La corsa del levriero. In Greyhound da Pittsburgh a Los Angeles [PDF]


144 104 2MB

Italian Pages 149 Year 2002

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Table of contents :
Prima parte RUNNING DOG NEON......Page 6
1......Page 9
L’ultimo motel......Page 13
Il caffè nella prateria......Page 18
2......Page 20
Fianchi d’argento......Page 21
Non va molto bene, vero?......Page 27
3......Page 29
Neon e rose......Page 34
4......Page 36
Night train......Page 40
5......Page 41
Nella caffetteria del terminal di Jackson, Tennessee......Page 49
Interstate 40......Page 50
Memphis A to Zee......Page 52
6......Page 53
Il Cigno Bianco......Page 56
Paris, Tejas......Page 60
Dallas......Page 61
Prigionieri della strada......Page 67
8......Page 68
9......Page 74
La diligenza......Page 76
10......Page 81
Lo Stellone......Page 82
Il tesoro di Bowie......Page 85
Verso il Pacifico......Page 88
I finestrini......Page 89
Seconda parte STERRATI......Page 90
11......Page 92
L’occhio del lupo......Page 94
12......Page 98
13......Page 105
Alverman......Page 107
14......Page 112
La febbre del Nord......Page 114
Terza parte GASOLINE DREAMS......Page 117
15......Page 120
...all the way!......Page 121
Il fiume......Page 122
Il bandito......Page 124
17......Page 129
Il numerologo......Page 130
La città dei motel......Page 133
L'angelo di Santa Rosa......Page 134
18......Page 136
Hobohemia......Page 140
Fine dell’Arizona......Page 141
Happy ending......Page 143
19......Page 145
Epilogo......Page 148
Papiere empfehlen

La corsa del levriero. In Greyhound da Pittsburgh a Los Angeles [PDF]

  • 0 0 0
  • Gefällt Ihnen dieses papier und der download? Sie können Ihre eigene PDF-Datei in wenigen Minuten kostenlos online veröffentlichen! Anmelden
Datei wird geladen, bitte warten...
Zitiervorschau

Alex Roggero

LA CORSA DEL LEVRIERO In Greyhound da Pittsburgh a Los Angeles

―Fa caldo. I vecchi della corriera dormono. I giovani ascoltano musica dai loro st ereo. L‘autista non fa più paura; da quando abbiamo ripreso a viaggiare, non ha più detto una parola. Qualcuno si sta addirittura fumando uno spliff. L‘odore dell‘erba è piacevole, aiuta a dimenticare la puzza della toilette di bordo che sta in fondo al co rridoio. Fuori c‘è la luna piena che illumina il paesaggio come se fosse giorno. Stiamo entrando nelle paludi del Tennessee. Viaggiamo in mezzo a un enorme convoglio di eighteen wheelers, i camion a diciotto ruote che percorrono come bisonti, avanti e indietro senza mai fermarsi, le strade d‘America. Formano lunghi convogli e procedono uno attaccato all‘altro per centinaia di chilometri. Si chiamano roadtrains, questi convogli. Dall‘auricolare del mio stereo esce la musica appassionata di Earl Klugh. Si sta bene su questo autobus.‖ Fra i tanti miti della strada americana il più potente e allo stesso tempo trascurato è quello del ―running dog‖, l‘agile levriero grigio dipinto sulla fiancata delle corriere Greyhound. Negli anni trenta e quaranta i torpedoni azzurri erano il mezzo di tr asporto preferito dagli americani, e le superbe stazioni art déco (disegnate dai più famosi architetti dell‘epoca) rappresentavano in ogni città, anche quelle più sperdute, il simbolo del progresso e dell‘avventura. Dalle strade sterrate dei deserti dell‘Ovest alle levigate autostrade volute da Eisenhower, i bus della Greyhound erano gli unici veri re della strada. Ritornare oggi sulle corriere del levriero lungo le vecchie hig hway che hanno fatto da sfondo alle avventure di generazioni di viaggiatori significa scoprire gli splendori andati e le piccole miserie quotidiane, significa ascoltare le storie di chi, nell‘era dei jet, è ancora costretto ad attraversare l‘America in autobus. Significa anche saper vedere, dietro queste vite dimenticate e marginali, i neri che all‘inizio del secolo lasciano le piantagioni per il Nord, gli oakies di Steinbeck che fuggono la Grande Carestia verso la California, gli hobo che saltano sui vagoni dei treni in corsa verso la libertà. Significa, infine, riconoscere in fondo a ogni rettil ineo, dietro a ogni curva, all‘inizio di ogni viaggio, il fantasma del blacktop (il manto nero dell‘asfalto), spirito delle strade americane, anima del mito, che nasce dalle piste sterrate dei pionieri, sopravvive ai bordi delle highway di provincia, si nasconde nelle stazioni di servizio dalle forme più strane, si affaccia sulla Old Route 66, declassata e bistrattata dai pubblicitari di mezzo mondo, ma pur sempre la più famosa delle vecchie strade d‘America. Alex Roggero (Alessandria 1961) vive a Londra da oltre vent‘anni. Ha studiato fotografia alla University of Westminster e all‘International Photography Centre di New York, con Ralph Gibson. Dal 1985 scrive e fotografa per le principali riviste europee, specializzandosi in reportage di viaggio e architettura roadside americana. Ha esposto alla Photographers‘Gallery, all‘Institute of Contemporary Arts e alla Biennale Internazionale della Fotografia di Torino. Tra le opere illustrate ricordiamo Greyhound: A Pictorial Tribute to an American Icon (Reed 1995) e Go Greyhound (Barnes & Noble 1996).

Prima parte – RUNNING DOG NEON Seconda parte – STERRATI

6 90

Terza parte – GASOLINE DREAMS

117

Epilogo

148

A Fe, che ama i libri di viaggio

Prima parte RUNNING DOG NEON

I have no plans no dates no appointments with anybody. J. K. .

1

La corriera era diretta a Denver. Lì sarebbe terminato il mio viaggio. A dire la verità, era già terminato una volta, a Los Angeles, sotto l‘insegna blu del Santa Monica Pier, dove vanno a dormire i vagabondi e dove, un tempo, la gloriosa Route 66 andava a morire nell‘Oceano Pacifico. Ma non avevo voluto concludere così, all‘insegna del solito tragitto da costa a costa, un viaggio completamente improvvisato, nato dal desiderio di rincorrere il fantasma del blacktop, il manto nero, simbolo e spirito di tutte le strade d‘America. Col trascorrere del tempo il fantasma mi era penetrato nelle ossa e quando, sulle rive dell‘oceano verde e limaccioso di L.A., mi ero reso conto di essere giunto alla fine, era esplosa, incontrollabile, la voglia di ripartire. Avevo così deciso di tornare sulle corriere della Greyhound, per un‘ultima corsa attraverso le praterie del Nord. Da Salt Lake City a Denver. Salt Lake City, perché era quella la destinazione del primo aereo in partenza dall‘aeroporto L.A.X. di Los Angeles, e Denver, perché lungo quel tragitto il bus seguiva la US 40, un‘antica e famosa strada che attraversava le più belle praterie dello Utah e del Colorado. Ma anche se fosse stata un‘autostrada, ci sarei andato ugualmente. Il viaggio per Denver si rivelò subito un terribile errore. Nonostante fosse primavera inoltrata, una perturbazione proveniente dal Canada era piombata sugli stati settentrionali degli Usa provocando spaventose tormente. Per tre giorni l‘autobus aveva arrancato nella neve, slittando paurosamente sulle lastre di ghiaccio che ricoprivano l‘asfalto crepato della US 40. In un paio di occasioni ci eravamo anche dovuti fermare ad aspettare che il carburante, congelato all‘interno del vecchio motore diesel Detroit Six, si sciogliesse. Quando finalmente arrivammo nei pressi di Denver era notte fonda, le strade erano sepolte sotto una spessa coltre bianca e non c‘era un‘anima in giro. Anche l‘immensa stazione Greyhound era completamente deserta. L‘avevano tenuta aperta solo per noi. Scesi maledicendo me stesso per aver voluto abbandonare la calda primavera di L.A. e uscii alla ricerca di un taxi, che naturalmente non c‘era. Faceva un freddo terribile e nella neve fresca le mie scarpe da tennis s‘inzupparono subito. Nel silenzio generale si udiva solo il tic tic dei semafori che ondeggiavano al vento. Infilai i piedi in un paio di borse di plastica 9

e mi misi a fissare lo stradone che portava in città, sperando, anzi pregando, di vedere arrivare qualche macchina. Trascorsero una decina di minuti, che mi sembrarono interminabili, e poi, come in un miraggio, vidi uno scalcinato taxi giallo che avanzava nella mia direzione. Agitai freneticamente le braccia e riuscii ad attirare l‘attenzione del tassista, che inchiodò sollevando un‘onda di neve sporca. Salendo gli chiesi di portarmi il più velocemente possibile al Motel Six dell‘aeroporto. Non vedevo l‘ora di fare una doccia bollente e infilarmi in un letto asciutto. Senza dire una parola il tassista partì verso l‘aeroporto. O almeno così pensai. Dopo un po‘, infatti, vidi che le case ai bordi della strada diventavano sempre più rade. Mancavano le insegne pubblicitarie, i capannoni e gli squallidi ipermercati che di solito annunciano gli aeroporti americani. ―Bah, forse Denver è un po‘ diversa,‖ pensai senza preoccuparmi troppo. La nostra Chevrolet Caprice scivolava silenziosa sulla neve, e tutti i miei pensieri erano rivolti al riscaldamento della camera d‘albergo. Da parte sua, il tassista non diceva una parola. Da dietro non vedevo altro che un bestione bianco con la testa appuntita, due occhialini di metallo legati dietro la nuca con un elastico – uno di quegli elastici stretti e sottili che usano i postini della U.S. Mail – e pochi capelli rossicci. Indossava un maglione nero devastato da piccolissimi buchi. Senza accorgermene, mi addormentai. Mi svegliai poco dopo, quando il tassista accese la radio sintonizzandola su una stazione country dove suonavano una lenta ballata. Si stiracchiò e senza voltarsi chiese se venivo da fuori. Ancora intorpidito, risposi di sì. ―Anch‘io,‖ disse lui, ―vivo nelle montagne a nord della città.‖ ―Ah.‖ La conversazione finì lì. Guardai fuori dal finestrino. Le case erano scomparse, e di insegne per l‘aeroporto neanche l‘ombra. Diedi un‘occhiata all‘orologio. Viaggiavamo da più di venti minuti. Stavo quasi per chiedergli quanto mancava a quel benedetto motel, quando lui riprese a parlare, a bassa voce, senza girarsi. ―Sai che ti dico, amico, io all‘aeroporto non ti ci porto,‖ sussurrò. ―Ti porto con me in montagna. Ti faccio passare la notte lassù, e poi, domattina, ti porto a prendere l‘aereo.‖ Silenzio.

10

Gli scappò una risatina idiota. ―Comunque non ti preoccupare, il prezzo della corsa rimane lo stesso!‖ Non riuscivo a dire una parola. I miei occhi cercarono immediatamente il lato destro del cruscotto, dove c‘è la targa con la foto e il numero di matricola del guidatore, ma non la vidi. L‘avevano tolta. Quello non era un taxi ufficiale. ―Vedrai che bella serata passeremo insieme,‖ disse lui ridendo. Mi guardai intorno. Stavamo viaggiando su una strada deserta, buia, in mezzo alla campagna. Mi morsi le labbra. Sapevo che in quel momento era necessario scegliere le parole con grande cura. Ma non riuscii a trattenermi e mi scappò un grido strozzato: ―Io voglio andare all‘aeroporto! Silenzio. Glielo dissi un‘altra volta, guardandolo negli occhi attraverso lo specchietto retrovisore: ―Senti, testa di cazzo, portami immediatamente all‘aeroporto, ci sono quattro persone che mi aspettano!‖. Non rise. Continuando a guidare, si girò completamente verso di me, dicendomi con una voce gelida: ―Tu adesso vieni in montagna con me. E non contarmi palle con l‘aeroporto. So benissimo che non c‘è nessuno ad aspettarti‖. Ora ero decisamente preoccupato. Avevo visto la sua faccia paonazza e brufolosa, e soprattutto avevo notato che non indossava un semplice maglione, ma sette o otto, uno sopra l‘altro. Sotto le ascelle la lana era letteralmente a brandelli, bruciata dal sudore. Cercai automaticamente il cavalletto della macchina fotografica, pensando, al massimo glielo do sulla testa, ma non c‘era, l‘avevo messo nel baule con il resto dei miei bagagli. Pensai anche di saltare dall‘auto in corsa, ma i semafori erano pochi, e i pochi che incontravamo erano spenti, sicché lui poteva correre senza mai rallentare. Intanto davanti a noi cominciava a delinearsi il profilo minaccioso delle montagne. Per diversi minuti rimanemmo in silenzio, ad ascoltare le ballate country che suonavano alla radio. Cantava Bonnie Raitt. Poi lui si voltò un‘altra volta e con grande calma mi chiese: ―Hai un lucchetto?‖. ―Cosa?‖ ―Sì, perché, vedi,‖ prese qualcosa da sotto i sedili, ―ho le catene per tenerti fermo, ma mi si è rotto il lucchetto!‖ Adesso ero proprio terrorizzato. Non riuscivo a respirare. Ogni volta che prendevo una boccata d‘aria mi sembrava di ingoiare una manciata di spilli. Ma dovevo assolutamente fare qualcosa. Anche perché da un po‘ avevamo iniziato a salire e le montagne si avvicinavano inesorabilmente. Cer11

to, c‘era sempre la possibilità di scaraventarsi fuori dalla macchina in corsa, ma questo significava rischiare l‘osso del collo, e soprattutto non dava garanzie di successo perché nulla gli avrebbe impedito di fermare l‘auto e venire a riprendermi. E poi nel baule c‘erano tutti i miei averi, le macchine fotografiche e più di duecento rullini già esposti, il lavoro di un mese di viaggio. Non avevo nessuna intenzione di fare regali a uno come quello. Dovevo assolutamente vincere la paura e cominciare a parlare. Cercare in qualche modo di stabilire un punto di contatto. Fargli capire quello che stava facendo. Gli dissi che ero un fotografo, che vivevo a Londra, che ero sposato con un‘americana e avevo un sacco di parenti negli Stati Uniti. Tutte cose vere. Poi cominciai a raccontargli palle. Gli dissi che a Los Angeles avevo seguito per la mia rivista il famoso omicidio dei giapponesi. Tutta l‘America parlava di quell‘omicidio, non tanto perché fosse particolarmente efferato (due turisti di Tokyo erano stati uccisi in un parcheggio da una gang di angeleños) quanto per la reazione del governo giapponese, della stampa e della polizia di L.A. In un baleno, gli agenti del Lapd avevano condotto le indagini e arrestato i colpevoli. Sui bus della Greyhound, avevo sentito molta gente ripetere questo ritornello: in America i turisti stranieri sono più protetti degli americani. Cominciai a martellare su questo punto, cercando anche di scherzarci su. E continuai a ripetere chi ero, che lavoro facevo, quali contatti avevo negli Usa. Lui ascoltava senza aprir bocca. Non si capiva cosa stesse pensando, ma almeno aveva smesso di fare quelle odiose risatine in falsetto che mi terrorizzavano. Poi spense la radio country e iniziò a sua volta a raccontare, senza nascondere un certo imbarazzo. Era di origine tedesca, figlio unico. I genitori erano morti da qualche anno. Aveva sempre vissuto nelle montagne del Colorado (―Posti superbi, benedetti da Dio‖) senza mai sentire il bisogno di cercarsi un lavoro. Il taxi? Lo prendeva in prestito di tanto in tanto, da un amico che aveva smesso di fare il tassista da molto tempo, per girovagare la notte per le strade di Denver. Di solito non caricava nessuno, guidava e basta. E guardava. ―Mi piace da matti osservare la gente senza essere osservato a mia volta,‖ confessò. Ma quando mi aveva visto piantato nella neve, da solo, chiaramente alla ricerca di ―compagnia‖, aveva deciso di fermarsi. ―Conosco bene la solitudine. In montagna si sente molto la noia e la solitudine,‖ spiegò con un‘altra risatina da adolescente. ―Quando hai detto che 12

venivi da fuori, ho subito pensato che ti sarebbe piaciuto venire in montagna a fare delle foto insieme a me. Ci sono dei paesaggi bellissimi, sai!‖ Ecco sì, alle tre di notte mi metto a fare le foto ai paesaggi! pensai. Lasciai passare qualche istante. Poi mi giocai l‘unica carta che avevo. ―Senti,‖ gli dissi con la voce più serena che abbia mai avuto in vita mia, ―dammi retta, gira la macchina. Andiamo all‘aeroporto.‖ Non rispose e non rallentò. ―Come on, man.‖ Staccò il piede dall‘acceleratore. La macchina rallentò, continuando a puntare il muso verso le montagne e poi, con una lentezza infinita, effettuò un‘ampia virata nella neve fradicia lasciando dietro di sé un profondo solco a forma di ferro di cavallo. Iniziammo a scendere a valle, verso le luci di Denver. Il tedesco non disse una parola durante la manovra, e non parlò più fino all‘arrivo nella zona dell‘aeroporto, se non per comunicarmi l‘ammontare della corsa. Venti dollari, una sciocchezza. Anch‘io non dissi più una parola, neanche quando vidi che invece di portarmi davanti al motel si era fermato in mezzo alla strada, a circa cinquecento metri dalla reception. Evidentemente voleva essere sicuro di avere una via di fuga. Restò in macchina mentre io scaricavo i bagagli. Quando sentì lo scatto del baule che si chiudeva innestò il cambio automatico e se ne tornò verso le sue montagne. Mi piantai in mezzo alla strada e lo guardai scomparire dietro una nuvola di neve sporca. Avrei dovuto prendere il numero di targa, ma non lo feci. Mi bastava essere su quella strada. Mi bastava essere fuori da quel taxi, sotto gli occhi vigili del guardiano notturno del Motel Six.

L’ultimo motel Questo è il resoconto dell‘ultimo giorno del mio viaggio sui Greyhound. In un certo senso, è un vero peccato che sia finita così. Ma da un altro punto di vista questa è una delle più belle serate della mia esistenza. Sono barricato dentro la stanza numero sei del Motel Six di Denver. Vicino al letto ho appoggiato la mazza da baseball che mi ha prestato il guardiano di notte del motel – non so come si chiama -, un negrone che mi ha fatto raccontare tutta la storia un paio di volte prima di spiegarmi come, con quella stessa mazza da baseball, lui avrebbe spaccato la testa al tassista. ―Il lucchetto? Voleva il lucchetto eh? Sai cosa gli dicevo io? Se vuoi qualcosa, ficcati nel culo questa!‖ aveva concluso agitando furiosamente la mazza sopra la mia testa. Poi me l‘aveva messa in mano, porgendomela come se si trattasse di 13

una scure da guerra: ―Per questa notte tienila tu, la mia Bertha. Ti assicuro che è molto meglio di un orsacchiotto‖. Adesso è appoggiata al bordo del letto. Devo ammettere che fa un certo piacere sapere che è lì. Questa brutta notte di Denver mi ha fatto venire in mente quello che molta gente aveva detto all‘inizio del viaggio, e cioè che non si può più vedere l‘America in autobus, che è troppo pericoloso perché nei bus, e soprattutto nelle stazioni, è pieno di ladri, di puttane, spacciatori e maniaci. Effettivamente, è questa l‘immagine del levriero nell‘America anni novanta. Ma si tratta di un‘immagine piuttosto distorta. La verità è che le corriere della Greyhound sono, semplicemente, il mezzo di trasporto dei poveri. E in nessun paese come in America essere povero è una colpa, una maledizione. Ricordo i commenti, le raccomandazioni di amici e colleghi prima della partenza. Watch yourself era la loro parola d‘ordine. Stai in guardia, non fidarti. Ma ricordo anche le parole tenere e sagge di una vecchietta di colore incontrata nello stato del Mississippi: ―Caro ragazzo,‖ mi aveva detto, ―qui siamo tutti un po‘ poveri. Ma bada che essere poveri non vuol mica dire essere dei delinquenti. Guardati intorno. Se dovessi sentirti male, se avessi bisogno di qualcosa, nessuno qui esiterebbe a darti una mano‖. Non so se avesse ragione o torto, ma la vecchietta del Sud era comunque più simpatica di tutti quelli che, a suo tempo, avevano cercato di dissuadermi dall‘intraprendere il viaggio in groppa al levriero. È straordinaria, la corriera. Naviga lentamente per le strade del grande paese, e come una balena apre le fauci e raccoglie tutto ciò che trova. Nel suo ventre d‘alluminio finiscono i giovani immigrati in cerca di fortuna. I vecchi abbandonati dai figli. I soldati che, da sempre, usano il bus per tutti i loro spostamenti. Poi ci sono quelli che scappano. I ragazzi fuggiti da casa, le attricette sull‘orlo della prostituzione che vagano da città a città, da diner a diner, alla ricerca sempre più disperata di un improbabile colpo di fortuna. Quasi tutti i film in cui appare una corriera narrano storie di fuga. Anche il primo, il celebre Accadde una notte del 1934, con Claudette Colbert e Gary Grant, che rese la Greyhound famosa in tutto il paese, raccontava di una ragazza che scappava. Più tardi arriveranno Fermata d’autobus, Wayward Bus, Un uomo da marciapiede; storie di gente che fa fagotto e se ne va, a volte a cercare qualcosa di nuovo, più spesso per battere in ritirata. Le storie. Sono loro le vere protagoniste di un viaggio in Greyhound. Lo sono sempre state, ma oggi che l‘America, politicamente corretta in super14

ficie, è sempre più divisa, sospettosa, crudele, acquistano un valore particolare. Sui sedili sgangherati di una corriera succede ancora che due sconosciuti, di pelle, ceto e religione diversa, si siedano uno accanto all‘altro e, con magnifica impudenza, si mettano a chiacchierare. Una cosa normalissima, per il resto del mondo. Per l‘America di fine millennio, un piccolo prodigio. Forse il segreto sono i conducenti. I leggendari autisti che fanno dimenticare le ore e il sedere quadrato dei lunghi viaggi raccontando barzellette che sono sempre le stesse e, proprio per questo, fanno ridere tutto il bus. Uno dei più simpatici è quello che ho conosciuto per ultimo, Jim Vargas, l‘autista che da Salt Lake City mi ha portato fin qui, a Denver. Jim è un bell‘uomo, alto, abbronzato. Ha uno splendido paio di baffi grigi che tormenta in continuazione e che pare siano molto apprezzati dalle donne. Sono più di trent‘anni che guida gli autobus, ne è orgoglioso e fa vedere a tutti quelli che salgono sulla sua corriera le sei medaglie che ha puntate sul petto. Ognuna testimonia cinque anni di guida senza incidenti. Trent‘anni al volante senza andare a sbattere e senza chiudere la bocca, mai. Sì, perché Jim ama parlare e soprattutto ama la sua terra; le praterie, i canyon e le montagne del Colorado e dello Utah che descrive mentre guida come un esploratore alla scoperta di un nuovo mondo. La corriera segue la US 40 attraverso paesaggi imponenti, di quelli che ti fanno capire perché vale la pena continuare a vivere, e Jim si ferma per indicare gli immensi branchi di pronghorn, le antilopi che fuggono mostrando il posteriore candido come la neve che scende da giorni. Poi vede un‘aquila che vola a fatica verso il nido con una trota arcobaleno appena artigliata dal vicino fiume Yampa, e si mette a raccontare dei dinosauri, perché le aquile, come tutti gli uccelli, discendono dai dinosauri e da queste parti di dinosauri è pieno, sia veri che di cartapesta. La US 40 infatti attraversa un enorme parco nazionale, il Dinosaur National Monument, grande quasi mille chilometri quadrati e ricco di pterodattili e affini. Dal 17 agosto del 1909, quando il paleontologo Earl Douglass inciampò nella coda di un brontosauro che sporgeva da una spianata di arenaria, la vicina città di Vernal, nello Utah, è la capitale americana dell‘era giurassica. I dinosauri sono dappertutto, a Vernal. Sui segnali stradali, davanti agli edifici pubblici e persino negli alberghi. Qui ho avuto il piacere di dormire in quello che, probabilmente, è il più bell‘esempio di motel anni cinquanta d‘America. Il Dine-a-ville – si intende – è un normalissimo motel semi prefabbricato, ma come insegna ha un brontosauro di gesso rosa alto trenta metri soprannominato, ovviamente, Dino. È anche in una posizione strate15

gica, perché è proprio a due passi dal Great American Cafe, altro perfetto esempio di architettura popolare americana e fermata ufficiosa dei bus Greyhound. Quella ufficiale è appena fuori dal paese, di fronte a una rimessa in disuso, ma gli autisti come Vargas non si fermano mai lì – ―solo se c‘è qualche forestiero che fa la fila da solo come un imbecille‖ – preferendo il calore e il profumo di pancetta affumicata del Great American. Quando Jim entra nel diner è festa grande, sembra che sia arrivato Babbo Natale. Lui si liscia i baffi e aspetta che le cameriere gli saltino addosso; le bacia, le prende in braccio e se le porta a spasso per il caffè tra gli applausi dei commensali. Tutte le ragazze lo amano, un po‘ perché è uno che ci sa fare, ma soprattutto perché se non fosse per lui e per gli altri autisti delle corriere, il Great American avrebbe già chiuso da un pezzo. Fu proprio nel Great American Cafe di Vernal che vidi il mio primo – e ultimo – mountain-man. Era un tipo smilzo, che entrò dalla porta laterale mentre noi del bus stavamo ordinando la colazione, andando a occupare uno dei tavolini con le tovaglie a quadretti nel centro del diner. Era vestito interamente di pelle: gilè e giacca scamosciata, pantaloni e stivali di cuoio. Il tutto decorato con quelle piccole frange che nel West hanno uno strano nome latineggiante, le fibrille. Devo ammettere che era un uomo davvero sporchissimo; portava un copricapo di pelo un po‘ troppo piccolo sui capelli appiccicaticci e mangiava con le mani. Chiesi all‘autista Vargas – gli piaceva farsi chiamare così – chi fosse quell‘individuo. ―È un mountain-man,‖ rispose, ―vive dalle parti del Red Canyon, a nord di Vernal. È uno splendido territorio pieno di selvaggina, che confina con la riserva di Flamingo Gorge. Per un tipo come quello è l‘ideale. Da queste parti un tempo ce n‘era parecchia, di gente come lui. E ce ne sarebbe ancora tanta, se i proprietari terrieri non continuassero a vendere spicchi di terra a quelli di Denver e Salt Lake City Con questo sistema stanno distruggendo questa meraviglia di territorio e togliendo il respiro alla gente del posto. Perché devi capire che uno come quello, per respirare, ha bisogno di moltissimi chilometri quadrati di solitudine,‖ spiegò Jim, e poi aggiunse: ―Di solito qui al Great American ne scende anche un altro, che non so esattamente dove viva, ma che è ancora peggio di questo. Negli anni ottanta faceva il dirigente in una grossa agenzia pubblicitaria dell‘Est. Poi è arrivato Reagan, la recessione, gli è venuta la crisi mistica e si è ritirato sulle montagne. Scende in città una volta al mese, a fare provviste e a ritirare l‘assegno della Social Security. E passa a fare colazione qui. Ma se ti becca 16

è un casino, non scappi finché non hai ascoltato la storia della sua vita. I convertiti come lui sono sempre così, dei gran spaccapalle. Questo invece, che è un vero uomo selvatico, non dice mai una parola.‖ Jim Vargas attese che tutti avessero finito la colazione e poi, battendo energicamente le mani sul tavolo, annunciò che era arrivato il momento di ripartire verso Denver. ―E mettetevi gli stivali di gomma, che se sul Rabbit Pass c‘è la neve tocca a voi spingere!‖ disse mentre faceva l‘occhiolino a una cameriera. Sull‘autobus, che era pieno in ogni ordine di posto, continuai a chiacchierare con l‘autista Vargas, il quale mi indicò con il petto gonfio d‘orgoglio le mandrie di bufali che in questa meravigliosa parte del mondo pascolano tranquilli come ai tempi degli indiani. Purtroppo, però, a forza di parlare di indiani e animali l‘autista Vargas dimenticò un aspetto basilare del suo mestiere, sicché quando arrivammo a Dinosaur, in Colorado, dal fondo del bus emerse una ragazza coperta di tele cerate che voleva scendere a Jensen, una trentina di chilometri indietro. La fermata era segnata sull‘orario ufficiale Greyhound, e lui se l‘era completamente dimenticata. Un errore grave. La ragazza, che sfoggiava un altezzoso accento inglese, era furibonda. Pretendeva di tornare indietro ma questo naturalmente era impossibile. Jim le disse che avrebbe dovuto scendere a Dinosaur e aspettare la corriera che andava nella direzione opposta. Un‘attesa di sette ore. ―Comunque non si preoccupi, signorina,‖ le disse con un sorriso, ―perché qui a Dinosaur scende anche questo bel giovanotto che le terrà sicuramente compagnia.‖ Il ―bel giovanotto‖ ero io. Avevo deciso di passare il resto della giornata a Dinosaur perché, molto stupidamente, volevo poter raccontare di essere stato in una città chiamata Dinosauro, e poi perché ero convinto che fosse vicino al parco nazionale. Invece l‘entrata del parco era a Jensen, e la ―città‖ consisteva in null‘altro che quattro case allineate al bordo della strada, una stazione di servizio, un motel, un caffè e due dinosauri di cemento pitturati di verde. Un po‘ poco, considerando che dovevo dividerlo con un‘inviperita turista inglese che mi considerava – a ragione – responsabile della fermata saltata. Scendemmo dal bus e fummo investiti da un vento freddissimo, che ci costrinse a cercare rifugio nella vicina stazione di servizio dove comprai delle tavolette di cioccolata e delle banane. La signora del negozio era gentile e simpatica. Cercò di attaccare bottone con l‘inglese, che però non volle saperne. Anch‘io tentai di scambiare qualche parola con lei, prendendo spunto dal fatto che venivamo entrambi dall‘Inghilterra. Non solo non mi 17

diede risposta, ma addirittura alzò i tacchi e se ne andò ad aspettare fuori, incurante del freddo e del vento gelido che soffiava dalla prateria. Quando, molte ore più tardi, andai a coricarmi nel minuscolo letto del motel, era ancora là fuori che aspettava. La mattina dopo era scomparsa.

Il caffè nella prateria Com‘è bello svegliarsi con una tazza di caffè bollente, appena fatto, vicino alla stufetta targata 1907 del Miner‘s Cafe di Dinosaur. Fuori la temperatura non supera i meno dieci e il vento ti spezza in due. Ma qui al riparo si sta che è una meraviglia. I muri sono tappezzati di foto di bambini biondi – i nipoti dei proprietari – e di stampe non molto belle di indiani e cow-boy. Il caffè è pieno zeppo di cow-boy. Vicino all‘entrata sono appesi i loro cappelli. Cappelli da cow-boy, ovviamente, ma di paglia, perché gli Stetson di feltro da queste parti si mettono solo quando ci si sposa o quando muore qualcuno. Sembrano attraversare una crisi esistenziale, i cow-boy di Dinosaur, Colorado. Parlano tra di loro e si lamentano di dover lavorare sempre più con le pecore e sempre meno con il loro amato bestiame. Indubbiamente, per un cow-boy purosangue cavalcare dietro alle pecore deve essere piuttosto umiliante. Non si possono nemmeno prendere al lazo, le pecore. Ma tutti concordano nell‘affermare che sono sempre meglio delle compagnie petrolifere che negli anni ottanta arrivarono a colonizzare la prateria, stravolgendo l‘economia locale per poi sparire un paio di anni più tardi, quando i pozzi si esaurirono. Sì, sono sempre meglio le pecore del petrolio. E poi fra non molto sarà estate, si potrà lavorare due ore la mattina e poi passare il resto della giornata a cavalcare senza mai fermarsi, su e giù per l‘altopiano, dietro alle antilopi e ai bisonti, assaporando a pieni polmoni il profumo inebriante dell‘erba della prateria. Cavalcare senza mai fermarsi. È questo il segreto di ogni viaggio sulle strade del Nordamerica. L‘America è un interminabile lungometraggio che va visto senza interruzioni, senza intervalli. È necessario muoversi continuamente per mantenere la sospensione dell‘incredulità. Fermarsi significa rompere l‘incantesimo, accendere le luci del cinema, scoprire lo schermo diafano e ingannevole. Ogni volta che un viaggiatore si ferma, o meglio, ogni volta che un europeo si ferma in qualche paese a cavallo di una highway americana, viene assalito da un dubbio. Il dubbio che dietro a tutte quelle emozioni ci sia il nulla. 18

Io che sono fermo qui da un giorno ho l‘impressione di essere naufragato. Come i cow-boy di Dinosaur mi ritrovo circondato dalle pecore, e mi mancano terribilmente le mie mucche. Meglio continuare a viaggiare. Dall‘inizio.

19

2

Pittsburgh ha qualcosa di epico, di eroico. Non so perché. In principio non si capisce come una città così industriale, piena di comignoli e ciminiere cadenti, possa suscitare una tale sensazione. Ma poi, a poco a poco, si intuisce che sono proprio le ciminiere, l‘uniformità delle case e delle fabbriche grigie che si stagliano contro un cielo indescrivibilmente nitido e drammatico, a rendere questa città così speciale. Il mio viaggio in Greyhound iniziò laggiù. Volevo partire da una città dell‘Est, ma non volevo che fosse in riva all‘Atlantico, come New York o Baltimora. Decisi allora di chiedere consiglio a mio suocero. ―Vai a Pittsburgh,‖ rispose. ―Perché?‖ ―La vera America è lì.‖ Così disse mio suocero, stimato avvocato di origine ebraica, mentre cuoceva le bistecche alla brace sul bordo della piscina della sua casa di Miami. ―Ma tu, a Pittsburgh, ci sei mai stato?‖ chiesi io. ―No. Ma ne ho sentito parlare.‖ Il giorno dopo partii per Pittsburgh, in aereo. Dall‘aeroporto presi un taxi per il centrocittà, con l‘idea di andare direttamente alla stazione delle corriere, ma quando arrivammo nei pressi della zona di downtown, dove i fiumi Monongahela e Allegheny confluiscono e formano il grande e maestoso Ohio, fui così colpito dalla bellezza del posto che chiesi al tassista di farmi vedere un po‘ la città. Mi portò nella parte vecchia di Pittsburgh, una zona piena di case in stile vittoriano abbarbicate su un costone che domina il Golden Triangle, il centro commerciale che sorge nel punto dove nasce l‘Ohio. Il panorama era davvero imponente. Non capivo esattamente come, ma in qualche modo quella città riusciva a trasmettermi una sensazione di forza, di coraggio da pionieri che non avevo mai provato prima. Pittsburgh era stata per quasi un secolo la capitale dell‘acciaio e del ferro, il luogo dove personaggi del calibro di Andrew Carnegie e Henry Clay Flick avevano costruito le loro immense fortune. La città dei tre fiumi aveva fatto da sfondo ai più sanguinosi conflitti industriali della storia degli States, tra cui lo sciopero di Homestead del 1892, durante il quale l‘anarchico russo Alexander Berkman aveva tentato di assassinare lo stesso 20

Flick. Per decenni Pittsburgh aveva meritato l‘Oscar per la metropoli più sporca e inquinata del Nordamerica. Poi, durante i primi anni ottanta, la recessione aveva spazzato via tutto. Era rimasta quell‘atmosfera asciutta, levigata, che appartiene ai luoghi dove gli uomini hanno combattuto contro la natura e contro se stessi. Mentre scattavo qualche fotografia ai grattacieli della città, possenti e orgogliosi come quelli di Chicago, vidi arrivare una scalcinata Oldsmobile che venne a fermarsi a due passi da me, proprio sull‘orlo della scarpata. Ne scese un uomo in tuta blu e giacca a scacchi, che aprì la portiera posteriore della macchina ed estrasse con estrema cura un fagotto multicolore. Dentro al fagotto c‘era un bambino piccolissimo. Avrà avuto al massimo un mese di vita. L‘uomo, con il bambino in braccio, salì in cima al muretto di protezione e rimase lì, immobile, a fissare il panorama che avevo appena fotografato. Stava facendo vedere a suo figlio la città. Gli mostrava la fabbrica dove lavorava? Dove aveva lavorato suo padre e, prima ancora, suo nonno? Non lo so. So solo che quando prese il fagotto e lo sollevò sopra la testa, mostrandolo ai grattacieli, alle ciminiere, ai tre fiumi che scorrevano di sotto, mi innamorai definitivamente Pittsburgh.

Fianchi d’argento Il terminal – in inglese si dovrebbe dire terminus, ma gli americani dicono terminal – della Greyhound a Pittsburgh si trova in pieno centro. La stazione doveva essere splendida, in origine. Lo si capisce dai grandi saloni tappezzati di pannelli in acciaio cromato, dalle maniglie in ottone dei portoni con lo stemma a sbalzo della compagnia. Fuori, purtroppo, la facciata originale è stata demolita e sostituita con un‘anonima costruzione in mattoni rossi. Le corriere stanno dietro, parcheggiate di sbieco e circondate dagli uomini in tuta rossa della Greyhound Maintenance. Come formiche i meccanici si arrampicano sugli autobus, puliscono i vetri, lucidano il grande levriero grigio dipinto sulle fiancate. Sulla schiena portano un emblema dove sta scritto We keep ’em rolling! – li facciamo correre – riferito ovviamente ai levrieri. Fa un certo effetto essere qui. Mi aggiro tra gli autobus come un ragazzino in un negozio di giocattoli. Leggo i nomi delle città dove sono dirette le corriere: Chatanooga, Biloxi, Kalamazoo. Che bei nomi! Fotografo le bandiere americane dipinte sulle fiancate vicino agli stemmi e alle scritte – Americruiser Two, Road Eagle ecc. – che indicano il modello e l‘età delle 21

corriere. Si tratta di semplicissimi autobus, eppure a me sembrano delle opere d‘arte. In questo gli americani sono maestri. Riescono sempre a trasformare gli oggetti più banali in qualcosa di speciale. Lo fanno con gli autobus, con le cassette delle lettere, persino con i dentifrici. Ogni volta che entro in un supermercato americano per fare la spesa, ad esempio, esco con un tubetto di Crest in tasca. Non posso resistere al fantastico design della confezione, con quel marchio mezzo rosso e mezzo blu che non cambia dagli anni cinquanta. Anche in questo gli americani sono bravi. Sanno capire che, a volte, è assurdo continuare a cercare di migliorare un prodotto. Le corriere della Greyhound sotto molti punti di vista sono identiche ai torpedoni Silversides che quarant‘anni fa resero famosa la compagnia. Hanno le stesse portiere strette e alte, i vetri piccoli e spessi, e soprattutto le stesse fiancate d‘alluminio che avevano i Silversides (il nome infatti significa fianchi d‘argento). Le corriere che girano per l‘Europa, con le loro enormi vetrate bulbose e le scritte pacchiane, al confronto sono veramente orribili. Uno dei meccanici, insospettito, viene a chiedermi cosa sto facendo. Non si può girare per il parcheggio senza biglietto. Gli dico che sto per partire ed è il mio primo viaggio in Greyhound. Vado a Cleveland e poi a Columbus, nell‘Ohio. ―Benissimo,‖ risponde lui, ―se deve andare allora vada. Il bus per Cleveland parte tra dieci minuti. E vedrà che una volta arrivato a destinazione le sarà passato ogni entusiasmo!‖ Entrai nella stazione e andai verso la biglietteria. Dovevo far convalidare l‘Ameripass, il lasciapassare che permette di viaggiare con la Greyhound e le sue consociate. Davanti a me c‘erano due innamorati che piangevano disperatamente. Si tenevano per mano e singhiozzavano senza ritegno. Il biondino acquistò un biglietto per Akron, Ohio, chiedendolo con un filo di voce. Lo ritirò e se ne andò con la fidanzata avvinghiata al braccio. Toccava a me. Mostrai il pass, la ragazza staccò un tagliando e chiese dove ero diretto. Glielo dissi e lei mi consegnò un biglietto stampato su carta termica su cui stava scritto ―Columbus, Ohio, via Cleveland‖. La ragazza urlò ―il prossimo!‖ e io mi avviai felice come un bambino verso il mio primo Americruiser. Davanti al gate, che consisteva in una semplicissima porta che dava sul parcheggio degli autobus, ritrovai i due innamorati. Erano seduti per terra, circondati da un gruppo di giovani neri molto in tiro. I fidanzati piangevano ancora, ma molto più pacatamente, anche perché i ragazzi di colore gli stavano addosso e continuavano a prenderli in giro. ―Non ti preoccupare,‖ 22

dicevano al maschio, ―che appena saliamo sul bus ci pensiamo noi a consolarla!‖ Il ragazzo non rispondeva, si asciugava le lacrime e sorrideva, sapendo che sull‘autobus ci sarebbe salito lui. Oltre a loro c‘erano anche alcuni soldati e molte persone anziane, principalmente donne, che facevano la maglia o leggevano riviste. Alle undici e trenta, in perfetto orario, l‘altoparlante annunciò che il bus era in partenza e potevamo salire. L‘autista era già in posizione vicino all‘entrata, pronto a ritirare i biglietti. Con uno scatto da centometrista mi fiondai verso i sedili anteriori, scegliendone uno vicino al finestrino. Il primo impatto con il velluto sintetico marrone scuro dei sedili Greyhound non fu proprio dei migliori. La poltrona era lercia e puzzava maledettamente. Ma era il primo viaggio e decisi di non farci caso. Preferii concentrarmi su quello che stava dall‘altra parte del finestrino, cioè le case e le fabbriche di Pittsburgh in quella bella mattina di marzo. Board a Greyhound in Pittsburgh – parti in corriera da Pittsburgh – diceva una canzone di Paul Simon – e lasciati indietro il passato. Intanto l‘autobus si andava riempiendo. Le vecchiette erano salite in gruppo e avevano occupato i primi posti iniziando immediatamente a chiacchierare. I soldati stavano in mezzo, anche loro in blocco. Dietro si piazzarono i giovani. Il biondino si sistemò in un angolo, tutto solo come me. Guardava fuori dal finestrino con aria assente. Il conducente salì per ultimo e si presentò: ―Salve a tutti,‖ disse, ―mi chiamo Lou Turner e sarò il vostro autista fino a Cleveland. Vi voglio ringraziare per aver scelto una corriera Greyhound. Siamo orgogliosi di essere al vostro servizio. Prima di partire, desidero mettervi al corrente delle leggi federali riguardanti la sicurezza, il fumo eccetera. Sulla corriera è vietato mangiare – ma chiuderò un occhio se volete fare un piccolo snack -, è severamente vietato fumare e bere alcolici. inoltre vietato accendere radioline, ghetto blasters e roba del genere, ma sono ammessi i personal stereo muniti di auricolare. Infine, lo dico per quelli che stanno in fondo, non siamo più negli anni sessanta e chiunque verrà sorpreso a farsi una canna verrà fatto scendere immediatamente‖. Le vecchiette sedute davanti esplosero in un applauso. L‘autista fece un gesto con la mano per dire che non aveva ancora finito. ―Sono sicuro che sarete più che soddisfatti della mia guida. Le nostre corriere sono statisticamente i mezzi di trasporto su strada più sicuri del paese. A ogni modo, se avete qualche critica, potete telefonare al numero verde riportato sullo 23

schienale del sedile che vi sta di fronte. Ma preferirei che ne parlaste direttamente con me. Ne va del mio stipendio, capite? Grazie e buon viaggio.‖ Lou Turner si tolse la giacca, arrotolò le maniche della camicia e si mise al volante. Pochi minuti dopo attraversavamo l‘Allegheny in direzione dell‘Interstate 76. All‘imbocco dell‘autostrada ci fermammo a caricare un gruppo di minatori che aspettavano sotto un capannone. Avevano appena finito il turno in una delle miniere di carbone – Pittsburgh sorge in cima a un enorme giacimento di carbone — ed erano completamente coperti di polvere nera. Salirono e si sparpagliarono andando a cercare i posti che erano rimasti liberi. Appena il conducente ripartì quasi tutti tirarono fuori da sotto le giacche delle gavette di metallo – l‘odore di cavolo lesso aleggiò nel bus – e iniziarono a mangiare. L‘autista, fedele alla sua promessa, fece finta di niente. Uno dei minatori era seduto accanto a me. Trovai la cosa abbastanza curiosa, considerando che la storia della Greyhound è indissolubilmente legata alle miniere e ai minatori del Midwest. Se non fosse per loro la Greyhound probabilmente non sarebbe mai nata. Agli inizi del secolo, infatti, tutta la zona che comprende gli stati settentrionali, dalla Pennsylvania al Minnesota, vide l‘arrivo di uomini coraggiosi e senza scrupoli che si misero a bucare il terreno in cerca di ferro, carbone e altri minerali. Il territorio si riempì immediatamente di piccole città costruite nei pressi e, più spesso, direttamente sopra le miniere. Nei pozzi lavoravano immigrati polacchi, gallesi e scandinavi. Tra di loro c‘era uno svedese, Carl Eric Wickman. A vederlo, non aveva molto di svedese. Era piccolo e gracile. Lo misero a scavare nelle cave di ferro a cielo aperto, insieme ai suoi connazionali, ma lui avrebbe preferito stare coi negri e gli italiani, che lavoravano nelle fornaci. In quel tempo però i capoccia delle miniere seguivano una regola inflessibile: quelli del Nord che erano abituati al freddo li mettevano fuori al gelo, mentre quelli che venivano dai paesi caldi andavano a sudare vicino ai forni. Se poi uno svedese era magrolino, se al freddo si prendeva la polmonite, peggio per lui. Carl Eric Wickman sapeva che non sarebbe durato molto, nelle miniere di ferro del Minnesota. Lavorò duro per sei anni, dal 1908 al 1914, facendo qualsiasi sacrificio pur di mettere da parte un bel gruzzolo. Poi si licenziò e acquistò una concessionaria di pneumatici Goodyear e automobili Hupmobile nella cittadina di Hibbing. L‘idea era di quelle coraggiose, nonché lungimiranti, ma la scelta delle auto non fu tra le più felici. Invece delle richiestissime Ford modello T, lo svedese puntò sulle Hupmobile, più grandi 24

e più belle delle Ford, ma anche molto più costose. Ben presto scoprì che venderle era assai difficile. Una in particolare, una touring modello 52 da sette posti, non riusciva a rifilarla proprio a nessuno. Fu così, nell‘inverno del 1914, che Wickman decise di buttar via seicento dollari e acquistare l‘ingombrante vettura per sé. La trasformò in un piccolo autobus e iniziò a trasportare minatori da Hibbing al saloon di Alice, dieci miglia più a ovest. Dieci miglia di strada sterrata e piena di buche, ma ne valeva la pena: il saloon di Alice era il migliore della zona. La corsa costava quindici cents per la sola andata e venticinque cents per un‘andata e ritorno. Fu un successone, anche perché, con lo scoppio della Prima guerra mondiale, le miniere triplicarono la produzione e città come Hibbing si riempirono di minatori. In pochi anni Wickman riuscì a costruire un‘azienda (la Mesaba Transportation Company) che si espanse velocemente, assorbendo molte bus lines del Nord. Tra queste vi erano la Northland e Southern Greyhound, nome che venne utilizzato per gran parte delle corriere dell‘ormai ricco svedese. Nel 1930, con il trasferimento a Chicago, nasceva la Greyhound Lines Inc. Wickman ordinò alla leggendaria fabbrica di autocarri Mack un torpedone per lunghi viaggi pieno di innovazioni tecnologiche. Sui fianchi volle che fosse dipinto uno slanciato levriero bianco. Allo stesso tempo ordinò allo studio degli architetti Wischmeyer, Arrasmith & Elswick di Louisville, Kentucky, di progettare una serie di monumentali stazioni in stile déco, tutte dello stesso colore. La nostra corriera era appunto diretta verso una di quelle famose stazioni. Ci arrivammo verso le tre del pomeriggio, sotto una pioggia scrosciante. Fino a quel momento il primo viaggio era stato decisamente monotono. La Interstate 76, come tutte le autostrade, era dritta e noiosa. Il paesaggio non aveva offerto nulla di particolare, un susseguirsi di colline grigie ricoperte di alberi asfittici. Anche Cleveland era triste. Questa steel town, a differenza di Pittsburgh, non si era ancora ripresa dalla crisi dell‘industria pesante. Ma la stazione era un‘opera d‘arte. Pura art déco americana dei primi anni quaranta. Dall‘esterno si vedeva un immenso edificio ovale, ricoperto di grandi piastrelle in ceramica blu – il colore sociale della Greyhound negli anni trenta e quaranta -, sovrastato da una torre con la scritta BUS e con un levriero bianco in punta. Dentro, si capiva perché il terminal di Cleveland fosse famoso in tutta l‘America. Le ventuno piattaforme delle corriere in arrivo e in partenza si affacciavano su un‘unica, enorme, lobby circolare in stile liberty, con ai muri mosaici raffiguranti gli autobus del levriero. Nel 25

1943, quando venne terminata al costo record di un milione e duecentocinquantamila dollari, quella di Cleveland era la più grande stazione di autobus del mondo. Durante l‘epoca d‘oro della compagnia, attraverso quell‘atrio passavano oltre tre milioni di persone l‘anno. Non che ora fossero molte di meno. Quando scesi dalla corriera ed entrai nella lobby, ebbi il privilegio di assistere a una scena d‘altri tempi. L‘atrio era pieno zeppo di amish. Gli uomini e i bambini erano interamente vestiti di nero, con larghi cappelli neri che coprivano i capelli lunghi e biondi. Le donne, anche loro vestite di nero, portavano la caratteristica cuffietta bianca e buffe scarpe senza stringhe o bottoni. Era veramente singolare, quella folla monocromatica che riempiva l‘atrio fino all‘orlo. Un‘immagine perfetta per la mia Leica. O almeno, sarebbe stata un‘immagine perfetta. Perché appena tirai fuori la macchina fotografica fui assalito da un gruppo di vecchi amish. Agitando i loro ombrelli mi fecero capire che non volevano assolutamente essere immortalati. ―Ma veramente io sto fotografando la stazione,‖ obiettai da bravo – e bugiardo – fotografo. ―Non ci importa!‖ rispose il più anziano che aveva una lunghissima barba bianca. ―Fra poco noi partiamo e potrai fare tutte le foto che vorrai. Ma adesso ci fai il piacere di mettere via quell‘aggeggio. Non siamo mica animali dello zoo, noi!‖ ―Un‘altra grande foto che se ne va,‖ pensai tra me e me. Riposi la macchina nella borsa e andai a consolarmi al bar. Al banco trovai il capostazione. Aveva seguito la faccenda e attaccò subito bottone. ―Certo che per essere non violenti si fanno rispettare niente male!‖ disse indicando la fiumana nera che iniziava a confluire verso le corriere in partenza. ―Sono molto gelosi della loro privacy. Bisogna capirli. Qui in Ohio e in Pennsylvania arrivano da tutte le parti d‘America a rompergli le scatole. La mattina si alzano e trovano i turisti che girano per casa. È naturale che non ne vogliano più sapere, di cineprese e macchine fotografiche. E poi scusa, ma che schiappa di fotografo sei? Dovevi fargliela di nascosto la foto. Sono quindici anni che sono qui a Cleveland, di amish ne avrò visti non so quanti, ma una scena come quella di prima è davvero irripetibile!‖ L‘avevo fatta, naturalmente. Questo è il vantaggio delle macchine fotografiche a telemetro. Sono estremamente silenziose e si possono usare con una mano sola. Mentre parlavo col vecchio avevo fatto uno scatto. Ma quella foto venne completamente sottoesposta. Il Dio degli amish era contro di me.

26

Non va molto bene, vero? La corriera si è riempita di urla di bambini, di brontolii di donne con il sedere troppo grosso per i sedili e di musica rap che fuoriesce dagli auricolari dei walkman. Abbiamo lasciato Cleveland e stiamo andando a Columbus. È una città universitaria, ospita l‘enorme campus della Columbus Ohio State University, per cui sul nostro autobus ci sono molti giovani. Alcuni parlottano tra di loro. La maggior parte fa finta di dormire e ascolta musica. I ritmi ossessivi del gangsta rap serpeggiano su e giù per la corriera mischiandosi all‘odore di cavoli dei minatori di prima. Seduta vicino a me, fino a qualche minuto fa, c‘era Laura. La mia prima compagna di viaggio. La prima vita narrata per far passare un po‘ più in fretta il tempo. Laura è piccola, magra e molto abbronzata. Fa la parcheggiatrice a Mansfield, una cittadina a nord di Columbus. ―È stando fuori dodici ore al giorno, sole, pioggia o vento che sia, che mi faccio la tintarella,‖ mi dice con un sorriso. È un gran bel sorriso; Laura è una ragazza molto carina, soprattutto quando si toglie il cappellino da baseball – lo indossa all‘incontrano come i ragazzini – e si ravviva i bei capelli neri a caschetto. Allora non si notano le scarpe da tennis strappate, la giacca logora e il sacchetto della spazzatura con dentro una spazzola per capelli, un maglione pesante e un po‘ di roba da mangiare. Ma quello che non dimenticherò di lei è una frase, che ripete continuamente con il suo spigoloso accento del New Jersey: Not too good uh? Non va molto bene, vero? I suoi racconti finiscono sempre con quella frase. Anche quando iniziano bene. Perché aveva iniziato bene, Laura. Con il college, la laurea, un fidanzato di buona famiglia che la voleva sposare. Poi aveva conosciuto un ragazzo, un bellissimo ragazzo biondo che le aveva promesso emozioni, avventure che le studentesse del New Jersey sognano e mai realizzano. Era partita con lui. Avevano girato il mondo insieme, lavorando nei bar, nei campi, facendo di tutto per racimolare il denaro necessario per muoversi. Gli aveva chiesto di vedere le stelle nel deserto, e lui l‘aveva portata nel Sahara. Si era incuriosita per la grande barriera di corallo australiana, e lui l‘aveva portata a vedere gli squali tigre che infestano le acque del Coral Sea. Una vita serena, senza una nuvola. Ma poi qualcosa aveva cominciato a incrinarsi. Il ragazzo con il gusto dell‘avventura aveva anche il vizio dell‘alcol, e non solo quello. Si ammalò, quando erano in una sperduta isola del Pacifico, e lei fu costretta a vendere tutto, anche se stessa, per mette27

re insieme i soldi necessari a riportarlo a casa. Ma non era servito a nulla. Era morto di cancro, nel 1991, il giorno del compleanno di Laura. Lei si indurisce, quando parla del suo ―uomo‖. Non lo nomina mai per nome. ―Mi ha fatto un bel regalo di compleanno, lasciandomi sola così,‖ dice strappando lembi di plastica nera dal suo sacchetto, ―e adesso eccomi qua, a parcheggiare le macchine in questo schifo di posto. È un sacco di tempo che le cose non vanno bene. Perché non si può certo dire che vadano bene, vero?‖ Laura mi guarda fisso negli occhi. Vuole una risposta, ma non so cosa dirle. Le dico che è giovane, che ha studiato, che potrebbe sicuramente trovare un lavoro migliore. Basterebbe mettersi a cercare con un po‘ di costanza. Ma lei non ne ha più voglia. ―Sai,‖ dice, ―per me è difficile vivere in questo paese. Dopo tutti questi anni passati insieme a persone che vivono in completa libertà è difficile tornare in mezzo a quelli che si fottono per dieci dollari.‖ Laura raccoglie le sue cose e si appresta a scendere. Deve scavalcarmi per arrivare al corridoio, lo spazio è poco. Si siede sulle mie ginocchia e sussurra: ―Grazie per aver ascoltato. E soprattutto grazie per non avermi messo le mani addosso. Su questi autobus ci provano sempre tutti‖.

28

3

Il viaggiatore, finché rimane ancorato ai sedili marroni della corriera, mantiene una sua dignità, un contegno, magari un po‘ misero, visto che sempre di una povera corriera si tratta, ma resta comunque un viaggiatore, con un biglietto, una destinazione, una ragione d‘essere. Nel momento in cui scende dall‘autobus, però, da viaggiatore si trasforma in pedone, e in America non c‘è essere più disprezzato, più infimo, più solo del pedone. Quando arrivai a Columbus, dopo un‘intera giornata sul bus, con lo stomaco vuoto e il sedere ammaccato, capii perché le corriere non erano più il mezzo di trasporto preferito degli americani. Dalla stazione dovevo andare al motel della vicina università. ―Nessun problema,‖ mi assicurò la guardia a cui chiesi informazioni, ―è alla fine dell‘isolato, sull‘angolo.‖ Impiegai mezz‘ora per arrivarci, marciando come un forsennato con lo zaino sulle spalle e con il rischio costante di essere investito perché, come al solito, non c‘era il marciapiede. Fortunatamente il motel dell‘università aveva delle camere libere. Costavano ventinove dollari. Ne presi una e andai a sdraiarmi sulle lenzuola color caffellatte di un letto matrimoniale, che galleggiava sulle onde di una tremenda moquette marrone alta cinque centimetri. La stanza era spoglia, un po‘ triste, ma decente, e soprattutto poco costosa. Funzionava persino il televisore. Senza alzarmi dal letto presi il telefono, ordinai una Coca-Cola e un paio di hamburger da portar via dal vicino diner e mi guardai Black Day at Black Rock, uno splendido film con Spencer Tracy che davano alla tv via cavo. La mattina dopo ero di nuovo in stazione, a prendere l‘autobus per Cincinnati. Da lì sarei andato a Louisville, nel Kentucky, e poi a Evansville, in Indiana. Evansville era una delle mete più importanti del mio viaggio a ritroso nel tempo. Avevo sentito dire che laggiù c‘era l‘ultimo running dog d‘America. L‘ultimo mitico neon del levriero che corre. Il bus per Cincinnati era quasi pieno e in condizioni pietose. Arrivava da New York. I passeggeri si erano fatti quattordici ore filate di corriera, di notte, e Dio se si vedeva! Quando venne il momento di salire, scavalcai un paio di corpi informi che rotolavano sul pavimento e andai a sedere vicino a Eddie Rivers, un simpatico ragazzo che parlava con l‘accento vellutato della Virginia. Eddie arrivava da New York e aveva ancora un giorno, una notte e 29

un altro giorno di massacrante viaggio davanti a sé. Andava a Mesa, una piccola città dell‘Arizona. Come tanti prima e dopo di lui, era saltato su una corriera per andare a costruirsi una nuova vita. Ma non era ancora riuscito a dimenticare quella che aveva lasciato indietro. Dopo un paio d‘ore, infatti, eravamo seduti al bar della stazioncina di Wilmington a scambiarci le foto di rispettive mogli, figli, cani e gatti. Eddie aveva una ex moglie molto bella e due stupendi bambini con i capelli biondi, biondissimi, quasi bianchi. La moglie si chiamava Emma-Rose; era veramente molto bella. Mi disse che era stata lei a chiedere la separazione. Ma Eddie non la poteva certo biasimare. Per molti anni gli era stata vicino, aiutandolo in tutti i modi a cercare di realizzare il suo sogno. Poi si era stancata e gli aveva detto ora basta, mi fermo qui, se vuoi continuare devi fare da solo. Il sogno di Eddie era – anzi è – cantare, cantare musica country. Un sogno difficile da trasformare in realtà per uno che viene dal West Virginia, dove tutti hanno i ritmi country nel sangue. Anche lui, infatti, non aveva avuto problemi a iniziare. Ma continuare, riuscire a compiere il fatidico salto di qualità, si era rivelato quasi impossibile. Così Eddie si era messo a fare il parrucchiere, tanto per tenere a bada i creditori. Quello era il suo lavoro durante il giorno. La sera, quando poteva, cantava. Soprattutto canzoni di Tom Petty, l‘album Southern Accents era il suo preferito. Ma il futuro non prometteva nulla di buono. A Mesa andava a tagliare capelli, non a suonare la chitarra. Ci salutammo a Cincinnati, dove io scesi a mangiare qualcosa e lui prese la coincidenza per St. Louis, Albuquerque e Phoenix. Gli feci un bel ritratto nel parcheggio dei bus, mentre guardava le sue fotografie. Mi piace pensare che una volta arrivato in Arizona abbia ripreso la corriera, per altri due giorni e altre due notti, e se ne sia tornato nella verde West Virginia, dalla sua splendida famiglia. La colazione a base di corn flakes, caffè e uova strapazzate mi aiutò ad affrontare con ottimismo la seconda parte del viaggio, da Cincinnati a Louisville. Fino ad allora il percorso era stato decisamente deludente. Le tanto celebrate strade d‘America non erano altro che noiose interstate tracciate con il righello attraverso paesaggi piatti, grigi, per nulla interessanti. Eppure, dovevo ammettere che sulle corriere le ore scorrevano piacevolmente. Era davvero incredibile constatare come un mito, qual è quello della strada americana, riuscisse a velare, mascherare l‘evidenza anche in luoghi così tristi. Chissà, forse era tutta una questione di distanze, di ritmi. Persino i paesaggi più noiosi acquistano un loro significato, quando vanno avanti all‘infinito. Paradossalmente, quindi, per chi come me stava navi30

gando senza meta precisa, dodici ore di noia erano meglio di due. Tra una tazza di caffè annacquato e l‘altra, usando il cucchiaino come compasso, calcolai che per quel giorno mi mancavano ancora cinque ore di noia. Quando ritornai sull‘autobus trovai una ragazza seduta al mio posto. Aveva spostato il fardello che avevo lasciato sul sedile a stabilire il mio diritto di proprietà e si era raggomitolata come un riccio contro il finestrino. Era nascosta sotto un enorme skateboard di legno. Feci un gesto per indicarle che quella era la mia poltrona, ma lei finse di dormire e non mi diede risposta. Mi rassegnai e presi il posto a fianco. Il conducente, intanto, stava passando per il corridoio chiedendo i biglietti. Lei continuava a fingere di dormire. Quando il driver arrivò da noi gli feci vedere il mio Ameripass quasi nuovo, pieno di tagliandi inutilizzati. Lui gli diede un‘occhiata veloce e indicò la ragazza. ―Anche lei viaggia con questo?‖ mi chiese. ―Sicuro,‖ gli risposi. ―Okay,‖ disse e si avviò verso la testa della corriera. ―Thank-you,‖ bisbigliò la ragazza da sotto lo skateboard. ―No problem,‖ le risposi. Qualche minuto più tardi correvamo verso sud, sulla Interstate 22, e lo skateboard era finito sul portapacchi. Mi aveva mostrato immediatamente il suo biglietto, che era valido, ma solo durante i giorni festivi. E noi viaggiavamo di giovedì. La ragazza si chiamava Heather, aveva quindici anni e stava andando a Dallas. Sembrava uscita dritta dritta da un serial televisivo degli anni settanta. Capelli color carota, viso completamente coperto di efelidi, jeans a zampa d‘elefante e sneakers da tennis arancioni. Il viaggio che si proponeva di fare era affascinante e mastodontico: intendeva metter piede in tutti gli stati dell‘Unione, Alaska esclusa. Un itinerario spaventoso anche per il viaggiatore più esperto, ma non per una come lei. Nonostante avesse solo quindici anni, Heather era una ragazza molto decisa, quasi dura. L‘idea di fare un viaggio così lungo, da sola, con un biglietto valido solo a metà, sembrava non spaventarla affatto. Con i genitori – separati da anni – non andava d‘accordo. E della piccola città dell‘Ohio dove viveva non ne voleva più sapere. Aveva sempre sognato di viaggiare, vedere l‘America dai finestrini di uno di quegli autobus con il levriero che passavano due volte al giorno per la strada principale del suo paese, e ora lo stava facendo. L‘unica cosa che stonava era l‘attaccamento al suo skateboard di legno. Tradiva la sua età e, forse, una certa paura nei confronti di quel viaggio senza fine. Sempre che le cose stessero effettivamente così. Da una ragazzina del genere, infatti, ci si poteva aspettare di tutto. Anche di vederla 31

scendere alla prossima fermata, abbracciare mamma e papà e tornare a giocare con lo skateboard nel giardino di fronte a casa. La salutai velocemente nella hall della stazione di Louisville, Kentucky, dopo averle regalato un paio di coupon del mio Ameripass. Lei si piazzò con il suo skateboard davanti a un televisore a gettoni, in attesa del bus per Memphis-Dallas, e io corsi a prendere la coincidenza per Evansville. Sull‘autobus che dal Kentucky ci avrebbe portato in Indiana tutti parlavano con l‘accento mieloso del Sud. Mi piacque immediatamente. Per la prima volta dall‘inizio del viaggio mi sentii perfettamente a mio agio sulla corriera. Il bus era pieno di gente di tutte le età, gente di campagna che portava i classici indumenti da lavoro americani: giubbe Carhartt e salopette OshKosh. Era bello vedere che, almeno in America, i work garments inventati all‘inizio del secolo erano ancora in uso. Pensai che la mia sbiadita giacca Carhartt vecchia di quarant‘anni, compagna di innumerevoli avventure, era finalmente arrivata a casa. Viaggiavamo su una stretta highway che seguiva il corso del fiume Ohio. Era nero, pieno di scorie e veleni accumulati durante un secolo di scarichi industriali, ma a me piaceva. Anche perché da quando avevamo varcato i confini del Kentucky il paesaggio era notevolmente cambiato. Il paradiso verde dei cavalli da corsa d‘America era effettivamente una meraviglia. Dall‘alto del bus si vedevano chilometri e chilometri di prati delimitati da staccionate di legno bianco, e ogni tanto una fattoria, bianca anche lei, circondata da piccoli recinti circolari con dentro gli stalloni. Spesso la corriera si fermava davanti ai cancelli di queste fattorie per far scendere vecchie donne cariche di buste di carta ricolme di generi alimentari e ragazzotti con il casco e la minuscola sella da corsa sotto il braccio. Sulla corriera si conoscevano tutti. L‘autista si fermava davanti alle fattorie e faceva scendere i passeggeri automaticamente, senza che nessuno glielo chiedesse. Era un ragazzo giovane, simpatico. Si lamentava di continuo dei nuovi regolamenti della Greyhound, che proibivano agli autisti di fare fermate fuori programma. Se avesse eliminato quelle fermate, diceva, nelle zone di campagna il bus non lo avrebbe più preso nessuno. Quasi senza accorgercene, arrivammo a Evansville. Era una tipica cittadina del Midwest: piccola e assai tranquilla. Notai che per le strade di Evansville si trovavano ancora le vending machines, i distributori automatici di bibite, patatine e cioccolata che credevo fossero scomparsi dalle strade delle città americane negli anni settanta. Il nostro autobus invece passò davanti a una ventina di queste luccicanti macchine, tutte in perfetto 32

stato, a conferma del fatto che il Midwest era veramente un‘America nell‘America. Un paese lontano anni luce dagli agglomerati metropolitani dove la gente vive tappata in casa e le vending machines, se ci sono, giacciono carbonizzate in fondo ai vicoli. Ero convinto che il Midwest fosse un‘invenzione, una favola sognata dai frustrati abitanti delle periferie monocolori che circondano le metropoli americane. Invece, a Evansville iniziai a scoprire che questo luogo magico, dove la gente lascia la porta di casa aperta e i bambini passano le serate estive a giocare a baseball sotto gli occhi dei nonni, esiste davvero. Entrammo in centro con il tramonto alle spalle. La corriera percorse lentamente i viali alberati di downtown che luccicavano sotto i raggi obliqui del sole e puntò dritta verso un immenso neon rosso con la scritta Greyhound. Spuntava dai tetti delle case basse del centro come un faro all‘orizzonte. Quando arrivammo davanti al terminal, mi fu chiaro perché questa stazione di autobus fosse monumento nazionale. Non solo era forse il più bel terminal art déco del paese, ma era situato in una città che non aveva permesso alla sua downtown di trasformarsi in un ghetto. A Evansville, insomma, il tempo si era fermato e la stazione Greyhound appariva esattamente come doveva essere negli anni d‘oro della compagnia. Il capolavoro di W.S. Arrasmith era ricoperto di piastrelle bianche e blu, gli stessi colori dei gloriosi Supercoach, gli autobus ideati nel 1936 da Raymond Lowey, il designer di origine francese che introdusse lo stile streamline moderne negli Stati Uniti applicandolo a qualsiasi tipo di oggetto, dalle locomotive ai frigoriferi. I suoi Supercoach non erano solo aerodinamici come voleva la moda streamline, erano anche incredibilmente innovativi. Nel lontano 1936, questi veloci autobus di alluminio erano gli unici al mondo a essere dotati di aria condizionata. Nelle piccole città di provincia, come Evansville, la gente comprava il biglietto solo per godersi il fresco del climatizzatore. Intorno a questi avveniristici torpedoni Carl Eric Wickman decise, insieme al suo braccio destro Orville Caesar, di creare un network di stazioni che rispecchiasse lo stile e i colori dei bus. Un‘intuizione storica, perché in quegli anni il termine corporate image – l‘immagine aziendale tanto cara ai manager di oggi – non era ancora stato coniato. Wickman aveva infatti capito che, se voleva dominare il mercato, un sistema di trasporto capillare come il suo necessitava di un look contemporaneo e uniforme. Tra il 1935 e il 1945 la Greyhound costruì decine di stazioni art déco come quella di Evansville, che abbinavano allo stile slanciato del francese 33

Lowey un‘invenzione tutta americana: il neon. In molte cittadine a est del Mississippi il neon della Greyhound non era solo il più grande, il più bello, il più luminoso. Era l‘unico. A Evansville, la torre del neon della stazione era più alta dei campanili delle chiese. E in cima, invece della croce, c‘era il famoso running dog, l‘insegna luminosa del levriero che corre. Un‘illusione, naturalmente, creata da quattro o cinque insegne al neon blu a forma di levriero, montate una sopra l‘altra. Il primo cane aveva le zampe raggomitolate sotto la pancia, il secondo le aveva un po‘ più distese, come se stesse per iniziare a correre, e così via fino all‘ultimo neon che raffigurava il cane con gli arti completamente allungati. Accendendo alternativamente i quattro neon a una velocità intorno al ventesimo di secondo, la silhouette del levriero correva con la fluidità di un cartone animato. In centinaia di città di provincia, il running dog che correva in cima alle torri delle stazioni Greyhound divenne un emblema potente. Per molti ragazzi era il simbolo del viaggio, dell‘avventura che si poteva vivere saltando sull‘autobus. Per i neri del profondo Sud che fuggivano la segregazione, finì addirittura per simboleggiare la corsa verso il Nord e la libertà. E questo di Evansville, che lampeggiava pigro sopra la mia testa, era l‘ultimo.

Neon e rose Ci ho pensato tante volte, ma non ho mai capito per quale motivo riscuoto così tanto successo con le donne americane. Solo in America mi è capitato di venire adescato in un bar o di essere seguito fuori da un ristorante. Una volta, in Oklahoma, due ragazze quasi mi investirono con la macchina per essere sicure di riuscire a bloccarmi. E ci rimasero male quando videro che non avevo apprezzato. È l‘una e quarantacinque minuti. Mancano ancora due ore e un quarto all‘arrivo della corriera per Nashville. La aspetto sdraiato sui carrelli portapacchi della stazione. È troppo tardi per andare a cercare un motel, perciò ho deciso di prendere il bus notturno che va a Paducah e poi a Nashville. A quest‘ora Evansville è completamente deserta. Dormono tutti, anche Jess e Terence, i due ragazzi che mi hanno fatto compagnia fino a poco fa. Sono rannicchiati per terra, contro il muro. Sembrano due bambini, ma hanno diciannove anni. Questo è il loro primo viaggio in giro per gli States. Di solito passano la notte sugli autobus, ma ieri sono stati traditi dall‘impenetrabile orario della Greyhound, e si sono arenati qui. Gli è an34

data bene. In qualunque altra città, dormire nel parcheggio di una stazione non sarebbe affatto raccomandabile, ma a Evansville non ci sono problemi. Ho passato la serata a fotografare il terminal e il running dog. Nonostante avessi montato il cavalletto in mezzo alla strada, non mi ha disturbato nessuno. C‘era solo una macchina, una Oldsmobile bianca decappottabile, che continuava a passarmi davanti. Al volante c‘era una ragazza. Girava senza sosta intorno all‘isolato, e ogni volta che mi era vicina lanciava una rosa rossa. Ne ho raccolte sette. C‘era qualcosa di molto americano in quel gesto. Ho pensato, solo in America, il paese dei ristoranti, delle banche e delle chiese drive-in, può capitare che una fanciulla si metta a corteggiare un uomo senza nemmeno scendere dalla macchina.

35

4

L‘autista della corriera per Nashville era un uomo piccolo, magro, con un ossuto naso aquilino. Aveva i capelli bianchi e una voce dura, che ogni tanto lasciava trapelare una punta di nervosismo. Era un bianco. Quando arrivò, in perfetto orario, al terminal di Evansville, comunicò al capostazione che sarebbe ripartito come da regolamento dopo quindici minuti esatti. Ai passeggeri in partenza urlò di sbrigarsi a salire, mentre a quelli che già erano sul bus disse che non era il caso di scendere a mangiare, perché non ne avrebbero avuto il tempo. Il capostazione, Jeff Taylor, lasciò che andasse nel locale riservato ai dipendenti, e poi si affrettò a porgere le proprie scuse, assicurando ai passeggeri che sarebbe stato suo piacere offrire a tutti una tazza di caffè gratis, dato che erano le quattro del mattino e la caffetteria era chiusa. Era un tipo all‘antica, il capostazione. Lo avevo visto arrivare trafelato una decina di minuti prima, con la giacca ancora sbottonata e la cintura da scaricatore sulle spalle. Aveva aperto la stazione e acceso le luci delle sale interne; poi ci aveva scoperti – Jess, Terence e io – che dormivamo sui carrelli dei bagagli e ci aveva subito offerto una tazza di caffè bollente. Jeff datemi-del-tu Taylor viveva a due passi dalla stazione e amava tutto quello che aveva a che fare con la Greyhound. Tanto che era disposto a scendere dal letto a qualsiasi ora della notte per venire ad assistere le corriere di passaggio. Non era assolutamente prescritto dal regolamento, ma lui lo faceva lo stesso. Quando era di servizio emetteva i biglietti, scaricava i bagagli, svuotava persino i bidoni della spazzatura. E ricordava a tutti, anche a quelli che arrivavano stravolti in piena notte, che la ―sua‖ stazione era monumento nazionale. Mentre aspettavamo l‘arrivo del bus ci aveva avvertito dell‘autista. ―Attenti ragazzi,‖ aveva detto rivolgendosi a Terence, l‘unico nero tra noi, ―quello è un tipo un po‘ particolare. Meglio non prenderlo dal lato sbagliato, altrimenti è capace di mollarvi per strada.‖ Ci accorgemmo subito che Jeff non aveva esagerato. Dopo quattordici minuti e trenta secondi esatti, l‘autista riapparve nel parcheggio e intimò a tutti di scendere. Staccò i biglietti a chi doveva salire e ci contò a voce alta. Quindi ci ordinò di metterci a ferro di cavallo e di starlo bene a sentire. ―Allora,‖ sbraitò, ―ascoltatemi bene. Su questo bus non voglio vedere alcol o sigarette, né cibo di qualunque sorta. E non voglio sentire parolacce. 36

Questo è un paese cristiano quindi chi bestemmia verrà fatto scendere. Quasi tutti i giorni sono costretto a far scendere uno di voi,‖ indicò un gruppo di giovani neri, ―per via delle bestemmie. Durante la guida non voglio sentire schiamazzi e per nessun motivo permetterò che suoniate sui vostri dannati stereo quella jungle-music che vi piace tanto.‖ Diede un‘occhiata all‘orologio. ―Adesso fate in fretta a salire, che siamo già in ritardo.‖ Montammo sulla corriera senza fiatare. Eravamo troppo scioccati. E poi ci aveva detto di tenere il becco chiuso. Sarà stato un caso, ma sull‘autobus si formò una specie di apartheid volontario, con tutti i bianchi davanti e i neri dietro. Mi ritrovai tra le retrovie dei bianchi. Per diversi chilometri, mentre uscivamo da Evansville e attraversavamo nuovamente il fiume Ohio, nella corriera non si sentì volare una mosca. Ma una volta presa la Pennyrile Parkway verso Nashville, dal fondo del bus iniziarono ad arrivare rumori sospetti. Qualcuno aveva acceso un walkman e lo stava ascoltando a tutto volume. L‘autista inchiodò immediatamente e intimò a tutti di scendere. Erano le quattro e mezza del mattino. Iniziò il penoso rito del ―chi è stato‖, che naturalmente si risolse in un nulla di fatto. L‘unica cosa certa era che la battaglia tra l‘autista e i neri in fondo al bus era cominciata. Dopo qualche minuto risalimmo sulla corriera, e per una mezz‘ora non si sentirono più rumori. Ci lanciammo verso sud, scivolando sul cemento liscio come sapone della parkway. Era in perfetto stato, questa antica autostrada nascosta nel verde. Le prime autostrade americane erano spesso immerse in riserve naturali. L‘idea risaliva al 1858, quando gli architetti Frederick Olmsted e Calvert Vaux disegnarono una strada attraverso il Central Park di New York, chiamandola appunto ―parkway‖. Nel 1916 un altro grande architetto, William Niles White, progettò la Bronx River Parkway, una grandiosa autostrada a quattro corsie inserita in un bosco creato appositamente per nascondere la strada e coprire il fracasso del traffico. E nel 1934, quando a Los Angeles venne costruita la prima sezione dell‘Arroyo Seco Parkway, furono addirittura progettati dei giardini tra una corsia e l‘altra. La nostra strada illuminata dalla luna era quindi l‘esempio di un futuro possibile che, purtroppo, non fu mai completamente realizzato. Nel dopoguerra, quando Eisenhower diede il via al National System of Interstate and Defense Highways, la costruzione delle autostrade americane passò nelle mani degli ingegneri e dei militari, e i progetti futuristici degli architetti finirono nel dimenticatoio. 37

Mezzo intontito dal sonno, mi stavo godendo i paesaggi notturni del Kentucky quando riesplose la contesa tra l‘autista e i ragazzi di colore. Quelli dietro avevano preso coraggio e iniziato una subdola guerriglia che utilizzava le ragazze come commando. Ogni cinque, dieci minuti, una di esse pretendeva di fermarsi per andare al gabinetto. Quello di bordo era bloccato e puzzava da morire. Se il driver, imbufalito, si rifiutava di fermare il bus, lei si metteva in mezzo al corridoio e minacciava di tirar giù i pantaloni davanti a tutti. A questo punto l‘autista, costretto a scegliere tra il puritanesimo battista del Sud e il regolamento, bloccava l‘autobus e lasciava che la ragazza andasse a nascondersi per qualche istante dietro a un cespuglio. Ripartivamo, passavano dieci minuti e la storia si ripeteva. Tra Madisonville e Paducah ci fermammo quattro volte. Ma l‘autista aveva pronta una contromossa. Quando arrivammo a Paducah, con sottile malignità parcheggiò davanti al ristorante e poi annunciò che, a causa delle fermate fuori programma, saremmo rimasti a Paducah solo il tempo necessario a caricare i nuovi passeggeri. La mezz‘ora di tempo per rifocillarci ce la potevamo scordare. Il vecchietto bianco seduto vicino a me si lasciò scappare un sorriso. ―Li ha fregati,‖ mi spiegò toccandomi col gomito, ―se vogliono mangiare, la prossima fermata è Hopkinsville, un postaccio di merda, così pericoloso di notte che nemmeno quelli avranno il coraggio di scendere.‖ Un‘ora più tardi eravamo a Hopkinsville. Era effettivamente uno schifo di posto, almeno per quello che fui in grado di vedere dal bus. La città era piena di edifici fatiscenti e negozi in disuso, con le vetrate distrutte o chiuse da assi di compensato. La fermata della Greyhound non era altro che una minuscola insegna conficcata di sbieco nel cemento del marciapiede, insieme a decine di altri segnali pubblicitari e indicazioni stradali. Il guidatore si fermò all‘angolo e aprì la portiera. Non scese nessuno. Dall‘alto potevamo vedere un paio di 5¢ & Dime, i negozi che vendono giornali, sigarette, bibite e roba da mangiare ventiquattr‘ore su ventiquattro. Per arrivarci, però, bisognava passare davanti a dei neri che non lasciavano intendere nulla di buono. L‘autista intanto si stava divertendo: ―Abbiamo solo dieci minuti,‖ disse sogghignando, ―quindi se qualcuno vuole scendere è meglio che si sbrighi. Se volete fumare, vi raccomando di non gettare i mozziconi sul marciapiede. Non vogliamo sporcare questa bella città,‖ aggiunse tra le risa di quelli davanti. I ragazzi neri del bus stavano studiando la situazione. Era ovvio che non volevano darla vinta all‘autista. Ma allo stesso tempo non sembravano molto sicuri sul da farsi. Improvvisamente, i maschi iniziarono a 38

scendere, tutti insieme. Mi unii a loro. Non volevo dimostrare nulla, avevo semplicemente sete e volevo comprare un paio di bottiglie di Mountain Dew. Mi guardarono come se fossi appena atterrato da un altro pianeta. ―Cosa credi di fare, tu?‖ mi chiese il capo della banda. ―Vengo con voi. Andate al 5¢ & Dime, no?‖ Si misero a ridere. ―Senti, frenchman (gli americani mi prendono spesso per francese), non so se sei in grado di guardarti intorno, ma qui abbiamo già abbastanza problemi per conto nostro. Questa è our part of town, la nostra metà della città, e i bianchi qui non girano, capito? Qui girano solo i neri. E siamo fortunati se quei maledetti figli di puttana di niggers che ci aspettano dall‘altra parte della strada fanno passare noi. Quindi tornatene pure sulla corriera e mettiti a cuccia. Se ti serve qualcosa dammi i soldi che ci penso io.‖ Tirai fuori un biglietto da venti dollari, gli dissi quello che volevo e tornai al mio posto. Per qualche secondo il gruppo rimase a parlottare vicino alla corriera, poi si lanciò compatto verso il negozio più vicino. Camminavano uno accanto all‘altro e si guardavano continuamente intorno. Furono subito intercettati da due bestioni che gli sbarrarono la strada allargando le braccia. I due iniziarono a parlare con il ragazzo che aveva i miei venti dollari. Lui rispose gesticolando con il braccio destro rigido, come fanno i giovani neri quando parlano in slang, indicando più volte la corriera. I due del posto si avvicinavano lentamente, con le braccia allargate. Sembravano due pastori alle prese con un branco di pecore. Il gruppo dei ―nostri‖ diventava sempre più compatto e nervoso. Ormai circondati, il capo si tolse il cappellino dei Chicago Bulls nuovo di zecca che aveva in testa e lo offrì ai gorilla. Gli altri tre del gruppo fecero la stessa cosa, e in un attimo ebbero via libera. Pochi minuti più tardi erano di nuovo ai piedi dell‘autobus, carichi di bibite e roba da mangiare. Saltai giù a ritirare la mia gazzosa e il resto dei venti dollari, ma il capo mi consegnò solo le bottiglie. ―E il resto?‖ chiesi. ―Dogana,‖ rispose, ―lo sai quanto costano i cap dei Bulls?‖ Ripartimmo verso Nashville. I neri erano raggianti. Ci avevano rimesso i cappelli, ma avevano dimostrato all‘autista che Hopkinsville era ancora il loro territorio. Non si infuriarono neppure quando, una ventina di chilometri più avanti, ci fermammo nuovamente, presso un‘isolata stazione di servizio che aveva anche un piccolo negozio. Doveva essere un posto tranquillo perché i bianchi scesero in massa. Gli ultimi eravamo io e il vec39

chietto che mi sedeva accanto. Mentre scendevamo i ripidi scalini della corriera il vecchio inciampò e, se non fosse stato per il capo dei neri che riuscì ad afferrarlo per il colletto, sarebbe sicuramente volato a terra. L‘autista corse e strappò il vecchio dalle mani del ragazzo. Quindi si rivolse verso di me urlando come un forsennato: ―Sei testimone! Sei testimone! Hai visto tutto! Lo stavano buttando giù dalla corriera!‖. Era veramente troppo. Il nero lo prese per il bavero e lo spinse contro il ventre della corriera. Per un attimo temetti il peggio, ma il nero era calmissimo. Voleva solo spiegare un paio di cose all‘autista. ―Lo so che non ci puoi sopportare,‖ iniziò, ―e ti posso assicurare che noi non possiamo sopportare te. Lo so che non vorresti neanche vederci, sull‘autobus, ma sai una cosa?, adesso sono proprio stufo, e ho brutte notizie per te. We are here to stay, my man. Siamo qui per restare. E siamo più di voi. Senza di noi, questo lavoro di merda non l‘avresti neppure. Quindi togliti questo bastone che ti hanno ficcato in culo. Non mi interessa esserti simpatico. Non voglio neppure che tu mi rispetti. Voglio che tu faccia finta, come tutti gli altri. Ce la fai a far finta?‖ L‘autista non rispose.

Night train Fa caldo. I vecchi della corriera dormono. I giovani ascoltano musica dai loro stereo. L‘autista non fa più paura; da quando abbiamo ripreso a viaggiare, non ha più detto una parola. Qualcuno si sta addirittura fumando uno spliff. L‘odore dell‘erba è piacevole, aiuta a dimenticare la puzza della toilette di bordo che sta in fondo al corridoio. Fuori c‘è la luna piena che illumina il paesaggio come se fosse giorno. Stiamo entrando nelle paludi del Tennessee. Viaggiamo in mezzo a un enorme convoglio di eighteen wheelers, i camion a diciotto ruote che percorrono come bisonti, avanti e indietro senza mai fermarsi, le strade d‘America. Formano lunghi convogli e procedono uno attaccato all‘altro per centinaia di chilometri. Si chiamano road-trains, questi convogli. Dall‘auricolare del mio stereo esce la musica appassionata di Earl Hugh. Si sta bene su questo autobus.

40

5

L‘ultima parte del viaggio per Nashville la ricordo appena. Avevo dormito per gran parte del tragitto, e mi svegliai che eravamo già entrati in città. Il Greyhound era avvolto in un silenzio quasi totale. Attraversò una periferia anonima e lentamente iniziò a dirigersi verso downtown, il vecchio centro cittadino dove i grattacieli si mescolavano a negozi e motel in disuso. La stazione era piccola, una di quelle d‘epoca ma con la facciata rifatta, piuttosto male, in cemento grigio. L‘autista ci girò intorno un paio di volte, aspettando che una delle quattro aree di parcheggio si liberasse. Poi finalmente ci fermammo e la gente ancora mezzo addormentata iniziò a scendere, andando a prendere i bagagli direttamente dal bus. Secondo il nuovo, ridicolo regolamento della Greyhound, i passeggeri dovrebbero ritirare i bagagli dal nastro all‘interno della stazione, come negli aeroporti, ma naturalmente non lo fa nessuno. Perché aspettare venti minuti quando puoi prenderti la valigia in tre secondi? Anch‘io andai a ritirare le mie cose, che trovai bollenti perché erano finite vicino al vano motore. La coincidenza per Memphis non era ancora arrivata, e avevo tempo di fare colazione e dare un‘occhiata in giro. Ma prima volevo godermi un po‘ il sole del Sud che si era appena alzato. Andai a sedermi sui gradini dietro la stazione, vicino a un tipo che fumava una sigaretta sdraiato per terra. Era un bellissimo ragazzo, abbronzato, con la camicia aperta sul petto e un paio di chinos pulitissimi ma con i buchi alle ginocchia. Sembrava di vedere Neal Cassady in una delle foto scattate da Kerouac negli anni cinquanta. Fumava lentamente, con voluttà. Dopo qualche istante gettò via la sigaretta e tirò fuori da uno zainetto militare un libro un po‘ sgualcito, Il tè nel deserto di Paul Bowles, edizioni Garzanti. Italiano. C‘era da immaginarselo. Lo lasciai a fare il sosia di Cassady ed entrai nella stazione. Mi era venuta fame. La vista del solito hamburger-bar all‘interno del terminal me la fece passare quasi subito, ma qualcosa dovevo pur mettere sotto i denti, così ordinai alla grassissima ragazza che stava dietro il banco uova strapazzate, hash browns (specie di patate lesse e poi fritte che mi piacciono da matti) e succo d‘arancia. Il succo d‘arancia l‘avevo ordinato senza ghiaccio, ma come al solito la ragazza mi rifilò un bicchierone con venti cubetti e due dita d‘aranciata. Pazienza, ero troppo addormentato per lamentarmi. 41

Mi misi in un angolo a mangiare osservando la gente che faceva colazione. Quasi tutti trangugiavano hamburger e patatine fritte, in totale silenzio. Nei luoghi pubblici in America non si parla più da anni, e nemmeno ci si guarda. Incrociare gli occhi con qualcuno spesso significa innescare un rituale fatto di occhiate sempre più fosche, del tipo ―che vuoi da me?‖, che continua fino a quando la persona osservata ti guarda fisso e ti chiede in modo da non lasciare dubbi ―What’s your problem?‖. La cosa davvero incredibile è che la stessa persona, quando è seduta al tuo fianco sul Greyhound, è capace di raccontarti la sua vita per otto ore filate. Ma questa è la magia del vecchio levriero. Feci colazione lasciando gli hash browns alla fine, per rimanere con un buon gusto in bocca. Poi mi alzai e cominciai a gironzolare nel terminal. Il bus destinato a Memphis era appena arrivato e gli inservienti lo stavano preparando per i nuovi passeggeri. Spruzzavano disinfettante sui sedili nel tentativo di coprire l‘odore lasciato da chi ci aveva appena passato la notte. Meno male. Velocemente si formò una coda davanti al gate n. 4 per MemphisDallas-El Paso. Mancavano ancora venti minuti alla partenza, ma la conquista dei posti migliori era già iniziata, a conferma che negli stati del Sud la corriera è ancora in voga. Per evitare problemi andai a prendere i bagagli, che avevo lasciato dietro al bancone della biglietteria, e mi affrettai a mettermi in fila. Rimanemmo tutti in piedi ad aspettare che gli inservienti aprissero il gate, mentre la fila continuava a ingrossarsi. Poi le porte si aprirono e iniziò l‘assalto all‘autobus. Assalto che si rivelò assai più difficile del previsto, perché un gruppo di gente più furba di noi era entrata nel parcheggio direttamente dalla strada e aveva già cominciato a salire. Mi gettai nella mischia e per fortuna riuscii a trovare un sedile libero verso il fondo, vicino al finestrino.

Il bus si riempì in un baleno, seguendo il solito rituale non scritto che prevede donne, anziani e bambini davanti, coppie in mezzo e tutti gli altri dietro. Anche questa volta i bianchi stavano con i bianchi, i neri con i neri, e i messicani erano sparpagliati come coriandoli un po‘ ovunque. Ormai rimanevano solo due posti: quello proprio dietro all‘autista, che è il peggiore perché non c‘è spazio per le gambe, e quello al mio fianco. Evidentemente ero troppo malmesso per dare fiducia ai bianchi, e troppo bianco per essere accettato dai neri. Guardai fuori dal finestrino, cercando 42

di indovinare quale dei messicani accalcati fuori sarebbe stato il mio compagno di viaggio. Perché ero sicuro che sarebbe stato un messicano. Così non mi accorsi dell‘enorme nero che era salito nel frattempo, e che adesso mi stava di fronte. Era la persona più spaventosa che avessi mai visto: pelato, pieno di cicatrici in faccia e soprattutto grosso, così grosso che l‘abitacolo del Greyhound, al confronto, mi sembrò minuscolo. Mi stava di fronte e guardava prima me, poi il sedile libero. Lo misurava con gli occhi. Lo misurai anch‘io. Decisamente troppo piccolo per un bestione come quello. Tutto il bus, autista compreso, ci stava osservando. Allora lui si rivolse a me con una frase che mi colse di sorpresa. ―Non ti preoccupare, amico, che non ti succede niente,‖ disse con un marcato accento sudista. ―Però qui noi abbiamo un problema. Io su questo sedile non ci sto. E nemmeno posso rimanere incastrato per dieci ore in corridoio come un‘acciuga. Quindi dobbiamo trovare il modo di risolvere la faccenda.‖ Risolvemmo la faccenda. Lui si accomodò occupando entrambi i sedili e io mi ritrovai appollaiato sulla sua coscia destra, che era appunto grande come una poltrona (anzi più grande) e forse altrettanto confortevole, ma sicuramente più imbarazzante. Dai sedili posteriori, infatti, arrivavano commenti che non riuscivo a distinguere e risatine per niente piacevoli. Il mio compagno di viaggio intanto guardava fisso davanti a sé, facendo finta di niente. Cercai di ricordare quante ore di strada c‘erano fra Nashville e Memphis. Il solo pensiero di trascorrerle tutte in quella situazione mi faceva ridere. E ormai stava ridendo mezzo bus. Di sicuro l‘immagine di un mingherlino bianco in braccio a un bestione nero di un quintale e mezzo doveva essere alquanto comica. Per fortuna nel frattempo era arrivato il momento di partire. L‘autista inserì la retro, mollò i freni di colpo facendo tremare l‘intera corriera e ci riportò sulle tristi strade di downtown Nashville. A uno a uno, i ragazzi che ci stavano dietro la smisero di sghignazzare. La gente seduta davanti continuò ancora per un po‘ a girarsi dalla nostra parte, più che altro per guardare con un misto di curiosità e paura il mio compagno di viaggio. Ma lui ricambiava quegli sguardi con occhiate di fuoco sicché, quando il bus imboccò la tangenziale che portava fuori città, tutti erano tornati a badare ai propri affari. Rimaneva il problema di attaccare bottone, perché era chiaro quanto fosse ridicolo cercare di far finta di niente per tutto il viaggio. Così quando 43

il bus si infilò sulla Interstate 40 in direzione Ovest mi affidai alla solita, banalissima domanda rituale dei passeggeri Greyhound. ―Dove sei diretto?‖ Nessuna risposta. Era la prima volta che non funzionava. ―Where ‘you headed?‖ chiesi una seconda volta, cercando di imitare il più possibile la parlata del Sud. Anche questa volta non rispose, ma girò lentamente la testa verso di me e mi porse una manona piena di cicatrici. ―Lonnie Warren. Felice di conoscerti.‖ Mi presentai, gli strinsi la mano. ―Non sei americano vero? Un americano non avrebbe accettato una situazione simile,‖ disse. No, non ero americano. Però la situazione era curiosa lo stesso. ―Non ti preoccupare,‖ ripeté una seconda volta, ―non succede niente.‖ Più tardi avrei scoperto che quella era la frase standard che usava quando aveva a che fare con i bianchi. E quando parlava degli americani, intendeva sempre i bianchi, quasi che fossero stranieri anche loro. Parlava lentamente, ma io riuscivo a malapena a capire quello che diceva perché aveva un accento singolare, diverso dai soliti accenti degli stati del Sud. Lonnie parlava tenendo le labbra rigide, come i vecchi della zona del Mississippi Delta. Curioso, considerando che aveva venticinque anni e, a giudicare dalle cicatrici, doveva appartenere a una delle gang più dure della zona. Ma forse quella maniera di esprimersi era proprio l‘ultima moda tra le bande di Nashville. Non mi disse dove era diretto, ma mi raccontò da cosa fuggiva. Veniva da Los Angeles, o meglio, aveva abitato per molti anni a Los Angeles pur essendo nativo del Tennessee. In California, fin da piccolo, era stato coi Bloods, una delle due gang più forti della città, ma evidentemente non abbastanza forte da proteggerlo quando, un paio di anni prima, ne aveva combinata ―una grossa‖. Da L.A. era dovuto fuggire, ed era andato a rifugiarsi a Nashville, da una sorella. Ma anche i projects, i quartieri popolari di Nashville, si erano rivelati troppo pericolosi. E così adesso era di nuovo in fuga, verso una città più piccola, più tranquilla. Ogni volta che parlava di L.A. o di Nashville chiudeva gli occhi, scuoteva la testa e diceva: ―Too fast, man, too fast!‖. Un‘espressione per niente corrente – non l‘avevo mai sentita dal vivo – ma che conoscevo dai vecchi filmati sui neri del Sud che, nel dopoguerra, scappavano verso il Nord proprio perché le città e le campagne sudiste erano ―troppo veloci‖. Troppo pericolose. 44

Lonnie parlava come i vecchi del Delta. E i pericoli ai quali si riferiva erano gli stessi che, ai tempi, terrorizzavano i suoi nonni: esecuzioni sommarie, stupri, linciaggi. Con la differenza che adesso i neri non erano più solo le vittime, ma anche gli aguzzini. Mi raccontò della vita nelle gang di Los Angeles, nonché delle ultime novità in fatto di iniziazioni. ―Quelli vogliono che tu dimostri che la gang è la cosa più importante per te, più importante della tua ragazza, dei tuoi familiari. Per questo la notte che ti fanno entrare nel gruppo devi essere pronto a non guardare in faccia nessuno. Così ti fanno rubare una macchina – oppure te ne danno una che hanno rubato loro – e ti fanno guidare per le strade di L.A., di notte, a fari spenti. Non importa in quale direzione. La prima macchina che ti fa i fari per avvertirti che sei senza luci è la tua. Fai un‘inversione, ti accosti e gli spari addosso tutte le pallottole che hai nel caricatore. Chiunque sia. Potrebbe esserci tua madre, capisci, su quella macchina. Non importa, tu devi sparargli addosso lo stesso. Se no poi loro sparano a te.‖ Gli dissi che un autista Greyhound, qualche giorno prima, mi aveva fatto vedere una circolare dell‘ufficio centrale di Dallas, dove appunto si diceva che era tassativamente proibito fare segnali a veicoli in giro di notte senza luci. ―Ci credo. Dietro a un sacco di drive-by shootings in California ci sono le iniziazioni delle gang. Ai miei tempi ti tagliavano. Ma adesso è cambiato, ti costringono a fare cose sempre più assurde. È tutta colpa di quei maledetti ragazzini. Ci sono dei dodicenni in giro nei projects che sono cento volte più duri dei capibanda. Gente che ammazzerebbe davvero la madre, se glielo chiedessero. Sono dei gran figli di puttana, e l‘unico modo di fargli capire che la gang è più forte di loro è costringerli a fare uno spectacular, una sparata. Anche se devo ammettere che quella dei fari spenti è proprio dura da battere. Cazzo, uno cerca di farti un piacere e tu come ringraziamento gli spari addosso!‖ Gli mancava, Los Angeles. Gli piaceva correre tutto il giorno sulle freeway senza mai uscire dalla città. Tirar su le ragazze dell‘Hollywood Boulevard (L.A. women: they are reeeaal fast!). Ma quella città era troppo pericolosa, persino per uno come lui. Dovevi fare attenzione a tutto, anche alle scarpe che mettevi ai piedi. Mi mostrò i sandali da pensionato che indossava. ―Le scarpe da tennis? Scordatele. Nella zona dove vivevo io un paio di Nike durano sì e no una mezz‘ora. Quei fottuti ragazzi ti aspettano addirittura fuori dal negozio. Tu esci e loro ti saltano addosso. Uno ti pianta una 45

pistola alla nuca, e gli altri ti sfilano le scarpe. Sono pronti ad accopparti per un paio di scarpe, capisci? L‘ultima volta che ho comprato un paio di scarpe da basket il tipo del negozio è arrivato con un secchiello pieno di terra. Gli faccio: a che serve quella roba? e lui risponde: a macchiare le scarpe no? Le ho dovute spalmare di fango come se fossero un panino di burro d‘arachidi, per riuscire a portarle a casa sane e salve.‖ Il Greyhound correva in direzione Ovest, attraversando le immense e per nulla noiose pianure del Tennessee. Per lunghi tratti la strada era fiancheggiata da cipressi enormi, che salivano verso il cielo dalle paludi nere e melmose che sono un po‘ il simbolo di questa parte del Sud. Dal finestrino del bus si vedevano migliaia di aironi bianchi che prendevano il volo tutti insieme, spaventati dal rumore della corriera. Avrei voluto stare un po‘ in silenzio a guardare fuori, ma Lonnie ormai mi aveva preso in simpatia. Aveva adottato il magrolino straniero che andava in giro per l‘America sull‘autobus (―Solo a uno straniero potrebbe venire in mente di farsi dodici ore di bus al giorno, per divertimento!‖) alla ricerca di vecchie stazioni Greyhound. Decise che mi serviva un bel corso accelerato di sopravvivenza, se no prima o poi le stazioni art déco le avrei fotografate in posizione orizzontale. E cominciò a elencarmi i dos and dont’s del viaggiatore Greyhound. Primo: nascondere il fatto che non sei del posto. Un bel problema, considerando che io non solo non ero del posto, ma non ero neppure americano. Per una mezz‘ora davvero comica Lonnie cercò di insegnarmi a parlare come la gente del Sud, anzi come quelli del Delta visto che lui aveva quell‘accento. Fu un tentativo eroico, che venne abbandonato quando ci rendemmo entrambi conto che mi mancava comunque la faccia giusta per parlare in quella maniera. Lonnie decise allora di cambiare strategia. Se non riuscivo a imparare lo slang del Mississippi, mi avrebbe almeno insegnato a stare alla larga dai posti peggiori. Iniziò a elencarmi le stazioni più pericolose della Greyhound: Atlanta, Georgia; New Orleans, Louisiana; Chicago, Illinois; Detroit, Michigan; e per finire Downtown L.A. Se proprio volevo passare da quelle stazioni, era meglio farlo di giorno, evitando comunque il più possibile gabinetti, depositi bagagli e tutte le entrate secondarie. In quei luoghi comunque non era la stazione Greyhound il vero problema, bensì quello che ci stava intorno. I vecchi terminal con il levriero erano rimasti a presidiare quartieri che da decenni avevano perduto l‘antico splendore, nel bel mezzo di centri urbani dominati, appunto, dalle gang. 46

―In ogni città sono tutti organizzati alla perfezione,‖ mi spiegò Lonnie, ―mettono una ragazza dietro gli angoli delle uscite secondarie per accalappiarti, e appena tu cominci ad andarle dietro c‘è uno che ti dà una botta in testa e ti ruba tutto quello che hai sulle spalle. Dammi retta, a uno come te conviene farsi un‘altra mezz‘ora di Greyhound e scendere in terminal di periferia. A Los Angeles, ad esempio, lascia passare la stazione di Downtown e scendi a Santa Monica, che lì non ti succede niente di sicuro.‖ Gli dissi che la conoscevo bene, quella fermata, perché a Santa Monica ci viveva mia suocera e ci capitavo spesso. Fu una rivelazione. Lonnie si lanciò in una lunghissima descrizione di Santa Monica: le sua spiagge, il grande Sears (uno dei primi grandi magazzini di L.A.), i parcheggi delle macchine con i valletti vestiti di rosso. Santa Monica era una real preeety town!, una città davvero bella, piena di bella gente, belle donne, belle macchine. Lonnie parlava di Santa Monica come se fosse una città lontana, straniera, e infatti in tutta la sua vita c‘era stato solo qualche volta. Invece non era altro che un quartiere della Greater Los Angeles. Dalle strade dei projects, tuttavia, doveva sembrare una città siderale, irraggiungibile. Intanto erano quasi tre ore che chiacchieravamo, e io cominciavo a chiedermi quando sarebbe arrivata la prima fermata perché non ce la facevo più a stare in braccio a Lonnie. Lui raccontava di Los Angeles, delle lotte tra le gang, dei tipi di armi che usavano (pregi e difetti), e mentre raccontava si scaldava parecchio. Non stava fermo un attimo ed era difficilissimo per me trovare una posizione sufficientemente comoda. Ma non avevo alcuna intenzione di fermarlo. Mi sorprendeva che un tizio come quello avesse voglia di raccontarmi la sua vita. Se l‘avessi ascoltato alla radio avrei giurato che erano tutte palle. Ma io ce l‘avevo di fronte, lo guardavo in faccia ed ero convinto che le cose che raccontava erano vere. Mi rendevo naturalmente conto che si trattava di una situazione particolare. Se non fossi stato fotografo e straniero (e quindi una specie di novità assolutamente innocua), se non ci fossimo trovati insieme su un sedile Greyhound, quella conversazione non avrebbe avuto luogo. Lo sapevano anche i nostri compagni di viaggio che adesso non si giravano più per ridere, ma per cercare di rubare qualche frammento da quelle storie. Anche lui però aveva bisogno di una pausa. Mi fece cenno che era arrivato il momento di visitare la toilette in fondo alla corriera e con un grande scossone si districò dai sedili. Finalmente, per qualche minuto, avevo una poltrona Greyhound tutta per me. All‘improvviso mi crollò addosso la stanchezza. La notte passata in autobus si faceva sentire, e questo viaggio 47

si prospettava massacrante. Visto che Lonnie era ancora al gabinetto ne approfittai per fare quattro passi, su e giù per il corridoio. Sentivo l‘autista, un nero, che chiacchierava amabilmente con un signore bianco seduto in prima fila. Tutti e due avevano dei figli che avevano fatto la Guerra del Golfo, e ne andavano molto fieri. Chiesi all‘autista quanto mancava alla prossima fermata. Purtroppo mancava ancora un bel po‘, il nostro bus era un Express e faceva pochi stop. L‘autista, gentilissimo, mi disse però che se proprio era necessario si sarebbe fermato alla prossima stazione di servizio. Anche lui aveva voglia di un caffè, e al diavolo il regolamento. Viva il Sud, pensai. Stavo per tornare al mio posto quando la corriera scartò a destra e si infilò in un garage Save 5 Cents con una specie di McDonald sul retro. Il Greyhound si svuotò in un attimo. Come un gruppo di scolaretti, tutti i passeggeri si incamminarono verso l‘hamburger-bar. Ma io avevo più bisogno di sgranchirmi le gambe che di mangiare l‘ennesimo Big Mac. Decisi di fare quattro passi intorno alla stazione di servizio. C‘era ancora il bel segnale bianco della Save 5 Cents (Risparmiate 5 Cents, ai tempi, era uno slogan accattivante), ma per il resto la struttura era di quelle prefabbricate, con il grande tetto a spiovere che sembrava piantato a forza nel terreno. Tutt‘intorno era pieno di auto americane degli anni settanta, a vari gradi di disfacimento, con grandi segnali FOR SALE sul parabrezza. Il padrone del garage, un ometto magro con un cappellino con la bandiera confederata, vide che guardavo le sue macchine e si avvicinò proclamando che erano tutte classic-cars originali. Costavano quasi tutte meno di mille dollari. Gli chiesi dove erano finite le Cadillac, le Buick, insomma le vere classiche americane. ―E dove vuoi che siano finite? In Europa. Sono venuti una decina di anni fa gli inglesi, i tedeschi, gli italiani, e hanno portato via tutto. Volevano comprare anche il segnale Save 5 Cents, ma non ho avuto il coraggio di venderlo. È l‘unica cosa che rimane del garage che costruì mio nonno cinquant‘anni fa.‖ Adesso i passeggeri stavano uscendo dal bar, con il sacchetto del fast-food tra le mani. ―Mia moglie Rose sarà contenta,‖ disse il padrone, ―da quando c‘è l‘autostrada non si ferma più nessuno.‖ Poco dopo ero di nuovo sulla corriera. Di nuovo in braccio a Lonnie, che però non diceva più una parola. Succede spesso, sugli autobus. Uno ti racconta la sua vita per qualche ora, poi scende, mangia un hamburger, e quando si riparte torna a essere un estraneo. Comunque la cosa mi andava benissimo. Ora potevo finalmente riposare un po‘. 48

Ficcai la giacca tra sedile e finestrino e cercai di mettermi il più comodo possibile. Incredibile come una giacca ben ripiegata contro un finestrino possa farti sentire a tuo agio. Mi addormentai subito. Mi svegliai con Lonnie che cercava di raccattare i suoi bagagli, stipati sotto e sopra i sedili. Guardai fuori. La corriera stava percorrendo un lunghissimo rettilineo alberato, con ai lati una quantità incredibile di immondizia. I bordi della strada erano pieni di ogni genere di rottame: pezzi di automobili, frigoriferi, persino poltrone e divani sfondati. In fondo al rettilineo si intravedeva la sagoma di una piccola città, un minuscolo centro senza la solita periferia. ―Jackson, Tennessee. Gran bel posto,‖ disse Lonnie indicando fuori. ―Io mi fermo qui. È una città tranquilla, c‘è un sacco di brava gente. Qui i bambini possono crescere in pace.‖ Stentavo a credere alle mie orecchie. Stavamo entrando in una delle più squallide cittadine che io avessi mai visto, e questo ragazzo diceva che era un gran posto, addirittura l‘ideale per tirar su dei figli. Non osavo immaginare come doveva essere il quartiere di Lonnie a Nashville. La corriera entrò in Jackson. All‘inizio vidi tante baracche di legno abbandonate, poi case di mattoni con le vecchie pubblicità della Coca-Cola dipinte sui muri. C‘erano un sacco di uomini seduti sui marciapiedi a guardare il passaggio. Dopo aver fatto una brusca curva a destra ci infilammo nella piazza principale, andando a fermarci davanti al più grande e meraviglioso Greyhound terminal dell‘intero Sud.

Nella caffetteria del terminal di Jackson, Tennessee Ho appena finito di prendere un caffè con Lonnie, che mi ha raccontato dei suoi progetti per una nuova vita in questa piccola città. La sua parola d‘ordine è: stare lontano dai Bloods. Poco prima gli avevo fatto un ritratto, seduto sui gradini davanti alla stazione. Si è messo con le mani sulle ginocchia; era immobile, serissimo. Quando ci siamo salutati, mi ha abbracciato (cosa quasi inaudita per un maschio americano) e mi ha dato dell‘Ok guy. Per me è stato come prendere una laurea. Poi se n‘è andato coi suoi pacchi sulle spalle. Da solo occupava mezzo corridoio. La stazione è assolutamente incredibile. Una sorpresa che solo il Profondo Sud può regalare. Se fosse a Washington, a New York o ancora di più a San Francisco, anche questo stupendo edificio sarebbe monumento nazionale. Invece è in una cittadina del cavolo nel Tennessee, e quando 49

inizierà a crollare sarà rimpiazzato da un parcheggio. Comunque per il momento resta in piedi. Come un‘antica chiesa in una piazza italiana. Ma è tipicamente americana, questa cattedrale art déco dedicata agli autobus. Solo negli Stati Uniti, infatti, una stazione d‘autobus può essere pensata in questo modo. Quando Arrasmith (ancora lui, naturalmente) la costruì nel 1933, forse sapeva che in questa città senza storia la stazione degli autobus era destinata a rimanere l‘edificio più importante. E la fece enorme, un transatlantico di ceramica blu con i levrieri bianchi sui fianchi e un‘imponente torre a sbalzo sul ponte. Anche dentro, non è cambiato assolutamente nulla. O quasi. Sopra le porte dei gabinetti e sulle fontane attaccate ai muri le scritte colored non ci sono più, ma fino a trent‘anni fa c‘erano. Se avessi viaggiato sui Greyhound quando questa stazione era nuova, uno come Lonnie non avrei mai potuto incontrarlo. Almeno fino al confine con il Nord. È lì che l‘autista si fermava, andava in fondo al bus, tirava la tendina e diceva ai neri: ―Adesso potete sedervi dove volete‖.

Interstate 40 È stata breve, la fermata di Jackson, ma mi è rimasta nel cuore. Tra tutti i luoghi visitati con il Greyhound, questa città in mezzo agli acquitrini del Tennessee è quella che mi ha colpito di più. Forse perché ci sono arrivato con Lonnie, ma probabilmente il vero motivo è che a Jackson, più che in ogni altro posto, ho udito le voci del passato. Quando giravo per il terminal, e in particolare quando la nostra corriera ha cominciato ad allontanarsi dalla stazione che vedevo rimpicciolire in lontananza, mi sono ricordato degli anni del grande esodo, durante i quali milioni di neri fuggirono verso il Nord a bordo di un Greyhound. E mi sono venuti in mente i blues di Tommy McLennan, che in quel periodo viveva proprio qui, a Jackson, in una baracca di legno della periferia, e cantava: Now here comes that Greyhound, with his tongue stickin’ out on the side, if you buy your ticket, and swear ’fore God maybe they’ll let you ride.1

1

Ecco il levriero che arriva, con la lingua che gli penzola fuori / dalla bocca, / compra il biglietto, recita una preghiera, / e forse ti faranno salire.

50

Stiamo correndo verso Memphis. Con la lingua fuori. L‘Interstate 40 scende verso il bacino del Mississippi attraverso grandi pianure alberate, intervallate ogni tanto da piccole depressioni, verdissime, con in mezzo un paio di malandate fattorie dipinte di bianco. Il sole sta cominciando a calare, e le campagne risplendono come illuminate da una luce interiore. Nel Profondo Sud degli States si dice che ci sia una luce particolare, magica, dolce come il miele. Downsouth, where light is honey è infatti l‘espressione che usano da queste parti. E hanno ragione. Honey, miele, è l‘unica parola che può descrivere questa luminosità dorata, appiccicosa, che non tinge le cose, ma le avvolge. Proprio come quei frammenti d‘ambra che racchiudono animaletti e insetti preistorici. È una luce ambigua, completamente diversa da quella degli enormi spazi dell‘Ovest, che invece è trasparente, netta. Nei deserti dell‘Ovest la linea dell‘orizzonte è così nitida che ti ipnotizza, non riesci a non guardarla. Qui invece non hai neanche voglia di cercarla. Il viaggio per Memphis fu lungo, piacevole e soprattutto comodo. Il sedile che era stato di Lonnie venne preso da una vecchietta texana molto simpatica, che attaccò subito bottone facendosi raccontare tutto sulle mie peregrinazioni. A un certo punto mi costrinse persino a tirar fuori la cartina e indicarle gli stati che avevo attraversato fino a quel momento. Faceva la maglia, mentre ascoltava, e usava i ferri per indicarmi i posti sulla cartina. There!, là!, diceva, e senza esitare infilzava città, fiumi e strade. Ogni volta che apro quella cartina e vedo tutti quei buchi, mi ricordo di lei e del suo cappellino da cow-boy nero con le frange rosse. Arrivammo che era già buio. Dentro il terminal c‘era un sacco di gente, e anche molti poliziotti che controllavano la situazione. Appena fuori però non c‘era nessuno, la strada era assolutamente deserta. Pioveva. Aspettai un po‘ per vedere se per caso passavano dei taxi, ma senza alcun risultato. Ero affamato e non avevo la minima idea di dove fosse il motel più vicino. Così mi misi lo zaino sulle spalle e mi incamminai sotto la pioggia verso dei segnali al neon che vedevo in lontananza. Uno sembrava appartenere alla catena di diners Denny‘s, la mia preferita. Si trattava proprio di un Denny‘s, anche se il segnale era un po‘ diverso dal solito. Sotto il logo avevano scritto a caratteri cubitali: The King probably ate here. Elvis mangiava qui, probabilmente. Forse era vero. Vicino al Denny‘s, infatti, c‘erano i vecchi locali della Sun. Da questo minuscolo studio di registrazione erano passati tutti i grandi dell‘R&B: Bobby Bland, James Cotton, Howlin‘ Wolf, Ike Turner; e dopo di loro Presley, Perkins, Jerry Lee 51

Lewis. Di giorno il Sun Studio doveva essere una gran trappola per turisti, ma di notte, sotto la pioggia, il posto emanava ancora un certo fascino. Anche perché poco lontano risplendeva il meraviglioso neon a forma di radiatore che Jim Jarmusch aveva filmato in tutte le maniere in Mistery Train. Faceva un rumore incredibile, proprio come nel film. Entrai nel Denny‘s. Mi sembrò stupendamente caldo e asciutto. Le cameriere, tutte anzianotte come vuole la tradizione, correvano tra i tavoli ridendo e scherzando con i clienti. La Mavis di turno arrivò con il menu (che peraltro conoscevo a memoria) e un‘espressione preoccupata. ―Ma sei tutto bagnato, baby, è meglio che tu prenda qualcosa di caldo!‖ Per le cameriere di Denny‘s i clienti si chiamano tutti baby o ―hon‖ (honey). Sarà una cretinata, ma a me ha sempre fatto piacere. Come mi è sempre piaciuto leggere il nome dalla targhetta e chiamare per nome la cameriera. ―Hai proprio ragione, Mavis, prenderò la vostra zuppa del giorno. E una bistecca di lombo con patatine e spinaci. Sai se c‘è un motel decente da queste parti?‖ ―Certo, c‘è un Howard Johnson nel prossimo isolato, sulla sinistra. Che ne dici?‖ ―Dico che finalmente sono arrivato.‖

Memphis A to Zee 572 Poplar Avenue. 85 Winchester. 698 Saffarans. 462 Alabama St. 2414 Lamar. 1414 Getwell. 1034 Audubon. Graceland. Sono gli indirizzi, in ordine cronologico, di tutte le case di Elvis a Memphis. 406 Mulberry Street. L‘indirizzo del Lorraine Motel, dove il 6 Aprile 1968 fu ucciso Martin Luther King. Era venuto a Memphis per pubblicizzare lo sciopero degli spazzini neri della città. Adesso il motel non c‘è più, è stato trasformato in un museo, il National Civil Rights Museum. Un posto alla Graceland, anzi peggio, perché per fare questo museo il comune ha rimosso con la forza, nel 1988, Jacqueline Smith, una cameriera che si era barricata nel motel per evitarne la demolizione. Non voleva che la città costruisse una Disneyland per neri sulle ossa del ―dottore‖. Oggi sono andato a vedere il museo. Il tassista nero che mi ci ha portato all‘inizio voleva farmi fare il tour delle case di Elvis. Si è scusato così: ―Sai com‘è, di solito a voi bianchi interessa di più Elvis. E poi per me è meglio, ci sono più indirizzi‖. 52

6

Una sera d‘estate del 1953, Sam Phillips sedeva al banco del suo minuscolo studio di registrazione, al 706 di Union Street, a Memphis, e si chiedeva chi fosse quel giovane che da diversi giorni, all‘imbrunire, andava a parcheggiare il proprio furgone davanti all‘entrata. L‘autista rimaneva seduto al volante del camion per qualche minuto, guardandosi nervosamente intorno, e poi ripartiva di gran carriera. Quel giorno, invece, trovò il coraggio di scendere dal camion della Crown Electric Co., che guidava dalle sei del mattino alle sette di sera, e di andare a bussare alla porta dello studio. Il ragazzo era un greaser, un teppista con i capelli impomatati come tanti, ma Phillips notò che indossava i vestiti sgargianti di Lansky‘s, il negozio di abbigliamento frequentato dai neri più in tiro di Memphis. Era un particolare importante, in una città del Sud. Il giovane si muoveva e parlava come James Dean. L‘attore di East of Eden era il suo idolo, tanto che quando, già famoso, incontrò a Hollywood Nicholas Ray (il regista di Rebel Without a Cause), gli si inginocchiò davanti e si mise a recitare intere pagine della sceneggiatura del film, che conosceva a memoria. La segretaria tuttofare di Phillips, Marion Kreikser, chiese al greaser come si chiamava e cosa voleva. ―Presley, Elvis Presley,‖ fu la risposta. ―Mi hanno detto che per tre dollari posso incidere una canzone.‖ Sam Phillips rimase colpito da quel nome insolito. ―Elvis,‖ pensò, ―è un nome da fantascienza.‖ Senza esitare preparò lo studio per la registrazione, e rimase ad ascoltare il ragazzo, che non era un buon chitarrista ma aveva uno stile molto personale. Quando Phillips gli aveva chiesto che tipo musica intendesse registrare, aveva risposto semplicemente: ―La mia‖. In realtà il giovane Elvis non aveva ancora una voce, ma aveva già uno stile, copiato dai cantanti blues di colore che si esibivano nei locali di Beale Street. Proprio quello che serviva a Sam Phillips. ―Se riuscissi a trovare un bianco che sa fare la musica dei neri, diventerei milionario,‖ aveva confidato a un amico quando aveva aperto il suo piccolo studio. In quegli anni, infatti, Memphis era la capitale della nuova musica americana. Sulle rive del Mississippi ballavano tutti. I neri suonavano il rhythm 53

and blues (che negli ambienti discografici veniva chiamata race music) e cantavano i gospel religiosi. Poi c‘era il white gospel – identico al primo ma cantato dai bianchi – e il genere country o hillbilly, che era la musica dominante e apparteneva da sempre ai bianchi. Memphis era una città completamente segregata. Fino al 1947, in tutta la città non c‘era neanche un poliziotto di colore e quando, nel 1948, ne furono assunti una mezza dozzina, non gli venne dato il permesso di arrestare bianchi. Anche i gusti musicali, quindi, erano totalmente diversi. Ma all‘inizio degli anni cinquanta qualcosa stava cominciando a cambiare. Le stazioni, gli ospedali e i quartieri potevano essere segregati, ma le onde radio no. Nel dopoguerra era nata la Wdia, The Mother Station of all Negroes, che trasmetteva musica dei neri, e che spesso i giovani bianchi ascoltavano di nascosto. Quello che li attirava era il one, il beat; il ritmo della race music, così forte che chiunque poteva ballarci sopra, senza dover seguire lezioni di ballo. Sam Phillips era uno di questi bianchi. Era arrivato in città nel 1950 e aveva subito iniziato a registrare i bluesmen della zona: gente come Howlin‘ Wolf, Phineas Newborn e il giovane B.B. King. Le sue registrazioni erano boicottate dalle grandi case discografiche, ma venivano utilizzate da un altro fan del rhythm and blues, il disc-jockey Dewey Phillips. Il suo programma andava in onda sulla stazione Whbq e si chiamava Red, Hot and Blue. Dewey era l‘idolo dei giovani di Memphis perché proponeva la musica che i loro genitori definivano ―l‘opera del Demonio‖ e perché il grande cantante blues Rufus Thomas aveva detto di lui: ―Dewey non è un bianco, Dewey non ha colore‖. Fu lui a mandare in onda il primo ―vero‖ disco di Elvis Presley. Un quarantacinque giri che aveva sul lato A I’m All Right, Mama del bluesman Arthur ―Big-Boy‖ Crudup, e sul lato B Blue Moon of Kentucky, ballata country di Bill Monroe. Presley aveva mischiato il country con il blues, e inventato il rock-a-billy. La sera in cui il disco doveva essere presentato alla radio, Elvis era così nervoso che andò a nascondersi in un cinema, da solo. Alla fine del film, uscì e salì sulla Cadillac di seconda mano di Sam Phillips, che commerciava in auto usate per sovvenzionare lo studio. Elvis accese la radio e sentì la sua voce che cantava I’m All Right, Mama. Quindi ascoltò l‘altro pezzo che aveva inciso. E poi, di nuovo, I’m All Right. Il disco aveva avuto un tale successo che Dewey Phillips aveva deciso di suonarlo in continuazione. 54

Trent‘anni dopo, a Londra, mi capitò di fotografare B.B. King. Era stato uno dei primi a incidere con Phillips, e aveva conosciuto Elvis quando era agli inizi. Quando gli chiesi di raccontarmi qualcosa di quegli anni al Sun Studio, liquidò la faccenda con un paio di frasi taglienti. A lui, che era giovane, era andata bene. Aveva fatto la sua carriera. Ma i vecchi bluesmen che avevano ispirato Elvis non erano stati altrettanto fortunati. Citò le parole di Crudman, autore di I’m All Right: ―Ho fatto diventare ricchi questi ragazzi bianchi. Ma io sono nato povero, vivo in povertà e morirò povero‖. Mi fermai a Memphis per qualche giorno. La capitale del grande Delta e di tutta Dixieland non era più ricca e sfacciata come un tempo, ma alcune cose che l‘avevano resa famosa, come il fantasioso senso dell‘umorismo degli abitanti, erano rimaste. I cittadini di Memphis erano narratori nati. Un vecchietto raggrinzito che incontrai in un diner mi raccontò una bella storia sull‘origine del nome Dixieland. Mi disse che alla fine del Settecento c‘era un commerciante olandese, di nome Diksye o Dyksie, che aveva deciso di coltivare tabacco a Harlem. Per questo motivo importò un gran numero di lavoratori neri dal Sud, pagandoli profumatamente e trattandoli con grande umanità. Purtroppo, però, l‘esperimento fallì e i neri furono costretti a tornare a casa, sulle rive del grande fiume, e a rimpiangere per sempre ―Diksyeland‖, la terra lontana del commerciante Diksye. Che da allora venne confusa con il Sud. I giorni passati a Memphis mi fecero venire voglia di visitare un‘altra Jackson, nel Mississippi. Sentivo dire da tutti, sia bianchi che neri, che Jackson era il simbolo del Profondo Sud, con tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti. Laggiù c‘erano i vecchi con l‘armonica nel taschino che suonavano il blues. C‘erano le grandiose case dei baroni del cotone. E c‘era il quartier generale del Ku Klux Klan. Così una mattina andai alla stazione delle corriere e presi un biglietto per Jackson. Sulla corriera ero seduto dietro a un nero con un braccio ingessato che chiacchierava a voce alta con una bella ragazza della sua razza. Era impossibile non ascoltare la conversazione, anche perché era un‘interminabile lista di sfide, pestaggi e accoltellamenti. Il ragazzo descriveva con gusto e dovizia di particolari come aveva spaccato la testa a uno, come aveva tagliato la pancia a un altro, e alla fine i suoi racconti finivano tutti con la stessa frase: I kicked his ass. Gli ho fatto il culo. Il braccio se l‘era appunto rotto facendo il culo a qualche povero disgraziato. Lei lo ascoltava con grande interesse e, cosa che mi sorprese non poco, non sembrava per nulla turbata da quei racconti. Gli tastava i muscoli 55

del braccio sano, stuzzicandolo con le unghie ricurve lunghissime, bicolore, piene di piccoli fori decorativi, e gli diceva: ―Con questo puoi fare ancora molto male ai tuoi avversari, scommetto che puoi spaccare la faccia a uno anche con un braccio solo‖. Lui rideva eccitato, si guardava intorno e gliene raccontava un‘altra.

Il Cigno Bianco Sono a Jackson da un paio di giorni. Ho affittato una macchina, con la quale vago giorno e notte per la città e le campagne circostanti. Jackson è bella, in un certo senso. Nel centro vivono i neri e nei sobborghi stanno, barricati, i bianchi. La periferia è una terra di nessuno, dominata da squallidi ipermercati, immensi parcheggi di rivenditori di auto usate e ristoranti fast-food. Fuori il caldo è ossessivo, ti fa scoppiare la testa. Fa troppo caldo per dormire, per cui giro in macchina in continuazione. Ieri ho scoperto, per caso, un‘altra stazione costruita da Arrasmith. Ma non è più un terminal della Greyhound. Da una decina d‘anni è la sede di un ufficio legale. Il proprietario mi ha spiegato che quand‘era piccolo scappava da scuola per andare a giocare a flipper nella stazione dei bus. Ci passava metà delle sue giornate. Così, quando la Greyhound aveva fatto costruire un nuovo terminal fuori città, Parker Adams aveva acquistato il vecchio edificio e lo aveva trasformato nel suo studio. Ho dato un‘occhiata all‘interno. Al piano terra, di fianco alla scrivania della segretaria, c‘era una fila di flipper. Il Mississippi è una terra fertile e selvaggia, dove le cose cambiano lentamente. Nei piccoli centri di campagna, come Canton o Carthage, le grandi ville neoclassiche con le colonne di legno e la data di costruzione scolpita sopra il portone – 1798, 1806, 1810 – sono ancora lì, a testimoniare l‘epoca degli schiavi e del King Cotton, il Re Cotone. Dall‘altra parte del paese, lontane dalla vista delle ville padronali, ci sono le catapecchie degli schiavi. Alcune sono ancora abitate. Nelle colline intorno al fiume Pearl si respira l‘atmosfera appiccicosa e ipnotizzante del Sud. Al tramonto si vedono le vecchie colored, grasse e sdentate, che fumano il sigaro sotto il portico dondolandosi oziosamente. Su quasi tutte le case dei bianchi sventola la bandiera americana. Ma è montata al contrario, in senso di spregio e ripudio, ed è sempre sovrastata da un‘enorme, irriducibile bandiera confederata. Nelle campagne del Mississippi ho visto le southern belles, attraenti fanciulle bianche, nere e mu56

latte dai corpi sinuosi e i volti intelligenti. Alcune erano vestite e truccate come Isabella Rossellini in Cuore selvaggio. Dopo qualche giorno nel Magnolia State sono tornato sugli autobus. Nella stazione di Jackson ho conosciuto il manager, uomo di rara simpatia che mi ha raccontato un gran numero di storie affascinanti. La più simpatica era relativa al White Swann Hotel, a suo dire il più bel bordello del Sud. Il Cigno Bianco si trova in una piccola città della Louisiana: Tallullah. Un nome meraviglioso e promettente. Da Jackson tornai a Memphis, dove mi imbarcai per Little Rock, Arkansas, e Dallas, Texas. Nella grande metropoli del Texas si trovava il quartier generale della Greyhound, dove speravo di trovare informazioni sulla storia della compagnia, e in particolar modo sulle vernacular stations. Un tempo sparse per tutti i territori dell‘Ovest, queste piccole fermate semiufficiali di campagna, spesso abbinate a stazioni di servizio o piccoli ristoranti, erano caratterizzate da forme architettoniche molto buffe. Negli anni trenta, i grandi fotografi della Fsa avevano catalogato gli esempi di architettura popolare negli stati del Sud: diner a forma di pesce, negozi a forma di tenda indiana, stazioni di servizio a forma di enormi teiere con relative tazzine. Sapevo che alcune di queste stranezze erano ancora in piedi, ma non sapevo esattamente dove. Andavo a Dallas sperando di trovare qualcuno che mi potesse aiutare. La corriera per l‘Ovest era piena di gente simpatica. Sul bus si capiva che l‘atmosfera seducente e misteriosa del Profondo Sud stava per essere rimpiazzata da quella più aperta e solare del West. Una volta tanto, i passeggeri si erano seduti dove capitava e nell‘angusto abitacolo della corriera regnava un festoso baccano. Ero seduto in prima fila. Avevo alla mia destra James, un marine diretto a Fort Stockton, e alla mia sinistra Lupe, un messicano grassoccio che andava a El Paso. Vicino a noi l‘autista John Hawthorne. Partimmo da Memphis alle sei di mattina e arrivammo a Dallas con un‘ora di ritardo, alle sei del pomeriggio. Dodici ore di viaggio, e dodici ore di chiacchiere, musica country a tutto volume e pacchetti di patatine di mais che rotolavano sul pavimento. James aveva fatto la Guerra del Golfo e aveva tante cose da raccontare. Non tutte erano simpatiche. Era un texano vecchio stampo, biondo, gli occhi azzurri e i capelli tagliati a spazzola. Da buon texano era in cavalleria, che nell‘esercito moderno significa avere a che fare con i carri armati. Durante la guerra aveva guidato carri speciali, 57

che oltre il cannone avevano, sul davanti, un‘enorme ruspa. Mi raccontò per quale macabro compito venivano usati. ―Gli iracheni erano ben organizzati. Avevano scavato lunghissime trincee molto profonde, collegate da cunicoli sotterranei. Era un buon sistema di difesa tradizionale, ma la nostra tecnologia era superiore. I nostri aerei li bombardavano per ore, costringendoli a rintanarsi sotto terra. Poi arrivavamo noi con le ruspe. Ordinavamo agli iracheni di arrendersi. Quelli che venivano fuori erano fatti prigionieri. Ma quelli che rimanevano dentro facevano una fine orribile, perché noi chiudevamo immediatamente le trincee. Non so quanta gente abbiamo sepolto viva. Io personalmente ho chiuso miglia e miglia di trincee. Mi disgustava guidare quel carro, ma i comandanti ci dicevano che quello era il modo migliore per salvare vite americane. Ci ripetevano in continuazione che, dopo tutto, seppellirli vivi era come ammazzarli a cannonate. Ma loro le ruspe non le guidavano.‖ James aveva anche delle interessanti teorie sulla Gulf-War Syndrome, la misteriosa malattia che aveva colpito molti soldati al rientro in patria, che furono clamorosamente confermate molti mesi dopo, quando vidi un documentario della Bbc sull‘argomento. Ci raccontò che la causa delle malattie erano proprio i vaccini contro le armi chimiche prescritti dal comando. Come spesso accade in guerra, i generali avevano dato l‘ordine di assumere montagne di medicinali sperimentali, senza spiegare cosa fossero, e così migliaia di soldati si erano ammalati. Molti marine poi avevano l‘abitudine di saccheggiare, in cerca di souvenir, le postazioni irachene colpite dai carri americani. Senza sapere che queste erano fortemente radioattive, perché i carri americani sparavano proiettili contenenti scorie di plutonio. James non era per nulla orgoglioso di quello che aveva fatto durante la guerra. Di una cosa, tuttavia, andava molto fiero. Dopo la grande battaglia di Mutlah Ridge, nella quale morirono centinaia di iracheni, si era rifiutato di scattare fotografie e prendere souvenir dai cadaveri. A differenza di molti suoi commilitoni che si erano portati a casa mani, piedi e altre appendici carbonizzate. ―Non ho portato a casa nulla,‖ ci aveva detto. ―Neppure i ricordi. Quelli peggiori li ho lasciati sotto la sabbia del deserto. Se li avessi portati con me, avrei fatto la fine di tanti compagni che al ritorno hanno perduto moglie, figli e lavoro.‖ Ci mostrò le fotografie che teneva nel portafoglio. Aveva una moglie incinta e due figli, un bel cane lupo e una Ford Mustang quasi completamente restaurata. 58

James raccontò storie di guerra fino a Little Rock, nell‘Arkansas, dove ci fermammo per una pausa di venticinque minuti. Quando ripartimmo attaccò Lupe. Lavorava per la JB Hunt, una delle più importanti compagnie di autotrasporti d‘America. Il suo compito era guidare gli enormi camion a diciotto ruote che vedevamo tutti i giorni sulle autostrade. Quelli della JB Hunt, ci spiegò, erano i più belli. Erano tutti uguali, arancioni, con carrozzeria aerodinamica Peterbuilt e cabina per l‘autista dotata di tutti i comfort. Lupe non poteva competere con James in fatto di drammaticità, ma avendo visto tutta l‘America al volante del suo camion aveva comunque abbastanza materiale su cui lavorare. Da buon camionista, decise di concentrarsi sulla pornografia. Ci assicurò che dalla cabina del suo camion aveva visto un sacco di donne nude e ci spiegò come facevano i camionisti a trovarle. ―Ci sono queste donne che vanno in giro in macchina, sia di notte che di giorno, apposta per farsi vedere dai camionisti. Si mettono sull‘autostrada e quando ne vedono uno che gli va a genio si affiancano e cominciano a togliersi i vestiti. Ti guardano, ti sorridono, ti mandano i bacini e ti mostrano le tette.‖ Spiegò. ―Le più brave riescono persino a mostrarti il beaver – il castoro, la figa nel gergo dei camionisti – inserendo il cruise control e mettendo le cosce sul volante. Appena uno di noi ne vede una lo comunica via radio agli altri camion che sono in zona, e chi può corre a vedere. A volte si formano dei convogli di decine di Tir che corrono dietro a una di queste esibizioniste. Ma non ci sono solo quelle. Ci sono le coppie,‖ continuò Lupe, che ci aveva preso gusto, ―dall‘alto si vedono benissimo le ragazze che fanno i pompini al fidanzato mentre guida, o le lesbiche che se la succhiano a vicenda sui sedili posteriori delle station-wagon.‖ Mentre Lupe raccontava queste cose, l‘autista ascoltava, guardandolo con la coda degli occhi. Ogni tanto lasciava partire una risata fragorosa, scuoteva la testa e diceva: ―Oh yes, my friend, oh yes, oh yes, oooooh yes!‖. L‘altro si sentiva apprezzato, batteva le mani sulle ginocchia e ripartiva. Aveva una gran voglia di fare buona impressione, Lupe. Era diventato da poco cittadino americano, e sentiva il bisogno di dimostrare il suo attaccamento alla nuova bandiera. Tutto quello che era americano era luccicante, perfetto, mentre quello che veniva da sud del Rio Grande faceva schifo. A noi che lo stavamo ad ascoltare scappava un sorriso. Era un po‘ patetico, sentirlo dire che gli stranieri senza permesso di lavoro dovevano essere rispediti a casa. 59

Giungemmo a Texarcana, una brutta città situata, come si può intuire dal nome, sul confine tra Texas e Arkansas. Scesi a mangiare un hamburger insieme a James che era felice perché nella cittadina precedente, Hope, era riuscito a fotografare la casa dov‘è nato Bill Clinton. L‘autista ci aveva detto che la corriera ci passava di fronte, e James gli aveva chiesto di fermarsi un attimo per una foto. Era una piccola casa di legno, in pessime condizioni. Ma ora sarà sicuramente un museo. Dopo la sosta per il pasto attraversammo il confine e iniziò la lunga marcia di avvicinamento verso Dallas. Sei ore sulla Interstate 30, un‘autostrada senza una curva che attraversa la pianura del Texas nordoccidentale sfiorando decine di paesi tutti uguali, dei quali non si nota altro che le esili water towers, i silos che strappano l‘acqua al deserto e crescono come enormi funghi in mezzo alla pianura.

Paris, Tejas Il Texas (che viene dal messicano tejas, amico) è famoso per i nomi buffi delle sue città. Paris è la più conosciuta, per via del film di Wim Wenders, ma c‘è anche Italy, un paesino di poche case non lontano dall‘autostrada che stiamo percorrendo. Mancano un paio d‘ore all‘arrivo. Ho tirato fuori la cartina e mi diverto a trascrivere sul mio taccuino, catalogandoli, i nomi più belli. I più numerosi sono espansivi ed esagerati come il carattere dei texani: Love, Love-Lady, Sunray, Best, Happy, Progress, Paradise, Eden, Utopia. Poi ci sono i paesi dedicati alle donne: Inez, Anna, Katy, Patricia, Alice, Lolita. Quindi vengono i nomi più pragmatici, legati al paesaggio circostante oppure all‘attività principale della zona: Sunset (è rivolto a ovest), Cactus, Water, Industry, Petrolia, Bovina. Infine, le pazzie: Avalon, Twitty, Early, Matador, Tarzan. Ma il nome migliore appartiene a una cittadina tra Huston e San Antonio, situata nel mezzo di una perfetta pianura: Flatonia, in italiano Piattonia.

60

7

Dallas È esattamente come uno se l‘aspetta. Una città interminabile in mezzo alla prateria, con le autostrade sopraelevate che dominano il centro e si attorcigliano intorno ai grattacieli come enormi liane in una foresta di vetro. Ma c‘è anche un‘altra Dallas. Si chiama Fort Worth ed è attaccata alla sorella più famosa come una remora. Dallas rappresenta l‘anima intraprendente, moderna e un po‘ pacchiana del Texas. Fort Worth è un monumento al passato, una hickopolis, un paesone che si è trasformato in metropoli, dove ci sono ancora i recinti per il bestiame, i saloon e i cow-boy che girano per le strade a cavallo bloccando il traffico. Inutile dire che per i texani purosangue la vera capitale del Texas è Fort Worth. Davanti al terminal della Greyhound di Dallas, purtroppo, non ci sono cow-boy Ci sono i ragazzi delle gang, moderni indiani della tribù Grips (il nome della gang), i bandana legati intorno al collo, che ci aspettano con il coltello in mano dall‘altro lato della strada. Sono accampati intorno a un misero hamburger-bar che sorge dove un tempo c‘era un grande McDonald‘s, fatto demolire dai capi della Mac quando seppero che uno dei loro fast-food era finito nelle mani delle bande. I passeggeri della Greyhound si accalcano sul marciapiede di fronte all‘uscita, aspettando pazienti i taxi che fanno la fila per trarli in salvo. Li osservo mentre prendo un caffè con Laurie, un‘impiegata della Greyhound, nella asettica caffetteria del terminal. A Dallas c‘è il quartier generale della società, per cui la stazione è sempre tirata a lucido. Laurie è una dolce signora molto, molto incinta. È al nono mese, ma lavora ancora perché in America le donne hanno diritto a periodi di maternità cortissimi. È con la Greyhound da un paio d‘anni; sa tutto di marketing, di obbiettivi aziendali, ma della storia della compagnia non sa quasi nulla. Le vernacular stations che vado cercando non sa neanche cosa siano. Suggerisce di andare al deposito centrale dei bus, in periferia, dove ci sono dei vecchi autisti con i quali posso parlare. Forse loro sapranno dirmi qualcosa. Prima di andarsene, mi regala un paio di vecchi orari che ha trovato in fondo a un archivio. Uno è del 1946. La cartina in prima pagina mostra una 61

rete di collegamenti capillare, molto più fitta di quella attuale. Allora il levriero era veramente king of the road, il re delle strada, l‘unico in grado di offrire a tutti gli abitanti del grande paese quel bene primario così desiderato, così effimero, e così assolutamente americano: la possibilità di muoversi. Metto via i cimeli ed esco dal terminal. Devo aspettare Troy, un impiegato della società che mi porterà al deposito. Appena fuori sono investito da una folata di vento torrido e insopportabilmente umido. Nel ristorante il condizionatore era al massimo e questo rende l‘impatto con l‘afa di Dallas ancor più sgradevole. I teppisti della gang mi adocchiano subito. Uno di loro attraversa la strada in bicicletta e viene da questa parte. So già quello che viene a fare. ―Hey, buddy, ―attacca, ―ho tutto quello che tu potresti desiderare. Ho dell‘erba colombiana fantastica, ho delle pasticche d‘acido in offerta speciale. Ho della coca e dello smack di primissima qualità. Dimmi amico, non aver paura, chiedimi tutto quello che ti pare, chiedi e ti sarà dato.‖ Il nero mi gira intorno con la bicicletta e fa il suo pitch, l‘offerta, parlando velocissimo. Devo avere proprio una faccia da drogato, perché è una cosa che mi capita in quasi tutte le stazioni. Gli dico che non mi serve niente. Lui mi squadra da capo a piedi, indica i muscoli (che non ho) e dice: ―Eh già, non avevo notato che eri un culturista. Il corpo è il tuo tempio eh? Vabbe‘, niente droga allora. Che ne dici di una bella sudata con una ragazza? Anche lì la selezione è completa: tutti i colori, tutte le sfumature, tutte le taglie. Prezzi modici‖. Fortunatamente sta arrivando Troy, al volante di un pick-up blu. Il nero vede l‘auto che si avvicina e se ne va, ma non prima di tentare un‘ultima richiesta: ―Okay, okay, me ne vado. Ma tu dammi almeno una sigaretta‖. ―Sto cercando di smettere,‖ rispondo ridendo. ―Cazzo, ma quanto sei palloso! Man, you neeeeddrugs! Tu della droga hai proprio bisogno. Mi raccomando, se cambi idea sai dove trovarmi!‖ sibila prima di tornare dai suoi. Troy parcheggia a un palmo dal mio zaino e apre la portiera senza scendere. Chiede chi sono e poi mi fa cenno di montare. È un tipo sulla cinquantina, magro ma muscoloso, molto abbronzato. In testa ha un piccolo cappello bianco. Da cow-boy, ovviamente. Andiamo al deposito, che non è molto lontano dal centro ma si trova in una zona depressa, piena di negozi e magazzini abbandonati. Gli unici segni di vita provengono dal depot della Greyhound, un enorme piazzale pie62

no di bus circondato dal filo spinato, e qualche negozio di armi. ―I texani amano prima di tutto le loro pistole, poi le loro macchine, poi i loro cavalli, poi le loro donne,‖ mi dice Troy quando passiamo davanti a un negozio di munizioni. ―Dovreste provare a invertire la lista,‖ gli rispondo. Al deposito ci dicono che gli autisti che cerchiamo sono già andati a casa. Dobbiamo tornare domani. Troy, molto gentilmente, si offre di condurmi al motel frequentato dagli impiegati della società. Prima di partire, telefona alla reception e prenota la stanza, assicurandosi che mi facciano il prezzo speciale dei dipendenti Greyhound. Una volta arrivati al motel, molto più bello delle bettole alle quali ero ormai abituato, Troy si offre di farmi vedere la città e portarmi a cena, e io accetto volentieri. Viene a prendermi alle otto, come prestabilito. Andiamo a mangiare un hamburger in un ristorante dove le cameriere girano in topless. Troy, dopo avermi spiegato che sua moglie è morta d‘infarto l‘anno prima, dice che Dallas è famosa per le sue donnine. È vero. Anche se non ci sono i casinò, la capitale economica del Texas può essere considerata la Las Vegas del Sud. Ci portano l‘hamburger: una cosa enorme, farcita con formaggi, bacon e insalata. Buonissima. Tra un boccone e l‘altro, Troy racconta che lavora per la Greyhound da più di trent‘anni, da quando è tornato dal Vietnam. ―Mi sono sposato a diciannove anni,‖ dice mostrandomi una vecchia foto della moglie, una ragazza con la permanente e pantaloni a zampa d‘elefante. ―Esattamente sei mesi dopo sono partito per il Sudest asiatico. Facevo parte di un‘unità cinofila di trackers. Usavamo i cani, docili labrador neri addestrati dagli inglesi, per scovare i vietcong. Una volta, grazie ai nostri cani, siamo riusciti a stanare 1500 vietcong nascosti nella giungla, e i nostri compagni ne hanno uccisi 1100. Quel giorno ho capito cosa voleva dire il cappellano quando ci spiegava che la guerra è crudele. Poi, verso la fine del mio turno, sono diventato una talpa. Mi mandavano a esplorare i tunnel del nemico armato di una torcia, una pistola e un paio di bombe a mano. Era un lavoro terribilmente pericoloso. I vietcong avevano scavato un numero impressionante di cunicoli, vere e pròprie città sotterranee, piene di trappole mortali. Ogni volta che entravo in uno di quei buchi pensavo: Troy, questa è l‘ultima volta che vedi il sole. Ho fatto la talpa cinque volte. Poi mi sono rifiutato. Avevo troppa paura. Mi hanno rispedito a casa con la psiche a pezzi.‖ Dopo cena andiamo a bere qualcosa in un locale dove, per una ventina di dollari, le ragazze fanno la table dance, lo spogliarello sul tavolo. C‘è una strana atmosfera in questi posti. Si tratta di locali dove l‘allegra tradi63

zione del burlesque da saloon è stata trasformata in qualcosa di falso e asettico. Le ballerine, perfette, una più bella dell‘altra, si muovono come se fossero immagini, illusioni ottiche. È assolutamente vietato toccarle. Chi si azzarda a sfiorarne una viene immediatamente buttato fuori dai gorilla del bar. In questa atmosfera irreale le ragazze si comportano da vere signore, e i clienti da perfetti gentlemen. Nessuno alza la voce. Nessuno beve un bicchiere di troppo. Nessuno ride. Una delle ragazze si avvicina e con molto garbo ci chiede se desideriamo una danza. È come se ci chiedesse se vogliamo una tazza di tè. Troy risponde di sì, lei sale sul tavolino e comincia ad ancheggiare. Qualche minuto dopo è senza vestiti. Davvero una splendida fanciulla. Il suo pube dondola a meno di dieci centimetri dal naso del mio amico. Do un‘occhiata in giro. A quasi tutti i tavoli ci sono uomini, americani e stranieri, che guardano imbambolati quella cosina che ondeggia davanti ai loro occhi. Il mattino dopo Troy venne a prendermi al motel e mi riportò al deposito centrale. Mi lasciò nelle mani di Burt. Lo chiamavano tutti così perché ricordava in maniera sorprendente Burt Reynolds. Era una somiglianza davvero incredibile, sembrava il fratello gemello dell‘attore. E la cosa più buffa era che gli somigliava pure nel carattere. Come il Burt del cinema, anche quello della Greyhound era arrogante, sciupafemmine e sparaballe. Ma era anche un tipo che si faceva in quattro per darti una mano. Se si metteva in testa di fare una cosa, la faceva. Gli chiesi delle informazioni sulle vernacular stations e lui mi fece parlare con un vecchio autista, Will Rodgers, che aveva guidato i Silversides in Texas e New Mexico. Will mi disse quello che sapeva e mi regalò un paio di cartoline della Court-Teich degli anni quaranta che raffiguravano stazioni Greyhound. Una era proprio di Evansville, la stazione con l‘ultimo running dog. La seconda raffigurava una fantastica vernacular. Era un terminal a forma di tenda indiana, abbinata a una stazione di servizio Standard Fuels. Si chiamava Geronimo’s Castle e si trovava a Bowie, in Arizona. Era esattamente quello che cercavo, ma Will disse di non sapere se fosse ancora in piedi. La cartolina era affrancata. Sul retro c‘era un telegrafico messaggio scritto a matita: Cara Ma: sono senza lavoro. Vado a cercarne uno nuovo. Tutto ok Jack. Will ci raccontò di averne viste molte, di quelle stazioni, sulle strade che attraversavano i deserti del Southwest. ―Subito dopo la guerra ci fu un periodo in cui quelle pazzie erano molto alla moda. Erano principalmente caffè e stazioni di servizio. I proprietari se 64

le costruivano da soli, per cui a volte venivano fuori delle cose davvero buffe. Ricordo che ce n‘era una a forma di negra con una gonna rossa. Il piano terra era formato dalla gonna, e il corpo della negra era una specie di torretta che si poteva visitare. Noi autisti la chiamavamo la statua della libertà dei poveri. Ma adesso sono quasi tutte scomparse. Non tanto per il tempo, perché nel deserto le cose si conservano egregiamente, ma per i materiali di costruzione, che erano poverissimi.‖ Will parlò a lungo, spiegandoci come il suo bus preferito fosse ancora il primo, il vecchio Mack BK da 126 cavalli con il portapacchi sul tetto. ―Era un bestione pesantissimo, difficile da guidare e pericoloso sulle strade di montagna, quando le valigie legate sul tetto cominciavano a ballare. Ma era anche l‘ultima diligenza americana. Quando arrivavo nei paesi del deserto del Nuovo Messico, sollevando una nuvola di polvere alta così, mi sembrava di essere John Wayne. E poi il Mack era il più comodo, sia per il guidatore che per i passeggeri. I sedili erano favolosi, imbottiti di crine di cavallo e ricoperti in puro mohair. Altro che le schifezze sintetiche di oggi.‖ Burt Reynolds chiese se volevo fotografarne uno. ―Ma come, avete ancora un Mack qui nel deposito?‖ chiesi eccitato. ―Abbiamo il Mack, abbiamo il Silversides, lo Scenicruiser. Li abbiamo ancora tutti,‖ rispose Burt. ―Il problema è che è impossibile estrarli dal mucchio,‖ obbiettò Will. ―Niente è impossibile,‖ replicò Burt. Ed era un‘affermazione da cinemascope. Mi portarono di fronte a una rimessa immensa, che avrebbe potuto ospitare senza problemi qualche Jumbo. Era piena zeppa di moderni Americruiser Two. ―I vecchi sono là dentro, in fondo. Adesso te li tiriamo fuori,‖ disse Burt. ―Ma voi state scherzando,‖ risposi, ―ci saranno duecento autobus in quell‘hangar da dirigibili!‖ Burt mi guardò sorridendo. ―Non ti preoccupare. Non sei più in mezzo a quei froci d‘inglesi. Ora sei in Texas.‖ Non erano duecento. Erano centododici, li contai uno a uno. E quei matti li tirarono fuori tutti, lavorando a torso nudo sotto il sole torrido di Dallas. Quando finirono, si scolarono una Coca extra strong con doppia dose di caffeina – erano veri uomini – e mi fecero cenno di seguirli. 65

Entrammo nel ventre enorme e buio della rimessa. In fondo, in un angolo, ricoperta da un lacero telo di plastica, c‘era la storia della Greyhound Bus Company. Il primo a rivedere la luce fu proprio un Mack, un torpedone blu del 1931 in eccellenti condizioni. Partì al primo colpo, e lo fotografai di fronte a un magazzino in disuso, a due passi dal deposito. Poi Burt e Will tirarono fuori gli altri. I Silversides degli anni quaranta, con il famoso levriero d‘alluminio applicato sui fianchi. Un Brill del 1948, e persino una replica del primo bus Greyhound, l‘Hupmobile del 1914 che Carl Eric Wickman non era riuscito a vendere. Burt aveva delle mani magiche. Riusciva a farli partire quasi immediatamente, li ripuliva e poi me li portava dove desideravo per le fotografie. L‘unico che non riuscimmo a riesumare fu il famoso Supercoach bicolore progettato da Raymond Lowey. La retromarcia non funzionava, e senza la retro era impossibile tirarlo fuori. Il sosia di Reynolds si intestardì. Smontò il cofano posteriore e con una ciclopica chiave inglese provò a inserire la retro facendo leva direttamente sugli ingranaggi del cambio. Ma dopo mezz‘ora, madido di sudore, anche lui dovette arrendersi. Per vendicarsi di quello smacco, decise che con l‘ultimo bus rimasto, un leggendario Scenicruiser a due piani del 1955, avremmo fatto qualcosa di speciale. Lo portammo sul piazzale del deposito, lo lavammo e gonfiammo le gomme, che erano a terra. Poi Burt ci fece cenno di salire e ci portò a fare un giro per il centro. Una ventina di minuti più tardi lo Scenicruiser è parcheggiato davanti a una birreria, circondato da una folla di curiosi che lo toccano, lo fotografano. La cosa non deve stupire. Lo Scenicruiser non è una semplice corriera, ma un vero e proprio mito americano. È il simbolo per eccellenza della Greyhound, essendo stato introdotto nel 1954, quando la società dominava il mercato con più di seimila corriere in servizio e oltre 144mila chilometri di percorsi in Usa e Canada. Ai tempi, era un veicolo pieno di innovazioni tecnologiche: aveva due motori da quattro cilindri, la toilette di bordo, speciali vetri antiriflesso progettati dalla Nasa, e il piano superiore coi finestroni panoramici anche sul tetto, per dare ai passeggeri l‘emozione dei grandi spazi d‘America. Nei lunghi viaggi intercontinentali lo Scenicruiser era una specie di aeroplano terrestre, con due hostess, impianto radiofonico, cuscini e coperte gratis, prenotazione posti e un sistema intercom che permetteva all‘autista di intrattenere i clienti. C‘era persino una rivista di 66

bordo, si chiamava ―The Highway Traveller‖ e veniva distribuita gratis ai passeggeri. Erano gli anni cinquanta, l‘era dell‘ottimismo tecnologico e del fin ’n’ chrome, la cultura delle auto tutte pinne e cromature. Il ―‗cruiser‖ era la Cadillac DeVille dei poveri. Nelle campagne pubblicitarie dell‘epoca veniva descritto come una nave spaziale, in grado di ―volare su invisibili cuscinetti d‘aria‖ grazie agli ammortizzatori idraulici, e trasformare l‘abitacolo in un ―salotto perfettamente refrigerato e deodorizzato‖. Per qualche anno lo Scenicruiser dominerà le strade americane. Entrerà nel cuore di milioni di vagabondi del dharma. Ma neppure questa incredibile corriera, l‘ultimo levriero progettato dal grande Raymond Lowey, potrà far nulla contro il pericolo che arriva dal cielo. All‘inizio degli anni sessanta gli americani scelgono una nuova corriera: si chiama Boeing 707, e fa i novecento all‘ora. Allo stesso tempo l‘emergente classe media scappa dalle città e si rifugia nei sobborghi. I monumentali terminal della Greyhound si ritrovano improvvisamente abbandonati in quartieri pericolosi e fatiscenti. L‘immagine si sgretola. Quello che un tempo era un simbolo del futuro diventa una fotografia del passato. Ed è questa vecchia foto che abbiamo parcheggiato fuori dalla birreria.

Prigionieri della strada Di nuovo in viaggio, verso il Sud, sulla corriera che va a San Antonio. Sono felice di essere nuovamente per strada. Il ragazzo che mi siede accanto, un simpatico musicista texano interamente vestito di nero, dice che siamo tutti prisoners of the freeway, parafrasando una celebre canzone di Joni Mitchell. La corriera è piena di messicani diretti a Laredo, al confine. Sono quasi tutti norteños, pendolari che tornano a casa con i dollari guadagnati in America. I portapacchi sono carichi di televisori portatili ed elettrodomestici made in China. Da quando siamo partiti non ho sentito una parola d‘inglese. E la cosa non mi ha certo infastidito. È primavera nella prateria, e l‘Interstate 35 attraversa interminabili pascoli coperti di fiorellini gialli e blu. ―Ogni miglio è un magnifico miglio, ogni strada un nastro di velluto,‖ diceva un vecchio slogan del levriero. In questo momento, sembra piuttosto azzeccato.

67

8

Blacktop. Il manto nero. L‘asfalto. La parola più romantica del vocabolario americano. Può sembrare strano, ma è così. Per capire, basta andare all‘Ovest, in Arizona, nel Wyoming, nel New-Mexico, in tutti gli stati dove cielo e terra sono infiniti, e guardare verso il tramonto, in piedi nel mezzo di una piccola strada a due corsie, e considerare che quell‘esile nastro di cemento non arriva solo fino all‘orizzonte, ma continua, che so, per altri cinquemila chilometri, attraverso città, monti, deserti. In quell‘istante, forse, si riuscirà a cogliere il significato, così profondamente americano, di quella magica espressione. Un‘espressione antica, nata quando la maggior parte delle strade d‘America erano sterrate, e solo pochissime, le più importanti, erano coperte da un sottile strato d‘asfalto. Per milioni di persone, abituate ancora ad andare in giro a cavallo, quel manto nero steso sul territorio divenne un richiamo irresistibile. Significava partire, dimenticare il passato. Vivere sempre al presente, in movimento. Inseguendo quel sogno che, da sempre, va conquistato al di là dell‘orizzonte. Sto per andare a El Paso, sulla US 90, uno dei più famosi blacktop d‘America. Una piccola strada, oggi stretta e rovinata, che inizia in Florida e termina in California, correndo parallela al confine col Messico. È la strada di Easy Rider, dei bagliori misteriosi di Marfa, delle missioni gesuite fondate ai tempi dei conquistadores. Ma oggi è soprattutto la strada dei messicani. ―Vámonos!‖ esclama il conducente puntando l‘indice verso il sole che sta calando proprio di fronte a noi. ―Vámonos! A buscar el levante por elponiente!‖ Le parole di Cristoforo Colombo fanno il giro della corriera. Qualcuno ride. Molti non sanno nemmeno a cosa si riferiscano. Ma Raul Vega, autista con la passione per la storia, insiste. Cita altre frasi dal libro sull‘Epistula de insulis nuper inventis, l‘epistola datata 1493 in cui Colombo annuncia, senza saperlo, la scoperta del nuovo mondo. Stiamo per la68

sciare San Antonio. Andiamo a Del Rio, una piccola cittadina che sorge sulle rive del Rio Grande. E la gloriosa US 90 su cui viaggeremo, in confronto alle autostrade sinora percorse esprime proprio un altro mondo. È una stradina stretta e piena di buche, dove la corriera si ferma in continuazione a caricare, oltre alle persone, anche posta, ricambi d‘auto, sacchi di mais e scatole di pomodori. Al volante c‘è Raul, perfetto esempio di Tex-Mex: un uomo alto, distinto, con due superbi baffoni nerissimi. Fa questo percorso da più di trent‘anni, conosce la strada a memoria, sa tutto di tutti. Si veste da gringo – stivaletti, camicia da cow-boy e jeans – ma per ricordare a tutti da che riva del Rio Grande proviene porta una spessa cintura da vaquero, con una fibbia d‘argento stupendamente lavorata. Dalla cintura penzola un grosso coltello con il manico d‘osso, protetto da una fodera di pelle decorata con borchie d‘argento. ―È lì per far scena. Serve a calmare i clienti del venerdì sera. Quando me lo vedono legato alla cintola, si mettono subito tranquilli,‖ mi spiega quando si accorge che lo sto fotografando. Non gli dà fastidio essere fotografato, anzi, si mette in posa e mostra l‘orologio digitale a quattro funzioni che gli ha regalato la moglie Ester per il compleanno. Poi si gira verso il fondo della corriera, ripete la sua formula magica colombiana e ci porta sulla US 90. La corriera, ancora una volta, è piena di gente simpatica. Ci sono moltissimi messicani, un paio di soldati e qualche turista con il sacco a pelo. Tutti chiacchierano, si scambiano olive e patatine e ascoltano la voce limpida di Serena Quintanilla Perez, la grande stella della musica tejana, un genere che mescola liberamente polka, rhythm and blues, pop e musica tradizionale latina. Su questo autobus mi sembra di essere tornato bambino. Mi vengono in mente i brevi percorsi fatti con mia nonna sulle corriere dell‘Arfea, nelle colline del Monferrato. Anche qui si conoscono tutti, ognuno ha il suo soprannome, e le vecchiette vestite a festa si siedono ai primi posti e si raccontano gli ultimi pettegolezzi. Raul conferma la mia sensazione. Dice che da queste parti il levriero svolge ancora una funzione sociale, come ai tempi d‘oro della compagnia. Come allora, attraverso le rotte secondarie la corriera mantiene in contatto gli abitanti, spesso anziani, di tante piccole comunità che senza questo servizio sarebbero già state abbandonate da un pezzo. Mi spiega che il paese, il villaggio di campagna, in America, è ormai una rarità. ―Ricordo che quando ho iniziato a guidare i bus questa zona era piena di piccoli villaggi. Piccoli villaggetti messicani con qualche casupola, una 69

cappella e il cimitero. Ora ci sono solo città. Tante città isolate, circondate dal deserto. E ogni anno la Greyhound cancella qualche linea locale. Vogliono che tutti i bus siano degli express. Vogliono viaggiare solo in autostrada, quegli idioti di Dallas. Non hanno capito che il levriero serve per andare a scuola, per andare a trovare il fidanzato. Continuano a tagliare i servizi senza sapere quello che fanno. Sono tre anni che non viene un ispettore a controllare la situazione. E se quello non viene, come cacchio faccio io a far capire alla direzione che il mio bus è sempre pieno?‖ Mi giro indietro. Il bus di Raul Vega è gremito di persone che mangiano, chiacchierano e fanno il verso ai cantanti messicani che si esibiscono alla radio. I giovani in tiro, con il cappello da cowboy appeso allo schienale, raccontano storie alle ragazze e bevono birra, abbassandosi per non farsi vedere dall‘autista. Le mamme fanno la fila per il gabinetto, con i bambini in braccio che strillano perché devono essere cambiati. Non si sente una parola d‘inglese, anche se non tutti, sulla corriera, sono messicani. Al mio fianco, dall‘altra parte del corridoio, c‘è un curioso tipo grassoccio, che sorride in continuazione e parla con il vicino in perfetto spagnolo. È giovane, ma ha pochissimi capelli e la pelle, bianchissima, è bruciata dal sole. Maneggia senza sosta astucci contenenti occhiali da sole e da vista, con lenti molto spesse. A volte, quando deve consultare una delle mappe che ha in grembo, li usa in combinazione, inforcando sul naso due paia di occhiali alla volta e avvicinando la cartina a pochi millimetri dalle lenti. Ogni tanto si gira dalla mia parte, e mi fissa. Ricambio lo sguardo, lievemente imbarazzato, ma lui non abbassa gli occhi. Continua a fissarmi con un‘espressione strana. Poi mi dice qualcosa in spagnolo. Capisco che sta chiedendo scusa, non vuole essere maleducato, è solo che è bizco, cieco. Allunga la mano, l‘afferro e mi presento, usando il mio spagnolo molto approssimativo. ―Ah, allora sei italiano!‖ risponde in un italiano perfetto. E senza indugio inizia a raccontarmi la sua storia. Si chiama Danner, è svizzero, parla perfettamente inglese, spagnolo, tedesco, francese e italiano. Parla anche il romancio, la lingua neolatina del cantone dei Grigioni. Vive da diversi anni a Dallas, dove insegna lettere antiche all‘università. È solo al mondo, è cieco all‘88% e ha una gamba che non funziona granché. Ma è comunque un grande viaggiatore. I suoi genitori gli hanno lasciato una certa rendita, che lui usa per viaggiare. Ama i grandi viaggi in treno. Li ha fatti tutti. Mi parla della Transiberiana, dei treni nel Nord dell‘India, del vapore che porta alla Tierra del Fuego. Ma la sua preferita è l‘Indo-Pacific, quella che per gli aficionados delle rotaie è la 70

più famosa linea ferroviaria del mondo. Si chiama così perché attraversa tutta l‘Australia, da Sydney a Perth, congiungendo due oceani, l‘Indiano e il Pacifico. Mi racconta di due giorni e tre notti passati davanti al finestrino, a osservare il deserto centrale australiano. All‘epoca del viaggio i suoi occhi funzionavano un po‘ di più, ma la miopia era già fortissima, per cui quel paesaggio gli appariva sfocato, come un quadro astratto, formato da due strisce di puro colore: sopra il blu del cielo, e sotto l‘arancione del deserto. ―Era il mio dreamworld, la terra magica degli aborigeni che mi chiamava. Durante il viaggio leggevo Chatwin e pensavo che quella zona per me così imprecisa e variabile, dove cielo e sabbia s‘incontravano, nascondesse le mie personali songlines, le mie vie dei canti.‖ Danner ha fatto il giro del mondo nove volte. Ci fermiamo a prendere un caffè a Hondo, in un piccolo bar di fronte alla stazione degli autobus. Il caffè è buonissimo, specialmente quando è abbinato alle uova fritte e salsicce alla ―ranchero‖ che qui sanno fare alla perfezione, cioè carbonizzate al punto giusto. Sono ancora con Danner; mi affascina terribilmente questo viaggiatore attento e coraggioso. Dice che da El Paso andrà in Messico, sempre con le corriere. Vuole visitare i deserti di Sonora e Chihuahua. Il Messico, dice, è ancora una terra esotica, che gli ricorda l‘India. L‘America è troppo moderna e cattiva. Mi spiega che in Messico trova più persone disposte ad assisterlo. E poi laggiù i profumi sono più decisi. Danner parla in continuazione, mangia rumorosamente le sue salsicce e racconta di vecchi viaggi; di sensazioni, di odori e sfumature che io neppure immagino. Quest‘incontro per me ha il valore di una rivelazione. Ho sempre privilegiato la vista, e come fotografo ho imparato a interpretare tutto, persino le emozioni, in termini visivi. Gli occhi sono il mio strumento di lavoro e di piacere. Anche quando non ho la macchina fotografica al collo, posso indugiare godendomi l‘intensità di un riflesso, il taglio di un‘ombra. La possibilità di perdere la vista mi terrorizza, e l‘idea di viaggiare senza essere in grado di osservare le cose con precisione è per me improponibile. Ma adesso mi ritrovo a bere il caffè con un uomo, mezzo cieco, che ha visto più e meglio di me. Da Hondo andiamo a Sabinal e quindi a Uvalde, una tipica cittadina di frontiera con molti vecchi edifici raggruppati intorno alla main square, principale e unica piazza della città. Anche la stazione della Greyhound è affacciata sul piazzale. È formata da un grande capannone abbinato a un 71

minuscolo caffè, il Bus Depot Cafe, che sembra appena uscito da un racconto di Cormac McCarthy. Dietro al bancone di formica verde è appesa una tavola di compensato, alla quale avevano fissato una Colt calibro 45 e una decina di pallottole. Sopra alla pistola c‘è scritto: ―We don’t call 911‖, noi non chiamiamo il 113. Il manager del terminal, un affabile messicano di nome Angel, mi racconta che la stazione ha quasi sessant‘anni. L‘interno è incredibilmente spartano, un grande spazio vuoto con un distributore automatico di chewing-gum, qualche sedia e una bilancia da farmacia targata 1926. Ai muri sono appese decine di cartelli bianchi scritti a mano, che riportano, in spagnolo, il costo del biglietto per le principali destinazioni. L‘atrio è pieno zeppo di messicani, tutti uomini, vestiti con logori calzoni di tela e giacche da lavoro marroni. Tiro fuori la macchina fotografica e scatto qualche immagine. Quando i messicani si accorgono che li sto fotografando, metà di loro si copre il volto con le mani e schizza fuori del terminal, andando a nascondersi in una viuzza laterale. Il manager sorride e dice: ―È la metà che è senza il permesso di lavoro. Adesso vado a dirgli che non sei qui per loro‖. Dopo pochi minuti tornano e si fanno fotografare senza problemi. Mentre siamo fermi a Uvalde esco con Danner a fare due passi nello spiazzo antistante il terminal. Il sole è appena calato, e il cielo è coperto da un‘infinità di nuvolette tonde e tinte di un perfetto color magenta. È uno spettacolo notevole, anche se non particolarmente raro per quella parte meridionale del Texas. Danner mi dà un colpetto sulla gamba con il suo bastone bianco e mi chiede di descrivergli la scena. Faccio del mio meglio per fargli capire quello che sta succedendo sopra le nostre teste. Mi dice che per lui è troppo scuro. Vede solo delle ombre blu. Anche Raul è uscito a godersi lo spettacolo. Rimane con il naso per aria mentre orina rumorosamente contro un albero, poi ci mette le braccia sulle spalle e ci conduce verso la corriera, declamando che sì, quella parte del Texas sarà anche piena di spiriti, ma sono quasi tutti buoni. L‘ultimo tratto del viaggio per Del Rio si è trasformato in una specie di scampagnata con Danner seduto per terra, in corridoio, a dar sfoggio delle sue conoscenze storiche e linguistiche. Raul ha spento il condizionatore e ci ha dato il permesso di aprire i finestrini. Nella corriera entra a flutti l‘aria calda e meravigliosa che il deserto emana appena dopo il crepuscolo, e la corriera corre in perfetta solitudine sull‘asfalto bollente della US 90, la72

sciandosi dietro una scia di musica latina e un olezzo di tacos, sudore e toilette. Si è formato un gruppo di sei o sette giovani che tempestano Danner di domande, consultandolo come se fosse un‘enciclopedia. Fra questi c‘è Eunice, Eunice Estrada. Dimostra meno di vent‘anni, è piena di energia e ha degli splendidi occhi neri, vispi, che fa roteare in continuazione. È seduta nella fila dietro, ma si mette spesso in piedi sul sedile per attirare la nostra attenzione e farci vedere le foto del suo idolo, quella Serena Perez che a suo dire ha fatto breccia nella barriera d‘odio e indifferenza che da sempre governa le relazioni tra messicani e gringos. Serena è un modello per tutte le ragazze latine che vivono nella zona del confine, l‘unica donna ad aver avuto successo nel mondo chiuso e maschile della musica tejana. È bella, libera, e in un certo senso americana. Ma non ha tagliato i ponti con la cultura dei suoi genitori. Il sogno di tutte le ragazze chicane figlie di immigrati. Eunice si siede al mio fianco e mi fa ascoltare Serena live dal suo walkman. Poi mi chiede di raccontarle del mio lavoro. Anche lei lavora, in un supermercato. Confessa che i ragazzi che stanno parlando con Danner non le vanno molto a genio: sono tutti universitari, parlano difficile per farsi notare. Le dico che sono d‘accordo. È molto meglio lavorare. Sorride e annuisce. Ci scambiamo gli indirizzi. Per molti mesi riceverò le sue cartoline scritte a matita, da San Antonio, da Laredo, da Corpus Christi, che finiscono tutte con le stesse parole: Ciao amor, scusa per l‘inglese. E una lettera, scritta il giorno dopo la morte di Serena. ―Aveva ventitré anni, l‘ha uccisa la segretaria. I giornali di qui dicono che adesso anche noi latini abbiamo il nostro Lennon.‖

73

9

Quando arrivai alla stazione di Del Rio trovai la proprietaria del Motel Six che mi aspettava a bordo di una jeep. La cosa mi sorprese parecchio, perché quando avevo prenotato la stanza nessuno mi aveva avvertito che sarebbero venuti a prendermi. Ma la signora Nancy, una donna imponente con i capelli biondi e gli occhi azzurri, era un texana all‘antica; sapeva che ero in viaggio da molti giorni e aveva pensato di darmi una mano con i bagagli. Mentre andavamo verso la motel strip di Del Rio, un lunghissimo viale in mezzo al deserto con ai lati i brutti segnali al neon delle principali catene alberghiere, Mrs Nancy disse che, se volevo, lei conosceva qualcuno disposto ad affittarmi una macchina per qualche giorno, ―per evitare di stare sempre su quei terribili autobus‖. Risposi che la cosa mi interessava. La stanchezza era tornata a farsi sentire e in macchina avrei potuto visitare meglio la zona. Restai nel piccolo motel di Del Rio per tre giorni. Il primo giorno mi svegliai con l‘influenza e fui costretto a rimanere quasi tutto il tempo a letto, a guardare la tv appesa al muro, oppure sdraiato sul bordo della piscina del motel, una pozzanghera quadrata con due fenicotteri di plastica e l‘erba sintetica. Il secondo giorno mi sentii meglio e feci una gita nelle campagne dei dintorni. Del Rio è situata in una zona di confine anche da un punto di vista geografico: a est della città, nell‘interno, si trova una regione di verdi colline, ricca di torrenti e laghetti, dove i ranchers vanno a cacciare i cervi e le antilopi. A ovest invece iniziano le badlands, le ―terre cattive‖, un termine generico che gli americani usano per indicare le aree semiaride. Le badlands rappresentano il classico paesaggio texano: brullo, polveroso e apparentemente senza vita, almeno finché non ci si imbatte nelle mandrie di bestiame Hereford che, ancora oggi, sono la ricchezza e l‘orgoglio degli abitanti della zona. Non lontano da Del Rio, nel centro di un vasto ranch dove allevano ancora i longhorn, le vacche con le corna lunghe e aguzze dei film western, c‘è l‘Alamo Village, fedele ricostruzione del famoso fortino che sorge a San Antonio. Qualche giorno prima avevo visitato l‘originale. Decisi di andare a vedere anche la copia. Ci arrivai nel tardo pomeriggio, quando la maggior parte dei turisti se n‘era già andata. Un pachidermico newyorchese con un paio di videocamere al collo mi spiegò che il Village era stato 74

costruito nel 1959 per le riprese del film di John Ford e John Wayne L’Alamo, interpretato dallo stesso Wayne e Laurence Harvey. Ben presto anche gli ultimi turisti lasciarono il villaggio, e mi ritrovai a passeggiare in perfetta solitudine per il set. Dopo un po‘ le mucche che pascolavano nei dintorni vennero a farmi compagnia e iniziarono a brucare di fronte all‘Alamo. Alcune si coricarono e si misero a ruminare, appoggiando le pesanti e inutili corna contro il muro del fortino, che in quel momento sembrò un vero rudere, assolutamente autentico. Come spesso succede in Texas, la finzione era più evocativa dell‘originale. Il terzo giorno decisi di andare in Messico. La proprietaria del motel mi aveva parlato di Ciudad Acuña, la cittadina che sorge sulla riva sud del Rio Grande, proprio di fronte a Del Rio. Era una tipica cittadina di frontiera messicana: un tempo era stato un importante centro di scambi commerciali, ma oggi la sua unica funzione era quella di offrire agli americani del Nord una serie di locali dove andare a divertirsi e comprare tequila a basso costo. Ci andai di notte, come mi aveva consigliato la signora del motel, che però aveva subito avvertito: ―Attenzione. Laggiù può succedere di tutto. Chi si avventura da quella parte del fiume non sa quando torna‖. Era un‘esagerazione, naturalmente, ma anche una perfetta illustrazione del rapporto di odio e amore che i gringos hanno con il Messico, e la zona del confine in particolare. Quel border che per i messicani rappresenta la porta – sbarrata – della fortuna, per gli americani è invece qualcosa di molto più ambiguo e inquietante, un luogo misterioso dal quale si torna trasformati, segnati, a volte vinti. Secondo alcuni, per i texani la zona del confine con il Messico rappresenta l‘America com‘era ai tempi dei pionieri. Una terra aperta, indomita, ancora da conquistare, dove ci si può realizzare completamente, ma dove si rischia anche di finire schiacciati. Schiacciati dalla natura selvaggia, e dall‘impatto con la cultura antica e ostinata degli eredi dei conquistadores, che i gringos ufficialmente disprezzano ma in segreto invidiano. Attraversai il confine intorno alla mezzanotte. Sulla sponda americana un affabile poliziotto mi controllò il passaporto e mi lasciò passare senza timbrare il visto d‘uscita, altrimenti, spiegò, non sarei più potuto rientrare in America. Mi incamminai lungo il ponte. Dall‘altra parte si intravedeva una cittadina molto piccola, fiocamente illuminata. Anche il ponte era male illuminato, tanto che non riuscii a vedere le acque del Rio Grande che scorrevano placide al di sotto. La metà messicana del ponte era piena di sbarre e filo spinato, ma l‘ufficio doganale era deserto. Entrai in città. La strada principale era zeppa di macchine, sterrata e ricoperta d‘immondizia. Attra75

versai Ciudad Acuña puntando direttamente verso sud, e scoprii che il paese finiva all‘improvviso, come un brutto sogno. Dopo l‘ultima casa non c‘erano strade o insegne, c‘era solo il deserto. Il terribile deserto di Coahuila che si estendeva per centinaia e centinaia di chilometri. Ciudad Acuña era un minuscolo satellite che girava intorno al pianeta America. Sembrava esistere esclusivamente per gli americani. I segnali al neon dei bar e dei negozi di curios della strada principale, ad esempio, erano tutti rivolti verso gli States. Camminando dal fondo del paese verso il confine le strade erano completamente buie. Entrai in un bar a bere un paio di birre. La cerveza era in lattina, ma la servivano comunque con il bordo coperto di sale e innaffiato con succo di cedro. Il bar era pieno zeppo di americani, ragazzi e ragazze a vari gradi di disfacimento alcolico. Bevevano il mescal, la tequila con il verme. Svuotavano il bicchiere in un colpo solo e lasciavano partire urla lancinanti e interminabili, da invasati. La sbornia da tequila è la peggiore. Fa perdere completamente la testa. Il proprietario del locale e i suoi assistenti stavano seduti in un angolo, in disparte. Giocavano a carte e ogni tanto andavano a prendere una nuova bottiglia. Tornai in America. Il poliziotto simpatico che mi aveva fatto passare non c‘era più. Quello che aveva preso il suo posto, un giovane intento a leggere la pagina dei fumetti del giornale locale, diede uno sguardo veloce al mio passaporto e senza alzare gli occhi dal documento domandò: ―Quante?‖. ―Quante cosa?‖ ―Quante bottiglie.‖ ―Non ho comprato bottiglie di nessun tipo,‖ risposi. Alzò la testa e mi fissò sorpreso: ―Ma allora che diavolo è andato a fare dall‘altra parte?‖.

La diligenza Quattro del pomeriggio. Aspetto, insieme a una suora e sei uomini che lavorano in un ranch di Alpine, la corriera per Marathon, Alpine, Marfa ed El Paso. La stazione di Del Rio è così piccola che bastano poche persone per riempirla. Ci sono solo quattro sedie, per cui aspetto seduto su un sacco di patate diretto anche lui ad Alpine. I due impiegati della Greyhound sono fantastici; lavorano qui da quasi vent‘anni, e fanno ancora le cose come un tempo. I biglietti vengono compilati con cura, a mano. Nessun dettaglio 76

viene trascurato. Anche il sacco di patate ha il suo bel biglietto beige con su scritto destinazione, costo della corsa e contenuto: ―patate da friggere‖. Gli impiegati passano con una brocca di caffè. Uno si ferma a scambiare due parole con Mrs Nancy, che mi ha portato in jeep e sta aspettando di vedermi partire. Nancy è davvero una donna gentilissima, come nella migliore tradizione texana. Questa mattina, mentre mi preparava la colazione – cosa inaudita nei motel americani -, mi ha raccontato con ruvido senso dell‘umorismo il segreto della texan attitude, l‘approccio texano alla vita. ―Fin da piccoli ci mettono in testa che siamo i più tenaci, i più coraggiosi, i più corretti. Viviamo in un territorio benedetto dal Signore. Siamo lo spirito libero dell‘America. Cosa vuoi che ti dica, a forza di ascoltare queste fandonie, finiamo per diventare i migliori sul serio!‖ Il levriero arriva e si ferma sollevando una nuvola di polvere. L‘autista ci fa cenno di salire in fretta. La corriera ha un problema alla trasmissione e siamo in ritardo sulla tabella di marcia. Saluto la padrona del motel e salgo a cercare un posto in prima fila. È una stupenda giornata e voglio godermi la US 90 fino a El Paso. Lasciamo Del Rio e ci avviamo, molto lentamente, verso ovest. Il motore fa uno strano rumore, e per evitare ulteriori danni l‘autista ha spento l‘aria condizionata. Fuori ci saranno almeno quaranta gradi, e dentro una decina di più. Viaggiamo con la porta aperta per fare entrare un po‘ d‘aria. La brezza è calda e odora di creosote. Il paesaggio in questa regione del Texas è veramente superbo. Il deserto è puntellato di cespugli di creosote e, ogni tanto, si vedono dei piccoli cactus discoidali, con incantevoli fiori color pesca. L‘autista dice che da queste parti li chiamano horse-crippler, azzoppacavalli, perché hanno terribili spine uncinate, lunghe circa otto centimetri, che si infilano sotto gli zoccoli degli animali e sono impossibili da estrarre. Mi spiega che questi cactus sono rimasti solo nelle parti più remote del Texas, perché nelle altre zone sono stati sistematicamente estirpati per salvaguardare il bestiame. Quando ci fermiamo a caricare un pacco a una fermata in mezzo al deserto, l‘autista mi indica una di queste strane piante che cresce proprio sul bordo della strada. Penso di non aver mai visto un fiore più bello e delicato di quello del cactus azzoppacavalli. I petali, che vanno dal rosa all‘arancione, sono finemente frastagliati e velati da un‘impalpabile polverina che li rende più morbidi della seta. Il profumo è intenso e ricorda quello della vaniglia. 77

Ripartiamo, ma dopo qualche chilometro siamo di nuovo costretti a interrompere il cammino. Siamo sulla diligenza per El Paso, e dobbiamo fermarci spesso a caricare gente che sembra spuntare direttamente dal deserto. Sono tutti messicani. Aspettano per ore sul bordo della strada, sotto il sole infuocato, e quando vedono la corriera bucare i miraggi che danzano sul blacktop fanno un segnale con il braccio, e il levriero si mette a cuccia come un cagnolino. L‘autista apre il portone d‘ingresso, loro infilano la testa e con molta cortesia chiedono se possono salire. Poi montano e vanno a cercare un sedile verso il fondo, si siedono e senza proferire parola si mettono a lisciare lentamente il bordo di paglia del cappello che hanno poggiato sulle ginocchia. Ne è appena salito uno, non avrà più di sedici anni. Con molta cautela ha riposto il suo piccolo zaino sul portapacchi, ed è venuto a sedersi vicino a me. Controlla in continuazione i suoi documenti – è l‘unico che ha mostrato i documenti all‘autista – e divora con gli occhi il biglietto della Greyhound, un chilometrico tagliando dove sono riportate una quantità di fermate. Riesco solo a vedere la destinazione finale: Seattle, stato di Washington. Questo ragazzino sta per fare un grande viaggio. Lo osservo intento a leggere con un filo di voce tutte le fermate segnate sul suo biglietto. Poi lo ripiega con cura, sospira e sorride. Verso il tramonto, con un po‘ di ritardo, arrivammo a Marfa. Questo piccolo paese di case in stile adobe, fondato nel 1881 dalla ferrovia Texas & New Orleans allo scopo di costruirvi un fermata per l‘acqua, è famoso in tutto il Texas grazie a un fenomeno misterioso e tuttora inspiegato: le luci del deserto. Fin dai tempi degli indiani, infatti, la zona a sud di Marfa che qui chiamano The Big Bend, perché in quel punto il Rio Grande effettua una decisa curva a sinistra prima di scendere verso il Golfo del Messico, era considerata magica a causa dei bagliori emanati dal deserto subito dopo il tramonto. Nel 1883 il rancher Robert Ellison, primo bianco a registrare un avvistamento, descrisse le ―luci di Marfa‖ come delle specie di aurore in miniatura, principalmente di colore giallo-arancio, che correvano velocissime sulla sabbia. Da allora le luci di Marfa sono state viste centinaia di volte, in particolar modo durante la guerra, quando una squadriglia dell‘aeronautica era di base nella zona. I piloti che videro le aurore desertiche le battezzarono foo-fighters, convinti che fossero astronavi da guerra extraterrestri. In realtà, i misteriosi bagliori sono probabilmente degli esempi particolarmente bizzarri di ball78

lightning, le potenti scariche elettriche a forma di sfera recentemente scoperte dagli scienziati. Volevo vedere le luci di Marfa. Tirai fuori dallo zaino l‘enciclopedico orario della Greyhound e trovai che alle quattro del mattino c‘era un bus diretto a El Paso che fermava a Marfa. Decisi di scendere e passare la notte ad aspettare i foo-fighters. Mi incamminai in direzione sudest, sulla strada 190 che porta verso il parco nazionale di Big Bend. Era una splendida sera di primavera. Alla mia destra il sole aveva appena iniziato a nascondersi dietro le montagne della Sierra Grande. Sarebbe stato un tramonto irreale. Quando arrivai al punto indicatomi dall‘autista vidi che diverse persone mi avevano preceduto. Tra di loro c‘era Herb Riis, un allevatore di pecore con la passione della meteorologia. Non sapevo che in America ci fossero anche i weather-watchers, ma la cosa non mi stupì più di tanto. Herb girava per la zona del Big Bend con la sua macchina fotografica e registrava i fulmini, le trombe d‘aria e, naturalmente, le luci di Marfa. Mi disse di averle viste un paio di volte, ma di non essere riuscito a fotografarle adeguatamente. La sua specialità erano i twister, i tornado che in questa zona, soprattutto d‘estate, sono particolarmente comuni. Herb era un tipo interessante. Mentre aspettavamo che il sole calasse, mi raccontò che aveva partecipato all‘altro grande evento della storia di Marfa, le riprese del film Il gigante, il melodramma di George Stevens con Rock Hudson, James Dean e Liz Taylor. Nell‘estate del 1955, gli attori e duecentocinquanta membri della troupe avevano invaso Marfa per effettuare le riprese del film. Herb all‘epoca lavorava per il ranch Evans, la tenuta dove fu costruita Reata, la villa padronale di Rock Hudson. Disse che la maestosa Reata c‘era ancora, ma era completamente diroccata, così come i falsi pozzi di petrolio che erano stati costruiti apposta per il film. ―In quel periodo,‖ disse Herb, ―io ero un aiutante degli Evans, facevo un po‘ di tutto. In un certo senso quindi rappresentavo nella vita il personaggio di James Dean. Ma purtroppo in questa zona non c‘è una goccia di petrolio, e non sono diventato ricco come il protagonista del film.‖ Fu proprio durante le riprese del Gigante, che Dean, parlando una sera con l‘amico Dennis Hopper, rivelò il segreto del suo successo: ―Penso proprio di poter sfondare,‖ aveva detto a Hopper, ―perché vedi, in questo pugno – alzò la mano sinistra – c‘è Marlon Brando che dice Fuck you!, vaffanculo, e in quest‘altro – mostrò il destro – c‘è Montgomery Clift che dice 79

Please forgive me, perdonami‖. ―Fuck you!‖ ―Please forgive me.‖ ―Fuck you!‖ ―Please forgive me.‖ L‘attore allargò le braccia: ―E in mezzo ci sono io, James Dean‖. Quella notte le aurore del deserto decisero di manifestarsi altrove. Assistemmo, però, a un maestoso tramonto. Un arcobaleno scarlatto che durò un‘eternità e, morendo, ci regalò un esile raggio verde. Tornai a Marfa sul pick-up di Herb. La sua radio era sintonizzata sulla banda AM, al 1240, l‘unica stazione che si riesce a captare in questa parte di mondo. La stazione si chiama K-VLF. La sigla VLF sta per voice of the last frontier. La voce dell‘ultima frontiera.

80

10

Poco prima dell‘alba apparve El Paso, avvolta da una nebbiolina azzurra. Una metropoli senza confini, senza regole, stranamente ostile. Ma soprattutto una città soffocata dalle sue autostrade, che la attraversano in ogni direzione, stringendola in una morsa letale di traffico e smog. Fondata nel 1859 sulla pista della diligenza Butterfield per la California, El Paso si era sviluppata disordinatamente, fagocitando paesi e villaggi. Dalla corriera si vedevano minuscole chiese messicane spuntare dietro i capannoni dei supermercati Target e K-Mart, e persino un cimitero, un antico cimitero spagnolo con le croci di ferro battuto, schiacciato tra una stazione di servizio e i piloni di un‘autostrada sopraelevata. Più la corriera entrava in El Paso, più si aveva l‘impressione di addentrarsi in una terra sconfitta, conquistata. Una colonia che viveva sotto l‘occupazione degli americani. Ma la gente del Sud stava per riappropriarsene. Dappertutto si vedevano insegne in spagnolo e persone di origine latina, arrivate qui dalla ―vera‖ El Paso, la storica El Paso del Norte, la città dove i francescani, nell‘anno 1659, fondarono la missione dedicata a Nuestra Señora de Guadalupe, e che ora si chiama Juarez ed è, disgraziatamente, situata sulla sponda sbagliata del fiume. Il leggendario Rio Grande, che qui è un rigagnolo melmoso soffocato da imponenti argini di cemento, separa due mondi in costante lotta. Ogni mattina pattuglie di messicani attraversano i ponti che uniscono le due El Paso e vanno a guadagnarsi un pezzetto d‘America, per poi riportarlo sulla loro sponda all‘imbrunire. Naturalmente, sono molti quelli che cedono alla tentazione di restare sulla riva ricca del fiume. E, così facendo, di andare a ingrossare le fila dei guastatori che, lentamente ma inesorabilmente, stanno trasformando la colonia americana in un avamposto del Sudamerica. Dalla corriera ne scorgemmo un paio: due giovani donne in gonna e ciabatte, che stringevano al petto fagotti di stracci e correvano schivando come toreri i paraurti delle auto. Le strade che portano a El Paso sono piene di segnali gialli con l‘immagine di un uomo che corre. Indicano i punti dove i clandestini si insinuano negli Stati Uniti attraversando le sei corsie dell‘autostrada. 81

Alle sette e trenta arrivammo alla stazione, un moderno edificio che ricordava lo stile adobe tipico del West, circondato come un fortino yankee dalle puttane. Erano dappertutto, ed erano anche piuttosto aggressive. Appena il guidatore aprì la portiera si gettarono su tutti gli uomini abbordabili, seguendoli verso l‘uscita e offrendo la loro mercanzia con grande pragmatismo. Se sui gradini della corriera volevano dieci dollari per un blowjob, nel cortile antistante il terminal il prezzo era già calato a cinque. All‘interno della stazione scendeva a quattro, e all‘uscita crollava del tutto: due miseri dollari per un pompino. La solita faccenda della domanda e dell‘offerta.

Lo Stellone Dalla finestra della mia stanza d‘albergo non vedo altro che i tralicci di cemento dell‘Interstate 10 che va verso Los Angeles. Ma se esco sulla scala antincendio e mi arrampico fino all‘ultimo piano ho una splendida veduta di El Paso e di Ciudad Juarez, circondate dalle brulle montagne Franklin. Non è una vista tranquilla. Il fracasso del traffico, che striscia come un gigantesco serpente sull‘autostrada sopraelevata, è assordante. Ma è sempre meglio essere qui che non nella mia camera con le foto sbiadite dei cowboy della Marlboro appese sopra il letto, dove l‘unica cosa che funziona a dovere è la televisione. Sono appena tornato da un viaggio di approvvigionamento nei supermercati vicini all‘albergo. Magliette, mutande e medicine per combattere i raffreddori causati dai condizionatori dei bus. Odio queste escursioni nell‘America dei fast-food, delle catene commerciali con i negozi identici in ogni città, dei consumatori obesi e dei commessi beceri e zelanti che pensano solo alla commissione. Naturalmente, è questa la vera America. Il paese in cui, in questo preciso istante, stanno cercando di intrufolarsi centinaia di poveri disgraziati messicani. E che io cerco sempre di eludere. Ma a volte anche questa America insopportabilmente concreta regala qualche sorpresa. In un supermercato, per esempio, ho visto delle giovani chicane che consultavano il catalogo di vendita per corrispondenza dei grandi magazzini Sears. Lo sfogliavano molto lentamente, soffermandosi su ogni immagine. Il manager del negozio si è avvicinato e mi ha rivelato che stavano imparando l‘inglese. ―Per i messicani,‖ ha spiegato, ―i cataloghi della Sears sono come i dizionari. Ci sono migliaia di foto con vicino la parola inglese corrispondente. E per di più sono gratis.‖ 82

Dalla mia postazione vedo lo stellone del Texas, una gigantesca insegna luminosa appesa alla montagna che domina El Paso. Dall‘altra parte del fiume, anche la città di Juarez ha voluto incidere il proprio marchio nella montagna. È una frase, scritta con tante piccole pietre bianche sulla roccia scura: La Biblia es la verdad, llela!. La Bibbia è la verità, leggila. Durante il giorno i due emblemi sovrastano le rispettive comunità con pari efficacia. Ma quando scende la notte la scritta religiosa svanisce inghiottita dalle tenebre, e rimane solo lo stellone, a risplendere vittorioso e saccente, in tronfia solitudine. Il mattino dopo mi svegliai e andai a guardare fuori dalla finestra. Era una giornata plumbea e afosa. Il traffico correva lungo l‘autostrada con l‘intensità di sempre; un costante flusso di veicoli che procedevano alla stessa velocità, tenendosi alla stessa distanza, come se dietro la montagna ci fosse un gigante bambino a controllarli con un telecomando. Chiamai un taxi e andai alla stazione delle corriere, dove saltai su un bus diretto a Tucson, Arizona. Il bus, una volta tanto, era nuovo di zecca. Era anche semivuoto. Andai a occupare un paio di posti a metà corriera, con la schiena contro al finestrino per avere una buona visuale sia dell‘esterno che dell‘interno. L‘autista, un signore di colore con gravi problemi di pancia, stava armeggiando con le mani infilate nel pannello degli strumenti. Gli chiesi qual era il problema. ―Sto cercando di disinnescare il fottutissimo radar,‖ rispose. ―Li hanno montati su tutte le nuove corriere. Una rottura di palle che non ti dico.‖ Indicò una piccola scatola nera montata sul cruscotto, con due Led, uno rosso e uno verde. ―Durante la marcia normale c‘è la lucina verde,‖ spiegò l‘autista, ―ma se ti avvicini un po‘ troppo all‘auto che ti sta di fronte, si accende la luce rossa ed entra in funzione il radar, che inserisce il pilota automatico e fa rallentare il bus, ripristinando la distanza di sicurezza.‖ ―Niente male,‖ dissi. ―Male, male. Perché le distanze impostate da quei coglioni di Dallas sono ridicole. Se dovessi seguire quest‘aggeggio non farei mai un sorpasso. Ci impiegheremmo il doppio del tempo per arrivare a Tucson. Quindi, bisogna assolutamente staccare la spina.‖ Tornò ad armeggiare sotto la plancia, e con grande soddisfazione trovò il filo da tagliare. Lo fece, e dopo averlo isolato lo fissò sotto il volante. ―Così, se vengono gli ispettori, lo rimettiamo subito al suo posto,‖ disse facendo una smorfia. 83

Alle sette e quarantacinque, dopo aver fatto il pieno degli obbligatori hamburger e patatine – i viaggiatori Greyhound mangiano esclusivamente hamburger e patatine – partimmo alla volta di Tucson. Lasciammo El Paso dietro di noi e puntammo verso l‘Ovest e il vicino confine con il New Messico. Come durante il viaggio precedente, anche su questa tratta la corriera si fermava a raccattare gente che aspettava seduta sul bordo della strada. Messicani che salivano velocemente e andavano a nascondersi tra i sedili posteriori. Uno era vestito da vaquero: cappello di feltro bianco, gilè e cinturone con le borchie, baffo lungo e impomatato. Attraversò il corridoio con fare guardingo e andò a occupare la poltrona dietro alla mia. Quando vide che lo stavo guardando, mi salutò alzando il suo bel cappello. Poco prima del confine con il New Mexico l‘autista si fermò per l‘ennesima volta in mezzo al nulla. Anche in questo caso salirono dei latini, ma erano in divisa. Era una pattuglia del Border Patrol, l‘unità dell‘esercito incaricata di sorvegliare i confini, che veniva a fare un controllo. Tutto si svolse molto velocemente e in perfetto silenzio. All‘autista fu chiesto di spegnere il motore. Poi i poliziotti passarono per la corriera intimando di esibire i documenti. Chi li aveva, naturalmente, li mostrava. Chi non li aveva non apriva bocca, scuoteva la testa con aria rassegnata, e cominciava a recuperare le proprie cose. Uno di questi, purtroppo, era il vaquero col cappello di feltro. I poliziotti facevano segno di scendere, e quasi con la stessa rassegnazione raggruppavano i clandestini sul bordo della strada. Compilavano un paio di moduli e quindi facevano salire gli aliens, i clandestini, su un pick-up rosso. Doveva essere una scena piuttosto comune, perché quando riprendemmo la marcia nessuno fece commenti, a parte l‘autista che disse ridendo: ―Scommetto che domani li ritrovo di nuovo tutti, e negli stessi punti!‖. Entrammo nel New Mexico. Il confine non era segnalato, ma bastava guardar fuori dal finestrino per capire che eravamo giunti nel ―territorio incantato‖. The Land of Enchantment, è questo lo slogan che si è scelto lo stato del New Mexico. Un nome che descrive alla perfezione le montagne e le praterie incontaminate del Nuovo Messico, e soprattutto gli spazi, gli enormi spazi in cui basta scrutare fin dove arriva lo sguardo per sentire i muscoli rilassarsi, il cuore rallentare il battito, e la mente vagare, finalmente libera da ogni vincolo. In questi momenti le parole di Whitman, I inhale great draghts of space, The east and west are mine, and the north and the 84

south are mine,2 svelano tutti i loro segreti, e lasciano un sapore amaro, perché ci si rende conto che è in queste vedute senza fine che si nasconde lo spirito degli americani. Uno spirito libero che noi europei, abituati al paesaggio costruito, demarcato, vissuto, non riusciremo mai completamente a decifrare. L‘autista indicò la prateria.‖ Good country,‖ disse. ―Real good,‖ gli risposi. E non c‘era proprio altro da aggiungere.

Il tesoro di Bowie Le ore passano lentamente. Sulla strada per Tucson ci sono poche macchine, l‘autista guida semi sdraiato, in completo relax. Con un po‘ di fantasia ci si può illudere di essere soli, in questa prateria immensa, coperta di cespugli di tumbleweed, l‘erba selvatica che rotola per la pianura seguendo il vento. Di tanto in tanto se ne vedono a dozzine, di questi cespugli perfettamente rotondi, ammucchiati contro le staccionate di legno dei ranch. Da poco abbiamo oltrepassato il bivio per Truth or Consequences (Verità o Conseguenze), una cittadina così chiamata non perché, come sembrerebbe, appartenga all‘epoca d‘oro del West, ma in onore di un popolare quiz televisivo degli anni cinquanta, che si chiamava appunto così. Avevo programmato di andare a vedere com‘era, mi incuriosiva quel nome; ma arrivato al bivio ho deciso di rimanere sulla strada per Tucson e godermi la giornata splendida, la strada nella prateria e il bus quasi vuoto. Ci fermiamo spesso. Il più delle volte per ritirare o consegnare pacchi: scatole marroni che contengono oggetti d‘abbigliamento acquistati con i cataloghi di vendita per corrispondenza. Le stazioni Greyhound qui sono piuttosto misere. Sono tutte uguali, gabbiotti di legno con il tetto di lamiera costruiti accanto a piccole stazioni di servizio. Una la ricorderò a lungo: era piccolissima, con la scritta Greyhound tracciata a mano sul tetto di corteccia e una porticina che si chiudeva con un laccio di pelle. All‘interno, c‘era appena lo spazio per due rudimentali sedili di legno, ma chi aveva costruito questa minuscola capanna era comunque riuscito a montare, sopra i rispettivi sedili, due targhe con le scritte ―sala d‘aspetto per l‘Est‖ e ―sala d‘aspetto per l‘Ovest‖. Proseguiamo verso occidente, passando per Deming, Lordsburgh, San Simon e Bowie, che è già in Arizona. Bowie. Questo nome non mi è nuo2

Inalo grandi sorsate di spazio, / l‘est e l‘ovest sono miei, / il nord e il sud sono miei.

85

vo, mi pare di averlo sentito prima, ma lì per lì non riesco a ricordare altro. Entrando in paese, Bowie sembra assolutamente identica alle altre cittadine appena attraversate. La solita processione di case colorate di ocra, di sabbia, disperatamente aggrappate alla striscia d‘asfalto, al blacktop luccicante della US 90. Poi, improvvisamente, mi ricordo e comincio a guardarmi intorno con più attenzione. La vedo apparire quasi subito, tra un motel e una stazione di servizio. Incredibilmente è ancora in piedi, ancora in funzione. Ed è ancora una fermata dei bus. ―Ferma! Devo scendere!‖ urlo all‘autista che si sveglia dal suo torpore con uno scatto e inchioda l‘autobus facendo fischiare le ruote. Si gira verso il corridoio con l‘aria seccata, pronto a ricordarmi che questa non è più una fermata ufficiale, ma io sono già sceso, con le borse delle macchine fotografiche che dondolano sulle spalle e lo zaino che rotola giù dai gradini della corriera e finisce proprio davanti all‘entrata del Geronimo‘s Castle, il tepee, la stazione Greyhound più pazza d‘America. È proprio lei, la follia a forma di tenda indiana riprodotta sulla cartolina Court Teich che mi aveva regalato l‘autista Will Rodgers quando ero a Dallas. Mi ero completamente dimenticato che la corriera sarebbe passata di qui. Invece eccola, ancora in piedi, come negli anni quaranta, quando fu costruita per attirare i soldati che dalla Costa Est andavano, con le corriere, verso i centri di addestramento della California. Ragazzi giovani che vedevano il West per la prima volta, e avevano i soldi e la voglia di ubriacarsi a ogni fermata. E la birra del Geronimo‘s Castle era la più fredda della contea. Entro nel tepee con la vecchia cartolina in mano, quasi fosse un lasciapassare. L‘interno è fantastico. I muri sono verdi, ricoperti da un‘infinità di biglietti da un dollaro. È un‘antica tradizione dei bar americani: la mancia, o almeno parte della mancia lasciata sul bancone, viene appesa al muro. Dietro al bancone, addetta alla birra e alla tappezzeria, c‘è la signora Jeeney. È vestita da indiana. Avrà una cinquantina d‘anni, ma nel suo costume apache di cotone azzurro, coperto di gioiellini di argento e turchese, sembra una ragazzina. ―Welcome to the tepee!‖ esclama quando mi vede entrare carico di bagagli. ―Scommetto che arrivi da lontano!‖ ―Sì, da Pittsburgh.‖ ―Pittsburgh, accidenti se ne hai fatta di strada, con quel levriero. Dove sei diretto?‖ ―A Los Angeles. Ma penso che mi fermerò un po‘ a visitare il deserto di Sonora. Ho un debole per i deserti,‖ rispondo. 86

―Allora sei venuto nel posto giusto. Da qui in poi, seguendo la vecchia 90, è tutto deserto. Solo polvere, cactus, tarantole e serpenti a sonagli. Ma prima di andare ad arrostire, metti la tua roba nell‘angolo e beviti una delle famose birre gelate del tepee.‖ Bevo la birra. Mi faccio raccontare da Jeeney la storia del castello di Geronimo. Il tepee è datato 1942, epoca in cui in tutte le città americane di provincia avevano un bar, un negozio, una stazione di servizio costruita direttamente dai proprietari, con un gimmick, una trovata per attirare i clienti. Gli esperti di design dell‘epoca bollarono queste costruzioni come ―ridicoli esempi di atroce gusto popolare‖ ma oggi il vernacular style è di moda, i registi di Hollywood vi ambientano le storie pulp e gli architetti lo considerano un classico del design americano. Proprio per questo è bello essere qui a bere birra con Jeeney, nel castello che non è ancora diroccato, e non è ancora un museo per turisti. Finita la birra, usciamo e ci facciamo una foto con l‘autoscatto. Per riuscire a inquadrare bene il tepee devo piazzare il cavalletto in mezzo alla strada, ma non è un problema. La strada è una riga nera e dritta che taglia il paese in due, ed è completamente deserta. Facciamo la foto, poi rientriamo e ci scoliamo un‘altra birra. Quando esco, uno dei miei dollari di mancia è appeso al muro: Alex the italian ha scritto Jeeney sul biglietto verde prima di appiccicarlo sopra il bancone. Passo il resto della giornata a Bowie. Prendo una stanza allo Yucca Lodge Motel, scelto semplicemente perché nel cortile c‘è un grande cactus saguaro, circondato dai rami carichi di spine e di fiori scarlatti dell‘ocotillo, un arbusto che da queste parti è considerato al pari di un‘erbaccia, ma in realtà è una delle più belle piante grasse del nuovo mondo. La stanza è molto grande. Il letto, la tv portatile, le sedie e il tavolo di formica, tutto è ricoperto da un finissimo strato di polvere bianca. Il proprietario del motel, un uomo grassoccio con la barba lunga e la camicia aperta sulla pancia, si scusa dicendo che ultimamente di clienti se ne sono visti pochi. Non ci sono problemi, rispondo mentre getto lo zaino sul letto sollevando una nuvoletta impalpabile. Quando se ne va, spengo il condizionatore e apro la finestra che dà sul cortile dei cactus. L‘aria che irrompe nella stanza è fresca e pulita. Poso le macchine sul comodino, mi stendo sul letto e comincio a scrivere sul mio quaderno. Non c‘è niente di più piacevole di un pomeriggio passato a oziare in una stanza fresca e silenziosa, dopo tanti giorni di viaggio sull‘autobus. Prendo la macchina fotografica e la punto verso il fondo del letto, inquadrando la televisione spenta, il picco87

lo lavabo appeso al muro, i miei piedi scalzi. Mi viene in mente una foto di Robert Frank, una delle sue immagini più recenti e meno conosciute. È un‘istantanea, fatta con una macchina formato 5x7 pollici, in una camera di motel simile a questa. Incisa negli acidi della Polaroid c‘è una frase scritta con mano incerta: 4 a.m. Make love to me. Fra tutte le foto del Maestro, è quella che più amo.

Verso il Pacifico La strada per Los Angeles attraversa uno dei più grandi deserti del continente nordamericano, il deserto di Sonora, che inizia a sud di Needles, in California, e finisce poco prima di San José del Cabo, sull‘estrema punta meridionale di Baja California, coprendo un‘area geografica vastissima che sfiora i duecentomila chilometri quadrati. Due terzi si trovano in Messico, nello stato di Sonora, e il resto è diviso equamente tra gli stati americani della California e dell‘Arizona. Attraversare il deserto per consumare la notte sotto la luna, seguendo una provinciale stretta e dritta come un fuso, è uno dei modi di passare il tempo che preferisco. Questa sera, però, sulla strada c‘è qualcuno che ha intenzione di rovinare l‘atmosfera. Di tanto in tanto, quando la US 86 che percorriamo si avvicina al confine con il Messico, il buio viene squarciato dai fari di decine di pick-up e fuoristrada allineati sul ciglio della strada. Sono le auto degli americani che portano avanti, da anni e con sorprendente tenacia, una battaglia privata contro i messicani che approfittano delle tenebre e della desolazione di questi luoghi per entrare negli States. I vigilantes di light up the border campaign fanno esattamente quello che dice il nome della loro congrega: raggruppano una dozzina di veicoli, li parcheggiano sulla linea della frontiera e puntano i fari verso sud, ―accendendo‖ il confine. E se qualche messicano prova a passare ugualmente, dalle postazioni yankee parte una schioppettata che gli fa subito cambiare idea. Avevo sentito parlare di questi vigilantes, ma non li avevo mai visti in azione. Quando la corriera passa vicino ai loro pick-up carichi di fanali suonano il clacson, sventolano la bandiera a stelle e strisce, si alzano in piedi sul cassone e sollevano la lattina della birra, salutando con qualche ululato il nostro passaggio.

88

Good Morning Little Schoolgirl È carina e sa proprio di esserlo, la bionda che è appena salita sulla corriera per Los Angeles. Tutta vestita di nero, con i pantaloni bassi sulla vita e larghi in fondo, come piacciono alle ragazze nate dopo gli anni settanta. Ha uno splendido taglio di capelli, la pelle appena abbronzata e un viso che, visto di tre quarti, sembra perfetto. Fa finta di niente, apre il suo libro e si mette a leggere occupando due poltrone. Poi si gira a pancia in giù, con il libro appoggiato contro il finestrino e le gambe leggermente divaricate. Mi guardo intorno, e mi viene da ridere perché noto i neri con le magliette della Nba che hanno smesso di litigare, i vecchietti alla testa del bus che hanno smesso di dormire, e l‘autista che ha quasi smesso di badare alla strada e guida con gli occhi imprigionati dentro allo specchietto retrovisore, nel tentativo di sbirciare, anche lui, quel meraviglioso fondoschiena.

I finestrini Ultimo giorno. Sette ore di dormiveglia passate a guardare il deserto. Ho sempre amato guardare fuori dai finestrini. Quand‘ero piccolo vedevo gli alberi sfilare al di là del vetro e credevo che corressero più veloci delle macchine. Muovendo il capo e fissandoli con grande intensità (una specie di carrellata fatta con gli occhi) riuscivo infatti a convincermi che fossero loro a essere in movimento e non io. Stiamo attraversando la parte meridionale del deserto Mojave, in California. Fra qualche ora saremo a Los Angeles. Davanti ai finestroni panoramici della corriera si estende una vasta pianura sabbiosa, e mi accorgo che sto provando le stesse sensazioni di una volta, ma al contrario. Non è il movimento del paesaggio che mi fa credere di essere fermo, bensì l‘illusione della sua immobilità. Stiamo infatti penetrando un ambiente fuori dal mondo; il panorama è talmente spoglio che ci sembra di essere sempre fermi. L‘unico riferimento a nostra disposizione è la linea dell‘orizzonte, lontana, inutilmente nitida, impegnata a separare il blu del cielo dall‘ocra del deserto. Il deserto, qualsiasi deserto, non a caso è spesso il luogo preferito dai viaggiatori. Nel deserto l‘arte di viaggiare è distillata nelle sue componenti fondamentali. È qui che ci si illude di poter trasformare in realtà una cosa splendida e impossibile: muoversi, muoversi senza mai arrivare. 89

Seconda parte STERRATI

90

Two roads diverged in a wood and I – I took the less travelled by, And that has made all the difference. Robert Frost

91

11

Il suo nome era Eusebio Francesco Chino. Era nato a Segno, un piccolo paese di montagna non lontano da Trento. Come tutti i giovani di buona famiglia della sua epoca, aveva frequentato il collegio dei gesuiti di Hall, vicino a Innsbruck, e poi, all‘età di vent‘anni, era entrato a far parte della Compagnia di Gesù. I gesuiti lo mandarono a terminare gli studi in Baviera, presso le università di Monaco e Ingosland, dove seguì corsi di teologia e matematica dimostrando una notevole predisposizione per la cartografia pratica. Il giovane Chino riusciva a riportare su carta qualsiasi paesaggio, con sorprendente esattezza. Finiti gli studi, venne il momento di trovare un‘adeguata occupazione all‘interno della Compagnia. Padre Chino chiese immediatamente di andare missionario nelle Indie. Aveva sempre sognato di vedere l‘Oriente e viaggiare per le terre descritte da Marco Polo. Per sei volte supplicò il padre superiore di lasciarlo partire. Per sei volte la sua richiesta fu respinta. Finalmente, ben sedici anni dopo la sua ordinazione, gli fu offerto un passaggio oltreoceano. Ma non si trattava delle tanto sospirate Indie. I padri superiori gli spiegarono che il suo destino era altrove e lo spedirono, suo malgrado, verso ponente, a esplorare le terre sconosciute e selvagge dove andava a morire il sole. È l‘anno 1681. Francesco Chino si imbarca per la Nueva España, e una volta giunto a Città del Messico si aggrega a una carovana di soldati, preti e coloni diretti a ovest, verso ―l‘isola‖ di Baja California. Alla fine del diciassettesimo secolo la California meridionale è ancora considerata un‘isola, collegata via nave alle coste occidentali del Messico. La spedizione guidata da Isidro de Atondo ha un esito disastroso. La siccità, la terribile arsura che colpisce il deserto di Sonora nell‘estate del 1685, decima i coloni e li costringe a tornare indietro. Ma la natura selvaggia, gli immensi spazi e soprattutto le popolazioni indigene incontrate sulla strada per il Pacifico, lasciano un segno indelebile nel cuore del giovane missionario. Tornato a Città del Messico Francesco Chino, che ha ormai preso il nome spagnolo di padre Francisco Kino, cerca di convincere il viceré e i suoi superiori a non abbandonare gli indiani californiani, e ottiene il permesso 92

di partire per la provincia di Pimería Alta, una regione scarsamente esplorata che corrisponde all‘attuale stato messicano di Sonora. Secondo la leggenda viaggia a cavallo in completa solitudine, attraverso i deserti più duri del continente americano. Nel 1687 fonda la sua prima missione, Nuestra Señora de los Dolores, vicino a un villaggio pima. Gli indiani pima e papago, più sedentari e abbordabili dei feroci comanche e apache, sono i suoi prediletti. Kino porta ai pima utensili per l‘agricoltura, cibo e sementi, e si batte contro i grandi proprietari terrieri che li hanno ridotti in schiavitù e li usano nelle miniere di argento del Río Bacanuche. Nel 1692, seguendo verso nord il letto arido del Río Santa Cruz, giunge a un villaggio papago situato in fondo a una valle ombrosa, dove sgorga una fresca e rara sorgente. Il villaggio si chiama Stjukshon o Chuk Shon, che significa ―il posto della fonte in fondo alla montagna‖. La moderna Tucson deve il suo nome a quell‘antico villaggio. Padre Kino si comporta da buon missionario. Costruisce chiese, battezza gli indigeni, reprime le rare rivolte. Ma non dimentica l‘antica passione per l‘esplorazione e la geografia. Nel 1694 il suo sistema di pueblos e missioni non è ancora completo, ma riesce comunque a effettuare qualche spedizione verso occidente, alla ricerca di una pista leggendaria che secondo alcuni indiani pinacatenos e arenenos – entrambi clan della tribù papago – porta a una terra lontana, una terra fresca e verde che si trova al di là di un deserto lavico durissimo, totalmente arido. Nel 1540 il capitano Melchior Diaz, alla testa di un distaccamento delle truppe di Coronado, era andato in cerca di questa pista. Gli indiani mostrano a padre Kino le corazze e i resti mummificati dei conquistadores, morti di sete in un territorio che battezzeranno mal pais. La strada per l‘Ovest lo ossessiona. Negli anni successivi continua a percorrere, a cavallo e a piedi, un territorio immenso, pari a cinquantamila miglia quadrate, penetrando sempre più nelle tierras incognitas. Il grande talento per la cartografia gli salva la vita in più di un‘occasione. Segnare con precisione ogni pozza, ogni torrente sotterraneo dove si può scavare alla ricerca di un poco d‘acqua, significa sopravvivere in un territorio abbandonato dagli stessi indigeni. Nel 1705 un editore parigino pubblica la sua mappa, una piccola cartina apparentemente insignificante che tuttavia rimarrà in uso per oltre un secolo. Su di essa sono segnati, per la prima volta, il corso del fiume Colorado e tutte le principali missioni della Pimería Alta; ma soprattutto è riportata la pista, il terribile cammino nel deserto che 93

porta fino all‘orlo del mondo e prova, una volta per tutte, che la California non è un‘isola. El Camino del Diablo. La leggenda vuole che sia stato padre Kino, l‘uomo di fede, l‘impavido padre on horseback – così lo chiamano gli americani – a dare questo nome terribile e allo stesso tempo stupendo alla pista nel deserto. È possibile che sia andata così. L‘idea del missionario che va, solo, incontro ai demoni della natura selvaggia è senz‘altro evocativa. Ma probabilmente El Camino, la pista più dura e pericolosa dell‘Ovest, l‘ultima grande strada sterrata rimasta in America, deve il suo nome ai successori di padre Kino. Gli spagnoli che nel Settecento la usarono per andare a fondare la città di San Francisco, i fortyniners impazziti per l‘oro scoperto nel 1849 a Sutter‘s Mill, e più tardi i cercatori di pietre preziose del fiume Colorado che, arrivando nella zona e vedendo gli scheletri sbiancati dal sole di uomini e animali, devono aver pensato che quella era proprio la strada che portava all‘inferno. Nel 1855 un soldato americano, il luogotenente N. Michler, riportò nel suo diario di viaggio che seguire El Camino del Diablo non era difficile: ―A volte il vento del deserto copre di sabbia la pista, ma la Morte ha gettato sul terreno una linea continua di ossa, di vertebre, di teschi, di carcasse emaciate di buoi e cavalli, come tante macabre pietre miliari lasciate apposta per marcare il cammino‖.

L’occhio del lupo Sono seduto su una tomba nel deserto a sud di Ajo, un centinaio di chilometri da Tucson. È una tomba molto piccola, senza croce. Credo che qui sotto abbiano seppellito un bambino. Poco lontano ci sono altri due tumuli di pietra, più grandi, sovrastati da una croce di legno nera. I genitori. Anche loro vittime del Camino del Diablo. Il sole di mezzogiorno illumina la scena con implacabile chiarezza. La temperatura supera i 40 gradi all‘ombra, il che significa che su questa tomba assolata ci devono essere almeno 50-55 gradi. Mi alzo, mi allontano di qualche metro e bevo un sorso d‘acqua fresca dalla mia borraccia. Non mi va di bere sulla tomba di qualcuno che, probabilmente, è morto di sete. Mi incammino verso occidente seguendo, come il luogotenente Michler, la fila di croci e sepolcri che indicano la strada a chi si avventura su El Camino. La macchina l‘ho lasciata indietro. È un‘inutile Chrysler a trazione posteriore presa in affitto 94

tre giorni fa quando, arrivato a Tucson con l‘autobus, avevo deciso di scendere e andare a perdermi per un po‘ nel deserto di Sonora. A volte, nel mezzo di un viaggio, si sente il bisogno di fare una pausa. A me questo capita soprattutto quando attraverso una regione desertica. Sento odore di creosote, di fiori di cactus, e sono costretto a mollare tutto per andare a vagabondare su qualche sentiero sterrato. Ho lasciato le mie cose in un motel di Tucson e sono venuto qui, a vedere ciò che è rimasto della pista scoperta da padre Kino. Avrei dovuto affittare un fuoristrada, ma costava troppo. E poi è bello camminare, dopo tanti giorni passati sulle corriere. Adoro ascoltare il rumore del terriccio che si comprime sotto le mie scarpe. Soprattutto quando questo rumore ritmico e lieve è l‘unica cosa che rompe il silenzio assoluto di un paesaggio lunare, fuori dal mondo. Sono vicino a Tinajas Altas, il più importante accampamento della strada per Yuma. La parte più difficile e famosa del Camino è quella che va da Sonoyta, in Messico, a Yuma, in Arizona. Quasi centotrenta miglia attraverso un territorio che alterna montagne, dune di sabbia e preistoriche colate di lava, che ancora oggi vengono chiamate mal pais. Per i viandanti dei secoli scorsi El Camino era proprio una scommessa con il diavolo. Gli accampamenti dove si poteva sperare di trovare acqua erano pochissimi, e molto distanti l‘uno dall‘altro. Agua Dulce, dove scorre il Rio Sonoyta, era l‘ultimo rifornimento sicuro per chi si incamminava verso Papago e Tule Well, pozzi spesso prosciugati, e quindi Tinajas Altas – le alte taniche – dove nove grosse buche naturali in cima a una montagna granitica assicuravano oltre diecimila galloni d‘acqua piovana. Ma i viandanti necessitavano di due galloni d‘acqua al giorno per sopravvivere, e Tinajas Altas era quasi alla fine del percorso. Nessuno ci arrivava in buone condizioni. Molti non ci arrivavano per nulla. E chi riusciva a raggiungere le montagne scopriva che la tortura non era finita. Se le pozze più in basso erano asciutte, infatti, bisognava scalare il granito per raggiungere quelle proprio in cima al monte. Un‘impresa sovrumana per chi era già sconvolto dalla sete e dalla stanchezza. Ai piedi della montagna di Tinajas Altas si trova la più grande concentrazione di tombe del Camino del Diablo: sessantacinque persone, tutte sepolte a pochi metri da migliaia di litri d‘acqua. Uccide ancora, El Camino. Nel luglio del 1980 tredici immigrati clandestini salvadoregni si avventurarono sulla pista per Yuma, sapendo che non è controllata dalla polizia di frontiera. Morirono tutti. Sul Camino sono sta95

ti contati quattrocento tumuli, e si calcola che siano più di duemila le persone che, durante l‘ultimo secolo, persero la scommessa fatta col diavolo. Ma non c‘è solo la Morte, nel deserto di Sonora. Questa regione è considerata, giustamente, la più bella dell‘intero Sudovest. Proprio perché è così selvaggia. Il tratto tra Las Playas e Tinajas Altas, ad esempio, è immutato da migliaia d‘anni. E la vista che ho davanti agli occhi, con le montagne di Cabeza Prieta coperte di cactus cholla, saguaro e organ-pipe, è esattamente quella che hanno scrutato gli indiani, i pionieri, lo stesso Kino. In questa stagione, inoltre, il deserto indossa il suo abito più elegante. primavera, e molte specie di cactus sono in fiore. Anche da lontano riesco a osservare ogni fiore, ogni spina, con una precisione sorprendente. È un effetto psichedelico. Chiarezza: ogni cosa, in questo luogo, è perfettamente nitida e tridimensionale. La luce di mezzogiorno è crudele, affila la vista, costringe a guardare ciascuna pietra, ciascuna pianta, come se fosse la sola cosa al mondo. In questo ambiente estremo la natura ha eliminato il superfluo, per cui tutto quello che rimane assume una presenza straordinaria. C‘è molto ordine qui. Forse è per questo che amo così tanto i deserti. Fotografare, come mi ripeteva sempre Ralph Gibson nel suo studio minimalista a Manhattan, significa eliminare il superfluo dall‘inquadratura. Il deserto è ordine. La fotografia è ordine. Mi siedo a mangiare qualcosa vicino a un gruppo di cactus cholla. Sono coperti di fiori bellissimi, gialli come il sole. Intorno alle piante svolazzano miriadi di api. Queste api vivono in simbiosi con il cholla e si nutrono esclusivamente del nettare dei suoi fiosi. Per questo motivo devono far coincidere la loro intera esistenza con il periodo della fioritura. Nell‘arco di un paio di settimane le api nascono, si accoppiano e iniziano a costruire il nido per la prossima generazione. Intorno ai cholla ci sono già migliaia di nidi scavati nella sabbia: piccoli cunicoli sovrastati da esili torri alte un paio di centimetri, costruite posando un granello di sabbia sull‘altro. Sembrano delle vere e proprie sculture, ma il loro design è assolutamente funzionale. Perché questo è anche il periodo in cui si riproduce una mosca, una mosca molto opportunista e un po‘ pigra, che volteggia sul nido dell‘ape cholla bombardandolo con le sue uova. Se colpisce il bersaglio le sue larve cresceranno divorando i piccoli dell‘ape. Tra animali e piante si formano strane alleanze, quando la natura li costringe a sopravvivere in un ambiente ostile. I fiori bianchi dell‘imponente cactus saguaro, per esempio, sono notturni e profumano di melone. Questo 96

perché vengono impollinati dai fruit bats, pipistrelli notturni che normalmente si nutrono di frutta e arrivano in questa zona dal Messico, ogni primavera, esclusivamente per il nettare del saguaro. Con l‘aiuto dei pipistrelli il saguaro produce una moltitudine di pitahayas, frutti grossi e polposi, pieni di piccolissimi semi. Sono frutti commestibili. Gli indiani papago, che oggi si fanno chiamare tohono O‘odham, che vuol dire il popolo del deserto (il nome papago viene del messicano e significa mangiafagioli), da sempre utilizzano la polpa dei frutti del saguaro per fare sciroppi, marmellate e un vino molto dolce e alcolico, che usano per le loro cerimonie propiziatorie. Per gli indiani, il saguaro è così importante che il loro anno religioso inizia nel mese di maggio, che chiamano hahshanie mashad, il mese del frutto maturo. E ogni cactus che cresce nel deserto, secondo la tradizione, rappresenta l‘anima di un indiano. Prendo un sentiero secondario, fermandomi ogni tanto a scattare qualche fotografia. La luce è forte, le scene molto contrastate. Diminuire la sensibilità della pellicola, aumentare l‘esposizione, diminuire il bagno di sviluppo: se Ansel Adams fosse ancora al mondo, in questo momento sarebbe fiero di me. Scopro uno spuntone di roccia dove cresce un saguaro alto venti metri. Sullo sfondo, la valle è tappezzata di cactus e cespugli di mesquite. Monto il cavalletto e mi siedo ad aspettare che il sole scenda a modellare questo paesaggio preistorico. Passano le ore. L‘aria si rinfresca, ma allo stesso tempo la terra si scalda, va in ebollizione, rilascia con violente vampate il calore trattenuto durante la giornata. Faccio le mie foto, smonto l‘attrezzatura e prendo la via del ritorno. Il sole sta calando, è una palla rossa che mi cuoce le guance. Improvvisamente mi trovo faccia a faccia con un coyote. Rimaniamo entrambi immobili, fissandoci negli occhi. Il sentiero è stretto e né io né lui sembriamo sapere chi ha la precedenza. Fisso i suoi occhi gialli, il suo manto marrone chiaro un po‘ spelacchiato. Lui ricambia lo sguardo. Sembra essere in imbarazzo. Abbassa il muso, poi lo rialza e, sempre fissandomi, comincia ad avanzare. Rimango immobile. Quando è a un paio di metri di distanza lascia il sentiero, mi aggira, e quindi riprende la pista. Con la coda degli occhi lo vedo fermarsi, voltarsi per controllare che io non lo segua, e continuare tranquillo per la sua strada. Arrivo alla macchina e inizio a sistemarmi per la notte. Il motel è troppo lontano, preferisco dormire qui. Quando mi corico sul sedile posteriore della Chrysler noto che le mie orecchie hanno finalmente smesso di fischiare. È incredibile, quanto tempo si impiega a riabituarsi al silenzio. 97

12

Pare che alcune persone sappiano viaggiare meglio di altre. Che abbiano una ricetta, un segreto che trasforma ogni viaggio in un‘avventura indimenticabile. Personalmente, non sono così fortunato. Non ho segreti. Solo un umilissimo metodo. Consiste nello scegliere una destinazione, e poi andare da un‘altra parte. Faccio un esempio. Sono stato un‘infinità di volte a vedere il Grand Canyon, ma non mi è mai piaciuto. Ho sempre considerato quel luogo una fotografia tridimensionale per turisti. Poi, una fredda mattina d‘autunno, mi capitò di passare in macchina nella zona meridionale del Canyon, nel punto dove scorre il Little Colorado, e scoprire una forra più piccola, molto stretta, creata dal torrente prima di andare a congiungersi con il più celebre fratello. Fu una rivelazione. Naturalmente quella piccola gola era qualcosa di insignificante, al confronto della Disneyland geologica che dava spettacolo pochi chilometri più a nord, ma averla vista per caso, averla ―scoperta‖ in perfetta solitudine l‘aveva trasformata in qualcosa di particolare. Era il mio piccolo grande canyon. La sorpresa, a mio avviso, è una componente fondamentale del viaggio. E in quest‘epoca di overdose televisiva e informatica, l‘unico modo di regalarsi qualche sorpresa è quello di arrivare, di tanto in tanto, impreparati, disinformati, vuoti. Andare a perdersi. Negli Stati Uniti, il posto migliore per andare a perdersi è sulle strade sterrate di una riserva indiana. Quella navajo, in Arizona, è un‘enorme fetta di deserto intersecata da centinaia di piste polverose, senza un semaforo né un‘insegna. E il passatempo preferito della popolazione è dare indicazioni sbagliate ai pochi bianchi che decidono di avventurarsi oltre i limiti dell‘immancabile, mostruoso visitor center. Ma prima di provare il piacere di perdersi, bisogna trovare la riserva. Non è difficile. La birra delimita i confini delle riserve americane. Viaggiando in auto, è un gioco da ragazzi individuare il punto in cui finisce il territorio degli Stati Uniti e inizia quello dei nativi: è quando i fossi ai lati della strada si riempiono di bottiglie e lattine di Bud, Miller, Michelob, Coors, Red Stripe e Labatt. Gli indiani amano ubriacarsi di birra. E non esiste ubriaco più ubriaco di un indiano che ha bevuto troppo. Non è colpa loro. È un vero e proprio difetto – se vogliamo chiamarlo difetto – del loro 98

patrimonio genetico. Non reggono l‘alcol, tutto qui. Un paio di birre sono sufficienti a trasformarli in tristi beoni traballanti. Perché è sempre una sbornia triste, quella che si prendono gli indiani. Non potrebbe essere che così. Le riserve sono dei ghetti; non c‘è lavoro, le case costruite dal governo sono una vergogna e l‘assistenza sociale e sanitaria è alquanto al di sotto degli standard nazionali. Solo nelle riserve indiane ho visto svolazzare per le strade i volantini che avvertono la popolazione dell‘ultima epidemia di peste bubbonica. Ed è sempre in una riserva che ho trovato una strada composta esclusivamente da pawn shop, uffici di pegno dove gli indiani lasciano di tutto, dai gioielli alle scarpe. Ma nonostante questo, le riserve sono i luoghi in America che preferisco. Forse perché, ogni volta che ho attraversato una regione indiana, ho avuto la fortuna di fare incontri ed esperienze fuori dal comune. Come al New Querino Trading Post. Ci arrivai, come da copione, per sbaglio. Ero in viaggio con Gibì, un grande amico alla sua prima esperienza sulle strade d‘America. Attraversavamo in auto il Sudovest, seguendo il più delle volte improbabili stradine non asfaltate, e naturalmente ci perdevamo in continuazione. Un giorno, dopo esserci salvati dall‘ennesimo impantanamento grazie a un‘indiana apache al volante di un mastodontico pick-up coperto di ruggine, ci dirigemmo verso nord ed entrammo senza accorgercene nella riserva navajo. Vagammo per ore senza mai spostarci granché, ingannati dal labirinto di piste senza nome che ricopre le riserve dell‘Ovest. Poi giungemmo presso una costruzione bassa e squadrata, ricoperta di lamiere blu. Aveva una porta sprangata e due piccolissime finestre. Decidemmo che forse il gestore di quella scalcinata stazione di servizio avrebbe potuto aiutarci a trovare una strada asfaltata. Entrammo e, invece di una stazione di benzina, scoprimmo il New Querino Trading Post. L‘interno era malamente illuminato da una manciata di luci al neon e il condizionatore, che andava al massimo facendo un baccano infernale, creava un‘atmosfera siberiana. Raccolti nella penombra, intorno a una stufa di lamiera spenta, c‘erano una decina di indiani infreddoliti, avvolti in coperte e giacche a vento, che guardavano una partita di pallacanestro alla tv in bianco e nero del negozio. Quest‘ultimo era diviso in due zone ben definite. Una piccola, dove c‘era il televisore e una bacheca di vetro piena di gioielli navajo, e un‘area molto più grande, una specie di emporio pieno di merci di tutti i generi: commestibili, indumenti, attrezzi agricoli e scatole di perline di vetro colorate. Alla cassa dell‘emporio sedeva una giovane indiana con un grembiule a quadretti. Dietro alla bacheca dei gioielli, invece, 99

c‘era il proprietario, un meticcio vestito da perfetto cow-boy ma ricoperto di bracciali e monili indiani. Quando ci vide entrare, posò sulla bacheca le sue carte – stava facendo l‘inventario – e si mise a fissarci con i gomiti appoggiati al vetro. Gli indiani che guardavano la televisione si girarono verso di noi, e la ragazza dietro la cassa scattò sull‘attenti come se fossero arrivati due generali. Al New Querino Trading Post le facce nuove erano una rarità, e non erano sempre bene accette. Tanto per rompere il ghiaccio, acquistammo dalla commessa dei cracker e un paio di lattine di Coca. Poi ci avvicinammo al banco dei gioielli per parlare col padrone. Solo allora ci rendemmo conto del tesoro custodito in quella povera bacheca di vetro. Sopra un panno di velluto rosso erano accatastati senza particolare riguardo bracciali, collane e fibbie in argento massiccio, decorati con grossi frammenti di turchese. Le forme erano le stesse dei gioielli in vendita nei negozi per turisti di Gallup e Flagstaff, ma il colore del turchese e la qualità dell‘argento erano completamente diversi. Questi monili erano fatti con argento antico, argento ricavato fondendo le monete da un dollaro coniate alla fine del secolo scorso. Vedendo il nostro stupore, il proprietario scoperchiò la bacheca, e senza dire una parola ci mostrò alcuni dei pezzi più belli. Mi ritrovai tra le mani una fibbia a foggia di ferro di cavallo, pesantissima, e una collana con pendenti a forma di fiore di zucca, il fiore sacro dei navajo. Gioielli indiani di quel tipo, fino ad allora, li avevo visti solo nei musei. Lo dissi al padrone. Lui sorrise e rispose che quella non era mercanzia per turisti. Erano gioielli che gli indiani si scambiavano fra loro, arrivati a lui in pegno o in pagamento di qualche servizio. ―Benvenuti al New Querino,‖ disse il proprietario, ―non so come diavolo abbiate fatto a trovarci, ma avete appena messo piede nell‘ultimo vero trading post d‘America.‖ Ci porse una mano color caffellatte, piena di anelli e bracciali, e noi la stringemmo. Poi salutammo con un gesto gli indiani che guardavano la televisione e ci mettemmo a chiacchierare e a bere Coca con John ―Smokey‖ Williams, il meticcio, l‘ultimo indian trader d‘America. Era un uomo alto, asciutto, muscoloso. Il perfetto cow-boy delle illustrazioni dei libri sui cow-boy. Era simpatico, orgoglioso e sbruffone, come tutta la gente migliore del West (almeno, quella che piace a me) e parlava male degli indiani. Soprattutto prendeva in giro la decisione di ribattezzare la riserva ―Navajo Nation‖. ―Loro dicono che questa è la loro nazione,‖ ci disse, ―ma è solo una frottola. La verità è che l‘uomo bianco è venuto qui e ha preso questa terra. Ha portato via tutto a questa gente e gli 100

ha lasciato come casa solo un pezzo di deserto. Questa è una prigione, altro che stato indipendente.‖ Parole dure, che avrebbero fatto inorridire i giovani americani politicamente corretti, quelli che si ostinano a chiamare gli indiani native Americans, anche se in tutti i viaggi fatti nelle loro terre io non ho mai sentito uno, neppure un indiano usare quel termine. In realtà, Smokey era perdutamente innamorato di quel pezzo di deserto e della gente che lo popolava. Mentre parlava con noi teneva d‘occhio gli indiani che guardavano la pallacanestro e di tanto in tanto ci lasciava per andare a riempire di caffè bollente la tazza di qualcuno rimasto a secco, oppure per accompagnare al bagno un vecchio un po‘ insicuro sulle gambe. Quando entrò una giovane donna con una camicetta di velours viola e una lunga gonna nera dalla quale spuntavano due scarpe da tennis nuove di zecca, il proprietario ci chiese scusa e disse che ne avrebbe avuto per un po‘. Si alzò dalla panca dove ci eravamo seduti e andò dalla donna, che lo aspettava con la sua mercanzia vicino alla vetrina dei gioielli. L‘indiana aveva steso sul vetro due piccoli tappeti di lana beige, decorati con i tradizionali disegni geometrici dei navajo. Smokey esaminò i tappeti con cura, tirandoli lungo i lati, strofinandoli con le dita per assicurarsi della qualità della lana, e usando il bordo della bacheca per controllare che gli angoli fossero a novanta gradi. Poi parlottò con la donna, e dopo una breve contrattazione le porse alcuni frammenti di turchese e un bigliettino di carta su cui aveva scarabocchiato una cifra. L‘indiana lasciò i tappeti sul tavolo, prese uno degli sgangherati carrelli dell‘emporio e cominciò a girare per gli scaffali, riempiendolo di indumenti da lavoro e roba da mangiare. Il proprietario ripose la mercanzia in una stanzetta sul retro, già piena di tappeti di tutti i tipi, e tornò da noi. ―Non so più dove metterli,‖ disse indicando il ripostiglio, ―ne ho la casa piena e non riesco a venderli perché costano troppo. Ma mi piacciono da impazzire, e un sacco di queste donne non sa fare altro.‖ Allora capimmo che cosa intendeva il meticcio quando ci aveva detto che quello era l‘ultimo vero trading post d‘America. Avevamo appena assistito a un baratto, il più antico e pacifico rapporto di scambio tra un bianco e un indiano d‘America. Eravamo esterrefatti. Assistere a una scena del genere, dentro una misera capanna di lamiera, nel cuore del paese più ricco e tecnologico del mondo, aveva quasi dell‘incredibile. Quel giorno comprai dal trader la fibbia d‘argento incastonata di turchese. Con gli anni è diventata un amuleto molto amato, che porto quasi tutti i giorni. Feci amicizia con Smokey. Tornai a trovarlo molte volte, 101

sempre con difficoltà, perché le piste della riserva sono ogni anno più rovinate e più numerose. Ma il New Querino è ormai una tappa obbligatoria. Anche se devo fare una deviazione di un centinaio di chilometri, cerco sempre di passare qualche ora sotto quel tetto di lamiera. Ogni volta che arrivo il meticcio è un po‘ meno asciutto e qualche ruga in più solca la sua pelle color caffellatte. Ci sediamo sulla panca e mi racconta che cosa è successo durante l‘anno: chi ha lasciato la riserva, chi è morto, quante volte si è rotto il vetusto condizionatore del negozio. E ogni volta che vado a trovarlo mi indica una pista, un canyon dove cresce il mais blu degli indiani e dove posso andare a perdermi in compagnia della mia macchina fotografica. In alcuni casi sono rimasto sorpreso dalle sue scelte. Un‘estate, ad esempio, mi mandò a visitare una pianura brulla, completamente deserta a parte qualche mobile home, le case mobili in cui vivono i navajo. Tristi relitti su ruote abbandonati al vento. Le ho fotografate. Ma solo più tardi ho scoperto che quelle case abbandonate erano dei mausolei. Quando muoiono, i navajo vengono lasciati nelle loro abitazioni; i famigliari portano via tutto ciò che è trasportabile, sigillano le porte e lasciano il defunto nel suo giaciglio, nella sua dimora, per sempre. Mi sento a mio agio nelle riserve. Ho l‘impressione di essere finalmente circondato dai legittimi proprietari del paese. Solo qui ho la certezza di essere in America. La mia, naturalmente, è la solita ossessione per la storia, le tradizioni, ―l‘originale‖. Gli americani non hanno di questi problemi. Per loro gli indiani non esistono. Non è una questione di razzismo, è semplicemente che la popolazione indigena è ormai troppo piccola, frammentata e, paradossalmente, troppo poco violenta per registrare una reazione nella Middle America. Le minoranze nere, ispaniche e asiatiche hanno monopolizzato i pensieri – e gli incubi – dell‘americano medio. Per gli indiani non c‘è più spazio. L‘ultima volta che passai per il New Querino Trading Post incontrai un giovane navajo che, con penosa lucidità, mi illustrò il dilemma suo e della sua gente. Si chiamava Mikey – il nome indiano evitò di rivelarmelo – ed era stato ingaggiato da Smokey per badare alle pompe di benzina di fronte al negozio. Mikey aveva la pelle rossa, dettaglio che può sembrare curioso sottolineare eppure che mi colpì perché è ormai raro vedere un indiano che non abbia, almeno in parte, del sangue bianco. Mikey era un vero pellerossa ma si vestiva normalmente, con jeans, T-shirt e cappellino da baseball 102

della compagnia petrolifera Phillips 66, messo di traverso. Non portava collane o bracciali, non aveva neppure il cinturino dell‘orologio in argento e turchese come va tanto di moda nelle riserve. Forse questo era perché lui non aveva bisogno di sottolineare le sue origini. Il colore della pelle, i capelli lisci e nerissimi, il naso un po‘ schiacciato non lasciavano dubbi. Mikey era orgoglioso di essere indiano. Ma era anche stufo. Mentre aspettavamo che qualcuno sbucasse dalla polvere per venire a fare benzina, cercò di spiegarmi cosa significa essere un giovane pellerossa, oggi. ―È una fottuta maledizione,‖ iniziò, ―per gli americani vecchi sei un poco di buono, ubriacone scansafatiche senza altro da fare nella vita che ritirare l‘assegno di sussistenza e spenderlo al saloon. Per i giovani, invece, sei lo sciamano che ascolta gli umori della terra, che interpreta i sogni e parla con le aquile – e poi magari riporta la conversazione sul sito Internet per la gioia di qualche ragazzina di San Francisco. Per voi europei, che avete i paraocchi quasi quanto gli americani, sei lo spirito libero, il guerriero che combatte contro l‘imperialismo yankee, che deve sempre e comunque odiare, lottare e non dimenticare mai, ma proprio mai, di essere oppresso. È una situazione ridicola. Io ho diciannove anni, non ho mai visto un‘aquila in vita mia, se la vedessi forse non saprei neanche riconoscerla. Okay, mi sta bene rispettare le mie tradizioni, ma ormai è sempre più difficile vivere nelle riserve da persona ‗normale‘. O diventi un bianco, vivi come loro, pensi e sogni come loro, oppure passi la vita a mangiare topinambur, fare collanine e sentire i nastri con i coyote che ululano. Non ci sono vie di mezzo. Per uno come me, che non vuole andare via ma desidera un lavoro normale, che ne so, un lavoro nell‘amministrazione locale per esempio, il futuro non promette niente di buono.‖ Negli ultimi anni gli indiani d‘America, soprattutto quelli dell‘Est, hanno trovato il modo di spezzare questo circolo vizioso. Quello che non hanno sortito le rivolte e i proclami dei divi di Hollywood, lo hanno ottenuto le slot machine. Sono le case da gioco, il bingo, il poker e il blackjack, le armi con cui gli indiani di oggi stanno conquistando una nuova, insperata indipendenza economica. I consigli degli anziani, che sono come i parlamenti delle varie tribù, hanno scoperto un cavillo legale che permette alle riserve di erigere e gestire case da gioco. Per le tribù che confinano con stati dove il gioco d‘azzardo è illegale, ciò significa una miracolosa, inarrestabile, cascata di dollari che, grazie ai dividendi – nelle comunità indiane tutto viene diviso equamente -, raggiunge ogni famiglia. 103

È una grande rivincita. E non è l‘unica. Negli Stati Uniti ci sono ancora piccole comunità che sono riuscite a sopravvivere e prosperare nonostante non abbiano mai ricevuto alcun aiuto da parte del governo federale. Una parte della tribù miccosukee, parenti dei seminoles che vivono nella palude degli Everglades, in Florida, non ha mai firmato il trattato di pace con gli Stati Uniti d‘America. Si tratta di poche famiglie, orgogliosi e testardi discendenti dei Trail Indians, i miccosukee fuggiti negli Everglades alla fine del secolo scorso per eludere le leggi e i preti dei bianchi. Una parte di loro è ufficialmente riconosciuta come tribù, con il suo indian village, la tribal police, il bingo e tutto il resto. Ma alcuni continuano a rimanere del tutto indipendenti. Tecnicamente, sono gli ultimi indiani liberi degli Stati Uniti. Anni fa mi capitò di passare qualche pomeriggio con loro, grazie a un‘amica antropologa che stava preparando un archivio fotografico della tribù. Trovai gli ―indipendenti‖ diffidenti e anche un po‘ antipatici. E pensai che fosse giusto così.

104

13

Si chiama dromomania, la malattia che induce chi ne è afflitto a vagabondare senza mai fermarsi, spinto dall‘abnorme, irrefrenabile impulso di rifuggire ogni tipo di sedentarietà. Ma gli americani preferiscono usare una parola meno arida, una parola splendida e intraducibile, per illustrare questa condizione: è wanderlust, termine composto da wander, vagabondare, e lust, ossessione, desiderio. L‘incarnazione della wanderlust, il dromomane per eccellenza, in America, è l‘hobo. Questo personaggio mitico, poco conosciuto al di fuori degli Stati Uniti, rappresenta per gli americani quello che il cow-boy rappresenta per il resto del mondo. Ma a differenza del cow-boy, la cui epopea si è consumata nell‘arco di venticinque anni, l‘hobo è stato il padrone spirituale dei grandi spazi d‘America per oltre un secolo. Il prototipo di tutti i viaggiatori del nuovo mondo nasce alla fine del secolo scorso, con la conquista del West da parte della ferrovia. La strada ferrata, infatti, appartiene ai sogni degli americani tanto quanto il blacktop. Agli inizi del ventesimo secolo il treno, a differenza dell‘automobile, era a portata di tutti. E i convogli americani lanciavano un richiamo irresistibile, un fischio cupo simile alle sirene dei piroscafi, che scatenava nei giovani delle città di provincia un improvviso attacco di wanderlust. C‘è un antico proverbio del Kansas secondo il quale ―ogni treno che passa va verso una terra magica‖. La locomotiva attraversa la prateria, tirandosi dietro un‘interminabile fila di vagoni merci, e quando si avvicina alla città, una qualsiasi città sperduta in mezzo al nulla, lascia partire il suo rauco sibilo. I ragazzi lo sentono, e si appostano vicino ai binari, appena fuori la stazione. Sanno che il convoglio deve rallentare, quando attraversa il paese. Prima che abbia ripreso velocità partono all‘attacco. Si arrampicano sui vagoni, rompono i sigilli dei portoni e si mettono al riparo. Ora anche loro sono diretti verso la terra promessa. Senza spendere un cent. L‘hobo è il ragazzo che viaggia a sbafo sui treni. Non sorprende, quindi, che la prima pubblicazione in cui viene descritta la vita del pirata dei binari sia un rapporto del 1878 intitolato ―Scioperanti, Comunisti, Vagabondi e Detectives‖, di Allan Pinkerton, l‘uomo più odiato dagli scioperanti, co105

munisti e vagabondi dell‘epoca. L‘agenzia di detective privati Pinkerton, il cui motto era ―Siamo sempre all‘erta‖ e il cui simbolo – il sinister eye, un occhio sinistro sempre aperto – ispirò il termine private eye, era in costante lotta con i cosiddetti ―elementi indesiderabili‖. Composta da oltre trentamila uomini – tutti armati – l‘agenzia Pinkerton era un vero e proprio esercito privato, assoldato dagli industriali per reprimere nel sangue gli scioperi, e dalle compagnie ferroviarie per tenere i vagabondi lontano dai binari. Father Was Killed by the Pinkerton Men, una canzone hobo di inizio secolo, la dice lunga sulla reputazione degli uomini di Pinkerton. Per le ferrovie e i poliziotti l‘hobo non era altro che un portoghese, uno scarafaggio da eliminare appena se ne presentava l‘occasione. Ma gli scarafaggi hanno la brutta abitudine di moltiplicarsi velocemente. Nel 1890 c‘erano sessantamila hobo in America. Quando la Depressione colpì, divennero milioni. Per un breve periodo riuscirono a creare una comunità nomade con un proprio sindacato, un giornale (l‘―Hobo News‖), una scuola (l‘Hobo College), e una tradizione orale simile a quella delle Corporations de Guerserie dell‘Europa medievale. L‘hobo ispirò decine di libri e saggi, che a loro volta servirono da musa per migliaia di giovani apprendisti scrittori e vagabondi. London, Kerouac e Algreen viaggiarono sui treni merci per periodi più o meno lunghi, e Neal Cassady, il capostipite della beat generation, morì sui binari, il 4 febbraio del 1967, fuori dal villaggio messicano di San Miguel de Allende. Già all‘inizio del secolo la biblioteca del vagabondo americano era ben fornita. L’autobiografia di un super-tramp, di W.H. Davis, è del 1893. Di due anni prima è Main Travelled Roads di Hamlin Garland, mentre la collezione di canzoni e poesie, Songs of the Outlands, fu pubblicata a Los Angels nel 1914. Ma il volume più conosciuto è sicuramente The Road, pubblicato nel 1907 da Jack London, romanzo basato su un racconto autobiografico uscito tre anni prima sul ―Wiltshire Magazine‖. Tra il 1930 e il 1945 vi fu una vera e propria esplosione di racconti di avventure sui treni. Il richiamo dei binari era così forte che nel 1931, Nels Anderson, un accademico partito con l‘intenzione di scrivere un trattato di sociologia, finì per pubblicare The Road of Milk and Honey, il manuale pratico del vagabondo. Neanche lui, però, riuscì a scoprire l‘origine della parola hobo, che rimane avvolta dal mistero. Un pamphlet del 1942 sostiene che hobo proviene dal latino per buon uomo (homo bonus), mentre Nickolas Klein, un tempo presidente dell‘Hobo College, era sicuro che il termine derivasse da hoe-boy (zappatore), perché quasi tutti gli hobo si gua106

dagnavano da mangiare facendo lavori saltuari nelle fattorie. La spiegazione più plausibile la dà Tom Minehan, autore di Lonesome Road, altro classico della letteratura hobo, che in quel romanzo trova il modo di spiegare come si tratti della contrazione di lo-bro (hello brother), tradizionale saluto dei vagabondi americani. Se questo è il significato di hobo, una cosa è certa: oggi l‘espressione più corretta sarebbe goodbye, brother. L‘hobo infatti è quasi completamente scomparso dalle strade americane. L‘avventuriero che salta sui treni in corsa sfidando bielle e stantuffi è stato rimpiazzato dal senzatetto stanziale, relitto umano che vive nelle scatole di cartone e vaga per le città spingendo i carrelli dei supermercati. Una figura che ispira esclusivamente gli assistenti sociali e i missionari dell‘Esercito della Salvezza.

Alverman Non ho mai visto un hobo all‘opera, e sono convinto che mai lo vedrò. Ne incontrai uno, però, nella stazione Greyhound di Tucson, Arizona. Era un uomo sulla cinquantina, basso, con uno strano cappellino di feltro in testa. Venne a sedermi accanto e si appoggiò alla mia spalla, cercando di guardare la tv a gettoni che avevo appena acceso. Con la coda dell‘occhio vidi che portava delle scarpe da boscaiolo con la punta di metallo, e che sotto la salopette di jeans non aveva la camicia, ma una giacca sdrucita di montone che lasciava intravedere il torace magrissimo, nudo e pieno di rughe. Mi fu subito simpatico, perché si lamentò a voce alta dell‘aria condizionata. Allora girai lo schermo verso di lui e attaccai bottone. Gli chiesi come si chiamava, e lui rispose che si era inventato troppi nomi per ricordarsi quello giusto. Così lo battezzai Alverman. Mi ricordava moltissimo il personaggio televisivo che vedevo da piccolo, con quei vestiti da spaventapasseri e il viso asimmetrico, un viso stanco dal quale spuntavano due occhi grandi, castani, pieni di vitalità. Dentro la giacca di montone aveva nascosto delle bottigliette minuscole, che contenevano liquori colorati. Ogni tanto ne tirava fuori una e beveva una sorsata. Quando cercai di scoprire dove era diretto rispose che non andava da nessuna parte. Entrava nelle stazioni della Greyhound per usare il gabinetto, e per vedere un po‘ di televisione. ―In questi terminal passa gente così malmessa,‖ confessò, ―che uno come me riesce a non dare nell‘occhio.‖ 107

All‘inizio Alverman non pronunciò la parola hobo, si presentò anzi come rubber-tire tramp, vagabondo con le route, perché da un po‘ di anni girava per gli stati del Sud al volante di un rottame arrugginito, in cerca di lavori saltuari. ―Un tempo davo una mano in campagna, nella stagione del raccolto, ma ora faccio soprattutto piccole riparazioni. La provincia è piena di vecchiette che hanno bisogno di qualcuno che gli metta a posto il tetto. E io costo poco.‖ Ma l‘automobile non era stata il suo unico mezzo di trasporto. In passato, quando era giovane, aveva attraversato gli stati dell‘Ovest, più un pezzo di Canada, appeso come un pipistrello a un convoglio merci. ―Sono figlio d‘arte,‖ attaccò, ―mio padre era uno che non poteva stare mai fermo. Da giovane viveva nel New Mexico, lavorava come tuttofare nei ranch. Era uno violento, capace di cavalcare un paio di giorni per raggiungere le cittadine del confine e immischiarsi in qualche sparatoria. Per un breve periodo aveva anche fatto il mercenario, in Messico, con Pancho Villa. Lo pagavano bene. Diceva che aveva messo da parte un mucchio di dollari, e che alcuni erano ancora sepolti laggiù. Quel territorio era così selvaggio che non era più riuscito a trovarli. Comunque, un giorno decise che era stufo della prateria e si trasferì a San Diego. Io sono nato in California, nel 1932. Da piccolo lavoravo con il mio vecchio. Aveva aperto un‘officina meccanica, ma era quasi sempre via di casa. E quando tornava, ubriaco fradicio, per me e mia madre era dura. La nostra officina era vicino alla stazione della ferrovia. Ogni giorno guardavo passare i treni, e quando potevo mi arrampicavo sui serbatoi dell‘acqua per leggere i messaggi lasciati dagli hobo. Su quei serbatoi erano riportate tutte le informazioni utili per scroccare un passaggio sulle rotaie: i nomi dei treni, gli orari, le città dove la polizia lasciava correre e quelle dove era meglio non fermarsi. E poi c‘erano le firme, i nomi dei road kids, gli apprendisti, e quelli dei profesh, gli hobo professionisti, l‘aristocrazia della strada. Cincy Kid, Irish Joe, Maddog Pepe, e un sacco di BHB, Box-car Hill-Billy, che era il mio preferito. In quegli anni – era appena finita la guerra – le strade erano ancora piene di vagabondi e di poliziotti che gli davano la caccia. La giungla, il congo, che sarebbe l‘accampamento fuori dalla stazione merci dove si ritrovano gli hobo, era dall‘altra parte dei binari. Ci andavo raramente, perché i poliziotti passavano spesso e pizzicavano tutti quelli che trovavano. Ma quando era tutto 108

tranquillo strisciavo sotto un cespuglio e osservavo i vagabondi che facevano la mulligan, la zuppa di verdura a cui tutti contribuivano con qualche ortaggio rubato al mercato. Mi affascinavano, ma mi spaventavano anche. Dal mio nascondiglio vedevo i punks, giovani, magri e con la faccia spaventata, poveri disgraziati costretti a lavorare per qualche anziano e sottostare alle sue angherie. A me bastava mio padre. Per farla breve, il vecchio trascurò a tal punto l‘officina che andò tutto in malora. Non c‘erano soldi, lui si ubriacava in continuazione, e io decisi di andarmene. Non avevo un cent, quindi l‘unica via di uscita era la ferrovia. Il giorno che decisi di filarmela preparai come uno scolaretto la mia attrezzatura. Presi ago e filo, strappai una vecchia camicia e cucii diverse tasche segrete nella mia giacca impermeabile, che riempii di sapone, caffè, giornali per ripararmi dal freddo, sacchetti di sale, e una bottiglietta di acqua e zucchero per tenermi su di morale. Avevo tredici anni. Partii nel pomeriggio; ricordo che faceva un caldo infernale. Invece di aggrapparmi a un treno in corsa, andai verso un convoglio in deposito. Il macchinista era seduto per terra, all‘ombra dei binari. Era un mingherlino di colore. Mi avvicinai tremante e gli dissi che dovevo lasciare San Diego, perché i miei erano troppo poveri e non potevano più mantenermi. Lui mi squadrò da capo a piedi, poi fece un gesto col pollice e disse: ‗Salta là dentro‘. Salii e mi piazzai nell‘angolo in fondo a un vagone vuoto. Quello fu il mio primo giorno da hobo. Pensavo che la vita sui binari sarebbe stata un gioco da ragazzi, ma mi sbagliavo. Nei giorni successivi scoprii che quel macchinista era l‘eccezione, non la regola. Imparai a diffidare dei ferrovieri, e scoprii cosa volevano dire gli hobo della giungla quando si vantavano di aver ‗tenuto‘ un treno. Devi capire che per un vagabondo fare un viaggio significa ingaggiare un guerra d‘astuzia con i ferrovieri e la polizia delle stazioni. Per ‗tenere‘ il treno e completare il viaggio bisogna avere doti fisiche e strategiche non indifferenti. Soprattutto al momento della partenza. Se ti apposti troppo vicino alla stazione, i ferrovieri sono all‘erta e ti sbattono giù dai vagoni, che è una cosa che non consiglio di provare a nessuno. Ma se sei troppo lontano la velocità del treno in partenza ti impedirà di attaccarti. Devi scegliere il punto esatto dove tu SAI di poter effettuare l‘abbordaggio, ma dove i ferrovieri PENSANO che sia impossibile. E ogni volta che il treno si ferma, devi saltare giù, correre dall‘altra parte della stazione e ripetere il trucco. 109

Naturalmente, è sempre più difficile. Perché se il macchinista ti ha visto i suoi compari stanno in guardia fin quando il treno ha raggiunto la velocità massima, e tu rimani a piedi. L‘hobo che riesce a ‗tenere‘ un convoglio per l‘intero tragitto ha compiuto un vero capolavoro.‖ Gli chiesi se lui ci era mai riuscito. ―Mai,‖ rispose. ―Quando io viaggiavo sui treni avevano già iniziato a cambiare i vagoni, soprattutto nella zona tra gli assi delle ruote e il pavimento, dove un tempo ci si poteva nascondere. C‘erano sempre meno appigli, e i treni andavano sempre più forte. Troppo pericoloso per i miei gusti. Dopo qualche mese passai alle strade. C‘erano un sacco di macchine in giro e la gente non era diffidente come adesso. Bastava tirar fuori il pollice per andare da una parte all‘altra del continente.‖ Gli domandai se aveva fatto sempre il vagabondo. ―Certo che no, cosa credi. Mi sono sposato due volte, ho avuto case a Lexington e a Minneapolis. Per non parlare dei figli. Ma non ha funzionato. Una quindicina d‘anni fa ho ripreso a girare. Sarà forse per colpa di quella cosa, come si dice? Il richiamo della foresta?‖ Bevve un altro po‘. ―Sono persino tornato sui treni con un paio di amici, ma solo per poco. C‘era questo mio amico che aveva un piano fantastico. Aveva intuito che era ormai passato il tempo in cui la gente viaggiava di straforo sui treni, e che i ferrovieri di oggi non ci pensavano neppure a controllare i binari. Così siamo tornati sui treni. Viaggiavamo nei vagoni merci, ma solo negli stati caldi, perché nessuno di noi era giovane. Non avevamo noie da nessuno e viaggiavamo come dei pascià. Quando arrivavamo in una città cominciavamo a raccogliere: la mia specialità erano le lattine d‘alluminio. Le portavamo al deposito comunale, e quelli ci davano abbastanza per comprarci da mangiare. Era un lavoraccio, ma col fatto che ci muovevamo in continuazione riuscivamo a guadagnare a ogni fermata. In pochi mesi ho rivisto un sacco d‘America. Paesaggi che non vedevo da quand‘ero ragazzo. Ma poi abbiamo dovuto smettere. Uno di noi era malandato, e la gente aveva cominciato a trattare l‘immondizia come se fosse oro. Oggi questi maledetti ecologisti non buttano più via niente. È stato allora che ho capito che non potevo più fare il portoghese. Così ho comprato il rottame e ho iniziato i miei giretti nei sobborghi. Qualsiasi cosa piuttosto che andare a finire i miei giorni in un rifugio o in una missione piena di vecchi suonati. Sai 110

cosa cantavamo, da giovani, quando quelli dell‘esercito della salvezza cercavano di arruolarci?‖ I don ‘t care if it rains or freezes I’ll be safe in the arms of Jesus I can loose my shirt and britches He’ll still love us sons-of-bitches Am I Jesus’s little lamb? Yeah, you goddam right I am!3 Aveva finito le boccette. Mi chiese dieci dollari per un refill. Glieli diedi. Anche se la sua storia non fosse stata del tutto vera, valeva sicuramente dieci dollari.

3

Non m'importa se piove o gela / starò bene tra le braccia di Gesù / anche se dovessi perdere camicia e pantaloni / Lui amerà lo stesso i figli di puttana come me. / Sono l'agnellino di Gesù? / Sì, ci puoi scommettere che lo sono!

111

14

È quel momento della giornata in cui il sole è già calato ma il cielo è ancora dipinto d‘azzurro. Fra poco arriverà il rosa effimero che sancisce la fine dei tramonti nel Mississippi Delta. Un gruppo di bambini di colore si è arrampicato per gioco su un noce pecan che cresce vicino ai binari della ferrovia. Sono sette o otto, a cavalcioni su un grande ramo, e stanno uno abbracciato all‘altro fingendo di essere un convoglio. Il primo della fila, la locomotiva, soffia in una caraffa di vetro per imitare il fischio del treno. Poi inizia a chiamare le fermate. ―Memmm-phis! Nashh-viiillle! Chi vuole scendere?‖ Silenzio. ―Chatt-tanoooga! Jacks-son! Saaaaaint-Loouis! Chi scende?‖ A qualcuno scappa una risata, ma nessuno risponde. Allora il primo della fila prende un grande respiro e lascia partire un ultimo grido. ―Sciiiiiii-caaa-gooooooo!‖ Tutti i ragazzi saltano giù dal ramo. Chicago è la terra promessa. La fermata dove vorrebbero scendere tutti i neri del Delta. Sui treni e le strade che congiungono le terre del cotone con la metropoli del Nord si è svolta la più grande e furtiva migrazione americana del ventesimo secolo. Cinque milioni di neri, evasi tra il 1920 e il 1950 dagli stati-prigione del Profondo Sud. In avanscoperta, naturalmente, andarono gli hobo. L‘hobo con la pelle scura si chiamava travellin’ man, e non era un semplice vagabondo. Aveva quasi sempre una meta ben precisa: Chicago, o per lo meno una città a nord di Cairo, Kentucky. Era lassù, sulle rive soleggiate dell‘Ohio, che strade e ferrovie oltrapassavano la linea MasonDixon, il confine tra gli stati schiavisti del Sud e la libertà. L‘hobo nero sfruttava i treni e i passaggi stradali come il suo collega bianco, ma viaggiava solo in direzione verticale. Più che il richiamo dell‘avventura, a farlo partire era la possibilità di una paga decente. E le canzoni amare dei vagabondi con la chitarra, i bluesmen che all‘inizio degli anni venti iniziarono a portare fuori dal Delta la musica delle piantagioni. Tutti i grandi bluesmen del passato, da Robert Johnson a Lightnin‘ Hopkins a Muddy Water, e anche qualche musicista dei nostri giorni, come David Honey-Boy Edwards, 112

iniziarono con il vagabondaggio. Sui tetti dei treni merci nacque lo stile bottleneck – la tecnica per cui facendo scivolare un collo di bottiglia sulle corde si ottengono straordinari effetti di glissato – e il sound del Delta acquistò la struttura complessa del blues urbano tipico di Chicago. Ma non tutti viaggiavano sui treni. Con la chitarra o l‘armonica ci si poteva anche guadagnare un passaggio, gratis, sugli autobus della Greyhound. Quando gli autisti vedevano un hobo che camminava con la chitarra sulle spalle bloccavano la corriera e lo facevano salire. In cambio, il travellin’ man suonava qualche canzone. Forse è per questo che Robert Johnson scrisse, in uno dei suoi blues meno noti: Bury my body down by the highway side So my ole evil spirit can get a Greyhound bus and ride4 La strada come ultimo rifugio, e il running dog come veicolo per l‘anima. Un‘infinità di blues prima maniera sono dedicati ai treni e alle strade, le famose strade dispari che portavano al Nord. La 45, che da Mobile in Mississippi andava a Corinth nel Tennessee e poi a Paducah, in Illinois, prima di giungere finalmente a Chicago; la 51, la 49, la 13 e la 23. Erano esili blacktop di cemento che procedevano zigzagando verso Nord, ma per i neri del Sud, abituati alle strade di polvere delle piantagioni, rappresentavano le vie della salvezza e andavano celebrate una a una. Un disco del 1961 di Big Joe Williams, Blues on Highway 49, è una vera e propria cartina stradale del Delta. Ogni canzone è dedicata a una strada. Ci sono tutte meno una, Highway 61, evitata forse proprio perché allora era già celebre in tutto il paese. La grande arteria dove secondo la leggenda Johnson strinse il patto col diavolo – che gli accordò un talento di chitarrista straordinario – va da New Orleans al Canada. Anche lei ha un blues tutto suo (Highway 61 Blues di John Wedson) ma forse è più legata alla musica dei bianchi che a quella dei neri. La 61 infatti passa per la città di Hibbing, Minnesota, dove ebbe inizio la storia della Greyhound, e dove nel 1941 nacque Robert Zimmerman. Bob Zimmerman era un ragazzo ebreo infatuato di rhythm and blues. Da giovane dormiva pochissimo, perché solo nelle ore notturne la sua radio 4

Sotterratemi vicino al ciglio della strada / Così il mio vecchio spirito potrà salire su un Greyhound / e continuare a viaggiare.

113

riusciva a captare le stazioni del Sud che suonavano la race music. Amava anche la televisione; gli piacevano soprattutto i telefilm western. Il suo eroe preferito si chiamava Matt Dillon. Fu quello il cognome che scelse quando decise di tentare la fortuna nel campo della musica. Poi andò a New York, nel 1960, a conoscere il musicista folk Woody Guthrie, e fu laggiù, in un locale del Village, che qualcuno gli suggerì di copiare il nome, più evocativo e alla moda, del poeta gallese Dylan Thomas. Così Bob Dillon divenne Bob Dylan. Tornò a casa e, qualche anno più tardi, dedicò uno dei suoi album più lirici, Highway 61 Revisited, alla grande strada.

La febbre del Nord Ero a Clarksdale, nel Mississippi, durante i giorni in cui giravo per il Sud in macchina, e avevo bisogno di farmi tagliare i capelli. Decisi di andare da Winton‘s. Il negozio di Mr Winton era in periferia. Un piccolo negozio con l‘insegna verde, la rete per le zanzare alle finestre e due grossi ventilatori che giravano oziosi come l‘intero Sud. Fuori c‘era una lunga panchina dove stavano seduti dal mattino alla sera – forse anche la notte – dei vecchietti di colore con pochi denti e la lingua tagliente. Passargli davanti non era piacevole. Comunque un pomeriggio, verso le quattro, presi coraggio ed entrai. Il signor Eliah Winton stava rasando con la tosatrice un bambino molto grasso, intento a far fuori qualche extraterrestre con il suo giochino elettronico. La madre del ragazzo aspettava seduta nel retro, vicino a un vecchio che leggeva un giornale. Chiesi a Mr Winton se aveva tempo per un altro taglio. Mi squadrò da capo a piedi e rispose con un huh-huh, che vuol dire okay. Mi sedetti ad aspettare sulle sedie ricoperte di plastica rossa del negozio. Pochi minuti dopo il ragazzino era completamente calvo, e con un gesto Mr Winton mi fece capire che toccava a me. Guardai l‘altro signore che aspettava, ma il barbiere disse che lui poteva attendere. Presi il mio posto sulla sedia da dentista e il signor Winton mise le sue mani raggrinzite nei miei capelli. Mi chiese da dove venivo. Risposi che arrivavo da Londra. ―Mmm, capisco. Questo spiega molte cose,‖ disse lui. ―Okay. Facciamo questo taglio. Non ho molta dimestichezza coi capelli lisci, la mia specialità sarebbero i ricci, ma vedrò di fare un buon lavoro lo stesso.‖ 114

Lo guardai mentre sforbiciava alle mie spalle. Non saprei dire quanti anni avesse, ma era piuttosto anziano, e portava due occhialini neri con lenti spessissime. Mi chiese dov‘ero diretto. Risposi che sarei tornato a Memphis e poi sarei andato verso ovest con le corriere. Poi chiese cosa pensavo del Sud e gli risposi che mi piaceva da impazzire. ―Eh sì,‖ disse, ―questa è una gran terra. Speciale. Anch‘io, dopo tanto tempo, non ho più resistito e sono tornato da Chicago. Voglio morire ed essere seppellito nella mia terra. Ci sono voluti quasi cinquant‘anni, ma mi è finalmente passata la febbre del Nord.‖ Gli chiesi perché aveva deciso di andare al freddo. ―Perché volevo diventare uomo. Vedi, quando io ero giovane, un negro veniva chiamato boy fino a quando gli venivano i capelli bianchi. Poi si trasformava direttamente in uncle, zio. Non diventavi mai un uomo, capisci? Quella era una parola che ti era sempre negata. L‘unico modo per conquistarla era partire, andare a lavorare a Chicago, dove le fabbriche pagavano due dollari e più al giorno, cioè quello che qui si guadagnava in un mese.‖ ―Come sei arrivato lassù?‖ ―In treno, sulla Illinois Central Line. Ricordo come fosse ora il nome della locomotiva: City of New Orleans. Partii munito di regolare biglietto. Uh! Quando andai ad acquistare il ticket l‘impiegata andò su tutte le furie: ‗Chicago, Chicago, andate tutti a Chicago!‘ urlava. Qualche anno dopo, però, quando mi raggiunse mio fratello, il biglietto glielo comprò il proprietario della piantagione dove lavorava. Era il 1949, Mr John Rust aveva già iniziato da qualche anno a vendere la sua infernale invenzione, la macchina per raccogliere il cotone, e i negri nel Sud non servivano più. Quando partii io, invece, bisognava ancora agire con prudenza. Il ―Chicago Defender‖, il settimanale per neri che riportava le offerte di lavoro delle fabbriche del Nord, veniva distribuito di nascosto dai camerieri della Pullman Passenger Line. Sul ―Defender‖ la parola negro non era mai usata, era troppo simile a nigger. Gli uomini neri venivano chiamati race men. Men. Uomini. Forse era per questo che il giornale era proibito dai segregazionisti. Che però noi ripagavamo con la stessa moneta, dando a tutti loro lo stesso nomignolo: Jim Crow. Se Jim Crow ti trovava in tasca il ―Defender‖ erano guai. Se ti trovava per la strada dopo le undici di sera, erano guai. Ma se ammazzavi un altro nero in una rissa di saloon, Jim Crow telefonava alla polizia e diceva: ‗lasciate uscire il mio negro, che deve lavorarmi i campi‘, e tu la mattina dopo eri fuori. Questo era il sistema. Per questo eri costretto a partire. 115

Non puoi immaginare le emozioni che provai durante quel primo viaggio. Non ero mai stato fuori dal Mississippi, avevo vissuto tutta la vita circondato dal cotone. Quando, verso il confine con il Tennessee, le piantagioni scomparvero pensai: sono fuori. E quando vidi le prime foreste e sentii il fresco del bosco, rimasi estasiato. Non vedevo l‘ora di arrivare a Chicago. Mi immaginavo le luci, le strade piene di macchine, i grattacieli che bucavano le nuvole. Ma la prima cosa che vidi furono la fabbriche e i mattatoi dove sarei andato a lavorare, e gli slum del Southside, dove sarei andato a vivere. Capii subito che la vita negli stati del Nord non sarebbe stata una scampagnata. Ma, se non altro, a Chicago avevi una chance.‖ Chicago è lo svincolo, il centro di gravità, la sinapsi che mette in contatto tutte le Americhe. È lì, tra Ogden Avenue e Madison Street, che inizia e finisce il sogno americano.

116

Terza parte GASOLINE DREAMS

117

118

If you ever plan to motor West; travel my way, take the highway that’s the best. Get your kicks on Route Sixty-six! Bobby Troup

119

15

Amo la Route 66. La scoprii nel 1990, quando mi fermai a bere una birra in un diner nel deserto del Mojave. Il bar allora si chiamava Sidewinder, in onore dei serpenti a sonagli che infestano la zona. Fu il proprietario, un ometto intraprendente che aveva appena rilevato il locale pagandolo più del dovuto, a rivelarmi che gli interni erano stati utilizzati per il film Bagdad Café di Percy Adlon. Indicò la stradina piena di crepe che passava di fronte al diner e disse: ―È la Route 66, la mitica strada che va da Chicago a Los Angeles, quella di Furore, di Nat King Cole, degli Oakies. È declassata da un sacco di anni, bypassata dalle autostrade, ma la gente, anche grazie al film, la sta riscoprendo. E io sono qui che li aspetto. Se mi va bene, fra un paio d‘anni questo buco varrà una fortuna‖. Gli andò bene. La strada che più di ogni altra creò la figura dell‘automobile-tourist americano è riuscita in pochi anni a inventare un nuovo personaggio, il retrotraveler, e così facendo a scampare all‘oblio che ha condannato tutte le vecchie statali pari d‘America. ―Ma non è più la stessa cosa, si è sputtanata!‖ dicono i collezionisti di automobilia, i pubblicitari europei che la percorrevano qualche anno fa, vestiti come tanti ridicoli Marlon Brando, a cavallo di Harley gigantesche. Vedono i nomi dei motel che cambiano, le insegne al neon degli anni cinquanta che, restaurate, tornano a splendere, e pensano che la US 66 abbia perso l‘anima délabré che l‘ha resa famosa. Non sanno quanto si sbagliano. La strada che porta in California è sempre stata così, una baldracca pronta a qualsiasi turlupinatura per attirare la gente, per indurla a scendere dall‘auto e fare un po‘ di business. Negli anni venti, quando era appena nata e aveva bisogno di farsi pubblicità, rubò il nome della National Old Trail, la famosa pista per l‘Ovest dei pionieri, che ripercorreva solo per un breve tratto. E quando le nuove autostrade volute da Eisenhower iniziarono a farle concorrenza, si trasformò in Main Street of America, la strada dei turisti che andavano a visitare il Grand Canyon e le riserve degli indiani. Ora l‘ultimo, insperato, colpo di coda: la metamorfosi in Old 66, la Mother Road di Steinbeck, la strada della beat generation. È l‘ennesimo colpo di scena di una performance che dura dal 1926 e, probabilmente, è destinata a continuare ancora per chissà quanto, perché la US 66 è l‘incarnazione più pura del mito della strada americana, e se oggi 120

l‘antico museo all‘aria aperta del neon e della vernacular architecture si trasforma in un parco giochi per nostalgici, non c‘è da scandalizzarsi: per gli americani una perfetta copia è sempre meglio di un originale incompleto. Ricordo l‘art director di un‘importante rivista francese che, un giorno, mi mostrò un servizio del suo giornale sulla ―mitica 66‖. Inorridito, gli feci notare che metà di quelle foto erano state fatte su altre strade – Monument Valley in Utah, per esempio – e quindi non c‘entravano nulla con le didascalie. La sua risposta fu esemplare: ―Mon cher, la strada americana è un sogno, e noi siamo mercanti di sogni‖. Non c‘era mai stato. Non poteva immaginare che sulla US 66 la realtà, come spesso accade, supera qualsiasi invenzione. Perché nascosti come scorpioni addormentati sotto il blacktop della vecchia highway ci sono i racconti, straordinari, di personaggi che nessun romanziere potrebbe inventarsi.

...all the way! Sono a Chicago, sdraiato sul divano nello studio di mia cognata Janet. È una brutta giornata, buia e ventosa. Sono tre giorni che Chicago fa di tutto per meritarsi il soprannome di windy city. Il vento soffia furioso dal Nord e spinge verso la città una tempesta di fulmini dopo l‘altra. E siamo in piena estate. Ma poco importa, la mia Chevrolet è già carica, le borse con le macchine fotografiche sono pronte. Fra poco, appena smette di grandinare, partirò. Vado verso ovest, da Chicago a L.A., sui 3600 chilometri più bizzarri, tragici e famosi d‘America. Conosco bene il percorso. L‘ho già fatto cinque volte, con amici e colleghi, con Jacquie prima che ci sposassimo. Ma questo viaggio, l‘ultimo, voglio farlo da solo. Finalmente di nuovo per strada. È bello pensare di avere un‘altra volta di fronte mezza America. Dovrò attraversare tutto l‘Illinois, il Missouri, un pezzetto di Kansas, le pianure dell‘Oklahoma e il Nord del Texas, prima di arrivare al confine con il New Mexico, a Glenrio, dove inizia il tratto più bello e difficile della vecchia strada, quello che preferisco e che voglio ripercorrere un‘ultima volta, prima che i ponti cadano e le buche si trasformino in voragini. Laggiù la 66 è un nastro di cemento che si srotola in mezzo alla campagna, all‘infinito, sotto i cieli infuocati dell‘Ovest. Non c‘è nulla da fare. È con il muso dell‘auto puntato verso Occidente, che si deve fare questo viaggio. 121

Uscendo da Chicago, mentre seguo Ogden Avenue in direzione di Cicero, vedo nello specchietto retrovisore i grattacieli di downtown che si stagliano con incredibile drammaticità contro nubi nere come la pece. E arrivato un altro temporale, si vedono i fulmini che vanno a morire sul pennone della Sears Tower, che per un attimo sembra una versione a colori dell‘antenna saettante Rko, la sigla che introduceva i vecchi film americani in bianco e nero. Arrivo a Joliet – la 66 passa vicino alla prigione che ha dato il nome a tutte le celle d‘America – e quindi mi dirigo verso sud, fino a Wilmington, dove mi fermo, come sempre, sotto le gambe dell‘astronauta. Il Launching Pad Cafe, un bell‘esempio di architettura roadside, si fa pubblicità con un gigantesco uomo dello spazio di gesso. Sembra appena uscito dalle pagine di una rivista di fantascienza degli anni cinquanta. Faccio colazione sul bancone di formica della ―rampa di lancio‖ e riparto in direzione di Litchfield, duecento chilometri più a sud. La radio è sintonizzata su una stazione di musica soul, il tempo è migliorato, e sulla mia strada non c‘è nessuno. In Illinois la 66 viaggia spesso a poche decine di metri dall‘Interstate 55, alla quale fa da frontage road, da strada di servizio. Ma tra le due c‘è un mondo di differenza. Traffico, polizia e limiti di velocità sull‘autostrada. Silenzio, spazio e libertà sulla stradina di servizio. Schiaccio il piede sull‘acceleratore, il muso della Chevrolet si alza, e l‘autostrada scompare alle mie spalle. Sono a Litchfield per l‘ora di pranzo. È d‘obbligo fermarsi all‘Ariston, il ristorante di Demi e Nick Adam, uno dei pochi a conduzione famigliare rimasti in questo tratto di strada. È qui dal 1926, anno in cui il nonno di Nick, Pete Adam, decise di lasciare il diner che gestiva in un paese vicino e acquistare un locale sulla strada per la California. La bistecca cotta sulla brace di legno hickory dell‘Ariston divenne famosa in tutta la contea, e lo è ancora oggi. Ne ordino una mentre mi scolo una birra freddissima con Nick. Dopo una decina di minuti e un‘altra birra arriva sua moglie Demi e mi mette sotto il naso una fetta di carne enorme, dicendomi: ―Goditela tutta!‖. So già che non riuscirò a finirla. E, come sempre, dovrò stare a sentire i rimproveri della cameriera, che si rifiuterà di portarmi il dessert.

Il fiume La sera, giunto a Saint Louis, lascio le valigie in un motel sulla sponda orientale del Mississippi e vado, a piedi, alla ricerca del Chain of Rocks 122

Bridge. Trovare il sistema per accedere al ponte, che è in disuso dagli anni sessanta, è sempre più difficile. Ma dopo qualche tentativo infruttuoso ritrovo l‘ingresso, una porticina di filo spinato nascosta in fondo a un boschetto. Bisogna farsi largo attraverso una specie di giungla, per raggiungere uno dei luoghi più romantici della vecchia strada. Il ponte sul Mississippi è enorme, lungo quasi due chilometri e anche un po‘ strano, perché è l‘unico ponte americano ad avere, nel bel mezzo, una curva a gomito. Un tempo milioni di automobilisti attraversavano il fiume sul Chain of Rocks pagando un pedaggio di cinque cents. Adesso il massiccio ponte di ferro è deserto, vietato al pubblico, irresistibile. All‘entrata si capisce subito chi sono i nuovi proprietari: un‘enorme testa di belzebù disegnata sull‘asfalto avverte ―Welcome to Hell‖, benvenuti all‘inferno. Le gang hanno lasciato il loro marchio dappertutto. Vengono qui quasi tutte le sere, a dipingere graffiti e accendere enormi falò che illuminano fino all‘alba le acque sottostanti. Il Mississippi è larghissimo, in questo punto. Te ne accorgi quando cerchi di arrivare sull‘altra sponda, camminando titubante tra i resti dei fuochi, le bottiglie e i rifiuti lasciati dai teppisti. Sembra che nulla sia cambiato dal 1981, quando John Carpenter e la sua troupe filmarono, sul Chain of Rocks, l‘ultima scena di Fuga da New York. Raggiungo la famosa curva in mezzo al fiume. Mi sporgo e osservo le acque impetuose del Mississippi, che scorrono portandosi appresso qualsiasi tipo di immondizia. Un‘automobile, una berlina scura con il portabagagli aperto, sfila piroettando sotto la campata centrale del ponte e continua la sua navigazione verso il Golfo del Messico. Accendo una sigaretta e rimango ipnotizzato a guardare il fiume, godendomi l‘aria fresca e umida, mentre la notte diventa sempre più buia e il lume di qualche pescatore a caccia di catfish brilla in solitudine sulla riva.

123

16

Il bandito ―Mi accorsi subito che era lui. Avevo visto la sua foto sui giornali. Quando scese dall‘auto riconobbi il completo grigio e i guanti neri ancor prima dei lineamenti classici, da atleta, che secondo i giornalisti le donne trovavano irresistibili. A me, però, non sembrò così bello. Il soprannome che gli diede quella puttana di Kansas City forse non se lo meritava,‖ dice Martha mentre serve il caffè. ―No,‖ la contraddice Bob, ―era veramente un bell‘uomo. Quando noi lo vedemmo era ricercato dai poliziotti: aveva i capelli lunghi, la barba incolta. Ma si capiva perché tutti lo chiamavano Pretty Boy.‖ Siamo a Lebanon, un paesino del Missouri a duecento chilometri da St. Louis, nella stazione di servizio dei fratelli Wicker. Mi sono fermato a fare il pieno, e sono rimasto un pomeriggio intero. Bevo un Nescafè dopo l‘altro, gioco con la vecchia cagna Jessie tirandola per il bandana rosso che le hanno messo al posto del collare, e leggo i ritagli di giornale che Bob ha sparpagliato sulla scrivania per aiutarsi a ricordare. Ma soprattutto ascolto, annoto e registro sul mio antidiluviano walkman la storia che i tre fratelli Wicker – Bob, Martha e Jeff – mi raccontano litigando fra loro come quando erano ragazzini, e il nemico pubblico numero uno, Charley Arthur ―Pretty Boy‖ Floyd sbucò dalla 66 con la sua bella. ―Erano le due del pomeriggio, l‘ora del riposo pomeridiano del nonno, quando arrivarono. La 66 era sempre vuota a quell‘ora, e noi stavamo giocando sulla strada facendo rotolare vecchi pneumatici. Udimmo avvicinarsi una macchina e ci togliemmo di mezzo. L‘auto, che se non sbaglio era una Pontiac...‖ racconta Bob. ―Macché Pontiac, era una Studebacker azzurra con le gomme bianche,‖ interrompe Jeff. ―Ah sì, è vero, era una Stude. Sì, insomma, quest‘auto ci superò a forte velocità e si infilò nella nostra stazione di servizio. Noi ci affrettammo a raggiungerla perché sapevamo che il nonno stava dormendo e pensavamo di dover fare il pieno a quella gente che andava di fretta. Ma quando arri124

vammo alla macchina un signore scese dal lato del passeggero e ci chiese molto gentilmente di chiamare i nostri genitori. Rispondemmo che erano andati a fare acquisti a Philipsburgh, e che il nonno stava dormendo. Allora lui si accovacciò e chiese se per favore potevamo andarlo a svegliare.‖ ―Io corsi nel salotto,‖ interviene nuovamente Jeff, ―dove il nonno dormiva russando come una segheria, e lo buttai giù dal sofà sbraitando che Pretty Boy Floyd era venuto da noi per derubarci. Il nonno, ancora intontito, mi avvertì di non dire stupidaggini, ma quando arrivò Bob tutto trafelato e gli raccontò la stessa storia, si grattò la testa e rimase un attimo in piedi a riflettere. Guardò fuori dalla porta che dava sul cortile. Poi andò nella stanza dei miei e tornò con la Colt 45 di mio padre tra le mani. Disse a Bob che era il più vecchio di tornare subito alla macchina e tenere occupato il signor Floyd. Attese pensoso per qualche attimo e poi tutto d‘un tratto ripose la pistola in un cassetto e si attaccò al telefono appeso al muro dell‘entrata. Sentii che parlava con lo sceriffo. Quindi riappese l‘apparecchio e mi ordinò di chiudermi dentro e di non mettere il naso fuori dalla porta finché la macchina non fosse ripartita.‖ ―Il nonno arrivò di corsa alle pompe di benzina e mi urlò sgarbatamente di andare in casa,‖ dice Martha, ―per cui l‘unico che rimase con Floyd fu mio fratello Bob.‖ ―Sì, rimanemmo solamente io, mio nonno Jake e Charley Floyd. Il bandito disse qualcosa al nonno, che annuì e indicò il giardinetto dietro al garage, dove c‘erano degli alberi di mele che facevano un po‘ d‘ombra. Pretty Boy chiese alla donna che era al volante di scendere e i due si avviarono verso il frutteto. Allora il nonno mi disse di fare il pieno all‘auto e di filare in casa appena avessi finito. Lo vidi tornare verso l‘abitazione ed entrare dalla porta della cucina. Stavo ancora facendo benzina – era una pompa vecchia, a mano – quando lo vidi tornar fuori con un vassoio carico di panini e bottigliette di birra. Sotto il braccio aveva anche una fiasco di terracotta, quello dove di solito nascondeva la sua provvista di cotton gin. Finii di fare il pieno e automaticamente mi arrampicai sulla predellina dell‘auto per pulire il parabrezza. Guardai dentro l‘abitacolo per vedere se c‘era il famoso mitragliatore del bandito, ma non lo vidi. Quindi scappai nell‘ufficio del garage – proprio qui dove siamo ora — per spiarli attraverso la finestra sul cortile. Vieni, che ti faccio vedere.‖ Bob si alza e mi porta sul retro, dove c‘è una porta e una finestra che danno su un piccolo cortiletto invaso dalle erbacce. 125

―Ecco, la donna – non sappiamo chi fosse, forse la moglie Ruby, oppure la sua amante Beulah Baird, la prostituta che lo battezzò Pretty Boy – era seduta su quella panca di legno. Charley era sdraiato per terra. Mio nonno era appoggiato contro quel muro. Lui e Charley stavano parlando amabilmente; sentii che discorrevano della primavera che aveva portato poche piogge, e del raccolto che sarebbe stato un‘altra volta misero. Io aspettavo da un momento all‘altro l‘arrivo della polizia e pregavo che le pallottole non colpissero il mio nonnino. Ma lo sceriffo non si fece vedere. Pretty Boy e la sua bella compagna terminarono il pasto e le birre. Poi rimasero un po‘ da soli, mentre il nonno riportava il vassoio in casa. Il bandito tirò fuori dal taschino della giacca un pettine d‘osso e si rimise a posto i capelli, fischiettando The Cannonball Wabash, una canzone che andava molto di moda in quel periodo. Fischiava veramente bene. Quando ebbe finito aiutò la donna ad alzarsi e si avviarono verso la macchina. Nonno Jake, che nel frattempo era tornato, gli aprì la portiera e Pretty Boy gli mise in mano dei soldi, un bel bigliettone da cento dollari. Il nonno disse ‗Thank-you e Godbless-you’, e chiuse la portiera dell‘auto, che ripartì verso Conway.‖ ―Io e mia sorella, che guardavamo dalla finestra del salotto, schizzammo fuori appena la Studebacker se ne fu andata. Il nonno fissava il bigliettone e ripeteva in continuazione: ‗roba da non credere, roba da non credere, roba da non credere‘. Gli chiedemmo come mai lo sceriffo non era venuto ad arrestare Pretty Boy Floyd. Gli scappò una risata: ‗Quel carciofo! Sapete cosa mi ha detto quando ho telefonato? Ha detto fai come ti ordina, dagli tutto quello che vuole e lascialo ripartire. Poi, quando se ne è andato, conta fino a cento, e quando arrivi in fondo dammi un altro colpo di telefono – sarò da te in un baleno‘.‖ ―Da quel giorno il nonno divenne un fan di Pretty Boy Floyd,‖ conferma Martha. ―Era il Robin Hood della prateria e non era nuovo a queste imprese. La sua galanteria l‘aveva reso famoso in tre stati: Kansas, Oklahoma e Missouri. Era sempre gentile e cortese con tutti quelli che erano gentili con lui, ed erano in molti. Dalle nostre parti era molto amato. Solo i poliziotti avevano paura di lui, e non avevano tutti i torti, visto che nella sua carriera ne uccise una decina. Veniva dall‘Oklahoma; i suoi erano contadini, e come quasi tutti i contadini della zona erano poverissimi. Vivevano con l‘incubo costante dello sfratto. Per questo Pretty Boy odiava le banche. Quando ne assaliva una, oltre ai soldi, prendeva anche tutte le ipoteche sulle fattorie del circondario. Se le portava via e le distruggeva. 126

Non era un rapinatore. Era un fuorilegge. Forse l‘ultimo fuorilegge del West americano. E poi era uno sbruffone, e gli sbruffoni stanno sempre simpatici a tutti. Nonno Jake amava raccontarci di quella volta che Charley Floyd decise di tornare nella città dov‘era cresciuto, Sallisaw, per rapinare la banca. In paese lo sapevano tutti, tanto che quando arrivò per fare il colpo insieme al compare George Birdwell e le rispettive fidanzate, di fronte alla banca s‘era formata una piccola folla di curiosi. C‘era persino suo nonno Earl Floyd, seduto su una sedia a dondolo. Gli chiese di prelevargli cinqueseicento dollari per suo uso personale. Pretty Boy entrò nella banca, si fece dare i soldi e le ipoteche dalla cassiera Charlene – una sua vecchia compagna di scuola -, posò con il mitra in mano per il fotografo del giornale locale, e infine se ne andò tra gli applausi della gente. Quando lo uccisero, il nonno andò apposta a Sallisaw per assistere al funerale. Diceva spesso: ‗Alle esequie del governatore Murray c‘erano mille persone. Ma quando sotterrarono Charley Floyd eravamo in ventimila‘.‖ Come Pretty Boy e la sua dama, lasciai il garage dei Wicker e presi la 66 in direzione di Conway. Il Missouri, che la Old 66 attraversa in senso diagonale da Saint Louis a Joplin, è uno stato fertile, in alcune zone addirittura lussureggiante. Era un piacere guidare seguendo la piccola highway che si arrampicava sulle colline Ozark coperte di vigneti e campi di mais, e poi si immetteva nelle strette gole tagliate nella roccia dal fiume Gasconade. Viaggiai godendomi il fresco della campagna, fermandomi di tanto in tanto ad acquistare uva e pesche dai discendenti degli immigrati italiani che all‘inizio del secolo introdussero la coltivazione della vite in questa regione. Notai che sui bordi della strada c‘era ancora qualche segnale sbiadito degli autocamp, i campeggi per auto che verso la fine degli anni venti spuntarono come funghi su tutte le principali arterie del paese. Allora le Ford modello T si vendevano come caramelle, ma la vita sulle strade d‘America era ancora scomoda e pericolosa. Chi si avventurava sulla 66 da Chicago a L.A. doveva portarsi dietro vettovaglie, tenda e sacco a pelo, ed essere pronto a dormire sul ciglio della strada. Gli autocamp, precursori dei motel, assicuravano ai viaggiatori un rubinetto di acqua più o meno corrente e un minimo di sicurezza. Quando negli anni trenta arrivò la Grande Depressione, le strade si riempirono di automobilisti in cerca di lavoro, e gli autocamp si trasformarono in cabin camp, che consistevano in un paio di pompe di benzina per i rifornimenti e una decina di baracche di legno tirate 127

su come capitava. Il prezzo per una notte su un materasso di paglia gettato sul pavimento era un dollaro. La versione lusso del cabin camp si chiamava cottage court: una serie di bungalow prefabbricati, tutti uguali, eretti intorno a un unico cortile centrale. Vicino a ogni bungalow c‘era lo spazio – spesso coperto – per la macchina. Erano le prime strutture pensate esclusivamente per gli automobilisti. Sulla 66 ne furono costruiti così tanti che è ancora possibile trovarne qualcuno, con le baracche abbandonate e devastate dai fuochi dei vandali. Le insegne, invece, sono ancora numerose e in buono stato. Quelle degli autocamp erano semplici tavole di compensato dipinte a mano, ma i segnali dei cottage o tourist court erano di metallo e, almeno da un lato, sostenevano un esile tubo di vetro dalle forme più bizzarre, dentro al quale brillava rumoroso e incandescente un gas colorato, che negli anni a seguire avrebbe illuminato il mito della strada americana.

128

17

Attraversai il Missouri passando per minuscoli paesi dai nomi fantasiosi: Albatross, Salvezza, Gomito del Diavolo. Quindi seguii la US 66 attraverso Baxter Springs, nel Kansas, ed entrai in Oklahoma, lo stato che più di ogni altro ha contribuito alla storia della Route, per via della sua terra maledetta. La terra dell‘Oklahoma è friabile, grigia, spenta. Si trasforma subito in polvere. È una terra sciagurata, che ha una brutta storia da raccontare. Bisogna tornare indietro, al 10 maggio del 1934, quando le pianure monotone dell‘Oklahoma e del Kansas, che non ricevevano una goccia d‘acqua da due stagioni, furono investite da un terribile vento che sollevò migliaia di tonnellate di polvere. Le tempeste continuarono per settimane, distruggendo i raccolti, oscurando il sole di giorno e le stelle la notte. Nei paesi la gente tentò di ripararsi sigillando porte e finestre con vecchie lenzuola e facendo scorta di combustibile, perché il cielo era così nero che i lumi dovevano rimanere accesi anche di giorno. Ma era impossibile resistere a lungo. I piccoli agricoltori che dipendevano dalla terra furono i primi ad arrendersi. Disperati, mezzi morti di fame, si riversarono con i loro vetusti pick-up carichi fino all‘inverosimile sulle due highway che portavano verso la California: la US 64 e la US 66. La catastrofe del Dust Bowl – il bacino della polvere – era iniziata. Durante il primo anno di emergenza quasi mezzo milione di profughi invase le strade per la California. Negli anni successivi – la siccità terminò solo nel 1939 – divennero milioni. Insieme a loro c‘erano giornalisti, scrittori e fotografi. La tragedia che si svolse sulle vie della polvere fu documentata in ogni particolare. La migrazione di milioni di neri sulle strade dispari, che avvenne nello stesso periodo, fu invece ignorata. Il libro che introdusse nei vocabolari americani parole come oakies, arkies, e joads fu pubblicato nel 1939, e fu un immediato successo. In un anno furono vendute più di quattrocentoventimila copie di Furore, il romanzo di John Steinbeck che racconta il viaggio verso la California della famiglia Joad, e in cui lunghi paragrafi sono dedicati alla Route 66, alla quale Steinbeck dà quel soprannome, the Mother Road, che oggi va tanto di moda. Il libro fu tradotto in immagini da John Ford l‘anno seguente, e anche quello fu un successo commerciale strepitoso. Ma non finì lì. Il film di 129

Ford ispirò a sua volta un giovane musicista folk a scrivere una collezione di ballate che avrebbero fatto storia. Il ragazzo si chiamava Woody Guthrie. Era un oakie, veniva cioè dall‘Oklahoma, e aveva partecipato al grande esodo verso la California. Ma non aveva scritto nulla sull‘argomento. Una notte, a New York, Woodie Guthrie entrò in una sala cinematografica dove proiettavano Furore. Alla fine del film corse a casa e scrisse, di getto, Tom Joad, la prima canzone delle Dust Bowl Ballads. ―Avevo visto il film, e sapevo che i miei amici dell‘Oklahoma non potevano permettersi di andare al cinema. Scrissi tutte quelle canzoni – The Grapes of Wrath, Dust Can’t Kill Me, Highway 66 Blues – per loro, sperando che potessero ascoltarle alla radio.‖ In Oklahoma è rimasto poco a ricordare gli anni del Great Blow, il grande vento. La gente è fuggita verso l‘Ovest. I paesi sono deserti. Si trovano soprattutto vecchie fotografie, in quei negozi di ephemera che sembrano aver spodestato tutti gli altri, nei paesi della prateria. Ce ne sono a decine. In ogni città decaduta del Kansas e dell‘Oklahoma si vedono caffè, cinema e grandi magazzini trasformati in empori della nostalgia. In uno di questi negozi – The Friday Store, a Cushing – mi capitò fra le mani una bella foto parzialmente virata, scattata un attimo prima che la città fosse sepolta dalla polvere. Era un‘immagine mossa – il fotografo andava di fretta – ma impressionante. Le case a due piani del paese sembravano modellini, tanto era immensa, inarrestabile, la nube di polvere che le sovrastava. La proprietaria del Friday Store, come sempre, disse che mi avrebbe fatto un buon prezzo. La signora Read fu per diversi anni la principale fonte di vecchie foto e cartoline per la mia collezione di immagini del roadside americano. Diner, motel, pompe di benzina e terminal Greyhound sono i miei soggetti preferiti. E poi le strade. Solo in America si possono trovare cartoline dove l‘unica cosa ritratta, il soggetto, è un nastro di cemento completamente deserto. Ne ho centinaia. Strade sotto la luna, con la neve, al tramonto, attraverso il deserto e in riva all‘oceano. Nient‘altro che strade.

Il numerologo Nel negozio di Mrs Read conobbi un ragazzo coi brufoli e i capelli rossi che collezionava le carte stradali della Standard Oil. Vide che maneggiavo immagini roadside e cominciò a parlarmi delle cartoline ritoccate e dipinte a mano della ditta Court Teich di Chicago, le più ambite dai collezionisti. 130

Capì dalle mie risposte che soffrivamo della stessa malattia, e mi propose di andare a bere un caffè insieme. Accettai. Salutammo la signora Read e ci incamminammo verso un baretto anonimo dall‘altro lato della strada, dove ci sedemmo a un piccolo tavolo a bere il caffè. Non mi ci volle molto per scoprire che Bill – si chiamava così – era tanto più malato di me. Aveva addirittura tradotto in equazioni matematiche i diversi tipi di blacktop americano. Cercai di annotare sul mio taccuino le sue idee. La formula che aveva inventato per le autostrade era y=IN (x, g) e quella per le highway era y=US (x, g). Bill mi spiegò che nel caso delle autostrade il valore y (destinazione) era sempre uguale a g (luogo d‘arrivo), mentre nel caso delle highway y era uguale a x (luogo di partenza) più (x->g), cioè tutti i punti tra x e g. ―In pratica,‖ mi spiegò disegnando sul tavolo del bar come se fosse una lavagna universitaria, ―in America ci sono due diversi tipi di viaggiatori. Quelli che prendono le interstate, e arrivano direttamente alla loro destinazione, e quelli, come noi, che preferiscono seguire le highway tipo US 66 attraverso ogni paese e città. Naturalmente, entrando nei dettagli le cose si fanno un po‘ più complicate: con la formula [(g-x)/a]...‖ Fui costretto a interromperlo. Si stava facendo tardi, e io dovevo tornare sulla strada a fare i miei esperimenti pratici. Arrivai a Tulsa all‘una di notte, sotto una pioggia battente. Il proprietario del 66 Motel era già andato a letto e fu molto sorpreso di vedermi. Mi informò che le stanze costavano diciassette dollari, e mi chiese se avevo delle preferenze, visto che come al solito erano tutte vuote. Il 66 Motel era (anzi è, se è ancora in piedi) una vera topaia Normalmente non mi sarei mai fermato in un posto del genere, ma il proprietario era simpatico, le stanze pulite anche se terribilmente umide, e l‘atmosfera era quella giusta. Soprattutto, il ―66‖ era molto fotogenico. Un tempo, negli anni quaranta, si chiamava El Reposo Courts ed era marrone. Ma ora era diventato ―66‖, per cercare di attirare qualche retrotraveler, e i muri erano stati dipinti di rosso e argento. La cosa più buffa del 66 Motel era il segnale al neon, anche se non funzionava da un sacco di anni. Sotto l‘insegna principale c‘era una scatolina di metallo che, se chiusa, indicava FULL. Ebbene, quel motel non era stato al completo da così tanti anni che la scatola era piena di piume e al posto della scritta FULL c‘era un nido di storni con quattro uccellini. 131

Passai una notte insonne nella stanza numero dodici del 66 e la mattina dopo, molto presto, tornai sulla strada per l‘Ovest. Il tempo era ancora cattivo, una coltre di nuvole basse e grigie copriva l‘Oklahoma rendendo il viaggio particolarmente noioso. Infilai una cassetta nel mangianastri della macchina e mi concentrai sulla guida, sperando di arrivare per l‘ora di pranzo a Shamrock, in Texas, dove intendevo fare una sosta nel ristorante di Marie Taylor. Attraversai l‘Oklahoma come in trance. Van Morrison cantava And It Stoned Me, e io passavo da città a città come se fossero note su un pentagramma: Stroud, Arcadia, Oklahoma City, Hydro, El Reno, Clinton, Canute. C‘è qualcosa di ipnotizzante, in un elenco di città americane. Quante canzoni, quante poesie sono semplicemente una lista di luoghi. Come il pezzo di Bobby Troup che rese famosa la US 66 in tutto il mondo. ...now you go to Saint Looey, Joplin, Missouri and Oklahoma City is mighty pretty. You’ll see Amarillo, Gallup, New Mexico; Flagstaff Arizona; don’t forget Winona, Kingman, Barstow, San Bernardino... Gli americani nutrono una passione, un culto per la mobilità che è unico. E sanno come celebrarlo. Verso mezzogiorno, poco prima del confine con il Texas, le nuvole si aprirono e uscì fuori un sole caldissimo. Arrivai a Shamrock e andai a parcheggiare la Chewy sotto l‘insegna verde del U-Drop-Inn, celebre diner art déco attaccato alla Tower Station, una cattedrale travestita da stazione di servizio che è, giustamente, monumento nazionale. Scesi dalla macchina, attraversai la strada ed entrai nel Western Cafe, locale meno pretenzioso del U-Drop-Inn, ma molto più accogliente. La proprietaria, Marie Taylor, aveva sempre qualche bella storia da raccontare. La sua passione erano i divi di Hollywood. Prima che costruissero le autostrade, tutti gli attori diretti a Hollywood prendevano la US 66, e passavano da Shamrock. Facevano il pieno alla Tower Station e andavano a mangiare al Western. Quando Cary Grant si sedeva al tavolo, Marie telefonava alle sue amiche, e in un attimo il ristorante si riempiva di commensali, come nei giorni di festa. Quel giorno, purtroppo, non c‘erano attori, solo turisti. Pranzai insieme a due simpatici tedeschi provenienti da Los Angeles che intendevano ripercorrere la vecchia highway fino a Oklahoma City. Viaggiavano in moto e dor132

mivano in sacco a pelo, sul bordo della strada. Fuori, parcheggiate vicino alla mia auto, c‘erano le loro Harley d‘epoca. Sembravano nuove di zecca. Finii il pranzo con la famosa torta di mele di Mrs Taylor, pagai e tornai alla macchina. Quando uscii da Shamrock la mia auto era l‘unica cosa che si muoveva nel paese. Era una bella giornata, senza una nuvola; la pianura a ovest di Amarrilo, sotto quel cielo, sembrava ancor più infinita del solito. I pionieri spagnoli che per primi esplorarono questa regione rimasero così sconvolti dalla vastità degli spazi che piantarono migliaia di pali d‘orientamento, come tanti segnalibri infilati nelle pagine di un racconto di cui non conoscevano il finale. Da allora questa zona si chiama Llano Estacado, la piana dei picchetti. Poco dopo Amarillo vidi spuntare alla mia sinistra il Cadillac Ranch, una fila di dieci caddies degli anni sessanta piantate a muso in giù in un campo di grano. Nella prateria dei picchetti spagnoli i menhir dell‘America moderna arrugginivano al sole, coperti di graffiti, di poesie, di testi di canzoni di Springsteen e Dylan. C‘era anche una polaroid, lasciata da una coppia venuta al Ranch per celebrare il proprio matrimonio.

La città dei motel Tucumcari Tonight! dicono i segnali e gli adesivi sui paraurti delle auto. È lo slogan pubblicitario più famoso della vecchia highway, un residuato degli anni quaranta, quando la città di Tucumcari, con i suoi duemila posti letto, era la capitale del motel americano. Ne sono rimasti in piedi ancora parecchi. Hanno tutti nomi favolosi: Lasso, Whoa!, Americana, Cactus, Buckaroo. Tucumcari, insieme a Gallup, è l‘ultima cittadina americana dove si respira l‘atmosfera degli anni d‘oro della Route. I motel hanno forme e insegne fantastiche, una diversa dall‘altra, e gli edifici sono a misura d‘uomo. Chiunque abbia viaggiato in America sa che le cose non stanno più così da un pezzo. Il motel indipendente è morto e sepolto, rimpiazzato dalle catene coast to coast. Motel Six, Motel Eight, Days Inn, La Quinta, Ramada, Howard Johnson. Sono presenti in ogni città, con le stesse insegne, le stesse stanze, le stesse stampe dozzinali appese alle pareti. È tutta colpa di Kemmons Wilson, un imprenditore di Memphis che nell‘estate del 1951, durante una vacanza attraverso l‘America con la sua famiglia, scoprì che negli States non c‘era una catena di motel in grado di offrire ai viaggiatori livelli di servizio e comfort standardizzati. Wilson 133

passò il resto della vacanza a misurare camere d‘albergo, e giunse alla conclusione che tutti i suoi motel – intendeva costruirne quattrocento – avrebbero avuto camere identiche, lunghe dieci metri e larghe quattro, dotate di servizi, televisione e condizionatore d‘aria. Per il nome decise di copiare il titolo di un film di Bing Crosby che gli era sempre piaciuto: Holiday Inn. Mr Wilson non scherzava. Nell‘agosto del ‘52, esattamente un anno dopo la vacanza che cambiò la vita sua e di tutti gli americani, aprì a Memphis il primo Holiday Inn. In meno di vent‘anni riuscì a costruire millecinquecento motel, con oltre duecentomila camere. Tutte lunghe dieci metri e larghe quattro. Fortunatamente, però, ci sono ancora posti come Tucumcari. Quando vi arrivai passai qualche ora a scattare fotografie, e poi andai a prendere una stanza al Blue Swallow, il confortevole motel della signora Redman. Lillian Redman è diventata famosa, grazie al revival della 66. È apparsa su ―National Geographic‖ e decine di altre riviste, e le sue storie, che sono sempre belle perché lei le farcisce ogni volta di nuovi particolari, sono state tradotte in molte lingue. È così famosa che i turisti che si fermano al Blue Swallow – il motel è un pegno d‘amore, regalatole da uno spasimante nel 1958 – le chiedono l‘autografo. Firmo il registro e ci sediamo nella hall rosa a fare quattro chiacchiere. Fuori c‘è uno strano tipo che gira intorno al motel con un furgoncino Volkswagen. I fari del veicolo illuminano a intermittenza la hall come i riflettori di una prigione. È veramente fastidioso. Dopo qualche minuto mi stufo e salto in piedi: ―Ma chi è quel rompiscatole?‖. Lillian, che quando vuole sa essere crudele, risponde: ―È un tuo collega. Un fotografo‖. Esco fuori a fronteggiare il concorrente. Blocca il furgone, salta giù e si giustifica dicendo che sta facendo una versione in video del libro di William Least-Heat Moon Strade Blu. ―Capisco,‖ rispondo, ―ma perché questo girare in tondo all‘infinito?‖ ―That’s my style.‖

L'angelo di Santa Rosa L‘America ha un buon profumo. Asciutto. Energico. Tutto l‘opposto dell‘Inghilterra, che ha un insopportabile odore dolciastro, un olezzo stantio e indefinito come le sue stagioni. 134

Nel New Mexico, tra Tucumcari e Santa Rosa, cammino su ciò che rimane del tratto più selvaggio della 66, e respiro l‘aria dei pionieri. È l‘ultima volta che seguo questo tratto di strada. La prateria ha quasi cancellato le vecchie lastre di cemento, e i ponti sui torrenti in secca stanno crollando. Le guide dedicate all’Historic 66 non segnano più da un pezzo questo segmento, ma la mia Bibbia, A Guidebook to Highway 66, il piccolo manuale arancione del 1946 di Jack Rittenhouse, lo indica come uno dei più spettacolari. È così. Cammino e fotografo circondato dal nulla. Penso sia impossibile descrivere il piacere che provo mentre faccio queste fotografie. Scattare una foto. Clic. Sembra una cosa immediata, ma le ore non sono mai abbastanza. Si fa tardi, si è alzato un vento fastidioso. Devo smontare il cavalletto e continuare per la mia strada. Torno alla macchina, e appena mi metto al volante sento un prurito sulla gamba sinistra, e poi all‘inguine. Ahi! Mi ha punto qualcosa. Schizzo fuori e mi tolgo pantaloni e mutande. La puntura brucia come il fuoco. Do una scrollata ai jeans, e da una gamba viene fuori uno scorpione arancione lungo un paio di centimetri. Mi rimetto i vestiti il più in fretta possibile, corro in macchina e mi lancio verso Santa Rosa, la città più vicina. Guido come un pazzo, ma impiego comunque una buona mezz‘ora per arrivare a Santa Rosa. La città è deserta. Cerco disperatamente l‘insegna di una farmacia o di un ospedale, ma l‘unica cosa che trovo è una filiale della First National Bank. Varcare la soglia della banca significa passare in un attimo dal terzo mondo all‘era spaziale. Perduta in quell‘ambiente asettico, deodorato e deumidificato c‘è un angelo con i capelli biondi. Mi dirigo con decisione verso di lei e le racconto quello che mi è successo. ―Sì,‖ dice, ―effettivamente se si è allergici una puntura può essere estremamente pericolosa. Lei quando è stato punto?‖ ―Tre quarti d‘ora fa.‖ ―Allora non si preoccupi. Lei chiaramente non è allergico e quindi non ha nulla da temere. Prenda un antidolorifico. Il gonfiore se ne andrà entro un paio di giorni.‖ ―E se fossi stato allergico?‖ ―Non sarebbe qui, signore.‖

135

18

Il mercante di serpenti a sonagli viveva in un paesino a ovest di Tucumcari, uno di quei villaggi abbandonati dove la terra invade il manto stradale e il bestiame vaga ruminando tra le case in rovina. In questi paesi fantasma vivevano anche vagabondi di passaggio e qualche vecchio pazzo cocciuto che non aveva voluto lasciare la terra dove era nato. Era gente poco raccomandabile, che non amava gli intrusi e aveva sempre il fucile a portata di mano, ma la casa del mercante era troppo affascinante per non tentare di avvicinarlo e fargli il ritratto. La si riconosceva subito. Era una casetta di legno circondata da mucche e da un‘infinità di automobili di tutte le epoche abbandonate non solo sui bordi della strada, ma anche in mezzo alla prateria. Vicino al cancello c‘erano i resti di una stazione di servizio e una grande e confusa catasta di casse di legno contenenti pezzi di ricambio. Il cortile era pieno di assali e motori, e gli alberi erano carichi di lustrini d‘alluminio, colli di bottiglia e lattine di Coca-Cola appese ai rami come fossero decorazioni natalizie. Una mattina arrivai al cancello, parcheggiai l‘auto e rimasi al volante ad aspettare: se c‘era qualcuno in casa, sicuramente sarebbe uscito a controllare il forestiero. Dopo qualche minuto, infatti, David Buckland uscì nel cortile e s‘incamminò verso l‘auto. Aveva una folta barba grigia, i capelli lunghi e una T-shirt blu con un buco nel costato. Una specie di Gesù Cristo del West. Era senza scarpe. Si avvicinò e mi chiese in tono brusco cosa potesse fare per me. Gli risposi che stavo facendo un servizio fotografico sulla Route 66 e volevo avere informazioni su tutte quelle auto abbandonate. ―Perché ti interessano tanto? È tutta immondizia. Non c‘è più niente da salvare in questo casino.‖ ―Ma come mai così tante?‖ chiesi. ―Alcune sono anche piuttosto rare. Quella Edsel, quella Cadillac Eldorado laggiù, per esempio. Sono un appassionato di auto d‘epoca. Anche lei è un collezionista? ― ―No, no, assolutamente. Il fatto è che avevamo un‘officina, una stazione di servizio e un emporio, qui, prima che chiudessero la strada. Non facevamo grandi affari, questo è sicuro, ma tra i viaggiatori che passavano sulla 66 e i cow-boy della zona si riusciva ad andare avanti. E poi c‘erano le macchine. Tutte queste macchine che vedi sono state abbandonate qui dai 136

proprietari. Arrivavano con il motore in panne, erano diretti in California e non avevano i soldi per le riparazioni. Noi gli compravamo le auto per pochi dollari e li mettevamo sulla prima corriera che andava verso ovest. Era un buon business. Ma poi è arrivata l‘interstate, e la gente, le auto e il business sono spariti.‖ ―Ma la strada è aperta. Io arrivo da Chicago, sto andando a Los Angeles sul vecchio blacktop.‖ ―Amico, tu sei uno. La strada è come se fosse chiusa. Da quando c‘è l‘autostrada non ci badano più. Stanno crollando tutti i ponti nel tratto che va da Tucumcari ad Albuquerque. Di qui non passa più nessuno, credimi. Ormai ci sono solo coyote e serpenti a sonagli. L‘altro giorno il mio cane ne ha beccato uno a un paio di metri dalla soglia di casa.‖ Guardai i suoi piedi nudi. ―Calmo. L‘abbiamo fatto fuori. È il mio mestiere. Vieni, ti offro una limonata gelata. Se vuoi dare un‘occhiata ai rottami non ci sono problemi.‖ Entrai nel cortile e lo seguii in cucina. Un casino indescrivibile. Mentre mi porgeva un tazzone da caffè pieno di limonata gli chiesi se per caso avesse dei serpenti da farmi vedere. ―Tutti in Alaska,‖ rispose. ―Come sarebbe a dire, Alaska?‖ ―I serpenti a sonagli si vendono a metro. Qui il prezzo è tre dollari al metro. Ad Anchorage è quaranta dollari al metro. I miei serpenti vanno in Alaska. Se in Italia pagassero cinquanta dollari al metro, andrebbero in Italia.‖ Mi fece vedere le sue auto. Alla fine, gli chiesi se potevo fargli il ritratto. ―Okay. Ma prima devo andare a mettermi un paio di calze.‖ Lo fotografai appoggiato a una Ford V8 del 1946. Senza scarpe, ma con un bel paio di calze bianche. Partii dalla casa di David Buckland, a Newkirk, verso mezzogiorno. Seguii il consiglio del cacciatore di serpenti e presi per un centinaio di chilometri l‘autostrada, che lasciai dopo aver passato Albuquerque. Superai il Rio Grande – qui è un torrentello che si merita il nome che ha solo perché attraversa una regione desertica e quindi seguii la 66 in direzione della Mesa incantata e del pueblo di Laguna. Sapevo che dalle vie antiche delle città hopi iniziava un tratto di strada superbo, attraverso un territorio immutato dai tempi di Coronado. Mi fermai a Cubero, minuscolo centro dove Hemingway si ritirò a scrivere Il vecchio e il mare, per bere qualcosa di fresco 137

al Long Branch Saloon, e poi ripartii verso l‘Ovest. Non superai i cento chilometri all‘ora. Volevo godermi il percorso con tutta calma. Arrivai a Gallup quando il sole aveva appena iniziato a calare e un cumulo-nembo di proporzioni gigantesche oscurava la volta celeste, promettendo un temporale biblico. I raggi del sole illuminavano il paesaggio perfettamente e con insolita intensità, ma a poche decine di metri sopra la pianura il cielo era nero come l‘inchiostro. Un contrasto assolutamente straordinario. Dal cuore della nube iniziarono a sprigionarsi dei lampi che, diramandosi a ventaglio, crearono un effetto prospettico sbalorditivo. Il tutto durò meno di un minuto, poi la macchina fu sepolta sotto una tonnellata di pioggia e grandine. Ma un minuto mi era bastato per capire perché gli indiani considerino queste nubi gigantesche la casa del sacro thunderhird, l‘aquila del tuono. Dormii a Gallup, in una camera pulita e confortevole del Rancho. El Rancho era stato per anni l‘hotel più famoso dell‘Indian Country, nel dopoguerra ospitava gli attori impegnati nelle riprese dei film western nelle praterie circostanti. Nella hall e nelle stanze trovai i ritratti autografati di Bogart, Tracy, Hayworth e tutti gli altri. Dopo tanti chilometri di strada, un giorno di riposo in un albergo del genere era l‘ideale. Mi alzai tardi e feci una colazione da cow-boy. Quindi uscii a fare due passi in città. Gallup è una delle poche città americane di una certa dimensione a mantenere intatta l‘atmosfera della Main Street of America. Qui la Route 66 si trasforma in First Street e poi in Coal Street, le due vie principali, che sono piene di curio-shop indiani, insegne e diner immutati dagli anni trenta. Ci sono ancora molti ―indipendenti‖, i motel non affiliati alle catene nazionali. Vidi che alcuni, oltre al neon, esibivano la bandiera a stelle e strisce e un‘insegna con la scritta ―Proprietari americani‖. È un modo non molto simpatico di differenziarsi dai tanti piccoli motel gestiti da indiani e cingalesi. Personalmente ho sempre trovato divertente entrare in questi motel e sentire le canzoni dei film musicali di Bombay a tutto volume. Ho l‘impressione di essere tornato in Inghilterra. Ma la proprietaria spegne subito il video. Sa che i clienti americani le odiano. In America la pressione all‘integrazione culturale è dolce, ma inesorabile. La mattina dopo varcai il confine con l‘Arizona e iniziai a percorrere il tratto di strada che porta da Ashford a Topock. Questa sezione della US 66 attraversa un territorio incantato: a nord ci sono le Aubrey Cliffs e le montagne della Musica, e a sud le praterie che scendono verso il confine con la 138

California e il fiume Colorado. La strada sale dolcemente, fiancheggiata dalle rotaie della Santa Fe Railway, e va a lambire la parte meridionale delle riserve indiane supai e huvapai. All‘interno di queste riserve si trovano le forre formate dai fiumi Havasu e National; piccoli capolavori della natura, bagnati da un‘acqua limpida come il cristallo. Era quasi la mezza e il cielo cominciava, come tutti i giorni, a riempirsi di nuvolette basse e paffute. Poco prima del villaggio fantasma di Yampai fermai l‘auto, presi l‘attrezzatura fotografica e scalai la scarpata che costeggiava l‘asfalto. Dall‘altra parte della scarpata vidi il mare. Un oceano immenso, grigio, che fluttuava sornione sospinto da una brezza leggera che spirava da nord. Un oceano infinito creato dall‘erba argentea dell‘Arizona. E sopra questo mare, una moltitudine di piccole nuvole basse, tutte della stessa dimensione, che veleggiavano verso sud come una flottiglia di caravelle. È in luoghi come questi che i tecnici della Kodak venivano a fare i rilevamenti per la corretta taratura delle pellicole. Sul foglietto illustrativo del Kodachrome, vicino al disegnino con il sole e le nuvolette c‘è scritto: open shadow – 1/125 at f/8. Presi l‘esposimetro, lo puntai verso l‘alto e controllai il display: un centoventicinquesimo, diaframma otto. Alzai lo sguardo verso le nuvole, sorrisi e pensai: ho trovato il paradiso dei fotografi. Quando arrivai a Seligman mi fermai a fare il pieno in una stazione Whiting Brothers, dove con un po‘ di cartone e del nastro adesivo costruii un visiera di fortuna che applicai all‘interno del parabrezza. Dovevo guidare tutto il giorno con il sole negli occhi e non volevo fastidi. Terminato il lavoro presi la Main Street, la strada principale di Seligman, e andai a trovare Angel Delgadillo, il barbiere del paese, l‘uomo che, da solo, ha salvato dalle ruspe centinaia di chilometri di vecchio blacktop. Angel ha un rapporto speciale con l‘asfalto della 66: si ricorda dei tempi in cui la strada era ancora sterrata e racconta che quando finalmente arrivarono anche in questa remota parte dell‘Arizona i primi lastroni di cemento, lui e gli altri bambini del villaggio presero l‘abitudine di pattinare a piedi nudi su quella superficie fantascientifica, liscia come il sapone. E quando calava il sole, i giochi si facevano ancor più audaci: per il teatrino delle ombre, invece di un proiettore, i bambini usavano i fari di un‘auto in corsa. ―Beh, non erano le macchine di oggi,‖ dice sorridendo Angel, ―andavano a venti all‘ora, c‘era tutto il tempo di creare qualche ombra divertente e poi togliersi di mezzo. In alcuni casi eravamo addirittura più veloci noi del139

le auto. Erano gli anni degli arkies e degli oakies, che andavano verso ovest a bordo di vecchie carrette tutte rotte e stracariche di bagagli. Quando arrivavano da queste parti erano senza soldi, e spesso le macchine erano alla fine. Noi bambini li vedevamo spingere quelle baracche rimaste in panne ed eravamo molto crudeli con loro. Li prendevamo in giro. Alcuni di noi gli tiravano qualche sasso, si sa come possono essere cattivi i bambini. Ma i nostri genitori no, li aiutavano. Gli davano da mangiare e gli regalavano un po‘ di benzina. Giusto quanto bastava per arrivare alla prossima città. Si faceva qualsiasi cosa per farli andare avanti, per toglierseli dai piedi.‖ Il señor Delgadillo siede sull‘unica poltrona del suo negozio, una sedia con i braccioli di ceramica acquistata dal padre nel 1929, e racconta le storie della vecchia highway. Nel 1978, quando fu inaugurata l‘autostrada per Kingman, Angel fu tra i fondatori della Historic Route 66 Association of Arizona. Grazie al suo instancabile lavoro, questo tratto di strada è l‘unico di una certa lunghezza a essere ancora ufficialmente designato dal numero 66. The Saviour of Historic 66, così Angel viene descritto negli articoli appesi allo specchio del negozio, dietro alle pomate indiane contro le calvizie e al diploma di peggior barbiere della contea.

Hobohemia Quaranta chilometri a ovest di Seligman c‘è il villaggio di Thruxton. Fu fondato dal luogotenente Edward Beale, che esplorò la regione nel 1857 a capo di una carovana di muli e cammelli. È buffo quindi arrivare qui e trovare parcheggiato di fronte al glorioso Frontier Cafe un carro da pionieri trainato da otto irascibili muli. Il padrone del carro è impegnato a discutere con un paio di indiani hualapai ubriachi fradici. Le loro magliette sono inzuppate dalla saliva che gli cola incessantemente dagli angoli della bocca. Gli indiani parlano al rallentatore, e mentre parlano dondolano paurosamente; è un miracolo che non finiscano con la faccia nella polvere. Mi avvicino, ma non riesco comunque a comprendere quasi nulla di quello che dicono. Ogni tanto si bloccano e rimangono immobili, a testa bassa, a fissare la polvere. Penso: ora crollano. Invece dopo qualche istante si scuotono e riprendono la cantilena. Solo quando vedono delle donne arrivare dalla prateria ci salutano e vanno a nascondersi sotto un cespuglio. Rimango solo con il proprietario del carro. Si chiama John Stiles, ha quarantatré anni, gli occhi azzurri e un sorriso sereno. È partito tredici anni fa dall‘Arkansas con i suoi muli, e non si è ancora fermato. Sembra un 140

amish, ma sostiene di essere un umile viandante americano, nella tradizione di Whitman (al quale somiglia parecchio) e London. Gli domando come può viaggiare su un carro trainato da muli attraverso l‘America del quasiventunesimo secolo. ―Non è facile,‖ spiega. ―Bisogna entrare nelle pieghe della società. I margini. Gli uomini come me vivono ai margini delle cose.‖ Mi racconta che da quando è partito dall‘Arkansas ha percorso quasi diecimila miglia, attraversando tutte le riserve indiane del Sudovest, per via delle strade sterrate, più congeniali al suo mezzo di trasporto. Sono tredici anni che non vede la tv o ascolta la radio. Legge molto, però. La scelta è determinata dal prezzo del volume e da ciò che riesce a trovare nelle librerie di paese. John Stiles apre il libro che sta leggendo ora, The History of Bohemianism in America, e indica il bordo della pagina. ―Io vivo qui.‖ Poi punta l‘indice lontano dal libro. ―I matti e i vagabondi, invece, vivono qui.‖

Fine dell’Arizona Nei pressi di Topock, la vecchia strada supera il fiume Colorado ed entra trionfalmente in California. Dapprincipio si ha l‘impressione di essere arrivati in una regione meravigliosa, ricca di vegetazione, dove l‘aria è fresca e profuma di ozono. Ma l‘illusione svanisce quasi subito. Dopo qualche centinaio di metri, il verde improvvisamente scompare e lascia il posto agli arbusti grigi di mesquite e all‘atmosfera asfissiante del deserto. È il Mojave, il terribile deserto, il murder country di Steinbeck. L‘ultimo ostacolo che la natura pone tra il viaggiatore e la costa occidentale del continente. Attraversai il Mojave di giorno, arrivando al Roy‘s Motel di Amboy in anticipo sul tramonto. Non avevo mai visto l‘insegna del Roy‘s brillare solitaria nella notte piena di stelle del Mojave, e intendevo fermarmi lì per dormire. Purtroppo, però, il ciclopico neon a forma di freccia era ancora una volta fuori uso. Me lo disse il proprietario del motel, Buster Burris, classe 1909, un altro leggendario raconteur della Route. Buster è l‘avvoltoio della 66. Negli anni d‘oro della strada, la stazione di servizio di Amboy era l‘unica in un raggio di quaranta miglia, per cui chi aveva bisogno di benzina, di cibo, di un treno di gomme nuove per rimpiazzare quelle che si scioglievano – letteralmente – sull‘asfalto reso 141

incandescente dal sole, doveva passare da qui. E pagare tutto il triplo. Fortunatamente le storie erano gratis. Visto che il neon era spento, decisi che non aveva senso fermarsi a dormire ad Amboy. Salutai il vecchio Buster, saltai in macchina e puntai il muso verso Barstow. La strada era completamente deserta, la visibilità perfetta. E io avevo bisogno di tenermi sveglio. Abbassai i finestrini, accesi la radio a tutto volume e partii con l‘acceleratore pigiato fino in fondo. Lo tenni schiacciato mentre passavo Bagdad, Siberia, Klondike – città fantasma dai nomi favolosi – e anche quando arrivarono i primi dossi, che la Chewy superò librandosi nell‘aria come un pesce volante. A Newberry Springs sfrecciai davanti al diner che mi aveva fatto scoprire la 66 e vidi con una punta di risentimento che era stato ribattezzato Bagdad Cafe. Addio, Sidewinder, ti sotterro sotto una nuvola di polvere. Ora la vecchia highway è ricoperta di crepe e piccole buche che fanno sbandare la macchina pericolosamente. Devo lavorare di volante per evitare di andare ad arenarmi sull‘antica colata di lava del Pisgah Crater, che in questo punto ricopre di nero la sabbia pallida del Mojave. Sul ciglio della strada ci sono i messaggi lasciati dagli aficionados della Route. Qualcuno ha scritto love usando per la ―o‖ un vecchio pneumatico. Il tramonto è istantaneo. L‘oscurità si impossessa del mondo e mi lascia solo in quel paesaggio primordiale. Per una ventina di chilometri i fari della Chewy tentano inutilmente di bucare le tenebre. Poi il cielo all‘orizzonte si illumina, e i neon di Barstow annunciano l‘ultima desert town, l‘ultimo centro a misura d‘uomo prima della città infinita, Surfurbia, Smogville, Nuestra Señora de los Angeles de Porciúncula. Entrai in Barstow a centoventi all‘ora e mi infilai in una strada dove non si potevano superare i quaranta. Fui bloccato immediatamente da una sirena della polizia. Fermai l‘auto, abbassai il volume della radio e rimasi immobile, con le mani sul volante. Il poliziotto mi intimò con l‘altoparlante di non muovere un muscolo, e poi scese dalla sua auto con una potente torcia in mano. Dallo specchietto retrovisore vidi che aveva anche un fucile a pompa. Mi puntò la torcia in faccia e diede un‘occhiata all‘interno della macchina. Poi mi chiese i documenti. Quando vide il passaporto italiano me lo restituì dicendo: ―Eccone un altro a cui non vale la pena fare una multa. Dove sei diretto?‖. ―Mah, pensavo di fermarmi qui, a Barstow.‖ 142

―Okay, buona idea. Per questa volta ti do solo un‘ammonizione scritta. Ma fammi il piacere di guardare quel contachilometri. E vedi di osservare gli stop. Ne hai saltato uno là dietro.‖ ―Ma è sicuro, signore? Io non ho visto nulla. C‘era proprio scritto stop?‖ ―Sì, e sotto stop c‘era scritto togliti dai coglioni prima che cambi idea, dannato turista!‖

Happy ending È tardi. Ho preso una stanza al motel El Rancho di Barstow. Camera minuscola, letto rotto e moquette nauseabonda che puzza di sigarette. Lascio i bagagli personali in camera, nascondo l‘attrezzatura fotografica nel baule della macchina e mi incammino verso un ristorante Denny‘s. Il ristorante è quasi vuoto. Entro, mi siedo e do un‘occhiata al menu. Sulla copertina c‘è una splendida foto a colori che ritrae una bistecca alla fiorentina con contorno di piselli e patatine. Il piatto si chiama ―Harty Steak‖ e costa sei dollari e novantanove. Perfetto. Arriva la cameriera, una giovane donna molto magra, con i capelli castani. Mi mette sul tavolo il solito bicchierone di acqua e ghiaccio e prende l‘ordinazione. Pochi minuti dopo torna con una fettina minuscola, grigiastra, appena uscita dal microonde. Si siede al mio fianco e sussurra: ―Sorry baby, oggi abbiamo solo la versione in bianco e nero. Non te la prendere‖. È spiritosa, si chiama Sidney. Chiacchieriamo. Mentre bevo il terzo caffè mi racconta che vive a Barstow da qualche mese, ha una camera in affitto permanente al Motel La Siesta. La macchina l‘ha dovuta impegnare, per pagare uno squalo che le aveva prestato dei soldi, e adesso li rivuole con gli interessi del trecento per cento. ―Non ti preoccupare. Non ti chiedo soldi,‖ mi dice. ―Fra qualche mese, se va tutto bene, dovrei tornare in carreggiata. Il motel costa quasi cento dollari alla settimana, mi ci vorrà un po‘ di tempo. Ma ce la farò.‖ Sidney ha trentatré anni, ma il suo viso intelligente, raffinato, è già devastato dalle rughe. È una giocatrice professionista. Poker, soprattutto. Noto che ha delle mani perfette, da pianista. Altro che Denny‘s. Racconta che ha lavorato per due anni a Laughlin, la nuova piccola Las Vegas che sta nascendo sul confine tra Nevada, Arizona e California. Mi chiede se la conosco. ―Sì, ci sono stato. È bello arrivarci di notte, vedere tutte quelle luci germogliare dal deserto.‖ 143

―È vero, dicono che sia proprio come quando si arrivava a Las Vegas, cinquant‘anni fa. Beh, io lavoravo lì. Nei momenti buoni stavo in albergo, in quelli meno fortunati vivevo in macchina, nel parcheggio del casinò. Non era male. I giocatori – parlo dei non professionisti – non si arrabbiano troppo se a spennarli è una donna. Avevo persino iniziato a mettere da parte qualcosa. Ma poi il tizio con cui stavo, un ragazzino di ventidue anni, vedessi che carino, si è messo in un pasticcio, e per uscirne ha messo nei guai anche me. Mi ha fregato le carte di credito e così il mio credit rating è andato a farsi fottere. E senza carte di credito è quasi impossibile vivere in America.‖ Una sua collega viene al tavolo e l‘avverte che è arrivato il momento di staccare. Le offro di andare a bere una birra da qualche parte e lei dice ―ok, aspettami fuori, arrivo subito‖. Usciamo nell‘aria frizzante della notte e andiamo in un bar nelle vicinanze. Ci sediamo e per un po‘ racconto le mie faccende. Poi le chiedo quali sono i suoi progetti per il futuro. ―Non so, potrei rimanere da queste parti per qualche tempo. Forse tornare a Laughlin. Oppure iniziare un corso da infermiera. Una cosa è certa, non voglio finire in una grande città come L.A. o Las Vegas. Qui sarà anche pieno di matti, ma è quasi tutta gente innocua.‖ Dice che le cittadine desertiche della California e del Nevada si stanno riempiendo di drifters, di falliti e alcolizzati che affittano camere nei motel oppure vanno a nascondersi in qualche vecchia roulotte Airstream parcheggiata in mezzo al nulla. ―Sempre più gente lascia la vita che fa per questo non-essere. Sono stufi del prossimo. È la fine della società.‖ Le confesso che ho incontrato tante persone, in America, che sembrano vivere la propria esistenza come se fosse un film. Un colpo di scena dopo l‘altro. Alza il bicchiere e dice: ―Ci sto. Ma solo se sei in grado di promettermi un bel finale all‘antica‖. Il mattino seguente vado al Denny‘s e ordino la colazione. Sidney arriva portando un vassoio con uova strapazzate, caffè, croissant e un bicchierone di vero succo d‘arancia. ―Ecco qua. Versione a colori, con i sottotitoli, per il finale hollywoodiano del mio amico Alex. Lasciami una bella mancia, baby.‖

144

19

Salutai Sidney e partii in direzione di Los Angeles. Erano solo le dieci del mattino, ma il sole era già alto nel cielo e la temperatura all‘interno della macchina era intollerabile. La strada era un rettilineo senza fine che prima di raggiungere l‘orizzonte cominciava a disgregarsi, a ballare, a confondere le idee. Fastidioso. Arrivando a Lenwood mi sembrò di vedere un gigantesco quaderno abbandonato nel deserto, con le pagine vuote e bianche rivolte verso il sole lattiginoso di mezzogiorno. Non era un miraggio. Era lo scheletro di un cinema drive-in, il Bar-Len, in disuso da più di trent‘anni. Presi una stradina sterrata che portava in quella direzione, e dopo qualche minuto ero sotto l‘enorme schermo bianco, a passeggiare e fantasticare su tutti quei film che mi avevano raccontato il mito della strada americana. Il protagonista di Nel corso del tempo di Wim Wenders a un certo punto afferma: ―Gli americani hanno preso in ostaggio il nostro subconscio‖. Ha ragione. Nel mio caso la colpa è soprattutto di un film, che vidi in un cinema d‘essay di Wardour Street, a Londra, quando avevo sedici anni. Si chiamava Two Lane Blacktop e non aveva né inizio né fine, ma mi piacque comunque da morire, soprattutto per due particolari, assolutamente vacui: il rumore del motore preparato per le corse drag della Chevrolet dei due protagonisti, e il viso della ragazza che li accompagna. Li ricordavo ancora perfettamente, come se fossero proiettati su questo schermo. E poi mi venne in mente una foto, un‘immagine notturna di Winston Link che ritrae un cinema drive-in degli anni cinquanta, pieno di auto con i ragazzi avvinghiati alla fidanzata che guardano un film mentre passa a tutta velocità, vicinissimo al drive-in, un treno a vapore della Norfolk & Western Railway. Sullo schermo si vede un aereo appena decollato: trains, planes and automobiles; ecco, in un‘unica immagine, le tre divinità degli americani. Seguii la US 66 fino a Victorville, dove la Route – rimpiazzata dall‘Internate 15 – valica le San Gabriel Mountains presso il Cajon Pass e poi scende velocemente verso la valle di San Bernardino. Una volta raggiunta la pianura intendevo prendere Foothill Boulevard e seguire la 66 fino al capolinea – il molo di Santa Monica – dove, per un brevissimo ed eroico tratto, la strada tenta addirittura di sfidare l‘Oceano Pacifico. Sulla 145

via sarei passato a dare un‘occhiata al Wigwam, il famoso motel di Rialto con i bungalow a forma di tenda indiana e l‘insegna che ammicca maliziosa: ―L‘avete mai fatto in un tepee?‖. Salii sulla rampa della freeway per infilarmi nel traffico diretto a Los Angeles, e come un foglia ingiallita venni spazzato via dal fiume in piena che scorreva verso valle. Era una sensazione meravigliosa. Più che guidare, mi sembrava di cavalcare un‘onda, di fare surf automobilistico. Le freeway rappresentano un canovaccio lungo più di mille chilometri, sul quale mezzo milione di automobili ricamano ogni giorno la storia di L.A. Su ognuna delle quattro, cinque e in alcuni casi addirittura sei corsie delle strade di Los Angeles si può viaggiare alla massima velocità, superare e farsi superare, partecipare a un rito che gli angeleños descrivono con un gioco di parole: freeway of life, perché a L.A. l‘autostrada è stile di vita, monumento, paesaggio. La prima freeway, costruita a partire dal 1934, è anche la prima autostrada sopraelevata del mondo. Quando fu terminata nel 1939 l‘Arroyo Seco Parkway era lunga nove chilometri e mezzo, ed era circondata da giardini e aiuole, come voleva lo stile parkway. Ci sono ancora, quei nove chilometri. Oggi fanno parte della Pasadena Freeway, e percorrerli è un‘esperienza da brivido, perché le rampe sono strettissime e le corsie d‘accesso inesistenti: i progettisti avevano in mente le auto degli anni venti. Ma i dettagli, le decorazioni in stile art déco, i giardini pensili sopra l‘entrata delle gallerie, sono stupendi. L‘Arroyo Seco è come un computer dell‘Ottocento: funziona, ma la tastiera è d‘avorio, e il monitor è rivestito di madreperla. Mi lasciai trasportare dalla corrente fino all‘uscita per San Bernardino, dove abbandonai l‘autostrada e presi il Foothill Boulevard verso Rialto. Mi fermai al Wigwam Village Motel per scattare qualche foto, anche se il nuovo proprietario – un orientale che non capiva una parola d‘inglese – non era molto d‘accordo, e poi continuai verso Pasadena, dove salii sulle esili rampe metalliche dell‘Arroyo Seco. La radio annunciava un pomeriggio di emergenza smog, ma tenni lo stesso i finestrini abbassati. Avrei dato qualsiasi cosa per un‘auto scoperta: non c‘è niente di più bello che concludere un viaggio di tremila e seicento chilometri arrivando sulle sponde del Pacifico con il tetto abbassato. All‘altezza di Echo Park lasciai la freeway e iniziai la lunga lenta marcia su Sunset Boulevard, in direzione di Santa Monica. Sulla riva orientale del lago di Echo Park spuntava dallo smog la cupola dell‘Angelus Tempie 146

di Aimee Semple McPherson, predicatrice carismatica e teatrale degli anni venti che aveva l‘abitudine di vivacizzare le sue messe inseguendo, truccata da George Washington e a cavallo di una motocicletta, alcuni seguaci travestiti da diavolo. Nella città dove oggi sorge l‘unica chiesa drive-in d‘America, questo tipo di comportamento era ovviamente apprezzato e considerato educativo. Ora che mi trovavo sul Sunset, anch‘io ero impegnato a venerare i miei idoli. La Chiesa dell‘Architettura Elettrografica e dell‘Assemblaggio Simbolico era presente a ogni angolo di strada, con un drive-in, un diner, un segnale che sfidava la forza di gravità in vetta a un traliccio metallico. Los Angeles è la città istantanea. La si legge in un tremolio di neon, in una scena che sfila per un attimo davanti al finestrino di una macchina in corsa, ma rimane per sempre nella memoria. È qui, nella metropoli che ha elevato l‘auto a opera d‘arte, a totem, che gli edifici furono costretti a cambiare forma per far posto alle macchine. Negli anni trenta nacquero Simon‘s e Herbert‘s, ristoranti drive-in circolari sovrastati da imponenti torri luminose, e i famosi Googie‘s, coffe-shop dove l‘intero edificio era trasformato in una gigantesca insegna. Tra questi c‘era anche un piccolo hamburger-bar, sospeso tra due archi di cemento color giallo canarino: il primo ristorante dei fratelli Dick e Maurice McDonald. Era situato al 1398 di East Street, a San Bernardino, poco lontano dalla Route 66. Ebbe un tale successo che, paradossalmente, decretò la fine dei drive-in: il fast-food era più veloce persino delle auto. Procedendo sul Sunset mi fermai da Ben Frank‘s, il diner preferito da Tom Waits, per mangiare un boccone. Ripartii e all‘incrocio con il Santa Monica Boulevard trovai finalmente l‘insegna di Hollywood che troneggiava a mezza costa. Era il segnale che la strada stava per finire, e un ricordo della città dove era iniziata: Hollywood infatti prende il nome da un sobborgo di Chicago. Seguii il sole fino al punto in cui il Santa Monica Boulevard incrocia Ocean Avenue. Parcheggiai e mi diressi a piedi verso il molo municipale. Mi misi a guardare l‘oceano. Arrivò un vagabondo a cui mancava una gamba. Mi chiese se avevo un paio di dollari da regalare. Risposi di sì. Mentre prendeva i soldi, mi chiese da dove arrivavo. ―Da Chicago. Sulla 66.‖ ―All the way?‖ ―All the way.‖ 147

Epilogo C‘è un racconto, scritto da William Gibson prima di diventare famoso, nel quale un fotografo vaga per la California meridionale alla ricerca della Airstream Futuropolis, la città dell‘architettura futurista americana. Il fotografo esce di senno e, lentamente ma inesorabilmente, finisce per scivolare nel Continuum di Gernsback, un universo parallelo dove tutti i sogni degli anni trenta e quaranta si sono avverati, un mondo perfetto dove gli abitanti sono tutti belli, biondi, e la tecnologia regna sovrana su una natura completamente sottomessa. Il mondo delle riviste di fantascienza di Hugo Gernsback. Se c‘è una città che ha cercato di tradurre in realtà quell‘utopia, questa città è Los Angeles. Tra il 1930 e il 1960 L.A. fu la città del futuro. Anch‘io ho l‘impressione di entrare in un‘altra dimensione, quando vedo materializzarsi nel mirino della macchina fotografica il tetto a cuneo di Norm‘s, a La Cianega, o l‘insegna da Cronache marziane della Pontiac di La Brea. Gli autolavaggi di L.A. – ce ne sono decine in tutta la città – sono come stazioni orbitanti, sembrano fatti apposta per lavare le Firebird, le LaSabre, le Mystere, le incredibili dream-car create nel primo dopoguerra dai designer di Los Angeles, che al posto dell‘abitacolo avevano una bolla di plexiglas, ali e pinne invece di porte e cofani, ed erano senza fanali, perché nel futuro tutte le strade sarebbero state illuminate. Non erano automobili. Erano le astronavi terrestri di Buck Rogers, pronte per andare alla conquista del paesaggio nucleare, levigato e assurdo, creato dall‘ottimismo tecnologico dell‘America anni cinquanta. Non ne costruirono nemmeno una. Lentamente, il futuro inizio a sfuggire di mano agli americani. La Storia consumò la sua dolce vendetta contro quel paese che aveva sempre cercato di rinnegarla. E l‘architettura del domani divenne una rovina del passato, costretta a sopravvivere nelle zone meno ricche della città, assediata dai mostri del franchising e dalle clonazioni imposte dall‘economia globale. L‘esempio più significativo di questo futuro tradito si trova in uno dei quartieri peggiori di L.A., in un terreno incolto che dà sui binari della ferrovia. Le torri di Watts sembrano uscite dalla penna di Frank Paul, l‘architetto che negli anni trenta illustrava le copertine della rivista di fantascienza 148

―Amazing Stories‖. Le tre torri a spirale, esili strutture di acciaio e cemento alte trenta metri e decorate con quarantamila frammenti di vetro, ceramica e conchiglie, sono identiche a quelle inventate da Paul per le sue cities of the future. Ma non sono il prodotto di una civiltà superiore. Sono il frutto di un‘ossessione personale, il lavoro di una vita. Vennero costruite da un immigrato italiano, Sabato ―Sam‖ Rodia, tra il 1921 e il 1955. Le volle chiamare ―Nuestro Pueblo‖, ma oggi sono conosciute semplicemente come Watts Towers, e rappresentano la più grande struttura al mondo costruita da un solo uomo. Le Watts Towers sono la prova che si può creare qualcosa di stupendo con i cocci, l‘immondizia, gli scarti dell‘umanità. Sono l‘incarnazione più pura e commovente del sogno americano. Mi siedo sul cofano della macchina e le osservo svanire nel cielo avvelenato di Los Angeles, inghiottite da un tramonto al neon.

149