adesso capiva perché gli sembrava di averli già visti: piedipiatti! Prese in mano una fiche e si mi­se a giocherellare cercando di controllare l’impulso di scop­piare a ridere. 2. Quando il poliziotto entrò nella stanza degli interrogatori e si presentò, Satake non voleva credere alle proprie orecchie. «Sono Kinugasa, prima sezione, sede centrale». «Di che cosa si tratta esattamente?» «E me lo chiedi?» rise Kinugasa. Era un individuo ripu­gnante – corporatura taurina e sguardo a cui sembrava non sfuggire niente – il tipico funzionario della polizia criminale. «Voglio solo farti un paio di domande su un altro caso che potrei mettere in relazione con il tuo». «E quale sarebbe questo altro caso?» Satake in un primo momento aveva pensato che l’accusa riguardasse soltanto l’organizzazione di gioco d’azzardo, ma dopo due settimane trascorse in cella spuntava improvvisa­mente uno della prima sezione, e per di più della sede cen­trale. Che cosa stava succedendo? Dentro di sé era spaventa­to, questo era un fatto, tuttavia non riusciva ancora a pren­dere la cosa troppo sul serio. «Mi spieghi perché dovrei avere a che fare con la prima sezione». «Si tratta del caso dell’uomo trovato a pezzi», rispose Ki­nugasa strofinando l’accendino sulla polo nera sbiadita. Quindi si accese una sigaretta, aspirò con gusto e rimase a osservare le reazioni di Satake. «Fatto a pezzi?» «Sei impallidito». Satake indossava una camicia blu che gli aveva portato Lì-huá. Quel colore non gli piaceva, ma la camicia di seta ne­ra era impregnata di sudore ed era contento che gli avessero portato qualcosa per cambiarsi. Comunque il blu non era il suo colore, lo faceva sembrare più pallido. Satake rise: «Non è vero, si sbaglia». «Non è vero cosa? E ha anche la faccia tosta di ridere! Questo sì che mi piace, ride e parla d’altro!» Indignato Ki­nugasa si girò verso il funzionario di Shinjuku che sedeva ac­canto a lui. Quello rispose con un sorriso amaro, evidente­mente irritato per avergli dovuto cedere l’iniziativa. «Sei così abituato alla galera che niente ti può far più per­dere la calma, vero?» «Per favore, una cosa alla volta. Mi dica infine di che co­sa si tratta!» Satake incominciava a innervosirsi. Non si sen­tiva più a suo agio e incominciava ad avere paura. Per tutto il tempo aveva pensato che l’operazione avesse come obietti­vo il suo casinò, che effettivamente andava abbastanza bene. Ma non si trattava di rovinargli gli affari, la retata era stata organizzata dalla omicidi, solo ora se ne rendeva conto! Per qualche assurdo equivoco gli avevano teso una trappola e adesso lo stavano mettendo al tappeto. Non sarebbe stato fa­cile rialzarsi una volta che fosse caduto in quelle sabbie mo­bili, questo lo sapeva anche troppo bene. «Bene, Satake, se bisogna proprio sbattertelo sotto il na­so… Si tratta di un tipo che girava nei tuoi locali, un certo Kenji Yamamoto. È lui la vittima. E allora, adesso ti ricordi qualcosa?» «Non conosco nessun Kenji Yamamoto», rispose Satake e si girò verso la finestra. Si vedevano i grattacieli a ovest della stazione e tra loro strisce di cielo estivo. La luce era accecan­te. Satake chiuse gli occhi. Proprio lì dietro l’angolo c’era il suo appartamento. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter­si rifugiare nella penombra della sua casa! «E questa la riconosci?» Kinugasa prese una giacca grigia da un sacchetto di supermercato che teneva in mano. Satake la guardò e si lasciò sfuggire un’esclamazione di sorpresa. Era la giacca che gli aveva mostrato Kunimatsu la sera della reta­ta. E lui gli aveva detto di buttarla via. «Sì, l’ho già vista. Era stata dimenticata da un cliente…» Satake deglutì. Certo, Yamamoto!

Dunque quell’imbecille si era fatto ammazzare! Allora gli venne in mente di avere letto il nome Yamamoto sul giornale, e anche alla televisione ne avevano parlato, in relazione al ritrovamento del cadavere fatto a pezzi. Era un guaio, un grosso guaio. Doveva stare molto attento a non lasciarsi fregare! I due funzionari conti­nuavano a osservarlo beffardi e maligni. «Su, Satake, vuoi dirci che cosa è successo al tuo cliente?» «Non lo so». Satake scrollò la testa. «Non lo sai? Davvero?» Kinugasa gli rifece il verso e sor­rise. Che individuo! Satake sentiva il sangue salirgli alla testa, faceva fatica a ragionare. E tuttavia si controllò: da quando, anni prima, era uscito dal carcere non aveva mai perso l’au­tocontrollo. «Veramente non lo so». Kinugasa aprì l’agendina che aveva preso dalla tasca po­steriore dei pantaloni e la consultò con calma: «Circa alle dieci di sera di martedì 20 luglio alcuni testi­moni ti hanno visto litigare con la vittima. All’uscita del tuo locale, il Parco dei Divertimenti, tu l’hai preso a pugni e l’hai fatto rotolare a calci giù dalla scala». «Questo… può darsi che l’abbia fatto». «Può darsi che l’abbia fatto? E poi, che cosa è successo?» «Non lo so». «Altro che non lo so! Da allora si sono perse le tracce del­la vittima. Che cosa ne hai fatto di lui? Dove sei andato e che cosa hai fatto quella notte?» Satake scavò nei ricordi. Aveva dimenticato tutto di quel­la notte. Forse era tornato a casa, o forse era rimasto nel lo­cale. «Avevo ancora da fare al Parco». «Contaballe! Tutti i dipendenti hanno dichiarato che te ne sei andato subito». «Ah, può essere. Sono tornato a casa e ho dormito». Kinugasa incrociò le braccia davanti al petto. Non era soddisfatto: «Quale delle due versioni?» «Sono tornato a casa e ho dormito». «Ma di solito rimani là fino alla chiusura. Perché proprio quella notte te ne sei andato così presto? Non è strano?» «Quella notte ero stanco, perciò sono tornato a casa pre­sto e sono andato subito a letto». Era vero, adesso se ne ricordava. Era tornato subito a ca­sa senza fermarsi da nessuna parte. E poi si era addormenta­to davanti al televisore. Ah, se fosse rimasto al Parco! Ma or­mai era troppo tardi per pentirsene. «Hai dormito da solo?» «Naturalmente!» «Perché eri così stanco?» «Avevo giocato a Pachinko tutta la mattina, poi ho dovu­to accompagnare in giro una hostess e infine mi sono incon­trato con Kunimatsu, il mio direttore, perché dovevamo par­lare. È stata una giornata faticosa e a sera ero molto stanco». «Di che cosa hai parlato con Kunimatsu? Hai architetta­to forse un piano per far fuori la vittima? Questo in ogni ca­so è quello che ha dichiarato Kunimatsu». «No, non è vero! Perché mai avrei dovuto fare una cosa così assurda? Io mi occupo solo di un night-club e di un ca­sinò». «Non sottovalutarmi!» lo minacciò Kinugasa alzando im­provvisamente la voce. «Con che faccia un delinquente come te, con i precedenti che hai, ha il coraggio di parlare così?! Mi occupo solo di un night-club e di un casinò… Come osi, credi che non sappia quello che hai fatto? Hai torturato a morte una donna, o vuoi forse negarlo? Quante volte l’hai pugnalata? Venti, trenta volte? Le hai conficcato il coltello nel ventre mentre te la scopavi! Come è stato Satake, ti è pia­ciuto, eh? L’hai

conciata proprio bene! Quando ho letto il tuo incartamento ho sudato freddo. Non riesco proprio a concepire come abbiano potuto far uscire dopo solo sette an­ni una bestia come te! Non riesco a farmene una ragione. Spiegamelo tu!» Satake sudava da tutti i pori. Il famoso coperchio sulla pentola! Il sigillo con cui aveva chiuso così accuratamente il suo passato era stato strappato come niente fosse. Il viso del­la donna agonizzante ondeggiava di nuovo davanti ai suoi occhi. Il suo lato oscuro era tornato in vita e con gelide ma­ni cercava di arrampicarsi sulla sua schiena. «Be’, Satake, cosa c’è? Stai sudando come un maiale!» «No, è solo che…» «Sputa la verità. Dopo starai meglio!» «Niente affatto! Io sono pentito di quello che ho fatto! Io non commetterò mai più un omicidio!» «Dicono tutti così. Ma il maniaco omicida prova piacere e ci ricasca sempre, di questo si può stare certi». Piacere. Colpito da quella parola Satake guardò Kinuga­sa negli occhi: era trionfante. Non è assolutamente vero, avrebbe voluto urlare. Aveva provato piacere soltanto perché gli era stato possibile condividere la morte di quella donna. In quell’istante la aveva amata con tutto se stesso e per que­sto era diventata la donna della sua vita, lo aveva legato a lei per sempre. Non era stato affatto piacere di uccidere. E so­prattutto la parola piacere non bastava a descrivere quello che era successo. Ma Satake guardò per terra e disse solo: «Questo non è vero». «Bravo, continua a tener duro ma, credimi, anch’io so es­sere altrettanto tenace! Troverò prove sufficienti contro di te. Farò in modo di farti crollare sotto il peso degli indizi. E poi non potrai più dire niente!» Kinugasa gli strinse la spalla come se stesse palpando un animale. Satake si scansò per sottrarsi alla grande mano cal­losa del poliziotto. «Davvero non è così, mi creda! Io gli ho solo detto di non farsi più vedere. Si era incapricciato della mia hostess mi­gliore e la tormentava, perciò gli ho fatto capire che doveva smetterla, questo è tutto. L’ho solo messo in guardia e nient’altro. Quello che gli è successo l’ho saputo solo da voi!» «Ah, l’hai “messo in guardia”? Può essere che tu dia un si­gnificato un po’ più ampio all’espressione?» «Che cosa vuole dire?» «Valuta tu. L’hai scrollato ben bene, no?» «Non dica assurdità!» «Assurdità? Hai ucciso una donna, fai il ruffiano, pesti a morte un cliente e lo fai a pezzi! Non hai scampo, Satake! Per te è come se la polizia non esistesse – e adesso non cercare di fare l’agnellino!» Satake rimase in silenzio. Kinugasa si accese un’altra siga­retta e insieme al fumo vomitò: «A chi hai dato l’incarico di farlo a pezzi?» «Cosa?» «Nel tuo locale lavorano anche dei cinesi. Quanto si fa pagare la mafia cinese per un lavoro di questo genere? A se­conda del prezzo del giorno, come nei negozi di sushi? Allo­ra, qual è il prezzo corrente?» «Ma vuole scherzare? In tutta la mia vita non ho mai pen­sato a una cosa del genere!» «Un settimanale ha scritto che eliminare un uomo costa circa centomila yen. Per te non dovrebbe essere un proble­ma, basterebbe attingere alla cassa per le spese correnti! Ah, per quanti cadaveri potrebbe bastare, una decina?» Satake rise. Finalmente riusciva a capire il salto logico: «Non sono così ricco». «Uno come te, che guida una Mercedes?»

«Fa parte dell’immagine. Ma per le cose assurde di cui parla non butterei mai via così tanti soldi!» «Macché, piuttosto che tornare in gabbia saresti pronto a pagare qualsiasi somma. Questa volta potrebbero anche con­dannarti a morte, lo sai benissimo», replicò serio Kinugasa. Satake capì che ormai lo avevano sistemato. Quelli pen­savano davvero che avesse ucciso Yamamoto e avesse incari­cato qualcuno di eliminare il cadavere. Come sarebbe riusci­to a cavarsela? Anche con una fortuna maledettamente sfac­ciata sarebbe stato difficile. Nella sua mente riaffiorò il ri­cordo della stretta cella quadrata della prigione e ricominciò a sudare. Allora l’agente che fino a quel momento era rimasto in si­lenzio, lasciando l’interrogatorio a Kinugasa, aprì finalmen­te la bocca: «Non ha mai pensato alla moglie di Yamamoto? Fa i turni di notte in fabbrica e ha due bambini piccoli da ti­rare su con la sua paga. Non le fa pena?» «La moglie?» A Satake vennero in mente le foto della mo­glie della vittima che aveva visto per caso alla televisione. Una moglie straordinariamente bella per un fannullone co­me Yamamoto. «Sì, i bambini sono ancora piccoli. Lei non può capire, perché non ha figli, ma il futuro sarà molto difficile per lei, adesso». «Ma questo non dipende da me». Il poliziotto si irritò per la risposta di Satake: «Non di­pende da lei. Davvero?» «No». «E pensa di avere il diritto di dire semplicemente così?!» «Ma davvero io non c’entro. Non ne so niente». Kinugasa assisteva al battibecco leccandosi il labbro infe­riore. Satake era irritato; lo fissò rabbioso, come per toglier­si di dosso il suo sguardo. Un pensiero gli occupava la testa, l’idea che il vero colpevole potesse essere la moglie. Suo ma­rito era improvvisamente sparito e poi avevano ritrovato il cadavere fatto a pezzi, tuttavia la signora Yamamoto sembra­va abbastanza tranquilla. Cercò disperatamente di ricordare la stonatura che gli era sembrato di notare guardando la televisione. Come quando si mangia un mollusco pieno di sab­bia. Sul volto di quella donna era scolpito un sentimento che solo chi aveva fatto una simile esperienza era in grado di ri­levare. Una specie di orgoglio per aver portato a termine qualcosa, per aver realizzato i propri desideri. E poi Yamamoto aveva perso la testa per Anna e tutte le sere era al Mika a spendere i suoi soldi. A giudicare dalle fo­tografie della moglie, non sembrava che vivessero negli agi. Non ci sarebbe stato niente di strano se lei l’avesse odiato, non le si poteva proprio dare torto… «Satake, che cosa ti frulla per la testa?» domandò beffar­do Kinugasa, e Satake accolse la provocazione. Ancora prima di rendersene conto disse: «Stavo pensando alla moglie: che sia proprio immacolata?» Furioso Kinugasa lo aggredì: «A questo tocca a noi pen­sarci, Satake, non c’è bisogno che tu ti rompa la testa! Per prima cosa la moglie della vittima ha un alibi, e inoltre non ha complici. Al tuo posto mi preoccuperei per me stesso: sei tu il nostro uomo!» Satake dovette prendere atto che la donna era stata com­pletamente esclusa dalla cerchia dei sospetti e che non avreb­bero fatto altre indagini in questa direzione. Kinugasa aveva già deciso che il colpevole era lui, si era concentrato solo su di lui. Aveva sbagliato completamente obiettivo, ma questo non migliorava la sua posizione, che anzi non poteva essere peggiore. Furioso Satake strinse i denti: «Mi scusi se ho det­to qualcosa di troppo. Ma io davvero non c’entro. Lo giuro!» «Sì, sì, continua pure a parlare a vanvera!» «Già, io parlo a vanvera!» sibilò Satake in direzione del pavimento. Kinugasa aveva evidentemente un buon orec­chio, perché gli sferrò una potente gomitata sulla tempia e ringhiò: «Non mi sottovalutare, capito?!» Ma Satake non sottovalutava affatto la polizia. Se avesse­ro voluto, avrebbero potuto costruire tutte le prove che oc­correvano. E lui era il colpevole che volevano. Era sopraffat­to dall’angoscia e

allo stesso tempo bruciava di rabbia. Se fos­se riuscito a venirne fuori non avrebbe avuto pace finché non si fosse vendicato con le proprie mani dell’assassino. E per ora il suo obiettivo era proprio la moglie di Yamamoto. Il risultato di tutto quel pasticcio sarebbe stato la chiusu­ra definitiva dei suoi locali, il Mika e il Parco, pensò Satake che da molto tempo non si faceva più illusioni su come an­dava il mondo. Da quando, dieci anni prima, era stato ri­messo in libertà aveva impiegato ogni momento delle sue giornate a organizzarli, e ora che andavano così bene era sta­to coinvolto in quel maledetto caso – una vera scalogna! L’e­state lo aveva messo un’altra volta in ginocchio. Satake se la prese col destino e sospirò. All’improvviso la stanza si era fatta buia; guardò fuori dal­la finestra e vide il cielo coperto di nuvole nere e le fronde di un grande olmo che ondeggiavano al vento. Aveva tutta l’a­ria di essere in arrivo un temporale. Quella notte, in cella, Satake sognò la donna che aveva ucciso. Giaceva sdraiata davanti a lui, il viso contratto dal dolo­re, e gemeva: «Chiama il medico, corri, presto…» Satake affondava le dita nella ferita che le aveva aperto nel ventre; le affondava per tutta la loro lunghezza, fino al palmo. Ma la donna sembrava non accorgersene, continuava ad aprire e chiudere la bocca in cerca di aria e a bisbigliare: «Chiama il medico…» Le dita di Satake erano grondanti di sangue. Le aveva asciugate sul volto della donna. Così, con le guance rosse del suo stesso sangue, la donna era talmente bella che sembrava una creatura di un altro mondo. «Chiama il medico, corri, presto…» «Scordatelo. Taci!» Alle parole di Satake la donna gli aveva afferrato con in­credibile forza le dita grondanti sangue e se le era portate al collo. Voleva fargli capire che doveva ucciderla più in fretta possibile. Ma Satake le aveva accarezzato i capelli con le ma­ni insanguinate: «Non ancora». Vedendo la profonda disperazione nel suo sguardo, Sa­take aveva sentito il cuore contrarsi per la pietà e per la gioia. Non ancora. Non morire ancora. Godi insieme a me… La aveva stretta a sé e il suo corpo era scivolato nel sangue di lei. Satake si svegliò. Era tutto insanguinato. No, non era sangue, solo sudore. Si guardò intorno: il suo compagno di cella, un falsario, era disteso sulla branda accanto alla sua e fingeva di dormire. Satake non si curò di lui e si rigirò nell’oscurità; infine si alzò a sedere. Era eccitato: erano passati più di dieci anni dall’ultima volta in cui si era sognato di quella donna. Che la sua anima aleggiasse ancora lì da qual­che parte? Scrutò nel buio della cella. Voleva rivederla. 3. Un giorno d’inverno di quattro anni prima Anna era salita per la prima volta su un treno delle ferrovie giapponesi. Era sera e la carrozza era strapiena. Anna non era abitua­ta a trovarsi in mezzo alla folla che la schiacciava e quella sen­sazione non le piaceva. Continuava a urtare contro le spalle e i bagagli dei vicini e alla fine si trovò nel mezzo della car­rozza. In qualche modo riuscì ad afferrarsi a una maniglia e guardò fuori dal finestrino: il sole rosso fuoco stava tramon­tando all’orizzonte. La sua luce creava un grande contrasto con le ombre scure delle stazioni e degli edifici che spariva­no velocissimi dal campo visivo di Anna, senza che potesse metterli a fuoco. Sarebbe riuscita a riconoscere la stazione in cui doveva scendere? E in quel caso ce l’avrebbe fatta a usci­re dalla carrozza? Nervosa e confusa continuava a lanciare oc­chiate verso la porta. Improvvisamente le parve di sentire l’idioma di Shanghai. Lì intorno dovevano esserci dei suoi concittadini. Sollevata guardò i visi dei passeggeri e aguzzò le orecchie: in realtà par­lavano in giapponese. I suoni della lingua giapponese e del dialetto di Shanghai erano simili. Improvvisamente venne colta da un profondo senso di abbandono: era sola in un pae­se straniero. Benché volti e suoni si somigliassero, lei era completamente sola in un mondo di sconosciuti… Guardò di nuovo fuori dal finestrino: il sole era ormai tramontato e diventava sempre più buio.

Sul vetro si riflette­va l’immagine di una ragazza dallo sguardo cupo, infagotta­ta in un cappotto fuori moda. Si riconobbe in quell’immagi­ne e venne presa da una sensazione di solitudine talmente sconfinata da farle mancare il respiro, e i suoi occhi traboc­carono di lacrime. Anna aveva allora diciannove anni. Anche prima, naturalmente, l’opulento Giappone l’aveva intimidita e quella sensazione di totale smarrimento nella metropoli caotica non le era sconosciuta. Tuttavia non si era mai sentita così abbandonata da Dio come quel giorno. Certo, se fosse venuta in Giappone per studiare o dedi­carsi a qualche ricerca, sarebbe riuscita a sopportare molte difficoltà. Ma lei era qui per guadagnare denaro, quello era il suo unico scopo. E non aveva altre armi che la gioventù e la bellezza. Era venuta qui a cuor leggero, consigliata da un me­diatore che si trovava a Shanghai in cerca di ragazze e che le aveva detto che le cinesi, in Giappone, potevano fare soldi a palate. Ma la facilità con cui questo avveniva deprimeva An­na, che in realtà era una ragazza seria e intelligente. Era sem­pre stata una brava studentessa e aveva persino sperato di iscriversi all’università, e ora si era ridotta a guadagnare soldi facili grazie agli uomini giapponesi. E che cos’altro era se non depravazione? Il padre di Anna era autista di taxi, la madre vendeva frut­ta e verdura al mercato. Ogni sera si raccontavano con orgo­glio i risultati del loro lavoro. Saggezza, astuzia e presenza di spirito erano le armi con cui combattevano la concorrenza – così ci si guadagnava la vita, questa era l’essenza del com­mercio a Shanghai. Ma lei avrebbe potuto raccontare ai ge­nitori i risultati del proprio “commercio”? Era orgogliosa di essere nata a Shanghai, la più grande metropoli della Cina, e segretamente confidava nella propria bellezza, eppure non poteva rivaleggiare con le giovani ra­gazze di Tokyo, traboccanti di fiducia in se stesse, consape­voli di essere sostenute da una società opulenta. Anna non riusciva ad acquistare quella disinvoltura. Si trattava di una competizione impari. La tensione nervosa, la perdita di fidu­cia in se stessa e non per ultimo il suo isolamento l’avevano trasformata in una timida e paurosa ragazza di campagna. Anna, come le aveva consigliato il mediatore che le aveva anche fatto ottenere il visto di ingresso, si era iscritta a una scuola di lingue e di notte lavorava in un night-club di Shibuya. Si era dedicata con tutte le sue energie allo studio del giapponese e in breve tempo era stata in grado di parlarlo, anche se non perfettamente. Se solo si concentrava riusciva anche a capire i discorsi della gente in metropolitana. Ades­so poteva finalmente comprarsi i vestiti alla moda nei gran­di magazzini, come le ragazze giapponesi. Ma la sua solitu­dine, come uno sfrontato gatto randagio, non la abbandona­va mai; per quanto cercasse con ogni mezzo di allontanarla se la trovava sempre a fianco. Ma prima di tutto voleva guadagnare denaro, possibil­mente tanto denaro, e tornare a Shanghai il più presto pos­sibile. E una volta che fosse tornata a casa, avrebbe aperto una splendida boutique e sarebbe diventata ricca… Ogni giorno Anna andava a scuola e ogni sera al club. Tuttavia, nonostante i suoi sforzi, non riusciva a risparmiare. Non avreb­be mai immaginato che la vita in Giappone fosse così cara. Anna era sempre più nervosa. Non era riuscita ad accumula­re neanche un quarto della somma che le serviva – così era impossibile tornare a casa. Ma non voleva neppure rimanere lì. La sensazione di essere in trappola e di non avere vie di uscita rendevano la sua vita fragile come una tazzina da tè in­crinata – aveva sempre paura di spezzarsi da un momento al­l’altro. Fu proprio allora che conobbe Satake. Satake non beveva alcolici ma era generoso e rientrava dunque nella categoria dei “migliori clienti”. Anna lo aveva già visto spesso prima di allora e si era accorta che tutti nel locale lo trattavano con particolare riguardo, ma aveva pen­sato che un uomo simile, al cui tavolino sedevano le hostess più contese, fosse irraggiungibile. Tuttavia quella sera l’aveva fatta chiamare al suo tavolo. «Sono Anna. Felice di conoscerla».

Satake si comportava in modo diverso dagli altri clienti, non era timido né presuntuoso. Aveva chiuso gli occhi come se gli facesse piacere udire la sua voce, poi li aveva riaperti e le aveva guardato la bocca, come l’insegnante di giapponese quando voleva controllare la sua pronuncia. Anna si era qua­si alzata in piedi: le sembrava di essere una scolaretta chia­mata improvvisamente alla lavagna. «Le va bene un whisky e soda?» Versando il whisky e di­luendolo con quanta più soda possibile, Anna lo aveva guar­dato di nuovo. Poteva essere vicino ai quaranta. Aveva car­nagione scura e capelli corti. Occhi piccoli e dal taglio al­lungato, labbra grosse. Non esattamente un bell’uomo, tut­tavia il viso irradiava una sorta di tenerezza che lo rendeva af­fascinante. Era però vestito in modo veramente troppo vi­stoso. Indossava un elegante completo nero e una cravatta sgargiante, evidentemente firmati, che mal si adattavano alla corporatura robusta. Rolex d’oro e accendino Cartier, anche quello d’oro. Lo sguardo cupo e profondo contrastava vio­lentemente con il suo aspetto indolente e dissoluto. I suoi occhi erano una palude. Le avevano subito fatto ve­nire in mente una fotografia di un paesaggio di montagna che aveva visto una volta: un lago nero, paludoso, tra il silenzio delle vette solitarie. Sembrava che sul fondo di quelle acque torbide, gelide come ghiaccio, tra lussureggianti erbe lacustri vivesse una creatura misteriosa. Fino ad allora nessu­no aveva saputo della sua esistenza, perché nessuno lì avreb­be mai osato nuotare né andare in barca. Di notte doveva in­ghiottire la luce delle stelle in quella sua acqua nera e sta­gnante. Forse Satake amava vestirsi così per distogliere gli sguardi della gente dalla palude della sua anima. Anna gli aveva guardato le mani. Nessun gioiello, nessuna traccia di lavoro manuale – proporzioni straordinariamente armoniose per un uomo. Belle mani. Non riusciva assolutamente a classificarlo. Non dava proprio l’impressione di eser­citare una professione onesta e lei aveva pensato che poteva anche essere uno di quegli yakuza di cui fino ad allora aveva solo sentito parlare. Era curiosa, ma aveva anche paura. «Dunque tu sei Anna-chan», aveva detto Satake infilan­dosi una sigaretta tra le labbra e continuando a osservare il suo viso. Nella palude di quegli occhi non si muoveva un ali­to di vento. Il suo sguardo non rivelava né ammirazione né delusione. Tuttavia la sua voce era piacevolmente calma e vellutata. Anna avrebbe voluto udirla di nuovo. Allora si era accorta della sigaretta e, come le era stato in­segnato, aveva preso in mano l’accendino per porgergli il fuoco. Che distratta, doveva fargli una buona impressione! Si era innervosita e l’accendino le era scivolato tra le dita ed era quasi caduto. Satake se ne era accorto e la sua espressione si era addolcita: «Via, via, non così in fretta, in fondo non è importante!» «Mi scusi». «Quanti anni hai? Venti, più o meno?» «Sì, esattamente». Solo un mese prima Anna aveva fe­steggiato, in Giappone, il suo ventesimo compleanno. «L’hai scelto tu quel vestito?» «No». Indossava un vestito rosso fuoco, da pochi soldi, che le aveva ceduto una compagna d’appartamento. «Mi è stato regalato». «Era quello che pensavo. Non è della tua taglia». «Allora me ne compri uno lei», avrebbe voluto chiedergli Anna, ma non aveva osato. Si era limitata a sorridere imba­razzata. Non si sarebbe mai immaginata che in quel momento Satake si stava già divertendo a rivestirla come una bambolina di carta. «Non so bene come vestirmi». «A una come te sta bene qualsiasi cosa». Sebbene fosse così giovane, Anna capiva che Satake non apparteneva alla categoria dei clienti ingenui, che dicevano subito quello che gli passava per la testa. Dopo aver riflettu­to qualche istante, Satake aveva schiacciato il mozzicone del­la sigaretta e aveva chiesto:

«Mi hai guardato bene. Che cosa pensi che faccia?» «È un impiegato?» «No», aveva risposto serio Satake scuotendo il capo. «Allora forse è uno yakuza». Satake aveva sorriso per la prima volta, mostrando i den­ti grandi e sani. «Sono senza dubbio un fuorilegge, ma non uno yakuza. Faccio il ruffiano». «Ruffiano? Che cosa vuol dire?» Satake aveva preso dal taschino una lussuosa penna a sfe­ra e aveva scritto con ideogrammi sottili, su un tovagliolo di carta, la parola ruffiano. Anna aveva letto aggrottando la fronte. «Sono uno che vende le donne». «E a chi le vende?» «Agli uomini che le desiderano». Così era un mediatore di prostitute. Anna, colta di sor­presa dalle parole così esplicite di Satake, era rimasta in si­lenzio. Allora lui, con lo sguardo fisso sulle dita di Anna che tenevano ancora il tovagliolo di carta, aveva chiesto: «Anna­chan, ti piacciono gli uomini?» La ragazza aveva inclinato la testa perplessa: «Sì, se sono belli». «E chi è bello, per te?» «Tony Leung, ad esempio. È un attore di Hong Kong». «Se lui ti volesse, ti piacerebbe essergli venduta?» «Sì. Ma sicuramente non mi vorrebbe. Non sono abba­stanza bella», aveva risposto lei dopo averci pensato un po’ su. «Ma va’, fra tutte le donne che ho incontrato finora sei si­curamente la più bella!» «Non è vero», aveva detto Anna ridendo. Non riusciva as­solutamente a crederci. Una come lei, che non era neppure tra le prime dieci più belle in quel piccolo locale. «È una bu­gia». «Io non dico mai bugie». «Sì, ma…» «L’unico problema è che non hai fiducia in te. Se vieni a lavorare con me, ti prometto che in breve tempo sarai la pri­ma a meravigliarti della tua grazia e della tua bellezza». «Ma diventerei una puttana!» aveva protestato Anna sporgendo le labbra. «No, prima scherzavo. Ho un night-club.» Per lei comunque non sarebbe cambiato molto. Anna, che era già pentita da un pezzo di essere andata a lavorare in Giappone, abbassò la testa. Satake aveva continuato a guar­darla accarezzando con quelle sue lunghe, bellissime dita il bicchiere su cui il ghiaccio, sciogliendosi, aveva formato pic­cole gocce d’acqua. Nei punti in cui le sue dita sfioravano il vetro le gocce scivolavano giù, macchiando il sottobicchiere. Non aveva assaggiato neppure un sorso, e Anna si era fatta l’idea che tenesse in mano il bicchiere soltanto per accarez­zarlo. «Non ti piace questo lavoro?» «Ma sì, certo», aveva risposto Anna riluttante, sbirciando intimorita la mama-san che lì, nel club, faceva il bello e il cattivo tempo. Satake aveva seguito il suo sguardo. «Non sai che cosa fare, vero? Ma sei pur venuta per gua­dagnare soldi, o no? E allora devi farlo. Hai un formidabile talento che non sei ancora riuscita a tirare fuori». «Talento?» «Sì, la bellezza è un talento, come quello di uno scrittore o di un pittore. È un dono del cielo che non tutti hanno. Gli scrittori e i pittori si sforzano di raffinarlo. E anche tu devi darti da fare per levigare il tuo talento. È questo il tuo impe­gno, la tua professione. Insomma, sei un’artista Anna-chan, ne sono convinto. Ma sembra che tu voglia tirarti indie­tro…»

Continuando ad ascoltarlo si sarebbe inebriata del tono dolce e suadente della sua voce. Improvvisamente aveva alza­to il viso: era triste. Quell’uomo usava le sue lusinghe solo per indurla a lavorare nel suo locale! L’avevano sempre mes­sa in guardia da gente di quel genere! Come se avesse intui­to le preoccupazioni di Anna, Satake aveva sorriso e con un profondo sospiro aveva detto: «Peccato, un vero spreco!» «Ma io non ho talento!» «Ce l’hai. Davvero non vorresti diventare la protagonista della tua vita?» «Certo che lo vorrei». «Quando riuscirai a esaudire anche solo un paio dei tuoi desideri, potrai riconoscere qualcosa». «Che cosa?» «Il tuo destino». «Perché?» «Perché c’è sempre qualcosa che non va esattamente come si desidera. È colpa del destino», aveva risposto serio Satake porgendole un biglietto da diecimila yen piegato con cura. Mentre pronunciava quelle parole, per un attimo Anna aveva creduto di scorgere qualcosa lampeggiare in quegli occhi cupi e aveva distolto in fretta lo sguardo, con la sensazione di aver visto qualcosa che non doveva vedere. «La ringrazio». «Ci rivedremo», aveva detto Satake guardandosi intorno come se avesse perso ogni interesse nei suoi confronti. Infine aveva fatto un cenno al direttore perché gli chiamasse un’al­tra ragazza. Anna era stata liquidata e aveva raggiunto il ta­volo di un altro cliente. Era scontenta di se stessa ed era si­cura di averlo deluso con la sua risposta. E se fosse stato vero quello che le aveva detto, cioè che sa­rebbe diventata molto più bella se fosse andata a lavorare da lui? Le sue parole l’avevano profondamente turbata e agitata. Voleva avere di più dal proprio destino! Possibile che avesse perso la sua occasione? Era pentita. Tornata all’appartamento aveva preso il biglietto da die­cimila yen che le aveva dato Satake e si era accorta che sopra c’era scritto il nome Mika e un numero di telefono. Quando era andata a lavorare nel suo night-club, Satake le aveva insegnato molte cose. Che con i clienti doveva fin­gere di non sapere parlare bene il giapponese. Che agli uomini giapponesi piacevano le donne timide e che parlavano poco. Che però poteva comunicare con loro per iscritto, per­ché si sarebbe guadagnata la loro ammirazione se si fosse im­pratichita nell’arte della calligrafia. Gli uomini prediligono le donne intelligenti ma riservate. Che doveva assolutamente far credere loro di essere venuta in Giappone per studiare la lingua – faceva la hostess solamente per guadagnare qualche yen per le piccole spese. Anche se in fondo sapevano che era­no tutte bugie, gli uomini amavano cullarsi nell’illusione di essere superiori, e diventavano più gentili e generosi. Che doveva assolutamente far credere, alludendovi con noncu­ranza, di appartenere a una buona famiglia di Shanghai e di essere stata allevata come una signorina per bene. Così i clienti si sarebbero sentiti ancora più tranquilli. Satake non la lasciava mai e le insegnava tutto, da come truccarsi per pia­cere agli uomini a quali abiti scegliere. Qui erano in Giappone, e gli uomini giapponesi erano fondamentalmente diversi da quelli di Shanghai, che aveva­no imparato che le donne erano in grado di esprimere la pro­pria personalità nel mondo degli affari e di guadagnarsi da vivere. Anche prima Anna ne era stata consapevole, ma non avrebbe mai pensato di dover fare i conti con questa realtà. Satake le insegnò tutte le tecniche che le servivano e lei le im­parò in fretta. Non si trattava di diventare una donna di quel tipo, doveva solo essere professionale e dedicarsi completa­mente al lavoro. Questo le avrebbe garantito il successo “commerciale” e i suoi genitori non si sarebbero vergognati. Inoltre aveva davvero talento: più recitava quella parte e più diventava la donna bella ed enigmatica di cui aveva parlato Satake. Sì, lui aveva visto bene. In breve tempo era diventa­ta l’hostess più richiesta del Mika, e il successo l’aveva resa più

sicura. Era riuscita finalmente a cancellare per sempre il gatto randagio che era stata. Aveva cominciato a chiamare Satake “O-nii-chan”, il mio fratello maggiore. Anche Satake aveva smesso di nascondere la predilezione che aveva per lei. Con il passare del tempo Anna aveva incominciato a credere che lui si fosse innamorato di lei. Infatti non le presentava mai clienti “speciali”, come faceva con le altre hostess. Ma un giorno Satake, come se le avesse letto dentro, le aveva telefo­nato: «Anna-chan, ho trovato l’uomo per te». «Che tipo d’uomo?» «È ricco e bello. Questo dovrebbe essere sufficiente, no?» Naturalmente si trattava di Tony Leung. Non era né bel­lo né giovane, ma nuotava letteralmente nei soldi. Per ogni incontro la pagava un milione di yen. In dieci notti avrebbe guadagnato dieci milioni, quello che poteva considerarsi un bel reddito per un anno di lavoro. E se lo avesse tenuto in caldo, in poco tempo sarebbe diventata miliardaria. Quando il suo conto in banca avesse raggiunto la cifra che si era pre­fissata, avrebbe potuto dimenticare Tony Leung. Ma il cuore di Anna era occupato da un altro uomo, l’o­scuro, impenetrabile Satake. Avrebbe voluto immergersi nel­la palude dei suoi occhi e scoprire la creatura che ne abitava il fondo. Anzi avrebbe voluto afferrarla con le proprie mani. Anna si sentiva come a caccia, eccitata e tesa. Si ricordava che cosa le aveva detto quando si erano incontrati per la prima volta: «Ci sarà sempre qualcosa che non andrà come avresti voluto. È il destino». Che cos’era quel lampo che aveva visto guizzare per un attimo nel lago paludoso dei suoi occhi? L’a­vrebbe saputo presto, di questo ne era certa. Perché lei era una donna speciale per Satake. Ma più tentava di conoscerlo e più si accorgeva di igno­rare tutto di lui. Perché Satake stava molto attento a non la­sciar trapelare il suo segreto. Nessuno conosceva il suo indirizzo e nessuno aveva mai visto la sua casa. Chén, il direttore, credeva di avere visto una volta un uomo come Satake davanti a una vecchia casa a due piani nella zona occidentale di Shinjuku. Ma quell’uomo era vestito in modo molto modesto, non con i ricercati abiti fir­mati che Satake prediligeva. Era uscito di casa per gettare l’immondizia con addosso un paio di vecchi pantaloni sfor­mati alle ginocchia e un golf logoro ai gomiti. Sembrava un impiegato male in arnese e, alla vista del disordine intorno al bidone delle spazzature, aveva fatto una smorfia di disgusto e aveva incominciato a far pulizia. Era stato soprattutto que­sto che gli aveva messo in testa che poteva essere proprio Sa­take, il proprietario del Mika. Chén si era meravigliato ma anche spaventato, aveva raccontato ad Anna. «Il padrone che conosciamo si veste in modo appariscen­te, ma accurato ed elegante. L’ho sempre considerato uno sul quale si può contare, anche se non parla mai. Ma se quello che ho visto quel giorno è proprio lui, e quella è la sua vera personalità, il contrasto è troppo grande. Vorrebbe dire che qui, al club, il suo modo di fare è tutto una finzione. Strano, come mai avrebbe bisogno di nasconderci qualcosa? Possibi­le che non si fidi di noi? Non si può vivere senza fidarsi di nessuno. Perché significherebbe non fidarsi neppure di se stessi». Satake era un uomo misterioso, sembrava circondato da un segreto. Tutti i dipendenti trovavano inquietante la storia di Chén, ma allo stesso tempo si sentivano fortemente attratti da quell’uomo così enigmatico. Perché agiva in quel modo? Chi era realmente? Ognuno aveva la sua teoria. Ma Anna non si poteva accontentare dell’idea di Chén, che Satake in realtà diffidasse prima di tutto di se stesso. Era giovane e innamorata, ed era gelosa. Doveva esserci un’altra donna, una donna con la quale Satake non aveva bisogno di nascondersi, con la quale poteva essere se stesso… Finalmente un giorno Anna gli aveva chiesto: «O-nii­chan, vivi con una donna?» Satake l’aveva guardata stupito e per un attimo era rima­sto senza parole. Anna aveva interpretato la sua esitazione co­me prova di avere colto nel segno, e così aveva continuato: «E chi è?» «No, no», aveva risposto Satake ridendo, e per un istante i suoi occhi si erano offuscati, «non ho mai vissuto con una donna».

«Allora non ti piacciono le donne, O-nii-chan?» Anna, benché tranquillizzata dal fatto che non ci fosse un’altra ra­gazza nella vita di Satake, aveva avuto paura che fosse omosessuale. «Certo che mi piacciono, e quelle che preferisco sono le ragazze belle e dolci come te, Anna-chan. Le considero un incredibile regalo, di cui sono veramente grato!» Così dicendo le aveva preso la lunga mano affusolata e se l’era appoggiata sul palmo della sinistra, continuando ad ac­carezzarla con la destra. Ad Anna era sembrato che stesse va­lutando la fattura di un oggetto prezioso e aveva capito che dicendo “mi piacciono” lui aveva solo manifestato la generi­ ca ammirazione di un uomo per la bellezza femminile. «Grato a chi?» «Al cielo, per il regalo che ha voluto fare agli uomini». «E le donne? Non c’è un regalo anche per loro?» «Mah… Uomini come Tony Leung, per esempio. Che ne dici?» Anna aveva inclinato la testa: «Non credo». Perché una donna vuole sempre riuscire a sfiorare l’anima di un uomo. Non si può accontentare dell’aspetto esteriore! E l’anima che una donna vuole sfiorare è solo una, un’anima in armonia con la propria. Sembrava invece che Satake, quando parlava di “ragazze belle e dolci”, si riferisse solo a piccoli oggetti graziosi da viziare a proprio piacimento. L’a­nima non lo interessava, evidentemente non ne aveva biso­gno. E, per quanto lo riguardava, qualsiasi donna andava be­ne, bastava che fosse carina. Per lei invece non era la stessa cosa, in tutto il mondo non c’era un uomo che potesse pren­dere il posto di Satake, aveva pensato Anna delusa. «Allora, O-nii-chan, ti basta che una donna sia bella e dolce?» «Sì. Gli uomini non desiderano altro». Anna era rimasta in silenzio. Aveva capito che qualcosa si era irrimediabilmente spezzato nell’animo di Satake. Forse una volta una donna lo aveva fatto soffrire molto. Aveva pro­vato compassione per lui e si era messa a pensare a come avrebbe potuto curare e guarire quelle ferite. Era convinta di esserne capace ed era felice di poterlo fare. Ma il giorno in cui erano andati in piscina le illusioni di Anna erano svanite. Dapprima era stata contenta che Satake fosse andato in piscina con lei, ma la sua reazione ai tentativi di approccio del ragazzo l’aveva molto delusa. Come li aveva guardati! Il suo sguardo bonario come quello di uno zio comprensivo! Le aveva fatto male e si era arrabbiata perché lui si rifiutava di prendere sul serio i suoi sentimenti. Per questo aveva invita­to a casa il ragazzo la sera stessa, per ricambiarlo con la stes­sa moneta. Non si trattava che di una piccola vendetta, ma Satake sembrava non aver capito che lo aveva fatto perché era innamorata di lui. «Non ho niente in contrario se ti diverti con gli uomini. Purché vieni regolarmente a lavorare. E purché la cosa non duri troppo a lungo». Non avrebbe mai dimenticato il modo in cui aveva pronunciato quelle parole. Per lui non era altro che una merce da offrire in vendita al Mika, un giocattolo da uomini! Era per questo che l’aveva viziata e coccolata, perché era una bellissima bambola che doveva ballare come voleva lui. Quella notte Anna non era riuscita a dormire. Di nuovo si era sentita fragile come una tazzina da tè incrinata. E lei che aveva pensato di potere dimenticare per sempre quella sensazione! Ma il mattino seguente l’attendeva una sorpresa ancora più scioccante. Chén aveva telefonato: «Anna, hanno impacchettato il capo, per il baccarat. Forse non sai ancora niente, dal mo­mento che ieri non sei venuta». «Che cosa vuol dire “impacchettato”?» «Che è stato portato via dalla polizia. E così anche Kuni­matsu, il direttore del Parco. Oggi il Mika deve assoluta­mente rimanere chiuso. Se la polizia viene a farti delle domande tu non sai niente, capito?»

Proprio adesso che aveva deciso di chiedere a Satake che cosa provasse per lei! A seconda della sua reazione avrebbe anche potuto licenziarsi. Frustrata di dovere aspettare anco­ra, Anna era andata in piscina e vi era rimasta tutto il giorno prendendosi una bella scottatura. La sera, guardandosi la pelle arrossata, aveva dovuto ri­pensare al giorno precedente, quando Satake era andato con lei. Forse non aveva del tutto ragione, forse non era vero che la considerava soltanto una cosa. Forse esitava a causa della differenza di età, anche questo era possibile. Del resto non si era sempre occupato amorevolmente di lei? Non era forse la sua prediletta, quella che preferiva? Era un’ingrata a non ri­conoscere quello che Satake aveva fatto per lei! Anna, di nuo­vo animata dai suoi migliori sentimenti, si era sentita in col­pa nei suoi confronti e all’improvviso la nostalgia si era im­padronita di lei. Il giorno successivo i dipendenti del Parco che erano sta­ti arrestati con Satake vennero rimessi in libertà. Presto avrebbero liberato anche lui, pensò Anna.Ma lui non torna­va. Il Mika era ormai chiuso da più di una settimana. Lì-huá, la mama-san, andò a trovarlo e Satake le ordinò di dire ai clienti che il locale rimaneva chiuso in vista della festa di O­bon 7. Anna continuò ad andare in piscina tutti i giorni. Adesso la sua pelle arrossata dal sole aveva assunto una luminosa to­nalità bronzo chiaro che esaltava la sua bellezza. Per strada si voltavano a guardarla. In piscina gli uomini la assediavano. Satake sarebbe stato orgoglioso di lei se avesse potuto ammi­rare questo nuovo aspetto della sua bellezza e quanto lei ne andava fiera. Peccato che non fosse lì! La sera stessa andò a trovarla Lì-huá: «Devo parlarti, An­na-chan. È una questione importante». «Che cosa è successo?» «Si tratta di Satake-san. A quanto pare passerà molto tempo prima che sia di nuovo libero». Con Anna Lì-huá par­lava in mandarino, perché veniva da Taiwan e non sapeva il cinese di Shanghai. «Ma perché?» «Be’, è proprio quello di cui ti voglio parlare. Non l’han­no arrestato solo per la faccenda del gioco d’azzardo. Anch’io l’ho saputo solo quando sono andata alla polizia a fare la mia deposizione: sembra che ci sia qualche collegamento tra lui e il cadavere trovato a pezzi nel parco». «Il cadavere a pezzi?» Anna allontanò il cagnolino che ug­giolava eccitato ai suoi piedi. Lì-huá si accese una sigaretta e la scrutò in viso. «Sì, davvero non ne sai niente? Circa tre settimane fa hanno trovato un cadavere fatto a pezzi. E vuoi sapere chi era? Uno dei nostri clienti, quel Yamamoto, ti ricordi?» Anna era allibita: «Yamamoto? Vuole dire quel Yamamo­to che mi girava sempre intorno?» «Sì, proprio lui. Siamo tutti sbalorditi». «Ma com’è possibile? Non riesco a crederci…» Yamamoto la chiamava sempre al suo tavolo, non la la­sciava mai in pace. Quando lei gli sedeva di fronte, lui le af­ferrava la mano e una volta, ubriaco, aveva persino tentato di buttarla sul divano. Ma non era stata solo la sua insistenza a turbarla. Yamamoto si sentiva solo, questo era evidente, ed Anna se ne era accorta subito. Lei era molto disponibile fin­ché i clienti si limitavano a divertirsi e tutto rimaneva un gio­co, ma di uomini soli non ne voleva proprio sapere. Per que­sto quando non l’aveva più visto si era sentita sollevata, e or­mai l’aveva cancellato dai propri pensieri. «La polizia verrà senz’altro a cercarti molto presto. Sarà meglio che traslochi più in fretta possibile», disse Lì-huá guardandosi intorno nell’appartamento lussuosamente arre­dato, come se volesse stimarne il valore. «E perché?» «Credono che Satake abbia ucciso Yamamoto perché ti dava fastidio. E poi avrebbe incaricato la mafia cinese di fare a pezzi il cadavere». «No, O-nii-chan non farebbe mai una cosa del genere!» «Ma sembra che l’abbia preso a pugni davanti al Parco».

«Questo lo so… ma non ha fatto altro». «Non sai ancora tutto». Lì-huá abbassò la voce: «Satake­san ha ucciso una donna». Anna si sentì soffocare. Aveva la gola completamente ar­sa e non riusciva più a deglutire. «E non l’ha uccisa in modo “normale”. Sono rimasta ve­ramente inorridita quando l’ho saputo, mi devi credere. Se le ragazze del Mika venissero a saperlo sono sicura che scappe­rebbero subito terrorizzate». «Come l’ha uccisa?» Ad Anna sembrava di rivedere la lu­ce sinistra che brillava sul fondo della palude di Satake. «Sembra che una volta Satake lavorasse come guardia del corpo o qualcosa di simile per un famigerato yakuza del quartiere. È una vecchia storia e quello adesso è morto. Era il capo di una banda attiva nel giro della prostituzione e del­lo spaccio di amfetamine. Satake-san aveva l’incarico di an­dare a riprendere le donne che scappavano e di riscuotere i crediti. Un giorno una donna se l’era svignata con l’aiuto di una mediatrice che di nascosto l’aveva sistemata in un altro bordello. Satake-san era riuscito a catturare la mediatrice. Sembra che l’abbia rinchiusa in una camera e lì l’abbia tor­turata a morte – la ha seviziata finché non è morta». «Torturata a morte… che cosa vuol dire?» Anna non riu­sciva più a controllare il tremito nella propria voce. Le tornò alla mente quando da bambina i suoi genitori l’avevano por­tata in gita a Nanchino – la vista terrificante dei manichini al museo della guerra, in ricordo del massacro che era avve­nuto in quella città. La palude di Satake. Era dunque questo il terribile passato nascosto nel fondo dei suoi occhi. «Ah, orribile!» Lì-huá aggrottò torva le sopracciglia sotto­lineate dal trucco. «Si è comportato in modo disumano. L’ha denudata, percossa e violentata fino a farle perdere i sensi e poi l’ha fatta rinvenire pugnalandola alla pancia con un col­tello. E quindi ha di nuovo violentato quel corpo da cui il sangue usciva a fiumi. A quanto dicono il cadavere era pieno di lividi e non aveva più denti in bocca; l’aveva conciata pro­prio bene. Persino il vecchio yakuza era talmente inorridito che lo aveva scacciato». Anna emise un lungo gemito. Lì-huá, chissà quando, se ne era andata. Solo il barboncino nano era ancora accanto a lei e la guardava con aria interrogativa continuando ad agita­re la coda. «Ah, Gioiellino!» Anna si girò disperata verso di lui e il cane abbaiò felice in risposta al suo richiamo. Ricordò il gior­no in cui l’aveva comprato. Voleva avere accanto a sé qual­cosa che le scaldasse il cuore. Nel negozio aveva scelto la crea­tura più bella che avevano. Era la stessa cosa che aveva fatto Satake. Capì che ci sono uomini che desiderano le donne proprio per lo stesso motivo per cui lei aveva voluto il cane. E anche che per Satake lei non significava niente di più di quello che il cane significava per lei. Per Satake Anna era dol­ce e carina, così come Gioiellino era dolce e carino per lei. Non sarebbe mai riuscita a penetrare nella palude di quell’uomo. Anna scoppiò a piangere. 4. Quattro giorni dopo che la notizia era comparsa sulle prime pagine di tutti i giornali la polizia andò a casa di Masako. Erano già andati in fabbrica e le avevano posto alcune do­mande di routine, per cui era preparata a quella visita, dal momento che tutti i suoi colleghi sapevano che lei era la migliore amica di Yayoi. Ma nessuno avrebbe mai scoperto che il cadavere di Kenji era stato fatto a pezzi nel bagno di casa sua, di questo era sicura. Lei stessa non sapeva perché aveva aiutato Yayoi – e allora come avrebbe potuto, un estraneo, trovare una relazione? Masako era ottimista. «Mi scusi se la disturbo subito dopo il lavoro, di sicuro sarà stanca. Ma sarò molto breve». Era Imai, il più giovane dei due agenti che erano andati allo stabilimento. Evidentemente sapeva che lei faceva il tur­no di notte e le sue scuse sembravano sincere. Masako guardò l’orologio: erano le nove. «Non si preoccupi, avrò tempo per dormire più tardi».

«Grazie. Lei ha un ritmo di vita piuttosto irregolare, la sua famiglia non ne soffre?» Imai, incoraggiato dalla schiettezza di Masako, venne subito al punto. Era giovane, ma in nessun caso da sottovalutare. Masako decise di stare in guardia. «È passato così tanto tempo che ormai ci siamo abituati». «Immagino. Ma suo marito e suo figlio non si preoccu­pano se sta fuori tutta la notte? Lei è la madre, e quindi il cuore della famiglia». «Mah, non saprei…» Masako dubitava di potersi consi­derare il “cuore” di quella famiglia. Sorrise amaramente e in­vitò Imai a entrare in soggiorno. «Ma certo che si preoccupano. Gli uomini sono così. Fa parte della nostra natura non stare tranquilli quando una donna sta fuori tutta la notte, non c’è dubbio», ribadì Imai con foga. Masako si sedette di fronte a lui, senza neppure fare il ge­sto di offrirgli un tè o qualcos’altro. Nonostante l’età, quel poliziotto aveva una mentalità piuttosto ristretta. Imai ap­poggiò con calma sulla sedia la giacca beige che teneva sotto il braccio. «Signora Katori, ha deciso di andare a lavorare di notte d’accordo con suo marito?» «D’accordo? Che cosa c’entra? La sua unica preoccupa­zione era che il lavoro non fosse troppo duro per me, ma…» Era una bugia bella e buona. Yoshiki non aveva neppure commentato la sua scelta, e Nobuki già allora aveva smesso di parlare. «Ah, così?» Imai scosse la testa come per dire che tutto questo era per lui inconcepibile e aprì l’agendina. «Sembra che anche in casa della vittima le cose andassero allo stesso modo, ma mi stupisce molto che un uomo come suo mari­to, un normale impiegato, possa tollerare che la moglie lavo­ri di notte». Masako alzò la testa perplessa, non riusciva proprio a ca­pirlo: «E perché mai?» «Anzitutto la vita viene capovolta. In famiglia non c’è più comunicazione, dal momento che marito e moglie riescono a malapena a incrociarsi. E inoltre chissà che cosa fa in realtà la donna quando dice che va a lavorare! È ovvio che uno pre­ferisce che la moglie abbia una normale attività diurna!» Masako incominciò a capire in quale direzione si stava orientando la fantasia del poliziotto: Imai sospettava che Yayoi avesse una relazione extraconiugale! «Mettiamo da parte il mio caso per un momento. Una volta Yayoi aveva un normalissimo lavoro part-time, ma ha dovuto rinunciarvi a causa dei bambini. Non le rimaneva al­tra scelta all’infuori del turno di notte. Almeno questo è quanto ha detto». «Sì, questo lo so già. Mi domandavo solo quale altro van­taggio potesse offrire il lavoro notturno per controbilanciare gli svantaggi». «Credo proprio nessuno», tagliò corto Masako. L’ostina­ta ottusità di Imai la stava facendo arrabbiare, ma non vo­leva che se ne accorgesse. «L’unico vantaggio potrebbe essere la paga, che è del venticinque per cento più alta di quella diurna». «Solo questo?» «Provi a pensare: la stessa paga e tre ore in meno di que­sto stupido lavoro. Questo è senza dubbio un vantaggio, mi creda. Il tempo è prezioso, non lo si può buttare al vento». «Può darsi, ma…» Imai non sembrava ancora convinto. «Forse lei non riesce a capire perché non ha mai fatto un lavoro part-time…» «È ovvio che no, alla fin fine sono un uomo», rispose Imai tutto serio. «Se lei ci avesse provato, capirebbe subito che è molto meglio prendere la paga più alta e lavorare meno ore possi­bile, anche se la differenza è minima». «Anche quando si deve scambiare la notte con il giorno?» «Sì, anche allora». «Be’, se ne è convinta… Ma perché la signora Yamamoto doveva per forza andare a lavorare?» «Perché era necessario per sopravvivere, suppongo».

«Vuole dire che lo stipendio del marito non bastava?» «Non so esattamente, ma credo di no». «Non sarà stato piuttosto perché suo marito si prendeva delle libertà e lei si era arrabbiata o addirittura non voleva più vederlo? Insomma, forse non si trattava solo di soldi». «Questo non lo so», rispose seccamente Masako, «non mi ha mai raccontato niente del genere, o almeno niente che av­valori questa interpretazione». «Quale interpretazione?» «Ripicca nei confronti del marito o qualcosa del genere, come lei ha insinuato. Yayoi si è sempre presa cura dei figli e ha sempre lavorato con grande impegno». Imai annuì: «Sì, forse ho esagerato, mi scusi. Però abbia­mo scoperto che il marito della signora Yamamoto aveva di­lapidato tutti i loro risparmi». Masako finse di stupirsi della notizia, come se la sentisse per la prima volta: «Davvero? E come?» «Secondo le nostre indagini li ha spesi nei bar e nelle sa­le da gioco. Ora le chiedo di rispondermi schiettamente, dal momento che in fabbrica lei è la persona più in confidenza con la signora Yamamoto: come erano i loro rapporti coniu­gali?» «Non saprei. Lei non me ne ha mai parlato». «Ma come è possibile? Le donne parlano sempre un sac­co e spesso e volentieri si lamentano dei mariti!» incalzò Imai guardandola diffidente. «Dipende dalle persone. Lei non è quel tipo di donna». «Certo. È una magnifica persona. Però dai vicini abbia­mo saputo che litigavano spesso e che si facevano sentire fi­no in strada». «Ah sì?… Questa mi giunge nuova». Era possibile che sa­pessero anche che quella sera lei era andata da Yayoi? Ma­sako, preoccupata, lo guardò negli occhi. Imai rispose tranquillo allo sguardo, come se la stesse valutando. «Sembra che negli ultimi tempi Yamamoto si fosse dato parecchio da fare – gioco d’azzardo, alcol, donne – e che i suoi rapporti con la moglie non fossero dei migliori. Abbia­mo raccolto queste voci nel suo ambiente di lavoro. Lui stes­so ne aveva parlato con i colleghi. Aveva detto che ultima­mente litigava sempre con la moglie e quindi non tornava mai a casa prima che lei non fosse uscita per andare in fab­brica, e così via. La signora Yamamoto, invece, insiste nel di­re che il marito era sempre stato puntuale, tranne che quella notte. È strano, no? Che bisogno ha di mentire su questo punto? Davvero non si è confidata con lei?» «No, non ne so assolutamente nulla». Masako scosse la testa e partì all’attacco: «Allora sospetta di Yayoi, ispettore?» Immediatamente Imai fece un cenno di diniego e replicò: «Ma no, che cosa va a pensare! Ho solo cercato di mettermi nei panni della signora Yamamoto: al suo posto sarei stato furioso, se avessi dovuto arrabattarmi di notte in fabbrica mentre lui polverizzava tutti i risparmi giocando a baccarat, divertendosi nei bar con altre donne e tornando a casa ogni sera ubriaco. Non mi sarebbe piaciuto dovere raggranellare disperatamente ogni singolo yen per dargli la possibilità di gettare il denaro a piene mani fuori dalla finestra! Tutta la mia fatica non sarebbe servita a niente, mi sarei sentito im­potente. Una situazione insopportabile, non trova? Un uo­mo normale avrebbe preferito avere la moglie a casa, la not­te, e non l’avrebbe mandata a fare i turni, ma per Yamamo­to tutto questo cadeva a pallino. Perciò sospetto che non an­dassero d’accordo». «Crede? Non me ne sono mai accorta…» Masako conti­nuò a fingere di non sapere niente, ma dentro di sé ammise cinicamente che Imai aveva colto nel segno. «Dunque la signora Yamamoto è una persona così pa­ziente?» «Sì, credo di sì». Imai alzò gli occhi dall’agendina e la guardò: «Signora Katori, in situazioni come queste una

donna di solito non si cerca un amante?» «Dipende dalla persona, e Yama-chan, voglio dire la si­gnora Yamamoto non è di quel tipo». «Allora non frequentava nessun uomo neanche nello sta­bilimento?» «No, assolutamente», rispose decisa Masako. Finalmente Imai era riuscito ad arrivare al punto. «E fuori dall’ambiente di lavoro?» «Non so». Imai esitò qualche istante prima di dire: «Quella notte cinque dipendenti non si sono presentati: mi dica se fra di loro vi era una persona particolarmente intima della signora Yamamoto». Le mostrò i suoi appunti. All’ultimo posto della lista c’era il nome di Kazuo Miya­mori. Il cuore le batté forte, ma scosse la testa e disse: «Non esiste. Lei è una donna seria». «Ah…» «Lei pensa dunque che Yayoi avesse un amante e che co­stui si sia sbarazzato del marito. È questo che pensa, signor ispettore?» «Che cosa dice! Lei ha troppa fantasia», sorrise Imai. E invece era chiaro dove si stava orientando la fantasia del poliziotto: Yayoi doveva aver avuto un complice, e precisa­mente un uomo. E quest’uomo l’aveva aiutata a uccidere Kenji e a liberarsi del cadavere. «La signora Yayoi è una buona moglie e una splendida madre. Non posso davvero definirla in altro modo, mi cre­da», dichiarò Masako pensando che era vero. Proprio perché era una moglie e una madre esemplare aveva potuto aggredi­re Kenji come una furia e ucciderlo, dopo aver scoperto di essere stata ingannata. Se avesse avuto un amante non si sa­rebbe comportata in quel modo. Invece le supposizioni di Imai avevano preso la direzione opposta. «Be’, se lo dice lei…» Imai non sembrava ancora convin­to e osservava l’agendina con aria insoddisfatta. Masako si alzò, prese dal frigorifero una caraffa con dell’infuso d’orzo e gliene versò un bicchiere. L’agente la ringraziò e lo bevve tut­to d’un fiato. Il pomo di Adamo si mosse su e giù. Masako fu costretta a pensare al pomo di Adamo di Nobuki e a quel­lo del morto: lo fissò per qualche istante, poi distolse lenta­mente lo sguardo. «Devo farle qualche altra domanda di routine: dove si trovava la sera del martedì della scorsa settimana scorsa e che cosa ha fatto mercoledì, dal mattino presto a mezzogiorno circa?» Dopo aver posato il bicchiere sul tavolo, Imai tossic­chiò e guardò Masako. «Come sempre sono andata in fabbrica. C’era anche Yayoi. Come al solito ho fatto il turno di notte e sono ritor­nata a casa alla solita ora». «Ma lei è arrivata allo stabilimento più tardi del solito, ve­ro?» obiettò Imai cercando nell’agenda. Quindi sapeva anche che quella sera lei era arrivata in fabbrica appena in tempo prima dell’inizio del turno. Non aveva immaginato che avrebbero indagato anche su quei dettagli. Colta di sorpresa si innervosì, ma si sforzò di mantenere la calma e, senza cambiare espressione, rispose: «Può darsi. C’era molto traffico e avrò fatto un po’ tardi». «Ah, già. Certo, da qui ci vuole un’auto per raggiungere Musashi-Murayama. È sua la Corolla posteggiata fuori dalla porta?» «Sì». «La usa qualcun altro in famiglia?» «No, solo io». Aveva pulito il bagagliaio, ma se la scienti­fica l’avesse esaminato avrebbe potuto trovare qualcosa. Ma­sako accese una sigaretta per nascondere la propria inquietu­dine. Per fortuna le mani non le tremavano. «Che cosa ha fatto il giorno seguente, dopo la fine del turno?» «Dunque, sono tornata poco prima delle sei, poi ho pre­parato la colazione che ho mangiato

insieme ai miei. Dopo che mio marito e mio figlio sono usciti ho cominciato a fare il bucato e a riordinare. Poco dopo le nove sono andata a dormire – tutto come sempre». «Nel frattempo ha parlato con la signora Yamamoto?» «No, non dopo che ci siamo viste in fabbrica». Improvvisamente risuonò nel soggiorno una voce che mai si sarebbe aspettata di udire: «Ma alla sera non ha chiamato la signora Yamamoto?» Si voltò stupita e vide Nobuki fermo sulla soglia. Le sembrava di avere preso un colpo in testa. Quella mattina non era ancora sceso; lei l’aveva lasciato in pace e nel frattempo si era dimenticata che era ancora in casa. «Chi è?» domandò calmo Imai. «…mio figlio». Imai salutò il ragazzo con un lieve cenno del capo. Poi li guardò entrambi con interesse e chiese: «Circa a che ora ha telefonato la signora Yamamoto?» Masako non rispose: continuava a fissare il figlio attoni­ta. Erano queste dunque le prime parole che doveva sentire dalla bocca di suo figlio dopo quasi un anno! Proprio della telefonata doveva parlare! Non poteva averlo fatto che per vendetta. Ma perché? Che cosa gli aveva fatto? «La telefonata, signora Katori», ripeté Imai, «a che ora circa? Signora Katori?» Masako ritornò in sé: «Mi scusi, era molto tempo che non mi rivolgeva più una parola». Come si accorse che parlavano di lui, Nobuki alzò le spal­le contrariato e fece per uscire dalla stanza. «Aspetta, che cosa volevi dire?» «Proprio niente!» brontolò Nobuki e corse fuori sbatten­do la porta. «Deve scusarlo per il suo comportamento, ispettore. Da quando è stato espulso dalla scuola non ha più detto una pa­rola in casa», spiegò Masako in tono materno. «Capisco. A quest’età i ragazzi sono difficili. Lo so bene perché ho prestato servizio in un riformatorio». «Era la prima volta che mi parlava, mi ha stupito». «Probabilmente questo caso lo ha scioccato», annuì Imai comprensivo, tuttavia si leccava impaziente le labbra ed era chiaro che non vedeva l’ora di tornare all’argomento princi­pale e sentire il resto della storia. Masako lo assecondò: «Adesso mi ricordo della telefona­ta: credo che sia stato martedì sera». «Ossia la sera del 20. A che ora circa?» incalzò Imai. «Sicuramente dopo le undici…» rispose Masako fingen­do di riflettere. «Mi ha chiesto che cosa doveva fare, perché il marito non era ancora rincasato. Credo di averle detto di stare tranquilla e di andare a lavorare». «Ma questo doveva succedere spesso! Perché proprio quella notte le ha telefonato?» «Io non so se accadeva spesso. So solo che di solito suo marito tornava prima delle undici e mezza di sera. Ma quel­la sera era preoccupata perché i bambini facevano i capricci». «E come mai?» «Erano irrequieti e avevano la luna perché il gatto era scappato», improvvisò Masako. Più tardi avrebbe dovuto mettersi d’accordo con Yayoi su questa versione. Era indispensabile che se ne ricordasse. Ma non doveva essere un problema perché la faccenda del gatto era vera. «Ah». Imai era ancora diffidente. In quell’attimo la lavatrice segnalò che il bucato aveva terminato il ciclo. «Che cos’è?» «Solo la lavatrice». «Ah, posso dare un’occhiata al bagno?» chiese tranquilla­mente Imai e si alzò. Masako si sentì gelare il sangue nelle ve­ne, ma annuì e accennò un sorriso: «Non ho niente in con­trario, ma…» «Il mio interesse è di natura strettamente privata. Sa, ho intenzione di ristrutturare la casa e

quindi approfitto sempre di tutte le occasioni per vedere come sono sistemati i bagni». «Be’, se è così…» Masako lo guidò al bagno. Imai la seguì osservando at­tentamente ogni particolare della casa. «È una bella casa. È ancora abbastanza nuova, vero?» «Sì, è stata costruita tre anni fa». «Ah, che bel bagno spazioso! La invidio!» esclamò Imai guardandosi intorno. Sapeva che cosa stava pensando: qui sa­rebbe senz’altro possibile fare a pezzi un cadavere. Masako doveva stare in guardia. Quando, dopo aver esaminato ben bene il bagno, si sta­va già infilando le scarpe sformate nell’ingresso, Imai si voltò verso di lei e le chiese: «Suo figlio è sempre in casa?» Nobuki usciva quasi sempre a un’ora fissa per andare a la­vorare, ma Masako decise di dire una piccola bugia: «Va e viene quando vuole». «Davvero?» Imai sembrò deluso e si mordicchiò il labbro, ma si riprese subito e si accomiatò giovialmente: «Mi scusi ancora per il disturbo». Dopo che se ne fu andato, Masako salì in camera di No­buki, da dove si poteva vedere la strada di fronte alla casa. Spiò da dietro le tendine di pizzo. Come si era aspettata Imai era ancora lì, fermo sul terrapieno del cantiere, e osservava la casa. No, non la casa, bensì la sua vecchia Corolla. Aspettò fino a quando se ne fu andato e poi telefonò su­bito a Yayoi. Non la aveva più chiamata dal giorno in cui la notizia era apparsa sui giornali. «Pronto», rispose una voce sommessa. Era Yayoi. Masako sospirò di sollievo. «Sono io, posso parlarti?» «Ah, Masako!» esclamò contenta Yayoi. «Parla liberamen­te. Sono sola in casa». «E i parenti di tuo marito, e tua madre?» «Mia suocera è andata alla polizia per fare la sua deposi­zione. Mio cognato è già tornato al paese e mia madre è usci­ta a fare la spesa». Sembrava sollevata e senza preoccupazioni, come se fosse ritornata nel seno protettivo della famiglia. «Allora non sei sotto sorveglianza?» «Macché, la polizia non si fa più vedere – strano, no?» ri­spose serenamente Yayoi. Sembrava quasi che quella storia non la riguardasse più. «Hanno trovato la sua giacca in una sala da gioco di Kabuki-cho, e adesso, a quanto pare, le in­dagini si sono spostate lì». La si poteva considerare una fortuna nella sventura. Ma­sako si tranquillizzò, pur continuando a nutrire qualche in­quietudine nei confronti di Imai. «Sta’ attenta all’ispettore Imai». «Ah sì, quello giovane e alto, vero! So chi vuoi dire. Ma mi è sembrato carino!» «Carino!» esclamò Masako sconcertata. «Nella polizia cri­minale non ci sono persone “carine”!» «Davvero? Ma sembrano tutti provare compassione per me». Un po’ alla volta la spensieratezza sventata di Yayoi la sta­va facendo infuriare. «Ascolta: sanno che quella sera mi hai telefonato. Ho spiegato loro che i bambini erano irrequieti perché era sparito il gatto». «Che bella idea!» ridacchiò Yayoi. Sembrava essersi completamente dimenticata di essere stata lei a uccidere Kenji. Solo a sentirla a Masako venne la pelle d’oca. «Sta’ molto attenta a non contraddire la mia versione, hai capito?» «Ho capito. Ma sembra che vada tutto benissimo, io non mi preoccupo». «Cerca di non fare la spavalda!» «Sì, va bene. Sai, dopodomani arriveranno quelli della te­levisione». «Poco dopo il funerale?»

«Sì. Ho cercato di rifiutare, ma erano così insistenti, sai, e alla fine ho detto di sì». «Sei impazzita? Lascia perdere! Ti potrà vedere chiun­que!» la rimproverò Masako. «Io non avrei voluto. Ma ha risposto mia madre e loro l’hanno convinta. Hanno assicurato che basteranno tre mi­nuti». Masako non aveva più parole e tacque depressa. Avrebbe dovuto costringerla ad aiutarle a fare a pezzi il morto. Ormai sembrava che avesse rimosso anche il fatto che era lei l’assassina! Ma al momento, anche con la migliore volontà, Ma­sako non riusciva a capire se l’atteggiamento di Yayoi, l’indi­ziata principale, nei confronti del mondo esterno fosse un bene o un male. Era ancora sconvolta dal tradimento di Nobuki. Non avrebbe mai immaginato che dopo un anno di silenzio avrebbe aperto bocca per fare una spiata! Evidentemente non poteva perdonarla di avere un po’ alla volta rinunciato a ri­durre la distanza tra loro e di essersi limitata al ruolo di spet­tatrice passiva. Si era sempre impegnata con tutte le sue forze sia nel la­voro che in famiglia. Ma se era vero che suo figlio non pote­va perdonarla, in che cosa aveva sbagliato secondo lui? Non aveva mai chiesto di avere qualcosa in cambio, non aveva mai sperato nella sua gratitudine, ma il suo tradimento l’a­veva colpita a morte. Masako era così sconvolta che dovette sorreggersi allo schienale del divano. Le dita affondarono nella morbida stoffa di lana. In lei ruggiva un dolore irrefre­nabile che cercava uno sfogo: avrebbe voluto strappare a pez­zi quel tessuto. Soffocò i singhiozzi e chiuse gli occhi. La lavatrice aveva continuato a girare senza che vi avesse introdotto la biancheria, aveva lavorato a vuoto, come lei quando era impiegata alla cassa di credito. Evidentemente anche a casa non era stato diverso. Che significato aveva dunque la sua vita? Per che cosa si era impegnata, per che co­sa aveva faticato, per che cosa era vissuta? Si sentì logorata, priva di una meta, e dai suoi occhi traboccarono le lacrime. Non riusciva più ad andare avanti. Forse proprio per questo aveva scelto di lavorare di notte. Dormire di giorno e lavorare di notte. Faticare fino a esauri­re tutte le forze, per non pensare a nulla. Vivere all’opposto della sua famiglia. Ma tutto ciò non aveva fatto che aumen­tare la sua rabbia e la sua tristezza. Nessuno, né Yoshiki né Nobuki, avrebbe più potuto salvarla. Forse proprio per questo aveva oltrepassato il confine, perché era talmente disperata che voleva solo un mondo di­verso. Improvvisamente capì quello che fino ad allora non le era stato chiaro: perché aveva aiutato Yayoi. Ma cosa la aspet­tava in quel mondo, oltre gli usuali confini? Nulla. Masako contemplò le sue dita, diventate ormai bianche, ancora ag­grappate alla stoffa del divano. Venisse pure la polizia ad ar­restarla, riuscissero pure a capire il movente che l’aveva in­dotta ad aiutare Yayoi, ormai nulla poteva più toccarla. Sen­tiva diverse porte che si chiudevano sbattendo alle sue spal­le. Masako era rimasta sola con la sua solitudine. 5. Asciugandosi di quando in quando il sudore dalla fronte, Imai stava percorrendo una stradina che aveva tutta l’aria di essere stata un sentiero tra i campi. Si trovava in un quartiere di vecchie casette che parevano essere state dimenticate dalla moderna urbanizzazione. Sui tetti scuri la lamiera ossidata era staccata qua e là, le zanzariere erano sbrindellate e le grondaie arrugginite; dovevano esse­re passati più di trent’anni dalla loro costruzione. Tutte, senza eccezione, erano baracche di legno ormai cadenti, e sarebbe bastato un fiammifero a trasformarle in un rogo furioso. Kinugasa, il suo collega, si era trasferito temporaneamen­te dalla sede principale al distretto di Shinjuku e teneva sot­to tiro quello che credeva essere l’assassino, il proprietario della sala da gioco e del night-club di Kabuki-cho dove, se­condo gli accertamenti, si era recato Kenji Yamamoto il gior­no della sua scomparsa. Ma Imai aveva deciso di separarsi da Kinugasa e di proseguire le indagini per conto proprio. Non appena aveva saputo dei precedenti penali del pro­prietario della sala da gioco, Kinugasa si

era subito convinto, ma così non era stato per Imai. Qualcosa nel comportamen­to di Yayoi lo disturbava, lei non lo persuadeva. Era una sor­ta di intuizione che difficilmente avrebbe potuto spiegare a parole. Aveva la sensazione che stesse tentando disperata­mente di nascondere qualcosa che stava al centro di tutta la faccenda. Quel pensiero non gli dava pace. Si fermò in mezzo alla stradina, prese l’agenda e si mise a rileggere gli appunti dall’inizio. Alcuni studenti con i capelli bagnati – evidentemente tornavano dalla piscina – gli passa­rono davanti guardandolo con curiosità. Immaginiamo che Yayoi abbia ucciso il marito. Conti­nuavano a litigare, dunque ci sarebbe stato un ottimo mo­vente. Potrebbe capitare a tutti di uccidere in preda a un rap­tus. Ma Yayoi era una donna minuta, persino più piccola del normale. Le sarebbe stato difficile uccidere il marito senza procurarsi delle ferite, a meno che non stesse dormendo o non fosse ubriaco fradicio. Se Kenji era rimasto a Shinjuku fino alle dieci e poi, uscito dal locale, era tornato diretta­mente a casa, doveva essere arrivato non prima delle undici. E in un’ora gli effetti dell’alcol dovevano essersi almeno in parte attenuati. Inoltre, se ci fosse stata una lite così feroce da avere un esito mortale, i vicini avrebbero sicuramente senti­to qualcosa e i bambini si sarebbero svegliati. Nessuno aveva visto Kenji Yamamoto né in treno, né alla stazione di Seibu-Shinjuku. Perché improvvisamente a Shinjuku si perdeva ogni sua traccia? Ammesso che Yayoi fosse riuscita a uccide­re il marito e poi fosse andata al lavoro come se niente fosse, chi allora si era occupato del cadavere? Il bagno degli Yama­moto era troppo piccolo, e d’altronde i sopralluoghi della scientifica avevano avuto esito negativo. Era possibile che una collega avesse avuto compassione di lei e l’avesse aiutata a eliminare il cadavere. Anche una don­na, in fondo, ne sarebbe stata capace. Contro ogni aspettati­va, non era poi così raro, nei casi in cui l’omicida faceva a pezzi il cadavere, che proprio le donne fossero le colpevoli. Imai aveva studiato gli atti e le analisi di casi precedenti; quelli in cui gli assassini erano donne avevano due fattori in comune: l’improvvisazione e la solidarietà. Per una donna che uccide in preda a un raptus la cosa più difficile è eliminare il cadavere, perché in genere non è fisi­camente in grado di trasportare da sola un corpo senza vita. Perciò spesso la sola alternativa che le rimane è farlo a pezzi. Mentre gli uomini fanno a pezzi le loro vittime per renderne più difficile il riconoscimento o per un gusto del macabro, le donne agiscono così semplicemente perché non riescono a trasportarlo. E questo dimostra che si tratta generalmente di un delitto provocato da un raptus. Per esempio nel caso dell’estetista di Fukuoka, era stata una donna a ucciderla e a far­la a pezzi. Dopo il delitto si era accorta che non avrebbe po­tuto trasportare il corpo e allora lo aveva smembrato ed eli­minato un pezzo alla volta. Inoltre le donne, quando la situazione in cui vivono è si­mile a quella dell’assassina, facilmente scivolano dalla com­passione alla complicità. Ad esempio una donna aveva ucci­so il marito che si ubriacava e la picchiava ed era corsa a pian­gere dalla madre. Questa aveva avuto compassione – era la fi­ne che si meritava! – e l’aveva aiutata a fare a pezzi il cadave­re. In un altro caso due amiche avevano ucciso insieme un poco di buono, una specie di ruffiano che tormentava una di loro, l’avevano dissezionato e ne avevano gettato i resti nel fiume. Dopo la cattura avevano confessato tranquillamente che credevano di avere fatto una buona azione. Ogni giorno le donne cucinano, sono dunque più abi­tuate degli uomini ad avere a che fare con il sangue e la car­ne. Hanno confidenza con i coltelli e sanno come eliminare i rifiuti. Inoltre sono capaci di avere nervi di acciaio, perché quando partoriscono hanno un’esperienza che le avvicina al confine tra la vita e la morte. Sua moglie era un ottimo esem­pio, pensava Imai, ed era assolutamente serio. Supponiamo ancora che sia stata Masako Katori a occu­parsi del cadavere. Imai ripensò all’espressione calma e intelligente di Ma­sako e al grande bagno di casa sua. Aveva la patente e un’au­tomobile, ed era molto strano che Yayoi le avesse telefonato proprio quella notte.

Immaginiamo che Yayoi abbia ucciso il marito e abbia te­lefonato a Masako per chiederle aiuto. Masako, prima di re­carsi al lavoro, poteva essere andata a casa di Yayoi e aver na­scosto il cadavere nella sua auto. Poi, però, erano andate en­trambe a lavorare come se non fosse successo niente. E se non fosse stata solo Masako ad aiutare Yayoi? Anche le altre due – Yoshie Azuma e Kuniko Jonouchi – con le quali in ap­parenza avevano buoni rapporti, si erano presentate al lavoro come al solito. No, sarebbe stato troppo – troppo temera­rio, e inoltre un progetto troppo elaborato… Imai ripensò ai casi di omicidio con smembramento di cadavere in cui era­no state coinvolte delle donne e alla loro caratteristica, l’“im­provvisazione”. Scosse cogitabondo la testa. Yayoi aveva dichiarato che il mattino seguente era torna­ta a casa e vi era rimasta tutto il giorno. E questo corrispon­deva a quanto avevano testimoniato i vicini. Perciò era difficile presumere che lei avesse partecipato allo smembramento del cadavere. Ma era possibile che Masako avesse trasportato a casa sua il cadavere di Kenji Yamamoto e lo avesse ridotto a pezzi da sola o con l’aiuto delle altre due? Mentre l’assassi­na, Yayoi, se ne stava comodamente seduta a casa? Quale motivo avevano Masako e le altre per fare una cosa del gene­re per lei? Era possibile che avessero sviluppato un odio così feroce nei confronti del marito della compagna? No, si era spinto troppo oltre, era semplicemente impensabile che una donna razionale come Masako prendesse anche solo in con­siderazione l’eventualità di affrontare un simile rischio. E poi la “solidarietà femminile” nel caso di Yayoi e Ma­sako era piuttosto improbabile. Le loro vite erano troppo di­verse. Anzitutto le separavano l’età e la condizione sociale. Yayoi era giovane, i bambini erano ancora piccoli e si dibat­teva in una situazione economica difficile. Al contrario la si­tuazione economica di Masako sembrava, se non decisamen­te agiata, almeno stabile, al punto che era lecito domandarsi come mai avesse scelto di fare i turni di notte. Il marito era impiegato in un’impresa piuttosto importante, e vivevano in una casa nuova, di loro proprietà. Imai, che viveva ancora con tutti i figli in un piccolo appartamento assegnatogli dal governo, la invidiava un po’. Poteva darsi che il figlio le pro­curasse qualche problema, ma aveva già diciassette anni e, per quanto riguardava la scuola, il peggio sembrava ormai passato. Anche senza il turno di notte Masako avrebbe potu­to vivere senza preoccupazioni. Inoltre le dichiarazioni che aveva raccolto concordavano su un punto: le due donne si frequentavano soltanto sul posto di lavoro. Di che cosa si trattava, allora? Di soldi? Imai si ricordò dell’espressione di Masako quando aveva parlato delle mise­re retribuzioni del lavoro part-time. Era proprio furiosa, o al­meno a lui aveva fatto questa impressione. Forse Yayoi la ave­va allettata con una promessa di denaro. Non era un’ipotesi da escludere del tutto. Magari le aveva detto: «Pensa tu a si­stemare il cadavere, perché io devo costruirmi un alibi, e non ti preoccupare, ti pagherò il disturbo». E allo stesso modo potrebbero essere state coinvolte anche Yoshie Azuma e Ku­niko Jonouchi. Ma Yayoi non sembrava disporre di grandi somme di danaro. O forse aveva intenzione di pagarle con il premio dell’as­sicurazione? Aveva saputo che Yayoi era in attesa di una som­ma piuttosto cospicua. Forse si era davvero riproposta di pa­gare Masako e le altre con il premio dell’assicurazione. Ma al­lora non avrebbe avuto senso dissezionare il cadavere e ren­derlo irriconoscibile, perché l’identificazione doveva avvenire il più velocemente possibile. Imai continuava a cozzare con­tro qualche problema. E anche per quanto riguardava il mo­vente la sua teoria continuava a infilarsi in un vicolo cieco. Gli tornò alla mente la forte reazione di Yayoi alla vista delle foto del cadavere. Non era stata una recita, la sua, era veramente emozionata, inorridita e spaventata. No, sicuramente non era stata lei a fare a pezzi il marito. Quella notte la Corolla rossa di Masako non era stata vi­sta nei dintorni della casa degli Yamamoto e neppure nelle vicinanze del parco di Koganei dove erano stati abbandonati i sacchi contenenti i resti del cadavere. Imai dovette, suo malgrado, rinunciare alla tesi che Yayoi avesse ucciso il mari­to e avesse chiesto aiuto a Masako, oppure che Masako o una delle sue compagne avesse di

propria iniziativa ridotto a pez­zi il cadavere. Poi incominciò a riflettere sull’idea che Yayoi potesse ave­re avuto come complice un uomo. Non si poteva escludere – Yayoi era una donna molto bella. Ma non c’era nessun indi­zio che supportasse questa ipotesi. Imai lesse ancora una volta alcuni appunti sottolineati con l’evidenziatore. Li aveva presi quando aveva interrogato i vicini di casa, e gli erano sembrati particolarmente interes­santi. I coniugi Yamamoto litigavano di continuo. Non dormi­vano nella stessa camera. Il bambino più grande aveva di­chiarato che quella notte il padre era tornato a casa (ma Yayoi continuava a negare e diceva che il bambino aveva si­curamente fatto un sogno). E da quella notte il gatto degli Yamamoto era sparito… «Il gatto…» ripeté mentalmente, e si guardò intorno. In un angolo del giardino di una casetta diroccata, fra i cespu­gli di enotere, era accovacciato un gatto tigrato marrone. Lo fissò negli occhi gialli. Forse quella notte il gatto di casa Ya­mamoto aveva visto qualcosa che lo aveva talmente spaven­tato da farlo scappare per sempre. Ma purtroppo non si po­teva interrogare un gatto, sorrise amaramente Imai. Dio se era caldo! Imai si deterse il sudore dal viso con il fazzoletto spiegazzato e si rimise in marcia. Dopo pochi pas­si trovò uno di quei negozi di dolciumi all’antica, si comprò una lattina di tè Oolong freddo e la svuotò tutto d’un fiato. Il proprietario, un grassone di mezza età, teneva gli occhi fis­si sullo schermo di un televisore portatile. Imai gli chiese: «Sa dirmi dov’è la casa della signora Azuma?» L’uomo gli indicò una casa all’angolo. «Grazie. Mi hanno detto che la signora è vedova…» «Sì. Ha perso il marito qualche anno fa. Poverina, deve occuparsi della suocera costretta a letto. E poi anche del ni­potino. Anche oggi è venuta a comprare dei dolciumi». «Ah sì?» In quel caso non avrebbe avuto tempo di occu­parsi del cadavere. Imai intuì che la sua teoria si stava scio­gliendo come neve al sole. «Permesso, c’è qualcuno in casa?» Imai aprì la porta della casa di Yoshie e venne immedia­tamente investito da un odore di escrementi che lo fece in­dietreggiare. Dall’ingresso col pavimento in cemento poteva vedere la stanza più interna della piccola casa, dove Yoshie stava pulendo la vecchia malata. «Oh, mi scusi!» «Chi è lei?» «Mi chiamo Imai, del distretto di polizia di Musashi-Ya­mato». «Ah, l’ispettore della polizia criminale? Torni più tardi. Adesso, come vede, ho altro per le mani!» Sentendosi in qualche modo rimbrottato, Imai si do­mandò se davvero non fosse meglio rimandare tutto a un’al­tra volta. Ma aveva faticato per arrivare fino a lì e insistette: «Allora, per favore, continui pure e parliamoci così». «Come vuole, per me sta bene». Yoshie si voltò seccata. Aveva i capelli scompigliati ed era sudata. «Non sente che puzza?» «Non si preoccupi. Sono io che devo scusarmi perché la disturbo mentre è così impegnata». «Che cosa vuole sapere? Si tratta di Yama-chan?» «Esatto. Mi hanno detto che siete amiche». «Amiche? Non direi. In fondo è molto più giovane di me», e così dicendo sollevò le gambe della vecchia e inco­minciò a pulirle il didietro con la carta igienica. Imai, imbarazzato, distolse gli occhi e guardò il pavimen­to dove vide, vicino alla porta, un paio di scarpine da ginna­stica stampate con le figurine dei cartoni animati. Allora si accorse del bambino seduto a terra, intento a bere un succo di frutta, nella piccola cucina buia alla sua destra. Nel locale

c’erano solo un lavello e il fornello a gas. Assolutamente im­possibile trasportare un cadavere e ridurlo a pezzi in un am­biente così angusto! E ovviamente sarebbe stato inutile fare un sopralluogo nel bagno. «Negli ultimi tempi non ha notato nulla di strano nella signora Yamamoto?» «Le dico di no, io non so niente». Yoshie aveva finito di pulire la suocera e le stava mettendo il pannolone. «Ah, allora mi dica la sua opinione sulla signora Yama­moto». «È una che si prodiga», sparò Yoshie, «sì, una che dà il meglio di se stessa, e proprio per questo mi dispiace che ab­bia perso il marito in quel modo». La voce di Yoshie tremava un po’, ma Imai ne attribuì la causa al lavoro faticoso che stava facendo. «Ho saputo che il giorno prima, in fabbrica, la signora Yamamoto è caduta». «È bene informato», rispose Yoshie guardandolo in faccia. «È scivolata sulla salsa delle cotolette di maiale». «Ma ci sarà stato qualche motivo, no? Forse era preoccu­pata». «Figuriamoci! In fabbrica capita a tutte di scivolare!» re­plicò Yoshie visibilmente seccata e si alzò per andare a getta­re il pannolone sporco. Lo lasciò semplicemente accanto al­la soglia della cucina dove giocava il bambino. Raddrizzò la schiena e si girò verso Imai: «E adesso, cosa vuole sapere an­cora?» «Mi dica che cosa ha fatto lei, signora Azuma, mercoledì mattina». «Quello che faccio ogni mattina, l’ha visto anche lei, no?» «E poi?» «Le stesse cose che farò oggi». Imai ringraziò e se ne andò in fretta, contento di potersi lasciare alle spalle quella casa. Era ancora frastornato dallo spettacolo della fatica che quella donna si assumeva accu­dendo, dopo avere lavorato tutta la notte, una vecchia mala­ta. Quando Kinugasa l’aveva interrogata allo stabilimento, Yoshie gli era sembrata ansiosa, anche un po’ reticente, e Imai si era insospettito, ma ovviamente si trattava di un equi­voco. Adesso gli rimaneva da far visita a Kuniko Jonouchi, l’ul­tima compagna di lavoro di Yayoi da controllare. Ma ormai era stanco. Tornò nel negozio di dolciumi e si fece dare un’al­tra lattina di tè. «Ha trovato la signora Azuma?» gli chiese il proprietario. «Sì. Aveva molto da fare. Che lei sappia, la signora Azu­ma è uscita mercoledì della settimana scorsa?» «Mercoledì?» Imai vide balenare la diffidenza nei suoi occhi e si affrettò a mostrargli la tessera: «Si tratta di questo: la signora è una compagna di lavoro della vedova dell’uomo che è stato ritro­vato a pezzi». «Ah, quella storia!» Immediatamente gli occhi del nego­ziante brillarono di interesse. «Una gran brutta cosa, davve­ro, ne ho già sentito parlare. Ha ragione, la moglie della vit­tima lavora nello stabilimento delle colazioni!» «E che cosa ha fatto mercoledì la signora Azuma?» «Che cosa vuole che abbia fatto, imprigionata com’è in quella casa», rispose l’uomo, curioso di sapere il motivo di quell’interesse, ma Imai se ne andò senza dire altro. Per strada si fermò a un chiosco davanti alla stazione di Higashi-Yamato e mangiò un piatto freddo. Quando arrivò a casa di Kuniko era già pomeriggio avanzato. Suonò al ci­tofono ma nessuno rispose. Suonò ancora un paio di volte. Niente. Stava già per andarsene rassegnato quando una voce sgarbata di donna domandò: «Chi è?» Imai disse il proprio nome. Subito la porta si aprì e ap­parve la faccia imbronciata di Kuniko. Era evidente che sta­va dormendo. «Scusi se la disturbo proprio adesso».

Kuniko distolse lo sguardo e si mise a guardare per terra: sembrava spaventata dalla sua visita improvvisa. Imai, che trovava interessante quell’atteggiamento, incominciò a guar­darsi intorno curioso. «Dorme sempre a quest’ora?» «Sì, in fondo lavoro tutta la notte». «Suppongo che suo marito adesso sia a lavorare». «Ah, be’…» brontolò Kuniko evasiva. «Dove lavora?» la incalzò immediatamente Imai, cercan­do di sfruttare il momento prima che lei potesse rendersi conto dell’interrogatorio. In tal modo, in genere, si arrivava presto alla verità. «In realtà si è licenziato. E ora viviamo separati». «Separati?» Il suo istinto di poliziotto incominciava ad attivarsi. Ma non sembrava che quel particolare potesse avere qualche re­lazione con Yayoi. «Posso chiedere perché?» «Perché, perché! Semplicemente perché non funzionava più!» Kuniko afferrò la borsetta e tirò fuori un pacchetto di sigarette.I seni, evidentemente non sostenuti dal reggipetto, le dondolavano sotto la maglietta. Imai si guardò intorno e vide il letto in disordine. Guardando Kuniko ficcarsi la siga­retta in un angolo della bocca, pensò che qualsiasi uomo si sarebbe sentito depresso all’idea di vivere con un tipo di quel genere. «Mi hanno detto che è amica della signora Yamamoto, perciò vorrei farle alcune domande». «Non siamo così amiche», rispose lei senza guardarlo. «Davvero? Eppure anche in fabbrica lavorate sempre in­sieme, voi quattro». «Sì, in fabbrica. Ma lei ha un po’ la puzza sotto il naso, ha un bel faccino ed è vanitosa. No, i nostri rapporti non so­no poi così buoni». «Ah, capisco». Kuniko era invidiosa e maligna. Ma era possibile che non sentisse un po’ di compassione per Yayoi? Che era pur sempre la moglie della vittima e che ora si tro­vava in una situazione così terribile? Come mai sia Yoshie che Kuniko si ostinavano a dichia­rare di non avere rapporti particolarmente amichevoli con la collega? Questo gli sembrava strano e continuava ad alimen­targli qualche dubbio. Da quanto aveva appreso allo stabili­mento quelle quattro donne stavano sempre insieme, e an­che dopo il lavoro bevevano insieme il tè e facevano quattro chiacchiere prima di andare a casa. E poi Imai sapeva che di solito, in quei casi, la gente mostrava una compassione per­sino esagerata per la persona coinvolta nella disgrazia. «E quindi al di fuori dell’orario di lavoro non aveva a che fare con la signora Yamamoto?» «No, praticamente mai», rispose seccamente Kuniko, poi si alzò, andò al frigorifero, prese una bottiglia di acqua mi­nerale e si riempì il bicchiere. «Ne vuole anche lei? Comunque è acqua di rubinetto». «No, grazie». Quando Kuniko aveva aperto il frigorifero Imai vi aveva lanciato una rapida occhiata. Era perfettamente vuoto, come il frigorifero di uno scapolo. Non c’erano avanzi di cibo né di bevande, neppure una lattina d’aranciata. Dunque in quella casa non si cucinava? La cosa gli sembrava strana. Lo stupiva anche il fatto che Kuniko indossasse abiti e accessori che dovevano essere abbastanza costosi, ma in giro non si ve­deva né un CD né un libro e nel complesso l’appartamento era piuttosto misero. «Lei non cucina?» domandò Imai guardando le scatole vuote delle colazioni impilate in un angolo della stanza. «No, per carità, detesto cucinare!» sbottò Kuniko facen­do una smorfia, ma già un secondo più tardi sembrò vergo­gnarsi di quanto aveva detto. «Ah, così? Bene, signora Jonouchi, torniamo al caso che ci interessa: lei la notte di mercoledì

non è andata a lavorare. Potrei sapere perché?» «Mercoledì?» domandò Kuniko spaventata, portandosi al petto la mano grassoccia. «La notte precedente, ossia la notte di martedì, il marito della signora Yamamoto è sparito senza lasciare tracce, e ve­nerdì è stato ritrovato a pezzi. Lei, signora Jonouchi, merco­ledì notte era assente dal lavoro. Io, secondo la routine, sono costretto a chiederle perché». Kuniko annaspò in cerca di una spiegazione: «Non stavo bene. Sì, in effetti avevo mal di stomaco e non ce l’ho fatta ad andare a lavorare». Dopo averle concesso una breve pausa di riflessione, Imai continuò: «La signora Yamamoto ha una relazione con un al­tro uomo?» «Chissà!» sospirò Kuniko stringendosi nelle spalle. «Non so, ma credo di no». «E la signora Katori?» «La signora Katori?» ripeté Kuniko in falsetto. Evidente­mente non si aspettava di udire quel nome. «Sì, Masako Katori». «Come se quella potesse avere un amante! Di lei uno può avere soltanto paura!» «Paura?» «Be’, insomma…» Kuniko tacque, come se non riuscisse a trovare altre parole per definire quello stato d’animo. An­che Imai rimase in silenzio, avendo intuito che la donna ave­va detto la verità. Ma perché Masako incuteva timore? Il po­liziotto inclinò la testa perplesso. «A ogni modo non starò ancora tanto a lungo in quella fabbrica. L’omicidio, il cadavere fatto a pezzi… a uno viene paura di essere perseguitato anche lui dalla sfortuna!» proseguì Kuniko cercando di cambiare discorso. Imai annuì. «Già, capisco. Allora sta cercando un altro lavoro?» «Sì, ma questa volta vorrei assolutamente lavorare di gior­no, e non in un posto così orrendo, dove fra l’altro si aggira quel maniaco… È anche troppo pericoloso, non crede?» «Maniaco?» Era la prima volta che ne sentiva parlare. Imai aprì l’agendina. «E si aggira intorno allo stabilimento?» «Si aggira! Come se si trattasse di un fantasma… che or­rore!» Cambiato argomento, Kuniko sembrava di nuovo nel proprio elemento. «Non credo che abbia nulla a che fare con il delitto, a ogni modo mi dica esattamente quello che sa». E Kuniko incominciò a raccontare in ogni dettaglio tut­to quello che sapeva del maniaco che aveva incominciato a presentarsi all’inizio di aprile. Mentre prendeva nota, Imai continuava a riflettere sui disagi del lavoro notturno per del­le donne. Quando uscì dal condominio, i lunghi raggi del sole del pomeriggio ardevano inesorabili sull’asfalto del posteggio. Pensando alla fatica che lo aspettava – camminare nella ca­nicola fino alla fermata dell’autobus e stare lì ad aspettarlo – Imai sospirò. Per caso il suo sguardo scivolò sulle automobi­li di tutti i colori parcheggiate sulle piazzole, tra le quali spic­cava una Golf cabriolet verde scuro, la più appariscente. Chissà di chi era? Imai cercò di immaginarsi il proprieta­rio, ma mai gli sarebbe venuto in mente che quella era l’a­matissima auto di Kuniko, la stessa che viveva in quell’appartamento miserabile. Tutto da ricominciare. Quel giorno avrebbe dovuto in­terrogare ancora i cinque operai che avevano fatto il turno di riposo martedì notte, ma decise di rimandare all’indomani. Dal momento, però, che la sua teoria si era rivelata priva di fondamento, gli sarebbe toccato continuare a seguire le in­dagini di Kinugasa e sottostare ai suoi ordini. Imai, di cattivo umore, continuò a camminare sotto il so­le cocente. Dopo pochi passi incominciò a sudare e la cami­cia gli si incollò alla schiena.

6. Kazuo Miyamori, disteso bocconi sul letto a castello, stava studiando il giapponese. Aveva aggiunto altre prove a quella che si era assegnato con i giorni di fatica nello stabilimento delle colazioni. La prima era riuscire a farsi perdonare completamente da Masako, la seconda – necessaria per superare la prima – era quella di imparare perfettamente il giapponese. In queste due nuove prove si celava un dolce piacere che non aveva niente a che fare con lo stupido compito di trasportare il ri­so per il nastro della catena di montaggio. Watashi no namae wa Miyamori Kazuo desu. Il mio nome è Kazuo Miyamori. Shumi wa sakka o miru koto desu. Il mio hobby è guarda­re le partite di calcio. Anata wa sakka ga suki desu ka. Ti piace il calcio? Anata no suki na tabemono wa nan desu ka. Quali sono i tuoi cibi preferiti? Watashi wa anata ga suki desu. Tu mi piaci. Mentre ripeteva più volte a voce bassa le frasi, Kazuo guardò fuori dalla finestra. Dal suo letto se ne vedeva soltan­to la metà superiore. Nel tramonto infuocato le nuvole brillavano di un sontuoso color arancio, mentre il cielo si im­mergeva lentamente nel blu cupo della notte. Giusto, affret­tati a calare, notte, implorò Kazuo. Così avrebbe potuto in­contrare Masako allo stabilimento. Da quel giorno non le aveva più parlato, perché aveva paura di non ottenere risposta, e questo lo faceva star male. Ma aveva conservato con cura l’oggetto che quella notte lei aveva gettato nel canale e che lui aveva ripescato. Da sotto il cuscino tirò fuori una chiave color argento e la strinse tra le dita. Al calore della mano il metallo freddo si intiepidì, esattamente come era successo ai suoi sentimenti nei confronti di Masako. Kazuo era felice. I suoi compagni lo avrebbero sicuramente preso in giro se si fosse confidato con loro, e avrebbero detto che lei era trop­po vecchia per lui. Oppure gli avrebbero fatto la predica perché, se proprio voleva un’amica, era meglio che si scegliesse una brasiliana. Ma non c’era bisogno che capissero. Quella donna, anche se era più vecchia, aveva qualcosa che solo lui poteva cogliere. E anche in lui c’era sicuramente qualcosa che soltanto lei sarebbe stata in grado di comprendere. Se so­lo si fossero conosciuti meglio, presto si sarebbero accorti che erano molto simili. Era quella chiave che glielo prometteva. Kazuo la infilò nella catenella d’argento che portava al collo. Era una chiave piuttosto comune e Masako stessa non si sarebbe accorta che si trattava proprio di quella che aveva buttato via. Kazuo, che aveva venticinque anni, si comporta­va come un adolescente al primo amore – era fuori di sé dal­la felicità. Non avrebbe mai ammesso di agire così per sfug­gire alla deprimente freddezza che aveva trovato nella patria di suo padre. Anche in Brasile incontrare una donna come Masako sarebbe stato un raro colpo di fortuna – questi era­no i suoi pensieri. Il giorno prima, all’alba, era andato a perlustrare il tom­bino. Gli operai brasiliani, diversamente dai giapponesi, non lavoravano part-time e rimanevano in fabbrica fino alle sei. Dalle sei alle nove, l’ora in cui iniziava il turno di giorno, vi era un intervallo, e lo stabilimento si svuotava. Kazuo aveva approfittato di quelle ore per esaminare il tombino davanti alla fabbrica dismessa. Ricordava con sufficiente precisione il punto in cui Ma­sako si era fermata e aveva buttato via qualcosa. Era curioso di sapere che cosa fosse. Poiché cadendo aveva provocato un suono metallico, poteva sperare che l’oggetto non fosse stato trascinato lontano dalla corrente. Aveva aspettato che alcune persone, impiegati e studenti che si affrettavano verso la stazione, uscissero di vista e poi, con tutte le sue forze, aveva sollevato e tirato da parte il co­perchio di cemento. Il riflesso del sole nascente aveva fatto ri­splendere per un attimo la superficie dell’acqua torbida, che mai prima di allora aveva visto la luce. Kazuo aveva scrutato sul fondo e si era accorto che l’acqua, sporca e nera, era tutta­via meno profonda di quanto avesse immaginato. Rincuora­to era entrato con le

scarpe nel canale, affondando fino alle caviglie nell’acqua puzzolente. Il fango nero gli era schizzato sui jeans e si era rovinato le scarpe, ma tutto questo non ave­va importanza perché, sotto una bottiglia di plastica vuota, aveva visto la chiave attaccata a un portachiavi di pelle nera. Kazuo aveva immerso la mano nell’acqua tiepida e aveva raccolto il portachiavi. La pelle agli angoli era logora e bian­castra – si vedeva che era stato molto usato. Vi era appesa sol­tanto una chiave color argento e l’aveva osservata alla luce: probabilmente si trattava della chiave di una porta di casa. Si era domandato perché l’avesse buttata via, ma poi era pre­valsa la gioia di avere in mano qualcosa di Masako. Aveva tolto la chiave dal portachiavi, che era rimasto troppo a lun­go nel fango, e se l’era infilata in tasca. Quella sera Kazuo si recò allo stabilimento più presto del solito e rimase in attesa di Masako gironzolando davanti al­l’ingresso del piano superiore. In realtà avrebbe voluto aspet­tarla vicino alla fabbrica dismessa, per vederla arrivare dal posteggio, ma non voleva più spaventarla. No, non era esat­to, era lui che aveva paura. Kazuo sorrise amaramente den­tro di sé. Quello che più temeva in assoluto era che Masako lo detestasse ancora di più. Come per caso, si avvicinò a Komada fingendo di voler guardare qualcosa sull’orologio marcatempo vicino agli uffi­ci, e tenne d’occhio l’ingresso. Finalmente, puntuale, appar­ve l’alta e snella figura di Masako. Depose la borsa nera sul­la moquette rossa e si tolse velocemente le scarpe da ginna­stica, guardando di sfuggita in direzione di Kazuo. Come al solito il suo sguardo lo oltrepassò, fissandosi sulla parete alle sue spalle. Eppure Kazuo si sentì riempire da una gioia pura, primitiva, come se avesse visto sorgere il sole. Masako salutò Komada, si voltò e in silenzio aspettò che finisse di passarle il rullo sulla schiena. Indossava un paio di jeans e una polo verde troppo grande. Teneva la borsa in mano. Kazuo la guardò di nascosto dalla testa ai piedi, tratte­nendo il respiro per controllare l’emozione che lo coglieva ogni volta che la vedeva. Si vestiva come un ragazzo, ma Ka­zuo era rapito dal suo viso e dalla sua persona, così sobria ed essenziale. Masako gli passò davanti. Kazuo si fece coraggio e la sa­lutò: «Buon mattino». «Buon mattino», rispose Masako sorpresa e si diresse ver­so il salone. Kazuo ringraziò tacitamente la chiave che aveva appeso al collo e la strinse di nascosto. Era felice che Masako avesse ricambiato il saluto. Come se avesse atteso la fine del­la cerimonia, qualcuno spalancò la porta dell’ufficio. «Ah, signor Miyamori, è arrivato al momento giusto! Può venire un attimo?» Era il direttore dello stabilimento, un giapponese. Di so­lito a quell’ora in ufficio non c’era nessuno, a parte un sor­vegliante anziano, e perciò era strano che il direttore fosse ancora lì. Ma quando Kazuo, come gli era stato richiesto, en­trò in ufficio lo aspettava un’altra sorpresa: c’era anche un in­terprete brasiliano. «Che cosa c’è?» «La polizia vuole farle un paio di domande. Può tornare qui a mezzanotte?» Quando l’interprete ebbe finito di tradurre, il direttore si girò verso il fondo della stanza dove, nell’angolo con le pol­troncine ricoperte di plastica, un uomo alto e magro, evidentemente un agente, stava interrogando un operaio giap­ponese. «La polizia?» «Sì. Quello lì». «Vuole chiedere qualcosa a me?» «Sì, a te». Il cuore gli si fermò nel petto. Masako doveva averlo de­nunciato come maniaco. Si sentì tradito e vide nero. In ef­fetti era stato davvero prepotente da parte sua chiederle di non riferire niente alla polizia. Però mai avrebbe potuto cre­dere che lei gli avesse addirittura mentito. Era dunque una cosa così stupida pensare di potere ottenere il suo perdono?

«…bene, sarò qui», rispose in portoghese e ritornò de­presso nel salone. Davanti al distributore automatico di be­vande accanto all’entrata Masako stava fumando, da sola, una sigaretta. Non si era ancora cambiata. Non c’era nessu­no con cui lei potesse parlare, né l’operaia più vecchia ed esperta che tutti chiamavano maestra, né la grassa Kuniko. Da quando Yayoi, quella più bella, non veniva più a lavora­re, Masako era in qualche modo cambiata, sembrava che in­torno a lei aleggiasse un’atmosfera di rifiuto nei confronti del mondo intero. Tuttavia Kazuo, con voce tremante di rabbia, la apostrofò: «Masako-san!» Lei si girò. Kazuo la fissò negli occhi e nel suo giappone­se storpiato chiese di brutto: «Hai tu raccontato?!» «Che cosa?» rispose stupita Masako incrociando le brac­cia davanti al petto e guardandolo diritto in faccia. «Poli-sia, è venuta». «La polizia? Perché, di che cosa sta parlando?» «Tu promesso, no?» Con questo Kazuo, che pensava di avere detto tutto, rimase nervoso a guardarla, ma Masako, senza replicare, si limitò a serrare le labbra e a fissarlo a sua volta con fierezza. Il ragazzo, deluso, curvò le spalle ed entrò nello spogliatoio. Quello che lo turbava, più che la paura di essere arrestato e licenziato, era il pensiero di essere stato tra­dito dalla sua amata Masako. Doveva cambiarsi in fretta per­ché era quasi mezzanotte, l’ora di inizio del turno, e doveva essere interrogato. Cercò la gruccia con i suoi abiti da lavoro e si cambiò. All’interno dello stabilimento era vietato porta­re gioielli di qualsiasi tipo, per cui si tolse dal collo la cateni­na con la chiave e la sistemò con cura nella tasca dei panta­loni. Quando – con in mano il berretto da cuoco blu che di­stingueva gli operai brasiliani – tornò nel salone, si accorse che Masako era rimasta ferma nello stesso posto e lo guarda­va. Anche lei si era già cambiata ma, forse a causa della fret­ta, dalla cuffia spuntavano alcuni ciuffi di capelli. «Aspetta», disse Masako mentre le passava davanti, e gli mise la mano sul braccio. Kazuo si girò dall’altra parte e pro­seguì diritto verso l’ufficio senza badarle. Se Masako lo aveva tradito la sua prova era finita – aveva fallito, e questo significava che la sua vita non aveva più al­cun valore. Ma mentre andava avanti, dopo avere sentito il tocco di Masako sul braccio, riprese il controllo di se stesso. No, anche quella era una prova, e lui doveva dimostrare di essere all’altezza. Attraverso il tessuto dei pantaloni conti­nuava a sentire il freddo della chiave sulla coscia – sì, ce l’a­veva ancora in tasca. Bussò alla porta dell’ufficio e subito qualcuno aprì. L’in­terprete brasiliano e l’ispettore lo stavano aspettando. Per controllare i battiti del suo cuore afferrò involontariamente la chiave nella tasca e la strinse forte. «Mi chiamo Imai», si presentò l’ispettore mostrandogli la tessera. «Il mio nome è Roberto Kazuo Miyamori». L’ispettore che si chiamava Imai era alto e aveva il mento molto piccolo. Sembrava bonario, ma il suo sguardo era pe­netrante. «Scusi se glielo chiedo, ma ha veramente la cittadinanza giapponese?» «Sì. Mio padre era giapponese e mia madre è brasiliana». «Ah, è per questo che è un bel ragazzo», commentò ri­dendo Imai. Kazuo, che credeva di essere preso in giro a cau­sa della sua origine, non sorrise neppure. «Vorrei farle un paio di domande. Il tempo che perderà con me sarà calcolato tempo di lavoro». «Sì, grazie». Adesso viene il bello, pensò Kazuo nervoso, e si preparò a rispondere. Ma mai si sarebbe aspettato di sentire la do­manda che gli fece l’ispettore: «Conosce la signora Yayoi Ya­mamoto?» Kazuo osservò stupito l’interprete che se ne stava impa­ziente in attesa della risposta. «Sì, la conosco», annuì Kazuo. Non riusciva a capire do­ve Imai volesse andare a parare.

«Allora avrà anche sentito parlare di quello che è succes­so al marito della signora Yamamoto». «Sì, ne parlano tutti». Ma che razza di domanda era? Kazuo incominciava a per­dere la pazienza. Il poliziotto continuò imperterrito: «Ha mai incontrato il signor Yamamoto?» «No, mai». «E non ha mai parlato con la signora Yamamoto?» «Qualche volta la saluto, ma… A proposito di che cosa mi sta interrogando, esattamente?» L’interprete non doveva aver tradotto l’ultima parte della risposta, perché Imai continuò tranquillamente: «La sera di martedì della scorsa settimana lei aveva il turno di riposo, ve­ro? Mi può dire che cosa ha fatto durante il giorno?» «Sono sospettato?» Kazuo era turbato dalla piega che ave­va preso il discorso, ma nello stesso tempo si sentiva traboc­care di rabbia. Lui non c’entrava con quella faccenda. «Niente affatto», si affrettò a precisare l’ispettore sorri­dendo, «stiamo semplicemente indagando sulle conoscenze degli Yamamoto. E perciò interroghiamo tutti quelli che non erano di turno quella notte». Benché non fosse convinto della risposta, Kazuo cercò di ricordare quello che aveva fatto quel giorno: «Ho dormito fi­no a mezzogiorno, poi sono andato a Oizumi e ho passato il resto della giornata nella Brazilian Plaza. Verso le nove sono tornato alla mia camera e sono andato a dormire». «Eppure il suo compagno di stanza dice che quella sera lei non era a casa», constatò il poliziotto consultando l’agenda con espressione perplessa. Kazuo protestò: «Alberto non si è accorto di me perché aveva portato in camera la sua amica, ma io ero a letto e dor­mivo, su questo non c’è alcun dubbio». «E perché non se n’è accorto?» «Dormiamo in un letto a castello, io in quello superiore. Stavo dormendo, per questo non si sono accorti di me». Ka­zuo, che adesso si ricordava bene quella notte, arrossì. «Capisco. Il suo compagno è arrivato in compagnia di una ragazza», ridacchiò l’ispettore. Kazuo, imbarazzato, si guardò intorno nell’ufficio vuoto. Le scrivanie erano allinea­te in tre file, e su ognuna c’era un computer protetto da una fodera di plastica trasparente. Gli tornò in mente che si era ripromesso di studiare informatica, quando fosse arrivato in Giappone. E invece adesso portava il riso in uno stabilimen­to di colazioni! All’improvviso tutto questo gli sembrò incre­dibilmente stupido. «E che cosa ha fatto durante la notte? È rimasto in ca­mera?» Kazuo non sapeva cosa dire. Quella notte aveva assalito Masako, e per il rimorso e la vergogna aveva camminato nei dintorni fino al mattino. Verso l’alba aveva cominciato a pio­vere ed era tornato a prendere l’ombrello, poi era uscito di nuovo e aveva aspettato Masako. Alberto, il compagno di stanza, non ne poteva sapere niente perché era andato a lavorare. «Ho passeggiato». «Tutta la notte? Dov’è andato?» «Qui, intorno allo stabilimento». «Perché?» «Senza un motivo preciso. Non mi andava di rimanere in camera». L’ispettore lo guardò: nei suoi occhi si intuiva un po’ di compassione. «Quanti anni ha?» «Venticinque». Quell’Imai doveva avere intuito qualcosa, perché annuì e rimase qualche istante in silenzio a riflettere guardando l’a­genda. «Posso andare?» domandò Kazuo, incapace di tollerare ol­tre quel silenzio, ma l’ispettore gli fece cenno di rimanere. «Qualcuno mi ha detto che questi luoghi sono frequen­tati da un maniaco, ne ha sentito parlare

anche lei?» Infine la domanda tanto temuta era arrivata. Kazuo strin­se con forza la chiave nella tasca. «Ne ho sentito parlare… ma chi è questo qualcuno?» «Penso di non avere difficoltà a dirglielo», ridacchiò Imai, «è stata la signora Jonouchi, una delle operaie part-time». Kazuo lasciò andare la chiave. Aveva le mani sudate. Ma era felice che non si trattasse di Masako. Avrebbe dovuto su­bito chiederle di nuovo scusa. «Non ha nulla a che vedere con il delitto Yamamoto, ma vorrei sapere se anche fra i brasiliani si parla del maniaco. Chi potrebbe essere, per esempio, o chi ha importunato». «No», rispose fermo Kazuo, dando un’occhiata all’orolo­gio appeso alla parete e mettendosi il berretto blu. Imai rinunciò ad altre domande e lo lasciò andare. Il lavoro alla catena di montaggio era incominciato da un pezzo e in fondo al nastro c’era una montagna di scatole con le colazioni già pronte. Kuniko e la maestra non c’erano e Masako, da sola, distribuiva il riso all’inizio della linea di pro­duzione. Dopo il delitto di cui era rimasto vittima il marito di Yayoi non avevano più avuto occasione di ritrovarsi tutte e quattro. A Kazuo sembrava un fatto strano, ma era felice che Masako non avesse compagnia. Se si fosse sbrigato a cam­biarsi forse sarebbe riuscito a parlare con lei dopo il turno. Erano già passate da un pezzo le sei quando Kazuo fu fi­nalmente libero dal lavoro, perché gli operai brasiliani ave­vano dovuto fermarsi un quarto d’ora in più. Proprio oggi che avrebbe avuto quella bella occasione! Masako probabil­mente era già andata a casa. Deluso Kazuo si lasciò lo stabi­limento alle spalle. Il sole chiaro del mattino tingeva obli­quamente il muro di cinta grigio della fabbrica di automobi­ li. In un così bel mattino d’estate lui era costretto a fare buio in camera e a mettersi a dormire! Depresso, prese dalla tasca posteriore dei pantaloni un berretto nero e se lo mise in te­sta. Quando sollevò lo sguardo restò impietrito dallo spa­vento. Davanti a lui c’era Masako, ferma nel punto in cui lui stesso quella volta era rimasto ad aspettarla sotto la pioggia. «Signor Miyamori», lo chiamò. Era pallida per la stan­chezza. Quasi senza rendersene conto Kazuo tirò fuori da sotto la maglietta la catenina con la chiave. Era grato a quel­la chiave. Masako le diede un’occhiata distratta ma non sem­brò riconoscervi quella di cui si era liberata, perché subito il suo sguardo si spostò sul viso di Kazuo. «Che cosa intendeva dirmi, quando prima mi ha parla­to?» Non sembrava darsi pensiero del fatto che Kazuo capiva soltanto poche frasi in giapponese. Tuttavia in qualche mo­do lui riuscì a capire quello che voleva sapere. «Scusa. Era sbaglio», bisbigliò Kazuo chinando la testa come aveva visto fare ai giapponesi. Con un’espressione non ancora soddisfatta, Masako lo fissò negli occhi neri: «Mi creda, non ho parlato di lei con nessuno». «Sì», annuì Kazuo ripetutamente. «Sicuramente la polizia era qui per Yama-chan e l’omici­dio, non è vero?» disse Masako e s’incamminò verso il par­cheggio. Kazuo la seguì come stregato. Un gruppo di operai e operaie brasiliani usciva dallo stabilimento chiacchierando animatamente. Per timore dei loro sguardi Kazuo rallentò il passo e si tenne a un paio di metri da Masako. Lei non sembrava preoccupata del fatto che lui la seguisse e procedeva ve­loce a testa alta, guardando davanti a sé. Quando i brasiliani voltarono l’angolo diretti al dormito­rio, Kazuo e Masako si trovavano davanti alla fabbrica di-smessa. Il profumo fresco delle erbe lussureggianti aleggiava nell’aria e copriva un po’ il tanfo del canale di scolo. Ma pre­sto la calura estiva si sarebbe impossessata di tutto; in poche ore la strada sarebbe diventata bianca di polvere e le erbe sarebbero appassite esalando un odore

intenso e penetrante. Quando il suo sguardo cadde sul canale, Masako si fermò di botto. Il coperchio di cemento di un tombino era aperto. Era quello che Kazuo aveva rimosso il giorno precedente sen­za rimetterlo a posto. Il ragazzo vide il terrore dipingersi sul volto della donna: che cosa doveva fare? Doveva dirle che era stato lui? Ma non poteva confessare di essere stato così me­schino da ripescare quello che lei aveva buttato via! Kazuo si ficcò le mani nelle tasche posteriori dei jeans e si mise a guardare per terra. Sempre più pallida Masako si avvicinò al tombino e cercò di guardare dentro. Kazuo non riusciva a far altro che assi­stere muto alla scena. Finalmente riuscì a mettere insieme quattro parole, ma erano quelle che ripeteva di solito il so­vrintendente Nakayama, che era sempre di cattivo umore: «Che cosa fai lì?!» Intuì che poteva sembrare un richiamo troppo aspro, ma dal suo limitato vocabolario non emergevano parole più adatte alla circostanza. Masako si voltò, vide prima il suo viso e poi la chiave appesa alla catenina. «È tua quella chiave?» Kazuo annuì lentamente, ma poi scrollò la testa in segno di diniego. Semplicemente non era capace di mentirle. Irri­tata dal suo comportamento ambiguo, Masako aggrottò le sopracciglia. «Non è che hai tirato fuori qualcosa da qui, vero?» Kazuo allargò le braccia e si strinse nelle spalle, non gli ri­maneva che dire la verità: «…sì». «Perché?» Masako gli si avvicinò e rimase ferma davanti a lui. Era alta e gli arrivava all’altezza della bocca. Kazuo esitò di fron­te alla sua selvaggia energia e d’istinto strinse la chiave con entrambe le mani. Non voleva che lei gliela strappasse. «Quando mi hai visto? Tu eri qui nascosto da qualche parte e mi hai spiato?» Masako indicò con un largo gesto del braccio un folto cespuglio di fronte alla fabbrica dismessa. Come se dalle sue dita fossero usciti raggi infuocati, dei co­leotteri volarono via dal cespuglio. Kazuo fu costretto ad am­mettere. «Perché?» «Ti aspettavo». «Perché ti sei comportato così?» «Avevamo promesso, no?» «No, io non ti ho promesso nulla. Ridammela». Masako tese la mano destra e a Kazuo sembrò di sentire il calore che emanava. Ma non voleva ridarle la chiave. La tenne stretta e disse: «No!» Masako si mise le mani sui fianchi e inclinò la testa: «Che cosa vuoi farne, perché vuoi tenertela a tutti i costi?» Perché non capiva? O voleva che glielo dicesse? Che don­na crudele, pensò Kazuo guardandola timidamente. «Dai, dammi la chiave. È importante per me. Mi serve». Comprendeva quasi tutto ciò che diceva, ma non riusci­va a capire. Se la chiave era così importante per lei, non l’a­vrebbe certo buttata via! La voleva indietro solo perché adesso lui l’aveva appesa al collo. «No!» Masako si morse le labbra come se avesse rinunciato. Ri­mase in silenzio pensando a cosa fare. Quando Kazuo vide come lasciava cadere le spalle, le prese una mano. Le mani di Masako erano così esili e fragili che avrebbe potuto tenerle tutte e due in una delle sue. «Tu mi piaci», disse Kazuo e la guardò. Masako lo guardò a sua volta sconcertata: «Perché? Per quello che hai fatto l’altra notte?»

Kazuo avrebbe voluto spiegarle che era convinto che lei potesse capirlo, ma non trovava le parole. Impaziente ripeté ancora una volta la stessa frase, come alle lezioni di giapponese: «Tu mi piaci». Masako sfilò la mano da quella di Kazuo: «Non posso corrispondere i tuoi sentimenti». Lui intuì che quello era un rifiuto e cadde nel pozzo profondo della disperazione. Masako lo lasciò lì, immobile come una statua, e si avviò sulla strada del parcheggio. Ka­zuo voleva seguirla e aveva già messo un piede davanti all’al­tro, ma gli bastò guardarla per capire che lei proprio non lo voleva. Questa consapevolezza lo fece affondare definitiva­mente nel fondo fangoso di quel pozzo. 7 Festività in onore degli antenati che ha luogo tra il 13 e il 16 agosto. Insieme al­la festa del nuovo anno è la più importante festività giapponese (N.d.T.).

7. Il parcheggio dello stabilimento sembrava pianeggiante men­tre in realtà da un lato era in leggera pendenza. Di notte non ci faceva quasi caso, ma al mattino, dopo il turno, talvolta il terreno sotto i piedi le sembrava ripido e insidioso. Masako ebbe una lieve vertigine e si appoggiò con le mani al tetto della Corolla, che durante la notte si era coperto di goccioline di rugiada. Le mani si bagnarono come se le avesse im­merse nell’acqua. Se le asciugò sui jeans. Mai si sarebbe aspettata di sentire quello che le aveva det­to il ragazzo brasiliano! Non erano bugie, questo lo sapeva con certezza. Si ricordò del mattino in cui l’aveva seguita con l’aria sperduta di un cagnolino abbandonato che non sapeva dove andare. Come quel giorno si girò e si guardò intorno, ma Kazuo non si vedeva più. Senza dubbio lo aveva profon­damente ferito. L’aveva spaventata, non tanto perché aveva ripescato la chiave dal canale, ma per la forza dei sentimenti che provava per lei, per la luce abbagliante e le ombre cupe che trapelavano da quelle emozioni. Erano sentimenti di cui al momento non aveva proprio bisogno, con i quali non vo­leva avere assolutamente a che fare. Dunque aveva già can­cellato persino dalla memoria la loro esistenza? Avrebbe po­tuto continuare a vivere così? Di nuovo fu sopraffatta dal senso di sconfinata solitudine del giorno prima. E tutto questo perché aveva oltrepassato un confine, per­ché aveva fatto a pezzi un cadavere e lo aveva buttato via, e perché cercava persino di annullarne il ricordo. Ma ormai non poteva più tornare indietro. Le venne un attacco di nau­sea e vomitò accanto all’auto. Tuttavia, per quanto vomitas­se i conati non cessavano di tormentarla. Si inginocchiò per terra accanto alla macchina e continuò a piangere e a vomi­tare succo gastrico giallo. Si asciugò le lacrime, si pulì la bocca con un fazzoletto di carta e mise in moto. Non si diresse verso casa ma svoltò a si­nistra, imboccando la strada che dalla Shin-Oume-Highway porta al lago Sayama. Ben presto la strada incominciò a iner­picarsi a serpentina sul monte. Era molto presto e non c’era traffico. Cambiò marcia, mise la seconda e proseguì sulla strada deserta. Incontrò soltanto un vecchio su un ciclomo­tore. Arrivò al ponte sul lago. Gli argini in terra marrone che circondavano l’acqua immobile e il paesaggio piatto, alla Di­sneyland, gli conferivano il tipico aspetto irreale dei laghi ar­tificiali. A quella vista Nobuki, da piccolo, si era messo a piangere disperatamente, perché aveva paura che improvvi­samente venisse fuori dall’acqua il mostro che vi abitava. Viene il drago, viene il drago, si era messo a urlare. Aveva na­scosto il viso nel grembo di Masako e non aveva più voluto guardare l’acqua. Il ricordo la fece sorridere. La superficie del lago scintillava alla luce del sole e la ab­bagliò; tutta quella luminosità era eccessiva per i suoi occhi stanchi. Masako li socchiuse e diede uno sguardo veloce al la­go, poi imboccò la strada che portava al villaggio dell’Une­sco e continuò a guidare per qualche chilometro in mezzo al bosco. Finalmente arrivò in vista del luogo impresso nella sua memoria e fermò l’auto sul ciglio della strada. A cinque minuti di cammino da lì, in mezzo al bosco, aveva seppelli­to la testa di Kenji. Scese dall’auto, la chiuse e si inoltrò tra la vegetazione fit­ta. Era perfettamente consapevole del rischio che affrontava, ma non sapeva ancora che cosa voleva fare esattamente: le sue gambe procedevano automaticamente in quella direzio­ne. Dopo qualche centinaio di metri si fermò e guardò il ter­reno sotto un grande albero di keyaki che aveva preso come punto di riferimento. Lì, tra i cespugli, si scorgeva appena una traccia di terra smossa. Non era cambiato nulla. Ma ora che il sole era alto il bosco brulicava di vita – ancor più di dieci giorni prima – e tutto, intorno, sembrava un solo esse­re che emanava il suo intenso respiro profumato. Ormai la testa di Kenji doveva essere decomposta, una massa informe divorata dai vermi della terra. Era un’immagine spietata ma anche un po’ consolatoria. Così almeno aveva offerto quella testa alla vita della montagna.

La luce del sole che trapelava obliquamente attraverso i rami degli alberi le feriva gli occhi. Masako portò una mano alla fronte per ripararsi e rimase a fissare quel punto sul ter­reno per quasi mezz’ora. Pensieri, ricordi, associazioni fluiva­no in lei copiosi come l’acqua da un rubinetto, e dimenticò il trascorrere del tempo. Quel giorno Masako, con la testa di Kenji in un sacchet­to di carta, si era messa a cercare un posto adatto in cui sep­pellirla. La testa era pesante e, benché l’avesse infilata dentro due borse del supermercato, rischiava di rompere il fondo. Inoltre Masako portava con sé anche un badile. Continuan­do ad asciugarsi il sudore dalla fronte con i guanti da lavoro, spostava il sacco da una mano all’altra o se lo infilava sotto il braccio. Così facendo premeva con la parte superiore del braccio il mento di Kenji e le veniva subito la pelle d’oca. Anche ora, al ricordo di quella sensazione, rabbrividì. Le venne in mente un film che aveva visto, Portami la te­sta di Alfredo Garcia. Il protagonista continuava a coprire con cubetti di ghiaccio la testa in decomposizione mentre guida­va una Bluebird attraverso le strade infuocate del Messico. Il volto dell’uomo, stravolto dal furore, era selvaggio, patetico. Dieci giorni prima, quando aveva vagabondato in quei posti, anche lei, di certo, aveva avuto quell’espressione. Era vero, era furiosa. Una furia che non sapeva verso chi indirizzare. Ma di una cosa fu improvvisamente certa: lei quel giorno era proprio furiosa. Lei che contava solo su se stessa, lei che non chiedeva mai aiuto a nessuno. Era forse furiosa con quella parte di sé che l’aveva spinta in quella situazione? Ma la rab­bia l’aveva liberata. In ogni caso quella mattina era avvenuto in lei un cambiamento radicale. Masako uscì dal bosco, raggiunse l’auto e fumò lenta­mente una sigaretta. Non sarebbe più dovuta tornare in quel luogo. Spense il mozzicone, innestò la marcia e fece un cen­no di addio alla testa di Kenji: «Bye-bye!» Quando arrivò a casa Yoshiki e Nobuki erano già usciti. Sul tavolo da pranzo rimanevano le tristi tracce delle loro co­lazioni separate. Masako depose tazze e piattini nel lavello e provò un senso di fastidio. In piedi in mezzo al soggiorno ri­mase qualche istante a meditare se non le convenisse piutto­sto lasciare tutto com’era e andare subito a letto. Al momento non aveva nulla da fare e da pensare, era so­lo stanca morta per il turno e il suo corpo reclamava il dirit­to a una pausa. All’improvviso pensò a Kazuo. Che cosa stava facendo? Forse si stava agitando nel letto, incapace di ad­dormentarsi nonostante l’oscurità della camera. O forse con­tinuava a camminare all’ombra dell’infinito muro di cinta grigio della fabbrica di automobili. Pensando alla sua figura solitaria Masako provò per la prima volta un sentimento prossimo alla solidarietà. Gli avrebbe lasciato in dono quella chiave. Squillò il telefono. Erano passate da poco le otto del mat­tino. Non aveva nessuna voglia di rispondere. Cercò di igno­rare il suono, prese una sigaretta e se l’accese. Ma il telefono non smetteva di squillare. «Masako-san». Era Yayoi. «Buongiorno, cosa c’è?» «Ti ho telefonato poco fa ma non eri ancora rientrata. Oggi sei in ritardo». «Scusa. Dovevo andare in un posto». Yayoi non le chiese dove. Invece le domandò trafelata: «Hai letto il giornale del mattino?» «Non ancora, perché?» Masako guardò il giornale sul ta­volo. Yoshiki aveva l’abitudine di ripiegarlo accuratamente dopo averlo letto. «Allora fallo subito. Ti stupirai». «Che è successo?» «Leggi prima. Io aspetto», la incitò Yayoi con voce gaia ed eccitata. Masako appoggiò la cornetta e sfogliò il giornale. In mez­zo alla pagina dedicata alla cronaca

nera c’era un articolo dal titolo Nuovi sviluppi nel caso del cadavere del parco di Koga­nei. Masako scorse l’articolo e apprese che i sospetti conver­gevano sul proprietario di una sala da gioco in cui Kenji si era recato quella notte. L’uomo era stato arrestato per altri reati e si trovava ora in carcere. Masako ebbe quasi paura di fronte a tanta fortuna. Tenendo il giornale ancora in mano riprese la cornetta e disse: «Ho letto». «Be’, cosa dici? Abbiamo avuto una fortuna pazzesca!» «Non si può ancora dire», rispose cautamente Masako. «In ogni caso sono rimasta di stucco – troppo bello per essere vero! Ma una cosa è certa, c’è stato un litigio. Io lo sa­pevo». «Come?» Evidentemente non c’era nessuno accanto a lei, perché Yayoi chiacchierava tranquillamente: «Quando è tornato a casa aveva un labbro ferito e la camicia un po’ sporca, perciò ho pensato subito che avesse fatto a pugni con qualcuno». «Io però non me ne sono accorta». Yayoi parlava di Kenji ancora vivo e Masako invece del cadavere. Ma Yayoi, che a quanto sembrava non aveva ascol­tato, continuò in tono sognante: «Cosa dici, lo condanne­ranno a morte?» «Sicuramente no. Probabilmente verrà rilasciato per in­sufficienza di prove. Subito». «Peccato!» «Ma che cosa dici!» la rimproverò Masako. Yayoi protestò: «In fondo ho le mie ragioni: Kenji aveva perso la testa per una donna che lavora nel suo locale!» «E perciò lui è complice e si merita la stessa punizione, è questo che vuoi dire?» «No, non dico questo, ma comunque mi fa venire i ner­vi!» «Perché tuo marito tutto a un tratto aveva perso la testa per quella donna?» azzardò Masako senza attendersi una ri­sposta, e schiacciò il mozzicone della sigaretta. Forse la do­manda aveva qualcosa a che fare con Kazuo e con quello che le aveva detto. «Probabilmente perché la vita con me era diventata trop­po noiosa per lui». La collera di Yayoi non sembrava essersi placata. «Ormai non mi trovava più abbastanza affascinante!» «Può darsi». Masako avrebbe avuto una gran voglia di chiederlo a Kenji, se fosse stato vivo. Se esisteva un motivo per cui la gente si innamorava, lei voleva a tutti i costi cono­scerlo. «Oppure solo per vendicarsi». «Vendicarsi? E perché mai? Tu sei una moglie e una ma­dre esemplare!» Yayoi tacque, come se stesse riflettendo. Infine rispose: «È proprio questo che detestava in me. Ne sono sicura». «Perché?» «Una moglie così dà sicurezza, ma è noiosa». «Perché?» «Come faccio a saperlo? Io non sono Kenji», replicò Yayoi con insolita veemenza e Masako annuì: «Sì, hai ragione». «Sei così strana oggi, Masako, come se non fossi del tut­to in te». «Sono solo stanca». «Ah già, non ci ho pensato proprio, dal momento che adesso di notte posso dormire», si scusò Yayoi. « Come sta la maestra?» «Oggi non è venuta a lavorare. Neanche Kuniko. Credo che la faccenda le abbia piuttosto sconvolte». «Come, quale faccenda?» Masako tacque. «Ah sì! Scusa, è per colpa mia… A proposito, prima che me ne dimentichi. L’assicurazione

pagherà l’intero premio della polizza stipulata da Kenji. Quindi presto vi potrò dare il denaro». «Quanto ci vuoi dare?» domandò Masako. «Un milione per ciascuna. È troppo poco?» «Anche troppo», rispose con decisione Masako. «Cinque­centomila sono più che sufficienti, e per Kuniko sono anche troppi». «Ma se la prenderanno a male. In fondo mi daranno cin­quanta milioni!» «Non c’è bisogno che sappiano dell’assicurazione. Dai lo­ro il denaro e basta. Invece che ne diresti di dare a me due milioni?» Alla richiesta di Masako, che aveva sempre detto di non volere soldi, Yayoi sembrò rimanere perplessa: «Sì, va bene… ma com’è che sei così cambiata?» «Vorrei avere un piccolo capitale, in caso di bisogno. Me li dai, vero? Per favore!» «Sì, certamente. In fondo ti sarò sempre debitrice». «Grazie». Dopo riattaccato Masako non si sentiva più così depres­sa e riprese il suo spirito bellicoso. Il proprietario della casa da gioco era il principale indiziato! Non sapeva fino a che punto la polizia prendesse la cosa sul serio, ma almeno per il momento loro quattro erano fuori pericolo. O forse era una visione troppo ottimistica? Quasi immediatamente Masako, rassicurata e sollevata, si lasciò vincere dal sonno.

8. Agosto stava per finire, un tifone aveva spazzato il paese e fi­nalmente incominciava a soffiare il primo, fresco vento au­tunnale quando Satake venne rilasciato per scadenza dei ter­mini. Lentamente salì le scale dell’edificio che ospitava i suoi locali. Sul pianerottolo erano sparsi i volantini pubblicitari di un salone di massaggi. Satake si curvò a raccoglierli, li accar­tocciò e se li ficcò nelle tasche della giacca nera. Ai tempi in cui il Mika e il Parco erano ancora fiorenti non si sarebbe mai vista una cosa del genere. Era bastato chiudere i due lo­cali perché l’edificio sembrasse quasi abbandonato. Satake si sentì osservato e alzò gli occhi. Il barista di un locale al primo piano lo stava fissando spaventato. Era quel­lo che aveva dichiarato alla polizia di averlo visto fare a pu­gni con Yamamoto. Le mani ancora infilate nelle tasche del­la giacca, Satake gli lanciò uno sguardo astioso. Il barista chiuse in fretta la porta a vetri viola scuro. Evi­dentemente non aveva messo in conto che sarebbe stato ri­messo in libertà così presto. Continuando a sentire lo sguar­do dell’uomo su di sé, Satake osservò con tristezza i cavi elet­trici dell’insegna del Mika, che erano stati strappati e ora gia­cevano arrotolati in un angolo. Sulla porta era affisso un car­tello con la scritta “Chiuso per restauri”. Satake era stato arrestato con le accuse di organizzazione illegale di gioco d’azzardo e favoreggiamento della prostitu­zione, ma di queste era rimasta in piedi soltanto la prima. Erano poi stati costretti a rilasciarlo perché non erano riusci­ti a trovare un solo indizio della sua complicità nel delitto dell’uomo fatto a pezzi, che era in realtà la vera ragione del­la sua cattura. Satake, che sapeva molto bene che con la po­lizia non c’era da scherzare, si considerava fortunato. Tutta­via le perdite subite erano considerevoli. Il suo regno, che era riuscito a mettere in piedi in dieci anni di dure fatiche, ora era ridotto a un mucchio di rovine sul quale incombeva una montagna di debiti. La cosa che lo faceva soffrire di più, però, era il fatto che ormai tutti conoscevano il suo passato e aveva anche perso la sua credibilità. Questo gli avrebbe praticamente impedito di rifarsi una posizione. Si calmò e salì la scala esterna fino al secondo piano, per­ché aveva un appuntamento al Parco con Kunimatsu. Ma il locale, che lui considerava il suo tesoro, non esisteva più. Rimaneva la costosa porta di legno massiccio, sopra alla quale era affissa un’insegna con la scritta “Dong Feng”, il nome della sala da majong che ne aveva preso il posto. Satake aprì timidamente la porta del locale che ormai apparteneva a un altro. Kunimatsu era solo. «Salve». «Satake-san. Sono contento di vederla». Dentro era piuttosto buio. Soltanto il tavolo del majong era illuminato, come se vi fosse puntato uno spot. Kunimat­su sollevò la testa e gli sorrise. Sembrava un po’ dimagrito e gli occhi erano segnati da profonde occhiaie, ma poteva es­sere anche l’effetto dell’illuminazione. «È passato un bel po’ di tempo». «Già, e lei ne ha passate delle belle», salutò Kunimatsu al­zandosi a metà dalla sedia. «E così sei tornato alle tessere, eh, Kunimatsu?» com­mentò istintivamente Satake. La prima volta si erano cono­sciuti in una sala di majong della Ginza. A quell’epoca Ku­nimatsu, che non aveva ancora trent’anni, faceva il giocatore professionista, il buttafuori e il galoppino per quel locale e passava lì praticamente tutto il santo giorno. Satake era sta­to colpito nel vedere come Kunimatsu, con la sua aria da bra­vo ragazzo, si trasformasse in un giocatore incallito non ap­pena si sedeva a un tavolo di majong. Così giovane e già co­sì esperto, aveva pensato Satake pieno di ammirazione, e quando aveva deciso di aprire la sala da gioco, per prima co­sa aveva voluto parlare con lui. «Ormai il majong non è più di moda. Adesso i ragazzi si divertono a giocare col computer», disse Kunimatsu cospar­gendo di talco le tessere allineate davanti a lui. Vi erano sei tavoli,

probabilmente presi a nolo, ma tutti, a parte quello a cui era seduto Kunimatsu, erano coperti da teli di cotone bianco – sembrava un funerale. «Può essere». Satake si guardò intorno e ricordò con no­stalgia che soltanto un mese prima il locale era affollato e i clienti facevano la fila per potersi sedere al grande tavolo del baccarat. «E perciò fra non molto anch’io sarò senza lavoro», rise Kunimatsu premendo il coperchio sulla scatola del talco. Quando rideva le piccole rughe intorno agli occhi si accen­tuavano. «Perché?» «Pare che abbiano deciso di togliere i tavoli di majong e di trasformarlo in un karaoke-bar». «Karaoke? Possibile che ormai solo il karaoke faccia gua­dagnare?» Anche al Mika c’era stato un impianto per il ka­raoke, ma Satake detestava le canzonette e non gli era mai piaciuta l’idea di esibirsi davanti a tutti. «A quanto pare al momento gli affari vanno male ovun­que». «Ma con il baccarat facevamo dei bei soldi». «Questo è proprio vero». Kunimatsu annuì tristemente. Quindi guardò per la prima volta Satake e aggiunse: «Lei è un po’ dimagrito, vero?» Nei suoi occhi si indovinava un velo di paura. Ormai tut­ti, nel giro di Satake, avevano saputo che, un tempo, aveva scontato una condanna per l’omicidio di una donna, e che questo era il motivo per cui ora si indagava su di lui. In que­ste occasioni il mondo diventa crudele: sicuramente qualcu­no lo avrebbe costretto a saldare subito tutti i debiti, oppure non avrebbe trovato nessuno disposto ad affittargli dei loca­li e così via. Kunimatsu non avrebbe fatto eccezione, pensò Satake. Ormai non aveva più fiducia in nessuno, tuttavia ri­spose con gentilezza: «Dimagrito? Può darsi. Là non riuscivo a dormire». In effetti la sua vita in carcere era stata una continua bat­taglia contro l’insonnia. «Posso immaginarlo, deve essere stato terribile là dentro!» Anche Kunimatsu era stato arrestato con l’accusa di or­ganizzazione di gioco d’azzardo, ma lo avevano subito lascia­to andare. In seguito lo avevano convocato diverse volte in questura per interrogarlo a proposito del cadavere fatto a pezzi. Poteva dunque immaginare le condizioni in cui si era trovato Satake. «Mi dispiace di aver procurato guai anche a lei». «Non importa. È stata una lezione di vita. Anche se or­mai forse è troppo tardi per prendere lezioni», concluse Ku­nimatsu giocherellando con le tessere del majong. Le rove­sciava con piccoli movimenti precisi, le metteva in ordine e poi, iniziando dall’alto, le scopriva una alla volta. Continuando a guardarlo Satake si accese una sigaretta. In carcere aveva dovuto rinunciare completamente al fumo, e ora era una sensazione meravigliosa sentirlo penetrare nei polmoni. Esattamente quello era il gusto della libertà, pen­sò, e aspirò profondamente un’altra volta. Il fumo era il suo unico vizio. «Ma devo dire che mi ha piuttosto stupito il fatto che quel disgraziato sia stato fatto a pezzi». Kunimatsu diede un rapido sguardo a Satake. «Quando uno è sfortunato non può sperare che la sua sorte cambi!» «Come l’aveva chiamato? Un giocatore senza speranza, o qualcosa del genere», commentò ridendo Kunimatsu. «Ah, che dannata sfortuna!» «Si riferisce a Yamamoto?» «Macché, a me naturalmente!» Kunimatsu annuì, ma era difficile capire fino a che pun­to credesse ancora a Satake. Probabilmente aveva qualche so­spetto che l’assassino fosse proprio lui ma, al contrario delle hostess, non l’aveva ancora abbandonato semplicemente per­ché non conosceva altro mestiere che il gioco d’azzardo.

«Però è un peccato per il Mika. Era il locale più redditi­zio di tutta Kabuki-cho». «Sì, ma ormai non c’è più niente da fare». Mentre era in prigione Satake aveva ordinato di chiudere provvisoriamente il Mika per ferie, ma quasi tutte le hostess – per la maggior parte ragazze cinesi entrate in Giappone con il visto di studio – per paura della polizia erano sparite in un baleno. Lì-huá, la mama-san, che era sospettata di avere rap­porti con la mafia di Taiwan, era rientrata temporaneamen­te nel suo paese. Chén, il direttore, era scomparso; probabil­mente aveva trovato un altro lavoro. Anna aveva accettato l’offerta di un locale che da tempo le aveva messo gli occhi addosso e le hostess che non erano rimpatriate per problemi con il visto, erano, come Anna, passate alla concorrenza. A Kabuki-cho non ci si poteva aspettare niente di diverso. Quando qualcuno aveva successo tutti accorrevano a sciami, come le api sui fiori più belli, ma al minimo segnale di diffi­ coltà gli stessi scappavano come topi dalla nave che affonda. Ma Satake era convinto che il fatto che il suo passato fosse venuto a galla avesse accelerato ancora di più quel processo. «Ma lei, Satake-san, ha intenzione di ricominciare, vero?» Satake alzò lo sguardo al soffitto. Era ancora appeso il lampadario scelto e pagato da lui. Ma le luci erano spente. «Non vorrà mica darsi per vinto?! Vuole dire che non ci sarà un New Mika?» Kunimatsu si guardò le mani bianche di talco. «Sì, voglio smettere», disse Satake, «ho deciso di vendere tutto». Kunimatsu lo guardò stupefatto: «Ma perché, insomma, è un peccato troppo grande!» «Perché ho in mente qualcos’altro». «Di che si tratta? L’aiuterò in qualsiasi attività». Kuni­matsu sfregò le lunghe dita per distribuire la polvere sulle tes­sere. Senza rispondere Satake si massaggiò la nuca con la mano. Dopo tutte le notti insonni trascorse in prigione la ten­sione accumulata nei muscoli del collo sembrava che non si volesse più allentare. Se non faceva qualcosa, ben presto avrebbe potuto trasformarsi in una dolorosa emicrania. Kunimatsu diventò impaziente: «Che cosa ha in mente?» «Cercare l’assassino di Yamamoto». Kunimatsu, pensando che fosse uno scherzo, ridacchiò: «Buona idea, giocare un po’ a Sherlock Holmes, vuole dire?» «Kunimatsu, parlo sul serio», rispose Satake continuando a massaggiarsi la nuca. Kunimatsu inclinò la testa dubbioso: «Ma anche se trova l’assassino, che cosa ne vuole fare?» «Mah, vedremo. Ci penserò al momento giusto», mor­morò Satake. In realtà sapeva già la risposta, ma natural­mente non voleva rivelarla. «Ma ci riuscirà? Ha già qualche sospetto?» Kunimatsu sembrava sulle spine. Scrutò Satake dalla testa ai piedi. «Sì, in primo luogo la moglie». «Come…?» Questo gli sembrava assolutamente impensa­bile. Si passò la lingua sulle labbra. «E mi raccomando, Kunimatsu, non ne parlare con nes­suno». «No, naturalmente no», rispose Kunimatsu e distolse ra­pidamente lo sguardo dagli occhi di Satake, come se fosse riuscito per la prima volta a scorgere la tenebra della sua ani­ma. Satake lo salutò e uscì nella Kuyakusho. Di giorno la ca­lura era ancora insopportabile, ma verso sera si alzava una brezza fresca. Satake sospirò e si diresse verso un edificio nuovo di zecca – una costruzione in vetro e acciaio – non lontano dal Mika. Le numerose insegne variopinte segnala­vano la presenza nel palazzo di tanti piccoli night-club. Sa­take guardò a che piano fosse il Mato, prese l’ascensore, spin­se una porta nera e fu subito accolto dal direttore in tenuta da sera: «Benvenuto, si

accomodi!» L’uomo guardò in volto Satake e sgranò gli occhi per lo stupore. Era Chén. «Ah, allora è qui che ti nascondi!» Chén fece un sorriso di circostanza, che però non era più ossequioso come quello di prima, e disse: «Satake-san! È tan­to che non la vediamo. Oggi è qui come cliente?» «Ovvio», rispose Satake con un sorriso amaro. «E ha in mente una ragazza in particolare?» «Mi hanno detto che Anna lavora qui, adesso». Chén andò verso il retro per informarsi se era libera e nel frattempo Satake ne approfittò per dare un’occhiata al loca­le. Era più piccolo del Mika ma molto elegante, arredato con mobili di sandalo rosso in stile cinese. «Le ho prenotato Anna-san. Ma ora ha un altro nome». «Ah, e come si chiama?» «Mei-ran», rispose Chén. “Bella orchidea”: in questo me­stiere si chiamano tutte così. «Bene, allora vorrei Mei-ran». Satake seguì Chén all’interno del locale. La mama-san in kimono, che conosceva di vista, lo guardò stupita: «Oh, Sa­take-san, questa sì che è una sorpresa! Quanto tempo è che non ci vediamo? È tutto a posto di là?» «Non c’è nessun “di là”, e lei lo sa bene». La donna era giapponese. «Lì-huá allora non è ancora tornata da Taiwan?» «Non che io sappia». «Già, forse teme che le succeda qualcosa di male, se do­vesse tornare?» Questa era una velata insinuazione nei suoi confronti, perché era sospettato di avere a che fare con la mafia cinese. Satake lo sapeva bene, ma non fece commenti e disse solo: «Già, chissà». La mama-san, accorgendosi che si era irrigidito, si af­frettò a rimediare: «Quello che è capitato è stata proprio un’incredibile disgrazia, vero?» L’uomo sorrise ambiguamente, ma era irritato per lo sguardo sospettoso che lei continuava a rivolgergli. In un an­golo in fondo al locale sedeva una bella donna che di profi­lo assomigliava ad Anna. Non si girò neppure una volta a guardarlo. Satake sedette al tavolo indicatogli da Chén. Nonostante ci fosse posto anche dietro, gli aveva assegnato un piccolo scomodo tavolo al centro del locale. Un cliente sbraitava nel microfono del karaoke. Appena finì la sua esibizione le ho­stess applaudirono come tanti automi. Scoraggiato dal fra­stuono, Satake si affondò ancora di più nella poltrona. Una ragazza, che conosceva solo un paio di parole in giapponese e il cui unico pregio era la giovane età, gli si sedette di fron­te con un sorriso artificioso. Satake, tediato, non si prese neppure la briga di iniziare una conversazione. Svuotò in si­lenzio un paio di bicchieri di tè Oolong freddo. «Dov’è Anna… no, Mei-ran?» domandò infine alla ra­gazza, che si dileguò offesa. Satake rimase seduto da solo per una mezz’ora. A un certo punto, forse rassicurato dal fatto di essere di nuovo libero, si appisolò. Durò al massimo cinque minuti, ma quando si svegliò gli sembrò che fossero passate diverse ore. Non aveva raggiunto proprio la pace, ma si sentiva sol­levato e fisicamente rilassato. Sentì il profumo e aprì gli occhi: Anna era lì, seduta da­vanti a lui. Indossava un completo pantaloni di seta bianca come la neve, che faceva risaltare splendidamente la pelle ab­bronzata. «Buonasera, Satake-san». Non lo chiamava più “O-nii­chan”. «Oh, Anna! Come stai, bene?» «Sì, splendidamente», rispose Anna sorridendo, ma Sa­take capì che non si fidava veramente e che continuava a sta­re all’erta.

«Sei bella abbronzata». «Sì, perché sono andata sempre in piscina». Dopo avere risposto Anna cadde in un prolungato silen­zio, come se ripensasse a quel giorno in piscina e alla litigata con Satake. Era allora che era incominciata la sua sfortuna. Prese la bottiglia di scotch sulla quale qualcuno senza chie­dere aveva scritto il nome “Satake”, e preparò con gesti esper­ti due leggeri whisky e soda. Poi, nonostante sapesse benissi­mo che non beveva alcolici, gli mise davanti uno dei bic­chieri. Satake la guardò. «Be’, e allora come va qui?» «A gonfie vele. Questa settimana sono stata la più richie­sta. I clienti del Mika mi sono rimasti fedeli e adesso vengo­no qui». «Mi fa piacere». «E poi ho traslocato». «Dove?» «A Ikebukuro». Non gli diede l’indirizzo esatto. Un si­lenzio imbarazzato scese tra loro. Poi, improvvisamente, An­na chiese: «Come hai potuto farlo? Perché hai ucciso quella donna?» Satake, colto di sorpresa, la fissò negli occhi: «Il perché non te lo posso dire, non lo so neppure io». «La odiavi?» «No, l’odio non c’entrava». In realtà Satake l’aveva persi­no ammirata per il suo scaltro senso degli affari. Ma sarebbe stato inutile spiegare alla giovane Anna che l’odio nasce pro­prio dal bisogno di avere l’altro per sé. «Quanti anni aveva?» «Non so esattamente. Di sicuro trentacinque, o anche di più». «Come si chiamava?» «Non riesco a ricordarlo». L’aveva udito pronunciare di­verse volte durante il processo, ma era un nome piuttosto co­mune e l’aveva semplicemente dimenticato. Più che il nome gli erano rimasti impressi nell’animo il suo viso e la sua voce. «La amavi? La conoscevi da molto tempo?» «No, per niente. L’avevo incontrata quella notte per la prima volta». «E allora perché l’hai uccisa in quel modo?» incalzò im­placabile Anna. «La mama-san mi ha detto che l’hai tortura­ta a lungo prima di ucciderla. Se è vero che non la amavi né la odiavi, perché l’hai seviziata fino a farla morire?» Anna era furiosa. Il cliente seduto al tavolo accanto si mi­se ad ascoltare, guardò Satake, ma poi, spaventato da quello che aveva sentito, si girò in fretta da un’altra parte. «Non lo so», rispose quietamente Satake. «Davvero non so perché l’ho fatto». «Per questo sei sempre stato così affettuoso con me? Per­ché in qualche modo rappresentavo quella donna?» «No, no». «E allora spiegami perché in te ci sono due O-nii-chan. Uno che uccide una donna, e un altro che coccola e vizia An­na. Perché?» Anna era talmente eccitata che lo aveva di nuovo chia­mato O-nii-chan. «Per te, O-nii-chan, non sono altro che un cagnolino, ve­ro? Per questo mi hai trattato così bene! Mi hai ripulita e si­stemata come se fossi un cane da esposizione e mi hai ven­duta agli uomini! Ti sei divertito, vero? Io ero la merce che trattavi – la merce Anna! Ma se mi fossi ribellata, se non fos­si stata docile, allora mi avresti ucciso, come hai fatto con quella donna?» «No». Satake prese una sigaretta e se la accese da solo. «Tu, Anna, sei cara. Quella donna…» Satake cercò le parole adatte. Anna rimase in attesa continuando a fissarlo. Ma lui non riuscì a trovare la risposta.

«Tu, O-nii-chan, dici che sono cara, ma quello che vuoi dire è che sono solo cara e nient’altro, non è vero? All’inizio, quando ho saputo della cosa, quella donna mi ha fatto terri­bilmente pena, sai. Ma poi anche io mi sono fatta pena, O­nii-chan, e sai perché? Qualche volta ti sei arrabbiato con me, per il lavoro o cose del genere, ma mai avresti potuto odiarmi fino a uccidermi, vero? Quella donna era riuscita a conquistare il tuo cuore al punto che tu la potessi odiare, che tu potessi addirittura torturarla e ucciderla, non è così, O­nii-chan? E io invece no, semplicemente non ci sono riusci­ta. Talvolta mi sono perfino augurata che mi uccidessi, al­meno sarebbe stato qualcosa. Ma tu mi hai solo trattato be­ne, come avresti voluto fare con lei – sei stato gentile con me perché avevi ucciso lei. Ma solo gentile. È troppo poco per me, O-nii-chan, e quando l’ho capito mi ha fatto molto ma­le. E per questo credo di avere ragione quando provo molta pena per me. Capisci, O-nii-chan?» Anna si mise a piangere. Le lacrime le scorrevano sulle guance, ai lati del piccolo naso, e cadevano a terra. I clienti e le hostess seduti ai tavoli vicini li guardavano stupiti e curio­si. La mama-san, preoccupata, non la perdeva d’occhio. «Capisco. Ti lascerò in pace e non tornerò mai più, così potrai continuare a lavorare serena». Anna non disse nulla. Satake si alzò, pagò il conto e la­sciò il locale seguito dal sorriso di circostanza di Chén. Lo capiva da solo che né Anna né nessun altro lo avrebbero più accompagnato. Era evidente che a Kabuki-cho non c’era più posto per lui. Dal giorno in cui Kinugasa lo aveva interrogato, Satake si era reso conto di quanto, dopo diciassette anni, fosse ancora legato a quella donna e aveva preso la decisione di guardarla finalmente negli occhi. I ricordi, che credeva di avere inca­psulato ben bene nel suo cuore, avevano rotto il guscio e ora gli offrivano il frutto e i semi. Satake ritornò al suo appartamento. Erano trascorse qua­si quattro settimane da quando era stato fermato e arrestato. Aprì la porta e venne investito dal tipico odore di muffa di una casa rimasta chiusa a lungo nel mezzo dell’estate. Im­provvisamente sentì delle voci: qualcuno, là dentro, stava parlando. Si tolse in fretta le scarpe e corse in camera. Nell’oscurità guizzava una luce bianco-azzurra. Il televisore era acceso. Quando quel giorno era uscito precipitosamente nella calura estiva, con quella sensazione di inquietudine nella pancia, doveva essersi dimenticato di spe­gnerlo. Ma quelli che avevano perquisito la casa avrebbero almeno potuto spegnere il televisore! Satake sorrise amara­mente e si sedette davanti allo schermo. Stava scorrendo la si­gla di un telegiornale. Man mano che l’estate si avvicinava alla fine anche l’in­quietudine del suo animo sembrava finalmente trovare pace. Satake si alzò e aprì la finestra. Dalla circonvallazione di Ya­mate entrarono rumore di traffico e zaffate di gas di scarico, ma anche la fresca aria notturna che si mescolò a quella stan­tia dell’appartamento. I grattacieli di Shinjuku ovest erano il­luminati a giorno, come per mettere meglio in evidenza il lo­ro profilo. Tutto era passato, tutto andava di nuovo bene. Sa­take, che aveva ripreso il controllo di se stesso, inalò con lun­ghi respiri l’aria sporca della città. Ormai non gli rimaneva altro che attuare il suo piano. Aprì l’armadio a muro in cui stipava i giornali vecchi. Scorse le pagine ingiallite e un po’ umide a causa dell’afa esti­va e cercò tutti gli articoli in cui ci fosse qualcosa sul caso del ritrovamento del cadavere a pezzi nel parco di Koganei. Ne trovò una serie, distribuì le pagine sul tatami, prese una pic­cola agenda e incominciò a leggere e prendere appunti. Poi si accese una sigaretta, controllò gli appunti e si mise a ri­flettere. Spense il televisore e si alzò. Gli venne voglia di sgranchirsi le gambe e camminare senza meta nei vicoli del quartiere. Per lui adesso non c’era più niente da perdere e niente da salvare – non c’era più niente di niente. Nello stes­so momento in cui credeva di avere superato il fiume profon­do, avevano fatto saltare il ponte. Non c’era più possibilità di ritorno. Ma non era del ritorno a un sogno messo sotto chia­ve che si trattava, quanto piuttosto del fatto che, con la vita che si era costruito in tutti quegli anni, si era per così dire perso in un unico grande sogno. Era eccitato e gli sembrò di essere tornato ai suoi vent’anni, quando faceva il galoppino per gli yakuza. C’è una certa

somiglianza tra la sensazione di aver perso la strada e non sapere dove andare e la consape­volezza di non avere più la possibilità di tornare indietro. Ci si sente assolutamente liberi. Sul volto di Satake comparve un sorriso.

La ricompensa

1. Era completamente al verde. Nel portamonete c’erano solo un paio di biglietti da mille yen e pochi spiccioli. Per quan­to avesse guardato in ogni angolo, in casa non era riuscita a trovare neanche uno yen. Già da un po’ Kuniko stava fissando il calendarietto ta­scabile ricevuto in omaggio da Mister Minit. Non c’era nien­te da fare. Si avvicinava il giorno in cui avrebbe dovuto pagare la rata a Jumonji. Quel giorno, all’agenzia Milione, Masako aveva baldan­zosamente annunciato che avrebbe fatto in modo che Ku­niko restituisse il denaro, eventualmente rivolgendosi a un’altra finanziaria, ma nel frattempo sembrava che si fosse completamente dimenticata della sua situazione. E dei soldi che le aveva promesso Yayoi non se ne era vista neppure l’ombra. C’era poco da fare, quelle erano proprio due sver­gognate: prima l’avevano costretta ad aiutarle in quell’orribi­le affare, a diventare loro complice, e adesso a quanto pareva non ne avrebbe ricavato un bel niente, solo promesse a van­vera! Kuniko, fuori di sé, spazzò via dal tavolo una volumino­sa rivista femminile che cadde rumorosamente a terra apren­dosi sull’inserto in carta patinata dedicato a Nizza. Sfogliò con le dita del piede le meravigliose pagine pubblicitarie de­gli stilisti più famosi: Chanel, Gucci, Prada… Borse, scarpe, la nuova moda per l’autunno, accessori: si sarebbe comprata tutto! Aveva raccolto la rivista vicino alla spazzatura. Era tutta macchiata dalle impronte di un bicchiere, ma questo non la disturbava: l’importante era che non l’aveva pagata. Aveva dovuto disdire l’abbonamento al giornale e negli ultimi tempi non usciva più in macchina per risparmiare la benzina. Oltre ai servizi di attualità e alle soap opera in tele­visione a Kuniko non era rimasto altro svago, per cui si era ridotta a raccogliere le riviste che qualcuno aveva buttato via. Aveva telefonato ovunque per cercare di scoprire dove si na­scondesse Tetsuya, ma nessuno le aveva voluto dire dov’era. Dal momento che in agosto era rimasta spesso assente dal la­voro anche i suoi introiti si erano ridotti e non era riuscita a risparmiare neanche uno yen. Kuniko, che non sopportava più quella vita di ristrettezze, cacciò un urlo di rabbia. Aveva scorso i giornali specializzati alla ricerca di un one­sto lavoro diurno, tuttavia si era resa conto che nessuno sa­rebbe stato pagato abbastanza per saldare i suoi debiti. Nell’ambiente a luci rosse una donna avrebbe potuto guadagna­re abbastanza, ma nonostante si sforzasse non riusciva a vin­cere la mancanza di fiducia nel proprio aspetto. Perciò era meglio che rimanesse alla fabbrica di colazioni e continuasse a fare il turno di notte. Oltretutto l’orario di lavoro era rela­tivamente ridotto. L’intenso desiderio di essere ricca, di ve­stire all’ultima moda e di essere esposta alle luci della ribalta, insieme a un complesso di inferiorità che la spingeva a star­sene rannicchiata nell’angolo più buio, dove nessuno potes­se vederla, coesistevano nell’animo di Kuniko come le due facce di una stessa medaglia. E se avesse dichiarato fallimento? Non sarebbe stato me­glio? Per un attimo pensò a questa ultima possibilità: così fa­cendo forse avrebbe dovuto rinunciare per sempre alla carta di credito. E quindi sarebbe stata costretta a cavarsela con quei pochi soldi che riusciva a guadagnare… No, grazie! Non avrebbe potuto sopportarlo, lei che non riusciva a tene­re a bada le proprie voglie e che doveva sempre soddisfarle all’istante. Finché avrebbe potuto contare sul denaro di Yayoi, anche solo pensare a queste soluzioni era una pura perdita di tempo. Decise di telefonarle. Avrebbe voluto farlo prima, ma si era trattenuta per paura che la polizia si aggirasse ancora da quelle parti. Tuttavia adesso non poteva più aspettare. «Pronto, sono Kuniko Jonouchi». «Oh!» Yayoi non sembrava particolarmente contenta. Evidentemente la telefonata le dava fastidio, dal momento che non faceva nemmeno il cenno di salutarla! Be’, aspetta, che adesso ti faccio vedere io, pensò Kuniko inferocita. «Ho letto sul giornale che a quanto pare sei riuscita a far­la franca!»

«Come, che cosa vuoi dire?» ribatté Yayoi fingendo di non capire. All’altro capo del filo si udivano le voci concita­te dei cartoni animati alla TV e il baccano dei bambini. Sem­brava che là andasse tutto alla grande – e dire che il padre aveva appena dovuto abbandonare questo mondo in un mo­do così spaventoso! La rabbia di Kuniko non si fermò nep­pure davanti ai bambini innocenti. «Non fare tanto la bacchettona, sai benissimo di che co­sa parlo! C’era scritto che al tuo posto hanno messo in gale­ra il proprietario di una casa da gioco, o che so io!» «Sembrerebbe». «Sembrerebbe, sembrerebbe – cosa mi tocca sentire! Hai avuto una fortuna sfacciata, ecco cos’è!» «La stessa cosa vale anche per te! Non mi posso certo la­mentare, dal momento che mi hai dato una mano, ma tutto il casino è successo perché hai buttato via i sacchi in quel po­sto assurdo! Masako era terribilmente arrabbiata», protestò Yayoi, di solito così buona e remissiva. Kuniko, che credeva di essere più forte, non aveva fatto i conti con questa reazione e rimase spiazzata. Ansimando riu­scì solo a sibilare: «Come hai il coraggio di parlarmi così! Tu che sei un’assassina!» «Che c’è? Che cosa è successo?» Yayoi doveva aver messo in fretta una mano sul ricevitore. «Niente! Voglio solo vedere i miei soldi. Quando avrò la somma che mi hai promesso? Puoi almeno dirmi pressapoco una data?» «Ah, ho capito. Scusa. Non lo so ancora esattamente, ma penso che per i primi di settembre dovrebbe essere tutto a posto». «Primi di settembre… Ma te li danno i tuoi genitori, no? E non puoi dirgli che ti servono subito? Mancano soltanto dieci giorni». «Già, ma…» Yayoi non si lasciava mettere alle strette. «Davvero mi darai cinquecentomila?» «Sì, certo». «Bene», rispose Kuniko sollevata. «Ma adesso mi trovo proprio tra l’incudine e il martello, sai com’è. Puoi darmi un anticipo? Cinquantamila potrebbero bastare». «Be’… se potessi aspettare ancora un po’, allora…» «Allora che cosa? Non vorrai mica dire che ti pagheranno il premio dell’assicurazione, vero?» «Ma no, che cosa vai a pensare!» rispose in fretta Yayoi. «Lui non era assicurato». «E allora come farai ad andare avanti? Sarai nelle mie stes­se condizioni. Senza tuo marito ti resta solo lo stipendio del­la fabbrica, no?» «È vero, ma a dire il vero non ho ancora pensato a come farò. Ma alla fin fine io ho il dovere di pensare ai bambini, per cui resteremo qui ancora un po’. Anche mia madre cre­de che sia la cosa migliore», rispose seria Yayoi. Kuniko, alla quale non importava un fico secco della sor­te di Yayoi, si spazientì: «Allora vuoi che i tuoi genitori non ti diano qualcosa?» «Sicuramente mi aiuterebbero, se glielo chiedessi. Ma an­che mio padre è un semplice impiegato, e non posso pesare troppo sulle loro spalle». «Masako mi aveva raccontato tutta un’altra storia!» «Ah, sì? Mi dispiace». «Ma a un impiegato non va poi così male, per lo meno ogni mese si prende il suo bello stipendio». Nella sua dispe­razione Kuniko non poteva lasciare niente di intentato. Do­veva riuscire a ogni costo a farsi dare dei soldi. Ma Yayoi, sen­za spostarsi dalla sua posizione, continuava a chiedere se non poteva aspettare un po’ e infine Kuniko, preoccupata per la bolletta del telefono, depose la cornetta. Adesso non le rimaneva che provare con Masako. Si in­contravano tutti i giorni allo stabilimento, ma non si erano quasi più parlate. Da quando aveva saputo che Jumonji e Masako si

conoscevano già da prima, quest’ultima le faceva un po’ paura. Nonostante fosse prossima al fallimento tota­le, Kuniko continuava a illudersi di appartenere a quel mon­do agiato ed elegante che poteva ammirare nelle riviste fem­minili. Perciò Masako, che aveva avuto a che fare con un ma­lavitoso come Jumonji, la metteva a disagio. Ma il giorno del pagamento della rata si avvicinava ine­sorabilmente. Doveva trovare i soldi a qualsiasi costo, anche a rischio di violare un po’ la legge. Per lo stesso motivo – il bisogno di denaro – si era lasciata coinvolgere suo malgrado nell’orribile delitto di Yayoi ma, mentre faceva il numero di telefono di Masako, se ne era già scordata. «Katori». Masako era in casa. Diversamente da quanto era accaduto con Yayoi, all’altro capo del filo regnava il si­lenzio più assoluto. Kuniko si domandò che cosa stesse facendo Masako da sola in quella casa silenziosa e ordinata. Si ricordò la terribile scena del bagno e sentì un brivido gelido giù per la schiena. Doveva avere dei nervi ben saldi quella donna se poteva continuare a lavarsi sulle stesse piastrelle che erano state coperte da grumi di sangue e carne, se poteva im­mergersi ancora nella vasca in cui avevano appoggiato i pez­zi del cadavere! Di nuovo Masako le fece tanta paura che a malapena osò dire: «Sono Jonouchi…» «Giustappunto, tra poco ti scade la prossima rata, vero?» Masako entrò subito in argomento. Quindi non se ne era di­menticata! «Sì, è proprio per questo che chiamo: che cosa devo fare?» «E lo domandi a me? Questo è un tuo problema!» «Ma tu avevi detto che avresti fatto in modo di farmi re­stituire il denaro, anche a costo di chiederlo in prestito a un usuraio!» urlò Kuniko sentendosi tradita. «E allora chiedili in prestito», rispose seccamente Ma­sako. «Basterà che tu li chieda a un’altra piccola finanziaria, vedrai che te li daranno. E poi li restituirai chiedendoli a un’altra ancora!» «Ma così finirò in un circolo vizioso e non riuscirò più a uscirne!» «Niente di nuovo, mi pare. Ci sei già dentro fino al col­lo!» «Ah, smettila di parlare così e dammi piuttosto un consi­glio!» «Un consiglio? Ma tutto quello che vuoi da me sono i sol­di, o sbaglio?» la canzonò Masako. Kuniko digrignò i denti per la rabbia: «Allora prestami tu qualcosa, per amor del cielo! Da Yayoi non riesco ad avere ancora niente!» «Fossi matta, sarebbe come gettarli dalla finestra! Quan­do la situazione di Yama-chan si sarà un po’ calmata, ti pa­gherà sicuramente. Te lo ha promesso! Fino ad allora fatti venire in mente qualcosa». «Che cosa, per esempio?» «Sei giovane, arrangiati», rispose gelidamente Masako. Kuniko sbatté giù la cornetta. Voleva vendicarsi, voleva che Masako strisciasse a chiederle pietà! Ma per il momento non aveva armi contro di lei. Prima o poi gliel’avrebbe fatta vedere a quella sgualdrina! Furiosa si mise a pestare i piedi sul pavimento. Il suono del campanello la fece sobbalzare. Proprio oggi che avrebbe voluto stare in pace e nascondersi a tutto il mon­do, affondare nel fango grigio di una palude come una tar­taruga! Respirando affannosamente si tappò le orecchie con le mani. Suonarono ancora. La cosa più probabile era un’altra vi­sita della polizia criminale. E se era di nuovo Imai, l’ispetto­re dallo sguardo penetrante che l’aveva interrogata tre setti­mane prima? No, grazie! Era sicura di non aver detto nulla di compromettente, ma davanti a quegli occhi indagatori non si era sentita per niente a proprio agio. Come avrebbe dovuto comportarsi se le avesse detto che nel frattempo ave­vano trovato un testimone che aveva visto una Golf verde vicino al parco di Koganei? No, non voleva più incontrare l’i­spettore Imai. Decise di continuare a fingere di non essere in casa e ridusse al minimo il volume del televisore. Adesso bus­savano direttamente alla porta. «Signora Jonouchi? Sono Jumonji dell’agenzia Milione. È in casa?»

Sorpresa Kuniko afferrò la cornetta del citofono e do­mandò allarmata: «Ma per quello c’è ancora tempo, no?» Jumonji, palesemente sollevato dal fatto che era in casa, rispose: «No, no. Volevo parlarle di un’altra cosa». «Di che si tratta?» «Mi faccia entrare un momento. Vedrà che non se ne pentirà». Di che cosa parlava? Che cosa voleva da lei? Combattuta fra il sospetto e la curiosità, Kuniko aprì finalmente la porta e vide Jumonji fermo in piedi con in mano una scatola di dolci – occhiali da sole sul naso, pantaloni di cotone e una vistosa camicia hawaiana con uccelli del paradiso su sfondo nero. Sembrava un’altra persona. «Che cosa vuole?» Kuniko indietreggiò pensando con or­rore alle sue brutte gambe grosse che spuntavano dai panta­loncini corti. «Mi scusi se la disturbo così all’improvviso, ma ho biso­gno di parlare con lei», disse Jumonji ficcandole in mano la scatola di dolci. Kuniko, che continuava a essere sospettosa, non riuscì a fare a meno di sciogliersi davanti al suo sma­gliante sorriso. «Allora si accomodi, la prego». Jumonji, che entrava per la prima volta in casa di Kuniko, si guardò intorno senza complimenti e decise di sedersi al ta­volo da pranzo. Kuniko raccolse in fretta la rivista che aveva buttato a terra. «Non mangiamo il dolce?» «Ah, sì». Kuniko prese piatti e forchette e l’ultima botti­glia di tè Oolong rimasta in frigorifero e li portò al tavolo. Poi mentì: «Di che cosa vuole parlare con me? Dopodomani pagherò puntualmente la rata». «Non sono qui per questo. Si tratta di qualcos’altro, un particolare che mi ossessiona da tempo». Jumonji tirò fuori di tasca un pacchetto di sigarette e gliene offrì una. Kuniko, che non poteva più permettersi neppure le sigarette, si servì senza esitazione. Jumonji la osservò mentre se la accendeva e inalava con gusto. «Se vuole le lascio tutto il pacchetto». «Molto gentile, grazie mille». Kuniko prese il pacchetto e lo mise in tasca. «Sembra che sia in difficoltà». «Sa com’è, mio marito non è ancora saltato fuori e non so più dove cercarlo…» borbottò Kuniko sbuffando. «Ho pensato che deve andare a lavorare, perciò mi sono affrettato a venire prima che uscisse. Vorrei un’informazione da lei. Si tratta della signora Yamamoto, quella che le aveva dato la garanzia». Kuniko lo guardò sorpresa. Jumonji aggrottò le belle so­pracciglia e ricambiò lo sguardo con l’espressione della per­sona onesta che si trova in estremo imbarazzo. «La signora Yamamoto è la moglie della vittima di quel terribile delitto, vero? Ho appreso la notizia il giorno se­guente, leggendo il giornale, e mi ha impressionato. E poi mi sono preoccupato pensando che era la persona che aveva ga­rantito per lei», continuò svelto Jumonji. «Le avevo chiesto di farmi quel favore perché al lavoro ci intendevamo bene». «Ma poi ha pensato che fosse meglio parlare con la si­gnora Katori – in fondo ha lavorato per vent’anni in un isti­tuto di credito ed è molto esperta in questo campo!» «Ah, in un istituto di credito…» annuì Kuniko soddisfat­ta. Ecco risolto l’enigma del passato di Masako: in effetti ave­va proprio l’aspetto di una che avesse lavorato a lungo ai ter­minali del computer di una banca! «Perciò vorrei sapere perché aveva scelto come garante proprio la signora Yamamoto». «Perché lo vuole sapere?» Jumonji ridacchiò e si accarezzò con entrambe le mani i morbidi capelli tinti di castano: «Semplice curiosità».

«Perché la signora Yamamoto è gentile e altruista. Non posso dire altrettanto della signora Katori. Tutto qui». «E così non le ha fatto né caldo né freddo andare a chie­derle un favore nonostante suo marito fosse appena scom­parso?» «Ma non lo sapevo ancora!» «E la signora Yamamoto ha firmato senza fare storie?» «Gliel’ho detto, è una brava persona». «Ah sì? E allora mi spieghi perché la signora Katori è ve­nuta con lei per farsi ridare il documento». «Be’…» Kuniko fece la finta tonta. Era impossibile che Jumonji le facesse tutte quelle domande per pura curiosità. Aveva il presentimento che da un momento all’altro l’avreb­be messa in difficoltà e incominciava ad aver paura. «Ma la signora Katori sicuramente sapeva che, se fosse ve­nuto fuori che la signora Yamamoto aveva firmato la garan­zia dopo la scomparsa di suo marito, ci sarebbero stati dei problemi». «Niente affatto. Katori è intervenuta solo perché era con­vinta che avessi fatto una sciocchezza». «Tuttavia c’è qualcosa che continuo a non capire…» Co­me se giocare al detective gli procurasse un grande diverti­mento, Jumonji incrociò le mani dietro alla nuca e guardò il soffitto. Kuniko incominciava a trovare piacevole la sua com­pagnia. «Io assaggerei il dolce, che ne dice?» «Ah, prego. Penso che sia buono. È di una pasticceria piuttosto rinomata: è stata una studentessa del liceo a darmi l’indirizzo, e di sicuro è quello giusto». Kuniko prese in mano la forchetta e, guardandolo con ci­vetteria negli occhi color ambra, disse: «Ah, quindi lei fre­quenta le studentesse, signor Jumonji?» Imbarazzato Jumonji arrossì e si passò le mani sulle guan­ce: «No, non è quello che lei pensa!» «Non lo neghi.Attraente com’è, sicuramente avrà succes­so con le studentesse!» «Ma no, che cosa va a pensare!» Kuniko, ormai stanca di cercare di capire quale potesse essere il vero scopo di Jumonji, si dedicò completamente al dolce. Jumonji diede un’occhiata alla data sull’orologio da pol­so: «Quanti pagamenti le mancano, signora Jonouchi?» Kuniko, confusa, rimise la forchetta sul piatto. «Otto, credo…» «Otto, ossia quattrocentoquarantamila in tutto, vero? Se ci passassi sopra, mi racconterebbe tutta la storia?» «Che cosa significa “passarci sopra”?» «Che lei non mi deve più niente». Kuniko, per quanto si scervellasse, non riusciva a capire dove volesse andare a parare Jumonji. Si accorse che aveva ancora della panna sulle labbra e ci passò sopra la lingua. «Quale storia?» «Naturalmente quello che avete combinato, è chiaro». «Come? Noi non abbiamo combinato proprio niente…» Kuniko riprese in mano la forchetta, ma a quella proposta inattesa la bilancia nella sua mente, sempre intenta a calco­lare entrate e uscite, incominciò a oscillare come impazzita e la gettò nel panico. «No, quello che dice non è vero, e lei lo sa bene. Lei, la signora Yamamoto, la signora Katori e un’altra ve la inten­dete molto bene. Me l’hanno detto allo stabilimento. E quando la signora Yamamoto si è trovata in una situazione precaria, voi le avete offerto la vostra complicità e l’avete aiu­tata tutte insieme. È questa più o meno la verità, no?»

«Situazione “pre-ca-ria”?» «Sì, scabrosa, spiacevole». «Noi non abbiamo fatto nulla, davvero niente. Che cosa intende dicendo che l’abbiamo aiutata tutte insieme?» Ku­niko aveva smesso di mangiare il dolce. Jumonji le rivolse un sorrisetto sarcastico: «Signora Jo­nouchi, non è vero che è stata proprio lei a dirmi che presto avrebbe avuto dei soldi? Non è che avesse qualcosa a che fa­re con questo, vero?» «Vale a dire?» «Ah, la smetta di fare l’ipocrita, non le si addice proprio!» Jumonji usò quasi le stesse parole con le quali poco prima lei si era rivolta a Yayoi. «Sto parlando del delitto del cadavere fatto a pezzi». «Ma sembra che sia già stato chiarito tutto.Io almeno ho sentito dire che hanno arrestato il proprietario di una casa da gioco». «Sì. Questa è la notizia pubblicata dai giornali, ma io continuo ad avere dei sospetti». «In che senso dei sospetti?» «Be’, come posso dire… sono più propenso a credere che si tratti di un caso di solidarietà femminile». «Macché, non siamo mai state così amiche da aiutarci a vicenda a tirarci fuori dai pasticci!» «E allora perché la signora Yamamoto ha accettato di fir­marle la garanzia? Nella situazione in cui si trovava? Era una garanzia che non comportava degli obblighi, ma di solito uno cerca sempre di non firmare. E allora, signora Jonouchi, mi vuole raccontare la verità? Come ho detto, le cancellerò tutti i suoi debiti». «…e se le racconto tutto, cosa farà?» si lasciò scappare Kuniko. Negli occhi di Jumonji apparve per un istante il guizzo di soddisfazione di chi è riuscito nel proprio intento: «Proprio niente, che cosa dovrei fare? Voglio solo appagare una mia curiosità, tutto qui». «E se tengo la bocca chiusa?» «Va bene lo stesso. Tutto rimane come prima e lei dovrà pagarmi le rate rimaste. Quando scade la prossima? Fra due giorni, se non sbaglio. Ancora otto rate da cinquantacinque­miladuecento yen. È sicura di poter essere puntuale?» Kuniko si ricordò di essere al verde e si passò di nuovo la lingua sulle labbra. Ma ormai non c’era più panna da leccare. «E lei che garanzia mi dà di annullare completamente il debito?» «Ecco qui, aspetti un momento». Jumonji prese dalla car­tella un documento ripiegato: il contratto di Kuniko. «Lo straccerò qui, davanti ai suoi occhi». Immediatamente l’ago della bilancia nella mente di Ku­niko puntò su “cancellazione dei debiti”. Se non avesse più dovuto pagare Jumonji, i cinquecentomila yen di Yayoi sarebbero rimasti tutti per lei. A quel pensiero non ebbe più esitazioni: «Va bene, parlerò». «Ah, adesso sì che sono contento», sorrise Jumonji, ma il tono della voce era serio. Fu facile. Mentre raccontava in tutti i minimi dettagli co­me era stata attirata nella trappola, Kuniko si rese conto con soddisfazione che finalmente si era presentata l’occasione di vendicarsi di Masako e Yayoi. Quello che sarebbe successo non le importava: c’era un mucchio di tempo per pensarci!

2. Jumonji era seduto su una panchina del piccolo parco giochi davanti al casermone in cui abitava Kuniko. Si mise una si­garetta tra le labbra e, frugando nelle tasche dei pantaloni al­la ricerca dell’accendino, si accorse che le mani gli tremava­no leggermente. Fece una smorfia annoiata, controllò la ma­no e accese la sigaretta. Dopo una boccata alzò lo sguardo al condominio e individuò il balcone di Kuniko. Oltre all’im­pianto del condizionatore non c’erano che alcuni sacchi di plastica nera, evidentemente pieni di immondizie. «Spazzatura quindi…» Davanti a lui, nel crepuscolo della sera, una decina di bambini giocavano a rincorrersi. I bambini, tutti tra i sei e gli otto anni, correvano eccitati, accaldati e rossi in viso, come se si trattasse dell’ultimo gioco della loro vita. Forse perché era quasi ora di rientrare in casa, o forse rimpiangevano la fi­ne ormai prossima delle vacanze estive, o forse ancora erano già coscienti del destino che li aspettava, la strenua battaglia con la scuola e gli esami. Sollevavano nuvole di polvere e sab­bia e urlavano come forsennati. Come schiacciato da tanta giovane energia, Jumonji si lasciò andare sulla panchina e per un po’ non riuscì più a muoversi. Era ancora turbato per quello che gli aveva raccontato Kuniko. Non solo era sconvolto perché ciò che aveva sospet­tato, ma che non avrebbe mai creduto possibile, corrispondeva esattamente alla verità. Quello che più lo aveva impres­sionato era la scoperta che Masako Katori si trovava al cen­tro di tutta la vicenda. Persino uno come lui, che credeva di essere un duro, non avrebbe avuto il coraggio di far sparire un cadavere. Di farlo a pezzi, poi! Provava quasi una sorta di timore reverenziale nei confronti di Masako, che era stata ca­pace di portare a termine quella faccenda. Non avrebbe mai immaginato che quella ossuta tardona potesse avere fegato fi­no a quel punto! Neppure per un attimo a Jumonji venne in mente che Masako si fosse ficcata in quella folle impresa per caso, senza pensarci su. «Tanto di cappello! Questo è quello che io chiamo stile!» La sigaretta era quasi finita e stava per scottargli le dita. Era il fuoco del destino che gli dava la sveglia. Anche lui vo­leva fare cose così temerarie, con quello stile. E guadagnare soldi. Non gli piaceva lavorare in coppia, ma con una come Masako sarebbe stato possibile. Perché di lei si fidava. Alcuni anni prima – non ricordava quanti – nell’interval­lo di mezzogiorno era andato in un caffè vicino all’istituto di credito e aveva trovato Masako. Il locale era strapieno e tut­ti i tavoli erano occupati. I clienti erano per lo più dipen­denti dell’istituto, e quasi tutti erano costretti a dividere il ta­volo con colleghi con cui non erano in confidenza. Masako era l’unica che sedeva da sola, a un tavolo per quattro vicino alla finestra. Jumonji si era chiesto stupito come mai nessu­no si sedesse accanto a lei. Solo più tardi aveva capito, quan­do gli avevano raccontato del mobbing a cui era sottoposta. Ma lei non sembrava dare alcuna importanza a quella pa­lese emarginazione: sorseggiava con calma un caffè, immersa nella lettura di un giornale finanziario spiegato davanti a sé. Come un uomo. Erano piuttosto gli altri, seduti stretti come sardine sott’olio, a sembrare ridicoli. Jumonji ridacchiò e batté le mani contento. I bambini che correvano nel giardino si fermarono a guardarlo diffi­denti, ma lui non se ne curò. Chissà perché lui, che non provava alcun tipo di attrazione sessuale nei confronti delle don­ne mature, nel lavoro si fidava più di loro che degli uomini. Forse aveva qualche relazione proprio con il fatto che, quan­do era ancora giovane, aveva incontrato Masako. Tirò fuori dalla borsa un’agenda e il cellulare, guardò tra gli indirizzi e digitò un numero. Gli era venuta un’idea. La risposta fu immediata: «Gruppo Toyozumi. Chi parla, prego?» «Mi chiamo Akira Jumonji. Posso parlare con il signor Soga?» «Può aspettare un attimo?» rispose titubante il ragazzo, e poi si udirono le note elettroniche del

minuetto in sol di Ba­ch, decisamente poco adatto a un’organizzazione malavitosa. «Ah, sei tu Akira, dannato ragazzo! Mi domandavo chi fosse questo Jumonji. Perché non ti annunci con il tuo vero nome, Yamada, in modo che sappia con chi parlo!» lo redar­guì la voce strascicata di Soga. Gli sembrava di vedere il suo largo ghigno. «Non le ho dato il mio biglietto da visita?» «Leggere un nome e sentirlo pronunciare non sono la stessa cosa», replicò Soga, che di tanto in tanto assumeva at­teggiamenti da intellettuale che mal si adattavano al suo aspetto. «La chiamo perché vorrei parlare con lei di una faccenda. Che ne direbbe se uno di questi giorni ci incontrassimo?» «Macché uno di questi giorni! Incontriamoci subito. An­diamo a bere qualcosa insieme. Che ne diresti di un bar dal­le parti di Ueno?» lo invitò Soga tutto allegro. Jumonji guardò l’orologio e decise di accettare. Forse era un po’ trop­po precipitoso, ma aveva un’informazione che gli era costata ben quattrocentoquarantamila yen – era meglio fare le cose per bene e in fretta. Si erano dati appuntamento in un tranquillo e raffinato bar di Ueno, piuttosto antico. Quando Jumonji arrivò da­vanti al locale, una casa di legno a un piano con la facciata coperta di edera, trovò i due ragazzi che aveva già visto fermi sull’attenti ad aspettare davanti all’ingresso del parcheggio del ristorante di Musashi-Murayama. Appena lo vide, quello dai capelli tinti di biondo e dall’aria ottusa lo salutò: «Grazie di essere venuto». Evidentemente Soga li utilizzava come guardie del corpo. Aveva sempre avuto la mania di giocare al capo, anche quan­do facevano parte della stessa banda di motociclisti. Ma que­sto non significava che fosse solo uno spaccone di cui poter­si prendere gioco. Jumonji fece appello a tutta la sua capacità di concentrazione e aprì la porta del bar. «Qui! Vieni qui!» lo chiamò Soga – la sigaretta in mano – dal fondo del locale. Il bar era immerso nella penombra e il pavimento di le­gno profumava di cera. Dietro il bancone un vecchio con un’espressione insondabile e un cravattino a papillon agitava lo shaker. Non si vedevano altri clienti. Soga era seduto a gambe larghe su una poltroncina di velluto verde spiegazza­to nell’angolo più appartato della sala. «Mi fa piacere vederla così presto, Soga-san. Mi scusi se l’ho disturbata così all’improvviso». «Non ti preoccupare. Avevo intenzione comunque di tro­varmi a bere qualcosa con te. Che cosa prendi?» «Una birra». «Come? Qui sono bravissimi a preparare i cocktail! Dai, sbrigati, il barman è lì che aspetta, ordina qualcosa!» «Allora un gin tonic, grazie». Era l’unico cocktail che gli veniva in mente. Guardò Soga che indossava un completo estivo verde tiglio e una camicia nera col collo aperto. «Che elegante!» «Alludi a questa?» rise contento Soga, sollevando la giac­ ca per mostrare l’etichetta. «È una firma italiana non molto conosciuta. Niente male, non ti pare? I vecchi boss si riem­piono la bocca con la parola “Hermès”, ma secondo me la persona veramente elegante sceglie queste qui». «Le sta molto bene». Soga era di ottimo umore. «Anche la tua camicia hawaia­na non è male. Che cos’è? Moda vintage?» «Macché, l’ho presa nel negozio di jeans sotto casa mia». «Be’, con quella bella faccia puoi mettere quello che vuoi. Le donne ti strisciano ai piedi, vero?» scherzò Soga. «Mi mette in imbarazzo…» Jumonji non riusciva a di­stricarsi dalla piega che aveva assunto la conversazione e a en­trare in argomento.

All’improvviso Soga cambiò discorso: «Akira, hai letto Love and Pop di Ryu Murakami 8?» «No, perché?» rispose sorpreso Jumonji. «Di che cosa si tratta? Non leggo cose di questo genere». «Peccato. Te lo raccomando. Al protagonista piacciono le donne, è proprio fissato». Soga schiacciò il mozzicone della sigaretta e bevve un sorso del suo cocktail, una sinfonia di ro­sa nelle più diverse tonalità. «Ah, e il libro parla di questo?» «Certo. Il giovanotto ha la mania delle studentesse». «Ah, e su questo Murakami scrive un romanzo?» «Sì, questa è la storia», rispose Soga tamburellando con un dito sulle labbra. «Allora forse lo leggerò. Anche a me piacciono molto le studentesse». «Stupido. Non si tratta di piacere, ma di mettersi sullo stesso livello. Per dirla in altre parole, lui non le guarda da un diverso punto di vista». Jumonji, che non riusciva assolutamente a capire di che cosa parlasse Soga, chinò il capo imbarazzato. Si era del tut­to scordato della sua passione per la lettura. «Ah, capisco. Interessante…» Arrivò il gin tonic e gli si aggrappò come a un salvagente. Pescò la fettina di limone a forma di mezzaluna e la appoggiò sul sottobicchiere. Si chinò in avanti e sorseggiò la bevanda fresca. «Si può ben dire. Sai, io mi sono creato una specie di re­gola d’oro per quanto riguarda le mie letture». «Ah…» «Già. Mi domando se la storia ha qualche analogia con la mia vita. Da questo misuro il valore del romanzo». «Vale a dire?» Jumonji, che aveva la gola secca, si scolò d’un sorso tutto il gin tonic. Soga gli lanciò uno sguardo di disapprovazione e continuò: «Si tratta di vedere se la storia sta in piedi o no. Esatta­mente come nel nostro mestiere». «Che cosa vuole dire?» «Prendiamo Ryu Murakami e le studentesse. Loro dete­stano il padre. Anche nel nostro mestiere abbiamo incomin­ciato solo perché odiavamo i nostri padri, o la nostra patria, il Giappone – non è così? Voglio dire che siamo tutti figli perduti, outsider ai margini della società. È vero o no? Tu che cosa pensi?» «Può essere…» «Certo che è così, noi siamo i figli perduti della società!» dichiarò Soga ad alta voce. «Guardati: sei stato tu a tagliarti fuori, da solo, nel momento in cui, ad Adachi, hai deciso di lasciare la scuola e di entrare nella nostra banda. E adesso tu fai l’usuraio e io sono uno yakuza. Eravamo degli emarginati e continuiamo a esserlo. O, meglio, i nostri padri ci han­no rovinato e abbandonato per sempre. Ma per Ryu Mu­rakami e le studentesse è esattamente la stessa cosa: in que­sto ci assomigliamo. Noi abbiamo stile. Capisci che cosa vo­glio dire?» Jumonji osservò il viso giallastro di Soga, che nella pe­nombra del locale sembrava ancora più pallido. Per quanto avrebbe dovuto continuare ad ascoltare quei discorsi incomprensibili? Era contento che Soga fosse di buonumore, ma ormai incominciava a perdersi d’animo, ad avere dei dubbi sulla attuabilità della propria idea. Non era più tanto sicuro di volergliela raccontare. E, come se non bastasse, lo stesso progetto gli sembrava via via più mostruoso. «Akira, di che cosa volevi parlarmi?» D’un tratto Soga in­terruppe i pensieri di Jumonji, come se ne avesse fiutato l’in­certezza. Lui ebbe l’impressione di essere stato beccato poco prima della fuga. «Mah, a essere sinceri è un’idea abbastanza strampala­ta…» iniziò a spiegare a malincuore. «Si tratta di soldi?» «Se si riesce a realizzare direi di sì. Cioè, me lo auguro. Ma non so giudicare…»

«Adesso smettila di chiacchierare. Starò muto come una tomba, mano sul cuore». Come per dimostrarlo Soga infilò una mano sotto la camicia e la mise sul petto, il gesto abituale di quando voleva dimostrare che faceva sul serio. Jumonji si decise a parlare: «Bene. Vorrei occuparmi dell’eliminazione dei cadaveri». «Che cosa dici? Ho capito bene?» domandò Soga e la sua voce stonò nel falsetto. Concentrato e con espressione impas­sibile il barman continuò a tagliare il limone a fette sottilissi­me, come se la sua vita dipendesse dal loro spessore. Solo al­lora Jumonji si accorse del sottofondo musicale, un vecchio rhythm and blues. Doveva essere molto teso per non essersene accorto prima, pensò asciugandosi il sudore dalla fronte. «Sì, ecco, ci sono sempre cadaveri scomodi, e io vorrei oc­cuparmi di loro, cioè voglio mettermi in affari nell’elimina­ zione dei cadaveri». «Vuoi dire tu… personalmente?» «Sì…» «E come? Vuoi dire che hai scoperto un metodo infallibi­le per farli sparire senza lasciare tracce?» Dietro il loro velo giallastro gli occhi di Soga incominciavano a brillare. «Ho pensato: seppellirli è troppo rischioso, gettarli a ma­re anche, perché prima o poi riaffiorano sempre. Perciò cre­do che il sistema migliore sia farli a pezzi e buttarli nella spazzatura». «A sentir te sembrerebbe facile. Non hai mica visto quel­lo è successo al parco di Koganei?» Soga ora parlava a bassa voce. Sul volto magro era sparita l’ombra di gioventù che lo aveva animato quando chiacchierava di moda e letteratura, sostituita da un’espressione di dura caparbietà. «Naturalmente». «In quel caso sono stati bravissimi a sezionare il cadavere, ma hanno fallito miseramente quando si è trattato di elimi­narlo. In secondo luogo: tu parli così semplicemente di ta­gliare a pezzi, ma hai un’idea di che cosa vuole dire vera­mente? È un lavoro maledettamente faticoso! Sai quanta for­za ci vuole per staccare anche un solo dito?» «Questo lo so. Ma una volta che il cadavere è stato fatto a pezzi io conosco un metodo che mi garantisce che non verrà mai scoperto, vale a dire che posso farlo sparire dalla faccia della terra». «E sarebbe?» Soga si sporse verso di lui, dimenticandosi persino di bere il cocktail. «Mio padre viveva in un paesino di campagna vicino a Fukuoka, nell’isola di Kyushu. Nei dintorni c’è una enorme discarica. Diversamente da quanto accade davanti a Tokyo, nell’“isola del sogno”, non buttano le spazzature in mare. Lì c’è un enorme inceneritore, sempre acceso. Tutti quelli che si dimenticano di gettare la spazzatura possono andare in qual­siasi momento all’inceneritore e buttarcela dentro. Perciò si potrebbe eliminare completamente ogni prova». «E come faresti a portare il cadavere fino a Fukuoka?» «È proprio questa la mia idea. Basterà farlo a piccoli pez­zi, impacchettarli e spedirli per posta. Mio padre è morto e la mia vecchia abita da sola in una stamberga. Io vado a Fukuoka, ritiro i pacchi, li porto all’inceneritore ed è tutto fi­nito». «Uhm, un bel traffico…» borbottò Soga meditabondo. «Ma il lavoro difficile è soltanto quello di farlo a pezzi. E ho già trovato il sistema». «Ossia?» «Se ne occuperà una persona di cui mi posso fidare». «Fidare? Un complice?» «Sì, per meglio dire una complice: si tratta di una donna». «La tua donna?» «No, ma non ci sono problemi», assicurò precipitosa­mente Jumonji. Non gli era sfuggito che via via che espone­va il piano l’interesse di Soga aumentava, e ora puntava tut­to sulla speranza di riuscire a concretizzare la propria idea.

«Bene, non voglio dire che non sia da prendere in consi­derazione, al contrario». Soga tirò fuori la mano dalla cami­cia e prese il suo cocktail. «So che c’è qualcuno che si occu­pa di eliminare le prove, ma pare che sia un servizio costoso. Voglio dire: nessuno che si venisse a trovare in una situazio­ne così delicata affiderebbe il proprio destino a un imbecil­le», disse indicando col mento in direzione dell’uscita. «E quanto pretende quel tipo per il suo lavoro?» «Dipende dall’oggetto e dalla situazione. Ma si tratta pur sempre di un lavoro maledettamente pericoloso; credo che si prenda tranquillamente una decina di milioni. E tu invece quanto costeresti?» «Bah, anch’io sarei per dieci milioni». «Calma, calma, non essere così avido fin dall’inizio». So­ga gli lanciò un’occhiata severa, e Jumonji sorrise imbarazza­to. «Okay, allora vanno bene nove?» «Anche in questo settore regna la legge della concorrenza: facciamo otto, che suona meglio!» «Se non ci sono alternative…» «E per ogni cliente che ti procuro io prendo la metà, chia­ro?» «Non è un po’ troppo?» Jumonji aggrottò le sopracciglia e Soga, con un sorriset­to, replicò: «Forse. Okay, non voglio esagerare. Che ne dici di tre milioni?» «Va bene». Soga sembrava soddisfatto. Jumonji si mise a fare due conti a mente: dei rimanenti cinque milioni lui ne avrebbe tenuti tre e gli altri due sarebbero andati a Masako. Kuniko era un tipo inaffidabile, la si doveva assolutamente escludere dall’affare. Masako avrebbe svolto tutto il lavoro insieme a Yoshie. Come poi si sarebbero divise i soldi, questo non era affar suo. «Bene. Questi servizi vengono richiesti abbastanza spesso, per cui non appena sento qualcosa la prendo al volo. Tu però comportati bene: non fare porcherie. Non voglio perdere la faccia, sai che cosa voglio dire». «Se prima non provo, non posso dire come funzionerà, ma credo che andrà tutto bene». «Akira, non ti rivolgerai per caso alla stessa persona che ha fatto il lavoro del parco di Koganei?» «No, figuriamoci!», protestò Jumonji scuotendo il capo, intimidito dall’acume di Soga. A ogni modo il seme era sta­to gettato. Ora non restava che convincere Masako. 8 Ryu Murakami, scrittore giapponese nato nel 1952, da non confondere con Ha­ruki Murakami. Il suo romanzo Love and Pop (Rabu&Poppu) è stato pubblicato nel 1996 con il sottotitolo «Topaz 2» (Topazu II) dalla casa editrice Gentosha di Tokyo. Dal romanzo Topaz (Topazu), del 1988, è stato tratto, nel 1991, il film Tokyo De­cadence – Topaz.

3. Prosciutto rosato. Spalla di bue rossa striata di bianco. Cosce di maiale di un tenero color pesca. Macinato misto sottile, a granelli rossi, rosa e bianchi. Interiora di pollo rosso scuro, grasso giallo. Masako spingeva il carrello della spesa davanti al reparto macelleria del supermercato. Non riusciva a scegliere, non riusciva neppure a riordinare i propri pensieri. E non le era nemmeno del tutto chiaro il motivo per cui si trovava lì. Si fermò e guardò nel carrello: era vuoto. Era venuta per com­prare qualcosa per cena, ma negli ultimi tempi non aveva vo­glia di pensare a un menu e neppure di cucinare. Una cena pronta era la prova dell’esistenza di una fami­glia. Yoshiki, ormai abituato al fatto che lei lavorava, non si sarebbe arrabbiato se non avesse trovato la cena ad aspettar­lo. Ma le avrebbe chiesto come mai non l’avesse preparata. E se lei non si fosse giustificata con un valido motivo, lui avrebbe pensato che era diventata pigra. Nobuki poi, anche se dopo avere cercato di venderla alla polizia si era rinchiuso di nuovo nel suo silenzio come un’ostrica nella conchiglia, continuava naturalmente a volere mangiare a casa. Gli uomini passavano il tempo come più gli piaceva, ma alla sera – come se fosse un punto fisso nella loro vita – tor­navano a casa sicuri di trovare una tavola apparecchiata. Ma­sako trovava sorprendente questa ingenua fiducia da parte loro. Se fosse stata sola non si sarebbe preoccupata di che co­sa fare da mangiare, ma da quando aveva una famiglia si era abituata a pensare che cosa poteva far piacere all’uno o all’al­tro. E quindi cercava sempre di preparare una cena di loro gradimento, anche se quei due non se ne accorgevano nep­pure. Benché il legame che li univa fosse divenuto sempre più inconsistente – tanto che a malapena potevano chiamar­si ancora una famiglia – la divisione dei ruoli era rimasta invariata e Masako trovava i propri doveri sempre più gravosi. Ogni cosa le costava una fatica terribile: le sembrava di por­tare acqua con un secchio bucato. Quanta acqua aveva ver­sato finora? Tutto ciò che le era sempre sembrato naturale ora non lo era più. Dai frigoriferi del reparto macelleria usciva una nebbia fredda e bianca come un gas tossico. Lì davanti faceva mol­to freddo e le venne la pelle d’oca. Masako, come per conso­larsi, si massaggiò delicatamente le braccia e prese una con­fezione di fettine di manzo. Lo stesso colore dei muscoli di Kenji. L’immagine le attraversò il cervello come un lampo e rimise il pacchetto al suo posto. Poi si sorprese a cercare il co­lore dei tendini, delle ossa, del grasso di Kenji, e le venne da vomitare. Era la prima volta che le succedeva. Forse la ten­sione incominciava a sciogliersi? Masako, scoraggiata, smise di pensare alla cena. Decise di andare a lavorare senza man­giare. Il digiuno, la fame sarebbero stati la sua punizione. Anche se non capiva perché voleva punirsi. Il caldo oppressivo, senza un alito di vento, che precede­va il tifone era pesante. Sembrava una tempesta più forte del solito, quella che si stava avvicinando. E con questa l’estate sarebbe definitivamente finita. Masako alzò lo sguardo al cie­lo e rimase ad ascoltare il lontano, cupo rumoreggiare del vento che si incominciava a udire in lontananza. Tornò alla sua Corolla rossa ferma nel posteggio e rico­nobbe la vecchia bicicletta che attraversava il grande spiazzo d’asfalto dirigendosi verso di lei. «Maestra!» Masako alzò la mano in segno di saluto. «Non hai fatto la spesa?» domandò Yoshie fermando la bicicletta accanto alla Corolla, dopo aver visto che Masako era a mani vuote. «Ho rinunciato». «Perché?» «A un tratto mi è passata la voglia». Yoshie scrollò la testa e Masako si accorse per la prima volta che aveva parecchi capelli

bianchi. «Ma non devi preparare la cena? Che cosa succede?» «Niente di speciale. Non mi sento molto bene. Evidente­mente sono troppo stanca». «Almeno tu te lo puoi concedere. Se lo facessi io sia la vecchia che il piccolo Issey morirebbero presto». «Il tuo nipotino è ancora da te?» «Già, e mia figlia è sparita. Mia suocera non si decide a morire e il bambino non fa che piangere. Possibile che io sia destinata a tirarmi addosso tutte le grane?» Masako non rispose, si appoggiò alla Corolla e sollevò lo sguardo all’inquietante colore del cielo che preannunciava l’arrivo del tifone. Ogni volta che ascoltava le infinite la­mentele di Yoshie le sembrava di essere chiusa in un tunnel di cui non si intravedeva l’uscita. Non ne voleva più sapere! Voleva essere libera! Voleva andarsene, voleva liberarsi da tut­to quel ciarpame. Chi non riusciva a liberarsene era destina­to a seppellirsi nello squallore della quotidianità, sempre lo stesso. Come lei fino ad ora. «Tra poco l’estate finirà». «Ma che dici? Siamo a settembre – l’estate è già finita». «Già, è vero». «Questa sera vieni a lavorare?» le domandò preoccupata Yoshie. Masako la guardò in faccia: la domanda le aveva fat­ to venire in mente che avrebbe potuto licenziarsi. «Penso di sì, perché?» «Ah, meno male! Negli ultimi tempi sei un po’ strana, co­me se non fossi del tutto in te. Avevo paura che volessi pian­tarci in asso». «Piantarvi in asso? Che cosa vuoi dire?» Masako tirò fuo­ri dalla borsa il pacchetto di sigarette e la guardò. In quel momento un colpo di vento scompigliò i capelli stopposi di Yoshie, che cercò di trattenerli con le mani. «Be’, sai, se prima eri impiegata in una banca… Me l’ha raccontato Kuniko. Forse il pesante lavoro manuale che dob­biamo fare in fabbrica non è il più adatto per te!» «Te l’ha detto Kuniko?» Le venne in mente che la scadenza della rata era passata da un bel po’. Dove aveva trovato i soldi, dal momento che non aveva entrate? Solo Jumonji poteva averle parlato del suo vecchio lavoro. La aveva persa di vista troppo a lungo: pur di tirarsi fuori dai guai Kuniko era capace di tutto. Era stato un errore e adesso se ne pentiva. Masako era rosa dai dubbi. «Certo che vengo a lavorare. E poi non ho nessuna in­tenzione di lasciare la fabbrica». «Grazie a Dio!» Il volto di Yoshie si illuminò. «Senti, maestra», le chiese Masako, «da quando abbiamo fatto quella cosa non c’è stato alcun cambiamento?» «Che intendi con “cambiamento”?» Yoshie si guardò in­torno spaventata. «No, non alludevo alla polizia. Volevo dire se non è cam­biato qualcosa in te, nel tuo animo». Yoshie meditò qualche istante e poi, con aria dispiaciuta, disse: «Niente. Forse perché ho la sensazione di avere soltan­to dato un aiuto…» «Come quando accudisci tua suocera o il nipotino?» «No, questa è un’altra cosa!» Yoshie fece una smorfia. «Ti prego, non si può buttare tutto nella stessa pentola!» «Davvero?» «Naturalmente… O al massimo… Forse c’è qualche ana­logia, nel senso che ho collaborato perché non c’era nessun altro che lo avrebbe fatto…» «Certo. So che cosa vuoi dire», concluse Masako. Lasciò cadere a terra il mozzicone e lo

calpestò. «Allora ci vediamo più tardi». «E per te è cambiato qualcosa?» Yoshie le rigettò la do­manda. Il suo sguardo era serio. «No, niente.Che cosa sarebbe dovuto cambiare?» mentì Masako e aprì la portiera dell’auto. Yoshie spostò la biciclet­ta e le fece spazio. «Allora a stasera!» Masako salì in macchina e agitò la mano da dietro il pa­rabrezza. Yoshie sorrise, balzò agilmente in sella alla biciclet­ta e si mise a pedalare verso il supermercato. Masako la seguì con lo sguardo, meditando. Anche se per il momento non si poteva vedere nessun mutamento, non appena avesse avuto in mano il denaro di Yayoi anche Yoshie sarebbe cambiata in un batter d’occhio. Masako rimuginò quel pensiero senza la minima malizia, freddamente. Appena entrò in casa sentì lo squillo del telefono. Ab­bandonò la borsa sulla scarpiera in ingresso e si precipitò a rispondere. Doveva essere Yayoi. Era ormai una settimana che non aveva sue notizie. «Sì, sono Katori». «Parlo con la signora Masako Katori? Mi chiamo Ju­monji. Una volta lavoravamo insieme: allora mi chiamavo ancora Yamada». «Ah, è lei?» A questo non aveva ancora pensato. Masako prese una se­dia e si sedette. Dopo la corsa che aveva fatto per rispondere in tempo era tutta sudata. «È da tanto che non ci sentiamo». «Ma se ci siamo appena incontrati!» «Ah, lei si riferisce al nostro ultimo incontro? Quello non vale, è stato solo un caso», ironizzò Jumonji. «Che cosa vuole?» Masako aveva voglia di fumare, ma si accorse di aver lasciato la borsa in ingresso. «Se si tratta di un discorso lungo, deve avere un attimo di pazienza». «Bene, aspetto», rispose Jumonji. Masako andò in ingres­so e mise la catena alla porta. Così avrebbe guadagnato tem­po se il figlio o il marito fossero rientrati. Non si poteva mai sapere. Prese la borsa e tornò in soggiorno. «Mi scusi. Allora, di che cosa vuole parlarmi?» «Non è facile da dire al telefono. Non potremmo incon­trarci da qualche parte?» «Non capisco. Perché non se ne può parlare per telefo­no?» Probabilmente la voleva mettere sotto pressione perché lo aiutasse a riscuotere i debiti di Kuniko, pensò Masako. Ma in fondo era solo un piccolo usuraio di quartiere, non costi­tuiva un problema. «È una cosa un po’ complicata. In ogni caso si tratta di af­fari; in sostanza vorrei farle una proposta». «Un momento. Prima vorrei farle io una domanda. La si­gnora Jonouchi ha pagato la rata?» «Sì, ha pareggiato tutti i conti». «E come ha fatto?» «Con alcune informazioni», ammise con disinvoltura Ju­monji, e Masako seppe che la sua intuizione era esatta. «Che tipo di informazioni?» «È proprio di questo che vorrei parlarle a quattr’occhi». «Capisco. Dove?» «Questa sera deve andare a lavorare, vero? Che ne direbbe se prima del turno ci trovassimo per cena in una trattoria?» Si diedero appuntamento per le nove al Royal Host, vici­no allo stabilimento.

Ecco che crollava tutto. Da quando, poco prima, aveva parlato con Yoshie, aveva avuto una specie di presentimento, ma adesso si sentiva responsabile, era colpa sua e questo la deprimeva. Sentì il portoncino sbattere contro la catena. Qualcuno doveva essere rientrato e suonava furioso il cam­panello. Masako corse a togliere la catena, spalancò la porta e vide Nobuki a testa bassa, imbronciato come al solito. No­nostante il caldo afoso aveva un berretto di lana nero calato fin sugli occhi; oltre a questo portava una T-shirt nera sbia­dita, un paio di pantaloni troppo larghi che gli scivolavano sui fianchi e un paio di scarpe da ginnastica. «Ciao, entra». Senza dire una parola Nobuki le scivolò davanti e si infilò in casa. Masako contemplò stupita l’elasticità di quel corpo giovane e robusto, apparentemente così rigido. Se si fosse de­gnato di parlare, avrebbe subito protestato contro quella ma­ledetta catena, ma Nobuki salì in fretta le scale e si diresse verso la sua camera senza neppure degnarla di uno sguardo. «Oggi arrangiati da solo per la cena!» urlò verso il piano superiore, e la sua voce risuonò nella casa vuota. Bene, il messaggio valeva per la casa intera e tutto quello che c’era dentro, pensò Masako. Arrivò puntuale al Royal Host e scorse Jumonji seduto a un tavolo appartato in fondo alla sala. Aveva in mano un giornale spiegazzato. «Grazie per essere venuta». Masako si limitò a un cenno di saluto e gli si sedette su­bito di fronte. L’uomo indossava un completo leggero e una polo bianca. Masako come al solito non aveva speso un pensiero per il proprio aspetto e si era infilata un paio di jeans e una vecchia T-shirt di Nobuki. «Buonasera, signori». Un uomo vestito di nero, probabil­mente il gestore, porse due menu e si allontanò perplesso, come se si domandasse che tipo di relazione ci fosse tra loro. «Ha già cenato?» Jumonji aveva ordinato un caffè freddo. Masako rifletté un attimo, poi scosse la testa: «No, non ancora». «Allora ordini, prego. Anch’io vorrei mangiare qualcosa». Masako scelse gli spaghetti. Jumonji ordinò lo stesso piat­to e disse al cameriere di portargli il caffè dopo la cena. «Cara signora, è molto che non ci vediamo. Non mi rife­risco al nostro ultimo casuale incontro – è durato così poco – pensavo a quando lavoravamo insieme all’istituto di credi­to Tanashi. Ho imparato così tanto da lei!» iniziò Jumonji in tono adulatorio, guardandola intimidito come se la temesse. Masako si domandò stupita perché mai avesse paura di lei. «Di che cosa mi vuole parlare?» «Mira subito al sodo, vero?» commentò Jumonji incas­sando la testa tra le spalle. «È stato lei a chiamarmi e a dirmi che voleva parlare di qualcosa che non si poteva discutere per telefono!» «Ma lei era così anche quando lavorava in banca, signora Katori?» «Così come?» Masako bevve un sorso d’acqua. Era gelida. «Be’, così… razionale!» «Certamente. E anche lei può mostrare la sua vera faccia, in fondo la conosco bene!» Era vero: adesso la sua immagine era radicalmente cambiata e cercava in tutti i modi di susci­tare simpatia, ma quando si occupava della riscossione dei crediti si atteggiava a piccolo delinquente, con le sopracciglia rasate e un ciuffo di capelli permanentati al centro della testa, e vestiva come uno yakuza. Le era anche giunta voce che faceva parte di una banda di motociclisti di Adachi. «La mia vera faccia?» replicò Jumonji grattandosi la testa. «Non sono di certo alla sua altezza, signora Katori!»

Portarono gli spaghetti. Masako prese la forchetta e inco­minciò a mangiare. Alla fin fine era arrivata anche la cena, anche se in modo del tutto inaspettato. Masako si lasciò scappare una risatina. «Che cosa c’è di così divertente?» «Ah, niente». Poco prima era stata proprio lei a imporsi il digiuno come punizione, e invece ora stava mangiando con appetito. A un tratto capì che la vera punizione, se di puni­zione si poteva parlare, era che aveva dovuto soffocare così a lungo il suo desiderio di libertà. Finito di mangiare si pulì la bocca con un tovagliolo di carta. Intanto anche Jumonji ave­va finito e si era acceso una sigaretta senza neppure chieder­le il permesso. «E allora, quali sarebbero gli affari che vuole propormi?» «Sì, vengo subito al punto. Prima però vorrei ancora far­le i miei complimenti». «A proposito di che cosa?» «Ha dimostrato di avere veramente stile, dico sul serio!» Jumonji ghignò, ma non c’era ironia nel suo sguardo. «A che cosa si riferisce? Perché vuole complimentarsi con me e in che cosa avrei avuto stile?» «I pezzi», mormorò Jumonji. Masako si sentì gelare e lo guardò negli occhi. «Sa tutto, vero?» «Sì». «Proprio tutto?» «Forse». «È stata Kuniko a parlare, vero? Per un miserabile debito di cinquecentomila yen!» «Su, non se la prenda con lei». «Stia tranquillo, non me la prendo. Alla fin fine è lei, Ju­monji, che ha dimostrato di avere più testa!» «Testa o non testa, non so se si può semplicemente…» Masako schiacciò con rabbia la sigaretta nel portacenere pieno delle cicche di Jumonji. La aveva fregata. «E allora? Mi vuole dire di che affare si tratta?» «Un servizio per lo smaltimento di cadaveri!» propose Ju­monji a bassa voce, sporgendosi verso di lei. «Ci sono un sac­co di cadaveri da fare sparire di nascosto, senza lasciare trac­ce. E di questo ce ne potremmo occupare noi». Masako rimase a bocca aperta. Aveva creduto che Ju­monji avrebbe cercato di ricattarla o qualcosa del genere, ma che le facesse quella proposta! A pensarci bene, non ci sareb­be stato molto da cavare da un paio di povere casalinghe che si erano macchiate di un delitto. Almeno finché non fosse venuto a conoscenza del denaro dell’assicurazione, natural­mente. «E allora? Che cosa ne pensa?» chiese Jumonji con sguar­do quasi umile, scrutando la sua espressione. «Quale sarebbe il suo piano?» «Io procuro gli ordini. Questa parte del lavoro deve ri­manere assolutamente segreta, per cui lei non ne deve sape­re niente, signora Katori. Lei entrerà in gioco solo quando avremo un oggetto da eliminare. Lei lo farà a pezzi e io mi occuperò dello smaltimento in un posto adeguato. Un enor­me inceneritore, per essere esatti. Sembra fatto apposta – non se ne accorgerà nessuno». «E allora perché non porta direttamente gli oggetti all’in­ceneritore?» «No, non funzionerebbe. Un oggetto della grandezza di un uomo salta agli occhi, non è detto che il posto sia ancora così deserto e che non ci sia sorveglianza. Se invece lo facciamo a pezzi e lo imballiamo come la solita spazzatura, nessu­no riuscirà mai a capire di che cosa si tratta. Ah, dimentica­vo: l’inceneritore è a Fukuoka». «Non vorrà dire per caso che dovrei confezionarli in pac­chetti da spedire per posta?» Masako lo guardò costernata, ma Jumonji rimase assolutamente serio. «Ha indovinato. Dieci o venti pacchi da cinque chili l’u­no. Io vado a Fukuoka, li ritiro e li

porto all’inceneritore. Funzionerà in modo perfetto». «E io dovrò solo occuparmi della spezzatura?» «Sì. Ha qualche obiezione o domanda?» Jumonji sorbì rumorosamente il caffè che gli avevano appena portato. Continuava a scrutare il volto di Masako nel tentativo di ca­pire i suoi pensieri. Il luccichio dei suoi occhi tondi si sareb­be potuto anche interpretare come segno di intelligenza. «Com’è che le è venuta in mente questa idea?» «Perché vorrei lavorare di nuovo con lei». «Con me?» «Sì, con lei, signora Katori. Perché lei ha stile». «Non riesco proprio a capire di che cosa parla». «Non importa. Si tratta solo di una mia valutazione per­sonale». Jumonji si passò le mani tra i capelli lisci, divisi da una scriminatura centrale. Masako si girò e diede un’occhia­ta ai tavoli vuoti del Royal Host. Non c’era nessuno che po­tesse riconoscerla. L’uomo vestito di nero, appoggiato alla cassa, era intento a chiacchierare con una giovane cameriera dall’espressione infantile. Come se in attesa della risposta di Masako avesse perso la fiducia in se stesso, Jumonji incominciò a lamentarsi: «La mia agenzia di prestiti durerà ancora un anno o due al massimo. E poi fallirò. Per questo ho pensato: o adesso o mai. Sarebbe stupendo fare una cosa così eccezionale e rischiosa. Ma forse sono stato troppo ottimista…» «Davvero si potrebbero fare molti soldi?» lo interruppe Masako. «Sicuramente più di quanti se ne possono fare prestando denaro a dei poveracci». «E quanto vuole incassare per ogni cadavere?» domandò Masako che un po’ alla volta stava ritrovando il suo senso de­gli affari. Jumonji si passò la lingua sulle labbra sottili e ben dise­gnate meditando se fosse meglio raccontarle tutto o no. «Forza, mi dica fino a che punto si è spinto. E sia since­ro, altrimenti se lo può scordare». «Okay. Giocherò a carte scoperte. Gli incarichi ce li pro­cura il signor X; per ogni oggetto noi prendiamo otto milio­ni; X se ne tiene tre per la mediazione. Dei cinque milioni che rimangono io ne prendo due e lei tre. Be’, che cosa ne pensa?» Masako si accese una sigaretta e disse in fretta: «Non fac­cio niente per meno di cinque». «Come?» esclamò Jumonji. «Cinque milioni?» «Proprio così. A lei forse sembra una cosa facile, e invece è un lavoro dannatamente pesante. Sporco, disgustoso, da incubo. Se non l’ha fatto almeno una volta, non può capire. E se poi crede che la spezzatura possa avere luogo nel bagno di casa mia, si sbaglia: il mio bagno è fuori questione. Non è un lavoro che si possa fare in una normale casa di abitazio­ne: il rischio è troppo grande. Dove aveva pensato che do­vesse essere fatto?» «Mah, siccome la signora Jonouchi mi ha detto che il la­voro è stato fatto nel suo bagno, pensavo che si sarebbe po­tuto continuare così…» rispose Jumonji intimidito. «E perché non a casa sua? Lei vive solo, no?» «Sì, ma la mia casa è piccola, e ho solo la doccia». «Non è davvero semplice, mi creda. Anzitutto bisogna fa­re in modo che il lavoro venga eseguito quando in casa non c’è nessuno. Poi bisogna stare attenti che nessuno dei vicini si accorga quando l’oggetto viene portato dentro. E inoltre un cadavere si porta sempre dietro un sacco di cose persona­li che potrebbero diventare pericolose e che perciò devono essere eliminate in modo altrettanto meticoloso – anche que­sto non è così semplice». Masako tacque; all’improvviso si era ricordata della chiave che Kazuo Miyamori aveva ripe­scato dal canale di scolo. Jumonji attendeva con il fiato so­speso che ricominciasse a parlare. «Da sola non sono assolu­tamente in grado di fare a pezzi un cadavere. E dopo bisogna anche pulire il bagno, e anche questo è un lavoraccio. No, per meno di cinque milioni io non mi muovo, figuriamoci poi a casa mia!»

Jumonji, confuso, si portò alle labbra la tazza e cercò di bere. Quando si accorse che era vuota fece un cenno alla ca­meriera che, controvoglia, andò a riempirla di caffè. «Allora facciamo così: io porto avanti e indietro l’oggetto e tutto ciò che lo riguarda, vale a dire che penso io a elimi­nare i vestiti e tutte le altre cose. Potrebbe andare bene?» «Sì, suona già meglio. Ma non trova anche lei che tre mi­lioni per la mediazione siano un po’ troppi? Questo signor X, che sostiene di concludere l’affare per otto milioni, in realtà quasi sicuramente ne incassa dieci. Vale a dire che due se li tiene subito, più tre che vuole da lei, alla fine se ne va tran­quillamente con cinque milioni. Se la conosco bene, si trat­ta sicuramente di uno della malavita con cui ha ancora rap­porti, vero?» «Già, e le sue congetture sulla sua tattica probabilmente non sono così sbagliate…» Jumonji si mise un dito sulle lab­bra e sprofondò nei suoi pensieri. Masako evitò di dirgli che lo considerava un po’ troppo ingenuo. «Quindi, o riesce a fargli abbassare le sue pretese, o gli chiede almeno dieci milioni in tutto». «Ho capito, ma si potrebbe fare anche così: io mi accon­tento di un milione e mezzo e lei ne prende tre e mezzo». «No», rispose Masako e guardò l’orologio. Erano quasi le undici, ora di andare a lavorare. «Un momento, aspetti!» Evidentemente Jumonji voleva trattare immediatamente con il signor X, perché tirò fuori di tasca il cellulare. Masako ne approfittò per andare alla toilette. Nell’anti­bagno si fermò a guardarsi allo specchio. Si asciugò il sudo­re dalla fronte con un fazzolettino di carta. Aveva paura di se stessa: in che cosa si stava cacciando ancora una volta? Ma al­lo stesso tempo si sentiva eccitata. Prese il rossetto in fondo alla borsa e si ritoccò le labbra. Al tavolo Jumonji la aspettava con un’espressione di stu­pore dipinta sul viso. «Che cosa c’è?» «Niente, niente. Solo che sono appena riuscito a trovare un accordo». «Ha fatto in fretta». «Bah, alla fine era quasi commovente con quella storia dei vecchi compagni di scuola, e che io sono il più giovane e quindi lui si sente impegnato». Jumonji sogghignò. Masako si ricordò che anche nella riscossione dei crediti Jumonji si era sempre distinto per presenza di spirito e abi­lità – bastava dargli le corrette indicazioni. «E allora, che cosa avete concluso?» «Ho insistito, ma otto milioni sembra che sia il limite massimo. Perché siamo nuovi del mestiere e non abbiamo ancora un curriculum da esibire. Ma almeno ha mandato giù il fatto che deve abbassare il suo prezzo. Siamo rimasti così: due milioni per la mediazione, due per me e gli altri quattro per lei. Ma se qualcosa va storto la controparte non vuole sa­perne niente e non ci darà alcun aiuto». «Mi sembra ovvio. Perciò sostengo che il prezzo di prima era di gran lunga sovrastimato…» Masako calcolò a mente la divisione della somma. Per Yoshie, alla quale avrebbe propo­sto di aiutarla, sarebbe bastato un milione. Kuniko in ogni caso sarebbe stata tagliata fuori. Per quanto riguardava Yayoi avrebbe deciso più avanti se coinvolgerla o meno, dopo aver valutato le sue condizioni di spirito. «E allora, cosa ne pensa?» chiese di nuovo Jumonji, que­sta volta un po’ più sicuro di se stesso. Masako annuì: «Va bene. Accetto». «Allora diamoci da fare!» annunciò Jumonji con aria de­cisa. «Però devo chiederle un’altra cosa». «Che cosa?» «Si occuperà lei dei trasporti, con la sua auto. E poi mi procurerà un set di bisturi da chirurgo, da qualche grossista di materiale medico. Altrimenti sarà difficile tagliare». Jumonji si grattò una guancia: «Come se fosse carne…» «È esattamente quello che è. Ci sono carne, ossa e altre lordure puzzolenti», replicò

bruscamente Masako e Jumonji tacque. «E poi deve rispondere a un’altra domanda». «Sì?» «Come è riuscito a fare sputare l’osso a Kuniko? Come ha fatto a farla abboccare?» «Le ho promesso di annullarle tutti i debiti che aveva con me», rispose Jumonji e per la prima volta un sorriso compia­ciuto gli illuminò il viso. «Ho pagato l’informazione quattrocentoquarantamila yen. Perciò dovrò trovare molte com­missioni, per recuperare». «E si accontenterà di due milioni?» insistette Masako «Sì. Tanto di lavoro ce ne sarà molto». «Mah, non so – crede che filerà tutto liscio?» «Proviamo!» Il suo ottimismo le piaceva. Masako annuì, lasciò sul ta­volo il denaro per pagare la sua parte di conto e si alzò. Non sapeva ancora se da quella faccenda si poteva sviluppare dav­vero un buon affare. Era troppo presto per giudicare.

4. Il lontano brontolio del vento era cessato e il livello di umi­dità era elevatissimo. Non appena uscì in strada Masako sentì i capelli che le si incollavano alle guance. Ben presto il tifone avrebbe raggiunto la costa e lei incominciò a preoccu­parsi per il tempo che avrebbe fatto il mattino seguente. Ac­cese l’autoradio e cercò un programma che trasmettesse le previsioni meteorologiche ma arrivò al parcheggio della fab­brica senza essere riuscita a trovarlo. In un angolo avevano incominciato a montare una pic­cola casa prefabbricata, una specie di guardiola. Masako le diede un’occhiata senza prestarvi attenzione e ritornò subito al pensiero che dominava la sua mente, l’“affare” che le ave­va proposto Jumonji. Molto più in fretta di quanto non si sa­rebbe mai aspettata era stata catapultata in un altro mondo, e riusciva perfino a trovare divertente il fatto che bene e ma­le, successo e fallimento avessero per lei lo stesso valore. Mentre si sfilava le scarpe da ginnastica all’ingresso dello stabilimento vide che una donna era ferma accanto a lei. «Buongiorno, Masako-san!» la salutò una voce che cono­sceva bene. Alzò stupita lo sguardo: era Yayoi. Sembrava un’altra: si era tagliata i capelli, che prima le arrivavano alle spalle, sco­prendo il lungo collo, si era truccata gli occhi – che ora avevano maggior risalto – e si era messa un rossetto scuro. Lei, che di solito era dolce, indecisa, smarrita, ora sprizzava fre­schezza e vivacità come una ragazzina. «Dio mio, se sei cambiata! Non ti avevo riconosciuto!» «Lo dicono tutti», replicò imbarazzata Yayoi. I suoi modi erano quelli di sempre, ma aveva una specie di consapevo­lezza che la faceva sembrare un’altra persona. «Ma oggi non ti sei truccata un poco anche tu?» «Come?» «Sì, ti sei messa il rossetto!» Masako si era del tutto dimenticata di essersi truccata le labbra nella toilette del Royal Host. Ci passò sopra la mano sporcandosi le dita. «No, non toglierlo!» la trattenne Yayoi. «Ti sta bene. Lascialo così». «Riprendi a lavorare questa notte?» «No, ho fatto solo un salto per scusarmi con il direttore, il signor Komada e gli altri. Ho portato loro una scatola di cioccolatini». «Allora adesso torni a casa?» «Per oggi sì. Sta arrivando il tifone. Dicono che raggiun­gerà il Kanto verso mattina e ho promesso ai bambini che sa­rei tornata presto. Mi stanno aspettando». «Già, è meglio così». «E poi, ecco qui. Alle altre glieli ho già dati», bisbigliò in fretta all’orecchio di Masako, premendole in mano una vo­luminosa busta marrone. «Che cos’è?» Invece di rispondere Yayoi fece un profondo inchino. «Domani verrò a lavorare, a presto!» disse solo e si dires­se svelta verso l’uscita, in direzione opposta a quella di Ma­sako. Le parole, il modo di fare, tutto in lei era vivace, spi­gliato ed energico, non aveva niente a che fare con la Yayoi di una volta. Masako l’inseguì svelta. Yayoi stava scendendo a passi leggeri la scala esterna ricoperta di moquette verde. «Aspetta!» Yayoi si girò verso di lei con espressione serena. «Che cos’è?» le domandò Masako agitando la busta mar­rone. Per tutta risposta Yayoi sollevò

due dita. Voleva signi­ficare che erano i due milioni promessi. Masako chiese sottovoce: «Hai già ricevuto il denaro dell’assicurazione?» «No, non ancora», rispose Yayoi scuotendo la testa. «Me li hanno prestati i miei genitori, ho detto loro che dovevo pa­gare dei debiti. Volevo darvi il denaro quanto prima, in mo­do da non doverci più pensare». «Non è un po’ presto?» «No, va bene così. Kuniko mi ha già fatto pressione, e probabilmente la maestra ne ha un grande bisogno, per cui non volevo farle aspettare ancora. E in ogni caso sono già passati quarantanove giorni, e ho pensato che ormai era ora di pagarvi». «Questo lo so…, ma è ugualmente troppo presto». «Può essere. Ma adesso mi sento finalmente libera». Non era al denaro che si riferiva Masako, quanto piutto­sto al grande cambiamento di Yayoi, troppo repentino agli occhi della gente, ma capì che spiegarlo ora sarebbe stato inutile. In fondo anche lei era cambiata, e a Yayoi era suc­cessa la stessa cosa. «Capisco. E ti ringrazio». Yayoi le fece un cenno di saluto con la mano, scese svelta la scala e sparì nel buio umido e torrido della notte. Dopo che se ne fu andata, Masako si sottopose come al solito alla disinfezione con il rullo da parte dell’addetto all’i­giene, evitò il salone e andò direttamente alla toilette. Quan­do fu sola aprì la busta marrone: come promesso vi erano due mazzette da un milione di yen l’una, chiuse da una fa­scetta. Masako infilò il denaro bene in fondo alla borsa. Al­lo stabilimento l’unico posto in cui si poteva godere di una qualche intimità era la toilette. Ritornò nel salone con aria indifferente e vide Yoshie e Kuniko sedute sul tatami che bevevano il tè. Si erano già cambiate e riuscivano a malapena a nascondere la loro eccitazione. «Hai già visto Yama-chan?» domandò Yoshie invitando Masako a sedersi. «Sì. Poco fa». «Ha dato qualcosa anche a te?» bisbigliò Yoshie. Masako chiese a sua volta con aria innocente: «Vuoi dire i soldi?» «Sì. Noi abbiamo ricevuto cinquecentomila ciascuna». Kuniko si limitò a confermare con uno sguardo le parole della compagna: era rossa in viso per la felicità. Ma presto anche quel denaro le sarebbe scivolato via tra le dita, pensò Masako, e lei avrebbe dovuto stare molto attenta, ora che quella donna aveva assaggiato il gusto dei soldi facili. «Speriamo che Yama-chan non abbia confidato troppo nelle proprie forze». «Gliel’avevo detto anch’io! Prenditi tempo, le avevo det­to, ma lei non ha voluto ascoltare ragioni e ce li ha dati su­bito!» protestò Yoshie, senza tuttavia riuscire a nascondere l’emozione. Non si era aspettata di essere pagata così presto. «Be’, allora va bene così!» «Ma sei sicura di non volerne anche tu?» domandò Yoshie preoccupata. Masako sorrise e si limitò a scuotere la testa in segno di diniego. A lei era toccata la parte del leone, ma non aveva al­cuna intenzione di dirlo alle altre. Li avrebbe usati per fug­gire o come capitale di base per una nuova vita, tutta sua. Al limite avrebbe anche potuto spenderne un po’ per aiutarle. In ogni caso non era neppure sfiorata dal rimorso. «Io non ne ho bisogno, davvero». «Be’, allora – scusa, Masako-san», disse Kuniko stringen­do al petto la borsa con il denaro come se temesse che qual­cuno gliela potesse strappare di mano. Masako le lanciò un rapido sguardo e cercò di soffocare l’ira: «Con questo riuscirai finalmente a pagare i tuoi debiti, no?» Non poteva privarsi di quella piccola soddisfazione, ma Kuniko non si accorse del sarcasmo e si

limitò a rispondere con un vago sorriso. Mentre con gesti esperti si raccoglieva i capelli con un fer­maglio, Masako chiese: «E adesso, durante il turno, dove avete intenzione di mettere i soldi?» «Brava, è esattamente questo che ci preoccupa! Avevamo pensato di chiedere il favore di tenerceli a uno di quelli che hanno un armadietto chiuso a chiave», rispose Yoshie guar­dandosi intorno alla ricerca della persona giusta. Nello stabi­limento gli unici ad avere armadietti chiusi a chiave erano gli operai con più di tre anni di anzianità, che per questo moti­vo erano trattati quasi come impiegati – ma si potevano con­tare sulle dita di una mano –, e i dipendenti brasiliani, che sentivano più degli altri il bisogno di difendere la propria privacy. «Perché non lo chiediamo a Miyamori?» concluse Yoshie senza girarsi. Masako lo individuò nel gruppo dei brasiliani fermi come al solito in un angolo del salone. Sedeva a terra con il suo sguardo triste, le gambe allungate davanti a sé, e fumava una sigaretta sforzandosi di non guardare in direzio­ne di Masako. «E perché non Komada?» disse Masako, ma subito si rese conto che l’addetto al controllo dell’igiene si sarebbe sicura­mente insospettito vedendo che le operaie portavano con sé tutto quel denaro. «No, forse non è una buona idea». «Credo anch’io. Il signor Miyamori sembra un tipo riser­vato, credo che ci si possa fidare di lui, non vi pare? Adesso provo a chiederglielo». «Credi che capisca il giapponese?» chiese Kuniko preoc­cupata, ma Yoshie si aggrappò con le mani al lungo e stretto tavolo in laminato plastico, tirandosi su a fatica. Kazuo vide la donna che gli si avvicinava e, come per riflesso, lanciò a Masako uno sguardo interrogativo. Sembrava vagamente of­feso, forse pensava che fosse stata lei a inviarle Yoshie. In ogni caso Masako non aveva proprio voglia di avere altri proble­mi con lui, e quello che le altre due volevano fare del dena­ro di Yayoi non la riguardava. Con aria indifferente sparì nello spogliatoio per finire di prepararsi per il turno. Indossò velocemente la divisa bianca e spinse la busta marrone bene in fondo alla tasca dei pantaloni, in modo che non potesse uscire mentre lavorava. Oltre le grucce dov’erano appesi gli abiti poteva vedere Kazuo che ascoltava il discorso di Yoshie e si alzava dal tatami. Yoshie e Kuniko lo seguirono fuori dal salone. Gli armadietti degli operai brasiliani erano sistemati accanto alle toilette. Quando Yoshie e Kuniko ritornarono, Masako si stava la­vando le mani e le braccia fino al gomito col sapone disin­fettante in uno dei lavandini disposti nel corridoio. «Grazie a Dio! Il signor Miyamori è davvero una brava persona!» commentò Yoshie sollevata, prese la piccola spaz­zola di Masako e incominciò a lavarsi le mani. Kuniko andò a un altro lavandino, lontano da loro, e aprì il rubinetto. «Sa il giapponese?» «Be’, in qualche modo sono riuscita a farmi capire. Quando gli ho detto che avevamo delle cose importanti che avremmo voluto chiudere a chiave nel suo armadietto, ci ha fatto un paio di domande e poi ha subito acconsentito. E poi ci ha detto che lui esce più tardi e che dovremo aspettarlo un po’. È un ragazzo molto educato, davvero!» «Allora è andato tutto bene!» In quel momento Kazuo stava passando davanti a loro. Aveva pettorali ben sviluppati, spalle larghe, collo robusto e lineamenti marcati: si vedeva subito che non era giapponese. Camminava guardando dritto davanti a sé. Il suo corpo mu­scoloso sembrava appartenere al sole tropicale del Sud Ame­rica e non riusciva assolutamente ad adattarsi a quel lavoro notturno, che lo costringeva a nascondersi in una tuta bian­ca e a coprirsi la testa con un berretto da cuoco blu. Masako si domandò se portasse ancora la chiave appesa al collo. E si chiese anche come mai quel giovane straniero si era innamorato proprio di lei.

A causa del tifone in arrivo il turno finì un po’ prima del solito. Le operaie guardavano fuori dalla finestra sopra all’arma­dio delle scarpe e sbuffavano. Era l’alba, ma il cielo era scu­ro e minacciava grandine. La pioggia, spazzata dal vento, sbatteva violenta contro i vetri e scuoteva le esili sofore lun­go il muro dell’ex fabbrica di automobili, spezzando i ramo­scelli e strappando via le foglie. Ai due lati della strada asfal­tata l’acqua aveva già formato due piccoli torrenti. «Come faccio adesso!» esclamò Yoshie aggrottando la fronte. «Con questo tempo non posso certo tornare in bici­cletta!» «Allora vieni in macchina con me». «Davvero mi accompagneresti a casa? Grazie, mi fai vera­mente felice!» Yoshie guardò Masako sollevata. Kuniko tim­brò il cartellino facendo finta di niente. «Ti dispiace allora aspettare che Miyamori finisca il suo turno?» «D’accordo». «Poi ti raggiungo al posteggio». «Ma no, vado a prendere l’auto e ti aspetto qui sotto!» Yoshie ringraziò e lanciò uno sguardo malevolo alla larga schiena di Kuniko, che si incamminava lungo il corridoio come se la cosa non la riguardasse. Masako si cambiò in fretta e uscì dallo stabilimento un po’ prima delle altre. La pioggia e il vento impetuoso, che sembravano finalmente aver lacerato la soffocante cortina di caldo della notte, le diedero una piacevole sensazione. Ri­chiuse decisa l’ombrello, che con quel vento non sarebbe ser­vito a nulla, e si mise a correre controvento verso il posteg­gio. In un attimo la pioggia scrosciante la inzuppò comple­tamente. Le ciocche di capelli, fradice e pesanti, le frustava­no il viso, ma strinse al petto la busta con il denaro e conti­nuò a correre. Arrivò di fronte allo stabilimento dismesso: il coperchio del tombino, spostato da Kazuo, era ancora aper­to e si udiva l’acqua scorrere impetuosa. Probabilmente tutti gli effetti personali di Kenji, a parte la chiave, erano ormai stati trasportati lontano dalla corrente. A questo pensiero Masako, benché rischiasse di essere travolta dal vento, sorri­se. Sì, sarebbe stata libera, si disse, e questa considerazione bastò a farla sentire già liberata. Arrivata alla Corolla si lasciò scivolare sul sedile così com’era, tutta bagnata. Si asciugò le braccia con il panno che teneva sotto il cruscotto e, sperando che servisse a qualcosa, azionò il tergicristallo e mise al massimo la ventola. L’aria fredda le fece venire la pelle d’oca. Avviò il motore e ritornò lentamente allo stabilimento. Proprio mentre stava parcheg­giando uscì Kuniko che, come al solito, non si rassegnava a passare inosservata: indossava dei fuseaux a fiori e una larga T-shirt nera. Degnò di un rapido sguardo l’auto di Masako e, senza un cenno di saluto, aprì l’ombrello blu e si incam­minò nella tempesta. Subito l’ombrello parve in procinto di volarle via. Masako seguì i suoi tentativi di contrastare il ven­to nello specchietto retrovisore. In fabbrica avrebbe continuato a lavorare con lei, ma in privato non voleva più aver nulla a che fare con quella don­na. Come se le avesse letto nel pensiero, immediatamente Kuniko, sospinta dal vento, scomparve dalla sua visuale. Masako vide Yoshie che scendeva la scala esterna. Con sua grande sorpresa si accorse di Kazuo che, subito dietro di lei, cercava di coprirla con l’ombrello di plastica trasparente, il solito berretto nero ben calcato sulla fronte. Yoshie, soc­chiudendo gli occhi per proteggersi dalla pioggia scrosciante, si avvicinò alla macchina e bussò al finestrino. «Scusa, potresti aprire il portabagagli?» «Perché?» «Si è offerto di sistemarmi la bicicletta», rispose Yoshie in­dicando Kazuo. Gli occhi di Kazuo e di Masako si incontra­rono. Lo sguardo del giovane era fedele e puro come quello di un cucciolo. Masako, senza dire una parola, premette il pulsante che apriva il portabagagli. Il portellone del cofano si sollevò e le coprì la vista ma, investito dal vento, si mise a oscillare pericolosamente. Allora Masako

scese dalla macchi­na e venne subito tempestata da grosse gocce di pioggia che la pungevano come aghi. «No, rimani seduta. Ti bagnerai!» le urlò Yoshie. Con quel tempo ci si poteva sentire solo gridando. «Non importa, sono già bagnata!» «Seduta». Kazuo si era avvicinato, l’aveva afferrata per le spalle e ora la spingeva con tutte le sue forze al posto di gui­da. Lei si arrese a quel gesto che non ammetteva repliche e si rimise a sedere. Yoshie si accomodò accanto a lei. «Che tempo orribile!» Nel frattempo Kazuo, che doveva essere andato di corsa al posteggio delle biciclette dietro allo stabilimento, ritornò trascinando la bicicletta di Yoshie. La sollevò senza fatica e la sistemò ben bene nel portabagagli, lasciando sporgere solo una piccola parte della ruota anteriore. Masako uscì di nuo­vo a esaminare la situazione. Il portellone rimaneva legger­mente sollevato, ma non era un problema. «Dentro!» ordinò Kazuo e la guardò. Aveva il viso gron­dante di acqua, come se fosse appena uscito dalla piscina. La maglietta bianca gli si era incollata al petto, si poteva intravedere la pelle. Masako vide la catena con la chiave che pen­deva sul suo petto. Kazuo la coprì con la mano e distolse lo sguardo. «Grazie». «Prego», rispose Kazuo senza l’ombra di un sorriso. Il vento sibilava, e un rametto volante cadde fra i due. «Sali, ti porto a casa». Kazuo scosse la testa. Poi raccolse da terra l’ombrello di plastica, lo aprì e si diresse verso lo stabilimento dismesso. «Ma che cos’ha?» domandò Yoshie, seguendolo con lo sguardo, appena Masako fu risalita in auto. «Chissà…» Masako avviò il motore. Non si soffermò a guardarlo nello specchietto retrovisore. «Ma sono contenta che mi abbia aiutato! È stato gentile, senza bicicletta non saprei come fare», brontolò Yoshie nel fazzoletto odoroso di cresolo con cui cercava di asciugarsi il viso. Masako non rispose ma cercò di concentrarsi sulla stra­da oltre il tergicristallo che si muoveva freneticamente avan­ti e indietro. Accese i fari. Finalmente arrivarono alla Shin­Oume-Highway. Tutte le auto che incrociavano avevano i fa­ri accesi e procedevano lentamente, sollevando alti spruzzi. Yoshie sbadigliò e guardò rammaricata Masako. «Mi dispiace di farti fare un giro così lungo. E adesso an­che il portabagagli sarà pieno di acqua». Masako diede uno sguardo allo specchietto retrovisore. Vide il portello sollevato che si alzava a ogni scossone. Sicu­ramente pioveva all’interno. Le venne in mente che la pioggia sarebbe riuscita a purificare il posto in cui aveva disteso il cadavere di Kenji. «Non importa. In ogni caso dovevo lavare a fondo il por­tabagagli». Yoshie ammutolì immediatamente. «Maestra», incominciò Masako senza guardarla, «faresti ancora quel lavoro?» «Cosa dici?» Yoshie, costernata, si girò verso di lei. «Forse avremo ancora un lavoro di quel genere». «Come sarebbe a dire “un lavoro di quel genere”? Non in­tendi mica come quello che abbiamo fatto? E chi verrebbe a proporcelo?» Yoshie era talmente attonita che rimase a fissa­re Masako a bocca aperta. «Kuniko ha parlato, ma la sua confessione si sta trasfor­mando in una possibile fonte di guadagno». «Quella stupida vacca ha parlato?! E allora? Per caso ha cercato di minacciarti?» Yoshie,

stupefatta, si aggrappò con forza al cruscotto, come se avesse paura che la macchina non si potesse più fermare. «No. Ma potrebbe essere un’occasione di lavoro. Non è necessario che tu conosca i dettagli, maestra. Quelli lasciali a me. Voglio solo sapere se sei disposta ad aiutarmi, nel caso mi propongano un incarico. Ti pagherò». «Quanto?» La voce le tremava, ma non riusciva a nascon­dere la curiosità. «Un milione». A quella somma Yoshie emise un sospiro. Poi, dopo alcu­ni istanti di silenzio, chiese: «Vale a dire che dovrò fare la stessa cosa?» «In generale sì, ma ci sarà risparmiata la fatica di smaltire i rifiuti. Dovremo soltanto fare a pezzi un cadavere a casa mia». Yoshie deglutì rumorosamente e si mise a valutare i pro e i contro. Masako tacque e si accese una sigaretta. Ben presto il fumo invase l’abitacolo, sembrava che venisse risucchiato dal parabrezza umido. Dopo alcuni istanti Yoshie tossì e ri­spose: «Va bene, ci sto». «Davvero?» Masako la guardò come se volesse leggerle in faccia. Yoshie era pallida come un cadavere e le tremavano le labbra. «Non riesco a dirti quanto mi serve quel denaro. E con te sarei disposta ad andare anche all’inferno». Sarebbe stato dunque l’inferno la stazione d’arrivo del lo­ro viaggio? Masako riportò lo sguardo sul parabrezza appan­nato. Tra gli scrosci di pioggia non riusciva a scorgere altro che i fanalini di coda dell’auto che le precedeva. Aveva la sen­sazione che la macchina non corresse più sull’asfalto, ma fluttuasse nell’aria. Le dava un senso di irrealtà, e anche il di­scorso con Yoshie le sembrava appartenere al mondo dei so­gni.

5. Dopo il tifone il cielo aveva perso la brillantezza estiva, come se fosse stato sfiorato da un pennello intinto nei più sfumati colori autunnali. Mano a mano che la temperatura si abbassava, anche la rabbia e il rimorso, il timore e la speranza – tutte le passioni di Yayoi – a poco a poco andavano acquietandosi. Ora era sola con i suoi bambini. Si era abituata alle nuove circostan­ze, la vita era ritornata alla normalità e la quotidianità non la spaventava più. Tuttavia i vicini, che in un primo tempo le erano stati accanto mostrando compassione e pietà nei suoi confronti, preferivano osservarla a distanza, perché Yayoi, ora che era sola ad allevare i figli, dimostrava di saperlo fare con energia e consapevolezza. Così, via via che passava il tempo, Yayoi evitava sempre più di uscire di casa, tranne che per andare a lavorare o ad accompagnare i bambini all’asilo. Provava uno strano senso di solitudine. Era così cambiata? In fondo si era solo tagliata i capelli! Cercava solamente di essere anche un padre per i bambini, dal momento che Kenji non c’era più. Non si era ancora ac­corta che, scioltosi il legame con Kenji, ne era nato un altro, ossia l’interiore consapevolezza di aver ucciso il marito, che la stava lentamente cambiando dall’interno. Tutto incominciò un mattino in cui era di turno alla pu­lizia intorno ai bidoni per le immondizie. Era uscita di casa con scopa e paletta. Il luogo di raccolta si trovava vicino a un palo della luce dietro il muro di ce­mento all’angolo della sua strada. Era lì che aveva visto ran­nicchiato Milky, la mattina dopo l’omicidio di Kenji. Yayoi alzò lo sguardo al muro di cemento dove di solito si appo­stavano i gatti randagi in attesa degli avanzi di cibo contenuti nei sacchetti della spazzatura. C’erano anche un gattino bianco, sporco, che sembrava Milky, e uno più grande, dal pelo tigrato marrone, che fuggirono non appena lei si avvi­cinò. Milky era ormai diventato un randagio e vagabondava nel vicinato, ma Yayoi, che si era rassegnata a non riaverlo più, continuò imperturbabile il suo lavoro. Radunò con la scopa la spazzatura e i pezzi di carta sparpagliati dai nettur­bini che avevano travasato il contenuto dei bidoni e ne riempì un sacco di plastica. Ebbe l’impressione che qua e là, oltre le finestre, nume­rosi occhi malevoli la spiassero, e ne fu innervosita. In quel momento udì la voce chiara di una giovane donna, che accolse come una salvezza. «Mi scusi…» Yayoi sollevò la testa, e la ragazza la guardò piacevolmen­te sorpresa. Nei suoi occhi non si leggeva che una genuina ammirazione. Possibile che non la conoscesse? Yayoi provò a ricordare se era una che abitava nel quartiere. Doveva essere intorno alla trentina, aveva i capelli lunghi e lisci sciolti sul­le spalle, e un trucco leggero. Sembrava un’impiegata, ma manifestava una timidezza da persona schiva e poco esperta del mondo. Yayoi la trovò subito simpatica. «Lei è nuova di qui?» «Sì. Mi sono appena trasferita in quell’appartamento», le spiegò voltandosi verso una vecchia casa alle sue spalle. «Pos­so gettare qui la spazzatura?» «Sì. Là ci sono scritti i giorni». Yayoi le additò una targa di metallo affissa sul palo della luce. «La ringrazio». La donna segnò minuziosamente i giorni su un’agendina. Sembrava che si fosse vestita per uscire come se dovesse andare al lavoro, ma in modo molto semplice: una camicetta bianca dalle maniche lunghe e una gonna blu. Fi­nita la pulizia, Yayoi prese il sacco di plastica e fece per al­lontanarsi, ma la donna, come se avesse aspettato quel momento, le chiese: «È sempre lei che fa pulizia qui?» «No, ci diamo i turni. Prima o poi capiterà anche a lei. Le manderanno una circolare, le sarà facile orientarsi». «Ah, è così? La ringrazio moltissimo!» «Se le sarà difficile organizzarsi a causa del lavoro, la so­stituirò volentieri».

«Ma no, figuriamoci!» rispose meravigliata la donna. «È gentile da parte sua, ma non sarà necessario. Al momento non ho lavoro». «Davvero? È sposata? Mi scusi». «No, no, sono nubile. Anche se ormai mi considero vec­chia», rise la donna scoprendo delle sottili rughe intorno agli occhi. Forse ha più o meno la mia età, pensò Yayoi. «Mi so­no appena licenziata. E adesso sono disoccupata». «Oh, mi dispiace!» «No, non deve dispiacersi. Mi concedo il lusso di torna­re sui banchi di scuola!» «Per il dottorato?» Forse la domanda era troppo indiscre­ta, ma Yayoi non si trattenne. Negli ultimi tempi non aveva nessuno con cui fermarsi a chiacchierare e anche al lavoro aveva l’impressione le colleghe la lasciassero in disparte, do­po quello che era successo, e questo la innervosiva. Era con­tenta di avere l’occasione di parlare del più e del meno con una persona che non conosceva. «Ma no, cosa va a pensare, niente a che fare con l’univer­sità! Ho iniziato a studiare l’arte della tintura, che desidera­vo imparare da tempo. Prima o poi vorrei potermi guada­ gnare da vivere con questo lavoro». «Allora al momento si arrangia con qualche lavoretto?» «No, voglio cercare di resistere per un paio di anni con i miei risparmi. Anche se non posso certo scialacquare, come vede», rispose sorridendo la donna e guardò in direzione del vecchio caseggiato. Era una costruzione in legno e tutti sa­pevano che lì l’affitto era basso, ma era altrettanto noto che gli appartamenti avevano un estremo bisogno di restauri. «Ah, capisco. Il mio nome è Yamamoto e abito nell’ultima casa in fondo alla stradina, subito dietro l’angolo. Se dovesse avere bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, venga pure da me». «Grazie, molto gentile. Io mi chiamo Morisaki. Felice di conoscerla», la salutò la donna con voce tranquilla. Yayoi si domandò come si sarebbe comportata quando avesse saputo quello che era successo a Kenji. Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, quando Yayoi, dopo un sonnellino, era andata in cucina per preparare la ce­na, sentì suonare il citofono. «Sono Morisaki», annunciò una voce allegra. Quando aprì la porta vide la signora Morisaki con in ma­no un sacchetto di uva di Koshu. Era vestita sobriamente, aveva un trucco leggero e un atteggiamento dimesso. La trovò simpatica come la volta precedente. «Ah, è lei!» «Sono venuta di nuovo a ringraziarla». «Ma non doveva disturbarsi!» disse Yayoi prendendo l’u­va e invitandola a entrare. Dopo l’incidente erano entrate in casa solo persone che la stressavano e la mettevano a disagio: i parenti suoi e del marito, i colleghi di ufficio di Kenji, Ku­niko e i poliziotti. La signora Morisaki era quindi la prima ospite che le faceva piacere invitare, dal momento che con lei si sentiva libera e rilassata. «Lei ha dei bambini, vero?» Come se si trattasse di qual­cosa di speciale, la signora Morisaki si fermò a osservare con interesse i fogli con i disegni dei bambini appiccicati alle pa­reti e le automobiline sparse nel corridoio. Poi entrarono in soggiorno. «Sì. Due maschietti. Adesso sono all’asilo». «Che bello! Io amo i bambini. Forse potrei giocare con loro, la prossima volta?» «Se le fa piacere! Ma la metto in guardia: sono maschi, e quindi irruenti. Rimarrà presto senza fiato!» Yayoi rise e in­vitò la donna a sedersi. La signora Morisaki si accomodò sen­za complimenti e si mise a osservare il volto di Yayoi. «Lei è bella, signora Yamamoto, non si direbbe che ha già due bambini. È giovane e graziosa. Sembra quasi un ragazzi­no, se posso permettermi di parlare così».

«Oh, grazie, lei mi confonde!» Yayoi era veramente felice dell’ammirazione di una donna che sembrava più giovane di lei. Preparò in fretta il tè e lo offrì insieme all’uva. La signo­ra Morisaki si servì abbondantemente di zucchero e chiese candidamente: «Suo marito è al lavoro?» «Mio marito è morto. Due mesi fa», rispose Yayoi indi­cando la camera da letto dove faceva bella mostra di sé un al­tarino buddista nuovo di zecca su cui troneggiava la fotogra­fia di Kenji. Era una foto di due anni prima, e Kenji, con un volto fresco e giovane, sorrideva ignaro al futuro. La signora Morisaki impallidì e chiese scusa a Yayoi: «Mi dispiace. Non lo sapevo». Yayoi provò veramente pena per la poverina: «Non si preoccupi, non poteva saperlo». «Era malato?» chiese timida la donna, col tono di chi non si è ancora dovuto confrontare con la realtà della morte. «No. Davvero non ne ha saputo niente?» Senza volere Yayoi le lanciò un’occhiata indagatrice. La signora Morisaki sgranò gli occhi e scosse la testa. «No, che cosa dovrei sapere?» «Mio marito è stato vittima di un delitto. Non ha sentito parlare del cadavere trovato a pezzi nel parco di Koganei?» «Sì, certo, ma… per l’amor di Dio!» In un attimo il vol­to della signora Morisaki si incupì. Nemmeno in sogno avrebbe potuto pensare che Yayoi potesse essere legata alla vittima. Si mise a guardare il pavimento e Yayoi si accorse con stupore che aveva gli occhi colmi di lacrime. «Ma che cos’ha? Perché piange?» «Pensavo solo… che cosa terribile, mi dispiace così tanto per lei!» Yayoi si emozionò. Era la prima volta che un estraneo manifestava un vero sentimento di partecipazione nei suoi confronti. Era vero che quelli che sapevano apparentemente si erano dimostrati compassionevoli, ma lei aveva capito che in fondo al cuore non si fidavano del tutto. La famiglia di Kenji le aveva addossato tutte le responsabilità e perfino i suoi genitori se ne erano tornati a casa. Poteva contare su Masako, ma ne aveva anche paura, perché bastava sfiorarla per esserne feriti, come con un rasoio. In quanto a Yoshie, poi, era troppo all’antica, e Kuniko, quella inutile donnaccia, preferiva non vederla mai più. Negli ultimi tempi Yayoi era insofferente verso tutti, le sembrava di essere isolata, perciò si commosse sinceramente alle lacrime della signora Mori­saki. «Grazie, grazie davvero. I vicini mi guardano con sospet­to, e io mi sento molto sola». «No, non mi ringrazi. Io sono un’ingenua, e a volte dico cose che paiono strane. Mi è capitato di non riuscire più a confidarmi per timore di ferire qualcuno. In fondo è forse per questo motivo che mi sono licenziata. Ho pensato che se riuscirò ad aprire un laboratorio di tintoria potrò ritirarmi da sola nel mio mondo, senza dover parlare con nessuno». «Già, posso capirla bene». Inceppandosi di quando in quando, Yayoi si mise a riassumere l’accaduto. A poco a po­co la signora Morisaki, che in principio era rimasta in silen­zio, intimorita, sembrò mostrare interesse e incominciò a fa­re alcune domande. «E quindi lei non ha più rivisto suo marito, dopo che se ne è andato a lavorare al mattino?» «Proprio così». Ormai a Yayoi quella versione pareva la pura verità. «Poverina!» «Sì. È doloroso. Non avrei mai immaginato che ci sarem­mo separati così presto». «E non hanno ancora arrestato l’assassino?» «No, non soltanto non l’hanno arrestato, in realtà non sanno neppure chi possa essere stato», sospirò Yayoi. A furia di raccontare menzogne aveva incominciato a dimenticare persino di essere stata lei l’assassina. La signora Morisaki sbottò indignata: «Ma per ridurlo così, a pezzi, l’assassino deve essere senz’altro un maniaco». «Sì, è terribile, vero? Non riesco neanche a immaginarlo». Yayoi ricordò la fotografia della mano che le aveva mostrato il poliziotto. E si ricordò esattamente l’odio intenso che in quel momento

aveva provato nei confronti di Masako. Di nuovo sentì riaffiorare l’avversione nei confronti di Masako e di Yoshie, che avevano fatto a pezzi suo marito. Pur sapen­do che era irragionevole, a furia di travisare la realtà e di fin­gere persino i suoi ricordi si erano alterati. Suonò il telefono. Poteva essere Masako. Ormai aveva trovato una nuova amica, la signora Morisaki, e per la prima volta le diede fastidio dover parlare con Masako, sempre con­vinta di sapere tutto e di poter dare istruzioni. Per qualche istante, incerta sul da farsi, lasciò squillare l’apparecchio. «La prego, non badi a me», la sollecitò la signora Mori­saki e Yayoi, riluttante, afferrò la cornetta. «Pronto, sono Yamamoto». «Sono Kinugasa», risuonò la nota voce del poliziotto. Tutte le settimane Kinugasa e Imai le telefonavano per chie­dere sue notizie. «Ah, signor Kinugasa, la ringrazio, è veramente gentile». «C’è qualcosa di nuovo, signora?» «No, niente». «Ha ricominciato ad andare a lavorare?» «Sì. Credo che sia meglio così: là ho le mie colleghe e poi sono abituata a lavorare, non vorrei dover perdere anche que­sto». «Già, posso capire». La voce di Kinugasa si era fatta sua­dente. «E così deve lasciare di nuovo i bambini a casa da so­li di notte?» «Come lo dice, a casa da soli…» ribatté Yayoi, irritata dal tono involontariamente ostile che le sembrava di avere colto nelle parole del poliziotto. «Ah, mi scusi! Volevo dire: allora come fa con i bambini?» «Penso che non se ne accorgano neppure perché esco quando sono già addormentati». «Ma sicuramente si preoccupa per eventuali incendi o terremoti! Se accadesse qualcosa non esiti a telefonare alla polizia». «Lo farò, grazie mille!» «A proposito, abbiamo saputo che riceverà un premio dall’assicurazione». Il tono di Kinugasa voleva essere com­piaciuto, ma a Yayoi non sfuggì la sfumatura di sospetto nel­la sua voce. Yayoi si guardò alle spalle per vedere se la signo­ra Morisaki stesse ascoltando la conversazione, ma questa si era alzata e guardava in giardino, fuori dalla finestra, un va­so con i miseri resti di un convolvolo ormai appassito. Era­no stati i bambini a seminarlo, all’asilo, e a portarlo a casa. «Sì. Ero completamente all’oscuro dell’assicurazione che mio marito aveva stipulato in ditta. È stata una sorpresa ma, a essere sincera, ne sono contenta, è un grande aiuto per me. In fondo sono rimasta sola a pensare al futuro dei due bam­bini». «Ha ragione. Ma c’è anche una cattiva notizia. È sparito il gestore della casa da gioco. Se succedesse qualcosa di stra­no, ci chiami subito». «Che significa?» Per la prima volta Yayoi aveva alzato la voce. Si girò e vide lo sguardo stupito della signora Morisaki. «Semplicemente che si è volatilizzato, non sappiamo più dove si è cacciato. Sono costretto ad ammettere che è riusci­to a prenderci in giro. A ogni modo stiamo facendo tutto il possibile per ritrovare le sue tracce». «Quando dice che si è volatilizzato, vuole dire che è lui l’assassino?» A questa domanda Kinugasa non rispose. Alle sue spalle si udivano i tipici rumori di un distretto di polizia: voci ma­schili, telefoni che squillavano e così via. Yayoi ebbe l’impressione di percepire l’odore di sudore e la puzza di tabacco che impregnavano il locale e fece una smorfia. «Se anche fosse, non si preoccupi. Riusciremo a mettergli le mani addosso. Ma se accadesse qualcosa mi telefoni», con­cluse Kinugasa e riattaccò. Era indubbiamente una bella no­tizia, sia per lei che per Masako e le altre. Quando aveva sa­puto che il proprietario della casa da gioco era stato

rilascia­to per insufficienza di prove, era stato un brutto colpo, ma ora che era scappato era come se avesse ammesso la sua col­pevolezza. Ormai poteva stare tranquilla. I muscoli delle guance di Yayoi si rilassarono. Depose la cornetta e tornò ac­canto alla signora Morisaki. I loro sguardi si incontrarono. «Ha ricevuto una bella notizia?» si informò sorridendo la signora Morisaki, notando l’espressione rilassata di Yayoi. «No, niente di speciale». Quando vide che Yayoi era ritornata subito seria, chiese timidamente: «Preferisce che tolga il disturbo?» «No, rimanga ancora un poco». «È successo qualcosa?» «Mi hanno comunicato che il presunto assassino è spa­rito». «Allora era una telefonata della polizia?» domandò eccita­ta la signora Morisaki. «Sì. Era l’ispettore». «Oh, è terribile! Mi scusi se sono stata indiscreta». «No, con me non deve farsi di questi problemi», disse Yayoi con un sorriso. «Ma la polizia è proprio noiosa. C’è sempre qualcuno che telefona per chiedere se è successo qualcosa». «Ma immagino che sarà un sollievo per lei quando trove­ranno l’assassino». «Sì, è vero. L’idea che se ne vada in giro impunito mi fa troppa rabbia», sussurrò Yayoi amareggiata. «Ha ragione. Ma questo uomo, il fatto che si sia volati­lizzato, questo significa che è proprio lui l’assassino, non le pare?» «Sarebbe bello», si lasciò scappare Yayoi, ma subito chiu­se la bocca. Tuttavia non sembrava che la signora Morisaki se ne fosse accorta, perché si limitò ad annuire più volte ripe­tendo: «Sì, certo, proprio così». Fu solo questione di tempo: ben presto la signora Mori­saki e Yayoi diventarono amiche e incominciarono a confi­darsi. Spesso, quando Yayoi, appena risvegliata da un breve sonno, si accingeva a preparare la cena per poi vestirsi e an­dare a prendere i bambini all’asilo, compariva la signora Mo­risaki. Arrivava con dei dolci poco costosi o delle pietanze ca­salinghe, dicendo che era appena tornata dalla scuola di tin­toria. Era subito diventata amica anche dei bambini. Si era mostrata molto dispiaciuta quando Yukihiro le aveva rac­contato della scomparsa di Milky, e più di una volta aveva accompagnato i piccoli nella vana ricerca del gatto. E infine riuscì a stupire Yayoi proponendole timidamen­te: «Vuole che rimanga qui con i bambini di notte, mentre lei è al lavoro?» Yayoi quasi non riusciva a credere che una persona cono­sciuta da così poco tempo si mostrasse tanto gentile nei suoi riguardi: «Ma non posso pretendere questo da lei!» «Perché no? In ogni caso devo dormire, e lo posso fare qui come altrove. Provi a immaginare se Yukihiro-chan si sve­gliasse nel bel mezzo della notte e non trovasse nessuno, il papà non c’è, la mamma lavora – povero piccolo!» La signo­ra Morisaki era particolarmente affezionata al più piccolo e anche lui, del resto, le stava sempre attaccato. Yayoi, con la fame di affetto che aveva, decise di accetta­re l’offerta: «Va bene, allora venga almeno a cenare con noi, dal momento che non posso permettermi di pagarla». «Grazie». All’improvviso gli occhi della signora Morisaki si riempirono di lacrime. «Che cosa c’è adesso?» le domandò Yayoi, e la donna si asciugò le lacrime sorridendo. «Sono solo felice. Mi sembra quasi di avere trovato una nuova famiglia. Ho passato molto tempo da sola, sentivo il bisogno di qualcosa. Mi sento così abbandonata quando ri­torno in quell’appartamento».

«Anch’io mi sento abbandonata. Da quando mio marito è improvvisamente scomparso devo cavarmela da sola, ma se penso alle chiacchiere della gente provo una gran rabbia. Nessuno mi capisce». «Sì, è veramente una storia triste. Lei mi fa tanta pena!» «Non importa». Si abbracciarono e piansero. Yayoi si accorse di Takashi e Yukihiro che le guardavano a occhi sgranati e con la bocca aperta. Erano così buffi che scoppiò a ridere e si asciugò le lacrime dicendo: «Da questa sera la zia dormirà qui, insieme a voi. Non è meraviglioso?» Mai Yayoi si sarebbe immaginata che, a causa della si­gnora Morisaki, avrebbe dovuto litigare con Masako. «Chi è la donna che risponde al telefono a casa tua?» le domandò perentoria Masako. «È Yoko Morisaki, una mia vicina di casa. È così gentile! Bada ai bambini quando sono fuori». «Vale a dire che dorme da voi?» «Sì. Dorme da me, così i bambini non restano soli». «Abita con te?» chiese Masako diffidente. «No, non ci conosciamo ancora così bene», replicò Yayoi irritata. «Frequenta un corso di formazione. E la sera, al ri­torno, si ferma a cenare da noi, poi va a casa e ritorna di not­te, quando devo andare a lavorare». «E rimane tutta la notte con i bambini senza volere nien­te in cambio?» «Sì, si accontenta della cena». «Mi sembra eccezionalmente disinteressata. A meno che non ci sia sotto dell’altro e non stia tramando qualcosa». «Niente affatto!» ribatté Yayoi. Non poteva accettare del­le insinuazioni così basse, neppure se venivano da Masako. «Lo fa solo per amicizia, questo è tutto. Non essere così in­solente!» «Insolente? Non è questo il punto. Se viene fuori tutta la faccenda, tu sarai la prima a esserci dentro fino al collo, non dimenticartelo!» «È vero, ma…» Yayoi chinò la testa offesa. «Ma che cosa?» Yayoi ne aveva abbastanza di quell’interrogatorio! Ma­sako non mollava mai, e avrebbe continuato a porre doman­de finché non avesse ottenuto le risposte che voleva. «Perché te la prendi con me?» «Ma no, non è con te che me la prendo. Dimmi tu, piut­tosto, perché ti arrabbi così?» ribatté Masako, che non riu­sciva a capire il comportamento di Yayoi. «Non sono arrabbiata. Mi domando solo perché tu e la maestra, negli ultimi tempi, vi comportate in modo così mi­sterioso, che cosa avete da nascondere? Perché Kuniko se ne va via sempre da sola? È successo qualcosa?» Sulla fronte di Masako si formarono tante piccole rughe verticali. Yayoi non sapeva che Kuniko aveva raccontato tut­to a Jumonji e che ora Masako, in seguito a quella confes­sione, si accingeva a iniziare una nuova “impresa”. E non sa­peva neppure che Masako non le aveva detto niente perché non si fidava più di lei, perché era troppo fragile e indifesa, al punto da poter diventare pericolosa. «Non è successo niente. Ma tu, piuttosto, non ti è venu­to in mente, per esempio, che quella donna potrebbe essere interessata solo al denaro dell’assicurazione?» Yayoi non seppe trattenere oltre la sua collera e sbottò: «La signora Morisaki non è il tipo che immagini. Alla fin fi­ne non si chiama mica Kuniko!» «Okay, va bene, non avertene a male. Dimentica il di­scorso sull’assicurazione». Davanti all’ira di Yayoi, Masako si ritrasse in se stessa come una marea decrescente e si chiuse nel silenzio. Yayoi si ricordò che era stata lei a salvarla e si affrettò a scusarsi: «Mi dispiace di essere stata così cattiva. Ma sta tran­quilla, la signora Morisaki è davvero una persona per bene».

Ma Masako non si era ancora data per vinta: «Ma non hai paura che i bambini finiscano con il confessarle qualcosa di compromettente, stando così a lungo con lei?» Yayoi non sapeva più come fare fronte all’insistenza di Masako e disse: «I bambini si sono ormai dimenticati di quella notte. Da allora non ne hanno più parlato». Masako strinse le labbra per qualche istante e guardò nel vuoto. Poi ribatté: «Forse non ne parlano solo perché si sono accorti che ti mettono in difficoltà». Aveva centrato il bersaglio. Yayoi sapeva benissimo che era vero, tuttavia mentì: «Non è come pensi. Alla fin fine io conosco i miei figli meglio di chiunque altro». «Be’, allora non c’è problema», convenne Masako scru­tando Yayoi in viso, poi si girò e aggiunse: «Però sarebbe un’i­diozia allentare la guardia nella fase finale». «La fase finale? Di che cosa parli?» Per Yayoi era ormai tutto finito da un pezzo. «Il proprietario della casa da gioco se l’è svignata. E noi siamo fuori!» «Che dici?» Masako sorrise sarcastica. «Per te la storia non avrà mai fine, dovrai stare all’erta fino alla morte». «Come puoi essere così antipatica!» Improvvisamente Yayoi si accorse di Yoshie, ferma ad ascoltare dietro a Ma­sako. Se ne stava in silenzio, ma la guardava con aria severa. Una vera congiura, da parte di quelle due! Yayoi non poteva sopportare di essere messa da parte. Come potevano tagliar­la fuori e criticarla, dopo essere state pagate in modo così principesco, pensò esasperata. Dopo il turno se ne andò da sola, senza rivolgere loro una parola. L’alba era ancora lontana, faceva ancora buio e que­sto la faceva sentire ancora più abbandonata. Quando arrivò a casa, i bambini e la signora Morisaki sta­vano ancora dormendo. Ma ben presto la donna uscì in pi­giama dalla camera da letto, evidentemente l’aveva sentita rientrare. «Buon mattino!» «Spero di non averla svegliata». «Non importa. Mi sarei alzata comunque, perché oggi devo uscire presto», la rassicurò la signora Morisaki stirac­chiandosi. Poi, notando il turbamento di Yayoi, aggrottò le sopracciglia: «È successo qualcosa? È così pallida». «Nulla. Un piccolo litigio allo stabilimento». Ovviamen­te non disse che aveva litigato per causa sua, e che aveva pre­so le sue difese. «Con chi?» «Con Masako, quella che telefona spesso. Forse vi siete già parlate qualche volta». «Ah, quella che è sempre un po’ brusca e distante. Che cosa è successo? Che cosa le ha detto?» La signora Morisaki era eccitata come se fosse stata lei ad avere un battibecco. «Niente di particolare, inezie», rispose evasiva Yayoi, e si allacciò il grembiule per preparare la colazione. L’altra le chiese, abbassando la voce: «Come mai è sempre così umile quando parla con lei?» «Cosa?» Yayoi si girò stupita verso di lei. «Come può di­re una cosa del genere?» «Non la terrà in pugno a causa di qualche sua debolezza?» La signora Morisaki la fissava con insistenza, come se voles­se spiarla. Proprio come i miei vicini, pensò Yayoi, ma subi­to scacciò l’idea: no, non la signora Morisaki, lei non lo avrebbe mai fatto!

6. Nel pomeriggio, i deboli raggi del sole autunnale si posava­no lievi sulle mazzette di banconote da diecimila yen, nuove di zecca, posate sul tavolo davanti a lei, irreali quanto quegli strani fermacarte che talvolta si trovano in commercio. Ep­pure erano proprio soldi, quelli che aveva davanti, molti di più di quanto non potesse guadagnare in un anno di lavoro allo stabilimento delle colazioni. E anche lo stipendio an­nuale che una volta percepiva all’istituto di credito era poco più del doppio di quella somma. Contemplando i due mi­lioni di yen avuti da Yayoi, Masako rifletteva sulle fatiche af­frontate in passato e sulla futura “impresa”. Poi si mise a pensare a dove nascondere il denaro. Che fosse meglio versarlo in banca, su un libretto di risparmio? Ma, così facendo, non avrebbe potuto riaverlo subito se ne avesse avuto bisogno all’improvviso, e poi sarebbe stato com­promettente. D’altronde non lo poteva nascondere sempli­cemente nell’armadio, era troppo pericoloso: uno dei suoi avrebbe potuto trovarlo. Mentre rifletteva su cosa era meglio fare, suonarono alla porta. Masako infilò in fretta il denaro nel cassetto sotto il lavello. «Mi scusi, potrei disturbarla un momento?» domandò al citofono un’esitante voce femminile. «Di che cosa si tratta?» «Vorrei qualche informazione, perché stiamo pensando di comprare il terreno davanti a casa sua». Controvoglia Masako andò alla porta e aprì. Una donna di mezza età, che indossava un banale tailleur viola chiaro, aspettava con aria intimidita. Dal viso sembrava coetanea di Masako, ma era piuttosto sfatta e la voce suonava isterica e stonata. «Scusi se la disturbo così all’improvviso». «No, si figuri». «Dunque, stiamo pensando di comprare il terreno da­vanti a casa sua», ripeté la donna. Si riferiva al terreno edifi­cabile al di là della strada privata, esattamente di fronte alla casa di Masako. Il proprietario aveva tentato più volte di ven­derlo, senza però riuscire a concludere l’affare, e negli ultimi tempi sembrava averlo abbandonato. «E allora?Perché viene da me?» replicò secca Masako. La donna, confusa, non sapeva più cosa dire: «Ecco, ci sembra strano che solo quel terreno non sia stato venduto, e ci domandiamo se c’è qualcosa che non va…» «Non ne ho la minima idea». «Forse c’è stato qualche problema? Sa, è sempre brutto scoprire queste cose a posteriori…» «Certo, capisco, ma io non ne so niente. Perché non lo chiede all’agenzia immobiliare?» «Lo abbiamo già fatto, ma non ci hanno detto niente». «E allora evidentemente non c’è niente da dire», tagliò corto Masako. «Mio marito teme che non vada bene perché si tratta di argilla rossa». Masako inclinò la testa, era la prima volta che sentiva un discorso del genere. Notando la sua espressione perplessa, la donna aggiunse frettolosamente: «Dice che il terreno non è abbastanza solido». «Anche il mio terreno è uguale». «Oh, mi scusi». La donna sembrava così confusa da ispi­rare quasi tenerezza. Masako fece capire che il discorso per lei era concluso: «Penso che non debba preoccuparsi». «E lo scolo dell’acqua, avete avuto brutte esperienze?» «Qui siamo su una piccola altura, l’acqua della pioggia non ristagna». «Be’, allora…» sospirò la donna lanciando uno sguardo veloce all’interno della casa di Masako. Infine si inchinò: «Capisco. Molte grazie e mi scusi ancora per il disturbo». Non aggiunse altro, tuttavia Masako ebbe un brutto pre­sentimento. Infatti un paio di giorni

prima una vicina l’ave­va fermata per strada. «Signora Katori!» Era la vecchia signora che abitava con il marito nella stradina posteriore: le loro case erano state co­struite schiena a schiena. La donna teneva dei corsi di ikeba­na a domicilio, ed era piacevole conversare con lei. Di tutto il vicinato, era quella con cui Masako manteneva i migliori rapporti. «Aspetti un attimo. Poco tempo fa è successa una cosa strana», aveva detto a bassa voce tirandola per una manica. «Che cosa?» «È venuto uno della sua ditta e si è messo a fare doman­de di ogni genere». «Della mia ditta?» In un primo momento Masako aveva pensato che si trat­tasse di un errore. Forse non era qualcuno della sua ditta, ma dell’azienda in cui lavorava Yoshiki, o forse qualcuno della banca. Ma non c’era alcuna ragione di informarsi sulla solvi­bilità di Yoshiki. E non poteva neppure riguardare Nobuki. Allora non rimaneva che lei. «Sì, ha detto che lavora allo stabilimento delle colazioni», aveva risposto la donna aggrottando la fronte. «Ma io ho su­bito pensato che fosse stato mandato da un’agenzia investi­gativa, e sono stata molto attenta. Mi ha fatto un mucchio di domande su di lei e sulla sua famiglia». «Per esempio, che cosa le ha chiesto?» «Chi abita in casa sua, che tipo di abitudini ha e che co­sa dicono di lei i vicini. Ovviamente io non gli ho dato al­cuna informazione. Ma quelli lì potrebbero avere raccontato qualcosa». La donna aveva indicato col dito la casa accanto a quella di Masako. Era abitata da due anziani coniugi che una volta, quando Nobuki frequentava le medie, andavano spes­so a lamentarsi perché teneva il volume dello stereo troppo alto. Se ce l’avevano ancora con loro, era possibile che aves­sero approfittato per sparlare di lei. «Ma davvero quell’individuo è andato in giro a fare do­mande di qua e di là?» aveva chiesto Masako inquieta. «Così pare. L’ho visto che girava intorno alla casa, si guar­dava intorno e poi andava a suonare dalla vicina. Be’, io ho trovato questo comportamento molto sospetto, non crede anche lei?» «Ha detto perché voleva raccogliere informazioni?» «Sì, e proprio questo mi è sembrato strano. Ha detto che il motivo era la sua promozione a dipendente». «Figuriamoci!» L’unica promozione possibile per i lavora­tori part-time era quella di essere considerati collaboratori fissi, cioè di essere trattati come dipendenti, senza tuttavia un vero contratto. E per ottenerla bisognava lavorare almeno tre anni senza interruzioni. Dunque era stata una bugia bella e buona. «Esattamente, è quello che ho pensato anch’io. Del tutto incredibile, ogni singola cosa». «Che tipo era?» «Ancora abbastanza giovane, ben vestito». Per un attimo Masako aveva pensato a Jumonji, ma era improbabile: lui la conosceva da diversi anni. Avrebbe potu­to anche essere un poliziotto, ma era strano che la polizia cri­ minale conducesse le indagini in quel modo. Qualcuno la spiava. Per la prima volta dopo l’assassinio di Kenji, Masako si era resa conto che era entrato in gioco un altro avversario, uno sconosciuto. E non si trattava della polizia, era un ne­mico misterioso, che non voleva uscire allo scoperto. Forse anche quella donna, la signora Morisaki, spuntata fuori così all’improvviso, era una complice. D’altronde era molto stra­no che Yayoi non si fosse insospettita per niente, nonostante che tutta la storia fosse così incredibile. Probabilmente erano vittime di un abile

complotto. La polizia non ricorreva a simili stratagemmi. Il giovane uomo, la signora Morisaki e la donna di mez­za età che aveva suonato alla sua porta. Se tutti erano com­plici, significava che quell’ipotetico avversario aveva formato un gruppo. Ma chi era, e perché le spiava? All’improvviso Masako provò una indefinibile sensazione di terrore che le fece accapponare la pelle. Avrebbe dovuto informarne Yoshie e Yayoi? Non ne era ancora certa. Forse era meglio aspettare di avere le idee più chiare. Al parcheggio vide che avevano finito di montare il pic­colo prefabbricato per il custode. Era ancora vuoto e lo spa­zio di mezzo tatami al di là dei vetri era completamente buio. Masako scese dalla Corolla e, con la porta ancora spalan­cata, si mise a ispezionare il gabbiotto. Proprio in quel mo­mento arrivò la Golf cabriolet di Kuniko, che percorse rumorosamente il sentiero facendo volare i ciottoli. Senza vo­lere Masako fece due passi indietro: probabilmente Kuniko non l’avrebbe investita, ma la sua guida aggressiva faceva ca­pire che ce l’aveva a morte con lei. Kuniko fece una serie di manovre maldestre, si infilò in retromarcia nello spazio che aveva scelto e tirò energicamen­te il freno a mano facendolo grattare. Poi salutò Masako: «Ti auguro una splendida giornata!» Ipocrita ed esageratamente cortese, come sempre! Indossava un giubbotto di pelle rossa nuovo fiammante. Probabilmente l’aveva acquistato con i soldi di Yayoi. «Buongiorno». Erano diversi giorni che non incontrava Kuniko al parcheggio. Da quando non si davano più appun­tamento per andare insieme alla fabbrica, non si erano mai incrociate, neanche per caso. Masako supponeva che Kuniko facesse tutto il possibile per evitarla. Come per dimostrarlo, Kuniko assunse un’espressione seccata, come se la maledices­se tra sé. «Sei arrivata presto, oggi!» «Può essere». Masako guardò l’orologio sollevando il pol­so per vedere meglio: effettivamente era in anticipo di dieci minuti rispetto al solito. «Che cos’è quello?» domandò Kuniko mentre chiudeva la capote, indicando con il mento la guardiola. «Vi sistemeranno un sorvegliante per il parcheggio, im­magino». «Non si tratta di un semplice sorvegliante. La polizia or­mai sa dell’esistenza di un maniaco, e quindi la direzione ha dovuto decidersi ad assumere uno che stia di guardia». Masako pensò che era un inutile spreco di denaro, a ogni modo negli ultimi tempi sostavano in quel posteggio diverse auto non autorizzate e forse in fabbrica avevano pensato di poter prendere due piccioni con una fava. «Una vera disgrazia per te – così non avrai più occasione di incontrarti col maniaco!» «Che cosa vuoi dire?» All’insinuazione sarcastica di Ma­sako, Kuniko storse la bocca in una smorfia. Era perfettamen­te truccata, come se fosse diretta in città a fare spese, e Masako la squadrò con aria gelida, esprimendo tutta la sua disappro­vazione per quella pretenziosa ostentazione di eleganza. «A quanto vedo», commentò Masako dando uno sguardo alla Golf accuratamente lucidata, «continui a spostarti in macchina. Se venissi in bicicletta potresti risparmiare parec­chio!» «Ci vediamo al turno!» tagliò corto Kuniko, passandole davanti. Non merita neanche uno sguardo, pensò Masako accarezzandosi le braccia nude. Faceva fresco per essere sol­tanto all’inizio di ottobre. L’aria era secca, e si potevano di­stinguere perfettamente i diversi odori: puzza di fritto e di gas di scarico, il profumo dei fiori dorati dell’osmanto e quello dell’erba dei prati. Si udiva qua e là un sommesso fri­nire di cicale, le ultime sopravvissute dopo l’estate. Masako prese il giubbotto dal sedile posteriore e lo in­dossò sopra la T-shirt. Poi, come al solito, si accese una siga­retta e attese che la giacca rossa di Kuniko venisse inghiotti­ta dal buio. Udì il profondo rombo di un motore che si avvicinava e scorse una moto di grossa cilindrata entrare nel parcheggio. Sentì la ruota posteriore che slittava un po’ sulla ghiaia e vi­de la luce dei fari

alzarsi e abbassarsi sulle cunette del viotto­lo. Chi poteva essere? Nessuno degli operai part-time veniva a lavorare in moto. Masako, tesa, guardò il guidatore. «Signora Katori!» chiamò il giovane sollevando la visiera del casco integrale. Era Jumonji. «Ah, è lei! Mi ha spaventato!» «Meno male che l’ho trovata!» Jumonji spense il motore e il parcheggio fu avvolto dal silenzio. Persino le cicale tace­vano, forse spaventate dall’insolito rumore. Con mossa esperta Jumonji abbassò il cavalletto, scese dalla moto e si av­vicinò a Masako. «Che cosa c’è?» «Abbiamo un incarico». Così presto! Fin da quando aveva visto avvicinarsi la mo­to, Masako aveva capito che le stava accadendo qualcosa di insolito, ma non avrebbe mai immaginato che si trattasse del suo primo incarico! Strinse le braccia al petto, come per trattenere il battito tumultuoso del suo cuore. Il giubbotto, che non indossava da sei mesi, emanava l’odore familiare di detersivo e degli armadi di casa. La fulminò il pensiero che, infine, erano venu­ti a strapparla dalla confortevole sicurezza della sua casa, e strinse più forte le braccia al petto. «Vuole dire… un incarico per la nostra impresa?» «Proprio così. Mi hanno telefonato all’improvviso: c’è un cadavere da eliminare senza lasciare tracce. Forse sono stato troppo precipitoso, ma temevo di non riuscire a mettermi in contatto con lei, signora Katori. Perciò ho pensato di rag­giungerla qui prima del turno, ma ho preferito la moto, per­ché la signora Jonouchi conosce la mia auto! Troppo rischio­so, se mi avesse visto!» Nella voce di Jumonji si avvertiva un tremito di eccitazione. «Ah, per questo è venuto in moto!» «Sì, ma poiché è molto che non la uso, all’inizio non vo­leva partire. Sono proprio sfinito, mi creda!» Jumonji si li­berò dal casco con un gesto plateale – sembrava un attore che si toglieva la parrucca – e si lisciò con la mano i capelli scom­pigliati. «E io che cosa dovrei fare?» «Ah, già. Allora, io adesso vado a prendere in consegna il materiale con la mia auto. Poi lo trasporterò fino a casa sua. A che ora finisce il lavoro?» «Alle cinque e mezzo. Sarò di nuovo qui poco prima del­le sei». «E a che ora arriverà a casa?» «Poco dopo le sei. Ma i miei saranno ancora a casa, per cui dovrà aspettare per la consegna fino alle nove e qualcosa. Nel frattempo non potrebbe spogliarlo dagli abiti e dal resto? Crede di farcela da solo?» «Se può essere di qualche utilità, dovrò ben farlo, no?» ri­spose Jumonji con voce sepolcrale. «Riuscirà a trasportarlo da solo?» «Ci proverò. Le porterò anche il set di bisturi che ho comprato». «Okay, va bene». Tormentandosi le unghie, Masako cercò disperatamente di farsi venire in mente se mancava qualco­s’altro, ma la testa non le funzionava bene, perché era acca­duto tutto così in fretta. Alla fine le venne un’idea: «Mi por­ti delle scatole di cartone, di quelle che si usano per spedire i pacchi». «Grandi?» «Sì, ma che non diano nell’occhio. Preferibilmente di quelle che si usano per la frutta, o qualcosa del genere. Ma che siano robuste, mi raccomando». «Va bene, vedrà che per mezzogiorno riuscirò a trovare qualcosa di adatto allo scopo». «Okay». «E i sacchi?» «Comprati, come da accordi», rispose, e si ricordò di una cosa importante: «Come posso avvisarla se domattina doves­se succedere qualcosa?» Yoshiki poteva non andare in ufficio, oppure

Nobuki poteva prendersi una giornata di ferie. Non si poteva mai sapere, c’erano sempre tanti imprevisti! «Che cosa vuole dire?» chiese Jumonji preoccupato. «Per esempio i miei potrebbero rimanere in casa». «Ah, già. Allora mi chiami al cellulare». Jumonji prese un biglietto da visita dalla tasca dei jeans e lo porse a Masako. Vi era segnato il numero del cellulare. «Bene. Se ci sarà qualche inconveniente, la avviserò pri­ma delle otto e mezzo». «D’accordo. Allora: alla nostra collaborazione!» Jumonji le porse la mano. Masako la prese e gliela strinse. Era ruvida e fredda, perché aveva guidato senza guanti. «Allora me ne vado». Jumonji girò la chiave e avviò il mo­tore. Nell’ampio posteggio dai confini sfumati dalle tenebre risuonò il basso, cupo e potente rombo del motore. «Aspetti!» Masako tutto a un tratto si era ricordata del “nemico misterioso”. «Che c’è?» domandò Jumonji sollevando di nuovo la vi­siera del casco. «È venuto un tizio a fare domande ai miei vicini, forse mandato da un’agenzia di investigazioni». «Che cosa?» Jumonji la guardò attonito. «Che cosa può voler dire?» «Non ne ho la minima idea». «Non è la polizia? Ci mancava anche questa!» Masako, turbata, stava per dirgli che avrebbero fatto me­glio a rinunciare all’incarico. Ma ormai era troppo tardi. De­glutì e concluse: «Lo facciamo lo stesso, va bene?» «La cosa è andata troppo avanti e non possiamo più riti­rarci. Altrimenti qualcuno potrebbe perderci la faccia». Ju­monji fece un’abile inversione di marcia e uscì dal posteggio schizzando fango. Masako rimase sola nel parcheggio. Camminando di buon passo nel viottolo buio e deserto si mise a pensare alle varie fasi del lavoro. Innanzi tutto avreb­be tagliato la testa, quindi le braccia e le gambe, e infine aperto il torace… Pezzo dopo pezzo, ricapitolò il lavoro in­fernale che aveva completato quel giorno. Immaginò le con­dizioni del cadavere che le avrebbero portato e trasalì di pau­ra. Come se il suo corpo volesse allontanare quella sensazio­ne, incominciarono a tremarle le ginocchia. Tremava a tal punto che non riusciva più a camminare e dovette fermarsi sul sentiero immerso nelle tenebre. Ma l’origine di quel tre­more aveva radici profonde: era la vaga consapevolezza della presenza di un ignoto “nemico misterioso”. Mentre entrava nel salone, Kuniko stava uscendo. Giran­dosi dall’altra parte, come se volesse dire: aspetta un po’, ti farò vedere io, le passò davanti senza salutarla. Masako non si preoccupò del comportamento infantile di Kuniko e andò subito in cerca di Yoshie. La trovò che si cambiava nello spo­gliatoio, insieme a Yayoi. «Vieni un momento?» bisbigliò Masako dandole un col­petto sulla spalla. Yayoi, lì accanto, si voltò con aria interro­gativa. Il suo sguardo luminoso, privo di malizia, incrociò gli oc­chi di Masako, freddi e duri. Aveva già deciso di non coin­volgere Yayoi in quell’affare, ma vedendo la sua espressione innocente, dimentica di tutto, Masako venne presa dalla vo­glia di farle conoscere la paura. Anche Yayoi doveva sapere che cosa voleva dire sentirsi tremare le ginocchia! Tuttavia strinse i denti e si trattenne. «Che cosa succede?» domandò Yoshie spaventata, come se avesse intuito la gravità del momento. «Abbiamo un incarico», rispose laconica Masako. Yoshie strinse le labbra e tacque. Masako capì che non avrebbe po­tuto assolutamente parlarle del “nemico misterioso”, in nes­sun caso. Yoshie si sarebbe subito tirata indietro, e lei, da so­la, non sarebbe riuscita a sezionare il cadavere. «Di che cosa state parlando?» chiese Yayoi avvicinandosi.

«Vuoi saperlo davvero?» Masako la guardò in faccia e poi la afferrò per i polsi sottili e delicati. «Che cosa fai, cosa vuoi?» Un’ombra di paura attraversò il viso di Yayoi. Masako non se ne curò, le lasciò andare i pol­si e spostò la presa sui gomiti. «Si prende un coltello e si recide qui e qui. Stavamo par­lando di questo». Yayoi non tentò di liberare le braccia, ma si ritrasse con tutto il corpo. Yoshie, preoccupata degli sguardi indiscreti delle altre operaie, fece un cenno a Masako perché stesse più attenta. Ma nessuna sembrava badare a loro. Continuavano tutte a cambiarsi in silenzio, di malumore, come se stessero già pensando alla dura fatica che le attendeva. «Non è vero», brontolò Yayoi con la sua vocina infantile. Sembrava proprio una bambina. «Sì che è vero. Hai voglia di collaborare? Se ti va, vieni domattina a casa mia». Masako la lasciò libera e Yayoi rima­se per qualche istante con le braccia penzoloni, sbigottita. La sua cuffia cadde a terra. «Solo un’altra cosa», continuò Masako «Vieni solo dopo avere sbattuto fuori di casa quella tipa che ti gira intorno, la signora Morisaki». Yayoi le lanciò uno sguardo cattivo, poi si girò e uscì fu­riosa dallo spogliatoio.

7. Il cadavere era quello di un uomo piccolo e magro, sulla ses­santina. Era calvo, ma aveva ancora tutti i denti, e sull’addo­me erano visibili le cicatrici di due operazioni. Quella a destra, più piccola, a prima vista sembrava causata dall’asporta­zione dell’appendice, l’altra, molto grande, gli attraversava il torace. Evidentemente lo avevano strangolato a mani nude, perché aveva la faccia violacea e sul collo erano rimaste le im­pronte delle dita. Diverse escoriazioni sulle guance e sulle braccia indicavano chiaramente che aveva cercato di opporre resistenza. Chissà quale era stata la sua professione, chi l’aveva ucci­so, dove e perché. Così, senza vestiti, ora era soltanto un ca­davere, ed era impossibile indovinare il suo aspetto da vivo e che genere di vita avesse condotto. D’altronde non era ne­cessario. Masako e Yoshie dovevano soltanto tagliarlo a pez­zi, infilarli nei sacchi di plastica, confezionarli nelle scatole di cartone e fare dei bei pacchetti. In fondo era quello che fa­cevano ogni giorno allo stabilimento delle colazioni – basta­va controllare la paura e il ribrezzo. Yoshie si era rimboccata i fuseaux fino a sopra le ginoc­chia, mentre Masako era in pantaloncini corti e T-shirt; tut­te e due si erano avvolte nei grembiuli di plastica presi in fab­brica e avevano infilato le mani nei guanti usa e getta. Per evitare di calpestare a piedi nudi le ossa del cadavere, Masako si era messa gli stivali di gomma di Yoshiki e aveva prestato i suoi a Yoshie. Anche l’abbigliamento non era in fondo mol­to diverso da quello che usavano al lavoro. «Splendido questo bisturi, non ti pare?» osservò Yoshie impressionata. Il set chirurgico di Jumonji si rivelava estre­mamente utile. Tutta un’altra cosa rispetto ai coltelli da sa­shimi con cui avevano dissezionato Kenji: affondare nelle carni il bisturi era un gioco da ragazzi, facile come tagliare la carta con le forbici ben affilate! Perciò il lavoro progredì più speditamente di quanto non si fossero aspettate. Per fare a pezzi le ossa usarono la sega a mano. Purtrop­po si erano subito rese conto che non potevano servirsi della sega elettrica procurata da Jumonji, perché sollevava una nebbiolina di sangue e particelle di carne e ossa che penetra­va negli occhi. Per usarla in modo efficace avrebbero dovuto avere delle maschere da sub. Via via che procedevano nella dissezione del cadavere la stanza si riempiva di sangue e dell’odore nauseabondo delle viscere. La scena era la stessa di quando si erano occupate di Kenji, ma questa volta non ne erano turbate, perché anche questo era un turno di lavoro, esattamente come in fabbrica. «Questa cicatrice sembra quella di un’operazione al cuo­re. Poveraccio, mi dispiace per lui! Sottoporsi a un interven­to così complicato per salvarsi la vita e poi morire ammazza­to!» Yoshie, gli occhi arrossati per la stanchezza, sfiorò con i polpastrelli coperti dai guanti di gomma la cicatrice rosa che attraversava il petto del cadavere. Ecco che incominciava di nuovo a inventarsi storie! Masako continuò a lavorare in si­lenzio, riducendo in parti più piccole le gambe dell’uomo. Diversamente da quelle di Kenji, che era ancora nel pieno del suo vigore giovanile, erano quasi completamente prive di grasso e la pelle era opaca e raggrinzita. Azionando la sega, a Masako sembrava di tagliare una massa legnosa e porosa. «È molto più facile, questa volta, perché il grasso non ostacola la sega. E poi i sacchi sono leggeri, non come quan­do abbiamo sistemato i resti di Kenji», borbottò Yoshie con­tinuando a lavorare. «Peserà più o meno una cinquantina di chili». «Sì. Ma certamente era un uomo ricco», dichiarò con si­curezza Yoshie. «Come fai a dirlo?» «Vedi questa impronta sul dito? Doveva averci infilato un anello. Probabilmente un pesante anello d’oro con un sigil­lo, o addirittura con un enorme diamante. Evidentemente gliel’hanno tolto e

se lo sono tenuto». «Di nuovo incominci con le tue fantasie!» disse Masako sforzandosi di sorridere. Forse non era che un sogno, continuava a pensare Ma­sako fin dal mattino. Come d’accordo, poco dopo le nove Jumonji si era pre­sentato alla porta di casa. Pallido in viso, aveva trasportato in bagno il cadavere avvolto in una coperta. Yoshie non era an­cora arrivata. «Dio mio, se ho avuto paura», aveva detto Jumonji mas­saggiandosi le guance gelate come se fosse reduce da un viag­gio al polo nord. Eppure era una tiepida mattina di ottobre. «Di che cosa?» aveva chiesto Masako stendendo sulle pia­strelle del bagno il telo di plastica verde usato anche la volta precedente. «Come di che cosa? Cerchi di capire, signora Katori! È la prima volta in tutta la mia vita che ho a che fare con un ca­davere. E prima di arrivare qui ce ne è voluto del tempo! E allora ho deciso di chiuderlo nel bagagliaio e di ammazzare il tempo in un locale aperto tutta la notte. E poi non ho fatto altro che continuare a girare in tondo per Rappongi, col ca­davere in macchina!» «Ha corso un bel rischio – si figuri se fosse incappato in un controllo di polizia!» «Certo, ne ero perfettamente cosciente, ma avevo assolu­tamente bisogno di stare in mezzo alla gente, non potevo proprio farne a meno. Quel carico nel mio portabagagli – so­lo una massa oscura. Ma non potevo guardarlo. So che an­ch’io finirò così, quando sarò morto, ma semplicemente non volevo vedere: avevo la dolorosa sensazione di un peso in­sopportabile sulla schiena, che mi schiacciava sempre più giù… Sapevo che c’era un mucchio di cose da fare, che avrei dovuto svestirlo e così via, ma semplicemente non ci riusci­vo, non da solo. Non sarei mai stato capace di guardarlo pri­ma che facesse giorno! Temo di essere un piccolo, miserabile coniglio». Masako poteva capirlo. Osservò il volto di Jumonji, gri­gio cenere. La causa di quello strano pallore non era solo la mancanza di sonno. Nei cadaveri c’è qualcosa che ci costrin­ge a distogliere lo sguardo. Quanto ci avrebbe messo prima di riuscire a guardarli come cose normali? «Dove è andato a prenderlo?» Masako sfiorò le dita rat­trappite dell’uomo morto. Erano ormai fredde e completa­mente irrigidite. «Sarebbe preferibile che non me lo chiedesse», rispose de­ciso Jumonji. «Meglio che non lo sappia. Potrebbe essere pe­ricoloso, se dovesse succedere qualcosa». «Che cosa, per esempio?» gli domandò Masako rialzan­dosi. «Non lo so neanch’io. Nel caso in cui qualcosa dovesse andare storto». Jumonji diede uno sguardo timoroso al viso del cadavere, che spuntava dalla coperta appena scostata. «Vuole dire se la polizia scopre i nostri intrighi?» «Forse non si tratta soltanto di questo». «E di che cosa, allora?» «Vendetta e cose del genere». Masako aveva pensato al “nemico misterioso”, ma Ju­monji sembrava piuttosto riferirsi a conflitti di interesse ben più concreti che quel cadavere avrebbe potuto tirarsi dietro. «Perché è stato ucciso?» «Probabilmente per arrivare al suo denaro. Forse voglio­no che si creda che sia scomparso, per questo dobbiamo eli­minare il cadavere senza lasciare tracce». Se questo era vero, quel cadavere doveva valere diverse centinaia di milioni di yen. Masako osservò la testa calva dell’uomo, che aveva perso ogni lucentezza. Se uno non ha legami personali con il morto, togliere di mezzo un cadavere non è molto diverso dall’eliminare la spazzatura. Nella vita quotidiana si accumula inevitabilmen­te della spazzatura. Che cosa interessa sapere chi l’ha gettata, e di che cosa si tratta? E d’altronde lei stessa, prima o poi, sa­rebbe stata abbandonata come immondizia. Recuperata la sua freddezza, Masako si rivolse a Jumonji: «Mi aiuti a spogliarlo».

«Sì». Masako tagliò il vestito con le forbici e con gesti esperti incominciò a spogliare il morto. Jumonji, oppresso dall’an­goscia, riempì un sacco con gli indumenti. «Cosa ne è stato del portafoglio e del resto?» «Non c’era niente. Gli hanno tolto tutto quello che pote­vano. Questo è quello che è rimasto». «Solo spazzatura, quindi», mormorò Masako, come se parlasse fra sé e sé. Jumonji si scandalizzò: «Ma come può esprimersi così?» «Posso. Si deve pensare che si tratti dello smaltimento della spazzatura. E il compenso?» «Ho già con me i soldi». Jumonji prese dalla tasca poste­riore dei pantaloni un anonimo sacchetto di carta marrone. «Sono esattamente sei milioni. Senza pagamento in contan­ti, niente da fare – su questo sono stato inflessibile». «Ha fatto bene. Ma che cosa faremo se – per essere pessi­misti – dovessero scoprire il cadavere?» «Dovremo restituire il denaro. Però dobbiamo fare molta attenzione a non commettere errori, perché rischiamo di fa­re perdere la faccia a qualcuno». La voce di Jumonji trema­va, come se si fosse accorto per la prima volta di quanto fos­se importante la questione. «Bisogna agire con tutte le cau­tele». «Naturale!» Dopo aver finito di svestire il morto, fecero rotolare il corpo nudo nella vasca. Quindi Jumonji prese dal sacchetto quattro mazzette da un milione e le porse a Masako: «Quattro milioni. Preferisco darglieli subito». Le banconote non erano nuove come quelle di Yayoi, ma sporche e stropicciate, tenute insieme qua e là con il nastro adesivo. Proprio come il denaro che, tanto tempo prima, portavano alla cassa di credito. Dirty business furono le paro­le che attraversarono la mente di Masako. Diede un’occhiata alla sveglia che aveva appoggiato sulla lavatrice, nello spogliatoio. Era quasi mezzogiorno. Sarebbe dovuto arrivare Jumonji con le scatole di cartone. Il lavoro era quasi terminato. Quando avevano sezionato Kenji non se n’era accorta, perché era troppo emozionata, ma adesso in­cominciava a sentire una dolorosa pesantezza alle spalle e ai fianchi, perché aveva lavorato curva troppo a lungo. Inoltre da quando avevano finito il turno non avevano dormito neanche un po’, e ora non desideravano altro che finire il più presto possibile e andare a letto. Yoshie si raddrizzò e fece per massaggiarsi la schiena, ma si fermò a mezz’aria. «Non posso, ho le mani tutte insanguinate». «E allora prenditi un paio di guanti nuovi!» «Macché, sarebbe uno spreco». «Figuriamoci!» le rispose Masako indicando con il mento il mazzo di guanti che aveva rubato allo stabilimento. «Usa­ne altri. Ce n’è finché vogliamo». «Yama-chan non si è fatta vedere», disse Yoshie sfilandosi i guanti appiccicosi. «Già. Le avrei mostrato volentieri che cosa vuol dire fare questo lavoro». «Crede di essere meno colpevole di noi! Eppure è stata lei a uccidere il marito», commentò Yoshie astiosa. «Dentro di sé ci disprezza, perché pensa che lo abbiamo fatto solo per i soldi. Ma è chiaro come il sole che noi siamo migliori di lei!» In quel momento suonarono alla porta. Yoshie, spaventa­ta, gridò: «È tornato qualcuno! Non sarà tuo figlio?» Masako scosse la testa. Nobuki non tornava quasi mai a quell’ora: «Forse è Jumonji». «Meno male». Yoshie respirò sollevata. Per precauzione Masako guardò dallo spioncino: fuori c’era Jumonji con un enorme pacco di cartoni ripiegati. Ma­sako lo aiutò a portarlo in casa. Rivolto a Yoshie, Jumonji si presentò: «Eccomi

qui». «Bene. Molte grazie», rispose Yoshie con lo stesso tono con cui ringraziava le compagne più giovani alla fine del tur­no in fabbrica. «Adesso ricostruisco le scatole. Più o meno quante ce ne servono?» Otto, indicò Masako mostrando le dita. Era un uomo piccolo, perciò anche i sacchi erano più piccoli di quanto non avesse previsto. Le parti che potevano costituire degli in­dizi era meglio che Jumonji le trasportasse di persona. «Solo otto…» Jumonji era stupito. «Così poche? Non l’a­vrei mai pensato». «Spero che non si sia fatto vedere da nessuno», disse Yo­shie preoccupata. «No, è tutto a posto». «Davvero non l’ha visto nessuno?» chiese a sua volta Ma­sako guardandolo seria in viso. Guai se il “misterioso nemi­ co” si fosse accorto di qualcosa. «Credo di no. Soltanto…» «Soltanto che cosa?» «Sul terreno edificabile di fronte a casa sua era ferma una donna, ma se ne è andata subito». «Che tipo di donna?» «Tarchiata, tra i quaranta e i cinquanta, più o meno una grassa zia». Evidentemente era la stessa donna che aveva suo­nato da Masako per avere informazioni sul terreno che vole­va comprare. «E osservava la mia casa?» «No, sembrava che stesse esaminando la terra. Poi ho vi­sto anche una sua vicina che andava a fare la spesa. Ma cre­do che nessuna delle due si sia occupata di me». Forse non era stato saggio servirsi della Maxima di Ju­monji. La prossima volta sarebbe stato meglio usare la Co­rolla, era meno appariscente, pensò Masako. Stiparono le scatole nell’auto e Jumonji partì. A quel punto Yoshie commentò: «Proprio come Nakayama, quando trasporta le scatole delle colazioni!» Scoppiarono tutte e due a ridere. Poi si fecero la doccia a turno e pulirono bene il bagno. Yoshie incominciò a essere irrequieta, perché si stava facendo tardi. Masako le porse la parte di denaro che aveva tirato fuori per lei. «Ecco la tua paga». Yoshie lo prese con la punta delle dita, come se avesse paura di sporcarsi, e lo infilò bene in fondo alla borsa della spesa in finta pelle. Ma poi, visibilmente sollevata, disse: «Non puoi nemmeno immaginare che razza di fortuna sia questa per me». «Che cosa ne farai?» «Vorrei iscrivere Miki a un breve corso universitario», ri­spose Yoshie lisciandosi i capelli arruffati. «E tu?» «Non so…» Masako inclinò la testa. Adesso aveva in tut­to cinque milioni di yen. Come poteva utilizzare quei soldi? «Non offenderti se te lo chiedo, ma…» Yoshie era titu­bante. «Che cosa?» «Anche tu hai preso solo un milione?» «Sì, naturalmente», rispose Masako senza esitazione guar­dandola in faccia. Yoshie, con aria afflitta, tirò di nuovo fuo­ri dalla borsa la mazzetta di banconote. «Be’, allora ti devo restituire gli ottantamila che mi hai prestato…» Evidentemente alludeva al denaro per la gita sco­lastica di Miki. Yoshie tirò fuori dal mazzo otto biglietti da diecimila e li consegnò a Masako inchinandosi: «Ne manca­no ancora tremila. Adesso non ho spiccioli, te li posso por­tare allo stabilimento?» «Va bene».

Un debito è pur sempre un debito. Masako non faceva sconti. Yoshie era rimasta a fissarla per qualche istante, in at­tesa, ma infine, rassegnata, si alzò. «Allora a stanotte in fabbrica». «Sì, a più tardi». La notte era il momento giusto per incontrare le compa­gne del turno. Vedersi alla luce del giorno poteva destare dei sospetti.

Appartamento 412

1. Soprattutto all’inizio dell’inverno, quando il sole tramontava presto, era particolarmente sconfortante alzarsi alla sera. Ma­sako rimase a letto a contemplare il tramonto e l’oscurità che a poco a poco si diffondeva nella camera. In quei momenti malediva il turno di notte e riusciva a capire perché alcune delle sue compagne di lavoro soffrivano di depressione. Ad annientarle non era solo il buio precoce, quanto piuttosto la sensazione di avere toccato il fondo, di essere ormai state tagliate fuori dalla quotidianità ordinata e disciplinata della gente perbene. Quante mattine trafelate aveva trascorso! Alzarsi per pri­ma, preparare la colazione e i cestini per il pranzo, stendere il bucato, vestirsi, calmare il bambino che si era svegliato con la luna storta e accompagnarlo all’asilo. Un occhio sempre fisso all’orologio a muro o una sbirciatina a quello da polso, sempre di fretta, sempre di corsa, mai un momento per leg­gere il giornale o prendere in mano un libro. Quando anda­va a letto, calcolare quante ore di sonno poteva permettersi, e nei rari giorni liberi una montagna di biancheria sporca che la aspettava e le pulizie che le spezzavano la schiena. Tutta quella quotidianità spaventosamente ordinata e disciplinata, quando parole come sconforto o depressione non venivano neppure in mente! Non aveva alcuna nostalgia di quel periodo. Preferiva le cose come stavano adesso. Era sufficiente rimuovere una pic­cola pietra scaldata dal sole per scoprire la terra umida e fre­sca. E lei, in quel momento, voleva assaporare a fondo l’o­scurità del lato nascosto al sole. Anche se non sentiva il te­pore della terra si sentiva bene lì, non le mancava niente. Co­me un lombrico attorcigliato su se stesso. Sì, era diventata un lombrico. Masako richiuse gli occhi. Forse perché dormiva sonni brevi, poco profondi e non regolari, si sentiva il corpo pesante e non riusciva mai a riprendersi del tutto dalla stan­chezza. Come attratta da una forza di gravità, sprofondò nel sonno. E infine sognò. Si trovava nel vecchio ascensore, rivestito di pannelli ver­de chiaro, dell’istituto di credito Tanashi e scendeva lenta­mente. Qua e là i pannelli erano lacerati a causa degli urti dei carrelli con cui veniva trasportato il denaro. Quante volte aveva trascinato a fatica fuori dall’ascensore pesanti sacchi pieni di monetine! L’ascensore si fermò al primo piano. Lì si trovava la sezione prestiti, dove era stata impiegata Masako. Il suo luogo di lavoro, che conosceva a fondo, al punto che lì avrebbe potuto muoversi a occhi chiusi. Ma adesso, che co­sa ci veniva a fare? Le porte dell’ascensore si aprirono e Ma­sako diede un’occhiata all’ufficio buio, deserto, e premette il pulsante di chiusura. Ma, prima che le porte si fossero acco­state, saltò dentro un uomo. Era Kenji. Ma non era morto?! A Masako si bloccò il re­spiro. Kenji indossava una camicia bianca, una cravatta po­co appariscente e calzoni grigi. Come il giorno in cui era sta­to ammazzato. Le fece un cortese cenno di saluto e poi si girò verso la porta dell’ascensore. Masako, che gli vedeva la nuca parzialmente coperta dai capelli un po’ lunghi, fece un passo indietro, perché senza rendersene conto si era messa a cerca­re la cicatrice del taglio che aveva fatto per mozzargli la testa. L’ascensore scese lentamente al piano terra. Le porte si aprirono e Kenji sparì nel buio in direzione dello sportello dei clienti. Masako, rimasta sola nell’ascensore, improvvisamente incominciò a sudare freddo e indugiò chiedendosi se doveva seguirlo o meno. Quando finalmente uscì dall’ascensore, si accorse che qualcuno, nel buio, si avvicinava. Ancor prima di riuscire a scappare, si sentì afferrare con forza da dietro. Due lunghe braccia la stringevano in una morsa di ferro e le impedivano di muoversi. Voleva gridare aiuto, ma le mancava la voce. L’uomo voleva soffocarla. Masako si contorse per sfuggire al­la presa, ma non riusciva a muovere né le mani né i piedi. Gli inutili tentativi di liberarsi aumentavano la sua angoscia e, nel sogno, continuava a sudare freddo. Infine l’uomo riuscì a metterle le mani al collo. Masako era irrigidita dal terrore. Ma il calore

delle mani dell’uomo, il suo fiato ansimante sul collo, un po’ alla volta risvegliavano in lei l’oscuro desiderio di abbandonarsi a quella forza e di lasciarsi strangolare. Nel­lo stesso istante, come se fosse piombata in uno stato di as­senza di gravità, il terrore svanì e venne invasa da un’incredi­bile sensazione di godimento. Per la sorpresa e il piacere si la­sciò sfuggire un grido. Masako si svegliò. Si girò sulla schiena e si mise una ma­no sul cuore. Batteva ancora selvaggiamente. Aveva già fatto spesso sogni erotici, ma era la prima volta che il piacere si mescolava all’angoscia. Rimase sdraiata al buio, ripensando al sogno. Restò lì per un po’, incapace di muoversi, perché credeva di aver scoperto gli abissi nascosti in fondo al pro­prio animo. Cercava di capire chi poteva essere l’uomo del sogno, e nel frattempo ricordava la sensazione delle braccia che la ave­vano afferrata. Non poteva essere Kenji, perché le era già ap­parso in sogno come un fantasma, per trascinarla nel terro­re. Non era neppure Yoshiki, lui non le aveva mai usato vio­lenza. E neanche Kazuo, la sua stretta era completamente di­versa. Allora restava solo il “nemico misterioso”, quello che negli ultimi tempi alimentava le sue paure. Non avrebbe mai immaginato che terrore e piacere sessuale potessero diventa­re una sola cosa. Per qualche momento Masako si lasciò andare a quella sensazione travolgente, che credeva di avere da tempo dimenticato. Si alzò e accese la luce. Accostò le tende e sedette alla toe­letta. Lo specchio le rimandò la pallida immagine di una donna che la scrutava con aria cupa. Da quando aveva disse­zionato il cadavere di Kenji, il suo volto era mutato. Ne era chiaramente consapevole. Le piccole rughe che le solcavano la fronte erano divenute più profonde e lo sguardo più ta­gliente. Era invecchiata. Soltanto la bocca, dischiusa, aveva un aspetto aggraziato, come se volesse invocare il nome di qualcuno. Che cosa le stava accadendo? Masako si coprì la bocca con la mano. Ma non riuscì a occultare lo sfavillio del­lo sguardo. Udì un rumore. Yoshiki o Nobuki dovevano essere rien­trati. Guardò la sveglia sul comodino: erano quasi le otto. Si passò la spazzola sui capelli, si buttò sulle spalle un cardigan e uscì dalla camera. Udiva il rumore della lavatrice in fun­zione nel bagno. Evidentemente era stato Yoshiki. Da qual­che anno si lavava da solo la biancheria. Masako bussò alla porta della sua stanza. Non udendo risposta entrò e lo vide, seduto sul letto con addosso soltanto la camicia, che ascolta­va musica in cuffia. La camera, di quattro tatami e mezzo, sembrava ancora più piccola da quando lui vi aveva traspor­tato uno dei letti gemelli. Arredata con mensole piene di li­bri e una scrivania, era simile alla stanza di un pensionato studentesco. Masako diede un colpetto sulla spalla di Yoshiki che, spaventato, si girò togliendosi la cuffia. Quando vide che lei era ancora in pigiama chiese: «Che cosa succede, non stai bene?» «No, ho semplicemente dormito più a lungo del solito». Masako provò una sensazione di freddo e si abbottonò il car­digan. «Dormire più a lungo del solito significa alzarsi alle otto di sera?» commentò Yoshiki tra sé e sé. «È strano». Il marito si trovava sul lato della pietra scaldato dal sole, ed era da lì che parlava. Masako si appoggiò alla finestra che guardava a nord. «Già, senza dubbio è strano». Dalla cuffia che aveva appoggiato sul letto si sentiva del­la musica classica. Un pezzo che Masako non conosceva. «Negli ultimi tempi non cucini più», bisbigliò Yoshiki senza guardarla negli occhi. «Già». «E perché?» «Perché ho deciso così». Yoshiki non indagò oltre: «Be’, lo sai che per me è lo stes­so. E tu, però, cosa mangi?» «Quello che trovo».

«Non te ne importa più della famiglia?» le domandò Yo­shiki sorridendo amaramente. «Esatto», rispose lei. «Mi dispiace, ma credo che ognuno di noi debba fare quello che gli va bene». «Perché?» «Sono diventata un verme. Un lombrico che se ne sta fra le zolle senza far niente». «Beata te che puoi farlo». «Intendi dire che per una donna è più facile?» «In un certo senso». «Potresti farlo anche tu». «Io? No, non è possibile!» Yoshiki la guardò stupito. «Co­me puoi dire una cosa del genere?» «Anche tu te ne stai rinchiuso in una fortezza. Vai in uf­ficio, torni, fai soltanto quel che ti pare. Come se questa fos­se la camera di una pensione». Masako indicò la stanza. Yoshiki, infastidito, tentò di in­terrompere la conversazione. «Va bene», disse e prese di nuo­vo la cuffia. Masako osservò l’uomo seduto davanti a lei. In confron­to a quando si erano conosciuti i capelli erano più radi e gri­gi. Era anche dimagrito, e dal suo corpo emanava sempre un odore particolare, come il residuo di una distillazione alcoli­ca. Ma al di là dell’aspetto esteriore, ciò che disturbava Ma­sako era il fatto che sembrava diventare sempre più puritano. Quando si erano sposati, Yoshiki era saldamente deter­minato a difendere la propria libertà interiore e a mantenere lo spirito sempre vivo. Anche se era a lungo impegnato nel lavoro d’ufficio, in privato era un uomo gentile, dall’animo generoso. A quel tempo era ancora innamorato e lei ricam­biava il suo amore e aveva fiducia in lui. Ma ormai, quand’era libero dal lavoro, voleva essere indi­pendente anche dalla famiglia. L’ambiente in cui esercitava la sua professione era effettivamente corrotto. Ma né ovvia­mente la ditta, né Masako, anche lei occupata dal suo lavo­ro, lo lasciavano libero. Il figlio Nobuki si era incamminato verso una direzione inattesa e si era subito incagliato. Quan­to più Yoshiki si attaccava ai suoi principi, tanto più si rasse­gnava al fatto che gli altri non riuscivano a seguirlo. Di con­seguenza non gli restava altro che rinunciare a ogni legame e diventare una sorta di eremita. Tuttavia Masako non aveva alcuna intenzione di vivere con uno che voleva rinunciare al mondo. E a questo pensiero le venne in mente il piacere che aveva provato in sogno poco prima. Si fece coraggio e, rivolta a Yoshiki che si era rimesso la cuffia per ascoltare la musica, chiese: «Perché non dormi più con me?» Yoshiki, stupito, si tolse la cuffia: «Come hai detto?» «Perché te ne stai qui tutto solo?» «Be’… evidentemente perché voglio stare solo», rispose il marito guardando il dorso delle copertine dei romanzi ordi­natamente allineati sulle mensole. «Tutti vogliono starsene da soli, ogni tanto». «Può darsi». «Perché hai smesso di dormire con me?» «Ma è naturale, prima o poi doveva succedere». Yoshiki distolse lo sguardo, senza tuttavia riuscire a nascondere la sua espressione imbarazzata. «E inoltre tu sembravi sempre così stanca». «Già». Masako cercò di ricordare che cosa fosse avvenuto quat­tro o cinque anni prima per indurli a dormire in camere se­parate. Ma le venivano in mente solo dettagli insignificanti, dei quali faceva perfino fatica a ricordarsi. Probabilmente era stato proprio un accumularsi di quisquilie a distruggere il lo­ro rapporto. «Non è solo il sesso che tiene insieme una coppia». «È vero, ma tu ti sottrai anche a tutto il resto. In realtà dai l’impressione di non volere avere

niente a che fare con me e con Nobuki, che la cosa semplicemente ti disgusti», borbottò Masako. Allora Yoshiki, contro le sue abitudini, alzò la voce: «Ma sei stata tu a scegliere un lavoro notturno!» «Sono stata costretta, perché non riuscivo a trovare un al­tro impiego». «È una menzogna», ribatté Yoshiki guardandola per la prima volta negli occhi, «un lavoro come contabile lo avresti potuto trovare ovunque, qualsiasi piccola azienda ne ha bi­sogno. No, tu eri offesa, e perciò volevi fare qualcosa di com­pletamente diverso, per non trovarti ancora a fare la stessa esperienza, non è vero?» Naturalmente Yoshiki aveva indovinato, era troppo sensi­bile per non accorgersene. E non era solo questo: sapeva an­che che si erano feriti a vicenda. «Con questo vuoi forse dire che il nostro rapporto si è sfa­sciato perché ho scelto di fare i turni di notte?» «No, non dico questo. Ma, lo ammetto, ho pensato che sia tu che io preferivamo stare soli». Masako comprese che anche Yoshiki, proprio come lei, aveva aperto una nuova porta. La scoperta non la rese triste, ma si sentì più sola. «Ti stupiresti se me ne andassi?» chiese, interrompendo il silenzio che era caduto tra loro. «Se succedesse da un giorno all’altro, forse mi stupirei. E mi preoccuperei». «Ma non mi cercheresti?» Yoshiki meditò qualche istante, quindi scosse la testa: «No, probabilmente no». A quanto sembrava per lui la conversazione era finita, perché si rimise la cuffia sulle orecchie. Masako contemplò ancora una volta il suo profilo. Decise che prima o poi se ne sarebbe andata. Ciò che rendeva possibile quella decisione giaceva nel cassetto delle coperte, sotto il letto su cui fino a poco prima aveva dormito. Cinque milioni di yen in contanti. Aprì la porta senza fare rumore e uscì nella penombra del corridoio, dove trovò Nobuki. Doveva averlo colto di sor­presa, perché la guardò spaventato e tuttavia rimase lì come se avesse messo radici. Masako chiuse la porta dietro di sé. «Stavi ascoltando?» Nobuki non rispose, ma abbassò confuso lo sguardo. «Evidentemente sei convinto di potertene rimanere in si­lenzio ogni volta che succede qualcosa che non ti comoda. Ma non te la caverai così semplicemente». Nobuki continuò a rimanere muto come un pesce. Ma­sako sollevò lo sguardo verso il figlio, ormai più alto di lei. Sembrava incredibile che fosse stata lei a partorirlo. Questo figlio di cui si era presa cura e che presto avrebbe abbando­nato. «Probabilmente me ne andrò. Ma credo che ormai tu sia diventato grande abbastanza. Cerca di fare ciò che credi giu­sto. Se vuoi tornare a scuola tornaci, se vuoi andartene di ca­sa, bene lo stesso. È una decisione che devi prendere tu. Pen­saci e poi dimmi che cosa vuoi fare». Masako contemplò per qualche istante le guance incava­te del figlio. Nobuki non rispose, ma gli tremavano le labbra. Quando infine si voltò per allontanarsi, udì alle spalle la vo­ce stonata del figlio: «Ma chi credi di essere, vecchiaccia!» Quell’anno era la seconda volta che udiva la voce di No­buki, quasi ormai una voce da adulto. Masako si girò e lo guardò in faccia: aveva le lacrime agli occhi. Stava per dirgli qualcosa ma lui, furioso, alzò le spalle e salì di corsa al piano di sopra. Le si strinse il cuore, ma non aveva alcuna inten­zione di tornare sulla sua decisione. Per la prima volta dopo molto tempo, Masako, andando al lavoro, pensò di fermarsi a casa di Yayoi. Le foglie secche degli alberi urtavano con un suono lieve e piacevole contro il parabrezza. Si

era alzato un vento fresco. Masako rabbrividì e, mentre alzava il finestrino, una mosca solitaria volò nell’auto e si nascose nel buio. Questo le fece venire in mente la notte in cui Yayoi le aveva raccontato la sua terribile emergenza e lei aveva guidato pensando se aiu­tarla o no. Dal finestrino aperto era entrato il profumo delle gardenie in fiore e poi era subito svanito. Era successo solo l’estate prima, ma sembrava che fossero passati molti anni. Udì un rumore sul sedile posteriore. Benché sapesse che si poteva trattare solo dell’atlante stradale scivolato dal sedi­le, le sembrò che Kenji fosse salito per recarsi insieme a lei a far visita a Yayoi. «Vuoi venire con me?» disse rivolta al buio. Aveva ormai confidenza con Kenji, che spesso le appariva in sogno. Ma­sako voleva vedere da vicino quella Yoko Morisaki che cu­stodiva i bambini di notte durante l’assenza di Yayoi. Posteggiò l’auto nel vicoletto di fronte alla casa dell’ami­ca, come aveva fatto quando avevano trasportato il cadavere, e suonò il campanello. Attraverso le tende chiuse delle fine­stre del soggiorno trapelava una calda luce gialla. Yayoi si af­facciò e con voce spaventata chiese chi fosse. «Sono io, Masako Katori. Scusa l’ora tarda». Yayoi sembrava stupita. Si udirono i suoi passi avvicinar­si lungo il corridoio. «Che succede? Come mai a quest’ora?» chiese aprendo la porta. Doveva avere appena fatto la doccia, perché i capelli le sgocciolavano sulla fronte. «Posso entrare?» Masako chiuse la porta con la schiena, avanzò nel piccolo ingresso e istintivamente gettò uno sguar­do alla soglia. Il punto in cui era morto Kenji. Yayoi capì il significato di quello sguardo e abbassò frettolosamente gli occhi. «Non è ancora ora di andare al lavoro». «Lo so. Sono soltanto le dieci. Ma ho bisogno di parlar­ti», disse Masako. Yayoi, ricordando forse la loro discussione allo stabili­mento, assunse un’espressione aggressiva: «Di che cosa vuoi parlarmi?» «A che ora arriva la Morisaki?» Masako aguzzò le orecchie cercando di individuare i rumori nel soggiorno. I bambini dovevano essersi addormentati, perché si sentivano soltanto le voci del telegiornale. «A dire il vero», confessò Yayoi aggrottando le sopracci­glia, «non viene più». «Perché?» Masako si sentì afferrare da un’indefinibile in­quietudine. «Circa una settimana fa è venuta e ha detto che doveva tornare a casa, al suo paese. Mi sono stupita e ho cercato di convincerla a rimanere, ma non ne ha voluto sapere. Anche i bambini erano dispiaciuti, e lei quasi scoppiava a piange­re…» «Di dov’è?» «Non me l’ha detto». Yayoi era offesa e non faceva nien­te per nasconderlo. «E pensare che eravamo diventate ami­che! Ha detto soltanto che mi avrebbe telefonato». «Ma come è successo che è riuscita ad andare avanti e in­dietro per casa tua?» Yayoi, pur sentendosi oppressa dalle domande inquisito­rie di Masako, raccontò come era andata. Masako era sem­pre più convinta che la Morisaki si fosse intrufolata in quel­la casa per svolgere delle indagini. Rimase in silenzio pensie­rosa e Yayoi, meravigliata, domandò: «Masako, perché sei co­sì preoccupata? Se vuoi saperlo, credo che tu pensi troppo». «Non ho ancora capito chi sia, ma qualcuno ci sta spian­do. Sarà meglio che tu stia in guardia», disse finalmente. «Che cosa vuoi dire? Chi starebbe spiandoci? E perché?» gridò Yayoi spaventata. L’acqua le colava dai capelli sul viso, ma sembrava non accorgersene. «Pensi che sia la polizia?» «No, non credo». «E chi, allora?» «Non lo so», rispose Masako scuotendo la testa, «sono preoccupata proprio perché non riesco a

capire». «E tu credi che lei abbia a che fare con loro? Voglio dire, la signora Morisaki?» «Sì, forse». Sarebbe stato inutile perquisire l’appartamento di quella donna, perché senza dubbio l’aveva lasciato vuoto. Tuttavia, per spiare Yayoi si erano spinti fino a spendere per un ap­partamento in affitto. E anche solo il fatto che qualcuno fos­se disposto a tirare fuori dei soldi rendeva la situazione estre­mamente sospetta. «Che si tratti di indagini dell’assicurazione?» «Ma mi hai detto che hanno già deciso di pagare il pre­mio, no?» «Sì. Lo incasserò la settimana prossima». «Lei lo sapeva?» Masako, perplessa, inclinò la testa. Yayoi si massaggiò le braccia come se avesse freddo: «So­no nel mirino di qualcuno, che cosa posso fare?» «Tutto perché ti sei fatta vedere alla televisione. Sei di­ventata troppo famosa. Credo che sia meglio che tu non ven­ga più a lavorare. D’ora in poi devi condurre una vita riser­vata e modesta». «Davvero? Lo pensi davvero?» Yayoi sollevò lo sguardo verso Masako. Ciò che vide dovette tranquillizzarla, perché si lasciò sfuggire: «Ma se non vengo a lavorare le altre non pen­seranno subito che ho avuto dei soldi?» E quindi fino ad allora si era comportata come se nulla fosse cambiato solo perché aveva paura che Yoshie e Kuniko venissero a sapere dell’assicurazione… Masako la guardò stu­pita. Da quando aveva ucciso Kenji, in Yayoi era emerso un aspetto del suo carattere, freddo e calcolatore, che prima non aveva mai avuto. «Non preoccuparti di loro. Non è il caso di temerle». «Hai ragione», annuì Yayoi e la guardò sospettosa. Sem­brava volerle dire: e di te posso fidarmi? Masako la precedette: «Io non dirò mai nulla». «Certo. Dopotutto ti ho dato due milioni, no?» rispose Yayoi in tono comprensivo. Masako ebbe l’impressione che fosse ancora risentita per la discussione che avevano avuto al­lo stabilimento. «Sì. Un compenso sufficiente per avere fatto a pezzi tuo marito». Masako, che ormai non aveva più motivo di tratte­nersi, alzò una mano e la salutò: «Me ne vado». «Grazie per il disturbo». Quando Masako era già entrata in macchina e stava per partire, Yayoi la raggiunse trafelata. Masako aprì la portiera dell’altro lato. «Ho dimenticato di chiederti una cosa». Yayoi salì, li­sciandosi con le mani i capelli bagnati, forse perché lì fuori, all’aria, aveva freddo. L’auto si riempì del profumo del balsa­mo, uno di quelli preferiti dalle ragazze. «Che cosa?» «Il lavoro di cui mi hai parlato allo stabilimento. Di che cosa si tratta? Forse di un altro cadavere da fare a pezzi?» «Con te non ne voglio parlare». Masako avviò il motore. Il rombo echeggiò nella quiete del quartiere residenziale. «Perché?» Yayoi tremava per l’umiliazione e si morse le labbra. Fissava il cruscotto senza guardare Masako. Tra il ve­tro e il tergicristallo che non aderiva perfettamente si erano infilate alcune foglie secche. «Perché non voglio». «Perché? Che cosa significa?» «Che sarebbe la cosa più stupida che potrei fare, raccon­tarlo a una ingenua come te». Yayoi non replicò, aprì la portiera e scese. Senza degnarla di uno sguardo Masako ingranò la retromarcia e guidò fuori dal vicolo. Yayoi rientrò in casa sbattendo rumorosamente la porta.

2. Kuniko si alzò nel tardo pomeriggio e per prima cosa accese il televisore. Quindi mangiò la colazione che aveva compra­to nel supermercato all’angolo. Manzo alla coreana. Proba­bilmente era stata confezionata allo stabilimento, sulla linea di produzione accanto alla sua. Doveva essere stata un’ope­raia appena assunta a distribuire la carne, notò Kuniko con­tenta. Le principianti avevano difficoltà a stendere accuratamente le fettine, perché non riuscivano a tenere il ritmo del­la linea, ed era questo il motivo per cui la scatola conteneva più carne del solito, ancora arrotolata. Evidentemente il buon Nakayama non era stato abbastanza attento, sogghignò Kuniko. Se il lavoro lo avesse fatto la “maestra”, il riso sareb­be stato coperto esattamente da sei fettine ben allargate. A proposito di Yoshie: negli ultimi tempi sembrava avere risolto i suoi problemi e questo non dava pace a Kuniko. Aveva incominciato a parlare del progetto di iscrivere la figlia all’università, e diceva anche che intendeva cercare un ap­partamento. Non avrebbe potuto farlo con i cinquecentomi­la yen ricevuti da Yayoi. Al massimo sarebbero stati suffi­cienti solo per il trasloco. Che avesse risparmiato qualcosa? No, era assolutamente impossibile, concluse Kuniko scrol­lando la testa. Sapeva che Yoshie aveva sempre combattuto con difficoltà economiche. Dentro di sé la disprezzava: piuttosto che vivere così miseramente avrebbe preferito morire. Qualcosa non quadrava. Kuniko, che era molto perspicace quando si trattava di soldi, era perplessa. Quelle fantasie alimentavano la sua diffidenza. Poteva darsi che Yayoi, di nascosto, avesse dato a Yoshie più di cin­quecentomila yen. Non appena quest’idea prese corpo nella sua mente, non ebbe più tregua. Kuniko, che non sopporta­va che qualcuno potesse essere più fortunato di lei, si sentiva truffata. Decise che quel giorno, non appena avesse incon­trato Yoshie, anzi Yayoi, allo stabilimento, l’avrebbe messa al­le strette. Spezzò con forza i bastoncini usa e getta, che ave­vano ormai fatto il loro dovere, e li gettò nella scatola vuota della colazione. Le rimanevano ancora circa centottantamila yen. Sogghi­gnò contenta. Con il resto aveva pagato gli interessi dei suoi debiti e si era comprata un giubbotto di pelle rossa, una gon­na nera e un golf viola. Avrebbe voluto prendersi anche un paio di stivali, ma a questo desiderio aveva opposto un’eroi­ca resistenza e si era limitata ad acquistare un po’ di cosmetici. E tuttavia le rimanevano ancora centottantamila yen. Cosa c’era di più bello? E oltretutto non aveva più alcun de­bito con Jumonji. Un altro colpo di fortuna! A Kuniko non interessava un fico secco del motivo per cui Jumonji aveva voluto sapere il loro segreto, e come lo avrebbe utilizzato. Finché non veniva coinvolta, le era del tutto indifferente. Al momento aveva avuto paura che il se­greto potesse diventare di dominio pubblico, e allora anche lei sarebbe potuta finire in prigione, ma l’ispettore non si era fatto vedere e adesso non si preoccupava più. Ormai per lei l’aver fatto a pezzi Kenji era un episodio di­menticato, che apparteneva al passato. Però era decisa a uti­lizzarlo fino al limite estremo, pur di averne un ulteriore gua­dagno. Era pronta a minacciare e ricattare. Non aveva in mente altro. Kuniko gettò la scatola vuota della colazione nel cestino dei rifiuti, si lavò il viso e, davanti allo specchio, incominciò a truccarsi per andare a lavorare. Prese dal pacchetto il ros­setto appena acquistato e provò a passarselo sulle labbra. Era marrone, la nuova tinta per l’autunno. Era stata la commes­sa a consigliarglielo, ma non stava bene al suo viso tondo dal­la carnagione troppo chiara. La faceva sembrare ancora più pallida e cupa e le labbra risaltavano troppo. «Le sta proprio bene», l’aveva adulata la commessa quando se lo era provato in negozio. Che stupida a lasciarsi infinocchiare così! Le era costato quattromilacinquecento yen. Kuniko era pentita dell’acquisto. Con ottocento yen avrebbe potuto comprarsi un rossetto dello stesso colore al supermercato. Era fuori di sé dalla rabbia. Ma poi le venne in mente che, se avesse cambiato fondotinta, forse le sarebbe stato meglio. Aprì in fretta il numero speciale di una rivista,

dedicato al trucco, e si sprofondò nella lettura. Sì, avrebbe comprato un nuovo fondotinta e, visto che c’era, anche un paio di stivali. Continuava a comprare per soddisfare le sue voglie e gli oggetti che acquistava suscitavano altri desideri. La sua vita non era altro che correre di qua e di là all’inseguimento di un sogno, un infinito gioco ad acchiapparsi nel quale Kuniko si perdeva. Dopo essersi truccata indossò il nuovo golf viola e la gon­na nera. Si infilò dei collant neri e scoprì di sembrare molto più snella. Indugiò per un po’ davanti allo specchio, fino a quando improvvisamente sentì una fitta profonda. Un uomo, aveva bisogno di un uomo! Quand’era stata l’ultima volta che aveva fatto sesso? In fretta e furia andò a prendere il minicalendario di Mister Minit. Tetsuya se ne era andato verso la fine di luglio. Era a secco da allora, vale a di­re da più di tre mesi. Stare con un uomo, anche se cretino come Tetsuya, comportava comunque dei vantaggi. Tutto a un tratto la assalì una tristezza mortale e, vestita com’era, Ku­niko si gettò sul letto ingombro di indumenti. Adesso che era così elegante, voleva che qualcuno le di­cesse che era splendida. Che la abbracciasse, che la prendes­se. Ovviamente un vero uomo, forte, non il ridicolo Tetsuya. Le sarebbe andato bene anche un maniaco sessuale, anche il primo incontrato per strada, non importava, bastava che fos­se un vero uomo. In breve tempo la smania di Kuniko di­venne sempre più pressante, incontrollabile. Adesso che era riuscita in qualche modo ad appagare i suoi desideri, ecco che si presentava anche questa voglia. E come dalla sua sbrigliata immaginazione scaturivano sospet­ti, come l’acquisto di un oggetto la stimolava a comprarne al­tri, allo stesso modo in Kuniko il desiderio sessuale montava sempre più, fino a diventare incontrollabile. Si mise a pensare a Kazuo Miyamori. Sembrava un po’ più giovane di lei, ma a Kuniko erano sempre piaciuti i mez­zosangue. E poi aveva un bel fisico. E quando lei e Yoshie gli avevano affidato la busta con i soldi di Yayoi, era stato mol­to gentile e disponibile. Viveva in un pensionato insieme a un compagno di stanza, dunque senza dubbio gli mancava una donna. Kuniko ne era assolutamente convinta e decise che quella sera allo stabilimento, non appena lo avesse in­contrato, lo avrebbe abbordato. Giusto, avrebbe fatto così. Kuniko, che quando aveva in tasca dei soldi si riprendeva sempre in fretta, balzò in piedi con energia. Kuniko aprì la portiera dell’auto. Teneva il giubbotto ros­so sul braccio, in modo che anche il golf viola potesse essere apprezzato. Sarebbe andata allo stabilimento senza abbassare la capote, per non rovinare la messa in piega che le era co­stata tanta fatica. L’unica cosa che la preoccupava era di incontrare Masako nel parcheggio. Negli ultimi tempi le dava fastidio soltanto vederla, e cercava in tutti i modi di non lavorare alla stessa li­nea. Il sistema migliore per evitarla era arrivare un po’ prima di lei. Kuniko avviò l’auto e abbandonò velocemente il po­sto macchina davanti a casa. Arrivata al posteggio dello stabilimento vide un uomo in divisa blu davanti alla guardiola. Aveva uno sfollagente ap­peso alla cintura e sul petto gli pendeva una grossa torcia elettrica. Kuniko scese dall’auto un po’ delusa: a causa della presenza del sorvegliante diventava piuttosto improbabile in­contrare il maniaco sessuale di cui aveva parlato Masako. Chiuse la porta e gli lanciò uno sguardo inviperito. «Buonasera!» la salutò l’uomo inchinandosi. A Kuniko piacque il suo garbo, e lo osservò meglio. Il sorvegliante not­turno era un operaio in pensione, un uomo maturo, invece questo era molto più giovane. Aveva un bel fisico, valorizza­to dalla divisa. Non riusciva a vederlo bene in faccia, perché il posteggio era immerso nell’oscurità, ma aveva la sensazio­ne che fosse di suo gusto. Kuniko ricambiò il saluto con vo­ce gaia: «Buonasera anche a lei!» Probabilmente non era abituato a essere salutato, perché per un attimo sembrò un po’

imbarazzato. «Va allo stabilimento, vero?» «Sì, certamente». «Mi permetta di accompagnarla», le propose con noncu­ranza avvicinandosi. Aveva una voce bassa e carezzevole. Con un tono alto e civettuolo Kuniko rispose: «Davvero non le crea disturbo?» «No, al contrario, fa parte delle mie mansioni accompa­gnarla per un pezzo». «Vuole dire che ci accompagna una per una fino alla fab­brica?» «Sì, ma solo fino a metà strada. La prego di capire, ma mi è stato detto che oltre lo stabilimento dismesso il sentiero è abbastanza illuminato». La luce proveniente dal box rischiarava il profilo del sor­vegliante, rivolto verso di lei. Le sue sembravano fattezze co­muni, ma le labbra tumide e ben serrate le ispiravano un sen­so di fiducia: era un tipo d’uomo che Kuniko non aveva mai incontrato. Però non riusciva a catalogarlo e a capire a che ti­po appartenesse. «Grazie, allora mi accompagni». Kuniko pensò che aveva fatto bene a indossare i vestiti nuovi. E poi quel giorno do­veva sembrare particolarmente bella, perché si era truccata con più cura del solito. Con il presentimento che sarebbe successo qualcosa, rimase ferma ad attendere all’uscita del posteggio, mentre il sorvegliante prendeva la torcia elettrica che gli pendeva sul petto e incominciava a illuminare il sen­tiero davanti a lei. Il cono di luce illuminava il terreno co­sparso di sassolini. Come se si avventurassero in un’esplora­zione, Kuniko camminava accanto all’uomo lungo il sentie­ro completamente buio. Aveva il cuore in tumulto. «Quella è la sua auto?» Ora il tono del sorvegliante era più vivace, come se fosse stato contagiato dal buonumore di Kuniko. «Sì». «Bella macchina», commentò lui con ammirazione. «Grazie». Kuniko sorrise orgogliosa.Si era già dimentica­ta che le rimanevano tre anni di rate da pagare. «Da quanti anni la guida?» Quella conversazione incominciava a piacerle, le sembra­va di chiacchierare con un ragazzo. «Da tre. Ma è piuttosto costosa. A causa, come si dice, a causa della benzina…» «Vuole dire che beve molto?» «Sì, esatto». Come per caso Kuniko lo prese a braccetto. Toccare le sue braccia muscolose le provocò una fitta al cuore. «Quanti litri per cento chilometri?» «Be’, esattamente non lo so, ma l’uomo del distributore mi ha detto che beve moltissimo». «Già. Inoltre questo modello ha lo sterzo ancora piutto­sto pesante, non è vero?» «Sì. Ma lei è un vero esperto!» Kuniko fece un sorriso rag­giante e chiese: «Ha già guidato un’auto come questa?» L’uomo sorrise amaramente: «Figuriamoci, una vettura straniera!» Poi rallentò il passo e si fermò davanti allo stabi­limento abbandonato. Quel luogo aveva sempre un aspetto sinistro, ma quella sera le sembrava il castello incantato di un parco dei divertimenti, che invitasse all’avventura. «Ecco, siamo arrivati». Peccato, pensò Kuniko delusa. La passeggiata era finita troppo presto. «Arrivederci e abbia cura di sé. Buon lavoro», disse il sor­vegliante accennando un inchino. «Grazie, lo farò», flautò Kuniko, tutta contenta di avere scoperto una nuova fonte di piacere. Si lasciò prendere dall’entusiasmo e decise che oltre agli stivali avrebbe comprato anche un vestito adatto. Ovviamente nero, così sarebbe sem­brata più snella. Il suo buonumore si mantenne anche dopo aver varcato l’ingresso dello stabilimento, al punto che la vi­sta di Kazuo Miyamori non le fece né caldo né

freddo. Canticchiando tra sé e sé si infilò gli sporchi abiti da la­voro che da tempo avevano bisogno di una bella lavata. In quel momento entrò Yoshie. Aveva addosso i suoi soliti lo­gori fuseaux e una maglia nera, sulla quale gli occhi aguzzi di Kuniko individuarono subito una spilla d’argento nuova di zecca. Valutò il prezzo: non poteva costare meno di cinque­mila yen, un vero lusso per Yoshie. «Sei arrivata presto», la salutò Yoshie con una smorfia. Kuniko incominciò a schiumare di rabbia, ma non di­menticò di fingere riguardo per la compagna più anziana. «Ti auguro una buona giornata», la salutò gentilmente, e su­bito aggiunse un complimento: «Maestra, hai una spilla me­ravigliosa!» «Ah, questa!» Yoshie era raggiante. «Mi sono decisa a comprarla. Era tanto tempo che desideravo qualcosa del ge­nere, ma non potevo permettermelo, sai com’è… Ho esitato a lungo se farmi la permanente o comprarmi la spilla, ma poi ho deciso per questa. In fondo anch’io sono una donna, mi sono detta!» «Con quei soldi?» chiese Kuniko abbassando la voce. Yoshie arrossì. «Sì, perché? Hai qualcosa in contrario?» «Figuriamoci, dicevo così per dire». Kuniko finì di rive­stirsi con aria indifferente. Fra poco sarebbe arrivata Masako e lei voleva fare la domanda che aveva in mente prima che comparisse. «Maestra, per quanto riguarda il compenso che hai ricevuto da Yamamoto-san…» Yoshie si guardò intorno, si avvicinò a Kuniko e sibilò a bassa voce: «E allora?» «Be’, davvero ti ha dato la stessa somma che ho avuto io?» «Che cosa vuoi dire?» ribatté Yoshie irritata. Kuniko non perse la calma e tirò fuori un pretesto: «Niente, mi domandavo solo se fosse giusto accettare una somma così senza aver lavorato molto. E se tu hai preso gli stessi soldi che ho preso io, maestra, non è giusto nei tuoi confronti. In fondo Masako-san all’inizio mi aveva proposto centomila yen». «Va bene così», disse Yoshie dandole un colpetto sulle spalle grassocce, «in fondo siamo tutte nella stessa barca». «Davvero anche tu hai avuto solo cinquecentomila yen?» «Sì, cinquecentomila, davvero», annuì Yoshie, ma distol­se lo sguardo da Kuniko. Mentiva! Kuniko si fece più insi­stente: «Quindi esattamente come me. E allora come mai puoi permetterti un simile lusso?» «Ma di che lusso parli?! Che dici?» urlò Yoshie irritata. «Ah sì? In qualche modo mi è venuta l’idea che forse tu ti sei presa qualcosa di più». «E se anche fosse, non ti riguarda proprio!» «Davvero?» replicò astiosa Kuniko fissando senza compli­menti la spilla di Yoshie. Yoshie diede uno sguardo al salone, come se cercasse aiu­to. Sul suo volto apparve un’espressione di sollievo, perché proprio in quel momento stava entrando Masako. A diffe­renza del solito era vestita bene, con una maglia nera ade­rente e un paio di pantaloni dello stesso colore. «To’, è mai possibile? Dunque ha anche vestiti da donna nell’armadio!» commentò Kuniko a voce abbastanza alta da poter essere udita. Ma a quanto pareva Masako non aveva sentito, perché senza accorgersi delle compagne si fermò da­vanti al portacenere collocato di fronte alla macchinetta au­tomatica e si accese una sigaretta. Assaporava il fumo lenta­mente, osservando con aria cupa e preoccupata la parete ri­coperta di graffiti. Kuniko le lanciò uno sguardo carico di odio. Non aveva mai avuto quei vestiti neri. Possibile che Masako avesse mentito quando aveva detto che non aveva voluto un soldo da Yayoi? Possibile che tutte e due la avesse­ro ingannata? Ma era inutile pensarci, contro Masako non sarebbe mai riuscita a farcela. «Io vado». Con la cuffia in mano Kuniko si affrettò a uscire dallo spogliatoio. Approfittando del fatto che Masako continuava a fissare il muro, scivolò senza farsi vedere alle sue spalle e raggiunse il

corridoio. Adesso restava Yayoi. Non le avrebbe dato pace, finché non le avesse strappato la verità. Ma per quanto attendesse, Yayoi non si faceva vedere. Ri­mase a lungo ferma davanti all’orologio di controllo, gli oc­chi fissi sull’entrata, finché non le sembrò di avere qualcuno alle spalle. «Yama-chan non viene più». Era Masako, che nel frat­tempo aveva indossato gli abiti da lavoro. «Ah, sei tu. Sono contenta di vederti». «Risparmiati i complimenti». Masako la spinse di lato e infilò il cartellino nella macchina. «Cosa significa che Yama-chan non viene più, vuoi dire che non verrà mai più?» domandò Kuniko pensando che do­veva assolutamente fare qualcosa per vincere la sgradevole sensazione di incertezza che riusciva sempre a comunicarle Masako. «Proprio così». «Perché?» «Chissà, forse ne ha abbastanza di essere minacciata da te», rispose Masako prendendo in fretta un paio di logore scarpe da ginnastica dall’armadio. Erano diventate ormai marroni, sporche com’erano del grasso e della salsa di arrosto appiccicosa che ricoprivano il pavimento. «Che sfacciataggine, questa è una calunnia! Io volevo semplicemente…» Masako si girò e urlò: «E falla finita una buona volta!» I suoi occhi scintillavano come due lame di rasoio. Kuniko ri­mase impietrita dallo spavento. «Che cosa… con che cosa dovrei farla finita?» «Hai intascato cinquecentomila yen da Yama-chan, Ju­monji ti ha annullato il debito, che cosa vuoi ancora?» Kuniko rimase a bocca aperta. Quindi Masako sapeva già che aveva confidato tutto a Jumonji. «Come fai a saperlo?» «Me lo ha spifferato Jumonji. Tu sei veramente la perso­na più cretina, buona a nulla e disonesta che conosco!» Non era la prima volta che Masako la insultava in quel modo. Kuniko gonfiò le guance dalla rabbia: «Che razza di sfacciata!» «Se c’è uno che è sfacciato, qui, quella sei tu». Masako le diede una gomitata sulla spalla. Kuniko vacillò quando il go­mito aguzzo la colpì alla clavicola. «Ma cosa fai?!» «Andremo tutte all’inferno per colpa delle tue chiacchie­re! Sei un’idiota. Impiccati!» concluse Masako e si allontanò a passi veloci verso la scala che portava al laboratorio. Rima­sta sola, finalmente Kuniko si accorse di quello che aveva combinato e rabbrividì di paura. Ma, come al solito, non durò a lungo. Se non poteva ri­manere lì, pensò, avrebbe dovuto cercare un altro posto di la­voro. Peccato, proprio adesso che stava facendo amicizia con quel sorvegliante così carino! Ma non c’era niente da fare, ri­manere era troppo rischioso, e le conveniva allontanarsi il più presto possibile da Masako e le altre. Guardò il contenitore di legno appeso alla parete nei cui scomparti infilavano i cartellini timbrati. Lavorava lì da qua­si due anni. Si era abituata ai turni, ma adesso si sarebbe trovata un altro lavoro, più comodo, più facile, meglio retribui­to, dove non avrebbe avuto colleghe così odiose. Un posto pieno di uomini gentili e di bella presenza. Doveva pur es­serci, da qualche parte. Questa volta sarebbe andato bene persino un lavoro nell’ambiente della prostituzione, pensò Kuniko, che aveva ormai acquistato fiducia in sé. Quando la mattina dopo arrivò stanca a casa, Kuniko trovò ad attenderla una bellissima sorpresa. Parcheggiò la macchina davanti al condominio ed entrò nel miserabile atrio dove erano allineate le cassette per la po­sta. Al suono dei suoi passi un uomo si girò verso di lei e al­largò il viso in un

cordiale sorriso. «Ma questo sì che è un caso fortunato!» Dapprima Kuniko stentò a riconoscerlo. «Non si ricorda? Ci siamo incontrati questa notte al po­steggio». «Ma come ho fatto a non riconoscerla subito!» esclamò Kuniko civettuola. Era il sorvegliante del posteggio. Non indossava più l’u­niforme, ma una giacca a vento blu e pantaloni da lavoro gri­gi. Inoltre la sera prima, al buio, non aveva potuto vederlo bene in viso. L’uomo chiuse lo sportello, imbrattato di scritte e di eti­chette che dovevano essere state applicate dai bambini del precedente proprietario, di una cassetta postale di legno e si voltò verso Kuniko. Visto di fronte il suo viso non era nien­te male. Era abbronzato e aveva qualcosa di misterioso e di inquietante. Il cuore di Kuniko batteva forte. «Rincasa sempre a quest’ora?» domandò l’uomo guardan­do l’orologio, un modello digitale a buon mercato. Sembra­va che non avesse la benché minima idea dei pensieri che at­traversavano la mente di Kuniko. «Un lavoro faticoso il suo, non c’è che dire!» «Già, ma anche il suo, immagino». «Be’, ho appena incominciato, per cui non posso ancora dire niente». L’uomo guardò stanco verso la strada, chinò la testa e prese un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca a vento. Il sole sorgeva tardi, perché era già l’inizio di no­vembre, e il cielo si era appena arrossato. «D’inverno il buio dura a lungo, per voi donne può essere pericoloso». Kuniko non aveva il coraggio di dirgli che presto l’avreb­be fatta finita con i turni di notte: «Be’, ormai mi sono abi­tuata». «Non mi sono ancora presentato! Mi chiamo Sato». L’uo­mo abbassò la mano con cui teneva la sigaretta e si inchinò educatamente. Kuniko si affrettò a imitarlo. «Io sono Kuniko Jonouchi e abito al quarto piano». «Piacere di conoscerla. Saremo dei buoni vicini!» Sato ri­se, mostrando i denti bianchi e robusti, senza nascondere la sua soddisfazione. «Sono felice anch’io. Abita qui con la famiglia?» «Oh no», mormorò lui. «A dire il vero sono divorziato. Vivo da solo». Divorziato! Un bagliore si accese negli occhi di Kuniko, ma Sato sembrò non accorgersene e guardò di lato, come se si vergognasse di aver parlato della sua vita privata. «Capisco. Tuttavia mi fa piacere. Sa, anch’io vivo da sola». Sato sgranò incredulo gli occhi. Ma non c’era forse un guizzo di piacere nel suo sguardo? E di desiderio? Kuniko, estasiata, decise che quel giorno sarebbe andata a comprare gli stivali, l’abito e una collana d’oro. Poi diede di nascosto un’occhiata al numero della cassetta per la posta che Sato aveva appena chiuso: appartamento 412.

3. C’era qualcosa che non la convinceva. Riordinando il bagno Masako continuava a rimuginare su che cosa potesse essere, ma non riusciva a trovare una risposta. Pulì con la spugna lo sporco della vasca, poi la risciacquò con la doccia finché la schiuma sparì completamente. Era talmente immersa nei suoi pensieri che il manico della doc­cia le scivolò di mano e rimbalzò sul bordo della vasca prima di cadere rumorosamente sulle piastrelle. Il volto e il corpo di Masako vennero investiti da un getto di acqua fredda. Riuscì ad afferrare finalmente il tubo della doccia, che per la pressione dell’acqua si contorceva come un serpente. Le ma­ni e i piedi bagnati le trasmisero una sensazione di gelo fino alla schiena. Nel pomeriggio aveva incominciato a piovere e la tempe­ratura si era improvvisamente abbassata. Sembrava una di quelle giornate fredde tipiche della seconda parte di dicembre. Masako si asciugò il viso bagnato con le maniche della felpa e chiuse la finestra spalancata da cui entravano il fred­do e il rumore della pioggia. Diede un’occhiata ai vestiti fra­dici e rimase a riflettere immobile sulle piastrelle gelide. L’acqua della doccia colava in sottili rivoletti sulle pia­strelle asciutte in direzione dello scolo. Chissà se anche il san­gue e gli umori di Kenji e quelli del vecchio erano fluiti allo stesso modo nel canale di scolo che correva sotto la casa, per finire nel Pacifico? Chissà se i pezzi del corpo del vecchio che Jumonji aveva portato via erano già stati bruciati e le ceneri disperse nel Mar del Giappone? Mentre ascoltava il suono della pioggia che sembrava essersi un poco attenuata, si ri­cordò di nuovo il gorgoglio del canale sotterraneo nel giorno del tifone. Qualcosa era rimasto impigliato nella sua co­scienza e non voleva andarsene, come i rifiuti fermati dalle saracinesche del canale di scolo. Ma che cos’era? Masako ri­pensò alla notte precedente. Poiché si era fermata da Yayoi, Masako era arrivata allo stabilimento più tardi del solito. Avrebbe preferito evitarlo, ma era molto preoccupata per l’improvvisa scomparsa di Yoko Morisaki. Si chiedeva se si fosse avvicinata a Yayoi prevedendo il pagamento del premio dell’assicurazione o se avesse avuto un altro scopo. Forse avrebbe dovuto parlarne con Jumonji, a meno che anche lui non avesse le mani in pasta in quell’affare… Non poteva fidarsi di nessuno. Masako era preoccupata e confusa, come se si trovasse da sola in alto mare, in piena notte, al timone di una barca a vela. Nella guardiola del posteggio, che prima di allora non era mai stato raggiunto dall’illuminazione stradale, brillava una luce. Non si vedeva il sorvegliante, ma quella luce le parve un faro che illuminasse il mare tenebroso. Sollevata Masako fe­ce retromarcia e si infilò nello spazio a lei destinato. La Golf di Kuniko era già al suo posto. Dall’oscurità del sentiero emerse la sagoma di un sorve­gliante in uniforme. Arrivato alla guardiola spense la grossa torcia elettrica ma, quando si accorse dell’auto di Masako, la riaccese subito e illuminò la targa della Corolla. L’ammini­strazione della fabbrica aveva registrato i numeri di targa dei dipendenti che si recavano al lavoro in auto. Quindi, se l’uo­mo aveva anche l’incarico di impedire che qualcuno par­cheggiasse abusivamente, era giusto che controllasse. Tutta­via Masako ebbe l’impressione che indugiasse un po’ troppo a lungo sulla sua auto. Masako spense il motore, scese e aspettò che il sorve­gliante si avvicinasse. I suoi passi scricchiolavano sulla ghiaia. Era un uomo di mezza età, alto e vigoroso. «Buonasera. Sta andando allo stabilimento?» Aveva una voce bassa e carezzevole, piacevole da ascolta­re. Veniva da chiedersi come mai un uomo con una voce co­sì avesse scelto un lavoro così solitario. «Sì», rispose Masako, mentre lui sollevava la torcia per il­luminarle il viso. Anche questa volta

le sembrò che indugias­se troppo a lungo. Ed era anche molto fastidioso, perché non riusciva a vederlo in faccia. Abbagliata dalla luce, alzò il brac­cio per proteggersi gli occhi e allora lui si scusò. Masako chiuse a chiave la macchina e si incamminò. Il sorvegliante incominciò a seguirla a breve distanza e lei, in­quieta, si voltò verso di lui. «Voglio solo accompagnarla», disse l’uomo. «E perché mai?» «Sono gli ordini che ho ricevuto, per via delle voci sul maniaco». Risoluta Masako disse: «Non è necessario, vado da sola». «Ma se succede qualcosa sono io il responsabile». «È già tardi, devo affrettarmi». Nonostante il suo rifiuto, il sorvegliante non si decideva a lasciarla e continuava a seguirla illuminandole il sentiero con la torcia elettrica. Infastidita Masako si fermò e si girò verso di lui. I loro occhi si incontrarono nel buio. Si guarda­rono in faccia, e Masako ebbe l’impressione che per tutto il tempo avesse continuato a fissarle la schiena. Le sembrava un viso noto e per un attimo credette di averlo già incontrato da qualche parte. Anche il sorvegliante la scrutava. «Non ci siamo già…» stava per dirgli, ma si rese subito conto che l’uomo era un perfetto sconosciuto. «No, scusi, mi sbagliavo». Il sorvegliante aveva occhi piuttosto piccoli, e lo sguardo, sotto il berretto ben calcato sulla fronte, sembrava placido e tranquillo. La bocca invece era grande, con labbra tumide che gli conferivano un’espressione vorace. Un viso singolare, pensò Masako distogliendo lo sguardo. «Lì è così buio, la accompagno ancora per un pezzo». «No, vorrei andare da sola. Adesso mi lasci in pace, per favore!» «Va bene, ho capito». Il sorvegliante abbozzò un sorriset­to, come se si dovesse piegare controvoglia alla sua insisten­za. Per un attimo le sembrò che in quegli occhi, fino a un istante prima così tranquilli, apparisse un lampo di rabbia primitiva e selvaggia. Talvolta la gente si irritava per il suo modo di fare così diretto. E forse anche lui era uno di quel­li, pensò Masako. Quando dopo il turno, la mattina successiva, tornò al po­steggio, il sorvegliante non era più lì. Non era successo niente, a parte il fatto che all’improvvi­so continuavano a comparire troppi estranei nella sua vita, e questo la disturbava. Andò in camera per togliersi i vestiti bagnati ma il telefono squillò nel soggiorno. Andò a rispon­dere ancora in sottoveste: «Chi parla?» «Sono io, Yoshie». «Ah, maestra, cosa succede?» «Che cosa devo fare adesso, per amor del cielo…» Sem­brava che Yoshie stesse per scoppiare in singhiozzi. «Prima raccontami che cosa c’è». «Non puoi venire un attimo? È successa una cosa spaven­tosa». Non aveva ancora acceso il riscaldamento, ma non era so­lo per questo che le venne la pelle d’oca sulle braccia nude. Voleva sapere subito che cosa era successo, e allo stesso tem­po aveva paura che si trattasse di qualcosa di terribile. «Vuoi deciderti a dirmi subito che cosa ti è capitato?» «Al telefono non posso, e non posso neanche uscire di ca­sa», bisbigliò Yoshie che evidentemente non voleva farsi sen­tire dalla vecchia malata. «Ho capito. Arrivo subito». Masako si infilò i jeans e il golf nero nuovo. Aveva inco­minciato a rifarsi un guardaroba di suo gusto, come allora, quando era impiegata all’istituto di credito. Sapeva anche troppo bene perché: cercava di raccogliere quella parte di sé che, in un momento imprecisato, aveva buttato via. Ma, co­sì come non è possibile restaurare perfettamente una bam­bola rotta, anche se avesse trovato tutti i pezzi e

li avesse ri­messi insieme, non sarebbe mai riuscita a diventare di nuo­vo quella di una volta. Tirò fuori in fretta la macchina e dopo venti minuti par­cheggiò in una strada adiacente al vicolo di Yoshie. Aprì l’ombrello nero e corse verso la miserabile casa della maestra cercando di evitare le pozzanghere che si erano for­mate nell’asfalto pieno di buche della strada. Yoshie, sulle spine, l’aspettava davanti a casa. Sul vestito grigio si era infi­lata una maglia color senape tutta infeltrita. Aveva il viso ter­reo e sembrava invecchiata di almeno dieci anni. Come vide Masako prese l’ombrello appeso alla grondaia e le andò in­contro. «Possiamo rimanere un attimo qui fuori?» chiese con un sospiro. Il suo fiato si condensò nell’aria in una nuvoletta bianca. «Per quanto mi riguarda…» rispose Masako da sotto il suo ombrello nero. «Scusami se ti ho fatto venire qui». «Allora, cosa è successo?» «Sono spariti i soldi». Le lacrime le scorrevano sulle guan­ce. «Li avevo nascosti sotto il pavimento della cucina e ades­so non ci sono più». Costernata Masako chiese: «Tutto il milione e mezzo?» «No, non tutto. Un po’ ne ho spesi, e poi ti ho pagato il debito. Mi era rimasto un milione e quattrocentomila. E adesso non c’è più». «Hai idea di chi possa averteli rubati?» «Già», rispose Yoshie in un soffio e poi, riluttante, disse: «Probabilmente Kazue». «Tua figlia, la più grande?» «Sì. Ero andata a fare la spesa e quando sono tornata mio nipote era sparito. Mi sono detta che forse era andato a gio­care da qualche parte, ma non era possibile, non con questa pioggia. L’ho cercato dappertutto e mi sono accorta che an­che tutte le sue cose erano sparite. Allora ho messo sotto tor­chio mia suocera ed è venuto fuori che era arrivata Kazue e si era portata via il bambino. Mi sono precipitata in cucina. Il denaro non c’era più». Yoshie era inconsolabile. «Era già successo altre volte?» «Kazue ha sempre fatto queste cose», rispose vergognosa. «Se solo lo avessi portato in banca! Ma non volevo che quel­li del comune lo venissero a sapere». «Avevi raccontato a qualcuno del denaro?» «Uhm… non ne ho parlato nel vero senso della parola, ma ho lasciato capire a Miki che sarei entrata in possesso di una certa somma». «Per la storia dell’università?» «Sì. Era così felice quando le ho detto che sarebbe basta­ta per il college!» Yoshie scoppiò di nuovo a piangere. «Ru­bare il denaro che sarebbe servito per gli studi di sua sorel­la… È davvero una creatura meschina e senza cuore!» «E tu sei sicura che non sia stata Miki?» «No, non è assolutamente possibile. I soldi erano co­munque già destinati a lei, e inoltre Issey è sparito. Sicura­mente Kazue avrà telefonato e Miki se ne sarà vantata con lei, non riesco a immaginare altro. E pensare che ormai mi ero affezionata anche a Issey… e tuttavia…» «Dunque tu sei sicura al cento per cento che è stata Ka­zue. Non è possibile che sia entrato un estraneo e abbia ru­bato il denaro?» la interruppe Masako mentre l’altra, al ri­cordo del nipotino, ricominciava a lottare con le lacrime. Doveva essere assolutamente sicura, per cui non poteva la­sciar perdere, anche se non voleva ancora dirle perché. «Impossibile, è stata lei. Kazue sa di quel nascondiglio fin da quando era piccola». Allora non c’era niente di cui meravigliarsi, la faccenda era troppo stupida! Masako rimase senza parole e si mise a fissare il tessuto, diventato ormai opaco, del suo piumino fra­dicio di pioggia.

Dentro di sé era sollevata al pensiero che il nemico misterioso non avesse ancora incominciato ad agire. «Dimmi dunque, che cosa devo fare adesso? Che cosa posso fare?» continuava a ripetere Yoshie nel suo solito tono lamentoso. «E che cosa vuoi fare? Ormai non c’è rimedio». Tutto a un tratto Yoshie cambiò tono e si mise a suppli­care: «Ascolta, Masako-san…» «Che cosa?» «Non mi presteresti un po’ di denaro?» Masako la fissò. Yoshie, da sotto l’ombrello, la guardava con occhi imploranti. «Quanto?» «Un milione. No, basteranno settecentomila». «Così non va», disse Masako scuotendo la testa. «Ti prego! Rinuncio anche al trasloco!» Yoshie, stringen­do il manico dell’ombrello sotto il braccio, congiunse le ma­ni in atto di preghiera. «Non riusciresti mai a restituirmeli, maestra! E non si può prestare denaro a chi non lo può rendere». «Parli come una banca! In fondo hai ancora un marito, e anche un bel gruzzolo di cui non te ne fai niente». «Pretendi troppo da me». Il tono di Masako non ammet­teva repliche. Quelle parole la colpirono come uno schiaffo e Yoshie ammutolì. Impaurita guardò Masako negli occhi. «Non credevo che fossi così». «Sempre stata così». «Eppure mi avevi prestato i soldi per la gita scolastica di Miki». «Questo non c’entra. Ma è stato veramente troppo stupi­do, maestra, farti rubare i soldi dalla tua stessa figlia!» «Sì, hai ragione». Yoshie abbassò la testa. Masako tacque e mosse le dita intirizzite della mano con cui teneva l’om­brello. Un silenzio imbarazzante era sospeso tra loro. «Non te li presto, però te li regalo». Il volto di Yoshie si illuminò. «Che cosa? Cosa vuoi dire?» «Te lo regalo, maestra, ti regalo un milione». «Sì, ma così non va…» «Sì, te lo dico io. In fondo sei sempre stata diligente nel lavoro, e non mi hai mai piantato in asso. Te li porto al più presto». Masako stava pensando che un milione poteva an­che darglielo. «Grazie. Sei la mia salvezza, ti sono davvero riconoscen­te». Yoshie chinò profondamente la testa nella pioggia. «Ah, un’altra cosa…» «Che cosa?» «Credi che ci sarà un altro incarico come quello?» Masako scrutò il volto di Yoshie, che sotto il grande om­brello nero sembrava ancora più piccolo del solito. «Finora non mi hanno ancora detto niente». «Se dovesse succedere avvisami, mi raccomando. In ogni caso». «Hai voglia di rifarlo, vero?» domandò Masako con voce cupa. Ma Yoshie, che non sapeva nulla del nemico misterio­so, annuì vigorosamente. «Sì, voglio altri soldi. E questo lavoro è l’unico sistema per guadagnarli. Forse anch’io sono meschina e senza cuore come mia figlia». Con ciò Yoshie volse la schiena a Masako e sparì all’interno della sua sordida casa, dove tutto, a partire dal tetto e dai muri aveva bisogno di essere riparato. Dalla grondaia rotta l’acqua scorreva a fiotti, scavando il terreno. I jeans di Masako erano completamente infangati e lei trema­va dal freddo. Forse si sarebbe presa un raffreddore, e in ogni caso gli ultimi avvenimenti non smettevano di allarmarla.

4. La porta della veranda era spalancata. Cinque gradi. Era po­co prima dell’alba e il vento gelido entrava a folate, abbas­sando la temperatura della stanza fino a quella esterna. Satake tirò su fino al collo la lampo della giacca a vento blu e si sdraiò sul letto così com’era, senza neanche togliersi i pantaloni da lavoro grigi. Avrebbe voluto aprire tutte le fi­nestre in modo che il vento freddo potesse insinuarsi in tut­ti gli angoli dell’appartamento, tuttavia chiuse a chiave la porta che dava sul pianerottolo. Appartamento 412. Due stanze, cucina, bagno. Uno stretto, lungo bilocale, come in tutte le case popolari, con una finestra a sud e la porta d’entrata a nord. Aveva rimosso tutte le porte scorrevoli, come nel suo appartamento della zona ovest di Shinjuku, e non c’erano mobili. A parte il let­to, che aveva posizionato in modo da poter vedere il cielo so­pra Musashi. Si sarebbe potuta vedere la stella del mattino. Ma Satake, tremante di freddo, rimase sdraiato, strinse i denti e chiuse gli occhi. Non era per niente stanco, ma non voleva aprire gli occhi. Li teneva ben chiusi, per poter ricostruire più esatta­mente il volto di Masako e la sua voce, riunendo i frammenti delle sue impressioni per scomporli di nuovo e poi ricomin­ciare da capo. Rivedeva il suo viso, quando lo aveva illuminato con la torcia elettrica, laggiù nel posteggio. Lo sguardo vigile, le lab­bra sottili, di una che aveva rinunciato ai piaceri della vita, le guance tese. Satake sorrise quando ricordò l’ombra di in­quietudine apparsa su quel viso ascetico. «No, vorrei andare da sola. Adesso mi lasci in pace, per favore!» La voce bassa, penetrante, con cui si era rivolta a lui, con­tinuava a risuonargli nelle orecchie. La sua figura da dietro, quando di furia si era incamminata sul sentiero buio, non asfaltato. Mentre la seguiva a distanza di pochi passi, gli era sembrato di vedere il fantasma dell’altra donna. Quando poi si era girata, mostrandogli di nuovo il volto, e lui si era ac­corto delle piccole rughe verticali che l’ira delineava tra le sue sopracciglia, aveva provato una gioia tale da fargli accappo­nare la pelle. Perché Masako assomigliava molto alla donna che Satake aveva seviziato fino a farla morire. Il volto, la vo­ce, le piccole rughe tra le sopracciglia, tutto. Quella donna aveva dieci anni più di lui. Possibile che in realtà non fosse morta, ma che invece continuasse a vivere in quella piatta, polverosa cittadina? Sotto il nome di Masako Katori? Inoltre anche Masako sembrava avere fiutato qualco­sa, perché, quando lo aveva visto in faccia, aveva iniziato a dire: «Non ci siamo già…» Satake era convinto di aver colto l’istante in cui, grazie a lui, l’ascetismo di Masako si era in­crinato. «È il destino», mormorò tra sé. Ripensò a quel giorno d’estate di diciassette anni prima, quando aveva incontrato per la prima volta la donna in una strada di Shinjuku. Alcune prostitute che lavoravano per la banda di Satake erano state sottratte al loro controllo da un’abile procaccia­trice. A quanto si diceva anche lei proveniva dall’ambiente della prostituzione, ma a trent’anni aveva smesso di esercita­re ed era diventata una capace imprenditrice. La sua impu­denza aveva fatto infuriare il giovane Satake che si dedicò anima e corpo a escogitare una trappola per catturarla. Mandò in giro diverse ragazze che dovevano servire da esca, e finalmente la donna cadde nella rete. In una sera afosa – era nell’aria un temporale – si presentò puntuale all’appuntamento che una delle ragazze le aveva fissato in una sala da tè. Satake rimase in disparte a osservarla, cercando di con­trollare la propria eccitazione. Si era conciata in modo ordi­nario e appariscente. Il tessuto sintetico del miniabito blu senza maniche restava incollato al suo corpo troppo magro dando una sgradevole sensazione di calore, e i piedi nudi in­filati in un paio di sandali bianchi lasciavano vedere le un­ghie con lo smalto che si sfogliava. Aveva i capelli corti, ed era così secca che dallo scollo della manica spuntava il reggiseno nero. Solo gli occhi

rivelavano il suo carattere forte, in­flessibile. Con quegli occhi si accorse subito di Satake; non entrò nella sala, ma girò sui tacchi e fuggì. In tutti quegli anni non era riuscito a dimenticare l’e­spressione della donna nel momento in cui si era accorta di lui. Dopo un attimo di disappunto per essere stata scoperta, gli aveva lanciato uno sguardo di sfida, pieno di determina­zione: gli sarebbe sfuggita. Che sguardo! Come se si pren­desse beffe di lui, quando era già con le spalle al muro. Que­gli occhi avevano acceso qualcosa nell’animo di Satake. L’a­vrebbe inseguita, se necessario fino in capo al mondo. E quando l’avesse presa, l’avrebbe umiliata e tormentata fino a farla morire. In principio non aveva avuto la minima inten­zione di ucciderla, voleva solo metterla sotto torchio per dar­le una lezione, ma il suo sguardo doveva avere liberato in lui qualcosa di cui fino ad allora Satake stesso non aveva avuto coscienza. Non poteva essere altrimenti. Mentre inseguiva per la strada la donna che correva più forte che poteva, Satake si accorse con stupore che si stava ec­citando sempre di più. Se l’avesse rincorsa sul serio l’avrebbe presa subito. Ma non ci sarebbe stato gusto. L’avrebbe tenuta sulla corda ancora un po’, le avrebbe dato l’illusione di poter­sela cavare, e poi l’avrebbe presa. Quanto più si fosse arrab­biata, tanto più interessante sarebbe stata la faccenda. Corre­va nel tramonto afoso e senza un filo d’aria, spintonando i passanti a destra e sinistra, e sentiva il furore che montava nel suo animo. Aveva già nelle mani la sensazione dei capelli del­la donna, quando li avrebbe afferrati e tirati per bloccarla. In un ultimo atto disperato la donna attraversò di corsa il viale Yasukuni con il semaforo rosso e, giunta davanti ai grandi magazzini Isetan, scese la scala di un passaggio sotter­raneo. Aveva probabilmente intuito che se rimaneva a Ka­buki-cho avrebbe potuto cadere nelle braccia dei compagni di Satake in agguato. Ma Satake conosceva Shinjuku come le proprie tasche. Lasciò alla donna l’illusione di essere stata persa di vista, si tuffò nella stazione della metropolitana, attraversò velocissimo il passaggio che correva sotto la Shin­Oume-Highway e raggiunse il passaggio dalla parte opposta. Poi quando la donna, sicura di essergli sfuggita, uscì dalla toilette dove si era nascosta, la afferrò da dietro per un brac­cio. Dopo quella corsa forsennata nella città immersa nella canicola, le braccia della donna erano bagnate di sudore. Ri­cordava tutto perfettamente, perfino quella sensazione. La aveva colta di sorpresa e per un attimo rimase sbigottita, ma subito si riprese e divenne una furia: «Bastardo! Mi hai teso una trappola!» La voce della donna versò olio sull’ira bruciante di Sa­take. Quella voce bassa, roca, dura! «Non credere di cavartela!» «Provaci! Provaci se hai il coraggio!» «Adesso ti faccio vedere!» Satake puntò il pugnale sul fianco della donna che conti­nuava a imprecare, e lottò contro la voglia di farla fuori su­bito, lì sul posto. La punta della lama strappò la stoffa del ve­stito e a quel punto la donna, evidentemente rassegnata, am­mutolì e si lasciò condurre nel suo appartamento. Per tutta la strada neppure una volta chiese di essere risparmiata. Il suo braccio, che lui teneva ben stretto per evitare che se la desse a gambe, era talmente secco che si sentivano le ossa. Anche il viso era magro, le guance scavate, solo gli occhi bril­lavano di furore come quelli di un animale selvatico. Avreb­be potuto amare quella donna. Se pensava alla sua strenua re­sistenza, provava perfino piacere. Satake, che non aveva mai provato simili sentimenti nei confronti di una donna, non riusciva a riaversi dallo stupore. Fino ad allora per lui le don­ne non erano state altro che oggetti di piacere, per questo si era dedicato solo a quelle belle e sottomesse. Satake la trascinò nel suo appartamento e subito accese al massimo il condizionatore. La stanza sembrava una sauna. Tirò le tende e accese la luce. Ancor prima che l’aria si rin­frescasse si era messo a prendere a pugni il viso della donna fino a ridurlo a una poltiglia. Non aveva potuto farne a me­no, era da troppo tempo che lo desiderava. Invece di implo­rare pietà e chiedere scusa, la donna continuava a resistere, strepitava e smaniava, i suoi occhi lampeggiavano di furore. Satake, senza smettere di

massacrarla, continuava a doman­darsi se fosse possibile che l’odio accentuasse la bellezza. La legò al letto. Nel frattempo il viso della donna era diventato orribilmente gonfio e deforme. Poi la violentò ripetutamen­te, nella camera dove non si udiva altro che il ronzio dell’a­ria condizionata, dimenticando lo scorrere del tempo. Il sudore si mescolava al sangue e le cinture di pelle con cui la aveva legata le avevano tagliato i polsi e usciva altro sangue. Assaggiò il sangue che usciva a fiotti dalle labbra gonfie. Aveva un odore metallico. A un tratto si era tirato vi­cino il pugnale che aveva premuto sul fianco della donna nel passaggio sotterraneo. A un certo punto, mentre continuava a penetrarla, le lab­bra sulla sua bocca, la donna gridò. Di colpo l’odio sparì dai suoi occhi e lei lo accolse dentro di sé. In preda a una foga smaniosa, Satake avrebbe voluto penetrarla ancora, sempre più a fondo, e senza rendersene conto le affondò il pugnale nel fianco. Udì il suo urlo di dolore e sentì che proprio in quel momento lei aveva raggiunto l’orgasmo, e si perse in un’estasi di piacere. Era un inferno. Satake incominciò a pugnalarla ripetuta­mente da ogni parte, infilava le dita nelle ferite e tuttavia non riusciva a entrare abbastanza dentro di lei. Quando se ne re­se conto gli sembrò di impazzire. La sua carne doveva scio­gliersi in quella di lei, voleva diventare un’unica cosa con lei, immergersi in lei. Le sussurrava che era bella, bellissima, che la amava. Per Satake quel bagno di sangue era diventato il paradiso. Era l’inferno e il paradiso, ma solo loro due pote­vano capirlo. Chi mai avrebbe potuto arrogarsi il diritto di giudicarli? Dopo quell’esperienza Satake non fu più lo stesso. Di­venne un altro uomo, completamente nuovo. Il destino lo aveva legato a quella donna e mai avrebbe pensato di poter­la incontrare di nuovo, viva. Ma proprio questo era il suo de­stino: che niente andava mai come aveva previsto. Il fanta­sma che tormentava il suo lato oscuro, che continuava a iner­picarsi con le mani gelide sulla sua schiena, adesso lenta­mente scivolava via. Al suo posto era arrivata Masako Kato­ri, che lo attirava all’inferno e in paradiso. Poteva immaginarsi Masako intenta al lavoro nello stabi­limento, davanti al nastro trasportatore, mentre ancora bril­lavano le stelle. Lei che correva avanti e indietro sul freddo pavimento di cemento come se non fosse successo niente, con impressa sul volto quell’espressione di solitudine. Lei che se la rideva sotto i baffi perché era riuscita a farla franca con i tutori della legge. Anche la donna che aveva ucciso era un tipo eccezionale, capace di ridere in barba agli uomini. Ma non gliel’avrebbe permesso. Bastava che riuscisse a prenderla, e subito sarebbe stata costretta a pentirsi. Dopo un paio di colpi ben assestati la pelle sottile delle guance si sarebbe lacerata e il sangue sarebbe uscito a fiotti. Aveva an­cora davanti agli occhi quelli di Masako, due strette fessure abbagliate dalla luce della torcia. Satake affilava il suo desiderio, la sua brama di sangue come la lama di un coltello sul­la mola bagnata. Non era difficile immaginare che era stata Masako, per aiutare Yayoi, a coinvolgere le compagne per dissezionare il cadavere. Perché aveva capito che Yayoi non aveva né il fega­to né la testa per farlo. Da quando aveva visto Masako, il suo interesse per Yayoi era immediatamente svanito. Al massimo avrebbe potuto sottrarle il premio dell’assicurazione, di più non valeva. In fondo era la moglie giusta per quella nullità di uomo, e non gliene poteva importare di meno di come e perché aveva ucciso il marito dopo una lite, e se avesse dei ri­morsi. In fondo Satake aveva provato solo disprezzo per Ya­mamoto, e così era anche per Yayoi. E il disprezzo era il sentimento più efficace per fiaccare ogni sua capacità di azione. Ora che aveva visto Masako, non gli importava più nulla del perché aveva iniziato quella spedizione, di che cosa vole­va vendicarsi. Satake allungò le braccia e toccò la testiera di ferro del let­to. Al contatto dell’aria gelida che entrava dalla finestra il metallo era diventato così freddo che, quando lo afferrò, gli sembrò che le mani

gli fossero diventate insensibili. Avrebbe spogliato nuda Masako e l’avrebbe legata al letto. L’avrebbe imbavagliata e umiliata e torturata finché ne avesse avuto vo­glia davanti alla finestra spalancata. Di sicuro le sarebbe ve­nuta la pelle d’oca. Sarebbe riuscito a raderle con il coltello quei piccolissimi rigonfiamenti, simili a grani di miglio? Se si fosse ribellata, avrebbe dovuto conficcarle il pugnale nel ventre? Per quanto avesse pianto atterrita chiedendo pietà, per quanto si fosse contorta nel dolore, non l’avrebbe rispar­miata. Perché era una donna capace di sopportare una cosa del genere. Chissà se, come la donna che aveva ucciso, alla fine gli avrebbe sussurrato all’orecchio: «Chiama il medico, corri, presto…» Sottomessa e intransigente a un tempo. E lui con l’animo dilaniato fra il desiderio di non lasciarla morire e quello di assaporare, tramite lei, la morte. Mai l’aveva amata così intensamente come in quei momenti. La gioia e la tri­stezza che aveva provato quand’era morta erano state espe­rienze di una tale intensità che tutto ciò che aveva provato prima o dopo di allora non contava niente. Un brivido lo at­traversò quando si ricordò del tono della sua voce. Per la pri­ma volta, da quando tanti anni prima era uscito dal carcere, ebbe un’erezione. Satake aprì la cerniera dei pantaloni e in­cominciò a masturbarsi, il respiro che si condensava in bian­co vapore. Venne l’alba e il cielo si rischiarò. I contorni violacei delle montagne incominciavano a de­linearsi luminosi. Satake si alzò e, socchiudendo gli occhi, guardò il sole che sorgeva lasciandosi dietro una scia di nuvole rosse. Chiara e maestosa, l’ombra del monte Fuji tro­neggiava sulla catena montuosa. Era l’ora in cui Masako avrebbe imboccato la via di casa, gli occhi gonfi di sonno. Sa­peva tutto di lei, conosceva la sua espressione cupa, il modo in cui fumava la sigaretta, il suono dei suoi passi decisi e pe­santi sul terreno del posteggio. Masako gli sembrava così vi­cina che poteva toccarla. Sapeva perfino come avrebbe reagi­to quando l’avrebbe messa alle strette. Gli avrebbe lanciato uno sguardo di sfida, gli occhi pieni di rabbia e ostilità. Pro­prio come quella donna. Dormi ora, dormi. Presto ti ucciderò. Fino ad allora dor­mi, dormi tranquilla e beata, augurò Satake in direzione del­la casa di Masako, e il suo augurio era accompagnato da un sentimento via via più intenso che poteva senz’altro chia­marsi tenerezza. Man mano che si alzava nel cielo, il sole del mattino di­ventava sempre più forte. Satake chiuse la porta della veran­da e tirò le pesanti tende nere per evitare entrasse che la lu­ce. Subito in camera fu di nuovo notte fonda.

5. La voce rotta del megafono di un venditore ambulante che vantava la propria merce svegliò Satake. Guardò l’orologio da polso che non si era ancora tolto. Erano le tre del pome­riggio. Fumò una sigaretta rimanendo coricato a contempla­re i pannelli del soffitto su cui si allargava una macchia mar­rone, visibile anche alla scarsa luce che filtrava dalle tende. Satake accese la lampada sul comodino e guardò la monta­gna di documenti sul pavimento. Sul tappeto macchiato, la­sciato dall’inquilino precedente, erano ordinatamente accu­mulati, raccolti in cartelline bianche, i rapporti che gli aveva consegnato l’agenzia investigativa. Yayoi, Yoshie, Kuniko e Masako. A questi si era aggiunto quello riguardante Jumonji, per le sue relazioni con Kuniko e Masako. Per quelle ricerche aveva già dilapidato quasi dieci milioni di yen. Satake si accese la seconda sigaretta e si mise a sfogliare i rapporti che aveva letto e riletto, al punto che li conosceva quasi a memoria. Per primo quello di Yoko Morisaki, la don­na che si era intrufolata in casa di Yayoi. Informazioni fornite dal primogenito degli Yamamoto (5 anni)

Quella notte (la notte della scomparsa di Kenji) dice di aver udito il rumore dei passi del padre che rientrava. Gli era sem­brato anche che la madre fosse andata ad accoglierlo sulla soglia e che avessero parlato. Ma il mattino seguente la madre gli aveva detto che doveva aver sognato, così non era più sicuro di aver sentito bene. Tuttavia la sera prima i genitori avevano litigato, e la madre era stata picchiata dal padre. Di questo era assoluta­mente sicuro, perché si era spaventato e per l’angoscia non era più riuscito a dormire. Inoltre, quando aveva fatto il bagno in­sieme alla madre, aveva visto che aveva un livido sul ventre.

Informazioni fornite dal figlio minore (3 anni)

I suoi genitori litigavano costantemente. Non sapeva per quali motivi, perché in genere dormiva, ma spesso, quando il padre tornava a casa, li sentiva urlare. Allora si tirava la coper­ta sulla testa e fingeva di dormire. Per quanto riguardava quel­la sera (la notte della scomparsa di Kenji) non ricordava nulla. Però Milky, il gattino che amava tanto, era sparito. E per quan­to lo avesse chiamato, non era più tornato a casa. Non sapeva perché.

Informazioni fornite da una vicina (46 anni)

Quando aveva saputo che la signora Yamamoto faceva i tur­ni di notte, aveva subito sospettato che ci fosse di mezzo un amante, perché quella era proprio una bella donna. E infatti li aveva spesso sentiti litigare selvaggiamente e a voce alta, di not­te o al mattino presto. Negli ultimi tempi molte vicine si do­mandavano cosa fosse successo, perché la signora Yamamoto era diventata ancora più bella di prima.

Informazioni fornite da una vicina (37 anni)

Aveva udito una strana storia. Il gatto scappato di casa si av­vicinava ai bambini, ma fuggiva quando vedeva la madre. Bastava che la scorgesse da lontano e subito se la dava a gambe. Da quella notte non era più tornato a casa, per cui tutti sospettavano che il gatto avesse visto qualcosa di brutto. Uno poteva anche sentirsi male se pensava che la Yamamoto avesse ucciso e fatto a pezzi il marito in casa sua e poi avesse eliminato sangue e inte­riora attraverso lo scarico dell’acqua.

Yayoi Yamamoto non riscuote molte simpatie nel quartiere. Dopo la morte del marito è completamente cambiata. La gente ha dei sospetti non solo perché non sembra molto addolorata, ma soprattutto perché è diventata più bella e trabocca di soddisfa­zione per la libertà riconquistata. Frequentando la sua casa e os­servandola da vicino, anche io mi sono accorta che sembra con­tenta della morte del marito. Ero presente quando la polizia le ha telefonato per dirle che il proprietario della casa da gioco era sparito e, secondo la mia opinione, la Yamamoto ha accolto la notizia con gioia. Proba­bilmente pensava che, dal momento che la polizia indagava su quell’uomo, evidentemente aveva dei sospetti su di lui, e lei po­teva stare tranquilla, come se quel caso non la riguardasse più. Le ho chiesto dell’ematoma sul ventre, di cui mi aveva par­lato il figlio maggiore. Lei si è limitata a dire che una volta il marito l’aveva picchiata, senza tuttavia specificare né il giorno né il motivo. Avrebbe preferito lasciare il lavoro allo stabilimento, proba­bilmente perché presto non avrebbe più avuto preoccupazioni economiche. Attendeva infatti a breve termine il pagamento della polizza d’assicurazione del marito. Eppure quando le te­lefonavano le compagne, soprattutto Masako Katori, assumeva un atteggiamento umile e remissivo. E, chissà perché, sembrava avere paura di incontrarle. Le voci di suoi rapporti con un altro uomo non corrispondo­no ai fatti. Il premio dell’assicurazione le verrà pagato a fine novembre. Cinquanta milioni di yen che verranno versati sul conto cor­rente di Yayoi Yamamoto. Rapporto su Masako Katori

Informazioni fornite da una vicina (68 anni)

I suoi rapporti con il marito, che lavora per un’impresa di co­struzioni, sembrano normali. Però non li ha mai visti uscire in­sieme. Corre voce che il figlio (17 anni) non le parli più. Prima il ragazzo creava problemi perché teneva alto il volume dello ste­reo, ma negli ultimi tempi si comporta meglio. Però è un ragaz­zo cupo, che non saluta i vicini che incontra per strada. Masako non è più simpatica del figlio, ma almeno saluta correttamente. Però dà l’impressione di essere una donna strana, che non si cu­ra molto del proprio aspetto.

Informazioni fornite da una studentessa (18 anni) che abita nella casa di fronte e si sta preparando agli esami per entrare all’università

L’ha notata perché esce sempre a tarda sera e torna all’alba. Quando sta seduta alla scrivania, da cui può vedere la casa dei Katori, guarda spesso l’orologio. Il giorno seguente alla scompar­sa di Kenji la signora Katori aveva ricevuto al mattino la visita di due donne. Una era arrivata in bicicletta, e l’altra con un’au­tomobile verde. Se ne erano andate circa a mezzogiorno.

Informazioni fornite dal proprietario (75 anni) di un terreno del vicinato

La mattina di quel giorno (il giorno in cui era scomparso Kenji) una donna abbastanza giovane, uscita dalla casa della signora Katori, aveva tentato di abbandonare un sacco di spaz­zatura lì intorno, ma lui glielo aveva impedito. Doveva essere pesante, probabilmente conteneva spazzatura organica, forse più di dieci chili. L’aveva rimproverata e lei aveva obbedito su­bito e si era allontanata. Invece la signora Katori eliminava la spazzatura rispettando le regole.

Informazioni fornite dal caposquadra (31 anni) dello stabili­mento

La signora Katori lavora sotto la sua supervisione da due an­ni. Si comporta in modo ineccepibile, e anche sulla sua produt­tività non c’è niente da dire. Esegue i suoi compiti coscienziosa­mente. Ha saputo che aveva lavorato nel ramo finanziario, per cui crede che presto le proporranno un posto come impiegata. Ha capacità di comando, ed è sprecata al nastro trasportatore. È in buoni rapporti con Yoshie Azuma, un’esperta operaia, con Yayoi Yamamoto e con Kuniko Jonouchi. Tutte e quattro lavoravano sempre insieme ma, dopo l’incidente occorso al marito della Ya­mamoto, il gruppo si è sciolto e adesso si presentano regolarmen­te al lavoro soltanto Katori e Azuma.

Informazioni fornite da una ex collega (35 anni) dell’istituto di credito Tanashi

La signora Katori era abile nel suo lavoro, ma aveva un ca­rattere ribelle, pareva che non godesse né della fiducia dei supe­riori, né della stima dei sottoposti. Non sa che cosa abbia fatto dopo essersi licenziata.

La reputazione di Masako Katori tra i vicini di casa e le col­leghe di lavoro è discreta. Molti tuttavia hanno sottolineato che non si capisce mai che cosa le passa veramente per la testa. Per quanto riguarda una sua relazione con un altro uomo, non si hanno indizi; a quanto pare la sua vita scorre su binari tran­quilli. Anche i suoi rapporti con i vicini sono estremamente li­mitati, e non è iscritta ad alcuna cooperativa di consumatori. Neanche il marito sembra avere relazioni extraconiugali. Tuttavia si dice di lui che nel lavoro manchi sia di spirito di cor­po sia di capacità manageriali. Forse sono questi i motivi per cui non ha alcuna possibilità di fare carriera al Gruppo immobi­liare M, l’azienda edile in cui lavora. Il figlio ha abbandonato il liceo già al primo anno. Lavora come apprendista muratore. Si dice

che a casa si chiuda in un mutismo assoluto. Una mattina, dopo l’incidente, i vicini hanno visto arriva­re a casa Katori Yoshie Azuma e Akira Jumonji, proprietario dell’agenzia finanziaria Milione. Jumonji guidava una Nissan Maxima blu e aveva trasportato in casa un grosso pacco, poi, tre ore dopo, era tornato con otto scatole. Nulla si sapeva del conte­nuto dei pacchi e della loro destinazione. All’identità di Jumonji si è risaliti grazie al numero di targa della Maxima. Rapporto su Akira Jumonji (Akira Yamada)

Informazioni fornite da un ex impiegato (25 anni) dell’agenzia finanziaria Milione

Il capo si vantava di essere appartenuto in passato a una banda di motociclisti del distretto di Adachi. Continuava a ri­petere che il suo capo di allora adesso è diventato un boss degli yakuza. Avevamo tutti paura, perché al minimo problema ac­cennava sempre all’appartenenza a quella banda. Perciò ho de­ciso di licenziarmi. Pazienza lavorare per un usuraio di quar­tiere, ma non voglio stare con qualcuno che ha alle spalle gli yakuza, no grazie.

Informazioni fornite dall’impiegato (26 anni) di una sala gio­chi vicina all’agenzia

È un tipo che ha il complesso delle lolite, perciò viene sempre qui a caccia di liceali. Gli ho domandato scherzosamente se non gli pareva di esagerare venendo a caccia in una sala giochi. Però, con quella faccia aveva successo, camminava spavaldamente tutto fiero della ragazzina di turno che lo accompagnava. Parla di soldi, ma per me è uno squattrinato. È un tipo che tiene molto al­le apparenze, lo si capisce perché ha persino cambiato nome.

Informazioni fornite dalla cameriera (circa 30 anni) di uno snack bar vicino a casa sua

Di recente è venuto nel locale e ha incominciato a darsi un sacco di arie. Diceva che aveva in vista un grosso guadagno e vo­leva festeggiare. Sosteneva di avere in mano un lavoro molto im­portante, ma siccome mi hanno detto che è un usuraio credo so­lo a metà di quello che racconta. È un buon cliente, ma ha l’a­ria del piccolo furfante un po’ vigliacco.

Da quei voluminosi rapporti si intuiva il superbo lavoro svolto da Masako e dalle sue compagne. Pareva che negli ul­timi tempi avessero iniziato un lavoro di smaltimento di cadaveri, in combutta con quel giovane delinquente di nome Jumonji. Veramente in gamba, pensò Satake e schiuse le lab­bra in un sorriso di scherno. Stanco di leggere gettò gli incartamenti in un angolo. Dalla finestra arrivava ancora la voce dell’ambulante ampli­ficata dal megafono. Satake scostò la tenda appena un po’. Gli ultimi raggi del pallido sole di inizio inverno penetraro­no nella camera e si misero a giocare con la polvere sospesa. Quindi non era ancora tramontato. Satake osservò impa­ziente la danza della polvere nell’aria. C’era

ancora abbastan­za tempo prima delle sette, l’ora in cui sarebbe andato a la­vorare. Suonarono alla porta. Si alzò in fretta, afferrò le cartelle, le infilò in una busta di carta e la gettò sotto il letto. Andò al citofono e, insieme al sibilo tempestoso del ven­to autunnale, lo raggiunse la voce affettata di Kuniko. «Signor Sato? Sono Jonouchi, la signora del quarto pia­no…» Aveva già abboccato! Satake allargò le labbra in un sorri­so da un’orecchia all’altra, si raschiò la voce e disse: «Può ave­re un attimo di pazienza? Apro subito». Aprì completamente le tende e spalancò la porta della ve­randa per cambiare aria. Risistemò il letto e si accertò che la busta con i rapporti delle indagini fosse ben nascosta. «Scusi se l’ho fatta aspettare». Come aprì la porta, l’ap­partamento venne invaso dal vento del nord che soffiava im­petuoso. Sul lato settentrionale della casa popolare imperver­sava sempre un vento gelido. Per un attimo le sue narici fu­rono aggredite dal profumo di Kuniko. Satake lo riconobbe: era “Coco” di Chanel. Una volta Anna lo aveva avuto in re­galo da un cliente, ma lui le aveva raccomandato di non usar­lo perché era troppo forte. Un profumo troppo intenso avrebbe potuto causare guai inutili ai clienti, perché sarebbe rimasto attaccato addosso e se lo sarebbero portato a casa. «Scusi se mi presento così, all’improvviso…» Il vento scompigliò i capelli di Kuniko che, con un gridolino, cercò di trattenere la gonna. «Ma si figuri. Entri, la prego», la invitò cordialmente Sa­take. «Grazie», rispose Kuniko tutta contenta, e di colpo il pic­colo ingresso fu riempito dalla sua mole. Sembrava pronta per uscire: si era messa un tailleur nero, stivali nuovi di zec­ca e una vistosa collana d’oro. Satake, com’era sua abitudine, ne stimò immediatamente il valore. Tutti gli articoli che Ku­niko indossava erano imitazioni di marche famose, roba da poco prezzo. Kuniko lo guardava, in attesa che la facesse accomodare, spiando curiosa all’interno: «Vedo che si è già sistemato!» «Sa, la mia ex moglie si è portata via tutti i mobili, quan­do se ne è andata. Mi vergogno un po’, ma questo è tutto ciò che mi è rimasto». Satake indicò il letto accanto alla finestra. Kuniko gli diede uno sguardo e abbassò in fretta gli occhi. Un gesto che in lei sembrava impudico. Se solo avesse potu­to immaginare che cosa aveva in mente di fare Satake su quel letto, sarebbe sicuramente scappata a gambe levate. «L’ho svegliata? Ma ieri sera non era al parcheggio». «No, ieri era il mio giorno di riposo». «Ah, sì? A dire il vero sono venuta a congedarmi da lei, si­gnor Sato». «Cosa? Che cosa vuole dire?» domandò trasalendo Sa­take. Che avesse intenzione di squagliarsela proprio adesso che la aveva pescata? «Be’, sì, mi sono licenziata». «Mi dispiace davvero», commentò Satake con un tono che lasciava intuire la delusione. Ma a quel punto Kuniko, quasi sopraffatta dalla gioia, precisò: «Ma non cambierò casa, spero che vorrà continuare a frequentarmi, voglio dire come vicina». «Questo sì che mi fa piacere!» Satake colse l’occasione al volo e le indicò la camera: «È ancora piuttosto squallido, qui da me, ma non vuole entrare un momento?» Come se non avesse aspettato altro, Kuniko aprì impa­ziente le cerniere degli stivaletti che le stringevano i polpacci. «Sieda sul letto, per favore». Senza una parola Kuniko si diresse decisa verso il letto. Guardandole la schiena, Satake rifletteva su che cosa fosse meglio fare. Tutto era accaduto molto più in fretta di quan­to non si fosse aspettato. Ma non doveva lasciarsi scappare questa occasione insperata. Si era risparmiato la fatica di tra­scinarla lì, e dal momento che si era licenziata, nessuno si sa­rebbe insospettito se l’indomani non si

fosse presentata al la­voro. «Non ho neanche un tavolo, mi vergogno». «Io invece l’invidio, a casa mia c’è troppa roba». Kuniko, seduta sul letto, si mise a ispezionare con occhio indagatore la camera, stranamente disadorna e priva di mobili. «Sembra un ufficio. Dove mette i vestiti e il resto?» «Be’, in realtà possiedo solo quello che ho addosso». Sa­take mostrò i pantaloni da lavoro e la giacca a vento che in­dossava dalla notte precedente. Erano tutti spiegazzati, per­ché non se li era tolti neanche per dormire. Kuniko lanciò uno sguardo rapito al corpo dell’uomo. «Gli uomini possono anche permetterselo, beati voi». Kuniko frugò nella borsetta stile Chanel, con la catenella do­rata, e tirò fuori le sigarette. Satake appoggiò sul letto, vici­no a lei, un portacenere accuratamente lavato. «Proprio qui dietro c’è una bella trattoria. Andiamo a be­re qualcosa?» propose esitante Kuniko, accendendosi la siga­retta. «A essere sincero, non sopporto l’alcol», replicò Satake. Kuniko sembrava delusa, ma si riprese subito: «Ma po­tremmo anche solo andare a mangiare qualcosa, no?» «Va bene, sono pronto in un attimo. Aspetti qui per fa­vore». Satake andò in bagno, si lavò i denti e il viso. Allo spec­chio constatò che i capelli, che di solito portava molto corti, erano cresciuti, e così pure la barba. Indugiò a guardarsi: dal suo viso era sparita ogni traccia della vita brillante di Kabuki­cho, e ora quello che vedeva era il volto di un uomo di mez­za età che faceva il sorvegliante in un parcheggio. Ma la crea­tura nascosta nella palude del suo sguardo incominciava fi­nalmente ad agitarsi. Si asciugò la faccia, aprì la porta del ba­gno e propose a Kuniko, che evidentemente si stava an­noiando nella stanza vuota: «Signora Jonouchi, che ne di­rebbe se ci facessimo portare qui qualcosa di buono?» «Per esempio?» «Un sushi». «Perfetto!» Kuniko era raggiante. Ma Satake naturalmen­te non aveva alcuna intenzione di ordinare i sushi, perché nessuno doveva sapere che Kuniko era stata nell’appartamento 412. «Posso offrirle un caffè?» chiese Satake. Riempì d’acqua il bollitore, lo mise sul fornello e girò la manopola del gas. In realtà in quella casa non c’era assolutamente nulla, neanche il caffè. Aprì l’armadietto vuoto e rimase lì davanti come se stesse pensando. Poi sentì una presenza alle spalle e si girò: Kuniko era proprio dietro di lui. Era chiaro che si era accor­ta dell’armadio vuoto. «Ma non c’è niente lì dentro!» rise. «E con ciò?» Alla vista dell’espressione minacciosa di Satake, Kuniko rimase impietrita a guardare dentro, come davanti a un ser­pente incontrato su un sentiero di montagna. «Volevo solo darle una mano…» balbettò e indietreggiò verso il letto. Poi si voltò di scatto cercando una via di fuga. Satake approfittò dell’occasione: veloce come un lampo le mise il braccio sinistro intorno al collo e la mano destra sul­la bocca, spingendola a terra. La mano, a contatto con il ros­setto appiccicoso della donna, si era sporcata, ma Satake non ci fece caso e sollevò energicamente quel corpo pesante. Ku­niko si dibatteva agitando le gambe, ma presto, schiacciata dal suo stesso peso, perse conoscenza. Satake la lasciò cadere sul pavimento e chiuse senza fretta il gas di cui non aveva più bisogno. Poi, facendolo rotolare di qua e di là come un tronco, spogliò con mani esperte il corpo inerte della donna. Quan­do fu completamente nuda la distese supina sul letto e, co­me aveva immaginato quel mattino, le legò mani e piedi ai montanti. L’intera operazione doveva essere una prova gene­rale di quello che voleva fare con Masako. Tuttavia Kuniko gli faceva venire in mente solo un grande, sporco animale, e il suo desiderio, la sete di sangue che aveva così accurata­mente coltivato, sparì di

colpo. Improvvisamente tutto gli dava fastidio: raggomitolò uno degli indumenti intimi che le aveva sfilato e glielo ficcò con forza nella bocca aperta. A un certo punto Kuniko tornò in sé. Si guardò intorno con gli occhi spalancati, cercando di capire che cosa era suc­cesso. «Nemmeno una parola, capito?» la minacciò a voce bas­sa. Kuniko annuì disperatamente. Satake le strappò dalla bocca la biancheria bagnata di saliva. «Per favore, mi liberi. Farò tutto quello che vuole, ma mi liberi per favore!» supplicò con voce flebile. Satake non le badò, ma incominciò a stenderle sotto alle natiche uno spes­so strato di sacchi di plastica per la spazzatura, i più grandi che aveva trovato. Voleva evitare che sporcasse il letto di uri­na o feci, in fondo gli sarebbe ancora servito per dormire. «Che cosa fa?» Kuniko si contorceva spasmodicamente nell’inutile tentativo di liberarsi. «Niente. Sta’ zitta!» «Abbia pietà. La supplico». I piccoli occhi di Kuniko si riempirono di lacrime. «È stata Yayoi a uccidere suo marito?» chiese Satake. Kuniko annuì: «Sì, è vero, è stata lei». «E poi voi tre, Masako, tu e quella vecchiaccia, Yoshie o come si chiama, avete fatto a pezzi il cadavere, giusto?» «Sì». «E Masako era il capo, no?» «Ovvio». «E quanto vi ha pagato Yayoi?» «Cinquecentomila ognuna». A Satake venne da ridere. Non si era trattato altro che del ridicolo delitto di quattro casalinghe taccagne. E per una cre­tinata simile il suo passato era venuto alla luce e lui aveva perso tutto quello che aveva così faticosamente costruito! «E Masako? Anche lei ha avuto cinquecentomila yen?» «No, non ha voluto». «Perché no?» «Perché lei si crede la migliore», sparò fuori Kuniko. Ri­sposta appropriata. Satake fece un sorriso truce. Perché lei si crede la migliore! «Come si sono conosciuti Masako e Jumonji?» Kuniko esitò un attimo. Non riusciva a credere che quell’uomo sapesse tutto. «Probabilmente si conoscevano già da prima». «Ed era per questo che eri andata da lui a chiedere un pre­stito?» «No, quello è stato un caso». «La storia sembra troppo bella per essere vera!» Kuniko ri­cominciò a piangere. Satake, credendo che piangesse di ri­morso, la disprezzò. «Piangere non serve più a niente, troppo tardi». «La supplico, mi lasci andare». «Aspetta. Come mai Jumonji è venuto a conoscenza dell’accaduto?» «Gliel’ho confessato io». «Non ne hai parlato con nessun altro?» «No». «Lo sai che loro continuano a farlo?» Satake si sfilò dai pantaloni la larga cintura di pelle. Kuniko, che seguiva ter­rorizzata i suoi movimenti, scosse disperatamente la testa. Per la paura aveva il viso bianco come il gesso. «E allora, lo sapevi o no?» l’incalzò Satake e lei gridò: «No, di questo non ne so niente!» «È naturale che tu non ne sappia niente, perché non ci si può fidare di te! E perché non servi

assolutamente a niente!» Satake le mise la cintura intorno al collo. Lei avrebbe vo­luto urlare, ma dalla gola le uscì solo una specie di gracidio. Gli serviva un bavaglio, pensò. Tirò su da terra un capo di biancheria e glielo ficcò in bocca. Quando Kuniko, che non riusciva più a respirare, roteò gli occhi, Satake incrociò le estremità della cintura e tirò con forza. Il secondo omicidio della sua vita era stato davvero insulso. Liberò il cadavere dai lacci, lo spinse giù dal letto sul pa­vimento, lo avvolse in una coperta e lo fece rotolare sul bal­cone. Lo sistemò con attenzione in un angolo cieco, in mo­do che nessuno dei vicini potesse scorgerlo. Alzò gli occhi e si accorse che il sole stava tramontando dietro alla catena montuosa che aveva contemplato all’alba. Lentamente le montagne si fondevano con l’oscurità. Satake chiuse la porta del balcone ed esaminò il contenu­to della borsa di Kuniko. Tirò fuori un paio di biglietti da diecimila che trovò nel portamonete, prese le chiavi dell’ap­partamento e quelle della Golf e infilò in un sacco vestito, biancheria, scarpe e tutto il resto. Si mise in tasca le chiavi di casa e il portafoglio e uscì sul pianerottolo col sacchetto in mano. Nel frattempo fuori era diventato buio pesto e soffiava un vento ancora più freddo di quello che aveva imperversato nel pomeriggio. Salì di un piano la scala di sicurezza fissata sulla facciata dell’edificio e diede uno sguardo al corridoio del quarto piano. Per fortuna era deserto. Evitò il triciclo e i va­si che vi erano stati abbandonati, si affrettò verso l’appartamento di Kuniko e aprì la porta. Nella stanza erano sparsi, in un selvaggio disordine, sac­chetti, fogli e imballaggi vari che dovevano aver contenuto il vestito e gli altri accessori che evidentemente Kuniko aveva comprato da poco. Distribuì qua e là il vestito, la biancheria e la borsa e lasciò l’appartamento. Si guardò intorno per as­sicurarsi che non ci fosse anima viva, poi chiuse a chiave e con aria indifferente si diresse verso l’ascensore. Gettò la chiave dell’appartamento di Kuniko in uno dei bidoni della spazzatura a pianterreno. Quindi cercò la bici­cletta e si lasciò alle spalle la casa popolare. Era di nuovo il sorvegliante del posteggio dello stabilimento delle colazioni.

6. Jumonji era al settimo cielo. La studentessa seduta al suo fian­co, che indossava l’uniforme di un famoso liceo, era di una bellezza strepitosa. I capelli castano chiaro le ricadevano ai lati delle guance bianco neve dalla pelle fine e delicata e le labbra rosate erano sempre leggermente dischiuse. Le sottili soprac­ciglia formavano un elegante arco sopra i grandi occhi e le gambe, che spuntavano dalla corta minigonna, erano lunghe e slanciate. In breve, sembrava proprio una fotomodella. Ju­monji, frenando a stento la voglia di saltarle addosso, le sus­surrò con voce carezzevole: «E adesso, cosa vorresti fare?» «Per me è lo stesso. Tutto quello che vuoi». La voce era rauca e seducente, il suo corpo esalava un profumo che Ju­monji non conosceva e tutto ciò che indossava era firmato. Da dove veniva quell’adorabile creatura? Chi era l’uomo che aveva tirato su una simile delizia? Jumonji contemplava rapi­to la liceale, circondata da un’aura di stile e buona educazio­ne, così incantevole da parergli un miracolo. Completamen­te diversa dalle solite studentesse delle superiori, con i capel­li che odoravano di balsamo da supermercato, che bighello­navano nelle squallide trattorie alla periferia occidentale di Tokyo. Grazie al cielo aveva abbastanza soldi per rintanarsi in un albergo con una donna di classe come quella. Non avrebbe rimpianto i centomila che le aveva promesso. «Allora andiamo in albergo?» «Va bene». «Davvero? Vale a dire che sei d’accordo?» La studentessa annuì con aria pudica. Jumonji, smanioso di muoversi di lì prima che la ragazza cambiasse idea, si mi­se a passare velocemente in rassegna i possibili hotel. In quel momento suonò il cellulare che portava infilato nella tasca posteriore dei pantaloni. «Solo un attimo», si scusò. Negli ultimi tempi si dedica­va quasi esclusivamente al proprio piacere e aveva quindi preso l’abitudine di affidare il lavoro dell’agenzia all’impie­gata più anziana. Forse aveva bisogno di consultarlo, per cui rispose con voce seccata: «Sono Jumonji, cosa c’è?» «Akira, ma dove ti sei cacciato?» lo apostrofò la caratteri­stica voce strascicata. «Signor Soga? Di nuovo molte grazie per l’altro giorno». Davanti all’atteggiamento deferente assunto all’improvvi­so da Jumonji, la studentessa si girò di malumore dall’altra parte e lui, per paura che se ne volesse andare, la afferrò subito per il gomito. «Non ne parliamo più. Immagino che tu sia in giro per Shibuya», dedusse Soga, sicuro di non sbagliare dal momen­to che poteva sentire il frastuono del traffico. Possibile che quello sfacciato dovesse chiamarlo proprio adesso? Jumonji aggrottò la fronte: «Già, e se così fosse?» «Be’, cosa sono tutte queste arie? Non sarebbe la prima volta che vai a fare il pavone da quelle parti!» «Sì, ma…» Jumonji si grattò la testa. Continuava a tenere la studentessa per il gomito, ma lei non faceva nessun tentati­vo di nascondere che ormai lui non le interessava più e si guar­dava inquieta intorno. Il viale di Shibuya era pieno di tipi co­me lui, alla ricerca di giovani ragazze, e Jumonji, non appena si accorse che alcuni uomini avevano incominciato a gironzo­lare nei pressi in attesa della sua prossima ritirata, si innervosì. «Che ne è stato della tua Nissan Laurel con il tubo di scappamento allungato verso l’alto?» continuò a scherzare Soga, sempre più divertito. «Di che cosa si tratta esattamente, qual è il motivo della telefonata?» «Ah, allora sei con una ragazza, vero? Il solito vecchio don Giovanni con il complesso delle lolite! Sei tutto scemo!» «Sì, ha ragione, lo ammetto e chiedo scusa, basta?» «Sì, ma purtroppo non serve». Di colpo il tono di Soga si fece serio. «C’è un lavoro».

«Che cosa? Un incarico?» Jumonji, colto di sorpresa, ab­bandonò il gomito della liceale. «Allora alla prossima volta», disse subito la ragazza, e se ne andò. Un paio di uomini, che assomigliavano molto a Ju­monji, la seguirono. Maledizione! Con sguardo malinconico Jumonji seguì la gonnellina a pieghe della studentessa che si allontanava facendo ondeggiare i fianchi graziosi. Ma non c’era niente da fare, il lavoro è lavoro. Se entravano altri sol­di si sarebbe potuto concedere senza problemi dieci ragazze come quella. Jumonji si rinfrancò e si scusò con Soga: «Mi dispiace. Ero un po’ distratto». «Ti ha mollato, vero? Vedi di schiarirti la testa: la cosa odora di bruciato!» tuonò Soga. Jumonji fu costretto a pen­sare ai suoi occhi spietati e incominciò a sudare freddo. «Sì, mi scusi». «Be’, lo sai che apprezzo il tuo lavoro. L’ultimo incarico lo hai svolto in maniera perfetta». «Grazie». Il rumore era diventato troppo forte. Jumonji si tirò fuori dalla confusione della folla e si spostò sotto la pen­silina di un edificio. «Mi raccomando solo di essere molto prudente anche questa volta. Il cliente vorrebbe consegnarci la merce già questa notte». «Questa notte?» ripeté Jumonji pensando a come avrebbe potuto avvisare Masako. Guardò l’orologio da polso: erano le otto di sera. Si tranquillizzò: a quell’ora poteva ancora tro­varla a casa. «Sì, alla fin fine si tratta di merce deteriorabile, non c’è tempo per gingillarsi». «Questo è vero». «L’appuntamento è al parco di Koganei, ingresso poste­riore. Esattamente alle quattro del mattino». «Capito», rispose Jumonji, imprimendosi bene in mente luogo e ora. Soga continuò in tono insolitamente basso e cupo: «Que­sta volta l’incarico ci viene da un canale che non è quello dell’altra volta. La cosa mi preoccupa un po’ quindi, per precauzione, sarò presente anch’io». «Che significa?» «C’è un canale di cui ci si può fidare: il nonnino dell’al­tra volta è arrivato grazie a quel canale, ma questa volta l’af­fare è stato per così dire preso al volo». «Al volo? Non è cosa da professionisti!» «Vero», approvò Soga. «Ha continuato a ripetere di aver cercato me perché qualcuno gli ha spifferato il mio nome, ma non vuole dirmi chi. Perciò, a scanso di equivoci, ho alzato il prezzo e ci siamo messi d’accordo per dieci milioni», raccontò Soga senza nascondere niente. «Il che significa che lei, signor Soga, prenderà un milione di più?» chiese subito Jumonji. «Sì, e tu anche». Jumonji dimenticò immediatamente la liceale che lo aveva piantato in asso e ritrovò il buonumore. Se fosse riuscito a intascare quell’extra senza farlo sapere a Masako, avrebbe guadagnato tre milioni. «Grazie mille, Soga-san». «Ma la prudenza non è mai troppa. Porterò i miei ragaz­zi. E sarebbe bene che anche tu tirassi fuori dall’armadio la spada e tutto l’equipaggiamento da kamikaze». «Non mi prenda in giro!» Il tono di Soga, tutt’altro che faceto, lo preoccupava un po’ ma, pregustando la bella som­metta che lo aspettava, gli sembrava già di toccare il cielo con un dito. Prese subito l’agendina e telefonò a Masako. Se non avesse potuto occuparsene l’indomani mattina, gli sarebbe toccato vagabondare tutto il giorno con lo scomodo carico nell’auto. Rispose Masako in persona. Aveva una voce nasale, forse era raffreddata. «Per farla breve, abbiamo avuto un altro incarico, che ne dice?» Masako rispose alzando appena il tono della voce, non sembrava particolarmente entusiasta: «Troppo presto, se vuole sapere la mia opinione». «Forse è girata voce che offriamo buone prestazioni». Al suo tono allegro Masako rispose con il

silenzio. Jumonji cre­deva che dipendesse dalla paura, tuttavia doveva assoluta­mente convincerla: «Collaborerà, vero, signora Katori?» «Non si potrebbe rifiutare, almeno per questa volta?» «Perché?» «Ho un brutto presentimento». «È solo il seconda incarico e lei ha già un brutto presen­timento? Ma così non va!» Jumonji non aveva nessuna in­tenzione di cedere. «Mi farà perdere la faccia». «C’è qualcosa di peggio che perdere la faccia», rispose enigmatica Masako. «A che cosa allude?» Masako tuttavia non diede spiegazioni: «Al momento non mi va bene». «Signora Katori, forse questo non sarà il momento mi­gliore per lei, ma il suo non è l’atteggiamento giusto per chi deve affrontare un lavoro. Alla fin fine anch’io devo di nuo­vo andare fino a Kyushu per eliminare tutto. Non è solo il suo lavoro a essere pericoloso, lo sa, vero?» «Certo, lo so», rispose Masako a voce bassa. A Jumonji saltarono i nervi: «Allora, se si vuole tirare in­dietro, mi rivolgerò alla maestra. E se non ci sta neppure lei, a Kuniko. Quella cicciona farebbe qualsiasi cosa per i soldi!» «Questo è fuori discussione. Se quella cialtrona fa qual­che idiozia, ci mette tutti in pericolo!» «Esattamente», insistette Jumonji, «e perciò faremo tutto come l’altra volta. Mi affido a lei!» «Bene», disse Masako, come se finalmente si fosse per­suasa. «Mi può procurare degli occhiali da subacqueo?» «Porterò quelli da moto, se le possono servire». «Bene. Se dovesse succedere qualcosa, le telefonerò». Con la sensazione di avere concluso con successo una dif­ficile trattativa di affari, Jumonji mise via il cellulare e guardò l’orologio. C’era ancora tempo, molto tempo, prima delle quattro del mattino. Chissà se lì intorno c’era un’altra bel­lezza come quella di prima. Avrebbe pagato qualsiasi somma, visto che ormai i rinforzi finanziari erano assicurati. Baldan­zoso e in vena di spendere, Jumonji ritornò nella calca di Shi­buya e iniziò la sua caccia: quale delle ragazze che passeggia­vano sul viale avrebbe potuto rendere felice? Chissà perché Masako Katori si era mostrata così riluttante. Comunque non aveva né tempo né voglia di pensarci. Mancavano pochi minuti alle quattro del mattino. Ju­monji posteggiò la Maxima davanti all’ingresso posteriore del parco di Koganei, dove si erano dati appuntamento. Da una parte della strada, al di là del guardrail, si estendeva il parco immerso nell’oscurità, dall’altro lato la linea scura del­le case addormentate con le finestre ermeticamente chiuse. Nulla si muoveva, il silenzio era assoluto. Non c’era un solo lampione e in tutta la zona, completamente buia, non si av­vertiva il minimo segno di vita. Gli alberi del parco stormi­vano cupi al vento come quelli di una selva tenebrosa. Per evitare di vederli, Jumonji si girò dall’altra parte. Improvvi­samente gli era venuto in mente che quello era il parco in cui Kuniko aveva abbandonato i pezzi del cadavere, e la coincidenza era un po’ preoccupante. Faceva freddo. Tirando su con il naso Jumonji cercò di abbottonarsi la giacca, ma si accorse che mancava un bot­tone. Irritato pensò che era tutta colpa della donna con cui era stato fino a poco prima. L’aveva presa per una liceale, ma poi aveva scoperto che aveva già ventun anni. Mentre lui era in bagno, lei gli aveva frugato nella giacca e il bottone dove­va essere caduto quando, furioso, gliela aveva strappata di mano. Una vera disdetta! Il pensiero gli balenò per un atti­mo nella mente, ma subito lo accantonò. Tra poco avrebbe avuto in mano tre milioni di yen in contanti, non si poteva certo parlare di disdetta. Si sforzò di essere ottimista e pro­prio allora udì una macchina che si avvicinava da destra e già illuminava con i fari le luci posteriori della sua Maxima. «Bene, sei già qui». Soga scese dalla sua Gloria nera e alzò la mano in segno di saluto. Era già

l’alba, tuttavia indossava ancora un lussuoso cappotto di cammello e un vestito nero. Al volante sedeva il ragazzo biondo, mentre il tipo con la te­sta rapata scese e si fermò ad alcuni passi di distanza. «La ringrazio di essere venuto, Soga-san». «Voglio sapere con chi abbiamo a che fare, per cui prefe­risco vedere di persona questo brutto ceffo». Rabbrividendo Soga si tirò su il bavero e infilò le mani nelle tasche. «Già, chissà chi è e in che stato è la merce che ci porta». «Mah, non lo so proprio», mormorò Soga inquieto. «De­ve essere una grande porcheria, se è pronto a sganciare dieci milioni». «Potrebbe avere ragione». «Hai intenzione di infilare il materiale lì dentro?» si informò Soga additando la Maxima. «Già». «Per carità, a uno potrebbe venir male!» commentò Soga disgustato. La volta precedente erano stati il biondo e il ra­pato a trasportare il cadavere e a consegnare il denaro, lui si era limitato a dare istruzioni per telefono. E solo per questo si era intascato due milioni! Jumonji ribatté un po’ stizzito: «Questo, appunto, fa par­te del mio lavoro!» «Su, non prendertela», rispose protettivo Soga, cui non mancava un fine intuito, dandogli una pacca sulla spalla. In quel momento si accorsero di una monovolume con gli abbaglianti accesi che si dirigeva verso di loro. Le luci ac­cecanti si avvicinavano sempre più. Per un attimo Jumonji ebbe l’impressione che si avvicinasse un mostro. «È lui!» Soga schiacciò la sigaretta sul guardrail e conse­gnò il mozzicone al biondo che sembrava nervoso. «Che ne faccio?» domandò il biondo tendendo le mani. «Idiota! Cerca di immaginare che cosa potrebbe succede­re se la dovessero trovare qui! Mangiatela!» Il biondo si affrettò a infilare il mozzicone nella tasca del­la giacca. Jumonji deglutì. Non sentiva più il freddo. La monovolume si fermò davanti a loro. Gli abbaglianti restarono accesi, in modo che non si potesse vedere il nume­ro di targa. Si aprì la portiera e uscì un uomo. Era abbastan­za alto, robusto e vestito in modo da non dare nell’occhio, con calzoni da lavoro e giacca a vento. Non si riusciva a di­stinguere il viso, perché portava un berretto ben calcato in testa. Ma, appena lo vide, a Jumonji venne la pelle d’oca. Non avrebbe saputo dire perché. «Sono Soga, della Toyozumi». «Che cosa succede? Un comitato di accoglienza?» rispose l’uomo a voce bassa, appena distinguibile. «Be’, mi scusi, ma a dirla franca il fatto che lei non mi ab­bia raggiunto attraverso i soliti canali mi preoccupa un po’. Posso chiederle da chi ha saputo di questa cosa?» «Questo a lei non deve interessare!» «Senta…» «Basta!» L’uomo prese un sacchetto di carta dalla tasca della giacca a vento e la gettò a Soga che l’aprì e controllò il contenuto. Jumonji tirò l’occhio e vide dieci pacchetti di banconote da diecimila yen trattenuti da fascette. Accertatosi che la somma fosse esatta, Soga annuì e fece un cenno con il mento a Jumonji: «Siamo a posto. Sbrigati». L’uomo aprì rumorosamente la portiera posteriore della macchina. Nell’oscurità Jumonji scorse qualcosa dalla forma vagamente umana avvolto in una coperta. Un corpo basso, grasso, formoso. Che si trattasse di una donna? Jumonji, che non aveva mai messo in conto che gli avrebbero potuto con­segnare un cadavere femminile, rimase di sasso.

«Non fartela nei pantaloni!» gli abbaiò contro l’uomo ti­rando il cadavere fuori dall’auto. Il biondo e il rapato si af­frettarono ad aiutarlo. Il corpo cadde pesantemente sull’a­sfalto e l’uomo chiuse il portello. Senza voltarsi a guardare, risalì in macchina, mise in moto e sparì a marcia indietro nella direzione da cui era arrivato. Il motore in retromarcia andò su di giri, riempiendo il silenzio del viale immerso nel­le tenebre. La sagoma dell’auto divenne sempre più piccola per poi sparire nell’oscurità. Tutto era accaduto molto in fretta. «Faceva proprio paura», commentò Jumonji. Soga si limitò a sibilare a bassa voce: «Scemo. Gli assassi­ni non sono uomini come gli altri, questo è chiaro!» Che fosse stato proprio lui a ucciderla? Jumonji fissò inorridito il corpo avvolto nella coperta e legato strettamen­te con una corda. «Perché è andato via a marcia indietro?» «Sei proprio stupido! Per evitare che riconoscessimo la targa, e poi voleva essere sicuro che non lo seguissimo». Jumonji tremava come una foglia. Lo assalì la consapevo­lezza bruciante di essersi fatto coinvolgere in una cosa orren­da. Ecco perché prima gli era venuta la pelle d’oca. «Su, prendilo e vattene!» Soga tirò fuori tre mazzette di banconote dal sacchetto e poi gli lanciò addosso il resto. Con qualche difficoltà Jumonji riuscì a ficcare il sacchet­to in fondo alla tasca. Il biondo e il rapato si diedero da fare per caricare il ca­davere nel bagagliaio della Maxima. Soga rimase in silenzio, come se masticasse qualcosa di amaro. «È una donna, vero?» «Sembrerebbe», rispose Soga girandosi verso di lui. Non sorrideva. «Forse una studentessa». «La smetta!» Non era solo il freddo dell’alba che lo face­va gelare. Si udì il rumore secco del portello che si chiudeva. I due ragazzi si strofinarono ripetutamente le mani, come se avessero toccato qualcosa di sporco, e si annusarono più vol­te le dita. Soga diede un’altra pacca sulla spalla di Jumonji e disse: «Be’, mi farò vivo. Fatti forza». «Soga-san!» Jumonji, che aveva paura di rimanere solo, lo fissò negli occhi. Soga si passò la lingua sulle labbra. «Che c’è? Non dirmi che te la fai sotto?» «No, no». «Non rovinare tutto. Potrebbe essere estremamente peri­coloso». Detto questo fece cenno di partire al rapato che aspettava accanto alla portiera aperta. Salì sull’auto e la Glo­ria si allontanò rombando nella direzione da cui era venuta, quasi in fuga. Subito sulla strada fu di nuovo buio pesto. Ju­monji, rimasto solo, avviò il motore, continuando a lottare contro il desiderio di lasciare lì l’auto e tutto quello che c’e­ra dentro e svignarsela a gambe levate. Era la prima volta in vita sua che aveva veramente paura. Dopo alcuni minuti che guidava si accorse che non era il cadavere nel bagagliaio la causa del suo terrore, ma l’uomo che l’aveva portato.

7. Per la prima volta, quella settimana, si sentiva di nuovo ab­bastanza bene, il raffreddore stava andandosene. Lo specchio le rimandò l’immagine di un viso legger­mente provato, ma le guance avevano ripreso colore e le oc­chiaie erano quasi sparite. E questo nonostante si stesse di nuovo accingendo ad affrontare quel lavoro orrendo, pensò cinicamente Masako continuando a guardarsi. Per fortuna Yoshiki era uscito puntuale per andare al la­voro, e anche Nobuki se ne era andato la mattina presto. Dalla notte in cui avevano parlato, Yoshiki si ritirava ancora più spesso in camera sua. Da quando gli aveva detto che for­se se ne sarebbe andata, evidentemente cercava di alzare bar­riere ancora più alte fra loro, per non essere ferito. Benché vi­vessero sotto lo stesso tetto, era come se fossero separati da molti anni, pensò Masako, incapace di liberarsi dall’amarez­za. Nobuki almeno aveva a poco a poco incominciato a ri­volgerle qualche parola, anche se si limitava a chiedere che cosa c’era da mangiare o cose del genere. Masako tuttavia ne era contenta. Si mise a preparare il bagno per il lavoro. Mise da parte sapone, shampoo e il resto, e stese un foglio di plastica sulle piastrelle. Spalancò la finestra per fare uscire il vapore del ba­gno della sera precedente. Era una bella giornata di fine au­tunno, straordinariamente tiepida. Le sue condizioni fisiche, il tempo, tutto era perfetto, ma era oppressa dall’angoscia. Come poteva spiegarlo a Jumonji, così entusiasta, e a Yoshie? E chi poteva essere il “nemico misterioso”? Masako aveva un sospetto. Le era venuto un giorno che se ne stava a letto raffreddata. Ma ovviamente non aveva pro­ve certe. Chiuse la finestra e la porta del bagno e corse in ingresso, davanti alla porta chiusa. Faceva fatica ad aspettare l’arrivo dell’oggetto. Non perché fosse ansiosa di riceverlo, ma per l’inquietudine. Perché quello che la angosciava non era tan­to il corpo morto, quanto la nuova, diversa piega che avreb­be preso l’avvenimento. Agire senza avere idea di dove sareb­be andata a parare le toglieva ogni sicurezza e non riusciva a sopportarlo. Infilò i piedi nei grandi sandali da spiaggia di Nobuki e scese sul pavimento di cemento. Non riusciva a stare in casa e neppure ad andare fuori ad aspettare Jumonji, per cui ri­mase ferma vicino alla porta, le braccia strette davanti al pet­to, come per tenere ferma in fondo al cuore quell’inspiega­bile angoscia. «Maledizione!» disse a bassa voce, come per costringersi a reagire. Tutto questo non le piaceva, non le andava proprio. E anche lei non si piaceva. Si era lasciata prendere dalle cir­costanze prima di rendersene conto. Possibile che il “nemico misterioso”avesse previsto anche questo? La cosa incomin­ciava a sembrarle sempre più plausibile. La Maxima blu scuro davanti a casa sua avrebbe attirato l’attenzione, anche se si fosse fermata per poco tempo. La prossima volta avrebbe fatto meglio a servirsi della sua auto, ma adesso non aveva abbastanza tempo e chissà se sarebbe andato tutto liscio anche oggi. Non riusciva a scrollarsi dalle spalle il rimorso di essersi cacciata fino al collo in quello stu­pido pasticcio e la terribile sensazione di avere tralasciato qualcosa. Stava lì ad arrovellarsi nello stretto ingresso, men­tre il senso di smarrimento continuava ad aumentare e pri­ma o poi l’avrebbe fatta scoppiare come un palloncino trop­po gonfio. Infine si decise ad aprire la porta e uscì. Era una mattinata calda. Intorno alla casa regnava la so­lita quiete. In fondo, nei campi, si levava un filo di fumo, probabilmente stavano bruciando foglie secche. Nel cielo az­zurro e vellutato si spostava lentamente un aeroplano a elica e dalla casa vicina la raggiungeva il tintinnio dei piatti lava­ti. Una mattina come tante altre. Masako diede uno sguardo al terreno edificabile con il mucchio di terra rossa al di là del­la strada. La donna di mezza età che le aveva detto di voler­lo comprare da quella volta non si era più fatta vedere. Non c’era niente che saltasse all’occhio, nulla era cambiato, eppu­re

c’era qualcosa di sinistro. Udì stridere i freni di una bicicletta. «Eccomi qui». Yoshie indossava una vecchia giacca a ven­to nera, che chiaramente le aveva passato Miki, sul vestito di jersey grigio. Masako le guardò gli occhi arrossati dopo la notte di lavoro, che stentavano ad adattarsi alla luce. Se fos­se andata allo stabilimento, anche lei avrebbe avuto quella faccia. «Ti va bene, maestra?» «Sì, benissimo. Sono stata io a volerlo. In fondo ti ho det­to di avvisarmi, no?» L’espressione di Yoshie era determinata come mai prima di allora. In fondo ai suoi occhi si leggeva il desiderio selvaggio di guadagnarsi dei soldi. «Vieni dentro, svelta», la sollecitò Masako, mentre stava ancora sistemando la bicicletta. Yoshie varcò la soglia, si sfilò le scarpe di tela che sembravano pantofole da bambini, e la guardò preoccupata. «Come va il tuo raffreddore?» Da quando era passata da Yoshie – quel giorno pioveva – Masako si era presa un brutto raffreddore e non era più an­data a lavorare. «Molto meglio». «Grazie al cielo! Tuttavia questo lavoro, con tutta l’acqua fredda che serve, non è la cosa migliore per te!» Naturalmente alludeva al dissezionamento del cadavere. La volta precedente si erano accorte che il lavoro procedeva meglio se si lasciava scorrere l’acqua e si continuava a sciac­quare. «Come va allo stabilimento?» «Se sapessi», rispose Yoshie abbassando la voce. «Kuniko si è licenziata». «Cosa! Kuniko?» «Sì, figurati. Tre giorni fa, all’improvviso, ha presentato le dimissioni. Il caposquadra deve avere anche fatto un tentati­vo pro forma di dissuaderla, ma sai com’è. Quelle come Ku­niko sono tutte uguali. Da allora non è più venuta», disse Yo­shie togliendosi la giacca a vento e piegandola con cura. Masako guardò distrattamente la fodera bianca di flanel­la logora e, in molti punti, sottile come un velo. «Anche la Yama-chan non viene più», continuò Yoshie, «e tu te ne stai a casa ammalata. Ero completamente sola. Mi sentivo talmente abbandonata che ho aumentato a diciotto la velocità del nastro trasportatore. Avresti dovuto vedere! Sembravano tutte delle galline spaventate e hanno incomin­ciato a reclamare! Non sopporto quelle schiappe». «Me lo posso immaginare!» «E poi ieri notte il brasiliano mi ha chiesto di te». «Il brasiliano?» «Ma sì, quel ragazzo, Miyamori si chiama, o qualcosa del genere». «Che cosa ti ha chiesto?» «Se non venivi più. Sembra che il poveretto si sia inna­morato di te». Masako ascoltò in silenzio, senza rispondere alle facezie di Yoshie. Vide davanti a sé l’espressione offesa di Kazuo, co­me se ne stava fermo con aria smarrita in mezzo alla strada, quella notte d’estate. Ma ormai era passato tanto tempo! Yoshie smise di parlare e aspettò per un po’ la reazione di Masako. Alla fine, rassegnata, continuò: «Quel ragazzo ha imparato molto bene il giapponese, davvero, sono rimasta stupefatta! Forse quando si è giovani è più facile imparare». Yoshie era particolarmente loquace, forse eccitata dal la­voro che la aspettava. Masako, sommersa dal profluvio di pa­role della compagna, meditava se fosse giusto raccontarle della sua angoscia, e rimaneva lì indecisa, come se attendes­se sotto una pensilina la fine di un acquazzone. Allora senti­rono il rumore della portiera di un’auto davanti alla porta.

«Eccolo!» esclamò Yoshie alzandosi. «Aspetta!» Masako andò alla porta e per prudenza guardò fuori attraverso lo spioncino. La Maxima blu scuro era par­cheggiata esattamente davanti alla porta. Jumonji era puntuale. Aveva appena socchiuso la porta che Jumonji era già sce­so dall’auto e si stava avvicinando. Dopo la notte insonne, la pelle del suo viso era tutta lucida. Bisbigliò: «Signora Katori. Questa volta è una cosa orrenda, signora Katori». «Perché?» «È una donna», rispose a bassa voce. Masako fece schioccare la lingua. Si era preparata a vede­re qualcosa di terribile, per cui le sembrava strano che l’idea di dissezionare un corpo del suo stesso sesso le facesse rizza­re i capelli. Jumonji, assicuratosi che nessuno li osservava, aprì piano il cofano chiuso a chiave. Alla vista del grosso fagotto avvol­to in una coperta – pareva un enorme bruco – Masako, sen­za volere, fece due passi indietro. Quando avevano portato il vecchio, il fagotto era piccolo e sottile, questo invece non era piatto, bensì piuttosto tondeggiante e più grosso all’altezza del petto. «E allora?» Yoshie, che li aveva raggiunti, si sporse a guar­dare da dietro le loro schiene e fece un gridolino. Bastava la cura con cui l’avevano sistemato e legato per renderlo anco­ra più inquietante dei cadaveri del vecchio e di Kenji, nasco­sti soltanto da una coperta. «Svelte, portiamolo dentro!» Jumonji allungò le braccia distogliendo il viso, come se il solo toccarlo gli ripugnasse. Masako gli diede una mano. La rigidità cadaverica si era un po’ attenuata, e il corpo era afflosciato, per cui sembrava an­cora più pesante. In tre lo trasportarono in bagno e lo lascia­rono cadere sul telo di plastica, poi si guardarono perplessi. «Ho preso un bello spavento, quando sono andato a prenderlo! Avreste dovuto vedere l’uomo che l’ha portato! Tremavo letteralmente dalla paura!» «Perché?» «Be’, perché senz’altro è stato lui a ucciderla». «Come può dirlo? Forse si è occupato soltanto del tra­sporto», lo consolò Yoshie, premendosi una mano sul petto per calmare i battiti del cuore. «No, anche se sembra strano, questo era proprio chiaro!» la contraddisse Jumonji alzando la voce. Aveva gli occhi ar­rossati. Forse era vero, pensò Masako, ma non disse nulla. Anche con Yayoi era stato così. Quella sera l’amica aveva un aspetto del tutto inconsueto. «Lei è un uomo, no? Forza, allora, tagli la fune, svelto!» Evidentemente a Yoshie non era piaciuto il modo in cui Ju­monji le aveva chiuso la bocca. Prese le forbici da cucina e gliele ficcò spietata in mano. «Tocca a me?» «Ovvio. È lei l’uomo, qui, e l’uomo deve sempre dare il buon esempio». Yoshie continuava a scagliargli addosso la parola “uomo” come se fosse uno strumento di tortura. Alla fine gli diede una spinta e Jumonji si decise a prendere le for­bici. Per prima cosa tagliò la fune stretta saldamente intorno al fagotto. Poi tirò un lembo della coperta, scoprendo le gambe. Gambe grasse, bianche. Anche le caviglie erano gros­se e, dietro, cosparse di chiazze violacee. Yoshie urlò e si na­scose dietro la schiena di Masako. Poi comparve il tronco molle: non si vedevano ferite. I grassi seni pendevano flosci a destra e a sinistra. Anche se obeso, il corpo doveva essere quello di una donna ancora nel fiore degli anni. Ma la testa non si decideva a comparire, come se avesse disperatamente addentato la coperta. Masako fece per aiuta­re Jumonji a tirare via del tutto la coperta, ma a un tratto, istintivamente, si fermò. La testa infatti era infilata in un sac­chetto di plastica nero, legato intorno al collo con uno spa­go, in modo che non fosse facile liberarla. «Ma che cosa significa? Che impressione!» Yoshie indie­treggiò fino allo spogliatoio. Jumonji sembrava essere sul punto di vomitare. «Probabilmente le ha fracassato la faccia. Disgustoso!»

«Un momento. Perché mai le avrebbero coperto il viso? A meno che…» Spinta da un presentimento, Masako afferrò le forbici e tagliò svelta la plastica nera. E tutto divenne chiaro come il sole. «Infatti è proprio Kuniko». Una faccia ottusa, con la lingua penzoloni e gli occhi se­miaperti. Il viso esanime di Kuniko, i suoi piccoli occhi astu­ti, la sua avida bocca rilassata. Il bagno, che fino ad allora era stato solo il luogo in cui dissezionavano corpi più o meno sconosciuti, si trasformò di colpo in una camera mortuaria, solo perché il cadavere era quello di una che conoscevano be­ne. Nessuno parlava. Poi Yoshie scoppiò in singhiozzi. Ju­monji era paralizzato dal terrore. «Me lo descriva! Svelto, mi dica che tipo era!» lo aggredì Masako. «Non ho potuto vedergli bene il viso». La voce di Jumonji era rotta dall’emozione. «Era abbastanza grande e robusto, con una voce bassa…» «Ma ce ne sono migliaia di tipi così!» Masako era fuori di sé. «È inutile che continui a gridare, io non so altro!» Ju­monji, in preda alla disperazione, girò la testa di lato. Yoshie sedeva per terra nello spogliatoio e piangeva. Con­tinuava a ripetere, come una giaculatoria: «Doveva capitare, è la vendetta del cielo, lo avevo detto che non si poteva fa­re…» «Smettila!» Masako corse nello spogliatoio e la prese per le spalle. «Smettila di cianciare, non abbiamo tempo! Qual­cuno ci ha presi di mira!» Yoshie la guardò attonita, come se non avesse la minima idea di cosa voleva dire Masako. «Che significa?» «Kuniko ci è stata spedita apposta. È chiaro!» «Ma potrebbe anche essere stato un caso», protestò Yo­shie. «Ma che dici!» urlò Masako. Era talmente eccitata che non riusciva più a controllare il tono della voce. Si morse le unghie, cercando di recuperare la sua consueta freddezza. Intervenne Jumonji: «A pensarci bene, il cadavere mi è stato consegnato davanti all’ingresso posteriore del parco di Koganei. Ecco che cos’era quello strano presentimento». «Davvero?» A Masako si drizzarono i peli su tutto il cor­po. Sapeva tutto. Quel delinquente sapeva tutto. Perciò ave­va ucciso Kuniko, per terrorizzarli. Ma a che scopo? Rivol­gendosi a Kuniko, afflosciata sul pavimento davanti a lei, si mise a urlare: «Stupida oca svergognata, dicci subito che co­sa è successo!» Jumonji le afferrò un braccio: «Si calmi adesso, signora Katori». Yoshie la guardava a bocca aperta: «Che cos’hai adesso?» «Come se non ci fosse da diventare pazzi!» sbuffò Ma­sako. «Perché?» «Lo volete davvero sapere? Bene, adesso ve lo dico chiaro e tondo», rispose girandosi verso di loro. «Qualcuno ci ha preso di mira. Questo qualcuno si è intrufolato in casa di Ya­ma-chan e la ha spiata. È venuto a ficcare il naso anche da me. Poi ha escogitato il piano di avvicinare Kuniko e ucci­derla per farcela eliminare». «E perché uno dovrebbe prendersi tutto questo disturbo? Anche se ha ammazzato Kuniko, che bisogno ha di spedir­cela? È stato sicuramente un caso», piagnucolò Yoshie. «No, l’ha fatto di proposito, per mostrarci che sa tutto». «Ma perché?» «Per vendetta». Come lo disse, Masako ebbe l’impressio­ne di avere risolto l’enigma. Proprio così. Quell’individuo voleva vendicarsi! Aveva perso un mucchio di tempo a spia­re accuratamente in giro per potersi vendicare! All’inizio ave­va pensato che mirasse al premio dell’assicurazione, ma non era così. Altrimenti non avrebbe speso tutti quei soldi per far eliminare il cadavere di Kuniko. Ora Masako aveva proprio paura e dovette lottare per non mettersi a piangere. Jumonji aggrottò la fronte: «Ma chi potrebbe essere?»

«Forse il proprietario della casa da gioco. Non riesco a immaginare nessun altro». Jumonji e Yoshie si scambiarono uno sguardo. «E come si chiama?» «Mitsuyoshi Satake. Quarantatré anni». Masako aveva cercato il nome e altre informazioni su vecchi giornali. «È stato scarcerato per insufficienza di prove e da allora è spari­to dalla circolazione». «Dimostrava più o meno quarantatré anni?» domandò Yoshie a Jumonji. «Non saprei. Era buio e aveva un berretto in testa. Ma dalla voce direi di sì. Quindi io sono l’unico che l’ha visto, vero?» Jumonji fece una smorfia di disgusto. «E non voglio incontrarlo mai più!» Davanti all’espressione terrorizzata di Jumonji, Yoshie ri­cominciò a piangere: «E adesso che cosa dobbiamo fare? Per amor del cielo, dimmi che cosa devo fare!» Masako continuava a mordersi le unghie. «Prendere i sol­di e svignarsela». «Ma per me è assolutamente impossibile». «Allora non ti resta che stare sempre molto attenta». Det­to questo Masako si girò di nuovo verso il corpo di Kuniko. Che cosa dovevano farne? Questo era il primo problema da affrontare. Farlo a pez­zi? Potevano anche risparmiarsi la fatica, dal momento che chi l’aveva mandato aveva già raggiunto il suo scopo, quello di terrorizzarli. Tuttavia abbandonare il cadavere così com’e­ra sarebbe stato troppo pericoloso. «Che ne facciamo di Ku­niko?» «Andiamo alla polizia e confessiamo tutto», sbottò Yoshie con voce opaca. Distrutta, si era accasciata sul pavimento vi­cino alla lavatrice. «Perché dobbiamo continuare ad agire in modo così sconsiderato? Non ho nessuna voglia di stare ad aspettare finché non farò la fine di Kuniko!» «Allora finiremo tutti dietro alle sbarre. Ti va bene?» «No», disse Yoshie, «ma che altro possiamo fare?» «Abbandoniamola da qualche parte così com’è», propose Jumonji dopo un breve silenzio meditativo, lo sguardo fisso sugli opulenti seni di Kuniko. «Dove?» «In un luogo qualsiasi. Poi facciamo finta che non sia suc­cesso niente». «Potrebbe essere una soluzione. Ma voglio inchiodare questo Satake alle sue responsabilità». «E come vorrebbe fare?» chiese Jumonji guardandola con aria critica. «Non lo so ancora, ma voglio fargli capire che non resto qui seduta a tremare di paura». «Ma cosa ti viene in mente!» gridò Yoshie incredula. «Sei impazzita?» «È l’unico sistema per metterlo in difficoltà. Se non fac­ciamo qualcosa noi, sarà lui a farci fuori tutti, nell’indiffe­renza generale e per sempre». «Bene, signora Katori, quale le sembra la soluzione mi­gliore?» chiese Jumonji socchiudendo gli occhi e accarezzan­dosi la barba che gli era cresciuta durante la notte. «Non potremmo rimandargli a casa il cadavere di Ku­niko?» «Ma dove abita?» Yoshie, completamente sfinita, si pre­meva le mani sugli occhi. «Non lo sappiamo mica, no?» «È vero», ammise Masako, e incominciò a rimuginare. «Un momento!» Jumonji fece un gesto come per placar­le. «Pensiamoci bene. Questa è una questione importante». Allora Masako vide il pezzo di tessuto nero in bocca a Kuniko. Si infilò svelta un paio di guanti di plastica e lo tirò fuori. Erano dei lussuosi slip bordati di pizzo, appallottolati con cura, della taglia di Kuniko. Probabilmente li aveva in­dossati immaginando che avrebbe avuto l’occasione di sve­stirsi. Nello spogliatoio dello stabilimento, infatti, le aveva sempre visto addosso biancheria da poco prezzo. «Glieli ha ficcati in bocca e l’ha strangolata», dichiarò Ju­monji guardando impietosito il largo ematoma sul collo di Kuniko.

Continuando a tenere in mano gli slip, Masako gli chie­se: «Mi dica, Jumonji-san, era un bell’uomo?» «Be’, della faccia non posso dire molto, ma come corpo­ratura non era male». Kuniko era stata adescata! Masako cercò di ricordare se la compagna le avesse parlato di un uomo. Ma, a causa della lo­ro recente rottura, non sapeva proprio niente delle sue rela­zioni private. Rassegnata lasciò cadere le spalle e sospirò: «Allora non ci resta che sezionarla. Al momento mi sembra che non abbia­mo alternative». «Cosa dici? Ma io non voglio! No, non lo farò», bisbigliò Yoshie. «Fare a pezzi Kuniko! Continuerei ad avere incubi!» «Allora non hai bisogno di soldi, vero, maestra? Bene, co­me vuoi, allora faccio tutto da sola e mi tengo anche la tua parte. E neppure il milione di cui abbiamo parlato, naturalmente», disse Masako. Subito Yoshie si inalberò: «Ma non puoi farlo! Devo fare il trasloco!» «È vero, e se a qualcuno viene in mente di avvicinare un fiammifero a casa tua, puoi dire ciao a tutto», replicò sadica Masako, e Yoshie dovette chinare la testa. Jumonji, imbarazzato, non sapeva come comportarsi. «Vada a prendere le scatole. E poi, come abbiamo con­cordato, andrà a Kyushu e butterà tutto nell’inceneritore». «Vuole davvero farlo?» «Sì, non ci restano alternative». Masako cercò di degluti­re, ma la saliva si fermò in gola e non voleva saperne di an­dare giù. Proprio come la realtà che non voleva ammettere. «Allora vado a prendere le scatole». Jumonji si alzò, visi­bilmente felice di andarsene da lì. Masako gli lesse in fronte che avrebbe preferito di gran lunga svignarsela. Da un pezzo il coraggio lo aveva abbando­nato e adesso voleva solo tirarsi fuori da quel guaio. Perciò mise le mani avanti: «Tanto per capirci: si può sparire solo dopo aver finito il lavoro, d’accordo?» «Sì, certo». «Vale a dire che c’è ancora da lavorare!» «Sì, sì», annuì Jumonji, un po’ infastidito dalla sua insi­stenza. «E tu maestra, cos’hai deciso?» Masako si girò verso Yo­shie che, ancora seduta a terra sempre più ripiegata su se stes­sa, fissava il cadavere di Kuniko. «Bene, lo faccio. E con i soldi che prendo cambio subito casa». «Fa’ quel che ti pare». «E tu cosa farai? Dove vuoi scappare?» «Per il momento rimango dove sono e continuo a fare quello che ho sempre fatto». «Ma perché?» esclamò Yoshie sbigottita. Masako non rispose. Anzi, non l’aveva neppure sentita. Continuava a pensare a quello che aveva detto Jumonji: «Quindi io sono l’unico che l’ha visto, vero?» Possibile che lei non lo avesse già incontrato da qualche parte? Non riusciva a cacciare dalla mente quel pensiero. «Allora vado. Tornerò presto». Quando Jumonji se ne fu andato, Masako, come al soli­to, si allacciò ai fianchi il grembiule di plastica e disse a Yo­shie, ancora accucciata sul pavimento: «Metti il nastro a di­ciotto giri, maestra!»

8. Kazuo corse rumorosamente su per la scala di ferro del pen­sionato, fino alla sua camera. Arrivato al pianerottolo si fermò e si guardò intorno. Nel giardino della fattoria di fronte i panni stesi ad asciugare on­deggiavano al vento freddo. La luce azzurrognola del lam­pione sulla stradina davanti al pensionato illuminava i cri­santemi selvatici ormai secchi. Nei lunghi crepuscoli di quei giorni di inizio inverno tutto aveva un aspetto malinconico. A São Paulo sarebbe presto incominciata l’estate. Kazuo si sentì una stretta al cuore. Pensò con nostalgia alle serate d’estate a casa. Lo choro suonato a ogni angolo di strada, il profumo dei fiori e della feijolada che cuoceva sul fornello, belle ragazze con bianchi abiti estivi, bambini che giocavano nei vicoli, la bolgia allo stadio quando i tifosi del Santos incitavano la loro squadra. Che cosa faceva qui in Giappone, così lontano da tutto ciò? Possibile che fosse questo il paese di suo padre? Kazuo si guardò di nuovo intorno. Tutto quello che riusciva a vedere, nella campagna che lentamente sprofondava nel buio, erano le luci di case in cui vivevano persone completamente sco­nosciute. Un po’ più lontano le finestre dello stabilimento delle colazioni illuminate da una pallida luce al neon. Era quindi questo il luogo a cui apparteneva? All’improvviso le lacrime gli salirono agli occhi. Si ap­poggiò col gomito al corrimano di ferro nero e nascose il vi­so tra le mani. Il suo compagno di stanza sicuramente era già tornato e guardava la televisione. Gli unici posti in cui Ka­zuo poteva godere di una certa privacy erano quel pianerot­tolo e la parte superiore del letto a castello. Si era imposto due prove, anzi tre, per essere precisi. Pri­ma: lavorare due anni nello stabilimento per risparmiare il denaro per comprarsi un’automobile. Seconda: ottenere il perdono completo da parte di Masako. Terza: imparare il giapponese abbastanza bene da potere raggiungere quello scopo. E questo era l’unico punto in cui gli sembrava di ave­re avuto qualche successo. Ma a che cosa serviva, se la perso­na alla quale voleva chiedere scusa da quella mattina non vo­leva più parlare con lui? Se non gli dava neppure la possibilità di spiegarsi? No, non era esattamente così. Non sarebbe mai riuscito a farsi perdonare del tutto finché lei non si fosse innamorata di lui. E se questo era vero, anche il suo obiettivo originario non era più così importante. In fondo la faccenda con Masako era risultata la prova più difficile. No, non era neppure una prova, perché non po­teva superarla solo con la forza di volontà. Anzi, la prova consisteva proprio nel sopportare che ci fosse qualcosa di in­dipendente dalla sua volontà. Come lo capì, Kazuo non riu­scì più a frenare le lacrime. All’improvviso gli venne un’idea: sarebbe tornato a casa. Ne aveva abbastanza, a Natale sarebbe tornato a São Paulo. Poteva anche fare a meno di comprarsi una macchina. Lì in Giappone buttava via il tempo a preparare quelle colazioni in scatola che neanche gli piacevano. Per quanto riguardava i computer, ebbene avrebbe potuto studiare anche in Brasile. Non ne poteva proprio più. Non appena ebbe preso la decisione di tornare a casa, la pesante nube che aveva continuato a opprimerlo sparì come se fosse stata spazzata via dal vento. E anche le prove che si era imposto si dileguarono leggere nell’aria. Al loro posto ri­mase un uomo solo e inutile, che aveva perso la battaglia contro se stesso. Kazuo lanciò un ultimo sguardo ostile allo stabilimento delle colazioni che si ergeva nel crepuscolo. In quell’attimo udì una voce femminile appena percepi­bile che lo chiamava dalla strada: «Signor Miyamori?» Credendo di aver sentito male, guardò in basso e vide davvero qualcuno, in jeans e con una giacca a vento da uo­mo rattoppata con il nastro adesivo. Masako. Sorpreso e in­credulo che proprio la persona a cui stava pensando fosse adesso lì davanti a lui, Kazuo si guardò intorno nello stretto

ballatoio per assicurarsi di essere in sé. Gli sembrava di so­gnare. «Signor Miyamori?» chiamò di nuovo Masako a voce più alta. «Sì, vengo!» Kazuo scese di corsa la scala facendola oscil­lare. Masako si spostò dalla luce del lampione e si allontanò nell’oscurità, come per sottrarsi agli sguardi degli inquilini del primo piano. Kazuo la seguì esitante, chiedendosi se gli fosse permesso. Per quale motivo era venuta? Gli avrebbe di nuovo fatto ma­le? Aveva appena rinunciato a lei, ma era bastata la sua ap­parizione per fare divampare di nuovo nel suo animo, come se fosse stata aggiunta legna al fuoco, il desiderio di affronta­re qualsiasi prova. La fiamma ardeva sempre più alta nella sua testa e Kazuo si fermò confuso davanti a Masako. «Ho un favore da chiederle». Masako lo guardò in faccia. Sì, ricordò, lei era una che ti guardava sempre negli occhi. Così da vicino sembrava stanca e profondamente turbata, come se si dibattesse in un groviglio inestricabile di senti­menti. Tuttavia la trovava bella. Kazuo rimase impietrito ad aspettare ansioso la richiesta di Masako. «Può custodire questa cosa per me nel suo armadietto?» Masako prese dalla sua solita tracolla nera una busta di carta. Sembrava piatta e pesante, come se contenesse documenti. Kazuo restò lì a guardare senza prenderla. Non aveva il coraggio di tendere la mano. «Perché?» «Perché non conosco nessuno che abbia un armadietto chiuso a chiave». Kazuo era deluso. Non era questo che aveva sperato di sentirle dire. «Fino a quando?» Masako pensò un po’ e poi disse: «Be’, fino a quando non mi servirà di nuovo. Capisce bene quello che le dico?» «Quasi tutto…» rispose Kazuo, benché trovasse la situa­zione sempre più strana. Perché non teneva lei la busta? Po­teva anche lasciarla a casa. Se voleva per forza un armadietto chiuso a chiave, poteva andare alla stazione, lì ce n’erano un mucchio. «Si sta certamente chiedendo perché, vero?» disse Ma­sako, più rilassata. «Si tratta di cose che non posso lasciare in casa. E neppure in fabbrica o in macchina, potrebbero rubarle e non sarebbe bene». Kazuo prese in mano la busta. Come aveva immaginato era pesante. Si fece coraggio e le domandò: «Che cosa con­tiene? Sa, mi prendo una responsabilità». «Soldi e il mio passaporto», rispose francamente Masako, poi si frugò nella tasca, tirò fuori accendino e sigarette e se ne accese una. Alla parola “soldi” Kazuo si stupì della pesan­tezza della busta. Se era vero, doveva trattarsi di una grossa somma, come mai l’affidava a lui? «Quanto?» «Sette milioni», disse lei, alto e chiaro come quando, allo stabilimento, annunciava il numero delle porzioni previsto dal piano di lavoro. Kazuo chiese esitante: «E portarli in banca?» «Non è possibile». «Posso chiederle perché no?» «No», ribatté decisa, e continuò a fumare guardando da un’altra parte. Kazuo continuava a meditare: «Ma cosa farà se, quando ne avrà bisogno, io non sarò al lavoro?» «Aspetterò fino a quando non riuscirò a mettermi in con­tatto con lei». «In che modo?» «Verrò qui». «Ho capito. La mia camera è la 201. Mi avvisi e andrò a prendere la busta allo stabilimento». «Grazie». Ma a Natale voleva tornare a casa! Doveva dirglielo? Ka­zuo era indeciso, ma alla fine non gliene parlò. Era più im­portante capire se Masako avesse dei problemi. Si fece coraggio e disse: «È rimasta a casa parecchio». «Sì. Ero raffreddata».

«Temevo che si fosse licenziata». «Io non mi licenzio». Masako si girò e guardò nel buio in fondo alla strada. Se avesse proseguito in quella direzione sa­rebbe arrivata all’incrocio tra lo stabilimento dismesso e quello nuovo. Nei suoi occhi si vedeva un’ombra di paura che non era da lei. Doveva esserle capitato qualcosa di brut­to, questo era chiaro. Forse aveva a che fare con la chiave che aveva gettato nel canale sotterraneo, pensò Kazuo. L’estrema sensibilità, che a volte era un suo punto debole, in altre oc­casioni poteva diventare un’arma a suo favore. E in quel mo­mento doveva servirsene come di un’arma. «Ha qualche problema, vero?» osò chiedere, e Masako si girò di nuovo verso di lui. «Se ne è accorto?» «Sì», ammise Kazuo, e i suoi occhi riflettevano l’angoscia della donna. «Ho dei problemi, ma lei non mi può aiutare. Le chiedo solo di custodirmi questo pacchetto». «Che è successo?» Masako non rispose e strinse forte le labbra. Kazuo ar­rossì nell’oscurità, credendo di essersi spinto troppo in là. «Mi scusi». «Non importa. Sono io quella che si deve scusare». «No, no, ho già capito». Kazuo nascose con cura la busta di Masako nella tasca interna del giubbotto nero e tirò su la cerniera. Masako doveva avere parcheggiato lì vicino, perché tirò fuori dalla tasca un mazzo di chiavi. «Allora, grazie di nuovo». Dopo un attimo di esitazione Kazuo incominciò: «Ma­sako-san…» «Sì?» «Mi perdona per quello che ho fatto?» «Certo!» «Completamente?» «Sì», rispose semplicemente Masako e abbassò lo sguardo. Per un attimo Kazuo non riuscì a capire che cosa gli stava succedendo. Aveva superato come un gioco la prova che ave­va creduto la più dura. Ma immediatamente si rese conto che in realtà quella era stata fin dall’inizio un gioco da bambini in confronto a quel­lo che desiderava veramente: conquistare il cuore di Masako. Finché non avesse conquistato il suo cuore, avere ottenuto il suo perdono non avrebbe avuto alcun significato. Questa e solo questa era la tremenda verità. Kazuo abbassò la testa e toccò la chiave che teneva sulla pelle, sotto il giubbotto. Poi sfiorò anche la busta che Ma­sako gli aveva affidato. Era grossa e pesante. «Ma…» bisbigliò Kazuo. Masako avvicinò la testa, come se lo volesse ascoltare con grande attenzione. «Come mai af­fida proprio a me una cosa così importante?» Era la domanda che più gli premeva. Masako gettò a ter­ra il mozzicone di sigaretta, lo schiacciò con la scarpa da gin­nastica e sollevò gli occhi, che avevano assunto un’espressio­ne seria. «Non lo so neppure io… forse solo perché non ho nessun altro a cui chiederlo». Kazuo, stupefatto, osservò le rughette attorno alla bocca di Masako. Solo adesso si rese conto di quanto fosse sola, al punto da affidare a uno come lui, uno straniero che non co­nosceva neppure bene, cose così importanti. Come per sfuggire al suo sguardo, Masako si girò e diede un calcio a dei sassolini con la punta della scarpa. Le pietre caddero con un rumore secco alle spalle di Kazuo. Lui deglutì e ripeté le sue parole: «Non ha nessuno, pro­prio nessuno?» «No». Masako scosse la testa. «Non ho nessuno e nessun posto. Non c’è nessun posto di cui sia sicura, nessun posto dove potrei nascondermi». «Vuole dire che non si fida di nessuno?» «È così», rispose, e questa volta lo fissò negli occhi.

«E di me si fida?» Dopo aver lanciato la domanda, Kazuo sfidò il suo sguardo con il fiato sospeso. Masako sostenne lo sguardo e rispose: «Sì, di lei mi fido». Poi girò lentamente su se stessa e si incamminò lungo la stra­da, ormai completamente buia, diretta allo stabilimento. «Grazie!» Kazuo chinò la testa e con la mano destra si pre­mette il petto a sinistra. Non perché c’era la busta, ma per­ché era lì che batteva il suo cuore.

La via d’uscita

1. Stupita Yayoi osservava la fede che portava all’anulare della mano destra, un anello di platino, piuttosto comune. Ricor­dava il giorno in cui glielo aveva comprato. Era una tiepida domenica di inizio primavera e lei e Kenji erano andati a sce­glierlo insieme in un grande magazzino. Kenji aveva dato un’occhiata alle vetrine e poi aveva detto: «In fondo è per tutta la vita», e aveva scelto il più costoso. Ancora oggi ricor­dava la solennità della cerimonia, la sua gioia e la sua timi­dezza. Dove erano andati a finire quei sentimenti, quando avevano iniziato a perdere la loro gioia così luminosa, quando era spa­rita per sempre? Aveva ucciso Kenji. All’improvviso un grido silenzioso riempì il cuore di Yayoi. Finalmente si era resa conto della gravità di ciò che aveva commesso. Si alzò con impeto dalla poltrona del soggiorno e corse in camera da letto. Andò di fronte allo specchio, alzò il golfino e si guardò il ventre nu­do, cercando di ritrovare la traccia del motivo che l’aveva in­dotta a uccidere. Ma la macchia blu, il sigillo dell’odio im­presso sul suo corpo, si era lentamente attenuato e ora non c’era più. E tuttavia era per questo che aveva ucciso Kenji. Aveva assassinato l’uomo che aveva scelto per lei l’anello più caro, dicendo che in fondo sarebbe stato per tutta la vita. E non era stata neppure punita. Era giusto? Yayoi si accasciò sul tatami. Dopo un po’ alzò lo sguardo e vide l’immagine di Kenji sull’altarino buddista di fronte a lei. La fotografia era ormai annerita dal fumo dei bastoncini di incenso che i bambini accendevano tutti i giorni per onorarla. Yayoi contemplò il viso sorridente di Kenji – era una foto scattata al campeggio, d’estate – e si infuriò. «E allora, hai qualche reclamo da fare? Forse c’è qualcosa che non va? Dopo che non hai fatto altro che torturarmi! Prendertela con i più deboli, solo questo sapevi fare bene, questo era il tuo vero volto! Mai una volta che ti sia preso cu­ra dei bambini!» borbottò Yayoi asciugandosi le lacrime. L’antica, irrefrenabile collera montò di nuovo in lei e, come l’alta marea che si abbatte sulla riva, in un attimo strappò la delicata piantina del rimorso, appena spuntata, e la ricacciò in mare. «Ammetto che ammazzarti è stato uno sbaglio, ma non credere che per questo ti voglia perdonare!» continuava a ri­petere Yayoi a voce sempre più alta. No, non lo perdonava. Solo perché lo aveva ucciso, non c’era nessun bisogno di per­donarlo. Mai lo avrebbe fatto, fino a quando fosse vissuta! In fondo era stato lui il malvagio, quello che l’aveva ingannata. Aveva mentito e l’aveva tradita: anche se lei era rimasta sem­pre la stessa, lui era diventato un altro, era diventato un mal­vagio. Nessuno, se non Kenji, aveva cancellato la luminosa immagine del giorno in cui avevano scelto l’anello. Yayoi tornò in soggiorno e aprì furiosa la porta della ve­randa che dava sul giardino. Un giardino piccolissimo, in cui erano abbandonati il triciclo, l’altalena dei bambini e altri giocattoli, separato da quello dei vicini da uno scuro muro di cemento. Yayoi si strappò l’anello dal dito e lo gettò il più lontano possibile. Si augurò che cadesse dalla parte dei vici­ni, ma l’anello urtò contro il muro e rimbalzò in un angolo del suo giardino. Nell’attimo in cui lo perse di vista la assalì la sensazione di avere fatto qualcosa da cui non poteva più tornare indietro e provò un rimorso così intenso da attana­gliarle lo stomaco. Yayoi si guardò l’anulare vuoto su cui si posava la luce di mezzogiorno, quasi bianca, di novembre. Contemplò con tristezza l’impronta bianca lasciata dalla fede, che in otto an­ni di matrimonio non si era mai tolta neppure una volta. Ne sentiva la mancanza, tuttavia provava anche un senso di li­berazione. Finalmente aveva detto addio a tutto. Proprio mentre era immersa in questi pensieri suonarono alla porta. Possibile che qualcuno l’avesse vista? Scese a piedi scalzi in giardino e si allungò sulle punte per guardare oltre il por­tone. Fuori aspettava un uomo abbastanza alto e robusto, con i capelli corti, in

giacca e cravatta. Fortunatamente sem­brava non essersi accorto che lei lo stava spiando. Rientrò in fretta in casa e afferrò il ricevitore del citofo­no. Le calze, a cui si era appiccicata un po’ della terra nera e umida del giardino, lasciarono delle impronte sul pavimen­to, ma non se ne preoccupò. «Chi è?» «Mi chiamo Sato, vengo da Shinjuku e conoscevo suo marito». «Sì, cosa vuole?» «Passavo di qui e ho pensato che potevo cogliere l’occa­sione per accendere un bastoncino di incenso per lui…» «Be’, se proprio vuole…» Era un fastidio, ma non poteva rifiutare una visita di condoglianze. Con occhio attento ispe­zionò il soggiorno e la camera da letto dove era collocato l’al­tarino. Soddisfatta andò alla porta. Aprì e l’uomo si inchinò profondamente davanti a lei. «Mi dispiace di averla disturbata così all’improvviso. Le porgo le mie più sentite condoglianze». Aveva una voce profonda, calma e gradevole. Mentre au­tomaticamente ringraziava, per una frazione di secondo la at­traversò una sensazione di disagio. Kenji era morto alla fine di luglio, quattro mesi prima. Ma, poiché le era già capitato che amici o conoscenti la chiamassero sconvolti perché ave­vano appena saputo della cosa, si rasserenò. «La ringrazio per essere venuto». Sato la guardò a lungo in viso, soffermandosi sugli occhi, il naso e la bocca. Non c’era nulla di offensivo in quello sguardo, tuttavia le diede fastidio, perché sembrava che stesse confrontando quello che vedeva con le informazioni che aveva ricevuto. Anche Yayoi esaminò il volto di Sato, chiedendosi dove mai Kenji e quell’uomo potessero essersi conosciuti. Infatti quell’individuo aveva un’aria completamente diversa dalle persone dell’ambiente di Kenji, cioè dai suoi colleghi, che sembravano relativamente onesti e tranquilli. Sato aveva qualcosa di misterioso, come se fosse avvolto in un impene­trabile involucro che gli permetteva di nascondere il suo ve­ro volto. Eppure l’abbigliamento, un completo grigio poco costoso e una cravatta male assortita, era quello tipico dell’impiegato. Come se avesse intuito l’inquietudine di Yayoi, l’uomo annunciò disinvolto le sue intenzioni: «Mi consente di ono­rare il defunto?» «Prego». Yayoi, davanti alla sua delicata insistenza, lo fe­ce entrare in casa. Mentre lo precedeva nello stretto corridoio si domandava con quale espressione lui la seguisse, e si sentì prendere da una paura indefinita. Incominciava a pentirsi di averlo lasciato entrare così facilmente. «È qui. Prego si accomodi». Yayoi lo condusse nella ca­mera da letto in cui c’era l’altarino. Sato si inginocchiò, si trascinò fino all’altare e congiunse le mani. Quando Yayoi diede un’occhiata in camera dalla cucina, dove stava prepa­rando il tè, si accorse stupita che l’uomo non aveva con sé né una busta con l’offerta, né nient’altro. Non che lei fosse così attaccata ai soldi, ma in fondo era consuetudine che chi an­dava a fare le condoglianze portasse un’offerta o un regalo di condoglianze! «La ringrazio molto. Si accomodi prego». Yayoi gli indicò il tavolo del soggiorno, su cui aveva posato le tazzine del tè. Sato prese posto senza fare complimenti e la guardò in fac­cia. Nei suoi occhi non c’era la minima traccia né di cordo­glio per Kenji, né di compassione per lei e neppure di curio­sità per ciò che era accaduto, e questo la rese inquieta. Sato si limitò a ringraziare senza toccare il tè. Lei gli por­se un portacenere, ma lui non tirò fuori le sigarette. Conti­nuava a tenere le mani ferme sulle ginocchia, senza fare mai anche solo il cenno di muoverle. Come se non volesse tocca­re nulla per non lasciare dietro di sé prove della sua visita. Yayoi aveva sempre più paura. Di colpo capì l’esplicita raccomandazione di stare in guardia che le aveva fatto Masako. «Dove ha conosciuto mio marito?» chiese, cercando di sembrare per quanto possibile disinvolta

e di controllare il tremito della voce. «A Shinjuku». «Ma dove esattamente?» «A Kabuki-cho». Yayoi lo guardò spaventata. Sato si accorse della sua pau­ra e sorrise. Tuttavia il sorriso si fermò sulle labbra, gli occhi continuavano a rimanere inespressivi. «Kabuki-cho?» «Ma signora Yamamoto, adesso non faccia così». «Cosa?!» Sconvolta Yayoi perse il controllo. Perché di col­po sentiva di nuovo la voce di Kinugasa, quando le aveva te­lefonato per avvertirla che il padrone della casa da gioco era sparito. Tuttavia continuava debolmente a sperare che tutto ciò non fosse vero. «Che cosa vuole dire?» «Ho avuto una piccola discussione con suo marito, quel­la notte…» Sato si interruppe per spiare la sua reazione. Sembrava che le mancasse il respiro. «Quello che è accaduto in seguito lo sa solo lei. A me ha causato un mucchio di fa­stidi. Mi hanno chiuso i locali, mi hanno rovinato il lavoro. Lei di sicuro non può neanche immaginarselo. Lei sta qui con i suoi bambini, nella sua minuscola, graziosa casetta e continua a vivere felice e beata…» «Cosa dice?! Se ne vada! Fuori da casa mia!» Yayoi fece per alzarsi. «Rimanga seduta!» ordinò Sato a bassa voce e lei rimase ferma, sospesa a metà movimento. «Chiamo la polizia!» «Lo faccia pure, ma non servirà che a fare del male a se stessa». «Che cosa significa?» Yayoi si lasciò di nuovo cadere sulla sedia. «Che cosa vuole dire?» Ormai era in preda al panico. Non era più in grado di pensare chiaramente e voleva solo che quell’uomo orribile sparisse all’istante dalla sua casa. «Si risparmi queste scene, so tutto. È stata lei a uccidere suo marito». «È una menzogna! Ma come si permette…» gridò Yayoi isterica. «Ritiri subito tutto!» «Stia attenta, signora Yamamoto, i vicini potrebbero sen­tire! In questo posto i giardini sono così piccoli. Credo che questa si chiami reazione esagerata dovuta al senso di colpa». «Non so assolutamente di cosa stia parlando!» Yayoi portò le mani tremanti sulle tempie. Il tremito si trasmise al­la piccola testa che incominciò a sussultare. Abbassò le ma­ni. Non sapeva che cosa doveva fare. Ma per il momento le parole di Sato erano riuscite a far­la tacere. Dopo la morte di Kenji aveva sofferto fin troppo per la reazione dei vicini. Sapeva che era solo un complesso di persecuzione, ma continuava ad avere paura di quello che poteva dire la gente. «Di sicuro si sta chiedendo fino a che punto io sappia, si­gnora Yamamoto», rise Sato. Questa volta era una vera risa­ta, una risata di scherno. «Non si preoccupi, so tutto». «Cosa? Non dica assurdità!» Lo guardò impaurita al di so­pra del tavolo. Anche una ingenua e inesperta come Yayoi riusciva a intuire che quel Sato era pericoloso, legato a nien­te e a nessuno, e che doveva avere vissuto orrori e piaceri che lei non poteva neppure immaginare. Non era sicuramente un caso se le loro strade non si erano mai incrociate. L’uomo veniva da un mondo completamente diverso, ed era persino strano che parlassero la stessa lingua. E Kenji aveva avuto il coraggio di mettersi a discutere con uno così… Quasi quasi lo ammirava, quel suo marito morto ammazzato. «Cosa succede, si è incantata?» chiese sarcastico Sato, ve­dendo che aveva lo sguardo perso nel vuoto. «Non dica assurdità…» ripeté Yayoi. Sato portò una ma­no al mento, come se dovesse riflettere. La vista delle sue lun­ghe dita sottili le diede fastidio. «Quella notte suo marito, dopo aver litigato con me, è tornato a casa. E lei, zitta zitta, gli ha tirato il collo, qui nell’ingresso. I figli avevano capito qualcosa, ma lei li ha co­stretti a tenere la bocca chiusa. Il più grande – come si chia­ma – sì, giusto, Takashi…»

«Chi glielo ha detto, come fa a sapere il suo nome!» urlò spaventata Yayoi. «È davvero ingenua come mi hanno detto!» Visibilmente incantato Sato la guardò in viso. «Non è più una ragazza, ma se la ripulissimo un po’ dalle brutture della vita, carina e gra­ziosa com’è sarebbe la primadonna in qualsiasi casa di pia­cere». «La smetta!» Yayoi alzò la voce. Si sentiva come se l’aves­sero toccata con le mani sporche. Le tornò in mente che era stata una ragazza del locale di quell’uomo che le aveva ruba­to il cuore di Kenji. A quel pensiero arrossì di rabbia. «Che cosa succede?» domandò Sato accorgendosi del suo cambiamento. «Le è venuto in mente qualcosa?» «Nel suo locale hanno giocato un brutto tiro a mio ma­rito!» «Per carità», sbuffò Sato. «Lei non ha la minima idea di quello che suo marito faceva là fuori. Non si è mai rotta la graziosa testolina per sapere che cosa gli mancava. E non ha neppure pensato che poteva essere anche per colpa sua. Già, è vero, le casalinghe se la passano bene, è semplice per loro farsi belle della propria virtù». «La smetta!» Yayoi si tappò le orecchie. Sato continuava a vomitare veleno. Un veleno che non conosceva. Il veleno e l’odio del mondo. «Non mi piace ripeterlo, ma se continua a urlare così la sentiranno. Sicuramente lei non vuole essere al centro dell’interesse generale. In fondo deve pensare al futuro dei suoi figli!» «Chi le ha detto il nome di mio figlio?» chiese Yayoi ab­bassando la voce e quasi supplicando, dal momento che si trattava dei bambini. «Non lo ha ancora capito?» Sato atteggiò il viso alla pietà. Allora a Yayoi caddero le bende dagli occhi. «Forse… la signora Morisaki?» chiese, e come vide che Sato rimaneva zit­to, scoppiò a piangere. «Mi ha tradita». «Tradita?» ripeté Sato come se non capisse. «Non ne ave­va certo l’intenzione: era il suo lavoro». Il suo lavoro! Allora era stata tutta una commedia. Ri­cordò che fin dall’inizio Masako non si era fidata di Yoko Morisaki, e lei non le aveva creduto. Era davvero troppo ingenua, pensò Yayoi piena di autocompassione, e si mise a piangere. «Piangere non serve a niente», bisbigliò Sato. «Sì, ma…» «Ma un accidenti! Adesso basta!» urlò all’improvviso, e Yayoi alzò terrorizzata il viso inondato di lacrime. «So anche che hai chiesto alle tue amiche di fare a pezzi tuo marito». Yayoi fissò in silenzio l’anulare sinistro. Quanto era stata ingenua a credere che, gettando l’anello, tutto fosse finito! Questa era la vera fine. La rovina totale. «Sì, non ti resta che vergognarti, troietta!» sogghignò Sato. «Speravi che mi mettessero la corda al collo! Be’, pur­troppo ti è andata male!» «Chiami la polizia, sono pronta a costituirmi». «La donna è davvero troppo ingenua! Non fa che pensa­re a se stessa», sibilò Sato. Con dita abili si allentò il nodo della cravatta, dello stesso colore del vestito. Come paralizza­ta Yayoi fissò il disegno – righe marroni su sfondo grigio, sembrava il dorso di una lucertola – e pensò che adesso, con quella cravatta, l’avrebbe strangolata. Sarebbe morta anche lei proprio come Kenji, con la lingua fuori e la saliva che co­lava agli angoli della bocca. Incapace di sopportare quell’i­dea, chiuse gli occhi e si mise a tremare. «Signora Yamamoto!» Sato, alzatosi da tavola, era accan­to a lei. Yayoi non rispose e si rannicchiò ancora di più su se stessa. «Signora Yamamoto!» la chiamò di nuovo Sato. «Che c’è?» Yayoi alzò atterrita la testa. Sato, guardando l’orologio da polso, rispose: «Se non ci sbrighiamo la banca chiuderà».

Yayoi si girò verso di lui: «Come… che cosa?» Finalmen­te aveva capito che cosa aveva in mente e rimase stupefatta. «Non vorrà mica quel denaro?» «Esatto». «No, questo no, è impossibile! Come potrò sopravvivere con la mia famiglia?» «Questo non mi interessa, il denaro spetta a me!» «No!» «Che cosa blateri?! Vuoi forse che ti spezzi il collo?» do­mandò Sato con voce vellutata, afferrandole con forza la nu­ca e stringendo le mani intorno al collo sottile di Yayoi. Le sue lunghe dita arrivavano fino a premerle la carotide. Yayoi non riusciva a muoversi, come un gattino sollevato per la collottola. Piangendo supplicò: «La smetta, per favore, mi lasci andare!» «Paghi o devo torcerti il collo?» «Pago, sì, pago!» Yayoi, paralizzata dalla paura, si fece la pipì addosso. «Adesso devi chiamare la banca e dire che tuo padre è morto improvvisamente e devi tornare nella tua città, per cui ti servono i soldi. Che passi subito a prenderli, tutti, con tuo fratello, e che te li preparino insieme a tutti i documenti ne­cessari». «S… sì», balbettò e telefonò alla banca. Per tutta la dura­ta della conversazione Sato continuò a tenerle le dita intorno al collo. Finalmente Sato la lasciò andare: «Bene, adesso va a cam­biarti!» Gemendo per il dolore, lei chiese: «Cambiarmi?» «Così come sei, nessuno in banca si berrà la storia!» re­plicò Sato guardando con disprezzo il golfino rattoppato e la vecchia gonna sformata. «Al massimo possono pensare che vuoi un prestito!» Sato la prese per un braccio e la strappò dalla sedia. «Ma che cosa…» Yayoi tremava come una foglia. Quan­do vide le macchie di pipì sulla gonna, perse ogni residuo di orgoglio e di superbia, persino la paura, e incominciò a comportarsi come un automa. «Svelta, apri l’armadio!» Yayoi trottò dietro di lui in camera da letto e aprì obbe­diente il brutto armadio di compensato da pochi soldi. «Tira fuori qualcosa!» «Cosa devo mettermi?» «Un tailleur o un vestito, qualcosa di elegante. Più è for­male, meglio è!» «Ma io non ho niente del genere, mi dispiace. Non ho ve­stiti così eleganti», si scusò Yayoi piangendo. Quell’uomo or­rendo era capitato all’improvviso a casa sua, l’aveva minac­ciata e adesso lei doveva anche mostrargli il contenuto del suo armadio e scusarsi perché non aveva niente di adatto da mettersi! Era talmente deprimente che non riusciva più a smettere di piangere. «Una vera miseria!» commentò Sato beffardo e si mise a esaminare di malumore l’armadio in cui erano appesi quasi esclusivamente vestiti e cappotti di Kenji. «Ma che cosa ab­biamo qui, un vero vestito da lutto!» «Devo mettermi quello?» Yayoi prese il vestito estivo, an­cora protetto dal sacco della lavanderia. Era il tailleur nero indossato durante la veglia di Kenji. Glielo aveva comprato sua madre quando si era resa conto che lei non aveva assolu­tamente niente di adatto all’occasione. Per la cerimonia fu­nebre, invece, si era fatta prestare un kimono. «Proprio quello che ci voleva! Se ti presenti vestita a lut­to avranno compassione e non faranno storie». «Ma è estivo». «Non me ne potrebbe fregare di meno!» la apostrofò Sato urlando, e Yayoi, per difesa, si strinse nelle spalle.

Una mezz’ora più tardi Yayoi, con indosso il leggero tail­leur nero, e Sato vennero invitati ad accomodarsi in una sa­letta della filiale della banca di fronte alla stazione di Ta­chikawa. «Davvero vuole ritirare tutto, cinquanta milioni di yen?» Li aveva ricevuti il direttore in persona, e ora cercava in tut­ti i modi di farle cambiare idea. Yayoi, senza dire una parola, continuò a fissare la moquette ai suoi piedi e ad annuire con la testa. Sato le aveva ordinato di tenere la bocca chiusa e di limitarsi a fare dei cenni. «Capisce, la disgrazia è stata così improvvisa e abbiamo bisogno dei soldi», spiegò Sato, che si era presentato come il fratello maggiore, in tono che non ammetteva repliche. La banca non poteva opporsi. I funzionari, nel vano tentativo di trovare qualcosa per fargli cambiare idea, si scambiavano sguardi disorientati. «Per motivi di sicurezza sarebbe meglio se facessimo un bonifico su un altro conto». «Non è necessario. Mi incarico io di scortarla». «Se è così, come volete». Il direttore, rassegnato, si rivol­se con un sospiro a Yayoi che se ne stava rigidamente seduta in silenzio, fuori di sé per quanto le era capitato. Era dispe­rata. Infine anche lei fece un profondo sospiro, e il direttore e i funzionari abbassarono pietosi lo sguardo. Evidentemen­te lo avevano scambiato per un’espressione di dolore per l’improvvisa scomparsa del padre. Infine arrivò un impiega­to e depose sul tavolo i cinquanta milioni in contanti. «Prego, controllate». Senza fare complimenti, Sato riempì con le mazzette la busta preparata dalla banca, che infilò nella borsa nera di ny­lon che aveva portato con sé. «Grazie», disse poi, prese Yayoi per un braccio e si alzò. Lei era ormai senza volontà, come un robot, il corpo completamente senza forze. Come se le gambe non la reggessero, Sato la sosteneva da dietro con una presa di ferro. «Cosa ti succede, Yayoi? Devi farti forza, tra un po’ inco­mincia la veglia!» Una splendida recitazione! Yayoi incespicava dietro di lui, che la trascinava senza lasciarle andare il braccio. Infine usci­rono dall’edificio. Sato la allontanò con una spinta. Lei bar­collò ma riuscì ad afferrarsi al parapetto del marciapiede. Sa­to, senza preoccuparsi, chiamò un taxi e, prima di salire, si girò ancora una volta verso di lei: «Hai capito, vero?» «Sì», annuì docilmente Yayoi. Il suo sguardo seguì con sollievo il taxi che si allontanava con Sato e i suoi cinquanta milioni di yen. Un inatteso regalo di Kenji. Un breve, effi­mero sogno. Il denaro che le sarebbe servito per sopravvive­re. Tutto dissolto. Ma, al di là del fatto che adesso poteva dire addio ai sol­di, lo shock più grande per Yayoi era stato proprio l’avere avuto a che fare con un uomo spaventoso come quello. Era viva per miracolo! Un po’ alla volta incominciava a sentirsi sollevata. Quando Sato le aveva messo le mani intorno al col­lo, era stata assolutamente sicura che l’avrebbe uccisa. Yayoi, stordita, guardò l’orologio della stazione. Si senti­va senza forze, non le era rimasta la benché minima scintilla di energia. Erano le due e mezzo del pomeriggio. Aveva fred­do, e non aveva portato neppure un soprabito. Stringendosi attorno al corpo le braccia coperte soltanto dal sottile tessu­to del vestito da lutto, decise di non raccontare niente a Ma­sako. Non sarebbe stato difficile, dal momento che dopo l’ultimo litigio aveva praticamente rotto con lei. Ma adesso dove andare, che cosa fare, senza soldi, senza lavoro, senza le altre? Yayoi, che aveva perso qualsiasi punto di riferimento, non riusciva a trovare risposte, e continuò a vagare disorientata e senza meta intorno alla stazione di Ta­chikawa. A un certo punto si rese conto che l’ago della bussola del­la sua vita era Kenji. Proprio Kenji, che lei aveva ucciso con le sue mani. La sua salute, il suo umore, il suo denaro, tutto girava solo intorno a suo marito, e lei dipendeva da lui, per la vita e per la morte. A Yayoi venne quasi da ridere. Takashi, che aveva giocato in giardino fino al tramonto, rientrò in casa e porse qualcosa a Yayoi

che sedeva depressa. «Guarda, mamma, cosa hai perso!» Era la fede che aveva buttato via. Era ammaccata in un paio di punti, ma non si era deformata. «Sono stato bravo a trovarla, vero, mamma, è una cosa di valore!» «Sì, che bello!» Yayoi si infilò la fede all’anulare destro. Aderiva perfettamente all’impronta che aveva lasciato. «Per te la storia non avrà mai fine, dovrai stare all’erta fi­no alla morte». Le parole di Masako le risuonavano nelle orecchie. Vero, era proprio così. Non era ancora finita e non sarebbe finita mai, fino alla morte. Takashi, vedendo le lacrime negli occhi di Yayoi, la guardò soddisfatto e orgoglioso: «Sei contenta di avere di nuovo l’anello, mamma? Sono stato bravo a trovartelo!»

2. Masako era talmente irrigidita che le sembrava di non riu­scire più a muoversi. No, era soltanto la sua coscienza che non funzionava più, le sue capacità di movimento erano inalterate. Con le manovre perfette di sempre, posteggiò la Corolla obliquamente nello spazio a lei riservato. Anzi, andò ancora più liscia del solito. Ma dopo che ebbe spento il mo­tore e tirato il freno a mano, dovette chinarsi in avanti per controllare il respiro. Si proibì di guardare di lato. Infatti nel­lo spazio accanto era posteggiata la Golf verde di Kuniko. Nello stabilimento soltanto lei e Yoshie sapevano che Ku­niko era morta. Eppure la sua auto era posteggiata lì, all’ora consueta, come se Kuniko fosse andata al lavoro. E oltretut­to nello spazio a lei riservato. Era la prima volta dopo giorni: dunque l’auto era stata usata fino ad allora da Satake o da qualcuno che aveva a che fare con la sua morte. Non poteva esserci che uno scopo. Dal momento che Yoshie posteggiava altrove la sua bicicletta, lo scopo poteva essere solo quello di terrorizzare Masako. Satake era vicino. Che fosse meglio piantare lì tutto e svi­gnarsela? Il panico stringeva il cuore di Masako in una mor­sa di ferro. Indugiò per qualche minuto prima di decidersi ad abbandonare la sicurezza dell’auto e ad affrontare il buio del posteggio. Quella notte il luogo era relativamente animato. All’in­gresso erano fermi due grandi camion bianchi che trasporta­vano le colazioni ai supermercati. I due autisti – che per esi­genze di igiene indossavano un grembiule bianco e una ma­schera, proprio come gli operai dello stabilimento – erano fermi davanti alla guardiola e chiacchieravano animatamen­te con il sorvegliante fumando una sigaretta. Le allegre risa­te degli uomini giungevano a intervalli fino a Masako. Si fece coraggio, uscì dall’auto e fece un giro intorno alla Golf di Kuniko. Era posteggiata nel solito modo trasandato, come faceva sempre Kuniko, un po’ troppo a destra, con le ruote anteriori di traverso. Per un attimo ebbe l’illusione che Kuniko fosse ancora viva e l’aspettasse nel salone dello stabi­limento. Eppure le aveva tagliato la testa con le sue mani. Come per convincersi di questo fatto inconfutabile, Masako abbassò gli occhi sulle mani e subito, vergognandosi della propria debolezza, sollevò lo sguardo. Dunque quell’indivi­duo aveva osservato Kuniko anche in quei piccoli particola­ri? Se era così, probabilmente adesso, nascosto da qualche parte, stava spiando anche lei. Mano a mano che si rendeva conto della capacità di osservazione e della determinazione di quel Satake, sentiva il sangue gelarsi nelle vene. Questa volta era il corpo che si rifiutava di rispondere: irrigidita dal terrore non riusciva più a muovere le gambe. Irritata con se stessa, Masako digrignò i denti. In quel momento il sorve­gliante interruppe per un attimo la conversazione, sollevò la testa nella sua direzione e si profuse in un saluto esagerato. Sembrava che volesse prendersi gioco di lei, dal momento che la volta precedente aveva rifiutato la sua scorta. «Le auguro una serata stupenda!» Quelle parole sortirono in lei l’effetto di un lubrificante, e finalmente riuscì a muovere le gambe. Si avvicinò decisa al gruppo degli uomini e chiese al sorvegliante: «Mi può dire chi è arrivato con quell’auto?» «Quale?» rispose lui tranquillo. «Quella Golf verde», disse Masako con voce rauca. «Guardiamo un po’…» L’uomo entrò nella guardiola, prese un registro con le targhe delle auto e lesse facendosi lu­ce con la torcia elettrica: «C’è scritto Kuniko Jonouchi. La­vora al primo turno, cioè…» Questo lo sapeva. Masako, impaziente, lo interruppe: «Non c’è scritto che si è licenziata?» «Ah, ha ragione. C’è scritto “licenziata”. Sei giorni fa, strano». Il sorvegliante socchiuse gli occhi e rilesse l’annota­zione, come per assicurarsi. Poi si mise una mano sulla fron­te e guardò verso la Golf: «Proprio strano. La macchina è lì, non c’è dubbio. Forse aveva ancora qualcosa da fare…»

«Da quante ore è posteggiata?» «Chissà…» Il sorvegliante e gli autisti si guardarono in faccia. «Non l’ho ricevuta io. Il mio turno inizia alle sette di sera». «Non era qui già ieri sera?» chiese uno dei due autisti fis­sandosi la mascherina che aveva tirato giù fino al mento per fumare. «No, non c’era». «Be’, se lo dice lei…» replicò l’autista un po’ irritato dal­la pronta risposta di Masako. «Già, mi dispiace». Erano passati soltanto tre giorni da quando avevano fat­to a pezzi Kuniko. I nervi di Masako erano scoperti come il letto di un’unghia strappata, dolorante al soffio più leggero. Cercò di controllare il terrore che la faceva vacillare e provò ad accettare la verità ormai evidente. Tuttavia l’orrore di quell’evento le sconvolgeva il cervello, impedendole di di­stinguere tra sogno e realtà. Di colpo si chiuse nel silenzio e allora l’altro autista le do­mandò: «Perché le interessa così tanto?» Masako tornò in sé: «Mi domando solo che cosa faccia qui, adesso che ha smesso di lavorare. Davvero non ha visto chi era al volante?» «No. Non ci ho fatto caso, non so neppure da quando sia posteggiata qui, non posso mica indovinarlo», rispose infa­stidito il sorvegliante, continuando a sfogliare il registro. «Va bene, grazie», disse Masako e si incamminò sul sen­tiero buio, in direzione dello stabilimento. Poi avvertì la pressione di una mano sulla spalla. Una grande mano calda. «Non è meglio che l’accompagni questa sera?» Il sorvegliante era fermo dietro di lei. Masako guardò il nome sulla targhetta: c’era scritto Sato. «Ah…» «Ha una brutta cera». Masako era troppo turbata per rispondere. In realtà avrebbe voluto che l’uomo l’accompagnasse, ma allo stesso tempo voleva anche proseguire da sola, per poter riflettere. Il sorvegliante rise: «Pensavo solo che l’altra volta si è ri­fiutata di farsi accompagnare. Ho detto forse qualcosa che non va?» «No. Allora va bene, mi accompagni pure fino a metà strada». Il sorvegliante prese in mano la torcia elettrica appesa al collo, l’accese e andò avanti. Masako si girò ancora una volta verso il posteggio, si ac­certò che la Golf di Kuniko fosse ancora al suo posto e lo se­guì. Il sorvegliante camminava a passi veloci ed era già alcu­ni metri davanti a lei. «Oggi si direbbe che non stia bene. È tutto a posto?» Erano arrivati nel punto più buio del percorso. Sulla de­stra non c’erano più case abitate e tutto, la strada e gli edifi­ci lì intorno, era inghiottito dall’oscurità. In cielo si distingueva solo la debole luce di due stelle solitarie. Il sorveglian­te si fermò. Nel luminoso cerchio giallo della torcia vide le robuste scarpe nere che calzava. «Sì». Anche Masako rallentò il passo. Cercò di guardare in faccia il sorvegliante, ma aveva il berretto calcato sulla fronte e non si riusciva a vedere niente. «La proprietaria della Golf è una sua amica?» «Sì». «Perché mai si è licenziata?» Aveva una voce profonda e piacevole. Senza rispondere, Masako gli passò accanto e andò avanti. Non voleva parlare di Kuniko. Nel momento in cui lo sta