Le periferie del mondo. Esperienze metropolitane a confronto: Lima, Parigi, Mumbai, Beirut, Buenos Aires, Los Angeles, Milano 9788883511226 [PDF]


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Italian Pages 144 Year 2009

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Table of contents :
La sfida urbana in Africa......Page 90
Dimensioni della crisi urbana in Africa......Page 91
Crescente squilibrio fra città e campagne......Page 92
Ruralizzazione delle città e informalizzazione dell’economia urbana......Page 95
Infrastrutture e servizi di base deficitari......Page 96
Diminuzione del gettito fiscale municipale......Page 100
Conclusione......Page 102
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Le periferie del mondo. Esperienze metropolitane a confronto: Lima, Parigi, Mumbai, Beirut, Buenos Aires, Los Angeles, Milano
 9788883511226 [PDF]

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AA.VV.

LE PERIFERIE DEL MONDO Esperienze metropolitane a confronto Lima, Parigi, Mumbai, Beirut, Buenos Aires, Los Angeles, Milano a cura di Marco Pitzen Saggi di Marco Pitzen, Sonia Paone, Michel Lahoud

Betty Gilmore, Michel Azcueta, Ruben H. Oliva, Daniela Bezzi Fantu Cheru, Judith Revel, Alda Merini

Edizioni Punto Rosso Collana Libri/FMA

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Finito di stampare nel luglio 2009 presso Digital Print, Segrate, Milano

EDIZIONI PUNTO ROSSO Via G. Pepe 14 – 20159 Milano Telefoni e fax 02/874324 e 02/875045 [email protected]; www.puntorosso.it Redazione delle Edizioni Punto Rosso: Nunzia Augeri, Alessandra Balena, Eleonora Bonaccorsi, Laura Cantelmo, Loris Caruso, Serena Daniele, Cinzia Galimberti, Dilva Giannelli, Roberto Mapelli, Francesca Moretti, Stefano Nutini, Giorgio Riolo, Roberta Riolo, Nelly Rios Rios, Erica Rodari, Pietro Senigaglia, Domenico Scoglio, Franca Venesia.

L’immagine di copertina è di Roberto Cetara La foto in quarta di copertina è di Duilio Piaggesi

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INDICE Introduzione: La crisi delle periferie globalizzate di Marco Pitzen

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Periferia e città di Sonia Paone

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Beirut: una periferia in guerra di Michel Lahoud

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Los Angeles: 1965 la sommossa di Watts, io c’ero di Betty Gilmore

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Lima: Villa El Salvador: una esperienza esemplare di Michel Azcueta

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Buenos Aires: provate ad entrare se avete coraggio di Ruben H. Oliva

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Mumbai: il centro sotto assedio, l’avanzata delle periferie di Daniela Bezzi

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Mondializzazione e urbanizzazione diseguale in Africa di Fantu Cheru

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Parigi: le banlieues in lotta di Judith Revel

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Milano: Quarto Oggiaro, una periferia globale di Marco Pitzen

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Periferie di Milano di Alda Merini

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Gli autori

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Ringraziamenti Si ringraziano principalmente le tre organizzazioni promotrici del convegno internazionale “Le periferie del mondo” svoltosi a Milano l’8 di ottobre del 2008 da cui ha preso spunto questo libro: Cittadini dal Mondo, con la sua portavoce Ainom Maricos (storica paladina dei diritti dei migranti in Italia), Todas las sangres, con la sua responsabile Nelly Rios Rios (infaticabile organizzatrice dell’evento) e Punto Rosso, con il suo presidente Giorgio Riolo (che ha creduto e sostenuto fin dall’inizio, rendendolo possibile, questo lavoro). Indispensabile e prezioso è stato il finanziamento al progetto ottenuto dalla Provincia di Milano attraverso l’assessore alla scuola ed all’educazione Sandro Barzaghi (protagonista delle lotte per il diritto alla casa degli anni settanta di cui si narra nel saggio su Quarto Oggiaro). Un grazie particolare a Federico Mininni per la collaborazione grafica. Importantissima è stata la collaborazione di Marisa Milesi e Sabrina Banfi per la stesura del capito riguardante i servizi sociali a Milano, nonché quella di Ermanno Ronda e Pierluigi Rancati per le riflessioni sulla crisi e sulle sue ripercussioni nelle periferie. Infine questo libro non si sarebbe potuto scrivere senza le esperienze, le lotte, le battaglie quotidiane di Celia, Silvia, Lihuo, Celmira, Maria Teresa, Saba, Sarha, Rai, Betty, Amina, Katy, Jula, Yasmine, Mereth, ... donne migranti resistenti delle periferie milanesi e con loro tutte le donne delle periferie del mondo.

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Introduzione La crisi delle periferie globalizzate di Marco Pitzen Le periferie contemporanee si modellano per effetto della divisione capitalistica del lavoro, che si afferma all’epoca della globalizzazione e sono i luoghi in cui si sviluppa un nuovo proletariato globale. Territori con un concentrato disomogeneo di crescente povertà intorno a centri urbani smisuratamente privilegiati dove la rendita fondiaria assume valori elevatissimi. Fortezze assediate da un esercito industriale di riserva ormai perennemente escluso dal sistema produttivo. La disgregazione sociale che produce il lavoro informale e precario genera a sua volta isolamento ed emarginazione per una infinità di persone che vive nelle metropoli del ventunesimo secolo che passivamente accettano condizioni di vita degradate. L’indifferenza, ecco ciò che succede, il male che si abbatte su di tutti (Gramsci, Sotto la Mole). Anche se non si possono dare definizioni univoche su scala planetaria, come diceva Freud alla base di ogni memoria c’è sempre un grido di dolore così come tutte le periferie del mondo si sono originariamente popolate di donne e uomini migrati di altri luoghi che per migliorare le proprie condizioni di vita a volte solo per sopravvivere sono costretti ad una perenne lotta per ridurre gli svantaggi di una collocazione penalizzante. Dall’inferno degli slum africani agli insediamenti informali latino americani, da Nairobi a Lima ci arrivano echi di un sistema economico dominante ingiusto e violento. Così come da New Delhi a Mumbai le periferie sono le trame di un tessuto di sconfinata miseria che si rigenera e si amplia di ora in ora con fenomeni di degrado inauditi. Oppure le periferie in stato di guerra da Bagdad a Beirut dove il sangue dei suoi abitanti si mescola con il cemento della speculazione edilizia. 5

Da Lima a Buenos Aires, dai pueblos jovenes alle villas miseria, città nelle città in cui la resistenza alla repressione delle istituzioni ed allo sfruttamento informale è battaglia a bassa intensità quotidiana. Ma anche le banlieues parigine con le loro ribellioni all’emarginazione ed all’esclusione sono territori di povertà sempre più tagliati fuori da un centro di benessere seppur in crisi. Dove le rivolte non sono solo una questione di insofferenza per il degrado ma animate da un forte rancore di classe. Questo è l’itinerario di un viaggio dove vengono descritte alcune esperienze di vita e di lotta nelle periferie urbane di quattro continenti, partendo da Quarto Oggiaro a Milano, uno dei quartieri problematici più conosciuto d’Italia. La lotta del comitato degli occupanti abusivi contro gli sgomberi indiscriminati ci aiuta a comprendere una realtà di esclusione sociale, di politiche pubbliche incapaci di contenere un disagio abitativo drammatico oltre che vessatorie nei confronti degli inquilini (con aumenti degli affitti sproporzionati rispetto alle condizioni economiche reali degli abitanti ). Una lettura fatta dalla parte dei soggetti più deboli che in quel frangente si sono ribellati non solo alla perdita della propria casa ma hanno sperimentato forme di organizzazione e difesa per smarcarsi dall’isolamento, dalla stigmatizzazione dell’opinione pubblica aizzata dai mezzi di comunicazione asserviti ad un potere locale che usa la periferia come banco di prova per le politiche repressiva e di controllo sociale. Dove l’osservanza delle regole ed il rispetto dei doveri sono pre-condizioni per accedere ai diritti primari tra i quali avere una casa. Non importa se in città ci sono migliaia di alloggi sfitti, se i tempi di attesa per avere una casa popolare sono di anni e anni, che un affitto privato equivale all’intero stipendio e più di un salariato. A nulla vale sapere che le politiche abitative sono palesemente punitive per il ceto popolare e la dove non lo impoveriscono fino allo stremo gli negano direttamente il diritto alla casa. Se sei povero, sei una ragazza madre, un lavoratore migrante, un precario, un disoccupato e non hai una 6

casa ti devi mettere in fila ad aspettare. Magari in una comunità, in un dormitorio, affittando un posto letto, in sovraffollamento, in coabitazione, in promiscuità. Una umanità sofferente in coda senza speranza e senza futuro. Infrangere l’ineluttabilità di questo destino equivale ad un atto rivoluzionario inconscio che esce dalla sfera del soddisfacimento illegale di un bisogno solo quando la resistenza si fa collettiva e organizzata e si assume una coscienza della propria condizione di subordinazione. La lotta degli occupanti di Quarto Oggiaro è anche una lente che permette di vedere uno spaccato di periferia globalizzata: dal problematico, a volte estremo, intervento dei servizi sociali, reso sempre più difficile a causa del taglio delle spese di welfare, alla penalizzazione scolastica fino alle temibili e radicate infiltrazioni mafiose. Un ex quartiere operaio sorto negli anni sessanta per far fronte alle ondate migratorie provocate dall’industrializzazione del boom economico con indici attuali elevatissimi di disoccupazione, popolato ormai nella maggioranza da lavoratori precari e pensionati. Un esempio di criticità sociale da far risalire anche ad una crisi della periferia come modello spaziale con annessi problemi specifici di convivenza dovuti ad un mancato decentramento dei fattori di qualità urbana. Ma la precarietà e la povertà dei suoi abitanti deve essere la chiave di lettura per conoscere il presente, per comprendere le politiche penalizzanti per individuare delle strategie rivendicative adeguate. Da i dati disponibili dell’ultimo censimento fatto nelle case popolari a Quarto Oggiaro risulta infatti che oltre la metà delle famiglie è collocato nelle prime tre fasce di reddito per calcolare l’affitto perciò con importi annui spesso al di sotto della soglia di povertà. Eppure dalle ultime indagini effettuate in quartiere uno dei problemi più sentiti è quello della sicurezza e non certo riferita al timore della presenza ben radicata della N’drangheta, ma legata alla paura di un mancato ordine patinato da vuoto e asettico centro 7

cittadino come a voler sfuggire ad un luogo privo di immagine e d’identità ed a reagire così ad una accerchiante emarginazione sociale. Il tema della sicurezza, dato che a Quarto Oggiaro non vi sono picchi di delinquenza comune diversi dalle altre zone cittadine, diventa così un assillo imposto dalla classe dominante per sviare qualsiasi ragionamento impostato sul miglioramento delle reali condizioni economiche e di vita. Ogni rivendicazione indirizzata in questo senso spesso si disperde nella disillusione, nella frammentazione sociale e si infrange contro il muro dei messaggi veicolati dai mezzi di informazione ben controllati dal potere economico arroccato nel centro della città. Quasi ci si volesse collegare idealmente a dei valori preconfezionati e dominanti che fanno percepire sproporzionati livelli emergenziali di criminalità che portano spesso a derive fascistizzanti e razziste. La sindrome dell’isolamento sociale dato dalla povertà, dalla mancanza di una prospettiva di occupazione stabile e dalla squilibrata scolarizzazione produce insofferenza ma non reazione verso le cause reali di questo malessere. Le ricette per un futuro migliore che vengono propinate non propongono certo equità e giustizia sociale, ma ordine e disciplina; tutti devono rimanere in coda nella speranza di poter partecipare prima o poi al banchetto del benessere. Si può solo sgomitare o prendersela con il vicino meglio se ha qualche diritto negato in più del proprio. Una umanità dolente deve avere sempre un “altro” sul quale scaricare le frustrazioni di una vita inutile secondo i canoni dominanti. L’impossibilità poi di coniugare in questo contesto welfare e sussidiarietà porta al fallimento il modello di istituzionalizzazione del primato della politica delle privatizzazioni ed esternalizzazioni dei servizi che in questi anni nei fatti ha aumentato le disuguaglianze di opportunità. In questa periferia milanese del ricco nord Italia si possono ritrovare molte caratteristiche che permettono un analisi generale delle 8

periferie del mondo globalizzato in crisi. Certo ognuna delle periferie che tratta questo lavoro ha una sua specificità ma lo sforzo che si è voluto fare è quello di seguire un filo rosso, a volte appena percettibile, che ci trasmettesse una conoscenza di un azione rivendicativa, di un semplice atto di resistenza, di una esperienza di partecipazione e di organizzazione, fino ad arrivare ad un impresa come quella raccontata dal sindaco Michel Azcueta di Villa el Salvador in Perù che ha portato l’acqua nel deserto per quattrocentomila persone. Così come il ricordo di Michel Lahoud di una esemplare convivenza multiconfessionale nei rioni periferici di Beirut in Libano prima della guerra civile che ha dilaniato il paese per oltre quarant’anni facendolo diventare teatro di uno scontro di interessi militari e politici non solo dell’area medio orientale, ma internazionali, travolgendo la popolazione locale in una contrapposizione intercomunitaria per secoli estranea alla propria tradizione multiculturale. L’importante contributo di Fantu Cheru ci introduce, invece, alla scoperta delle bidonvilles africane, da Lusaka ad Addis-Abeba, dove milioni di poveri sono esposti quotidianamente a malattie mortali. Le ondate di epidemie, che si potrebbero facilmente prevenire, sono la manifestazione più drammatica della crisi urbana in Africa dovuta all’accesso molto limitato della popolazione più sfavorita all’acqua ed ai sistemi sanitari di base. Vengono descritte ancora le forti disparità, ma anche i profondi legami, tra il mondo urbano e rurale e la pratica diffusa dell’agricoltura urbana. Si è cercato inoltre di ritessere un rapporto con la storia con il contributo di Sonia Paone che spazia dalla “chora” greca alla periferia dell’epoca fordista fino ad arrivare alla crisi della periferie globalizzate, passando attraverso una rilettura di alcuni passaggi storici, illuminanti per la comprensione dell’attualità. Mentre Betty Gilmore ci accompagna con il suo ricordo di ragazzina alla famosa sommossa di Watts a Los Angeles nel 1965 dove un ghetto nero si rivolta al dominio ed alla repressione razzista 9

del potere bianco. Per tentare di comprendere nel sistema capitalistico sviluppato quale funzione hanno le periferie urbane, esaurito il periodo fordista dove il lavoro era il veicolo di inclusione sociale, quale destino attende i disoccupati deprivati anche del valore (della funzione) di esercito industriale di riserva. Questo immenso serbatoio umano che degrada dalla povertà alla miseria, in continua crescita demografica dove per la prima volta nella storia umana la popolazione urbana supera la popolazione rurale. Questi anni di liberismo sfrenato ci hanno lasciato in eredità una accentuazione della concentrazione della ricchezza ed un consumo dissennato del suolo e dei beni comuni indispensabili alla sopravvivenza di tutti. La privatizzazione e le speculazioni finanziarie hanno creato un baratro tra la povertà dei quartieri periferici e il centro delle città globali degli oligopoli economici e la crisi attuale rende questa frattura sempre più insanabile. Ma in questa crisi che è anche “semplicemente” di sovrapproduzione le periferie tendono a sommergere le città come l’immondizia tecnologica fa estinguere Leonia, la “città invisibile” di Calvino. Anche se, come si è ribadito, non si possono dare significati univoci a livello planetario, in alcune periferie da Buenos Aires a San Paolo come da Los Angeles a Napoli è evidente che vi è una falla nel monopolio della forza da parte dei governi nazionali con una differente efficacia di controllo del territorio dove milioni di persone vivono al di fuori della sovranità statale. Proprio da Buenos Aires Ruben H. Oliva ci racconta delle villas miseria come centri di illegalità dove con la complicità delle forze dell’ordine si è sviluppata una economia informale gestita con un dominio paramilitare sul territorio che prospera nel terrore. E di una borghesia argentina arroccata e intimorita che si è costruita sulle acque conquistate al fiume il quartiere più esclusivo della città mentre nelle baraccopoli in continua espansione ovunque si vive nel degrado. Non è semplicemente una esclusione dallo spazio fisico della città 10

ma una composizione organica degli interessi economici urbani. Paradossalmente là dove la commistione di interessi è più intensa la classe dominante collusa ricerca un isolamento fortificato creando delle vere e proprie enclave nelle stesse periferie, aumentando l’isolamento sociale e sostenendo forme di repressione sempre più tecnologiche. Il benessere urbano concentrato in enclave anche nelle stesse periferie ed a volte, nella ricerca della agognata sicurezza, sempre più lontano dallo stesso centro cittadino come ci spiega Daniela Bezzi descrivendo il perenne inseguimento dei ceti emarginati e degli indispensabili insediamenti informali di Mumbai verso i nuovi centri di ricchezza. Le città indiane si rimodellano formando infinite periferie, vengono ridefiniti scompostamente i confini urbani anche se il centro urbano continua ad attrarre in forma irregolare e patologica chi vive nelle periferie. Ma l’affannosa ricerca della massimizzazione dei profitti che nei momenti di sviluppo, aldilà dei provvedimenti politici e finanziari congiunturali (o anche attraverso essi), produce una forte ideologia coagulante, un pensiero unico, nei momenti di crisi non riscopre da se una forma di economia sociale di mercato. Il “mercatismo” , la formula del mercato che regola tutto, mette alla luce che la crisi è connaturata all’anarchia della produzione di sistema dove tutti i produttori vogliono incrementare a qualsiasi costo il loro saggio di profitto. Ed il costo è stato l’accelerazione dell’impoverimento di una quota sempre più ampia della popolazione mondiale, dove una parte è stata spogliata dei propri mezzi di sostentamento nelle campagne provocando a sua volta un iper - popolamento delle periferie urbane con il superamento del miliardo di residenti negli slum. Ciò è potuto accadere così velocemente anche grazie alle nuove tecnologie che hanno permesso nuovi strumenti finanziari altamente speculativi che hanno inciso sul prezzo dei beni di prima necessità. 11

Di conseguenza una fetta, progressivamente più ampia di popolazione, è costretta a congestionare le periferie urbane combattendo tra miseria crescente ed emarginazione poiché con i nuovi mezzi e modi di produzione viene esclusa definitivamente dal mondo del lavoro. La limitazione al consumo delle grandi masse si pone però in contrasto con l’esigenza, come diceva Marx, di avere più consumatori. (Il Capitale libro III°, cap. 30) Il sovraccarico dei mercati e la debolezza del potere d’acquisto dei consumatori porta al ristagno nelle vendite ed al crollo del profitto dei produttori. La crisi del sistema la cui ragione ultima è la povertà pone certo una riflessione di come le periferie del mondo dove ora sono compresse miliardi di persone potranno reagire e produrre una conflittualità sufficiente a sovvertire il proprio destino da cimitero dell’esercito industriale di riserva. Le forme di organizzazione antagoniste a questo sistema dovranno partire sicuramente dal locale, dai quartieri popolari, ognuno con le proprie caratteristiche e peculiarità, ma dovranno avere le capacità di connettersi e collegarsi con rapidità alle esperienze di lotta e di rivendicazione cittadine, nazionali e internazionali. Nella sfida interna alla città globale questo doveva diventare un modello di difesa del ceto subordinato una prassi indispensabile per uscire dall’isolamento, sicuramente ciò accaduto molto parzialmente e con un livello assolutamente insufficiente di comunicazione. Non vanno sottovalutate e anzi devono essere rivalutate le esperienze dei comitati, associazioni, sindacati per favorire la partecipazione dei cittadini nei processi di ristrutturazione urbana usando i limitati strumenti che sporadicamente vengono strappati allo strapotere della rendita immobiliare (contratti di quartiere in Italia e altri progetti di risanamento dei quartieri popolari nell’Europa Occidentale) Nell’attuale fase di crisi della globalizzazione le periferie divente12

ranno inevitabilmente il centro dello scontro di interessi non più compatibili dove le forme di controllo e di repressione sostituiranno le residuali politiche di welfare caritatevole. Le rivolte di qualche anno fa delle banlieues parigine descritte e vissute da Judith Revel non potevano che essere interpretate come i prodromi di un collasso delle periferie occidentali. La preoccupazione delle istituzioni si è orientata al semplice fattore di ordine pubblico, gli interventi e gli investimenti sono stati insignificanti mentre le condizioni di vita dei quartieri critici francesi restano allarmanti con tassi di disoccupazione stratosferici rispetto a quelli del resto del paese; mentre il lavoro precario e il parcheggio scolastico rimangono sedativi blandi per la rabbia che cova. La crisi manifesta non può che accentuare questa insofferenza e minare definitivamente la coesione sociale e la convivenza multietnica metropolitana, acuendo la contrapposizione storica tra centro e periferia. Le stesse leggi italiane chiaramente xenofobe che penalizzano i migranti e tra essi ancora di più chi è in condizione di maggior debolezza quali i clandestini ponendo ostacolo a fruire persino del più elementare diritto alla salute , portano alla visione chiara di una deriva repressiva preventiva e una involuzione nazionalistica strisciante. Le derive di intolleranza dunque aumentano con l’acutizzarsi della crisi economica globale evidenziando chiari segni regressivi come causa ed effetto di un imbarbarimento culturale. Come se in un mondo globalizzato i problemi di una parte del sistema si ripercuotessero rapidamente al resto del sistema annunciando un declino economico complesso e sincronizzato. Ma l’effetto è sempre la generalizzazione della povertà. Il risanamento del sistema finanziario non è una condizione minimamente sufficiente per la ripresa quando addirittura non contrasta con una visione etica ed equa della società e intralcia il cammino per un miglioramento sociale ed una distribuzione equa delle ricchezze. 13

La nascita di un nuovo proletariato globale composto da vecchi e nuovi soggetti che popolano le periferie del mondo può ritrovare la strada per rivendicare questa emancipazione economica e sociale. La classe operaia, i migranti, i lavoratori precari devono riacquistare una coscienza collettiva di appartenenza non tanto o non solo ad un territorio urbano periferico quanto a una condizione di ceto subalterno. La ricomposizione di questo tessuto di classe è un traguardo che deve essere raggiunto attraverso la metodica presenza all’interno delle contraddizioni a più livelli che si sono aperte con la crisi economica globale. Il radicamento di associazioni, comitati, sindacati all’interno di esperienze di difesa deve essere il passaggio, difficile, tortuoso e faticoso da percorrere per produrre un movimento di massa che possa tentare di modificare un sistema economico e sociale profondamente ingiusto e discriminante. Non ci sono scorciatoie possibili alla prassi politica che parte dal basso tanto meno la multimedialità ideologica e la preminenza della comunicazione che sottrae la politica alla responsabilità del suo agire specifico. Il collegamento tra le varie forme di resistenza attive sul territorio deve essere efficace, con flussi continui di informazione per coordinare azioni politiche le più ampie ed efficaci possibili. Descrivere alcune realtà per comprendere esperienze anche molto diverse tra loro, riannodando i fili di qualche ricordo esemplare che torna d’attualità come monito o esempio, può contribuire ad una conoscenza utile per un agire adeguato alla fase, ed è l’obiettivo di questo lavoro collettivo. “Detto questo se non voglio che il tuo sguardo colga un immagine deformata, devo attrarre la tua attenzione, su una qualità intrinseca di questa città ingiusta che germoglia in segreto nella segreta città giusta: ed è il possibile risveglio – come un concitato aprirsi di finestre – d’un latente amore per il giusto, non ancora sottoposto a regole, capace di ricomporre una città più giusta ancora di quanto non fosse prima di diventare recipiente dell’ingiustizia. Ma se si scruta ancora nell’interno di questo 14

nuovo germe del giusto vi si scopre una macchiolina che si dilata come la crescente inclinazione a imporre ciò che è giusto attraverso ciò che è ingiusto, e forse è il germe di un’immensa metropoli……” (Italo Calvino, da Le città invisibili, 1972)

(Quarto Oggiaro, foto di Duilio Piaggesi)

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Periferia e città di Sonia Paone Il concetto di periferia accompagna lungo i secoli la storia della città. Il termine deriva dalla parola greca periphèreia, che significa ruotare attorno. La periferia è ciò che si delinea intorno ad un centro: indica il primo contatto con l’esterno, con il cambiamento, con la differenza. Se consideriamo lo sviluppo storico delle forme urbane la periferia esiste e si delinea sempre in opposizione al luogo centrale. In questo senso, ogni città della storia ha avuto la sua periferia. Già il sistema delle poleis greche prevedeva entro un orizzonte territoriale ben definito un rapporto organico fra centro e periferia. Esisteva un polo dialettico che contrapponeva la città come centro urbano con le strutture politico-simboliche (pritaneo e agorà, templi delle divinità) e l’area esterna (chora) . La chora aveva le sue modalità insediative era in genere molto popolata, ma soprattutto assicurava alla polis la base produttiva, che era costituita principalmente dalla agricoltura (Gallo, 1999). Durante l’epoca romana e in particolare dall’inizio del IV secolo a.C. fanno la loro comparsa nelle aree attorno all’Urbs le insulae, caseggiati in cui viveva la grande maggioranza della popolazione. Erano strutture a più piani costruite con materiali scadenti e pensate per fronteggiare il sovraffollamento. Nell’immaginario la casa romana è la grande domus patrizia, ma come ricorda Mumford: la grande massa del proletariato abitava invece in 46.000 case operaie, ognuna delle quali, in media, doveva contenere duecento persone. […] La costruzione di queste insulae, come quella delle case popolari di New York, era un’attività speculativa a vantaggio di imprenditori disonesti che mettevano insieme sottili strutture in malfermo equilibrio, e di avidi proprietari che avevano imparato a suddividere gli antichi alloggi in celle ancor più esigue per accogliervi artigiani ancor più poveri con un profitto ancor più alto per unità di superficie. […] Crasso che con que16

ste case popolari accumulò ricchezze favolose si vantava di non aver mai speso danaro per costruirne, era più conveniente acquistare antiche proprietà parzialmente danneggiate da un incendio e messe in vendita a basso prezzo e affittarle dopo aver provveduto a sommarie riparazioni. (Mumford, 2001, p.286).

Gli esempi della chora nella polis greca e quello delle insulae romane raccontano di un eterno presente. La supremazia politica e simbolica del centro, lo sfruttamento economico delle aree circostanti, elementi che caratterizzavano i rapporti fra la polis e il suo territorio, ben rappresentano l’idea della gerarchia che da sempre oppone centro e periferia. Le insulae romane - soluzioni architettoniche che concentrano e allontanano, in strutture costruite con materiali scadenti, le fasce più deboli di popolazione - testimoniano la persistenza forme di segregazione spaziale nel divenire urbano. Tuttavia, è solo a partire dall’avvento della rivoluzione industriale che il tema della periferia diventa cruciale nella storia della città. Infatti, la rivoluzione industriale segna un passaggio epocale che spezza in maniera irreversibile l’unità figurativa spaziale ereditata dal passato. La primissima fase dell’era industriale è caratterizzata dal dominio dell’industria tessile e dalla presenza di insediamenti produttivi che sono diffusi nel territorio, infatti, l’utilizzo della forza idraulica comportava la ricerca di siti naturalmente adatti in cui impiantare gli stabilimenti (Davico, Mela, 2002, p. 50). Con l’invenzione della macchina a vapore non è più necessario scegliere un luogo naturalmente adeguato e questo crea un rapporto nuovo fra industria e città. Le aree in cui si concentrano impianti produttivi si urbanizzano rapidamente, e nello stesso tempo le industrie che nascono accanto a nuclei urbani già esistenti fanno da traino per un forte aumento della popolazione (Benevolo, 1992, p. 60). Il legame fra spazio urbano e industria si consolida ulteriormente a partire da una serie di innovazioni a livello infrastrutturale e dei trasporti. Le innovazioni favoriscono un accentramento della pro17

duzione e un processo di agglomerazione industriale attorno a centri urbani. Le industrie utilizzano infatti i vantaggi che derivano dal cosiddetto fattore agglomerativo. La concentrazione delle unità produttive permette la riduzione dei costi di produzione e commercializzazione garantendo un abbassamento dei costi e la crescita dei vantaggi economici. I centri urbani divengono così poli di attrazione per gli investimenti di capitale. I vantaggi della localizzazione di attività produttive in aree urbane derivano anche dal fatto che le città si presentano come bacini di manodopera e nello stesso tempo come luogo di smistamento della produzione (scambio di merci e presenza di consumatori) (Davico, Mela, 2002, p. 50). L’industria, per raggiungere la massima efficienza nella produzione, concentra le unità produttive, amministrative e dirigenziali e si presenta come un complesso spazialmente compatto appoggiato alle città (Mela, 2006, pp. 79-80). L’agglomerazione diviene fattore di attrazione anche a livello demografico: flussi enormi di persone si spostano dalle aree rurali verso le città. Non a caso, i tassi di urbanizzazione - che rimarranno positivi fino alla fine del XX secolo - conoscono momenti di accelerazione proprio in occasione delle fasi maggiormente espansive dei cicli economici (Davico, Mela, 2002, p.50). Le conseguenze sulla forma urbana del nuovo rapporto che si viene a creare fra città e industria sono estremamente significative. Si viene a formare un modello di organizzazione territoriale di tipo gravitazionale, in cui i grandi centri urbani rappresentano il punto focale. Morfologicamente una tipica città industriale si può rappresentare a partire dal seguente schema: 1. Un nucleo centrale, è questa l’area più interna della città, e quella da cui ha inizio il processo di polarizzazione ed espansione urbana. È la zona in cui si concentrano le funzioni amministrative, quelle di tipo commerciale mentre quelle abitative tendono a ridursi. 18

2. Area di conurbazione, questa comprende sia il nucleo centrale, sia i centri limitrofi della cosiddetta cintura industriale, sviluppatisi lungo le direttrici e gli assi viari di fuoriuscita. Le conurbazioni sono agglomerati urbani secondari saldati al nucleo centrale, grazie alla presenza di infrastrutture. Si viene a formare un’unica unità territoriale distinta però sotto il profilo amministrativo. 3. Area di espansione industriale è quella in cui, in una fase matura del consolidamento della città industriale, si localizzano nuove industrie che si appoggiano alla rete infrastrutturale già presente sul territorio 4. Area ad elevato incremento migratorio, è l’area suburbana, per lo più di tipo residenziale, in cui si sistemano le fasce medie di popolazione. La vicinanza con i luoghi di lavoro permette forme di pendolarismo, e la lontananza dal centro urbano garantisce la possibilità di usufruire di affitti più bassi 5. Area ad elevato interscambio migratorio a saldo nullo, è un’area esterna che svolge la funzione di accoglienza temporanea di nuovi soggetti immigrati. 6. Area di rarefazione demografica: è un’ulteriore zona che circonda quella ad interscambio migratorio, si caratterizza per la perdita di popolazione che tende ad avvicinarsi al polo di attrazione (Detragiache, 1973, pp. 93-95). La pianificazione di queste zone si ha a partire da pratiche di zonizzazione funzionale. In questo contesto nascono crescono e si sviluppano le periferie residenziali, destinate ad accogliere i flussi di manodopera che si spostano dalle campagne verso le città. La zonizzazione è una forma di gestione del territorio che attraverso la stesura di piani urbani frammenta lo spazio con l’obiettivo di razionalizzarlo: l’unità fondamentale nei piani urbanistici è sempre meno il quartiere e sempre più la singola area fabbricabile. Progressivamente, la quantità sostituisce la qualità, l’obiettivo è 19

quello di offrire alloggi che rispettino gli standard minimi senza preoccuparsi di predisporre nelle aree di espansione servizi e momenti di centralità. Il risultato è che le periferie urbane finiscono con il diventare quartieri ad alta densità abitativa, con una scarsa qualità ambientale e poveri di valenze collettive. La fase dello sviluppo della città su base industriale è caratterizzata dall’organizzazione fordista del lavoro e in questo senso la produzione dello spazio periferico ha le stesse caratteristiche dei prodotti della fabbrica fordista: ripetitività, standardizzazione e accessibilità. Il risultato di questa ripetizione su grande scala dello stesso modulo abitativo è sintetizzabile nell’espressione utilizzata da Jane Jacobs: la grande tragedia della monotonia (Jacobs, 1961). Nella fase appena descritta la dialettica centro/periferia si esprime nella presenza di un forte spirito militante che rende le aree periferiche un importante laboratorio socio-politico. Tuttavia, profondi cambiamenti si sono verificati nel sistema produttivo e tutto ciò ha nuovamente modificato il rapporto centro/periferia. Le periferie così come si presentano oggi, sono frutto di dinamiche che nascono già a partire dalla fine degli anni ’70. Il passaggio dal fordismo ad un regime di accumulazione flessibile, che si fonda sulle economie di diversificazione - nelle quali il punto di forza è la capacità dell’impresa di produrre una gamma differenziata di beni e servizi e coordinarli in maniera efficace, indipendentemente dalla localizzazione delle singole unità produttive (Harvey, 1993 pp. 185-186) - ha di fatto segnato il tramonto del modello gravitazionale di organizzazione territoriale (Petrillo, 2006). Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno anch’esse modificato l’economia assegnando una nuova centralità all’informazione e alla conoscenza dei processi produttivi. L’economia dell’informazione si struttura a partire da un modello flessibile di produzione e si incentra su uno schema di azienda rete. Con questa espressione si intende una nuova forma di organizzazione fondata sulla decentralizzazione di grandi aziende, sulla creazione di unità economiche semi-autonome, sul20

la costruzione di reti di cooperazione. Visto che le alleanze strategiche variano a seconda dei prodotti, delle tecnologie, dei mercati, la nuova struttura del sistema economico è composta da reti specifiche in costante mutamento inserite in sistema a geometria variabile (Borja, Castells, 2002, pp.16-17). Oggi, il sistema produttivo in termini organizzativi ruota attorno a reti di aziende e in termini territoriali attorno a reti di città. Le città sono entrate a far parte di un complesso di relazioni di potere che non segue più una logica di continuità territoriale, ma è strutturato in funzione di nodi (centri urbani) e di assi (flussi di merci, gente, capitali e informazioni) che li collegano (Petrillo,2006). In questo scenario, le città hanno assunto un nuovo tipo di centralità dovuto all’importanza dei processi di internazionalizzazione e finanziarizzazione: l’economia globale ha favorito il consolidamento dei centri urbani nei quali si sono concentrate le funzioni di controllo, finanziamento e gestione dell’economia mondiale (Sassen, 1997). Ancora una volta, i cambiamenti del sistema produttivo, la nascita, la diffusione delle nuove tecnologie e la globalizzazione dell’economia sono alla base della formazione di nuove disuguaglianze territoriali. Il nuovo sistema produttivo si basa su una flessibilità che è sinonimo di dinamismo, costante mutamento e variabilità, ma proprio per queste sue caratteristiche produce forme di irrilevanza strutturale di parti e porzioni di territorio, che non sono funzionali al nuovo ordine economico e quindi rimangono escluse dalla rete globale. È proprio lo spazio metropolitano quello che risente maggiormente dei fenomeni di irrilevanza strutturale: nelle città, e soprattutto in quelle di grandi dimensioni, le asimmetrie sono particolarmente evidenti (Borja, Castells, 2003, p.15). Nello spazio urbano si viene a creare una forte polarizzazione: da un lato emergono le nuove elite di potere e a dall’altro si posizionano gruppi sempre più consistenti di soggetti la cui situazione oscilla fra inclusione, precarietà e definitiva esclusione. 21

Il nuovo sistema produttivo richiede alti livelli di istruzione, a partire da questa considerazione, come giustamente sottolinea la Sassen, bisogna chiedersi qual è il destino dei soggetti sprovvisti di una alta formazione all’interno delle città. La delocalizzazione di interi comparti industriali da un lato e il consolidamento di attività professionali nel settore della conoscenza, ha modificato le economie urbane rendendo non più funzionali per il sistema fasce sempre più crescenti di popolazione. Il destino di questi soggetti, la cui reintegrazione è resa difficile dalla crisi dei sistemi di protezione sociale, è quello di poter accedere a forme di lavoro di basso profilo ed estremamente precarie (Sassen,1997, pp. 153-155). È in questo contesto che alla polarizzazione delle economie urbane corrispondono forme di dualizzazione dello spazio metropolitano (città duale) (Mollenkopf, Castells,1991). La dualizzazione dello spazio urbano non segue la classica dicotomia centro periferia, che in epoca fordista opponeva gerarchicamente il nucleo centrale della città e la periferia, ma spazi di marginalità costellano le aree urbane rendendole una sorta di arcipelago in cui si alternano, spesso ignorandosi, gruppi privilegiati e soggetti la cui esistenza oscilla fra precarietà, momentanea inclusione e definitiva esclusione. In questo mutato scenario le periferie hanno subito processi di pauperizzazione e marginalizzazione (Castel, 2006) con l’avanzare dello spettro della precarietà intesa come difetto di integrazione, visto che molti dei soggetti che vivono nelle aree periferiche sono o rischiano di essere tagliati fuori dal processo produttivo: le vecchie periferie, nate nella fase fordista, sono divenute progressivamente luogo in cui si incrociano la nuova questione sociale e la nuova questione urbana. Wacquant sostiene che proprio nelle periferie fordiste, in cui, sempre più, risiedono gruppi in declino sociale, emerge quella che definisce marginalità urbana avanzata. Il concetto di marginalità urbana avanzata è drammaticamente attuale nel contesto di crisi globale che stiamo vivendo. L’aggettivo ‘avanzata’ si riferisce al fatto che la marginalizzazione sociale e spaziale è conseguenza 22

delle trasformazioni e dei cambiamenti nei settori più avanzati dell’economia globale. Inoltre secondo questa lettura la mancata predisposizione di politiche di reintegrazione farà continuare a crescere (devant nous) il problema della marginalità (Wacquant, 2006, pp.240-241). Wacquant delinea le caratteristiche della marginalità avanzata considerando sei proprietà distintive. 1. Il salariato come vettore di instabilità e di insicurezza sociale: se nell’epoca fordista il rapporto salariale era il presupposto per contrastare l’esclusione sociale, nel senso che dal lavoro nascevano una serie di garanzie, oggi l’instabilità e l’eterogeneità del lavoro salariato è fonte di frammentazione e precarietà, soprattutto per i soggetti che si trovano nelle fasce meno qualificate dell’impiego. Si prospetta una desocializzazione del rapporto salariale poiché viene meno la capacità integratrice del lavoro. 2. La disconnessione funzionale a livello macroeconomico: la marginalità avanzata dipende sempre di più da fluttuazioni cicliche e dalle tendenze dell’economia globale e sempre meno da scelte locali. 3. La stigmatizzazione territoriale: la marginalità avanzata tende a concentrarsi in territori isolati e circoscritti percepiti dall’esterno e dall’interno come luoghi penalizzanti e squalificati. 4. L’alienazione spaziale e la dissoluzione del luogo: nella periferie fordiste forte era il senso di appartenenza e ben organizzate le pratiche di supporto e i momenti di reciprocità. La tendenza attuale è verso una desertificazione politica e un venir meno della solidarietà. 5. La perdita di un riferimento al paese di origine: in epoca fordista, i lavoratori temporaneamente esclusi dal sistema produttivo potevano contare sull’economia sociale della loro collettività di origine. Attualmente il soggetto escluso 23

dal lavoro in maniera durevole non riesce ad avere un sostegno collettivo informale. 6. La frammentazione sociale: la marginalità avanzata, infine, si sviluppa in un contesto di decomposizione di classe, sotto la pressione di una tendenza alla frammentazione piuttosto che all’unione dei soggetti che si trovano nelle regioni inferiori dello spazio sociale e urbano. La conseguenza più evidente della frammentazione è la minore visibilità politica a cui si associa la minore possibilità di rivendicazione (ivi, pp. 241-255). Il discorso sulle periferie nell’epoca della globalizzazione non si esaurisce nella marginalizzazione delle vecchie periferie consolidatesi in epoca fordista: se si allarga lo sguardo all’urbanizzazione del pianeta emerge uno scenario ancora più inquietante. I tassi di urbanizzazione, infatti, continuano a crescere nelle aree povere del mondo, interessate da forti spostamenti di soggetti dalle campagne verso le città e dal boom demografico. I processi di urbanizzazione danno vita ad enormi aree urbane (megalopoli) fortemente polarizzate. La dualizzazione dello spazio urbano in questi contesti è particolarmente evidente: piccoli gruppi privilegiati, che appartengono alle nuove elite di potere urbano, vivono in aree esclusive, riproducendo forme privilegiate di comunicazione e di consumo, mentre la stragrande maggioranza della popolazione risiede in zone caratterizzate da un cumulo di carenze (Agier, 1999). Le megalopoli delle zone povere del mondo sono per lo più costituite da insediamenti informali che nascono da percorsi di occupazione/invasione e da quella che viene definita l’urbanizzazione pirata, ovvero lottizzazioni frutto di speculazione (Davis, 2006). Nel 2003 l’agenzia Habitat delle Nazioni Unite ha pubblicato il rapporto The Challenge of Slums con l’obiettivo di monitorare la presenza di insediamenti informali nelle aree urbane. In questo studio è stata adottata la definizione operativa di slum, utilizzata 24

già a partire da Habitat dal 2002. Questa definizione considera solo alcune caratteristiche relative alla condizioni materiali di residenza e definisce lo slum come l’unità familiare, ovvero come un gruppo di individui che, condividendo lo stesso spazio, mancano di uno o più dei seguenti elementi: 1. accesso all’acqua (possibilità di usufruire di una quantità sufficiente di acqua potabile per l’uso familiare, ad un prezzo ragionevole e sostenibile, disponibile per i membri della famiglia senza che questi debbano compiere sforzi ); 2. accesso a servizi igienici (accesso ad un sistema fognario sia nella forma di bagno privato o di bagno pubblico condiviso con un numero ragionevole di persone); 3. spazio vitale sufficiente (meno di tre persone per stanza di un minimo di 4 metri quadri); 4. qualità/durata delle abitazioni (strutture adeguate e permanenti edificate in luoghi non pericolosi); 5. garanzie nel possesso (esistenza di documentazione che garantisca il possesso o l’esistenza di una protezione contro gli sfratti). In base ai dati raccolti, 924 milioni di persone nel pianeta nel 2001 vivevano in slum. Secondo le previsioni contenute nello studio la cifra sarà destinata a raddoppiare nei prossimi trenta anni in assenza di politiche urbane e sociali che mirino a contrastare l’avanzare di questo fenomeno (UN-Habitat, 2003). La metafora della città duale esprime appieno la contrapposizione che a livello globale oppone centro e periferia: l’organizzazione e il mantenimento dei flussi di informazione su cui si regge l’economia globale, la forte competizione per attrarre risorse e capitali, l’iperconsumo come stile di vita rappresentano tutti elementi che caratterizzano la parte vincente della città. Il successo della parte vincente dipende dallo sfruttamento della periferia, che non è più un preciso territorio subordinato ad un centro urbano come acca25

deva in epoca fordista, ma è il variegato mondo del lavoro sfruttato, precario e sottopagato. La possibilità di ricorrere in ogni momento a questo mondo rappresenta la forza dell’economia globale. Il futuro della città, intesa come luogo della promozione sociale, è legato all’avvio di una nuova stagione di diritti, nel tentativo di ricucire le asimmetrie che caratterizzano l’urbanizzazione delle aree povere del mondo, ma anche le dinamiche delle nostre città. Esisterà un futuro per la città se lo spazio urbano si presenterà come una condizione di possibilità di relazioni democratiche, di promozione dei diritti, e di attuazione di politiche, volte a ridurre la povertà e a favorire la partecipazione. La sfida per il futuro della città si gioca nelle periferie perché in questi luoghi i temi del diritto al lavoro, alla salute, all’educazione dei figli, ad un alloggio dignitoso sono ancora centrali per la sopravvivenza e per l’emancipazione. Riferimenti bibliografici 1.

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

AGIER M. (1999), Lo spettro della città nuda, http://www.africamediterraneo.it/ rivista/art_agier_1_99.htm BENEVOLO L. (1992), Storia dell’architettura moderna, vol. 1, Laterza, Bari. BORJA J., CASTELLS M. (2002), La città globale, De Agostini, Novara. CASTEL R. (2006), La discrimination négative. Le déficit de citoyenneté des jeunes de banlieue, «Annales Histoire Sciences Sociales», n. 4. CASTELLS M. (1989), The Informational City: Information Technology, economic resstructuring and the Urban regional Process, Blackwell, Oxford. DAVICO L., MELA A. (2002), Le società urbane, Carocci, Roma. DAVIS M. (2006), Il pianeta degli slums, Feltrinelli, Milano. DETRAGIACHE A. (1973), La città nella società industriale, Einaudi,Torino. GALLO L. (1999), La polis e lo sfruttamento della terra, in E.Greco (a 26

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(Beirut, foto di Samuele Pellecchia)

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Beirut. Una periferia in guerra di Michelle Lahoud Vedere il nome di Beirut accanto a Parigi, Los Angeles, Milano, Lima, mi da una forte impressione. Beirut da circa 40 anni vive con la guerra, per l’esattezza dal 1967. Si ricorderà che nel ’67 c’è stata la famosa guerra dei 6 giorni che ha visto Israele confrontarsi coi paesi arabi. Il Libano non aveva preso parte a questa guerra però i riflessi si sono sentiti subito in tutto il paese, in tutti i paesi dell’area non solamente in quelli che avevano partecipato attivamente alla guerra. Le cose sono peggiorate dopo il 1970, sempre per via della guerra, perché nel ‘70, con il famoso settembre nero , i palestinesi venivano cacciati dalla Giordania e quindi si trasferirono con le loro strutture politiche, militari e sociali in Libano. E questo ha fatto sì che i palestinesi usassero il territorio libanese per lanciare attacchi contro Israele che a sua volta faceva delle rappresaglie contro i libanesi, contro il Libano, e anche contro le popolazioni civili. Ben presto, a varie ondate, ma comunque in modo continuo, molti abitanti del sud del Libano che è la parte che confina con lo stato di Israele ed è una zona prevalentemente agricola, si sono trovati costretti ad emigrare per fuggire sia alle rappresaglie israeliane sia per cercare maggiore fortuna a Beirut, lasciando le campagne. Già dal 1967 si parlava di Beirut e della sua cintura di miseria, che era costituita dai campi profughi palestinesi, tra i quali i famosi Tall al-Zaatar e Sabra e Shatila, ma anche dalla sterminata periferia sud di Beirut, abitata in gran parte da persone, che avevano abbandonato la campagna e il sud del Libano, a causa della povertà e della guerra, e che venivano ad accrescere la popolazione dei campi profughi palestinesi. Poveri andavano ad abitare con altri poveri, in questo caso i pale28

stinesi. La città di Beirut, soprattutto la periferia sud è cresciuta in modo veloce, in modo disordinato, senza nessun piano di urbanizzazione e in pochissimo tempo. Con l’invasione del campo di Tall al-Zaatar si sgomberava parte di questa cintura di miseria della periferia nord-est di Beirut. Come è noto c’è stato un assedio di questo campo palestinese da parte delle milizie cristiane falangiste è stato compiuto un massacro e sono stati tutti cacciati via. Oggi chi visita quella zona capisce benissimo che c’era anche un risvolto speculativo dietro a questa battaglia, oltre la voglia di pulizia etnica, termine che ancora non circolava sia in Libano e neanche nella stampa internazionale .L’obbiettivo della pulizia etnica era di cacciare via tutti quelli che non erano libanesi e non erano cristiani da quella area geografica,per potere fare delle speculazioni edilizie sul quel territorio. Chi visita oggi i luoghi dove sorgeva una volta il campo palestinese di Tall al-Zaatar vede centri commerciali, abitazioni, grattacieli, insomma una vera speculazione edilizia. La guerra rendeva. Eppure Beirut in modo particolare, negli anni 50 sotto l’impulso di un presidente modernizzatore, non progressista riformista ma di destra, ha conosciuto un piano regolatore che forse nel mondo arabo è stato il primo piano concepito per una città, per realizzarlo è stato mobilitato un urbanista di fama, un personaggio molto famoso, Nimeyer. Chiaramente a quel piano regolatore hanno iniziato ad applicare deroghe per favorire gli amici, i soci; comunque adesso nessuno si ricorda più di quel piano, perché la città ha avuto tutto un altro sviluppo molto caotico, molto improvvisato. Sicuramente il periodo della guerra civile ha contribuito moltissimo a peggiorare le cose perché durante la guerra non c’era una autorità che imponeva, ammesso che volesse veramente farlo, una legge, per cui si poteva fare qualsiasi cosa, bastava pagare o avere dalla propria parte il boss che controllava quella determinata area geografica, si poteva costruire qualsiasi cosa in qualsiasi posto. In quegli anni si è costruito molto nella periferia sud di Beirut 29

dove c’è anche l’aeroporto internazionale, si è edificato quasi sulla pista di atterraggio, tantè che le compagnie aeree ad un certo momento hanno minacciato di non usare più l’aeroporto di Beirut perché c’erano pericoli reali per gli aerei di andare contro le case, costruite quasi sulla linea diretta delle piste e nelle immediate vicinanze . Alla fine qualche palazzo è stato abbattuto o comunque hanno impedito che i piani si alzassero sopra un certo livello. Di sanatoria in sanatoria non solo nella città di Beirut ma in tutto il Libano, le costruzioni si sono moltiplicate, nel caos assoluto, senza servizi ,senza rispetto di nessun piano di sviluppo. È questa la Beirut di oggi. La guerra civile ha comportato la distruzione di alcune aree geografiche della stessa Beirut, anche il famoso centro storico della città. Questo centro storico era una delle parti più importanti della città di Beirut, era un’area geografica multiconfessionale, cioè non era abitata da una sola comunità religiosa del paese, era anzi area geografica mista, abitata da molte persone appartenenti a tutte le confessioni libanesi, era un’area geografica molto vivace perché era anche il centro commerciale della città. Ora la ricostruzione di questo centro storico è stata affidata ad una società di nome Solidere, controllata dall’allora primo ministro libanese. L’area geografica non era ben definita quindi col pretesto di abbattere case pericolanti usavano delle cariche di dinamite molto forti per cui le case immediatamente vicine che magari non erano per niente lesionate, saltavano come le altre. Non era imperizia, era voluto. Più si allargava la superficie da riedificare, più aumentava la possibilità di speculare, di fare soldi insomma di guadagnare. Così si è allargato a dismisura questo centro storico. Anche se la sua funzione è cambiata rispetto a prima. I souks tradizionali ed i loro piccoli mestieri sono stati eliminati in favore di attività di uffici, di commercio di lusso e di alberghi. Come è costituita la società Solidere? Il suo capitale sociale è costituito per un terzo da contributi in capitali, e per due terzi da 30

contributi in natura, cioè dagli immobili che diventavano di proprietà di questa società ai quali veniva riconosciuto un determinato valore. Chiaramente un prezzo conveniente per chi partecipava in contanti al capitale della società, in poche parole al primo ministro di allora perché la società Solidere era controllata da lui. Praticamente i proprietari immobiliari espropriati dalle loro terre, venivano pagati in azioni che rappresentavano una parte minima del valore reale del terreno. La ricostruzione è stata in gran parte fatta , buona parte del piano è stato ultimato. Le infrastrutture le doveva fare lo stato poiché dentro a questa società Solidere vi erano annesse anche le proprietà immobiliari pubbliche e questo è stato un importante fattore di lucro per la società. Praticamente questa parte della città è stata ricostruita senza nessun rapporto con l’area geografica estesa e con la storia della città di Beirut. Il concetto che è stato adottato per costruire è un po’ quello di Dubai, grandi palazzi, grattacieli, vialoni enormi, senza nessun rapporto con il resto della città dal punto di vista culturale, dal punto di vista storico, dal punto di vista sociologico. Una metropoli solamente proiettata verso l’esterno. Questo aspetto viene rappresentato molto bene da una strada, un rettilineo che collega il centro città all’aeroporto internazionale. Buona parte di questa strada rettilinea per lunghissimi tratti o è in trincea o è in galleria, come se si volesse isolare il centro dal resto della città, dal resto del Libano. Praticamente questo quartiere, questo centro di Beirut non è collegato col resto della città, col resto di Beirut e col resto del Libano, è collegato con l’estero. Chiaramente chi ha messo a punto questo progetto aveva una idea dello sviluppo della città e del Libano che poi i fatti hanno dimostrato basarsi sul nulla. Pensava appunto a fare del Libano, di questo quartiere, una specie di Dubai sul mediterraneo, non più sul golfo. Solo che purtroppo la situazione, i conflitti continui, le tensioni, l’instabilità del paese, l’insicurezza sul futuro del paese, hanno in gran parte vanificato questo pro31

getto, nel senso che almeno nel futuro visibile Beirut o questo quartiere di Beirut non sarà una mini Dubai. Arriviamo ora all’ultima guerra, la guerra famosa del luglio 2006, da una parte erano schierati gli Hezbollah e dall’altra Israele. Siccome la periferia sud del Libano è abitata in grandissima maggioranza da sciiti ed ospita gli uffici e le istituzioni che fanno capo a Hezbollah, e siccome gli sciiti sono il bacino di consenso elettorale di Hezbollah, questa parte di Beirut come tutto il resto del sud del Libano è stata sottopposta a durissimi bombardamenti. Ci sono interi isolati in cui non è rimasto pietra su pietra, letteralmente. Si è poi arrivati alla fine dei combattimenti grazie ad una mediazione internazionale che ha visto il rafforzamento della presenza delle Nazioni Unite con i suoi caschi blu (FINUL) affiancati dall’esercito libanese. L’impegno militare destinato a garantire la pace alla frontiera è accompagnato da una mobilitazione internazionale per aiutare la ricostruzione. Questo appoggio si è manifestato in occasione di una conferenza che si è tenuta a Stoccolma il 31 agosto 2006, che ha visto molti Stati arabi come l’Arabia Saudita, il Kuwait ed il Qatar, nonché l’Unione Europea e i Paesi europei, e persino gli Stati Uniti, cosa inedita fino allora, partecipare alla raccolta di fondi destinati alla ricostruzione. Tuttavia alcuni donatori, come il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti finanziano direttamente o tramite ONG locali, dei progetti sul territorio sponsorizzando la ricostruzione di villaggi o di interi quartieri. Una parte dei donatori fa in modo di non far transitare i loro fondi attraverso il governo libanese la cui capacità di decisione e la sua sovranità sul territorio appare fragile. Questo mostra che il governo gode di una fiducia limitata da parte di questi donatori, anche in considerazione del bilancio contestato della ricostruzione degli anni precedenti. Da parte sua Hezbollah, aiutato dall’Iran, ha versato un indennizzo agli abitanti di questi quartieri, non tanto per ricostruire le loro case ma per lo meno per poter affrontare il primo anno senza una casa, cioè in 32

poche parole andare a prendere in affitto altre case in altre parti del Libano. L’instabilità politica del Paese finisce per rallentare la ricostruzione. C’è già chi nell’opposizione contesta la fondatezza del piano di ricostruzione. L’aeroporto e le infrastrutture sono stati riabilitati molto velocemente, anche in considerazione dell’impatto che hanno sulla vita del Paese. La ricostruzione delle abitazioni danneggiate e l’indennizzo alle persone ferite o alle loro famiglie vanno invece a rilento. Il risultato delle ultime elezioni hanno scongiurato che un’eventuale vittoria di Hezbollah e dei suoi alleati, potesse tradursi in un blocco dei fondi per la ricostruzione promessi dalla comunità internazionale. Nota Per un approfondimento sull’argomento segnalo tre titoli (in francese ed uno in italiano) che, a loro volta, contengono ciascuno una ampia bibliografia: 1. Beirut, Libano - Tra assassini, Missionari e grands cafés, di Riccardo Cristiano, UTET Libreria; 2. Histoire de Beyrouth, di Samir Kassir, Fayard; 3. Atlas du Liban - Territoires et société, di Eric Verdeil, Ghaleb Faour et Sébastien Velut, Institut français du Proche-Orient (ifpo) & Conseil National de la Recherche Scientifique (CNRS).

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(Beirut, foto di Samuele Pellecchia)

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Los Angeles 1965. La sommossa di Watts, io c’ero di Betty Gilmore La notizia dei disordini nella banlieu di Parigi mi ha ricordato la rivolta di Watts nel 1965, più che altro perché mi trovavo sul posto. Non sono un’esperta né una studiosa di rivolte, di periferie o di ghetti, ma dato che sono stata abitante dei ghetti per molti anni vorrei presentare il mio punto di vista. La sera dell’11 agosto del 1965 faceva molto caldo e parlavo al telefono con una mia amica che abitava in fondo alla strada. Il rumore della sirena che passava velocemente verso oriente non ci ha disturbato perché le sirene facevano parte della colonna sonora del quartiere. Ma dopo una decina di minuti, la mia amica mi disse che qualcosa stava succedendo lì vicino, di andare a vedere. Uscii di casa, e ancora prima di arrivare all’angolo della strada, vidi una piccola folla di gente e un enorme cordone della polizia che bloccava l’accesso alla strada successiva. Abitavo lì da 16 anni e non avevo mai visto tanta polizia tutta insieme, anche se ero abituata alle volanti che giravano sempre nel quartiere, quelle macchine bianche e nere con lo stemma della città stampato sui lati, come si vedono in tanti telefilm. Ma adesso mi trovavo davanti ad una specie di esercito straniero, nelle uniformi blu scuro con i manganelli e le pistole, tutti schierati come un muro lungo la strada. Nessuno di loro era afro-americano, né messicano..si vedeva che venivano da fuori. Nonostante la nostra insistenza, rifiutavano di farci passare, e ricordo di avere provato un forte senso di impotenza e di rabbia vedendo uno schieramento così imponente che mi impediva di fare il semplice gesto di attraversare la solita strada. Mi facevano paura. Per esperienza sapevo quanto era facile essere arrestata o peggio, e sono tornata alla casa dove abitavo con i miei genitori e fratelli. 35

Il giorno dopo ho saputo per radio che dietro quel cordone, ad un isolato di distanza, avevano arrestato - insieme alla madre e al fratello - un giovane autista (Marquette Frye), sospettato di guida in stato di ubriachezza. L’interazione fra gli spettatori e la polizia era degenerata e si era scatenato quello che i giornali dell’epoca chiamavano the Watts riots o i disordini di Watts. Il giornale della città, The Los Angeles Times, riportava l’evento dal punto di vista della polizia, con le solite fotografie di mandrie di gente che correva con merce saccheggiata, di incendi e di agenti aggrediti. L’impostazione era neri arrabbiati contro i bianchi tra i quali la polizia e qualche passante innocente. Girando per il quartiere vedevo queste cose, ma come tanta altra gente non ero coinvolta e non ho avuto paura finché non sono arrivati i carri armati e la guardia nazionale che hanno circondato tutto il ghetto, non soltanto Watts, e ho dovuto restare a casa di un’amica a causa del coprifuoco. Tutto è finito dopo 6 giorni, ma da allora questa rivolta e le sue implicazioni sono considerate uno spartiacque perché hanno messo in rilievo il problema del ghetto negli Stati Uniti in generale. Un articolo dal Manifesto scritto nel 2005, a 40 anni della rivolta, offre una descrizione: “L’11 agosto del 1965 a Los Angeles...inizia la rivolta più sanguinosa tra quelle dei ghetti americani...Sei giorni di disordini, 34 morti...1000 feriti, 40 milioni di dollari di danni. Una rivolta...nel quartiere di Watts, un’area geografica...caratterizzata da casette monopiano... di blocchi di case popolari costruite durante la guerra per alloggiare una popolazione...in espansione (il numero dei ’neri’ a Los Angeles raddoppia tra il 1940 e il 1944 e nel 1965 é nove volte più grande). I progetti di edilizia pubblica saranno i maggiori focolai della rivolta.” (Il Manifesto,12 Agosto 2005). Un altro articolo propone un’analisi: “La ribellione di Watts era la prima indicazione importante per il pubblico americano di quanto i quartieri segregati fossero delle polveriere. La ribellione presentava una visione anticipata delle violente rivolte urbane di fine 36

anni ’60...Cambiò il quadro politico della California e danneggiò varie carriere politiche, inclusa quella del governatore liberale, Edmond G. Brown che in seguito perse le elezioni contro Ronald Reagan (nel 1967) in parte a causa delle accuse di avere favorito il clima che produsse la rivolta.” (http://www.ilmanifesto.it/g8/dopogenova/ 42fcd0a067c25.html). Due anni dopo, ci fu una rivolta a Detroit con più morti e più danni, nel 1992 sempre a Los Angeles ne scoppiò una ancora peggiore. Ma la storia degli Stati Uniti é piena di rivolte nei ghetti, soltanto che spesso non hanno avuto spazio nei media. Anche quando vennero riportate lo si fece in modo talmente tendenzioso e falso che dovettero passare anni prima che tutta la verità potesse finalmente emergere. Comunque, Los Angeles era considerata una delle metropoli più attraenti degli Stati Uniti e la notizia della rivolta risultava in forte contrasto con l’immagine idealizzata promossa da tutti i mezzi di comunicazione. Anche per questo la notizia ha avuto un certo rilievo. Fino a quel momento nel mondo proiettato nei media e nel cinema di Hollywood, i cinesi, i giapponesi, i messicani e le altre comunità di stranieri residenti a Los Angeles praticamente non esistevano e nessuno sembrava essersi accorto della presenza di una grande comunità di afro-americani che ci abitava sin dagli anni ’40. E quasi nessuno mise in relazione quello che succedeva nel ghetto con quello che accadeva nel resto della città. Ma la storia era iniziata molto prima e forse le uniche persone che la conoscevano e che non si mostravano sorprese erano, da un lato, i grandi gruppi economici della città e dall’altro la gente che abitava nel ghetto. Per quanto riguarda i primi, la commissione urbanistica e l’associazione immobiliare erano impegnate da anni in una pianificazione che divideva la città per favorire determinati interessi economici al cui servizio operavano anche la stampa e la polizia. La divisione era fatta esplicitamente in base al concetto di razza col risultato che gran parte della città era proibita ad alcuni gruppi di per37

sone. La polizia aveva il compito di fare rispettare la divisione del territorio, di contenere i gruppi esclusi dentro certi confini. Dal canto suo, la stampa doveva gestire l’informazione in modo di giustificare questo tipo di pianificazione. A furia di subire le conseguenze, la gente che abitava nel ghetto aveva finito per sapere chi controllava la città. La mancanza di informazione contribuiva a un’ignoranza anche del retroterra della rivolta. Persino uno dei grandi eventi dell’epoca, e cioè il movimento per i diritti civili e le leggi successivamente promulgate dal governo, aveva le sue radici in un passato poco conosciuto da tanti. In quanto al titolo: Io c’ero, certamente io ero in quella strada quando è cominciato tutto, ma c’ero anche prima. Sono arrivata dall’Oklahoma nel 1945 per raggiungere i miei genitori che avevano trovato lavoro nelle fabbriche belliche durante la seconda guerra mondiale. Da bambina, se qualcuno mi chiedeva: Dove vivi? rispondevo in the projects (case popolari) senza sapere cosa volesse dire. Si trattava di un complesso residenziale popolare (Pueblo del Rio) ma per me era un posto come un altro dove mi trovavo abbastanza bene. Vivevamo in una fila di palazzi a due piani fatti di mattoni e separati da viali pieni di alberi di lime. Andavo alla scuola elementare a piedi e per la prima volta frequentavo bambini che non erano né messicani né afro-americani e che non vedevo mai dopo la scuola. Allora non sapevo di abitare in un ghetto. Non sapevo di fare parte di una grande migrazione storica che aveva portato milioni di persone in California da altri stati, incluso il mezzo milione di afro-americani a Los Angeles, attratte delle grandi possibilità di lavoro negli anni fra il 1940 e il 1945. Il mio primo indirizzo, lo ricordo ancora, era 1519 E. 54th Street. Che vuol dire 15 isolati ad est e 54 isolati al sud dal centro della città, perché Los Angeles è relativamente quadrata, divisa da est ad ovest e da nord a sud, con lunghissime strade come in un reticolo. 38

In centro, c’erano i grandi magazzini, i cinema, il centro civico, la grande biblioteca principale, ma noi eravamo più vicini alla ferrovia e alla zona industriale piene di fabbriche. Per raggiungere il centro usavamo i tram elettrici e per me andare in centro ogni tanto e vedere gente che non era afro-americana era una specie di avventura. Dove vivevo c’erano soltanto afro-americani e qualche messicano americano, e mi piaceva il quartiere perché era vivace. Per la mia famiglia il vero centro si trovava lì intorno, a Central Avenue (la Via Centrale) dove si vedevano i manifesti dei musicisti jazz che si esibivano nei locali notturni e nei teatri, dove c’erano le librerie che ospitavano scrittori afro-americani. Si sentivano i profumi del cibo del cosiddetto Soul food o cibo dell’anima: verdura cotta, trippa, pane di mais, barbecue di maiale, tipico della cucina povera del sud. C’era la scuola dove facevo lezioni di tip-tap, il cinema dove ci lasciavano da soli il sabato, pieno di tanti bambini rumorosi che guardavano film come Dracula e Frankenstein. C’erano i piccoli chioschi lungo la strada dove i miei compravano gelato e hamburger artigianali (il franchising ancora non esisteva) per la cena del sabato sera. Central Avenue era a una decina di isolati da casa mia ed era sempre movimentata. I projects erano pieni di bambini con cui giocare. Ho vissuto lì per 5 anni fino alla quarta elementare. Poi, nel 1950, i miei genitori hanno comprato una casa nella 117° strada (152 E. 117th St.), la zona dove é scoppiata la rivolta, cioè a 117 isolati al sud del centro. Mi dispiaceva un pò cambiare quartiere, ma in fondo ero contenta perché stavo crescendo e avevo cominciato a percepire i disagi nel quartiere e le difficoltà familiari di alcuni miei amici. Poi, attraverso la scuola venivo introdotta in un mondo esterno che imponeva altri modelli. Ero brava a scuola e seguivo attentamente le lezioni. Ascoltavo la radio e mi piacevano i fumetti. Cambiare casa voleva dire vivere in una di quelle case con giardino e garage che vedevo nei giornali o come i bambini nei libri, nel cinema e nei fumetti. 39

La casa si trovava in una strada fatta soltanto di case singole con un giardino davanti e uno dietro. Non c’era gente per strada come nell’altro quartiere, soltanto qualcuno che innaffiava il proprio giardino ogni tanto o si sedeva sul balcone lontano dalla strada. Casa mia aveva tanti alberi di frutta e fiori e potevo tenere il cane. Non c’erano altre famiglie afro-americane. Il primo giorno feci un giro in bicicletta ed alcuni ragazzi mi tirarono dei sassi. Tornai subito a casa per prendere dei sassi da tirare a loro ma mia madre mi bloccò. In fondo mi sembrava una cosa normale fra ragazzini. Una specie di scambio, ma poco alla volta mi accorsi che i ragazzini erano veramente ostili e nessuno lungo quella strada mi salutava. Si giravano dall’altra parte o guardavano senza mai sorridere. A scuola invece avevo delle amiche che ogni tanto mi invitavano a una festa di compleanno, ma normalmente non ci frequentavamo dopo le lezioni. Ad un certo punto, lungo la mia via, nei giardini davanti alle case, cominciarono a spuntare dei cartelli che dicevano in vendita. E nello spazio forse di un paio di anni tutte le vecchie famiglie erano andate via e le nuove famiglie erano tutte afro-americane, tranne due, una famiglia messicana e quella i cui ragazzi mi avevano tirato i sassi. Come dicevo prima, da bambina non avevo la sensazione di vivere separata dal resto del mondo. Chiaramente perché non dovevo cercare lavoro o prendere decisioni e le poche differenze che vedevo fra me e la gente che abitava fuori del quartiere non avevano molto importanza. Fu soltanto dopo molto tempo che ho saputo che non era un caso che vivevo dove vivevo. Ma era una storia lunga. Nel 1791, Los Angeles fu fondata sotto gli spagnoli, e rimase una città messicana fino al 1850 quando, dopo una guerra contro il Messico, la California diventò parte degli Stati Uniti. Sin dall’inizio vi abitavano alcuni afro-messicani e gli afro-americani cominciarono a partecipare alla vita della città abbastanza presto. Erano 40

anche attivi nel contrastare le varie manifestazioni di razzismo che includevano una forte discriminazione contro i cinesi ed i messicani. In ogni caso, fino agli anni Venti del secolo scorso era considerata una città abbastanza vivibile in confronto ad altri posti. In tutti gli Stati Uniti quel decennio fu caratterizzato da una forte crescita dell’ideologia della supremazia bianca, supportata da gruppi come il Ku Klux Klan che, oltre a utilizzare metodi violenti ed intimidatori per promuovere una società basata sul concetto di razza, avevano rappresentanti eletti in importanti posti politici. Per esempio, John Porter, sindaco di Los Angeles dal 1929 al 1933, era membro dichiarato del Ku Klux Klan. Infatti, in quegli anni Los Angeles é stata una delle prime città a stabilire un precedente legale che consentì la suddivisione della città in diverse zone e adottò un piano urbanistico che fece della maggior parte della città un luogo proibito per gli afro-americani e altri gruppi. Tale suddivisione veniva sostenuta in base a contratti residenziali (housing covenants) che dichiaravano fuori legge l’affitto o la vendita della casa a cinesi, giapponesi, messicani, afro.americani e così via. Ai fini della giustificazione economica, l’associazione immobiliare aveva ufficialmente inserito il concetto di razza tra i fattori che determinavano il valore della proprietà. Di conseguenza, il valore di una casa o una zona abitata da afro-americani era decisamente più basso. Negli anni Quaranta la commissione urbanistica della città tracciò i confini delle zone in modo che almeno il 90% degli afro-americani vivesse compresso in una zona a sud-est della città, proprio dove avevo vissuto. Le proprietà pubbliche e private vennero gestite in modo tale che una comunità di quasi mezzo milione di persone occupassero meno spazio possibile. In effetti, i projects erano case popolari del governo federale, costruite per accogliere la gente che non era autorizzata ad abitare in altre parti della città. Le organizzazioni afro-americane storicamente in lotta per i diritti 41

civili insieme ad altre, comunque, contestarono la legge che infine fu dichiarata incostituzionale in base al 14° emendamento. Nel 1948 i ’contratti residenziali’ diventarono illegali. Fu per questo che anni dopo i miei genitori poterono acquistare una casa fuori dai confini del ghetto. Nonostante la corte suprema, tuttavia, le organizzazioni razziste conducevano una battaglia implacabile contro i diritti civili e continuavano a resistere. Aggredivano le famiglie che compravano le abitazioni, bruciavano croci davanti alle case alla maniera del Ku Klux Klan, organizzavano fiaccolate, appiccavano fuochi e fecero esplodere diversi edifici. Alcune persone rinunciarono, ma alla fine le zone in cui vivevano le famiglie afro-americane si estesero; come reazione le agenzie immobiliari vendettero case nuove a prezzi alti alla gente che scappava a ovest e verso i sobborghi. I contratti residenziali rimasero in vita in modo ’clandestino’. Negli anni Cinquanta, dalla scuola elementare a quella media e alla scuola superiore, ebbi modo di osservare il cambiamento della zona in base a chi erano i compagni di scuola. Alle elementari gli afro-americani erano pochi, alle medie rappresentavano quasi la metà della classe e alle superiori erano molti di più. Alla scuola media c’erano i figli dei nuovi arrivati e dei vecchi residenti che abitavano verso ovest e che non erano ancora andati via. Ogni tanto scoppiavano risse fra i due gruppi, risse che venivano definiti disordini razziali. Spesso iniziavano quando i ragazzi afroamericani osavano spingersi nella zona ovest: venivano aggrediti da bande di ragazzi composte anche da studenti e la rissa continuava a scuola al punto che coinvolgeva tutto l’istituto durante le assemblee e le più diverse occasioni. La gente in quella zona era decisamente ostile e a volte violenta nei nostri confronti per cui nessuno di noi la frequentava volentieri e comunque mai a piedi o in bicicletta. Come minimo si veniva insultati. I miei genitori ci si recavano molto raramente e in ogni caso sempre in automobile. Alla scuola superiore rivedevo parecchi ragazzi dal mio vecchio 42

quartiere che si erano trasferiti a loro volta. La scuola non mi piaceva, c’erano solo un paio di insegnanti simpatici: ricordo che tutte le volte che mi chiedevano come mai ero riuscita a fare bene un compito, venivo accusata di avere copiato poiché era semplicemente impensabile che fossi capace di fare da sola. Ricordo l’insegnante di biologia che sosteneva che avevo i piedi piatti perché tutti i ’negri’ hanno i piedi piatti. Sono riuscita a superare gli esami per entrare all’università solo e soltanto perché mi piaceva studiare. Quando seppi che alcuni studenti venivano seguiti e opportunamente consigliati dagli insegnanti rimasi sorpresa. Nel 1954, quando iniziai la scuola superiore, la Corte Suprema dichiarò illegale la segregazione nelle scuole, ma ironicamente, al termine del corso di studi, l’80% degli studenti era composto dai flgli di afro-americani che si erano trasferiti in zona andando a sostituire chi se ne era andato altrove. Quando sono entrata all’università ero insieme a tre compagni delle superiori: una ragazza messicana, una giapponese e un ragazzo ebreo che poi é diventato deputato nel congresso. All’università, che si trovava a 2 ore da casa mia nella zona più ad ovest della città, il 90% degli studenti non era afro-americano. Si trattava di un ambiente totalmente diverso e nell’autobus che mi portava all’università saltava all’occhio il contrasto lampante tra est ed ovest. La rivolta di Watts è scoppiata 8 anni dopo la mia uscita dalla scuola superiore. Nel frattempo, la zona era cambiata in quanto le famiglie afro-americani si erano estese sempre di più, e, sebbene dove vivevo non fosse affatto Watts, tutta la zona finì per esserci identificata. Invece, quando eravamo arrivati lì, Watts era una zona delimitata da confini precisi stabiliti dal vecchio piano urbanistico, in cui erano state costruite numerosissime case popolari. Alla rivolta del 1992 partecipò un numero elevatissimo di latinos che si erano trasferiti nella zona, sebbene i mezzi di comunicazione li ignorassero del tutto. Anche al giorno d’oggi Watts è abitato in gran parte da latinos ed è comunque sempre considerato un ghetto. 43

Ma non è un ghetto perché è abitato da afro-americani o messicani. È un ghetto perché è gestito come un ghetto, come un posto per gente che deve lottare ogni giorno per essere ’inclusa’. Gli afro-americani e i messicani sono storicamente esclusi da una piena partecipazione a tutti i livelli della società e da sempre ne rivendicano il diritto. Ovviamente, la storia dei latinos è significativo per Los Angeles. Per conoscere la storia completa bisogna indagare su aspetti che vengono tipicamente trascurati. La rivolta a Los Angeles fu inaspettata perché la città ha sempre proiettato un’immagine di ricchezza: grandi spazi, un clima ideale, il glamour del cinema e i divi, un’architettura urbana piacevole e così via. E molta violenza, ma per celebrare sempre un corpo di polizia eroica. Ma la stampa, il cinema, gli immobiliari e altri grandi poteri forti usarono ’ogni mezzo necessario’ per cautelare i propri interessi. Nei primi anni del ’900 la città avrebbe potuto optare per una scelta diversa da quella delle grandi metropoli dell’est e delle città fortemente razziste del sud. Invece sono prevalsi il capitalismo e la discriminazione: lo sviluppo economico ha avuto la precedenza su tutto. Un’analisi attenta della rivolta avrebbe consentito di rivelare e quindi mettere in discussione lo sviluppo di tutta la città e gli interessi connessi. Ma si è preferito fare altrimenti e lasciare che i problemi legati alla tossicodipendenza, alla violenza giovanile, alla disoccupazione e alla povertà, ben rappresentati e concentrati nel ghetto, continuassero a crescere in tutta la città. Il ghetto, in questo senso, è servito a rassicurare tutta l’altra gente che i problemi erano quelli di un determinato gruppo di persone incapaci per natura e a distrarre l’attenzione dai veri responsabili dei problemi. Basterebbe guardare i nomi di alcuni grandi protagonisti dello sviluppo della città, come Chandler, Huntington o Hearst. La loro ideologia fortemente razzista e/o anti-sindacalista traspariva nella gestione degli affari (ad esempio, Hearst era pro-nazista e odiava i Messicani). Ad oggi sono tutti ricordati per le ricchezze accumu44

late e i contributi che avrebbero portato alla città; da un altro punto di vista, tuttavia, sono i primi responsabili dei grandi problemi che diventano sempre più difficile da risolvere. E purtroppo nel corso degli anni Los Angeles non ha visto poi grandi cambiamenti nel modo di affrontare tutti questi problemi. La rivolta di Los Angeles (sedata in 6 giorni da 14.000 militari e 5.000 poliziotti) ha consentito all’amministrazione della città di consolidare la propria strategia repressiva e, supportata da un’abile e vasta propaganda, di mantenere l’esclusione di gruppi discriminati in base al concetto di ’razza’. Purtroppo questo modello é osservato e apprezzato da tanti altri amministrazioni locali in tutto il mondo e quindi i suoi effetti negativi vanno molto al di là di un’area delimitata e della vita della popolazione che ne soffre più o meno consapevolmente. Per fortuna, ci sono sempre persone e gruppi che non smettono di lottare contro questo tipo di oppressione. Le rivolte nei ghetti sono rivolte contro l’esistenza del ghetto stesso e contro le condizioni che lo favoriscono. Non mi chiedo perché ci sono le rivolte, bensì perché ci sono i ghetti. La risposta si trova, e a volte con molta difficoltà, nella storia del resto della città, generalmente gestita in base ad interessi economici spesso legati a ideologie di esclusione che vengono o minimizzate o sfruttate. Nel caso di Los Angeles, la forte discriminazione nel confronto di una parte della comunità, viene minimizzata e raramente presentata come una parte integrale della sua storia, determinante per le decisioni politiche per tutta la gestione del territorio. Le rivolte contro questa discriminazione vengono presentate come esplosioni di una rabbia irrazionale e marginale. In questo modo, la città viene percepita come una serie di zone scollegate, e l’opinione pubblica fatica a rendersi conto che quello che succede a Watts è sempre stato strettamente collegato con quello che succede a Hollywood.

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Lima. Villa El Salvador, una esperienza esemplare di Michel Azcueta Ringrazio le associazioni che hanno permesso la realizzazione di questo lavoro e ringrazio in particolare Marco Pitzen e Nelly Rios Rios dello sforzo profuso per la riuscita della pubblicazione dell’intervento che ho tenuto al convegno “Le Periferie del Mondo” svoltosi alla fine del 2008 a Milano, che leggerete corretto in alcune sue parti. Ringrazio anche tutto il gruppo di relatori presenti li quella sera che hanno portato esperienze diverse e che ritengo, come me, siano stati arricchiti dalle opinioni di ognuno. Il saggio di Sonia Paone, che ci fa riflettere sulle contraddizioni che ci sono nelle periferie delle città, l’esperienza di Beirut molto speciale e molto emotiva, e il racconto di Los Angeles, che pure corrisponde ad una determinata epoca, ci hanno ricordato cosa significa in ogni esperienza questo livello di contraddizioni. Io vorrei portare l’esperienza di Lima in Perù. Tutti sanno che l’urbanizzazione, che l’Europa ha vissuto molte decadi fa, l’ha vissuta da poco l’America Latina e la sta vivendo ora l’Africa; pertanto queste contraddizioni che stiamo vivendo diventano realmente una sfida per tutti nel XXI secolo. Anche il Perù ha vissuto un processo di urbanizzazione che ha aumentato la popolazione in forma sempre più rapida, arrivando agli attuali 28 milioni di abitanti, con più di un milione di abitanti che vivono all’estero (alcune decine di migliaia vivono a Milano). Il processo di urbanizzazione, come abbiamo letto, si realizza da tutte le parti per ragioni diverse. Una di queste è dovuta alla vera e propria esplosione demografica che abbiamo vissuto dalla metà del XX secolo; altre ragioni si devono alle contraddizioni nazionali proprie dei nostri paesi. Le città capitali delle nazioni attraggono la gente per il loro livello di servizi, per il livello di vita, per le possibilità di sviluppo; in raf49

fronto alla disuguaglianza, alla povertà e alla mancanza di opportunità presenti nel mondo rurale. Ci sono anche altre ragioni: le guerre, la violenza… per esempio accadde lo stesso anche a Beirut, anche se Michel Lahoud non l’ha detto in forma diretta, e sta accadendo in Africa in questi momenti. Nel caso del Perù, per esempio, quando c’è stata una situazione di forte violenza nella zona andina è aumentata direttamente e immediatamente la popolazione di Lima. Altri motivi sono anche le catastrofi naturali, le siccità, le inondazioni, i terremoti, cause naturali che obbligano la gente ad andarsene dalle zone colpite, cercando rifugio in casa di familiari o in zone più sicure, che in genere sono centri urbani. E’ per l’insieme di questi fattori che in Perù una percentuale importante di popolazione vive nelle città. Quindi Lima, seguendo originariamente le modalità coloniali di fondazione delle città spagnole, sviluppandosi in uno spazio quadrato, crescendo si espande nei differenti ambiti spaziali delle valli e della costa dell’oceano pacifico. Si avvia così un processo di concentrazione della popolazione che porta ad un marcato centralismo economico, politico e culturale; generando povertà, ingiustizie e contraddizioni che si mantengono, accentuandosi, nella città attuale. Oggi a Lima ci sono 8 milioni di abitanti, dei 28 del Perù. Vi racconto una esperienza avvenuta nel sud di Lima, dove per le ragioni sopra esposte, sono sorti ai confini della città, vari siti abitati, che si sono trasformati con l’accelerata crescita demografica in distretti municipali. Forse qualcuno rimarrà colpito dal fatto che parleremo di una città che ha solo 35 anni, mente in Europa, in Italia, le città hanno duemila o tremila anni di storia. Villa El Salvador nasce nel maggio del 1971 a sud dell’area metropolitana, proprio per le cause che prima abbiamo segnalato e che si vissero in Perù a quella epoca, compreso un gigantesco terre50

moto che si verificò il 31 maggio del 1970 nel nord di Lima. Migliaia di famiglie contadine si trasferirono nella capitale cercando un miglior livello di benessere, di educazione, di sicurezza… Nei primi mesi questa popolazione migrante viene ospitata dai loro familiari, da amici e conoscenti, ma arriva un momento nel quale la pressione dei nuovi abitanti della città è così grande che si producono le invasioni di terreni inutilizzati, sia di proprietà privata che di proprietà dello Stato. E’ un processo simile a tutte le capitali dell’America Latina. Sorgono quindi i sobborghi, le favelas, i nuovi quartieri, le cinture di miseria che circondano le grandi città dei nostri paesi. Nello stesso modo sorse Villa El Salvador. Ci fu una occupazione di terreni di proprietà privata, con scontri con la polizia dove morì un abitante, Edilberto Ramos. Nel mezzo di questo scontro, il vescovo ausiliare di Lima, Monsignor Luis Bambarén, solidarizzò con gli abitanti e venne incarcerato per ordine del Ministro dell’Interno del governo militare di quegli anni. In quel periodo, per questi accadimenti, si produsse un grande movimento sociale in appoggio ai senza tetto e il Presidente Juan Velasco in persona, sotto la pressione popolare, ordinò di trovare una soluzione. I tecnici proposero di spostare gli occupanti negli arenili esistenti al sud della città, in una zona chiamata Tablada de Lurin e, con l’appoggio degli stessi militari, cominciò lo spostamento delle famiglie nell’immenso deserto. Nacque così Villa El Salvador. In un mese c’erano già 90.000 persone che accettarono di giocarsi il futuro nel deserto. Sono tre gli elementi che caratterizzano i primi anni della storia di Villa El Salvador: la pianificazione, l’organizzazione e la mobilitazione. Stando nel deserto, si decide che i lotti familiari siano relativamente grandi, di 140 metri quadrati; ogni 24 lotti si formerà un isolato 51

e ogni 16 isolati, abitati da 363 famiglie, si formerà il nucleo territoriale di base, chiamato Grupo Residencial. A partire da lì si va pianificando di seguito tutto l’insediamento: ogni 20 “Grupos” un centro di salute, poi arrivarono le scuole, i campi sportivi ecc. Fino a realizzare una zona industriale, una zona agricola, grandi viali, centri tecnici e perfino una università! Per questo, in una seconda fase matura una importante organizzazione amministrativa autogestita, cominciando dagli isolati fino ai livelli comunali. Nel luglio del 1973 la prima comunità di abitanti approva gli statuti e i regolamenti, costituendo la “Comunidad Urbana Autogestionaria de Villa El Salvador”, la CUAVES, che va a porre le basi e a dirigere per anni il primo Piano di Sviluppo Integrale di Villa El Salvador. Il terzo elemento fondamentale nell’esperienza della città fu la mobilitazione permanente. La partecipazione di tutti, uomini, donne, bambini, per arrivare a raggiungere gli obiettivi che si andavano a decidere dentro a questo Piano, in assemblee di massa, a volte con appoggio del governo del General Velasco, la maggioranza delle volte senza appoggio alcuno, con molta volontà e disciplina, con problemi, con scontri, ma mantenendo unità e solidarietà tra la maggioranza della popolazione. Quando nel 1980 arriva la democrazia in Perù, con elezioni generali e municipali, il popolo di Villa El Salvador valuta la convenienza o meno di trasformarsi anche in distretto municipale. Fu una decisione difficile dato il peso e i risultati raggiunti con la CUAVES, e temendo che con la creazione del municipio si andasse a perdere lo spirito comunitario e solidale. Si temeva anche che le forme di organizzazione che avevano prodotto il piano di sviluppo integrale e ne avevano permesso la sua applicazione, potessero esaurirsi all’interno di meccanismi amministrativi più complessi legiferati a livello nazionale. Ma valutando che Villa El Sal52

vador non era e non è un’isola all’interno del Perù, la Comunità decise di lavorare con il Congresso della Repubblica per la creazione di un nuovo distretto. Obiettivo che si raggiunse nel 1983 realizzando elezioni municipali e iniziando la prima gestione municipale il 1 gennaio 1984, senza nessun fondo economico, assolutamente nulla, neanche una stanza, ne un tavolo e neppure una sedia, per una popolazione che già superava i 200.000 abitanti. Cominciò quindi una nuova tappa nella storia di Villa El Salvador, un secondo livello di sviluppo, tenendo come base la concertazione tra i diversi attori e semplificabili in quattro fasi. Prioritario era: (1) mantenere l’unità e la concertazione all’interno della propria comunità e quindi (2) sviluppare la coordinazione e la concertazione tra la comunità organizzata e il nuovo governo locale e successivamente (3), ad un livello più elevato, tra Villa El Salvador e il Consiglio Metropolitano di Lima, i Ministeri e il governo centrale; (4) al quarto livello tra Villa El Salvador, le piccole, medie e grandi imprese, i professionisti, le ONG e la cooperazione internazionale. Tutti questi passaggi indispensabili per raggiungere obiettivi concreti di sviluppo approvati dalla Comunità. Noi fummo i primi, molto prima di Porto Alegre, a sperimentare una esperienza municipale partecipata. Così avanzò Villa El Salvador. Ci sono dati concreti sulla costruzione dei collegi, dei mercati; sui lavori per allacciare l’acqua, la luce, le fognature a tutte le abitazioni, sui chilometri asfaltati, le migliaia e migliaia di alberi piantati nel deserto, le lagune di ossidazione, di trattamento delle acque scure, come esempio per tutta Lima, essendo l’unico distretto che non versa le fogne nell’Oceano Pacifico. E avanzando ancora di più nel piano di sviluppo, un parco industriale ed una zona agricola, partendo dal convincimento che se non si genera ricchezza locale, se non si ha economia locale, posti di lavoro, produzione propria, i popoli non hanno futuro. Si è realizzata una serie di cose concrete che stupiscono quando 53

uno conosce il contesto di quel che chiamiamo i sobborghi, le periferie popolari dell’America Latina. Villa El Salvador è andata ad una velocità sette volte superiore alla maggioranza di questi sobborghi. Ciò che si è fatto si può misurare: quanto ha impiegato Villa El Salvador ad avere l’acqua, quanto ha impiegato ad avere la luce, quanto ha impiegato ad avere strade asfaltate, ecc. Un altro aspetto rilevante nella esperienza di Villa El Salvador, è stato la realtà di un popolo che ha costruito una propria identità e questo è molto importante ricordando quello che accade nelle altre periferie del mondo. A Villa El Salvador in otto anni si costruì una identità che stupisce molti, ma i popoli che hanno identità hanno una forza speciale. Una serie di circostanze hanno anche contribuito alla costruzione di questa identità a al riconoscimento di Villa El Salvador in Perù. La visita del Papa Giovanni Paolo II che riunì più di un milione di persone a Villa El Salvador; le Nazioni Unite nell’anno internazionale della Pace, nel 1987, la dichiararono Città Messaggera di Pace. Altri riconoscimenti che hanno anche aiutato sono: il premio Principe de Asturias così come la visita di tante personalità ed esperienze forti che hanno contribuito a costruire questa identità, come il caso di Maria Elena Moyano, la dirigente popolare delle donne che fu assassinata da Sendero luminoso nel 1992 ed è nostra eroina nazionale. Desidero precisare che abbiamo avuto problemi molto gravi ed abbiamo anche vissuto momenti molto difficili, ma che siamo riusciti a superarli. Per questo vorrei affermare che tutti i popoli hanno una potenzialità molto grande; in Africa, in Asia, in America Latina. È importante riflettere anche sopra questa affermazione considerando l’esperienza di Villa El Salvador come parte di questa potenzialità. Ma chiedo anche per favore di non credere che perché siamo po54

veri, ci si organizza; che perché non abbiamo acqua e non abbiamo luce, si producono forme di organizzazione. Perché è molto comodo e molto facile credere a questa semplificazione, ma non è così. Io lo dissi con forza all’ONU e lo grido qui un’altra volta: se ciò fosse certo, l’Africa sarebbe un paradiso, ricordatelo sempre: non è per la povertà che la gente si organizza, ma è per il livello di coscienza e il livello di convincimento. Il popolo si organizza quando crede in se stesso, questo sì genera un cambiamento, genera sviluppo e genera una identità della periferia, che può contribuire ad uno sviluppo sia a livello nazionale che internazionale. Tutto questo non si produce per la povertà, perché se fosse così si avrebbero milioni di Villa El Salvador in tutto il pianeta, e questo non accade evidentemente. Io ritengo comunque che non si possa ripetere l’esperienza di Villa El Salvador, perché è la storia di tutto un popolo. Però ci sono molte cose concrete che si sono fatte a Villa El Salvador che certamente si stanno ripetendo in diverse parti, in tutto il Perù, e molte anche in America Latina. Nella Escuela Mayor de Gestion Municipal del Perù, dove sono presidente, utilizziamo nei nostri corsi questi quattro elementi: territorio, popolazione, risorse e identità. Con questi produciamo i piani partecipativi di sviluppo locale, nella zona andina, nella selva, nell’amazzonia e a Lima, promuovendo la concertazione tra i differenti attori e dentro a un modello di sviluppo con al centro la persona, con una visione radicata nel locale e aperta a livello internazionale. Per concludere, sono convinto che sia possibile una urbanizzazione che rispetti l’ambiente con cibo e servizi per tutti. E’ possibile unire il locale al globale. E’ possibile rafforzare le culture e le proprie identità in modo che ciò porti alla costruzione di una nuova cultura universale E’ possibile smettere di produrre zone ed esseri periferici ed essere tutti centri autentici della nostra storia. Che tutti sappiano che è possibile una differente relazione tra il sud e il nord e che è possi55

bile costruire un mondo mille volte più bello tra tutti e per tutti. (Traduzione di Francesca Rossi) Bibliografia AZCUETA, Miguel, El Mapa de la Riqueza: Herramienta para el Desarrollo Económico Local. La Experiencia de Tumbes. EMGM, Marzo 2007. AZCUETA, Miguel, "Combate contra la pob reza: las soluciones existen" UNESCO-Lima, EMGM, 2001 BONTIS, Nick, working paper presentado en McMaster World Congreso – Canadá, 2004 BORJA, Jordi y CASTELLS, Manuel,“Local y Global”. Santillana Ediciones, Madrid 1997. CEPAL, Serie Gestión Pública Nro. 33 – Mayo 2006 Santiago de Chile INEI, "El Mapa de la Pobreza en el Perú", Lima, 2008. SILVA LIRA, Ivan,“Disparidades, competitividad territorial y desarrollo local y regional en América Latina” CEPAL, Santiago de Chile, 2005.

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(Elena Moyano)

(Villa El Salvador oggi) 57

Buenos Aires. Villas miseria: provate ad entrare se avete coraggio di Ruben H. Oliva …dal basso “Provate ad entrare se avete il coraggio”, è la prima risposta che otterrà chiunque provi ad inoltrarsi in una delle decine di “villas miseria” di Buenos Aires e provincia. A prima vista, dal basso, le villas si presentano con un minaccioso e invalicabile muro irregolare lungo chilometri. Qua e là si scoprono quelle che a prima vista paiono ferite scavate nel miscuglio di calcestruzzo e mattoni di tutti colori e forma, lamiere e cartoni, frontiera che segna un confine fra il dentro e il fuori. Sono strettissime vie d’entrata ai sobborghi della miseria, cittadine che ospitano dalle diecimila alle novecentomila persone, territori franchi in cui nascondere disperazione e sfruttamento. In mezzo al fango e al letame, convivono molteplici nazionalità sudamericane giunte in Argentina in cerca di lavoro. Un popolo che negli anni 40, Evita Peron, nominò per la prima volta indicandoli come i desposeidos, i nulla tenenti che, una volta politicizzati e portati dentro all’emergente Partito Giustizialista, diventarono i descamisados, le primissime folle che gremirono la Plaza de Mayo per ascoltare il generale Juan Domingo Peron ogni qual volta si affacciava a braccia aperte dal balcone della Casa Rosada (sede del governo n.d.r.). Altri tempi e altre storie e anni che corrono veloci, e quelle villas miseria, che dimenticate, rimangono negli stessi territori di sempre crescendo a dismisura. Ignorate e negate dal mondo politico e dai ceti medi. Mai considerate fra le priorità politiche da affrontare e risolvere. Attaccate e militarizzate ed infine nascoste dietro a montagne di macerie a pubblico e giornalisti stranieri giunti per i mondiali di calcio del 1978, ai tempi dell’ultima sanguinosa dittatura militare. Il risanamento e l’inclusione di questi immensi terri58

tori e delle loro popolazioni rimane uno dei debiti sociali più vergognosi contratto dallo stato argentino. I leader politici di turno scoprono all’improvviso le villas solo quando bisogna ottenere voti di scambio. Allora e solo allora, si promette l’acqua corrente o il servizio pubblico, dei trasporti, dei collegamenti con la città lontana chilometri. In genere lo fanno durante la campagna elettorale all’inaugurazione della solita mensa dei poveri, che, ad elezioni avvenute non sarà più rifornita d’alimenti e dunque smetterà di esistere. Questi non luoghi, non hanno fogne e ufficialmente nemmeno luce elettrica. L’elettricità esiste, ma proviene da centinaia di allacciamenti clandestini che partono da oltre il confine dove ci si trovano i tralicci dell’alta tensione. Da lontano le villas si presentano coperte da immensi grovigli di cavi, un surreale gigantesco tetto di gomma. I censimenti fatti in passato sulle popolazioni sono falsi o costruiti con cifre approssimative che tirano al ribasso. Sono i numeri della vergogna che vanno nascosti e negati. E poi, quale strano tipo di funzionario pubblico troverebbe mai il coraggio di entrare ed andare di baracca in baracca a chiedere quanti ci vivono o se hanno un lavoro? “Provate ad entrare se avete il coraggio”, e capirete che da queste parti non si scherza: di fianco alla gente onesta, che ogni mattino percorre decine di chilometri a piedi per andare in città in cerca di un qualsiasi tipo di lavoro, vivono vere e proprie bande criminali, paragonabili solo alle mafie italiane. I loro capi, chiamati punteros o capanga sono i monarchi assoluti. Coloro con cui devono fare i conti i politici del partito peronista, quando hanno bisogno di servizi d’ordine o di riempire gli stadi per le manifestazioni politiche. Quelli che decidono chi entra e chi esce, chi vive e chi muore. A loro si rivolgono gli industriali tessili che, all’interno delle bidonville, nascondono fabbriche in cui si lavora in nero e non si paga ne tasse, ne gas, ne elettricità. I punteros, sono i referenti di tutto: quelli che trattano con la polizia, che fanno girare le mazzette di denaro in cambio del nullaosta per commerciare droga, armi e macchine rubate . Di notte le fenditure nel muro di frontiera s’il59

luminano di una lieve luce rossastra dei copertoni in fiamme. Le fumate nere segnalano i posti di spaccio di cocaina e tutto ciò che d’illegale esiste. Un via vai di macchine che si fermano e ripartono velocemente segnalano che i punteros hanno aperto i battenti e che quelli che non fanno parte della bande, si sono chiusi dentro le baracche. La manovalanza composta in larga maggioranza da persone oneste, che in queste villas ci vivono, per potere lavorare sono costrette a falsificare nelle carte d’identità il luogo di residenza. Nessuno è disposto a prendere con se uno che proviene da quelle parti. Per i ceti medi, abitare in una Villa, è sinonimo di delinquenza. Nel 1989, quando la prima presidenza di Carlos Saul Menem privatizzò tutte le risorse e i servizi statali, gli impavidi operai delle nuove imprese privatizzate di luce e gas tentarono di entrare nelle villas miseria. Avevano il compito d’istallare i contatori e tagliare gli allacciamenti illegali. Risultato? Una pioggia di proiettili sì abbatte su polizia e operai che fuggirono a gambe levate. Altro che ricostruire gli oleodotti in Iraq, la polizia federale e quella della provincia di Buenos Aires impararono sulla loro pelle che nemmeno con il coraggio o i carri armati si entra e ora si guardano bene di farsi vedere in giro. Preferiscono starsene alla larga dalla terra degli ultimi. Quando dal governo centrale arrivò l’ordine tassativo di intervenire, i poliziotti scossero la testa, lo stesso fecero di fronte alle laute bustarelle che offrivano i funzionari delle multinazionali. Vista la diffusa resistenza della polizia nazionale ad intervenire, i nuovi concessionari privati, si affrettarono a contrattare dei mercenari, ex appartenenti squadroni della morte ai tempi dei generali. Arrivarono armati fino ai denti, con gipponi blindati e giubbotti antiproiettile, ma i villeros (gli abitanti delle baraccopoli n.d.r ) li respinsero in battaglie epiche e sanguinose che naturalmente nessun telegiornale ebbe il coraggio di mandare in onda. Temendo che la violenza propagasse in tutte le villas miseria del paese, il governo si affretto a censurare ogni notizia. Le nuove impresse private, che si erano impossessate delle concessioni senza gare d’ap60

palto ne controlli statali, concentrarono la loro attenzione nello sfruttamento dei ceti medi, gonfiando a dismisura le bollette e dimenticando per sempre le villas. “Inutile tentare di portare la civiltà a chi non la merita” dichiarò il capo della compagnia elettrica alla stampa che premeva per capire l’improvviso aumento delle bollette, ma naturalmente sulle villas nemmeno una domanda, tanto che importa agli argentini che leggono i giornali e seguono i Tg, delle villas? La nascita dei sobborghi della povertà non li ha raccontati ne Josè Luis Borgues, che ha dedicato parecchi racconti ai sobborghi del tango e dei bordelli, ne nessun altro scrittore. Queste terre di nessuno sono nate e cresciute nel silenzio generale, in simultanea alla pressante espansione economica della Repubblica Argentina del dopo guerra. Il paese che non aveva partecipato al secondo conflitto mondiale aveva tratto enormi vantaggi economici dal boom delle esportazioni di materie prime ad un Europa in ginocchia. Il porto di Buenos Aires brulicava di navi che partivano zeppe di carne e cereali ed altre che portavano migliaia d’emigranti di tutto il mondo. Il primo alloggio per gli emigrati erano i convetillos, Case divise stanza per stanza, famiglia per famiglia. Nelle villas miseria ci finivano le emigrazioni interne, i chiamati cabezitas negras (teste nere n.d.r.) definiti cosi per il colore dei capelli e della pelle, che tradiva la presenza di un qualche antenato indio. Mentre, per i bianchi figli d’europei, il convetillo, fungeva da provvisoria dimora in vista di una sicura ascesa sociale e dell’acquisto della prima casa. Per i figli dei nativi del continente sudamericano la villa miseria diventava invece la dimora per tutta la vita, per loro, e per i figli dei figli. Intere generazioni di villeros dimostrano che dal serbatoio di miseria si esce solo grazie a sport come il calcio o la boxe. Sia Carlos Monzon, campione mondiale di pugilato, che Diego Armando Maradona, tanto per citarne due, provengono da questi luoghi. Inutile raccontare le loro storie personali, basta dire che ogni qual volta cadevano in disgrazia, la borghesia argentina liquidava la faccenda con un: “tanto sono dei villeros”. Solo negli 61

ultimi anni Maradona ha reso omaggio al posto in cui è nato, Villa Fiorito, situata alle porte di Buenos Aires, mentre Monzon è morto senza avere mai rimesso piede nella sua Villa della città di Santa Fe. …dall’alto Vista dall’alto, la capitale e le periferie che insieme compongono “il gran Buenos Aires”, con i suoi 13 milioni di abitanti, è a forma d’imbuto. Con agli angoli del triangolo il sud, il nord e l’ovest. A est c’erano solo le acque marroni del Rio de la Plata. Venti anni fa, quando i nuovi ricchi nati e cresciuti sotto il corrotto governo del presidente Carlos Menem, sentirono il bisogno di maggior sicurezza a causa del crescente divario fra ricchi e poveri, nacque il nuovo quartiere di Puerto Madero. Migliaia di camion trasportarono la terra necessaria per riempire decine d’ettari d’acque del fiume e costruire la Manhattan argentina. Oggi Puerto Madero è il più importante “container” di ricchezza del paese. Polizie private e gendarmeria custodiscono gigantesche torri, casinò, ristoranti e hotel a cinque stelle; con le armi in pugno tengono lontano i poveri. In una città, pensata per la classe media, nessun governo ha realizzato seriamente un piano d’urbanistica popolare. Sempre dall’alto si può vedere come a Buenos Aires le villas miseria sono disseminate a macchia di leopardo, non solo nelle periferie ma anche in quartieri centrali. La politica neoliberista di Menem e la casta di nuovi ricchi divisero la città in zone ben delineate. Oggi la città a forma d’imbuto è divisa in tre parti: a sud i poveri, al centro i ceti medi bassi, e a nord i ricchi. Dopo il crollo economico del 2001 che provocò il default economico, il paese restò per mesi senza stato ne governo. Impauriti e sorpresi, i ricchi osservarono dalle finestre i villeros per la prima volta sfilare per la città, alzare la testa e rivendicare i propri diritti. I primi ad entrare furono i piqueteros: gruppi organizzati chiamati così per i picchetti con cui bloccavano le principali vie del centro 62

città. Furono tra i protagonisti delle rivolte popolari contro i diversi governi fantoccio che si susseguirono a pochi mesi di distanza durante la crisi economica. Col passare del tempo i piqueteros aprirono enormi centri di assistenza nelle villas, con tanto di mensa, ambulatori medici e pompe funebri. Oggi i gruppi di piqueteros sono decine e provengono dai più diversi orientamenti politici, dal trotzchismo al peronismo. Il secondo gruppo di villeros ad entrare in città, era molto più silenzioso e si muoveva al calare delle prime ombre. Erano i cosiddetti cartoneros, immense folle di donne, anziani e bambini, che, frugando nella spazzatura, selezionavano il cartone o il metallo per poi rivenderlo alle fabbriche. Una vera e propria raccolta differenziata improvvisata. I piqueteros e i cartoneros oramai fanno parte del paesaggio cittadino ed i turisti li fotografano come una delle tante attrazioni che offre la città del tango. Un dato da non sottovalutare è che da quando i cartoneros riempiono la notte di Buenos Aires, la criminalità è diminuita. La presenza di queste oneste ombre notturne scoraggia i ladri. Nei lontani anni sessanta, la meglio gioventù argentina, si riversò in massa nelle villas miseria, aprendo scuole e mense. Provenivano dai ceti medi e l’aria del 68 francese aleggiava alimentando i venti di cambiamento. Le rivolte di studenti, operai e villeros, sconvolgevano il quieto vivere dell’opulenta borghesia locale. Poi arrivò il golpe militare del 24 marzo 1976 e gli squadroni della morte sterminarono la gioventù che aveva sognato un’Argentina diversa. Il popolo che lottava contro la miseria e l’esclusione, scomparì nelle acque marroni del Rio de la Plata, in cui oggi si trova il lussuoso quartiere di Puerto Madero. Nel silenzio e nella complicità del mondo intero s’instaurò un regime di sangue e terrore. Oggi, dopo ventisei anni di democrazia, i giovani tornano nelle bidonville a portare aiuto e solidarietà. Lo fanno aprendo delle scuole nel muro di frontiera, nella periferia della periferia. L’interno delle villas continua ad essere impenetra63

bile. Un mondo dominato ormai da bande criminali che sfruttano gli ultimi. …da dentro Nel 1994 per il programma “El visitante”, che andava in onda nella Tv statale argentina, avemmo la possibilità di entrare in Cuidad oculta, una delle villas miseria più estese è temute. Dopo lunghe trattative, e con la scusa di raccontare il mondo della musica villera, simile in tutto ai neomelodici del sud d’Italia che cantano le gesta dei mafiosi, entrammo. Il puntero della zona sud della baraccopoli era un peruviano molto temuto, ma che coltivava l’amore per quel tipo di musica. Nel cuore impenetrabile di Ciudad oculta aveva allestito una vera e propria casa discografica e se ne vantava. Entrammo di mattina, le ore in cui i delinquenti più pericolosi dormono. Il puntero ci indico come vestirci e di nascondere la telecamera. Una volta arrivati alla soglia d’entrata di un gigantesco capannone intonacato di bianco, ci disse che avremmo potuto riprendere solo quello che ci ordinava lui. Tiepide le nostre proteste, dopo che, guardandoci dritto negli occhi ci freddo con un: - se non lo fatte siete uomini morti -. L’Accordo fu naturalmente accettato ed entrammo. Quella che doveva essere una casa discografica si presentò ai nostri occhi con un amplio cortile in cui qua e là c’erano grandi borse piene di cocaina. Una miriade di bambini giocavano a nascondino mentre le madri lavavano i panni. Il puntero peruviano ci raccontò, gonfio d’orgoglio, che tutti quelli erano figli suoi, e che le donne erano le sue mogli. Ci permise d’intervistarle a lungo e tutte dissero di amarlo. Poi ci portò negli studi di registrazione e ci presentò i suoi musicisti. Il documentario andò in onda e gran parte degli argentini conobbe come si viveva all’interno di Ciudad oculta, nessuna borsa di cocaina fu mostrata ne registrata. Molti anni dopo, sulla prima pagina del quotidiano “Cronica”, il rotocalco argentino dedicato alla 64

cronaca nera, trovammo la fotografia del puntero discografico. Era stato freddato a raffiche di mitra insieme ad altre tre persone in un regolamento di conti fra bande rivali. Un’altra esperienza all’interno di queste periferie delle periferie, si presentò nel 1996. In una baraccopoli nemmeno tanto grande conosciuta come Villa Calitos Gardel si verificò un fatto di cronaca nera in cui era coinvolto un noto delinquente denominato Zopapita. Era il puntero del luogo, quando ubriaco, fece irruzione nella baracca di un abitante boliviano, nel tentativo di stuprare la giovane figlia. Il padre della minorenne reagì uccidendolo a colpi di legnate. I seguaci di Zopapita organizzarono un solenne funerale dopo avere setacciato inutilmente la villa in cerca del boliviano che nel frattempo era riuscito a fuggire. Insieme ad un nutrito gruppo di poliziotti e giornalisti andammo a riprendere il funerale da lontano, usando i teleobiettivi delle telecamere. Quando i seguaci del delinquente ucciso notarono la nostra presenza, iniziarono a spararci contro. Il più noto cronista di nera della televisione Argentina, Enrique Sdrech, fu colpito alla spalla da una pallottola calibro 38. Ne seguì un parapiglia e la disperata ricerca delle nostre auto per darci alla fuga. “Provate ad entrare se avete il coraggio”, dicono tutt’ora da queste parti, mentre una nuova e meravigliosa gioventù cerca di riavvicinare i mondi lontani. Se riusciranno nell’impresa, si potrà finalmente dire che l’Argentina è davvero cambiata. Che la democrazia è arrivata per rimanere per sempre.

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Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

Villa miseria tambien es America, di Bernardo Verbtisky El sueno Argentino, di Tomas Eloy Martinez La Novela de Peron, di Tomas Eloy Martinez Las Venas abiertas de America Latina, di Eduardo Galeano Operacion Masacre, di Roberto Walsh Diario de un clandestino, di Miguel Bonasso Diario Argentino, di Witold Gombrowicz Evaristo Carriego, di Jorge Luis Borges Galimberti, di Marcelo Larraquy e Roberto Caballero El Jefe, di Gabliela Cerruti

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(Puerto Madero, foto di Pablo Lasansky)

(Villa 21, foto di Pablo Lasansky)

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Mumbai. Il centro sotto assedio, l’avanzata delle periferie di Daniela Bezzi 1. L’appello dall’India che la mia Mail box riceve in data odierna (fine marzo 2009) mi sposta per un attimo sulla scena di una conflittualità sociale sempre più convulsa e irrisolvibile. Spianata di Mantralaya, sede del Parlamento del Maharashtra - tra le regioni più fast growing (in rapida crescita) dell’India e perciò del mondo. Migliaia in sit in, soprattutto donne, nella calura già intollerabile di fine marzo. Sono lì per denunciare la totale inefficienza della MHADA (acronimo che equivale al nostro Ente Assegnazioni Edilizia Popolare1). La protesta era già arrivata al terzo giorno, quando hanno mandato la polizia. A colpi di lathi (la micidiale canna di bambù che quando picchia, picchia durissimo) l’assembramento è stato disperso, in 300 sono stati caricati sulle camionette. Quando leggerete queste righe saranno stati certamente liberati, ma almeno quel giorno lì lo hanno trascorso in gabbia. Tra essi anche Medha Patkar, sempre più in resistenza e ahimè sempre più debole, nella sua testimonianza di satyagraha2. Sempre meno leader e sempre più calata nell’umile ruolo di faro, nei pochi o tanti casi di violenze cui riesce fisicamente a presenziare. Perché quando c’è lei, quando anche lei finisce in prigione, qualcuno dall’interno del suo staff farà circolare almeno un E-volantino, che sarà ripreso. Senza di lei la violenza accadrà e basta, nell’invisibilità. L’India scoppia e il fatto che scoppi ogni giorno solo un po’, e in tanti punti diversi, rende possibile non farci caso. Emergenza crescente e intollerabile, oppure normale assestamento – è solo questione di punti di vista. Anche i recenti fatti di fine novembre a Mumbai sono in fondo serviti a spettacolarizzare (in India ancor più che da noi) l’esplosività di territori contestati storicamente, a livello geo-politico – oscurando l’esplosività quotidiana, più minuta e diffusa, di tanti fatti come quello appena descritto. Che sempli68

cemente accadono, e continuano ad accadere, ogni giorno, unreported. E ogni volta registrano un tot di defezioni tra coloro che nella professione di gandhiana non violenza avevano creduto – ma dinnanzi a un così reiterato e clamoroso fallimento in termini di governance, dinnanzi al bastone quale unica risposta alla protesta, dinnanzi a un centro così incapace di dialogare con il disagio delle proprie frange e periferie, facilmente passano alla lotta armata, jihad urbana, o militanza maoista, o semplici mafie, tutti ricettacoli di frustrazione organizzata, laddove la democrazia si è ridotta a vuota parola, senza alcuna possibile partecipazione. Troppi gli sfollati che dalle campagne sono stati costretti a migrare, dai primi anni ’90 ad oggi, cacciati dalle loro già povere campagne – con l’unica prospettiva di approdare in qualche stazione, slum, marciapiede, discarica, spianata, e lì restarci, fino a nuovo ordine di sloggio3. E ormai irrisolvibile, per tutte le metropoli dell’India, il sovraffollamento, con la domanda di alloggi, minima rete fognaria, energia, acqua, luce – e ovviamente sicurezza, standard minimi di convivenza, che il sovraffollamento comporta. E quanto al rapporto centro/periferie: lo scenario urbano dell’India ha sfondato da un pezzo qualsiasi separé. Il muro, la periferia e le sue emergenze occupano le città a livello interstiziale, ovunque resti uno spazio occupabile all’ombra dei moderni palazzoni. 2. Ricordo il lungimirante verdetto di un anziano gesuita, Padre Gueviere, quando lo incontrai qualche tempo fa nell’ambito di un’inchiesta che mi preparavo a fare nelle aree tribali (e minerarie) del centro India. Di dichiarata formazione marxista, Louis Gueviere è un punto di riferimento nella formazione di molti attivisti e movimenti dell’India di oggi. Missionario in India dall’anno (1957) della sua dichiarazione di Indipendenza dalla corona britannica, ha seguito l’evolversi di questi ultimi 60 anni di storia, dalle iniziali speranze all’attuale scenario di disillusione e iniquità, dall’interno di uno degli Osservatori meglio documentati (perché quotidianamente aggiornati) di New Delhi: l’India Social Institute, 69

nella centralissima zona di Lodi Road. Lo intervistai nel Novembre del 2005, quando le nostre periferie italiane non erano ancora un diffuso campo profughi – ma quelle francesi erano appena riuscite a sedare la violenza e le fiamme, che si era propagata per giorni. “Le città dell’India stanno andando incontro a scenari di rivolta infinitamente più gravi di quello cui abbiamo appena assistito nelle banlieus francesi” sentenziò con certezza. Sul suo scrittoio, nell’ufficietto senza finestre in cui mi ricevette, era in evidenza un voluminoso rapporto, appena ricevuto, sulla situazione che all’epoca era solo latente – e che oggi è una realtà: la crescente militarizzazione in quel vasto mosaico di periferie che per l’India di oggi, l’India che si pubblicizza shining (luccicante, in sviluppo, in crescita) sono le aree rurali, in particolare le foreste. L’India delle remote areas, come capita spesso di sentirla definire persino dagli Indiani. L’India che sta lontano da tutto, l’India delle tenebre - secondo l’incisiva definizione coniata da Arvind Ariga, scrittore-rivelazione di quest’anno, nel suo libro La Tigre Bianca4. Frutto di testimonianze di prima mano, di partecipate rilevazioni sul campo da parte di missionari che erano anche sociologi, ricercatori, attivisti sociali (tutti molto radicati nelle loro sperdute gomorra indiane) quel rapporto diceva essenzialmente una cosa: l’India delle remote areas si sta organizzando – e la strada che sta imboccando non è più quella della resistenza non violenta, ma la lotta armata, in clandestinità. Molti tra quei contributi provenivano da frati adivasi, ovvero tribali, nati e cresciuti nelle regioni più storicamente tartassate dell’India, nutriti – oltre che dal Vangelo nella sua accezione più egalitaria e robusta – da una cultura di vita & morte di lapalissiana semplicità: che nella madre terra, nella possibilità di inseminarla e farla fruttare per ricavarne almeno due raccolti all’anno, vede l’unica possibilità di sussistenza; senza di quelli sconta il vuoto dei granai (la fame) già da febbraio; e quando gli portano via anche i campi deve difendersi - e si difende con quel che si trova tra le mani. Tradizionali archi e frecce – come per l’infinita storia di ribellioni 70

contro i sahibs bianchi. O vere e proprie armi – di cui l’India delle tenebre sembra essere sorprendentemente ben fornita, ultimamente... “Il governo centrale sembra determinato a ignorare la gravità di ciò che sta succedendo in tutta la fascia orientale dell’India, che da nord a sud è ormai un corridoio naturale di attività clandestine, dal traffico d’armi e d’oppio, al complesso compattarsi di maoisti del Nepal con le Tigri dello Sri Lanka, senza escludere le varie mafie locali” mi disse Gueviere. “Alla base di tutto questo c’è un risentimento sempre meno sparso o episodico, frutto della disperazione, certo – ma non privo di contributi più sofisticati, che pescano dalle sacche di crescente disoccupazione urbana, dal no future che tanti giovani brillanti si trovano davanti alla fine di un percorso di formazione di tutto rispetto.5.La causa scatenante è sempre più la questione della terra, nella sempre più scarsa considerazione per le basilari nozioni di diritto. Per esempio i diritti tradizionali di proprietà, di sussistenza (se è vero che il sovraffollamento sta soffocando le metropoli), di precauzione - nei confronti di conflitti quasi sempre annunciati e che infatti vengono lasciati esplodere apposta, con il preciso progetto di fomentare quella polarizzazione di forze, di opposte militanze, che vedranno alle fine prevalere le ragioni del più forte. Assistiamo alla stessa iniquità, accaparramento, saccheggio selvaggio che caratterizzò la dominazione coloniale britannica per quasi due secoli – e che non a caso molti definiscono colonialismo interno, ulteriormente aggravato dalla crescente competizione fra multinazionali contro industriali indiani, e fra industrie indiane fra di loro, soprattutto nel comparto minerario ed energetico. Situazione sempre più insostenibile per i territori che la subiscono e che infatti, si stanno armando. Parlare di rivoluzione sarebbe improprio. L’India non potrà mai venir sovvertita da un processo rivoluzionario nel senso in cui lo intendiamo in occidente - da quella francese in poi. E sarebbe una forzatura prefigurare una qualche Lotta di Classe, per il semplice motivo che in India non sarà mai possibile parlare di 71

classi. Ci sono le caste, e il ramificarsi delle sotto caste, con l’infinito particolarismo dei mestieri, delle comunità, degli interessi (non sempre assimilabili in un progetto politicamente progressivo). Ci sono i ricchi, alcuni di loro super ricchi - e ci sono le moltitudini dei poveri, che a mareggiate si riversano sotto le loro magnifiche penthouses. Ci sono i padroni, e ci sono i montanti eserciti dei braccianti e operai, un’offerta di forza-lavoro immensa a costi sempre più minimi, con sempre meno diritti, in minima parte sindacalizzata, forza-lavoro per il 93% cosiddetto informale, che spesso non riesce neppure a raggiungere il salario minimo giornaliero di 70 Rs, poco più di un Euro – una miseria.6. Il problema delle lotte sociali dell’India è che non riusciranno mai a diventare un movimento unitario. Ciò non toglie che, nelle aree più periferiche e remote il mosaico dei focolai si stia complicando. Questo è l’inquietante scenario che il Governo Indiano, cosiddetto Centrale, non vuole vedere…”. Pochi mesi dopo il Primo Ministro indiano Manmohan Singh era costretto ad ammettere che il crescente successo del naxalismo (lotta armata di ispirazione maoista) nelle aree tribali dell’India, era il problema di ordine interno più grave che il Governo Indiano si trovasse ad affrontare dalla dichiarazione di Indipendenza ad oggi. 3. Un altro appello che bussa spesso al mio Mail Box viene proprio da quelle aree: Bastar, nel neo-stato del Chattisgarh, regione un tempo magnifica per patrimonio di natura, storia, preistoria, tradizioni – ed oggi devastata dal più selvaggio sfruttamento minerario e dalla guerra fratricida fra naxaliti e Salwa Judum (6), le squadre di vigilantes che si dichiarano favorevoli agli investimenti industriali, anche perché da essi lautamente foraggiate … ‘Libertà per Binayak Sen!’ invoca periodicamente questo appello. Medico pediatra, laureato in un College prestigioso, impegnato in72

sieme alla moglie per la difesa dei diritti umani, Binayak Sen aveva avuto la pessima idea di rinunciare a una carriera di sicuro successo, per dedicarsi a quelle estreme periferie dell’India che sono le aree tribali7. Dal maggio del 2007 è tenuto in prigione, con l’accusa di comportamento sedizioso – e personale collusione con i naxaliti. Chiunque abbia vissuto anche per poche settimane nelle aree tribali dell’India sa bene quanto sarebbe impossibile non essere in qualche modo in contatto con attivisti che operano in clandestinità, inevitabilmente vicini all’area naxalita. Un infinito numero di articoli, rapporti, appelli, raccolta-firme, non solo in India, fa emergere una storia per molti versi eroica, come la definisce la giornalista Shoma Chaudhury sul settimanale Tehelka8: la storia di un professionista di grande competenza, che avrebbe potuto perseguire i propri obiettivi di equità sociale standosene tranquillamente al centro, magari aggiungendo alla qualità del proprio soggettivo impegno, il vantaggio di qualche influente relazione; ma che con grande abnegazione si è esiliato nell’India più periferica che esista - per servire i più indifesi. Nel 2008 gli è stato conferito il Premio Jonathan Mann, per la Salute Globale e per i Diritti Umani. Ma “per il reato di aver pacificamente esercito i propri diritti”, come dice una lunga lettera al Governo Indiano, sottoscritta da ventidue Premio Nobel, Binayak Sen resta in carcere, protagonista, target e testimonial di un conflitto che non risparmia niente e nessuno, le antiche foreste del Chattisgarh come la generosa dedizione di un medico dotato di grande cuore: che ha mollato tutto, per farsi guardiano dei più elementari diritti umani in una delle tante zone di moderna barbarie, nell’invisibilità. Il risveglio delle foreste, in una zona di simile invisibilità, diventa il climax narrativo in uno degli scritti più recenti e intriganti di Arundhati Roy: foresta che pian piano si solleva e si ribella, contro la devastante bramosia del genere umano. A un certo punto sembra quasi di vederli quegli alberi: in alto le fronde e in marcia mentre scendono a valle, forse diretti verso le spianate della pro73

testa canonica, a New Delhi o Mumbai … O forse no, forse orientati verso metodi più spicci ed efficaci. La sensazione che se ne riceve (il testo è scritto per essere recitato e quindi ascoltato) è quella di una condanna già operativa e costrittiva per tutti: la barricata. Chi è dentro è dentro - ma dovrà restarci, per chissà quanto… Chi è fuori è fuori. Tutti sul chi va là, anche senza guerra.9.. Una proxy war (non guerra) che la Roy sta seguendo da tempo, da vicino10. La voce-guida che pian piano emerge come tale, che dà istruzioni, è la voce di un commander. Forse la voce di un militante della jihad in Kashmir, o di un capo pattuglia naxalita. Voce che arriva dal fitto del bush o da qualche vallata in rivolta, oltre le alture. Da un fuori scena di clandestinità, sempre ignorato perché ritenuto lontano abbastanza, all’estrema periferia, inoffensivo – e che improvvisamente si rivela invece organizzato e in avanzata, perfettamente in grado di conquistare il centro della scena. Pensiamo, di nuovo, ai fatti di fine novembre a Mumbai: al di là dell’eccezionale sfoggio di organizzazione da una parte, e della più totale impreparazione dall’altra, la componente forse prevalente dell’attentato è stata il fattore sorpresa. Da parte di un centro che improvvisamente è costretto a rendersi conto che il fuoriscena è già interstiziale, nemico diffuso all’interno di una guerra che pure si sapeva, c’era da sempre, nella sempre più insostenibile disuguaglianza, negazione dei diritti, unilateralità decisionale – ma che improvvisamente è lì, si vede, i suoi legionari sono arrivati sotto casa, nella stazione più trafficata della città, addirittura all’interno dei Grand Hotel che le élites (storicamente!) ritenevano il proprio esclusivo salotto, inespugnabile Fortezza. Guerra insomma di mondi, di habitat che sconfinano senza più riparo l’uno dentro l’altro, annullando qualsiasi illusione di centro vs periferie. La realtà che i fatti di Mumbai hanno rivelato è che la minaccia della periferia (e la periferia per antonomasia più minacciosa per l’India è il vicino-nemico Pakistan) è già ovunque, potrebbe di nuovo attaccare da qualunque lato o punto, come ha già fatto da quello più avvistabile – via mare. E il paradosso è che le 74

aree residenziali che vedi sempre più pubblicizzate come attraenti, dotate di servizi minimamente paragonabili ai nostri comfort (se non la piscina o il tennis condominiale, almeno la sicurezza di avere acqua e luce corrente quando serve) sono situate a una tale distanza dal centro, da potersi considerare fuori città. Città satelliti, neo fortezze – almeno per un po’... 4. Mumbai, la Maximum City raccontata dal libro-inchiesta di Suketu Metha, è il caso limite di questa crescente insicurezza metropolitana, da sempre. Quando nel gennaio 2004 ospitò il Forum Sociale Mondiale, parecchi delegati si stupirono di vedere la peggior miseria ovunque. Benché veterani di precedenti Social Forum, esperti di emergenze sociali sotto i cieli più diversi, alcuni rimasero proprio colpiti da quel paesaggio di sconnessa-interconnessa baraccopoli. “Nelle città del terzo mondo che ho potuto visitare, la povertà è confinata in precise aree – non ce l’hai sotto gli occhi sempre e ovunque come qui…”, mi disse un giornalista brasiliano. La povertà ovunque. Il flusso delle povertà. La povertà che si radica e diventa stanziale. Dei tanti che ogni giorno, a migliaia, arrivano in treno dalle campagne; e una volta approdati alle prime colate di cemento che significano città, si spalmano lungo discariche e rotaie – come farebbero lungo il letto dei loro magri corsi d’acqua. “Se sei nuovo in un luogo, e non sai dove andare’ mi ha spiegato uno di questi slum dog di Mumbai, ‘meglio che resti vicino alle rotaie, oppure alla fogne, che da qualche parte portano. Altrimenti ti perdi…”. Su quelle rive infatti rimangono, timorosi di qualsiasi altrove, senz’altro orizzonte che i treni o lo skyline dei rifiuti, senz’altra sopravvivenza che l’elemosina, la merda, il furto - o la raccolta della merde e dei rifiuti. L’operatore sociale che faceva da interprete tra me e lo slum dog, lavorava per una organizzazione di cosiddetti pavement dwellers, residenti di marciapiedi. Anche loro soggetti sociali - e in crescita, sempre meglio organizzati. Con lui visitai altri mar75

ciapiedi, in zone diverse di Mumbai - comprese le zone più a sud, Colaba e dintorni, zone di antica ricchezza… L’equivalente del ghetto, evocato dal collega brasiliano, lo visitammo tutti insieme a Daravi, allora nota come lo slum più grande di tutta l’Asia – oggi teatro di ripetuti scontri, tra chi ci abita e (nota bene) ci lavora sodo – e developers, ovvero palazzinari. Un’area così estesa, proprio nel centro della capitale economico-finanziaria dell’India, non può non far gola. Ciò che ci colpì, nel corso di quella visita, fu l’altissimo livello di organizzazione all’interno di un habitat che, pur povero, slabbrato, invivibile per noi, non era miseria, ma pullulare di microimprese e attività. Dalla lavanderia (tonnellate di panni da lavare e stirare – e miracolosamente riconsegnare ogni giorno, senza sbagliare destinazione), al catering (migliaia di lunch box quotidianamente serviti a costi minimi ai white collars), dal riciclo differenziato della monnezza, al vero e proprio trading di rifiuti pregiati12. Daravi insomma non era la Kogorocho di Mumbai – ma un superiore modello di slum development, in cui l’arte di arrangiarsi vantava in alcuni casi le caratteristiche dell’impresa. Dal 2004 ad oggi molte cose sono cambiate. Molte di quelle baracche sono state travolte dalle ruspe, al loro posto sono sorti delle residenze multipiano, con priorità di assegnazione agli sfollati. E i rapporti dei sociologi, assistenti sociali, attivisti che hanno seguito la transizione concordano: difficilissimo adattarsi a una vita in verticale e alla privacy degli appartamentini (per la verità cubicoli) unifamiliari, per chi era abituato al dedalo delle stradine e al dentro/fuori tra le varie case e botteghe. Le porte sono state abolite, il dentro e fuori continua in qualche modo – ma con più fatica di prima, per via delle scale. Mentre crescono gli effetti di una malattia che prima non c’era: la depressione. Molti si dicono confusi, soffrono di vertigini, denunciano sintomi di soffocamento – se potessero tornerebbero nelle baracche. Impraticabili le latrine. Pubblicizzati come dream houses quei box di cemento sono subito diventati immondezzai, proprio nel cuore della Mumbai che so76

gna di competere con Shanghai. Vista l’impossibilità di ghettizzare la miseria, a Mumbai non resta quindi che ghettizzare la ricchezza – ma con sempre maggiore difficoltà. A parte l’estrema vulnerabilità che l’attacco terroristico di fine novembre ha rivelata persino a Nariman Point, qualsiasi indirizzo giusto, anche a Mumbai Central non è più quello che era. Subito dopo il WSF di Mumbai mi era capitato di visitare un paio di queste altolocate magioni, per un reportage sulle sorti progressive dell’India, determinata a posizionarsi terza potenza economica mondiale entro il fatidico 2020. Portiere armato di fucile (sic!) al portone della Mansion, doppio ascensore piantonato da quattro guardie (due per ascensore, uno per guardianare il pian terreno, l’altro per scortarti nella salita e discesa). Interni arredatissimi, vetrinette ricolme di ninnoli e argenterie, via vai felpato di servants mentre dai convenevoli in salotto si passava al terrazzo, dove era servito il the. Il paesaggio avrebbe potuto dirsi notevole (scogli, sparsi cactus, oceano ruggente a debita distanza – e blu-piscina proprio di sotto, anche quella piantonata giorno e notte) se non fosse stato per una colonia di migranti che si era insediata proprio nel mezzo. All’inizio era solo una famiglia – mi spiegò il tipo che stavo intervistando – poi le famiglie erano diventate un villaggio: “Per me che sto in alto il problema è solo estetico: la vista non è più quella che era e spesso contempla qualche paio di natiche nel mentre che… Ma per quelli che abitano ai piani bassi, alla vista si aggiungono le puzze: fin dalle prime luci dell’alba il via vai dei bisogni corporali avviene sotto le loro finestre. Non ci si può fare nulla, Mumbai è ormai da anni, ovunque, un diffuso encroachment, occupazione abusiva ovunque. C’è chi ha provato a spostare la propria residenza in aree più riparate, inevitabilmente molto a nord – ma il problema di Mumbai è la mobilità. Chi lavora per esempio nel settore finanziario nell’area sud (Colaba) non può certo confinarsi ad Andheri, area residenziale meno congestionata, ma lontana - e sorbirsi ore di traffico mattina e sera per tornare a casa. L’unica sarebbe traslocare ogni 3-4 anni sulla rotta dei developers, non appena 77

si inaugura qualche quartiere nuovo di zecca, nelle periferie. Ma ci vorrebbe l’elicottero – non tutti possono permetterselo”. Chi può permettersi l’elicottero, emigra davvero in periferie sempre più lontane e pochissimo servite – a debita distanza dalle rotaie, possibilmente agli albori di qualsiasi rete viaria. Solo così (si spera) irraggiungibili dagli slumdogs, solo così esclusive.. La periferia in questo senso più ambita, da chi non può più sentirsi privilegiato neppure ai piani alti di un residential bldg sulla Marine Drive – nonostante il costo al metro quadro abbia raggiunto qui i livelli di Manhattan e Mayfair – è Alibagh, un lembo di costa che da Mumbai si raggiunge solo in autostrada (due ore di macchina), o via mare (un’oretta di battello). Oppure in motoscafo, per chi lo possiede. Ci sono stata, aspettandomi una Goa ancora più pretenziosa – e sono rimasta stupita di trovarmi in un habitat abbastanza intatto, persino rustico. Paesaggio verdeggiante sì, ma piatto. Case ben distanziate l’una dall’altra – forse belle nei loro interni oltre i muri, ma insignificanti dal di fuori, senza alcun richiamo per l’eventuale turista. Paesaggio che non prevede infatti alcun turista, solo residenti, ovviamente ben noti l’uno all’altro – ma senza alcun progetto di mondanità. Alibagh è l’ultimo rifugio possibile, da non divulgare, da tenere per sé – finché potrà durare. Il posto più periferico che Mumbai possa offrire: al di là dal mare. Accessibile solo a chi ne possiede anche l’accesso. E una volta alla settimana si ritaglierà il privilegio di un bel paesaggio, senza più natiche al vento – insieme agli olezzi. 5. Un privilegio che a New Delhi non sarebbe più possibile. Cresciuta a dismisura in tutte le direzione, New Delhi si distribuisce ormai su ben tre diversi stati: Delhi, Haryana, e Uttar Pradesh. Molte imprese occidentali che negli ultimi anni hanno abboccato all’attrattiva di investire in India, hanno optato per qualche periferia nuova di zecca sorta in fretta e furia intorno alla capitale, proprio per essere più sicuri, in quanto vicino al cuore dei poteri, ai 78

vari ministeri e faccendieri – e si sono trovati ad operare in un clima di vero far west. Particolarmente drammatico il caso della Graziano Trasmissioni, industria a tutti gli effetti italiana (sebbene all’interno del più vasto conglomerato svizzero Oerlikon), che come tanti altri produttori di componenti per il settore auto aveva creduto nelle vantaggiose opportunità di investimento offerte da questa New New Delhi. Terreni a costi minimi, massime agevolazione fiscali, mano libera per tutto il resto, dai criteri di gestione del personale alla possibilità di reclutare una propria polizia privata – non solo per la custodia della fabbrica, ma anche in caso di manifestazioni dei lavoratori magari sgradite al padronato, o per controllarne il rendimento. Situazione che deve essere diventata a un certo punto incandescente – e che infatti aveva determinato l’allontanamento (improprio sarebbe parlare di licenziamento, in mancanza di contratto) di circa duecento operai, nell’aprile del 2008. A ciò era seguito un serrato braccio di ferro – culminato con l’assalto alla fabbrica e con il linciaggio, nel settembre 2008, del dirigente indiano dell’azienda, tale Lalit K Chaudhary. L’episodio ha fatto molto scalpore in India e l’inchiesta (ancora in corso) è stata seguita dall’opinione pubblica indiana con la stessa polarizzata animosità che i nostri media hanno riservato allo stupro della Caffarella: perché oltre allo scenario di estrema e sconnessa periferia industriale, l’impresa implicata era straniera (e quantunque immensa sia la secolare diseguaglianza indiana, il risentimento contro qualsiasi comportamento vagamente predatorio straniero è sempre vivo), l’ambito produttivo è quello dell’auto (che identifica una precisa area di desiderio per l’opinione pubblica) – ma quella particolare area industriale all’estrema periferia di New Delhi si chiama Noida, e per andarci bisogna proprio varcare un confine. Uscire cioè dallo stato di Delhi ed entrare nello stato dell’Uttar Pradesh, o meglio nell’estrema periferia di quello che all’interno della confederazione indiana è considerata ormai una specie di Viet Nam, dopo che le ultime elezioni regionali hanno 79

dato la vittoria alla combattiva Mayawati, nota come ‘regina dei dalits’.13 Dopo mesi di inchiesta, la dinamica circa l’episodio resta oscura, nel ping pong di versioni diverse. Quella della Graziano enfatizza il ruolo di facinorosi esterni, responsabili di fomentare il malcontento tra i lavoratori che erano stati sì licenziati, ma stavano per essere reintegrati. Quella del Forum di Solidarietà con gli operai della Graziano India, sostenuta da ben tre diversi sindacati, denuncia la totale inaccettabilità nelle condizioni di lavoro già prima dell’assalto. Turni mai inferiori alle 12 ore giornaliere (che spesso diventavano 14), solo un terzo dei 1200 lavoratori impiegati con regolare contratto (gli altri ‘a discrezione’), cibo immangiabile, situazioni di intimidazione continua, negazione del diritto di assemblea, e così via. Su un punto le versioni concordano: Chaudhary (descritto come uomo tranquillo, dedito al lavoro e alla famiglia) è morto con la testa fracassata a colpi di martello. E’ morto cioè durante un assalto vero, da parte di 200 lavoratori che dovevano essere veramente inferociti: da tempo in attesa di un colloquio con la direzione e da cinque giorni in tenuta d’assedio intorno alla fabbrica. Comunque siano andate le cose un recente articolo sul Financial Times14 parla di salari ridicoli anche per l’India: € 65 al mese per lavoratori con contratto, meno di € 40 per quelli senza, nessuna indennità, niente riposi, niente ferie. Semi schiavitù. Particolare inquietante: l’episodio della Graziano Trasmissioni non sarebbe affatto un caso isolato, al contrario ha messo in luce uno scenario di grande e generale ingestibilità, violenza, difficoltà di governare. Parecchie industrie se ne erano già andate da tempo: tra le altre una sussidiaria della coreana Daewoo, e la Hindon Rubber. Altro particolare (non meno) inquietante: nonostante il notevole scalpore in India, e nonostante tra i dirigenti barricati nella fabbrica/fortezza il giorno dell’assalto ci fossero anche cinque dirigenti italiani, l’episodio è passato totalmente silenziato sulla nostra stampa, solitamente così attenta a casi di questo genere (tanto per 80

dire) in Cina o in Francia. Per la cronaca: la Graziano Trasmissioni, che in India (ma alle condizioni sopra descritte) continua a produrre per l’industria automobilistica indiana con spese operative il 50% inferiori rispetto a quelle europee, in Italia, nel comprensorio di Rivoli, è tra le industrie più gravemente ‘colpite’ dalla crisi – ma a pagarne il maggior prezzo sono i tanti lavoratori in CI. Ignari del conflitto sociale che il loro padronato ha innescato in India, benché da quel conflitto (frutto di un tipico shift produttivo non certo negli interessi delle collettività, ma attento solo al profitto) derivi la primaria concausa della loro attuale (tutt’altro che strana) precarietà. Ma il caso di conflittualità/vergogna industriale – e al tempo stesso di conflitto città/campagne – più recente e clamoroso, in India, coincide con l’estrema periferia di Kolkata, nei campi un tempo verdeggianti di Singur, ridotti ora ad area industriale dismessa. La Tata Motors, per conto della quale il governo del West Bengala aveva proceduto alla requisizione autoritaria di 1000 acri di terra agricola nel dicembre del 2006, è stata alla fine costretta ad andarsene, sebbene la fabbrica fosse quasi completata – scacciata dalla protesta dei tanti piccoli contadini e dei braccianti. La pubblicizzata, anche in Italia favoleggiata Nano Car (ricordiamo che Tata Motors è il principale partner commerciale della Fiat non solo sul mercato indiano – e che la progettazione della Nano Car è stata possibile con un consistente apporto italiano) si farà lo stesso, anzi è stata di nuovo presentata al mercato proprio in questo mese di marzo a Mumbai. Ma la produzione ha subito un ritardo di parecchi mesi – e il costo anche di immagine subito da Tata Motors è stato notevole. Vicenda, quella di Singur, in tutti i sensi penosa: per la morte dei campi (che fino a tre anni fa producevano dai 2 ai 5 raccolti all’anno) a fronte di una promessa d’occupazione abortita sul nascere; per l’insolubilità del conflitto creato (poiché i campi requisiti non potranno tornare ad essere agricoli né potranno essere restituiti); e per l’evidente insostenibilità totale del progetto. L’industria 81

è arrivata, ha occupato e se ne è andata. Singur è un caso di periferia per forza, senza neppure la contiguità, senza neppure la promessa e la colpa, della città. Desolazione tout court. Postindustria che si avvera senza neppure l’industria. Il più eloquente quadro di uno sviluppo che distrugge senza nulla in cambio. Molti saranno riparati a Kolkata, già inghiottiti dagli slum. Pulviscolo di quell’umanità che senza più fiumi, segue le rotaie. Condannando alla periferia ogni centro di città. Note 1.

2. 3.

4.

MHADA (Maharashtra Housing and Area Development Authority) opera dal 1976 per iniziativa dell’Housing Department Government of Maharashtra per ‘fornire soluzioni complete e coordinate al problema degli alloggi’ particolarmente vivo nella città di Mumbai. Tra i servizi offerti ne contempla uno per il ‘miglioramento della qualità della vita negli slum’ con uno sportello consultabile anche on line – che però è fermo al febbraio 2005 (http://mhada. maharashtra.gov.in /pdf/msib_citysan_chaterd.pdf). Gli alloggi disponibili sono periodicamente annunciati sulle pagine dei quotidiani e dovrebbero venire assegnati sulla base di quote percentuali, che vedrebbero favorite i settori più disagiati. I casi di corruzione, in favore di assegnatari tutt’altro che disagiati, sono moltissimi. Satyagraha significa letteralmente ‘insistenza in ciò che si ritiene vero’. E’ il principio che fonda la pratica gandhiana di opposizione non violenta. Secondo l’ultimo World Development Report diffuso dalla World Bank (2009: Reshaping Economic Geography) la popolazione di Mumbai che era di 7.5 milioni negli anni 80 è ora raddoppiata, e per il 50% vive negli slums. Mumbai accoglie ogni giorno una media di 300 nuovi migranti dalle campagne più povere dell’Uttar Pradesh o del Bihar. Bal Thakeray, fondatore del Partito ultra-destra Shiv Sena e amministratore della megalopoli indiana, ha fatto della difesa dei mumbaiti ‘autentici’ e della paranoia anti-migranti il proprio principale cavallo di battaglia. Vincitore del prestigioso Booker Prize del 2008, La tigre bianca è la confessione in prima persona di come un tipico protagonista della periferie più povere dell’India (il Bihar), disposto anche al crimine pur di avere successo, diventa un brillante uomo d’affari. In Italia è stato 82

pubblicato dalla casa editrice Einaudi, nella tradizione di Norman Gobetti. 5. Il tasso ufficiale di disoccupazione è stimato intorno all’8% della popolazione. L’offerta di occupazione non potrà che ridursi ulteriormente con la contrazione del Pil indiano – che dal 7% degli anni scorsi è già sceso al 5%. 6. Salwa Judum, significa letteralmente ‘ronde di caccia’: è la mobilitazione cosiddetta ‘civile’ nata nel 2005 come risposta all’insorgenza naxalita nelle aree tribali del Chattisgarh. Gruppi simili si sono poi costituiti anche in Orissa, Andhra Pradesh, Jharkhand. 7. Binayak Sen, è un dottore, specializzato in pediatria, membro fondatore e Vice Presidente del PUCL (People’s Union for Civil Liberties) che identifica in tutta l’India l’impegno civile delle cittadinza attiva. Tutti i particolari della vicenda e della campagna, cui anche il quotidiano inglese The Guardian ha dato recentemente molto rilievo, su http://www.binayaksen.net/ 8. http://www.tehelka.com/story_main37.asp?filename=Ne230208The_Doctor.asp 9. Intitolato The Briefing (Istruzioni) è il primo testo di fiction che la Roy ha scritto nella primavera del 2008 dopo il fortunato debutto (Il dio delle piccole cose) su commissione dell’evento d’arte Manifesta 7 e come contributo per l’installazione sonora di Fortezza, la possente fortificazione che sorge a pochi chilometri da Bolzano. Il testo integrale in inglese nel link: http://www.asianwindow.com/books/1938/ 10. Proxy war è la formula in uso in India per l’insolubile (e infinitamente sanguinosa) ‘questione del Kashmir’, su cui la Roy sta da tempo lavorando. 11. http://www.einaudi.it/einaudi/ita/catalogo/scheda.jsp? isbn=978880618405&ed=87 12. Una delle success story ritenute più esemplari dall’odierna India è quela di Anil Agarwal, fondatore della conglomerata mineraria Vedanta – che partendo da Patna, quando aveva 15 anni e a malapena in grado di leggere e scrivere, cominciò come scrap metal dealer, ovvero raccoglitore di metalli. Link: http://www.livemint.com/2008/ 02/01002118/Anil-Agarwal--Wheels-of-fortu.html

13. Kumari Mayawati leader di Bahujan Samaj Party, definita dalla BBC

una ‘icona per i milioni di intoccabili dell’India’, forte dell’affermazione elettorale conseguita l’anno scorso nell’UP, lo stato più popoloso del subcontinente, mirerebbe ora alla poltrona di Primo Ministro. Link: http://www.livemint.com /2008/02/01002118/Anil-Agarwal-Wheels-of-fortu.html 83

14. Link http://www.ft.com/cms/s/0/6b1300b6-1b39-11de-8aa3 -0000779f d2ac.html

(Mumbai, Fsm 2004, foto di Eleonora Bonaccorsi)

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Mondializzazione e urbanizzazione diseguale in Africa di Fantu Cheru La mondializzazione è un fenomeno multidimensionale. Assume significati diversi secondo le persone e le discipline accademiche che ne fanno oggetto di studio. Gli economisti, per esempio, la vedono anzitutto come una specie di capitalismo globale; per i “cultural studies” è in primo luogo una forma avanzata di meticciato culturale (Robertson, 1996); per le scienze politiche, si tratta di un processo per cui lo Stato-nazione si vede costretto e forzato a cedere a poco a poco la propria sovranità alle istituzioni politiche regionali e internazionali (Strange, 1996). Al di là di questi punti di vista particolari, tutti sono d’accordo nel dire che la mondializzazione rinvia più in generale a un mondo sempre più interconnesso. E questo movimento è esso stesso il prodotto della crescente influenza del capitalismo di mercato, parallelamente ai progressi spettacolari nel settore delle tecnologie di punta, comunicazioni e trasporti (Allen e Hammet, 1988). La caratteristica più notevole della mondializzazione è l’importante cambiamento sociale che ha comportato. Per dire la verità, si tratta piuttosto di una “molteplicità di transizioni” che interagiscono simultaneamente e a livelli diversi, a volte perfino in maniera totalmente contraddittoria. Queste trasformazioni in serie si esprimono in maniere diverse, secondo le economie e le città che ne costituiscono il quadro, e secondo i tipi di protagonisti che coinvolge. I loro effetti – alcuni possono essere positivi, altri negativi – sono ben visibili nei diversi contesti sociali, culturali, economici, ambientali o politici. Attualmente, per esempio, si vede che solo una parte dell’umanità sembra svilupparsi e crescere per effetto dell’integrazione nei mercati globali, mentre l’altra parte non cessa di sprofondare nello scoraggiamento e nella disperazione, comprese certe popolazioni che si pensava potessero raccogliere pienamente i frutti della mondializzazione economica. 85

In questo testo si analizzerà come la mondializzazione economica tocca in maniera diversa certi paesi e regioni del mondo dipendente, a partire da criteri quali il livello di integrazione dell’economia locale nell’economia mondiale, il contesto politico nazionale e locale, il grado di centralizzazione e decentralizzazione del potere, l’influsso delle istituzioni in ogni paese e ogni località e infine certe caratteristiche demografiche. Vedremo poi in che maniera questa mondializzazione diseguale rafforzi le disparità sociali ed economiche nelle città africane. Ruolo delle città nel processo di mondializzazione Storicamente, le città hanno sempre svolto un ruolo centrale nello sviluppo nazionale. Le città sono potenti motori di crescita, a volte ancora più potenti delle economie nazionali. Sono anche importanti centri di innovazione, perché ospitano le forze che governano od orientano la mondializzazione – finanza, produzione, marketing, informazione, conoscenza, ricerca e sviluppo (Sassen, 1991; Gilbert e Gugler, 1992). Le caratteristiche delle città – infrastruttura, ambiente giuridico e amministrativo, qualità del capitale umano ecc. – plasmano a loro volta il processo di mondializzazione. Nel corso degli ultimi venticinque anni, i surplus economici ottenuti grazie alla crescita hanno permesso di aumentare la produttività in molti paesi, ma anche di fare molti progressi in termini di alfabetizzazione, sanità e speranza di vita. Oggi però si possono osservare due distinti processi di urbanizzazione: un processo di “urbanizzazione con sviluppo” e un processo di “urbanizzazione senza sviluppo” (o a sviluppo limitato). Si ha urbanizzazione con sviluppo quando si producono contemporaneamente la crescita economica nazionale e lo sviluppo del paese, che possono entrambi appoggiarsi su una politica nazionale capace di integrare pianificazione economica e pianificazione spaziale; un settore agricolo produttivo; e infine l’esistenza di città secondarie e città “mercantili” che facilitino l’interazione fra mondo rurale e urbano e canalizzino l’esodo proveniente dalle campagne. 86

L’urbanizzazione senza sviluppo (o a sviluppo limitato) si produce invece quando la crescita economica nazionale e lo sviluppo non riescono a rispondere ai bisogni di una popolazione in aumento. Questa forma di urbanizzazione si può osservare soprattutto nell’Africa sub-sahariana, in una parte dell’Asia e dell’America centrale. Le caratteristiche principali sono le seguenti: un settore agricolo debole; risultati economici nazionali scarsi; assenza di una politica nazionale che integri pianificazione economica e spaziale; scarsità di città intermedie e “mercantili”; e un esodo rurale massiccio che produce grandi megalopoli dalla debole base economica e, localmente, di scarse capacità amministrative per fornire i servizi di base. Considerando questi due tipi di urbanizzazione, si può vedere chiaramente che gli effetti della mondializzazione economica (buoni e cattivi) non si manifestano allo stesso modo, secondo i diversi paesi e le diverse città. In base, fra l’altro, alla qualità delle istituzioni, delle risorse umane, delle infrastrutture e infine alla stabilità e “prevedibilità” delle politiche che orientano lo sviluppo nazionale e locale. Nel caso delle città africane, se gli ostacoli che devono superare sono spesso determinati storicamente, bisogna pure ammettere che la mondializzazione ha contribuito a rafforzare gli ostacoli e a far apparire nuove fratture e contraddizioni. Le forti concentrazioni urbane di numerosi paesi in via di sviluppo non hanno potuto poggiare sulle stesse basi istituzionali ed economiche di quelle delle economie sviluppate. La rapida crescita delle città africane non è stata accompagnata dai benefici di cui hanno goduto le città occidentali con i loro processi di crescita accelerata. Sono molte le città africane che mostrano un basso livello di sviluppo economico, di istruzione e di speranza di vita. Gli scarsi risultati agricoli, la mancanza di politiche nazionali coerenti in termini di pianificazione economica e spaziale; la debolezza dei servizi municipali e una base fiscale fragile e instabile sono altrettanti elementi caratteristici di una “urbanizzazione senza sviluppo”. Ma benché ciò possa sembrare strano, gli africani conti87

nuano a emigrare verso le città, sperando sempre di trovarvi maggiori opportunità di lavoro e di istruzione. Al contrario della scuola di pensiero convinta che urbanizzazione e mondializzazione si rafforzino reciprocamente, un buon numero di ricercatori oggi afferma che le diseguaglianze preesistenti prodotte dai processi di urbanizzazione sono state rafforzate dalle politiche macroeconomiche e fiscali che hanno accompagnato la mondializzazione economica (Beall, 2002). La “rilocalizzazione spaziale” delle attività economiche – produzione, distribuzione, servizi, finanza – rimodella i rapporti sociali, le forme abitative, il mercato del lavoro e dei beni immobiliari, le forme di governo urbano e l’accesso ai servizi di base. E le bidonvilles si ritrovano oggi a un tiro di schioppo da grattacieli scintillanti e rutilanti centri commerciali. Questi cambiamenti si manifestano sia nei grandi centri urbani che orientano la mondializzazione, sia nelle città che svolgono un ruolo di secondo piano nell’economia mondiale e locale. Ciò impressiona in maniera particolare quando si consideri che l’accesso ai servizi di base, in particolare acqua potabile e installazioni sanitarie, fino a poco tempo fa erano a carico dei governi nazionali. Servizi: un “apartheid mondializzato” Il processo di differenziazione e le crescenti disparità fra le città dei paesi in via di sviluppo e al loro interno si manifestano con forza nell’accesso diseguale delle popolazioni urbane ai diversi servizi di base (UN-Habitat, 2003). Nel 2000, il rapporto congiunto dell’Unicef e dell’OMS (Unicef/WHO Joint Monitoring Program) mostrava che l’Asia e l’Africa erano le due regioni in cui la copertura dei servizi di base (acqua potabile e cure mediche) era meno estesa. In totale, circa 1,1 miliardi di persone non avevano forniture adeguate di acqua potabile. I tassi di copertura più bassi si ritrovavano in Africa sub-sahariana: il 43% della popolazione non aveva accesso diretto all’acqua potabile. Venivano poi l’Asia dell’Est (24%), del sud (15%) e l’America Latina (14%). 88

Il rapporto indicava anche che circa 2,4 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso a cure mediche adeguate: il 79% vivevano in Asia, il 12% in Africa e il 5% in America Latina e ai Caraibi (Unicef/OMS, 2000). In termini di copertura sanitaria, i tassi più bassi si trovavano nell’Est asiatico: il 66% della popolazione non aveva accesso a cure mediche adeguate. Grosso modo, la metà della popolazione dell’Est asiatico (52%) e dell’Africa subsahariana (47%) non vi avevano accesso (in America Latina e Caraibi, il 23%). In generale, le opportunità di accesso all’acqua e alle cure mediche erano più alte in città che nel mondo rurale (a volte con un fattore di 6 a 1). Queste diseguaglianze hanno largamente contribuito ad alimentare nel mondo rurale l’impressione che la vita urbana sia molto migliore. Da qui la fiumana incessante di migranti verso le città. Integrando i dati di quel rapporto con le previsioni di crescita demografica, l’Unicef ha potuto stimare il numero di persone che in ogni regione dovranno beneficiare di un accesso all’acqua e alle cure mediche per raggiungere nel 2015 gli obiettivi del millennio per lo sviluppo (OMD). Per quanto riguarda le forniture d’acqua, le cifre sono le seguenti: 359 milioni di persone nell’Africa sub-sahariana; 444 milioni in Asia del sud e 465 nell’est e nel Pacifico. Per quanto riguarda le cure mediche, la sfida nell’Africa sub-sahariana è analoga. Per raggiungere gli OMD dovrebbero accedervi 365 milioni di persone. La sfida sanitaria è ancora più importante in Asia, sia del sud che dell’est: in ognuna di queste regioni, bisognerà offrire cure sanitarie a circa 700 milioni di persone (Unicef/ OMS, 2004). Le cifre riportate, anche se sommate, non permettono comunque di cogliere tutta l’ampiezza delle diseguaglianze entro le città. Da Lima a Nairobi, esistono enormi disparità fra le bidonvilles e i quartieri agiati, in termini di investimenti nelle infrastrutture. Se le città e i quartieri provvisti di acqua e di installazioni sanitarie hanno in media dei tassi di mortalità del 10 per 1000, nei quartieri poco o mal serviti i tassi sono in genere da 10 a 20 volte superiori (Shi, 89

2000; Woldemicael, 2000, 207-227). In Africa, l’impatto della mancanza di accesso all’acqua e della scarsa igiene sulla salute dei bambini di età inferiore ai 5 anni è 240 volte più alto che nei paesi ad alto reddito. Mancando ogni sistema di fornitura idrica, molti africani sono costretti a usare l’acqua dei fiumi e degli stagni che nelle zone urbane somigliano più a fogne a cielo aperto. Là, anche quando esiste un sistema di distribuzione, l’acqua fornita è completamente insalubre. I poveri sono perciò stesso sovraesposti a rischi derivanti dall’ambiente e a malattie mortali che si potrebbero facilmente prevenire (UN-Habitat, 2003, 57-85). Per questa ragione le riforme economiche orientate verso il mercato sono state tanto contestate in tutto il mondo, dall’Argentina al Bangladesh. La sfida urbana in Africa Come in molte altre regioni del mondo, l’Africa sub-sahariana sta sperimentando una rapida urbanizzazione in un contesto di stagnazione economica, di governance debole e di fragilità istituzionale. Si stima che per il 2010 circa il 55% degli africani vivrà nelle città. Una crescita urbana così rapida ha provocato numerosi problemi: aumento della disoccupazione, del sottoimpiego e del settore informale, deterioro delle infrastrutture, minore capacità dei poteri pubblici di fornire servizi e attrezzature, sovrappopolazione, disastri ecologici e crescente scarsità di abitazioni. L’aumento della popolazione urbana nel continente non è stato accompagnato dalla necessaria estensione dei servizi di base, e da nuove opportunità di lavoro produttivo. La situazione si è ulteriormente aggravata per la debolezza delle strutture di governo urbane e per la loro limitata capacità di stimolare la crescita economica, mobilitare le risorse necessarie e fornire un minimo di servizi di base. Malgrado la traiettoria allarmante presa da molte città africane, i responsabili della pianificazione dello sviluppo si sono impegnati anzitutto a ridurre la povertà rurale. Quanto agli uomini politici, la loro prima preoccupazione era quella di rendere la vita urbana adeguata ai bisogni delle 90

élites nazionali minoritarie. In una celebre opera pubblicata nel 1977, Why Poor People Stay Poor: Urban Bias in World, Michael Lipton affermava che gli investimenti nelle zone urbane deprimevano lo sviluppo rurale, la principale base di appoggio economico di numerosi paesi (Lipton, 1977). Quel libro; e altri studi che lo hanno seguito, hanno largamente contribuito ad alimentare il pregiudizio antiurbano, ancor oggi tenace in certe strategie di sviluppo proposte per l’Africa. Da qui anche la mancanza di attenzione riservata fino a poco tempo fa ai problemi particolari degli abitanti delle città, specialmente i più poveri che vivono su terreni occupati e nelle bidonvilles (Lee-Smith e Stren, 1991). I pregiudizi antiurbani erano controcorrente rispetto a un’altra prospettiva che vedeva l’urbanizzazione come un processo di natura progressista e come uno dei motori principali dell’innovazione tecnica, dello sviluppo economico e del cambiamento sociopolitico: infatti si era constatato che l’urbanizzazione aveva un impatto positivo sulla fertilità, sulla mortalità e su molte altre tendenze demografiche. Oggi, gli orientamenti del management urbano sono basati principalmente su una prospettiva filo-urbana, in breve sull’idea che le città sono i primi motori della crescita economica nazionale e dello sviluppo in generale. In un’economia globalizzata in cui la conoscenza svolge un posto centrale, e in cui le città hanno un ruolo di primo piano come agenti di diffusione dell’innovazione e della trasformazione socio-economica, questo recente risveglio di interesse risulta facilmente comprensibile. Dimensioni della crisi urbana in Africa Dall’inizio degli anni 80, sono molti i paesi africani che hanno varato riforme economiche e istituzionali dirette a favorire l’economia di mercato, sotto l’occhio vigile del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. I servizi pubblici di base – al centro delle teorie dello sviluppo negli anni 1950-70 – sono stati il primo obiettivo di questo processo di ristrutturazione. Si trattava di adattarli all’approccio fondato sull’economia di mercato. Con il 91

pretesto di accrescere l’efficienza e ridurre i costi, le riforme puntavano anzitutto a demolire il concetto storico dello Stato come vettore principale dello sviluppo (World Bank, 1993). Ma i benefici promessi dalla ristrutturazione economica e la maggiore inserzione nei mercati internazionali non hanno dato i risultati sperati dalla maggior parte dei paesi in via di sviluppo. La povertà, la disoccupazione di massa e le disuguaglianze hanno avuto una crescita esplosiva, parallelamente ai recenti progressi in campo tecnologico e alla rapida espansione dei commerci e degli investimenti. Nella maggior parte delle città africane, le disuguaglianze si sono cumulate e approfondite. Benché esistessero anche prima della fase attuale di mondializzazione, tutte si sono trovate rafforzate dopo il 1980. L’accresciuta concorrenza fra le città per attirare capitali e imprese, e generare impiego e risorse supplementari, in realtà ha solo aggravato le disuguaglianze fra i centri urbani e i gruppi sociali al loro interno (Hoogeveit, 1997). Le disuguaglianze si manifestano oggi in varie maniere. Crescente squilibrio fra città e campagne Quale è stato l’impatto della mondializzazione in termini di polarizzazione fra le metropoli, il mondo rurale e le città secondarie? Qual è il significato della “responsabilizzazione locale” – provocata da una maggiore decentralizzazione – sulla capacità delle autorità delle città secondarie (a base imponibile limitata) in termini di fornitura dei servizi minimi ai loro cittadini? In Africa esistono forti disparità fra il mondo urbano e quello rurale. Nella maggior parte dei casi, le zone rurali si sono ritrovate ai margini della corrente principale di sviluppo nazionale. I bassi livelli di produzione agricola, la mancanza di opportunità di impiego non agricole e l’assenza di centri urbani piccoli o medi che facilitino l’interazione fra zone rurali e città centrali e infine le crescenti disparità in termini di accesso ai servizi, hanno fortemente accentuato l’esodo rurale verso le metropoli (Gilbert e Gugler, 1992). 92

Giunti in città, i migranti si sono trovati per lo più in condizioni a volte simili a quelle delle zone rurali: bassa produttività, disoccupazione, redditi minimi, il tutto aggravato da sovrappopolazione, inquinamento e molti altri problemi tipicamente urbani. Il più significativo squilibrio di base fra mondo urbano e mondo rurale riguarda la forte differenza in termini di accesso ai servizi di base. Le possibilità (infrastrutture, educazione e sanità) sono molto disegualmente distribuite fra le capitali e le zone rurali adiacenti. Per esempio nel 2002 il 55% degli abitanti delle città aveva accesso alle cure sanitarie, contro appena il 25% dei rurali. Per quanto riguarda l’acqua potabile, vi aveva accesso il 39% delle famiglie urbane, e solo il 4% nelle campagne (Unicef/OMS, 2004). Fra i paesi a basso reddito dell’Asia (in particolare i NPI – nuovi paesi industrializzati) e i paesi africani esiste una netta differenza. In Africa il motore della produzione agricola – principale sostegno delle economie africane - non è abbastanza potente da dare impulso alla crescita e all’occupazione. Parallelamente alla loro ricerca eccessiva di rendita, i governi post-indipendenza non hanno saputo sviluppare di piccoli poli mercantili dotati di sistemi di trasporto e di comunicazione efficaci e di strutture politico-amministrative adeguate, cioè le condizioni che sarebbero state indispensabili per avviare una rapida rivoluzione agricola in Africa (Baker, 1992). La bassa produttività agricola a sua volta ha comportato un degrado delle condizioni di vita nelle zone rurali, obbligando le popolazioni a migrare verso le città. Povertà e disuguaglianza crescenti Un’ampia maggioranza di africani vive oggi in condizioni di povertà assoluta. La povertà tende sempre più a diventare un fenomeno urbano, dato che nelle città si sviluppa molto rapidamente (Satterthwaite, 1995; Sparr, 1994). La povertà urbana è il prodotto di fattori concatenati, quali l’insicurezza dell’impiego, le precarie condizioni sanitarie e abitative, i bassi livelli di reddito, una grande vulnerabilità alle fluttuazione dei mercati, un livello educativo re93

lativamente basso (Becker e a., 1994; Amis, 1995; Moser, 1995). Per molto tempo i governi nazionali, al pari delle agenzie internazionali, hanno sottovalutato l’ampiezza e la profondità della povertà urbana, per via della loro ostinazione a definire la “povertà” solo sulla base del reddito. Queste “soglie” di povertà prendono raramente in considerazione l’accesso differenziato all’acqua potabile e alle cure sanitarie, la sicurezza offerta dall’abitazione o ancora le attrezzature sanitarie disponibili. Le crescente disparità e l’intensa concorrenza che si riflettono nella localizzazione delle abitazioni, la mobilità sociale e la qualità della vita, accentuano ovunque i fenomeni di segregazione, che si manifesta in particolare nell’accesso ineguale ai servizi fra gli abitanti dei quartieri poveri e quelli delle zone a reddito medio e alto. Abitando spesso in accampamenti informali, i più poveri hanno raramente un accesso diretto all’elettricità, all’acqua potabile, ai trasporti e alle reti fognarie e di raccolta dei rifiuti (UN-Habitat, 2003, 216). Prendendo l’esempio di Johannesburg, Beall scrive che “i modelli mobili di distribuzione dell’habitat sono sempre più associati ai cambiamenti di traiettoria dello sviluppo economico in città, dai quali risulta una nuova geografia dell’esclusione” (Beall, 2002). La frammentazione sociale e spaziale di molte città africane è inoltre aggravata da un aumento esponenziale della violenza e del senso di insicurezza. L’incapacità delle autorità municipali di farsi carico di questi problemi contribuisce a esacerbare le tensioni fra ed entro le città, rafforza l’alienazione delle comunità, fa esplodere la coesione sociale e produce una demoralizzazione generalizzata. Le divisioni, sia fisiche che terminologiche, fra le comunità urbane diventano sempre più acute. Alla preoccupazione della coesione sociale e di salvaguardia dei valori comunitari tradizionali si sostituisce una sola preoccupazione: la crescita economica ad ogni costo. Questo cambio di priorità ha ridotto in definitiva la capacità delle autorità municipali di soddisfare pienamente e con successo i bisogni differenziati della loro base elettorale (Rees, 1999). 94

Ruralizzazione delle città e informalizzazione dell’economia urbana Le città africane, mentre continuano la loro crescita territoriale e demografica in condizioni di stagnazione economica e di crollo istituzionale, tendono sempre più ad assumere le caratteristiche tipiche del loro hinterland rurale: importanza crescente dell’agricoltura urbana ed elusione dei regolamenti che limitano l’uso del suolo, utilizzo più diversificato degli spazi; crescita spontanea di abitazioni illegali e di una piccola produzione di alimenti di base; e mantenimento da parte degli inurbati di stretti rapporti economici, culturali e identitari con la regione rurale di origine (Cheru, 1989; Jamal e Weeks, 1988). L’agricoltura urbana è praticata ampiamente in molte città africane. Ne deriva la quasi scomparsa attuale delle differenze economiche e culturali fra le zone urbane e quelle rurali. In genere il meccanismo di trasferimento di denaro delle popolazioni urbane verso quelle delle campagne è una delle risorse più importanti dell’economia rurale e svolge un ruolo centrale nella sopravvivenza delle famiglie rurali; La caduta dei redditi urbani e l’aumento della povertà nelle città si riflette pesantemente anche sul mondo rurale (Amis, 1995). Il settore informale urbano è diventato il principale fornitore di impiego in quasi tutte le città africane (OIT, 1972; Bromley, 1978; De Soto, 1989). Pur essendo difficile trovare statistiche affidabili, la proporzione di manodopera urbana impiegata nel settore informale è aumentata in maniera esponenziale a partire dalla crisi economica degli anni 80. I poveri delle città cercano in qualche modo di organizzarsi per avere un’abitazione, mobilitano dei fondi per costruire strade e ospedali, e instaurano dei sistemi di credito alternativi per finanziare una serie di attività economiche, anche se i regolamenti municipali ufficiali vietano in genere tali iniziative. Attraverso l’azione collettiva, gli emarginati della ristrutturazione mondiale tendono sempre più a piegare a loro favore le regole che reggono l’economia politica urbana.

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Infrastrutture e servizi di base deficitari La governance urbana come ha reagito di fronte al bisogno pressante di sviluppare le infrastrutture? Quali sono i livelli e i tipi di infrastruttura di base necessari per la crescita e lo sviluppo economico urbano? Parallelamente alla forte crescita demografica delle città africane, il loro declino economico ha comportato un deterioramento spettacolare delle infrastrutture, dei servizi e delle attrezzature. Il decadere dei sistemi di trasporto pubblico, di raccolta dei rifiuti, di manutenzione delle strade e della rete fognaria, di distribuzione dell’acqua e dell’energia ha a sua volta influito sulla produttività delle città e sul benessere dei cittadini (Stren, 1989). Le risorse attualmente destinate a strade, fognature, canalizzazioni, a scuole e ospedali non sono sufficienti a soddisfare i bisogni crescenti di una popolazione urbana sempre più numerosa. Il problema dei servizi e delle infrastrutture è diventato cosi sempre più urgente. La manifestazione più evidente della crisi urbana in Africa è l’accesso assai limitato all’acqua potabile e ai sistemi sanitari di base da parte delle popolazioni più sfavorite. Malgrado l’importanza di quei servizi nella lotta contro la povertà, i governi non hanno giudicato necessario formulare piani globali di azione per orientare efficacemente gli investimenti in direzione dello sviluppo dei servizi di base. Si stima che nei paesi del Sud, fra l’1% (Africa sub-sahariana) e il 3% (America Latina e Caraibi) dei bilanci governativi sia destinato all’acqua potabile (FMI/Paris 21, 2000). Anche laddove certi servizi essenziali di base come l’istruzione e la salute sono ritenuti delle priorità, bisogna battersi per ottenere sussidi per l’acqua potabile e il risanamento, un settore che in genere è di pertinenza del ministero dell’ambiente. E quando si realizzano degli investimenti in questo settore, la copertura e l’efficacia del servizio non sono sufficienti. A volte il servizio fornito risulta completamente inadeguato (Davis e a., 2003). Al problema della fornitura di acqua nelle città si somma quello del risanamento, che nelle città africane è forse ancora più grave. 96

Nel 1997 ad Addis Abeba, in Etiopia, più della metà delle famiglie non disponeva di latrine private o pubbliche. Da qui l’uso indiscriminato delle fognature, degli spazi aperti e dei corsi d’acqua. Quanto al 25% delle famiglie dell’altra metà, condividevano con altre famiglie delle latrine costituite da un buco in terra (Yared, 1996). Il risanamento di queste latrine pone ulteriori difficoltà nella maggior parte delle città, vista la scarsezza di camion attrezzati per questo compito. Il primo sistema fognario di Addis Abeba serve le zone commerciali e circa il 15% della popolazione definita “agiata”. L’accesso ai servizi fognari resterà ancora un sogno per la grande maggioranza delle famiglie. Negli anni 80 i governi nazionali e le municipalità hanno abbandonato la fornitura pubblica di servizi di base a profitto del settore privato, proprio nel momento in cui si aggravava la mancanza di acqua e i costi marginali della distribuzione subivano un’impennata. La privatizzazione non ha ridotto i costi e neppure elargito la copertura idrica alle altre comunità (Jaglin, 2002). Il prezzo dell’acqua non solo è aumentato, ma sono diventate sempre più frequenti i tagli del servizio alle popolazioni insolventi. L’accento posto sul recupero dei costi ha prodotto una situazione in cui coloro che sono troppo poveri per pagare non hanno accesso ai servizi di base. I monopoli privati rifiutano di accordare prestiti o dilazioni agli abitanti non in grado di pagare integralmente il costo della fornitura idrica (UN-Habtat, 2003). Di fatto, la popolazione meno favorita delle città resta sovraesposta ai rischi ambientali e alle malattie mortali legate a una cattiva fornitura di acqua: malattie diarroiche, colera e altre malattie trasmesse dall’acqua. Crisi sanitaria e ambientale Qual è l’impatto attuale della privatizzazione dell’acqua sulla salute e il benessere delle popolazioni urbane? Nella maggior parte dei paesi africani, i poveri che vivono in città sono sovraesposti ai rischi ambientali e a malattie mortali, peraltro facilmente evitabili. Le attrezzature esistenti non sono in grado di fornire acqua pota97

bile o di trattare i rifiuti domestici liquidi e solidi, e ancor meno di trattare i rifiuti industriali tossici e pericolosi. I quartieri poveri sono spesso situati fra larghe distese di acque stagnanti e fra montagne di rifiuti nauseabondi. I camion della nettezza urbana non possono neppure accedervi per mancanza di strade, e non esiste alcun sistema di scolo delle acque inquinate (Cheru, 1992). Oltre alle deficienze in materia di distribuzione dell’acqua potabile e di risanamento, ogni giorno i rifiuti liquidi (comprese le sostanze tossiche e i rifiuti industriali) vengono eliminati sul posto con metodi assolutamente rudimentali. Nei paesi in via di sviluppo, il livello di particelle tossiche in sospensione nell’aria è spesso dieci volte superiore ai massimi autorizzati negli Stati Uniti. La situazione mette in pericolo e la salute e la produttività dei più diseredati delle città, in particolare le donne e i bambini (Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, 1987; Cairnacross e a., 1990; Levey, 1992). Nelle città e nei quartieri sprovvisti di acqua potabile e di cure sanitarie adeguate, i tassi di mortalità sono in genere da 10 a 20 volte più elevati che negli altri quartieri. Spesso associati alle regioni rurali più povere, la malaria e il colera cominciano a far strage in molti centri urbani in Africa. Negli anni 90, Nairobi, Lusaka e Addis Abeba hanno sperimentato forti ondate di epidemie – malaria, colera e altre malattie contagiose – provocate dalla pessima qualità dell’acqua e dall’assenza di cure sanitarie. In molti paesi africani, la crisi sanitaria e ambientale si è aggravata con i programmi di aggiustamento strutturale, che hanno determinato il passaggio dei servizi essenziali dal settore pubblico a quello privato in nome dell’efficienza e della riduzione dei costi. Le risorse di cui le municipalità hanno bisogno per fornire il minimo accettabile di servizi di base, provvedere alla manutenzione dei sistemi di rifornimento idrico e mantenere una rete motorizzata di raccolta dei rifiuti sono seriamente limitate. Una situazione tanto più grave in quanto la distribuzione dell’acqua e la gestione delle strutture sanitarie sono attualmente decentralizzate e affidate 98

alle amministrazioni locali, senza peraltro aver previsto un trasferimento equivalente in termini finanziari. A titolo di esempio, a Dar es-Salam nel 1988 per la mancanza di camion per la spazzatura veniva raccolto solo il 22% dei rifiuti. Alla fine degli anni 80, circa il 40% dei camion per la spazzatura della municipalità di Addis Abeba erano bloccati per mancanza di pezzi di ricambio. Vista la situazione attuale, è difficile credere che si possano compiere progressi notevoli, in particolare in vista degli Obiettivi del millennio per lo sviluppo, se prima non si garantisce che le famiglie povere possano disporre di acqua potabile e di strutture sanitarie adeguate. Ciò richiederà degli sforzi da parte di tutti, molto più importanti di quanto fatto finora. Se la responsabilità più pesante ricade sulle autorità locali e nazionali, anche gli altri settori sono ampiamente investiti. La società civile, il settore privato e i donatori stranieri avranno tutti un ruolo di primo piano da svolgere. Reperire nuove risorse e trovare nuovi modi di lavorare insieme è una delle sfide più importanti da affrontare insieme (Global Water Partnership, 2003). Cattiva governance e debolezza delle istituzioni municipali Il potere/autorità/responsabilità della fornitura di beni pubblici a livello locale come sono cambiati negli ultimi vent’anni? La mondializzazione ha influito sulla capacità delle autorità locali di rispondere ai bisogni e alle priorità di popolazioni povere? Come ha influito la mondializzazione sui rapporti fra governi municipali e società? Vista la crescente importanza economica delle città nello sviluppo nazionale, nessuno dubita che l’inesistenza o la debolezza del quadro istituzionale e politico nella maggior parte dei paesi africani costituirà un grosso ostacolo per la crescita e lo sviluppo economico. Accanto alla notevole continuità delle politiche macroeconomiche di cui si conosce da molto tempo l’inadeguatezza, bisogna ammettere che i governi centrali si sono assai poco preoccupati di rafforzare la capacità delle autorità municipali per gestire e mantenere le infrastrutture, o ancora non hanno provve99

duto a stabilire un quadro giuridico stimolante che permetta agli agenti economici privati di lavorare in migliori condizioni. Ai problemi legati alle rispettive responsabilità delle autorità centrali e locali si è sommata la scarsa capacità di pianificare e gestire lo sviluppo urbano da parte delle municipalità. A livello municipale, ogni tentativo si pianificazione si scontra con forme di regolamentazione rudimentali sull’uso dei terreni, la suddivisione e le licenze edilizie, dato che le autorità sono più preoccupate di stabilire restrizioni e regole piuttosto che di cointeressare le comunità (Bubba e Lamba, 1991). In molte città, le norme municipali in vigore limitano tutta una serie di attività economiche con la scusa che sono troppo tradizionali. I codici relativi alle abitazioni e le regolamentazioni in termini di azzonamento – ereditati dall’epoca coloniale – vietano anche alcune forme di habitat e di attività commerciali (Lee-Smith e Stren, 1991). L’ambiente fortemente regolamentato ostacola la produttività e la creatività degli abitanti meno favoriti delle città. Resta cosi largamente inutilizzato l’enorme potenziale economico delle città africane. Diminuzione del gettito fiscale municipale Le città come potranno mantenere e finanziare la loro infrastruttura urbana dato che le loro possibili entrate lo sono sul lungo termine, mentre la pressione fiscale, spesso immediata, e i cicli elettorali locali si pongono sul breve termine? Al pari di molte città negli Stati Uniti, le zone urbane africane sperimentano grandi problemi in materia di fisco. In particolare dagli anni 80, il decennio spesso definito “dell’aggiustamento”. Le entrate sono diminuite, mentre la domanda di responsabilità è aumentata. Se il finanziamento di infrastrutture e servizi a basso prezzo senza rialzare troppo la pressione fiscale, il recupero dei costi e il miglioramento dell’efficienza amministrativa rappresentano sfide enormi, non sono peraltro insormontabili. Alla crisi fiscale delle città africane si è sommato il problema pres100

soché insolubile delle rispettive responsabilità giuridiche dei governi centrali e locali. I governi centrali hanno dimostrato la tendenza a istituire e mantenere stretti controlli finanziari, giuridici e regolamentari, lasciando scarso margine di manovra all’innovazione locale (Attahi, 1989; World Bank, 1991; Warah, 200). Le municipalità non hanno il potere di prendere reali decisioni politiche ed economiche, in particolare in settori critici come gli investimenti nelle infrastrutture urbane, la fornitura di servizi o la promozione dello sviluppo economico. Troppo spesso ancora i governi centrali non permettono alle autorità locali di levare imposte o di prendere prestiti, mentre le stesse autorità locali si sono viste accollare tutte le responsabilità in materia di fornitura di servizi. Viene coi incoraggiata l’inerzia locale. La mancanza di autonomia municipale impedisce anche alle autorità locali di fare appello a investimenti stranieri diretti (IDE). Malgrado l’aumento significativo degli IDE nel settore idrico e sanitario nel corso dei ultimi vent’anni, essi sono stati inegualmente distribuiti. Silva e altri hanno dimostrato in particolare che fra il 1990 e il 1997 sono stati investiti dai privati 24,9 miliardi di dollari in 97 progetti legati all’acqua e al risanamento nei paesi in via di sviluppo: Asia dell’est (11,9 miliardi); Europa e Asia centrale (1,5 miliardi); America Latina (8,2 miliardi); Medio Oriente (3,2 miliardi). L’Africa sub-sahariana ha ricevuto una parte infima, cioè 37 milioni di dollari per 8 progetti (Silva e a., 1998). Rafforzare la capacità delle autorità locali di gestire il proprio bilancio potrebbe dar loro accesso diretto agli IDE nel campo dell’acqua e del risanamento. Infine, la mancanza di mezzi finanziari in questi settori è stata molto aggravata dal peso del debito di cui soffrono molti paesi africani. La perdita costante di preziose risorse destinate al pagamento del servizio del debito mina la capacità dei paesi a contrastare gli effetti devastanti del colera, della diarrea e di altre malattie contagiose, molto diffuse nei centri urbani sovrappopolati e nelle bidonvilles. L’annullamento totale del debito dei paesi poveri 101

potrebbe generare nuove risorse da destinare integralmente a una migliore distribuzione dell’acqua e alla realizzazione di sistemi di risanamento nella maggior parte dei centri urbani in Africa. Conclusione I modelli spaziali e istituzionali qui individuati hanno a loro volta prodotto una grande polarizzazione sociale fra ricchi e poveri, fra zone urbane e rurali, e fra le città stesse. In campo socio-culturale, sono apparse tensioni fra poveri e ricchi e fra gruppi etnici diversi. Le autorità locali sono costantemente sotto pressione da una parte dalle forze invisibili della mondializzazione, e dall’altra dalle popolazioni che sono le prime vittime delle riforme economiche orientate al mercato. Le città e le comunità urbane tentano di dare una loro risposta alle sfide poste dalla mondializzazione. Le risposte sono molto varie. E’ fondamentale analizzare tutte queste forme di gestione urbana nel mondo e valutare la loro efficacia in termini di protezione, di promozione e di attuazione del diritto a un alloggio decente. La frammentazione territoriale e sociale ha gravi conseguenze sulla crescita e la competitività delle città. La mancanza di investimenti stranieri, la scarsa partecipazione al commercio internazionale e la forte diminuzione dei redditi legati all’esportazione, cui si sommano un risparmio e degli investimenti interni molto limitati, impediscono all’Africa di partecipare al progresso tecnologico di cui beneficiano altre regioni e città. La mondializzazione ha ampiamente contribuito a rafforzare il processo preesistente di “urbanizzazione senza sviluppo”. La disuguaglianza e le disparità in Africa si accentuano sempre di più, rendono le città sempre più ingovernabili e sono gravide di pericoli per la coesione sociale in un futuro non troppo lontano. Tratto da Quaderni di Alternatives Sud, Explosion urbaine et mondialisation (Vol. XIV 2007/2). Quivi è reperibile anche una ampia bibliografia. Traduzione dal francese di Nunzia Augeri.

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(Nairobi 2007, foto di Massimo di Nonno)

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Parigi. Le banlieues in lotta di Judith Revel Debbo parlare di banlieue, ma nello stesso tempo ci sono cose che ritornano in tutte queste esperienze in giro per il mondo, da Lima a Los Angeles passando per Quarto Oggiaro ecc. Quindi cercherò di parlare della banlieue, della periferia parigina dove ho lavorato e dove ho vissuto la sommossa del 2005, cercando di insistere sui punti in comune ma anche sulle differenze e le differenze, le cito senza ordine, girano attorno a dei temi che non sono semplici e che potrebbero essere indicati da parole come identità, dimensione locale, dimensione globale, ecc, che sono tutt’altro che scontati. Con questo io non voglio dire che bisogna aver paura di discutere, anzi penso che discutere proprio di quelle differenze lì e anche delle differenze di approccio significa anche produrre a volte qualcosa di comune e quindi mi assumo il compito di spaccare l’unità. Alla fine del suo saggio Betty Gilmore dice: “non bisogna chiedersi perché ci sono le rivolte nei ghetti ma perché ci sono i ghetti”. Io voglio dire una cosa abbastanza simile, non tanto perché ci sono le banlieues in Francia, non solo a Parigi ma attorno a tutte le grandi città e anche dentro le città paradossalmente, non tanto perché ci sono le banlieues, quanto cosa sono diventate le banlieue per farle scoppiare, non solo nel 2005, ma dalla fine degli anni 80. Sono infatti più di ottanta gli episodi di sommosse nelle banlieue in Francia negli ultimi 25 anni. È un po’ come il big one, il grosso terremoto che tutta la California aspetta; in Francia si aspetta la grossa rivolta che deve ancora venire. Ora io non voglio tornare sulle cose che sono state dette in particolare nell’introduzione di Sonia Paone, però per capire quello che è successo in Francia bisogna capire come sono nate le 104

banlieue e lo dico in tre parole. Le banlieues sono state una cosa positiva in Francia, sono nate negli anni 60 e 70, in particolare negli anni 60 sull’ondata della colonizzazione, in un periodo di forte espansione economica, di positività chiamato in Francia “i trenta gloriosi” (les trente glorieuses) e di un periodo di felicità e di grande prosperosità in cui il bisogno di mano d’opera, di forza lavoro non qualificata nelle fabbriche era enorme e quindi in realtà si è costituito uno spazio nelle periferie delle città legato alle città, integrato alla realtà produttiva delle città e però escluso dalla città stessa. Non a caso quello spazio si è chiamato “citè”, che in francese è un sinonimo di ville, di città. Quindi una città che non era dentro la città, ma che partecipava alla città e che la rendeva produttiva. Si sono quindi costituiti questi spazi in cui si è tentato di ricreare o creare, inventare le condizioni ottimali per massimizzare la produzione, quindi un rendimento massimo. Città dormitori però città dotate di servizi, di scuole, di trasporti, di infrastrutture; ovviamente non città ricche, non periferie ricche, ma per chi ricorda la realtà delle bidonvilles che esistevano a Parigi prima del 68, simili alle favelas di Rio di oggi, cioè case di carta o di lamiere, per chi ha conosciuto quella realtà il fatto di muoversi, di spostarsi dentro a delle palazzine, se pur alte 25 piani e contenenti tremila famiglie, come, per esempio, esistono tuttora a La Courneuve, nel nord di Parigi, spostarsi in un appartamento solido con la porta, col tetto, con le finestre, con l’accesso ai servizi sanitari, era considerato un progresso sociale enorme. Ora tutto questo ha funzionato, cioè dalla miseria assoluta alla povertà dignitosa diciamo così, che non vuol dire che non ci fossero delle lotte da fare dentro quelle periferie, però questo passaggio ha costituito un progresso sociale il cui prezzo è stato enorme. Il costo di quella apparente filantropia sociale che consisteva nel dire “basta con la miseria assoluta, adesso passiamo al mondo moderno e diamo quel confort e quella dignità a tutti”, il prezzo da pagare era una dedizione al lavoro della vita tutta intera, cioè 105

tutta la vita di chi abitava in banlieue veniva in realtà pensata e concepita e organizzata sulle esigenze produttive, quelle della fabbrica. La cosa interessante e la cosa drammatica, se volete, è che negli ultimi venti anni le fabbriche sono scomparse, realmente le fabbriche non ci sono più, questo vale per il nord di Parigi, ma vale per tutti i distretti produttivi. Lo dico perché abbiamo un presidente della repubblica in Francia, che diceva nelle promesse della campagna elettorale: “difenderemo la dignità degli operai e riapriremo le fabbriche”, e ciò fa ridere gli economisti, perché la produzione è cambiata; non vuol dire che non ci siano più le fabbriche da nessuna parte, ma che nei paesi di economia avanzata o di capitalismo avanzato, come si suole dire, il baricentro della valorizzazione della produzione si è spostato altrove perché la valorizzazione si fa altrove, si fa sull’economia cognitiva e sull’economia immateriale e si fa sulla cooperazione sociale, si fa sulla circolazione dei saperi, si fa sulla produzione di linguaggi, si fa sull’informatica e su tutti quegli elementi di modernizzazione che hanno per altro integrato la vecchia economia materiale di produzione di beni. Se si va a visitare una fabbrica oggi, io l’ho fatto qualche anno fa alla Fiat di Melfi, è piena di macchine informatizzate, di schermi a risposta tattile, ecc. L’opposizione materiale-immateriale non ha più nessun tipo di senso perché c’è un cambiamento del paradigma della produzione e del paradigma del lavoro, con un cambiamento del tipo di mano d’opera che occorre. Per cui la mano d’opera non qualificata, che prima serviva all’industria e i serbatoi di questa mano d’opera non qualificata che erano le banlieues, sono diventati inutili, semplicemente inutili; quindi le politiche dei governi che si sono succeduti, di destra come di sinistra, hanno semplicemente deciso che non valeva più la pena di investire in quelle zone, perché non era più interessante economicamente, perché era meglio investire sulla formazione e nella educazione di settori di popolazione dove sì poteva produrre valore economico. 106

Quello che è successo nelle banlieues è stato questo, non tanto una creazione di ghetti spaziali, forse questa è la maggiore differenza con i ghetti all’americana, quanto la creazione di ghetti temporali. Un’altra questione è la gestione dei flussi che oramai è un elemento disciplinare assoluto perché in realtà è un elemento di controllo del territorio, per cui la dimensione temporale al di là di quella spaziale è enorme. Agli abitanti delle banlieue gli si incolpa di non essere più produttivi, però quando si dice: “voi non producete più”, si scorda che la produzione è cambiata e si colloca quella gente in un modello produttivo che non esiste più, perché le fabbriche non ci sono più. Nel nord di Parigi il tasso di disoccupazione supera il 45% e nelle fasce dai 20 ai 65 anni supera il 65%. Ma poiché quel lavoro non esiste più quello che ci sarebbe da fare allora è investire sul passaggio ad un’altra forma di produzione, al post-fordismo e cioè investire nell’educazione, investire nella formazione, investire nella cooperazione, investire nelle reti; tutti elementi che in banlieue ci sono, perché quella intelligenza che fa valore oggi in banlieue come altrove c’è ed è un enorme quantità di intelligenza lasciata letteralmente marcire su se stessa. Mentre si continua a dire che le fabbriche non ci sono più e ciò è un elemento ormai strutturale, che nessuno ci può più fare niente ecc. ecc. Ma la cosa viene assunta dal punto di vista psicologico dai ragazzi delle banlieues come una sorta di impotenza che li rimanda alla loro colpevolezza; così loro dicono: “non è colpa di nessuno e allora sarà colpa nostra, sarà perché siamo inadeguati”. Io faccio la filosofa di mestiere, ormai mi occupo di filosofia politica però una volta ero filosofa del linguaggio, quindi sono attenta alle parole che si usano e quando sono scoppiati gli eventi delle banlieue in quell’ottobre/novembre lavoravo lì e quindi ho preso anche i giornali che parlavano di quello che succedeva. La cosa che mi ha veramente colpito è il fatto che il modo di parlare delle banlieue in realtà ruotava attorno a tre elementi. Il primo, che premetto è una cosa che non mi va giù, che mi agita e mi rende 107

profondamente infelice perché è falso, è l’elemento comunitario. L’analisi comunitaria di quello che è successo in banlieue, non è altro che l’ennesima versione di un ipotetico scontro di civiltà che perfino le anime buone vedono ovunque. I due altri elementi sono il fatto che si diagnosticava in permanenza nelle banlieues un’afasia, un assenza di parole e un’improduttività. L’improduttività è quella già citata, l’incapacità di produrre, a stare alle nuove norme dell’economia senza mai porsi il problema di sapere perché la gente non era stata accompagnata nella transizione verso un’altra economia, anzi non solo non era stata accompagnata, ma era stata letteralmente bloccata. La diagnosi di improduttività veniva probabilmente ancora rafforzata dal fatto che durante gli eventi sono state date alle fiamme molte automobili, 40.000 in tre settimane; non è una cosa nuova, succedeva anche prima, ma lì è stato un fenomeno particolarmente concentrato. Mi ricordo che la mattina arrivavano i ragazzi e indicavano con le dita il numero di macchine bruciate. Macchine, autobus e scuole, se si osserva bene macchine, autobus e scuole, nient’altro. Io ho chiesto il perché, e mi hanno dato una risposta coerente, altro che afasia. Mi hanno detto: “le macchine e gli autobus perché non c’è più mobilità, né fisica né sociale, noi dove andiamo? E poi per andare dove?”, e quindi bruciano quel simbolo lì. Le scuole, perché la scuola dovrebbe essere quell’elemento, quel luogo che forma, che dà il sapere necessario alla nuova economia, ma la scuola non è una scuola, la scuola di banlieue è un parcheggio, un meccanismo disciplinare per evitare che i ragazzi stiano per le strade, una sorta di pentola a pressione sulla quale si mette un coperchio. Il coperchio siamo noi insegnanti o educatori o sociologi, o chiunque fa lavoro sociale in quel contesto e poi gestisce il meno peggio. Quindi altro che afasia, c’era un discorso eccome, e c’era una presa di coscienza molto forte che qua si stava giocando una partita importante. Una partita che interessa il concetto di cittadinanza di cui si è parlato a varie riprese. La Francia è un paese di 108

immigrazione di vecchia data, le prime immigrazioni massicce sono quelle avvenute negli anni 20 e 30, dall’Europa centrale e dalla Russia, poi tedeschi ebrei durante la guerra, quindi italiani, spagnoli e portoghesi. Successivamente più o meno nell’ordine, Maghreb, Vietnam, Cambogia, di seguito i Paesi subsahariani a partire dagli anni 80, infine per ultimi ci sono i Balcani e i Paesi dell’ex blocco dell’est dagli anni 90. Quindi tutto questo si è sedimentato, ma abbiamo pur sempre un secolo di storia di immigrazioni successive. Studenti o allievi all’università o nelle classi dove io ho insegnato erano al 90% francesi, come me. Io ho quattro nonni stranieri su quattro e sono francese, sono funzionario dello stato francese e non è un caso specifico, questo capita molto spesso in Francia. In banlieue a me dicevano che noi francesi non possiamo capire, e io rispondevo: “ma francesi cosa vuol dire, anche voi siete francesi, se affermate che francesi vuol dire non avere diritti o avere una storia di immigrazione alle spalle, abbiamo gli stessi documenti, anch’io sono discendente di immigrati.” Loro rispondevano che il problema sono proprio i diritti: “voi avete i diritti e noi no”. Ora cosa significa una cittadinanza con i diritti, significa cose molto semplici, significa poter bere, mangiare e avere un tetto, (problema della casa), significa avere accesso al sapere, (problema della scuola), significa accesso alla sanità, (problema degli ospedali e delle strutture sociali), significa avere delle mense per i figli. In Francia la scuola dura dalla mattina alla sera, se non ci sono mense i ragazzi non mangiano, io ho avuto infiniti casi, quando dico infiniti significa superiori alla ventina in un anno, di giovani adulti, perché ormai gli studenti hanno 19-20-21 anni, che svenivano per la fame, a tre km da Parigi! C’è un mio studente che era un capo della rivolta, che cito perché ho un’immensa ammirazione per lui: si chiama Dimitri Upeau, i genitori vengono dall’Angola. Francese, assolutamente francese, che mi diceva che noi non capiremo mai niente di quello che è successo se continuiamo a confondere la sopravvivenza e la vita, 109

loro non vogliono la sopravvivenza, vogliono la vita. Questa è la cittadinanza, perché loro vogliono la nostra stessa vita cioè poter sognare, desiderare, inventare, proiettare, creare, farsi un futuro. Tutto quello che noi, figli di famiglie per bene, tranquille senza grandi problemi nella vita, abbiamo avuto senza mai pensarlo. Tutto questo è stato l’elemento della rivolta. Guardate, non dico che è buona cosa bruciare le macchine, anche se a volte è rassicurante vedere che un po’ di reazione c’è, perché è sempre meglio dell’entropizzazione senza fine dei comportamenti sociali, che a volte in banlieue si vede: questa dissoluzione assoluta, di sofferenza totale che a volte purtroppo c’è. Dico semplicemente che lì c’era qualcosa come un abbozzo di reazione e di messa in discussione. Certamente quel discorso non era fatto secondo i canoni della rappresentanza politica. Se questo si chiama afasia erano afasici, ma chi l’ha detto che la democrazia si riduce a una versione che ha storicamente funzionato, come la democrazia rappresentativa, ma che forse oggi qualche segno di cedimento lo dà. Non dico che bisogna uscire dalla democrazia, dico che forse quella forma di rappresentanza va ridiscussa. La Francia non a caso nel 2002 ha votato all’82% per un presidente di destra, anche chi non era di destra, per bloccare l’estrema destra. Qualche domanda sul valore della rappresentanza politica uno se lo fa, in quel caso per esempio. Quindi afasia sì e no, secondo quei canoni sì, secondo chi va lì a fare inchieste, a ascoltare, interrogare e a cercare di capire, assolutamente no; il discorso c’è eccome. Hanno perfino redatto il cahiers de doelances, come nei moti dell’88-89, negli anni pre-rivoluzionari del 700 in Francia. L’ultimo elemento è quello comunitario che in banlieue non c’è, questo non vuol dire che non funzioni in altri contesti, che non valga la pena usare quegli elementi di identità, ma in Francia no. Lo dico perché lavoro molto in America Latina dove l’elemento identitario dell’“indigeneità”, il richiamo alla libertà per i popoli indios, è particolarmente importante, in particolare in Bolivia, che 110

è un Paese nel quale ho lavorato molto; però in banlieue no. Anzi il discorso delle politiche governative, che è repressivo e continua a esserlo, come il discorso dei mass media, tutti cercano di costruire i binomi identitari, da destra come da sinistra. Io mi ricordo di aver letto come titolone su Le Monde in prima pagina: “I neri scendono su Parigi”. Ma in banlieue non ci sono soltanto i neri, ci sono anche i bianchi, ci sono anche i grigi, anche i gialli, ci sono anche i verdi e tutto questo è mescolato. Mi ricordo anche, e ciò mi ha fatto una tristezza infinita, un titolo di un articolo di Francesco Merlo su Repubblica che diceva: “Orde di beduini scendono su Parigi”. “Orde di beduini”, ripeto, che è una cosa spaventosa. Al di là di quella caricatura che è quasi oscena, quello che è interessante è che quando voi chiedete ai ragazzi: “voi chi siete?”, l’unica risposta che danno, identitaria, è quella di un’appartenenza a un territorio, che è sinonimo di una condizione sociale. Il territorio non è il luogo della mia nascita o del mio sangue, non è la mia identità come origine, è il territorio perché ci vivo, è il territorio perché ci soffro, perché ci sogno, perché vorrei farne qualcosa. Un territorio di usufrutto, d’uso, di progetto, non di identità, in senso statico; è un’identità di costruzione, anzi è una demoltiplicazione di identità. Do un ultimo esempio. Una mia studentessa aveva difficoltà a trovare uno stage, un lavoretto che pure era obbligatorio nel suo percorso di studio e quindi è venuta a trovarmi abbastanza disperata dicendo che non riusciva a capire perché era così discriminata. Ora la ragazza era, ed era un caso però abbastanza emblematico, nera, molto cicciona, con le treccine rasta, abitava in un quartiere il cui nome, “La citè des 4.000”, fa fremere i parigini dal profondo, un nome molto difficile da pronunciare, ed era per giunta musulmana, e lei mi dice: “perché sono discriminata?”. Cosa volete rispondere, volete sceglierne uno, volete fare una gerarchia, volete dire che l’essere nera è più importante che l’essere 111

donna, o che l’essere donna è più importante che l’abitare in quel quartiere. No, è tutto questo insieme e a seconda dei casi, un elemento più di un altro. Quindi la lezione della banlieue è “giocare” con l’identità, ma giocare con l’identità non per diventare neutri o grigi, giocare con l’identità per moltiplicare, per far pullulare qualcosa che forse non è stato abbastanza detto, citato fino ad ora, ed è la lotta. La banlieue è stata, non una rivolta, ma una lotta. Hanno lottato per dire che quella condizione è una condizione subumana, che quella condizione non è una condizione di cittadinanza; e ricomincerà. Ricomincerà con metodi probabilmente più duri e più disperati, perché la sofferenza sta crescendo e probabilmente nell’intensità di quella sofferenza e di quella disperazione c’è posto purtroppo, anche a causa di un assenza di politiche pubbliche, per impianti fondamentalisti, quelli si molto identitari. Un fondamentalismo che è ancora estremamente minoritario nonostante quello che se ne dice, però un salafismo che sta cominciando a dilagare poco a poco, esattamente come la mafia dilaga in Sicilia in carenza di strutture pubbliche, perché ci si arrangia, perché quando uno arriva e dice: “manda i tuoi figli nella nostra moschea e noi ti teniamo i bimbi”, uno lo fa. Allora una identità vissuta come demoltiplicazione di identità e cioè demoltiplicazione di fronti di lotta, demoltiplicazioni di rivendicazioni, e una cittadinanza che va interamente ridefinita a partire da un territorio che si attraversa, migranti o no. A partire da un territorio di cui si decide che questo è mio perché voglio costruirlo con gli altri, non perché ci sono nato, non perché ho un titolo di proprietà o la casetta o la villa bifamiliare o il conto in banca, ma perché ho diritto, e ho diritto perché contribuisco col mio essere, con la mia collaborazione, con la mia cooperazione, con la mia ricchezza e con la mia storia, alla ricchezza di tutti: questo si chiama il bene comune ed è la posta in gioco della banlieue. (Testo tratto direttamente dalla sbobinatura dell’intervento al convegno)

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Milano. Quarto Oggiaro, una periferia globale di Marco Pitzen Cenni storici I primi rilevamenti storici di Quarto Oggiaro si riscontrano fin dal XIV secolo ed al censimento del 1751 si rilevavano meno di 100 abitanti, successivamente l’area viene inglobata nel comune di Musocco; nel 1861 la popolazione sale a poco più di mille persone mentre nel 1959 si superarono già i 7 mila abitanti. La Quarto Oggiaro attuale sorge alla periferia nord occidentale di Milano tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 70 sul modello dei quartieri residenziali popolari periferici edificati per far fronte alla domanda di case sempre più sostenuta. L’insediamento ha origine urbanisticamente fuori legge in deroga al piano regolatore del tempo e viene dotato inizialmente solo dei servizi essenziali quali luce, gas, acqua e sistema fognario. Milano supera in quel periodo il milione e settecentomila abitanti, il doppio di quelli residenti durante la guerra, ed assume un ruolo economico sempre più rilevante diventando il polo attrattore delle grandi migrazioni interne e sviluppando accelerati processi di urbanizzazione soprattutto nelle aree periferiche. Da allora e per tutti gli anni 70 si sviluppano nelle città italiane vasti movimenti di lotta e di massa sulla questione abitativa. Nella prima fase che si avvia con l’autunno caldo e con le lotte studentesche proprio a Quarto Oggiaro si attuano tra le prime esperienze di occupazioni di case e si sperimentano le prime forme di autoriduzione dei fitti. Le cronache parlano di centinaia di poliziotti che accerchiano la zona per sfrattare qualche moroso difeso da tutta la popolazione. Nasce in quegli anni proprio nel quartiere l’Unione Inquilini che segnerà per un ventennio la storia in Italia del movimento per il diritto alla casa. Nella periferia di Quarto Oggiaro la lotta diventa realmente di 114

massa con l’occupazione di centinaia di alloggi in un contesto urbano di forte immigrazione con un ridotto patrimonio pubblico nella città con assegnazioni non regolamentate ma spesso clientelari e con affitti che permangono molto onerosi anche nelle case popolari. In questo quartiere di recente edificazione si determina così un ciclo di lotte per la casa che vede l’estensione delle occupazioni delle case pubbliche dove spesso la difesa delle stesse genera scontri fra i militanti e la polizia. Negli anni successivi nonostante il delinearsi della strategia della tensione si continuano a produrre movimenti di lotta e di mobilitazione che vedono la partecipazione attiva di buona parte della nuova popolazione insediata. Verso la metà degli anni settanta è il periodo di maggior tensione dove si denota anche una più accentuata partecipazione operaia nel sociale e Quarto Oggiaro si trova in una posizione privilegiata con la vicinanza degli stabilimenti dell’Alfa Romeo. Sono anche la stagione delle giunte municipali di sinistra dove viene eletto un rappresentante dell’Unione Inquilini e si tenta di dare una risposta ai bisogni popolari espressi attraverso investimenti nell’area, estendendo la presenza di edilizia popolare e di fatto ampliando i confini del quartiere. Si abbattono le insalubri e decadenti “case minime” sorte durante il fascismo e si edificano casermoni per ospitare gli inquilini sgomberati. Gli anni ottanta si connotano per l’aumento della disoccupazione e del costo della vita che chiude i giovani nel quartiere , sono gli anni del riflusso che appiattisce l’antagonismo delle lotte sociali che spinge all’individualismo dove la droga nei quartieri popolari finisce per annichilire una generazione. La speculazione edilizia nel centro storico della città deporta in questo quartiere periferico la maggioranza della popolazione storicamente li residente, soprattutto anziani che perdono la loro rete di relazioni e faticano ad integrarsi con una realtà sociale molto 115

differente. Negli anni 90 cominciano le prime immigrazioni massicce di “extracomunitari”, le cui lotte per il diritto alla casa permetteranno di conquistarsi l’assegnazione di un alloggio popolare. Anche il mondo dell’industria e la conseguente concentrazione operaia nei quartieri popolari stanno radicalmente modificandosi: chiude la fabbrica dell’Alfa Romeo del Portello destinata dal nuovo padrone , la Fiat, ad area di investimento immobiliare. Lo stesso stabilimento di Arese viene a poco a poco smantellato e dismesso tradendo tutte le promesse fatte ai lavoratori e ai sindacati. La distruzione di questo tessuto industriale ha implicato delle conseguenze non solamente in ambito lavorativo ma anche nella vita sociale del quartiere dove una concreta realtà industriale non forniva solo lavoro e stabilità reddituale ma dava un senso alla quotidianità delle famiglie. I giovani del quartiere sono ormai sganciati da questo mondo industriale in estinzione ma nemmeno riescono ad inserirsi nel settore terziario medio e avanzato in evoluzione. Le nuove generazioni tendono a rimanere confinati nel proprio quartiere, condividendo con gli stessi coetanei fallimenti scolastici e professionali, forgiando una propria identità all’interno di un gruppo socialmente e culturalmente omogeneo. In questo periodo si possono riconoscere i prodromi dei processi della globalizzazione che evidenziano come la nuova mobilità del capitale con sempre meno regole che lo vincolano sottraggono le aziende ai doveri non solo nei confronti dei propri dipendenti ma anche dei loro figli, dei più deboli e delle generazioni successive. Gli ultimi anni si caratterizzano per una emergenza abitativa drammatica. con una domanda di alloggi pubblici enorme ed una risposta pubblica risibile e con sempre minori investimenti destinati al comparto abitativo pubblico. Le occupazioni di alloggi pubblici si denotano come fenomeni individuali spinti da una estrema necessità dove solo a tratti si intravedono forme organizzate di difesa come l’esperienza del comitato occupanti di Quarto Oggiaro nei primi anni 2000. 116

Quarto Oggiaro: la politica sicuritaria, la privatizzazione dei servizi: l’esperienza del comitato degli occupanti A Quarto Oggiaro ,vivono attualmente crca 30.000 persone quasi tutti in case di edilizia pubblica di proprietà del comune. Se si considera però l’area più estesa che ormai va dai confini nord della città (Novate, Baranzate e Bollate), travalicando la ferrovia con il quartiere della Bovisasca al di la del ponte sui binari, seguendo tutta l’asse dell’autostrada fino all’ospedale Sacco, il numero degli abitanti arriva a triplicarsi. Queste importanti infrastrutture sono state da subito delle vere e proprie barriere che hanno determinato un sostanziale isolamento fisico dal resto della città. Così mentre il processo chiave della modernità esigeva un trasporto rapido e di massa il quartiere si caratterizzava per il suo confinamento esterno alla metropoli. Paradossalmente la sua crescente segregazione, separazione ed esclusione nello spazio urbano caratterizza sia i limiti di questo angolo di periferia che gli stessi processi della globalizzazione. L’incertezza e l’insicurezza che generano queste condizioni vengono scaricate spesso, in una forma di ansia collettiva, verso i problemi legati alla sicurezza. Anche l’autopercezione di accerchiamento degli abitanti in una zona con un immagine esterna così deteriorata, spesso amplificata dai media, porta a una sfiducia nei confronti del potere pubblico con una limitata visione del collettivo e l’accentuazione unicamente di una prospettiva di prossimità. A ciò si aggiunge in questo quartiere un degrado diffuso per una carenza di manutenzioni sia ordinarie che straordinarie aggravatosi con l’avvento di un gestore privato, la società romana GEFI spa, che dal 2003 prese in carico l’amministrazione del patrimonio immobiliare comunale. Si è avviato così in questo settore il più vasto processo di “esternalizzazione” dei servizi voluto dalla Giunta municipale di destra. L’intento sbandierato di questa politica di privatizzazione era 117

quello di contenere i costi e migliorare il soddisfacimento degli utenti per un più efficace conseguimento delle finalità sociali. Era apparsa subito evidente la contraddizione tra l’esoso dispendio di risorse pubbliche finite nelle casse dei gestori privati (GEFI Spa, Romeo, e Edilnord poi rilevata da Pirelli) ed il mancato risparmio legato all’impossibilità sia di una riduzione di organico del personale dell’amministrazione pubblica precedentemente impiegato alla gestione del patrimonio immobiliare, sia di una sua proficua ricollocazione. Ma il vero fallimento di questo progetto si è palesato nella pratica della gestione. A Quarto Oggiaro (ma è stato così per tutti e tre i gestori milanesi) la Gefi Spa ha lasciato gli affitti invariati per diversi anni dal suo insediamento, ne applicando la nuove fascia a chi aveva avuto nel corso degli anni una riduzione del reddito, ne esaminando le pratiche del censimento anagrafico effettuato l’anno successivo ottenendo dal Comune un altro sostanzioso contratto. Nel quartiere si è provocato così una impennata della morosità giustificata dall’impoverimento di una larga fetta del ceto popolare residente e legata al mancato adeguamento dei canoni. Sono state aumentate, fino in alcuni casi a raddoppiare, le spese di gestione senza in nessuna maniera migliorare il servizio, anzi creando un malcontento diffuso motivato da ritardi nell’effettuare piccole manutenzioni e da una continua pratica dilatoria nel rispondere alle istanze degli utenti e dei sindacati. Un altro capitolo poco edificante della vicenda è da ricondurre al fenomeno delle occupazioni abusive. Appena insediata la Gefi Spa , in concomitanza con l’apertura di un nuovo presidio della Polizia ha avviato una campagna contro le famiglie di occupanti senza titolo del quartiere. Senza avere nessuna conoscenza del territorio e di chi lo abita, senza rapportarsi con i servizi sociali locali senza curarsi delle segnalazioni dei centri di ascolto della Caritas diffusi in zona e senza che la Polizia facesse nessun lavoro di investigazione e di indagine preventiva, 118

hanno iniziato ad eseguire con durezza alcuni sgomberi. Nuclei familiari con donne e bambini portati via dalle proprie case ed espulsi dal quartiere dove risiedevano da anni per essere parcheggiati, anche per diverso tempo, in Istituti o comunità distanti decine di chilometri. Famiglie smembrate, figli tolti dall’affido dei genitori, drammi sociali e umani si ripetono con sempre maggiore frequenza. Gli abitanti del quartiere rimangono attoniti. I figli degli occupanti vanno nelle stesse scuole e sono amici dei propri figli , giocano negli stessi giardinetti, vanno assieme all’oratorio. Il vicino di casa che occupa abusivamente l’alloggio accanto lo si incontra quando si fa la spesa, sull’autobus, al colloquio con le maestre, spesso a messa la domenica mattina. Le esperienze di convivenza quotidiana non si accordano allora in questa fase con gli echi di una campagna politica denigratoria che vuole far passare tutti gli occupanti indistintamente come affiliati a racket malavitosi che minacciano l’ordine pubblico e la sicurezza collettiva. Gli occupanti nel frattempo si organizzano e con il sostegno e l’appoggio del Sicet (sindacato inquilini fortemente radicato nel quartiere) costituiscono un comitato che promuove manifestazioni, volantinaggi, presidi davanti ai palazzi del Comune e della Regione. Il Sicet e l’Unione Inquilini organizzano un corteo per le strade di Quarto Oggiaro che vede la partecipazione, come non accadeva da tempo, di centinaia di abitanti del quartiere. Un giorno e una notte intera decine di persone presidiano gli uffici della Gefi Spa, viene anche istituito un numero verde per tenere sempre in contatto gli aderenti del comitato. Vengono fatti inoltre diversi tentativi di coordinarsi con le altre realtà di lotta e resistenza nella città . Si susseguono i picchetti anti-sgombero con il risultato che parecchi sloggi vengono bloccati fino ad una normalizzazione della situazione in quartiere. 119

A Quarto Oggiaro, come in tutta le aree urbane italiane, la mancanza di alloggi pubblici e a canone sopportabile ha spinto settori sempre più larghi di popolazione verso condizioni di esclusione o di semi-esclusione o di povertà abitativa. Una artificiosa campagna sugli occupanti abusivi, meglio se immigrati non comunitari, ha teso a nascondere la responsabilità del Comune. Si è infatti rappresentata una realtà deformata, fomentando ancora una volta una guerra fra poveri, proponendo azioni di demolizione e repressione irrealizzabili, perpetuando processi di stigmatizzazione del quartiere e dei suoi abitanti in luogo di trovare soluzioni concrete ai problemi delle periferie e attuare una politica abitativa adeguata alla necessità. A fronte di una perdurante presenza di alloggi sfitti nel patrimonio pubblico, a livello cittadino di circa 4000 abitazioni ( per mancanza di un sistematico censimento del patrimonio e di programmi di manutenzione straordinaria ) il fenomeno delle occupazioni abusive dal 1990 ad oggi, sul totale degli alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica si calcola sia inferiore mediamente al 5% pari a circa quattro mila nuclei familiari di cui poco più di 400 a Quarto Oggiaro. La maggior parte di queste famiglie ha fatto domanda ad uno o più bandi di concorso per l’assegnazione regolare di un alloggio popolare anche se la normativa presente ne impedisce di fatto l’accoglimento. Agli occupanti viene richiesta inoltre un’indennità di occupazione che è spesso pari all’importo di un affitto privato e dal 1992 di fatto non c’è stata più nessuna possibilità di regolarizzare la propria posizione contrattuale. Così l’occupazione di un alloggio popolare oltre ad inchiodare l’abusivo ad una realtà locale senza nessuna possibile alternativa all’interno di una periferia globalizzata, diventa oltretutto un segno di inferiorità e di degradazione sociale. Nell’esperienza di Quarto Oggiaro una politica sulla questione delle occupazioni abusive forzatamente tutta sbilanciata sul fronte 120

della repressione senza tenere conto di questi dati e di quelli relativi all’emergenza abitativa milanese, (10.000 sfratti da eseguire, 20.000 famiglie nella graduatoria all’ultimo bando, centinaia di istanze di deroga per emergenza abitativa, con un risultato di migliaia di domande di assegnazione inevase ogni anno), è inevitabilmente fallita. Mentre i primi arresti di personaggi di spicco delle famiglie della ‘ndrangheta in quartiere avverranno solo tre anni dopo, nel 2007 ed il primo blitz alla struttura mafiosa, che ha portato in carcere 29 persone è scattato all’alba dell’estate del 2008. Quarto Oggiaro e la malavita La particolarità dell’infiltrazione mafiosa nella realtà periferica di Quarto ha origine con l’insediamento di alcune famiglie calabresi ed in minor numero siciliane, campane e pugliesi legate alla malavita organizzata. Il radicamento della mafia a Quarto Oggiaro viene agevolato dallo stretto legame tra il territorio di origine e quello di insediamento. In particolare l’ndrangheta ha la possibilità di mantenere un rapporto organico tra alcuni residenti della zona e varie famiglie malavitose calabresi. Il coinvolgimento di questi abitanti va da un semplice atteggiamento omertoso allo svolgimento di vere e proprie attività criminali. Mentre la mafia siciliana da Luciano Liggio e Stefano Bontade in poi si è occupata in prevalenza di riciclaggio di denaro sporco non avendo bisogno così di un controllo militare del territorio ma intessendo rapporti e corrompendo, pubblici amministratori, banchieri e imprenditori, sia la ’ndrangheta che la camorra si sono inseriti maggiormente nel tessuto sociale dei quartieri periferici. Ma nel momento in cui la camorra recluta soldati, la ’ndrangheta rafforza la presenza familiare. Tutte le mafie hanno comunque beneficiato sia come reclutamento di mano d’opera sia come importanti strategie diversive, della malavita milanese degli anni settanta. 121

La banda di Turatelo a quella del suo successore Epaminonda fungono da apripista al lucroso mercato della droga. Entrambi insediatisi alla periferia del quartiere dove avviano non a caso la prima attività di spaccio di eroina ben presto rilevata direttamente dalla camorra e dall’ndrangheta con l’uccisione in carcere di Turatelo da parte della camorra e con l’arresto nel 1984 del secondo. Alla metà degli anni settanta l’ex “stazioncina” di Quarto è forse la prima zona in città di spaccio di droga, contestualmente alle prime morti accertate per overdose da eroina. Questo fenomeno criminoso che esplode a Quarto Oggiaro si inserisce, come già accennato, in un contesto sociale in trasformazione dove la destrutturazione del tessuto industriale comincia a indebolire le forme di organizzazione sul territorio, ma anche gli stessi valori familiari, basati sull’etica del lavoro, la solidarietà e coscienza dell’appartenenza. In questo caso la radicalizzazione dello scontro politico ha generato più frammentazione che coinvolgimento, producendo così nella nuova generazione spaesamento e straneamento e non mobilitazione su obiettivi di lotta concreti. La droga immessa in questo angolo di periferia forse più colpito da questi processi di trasformazione sembra funzionale al sistema economico emergente che ha sempre meno bisogno di operai (tanto meno organizzati) ma ha anche sempre meno bisogno di disoccupati di riserva, tutte monete fuori corso per il nuovo conio imposto dal neo liberismo. Il ruolo della periferia appare ormai quello di accogliere una massa sempre più ampia di esclusi colpiti dai processi di ristrutturazione economica, negandogli gradatamente ogni forma di assistenza, riducendo i servizi e scalfendo i diritti conquistati, al lavoro, allo studio, alla salute. L’eroina in quartiere uccide, inebetisce ed a sua volte esclude dai legami familiari e sociali; scioglie nelle vene l’insofferenza per una vita senza prospettive e la rabbia per una disuguaglianza sempre più evidente. 122

Di converso il mercato della droga diventa un affare mondiale. Anche per le mafie si profila con chiarezza il ruolo e le funzioni che devono essere espletate nelle periferie urbane e quello che deve essere svolto nel centro della nuova città globale. Il lavoro sporco dell’accumulazione primaria di capitali illeciti viene fatto a Quarto Oggiaro e successivamente nelle altre periferie della città, perché qui l’ndrangheta ha attuato una forma di controllo e di insediamento sul territorio basato su alcune famiglie calabresi che ha garantito un continuo ricambio anche dopo i blitz delle forze dell’ordine. Questa struttura di potere orizzontale si è dimostrato con l’andare degli anni quella più efficace per gestire il traffico illegale non solo di droga ma anche di armi. Tanto da far emergere dalle ultime relazioni parlamentari della commissione Antimafia che il prezzo delle varie sostanze stupefacenti in tutta Europa viene fissato proprio sulla piazza di Milano. Tuttavia è nel centro della città che avviene sia il riciclaggio che la collocazione dei capitali ripuliti mediante il circuito finanziario e dove viene svolta la ormai complessa gestione di investimenti immobiliari e imprenditoriali. È importante rilevare come questi processi tutto sommato locali incidano poi in maniera rilevante sugli equilibri politici e economici internazionali. Per esempio sono ormai noti i collegamenti tra alcuni esponenti della Locride in rapporto con famiglie storicamente presenti nel quartiere e le forze paramilitari colombiane e come queste ultime incidano in maniera rilevante sugli equilibri geo-politici e strategici nell’area dove vedono interessati anche gli Stati uniti contro il Venezuela, paese che ha avviato in questi anni delle politiche di nazionalizzazione e riforme sociali contrarie ai principi della globalizzazione. Mentre dall’altra parte del mondo è altrettanto nota la provenienza mafiosa degli ingenti flussi di capitali confluiti in Spagna e investiti nel mercato immobiliare che oltre ad aver contribuito alla 123

cementificazione della costa ha alimentato in maniera rilevante il boom edilizio di quel paese. Le forme di liberalizzazione della globalizzazione economica e finanziaria fanno dunque emergere quanto l’insieme degli interessi mafiosi sia funzionale a questo sistema e come questi ultimi partecipino ad ampliare a livello globale la dicotomia tra centro e periferia. Gli inquilini nell’edilizia privata, il piano casa, la sorte dei ceti popolari (ovvero la crisi finanziaria globale e la falsa soluzione dell’housing sociale all’italiana) A Quarto Oggiaro c’è anche una importante quota di edilizia privata. Le famiglie che non vivono in alloggi di edilizia pubblica sono costrette a pagare canoni d’usura e si devono accontentare, per chi ha un contratto di affitto registrato,di un esiguo contributo all’affitto; il cosiddetto FSA. Il numero delle domande di contributo cresce ogni anno ad un alto ritmo rispetto l’anno precedente, ma il contributo effettivamente erogato agli inquilini negli ultimi anni è continuato a diminuire mentre i canoni sono continuati ad aumentare Si può, in questo senso parlare, sotto differenti profili, di un sempre più evidente insuccesso del Fondo Sostegno Affitti soprattutto rispetto al grado di copertura della domanda in difficoltà. In alternativa ad una più giusta politica di calmieramento dei fitti e di intervento rispetto agli alloggi privati sfitti, presenti a Milano in numero assolutamente superiore alla media delle altre metropoli europee, si è preferito instaurare un sistema generale di assistenza pubblica o di sussidio-casa diffuso. Infine, il Fondo Sostegno Affitti, progressivamente depotenziato e spinto all’inefficacia sociale, finisce per diventare esso stesso uno strumento al servizio della rendita immobiliare e dell’aumento dei prezzi sul mercato delle locazioni. Così anche a Quarto Oggiaro gli sfratti per morosità hanno superato di gran lunga quelli per “finita locazione” generando nella 124

maggioranza dei casi ulteriori espulsioni dalla città. Inoltre, da un lato, le politiche neoliberiste di deregolamentazione e privatizzazione hanno apportato degli indiscutibili vantaggi ambientali alla zona nord del quartiere oggetto dei piani vendita di alloggi pubblici, con immobili meglio curati esternamente ed internamente dovuto al graduale popolamento di una classe di proprietari con maggiore capacità economica. Dall’altro lato (anche inteso geograficamente dall’altra parte della strada) queste politiche hanno portato ad un incremento dell’emergenza abitativa in quanto si è sottratto patrimonio di edilizia a canone sociale agli aventi diritto per reddito e provate condizioni di disagio alloggiativo, peggiorando di fatto le condizioni vita di un numero sempre maggiore di famiglie. Anche se le politiche di privatizzazione nel quartiere sono state in tempi recenti relativamente limitate le nuove disposizioni in materia emanate dalla giunta regionale permetteranno al Comune di vendere il 20% del proprio patrimonio in un momento in cui i valori immobiliari sono in netto calo e gli inquilini potenziali acquirenti attanagliati dalla crisi economica. La depressione del mercato edilizio con la prospettiva di una crisi di rendita hanno indotto inoltre il Governo a varare il nuovo “piano casa” che mira ad una ristrutturazione del comparto e dell’intervento pubblico, con un cambiamento dell’ordinamento e dei profili di servizio dell’edilizia residenziale pubblica, abbracciando uno schema di welfare abitativo organico ad un archetipo di stato sociale minimo. Una prospettiva delle politiche pubbliche per la casa di tipo recessivo non solo dal lato della spesa sociale (si tagliano i programmi di intervento per l’offerta sociale e le prestazioni di welfare) ma anche dal lato delle tutele e delle garanzie di accesso ai servizi (si riduce la protezione normativa) che non potrà che avere delle pesanti ripercussioni a Quarto Oggiaro come in tutti quartieri popolari. In questo contesto che si profila il tentativo di riposizionare le 125

politiche pubbliche per la casa sul comparto del cosiddetto “social housing” abbandonando del tutto l’intervento diretto sovvenzionato e puntando a realizzare attraverso un “parternariato pubblico-privato” offerte abitative la cui connotazione sociale risiede solamente nel fatto di proporre un qualsivoglia edilizia residenziale sottomercato: a canone moderato, sostenibile, convenzionale e solo in quote residuali a canone sociale. Ciò implica la dissipazione delle residuali risorse pubbliche fondiarie e finanziarie comprese quelle immobilizzate nel patrimonio abitativo sociale esistente tramite la sua dismissione con un travisamento delle finalità di garanzia dell’accesso al sistema abitativo pubblico per gli strati di domanda in condizioni di maggior disagio. La retorica uniformità di pensiero con la quale da più parti si sostiene l’inevitabile cambio di rotta verso politiche di “social Housing” sostitutive del modello convenzionale di Edilizia Residenziale Pubblica si scontra con l’odierna congiuntura sociale e economica. Infatti, da un lato, la crisi finanziaria e la restrizione dell’offerta di credito che ne consegue riduce la possibilità di apporto di risorse private in politiche di housing; dall’altro lato, nessuna di queste politiche, quali che siano i regimi di partenariato pubblico-privato messi in atto, può garantire flussi di offerta accessibile in quantità e proporzioni adeguate in relazione alla cifra di fabbisogno abitativo e rispetto all’evoluzione della domanda sempre più spinta in condizioni di maggior disagio. Il mutamento dei dispositivi in corso per l’Edilizia Pubblica è di fatto una politica insostenibile nei confronti dei soggetti in graduatoria per l’assegnazione di alloggi popolari e incompatibile rispetto alle reali condizioni socio economiche della popolazione assegnataria quale è la maggioranza degli abitanti di Quarto Oggiaro. Il progetto neoliberale della sussidiarietà che si basa ancora sul presupposto che le leggi del mercato sono gli strumenti più efficaci anche per ridistribuire ricchezza è fallito proprio nei luoghi dove doveva dispiegarsi con maggiore efficacia cioè nelle periferie 126

globalizzate. Anche le correlate teorie falso progressiste del “mix sociale” si basano ancora sull’assunto che il lavoro sia il principale meccanismo di integrazione. Mentre oggi chi è fuori dal mercato del lavoro difficilmente ci potrà rientrare impedendogli di accedere ai diritti di cittadinanza. Progetti dunque dove la qualità dell’abitare si fonda sulla discriminazione e l’estraniazione del più debole diventa invece la variabile da eludere. La crisi finanziaria globale in atto con la messa in discussione dell’ordine neoliberale dovrebbero invece permettere di elaborare una strategia politica per le periferie pubbliche che ridefinisca su scala nazionale livelli essenziali delle prestazioni di welfare e attuare una riforma dell’edilizia residenziale pubblica la quale sancisca in maniera insindacabile la finalità sociale del patrimonio. In una fase che produce in quantità forme sempre più estreme di disuguaglianza c’è assoluto bisogno di un finanziamento specifico e strutturale per la politica della casa alimentato da una quota derivante dalla fiscalità generale, nonché dal prelievo sulle rendite. A livello locale si deve abbandonare inoltre la logica settoriale e dirigistica e puntare a favorire la partecipazione degli abitanti, a stimolare il loro coinvolgimento nei processi decisionali, ad aumentare il loro senso di appartenenza locale, ad arrestare i processi di esclusione e segregazione sociali. È importante infine tentare di sradicare il fenomeno mafioso ancora presente in troppi quartieri popolari per far prevalere il principio di certezza del diritto ed i valori democratici. Affinché Quarto Oggiaro, come tutte le periferie globali, non rimanga luogo dell’esclusione sociale, ma lo spazio per praticare un nuovo welfare della casa e dell’abitare. Quarto Oggiaro: i servizi sociali, i migranti, il sindacato. Alcune riflessioni su una periferia ai margini della città globale. Dagli ultimi dati statistici del Comune si rileva che rispetto a Milano Quarto Oggiaro ha in assoluto il numero più alto di mono ge127

nitori con figli, nella maggior parte ragazze madri. Qui vivono il 20 % in più di famiglie con tre figli mentre gli altri dati in percentuale riferiti alla composizione familiare sono in linea con quelli cittadini. Sempre da fonte comunale si scopre anche che Quarto Oggiaro è la zona con il più alto numero di coabitazioni. Questo comporta tra l’altro grossi problemi di sovraffollamento, visto il taglio mediamente piccolo degli appartamenti pubblici in zona, irrisolti per anni con la mancata indizione di bandi per cambio alloggio. (l’ultimo è stato fatto nel 1998 e quello attuale ha una disponibilità irrisoria di alloggi destinati) La problematica legata a questo dato ed agli altri più strutturali quale la precarizzazione del mondo del lavoro e la riduzione del welfare fa emergere in quante e quali difficoltà siano costretti ad operare i servizi sociali nella zona ed in particolare il SSMI cioè quello con finalità e compiti di tutela alla maternità e all’infanzia Solo a metà degli anni 80 si è potuto disporre di una sede presso uno stabile in quartiere cui sono stati collocati anche gli altri servizi comunali (servizi per l’handicap e per gli anziani) e dell’ASL (Consultorio familiare, Servizio di Igiene Mentale per l’Età Evolutiva, Centro Psicosociale) ciò ha contribuito a facilitare l’accesso al servizio da parte della numerosa utenza presente nell’area e a favorire l’integrazione tra i vari servizi che si occupavano dei minori e della famiglia. L’istituzione di protocolli d’intesa tra Asl e Comune seppure finalizzati a promuovere e sostenere l’affido familiare, costituirono un importante presupposto per l’integrazione degli interventi tra i diversi servizi psico-sociali zonali dei due enti, sollecitata anche dalle richieste di intervento congiunto pervenute agli stessi dai provvedimenti emessi dal Tribunale per i Minorenni. La zona di Quarto Oggiaro proprio per la concentrazione del disagio sociale sul suo territorio fu inoltre tra le prime zone individuate dall’amministrazione Comunale per l’avvio sperimentale del nuovo servizio di Assistenza Domiciliare Minori, negli anni esteso 128

a tutte le zone del decentramento. Tuttavia le carenze di organico del servizio e la presenza di una domanda sociale che per quantità e per complessità dei bisogni espressi era superiore alle possibilità di risposta da parte del servizio sociale, portò successivamente alla necessità di istituire una lista d’attesa e di definire i criteri di priorità estremamente più selettivi per la presa in carico. La domanda spontanea sempre più numerosa che si rivolge al Servizio Sociale della Famiglia ex SSMI è costituita in prevalenza da richieste di contributo economico connesse ad una tipologia d’utenza di nuclei con presenza di un famigliare detenuto, disoccupato o con lavoro precario, di madri nubili e nuclei monoparentali (condizione spesso conseguente alla separazione di coppie conviventi in cui non viene garantito il mantenimento economico dei figli successivamente alla separazione di fatto). Oltre alle richieste di sostegno educativo da parte di nuclei con figli preadolescenti e adolescenti con difficoltà evolutive e problemi di devianza dove la richiesta è solitamente connessa alla difficoltà di gestione del minore. Ma quello che sembra tuttora emergere con sempre più frequenza in quartiere è la presenza di situazioni definite “multiproblematiche” per la presenza nello stesso nucleo familiare di numerosi fattori a rischio (disagio psichico, precarietà economica e/o abitativa, tossicodipendenza e/o sieropositività, alcooldipendenza, abuso e maltrattamento dei minori). Per grande parte dell’utenza si evidenziava una passata esperienza migratoria sia dalle zone del sud d’Italia che extra comunitaria accompagnata da condizioni di difficoltà anche per l’assenza reti parentali di sostegno. Un’altra accentuata caratteristica della realtà del quartiere e quella che accanto alla gestione della domanda spontanea, il servizio sociale è un riferimento per la presa in carico di tutti i nuclei familiari per i quali viene emesso un provvedimento di tutela dei minori da parte del Tribunale per i Minorenni in riferimento a condizioni pregiudizievoli per gli stessi. A Quarto Oggiaro si registra infatti 129

un numero considerevole di interventi prescrittivi da parte di questo Tribunale. Il gruppo di assistenti sociali è stato spesso caratterizzato da condizioni di elevato turnover sia per la precarietà del personale, spesso assunto con contratti a termine o in sostituzione di maternità, che per le frequenti richieste di trasferimento fatte dagli operatori sociali. Il tutto in una logica dell’amministrazione pubblica di una esasperata attenzione all’economicità dei servizi ed alla loro “aziendalizzazione” e “esternalizzazione” a scapito della valorizzazione della professionalità del personale. Emerge così da parte degli assistenti sociali la difficoltà di dover rispondere alla complessità e multiproblemacità della domanda sociale con risorse sempre più spesso insufficienti e inadeguate, ciò a fronte anche della difficoltà di attuare interventi a carattere preventivo che agiscano sulle condizioni all’origine del disagio sociale, interventi generalmente non promossi e incentivati a livello programmatorio da parte dell’amministrazione comunale. Dato poi che la lettura della domanda spontanea portata dalla popolazione al servizio sociale zonale rappresenta un importante strumento di conoscenza dei bisogni di una fascia di popolazione del quartiere che consentirebbe di programmare interventi preventivi che tengano conto dei bisogni ma anche delle risorse presenti sul territorio. Ma in tutta la zona 8 c’è una sola assistente sociale che si occupa delle richieste spontanee per i problemi delle famiglie con figli minori da 0 a 18 anni. Difatti uno dei dati più significativi rispetto alla situazione attuale dei servizi zonali, è l’assenza di risposte alla domanda spontanea che perviene da parte delle famiglie con minori, residenti nelle zone. Il Comune non è riuscito ad assorbire le richieste che prima erano di competenza del disciolto servizio sociale provinciale e non ha sostituito il personale richiamato in Provincia. Ne consegue la notevole diminuzione degli interventi promossi in sostegno al nucleo familiare come ad esempio l’assistenza domiciliare ai minori , che si configurano come interventi “preventivi” 130

rispetto all’intervento del Tribunale per i Minorenni e che viene attivato a tutela del minore in situazioni di grave disagio familiare. Vi è ormai una sempre più forte tendenza ad erogare servizi o interventi volti più alla “riduzione del danno” a livello individuale (di singolo minore e/o famiglia) che a potenziare e promuovere interventi a carattere educativo e di riduzione dei cosiddetti fattori a rischio all’origine dell’insorgere di condizioni di disagio. Mentre proprio per la complessità dei casi riscontrabili in quartiere sarebbero auspicabili interventi “educativi” maggiormente strutturati sul territorio in collaborazione con le scuole, centri di aggregazione giovanile, parrocchie e associazioni. Ci sarebbe fortemente bisogno di potenziare e incentivare interventi psico-sociali ed educativi a sostegno della funzione genitoriale quali ad esempio l’assistenza domiciliare, l’affido familiare, la mediazione familiare in situazioni di separazione di coppia; interventi a valenza educativa a sostegno dei percorsi di crescita degli adolescenti in difficoltà . Tutti interventi estremamente utili al fine di prevenire il ricovero dei minori in comunità e istituti e l’insorgere di problemi e comportamenti devianti nel periodo adolescenziale. Anche i più recenti dati sulla scolarizzazione risentono in parte della complessa situazione sociale del quartiere e delle insufficienti politiche di assistenza messe in campo dalle Istituzioni con il 5% dei ragazzi dai 10 ai 14 anni che non frequenta nessuna scuola. Nelle scuole secondarie di alcune aree funzionali del quartiere si arriva ad una percentuale vicina al 50% di studenti con ritardo scolastico, dato quadruplo rispetto alla media cittadina. Mentre tra i ragazzi dai 20 ai 24 anni un quarto in più non va scuola, rispetto alla media metropolitana. Un altro elemento rilevabile dai risultati del censimento è che solo la metà dei bambini di Quarto Oggiaro avrà la possibilità di laurearsi rispetto alla media dei loro coetanei in città, mentre il 30% in meno riuscirà a diplomarsi. In questo difficile contesto anche se in parte estremo rispetto al 131

complesso della realtà sociale del quartiere si sono cominciati ad insediare in questi anni numerosi nuclei familiari di migranti non italiani. A Quarto Oggiaro però vi sono le forme di migrazioni più regolare, più consapevole, più sindacalizzata (quasi una pre-condizione per ottenere un alloggio di edilizia popolare). Mediamente i migranti hanno lavori subordinati a tempo determinato al contrario della seconda o terza generazione dei migranti provenienti dal sud Italia molto più invischiata nelle occupazioni interinali e precarie. Appare evidente che i flussi migratori nel quartiere sono stati condizionati da dinamiche politiche economiche più ampie, che però si sono rafforzati attraverso la rete delle immigrazioni precedenti (soprattutto maghrebine), che si agganciano ai vecchi vincoli coloniali (eritrei, etiopici e somali) ma che spesso non sono nemmeno riconducibili ai nuovi collegamenti globali. L’insediamento a Quarto Oggiaro è stato favorito anche da una forte e radicata presenza del sindacato inquilini che nell’area territoriale più estesa ha attuato forme di tutela al diritto alla casa in molti casi calibrate strategicamente su base etnica prima nel comparto dell’edilizia privata (controllo e vertenzialità su canoni, contratti di locazione e sfratti). Successivamente su quello delle casi popolari passando attraverso la raccolta dei bandi per l’assegnazione. Il Sicet (Sindacato Inquilini Casa e Territorio), per esempio negli ultimi dieci anni, ha avuto sempre attivisti di varie nazionalità e stretto forme di collaborazione con associazioni di migranti, spesso, ma non solo organizzate su base etnica. Uomini ma soprattutto donne, peruviane, marocchine, eritree, cinesi, somale, egiziane, salvadoregne, cingalesi, filippine, indiane, che a secondo della fase, del momento occasionale o del bisogno contingente si sono mobilitate per fornire una tutela, per dare un aiuto ai loro connazionali (e non solo) sul fronte abitativo (e non solo). Non a caso le nazionalità che rappresentano le più alte percentua132

li di insediamento nel quartiere. Questa presenza stabile e consolidata nel sindacato inquilini nella zona ha fatto si che fossero elette nel Direttivo provinciale tre donne di origine non comunitaria ( tutta la quota spettante alla zona sindacale eccetto il funzionario responsabile) e che diventasse membro del direttivo nazionale per la prima volta una donna lavoratrice straniera. Esperienze e forme di organizzazioni locali sono quindi veicoli importanti di emancipazione ed esperienze fondamentali per la crescita della coscienza di appartenenza e di classe. Il passaggio da una coscienza di appartenenza ad una comunità nazionale emigrata ad una consapevolezza identitaria di ceto subalterno insediato in uno spazio territoriale periferico rispetto alle concentrazioni delle ricchezze e penalizzato rispetto all’accesso dei servizi indispensabili necessari alla propria riproduzione. Ma anche la presa di coscienza mutuata dalle individuali esperienze di migrazioni, che hanno origine dalle forme più negative del sistema della globalizzazione generatrici di povertà e miseria negli indebitati paesi d’origine e di discriminazione in quelli di arrivo. Un sistema politico economico che impoverisce e depaupera il paese di provenienza e che li costringe a vivere in opulente nazioni ma in quartieri periferici degradati e privati dei loro diritti politici. Come se le battaglie sindacali per il diritto alla casa avessero riattivato una relazione virtuosa tra identità e giustizia sociale, dove la lotta per il riconoscimento si riannoda con quella per la ridistribuzione. Nelle rivendicazioni prettamente locali per un abitazione degna nei presidi sindacali così disposti come quello della zona di Quarto Oggiaro si è riusciti ad arginare la divaricazione ampiamente presente su scala globale tra identità e giustizia. La deriva della globalizzazione con la relativa crescita delle disuguaglianze ha portato in altre realtà periferiche i migranti di vecchio e nuovo insediamento a cercare rifugio solamente nelle identità etniche con tendenze al fondamentalismo e persino al neotribalismo. 133

L’esperienza del sindacato Sicet in questi anni, in questa zona ha dimostrato che è stato possibile rispondere alla sfida della globalizzazione in una periferia di una città globale recuperando il valore dell’eguaglianza senza rinunciare a quello dell’identità. Un caso emblematico di dialettica dell’azione sociale perché in esso il valore del riconoscimento è stato essenziale all’individuo per preservare il proprio modo di essere e di pensare , il proprio sistema di valori, le proprie consuetudini e la considerazione di se. Appare così evidente che rispettare e coltivare tradizioni lingua e memoria è un veicolo per consolidare anziché destabilizzare la società democratica. La ridefinizione della cittadinanza nei contesti nazionali dei paesi di immigrazione si dovrà quindi misurare sul grado di accoglienza, di rispetto, di riconoscimento che le persone appartenenti a culture altre o minoritarie riceveranno. L’attuale rafforzamento del nazionalismo e del regionalismo di converso è un fenomeno da leggere con la strumentalizzazione della paura del diverso che nel quartiere hanno portato a forme non tanto velate di persecuzione per esempio verso alcune famiglie di occupanti rom. Che paradossalmente hanno scelto di stabilirsi a Quarto avviando un percorso di stabilizzazione ed integrazione lavorando in regola, mandando i figli nelle scuole di zona e cercando un sostegno nelle strutture pubbliche dei servizi sociali. Certo il problema della convivenza non si può solo far risalire all’occupazione di 4 o 5 alloggi fatiscenti , sfitti da anni, spesso non assegnabili perché sotto standard, una percentuale risibile rispetto alle centinaia di alloggi occupati abusivamente in quartiere in alcuni casi anche da piccoli malavitosi. Così come il buon risultato elettorale di alcune forze politiche con programmi dichiaratamente o velatamente xenofobi non è comunque dovuto ad un radicamento od a una presenza strutturata nel quartiere forse con l’eccezione di alcuni esponenti di estrema destra con rapporti organici con la malavita organizzata pericolosamente intrecciatisi negli anni con personaggi politici che rico134

prono (o hanno avuto) incarichi istituzionali. Elettoralmente anche il quartiere di Quarto Oggiaro ha dato il proprio consenso, come è successo in molte altre periferie popolari, ai partiti di destra al potere che hanno per lungo tempo veicolato un messaggio distorsivo creato ad arte sui problemi della sicurezza. Si è formata una sorta di elites sovraterritoriale che si materializza soprattutto in televisione che è riuscita ad inviare un messaggio con dei significati comprensibili a chi è relegato a vivere in un contesto territoriale insignificante. La non riconoscibilità di valori comuni e di identità allontana dagli organismi di vicinato e persino dalle organizzazioni locali di tutela che usano strumenti di comunicazione a loro volta non immediatamente riconoscibili quando trattano temi diversi dalle emergenze securitarie. Il progetto di Euromilano che ha edificato su una vasta area industriale dimessa ai margini del quartiere sembra asservito a questa logica della sicurezza dell’isolamento scevra da interferenze locali. Agli abitanti dei nuovi isolati gli è stato garantito un accettabile isolamento che viene tradotto in sicurezza delle proprie famiglie, delle proprie case, dei propri campi da gioco per i quali è nato il primo comitato di vicinato che con la scusa dello schiamazzo voleva allontanare dalla zona i ragazzi del quartiere. Per una classe di proprietari di casa che tende a emulare i comportamenti di una elite sovra locale isolandosi materialmente dalla località in cui è sita. A sua volta il progetto della strada interquartiere a veloce scorrimento denominata “Gronda nord” opererà una definitiva cesura tra il nuovo edificato ed il quartiere popolare la cui popolazione rimarrà non volontariamente tagliata fuori costringendola a subire un ennesimo gap culturale e psicologico. I residenti di questa area esclusa e resa estranea, quasi sotto assedio, non potendo travalicare i confini del proprio territorio ghettizzato non fanno altro che riproporre gli stessi schemi di esclusione del diverso, del più debole validando le politiche repressive 135

e sicuritarie funzionali ai progetti politici di un potere tendente a nascondere e non risolvere i reali problemi di povertà ed iniquità del sistema della globalizzazione. Uno spaccato del sistema in questa realtà locale dove i benefici sono concentrati su pochissimi mentre mette ai margini i rimanenti, solo che nella periferia del sistema stesso i primi sono spesso costretti a vivere nel territorio degli esclusi, paradossalmente condividendo le stesse paure, a volte gli uni degli altri, e inevitabilmente convalidando la tesi secondo cui le ricchezze sono globali ma la miseria è locale. Per le merci, l’industria, i capitali, la finanza e i manager degli affari globali c’è libertà e non ci sono confini anzi si tende attraverso forme più spinte di deregolamentazione a favorirne i flussi e gli spostamenti, mentre gli abitanti della periferia della città globale sono inchiodati sul luogo e per una delle poche forme di mobilità possibile, la migrazione, vengono poste limitazioni e regole sempre più restrittive con politiche di ordine pubblico tendenti all’intolleranza. Il migrante che conquista un posto in una periferia della città globale del primo mondo quale può essere Quarto Oggiaro si ritrova in uno spazio urbano dove è in atto una profonda crisi dei legami comunitari. Un luogo urbano che è soprattutto un concentrato di povertà dove è molto più difficoltoso poter attuare forme di integrazione di culture altre come può avvenire nelle zone centrali della città in cui più facilmente si arrivano anche a ostentare culturalmente e socialmente identità ibride. In questo caso le periferie possono essere intese come l’intero spazio intorno alle cittadelle fortificate delle elite che detengono, controllano, gestiscono il potere globale. Il percorso dell’acquisizione di una coscienza di classe attraverso anche una identità di appartenenza locale pur mantenendo una specificità culturale etnica di provenienza potrà forse diventare il filo rosso che ripropone un sentire comune delle popolazioni delle periferie globalizzate. 136

Bibliografia 1. AA.VV, Città e conflitto sociale, Feltrinelli (1972) 2. AA.VV, Città e diritti di cittadinanza, Angeli (1990) 3. Parsi/Tacchi, Quarto Oggiaro, Bovisa, Dergano (prospettive di riqualificazione della periferia di Milano), Angeli (2003) 4. AA.VV., Ripensare Milano guardando l’Europa, Cortina (2008) 5. R. Chartroux, Cercasi casa disperatamente, Il Saggiatore (2008) 6. S. Paone, Città in frantumi, Angeli (2008) 7. E. Dell’Olio, Mafie del Nord, Ed. Punto Rosso (2007) 8. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, Laterza (1998) 9. Z. Bauman, Homo consumens, Erikson (2007) 10. S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi (2008) 11. L. Wacquant, Punire i poveri, DeriveApprodi (2006) 12. F. Houtart e S. Amin, Altermondialista, Ed. Punto Rosso (2007) Nota A Quarto Oggiaro sono attive diverse associazioni che svolgono un lavoro importante sul territorio tra queste si segnalano: 1. Spazio Baluardo, http://baluardo.splinder.com/ 2. Quarto Oggiaro Vivibile, http://www.associazionequartooggiarovivibile.com/ 3. ANPI, sezione Quarto Oggiaro e sezione Codè Montagnani 4. ACLI Santa Lucia 5. Comitato Antifascista zona 8, http://ottozona.noblogs.org/ 6. Fondazione Carlo Perini, http://www.circoloperini.com/home.html 7. SICeT, http://www.sicet.it/ Per ulteriori informazioni sul quartiere in rete: www.quartoweb.it

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(Quarto Oggiaro, foto di Duilio Piaggesi)

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Periferie di Milano di Alda Merini A Milano va di moda la violenza. E’ diventato un modo di vivere indecifrabile. La vecchia povertà milanese, così piena di stimoli e di dolore, è finita in una pozzanghera indescrivibile. Nessuno punisce chi ruba, nessuno loda i meritevoli. Eppure quella bella famiglia che erano i poveri, che si volevano tanto bene, è andata perduta. Il Milanese soffre di vedere il suo dolore mangiato da bocche che non sono mai sazie. E non sa come abbeverarsi a un’acqua pura, almeno l’acqua della propria intelligenza. Milano si è ingigantita sì, ma è diventata un mostro. Qualsiasi padrone di casa, padrone tra virgolette, può tenerci al guinzaglio come se fossimo dei cani arrabbiati. Ci han tolto la spiritualità, il bisogno di fare carità, e il senso di giustizia è andato a farsi fottere. Ormai nessuno crede più a se stesso. Nessuno si ama più. Il disamore ha raggiunto anche le nostre fondamenta. Ci ha distrutto. Ognuno ha persino paura di mangiare quel che gli è dovuto. A questo punto non ci resta che la religione. Ma quale religione? Dovremmo proprio inventarcene una. Si ringrazia vivamente Giuseppe d’Ambrosio Angelillo e la “Piccola Casa Editrice Acquaviva” (www.libriacquaviva.org) per aver permesso la pubblicazione di questa poesia inedita e soprattutto per aver interessato la poetessa Alda Merini al lavoro su “Le periferie del mondo” che stavamo svolgendo.

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Breve biografia degli autori Sonia Paone: insegna Sociologia Urbana e Sociologia dell'Ambiente nella Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Pisa. Fra le sue pubblicazioni più recenti Città in frantumi. Sicurezza, emergenza e produzione dello spazio, ed. Franco Angeli, 2008 Michel Lahoud: ha collaborato negli anni con Radio Popolare di Milano ed ha tenuto alcuni corsi su questioni relative al Medio Oriente alla LUP (Libera Università Popolare) Betty Gilmore: artista poliedrica, scrittrice, poetessa, cantante di blues, con diverse incisioni all’attivo, è anche attivista per i diritti dei migranti Michel Azcueta: attuale presidente della “Escuela mayor de gestion Municipal del Perù” ex sindaco di Villa El Salvador autore di diversi saggi sull’esperienza del suo municipio alla periferia di Lima. Ruben H. Oliva: giornalista e regista. Ha lavorato per Radio Popolare, Il Giorno, Il Secolo XIX, La Repubblica, Diario. Ha svolto inchieste pubblicate sui maggiori settimanali italiani ed esteri. Gli ultimi lavori sono stati film e libri: Quando c'era Silvio, Uccidete la democrazia, O Sistema e La santa, viaggio nella N’drangheta sconosciuta, Rizzoli, 2008 Daniela Bezzi: giornalista free-lance per L’Espresso, Repubblica, Grazia, vincitrice del Premio Baldoni 2005 con il reportage “Ritorno a Bhopal” ed esperta conoscitrice della politica e della società indiana. Fantu Cheru: professore “D’etudes africaines et de developpe143

ment” all’American University di Washington, esperto indipendente per molte organizzazioni internazionali, autore di diverse opere sull’Africa e la mondializzazione. Judith Revel: filosofa e ricercatrice del Centre Foucault di Parigi, insegna all’università Sorbonne di Parigi, autrice di vari libri tra cui, Qui a peur de la banlieue?, Paris, Bayard, 2008 Marco Pitzen: sindacalista, componente del direttivo nazionale SICeT (Sindacato Inquilini Casa e Territorio) autore di vari saggi sulla questione abitativa e del libro Casa. Merce, diritto, bene comune, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2007

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