La Rivoluzione francese  
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Zitiervorschau

ALAN FORREST LA RIVOLUZIONE FRANCESE IL MULINO

ISBN 88-15-06837-6 Edizione originale: The French Revolution, Oxford-Cambridge (Mass.), Blackwell, 1995. Copyright © 1995 by Alan Forrest. Copyright © 1999 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Giovanni Arganese. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

INDICE Prefazione p. 7 Introduzione 9 I. 11 1789 21 II. La politica 47 III. La società 81 IV. La guerra 113 V. L'opposizione 135 Cronologia 161 Riferimenti bibliografici ^ 169 Letture consigliate \ 181 Indice dei nomi 189 5

PREFAZIONE È con particolare piacere che presento questo libro al pubblico di un paese che tanto da vicino aderì all'ideologia e agli avvenimenti rivoluzionari, un paese i cui.studiosi contribuirono in modo determinante al dibattito sviluppatosi più tardi sul significato e sull'importanza storica della rivoluzione. Nonostante la dichiarata ostilità dei suoi governanti, la popolazione italiana non si mostrò insensibile, infatti, al messaggio rivoluzionario che la Francia andò diffondendo negli ultimi anni dell'antico regime. Nel 1789 le idee di libertà e uguaglianza venivano discusse sui giornali di Roma o di Napoli in termini molto simili a quelli che circolavano nella stampa parigina o delle principali città della provincia francese. E benché fossero soprattutto i soldati francesi a imporre il programma rivoluzionario al popolo italiano gran parte della popolazione infatti accolse passivamente le idee d'Oltralpe - non mancarono cellule di simpatizzanti repubblicani e militanti giacobini pronte a rispondere alla chiamata alle armi dei rivoluzionari e la cui influenza si sarebbe manifestata nella copiosa produzione di catechismi rivoluzionari apparsi in Italia tra il 1796 e il 1799. Allo stesso modo, negli ultimi duecento anni gli storici italiani hanno occupato un posto di rilievo tra quanti hanno cercato di spiegare gli avvenimenti dell'ultimo decennio del XVIII secolo e di elaborare un'analisi coerente del processo rivoluzionario francese. Se da un lato non poteva risultare sorprendente la rilevanza del contributo italiano alla storiografia

marxista sul 1789, dall'altro la stessa energia è stata profusa dagli storici italiani dell'ultimo ventennio nella ricerca di una forma di consenso postmarxista attorno a quella che i loro predecessori avevano salutato come la «grande rivoluzione francese». Questo volumetto apparirà ad alcuni come un ennesi7

mo - e relativamente minore - contributo a tale dibattito, in cui per di più vengono privilegiati i temi caratteristici della storiografia anglosassone. Si noti però che non ho mai pensato di scrivere un trattato generale sulla storia della rivoluzione francese. Queste pagine vanno intese piuttosto come l'interpretazione di uno storico dello stato attuale degli studi dedicati ad essa, dopo le polemiche spesso roventi del revisionismo marxista degli anni Settanta e Ottanta e l'enorme sforzo intellettuale prodotto in occasione del bicentenario del 1989, e come un tentativo di individuare e analizzare i temi principali dell'esperienza rivoluzionaria così come furono percepiti dagli uomini e dalle donne che la vissero. E per questo motivo che è stata ridotta al minimo la discussione delle ideologie e delle teorie politiche, mentre sono stati privilegiati i principi fondamentali che animarono il decennio rivoluzionario: la distruzione del privilegio e la costruzione eli nuove norme che permettessero alla società di funzionare. I rivoluzionari intesero creare nuove istituzioni e nuovi atteggiamenti, un nuovo ordine sociale e politico in sostituzione del vecchio. La loro visione si fondò sulle idee di libertà e di individualismo e sul concetto di cittadinanza, che conferiva agli uomini la titolarità dei diritti civili fondamentali indipendentemente dalla nascita e dal ceto di appartenenza ma che - soprattutto in tempo di guerra - portò ad anteporre a ogni altra cosa i doveri e gli obblighi inerenti alla cittadinanza stessa. E questo il filo logico che percorre tutto il libro e che ho cercato di sviluppare non attraverso

una narrazione cronologica bensì piuttosto attraverso una serie eli capitoli tematici interrelati, dedicati alla politica e alla società, alla guerra e all'opposizione: una lettura grazie alla quale mi pare si possa giungere a comprendere meglio l'esperienza quotidiana della rivoluzione, quanto meno in relazione alle fasi successive agli iniziali entusiasmi dell'estate del 1789. 8

INTRODUZIONE È opportuno iniziare con un'avvertenza: un libro come questo deve necessariamente porsi un obiettivo limitato. Non avrebbe senso cercare di offrire un'ennesima storia generale della rivoluzione francese, soprattutto se si considera che esistono numerose opere del genere di buon livello, che analizzano fin nei minimi dettagli i principali avvenimenti compresi tra gli anni 1787 e 1799, e che offrono un'interpretazione complessiva della rivoluzione. Il più modesto obiettivo di questo volume è analizzare la natura delle diverse novità portate dalla rivoluzione: cambiamenti sociali e ideologici, ma anche cambiamenti delle istituzioni politiche. I rivoluzionari si proposero la distruzione di gran parte della struttura su cui si reggeva la Francia c\e\Y ancien regime, ma il loro intento non fu solo distruttivo, nonostante il manifesto vandalismo di molti giacobini: essi cercarono anche di creare nuove istituzioni e nuovi atteggiamenti sociali, di fondare un nuovo ordine sociale e politico in sostituzione del vecchio. Questo processo costituisce l'argomento del libro, che si concentra sulla rivoluzione in quanto tale, vale a dire sul decennio di aniministrazione rivoluzionaria seguito alla convocazione degli Stati generali e culminato con il colpo di stato del brumaio che portò al potere Bona parte. Non interessano qui le cause della rivoluzione o il crollo del governo di Luigi XVI, ne la concomitanza eli crisi economica e rabbia

popolare che contrassegnò la fine del decennio 17801790. Questi temi, senz'altro importanti, sono già stati studiati in dettaglio in altre opere, in particolare da William Doyle nel suo Origins of the Treneh revolution [Doyle 1980] e da Peter Campbell in The ancien regime in Trance [Campbell 1988, 71-82], e hanno alimentato in gran parte la rinascita degli studi sulla rivoluzione, soprattutto in Gran Bretagna e 9

negli Stati Uniti, a partire dalla metà degli anni Sessanta. Piuttosto che sul problema delle cause della rivoluzione, questo volume si concentra invece sul carattere dell'esperienza rivoluzionaria in quanto tale: fino a che punto essa capovolse, come avevano promesso i suoi leader, l'assetto politico settecentesco instaurando al suo posto un sistema di governo autenticamente rivoluzionario? E in quale misura riuscì a realizzare il suo ambizioso programma sociale? I rivoluzionari caddero forse vittime della loro stessa ideologia e propaganda? O la rivoluzione va considerata nel suo complesso un tragico fallimento provocato dall'intolleranza religiosa, dalle guerre europee e da un rigido centralismo? Lo scopo, in poche parole, è proporre una lettura del decennio rivoluzionario che possa aiutare a farne comprendere in generale i successi e i fallimenti. Chi volesse una storia complessiva del periodo in questione non ha che l'imbarazzo della scelta tra le varie posizioni storiografiche che si sono contrapposte negli ultimi cinquant'anni. Georges Lefebvre e Albert Soboul hanno esposto con gradi diversi di franchezza e passione la visione repubblicana classica che ha monopolizzato l'opinione francese per gran parte del Novecento [Lefebvre 1951, trad. it. 1962; Soboul 1962, trad. it. 1964]. Solo in anni a noi più vicini quell'interpretazione è stata sfidata, in Francia, talvolta con veemente dialettica e con un taglio spesso ideologico, da Francois Furet e altri studiosi di vedute liberali e antimarxiste [Furet 1978, trad. it. 1980, 93-146]. Tuttavia, dopo la morte di

Soboul nel 1982, pochi ancora difendono in Francia l'ortodossia repubblicana o sostengono che il 1789 rappresentò la grande rivoluzione borghese che pose fine al regime feudale e spianò la strada a quello borghese. Il successore di Soboul alla cattedra della Sorbona, Michel Vovelle, è un eminente storico sociale, vicino per temperamento alla scuola delle Annales, molto più interessato alla storia della società rurale, della fede religiosa e delle aspirazioni sociali che alla transizione dal leu da lesinerò al capitalismo. Negli ulti: mi anni il suo interesse si è sempre più spostato verso le innumerevoli rappresentazioni e immagini della rivoluzione francese, tema al quale ha dedicato la conferenza del bicentenario a Parigi [Vovelle 1988; 1989; 1993a]. Nella stessa Europa orientale il tramonto dei postulati ideologie^ 10

sta sgretolando ogni uniformità di vedute sulla grande rivoluzione francese. In Gran Bretagna, dove non è mai esistita quella forte connotazione repubblicana che ha caratterizzato, per ragioni politiche facilmente comprensibili, la realtà francese, il dibattito sulla rivoluzione ha assunto forme assai differenti. Nonostante il grande rispetto nutrito in particolare per Lefebvre, fin dalla fine degli anni Cinquanta prese avvio la contestazione della sua ortodossia repubblicana. Storici come Norman Hampson si sono sottratti a ogni lettura sociale complessiva per privilegiare invece lo studio dei fondamenti intellettuali del regime rivoluzionario, mentre Richard Cobb ha affermato la propria profonda avversità al meccanicismo degli approcci dialettici. E il magistrale esercizio di scetticismo accademico di Alfred Cobban, The social interpretation of the French revolution ha fornito un contributo significativo nel decretare il superamento dell'approccio marxista [Cobban 1964, trad. it. 1967, 151-60]. In quegli anni la scena inglese era dominata da una corrente storiografica liberale che tendeva a concentrare le proprie forze sullo smantellamento delle tesi marxiste suW ancien regime francese e sul ruolo della rivoluzione nello sviluppo storico mondiale. Da qui la spiccata enfasi sui rapporti di causa ed effetto e un'attenzione particolare non per la rivoluzione in sé ma per ciò che la precedette. Il bicentenario del 1989 ha enormemente accresciuto la profusione di opere a disposizione degli studiosi. In inglese,

Sono apparse due grandi opere generali di William Doyle e Simon Schama [Doyle 1989; Schama 1989, trad. it. 1989]. In Francia sono state avviate molte preziose iniziative editoriali, tra le quali una serie di dizionari storici del periodo !voluzionario e un eccellente atlante. Il rinnovato interesse del pubblico per la rivoluzione è stato stimolato, almeno poraneamente, dall'attenzione a essa dedicata dai me: Francois Furet in particolare è diventato in Francia una rta di figura di culto, e la scuola di storici dei movimenti tellettuali che si raccoglie attorno a lui è stata acclamata che fuori della cerchia ristretta degli specialisti di storia a rivoluzione. I preparativi per il bicentenario hanno Itre dato occasione nella seconda metà degli anni Ottanta iquantità enorme di pubblicazioni dedicate soprattutto

alla storia culturale del periodo, e hanno spinto gli studiosi a confrontarsi in una ricca serie di conferenze e colloqui, in Francia come all'estero. Gran parte dei costi è stata coperta dal governo francese ansioso di identificarsi con la causa dei Diritti dell'uomo e dal presidente Francois Mitterrand, per il quale la celebrazione del 1789 era una sorta di crociata personale. Il bicentenario ha rappresentato una ricerca erudita e nello stesso tempo un'iniziativa politica, una miscela leggermente incongrua di analisi e celebrazione. Entrambi gli aspetti hanno raggiunto il culmine con l'anniversario della presa della Bastiglia, il 14 luglio. Il Congrès Mondial ha radunato studiosi di tutto il mondo in una conferenza alla Sorbona durata una settimana, mentre gli audaci quadri viventi della sontuosa processione del 14 luglio lungo gli Champs Elysées hanno suscitato l'entusiasmo popolare. La Francia non poteva permettersi di ignorare il bicentenario, ma per l'opinione repubblicana alcuni dei connotati della grande rivoluzione - la dittatura giacobina, il Terrore, il centralismo statale, l'intolleranza religiosa - risultavano meno accettabili rispetto a cent'anni prima. La rivoluzione è parte della tradizione politica del paese, un evento che non solo contribuisce alla reputazione internazionale del paese ma dà una certa legittimità alla tradizione repubblicana. I francesi riescono tuttora a identificarsi con la loro rivoluzione più di qualunque altro popolo, anche se Francois Furet ha ragione quando afferma che il grado di tale identificazione si è notevolmente attenuato a partire dai

primi anni Settanta. Il governo socialista, imbevuto delle tradizioni radicali ottocentesche, ha ritenuto doveroso risvegliare un interesse popolare in declino considerando vantaggioso sul piano politico identificarsi con gli aspetti migliori di ciò che la rivoluzione aveva rappresentato. Mentre però nel 1889, all'epoca del primo centenario, i repubblicani avevano ribadito che l'intera rivoluzione era al di sopra delle critiche, Francois Mitterrand e i suoi consiglieri sono stati più prudenti. L'egualitarismo non sempre suscitava echi positivi, mentre un'insistenza eccessiva sul centralismo legislativo sarebbe apparsa particolarmente stridente nell'Europa della fine degli anni Ottanta. Dopo tutto, il 1989 non è stato solo l'anno del bicentenario, ma anche l'anno della sfida sistematica ai regimi centralisti dell'Europa del12

l'est e del ripudio dei loro principi da parte di settori cospicui delle rispettive popolazioni, l'anno che avrebbe visto il crollo del muro di Berlino. Tutto ciò indurrebbe a pensare che il lascito rivoluzionario non sia rimasto indenne, e che il suo messaggio libertario sia sopravvissuto meglio di quello egualitario ai duecento anni di storia. Sia nell'analisi degli storici che nelle pubbliche dichiarazioni dei politici era evidente che molto era cambiato tra il 1889 e il 1989, tra la Terza e la Quinta repubblica. Nel 1889 un deputato dell'Aube, Jean-Casimir Périer, poteva proclamare senza ambiguità che le idee dei rivoluzionari non avevano perso alcunché della loro forza. «La nuova nazione ascolterà perché è convinta» disse in occasione di un grande banchetto a Vizille, «perdonerà perché è forte, aspetterà perché è giovane». E così proseguiva: «il futuro appartiene al tipo di società forgiato dalla rivoluzione: il futuro appartiene alla repubblica che, nella sfera politica, è la consacrazione finale dell'opera che i nostri padri realizzarono» [Nieto 1988, 177]. I principi della rivoluzione, dichiarava senza mezzi termini a un pubblico estatico di credenti, rimangono oggi i nostri principi. Gli studiosi come Aulard e Mathiez nominati alla nuova cattedra di storia della rivoluzione francese istituita presso la Sorbona avrebbero avuto poche ragioni di obiettare: essi erano profondamente fedeli a una visione radicale o socialista della Francia. Aulard in realtà tendeva a proiettare la sua visione della rivoluzione sulla figura di Danton, Mathiez si richiamava invece a Robespierre;

le differenze tra i due erano però molto meno significative delle affinità. Entrambi vedevano nella rivoluzione la genesi di quel repubblicanesimo secolare e anticlericale in cui credevano devotamente. In loro l'ammirazione per la rivoluzione e la fede nella repubblica facevano tutt'uno. Nel 1989, invece, né i politici né gli storici sono stati disposti a rilasciare un'analoga dichiarazione di fede. Durante i preparativi per il bicentenario alcuni storici hanno espresso un'aperta avversione per la rivoluzione e per i guasti permanenti che a loro modo di vedere essa ha inferto alla cietà francese. A destra, ad esempio, storici come Pierre aunu e Reynald Secher hanno condannato aspramente i Voluzionari denunciandone l'intrinseca brutalità e identiando la Prima repubblica non con la generosità dei suoi

ideali bensì col «genocidio» della guerra civile nella Vandea [Secher 1986, trad. it. 1989, introduzione di Chaunu]. Non erano molti i politici che avevano interesse a celebrare i successi della rivoluzione, mentre coloro che come Mitterrand erano dalla parte dei rivoluzionari si sono sforzati di porre precisi confini alla loro lealtà. Nelle sue dichiarazioni pubbliche, il presidente della repubblica ha parlato di una rivoluzione attentamente depurata: non si faceva menzione del potere dello stato, del centralismo, degli aspri conflitti tra chiesa e stato che tanto avevano appassionato i radicali del secolo precedente; poco si insisteva sull'ideale di uguaglianza. La rivoluzione di Mitterrand si concentrava invece, prudentemente, su quegli aspetti che meno dividevano il popolo francese: l'individualismo del 1789, i diritti civili dell'uomo e del cittadino. In questi elementi, osservati attraverso la lente altamente selettiva del bicentenario, era la vera essenza della rivoluzione francese. Sarebbe difficile sostenere che il bicentenario abbia imposto una nuova interpretazione o affermato una nuova ortodossia. E raro che celebrazioni pubbliche di questo tipo abbiano effetti del genere. Tuttavia le opere degli storici apparse negli anni Ottanta, in gran parte a ridosso del bicentenario, hanno abbandonato alcuni dei dibattiti e delle ossessioni della generazione precedente. Se da un lato è morto a tutti gli effetti il paradigma marxista di una rivoluzione che portò la Francia dal feudalesimo al capitalismo, dall'altro è tramontato l'interesse per le classiche tesi

«revisioniste» sulle cause del 1789. Per un verso il mutamento completo dello scenario storiografico ha reso superfluo il dibattito; per un altro, il concetto stesso di «revisionismo», di per sé insoddisfacente e mai gradito come etichetta né dai marxisti né dai loro avversari, ha perso ogni parvenza di utilità. La trattazione accademica della rivoluzione ha beneficiato di basi molto più solide negli anni Novanta, per la sua maggiore apertura (qualcuno direbbe confusione) e certamente per la'necessità molto meno avvertita di contrapporsi in schieramenti rivali. Fin dall'inizio degli anni Ottanta il dibattito storico si è svolto per lo più sul piano della storia politica, con Furet, Keith Baker e altri a insistere sul primato delle motivazioni politiche nella rivoluzione francese. La loro definizione di 14

storia politica tuttavia non è la stessa degli storici di soli dieci o venti anni prima. I nuovi oggetti di studio erano le forme e i processi politici: al centro dell'interesse si trovavano ora i club, le società popolari, i giornali, i libelli, le elezioni e il simbolismo politico. Poiché il linguaggio della rivoluzione francese fu politico, una maggiore attenzione venne prestata a quel linguaggio, al discorso della politica rivoluzionaria, nel tentativo di comprendere il significato che esso ebbe per i contemporanei. In tale processo l'attenzione degli studiosi si è spostata da quelle fasi della rivoluzione in cui venne conculcata la libertà di espressione - in particolare a partire dall'anno II e dalla repubblica giacobina - a quelli in cui il dibattito fu relativamente libero, quando il carattere della rivoluzione era ancora determinato dai gruppi rivali in lotta, conservatori e costituzionalisti, radicali e patrioti. E poiché la maggioranza di coloro che svolsero un ruolo determinante nell'elaborazione della costituzione e nelle maggiori decisioni politiche del periodo dell'Assemblea nazionale e dell'Assemblea costituente proveniva dall'elite illuminata degli ultimi anni àtìYancien regime, nuovo interesse hanno assunto l'illuminismo e le dinamiche politiche di fine Settecento. Storici come gli statunitensi Keith Baker e Lynn Hunt non sono tanto interessati agli eventi quotidiani della politica rivoluzionaria quanto a una realtà più ampia che chiamano cultura politica. Hunt non ha dubbi sulla sua importanza per i contemporanei: «Il risultato più importante della Rivoluzione francese fu l'istituirsi di una cultura politica completamente

nuova» [Hunt 1984, trad. it. 1989, 21]. Lascio alle parole di Baker l'illustrazione del concetto, che è alla base di gran parte degli scritti politici moderni sul 1789: Se la politica, in senso ampio, è l'attività attraverso la quale individui e gruppi sociali elaborano, negoziano, traducono in pratica e impongono le loro rivendicazioni a quelle concorrenti, allora la cultura politica può essere intesa come quell'insieme di discorsi e di pratiche che caratterizzano tale attività in una data comunità [1987, XII]. Uno dei compiti primari dei rivoluzionari, che ripudiavano molte delle norme accettate di condotta politica 15

à^XY ancien regime, fu per l'appunto quello di costruirsi un nuovo ordine rivoluzionario, una nuova e peculiare cultura politica. L'enfasi sulla cultura ha sostanzialmente liquidato l'interesse per la classe, in quanto la cultura politica può essere presentata come parte di un processo più complessivo di creazione - secondo il termine di Mona Ozouf - deìYhomme nouveau, un essere umano nuovo, rigenerato, rivoluzionario, purificato dagli egoismi e dagli atteggiamenti culturali àe\Y ancien regime [Lucas 1988, 213]. Il successo della rivoluzione presupponeva la trasmissione di postulati culturali nuovi e l'affermazione di nuovi valori, e i processi multiformi che tutto ciò comportava sono stati oggetto dell'esame non solo degli storici ma anche degli antropologi, dei linguisti, degli storici dell'arte e così via. Hanno acquisito nuova importanza, in questo contesto, gli artisti: non solo il più eminente, Jacques-Louis David, ma i mille che praticarono la loro arte nel mezzo della rivoluzione e che vennero a patti con la nuova retorica dell'epoca. L'arte, infatti, come il linguaggio, può essere rivelatrice dei postulati fondamentali, sociali e ideologici, dell'epoca. Lo stesso si dica della musica, largamente impiegata nelle feste simboliche degli anni della rivoluzione: pensiamo alle grandi differenze tra le opere liturgiche del 1789 e 1790 e la lirica profondamente sentita di André Chenier. Le celebrazioni diventarono esse stesse una forma d'arte (quelle per l'Essere Supremo furono una delle massime invenzioni rivoluzionarie di David), e i

giacobini furono ben consapevoli del potere di immagini quali l'altare della patria, l'albero della libertà o il bonnet rouge (il berretto frigio indossato dai sanculotti). Lynn Hunt ha studiato il simbolismo delle immagini patriottiche, le rappresentazioni conflittuali del radicalismo nel simbolismo sessuato di Ercole e Marianna [1984, trad. it. 1989, 89-116]. James Leith ha dimostrato l'importanza della religiosità nella cultura della rivoluzione francese, sia nel fervore del cerimoniale patriottico - spesso in aperta emulazione delle pratiche ecclesiastiche - che nella luminosità della sua iconografia > [1989, 171-85], E per molti rivoluzionari, affascinati dal potere delle parole, il linguaggio stesso divenne uno strumento culturale, l'uso ripetuto dell'espressione iconograficax una forma di espressione e un catalizzatore del consenso. La 16

retorica ebbe un suo simbolismo, e le parole erano in grado di spronare all'azione. Già nel 1789 Sieyès parlò della novità radicale del linguaggio politico della rivoluzione; nel 1793, nota Jacques Guilhaumou, quel linguaggio era divenuto la langue du peuple, ponendo «il linguaggio politico al centro del sapere rivoluzionario e del sapere giacobino in particolare » [1989, 118]. La cultura rivoluzionaria dipendeva intimamente da tale rappresentazione: il libro, il libello, la stampa, tutte queste cose divennero elementi di una veemente crociata culturale per la riforma delle mentalità e l'estirpazione delle ultime vestigia dell''ancien regime. Di fronte al dominio della storia politica, che ne è stato della storia sociale? Poiché la vecchia storia sociale era strettamente intrecciata all'ortodossia del passaggio dal feudalesimo al capitalismo, c'era sempre il pericolo che l'attacco al modello marxista-repubblicano portasse con sé un rifiuto di qualsiasi lettura sociale della rivoluzione francese. In Francia, ci ricorda Steven Kaplan [1993, 734], Francois Furet ha gradualmente allargato la sua offensiva antimarxista fino a includervi ogni forma di interpretazione sociale del 1789. Non è stato il solo: anche nel mondo anglosassone alcuni storici cercano di negare ogni autentica dimensione sociale alla rivoluzione. Simon Schama, ad esempio, sostiene in Citizens che «i drastici cambiamenti sociali attribuiti alla rivoluzione paiono meno netti, se non addirittura invisibili », aggiungendo per soprammercato che la borghesia, un tempo raffigurata come forza motrice della rivoluzione, «è

divenuta una specie di zombie sociale, prodotto dell'ossessione storiografica più che concreta realtà storica» [Schama 1989, trad. it. 1989, XII]. Ammettendo che abbia ragione anche se molti criticherebbero le sue parole per l'eccessiva vena polemica in esse contenuta - la conseguenza è forse v necessariamente che tutte le politiche sociali degli anni rivo' luzionari non furono altro che vuota impostura? Anche se gli storici sociali non hanno proposto alcuna interpretazione postmarxista della rivoluzione, non ne consegue necessariaente che la storia socioeconomica del periodo sia condannata all'irrilevanza. Anche in tempi rivoluzionari la politica òn è tutto, e concentrarsi solo sul discorso politico è di per 'unaforma di riduzionismo. E senz'altro vero che la scuola prica marxista ha sopravvalutato l'impatto sociale della 17

rivoluzione nella ricerca di una formula universale soddisfacente. Ciò non significa tuttavia che la rivoluzione non ebbe riflessi sociali. Se è vero che il suo linguaggio fu costantemente politico, gran parte degli atti delle assemblee rivoluzionarie fu rivolta a rimuovere mali sociali - il diritto di successione, i privilegi di legge, gli assetti fondiari, le strutture corporative. Non furono gesti casuali, tangenziali rispetto al significato complessivo della rivoluzione; essi piuttosto vanno considerati funzionali agli obiettivi di un movimento che ambiva a promuovere il mutamento sociale oltre che politico. Il tessuto sociale della Francia rivoluzionaria è tuttora oggetto di intenso studio e di nuove interpretazioni. Gli storici della rivoluzione sono interessati soprattutto alla storia delle mentalités, delle attitudini collettive e della cultura popolare. Sono state studiate la rivoluzione contadina, l'agricoltura, le foreste e le terre comuni, la politica di villaggio e l'identità locale. La natura della fede religiosa è stata riesaminata e con essa il carattere della politica di villaggio. Il movimento popolare è stato analizzato secondo parametri che avrebbero potuto risultare comprensibili all'artigiano e all'operaio dell'epoca, in termini di rapporti di vicinato e di cultura del luogo di lavoro. E stata data nuova enfasi al ruolo della donna e della famiglia. E stata in gran parte riscritta la storia della rivoluzione nella Francia provinciale, e in tale processo sono stati ridefiniti i gruppi e le identità sociali ed è stata riesaminata la natura dei sentimenti di lealtà. Gli storici hanno considerato gli effetti della guerra e della militarizzazione, l'espansionismo

rivoluzionario al di fuori dei confini francesi e tutto ciò che questo comportò per la rivoluzione stessa; hanno esaminato le varie forme di opposizione a Parigi, alcune ideologiche, in maggioranza di ispirazione culturale, che contrassegnarono gli anni tra il 1790 e il 1800. Né sono state dimenticate, al cospetto di tanto interesse per la storia vista dal basso, le élite: è attualmente in corso a Parigi un lodevole progetto di studio delle sorti delle classi medie nella rivoluzione, di quei gruppi commerciali e professionali, cioè, che spesso si erano mostrati insoddisfatti delle strutture dell''ancien regime. E il concetto di borghesia rivoluzionaria, pur se ha ricevuto una definizione più ampia che in passato, non è stato del tutto abbandonato. Nel 1990 anzi Jean-Pierre Hirsch ha opportunamente sollecitato la riabilitazione dei borghesi, i quali svol18

sero, a suo parere, un ruolo importante per tutta la rivoluzione, dimostrandosi «più attenti, più colti e meglio attrezzati degli altri ad affrontare l'inaspettato». A pochi mesi dalla convocazione degli Stati generali essi erano ovunque: a Versailles e a Parigi, ma anche nelle nuove municipalità e nelle milizie, erano membri di società erudite, editori di giornali, responsabili dell'approvvigionamento [...] La rivoluzione fu borghese nel senso che la borghesia ne trasse i maggiori benefici (accrescendo in particolare, attraverso l'acquisto delle terre nazionali, la propria quota di possesso della risorsa primaria, la terra). Fu borghese secondo Hirsch anche nel senso che la borghesia contribuì a definire il nuovo assetto politico e assunse un ruolo essenziale nella direzione politica del paese [1990, 237]. La sua importanza non deve essere trascurata. Da queste nuove ricerche non è emerso alcun modello o paradigma univoco in grado di rimpiazzare quello accantonato, e ciò può non essere un dato negativo. La rivoluzione francese non fu, dopo tutto, una singola entità ordinata, coerente nei suoi obiettivi dal 1789 fino al brumaio. Nessuno nella Francia del 1788 e del 1789 pianificò la rivoluzione imminente e molte delle iniziative degli anni rivoluzionari furono poco più che espedienti escogitati per superare crisi contingenti quali la scarsità di generi alimentari o la fuga del re. Inoltre, il significato della rivoluzione fu molto differente

per contadini e uomini d'affari, soldati e artigiani; essa significò cose diverse a seconda che si vivesse a Parigi o a Perpignan, a Lione o nella Vandea. E giustissimo che la storia del periodo debba riflettere parte di tale multiformità, della disperazione e, di quando in quando, dell'anarchia che la caratterizzarono. La maggiore dispersione della storiografia recente pertanto non è, a mio avviso, un fattore di debolezza, anche se su di essa è più difficile operare una sintesi. Anzi. Come ha notato Colin Lucas, «se si ripensa ai postulati che dominavano trent'anni fa, non si può non giungere alla conclusione che gli studi dedicati alla rivoluzione francese sono diventati immensamente più ricchi ed eccitanti» [1991, VII]. Se anche una minima parte di quest'eccitazione sarà stata trasmessa al lettore, questo libro avrà raggiunto il suo obiettivo primario. 19

CAPITOLO PRIMO IL 1789 II contesto rivoluzionario Negli ultimi anni dell''ancien regime era largamente diffusa, presso numerosi strati della società francese, un'insoddisfazione per il modo in cui il paese era governato. Non fu però quell'insoddisfazione in quanto tale a determinare il rovesciamento della monarchia assoluta; a rendere impossibile il mantenimento dello status quo fu, piuttosto, la gravità della crisi finanziaria cominciata intorno al 1780, innescata dalla costosa partecipazione della Francia alla guerra d'indipendenza americana. Dopo il 1785 anche molti esponenti degli strati superiori della società erano disposti ad ammettere la necessità di sacrificare alcuni dei loro privilegi pur di assicurare la sopravvivenza della monarchia e del sistema sociale. E vero che i vari programmi di riforma proposti dai ministri del re furono bocciati l'uno dopo l'altro, privando la monarchia di una chiara politica economica e minacciando di sprofondare il paese nella bancarotta; tuttavia ciò non può essere addebitato esclusivamente all'intransigenza dei ceti sociali privilegiati. I dibattiti degli ultimi anni deìVancien regime non verterono solo sul denaro, ma anche sul diritto di proprietà, sul privilegio, sulla definizione del concetto di libertà. Il tema in discussione non era tanto la necessità della riforma quanto il prezzo che si sarebbe dovuto pagare: la

nobiltà, pur se da un lato non si opponeva decisamente all'idea di contribuire ai costi di gestione della cosa pubblica ed era disposta a fare la propria parte per ripianare un * disavanzo finanziario sempre più ingente, dall'altro mirava a Ottenere maggiore controllo sulla spesa ed era decisa a contenere le mire assolutiste del monarca. Nel parlement di Parigi e nei dodici parlements provinciali (le tredici corti supreme della Francia di ancien regime che avevano compe21

tenze giurisdizionali di corte d'appello ma anche pretese di rappresentanza politica), i ceti privilegiati continuarono a premere sul re, fissando un alto prezzo politico per eventuali concessioni in materia finanziaria. Per questo motivo la crisi economica seguita al 1780 si tramutò rapidamente in crisi politica, una crisi incentrata sul potere, sulla rappresentanza e sull'autorità regia. Questa stessa consapevolezza emergeva in molti dei cahiers de doléances che furono redatti in tutta la Francia, da gruppi più o meno privilegiati, nei mesi che precedettero la convocazione degli Stati generali. Non tutti i cahiers avevano contenuto rivoluzionario. In larga maggioranza si dichiaravano a favore del re e della sopravvivenza della monarchia. Alcuni, anzi, dichiaravano che l'esigenza primaria era di restaurare vecchi diritti costituzionali che erano stati progressivamente svuotati negli anni dell'assolutismo monarchico, le libertà delle città e delle province, le libertà garantite dalle costituzioni provinciali. Bayonne, ad esempio, rivendicava la tutela dello status di porto franco riconosciuto da un editto regio; i nobili di Aix-en-Provence elencavano i pregi di quella che chiamavano costituzione provenzale. Ma, come ha dimostrato Francois-Xavier Emmanuelli [1977], non esisteva alcuna costituzione del genere; il documento al quale quei nobili si richiamavano non era altro che un'accozzaglia di testi messi insieme a partire dal Medioevo che fissavano un certo numero di privilegi e costituivano la base del potere regionale. Come molti nobili di provincia, essi avanzavano

richieste profondamente conservatrici [ibidem, 129]. Nel Terzo stato invece le rivendicazioni erano spesso più radicali; la fiducia nella monarchia poteva rimanere intatta, ma ci si aspettava che il re impedisse gli abusi di ministri, intendenti, agenti delle tasse. Molti si spingevano oltre, chiedendo l'abolizione di tasse odiose e diritti feudali sui quali si sorreggeva il sistema politico e sociale e rivendicando una rappresentanza politica. Cosa più importante, il processo stesso di redazione di un cahier, il fatto che agli individui venisse chiesto di manifestare i motivi di scontento, il sapere che il documento sarebbe stato consegnato a un'autorità superiore in modo che il re e gli Stati generali potessero prendere nota dei sentimenti popolari, suscitarono aspetta tive che non si sarebbero acquietate. Almeno in questo sen 22

so Tocqueville ebbe ragione nel vedere nei cahiers una sfida radicale alla legittimità del vecchio regime. Le istanze di riforma Anche se nel 1789 le riforme erano ampiamente ritenute necessarie, ben poco lasciava presagire una rivoluzione violenta. Luigi poteva certo essere impopolare, a Parigi non meno che altrove, poteva essere criticato per la sua indecisione e dileggiato per l'impotenza sessuale; e l'odio diffuso per Maria Antonietta non aiutava certo la sua reputazione. Tuttavia la monarchia come istituzione veniva raramente messa in discussione. Nel 1789 erano in pochi a parlare il linguaggio dell'uguaglianza e della democrazia,.e coloro che come Sieyès e Mirabeau osavano farlo erano trattati con sospetto. Le aspettative politiche erano più modeste. Quando il 5 maggio si riunirono gli Stati generali era scontato, naturalmente, che essi avrebbero dibattuto questioni sia politiche che finanziarie. Se il re era disposto a fare concessioni sul versante finanziario, i parlements, gli ordini sociali, il popolo potevano finalmente sperare di ottenere in cambio qualcosa che avrebbe loro garantito un posto permanente nei consigli del regno. Gli ordini sociali, e in particolare il Terzo stato, miravano a strappare concessioni per controllare quelli che reputavano gli abusi della monarchia assoluta, ma le loro ambizioni non andavano oltre. Le figure dominanti del Terzo stato nell'estate del 1789 erano quasi tutti monarchici convinti, come Mounier, Lally-Tollendal, Bergasse

e Clermont-Tonnerre, che desideravano impedire ogni attacco diretto al potere esecutivo del re. Furono loro a guidare il movimento di riforma costituzionale, e un ruolo altrettanto dominante avrebbero assunto nell'ambito del comitato costituzionale istituito dall'Assemblea nazionale. Nelle loro mani la causa della riforma appariva al sicuro, e i pericoli della rivoluzione sembravano efficacemente scongiurati. Ma quale riforma? Le manifestazioni di consenso e l'accoglienza euforica riservata alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo nella frenetica estate del 1789 spesso nascondono il fatto che non esisteva un pacchetto di riforme bell'e pronto atto a risolvere i problemi strutturali della monarchia 23

francese. L'esperienza degli anni precedenti rendeva chiaro tutto ciò. Né il falso ottimismo di Necker nel 1781 né gli abbozzi di riforma presentati da Calonne e Brienne negli anni seguenti avevano risanato la debolezza finanziaria della corona; il debito nazionale era troppo grande e il costo del servizio del debito troppo gravoso perché delle riforme limitate avessero una minima speranza di successo. E se l'evidente opulenza della vita di corte era un facile bersaglio per i libellisti radicali, il vero problema era molto più profondo, e consisteva nell'istituto del privilegio e nella struttura fiscale dello stato. La società francese del Settecento era fondata, come il suo governo, su una struttura corporativa; le persone non erano individui bensì rappresentanti di vari interessi e ceti legali. C'era quindi poco spazio per gli aggiustamenti, poco spazio per la moderazione, a meno che tale moderazione potesse riformare l'intero fondamento corporativo della società ancien regime. In questo senso le proposte avanzate da Calonne nell'agosto del 1786 possono essere considerate assai rivoluzionarie: esse miravano non solo a rifondare il sistema fiscale, ma anche a riformare i pays d'élections (come erano definite sotto Vancien regime le province sottoposte fiscalmente all'intendente) e a rimodellare l'apparato amministrativo dello stato. In particolare esse prevedevano un sistema di assemblee provinciali che non avrebbe distinto in alcun modo fra i tre stati o fra ceti privilegiati e non privilegiati - un sistema che era pensato per ridurre l'influenza della nobiltà laica ed ecclesiastica negli affari locali e che tradiva una mancanza di considerazione per il privilegio tale

da violare le norme sociali cìelY ancien regime [Goodwin 1953, 29]. L'idea che la monarchia potesse adattarsi alle nuove circostanze economiche senza lasciare una scia di dolore e distruzione era al contempo pericolosa e illusoria. Alla fine, naturalmente, l'ottimismo di uomini come Malouet e Mounier si rivelò terribilmente ingiustificato. Essi non si resero conto dei nuovi umori di Parigi e delle maggiori città di provincia, umori che* erano stati suscitati proprio dai dibattiti pubblici del 1787-88 sulla natura dello stato e che la stessa convocazione degli Stati generali contribuì a radicare. Né si resero conto dell'asprezza dello scontro tra monarchia e nobiltà che aveva dominato in quel periodo la politica francese. Costretto a cercare l'approvazione dei suoi 24

piani di riforma, il re aveva cercato di aggirare i parlements convocando a Versailles nel febbraio del 1787 un'assemblea di notabili. Fu un grave errore di calcolo, come aveva intuito il cancelliere Miromesnil, poiché l'assemblea non diede a Luigi quel tipo di sostegno arrendevole che egli stava cercando. Anzi, i notabili non cercarono solo di imporre controlli più rigorosi sulle finanze statali, ma sottolinearono anche la necessità di rispettare le riforme costituzionali, insistendo perché ogni riforma fiscale venisse approvata dal parlement o dagli Stati generali. A sua volta il parlement di Parigi rifiutò di registrare il decreto, esigendo che per affrontare la crisi fossero convocati, per la prima volta dal 1614, gli Stati generali. Il re, infuriato, rispose esiliandone i membri a Troyes il 15 agosto: un gesto che inaugurò una campagna particolarmente velenosa, nel corso della quale Luigi XVI oscillò in maniera poco convincente tra rigidità e compromesso. Il sospetto reciproco non fu placato quando egli accolse la loro principale richiesta, la convocazione degli Stati generali, e il 1788 fu caratterizzato da aspri scontri tra re e parlement sulla registrazione degli editti, sull'uso delle lettres de cachet (le lettere con cui il re poteva disporre l'arresto e la carcerazione di qualsiasi suddito) e sulla legalità dei lits de justice (le sessioni formali del parlement in occasione delle quali il re poteva imporre suoi decreti ai parlamentari). All'epoca della prima riunione degli Stati generali era ormai in atto da ambo le parti una formidabile guerra di propaganda, e oltre all'accordo sulla doppia rappresentanza per il Terzo stato non c'era praticamente intesa

su nessun altro punto. Gli Stati generali si riunirono pertanto in un'atmosfera di attesa e di grande tensione. Il clima di attesa non si respirava solo nella capitale. Il desiderio di riforme, come era stato dimostrato nel Delfinato nel 1788, era una miscela in grado di dare alla testa sia alla gente comune di Grenoble che all'assemblea dei tre stati del Delfinato che si era riunita il 21 luglio a Vizjlle. Le violenze della journée des Tuiles furono un chiaro ammonimento che Hon era possibile controllare agevolmente le idee di rappreentanza politica e le spinte antifeudali [Chomel 1988, 634]. In altre zone le lealtà regionali spesso si focalizzarono parlement, in special modo là dove, come a Parigi, Pau e rdeaux, esso era stato in conflitto con l'autorità regia.

Folle entusiaste si riversarono nelle strade per salutare i membri del parlement che tornavano trionfalmente dall'esilio. In gran parte del paese la temperatura politica salì in maniera davvero sensazionale. In questo processo ebbero parte notevole i cahiers, che diedero a uomini di ogni livello sociale la possibilità di sfogare la propria rabbia e manifestare i motivi di scontento. Non importava molto che queste lamentele spesso non arrivassero più in là del baliaggio locale: c'era il convincimento generale che esse avrebbero indotto qualcuno a prendere misure concrete, e che sarebbero state sottoposte all'attenzione del re. E, come commentò Tocqueville, ciò che si richiedeva era poco meno che il rovesciamento dell'ordine esistente. Anche le elezioni per la scelta dei deputati contribuirono a cristallizzare l'opinione pubblica e a far crescere le aspettative. A Parigi e in molti centri di provincia era stato avviato il processo di nascita di una nuova classe politica, nel quale svolsero un ruolo sostanziale la stampa e gli accresciuti livelli di alfabetizzazione del complesso della popolazione. Infatti questi mesi cruciali furono contrassegnati da una fioritura della letteratura libellistica e dal varo di una serie di giornali che per lo più rimasero in vita solo poche settimane ma che contribuirono a creare una nuova cultura, almeno nelle città, sensibile al discorso della politica. Gli scribacchini della Grub Street di Robert Darnton guadagnarono subitanea fama e apprezzamento; i loro titoli e le loro caricature venivano riprodotti su manifesti murali, le loro più infiammate perorazioni venivano lette a gruppi di artigiani nei caffè e nelle osterie [Darnton

1982, trad. it. 1990, 11-54]. Questa improvvisa fioritura della libellistica politica era il sintomo di una nuova consapevolezza diffusa nella popolazione urbana che contribuì a creare un'atmosfera di eccitazione, in particolare a Parigi: essa si sarebbe rivelata difficilmente controllabile per le autorità e rendeva estremamente improbabile che l'opera riformatrice potesse essere contenuta nell'ambito degli Stati generali [Gough 1988, 15-36]. * Quando i deputati si riunirono, fu presto chiaro che * nessuna pressione della corona sarebbe riuscita a confinare il dibattito al tema del bilancio. Furono subito affrontate questioni procedurali: in particolare, era aperta la spinosa questione delle modalità di riunione e di voto, problema che 26

non era stato affrontato in maniera incisiva al momento della convocazione degli Stati generali. Al Terzo stato, in considerazione dell'ampiezza della sua base elettorale, era stata riconosciuta una rappresentanza doppia rispetto agli altri due stati, ma non era stato concesso ciò che tutti ritenevano cruciale, ossia il diritto di voto per teste anziché per ordini, che avrebbe impedito che le votazioni si riducessero a uno sterile confronto sulla perpetuazione o sull'abolizione del privilegio. Diversamente dal 1614, anno dell'ultima riunione degli Stati generali, il Terzo stato del 1789 aveva acquisito profonda consapevolezza della propria forza. «Cos'è il Terzo stato?» si era chiesto retoricamente Yabbé Sieyès nel libello forse più influente tra i duemilacinquecento in circolazione prima del 1789. Era «tutto», affermava, poiché era rappresentato in tutte le aree chiave della vita economica e professionale francese. Eppure la sua influenza politica in passato era stata minima; tale era la situazione che, secondo Sieyès, la rappresentanza del Terzo stato aveva il dovere di capovolgere. Il re, ordinando loro di riunirsi alla maniera tradizionale, metteva i deputati di fronte a una prima scelta di fondo: obbedire al monarca e ammettere che numero e forza economica non davano loro un vero peso politico; oppure lanciare la sfida all'autorità regia, una sfida che per la sua stessa natura avrebbe trasformato la qualità del discorso politico e spinto la Francia sulla strada della rivoluzione. Si trattava infatti di una questione sulla quale una delle due parti doveva cedere, e in modo manifesto; non c'era spazio per il compromesso.

La questione era cruciale, e non solo per l'opposizione del re. Infatti non si trattava di una vuota questione procedurale. Tra i deputati del Primo e del Secondo stato le opinioni erano più difformi di quanto si sarebbe portati a credere; sia nei ranghi del clero sia in quelli della nobiltà figuravano insigni fautori del cambiamento. Pertanto, se essi si fossero radunati come corpo unitario, votando senza distinzione di ceto, il Terzo stato poteva sperare di far leva "ìli simpatizzanti per promuovere la causa delle riforme. Il ensiero liberale illuministico, i dibattiti delle accademie rovinciali e delle logge massoniche, i rapporti di ostilità tra e parlement nei venti o trent'anni precedenti e le proceduelettorali straordinariamente democratiche che Luigi ave27

va autorizzato per la selezione dei deputati erano tutti elementi che avevano concorso a creare un organismo aperto alle riforme. I deputati che si riunirono a Versailles non erano tutti ossessionati dagli interessi e dal prestigio del rispettivo ceto di appartenenza; ciò che li univa e li divideva spesso era l'ideologia, il modo in cui consideravano le istituzioni e le strutture sociali. Avevano sotto gli occhi il modello americano - e Lafayette stesso era un eroe per il popolo di Parigi - di una società che era riuscita a creare istituzioni politiche liberali, mentre molti degli uomini dell'Ottantanove guardavano con una certa invidia alla Gran Bretagna, un paese che aveva incoraggiato l'individualismo e che, come risultato, prosperava a livello sia politico che economico. In tutto i deputati erano 1.201, 610 dei quali in rappresentanza del Terzo stato; in ciascuno degli altri due ceti c'era una quota di liberali e il Terzo stato finì per dipendere sempre più dal loro sostegno. Circa cinquanta erano i nobili liberali, alcuni dei quali avrebbero lasciato il segno nella politica rivoluzionaria. E molti dei rappresentanti del Primo stato erano curati di campagna, che avevano spesso motivo di rancore verso vescovi e abati del loro stesso ceto. Se il Terzo stato avesse avuto la meglio e si fosse costituita un'assemblea unificata, i sostenitori delle riforme avrebbero potuto sperare di disporre di una forte maggioranza. Sia i radicali che i conservatori erano consapevoli che si trattava di una questione cruciale che andava risolta in un senso o nell'altro. Il modo in cui si giunse a una soluzione fu di grande

aiuto alla causa dei radicali, uomini come Sieyès e Mirabeau e il futuro sindaco di Parigi, Bailly. Il Terzo stato ricorse a un'astuzia procedurale, rifiutando di convalidare i risultati delle elezioni fino a quando gli altri due stati non si fossero radunati con esso in seduta comune. Fu una tattica intelligente, afferma Peter Campbell [1988, 80-1], in quanto rimandava la palla ai ceti privilegiati ma nello stesso tempo al re. Dopo settimane di incertezza la struttura esistente cominciava a scricchiolare. Il 10 giugno il Terzo stato invitò i membri dei ceti privilegiati a unirsi all'assemblea, aggiungendo - e fu un'idea di Sieyès - che coloro che fossero j mancati a un appello generale dei deputati sarebbero stati considerati inadempienti. Tra il 12 e il 14 del mese quell'appello fu fatto, ma rispose solo una manciata di preti di 28

parrocchia. Il Terzo stato tuttavia non si lasciò intimidire: il 17 giugno fu proclamata l'Assemblea nazionale, con l'obiettivo dichiarato di dare alla Francia una costituzione; e subito questa prese l'iniziativa di confermare, almeno in via provvisoria, le tasse esistenti. Tutti i deputati furono invitati a unirsi all'assemblea dando vita a un solo organismo che riunisse i tre stati. Il 19 giugno fu una data importante perché la maggioranza del clero si dichiarò favorevole a confluire nell'assemblea; quella mossa spinse i vescovi a rivolgere un appello al re. Il giorno seguente la temperatura dello scontro politico si innalzò nuovamente quando i deputati del Terzo stato si trovarono chiusi fuori della loro aula; si pensò che il re intendesse sciogliere gli Stati generali, se necessario con la forza. I deputati si ritirarono nell'adiacen^ te sala della Pallacorda per concertare la mossa successiva. Avrebbero potuto fare marcia indietro nel timore dell'ira del monarca e sotto la minaccia di un Ut de justice; invece decisero di sfidare il sovrano, riaffermando il proprio diritto di formare un'assemblea nazionale senza distinzione di ceto e vincolandosi a tale decisione col giuramento della Pallacorda. Fu un gesto di sfida che, con l'eccezione di un solo deputato, unì tutte le correnti all'interno del Terzo stato. Il giuramento fu proposto da Mounier e redatto da tre altri eminenti avvocati, Target, Barnave e Le Chapelier; Bailly fu il primo a giurare [Goodwin 1953, 58]. Le sorti del gioco tornavano nelle mani del re. Agli occhi di molti storici questo fu un momento fondamentale, che trasformò il carattere politico del 1789 e spinse la Francia verso la rivoluzione

aperta. ' I deputati correvano grossi rischi personali sfidando l'autorità del sovrano, e ne erano perfettamente consapevoli. Ciascuno venne chiamato a prestare personalmente giuramento, mettendo a repentaglio la propria sicurezza individuale e ponendosi sotto la precaria protezione del numero. L'Assemblea decise che tutti i suoi membri «presteranno, immediatamente, giuramento solenne di non separarsi mai e Ili riunirsi ovunque le circostanze lo esigeranno fino a quando la costituzione del regno non sia stabilita e consolidata su bili fondamenta e che, prestato il detto giuramento, tutti ^membri e ciascuno in particolare, confermeranno con la ipria firma questa incrollabile risoluzione» [Soboul 1973, 29

trad. it. 1975, 168-9]. Essi giungevano a questo passo ben consapevoli che la loro sfida poteva essere vanificata da un semplice atto di autorità da parte del monarca. Ma come avrebbe reagito Luigi? I suoi più stretti consiglieri premevano in direzioni opposte, con Necker che proponeva concessioni concrete per ammorbidire il Terzo stato e Barentin che insisteva per un'azione incisiva per soffocare la ribellione. Quando la corte fece ritorno a Versailles il 21 giugno i fratelli del re, Provence e Artois, manifestarono la loro opposizione alle riforme, e Necker ebbe la peggio. Alla sé ance royale del 23, davanti ai parlamentari riuniti per ascoltare l'allocuzione del monarca, Luigi pronunciò la sua risposta al parlamento in cui faceva poche vere concessioni di sostanza. Il suo tono, a dire il vero, fu conciliante: promise ai deputati alcune limitate riforme, tra cui la libertà personale, la libertà di stampa, il potere di autorizzare le tasse. La sua dichiarazione cadde però nel silenzio pressoché totale, in quanto nulla concedeva sulla vexata quaestio del momento, insistendo che gli stati continuassero a riunirsi in tre camere separate; inoltre era chiaro che il re voleva che non fosse toccato il tessuto sociale deW ancien regime. La seduta, racconta Goodwin [1953, 59], «finì per assumere l'aspetto in parte di un Ut de just ice, in parte di un coup de force militare». E difficile contestare questa asserzione e non vedere in questa séance royale soltanto una preziosa opportunità imprudentemente gettata al vento. Quando il re lasciò l'aula, i deputati del Terzo stato si

rifiutarono di seguirlo, e Bailly espresse il sentimento di sfida di tutti quando gridò: «La nazione riunita non può ricevere ordini» [Lefebvre 1951, trad. it. 1962, 144]. In questa come in altre occasioni Luigi aveva offerto troppo poco per placare i suoi avversari e lo aveva fatto con manifesta riluttanza, in un momento in cui solo la generosità avrebbe potuto procacciarsi il favore pubblico. Il re tuttavia non ebbe la forza di mantenersi coerente con le proprie convinzioni. Nei giorni seguenti i ceti privilegiati accettarono le disposizioni del re e si riunirono in aule separate, il clero per la prima volta il giorno 25. Si respirava però un clima di evidente insicurezza, e ministri e deputati erano ' sempre più allarmati dalla minaccia di disordini: si parlava* di una folla di trentamila parigini pronta a invadere il palaz*| 30

zo per cercare di imporre un'assemblea nazionale con la forza. Timorosi della mobilitazione popolare, un piccolo numero di deputati del Primo e del Secondo stato ruppe le file e si unì al Terzo stato. Luigi, che non se la sentiva di rischiare una guerra civile, intervenne il 27 giugno contravvenendo alla decisione del 23, ordinando cioè ai membri rimanenti dei primi due stati eli radunarsi in un unico corpo deliberante. L'Assemblea nazionale aveva ottenuto il riconoscimento che cercava; il Terzo stato aveva portato a termine una grande rivoluzione politica grazie in larga misura all'indecisione e ai tentennamenti della Corte nelle settimane in cui gli Stati generali erano rimasti in vita. Ciò che mosse l'Assemblea nazionale nei giorni che seguirono non fu né l'interesse di classe né il settarismo politico; fu piuttosto un desiderio di proteggere i diritti dell'individuo contro i principi corporativi sui quali era edificata la Francia del Settecento. Corporazioni, associazioni e privilegi - persino quelli accordati dallo stato - erano considerati i nemici di un individualismo che, come ha affermato Patrice Higonnet [1981, 1-6], divenne il cardine sia della vita sociale che di quella politica. Le libertà di movimento, di commercio, di espressione e di coscienza erano i valori sommi, e i deputati credevano che per non perderle occorressero chiare garanzie costituzionali. Il 7 luglio venne nominato un comitato costituzionale; il 9 Mounier lesse il primo rapporto e alla denominazione dell'Assemblea fu aggiunto l'attributo «costituente». La vittoria del liberalismo

però non era scontata. La Corte aveva vacillato ma le fazioni realiste non avevano rinunciato alla speranza di invertire la tendenza verso un regime costituzionale. L'I 1 luglio, giorno in cui Lafayette presentò la sua bozza di dichiarazione dei diritti dell'uomo, il re rispose con una misura che a molti liberali parve mettere in pericolo tutto quello che era stato appena ottenuto: licenziò il primo ministro Necker, figura che riscuoteva ampie simpatie negli ambienti popolari, e lo * esiliò dal regno sostituendolo col reazionario barone di ,jBreteuil. Davanti a un ministero formato da uomini di fiducia di quest'ultimo, arciconservatori e sostenitori di prin*pi assolutistici, molti temettero che fosse imminente un Intervento militare e lo scioglimento con la forza dell'Asblea. 31

La rivoluzione popolare Questo timore contribuì a mobilitare la folla di Parigi e a ispirare quella che Lefebvre ha definito «rivoluzione popolare ». Molti storici considerano oggi terribilmente semplicistica la classificazione piuttosto meccanica che Lefebvre fece delle varie forze che contribuirono alla rivoluzione del 1789: in Quatre-vin gt-neuf, pubblicato alle soglie della seconda guerra mondiale, Lefebvre sostenne che quattro movimenti distinti contribuirono al rovesciamento delVancien regime, rispettivamente una rivoluzione aristocratica, una borghese, una contadina e una popolare, ciascuna con un suo ruolo distinto [Lefebvre 1939, trad. it. 1975]. Pochi accetterebbero oggi una simile lettura, secondo la quale ciascun gruppo sarebbe stato motivato da peculiari interessi di classe e non da un senso di impegno politico. I nobili liberali e i borghesi avevano visioni politiche e ideologiche in gran parte comuni, tanto che possono essere considerati un unico gruppo d'interesse persino nell'età del privilegio. La nobiltà, ci rammenta Chaussinand-Nogaret, era un gruppo dinamico i cui membri spesso erano affascinati dagli investimenti nelle nuove iniziative di tipo capitalistico nonché dalle miniere e dalle banche e dalla modernizzazione dei loro possedimenti. Contrariamente a quanto comunemente si crede, ai nobili non era vietato intraprendere il commercio, e la Corona, soprattutto a partire dall'epoca di Colbert che si lamentava di non riuscire a

trovare investitori per le sue compagnie commerciali d'oltremare, aveva moltiplicato gli editti destinati a incoraggiare i nobili a intraprendere attività commerciali [Chaussinand-Nogaret 1976, 128-9]. Allo stesso modo, nella caccia a uffici e onori c'era poco che distinguesse i nobili dagli strati superiori del commercio e della professione legale. I ricchi mercanti scimmiottavano l'aristocrazia adottandone gli stili di vita nei loro possedimenti di campagna e miravano a quella consacrazione finale della rispettabilità settecentesca che era l'acquisizione di un titolo nobiliare. Nemmeno le élite professionali francesi erano refrattarie al privilegio: le loro gilde e corporazioni tutelavano sia il benessere economico che lo status all'interno 32

della comunità. Come ha scritto Gail Bossenga [1991, 6] con riferimento alla Lilla prerivoluzionaria, esse erano allo stesso tempo fonte di «status sociale e di riconoscimento professionale nonché di un'autorità politica semiautonoma che derivava dai loro statuti e regolamenti». Nel loro ambito gli uomini delle corporazioni di Lilla avevano interesse alla conservazione del privilegio pari a quello dei nobili di Versailles. Entrambi i gruppi avevano una quota di arciconservatori timorosi di ogni attacco al loro potere, ma produssero anche uomini profondamente fedeli agli ideali illuministici, disposti a lottare contro i privilegi fiscali, convinti fautori dell'idea dei diritti naturali. E verosimile dunque che risulti inadeguata ogni interpretazione del 1789 la quale ricostruisca il conflitto politico lungo netti spartiacque sociali: le divisioni intellettuali contavano almeno quanto quelle sociali in una società in cui le persone concepivano se stesse in termini corporativi anziché di classe. Ciò naturalmente non squalifica del tutto la lettura sociale: nel Settecento, come in altri periodi storici, i dissesti economici erano profondi e potevano facilmente assumere un rilievo politico. La visione del 1789 proposta da Lefebvre conserva tuttora la sua validità per gli storici che cercano di dare un senso a un quadro politico complesso e in rapida evoluzione. In particolare, non può essere messa frettolosamente da parte l'idea che nel 1789 si producesse, per effetto di una combinazione di forze, un'alleanza tra avvocati costituzionalisti e nobili liberali, contadini

normanni e lavoratori del legno parigini. Infatti il liberalismo, se anche fu in grado di unire cospicui settori dell'elite, quei gruppi colti che si erano avvicinati ad alcune delle nuove idee del tempo e le cui vedute erano state plasmate dalla letteratura dell'epoca, da Montesquieu a Rousseau, da Turgot alla fisiocrazia, non spiega affatto la violenza della rivoluzione popolare. A Parigi come nelle campagne gli individui furono spinti anche dalla fame e dalla scarsità di generi alimentari, mentre la loro propensione ad abbandonarsi ad atti di violenza dovette molto alla propagazione di voci incontrollate e alle ondate di panico. Sarebbe tuttavia fuorviante fermarsi qui o presumere che le insurrezioni popolari fossero prive di una qualsiasi motivazione politica. A Parigi sarebbero presto apparsi dalle file popolari leader con pro33

grammi politici propri, in grado di leggere i manifesti affissi sui muri, che ascoltavano le arringhe dei giornalisti e degli agitatori del Palais Royal, che mescolavano alle rivendicazioni di tipo politico la richiesta di un approvvigionamento adeguato di pane a prezzi accessibili. La stampa si stava ritagliando un ruolo nuovo con l'affermazione di giornalisti impegnati che usavano i loro fogli per promuovere determinate cause politiche. I radicali fomentavano l'opinione popolare con forme di giornalismo più eleganti e polemiche: già nel 1789 i parigini potevano scegliere tra Brissot e Loustallot, Marat e Desmoulins. Anche nelle campagne, dove la rabbia contadina portò a episodi di violenza, c'era spesso, accanto alla richiesta di pane, una chiara nota antifeudale. In città come in campagna le aspettative suscitate dalla convocazione degli Stati generali elevò il livello di coscienza politica e incoraggiò la gente a credere che si potesse fare qualcosa per rimediare a torti antichi. Il retroterra della rivoluzione popolare fu la miseria economica. Durante il regno di Luigi XVI quasi ogni settore produttivo era stato gravemente colpito da una serie di depressioni cicliche che sono state identificate da Ernest Labrousse. I viticoltori avevano visto crollare di almeno il 50% il prezzo del vino tra il 1775 e il 1780, e quando i prezzi risalirono fu solo a causa di una serie di vendemmie scarse. Le principali vittime furono piccoli proprietari e mezzadri, ridotti spesso alla fame e costretti a mendicare. Dopo il 1780 i prezzi del grano scesero bruscamente, prima che una serie

di cattivi raccolti nel 1787, 1788 e 1789 deprimesse l'offerta spingendo i prezzi a livelli inaccessibili per molti consuma-? tori. E intorno alla metà di quel decennio la siccità e le: malattie del bestiame furono una catastrofe per le regioni^ che prosperavano sull'allevamento. La vita contadina di-j pende da una certa stabilità, da prezzi e raccolti magari 1 modesti ma non eccessivamente fluttuanti, da condizioni! meteorologiche adeguate alle stagioni dell'anno agricolo!j L'assoluta imprevedibilità degli anni che precedettero il 17891 ridusse in miseria molti contadini che si videro costrettili consumare le riserve e le sementi accumulate per gli anral seguenti. In molte regioni della Francia le prospettive etfflj nomiche erano desolanti. Tuttavia il parere dei contadiml era stato chiesto per i cahiers; essi avevano ripetutamenwl

informato il re della loro drammatica situazione; e nelle elezioni per gli Stati generali era stato loro promesso un mondo meno ingiusto e meglio regolato. Nell'estate del 1789, esattamente all'epoca dell'insediamento degli Stati generali a Parigi, i granai erano vuoti e i prezzi stavano rapidamente salendo. Per i contadini più poveri, che come i lavoratori urbani erano più consumatori che produttori di grano, i mesi estivi portavano solo fame e miseria fino al nuovo raccolto. Le difficoltà economiche ne acuirono il risentimento e spinsero molti di loro ad atti di violenza e distruzione. La protesta contadina non era di carattere solo economico, anche se l'economia si aggiunse alle altre ragioni di insoddisfazione. In molte aree della Francia erano avvertite da tempo tensioni sociali tra gruppi privilegiati e non, tra coloro che erano abbastanza ricchi da immagazzinare grano e approfittare dell'andamento del mercato e coloro che, per la loro povertà, erano permanentemente alla mercé del mercato stesso. Queste tensioni si acuirono nel corso del Settecento, quando la crescita demografica, andando ad aumentare la pressione sulla terra, depresse ulteriormente le condizioni di molti contadini poveri. L'espansione delle città commerciali fu accompagnata dalla formazione di una classe mercantile socialmente aggressiva che era ansiosa di acquistare terre nelle campagne circostanti, riducendo ulteriormente la quantità di terra disponibile per le popolazioni rurali. Le regioni viticole come l'Aquitania conobbero un'espansione dei vigneti: anno dopo anno i campi di granturco

scomparvero e sempre più agricoltori furono privati della terra destinata alla coltivazione dei prestigiosi grand mis che rendevano famosa la regione di Bordeaux in tutta 'Europa settentrionale. E come ha dimostrato Robert Forster 1960], il passaggio a una gestione più efficiente e capitali*ca della terra non era prerogativa dei borghesi ricchi o dei uovi nobili. L'antica nobiltà del Tolosano, ad esempio, era trettanto attratta dalle nuove forme di gestione, e altretto disposta a mettere da parte le tradizionali pratiche tadine. La mentalità capitalistica e il desiderio di ricavami profitto dagli investimenti, contrastava con i valori ntadini tradizionali della stabilità e della trasmissione eresia. Tali novità, che provenissero da proprietari nobili o arrivisti del ceto mercantile, erano viste da molti abitanti 35

del posto come una sgradita intromissione nella cultura del loro mondo rurale. Se da un lato i contadini dovevano raccogliere la sfida della nuova cultura dell'investimento e della redditività, dall'altro erano toccati da richieste sempre più pressanti provenienti da soggetti più tradizionali. I livelli delle imposte regie parevano intollerabilmente gravosi, e in molte parti del regno ciò probabilmente era vero, anche se gli studi regionali mettono in evidenza enormi discrepanze tra le pratiche locali piuttosto che una chiara tendenza di fondo. Va detto che i contadini più poveri, coloro che non avevano un'eccedenza da mettere in vendita, erano pesantemente colpiti da ogni aumento delle imposte indirette, e che le grossolane diseguaglianze tra provincia e provincia, e persino tra villaggio e villaggio, suscitavano rabbia e indignazione. E, come ha sottolineato Peter Jones [1988, 42], la diffusa sensazione che il carico fiscale stesse salendo focalizzò lo scontento sulle esenzioni fiscali, e da qui sulla questione complessiva dell'assetto feudale. Anche gli obblighi feudali erano una fonte consueta di irritazione per i contadini, i quali non capivano perché dovevano effettuare pagamenti in denaro o prestazioni d'opera quando in cambio ricevevano ben poco di tangibile. Non erano dei rivoluzionari sul piano sociale: come dimostravano i cahiers, pochi avrebbero contestato la ragion d'essere dei privilegi, che rimanevano una parte essenziale della loro visione del mondo; erano però sempre più risentiti per quegli oneri che non portavano

beneficio alcuno a loro o alla comunità: decime versate a una chiesa che le spendeva per frivolezze mentre nel frattempo la chiesa parrocchiale cadeva a pezzi o l'ospedale locale andava in rovina, esazioni feudali che aiutavano i ricchi oziosi a mantenere alti livelli di consumo. Negli anni magri il peso cumulativo di questi obblighi diventava opprimente, soprattutto nelle zone in cui i pagamenti dovevano essere effettuati in natura anziché in contanti. Inoltre, negli ultimi anni Ae\Yancien regime per molti contadini gli oneri erano cresciuti in termini reali. Talvolta si è esagerata la portata di questa cosiddetta «reazione feudale», ma per le persone più direttamente coinvolte essa era una fonte di aspro risentimento in quanto i nobili cercavano di mantenere il loro stile di vita aumentando le imposizioni e spulciando 36

gli archivi per riesumare obblighi ormai dimenticati. La convinzione che i nobili stessero abusando delle loro prerogative tradizionali aiuta a comprendere i violenti sentimenti antifeudali che caratterizzarono talune regioni della Francia durante il 1789. La violenza era spesso scatenata dal panico. Le ondate di panico erano un fenomeno frequente nelle campagne francesi: le voci si diffondevano di villaggio in villaggio e la paura della fame, della repressione o delle rappresaglie militari travolgeva regioni intere. Steven Kaplan [1982, 1-4] ha notato quanto fosse diffusa, nella regione attorno a Parigi, l'idea del pacte de fantine, il complotto per affamare il popolo; ancora nel 1775, gravi ribellioni popolari erano state scatenate dalla convinzione che il popolo venisse deliberatamente fatto morire di fame dagli oppressori al potere. La Grande Paura in cui sprofondarono ampie regioni del paese tra il dicembre del 1788 e il marzo del 1790 rientra facilmente nella tradizione dei pactes de famine, con l'aristocrazia locale sovente nel ruolo del malvagio oppressore che si opponeva alle riforme che venivano discusse e approvate e cercava di costringere i contadini, affamandoli, ad accettare passivamente la loro sorte. Come succede spesso nei casi di panico, è difficile fornire una spiegazione coerente o logica del loro corso. Tali episodi rimasero in gran parte circoscritti e furono determinati da voci di ipotetici avvistamenti di «briganti», uomini di aspetto rozzo, forestieri, criminali disperati riuniti in bande spietate che avrebbero

messo a ferro e fuoco la campagna. Così almeno venivano descritti dai paesani terrorizzati; sembrerebbe però che ad attirare l'attenzione dei locali fosse piuttosto la presenza di forestieri e vagabondi, gente di malaffare povera e stracciona, che la fame aveva ridotto alla disperazione. Le voci incontrollate si diffondevano rapidamente, mobilitando la popolazione rurale contro tutti i forestieri e coloro che non ispiravano fiducia. Intere comunità prendevano le armi, spesso guidate, come nel Quercy e nel Périgord, da artigiani > rurali col tacito supporto degli agricoltori più facoltosi [Boutier 1979, 769-70]. La presenza di parigini, di soldati, * di persone provenienti da altre province che parlavano con accento forestiero, e qualsiasi rottura della consuetudine potevano scatenare il panico in un ambiente rurale forte37

mente instabile. Nel luglio del 1789 voci terrificanti si diffusero neirile-de-France e nelle parrocchie delle province confinanti. Si diceva che villaggi, mercati e fattorie isolate fossero minacciati dai «briganti» e i tumulti nei mercati venivano considerati prove dell'esistenza di un complotto per affamare la popolazione; i locali corsero pertanto ad armarsi. Come ha dimostrato Georges Lefebvre, la creazione stessa di una milizia borghese a Parigi nell'estate del 1789 suscitò timori nel circondario, in quanto le comunità contadine si immaginarono infestate dagli indesiderabili della capitale. Il panico si propagò rapidamente di città in città fin nei più piccoli villaggi dell'Ile-de-France. Il 14 luglio raggiunse Sceaux, il 16 Suresnes, il 19 Gonesse e Santenyen-Brie, il 21 Chevilly e L'Hay, il 22 Marcoussis [Lefebvre 1932, trad. it. 1973, 147-8]. L'intera regione parigina fu ben presto infestata da voci, incertezza e terrore. Anche se non si può parlare di un movimento insurrezionale coordinato nelle campagne francesi, e anche se quasi tutte le regioni della Francia furono interessate prima o dopo da episodi di violenza collettiva, la Grande Paura fu un fenomeno che riguardò soprattutto sei o sette regioni, dall'Hainaut e la Bassa Normandia a nord, attraverso l'Alsazia, la Franca Contea e il Delfinato a est, fino alla Provenza e all'Aquitania a sud (carta 1). In alcune aree si trattò essenzialmente di episodi inquietanti di panico che ebbero spesso come bersaglio i mendicanti che uscivano da Parigi o si dirigevano verso la capitale; in altri casi, specialmente nel

sudovest, la paura assunse rapidamente una connotazione antifeudale. Si diceva che i nobili stessero organizzando le bande di briganti per demoralizzare il popolo e privarlo dei diritti politici conquistati a prezzo di tante fatiche. Di conseguenza le rivolte assunsero un carattere più politico, e gli insorti sfogarono la propria rabbia sui castelli, sui granai e sulla persona stessa dei signori feudali. I castelli venivano presi d'assalto, gli archivi signorili depredati e incendiati, i proprietari e gli amministratori aggrediti. In alcune zone del paese - soprattutto forse nell'Agenais e nel Périgord - le insurrezioni furono la valvola di sfogo di antichi odi sociali, giustificando la tesi dello storico sovietico Anatolij Ado [1987, 132] secondo il quale le violenze contadine dell'estate del 1789 «fecero degli obblighi feudali la questione 38

prioritaria nel quadro del conflitto sociale nelle campagne». Una violenza così diffusa era da tempo sconosciuta nella Francia rurale. Essa precipitò nel panico le classi proprietarie e i loro rappresentanti negli Stati generali e nell'Assemblea nazionale. Alcuni nobili preferirono emigrare; altri, più accomodanti nei confronti dei desideri popolari, furono convinti dalle voci di anarchia sociale che quotidianamente giungevano nella capitale che era il momento del compromesso piuttosto che dello scontro. La violenza rurale è un elemento chiave per spiegare la disponibilità dei ceti privilegiati a riunirsi in seduta comune con il Terzo stato. Essa contribuì a suggellare la vittoria dell'Assemblea nazionale e favorì inoltre il prevalere nell'Assemblea di quello spirito di sacrificio che la notte del 4 agosto spinse molti dei rappresentanti dei ceti privilegiati, contagiati dall'atmosfera di riconciliazione e di unità nazionale, a pronunciare discorsi appassionati in cui rinunciavano ai loro privilegi e dichiaravano la loro fede nella fratellanza universale tra gli uomini. Se le violenze rurali contribuirono a consolidare la vittoria del Terzo stato, lo stesso effetto ebbero quelle che si verificarono nelle strade di Parigi. Anche nella capitale la scarsità di generi alimentari contribuì ad accentuare lo scontento e a catalizzare il fermento: dopo tutto, Parigi aveva una lunga tradizione di sommosse per il pane, l'ultima delle quali aveva avuto luogo nel 1775. Come i contadini poveri, anche il popolo di Parigi era composto in prevalenza di consumatori il cui alimento principale era il pane, metro di

misura del loro benessere. Scarsità di pane significava anche prezzi più alti e negozi vuoti: vedendo che i ricchi acquistavano grandi quantitativi di pane di prima qualità, molta gente che pativa la fame fu spinta alla violenza e alla ribellione. Inoltre i consumatori urbani erano molto sensibili alle teorie del complotto, erano disposti a credere che la nobiltà, la Corte e i grandi commercianti di grano si fossero coalizzati per far crescere i prezzi riducendo l'offerta. Nei periodi di carestia mercanti, mugnai e grossisti erano tutti investiti dal sospetto. Accaparratori e speculatori erano un bersaglio tradizionale dell'ira popolare, e la folla cercava di imporre alle merci un prezzo giusto e popolare, che era in realtà ridicolmente basso rispetto a quello richiesto dal mercato. I venditori consideravano questa pratica - nota col termine di 39

taxation populaire - nuli'altro che un furto, ma per il popolo della capitale essa aveva una giustificazione morale, persino una sua legittimità, nei periodi di penuria. A differenza dei politici dell'Assemblea nazionale, la gente non aveva alcun motivo di valutare positivamente l'idea di un libero mercato e la promessa che i prezzi sarebbero stati determinati dal gioco della domanda e dell'offerta. Ripetutamente avanzavano richieste di calmieri, pretendevano che il governo garantisse loro il diritto di mangiare. Queste rivendicazioni raggiunsero il culmine nella primavera e all'inizio dell'estate del 1789, quando il prezzo del pane crebbe tanto da assorbire i nove decimi del salario di un operaio [Soboul 1962, trad. it. 1964, 133]. Non tutto però ruotava attorno al pane. Il popolo di Parigi, come quello di Lione, Marsiglia e altre grandi città, non può essere ridotto alla sola categoria dei consumatori, alla mercé della dinamica dei prezzi e mobilitato solo dalla fame. Esso aveva una propria cultura, una routine quotidiana di lavoro e tempo libero, un abbigliamento caratteristico, una tradizionale propensione per l'alcool. Tale cultura aveva inoltre peculiari contenuti morali e politici. Artigiani e commercianti della capitale, con il loro tradizionale bagaglio di attività corporative, erano consapevoli del proprio peso politico ed erano abituati a battersi per i propri diritti, sia in senso letterale con i compagnonnages - le confraternite ; alle quali appartenevano tradizionalmente i giovani lavora- ; tori - sia in senso figurato attraverso l'organizzazione^

corporativa e i tribunali. Se anche non possedevano un'iden-j tità di classe nel senso che a tale concetto sarebbe statoj attribuito in età industriale, essi erano uniti dall'identità dil gruppo, dalle tradizioni di mestiere e dalla fratellanza che! nasceva sul posto di lavoro. Inoltre, come David Garriochl [1986, 16-55] ha dimostrato per Parigi, le classi popolari! erano unite da altre strutture che influenzavano il loro cornai portamento e improntavano la loro esistenza quotidiana, dal relazioni di parentela e di amicizia, dalla regione di originai dai rapporti di vicinato e dalla consapevolezza di apparten« re a una determinata comunità locale. In città di provinoli come Grenoble e Marsiglia l'esistenza di tali tradizioni avrei» be avuto un ruolo importante nel processo di radicalizzaziotm a Grenoble, ad esempio, operai e artigiani erano stati tr&fl

principali protagonisti delle violenze della joumée des Tuiles del giugno del 1788. A Parigi tuttavia la violenza popolare, e con essa la cultura peculiare della strada e del posto di lavoro, avrebbero assunto nel complesso dimensioni assai più ampie. Il fatto che Parigi fosse la sede del governo dava alla sua popolazione una possibilità di influenzare direttamente gli eventi politici sconosciuta a qualsiasi centro di provincia, e i parigini erano perfettamente consapevoli del potere che da ciò derivava. Nel 1789, all'apertura degli Stati generali, è vero che giornalisti e agitatori popolari uscirono dal Palais Royal per percorrere i quartieri popolari della città, suscitando speranze e incanalando la rabbia popolare. Le persone alle quali indirizzavano le loro arringhe erano però già imbevute di concetti personali di uguaglianza e giustizia, di valori familiari, di un senso di moralità popolare. Il pericolo di violenze divenne costante a partire dalla primavera del 1789, dopo l'aumento del prezzo del pane. Nel mese di aprile lo scoppio della furia popolare e vari episodi di saccheggio fecero seguito al diffondersi di voci di tagli salariali, e una delle più grandi fabbriche della capitale, la Réveillon, che produceva carta da parati, venne presa i d'assalto. Nel mese di luglio, col pane a 14 soldi la libbra, la 'tensione raggiunse un nuovo culmine e il licenziamento di Necker, che godeva ancora di una certa popolarità tra i cittadini comuni, scatenò una nuova ondata di sommosse, fecondo le voci che circolarono in quei giorni la mossa del pera il preannuncio di una nuova cospirazione aristocrati-

% e i populisti radicali colsero l'occasione per armarsi e obilitare la cittadinanza. Il 13 luglio furono erette barricaper le strade. Le botteghe degli armaioli furono saccheg*ate e svuotate delle armi, le stazioni di pedaggio depredaU 14 la folla assaltò la Bastiglia, l'odiata prigione e fortez%eale che sorgeva imponente e minacciosa tra il Faubourg * t-Antoine e la città. Nello scontro che seguì le truppe presidiavano la fortezza uccisero oltre cento uomini, e andò il governatore de Launay finalmente si arrese la folla Musa ed eccitata lo agguantò, lo uccise e affisse su una ca la sua testa - insieme a quella di Flesselles, prévót des fchands - che fu poi esibita in giro per la città. Per il olo della capitale la caduta della Bastiglia fu un momenJli intenso simbolismo: l'abbattimento con la forza di un 41

monumento all'autorità regia. Coloro che avevano combattuto ed erano morti nell'assalto divennero da un giorno all'altro gli eroi della lolla. Per le classi proprietarie, per la Parigi rispettabile e per i deputati il simbolismo era assai più minaccioso. Per loro l'assalto alla Bastiglia era un simbolo di anarchia e disordine che dimostrava la potenza dell'insurrezione popolare. Molti si convinsero che occorreva muoversi in direzione di una riforma costituzionale. L'insurrezione fu inoltre decisiva nello spingere i deputati ancora incerti a rompere gli indugi e a unirsi alla nuova Assemblea nazionale. Ancora una volta l'azione popolare aveva consolidato i risultati della rivoluzione liberale [Godechot 1965, trad. it. 1969, 308 ss.]. Questa lezione non sfuggì ai leader radicali di Parigi, i quali compresero che avevano anch'essi un ruolo da svolgere. Tale idea venne suffragata dai fatti di ottobre, quando un'altra folla, composta per lo più di donne dei mercati di Parigi, marciò su Versailles e riportò la famiglia reale alle Tuileries. Ancora una volta l'azione popolare era stata decisiva, e riducendo la libertà di manovra del re aveva dato nuovo impulso all'Assemblea e al programma di riforme. Il ruolo popolare nello svolgimento del dramma del 1789 fu significativo, e non previsto dal copione originale. Le intenzioni dei legislatori erano state di controllare il movimento di riforma e limitare la partecipazione politica alle classi proprietarie, tuttavia i più radicali già guardavano alle strade e ai mercati della capitale per un ulteriore sostegno alla

loro causa. La lezione di quei mesi estivi fu chiara: per molti francesi l'allentamento dei controlli e la proclamazione di nuove libertà era solo l'inizio. Molti cominciarono a prendere iniziative proprie, sfidando le strutture tradizionali locali nel nome dell'Assemblea e della libertà rivoluzionaria. In varie città di provincia quella fu l'estate della cosiddetta «rivoluzione municipale», spesso innescata, come nel caso delle sommosse parigine, dal licenziamento di Necker e dalla conseguente sensazione che il re si fosse comportato da traditore. Senza alcuna autorità legale al di fuori dell'autorità morale che la rivoluzione stessa conferiva, le vecchie istituzioni municipali cooptarono i notabili locali o rimisero i loro poteri agli elettori. La loro guida era l'Assemblea, non il re. Godevano di assai maggiore autonomia dal centro ed 42

erano orgogliose eli poter dirigere gli affari municipali. Spesso si misero al comando di una milizia borghese o guardia nazionale per la difesa della città sia dagli aristocratici che dai contadini delle campagne circostanti. Nei pochi mesi tra la convocazione degli Stati generali e le giornate di ottobre la configurazione politica della Francia era totalmente cambiata. Luigi XVI non poteva più realisticamente pretendere di essere un monarca assoluto, pur se non poteva avere che scarsa comprensione della natura di alcune delle forze che gli si erano rivoltate contro. Era ancora il re, naturalmente; ma il suo potere era sovrano? I rivoluzionari parlavano sempre più spesso di una sovranità che risiedeva non nella persona del monarca bensì nella collettività del popolo francese, la nazione. La rivoluzione che si affermò in quei mesi aveva una propria ideologia e propri ideali liberali e individualistici. Nella sfera dell'economia le idee dei fisiocratici avevano già aperto nel ventennio precedente considerevoli brecce nell'ideologia mercantilistica, ma ora l'individualismo economico emerse come aspetto essenziale della libertà dell'umanità. Le restrizioni e le prerogative, il concetto che il Settecento aveva avuto della libertà, ebbero uno scarso impatto sul pensiero rivoluzionario. I gruppi privilegiati e corporativi avantieri regime non potevano, inoltre, illudersi che i loro privilegi tradizionali sarebbero stati rispettati anche in futuro. I valori liberali, affermati dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 26 agosto, ispiravano molte delle azioni del governo, e l'individualismo

era considerato un salutare antidoto ai controlli e alle restrizioni imposti dal governo. Anche sul piano politico la vittoria dei monarchici costituzionali moderati sembrava sicura, e con il cambiamento del nome dell'assemblea in Assemblea costituente lo scopo principale diveniva l'elaborazione di una costituzione liberale per la Francia. Sembrava che i deputati, dopo i primi incerti passi di giugno, fossero riusciti ad affermare un indubbio primato politico sul paese. Si stava definendo un po' alla volta la natura del nuovo assetto politico. Eppure già nel 1789 si profilavano minacce al presunto consenso generale. La collaborazione del re era indispensabile, ma alcuni segni facevano presagire che essa non doveva essere data per scontata. Luigi poteva non opporsi aperta43

mente alla rivoluzione, tuttavia era chiaramente deluso da molti dei cambiamenti, mentre l'ostilità eli Maria Antonietta era nota. Almeno alcuni aristocratici erano già convinti che non c'era posto per loro nel nuovo regime, una Francia in cui la retorica pubblica era apertamente ostile sia alla nobiltà sia ai suoi valori tradizionali. Molti già guardavano al di là delle frontiere, all'emigrazione, e fra loro c'era una buona fetta degli ufficiali dell'esercito, carriera che negli ultimi anni àe\Y ancien regime era stata praticamente riservata alla nobiltà. Importante era l'atteggiamento della chiesa, sia per le sue ripercussioni internazionali che per il controllo che esercitava sulla coscienza politica di milioni di francesi. I primi indicatori non erano promettenti: la gerarchia ecclesiastica degli anni Ottanta era strettamente legata all'ideologia dell'assolutismo e agli interessi della nobiltà (la maggioranza dei vescovi e abati francesi era composta da figli cadetti di famiglie nobili). L'opposizione della rivoluzione ai privilegi, il suo obiettivo dichiarato di abolire obblighi feudali e decime, e le concessioni fatte fin dall'inizio alle confessioni non cattoliche erano tutti elementi che mettevano a disagio la chiesa, alcuni dei cui principali esponenti furono tra i primi a emigrare. Nonostante la prudenza dei primi passi compiuti dalla rivoluzione - prudenza che può essere valutata dalla richiesta di annessione alla Francia avanzata nel 1790 dagli abitanti dello stato papale di Avignone - tra la gerarchia cattolica e un'ideologia razionalista il compromesso non sarebbe mai stato facile. Il papato non faceva mistero della sua avversione per il nuovo governo francese o

dell'importanza che attribuiva alla sua alleanza con le monarchie dell'Europa cattolica. Tra gli stessi rivoluzionari, inoltre, si stavano producendo le prime spaccature. Se tutti si dicevano d'accordo sul primato dei diritti dell'uomo, non c'era consenso sul ruolo che il re avrebbe dovuto svolgere, né sul significato della libertà politica. A Parigi il potere passò man mano al partito * patriota, più radicale, che a sua volta spinse i monarchici '; all'opposizione. La politica si stava facendo più ideologica* I e come tale rischiava di diventare più esclusiva. Anche nelle ^ province il consenso iniziale sfumò non appena le fazioni | cominciarono a disputarsi il controllo politico, lasciando;! agli anni che seguirono un'eredità di rancori. Rimaneva poi! 44

da risolvere l'intera questione della rappresentanza politica. La nazione era sovrana, ma da chi era formata? Le elezioni dovevano essere riservate alle classi proprietarie e ai contribuenti? In altre parole, come doveva essere definita la nazione politica? I deputati dell'Ottantanove non erano molto interessati all'idea del suffragio universale; il loro obiettivo era conservare il nuovo assetto politico e garantire istituzioni stabili, e la Bastiglia stava lì a ricordare drammaticamente che il popolo poteva diventare un pericoloso fattore di anarchia. In ottobre l'Assemblea costituente decise che i diritti politici sarebbero stati riservati ai cittadini attivi - cioè agli uomini di oltre 25 anni di età che pagavano in imposte l'equivalente del costo di tre giorni di manodopera non qualificata. A questi soggetti, approssimativamente 4,3 milioni di individui, veniva riconosciuto il diritto di partecipare al processo elettorale. Si trattava tuttavia, come stabilì la Costituzione del 1791, di un processo indiretto: tutto ciò che i cittadini attivi potevano fare era scegliere tra le loro file degli elettori, per i quali però sussisteva il requisito del pagamento di imposte pari a dieci giornate di lavoro. Poiché i possessori di tale requisito erano solo circa cinquantamila persone, in sostanza l'elettorato era notevolmente più ristretto di quello che aveva votato per gli Stati generali nel 1789. Per la massa della popolazione erano previsti pochi diritti politici; l'Assemblea cercò persino di limitare la facoltà di presentare petizioni, mentre a Parigi alla Guardia nazionale fu riconosciuto un forte ruolo di polizia per assicurare l'obbedienza della città alle autorità legalmente costituite.

Stava nascendo una nuova classe politica. Ma per quanto tempo potevano essere giustificate distinzioni di questo tipo? Il movimento popolare parigino aveva già dato una prova di forza, e i radicali sapevano di poter contare nuovamente su di esso in caso di necessità. Un certo numero di giornalisti e uomini politici stava cominciando ad abbracciare la loro causa e parlava di un suffragio più ampio, della necessità della sovranità popolare, persino del diritto di insurrezione. Il loro timore era che una limitazione dei diritti politici portasse alla tirannide e alla corruzione. Pierre-Jean Audouin scrisse nel «Journal Universe!» he i cittadini formavano la nazione, e che dunque i cittadini vevano il diritto di fare tutte le leggi della nazione - le leggi 45

civili, penali, e anche quelle riguardanti la chiesa e i militari [Censer 1976, 60]. Cam il le Desmoulins, nel suo Revolution s de France et de Brabant, mise in discussione le fondamenta giuridiche di ogni distinzione che metteva i cittadini gli uni contro gli altri: «Ma cosa dovrebbe significare quest'espressione così abusata, i cittadini attivi} Cittadini attivi sono quelli che hanno preso la Bastiglia» [Doyle 1989, 124]. L'iniziale consenso generale non era durato a lungo. Si sarebbe tentati, pertanto, di concludere che esso non fu che un'illusione, una parvenza di unità generata dalla passione e dall'euforia determinate dalla convocazione degli Stati generali e dalla formazione dell'Assemblea nazionale. Questa illusione sarebbe stata crudelmente infranta quando, una volta sbiadito il ricordo del 4 agosto, giunse il momento di prendere decisioni pratiche d'importanza capitale. Rimanevano, naturalmente, ampie aree di consenso: tutti, o quasi tutti, volevano cogliere l'opportunità che il crollo de\V ancien regime sembrava offrire; nessuno voleva far sprofondare il paese nell'anarchia. Qui però finiva l'identità di vedute, in quanto conservatori e radicali avevano idee assai differenti sul tipo di assetto sociale e politico che avevano intenzione di fondare. 46

CAPITOLO SECONDO LA POLITICA Agli occhi dei contemporanei l'idea di rivoluzione in quanto tale era associata al disordine, e a un disordine di larghissima portata. Cos'era la rivoluzione, infatti, se non la distruzione deliberata dei valori e delle istituzioni su cui si reggeva il governo e che davano coesione alla società? La Francia del Settecento conosceva bene il termine, che veniva impiegato per denotare una trasformazione improvvisa e violenta della società, la vittoria del nuovo e dell'imprevedibile sulle strutture consolidate e sperimentate. Il termine proveniva dall'astronomia e dallo studio della natura, ma era la sua applicazione politica a suscitare il più ampio dibattito. I tradizionalisti lo usavano in senso peggiorativo come qualcosa di temibile che stravolgeva quella stabilità che i governi giustamente cercavano di imporre ai propri sudditi. La definizione tradizionale di rivoluzione, quella che si ritrovava nei grandi dizionari apparsi tra fine Seicento e metà Settecento, ne accentuava anzi la connotazione distruttiva escludendo praticamente tutti gli altri aspetti. Nel 1680, ad esempio, Richelet l'aveva definita, con ostile concisione, «perturbazione, disordine e cambiamento». A sua , volta il Dictionnaire de Trévoux, con un tono che rifletteva idee e pregiudizi dei suoi lettori, aveva legato la rivoluzione alle trasformazioni più negative che minacciavano l'umanità, a periodi di «disgrazia, sfortuna e decadenza» [Lucas

1988, 42]. Fu soltanto con l'Illuminismo e con la diffusione . di nuove idee che il dibattito sulla rivoluzione divenne più - equilibrato, e solo negli ultimi cinquant'anni dell1'ancien regime i commentatori politici cominciarono a suggerire che essa potesse essere portatrice di cambiamenti positivi e dell'estensione delle libertà dell'uomo. Fino a quel momento non c'era stata alcuna considerazione per l'opinione popolare. La rappresentanza politica era vista come qualcosa che 47

necessariamente emanava dall'alto; secondo Keith Baker [1987, 471], «la logica tradizionale della rappresentanza nell'Antico Regime deriva dal rapporto essenziale tra sovranità regia e assetto sociale particolaristico». Dal basso era permessa solo la deputazione. Con l'Illuminismo erano stati messi in discussione i postulati tradizionali sulla natura dell'ordine sia politico che sociale. Non era più accettato universalmente che la stabilità politica dovesse di necessità dipendere dall'obbedienza a un monarca assoluto, il quale agiva a sua volta nel regno come rappresentante della divinità. Né era così ovvio che la missione principale dell'uomo fosse di servire Dio, o che la sua accettazione dell'ordine delle cose esistente fosse l'unico strumento di salvezza dal peccato originale. I filosofi come Voltaire, Mably e d'Holbach che mettevano in dubbio lo status quo e respingevano l'idea di un necessario ordine politico-ecclesiastico nella società non erano sostenitori dell'anarchia o del disordine politico. Essi credevano in un altro tipo di ordine che collocava l'uomo più decisamente al centro dell'universo politico. Le istituzioni esistenti dovevano essere discusse e se necessario sostituite. Rousseau sostenne che lo stato doveva riflettere un contratto sociale tra governanti e governati e parlò del governo come di un riflesso della «volontà generale». Montesquieu invocò un ordine politico in grado di esprimere i diversi interessi della società e di garantire la divisione dei poteri; affermò che il miglior modo per servire la causa della libertà era affidarsi all'autorità

della legge. Entrambi credettero, in modi divergenti, che avrebbe dovuto esserci in Francia un cambiamento rivoluzionario nella percezione del potere e nella natura dell'assetto politico. Le loro idee, combinate con l'esempio dei successi dei movimenti rivoluzionari in altri paesi - in Inghilterra nel Seicento, a Ginevra dopo il 1760 e, più vicino nel tempo, nelle colonie americane nel 1776 - contribuirono a dare al concetto di rivoluzione un'immagine pubblica nuova e meno negativa. La possibilità di una rivoluzione in Francia non appariva più così minacciosa. Naturalmente tali idee non si diffondevano indiscriminatamente nella società. Nelle aree rurali pochi probabilmente ne erano a conoscenza, mentre nel complesso Parigi si rivelò più ricettiva. Recenti ricerche inducono a 48

credere che tra gli artigiani e gli operai parigini i concetti di diritto naturale e giustizia naturale avevano preso a diffondersi già alcuni decenni prima del 1789 e che essi venivano ampiamente usati nelle controversie commerciali dibattute presso il tribunale dello Chàtelet [Sonenscher 1989, 73-98]. In questo ambito l'idea di un'insurrezione politica in difesa di questi diritti poteva prevedibilmente contare su più ampie simpatie. E nel 1789 il livello di consapevolezza sarebbe enormemente aumentato con il profluvio di libelli che precedette la riunione degli Stati generali a Versailles. Non che l'esperienza iniziale della rivoluzione, quando alfine scoppiò, fosse totalmente rassicurante. Le libertà di stampa venivano calpestate, la violenza rimaneva impunita. Inoltre non c'era consenso chiaro sugli obiettivi della sollevazione che si stava producendo. Nella nuova classe politica non esisteva un unico movimento rivoluzionario, non esisteva un chiaro progetto di ricostruzione del governo e della società. Tra il 1789 e il 1795 la Francia avrebbe avuto una serie di costituzioni contrastanti, ciascuna espressione di un sistema differente. Le funzioni esecutiva e giudiziaria avrebbero subito una continua ridefinizione seguendo l'evoluzione del sistema dalla monarchia limitata alla repubblica, e il passaggio dal nazionalismo alla concezione della virtù come fondamento del corpo politico. C'era, a quanto pareva, ben poco consenso anche su questioni fondamentali come i diritti dell'individuo, la libertà religiosa, la cittadinanza, la sacralità della proprietà. Il paese oscillò selvaggiamente tra delega e potere centralizzato, tra riforme libertarie e terrore politico,

tra liberalismo economico e controlli da economia di guerra. E possibile dunque affermare che tra la riunione degli Stati generali nel 1789 e l'istituzione del Direttorio nell'anno III non ci fu un'unica rivoluzione, bensì una serie di rivoluzioni, nel corso delle quali gruppi differenti si alternarono nel tentativo di applicare a un paese in trasformazione le formule da loro scelte. Monarchici e patrioti, girondini e montagnardi, termidoriani e direttoriali, ciascun gruppo cercò di guidare lo stato lungo sentieri consoni alle proprie idee. Spesso la conquista del potere avvenne con la violenza, soprattutto a Parigi, dove furono protagonisti gli artigiani e gli operai della capitale. Abbiamo già visto che la violenza 49

contadina della Grande Paura e l'assalto popolare alla Bastiglia nell'estate del 1789 contribuirono a rafforzare i poteri dell'Assemblea nazionale e a spingere i ceti privilegiati al compromesso. Coloro che non vollero cedere furono autorizzati - qualcuno potrebbe dire incoraggiati - a lasciare il paese; l'estate del 1789 vide anche la prima massiccia emigrazione di nobili ed ecclesiastici incapaci di sopportare i cambiamenti in atto. Ma, una volta conseguiti i primi successi e messa al sicuro l'autorità della nazione, la violenza non cessò, né i gruppi che componevano la classe politica cercarono di fermarla. Per tutto il decennio 1790-1800 la violenza della folla sarebbe rimasta un elemento cruciale della rivoluzione francese, una forza da invocare nei momenti di crisi politica. E in ogni occasione in cui il popolo entrò in campo, il suo intervento parve produrre effetti sensazionali. L'insurrezione popolare alle Tuileries nell'agosto del 1792, con le sue uccisioni e i suoi martiri, schierò l'opinione pubblica contro Luigi XVI e le guardie svizzere; la conseguenza fu la sospensione del re e la proclamazione della repubblica. Nell'estate del 1793 la sollevazione delle sezioni parigine permise ai giacobini di rovesciare l'amministrazione girondina e di conquistare il potere. I giacobini cercarono la legittimazione delle assemblee di sezione più radicali, in particolare nel processo di costruzione di un'economia di guerra e nell'introduzione del terrore politico; nella primavera del 1794, tuttavia, gli stessi giacobini avevano imparato a temere l'influenza delle sezioni e avevano preso le distanze dall'estremismo delle loro idee egualitarie.

Infine, il 9 termidoro (27 luglio 1794), essi furono a loro volta rovesciati. Quella termidoriana fu sostanzialmente una rivoluzione di palazzo interna all'Assemblea, organizzata da una coalizione di repubblicani moderati, giacobini delusi e deputati che temevano per la propria sopravvivenza. Il suo successo fu dovuto però al fatto che il movimento popolare era insoddisfatto del governo dei giacobini e ne aveva facilitato la caduta. Nei mesi che seguirono, i termidoriani presero adeguate misure per non cadere nella medesima trappola. Disarmarono progressivamente la folla di Parigi e ne esautorarono i capi. Sotto il Direttorio le sezioni furono ridotte a pallide ombre di ciò che erano state in precedenza, spogliate come 50

furono dei diritti e dei privilegi che le avevano rese influenti nei giorni frenetici della repubblica giacobina. Private del diritto di riunirsi in seduta permanente e della possibilità di distribuire gettoni di presenza, limitate a funzioni burocratiche di routine quali il rilascio di tessere annonarie, esse cessarono di avere un ruolo politico indipendente. Si ridussero in sostanza ad autorità amministrative di basso livello incaricate dello svolgimento di quei compiti che il governo demandava loro. Nel corso di tale processo esse persero gran parte dell'antica autorità e della capacità di suscitare entusiasmo nelle officine e nei mercati della capitale. Nel 1795 la loro impotenza era evidente; le giornate di germinale e pratile furono gli ultimi spasimi di un movimento politico agonizzante. La cospirazione di Babeuf del 1796, pur riuscendo ad accendere qualche entusiasmo tra gli esponenti di sezione più egualitari, fu rapidamente ed efficacemente repressa. TI movimento popolare aveva cessato di esistere come forza indipendente. Con questo non si esaurì la minaccia di ulteriori violenze: questi furono gli anni delle minacce realiste e della teppa dei teatri, dei mu scadi ns e della jenne ss e dorée, anni che culminarono nelle violenze realiste di pratile [Gendron 1979, 325-7]. La Parigi popolare, con la sua lunga tradizione insurrezionale, continuò a essere vista con profondo sospetto dalle sfere governative, ed era perciò presidiata con particolare rigore dalle forze di polizia. Alla fine, naturalmente, la vera minaccia sarebbe venuta non da Parigi ma dall'esercito, come avrebbe dimostrato il colpo di stato di brumaio che rovesciò il Direttorio.

Paura del caos In queste circostanze era facile per gli oppositori della rivoluzione presentarla come una deriva verso l'anarchia politica. Alcuni erano convinti fin dall'inizio che la disgregazione delle istituzioni dc\Y ancien regime non avrebbe potuto che gettare il paese nel caos; altri videro nel ruolo del movimento popolare la prova che cercavano della perdita totale di autorità nel paese da parte del governo. Secondo i monarchici la stabilità era distrutta per sempre; coloro che trovarono rifugio nell'emigrazione spesso giustificavano la 51

propria scelta col fatto che la rivoluzione minacciava di precipitare la Francia nell'anarchia. Lo stesso Luigi XVI, alla vigilia della sfortunata fuga a Varennes, aveva sostenuto pubblicamente questa idea: aveva accettato di rimanere nella Parigi rivoluzionaria, scrisse, nella speranza che le attività dell'Assemblea nazionale portassero ordine e felicità nel regno, ma tale speranza si era rivelata vana a partire dall'estate del 1791. Dichiarò che la decisione di emigrare era stata determinata dall'evidenza del caos generale, dal fatto che «nessuna autorità è rispettata, la proprietà è violata, la sicurezza personale è dovunque in pericolo, i delitti rimangono impuniti», in breve da un paese in cui «l'anarchia totale ha preso il posto della legge» [Stewart 1951, 205]. Altri avrebbero affermato che la sua collusione con i nobili emigrati e con i monarchi stranieri aveva contribuito a tale anarchia; di certo l'esercizio della potestà esecutiva aveva fatto ben poco per rassicurare coloro che dubitavano della sua buona volontà. A molti conservatori la spiegazione di Luigi appariva tuttavia convincente: come lui erano del parere che dagli interessi e dalle pressioni contrastanti che caratterizzarono la prima fase rivoluzionaria non potesse nascere alcuna stabilità politica. Anarchia, devastazione, disordine: per tutta la durata della rivoluzione coloro che si opponevano a ulteriori cambiamenti avrebbero snocciolato questa litania di denunce. Non era solo il linguaggio della controrivoluzione: era un linguaggio condiviso da molti partecipanti al gioco della

politica rivoluzionaria che temevano di essere spiazzati da elementi più radicali. Inizialmente l'accusa fu lanciata dai monarchici costituzionali contro i sostenitori della repubblica, in quanto per loro la separazione dei poteri e l'esistenza di un forte esecutivo erano requisiti indispensabili per la stabilità. Ben presto anche i repubblicani si sarebbero divisi sul tipo di repubblica che volevano vedere realizzata, con i moderati ridotti in minoranza. Nel 1793 le sezioni parigine e il club giacobino di Parigi apparivano agli occhi di settori sempre più ampi dell'opinione pubblica come i principali istigatori dei disordini. Essi erano i più convinti assertori della necessità di leggi eccezionali e tribunali rivoluzionari, i più appassionati seguaci del terrore. In molte zone del paese la stessa capitale era identificata con l'anarchia e la 52

violenza delle folle. Birotteau, deputato per i Pirenei orientali, espresse i sentimenti di molti francesi quando ammonì contro le inveterate tradizioni anarchiche che caratterizzavano la capitale. Poco dopo il colpo di stato giacobino del giugno 1793 dichiarò che «l'anarchia è al potere a Parigi; vi regna con il terrore, e il suo obiettivo è ridurre in schiavitù la Francia intera». Molti deputati erano dello stesso avviso. Solo il 25 maggio l'irascibile Isnard, che in quel momento presiedeva l'Assemblea, timoroso che la violenza e l'anarchia dei parigini potessero colpire la persona di uno qualsiasi dei deputati, aveva minacciato: «vi dichiaro in nome di tutta la Francia che Parigi sarebbe annientata». Replicando alle urla irose provenienti dall'aula e alla protesta di Marat che lo accusava di disonorare il buon nome della Convenzione, Isnard aveva aggiunto: «ben presto si cercherebbe invano sulle rive della Senna se Parigi sia mai esistita» [Furet e Ozouf 1988, trad. it. 1988, 69]. I termidoriani ripresero quest'immagine di una repubblica minacciata dall'anarchia e dal disordine piegandola ai propri fini. La loro missione, come essi stessi la interpretavano, era di riportare l'ordine in un paese in cui la violenza e gli eccessi popolari avevano reso impossibile una buona amministrazione e in cui il ruolo dell'assemblea eletta dal popolo era stato usurpato dai giornalisti, dai club e dalle sezioni popolari. Essi pertanto cercarono di prendere le distanze dal volto più radicale della repubblica giacobina e denunciarono tutto quello che sapeva di anarchia. Il disordine

si incarnava per loro in Marat e Hébert, manipolatori della furia popolare, ma anche in persone come Robespierre che avevano prosperato sul Terrore e abusato dei poteri loro conferiti. Il Terrore e l'ambizione venivano pertanto personalizzati e chi esercitava il Terrore coperto di contumelie. In questo modo i termidoriani pensavano di poter unire la grande massa dei francesi, molti dei quali si erano allontanati dalla politica o erano stati costretti a nascondersi. Club e sezioni furono chiusi, i giornali sottoposti a censura, e fu messo in circolazione un feroce libello che denunciava gli uomini di Robespierre (la cosiddetta queue) che ancora detenevano cariche pubbliche. I processi di Fouquier-Tinville e di Carrier furono poco più che una farsa. Nei dipartimenti circolavano livres rouges che denunciavano i giacobini locali 53

e coloro che avevano comunque ricoperto una carica pubblica durante il Terrore. In quelle parti del paese in cui resistevano in profondità i vincoli familiari e di clan, soprattutto nel sudest, le purghe tornarono all'ordine del giorno. Tutto questo attivismo, come ha sottolineato Bronislaw Baczko, si prefiggeva un semplice risultato politico: esorcizzare il ricordo del Terrore e porre fine al sommovimento rivoluzionario. Con questa tattica, si afferma, essi cercavano di legittimare la repubblica [Lucas 1988, 348-9]. Per questa ragione, se non altro, la propaganda del periodo post-termidoriano è stata trattata con sospetto. La classe politica dirigente, inoltre, era in gran parte quella che, nel 1793 e nel 1794, aveva fornito i deputati inviati in missione nelle province. Le iniziative prese da costoro in quegli anni non fanno ritenere che essi fossero visceralmente contrari all'uso del Terrore: uomini come Tallien, Fréron e Barras furono spietati come gli altri quando si trattò di reprimere le rivolte federaliste di Bordeaux e del Midi. «Stiamo uccidendo tutto quello che si muove», aveva scritto Fréron da Tolone durante la repressione della rivolta cittadina [Crook 1991, 150]. Se pochi mesi dopo lo stesso Fréron era sul carro dei vincitori, dov'è la prova che nel frattempo le sue convinzioni fossero radicalmente mutate? In un certo senso i rivoluzionari sono investiti quasi per definizione della missione di arrecare grandi distruzioni. Le strutture amministrative e legali esistenti dovevano essere

smantellate, e ripensati i principi sui quali esse si fondavano. Parlements, ceti legali, tribunali ecclesiastici e feudali, amministrazioni locali: tutto ciò aveva un fondamento strettamente connesso con la vecchia struttura monarchica. La loro abolizione pertanto doveva essere vista come parte integrante della successiva riedificazione della base istituzionale del paese, come primo passo necessario verso la creazione in Francia di un nuovo assetto politico. I contemporanei erano senz'altro consapevoli della necessità di distruggere prima di poter ricostruire. I rappresentanti del Terzo stato a Versailles, che si impegnarono col giuramento della sala della Pallacorda e che denunciarono la natura corporativa della società francese erano consapevoli con quel gesto di emancipare i loro compatrioti e garantire le nuove libertà. Il nuovo assetto doveva essere liberale e pluralista, basato su54

gli ideali umanitari dell'Illuminismo, e sui concetti di cittadinanza e di dovere civico che trovarono la loro più piena espressione nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Ai francesi dovevano essere garantite le libertà essenziali negate dalla monarchia borbonica - libertà di parola, libertà di commercio, diritto di proprietà. I proprietari, che pagavano una data quantità di imposte, avrebbero goduto dei diritti di cittadinanza tra cui il diritto di voto e il diritto di candidarsi alle elezioni per le cariche politiche: la proprietà conferiva il diritto di partecipare ai processi politici dello stato. Gli individui sarebbero stati uguali davanti alla legge: Yhabeqs corpus sarebbe stato garantito e gli abusi del potere esecutivo perseguiti. Cosa più importante, questi diritti consacrati da una costituzione che a sua volta avrebbe vincolato le future generazioni di legislatori. Come tutti i liberali gli uomini dell'Ottantanove davano grande importanza al processo costituente: la costituzione era il meccanismo attraverso il quale essi avrebbero fondato e tutelato le loro libertà; attraverso la costituzione sarebbe stato creato un nuovo ordine politico, e le scelte costituzionali fatte nel settembre del 1789 garantivano che esso sarebbe stato, come dice Mona Ozouf, di concezione «radicale e rousseauiana» [Furet e Ozouf 1988, trad. it. 1988, 485]. Era difficile però disciplinare le idee di libertà e mettere ordine tra le aspirazioni umane. Le attese popolari erano state già innescate nel 1789 dai cahiers de doléances, e le crisi economiche non avevano fatto altro che affrettare la voglia

di cambiamento. I conflitti ideologici, il radicalismo popolare, la guerra e la controrivoluzione avrebbero contribuito a distorcere e corrompere gli ideali originari. Molti dei primi rivoluzionari erano riformatori idealisti che desideravano liberalizzare le leggi e abolire gran parte dei privilegi su cui si fondava la società francese; volevano costringere Luigi XVI ad accettare una monarchia controllata, a governare costituzionalmente anziché da monarca assoluto. Sarebbero stati soddisfatti di veder terminare a questo punto la loro opera. Ma anche se i riformatori ebbero un ruolo nella Francia del 1789, ben presto il loro potere e la loro influenza furono messi in crisi da altri soggetti. Nell'ottobre del 1789 Mounier decise che non c'era spazio per lui nel mondo estraneo che stava nascendo, e cercò scampo nell'emigrazio55

ne; altri lo avrebbero seguito. Nel gennaio del 1791 Barnave era tornato a casa, nel Delfinato; nel mese di novembre il sindaco di Parigi, Bailly, oggetto dell'odio dei parigini dopo il massacro del Campo di Marte, si dimise deluso. E Lafayette, il vecchio eroe di due mondi, venne bollato come avventuriero e potenziale dittatore ben prima che decidesse di passare agli austriaci. Il posto di questi uomini al centro della scena politica fu preso da una nuova generazione dotata di una logica più rigorosa, uomini che avevano una visione differente, più radicale, di quella che un ordine politico rivoluzionario comportava. Questa generazione a cui appartenevano Jacques-Pierre Brissot e Maximilien Robespierre era composta per lo più da repubblicani convinti, che avevano scarso interesse per il mantenimento della monarchia costituzionale. La Francia non ebbe una sola ma diverse rivoluzioni politiche nei dieci anni che seguirono il 1789. La monarchia costituzionale, la panacea invocata da quasi tutta la prima generazione di rivoluzionari, non riuscì a risollevarsi dalla crisi di credibilità provocata dal tentativo di fuga del re a Varennes nell'estate del 1791. Le voci che si levavano chiedendo la deposizione del re e la proclamazione della repubblica acquistarono particolare forza dopo la dichiarazione di guerra all'Austria e alla Prussia. Il re e soprattutto la regina Maria Antonietta erano ritenuti generalmente inaffidabili, privi di sentimenti patriottici, in combutta con l'imperatore. L'estate del 1792 fu contrassegnata a Parigi

da dimostrazioni di massa e vide l'arrivo nella capitale, per la celebrazione dell'anniversario della presa della Bastiglia, di uomini della guardia nazionale provinciale che finirono per dare man forte alle forze radicali parigine. Il 10 agosto queste assaltarono il palazzo reale delle Tuileries: nei feroci combattimenti che seguirono caddero diverse centinaia di parigini, e la folla infuriata si vendicò massacrando circa seicento guardie svizzere del re che si erano arrese. La famiglia reale riuscì a fuggire ma non potè scongiurare il grave danno d'immagine: Luigi era il re che aveva usato mercenari stranieri per sparare sul proprio popolo. L'Assemblea rispose deponendo il sovrano, imprigionando l'intera famiglia reale e proclamando la repubblica. Agli occhi sia dei contemporanei sia degli storici il 10 agosto inaugurò una 56

seconda fase rivoluzionaria, molto più fanatica della prima. Nel mese di dicembre Luigi sarebbe finito sotto processo di fronte alla nuova assemblea, la Convenzione nazionale. Il suo difensore, il legale bordolese De Sèze, sostenne con validi argomenti che, in quanto re, Luigi era stato al di sopra delle leggi e che sottoporlo a processo era un atto di dubbia legalità. Sebbene molti deputati condividessero questi dubbi giuridici, pochi erano convinti dell'innocenza delle sue azioni; in particolare, la convinzione generale era che avesse cospirato con gli austriaci contro il proprio popolo. Non era in dubbio il verdetto, quanto la sentenza. Cosa si poteva fare di un re riconosciuto colpevole di tradimento, in un paese in guerra, senza mettere in pericolo la sicurezza dello stato? Se 10 si fosse gettato in carcere sarebbe potuto diventare un punto di riferimento per la controrivoluzione; ma se lo si fosse giustiziato, non sarebbe diventato un martire venerato dai realisti francesi come dai monarchi stranieri? Molti deputati, ai quali ripugnava il regicidio, erano convinti che un appello al popolo francese avrebbe salvato la vita di Luigi. Altri affermarono che per salvare la rivoluzione il re doveva morire. «Se è innocente», sostenne Saint-Just, «allora il popolo è colpevole» [Hampson 1991, 87]. Alla fine naturalmente prevalse la logica più rigorosa: Luigi fu condannato a morte con un margine di voti minimo - 361 deputati favorevoli, 360 contrari, sostenitori di una soluzione che consentisse di evitare l'esecuzione del re - e il 21 gennaio 1793 fu

ghigliottinato in Place de la Revolution a Parigi. Una folla immensa ruggì la sua approvazione quando il carnefice sollevò la testa del re, simbolo supremo del crollo definitivo del vecchio regime. Rimanevano tuttavia irrisolte le questioni politiche di fondo. Che genere di repubblica doveva essere quella francese, e con che tipo di istituzioni politiche? Anche se il re non c'era più, i problemi non si erano per questo semplificati. Chi avrebbe dovuto detenere il potere esecutivo, e quale avrebbe dovuto essere il rapporto tra esecutivo e deputati? 11 potere doveva essere forse esteso ai non proprietari, i quali avrebbero in tal modo goduto di pieni diritti di cittadinanza? E dove risiedeva esattamente la sovranità? Si poteva essere tutti d'accordo nell'affermare che risiedeva nella nazione, ma cosa significava tale termine? Una volta eletti 57

col voto i propri rappresentanti, la nazione conservava dei diritti? Esisteva uno spazio politico per i club e per le associazioni politiche o per le sezioni parigine, per i radicali che col loro attivismo si erano dimostrati fondamentali per consolidare i primi successi politici? Il popolo aveva diritto di protestare o manifestare contro le decisioni dei deputati? Sussisteva ancora, in sostanza, il diritto d'insurrezione? Erano queste le problematiche di fondo che i rivoluzionari non poterono evitare di affrontare una volta deposto il re e proclamata la repubblica. Coloro che all'unanimità avevano voluto una Francia repubblicana prima del settembre del 1792 - tra i quali uomini che erano stati tra i deputati più radicali dell'Assemblea legislativa - erano ora divisi sul tipo di repubblica da costruire. Le divisioni politiche La principale divisione politica del 1792-93 fu quella che contrappose i girondini ai montagnardi. Ma cosa distingueva gli uni dagli altri? Entrambi i gruppi, dopo tutto, nutrivano principi repubblicani simili; entrambi avevano fatto parte del club giacobino; entrambi credevano nella libertà, nell'uguaglianza di fronte alla legge, nel diritto di proprietà. Nemmeno dal punto di vista sociale erano chiaramente distinguibili. I girondini forse erano un po' più facoltosi e vantavano legami più solidi con le élite economiche e giudiziarie delle maggiori città di provincia, tuttavia non c'era un abisso sociale tra loro e gli avversari montagnardi.

Alison Patrick [1972, 190-3] nota che i girondini rappresentavano l'archetipo dei notabili di provincia, con una forte rappresentanza nei porti mercantili e lungo la costa atlantica, e con un certo seguito nelle aree conservatrici (come la Somme) dove il pericolo della controrivoluzione era trascurabile. Il sostegno di cui godevano era più localizzato rispetto alla Montagna - il 40% dei loro deputati proveniva da undici soli dipartimenti - e, fatto determinante, non avevano rappresentanti a Parigi. Anche i loro capi venivano dalla provincia: Roland, ad esempio, veniva identificato con la città di Lione, e Vergniaud, Guadet e Gensonné - quella schiera di oratori che rappresentavano la Gironda e che 58

diedero al gruppo il suo nome - con Bordeaux. Le loro idee erano di stampo liberale sia in ambito economico che politico: molti si erano schierati con Brissot sulla questione degli schiavi e degli Amis des Noirs o avevano sostenuto Nicolas de Bonneville nella fondazione di una casa editrice liberale, il Cercle Social [Kates 1985, 6-8]. I girondini avevano già formato un governo, di breve durata, al tempo dell'Assemblea legislativa, e si erano espressi con forza in favore della guerra, alla quale Robespierre e i leader montagnardi erano stati contrari. E il loro stile di governo aveva già suscitato la severa censura di Robespierre: non solo per il sostegno alla guerra, ma anche per gli stretti legami col generale Dumouriez, che nel marzo del 1793 denunciò la politica francese e seguì l'esempio di Lafayette passando agli austriaci. I ministri girondini, questa era l'accusa, erano impetuosi, inaffidabili e frequentatori di traditori. Soprattutto, agli occhi dei montagnardi, essi erano colpevoli del più grave dei peccati: erano antiparigini, diffidavano della capitale ed erano sempre pronti a denunciare gli eccessi del movimento popolare. Se i girondini possono essere definiti solo per sommi capi, lo stesso si può dire dèi loro avversari. Infatti, pur se i montagnardi osservavano una più stretta disciplina di gruppo discutendo perlopiù anticipatamente le loro tesi al club giacobino, la differenza era solo di grado. In pratica sarebbe stato difficile dividere con sicurezza la Convenzione tra girondini e montagnardi; i deputati votavano individualmente

su molte questioni, e c'erano circa 250 membri, noti col nome collettivo di Palude, che non appartenevano né all'uno né all'altro gruppo, mantenendo un certo grado di indipendenza da quella che per loro era una politica faziosa. Non era comunque difficile individuare i montagnardi convinti. Provenivano in gran parte dall'ala radicale giacobina dopo che il club si era spaccato in una fazione radicale e una moderata (i foglianti), rappresentata da Lameth, Barnave e altri. Rimanevano fedeli al giacobinismo: dal 1793, quando il club parigino venne depurato dei moderati, l'identificazione tra giacobini e montagnardi sarebbe divenuta pressoché totale, al punto che politici come Robespierre, Danton e Marat si fregiavano di entrambi gli appellativi. La loro base geografica, inoltre, era molto differente da quella della 59

Gironda: sebbene fossero rappresentati in quasi tutta la provincia francese - compreso gran parte del sudovest al di fuori dell'immediato circondario di Bordeaux - erano anche fortemente radicati nella capitale. Anzi, nelle elezioni per la Convenzione del settembre del 1792, a Parigi non fu eletto nemmeno un girondino, e ciò fece dei montagnardi gli unici rappresentanti effettivi della capitale e dei suoi interessi. Nei mesi che seguirono ci sarebbe stato un forte affiatamento tra leader della Montagna, Comune di Parigi e sezioni radicali, intesa che a sua volta avrebbe alimentato i timori girondini di nuove violenze popolari. L'accusa più facile che si poteva rivolgere ai giacobini era quella di demagogia: erano uomini bisognosi dell'approvazione della Comune, che difendevano il movimento popolare per il semplice motivo che in qualunque momento avrebbero potuto averne bisogno per conservare il potere. Quando la Convenzione nazionale si riunì il 21 settembre, lo scontro tra la Gironda e la Montagna divenne la nota dominante della politica repubblicana. Sebbene nessuno dei due gruppi detenesse la maggioranza - il concetto di «partito» sarebbe del tutto anacronistico - i girondini riuscirono a dar vita al loro secondo governo e quasi immediatamente furono risucchiati in un'aspra disputa su Parigi allorché la capitale fu travolta da un'ondata di panico alla notizia della caduta di Longwy e per il timore di un'incursione nemica. Infiammati dall'oratoria di Marat, la Comune e i suoi agenti tra il 2 e il 7 settembre avevano guidato gli

assalti alle prigioni cittadine: la folla aveva occupato le celle trascinando via preti e supposti aristocratici, massacrando oltre millecento malcapitati [Lewis 1993, 38]. I massacri di settembre furono l'avvenimento più macabro della rivoluzione, caso esemplare di applicazione della legge del linciaggio da parte di una folla assetata di sangue. Il fatto però che i girondini condannassero i massacri e chiedessero il processo dei colpevoli spinse i montagnardi a difendere i parigini contro il governo, anche se pochi tra loro avevano effettivamente giustificato l'accaduto. Il danno comunque era fatto: i girondini furono additati quali moderati, difensori della proprietà, nemici di Parigi e delle sue sezioni popolari. Al contrario, i montagnardi si proponevano come uomini di principi il cui repubblicanesimo lasciava spazio all'azione 60

popolare. Nei mesi che seguirono i massacri di settembre le divisioni divennero più profonde. Durante il processo al re la Montagna fu compatta nel chiedere la pena di morte; i girondini diedero una fatale prova di individualismo e indecisione votando in modo incoerente e riponendo la loro fiducia in un appello al popolo nella speranza che questo si sarebbe tirato indietro di fronte alla prospettiva di mettere a morte il re. La loro incapacità di agire come gruppo compatto o di comprendere che talvolta occorreva andare al di là dell'individualismo si rivelò una debolezza insormontabile. I rovesci della guerra e la controrivoluzione a occidente minarono ulteriormente l'autorità del loro governo. Con l'approssimarsi dell'estate del 1793 i montagnardi si sentirono pronti a passare all'azione. Il 29 maggio Robespierre si appellò ai giacobini di Parigi; le sezioni risposero e così, tra il 31 maggio e il 2 giugno, l'edificio della Convenzione fu occupato e i leader girondini vennero arrestati. Nell'arco di dieci mesi, dunque, la Francia assistè a due importanti modificazioni del quadro politico che trasformarono il carattere della rivoluzione stessa. Prima fu proclamata la repubblica; poi questa passò sotto il controllo della Montagna. Di nuovo, però, i deputati si trovarono di fronte al compito di dare al paese una costituzione, in quanto quella del 1791 non aveva più alcuna utilità, essendo morta con la monarchia dei Borboni nell'agosto del 1792. Fu deciso di riunire il potere esecutivo e quello legislativo in un solo organismo, la Convenzione, ma si lasciò ai deputati neoeletti

il compito di elaborare la costituzione repubblicana di cui la Francia aveva bisogno. Anche stavolta ci furono contrasti sulla forma che tale costituzione avrebbe assunto, e sia i girondini che i montagnardi elaborarono una loro proposta autonoma. Quella dei girondini era destinata a rimanere sulla carta; quella dei giacobini invece fu ratificata da un voto nazionale nel giugno del 1793. In un sol colpo ci si sbarazzava degli squilibri che esistevano tra Parigi e le province. L'autorità legislativa e quella esecutiva erano concentrate nella Convenzione, mentre la sovranità veniva chiaramente attribuita al popolo. L'insistenza sul decentramento che tanto aveva impegnato i deputati nel 1789 fu lasciata cadere tacitamente nel dimenticatoio. Tra i diritti dell'uomo che vennero riconosciuti al popolo francese vi furono il 61

diritto all'assistenza pubblica e all'istruzione, e il diritto di opporsi all'oppressione con l'insurrezione [Doyle 1989,244]. Tutti i maschi adulti, inoltre, non solo una minoranza proprietaria, avrebbero goduto di pieni diritti politici. In termini elettorali ciò comportava un enorme allargamento del suffragio rispetto a quello previsto dalla costituzione del 1791. Allora la percentuale di cittadini attivi variava notevolmente da regione a regione, con le aree rurali generalmente più democratiche rispetto ai centri urbani. A Parigi, ad esempio, solo il 9,5% circa degli uomini aveva diritto al voto, mentre in un dipartimento scarsamente popolato come le Basses-Alpes tale percentuale si innalzava fino al 19,4%. Ora invece ottenevano il diritto di voto persino quegli stranieri residenti in Francia ai quali si riconosceva di aver svolto servizi meritori per la causa dell'umanità. Era una costituzione generosa che privilegiava il legislativo sull'esecutivo e che attraverso lo strumento di elezioni annuali e del voto diretto intendeva garantire che il governo continuasse a rimanere responsabile di fronte al popolo francese. Tuttavia la teoria si sarebbe rivelata del tutto diversa dalla pratica. La costituzione del 1793 fu ratificata e ufficialmente promulgata il 10 agosto, anniversario della deposizione del re, ma non entrò mai effettivamente in vigore. Il giorno successivo, quando si propose lo scioglimento della Convenzione per far posto a un governo costituzionale, Robespierre si oppose violentemente all'idea in quanto, disse, così si faceva il gioco dei nemici della Francia e si ostacolava

lo sforzo bellico nazionale. La Convenzione rimase in vita e i poteri dei suoi comitati esecutivi furono molto rafforzati. Di conseguenza le libertà che la costituzione prometteva non furono mai godute, e le elezioni annuali mai indette. Il 10 ottobre, dopo la lettura del rapporto di SaintJust sul governo rivoluzionario - «è impossibile che le leggi rivoluzionarie trovino attuazione se il governo stesso non viene costituito in modo rivoluzionario» - furono varate misure di emergenza che sarebbero dovute durare fino alla fine della guerra [Hardman 1973, 157]. Lo stesso Robespierre, un tempo il più inflessibile sostenitore della costituzione montagnarda, parlò in quest'occasione in favore della sua sospensione. Il 25 dicembre ammonì i critici del governo rivoluzionario a non nascondersi dietro argo62

menti costituzionali, giacché, fece capire, la Francia, nelle condizioni in cui si trovava, non poteva permettersi il lusso del costituzionalismo. «Lo scopo di un regime rivoluzionario è fondare una repubblica, quello di un regime costituzionale è condurla. Il primo si addice a un'epoca in cui la libertà è in guerra con i suoi nemici; il secondo a un'epoca in cui la libertà è trionfante e in pace col mondo» [Thompson 1935,438]. La costituzione del 1793 non sarebbe mai stata applicata poiché il 9 termidoro (27 luglio 1794) i montagnardi furono rovesciati e poiché i termidoriani non avevano grande simpatia per l'ampio suffragio e per le idee democratiche degli avversari. E mentre da un lato si adoperarono per minare l'influenza del movimento popolare parigino, da loro considerato un fattore di violenza e di disordine, dall'altro cercarono di varare una costituzione che tutelasse meglio gli interessi dei ceti proprietari e assicurasse quella che essi definivano una maggiore responsabilità di governo. Il risultato fu la costituzione dell'anno III, che introdusse il primo corpo legislativo bicamerale francese, fondato su un sistema elettorale indiretto. Erano previste due camere - il Conseil des Cinq-Cents e il Conseil des Anciens - e per votare occorreva essere cittadino francese, avere più di 21 anni, pagare le imposte dirette e risiedere da almeno un anno nel suo cantone. Del potere esecutivo invece era investito un Direttorio di cinque membri nominati dalle camere costituite in corpo elettorale in rappresentanza della nazione. La

separazione tra esecutivo e legislativo era finalizzata a dare al primo una maggiore indipendenza, e la nuova costituzione rappresentò un'importante presa di distanza dalla responsabilità democratica e un passo verso un'interpretazione più conservatrice del sistema politico. Tale tendenza si sarebbe fatta ancor più marcata dopo il colpo di stato del 18 brumaio e l'avvento al potere di Napoleone Bonaparte [Cole e Campbell 1989, 35-42]. A molti questa concentrazione del potere pare il logico sbocco dell'intero periodo rivoluzionario, in quanto fin da, gli inizi la rivoluzione aveva cercato di creare un sistema politico nazionale, con le decisioni legali prese al centro e applicate allo stesso modo in tutto il paese. Le differenze locali e le tradizioni regionali non solo erano scoraggiate ma 63

erano viste come un fattore pericoloso e potenzialmente controrivoluzionario, residui di un ancien régi?ne in cui il vero potere nelle province era nelle mani della nobiltà. Per questo motivo gli uomini della rivoluzione erano propensi a trovare una soluzione legislativa nazionale a ogni problema. Le leggi approvate a Parigi dovevano essere osservate in tutto il paese; ogni traccia di codici locali o di giurisdizioni feudali ed ecclesiastiche doveva essere cancellata. L'uguaglianza - la «sainte égalité» tanto amata dagli autori dei discorsi rivoluzionari - richiedeva questo: che i frutti della rivoluzione fossero a disposizione di tutti alla stessa maniera. Ma ciò a sua volta comportava una massiccia opera legislativa e la demolizione di pratiche antiche e onorate dal tempo; richiedeva una rivoluzione nei metodi amministrativi e nella tutela dell'ordine, nuovi tribunali, un'enorme estensione del ruolo tradizionale dello stato nelle vite dei singoli. E per avere successo presupponeva cambiamenti di natura ancor più fondamentale: cambiamenti di abitudini e mentalità nell'uomo comune, un'accettazione della nuova identità nazionale e di tutte le implicazioni della cittadinanza. La costruzione del nuovo ordine politico Per incidere in maniera significativa su abitudini secolari il nuovo corso politico doveva raggiungere e permeare le comunità locali. Uno dei primi compiti del comitato costituzionale fu pertanto quello di occuparsi delle divisioni esistenti nel paese e di suggerire i processi di razionalizzazione

che apparivano indispensabili. Per svolgere questo compito fu istituito uno speciale Comité de division, incaricato di ridisegnare la cartina amministrativa della Francia. Nel suo rapporto all'Assemblea nazionale del 29 settembre 1789, il presidente del comitato, Thouret, affermò che l'assetto esistente era casuale e illogico, con troppe sovrapposizioni giurisdizionali. Non c'era alcuna relazione necessaria tra le unità amministrative ecclesiastiche (diocèses), regie {généralités), militari {gouvernements) e giudiziarie {bailliages). Questi conflitti di autorità, a suo modo di vedere, erano dannosi oltre che irrazionali, e costituivano un ostacolo all'efficienza e un oltraggio al principio di uguaglianza; inco64

raggiavano lo spreco ed erano forieri di enorme confusione. Inoltre, spesso non tenevano affatto in considerazione il criterio dell'accessibilità al pubblico. I contadini potevano vedersi privati del diritto di avere giustizia solo perché i fiumi erano in piena o perché la neve bloccava i passi montani. In una nuova divisione amministrativa del paese si sarebbero dovuti rispettare per quanto possibile i confini provinciali, ma le caratteristiche geografiche, le distanze e la comodità degli amministrati dovevano venire prima di ogni altra cosa [Ozouf-Marignier 1989, 39-42]. La struttura che Thouret proponeva per l'amministrazione locale era basata su una nuova unità amministrativa, il dipartimento. Agli occhi dei deputati che facevano parte del Comité de division, era razionale oltre che vantaggioso per il popolo abolire la vecchia divisione in province per sostituirle con 75-85 unità dipartimentali, approssimativamente uguali per popolazione e superficie, le quali pertanto avrebbero consentito ai cittadini parità d'accesso alle strutture amministrative e legali (carta 2). La modifica aveva anche implicazioni ideologiche: con essa veniva proclamata la distruzione simbolica della monarchia e del privilegio, in quanto venivano abolite non solo le province ma anche gli intendenti, i parlements, l'intera panoplia amministrativa ancien regime. Con la Costituzione civile del clero del 1790 sarebbe stata smantellata anche la vecchia struttura delle sedi vescovili, e l'amministrazione ecclesiastica sarebbe

stata inserita nel medesimo ordinamento dipartimentale. Anche la chiesa sarebbe stata costretta a riformare se stessa in accordo con i dettami della ragione. Nella pratica, com'è ovvio, la tradizione non fu abbandonata da un giorno all'altro. Nonostante la riluttanza dell'Assemblea a riconoscere i lati positivi insiti nel vecchio ordinamento, la maggior parte dei dipartimenti nacque come suddivisione di una provincia o ricalcando i vecchi confini provinciali. E l'aver svolto un ruolo amministrativo nella vita del territorio circostante era un fattore generalmente determinante nell'assicurare a una determinata città la qualifica di capoluogo dipartimentale, ancor più della sua prosperità commerciale o dei calcoli grossolani basati sul catasto. Questo processo di decoupage, vale a dire di suddivisione del territorio, fu complesso quanto ambizioso: l'obietti65

vo dichiarato era portare l'amministrazione a più stretto contatto con il popolo e dare a quest'ultimo accesso più equo ai tribunali. Nel 1790 fu attuata non solo la divisione in dipartimenti ma anche l'ulteriore suddivisione in distretti e cantoni e la localizzazione di tribunali, giudici di pace, scuole e università. Nel processo furono consultati e sollecitati le opinioni e gli interessi locali: Parigi non era in grado di imporre alla Francia una nuova mappa amministrativa senza un consistente aiuto locale. Politici e potentati locali cercarono di ottenere garanzie e benefici per le rispettive comunità dalla ridefinizione in atto: è quasi certo, ad esempio, che il dipartimento delle Hautes-Pyrenées dovette la sua esistenza al potere e all'influenza del grande manipolatore Bertrand Barère [Laffon e Soulet 1982, 186]. Ciò provocò a sua volta dispute interminabili e profonde ostilità tra comunità rurali, ostilità che in molti casi continuarono a contrassegnarne i rapporti nel decennio rivoluzionario. La rivoluzione amministrativa infatti ebbe inevitabilmente vincitori e vinti: le città che furono private del prestigio o del beneficio economico di un tribunale o di un ufficio amministrativo continuarono a far pressione o a presentare petizioni nel tentativo di convincere la Convenzione nel 1793 e nel 1794 di essere più degne di considerazione rispetto a rivali più fortunate, che si erano macchiate di errori politici. L'irritazione per la presunta offesa poteva essere talmente forte da indurle a nutrire tentazioni controrivoluzionarie o a prestare orecchio alla sirena del federalismo.

Il sistema dipartimentale non era perfetto, ma le nuove abitudini amministrative si radicarono rapidamente. Tasse, istruzione, polizia, requisizioni, reclutamento: tutte queste materie erano discusse e disciplinate dalle nuove autorità dipartimentali, che fungevano anche da preziosa cinghia di trasmissione dell'opinione e della propaganda del governo nelle province. Attraverso i sindaci di circa quarantamila comuni le leggi e i decreti raggiungevano i più piccoli villaggi negli angoli più sperduti del paese. Nemmeno Napoleone trovò motivo per disfare l'opera del Comité de division in fatto di amministrazione locale; non era suo desiderio rivitalizzare le istituzioni che erano state distrutte nel 1789, e notò piuttosto il «caos delle assemblee provinciali» e le 66

«pretese dei parlements» che avevano caratterizzato il vecchio sistema. La Francia, disse, era stata più che uno stato unitario un'accozzaglia di venti regni diversi, ed egli non desiderava affatto ritornare agli abusi che un tale sistema comportava. I cambiamenti che pure introdusse furono intesi a rafforzare i dipartimenti, non tanto, va detto, come espressione dell'opinione locale ma come unità amministrative che contribuivano a fare della Francia un'entità politica governabile. In particolare, introdusse nei dipartimenti i prefetti nel ruolo di agenti dell'autorità centrale, uomini scelti dal centro che potevano raccogliere i suggerimenti delle popolazioni locali ma la cui sola lealtà era per lo stato, nella persona del ministro dell'Interno. Per Napoleone il popolo non era più un insieme di citoyens liberi bensì novità terminologica significativa - di administrés, ingranaggi di un sistema amministrativo efficiente. E le riforme che la rivoluzione aveva introdotto nel nome del decentramento amministrativo sarebbero state un elemento importante per la realizzazione del sogno napoleonico. La contraddizione è solo apparente. La rivoluzione nelle sue prime fasi aveva patrocinato un maggiore decentramento dell'autorità soprattutto in reazione al sistema degli intendenti regi, equiparati troppo semplicisticamente a dei tiranni. Il decentramento amministrativo godette di indubbia popolarità in un'epoca in cui la critica àé^ ancien regime si concentrava sugli abusi dell'autorità regia e sul dispotismo ministeriale. Durante la rivoluzione municipale del 1789-90

nuovi poteri furono conferiti a sindaci e consigli cittadini, e attraverso le elezioni fu affermata la responsabilità di questi ultimi nei confronti dell'elettorato. Ciò non vuol dire, però, che il governo intendesse allentare le redini del controllo politico. Il decentramento dei poteri fu determinato in gran parte dal fatto che le strutture amministrative erano ancora immature e la comunicazione tra gli organismi locali ancora carente. Già nel 1790 il sistema possedeva una sua considerevole logica interna, un alto potenziale d'integrazione. La volontà di controllo era già presente. Col susseguirsi di crisi sempre più gravi - l'approvvigionamento di generi alimentari, le vicende belliche, la controrivoluzione, il movimento realista - la necessità di controllo si fece più evidente. La guerra, come abbiamo 67

visto, sollevava con particolare gravità il problema della sicurezza pubblica. La patrie fu dichiarata in pericolo, e furono autorizzate misure amministrative eccezionali. Sotto la repubblica giacobina del 1793-94 i poteri locali furono in gran parte aboliti con l'istituzione del «governo rivoluzionario » e il Terrore eretto a sistema di governo. Furono sempre più ribaditi i concetti di controllo e obbedienza, e spietatamente colpita ogni deviazione dagli indirizzi politici nazionali; le stesse iniziative locali venivano guardate con diffidenza. Nel corso di questo processo fu insediata una vera e propria rete di funzionari. I deputati venivano inviati in missione dalla Convenzione per far applicare la legge e istruire gli amministratori locali, e quelli tra loro che erano sospettati di eccessiva indipendenza - soprattutto tra la primavera e l'estate del 1794 - potevano essere richiamati a Parigi o sottoposti a sorveglianza o a indagine. Per garantire che le nuove leggi rivoluzionarie fossero rispettate e che i sospetti fossero mandati sotto processo, i pubblici ministeri responsabili di fronte alle autorità locali furono sostituiti con gli agents natioriaux, che rispondevano solo al ministro dell'Interno. I funzionari locali avevano l'ordine di inviare a Parigi ogni dieci giorni un rapporto riassuntivo dei problemi che dovevano affrontare. A ogni livello si pretendeva sorveglianza e responsabilità; i funzionari locali erano invariabilmente sospettati di non nutrire gli stessi ideali dei giacobini, di amministrare in maniera lassista e di mostrarsi tiepidi nell'impegno politico. In ogni comune era prevista l'istituzione di comitati rivoluzionari incaricati di sovrintendere all'ordine

pubblico e di denunciare le manchevolezze degli amministratori. I militanti rivoluzionari venivano organizzati in battaglioni deìYarmée révolutionnaire con il compito di arrestare i sospetti e di garantire che i convogli carichi di grano raggiungessero le città e l'esercito. L'ordine politico instaurato dal centro doveva essere esteso a ogni comune del paese. Il governo rivoluzionario imposto dai montagnardi non lasciava spazio al pluralismo e non ammetteva il dissenso politico. La legge del 14 frimaio dell'anno II fu fin troppo chiara: ogni iniziativa, era specificato, spettava alla Convenzione. E sotto la parola Convenzione era sempre più facile leggere i comitati esecutivi ristretti ed esclusivi attraverso i quali la cerchia elitaria dei montagnardi esercitava il potere 68 i

- in particolare, naturalmente, quel Comitato di salute pubblica che sovrintendeva a ogni materia riguardante l'ordine interno e la polizia. Da qui aveva origine quella spinta legislativa che mirava a rigenerare la Francia e a inculcare un nuovo sistema di valori politici. Furono questi inoltre i mesi in cui il potere personale di Robespierre permeò praticamente ogni aspetto dell'attività di governo. I contemporanei erano perfettamente consapevoli di questo fenomeno allarmante. Persino tra i suoi più intimi frequentatori al club giacobino molti erano coloro che temevano le ambizioni dittatoriali di Robespierre e la distorsione degli ideali in cui credevano. Nel 1794 l'egualitario Gracchus Babeuf avrebbe commentato: «Ci sono due Robespierre: fino al 31 maggio [1793] il patriota sincero e l'uomo di principio, dopo d'allora l'uomo ambizioso, il tiranno e il peggiore dei furfanti» [Hampson 1974, trad. it. 1989, 7]. Lo stesso Robespierre insisteva che a giustificare i poteri di emergenza e il ricorso al Terrore era l'obiettivo della virtù, ancor più che i pericoli immediati che minacciavano la Francia. Saint-Just diceva che «la sola funzione della legge è respingere il male; l'innocenza e la virtù si muovono libere sulla terra» [Hampson 1981, 17]. Gli individui non virtuosi erano visti come un cancro pericoloso del corpo politico che doveva essere escisso per garantire la sopravvivenza della repubblica. Il Terrore Il Terrore non va inteso solo come una soluzione di

emergenza per una situazione di crisi o come una serie di leggi eccezionali aventi l'obiettivo di sradicare i delitti politici che minacciavano la sicurezza dello stato. Esso fu piuttosto parte integrante del processo di governo, in stretto rapporto con le politiche di centralizzazione amministrativa. Dall'approvazione della legge sui sospetti nel settembre 1793 fino alla caduta dei giacobini dieci mesi dopo, il governo si allontanò progressivamente dagli ideali liberali della prima fase rivoluzionaria per avvicinarsi sempre più allo stato di polizia. I diritti civili fondamentali quali Vhabeas corpus e il processo con giuria - da poco introdotto e ancora in vigore per i reati comuni - furono sospesi nei casi in cui 69

si riteneva che fosse in pericolo la sicurezza dello stato. In base al disposto del provvedimento più severo fra quelli promulgati durante il Terrore, la legge del 22 pratile dell'anno II (10 giugno 1794), la convocazione dei testimoni era lasciata alla discrezione della corte e all'accusato era negata l'assistenza legale; inoltre, quando l'imputato era riconosciuto colpevole, la sola sentenza possibile era la pena di morte. Questa legge inaugurò una seconda fase di Terrore, molto più terribile, nella primavera-estate del 1794, quando gruppi interi di sospetti vennero condannati e messi a morte in Place de la Revolution. In grande maggioranza erano sospettati di delitti politici; pochi furono giustiziati per reati economici. E da notare, infatti, che le misure di terrore economico - come i decreti di ventoso (febbraio-marzo 1794), che prescrivevano il sequestro dei beni degli individui «riconosciuti nemici della rivoluzione» - trovarono scarsa attuazione pratica [Doyle 1989, 266]. In totale Donald Greer [1935, 25-37] calcola che circa mezzo milione di francesi furono imprigionati o messi agli arresti domiciliari nei mesi del Terrore; forse 16.500 morirono sul patibolo. Se a questa cifra si aggiungono i casi di coloro che morirono in prigione o in attesa di processo arriviamo a un totale di oltre trentamila morti. Per molti giacobini queste cifre non avevano nulla di sorprendente. Per loro il Terrore era uno strumento vitale di purificazione del paese dagli individui che, con atti e opinioni, si erano già posti al di fuori della nazione e quindi del godimento di qualsiasi diritto di cittadinanza.

Eppure sotto molti punti di vista il governo rivoluzionario rimase una misura di emergenza, frutto della disperazione e di quella cultura della paura che la rivoluzione stessa aveva contribuito a diffondere. Esso cambiò carattere nel tempo con l'acuirsi della paranoia degli uomini al potere e l'ingigantirsi della paura dei rivali. Nell'autunno del 1793 Robespierre si mostrò ancora disposto a contrastare l'eccessivo ricorso alla violenza, come quando salvò la vita di 75 deputati che a giugno avevano simpatizzato con i girondini e avevano firmato una protesta segreta contro la purga che li aveva colpiti. Tra l'ottobre e la fine di dicembre, nonostante la legislazione di emergenza, ci furono a Parigi solo 177 esecuzioni. A Lione, Marsiglia e Bordeaux però centinaia di esecuzioni seguirono le rivolte federaliste scoppiate 70

in quelle città: nella sola Lione, entro il mese di aprile del 1794, sarebbero state eseguite oltre 1.800 condanne a morte [Doyle 1989, 154]. E anche a Parigi nella primavera del 1794 le leggi sul Terrore sarebbero state impiegate contro gli oppositori politici piuttosto che contro gli aristocratici e : i controrivoluzionari. Robespierre in particolare si avvalse del Terrore per difendere la propria posizione sempre più isolata, disponendo che fossero mandati sotto processo quelli che giudicava estremisti o avversari della sua idea di centralismo giacobino. La decisione di giustiziare i leader girondini subito dopo il colpo di stato giacobino costituì un pericoloso precedente che non avrebbe dato scampo ai politici che in seguito si fossero trovati dalla parte dei perdenti. Nella primavera del 1794 il Terrore aveva cominciato a colpire l'opposizione interna al movimento giacobino e i leader dei sanculotti parigini. Destra e sinistra erano ugualmente in pericolo. Il 13 marzo i comitati ordinarono l'arresto di Hébert, Vincent, Ronsin e di sedici loro compagni della Comune di Parigi che, falsamente accusati di aspirare alla dittatura militare e di essere agenti del nemico in tempo di guerra, furono condannati e giustiziati. Subito dopo fu la volta delle personalità coinvolte nello scandalo della Compagnia delle Indie Orientali, alle quali si aggiunsero Danton, Camille Desmoulins e i principali critici moderati del governo all'interno del movimento giacobino. In questo caso non sarebbe stato difficile avanzare accuse convincenti di corruzione, tuttavia ancora una volta le imputazioni furono vaghe e di carattere interamente politico. Ciò valse soprattutto nel

caso di Danton, pericoloso agli occhi di Robespierre per l'abilità oratoria e la popolarità personale di cui godeva. Come dice Norman Hampson, «l'incriminazione consisteva nel fatto che tutta la carriera di Danton era stata accusata di essere mossa dall'ambizione personale, che aveva bisogno della monarchia per essere soddisfatta». Danton si difese con eloquenza e dignità, ma anche nel suo caso l'esito era predeterminato, cosa di cui lo stesso Danton era consapevole. «Ho già detto e ripeto: il mio domicilio sarà presto nell'oblio e il mio nome nel Pantheon... Qui c'è la mia testa per rispondere di ogni cosa... La vita è un peso per me. Sono impaziente di liberarmene» [Hampson 1978, trad. it. 1989, 173-4]. Nell'immediato la posizione di Robespierre parve 71 àÈmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmm^

rafforzarsi, ma i deputati erano sempre più preoccupati per la propria incolumità. Come scrisse ancora Hampson [1981, 27], il Terrore stava per diventare il proprio boia. Benché la legislazione sul Terrore si applicasse, in linea di principio, a tutto il paese, la sua attuazione pratica fu ineguale, spesso in risposta a circostanze locali: poteva accadere che carestie o sommosse attirassero l'attenzione di Parigi o di un deputato in missione; o che qualche prete refrattario, coagulando le passioni locali, suscitasse l'ostilità dei funzionari urbani; o ancora che si ricorresse alla ghigliottina per punire episodi di saccheggio, diserzione o indisciplina tra le truppe. Le circostanze del Terrore potevano essere terribilmente arbitrarie, e la repressione una conseguenza del capriccio personale e della gelosia. Tribunali speciali, va detto, furono istituiti nelle città e nelle regioni che erano ritenute gli epicentri dell'opposizione politica, come Lione e Bordeaux, Nantes e Rochefort. E nei sei dipartimenti occidentali, la Vendée militaire, si verificarono inevitabili spargimenti di sangue (carta 3). Altrove però fu il caso a svolgere un ruolo decisivo. Molto dipendeva dal carattere dei deputati inviati in missione in un dipartimento: mentre alcuni si sforzarono di comprendere i problemi delle popolazioni locali e di tenere in debito conto la loro ignoranza e il loro isolamento, altri - come Joseph Le Bon nel nord - si spinsero ben oltre il dettato della legge instaurando il Terrore e andando a caccia di vittime per la ghigliottina [Gobry 1991, 69]. In alcuni casi, agli odi personali si mescolava

facilmente il desiderio di saldare vecchie pendenze: fu questo il caso, ad esempio, di Claude Javogues nella Loira, che usò il Terrore come arma contro gli agricoltori relativamente abbienti del Forez e contro l'influenza perniciosa dei preti. Egli era convinto, infatti, che il fanatismo fosse di per sé controrivoluzionario, «al soldo dei ricchi e dei re» [Lucas 1973, 90]. Non tutte le responsabilità vanno però attribuite ai deputati inviati da Parigi: tra i più sanguinari vi furono personalità locali, la cui intolleranza rifletteva quella delle rispettive comunità di appartenenza. E in regioni come il sudest, dove il Terrore fu brutale e sanguinoso, le condanne dipesero dalle prove addotte dalle popolazioni locali, dalle denunce e controdenunce delle comunità di villaggio. Là dove la popolazione locale fece fronte comune, vi furono 72

meno denunce, e lo stesso accadde dove i problemi di approvvigionamento non erano tali da destare nella capitale l'allarme per l'eventuale dissenso. In sette dipartimenti Aube, Basses-Alpes, Hautes-Alpes, Haute-Saóne, Seine-etMarne, i due dipartimenti corsi - non fu comminata alcuna sentenza capitale; in altri 31 se ne contarono meno di dieci (carta 4). Inversamente, circa un quinto di tutte le esecuzioni ebbe luogo in un solo dipartimento, il Maine-et-Loire. In maggioranza i condannati erano lavoratori, artigiani e contadini che avevano preso le armi contro la repubblica, ai quali fu concessa raramente clemenza [Greer 1935, 161-4]. L'attuazione pratica di queste misure non poteva avvenire da un giorno all'altro. Il governo rivoluzionario dipese in definitiva dall'entusiasmo dei militanti, dal fatto che molti, soprattutto nei club e nelle sezioni radicali, erano felici di poter sorvegliare la condotta degli altri, catturare sospetti, contribuire all'affermazione del nuovo ordine politico. Essi furono determinanti per il funzionamento del governo rivoluzionario, che continuava ad essere male attrezzato per la realizzazione di tali ambiziosi programmi. Infatti la Francia non era una società moderna con un altrettanto moderno apparato burocratico: non esisteva un ceto di impiegati pubblici di professione e c'era pochissima polizia a garantire che il flusso di leggi e decreti emanati da Parigi venisse in qualche maniera rispettato dall'intero paese. Fu solo nella seconda metà del decennio, col Direttorio, che il governo fece progressi sostanziali nella creazione di un pubblico

impiego moderno - uomini che si consideravano amministratori anziché attivisti politici e sui quali si poteva fare affidamento per la realizzazione dei programmi di qualunque governo in carica [Church 1981, ìli]. Né la rivoluzione aveva a sua disposizione la forza necessaria per costringere una popolazione arcigna e refrattaria a ubbidire alle leggi. Soprattutto nelle campagne l'organizzazione delle funzioni di polizia era molto primitiva. Le forze di polizia reclutate dalla rivoluzione - i gendarmi che presero il posto della vecchia maréchaussée - erano poco più efficienti di quelle rimpiazzate. Gli organici erano disperatamente insufficienti e gli uomini venivano generalmente reclutati tra i veterani dell'esercito che avevano già assolto ai loro obblighi di servizio nei confronti dello stato. Il morale era basso, la paga 73

irrisoria, i livelli di alfabetizzazione scadenti. I gendarmi si occupavano quasi solo di pattugliare le vie di comunicazione, sorvegliare i mercati e dare la caccia ai disertori; e quando il paese era in pericolo rischiavano di essere sottratti ai loro doveri di polizia per andare a integrare le truppe alle frontiere. In breve, la rivoluzione non aveva la capacità' amministrativa né la forza per far osservare le sue leggi: da qui il ricorso ai giacobini locali e a unità deìYarmée révolutionnaire [Cobb 1961-63, trad. it. 1991]. Per realizzare i suoi obiettivi era costretta a far leva sulla militanza e sull'entusiasmo. ha propaganda I giacobini cercarono di supplire alle loro carenze in fatto di capacità di coercizione ricorrendo alla persuasione e alla propaganda. Il messaggio della rivoluzione con i suoi slogan, l'enfasi sulla cittadinanza e la celebrazione della fratellanza, era un fattore potente di politicizzazione, in special modo tra le masse urbane. Era un messaggio che poteva essere veicolato in molte forme differenti, gran parte delle quali si insinuava astutamente negli spazi comuni della vita quotidiana. Dappertutto c'erano segni che ricordavano l'identità politica: nei libelli e nei giornali popolari, nelle canzoni e negli inni, nell'abbigliamento e nelle coccarde, nelle feste patriottiche. Tra i soldati della repubblica le parole d'ordine e le uniformi erano veicoli di un chiaro messaggio politico, mentre il ministero della Guerra distribuiva

il «Pére Duchesne» di Hébert per istruire le truppe. Nei confronti dei civili lo stato mancava di una comparabile forza di coercizione, tuttavia il messaggio rivoluzionario era dappertutto in evidenza. L'educazione dei civili si fondava sulla frequenza dei club e delle sezioni (nell'estate del 1793 esistevano club in ben duemila città e paesi), sull'accesa campagna contro la religione organizzata, sulle opere patriottiche che venivano rappresentate nei teatri locali. I cittadini portavano sul cappello la coccarda bianca, rossa e blu della repubblica, salutavano con clamore la rimozione dei simboli del feudalesimo dagli edifici pubblici e impiegavano come di rigore il fraterno tu del buon repubblicano nelle 74

attività di ogni giorno. Osservavano il calendario rivoluzionario, lavorando la domenica e riposando un giorno su dieci. Prendevano nota dei molti cambiamenti di nome di città e villaggi, strade e piazze, quando in un furore di débaptisations sparirono i nomi di re, nobili e santi. Accolsero di buon grado, o quanto meno tollerarono, la rimozione 0 distruzione delle immagini religiose nella frenesia di secolarismo che accompagnò la scristianizzazione; le statue religiose vennero rovesciate in cerimonie pubbliche e i santi rimossi dalle tradizionali nicchie, mentre, al culmine del Terrore, i santi di pietra furono solennemente ghigliottinati attorno ai portali delle grandi cattedrali gotiche dell'Ile-deFrance. C'erano innumerevoli modi di ricordare al cittadino 1 suoi doveri civici e di stordirlo con la mera esibizione dei risultati conseguiti. Una considerazione a parte meritano le numerose feste popolari in occasione delle quali l'uomo della strada veniva posto a diretto contatto col potente simbolismo rivoluzionario. In queste feste i cittadini sfilavano accanto a sindaci e pubblici ufficiali e si mescolavano ai soldati e alla guardia nazionale; piantavano alberi della libertà, indossavano il bonnet rouge e fusciacche tricolori. Marianne, l'allegoria femminile della Libertà, divenne il simbolo dello stato: come ha detto Maurice Agulhon [1979, 29], essa fu «una duplice allegoria, l'allegoria della Libertà, valore eterno, e quella

della Repubblica francese, il regime appena nato». Glorificavano il sacrificio e il martirio - anche quello di bambini come Bara e Viala, che avevano perso la vita combattendo contro i nemici della repubblica nella Vandea e ad Avignone. Nelle feste patriottiche si magnificavano le virtù dell'infanzia e della vecchiaia, si rendeva grazie per il buon raccolto, si festeggiava l'ultima vittoria dell'esercito francese. Ogni casa era fortemente impregnata di simboli. Durante i festeggiamenti che si tenevano ogni anno in occasione del 14 luglio (le fètes de la Fédération) si proclamava l'impegno alla fratellanza e all'unità repubblicana; e nei mesi del potere giacobino la gente comune dovette partecipare a festeggiamenti di carattere più smaccatamente ideologico, in cui si celebrava il rinnegamento della religione organizzata o si cantavano le lodi della Dea Ragione. Queste festività spesso assunsero l'aspetto esteriore delle feste religiose, ossia delle 75

feste e processioni con le quali la chiesa usava accompagnare le scadenze dell'anno agricolo; la loro riproposizione in forma secolare rappresentò, secondo Mona Ozouf [1976, trad. it. 1982, 409], un «trasferimento di sacralità» verso lo stato rivoluzionario. Le guardie nazionali che arrivarono a Parigi per festeggiare la presa della Bastiglia erano, dice James Leith, «come pellegrini in visita a una città santa, culla di una nuova fede, che a conclusione della loro visita tornavano a casa portando con sé oggetti consacrati» - pietre della Bastiglia, incisioni dei Diritti dell'uomo - che presero agevolmente il posto delle reliquie sacre del cattolicesimo contadino [Leith 1989, 172]. Le feste rivoluzionarie soppiantarono in questo periodo le altre forme d'arte, poiché se pure la rivoluzione lasciò poco di stabile dietro di sé in campo architettonico, tuttavia investì molto nel simbolismo artistico. Lavori teatrali e canzoni esaltarono i valori secolari e le glorie della nazione, e un migliaio di pittori e scultori diedero espressione artistica all'ethos dell'epoca. Nella raffigurazione eroica di figure rivoluzionarie quali Lepeletier e Marat, ad esempio, Jacques-Louis David idealizzò la rivoluzione alla maniera dell'agiografia, trasformando le loro morti violente in «visioni sacrificali» [Roberts 1989, 88]. L'educazione politica non era tutta imposta dall'alto. Una delle caratteristiche delle rivoluzioni è anzi che gruppi e individui, politicizzandosi, spesso vanno molto al di là di quanto lo stato preveda con le sue norme. Negli anni 1790-

1800 i francesi divennero più consapevoli dei propri diritti e poteri di cittadini. Le elezioni furono importanti in questo processo, perché abituarono settori cospicui della società al linguaggio della politica e li invitarono ad assumersi la loro parte di responsabilità politica. Il voto rappresentò tuttavia solo uno dei canali di partecipazione. Si poteva seguire il dibattito politico attraverso la lettura di uno qualsiasi dei giornali che, a centinaia, nacquero in quegli anni a Parigi e nelle province. Per coloro che non-si potevano permettere il costo relativamente elevato dell'abbonamento a un giornale, c'erano i caffè che cominciarono ad acquistare giornali per i loro clienti e si trasformarono in santuari del dibattito politico. Per le strade, infine, volantini e manifesti mettevano al corrente i passanti delle questioni più scottanti all'or76

dine del giorno. In poco tempo, soprattutto a Parigi, la politica era stata democratizzata dalla parola stampata. Fin dai primissimi mesi della rivoluzione uomini di vedute simili avevano cominciato a riunirsi per discutere di politica e per cercare di influenzare gli avvenimenti. Ben presto tali gruppi cominciarono a trasformarsi in società popolari che si prefiggevano di esercitare pressioni per il cambiamento politico oppure di sostenere cause di loro scelta. A livello nazionale c'erano società per ogni gusto politico: i foglianti per la monarchia costituzionale e la moderazione, i cordiglieri per una forma più radicale di repubblicanesimo, il Club Massiac a difesa degli interessi dei piantatori coloniali, gli Amis des Noirs a sostegno dell'emancipazione degli schiavi e dei diritti dei neri. Già nel 1790 i deputati bretoni a Parigi costituirono il Club bretone, nucleo dei futuri giacobini, che sarebbe diventato la società popolare più potente di tutte. Ben presto ogni città di provincia di qualche importanza potè vantare un certo numero di società rivali, spesso vagamente affiliate a quelle della capitale. Approfittando di questa proliferazione di società, i giacobini di Parigi incoraggiarono la formazione di una rete di club in tutto il paese, ai quali presero a inviare circolari e disposizioni. Su questa base fu costruito un movimento nazionale giacobino che si sarebbe dimostrato una risorsa preziosissima, che permise alla propaganda giacobina di giungere fin nei più piccoli paesi e villaggi del sudest e del nordovest. Michael Kennedy [1982-88, voi. I, 3] calcola

che, nei venti mesi precedenti la presa del potere da parte dei giacobini nel giugno del 1793, i club fossero attivi in oltre millecinquecento comuni, forse addirittura duemila (carta 5). Questa rete di club avrebbe garantito ai giacobini un livello di penetrazione ineguagliato dai loro rivali e una capacità di mobilitazione nazionale alla quale i girondini non furono mai in grado di avvicinarsi. I club erano associazioni riservate a militanti accomunati dalle stesse idee politiche; avevano un sistema di iscrizioni e raccoglievano contributi tra i loro iscritti. Al contrario, le sezioni popolari delle maggiori città francesi erano assemblee aperte alla partecipazione di tutti i residenti in una data circoscrizione. Esse erano state create nel 1790 per semplice convenienza amministrativa: Parigi ad esempio era stata di77

visa in 48 sezioni, Lione e Marsiglia in 32, Bordeaux in 28. Non era previsto che godessero di diritti politici sostanziali, ma erano viste come parte essenziale della struttura amministrativa necessaria per il governo di ampie aree urbane. Ben presto però un certo numero di sezioni parigine radicali cominciò a rivendicare diritti politici, in particolare il diritto di rimanere in sessione permanente e di fissare il proprio ordine del giorno. Una volta ottenute finalmente queste concessioni, le sezioni divennero anch'esse potenti gruppi di pressione, che discutevano autonomamente le proprie idee e perseguivano i propri progetti di riforma anche quando entravano in conflitto con gli obiettivi dell'Assemblea. Nel 1792 fu nelle sezioni più radicali che il movimento popolare parigino trovò i suoi leader e la sua organizzazione. Esse si battevano per controlli più stretti sull'economia, per la punizione degli speculatori, per una visione piuttosto anarchica della sovranità popolare. Avevano propri giornali e giornalisti, in particolare il «Pére Duchesne» di Hébert, propri portavoce ufficiali nella Comune di Parigi, proprie forze armate {Yarmée révolutionnairé). Ostentavano il proprio patriottismo e la purezza della fede repubblicana e non esitavano a sfidare il dogma centralista del governo. Sia a Parigi che nelle maggiori città di provincia avrebbero dimostrato sul campo un'autonomia in fatto di leadership, organizzazione politica, principi egualitari e idee sull'organizzazione sociale. L'alleanza tattica con i montagnardi non significò un'abiura delle loro idee. Nella capitale la loro azione, sfidando apertamente le autorità, si sviluppò costantemente

a sostegno di una maggiore uguaglianza e del terrore economico. A Lione, a Marsiglia e in altre città di provincia furono loro a guidare l'opposizione della popolazione locale a quella che giudicavano l'insensibile tirannia dei quadri giacobini locali. In nessun caso si ridussero a mera espressione della classe dirigente nazionale. Esse dipendevano tuttavia in certa misura dal sostegno del governo che riconosceva loro il diritto di riunione, il diritto di scegliere liberamente i temi da discutere e i mezzi per pagare gettoni di presenza ai loro membri. Quando furono privati di questi diritti, come accadde dopo il termidoro, i club e le sezioni popolari entrarono rapidamente in crisi. Il Direttorio non si fece scrupolo di limitare 78

l'indipendenza di cui avevano goduto, liberandosi anche di gran parte della stampa radicale. «Quella che veniva spacciata per opinione pubblica», disse Isser Woloch, «era tutta intenta a esorcizzare il sanculottismo, cacciare Marat dal Pantheon, elaborare una nuova costituzione borghese» [1970, 19]. A differenza degli uomini del 1793, i termidoriani e i direttoriali avevano scarso interesse per la sovranità popolare o per il presunto diritto d'insurrezione; quello che premeva loro era dare solidità allo stato, con una riforma totale dell'amministrazione, dei tribunali e dell'ordine pubblico. Nelle aree più turbolente fecero ampio ricorso all'esercito per compiti di polizia interna oltre che per la difesa delle frontiere nazionali. Napoleone, che si prefisse lo stesso obiettivo di porre fine al disordine, mostrò ancor minore riguardo per la partecipazione politica. Il diritto di voto fu limitato; l'opposizione fu spietatamente repressa, e furono istituiti tribunali speciali per l'introduzione della legge marziale nelle aree minacciate dall'illegalità. Fu introdotto un nuovo codice che rimpiazzava il coacervo contraddittorio di statuti e leggi locali che i rivoluzionari avevano lasciato in vita. L'ordine fu imposto dall'alto a un paese stanco del conflitto politico e sfiduciato nei confronti della classe politica: in parte venendo incontro a determinati interessi, in parte con un'amministrazione efficiente, ma soprattutto con la forza. Il risultato fu comunque una tranquillità tale da indurre un monarchico costituzionale come Malouet a elogiare Napoleone per aver posto fine alle risse e agli scontri tra fazioni del decennio precedente. Non era, naturalmente, la monarchia

cui tanto anelava, ma non era nemmeno un ritorno all'autocrazia. «Oggi», scrisse Malouet nel 1800, «i consoli e i loro ministri maledicono le fazioni predicando la tolleranza politica e la giustizia e offrendo la promessa della pace, che è la sola vera libertà» [Griffiths 1988, 256]. 79

CAPITOLO TERZO LA SOCIETÀ La rivoluzione del 1789 fu in primo luogo politica costituzionale. I rivoluzionari compresero però che sarebb stato impossibile attuare una rivoluzione nella sfera politic che non investisse anche la società francese. E possibile eh essi non avessero un programma immediato di riforma se ciale, tuttavia la visione corporativa della società che avev dominato Vancien regime era incompatibile con il principi dell'individualismo politico che essi consideravano fonds mento del nuovo ordine. Quello che accomunava molti de putati degli Stati generali, e in particolare quelli del Terzstato, era l'opposizione all'istituto giuridico del privilegisul quale si fondavano le relazioni politiche, economiche sociali. Ciò non vuol dire che si considerassero dei rivolli zionari sul piano sociale, tanto meno che negassero la neces sita di disuguaglianze sociali: i primi mesi della rivoluzionvidero'anzi la pubblicazione di numerosi libri e opuscoli il cui si sosteneva che le disuguaglianze sociali erano una ca ratteristica naturale di tutte le società e che erano necessarie per l'armonia sociale. Piuttosto proponevano di sostituire una società basata sul ceto e sul diritto di nascita con una ir cui la posizione individuale sarebbe stata determinata da meriti e dal denaro. L'uguaglianza di cui si vantavano en un'uguaglianza di diritti e opportunità: gli uomini dovevano avere gli stessi diritti in base alla legge e dovevano essere

trattati alla stessa maniera dai tribunali; ci sarebbe state libertà di culto, e protestanti ed ebrei avrebbero goduto d: tutti i benefici della cittadinanza francese; durante la rivoluzione, anzi, alcuni protestanti - come il pastore Rabaut Saint-Etienne - sarebbero divenuti figure politiche di spicco. Sarebbero comunque rimaste le distinzioni tra individui, divisioni che erano state un riflesso dell'energia profusa nel lavoro e dell'ambizione, della competenza e dell'intelligen81

za, in quanto da tali divisioni dipendeva la stabilità della società stessa. C'era ben poco di socialista nella rivoluzione francese: non ci sarebbe stata uguaglianza assoluta, in quanto gli uomini erano ineguali sotto molti punti di vista fondamentali.

L'uguaglianza «Gli uomini nascono e restano liberi ed uguali nei diritti », proclamava il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo; niente si diceva però dell'uguaglianza sociale ed economica. La Dichiarazione anzi specificava il grado di uguaglianza ritenuto accettabile in una società libera. L'uguaglianza non era un obiettivo politico assoluto come la libertà, non figurava nell'elenco dei diritti fondamentali di una società libera, che erano «la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione». La proprietà era dichiarata un «diritto inviolabile e sacro», per quanto ineguale fosse la sua distribuzione all'interno della comunità. E gli individui non proprietari non erano ritenuti in possesso delle qualità necessarie per godere di pieni diritti politici. Si trattava, come ha recentemente sottolineato Louis Bergeron, di un postulato piuttosto naturale tra i circoli illuministici del tardo Settecento. D'Holbach aveva commentato che un uomo che non possiede nulla nello stato non sarà vincolato in alcun modo alla società [Lucas 1991, 128]. Uno dei lasciti fondamentali dell'Illuminismo fu per l'appunto la sostituzione della proprietà al privilegio come cemento che garantiva

la solidità delle istituzioni sociali. La società doveva continuare a essere stratificata, ma in base alla ricchezza, alla proprietà, all'utilità economica. Anche questo principio era fatto proprio dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo, dove si dichiarava esplicitamente che «le distinzioni sociali possono avere come unico fondamento solo l'utile comune» [Soboul 1973, trad. it. 1975, 335]. Il dissenso su questo punto era minimo, anche tra i patrioti e i repubblicani. I rivoluzionari potevano dissentire aspramente sulla natura di tali distinzioni e sul vero significato dell'uguaglianza, ma pochi tra loro vedevano nell'uguaglianza economica un obiettivo sociale realistico, o persino auspicabile. Molti invece 82

erano d'accordo nel propugnare un ideale di comunità: \ individui dovevano essere liberati dai lacci dei privile delYancien regime ma, almeno agli occhi dei giacobini, ui società di uguali era una società in cui gli eccessi dell'inda dualismo sarebbero stati controllati dal criterio prevalen dell'interesse comune. Si può dubitare, in sostanza, che negli anni della rivol zione esistessero dei politici che concepivano una società eguali in senso economico. I costituenti erano troppo oca pati a dividere i cittadini in categorie e a limitare la partec pazione elettorale: i loro principi non erano egualitari. Ai che tra i repubblicani pochi erano realmente interessati a l'uguaglianza al di fuori delle sue manifestazioni giuridich Come riconobbe Roederer nel suo Esprit de la Révolutio, tra l'uguaglianza dei diritti e l'uguaglianza di fatto c'era ur distanza enorme e spesso invalicabile [Furet e Ozouf 198; trad. it. 1988, 624]. Sia i girondini che i giacobini si dichi; ravano a favore di un'economia basata sul libero mercato, i quanto la libertà di trasferire merci senza vincoli era cons derata un aspetto fondamentale della libertà rivoluzionari; Il liberismo economico era anzi ritenuto una forma essenzh le della libertà individuale, l'antitesi dei privilegi corporati^ e dei monopoli regi che avevano caratterizzato il Settecent( Ciò aveva chiare implicazioni anche sul piano sociale. I una società libera, il dovere dello stato era di regolamentar piuttosto che di intervenire. La legge serviva a garantire diritti individuali e a limitare gli istinti centralizzatori de

l'autorità. Com'è naturale, gradualmente lo stato cominciò riaffermare il proprio potere. Furono importanti in quest processo le misure dettate dalla guerra: il reclutamentc l'acquartieramento di truppe e le requisizioni che gravaron l'individuo di obblighi. Durante la repubblica giacobin queste esigenze si fecero più pressanti: i doveri del cittadin» vennero sempre più messi in risalto, spesso a scapito de diritti e delle libertà; i buoni cittadini dovevano adempier i propri obblighi nei confronti dello stato e preoccupars dell'interesse pubblico e del bene comune. La condizione d «cittadino» venne a essere definita sempre più in termin morali. Non vi era però unanimità sull'importanza dei diritt dell'individuo. Alcuni avevano tutto l'interesse a mantener* 8;

un certo grado di protezione e di disciplina: non ultimi coloro che si immaginavano ridotti in povertà da una competizione senza limiti. Tra i contadini, ad esempio, c'erano molti piccoli proprietari che disprezzavano la borghesia rurale, in special modo quella fascia sufficientemente ricca da minacciare il loro benessere; molti di loro si affrettarono ad appoggiare i progetti giacobini di partage, la suddivisione in parti uguali delle terre comuni tra i contadini. Altri invece, consapevoli che la loro sopravvivenza economica dipendeva dall'esistenza di terre comuni sulle quali far pascolare gli animali, rimasero fedeli alle tradizioni. Si trattava di persone digiune di etica capitalistica, che non comprendevano l'individualismo a tutto tondo ed erano impreparate ad affrontare il libero mercato del grano e dei prodotti agricoli. Quando venivano identificati con i sostenitori del capitalismo, in realtà, i rivoluzionari rischiavano di perdere consensi in ampie aree rurali. Da qui il fallimento di molti club urbani nell'estendere il reclutamento nelle campagne; là dove nacquero club giacobini spesso il prezzo fu l'accettazione delle richieste dei contadini. Un buon esempio è costituito dal club di Arpajon nel Cantal, la Société des hommes de la nature, creato nel 1791 daJeanBaptiste Milhaud. L'associazione prosperò e divenne uno dei fulcri del radicalismo rurale, ma non fu un club giacobino come gli altri. Milhaud appoggiò le rivendicazioni dei contadini della zona (che vantava antiche tradizioni di jacqueries rurali) fino al punto che il club cessò di parlare il linguaggio delle città facendosi portavoce delle richieste

dei contadini in fatto di tassazione e obblighi feudali [Jones 1988, 214]. I sanculotti parigini erano un altro dei gruppi che avevano pochi motivi di sostenere il libero mercato, considerato che molti di loro temevano la sfida commerciale della grande impresa. Erano però degli egualitari convinti? La risposta a questa domanda dipende in parte da come definiamo tale concetto. Molti di loro erano ostili alla ricchezza quando era eccessiva, come pure all'ostentazione. Nella famosa definizione di Vingternier, un sanculotto era una persona «che va sempre a piedi, che non ha milioni da parte, né castelli e valletti ad accudirlo, e che vive con semplicità con la moglie e i figli, se ne ha, in un apparta84

mento al quarto o quinto piano» [Markov e Soboul 1957 2]. Alcune sezioni specificavano che un uomo non poteva possedere più di un'officina. Fin lì erano egualitari, con trari a un'eccessiva concentrazione di ricchezze, sostenito ri dell'idea che chi lavorava duramente aveva il diritto d: godere di un tenore di vita adeguato. In nessun modo pere si opponevano alla proprietà privata, in quanto dalla proprietà privata dipendeva la loro posizione sociale. Alcuni di loro avevano proprietà notevoli, come ad esempio Santerre il birraio, che dava lavoro a molti operai. Altri erano piccoli artigiani e negozianti il cui tenore di vita dipendeva dall'autonomia del rispettivo mestiere; anch'essi avevano un alto concetto dell'indipendenza economica e non erano favorevoli a un'uguaglianza economica generica imposta dal centro. Al più quello che desideravano era una protezione dai peggiori abusi della libera impresa: calmieri sul prezzo del pane e di altri beni di prima necessità in tempo di carestia; controlli sui produttori contadini che volevano vendere altrove i loro raccolti; leggi per vietare l'esportazione delle riserve granarie; o tasse punitive a carico dei ricchi, degli accaparratori e degli speculatori, di quanti cioè, ai loro occhi, si appropriavano illegittimamente di una grande fetta della torta nazionale. Il loro era un atteggiamento quasi moralistico, un rifiuto dell'idea che pochi potessero detenere un potere economico di tale importanza, la convinzione che il'reddito e la ricchezza disponibili dovessero in qualche modo essere correlati ai bisogni quotidiani di una famiglia qualunque. In nessun

senso potevano però dirsi socialisti, e la loro piattaforma non previde mai l'uguaglianza obbligatoria [Cobb 1969, 122-41]. Sostenere il contrario significherebbe travisare la mentalità rivoluzionaria: l'uguaglianza forzata comportava maggiori controlli, e la rivoluzione fu essenzialmente un tentativo di eliminare tali controlli, che troppo spesso erano identificati con la tirannia del re. Potevano essere emanate leggi per correggere le peggiori ingiustizie sociali, ma quando la libertà e l'uguaglianza entravano in conflitto la preferenza doveva andare alla libertà. Questa regola aveva naturalmente le sue eccezioni. Robespierre era uno dei leader politici che riconoscevano l'esistenza di circostanze in cui diventava necessario limitare 85

la libertà nell'interesse di una distribuzione più equa, come dimostra il suo sostegno ai decreti di ventoso e al maximum generale. La sua però poteva anche essere considerata una manovra politica per ottenere l'appoggio delle sezioni di Parigi in un momento in cui l'opinione repubblicana, sia nella Convenzione che nel paese, era sempre più divisa. Per gran parte dell'età rivoluzionaria l'egualitarismo economico rimase equiparato all'estremismo, a una visione della politica che aveva poco a che vedere con l'azione di governo. Esso presupponeva una negazione dei diritti sacri di proprietà accettati da tutta la classe politica. Spettò agli esponenti di sezione estremisti come Jacques Roux oppure a giornalisti radicali come Marat e Hébert, rilasciare dichiarazioni di guerra aperta ai ricchi. Eppure anch'essi mettevano l'accento sulla politica a spese dell'economia, come facevano i sostenitori dei diritti degli schiavi o le prime femministe dei club per donne. Uno dei pochi leader popolari a predicare qualcosa che si avvicinava all'uguaglianza economica fu Gracchus Babeuf, il quale denunciò apertamente la meritocrazia e propugnò una ripartizione più rigorosamente egualitaria della ricchezza a seconda dei bisogni individuali. Babeuf era un egualitario coerente. Al tempo in cui era stato un agitatore democratico in Piccardia aveva propugnato una maggiore uguaglianza tra i contadini negando la proprietà individuale della terra coltivabile; e sostenne che le altre proprietà andavano distribuite più equamente per soddisfare le necessità del complesso della popolazione. Dopo termidoro, come afferma R.B. Rose [1978, 345], si sforzò

«come giornalista e libellista di radunare le sparpagliate e demoralizzate forze democratiche sia contro i resti del governo rivoluzionario che contro la costante controffensiva politica dei conservatori borghesi». E chiese che la costituzione giacobina del 1793 venisse finalmente applicata. I suoi scritti avrebbero lasciato un'impronta profonda sui socialisti del primo Ottocento, ma all'epoca la sua fu una voce nel deserto. Il tentativo insurrezionale da lui guidato nel 1796, rapidamente seguito dal processo e dalla condanna a morte del suo ideatore, segnò la fine di ogni serio movimento egualitario sotto il Direttorio. 86

La riforma della società e l'abolizione del privilegio Quanto detto non significa però che la rivoluzione nor fosse interessata a una riforma economico-sociale. Al con trario, alcune delle critiche più pungenti dXVancien regime sia nei cahiers de doléances che nei discorsi dei politici rivo luzionari, erano appunto rivolte all'ordine sociale esistente La società di ancien regime era vista infatti come il prodotte dell'istituto legale del privilegio: una società basata su «sta ti» definiti per legge e cementata da una rigida struttura corporativa. E pur se i ceti privilegiati non erano totalmente impermeabili come le caste, l'accesso di nuovi membri era stato gelosamente limitato: un borghese ricco poteva ad esempio sperare di acquistare la nobilitazione (cosa che i mercanti cercarono di fare sempre più spesso nel corso del Settecento), ma l'appartenenza al Secondo stato rimase concessione esclusiva della monarchia e veniva accordata raramente in cambio di denaro o di servizi alla corona. A tutti i livelli sociali i diritti e lo status erano determinati dal privilegio, di solito dal privilegio conferito dal re. Il privilegio assicurava all'aristocrazia e al clero esenzioni fiscali; gli appaltatori delle imposte realizzavano enormi profitti grazie ai privilegi ottenuti dalla monarchia in cambio di denaro; statuti speciali garantivano a talune società commerciali il monopolio di certi mercati; gilde e corporazioni difendevano gelosamente la loro posizione privilegiata nel mondo del lavoro, al fine di garantire i necessari standard e livelli di qualità del lavoro artigianale, ma coloro che rimanevano al

di fuori, che non avevano effettuato un periodo di apprendistato o non erano stati ammessi nel cerchio incantato della corporazione vedevano nel sistema una pratica restrittiva che limitava la libertà d'iniziativa e che gonfiava i profitti di pochi. Gran parte dell'opera iniziale della rivoluzione consistette nell'abolizione del privilegio e nella demolizione della struttura corporativa della società ancien regime. In particolare la rivoluzione rivolse la sua attenzione ai privilegi di cui godeva la nobiltà e alle lamentele dei contadini per gli obblighi e le indennità feudali. Si era sostanzialmente unanimi nel ritenere che i privilegi derivanti dall'appartenenza al Secondo stato non avessero una giustificazione morale o politica, 87

e già il 7 novembre fu approvato un decreto che aboliva in Francia gli ordini sociali. Da quel momento in avanti tutti sarebbero stati cittadini e in quanto tali ugualmente soggetti al fisco. Le tasse non avrebbero più gravato sulla persona bensì sulla terra, sulla proprietà e sui profitti commerciali. Era fortemente avvertita anche la necessità di abolire gli obblighi feudali in accordo con il nuovo spirito di uguaglianza di fronte alla legge. Il cammino verso l'abolizione cominciò in forma drammatica nella notte del 4 agosto 1789, quando uno dopo l'altro i nobili si alzarono in piedi nell'Assemblea nazionale dichiarando di rinunciare ai propri privilegi. Questa scena si sarebbe caricata di potenti connotazioni simboliche negli anni a venire, quando fu raffigurata in alcune delle incisioni e vignette più famose dell'intero periodo rivoluzionario. Non si deve esagerare però la reale portata del cambiamento. Gli aristocratici agirono in parte per magnanimità e in parte per paura, stimolati dai rapporti che giungevano nella capitale e che riferivano con toni allarmanti e spesso eccessivi le devastazioni perpetrate dalla furia contadina. E quando la paura fu passata molti degli obblighi che erano stati soppressi con tanta noncuranza furono reintrodotti. Il vero processo di abolizione si sarebbe tradotto in uno sforzo legislativo molto più lento e ponderoso, che avrebbe richiesto alcuni anni. L'aspetto più serio della questione per i contadini fu che la legge che alla fine abolì le prestazioni feudali distingueva chiaramente tra obblighi che venivano semplicemente cancellati e obblighi che, essendo equiparati a titoli di proprietà, dovevano essere riscattati,

con tributi spesso superiori ai mezzi di cui la popolazione rurale disponeva. E le rendite, naturalmente, dovevano continuare a essere pagate, anche se la reazione immediata di molti affittuari fu di sospendere ogni forma di pagamenti ai proprietari [Jones 1988, 86-123]. Non erano contestati solo i privilegi dell'aristocrazia: a prescindere dai benefici che esso poteva conferire, era il concetto stesso di privilegio ad apparire scandaloso a una nazione di uomini liberi. Fu dunque garantita la libera circolazione di persone e merci, senza pedaggi o dazi o altre forme di costrizione. Furono aboliti i privilegi delle compagnie commerciali, e consentito a tutti di intraprendere attività commerciali in condizioni di parità. I prezzi dovevano 88

essere fissati dal mercato senza l'intromissione del governo, che altrimenti avrebbe ricordato troppo il ruolo dell'intendente ancien regime. Furono anche aboliti i privilegi municipali e provinciali, nonostante le riserve espresse dai notabili locali. Bordeaux non potè più rifiutare l'ingresso in città ai carichi di birra; il Rossiglione non potè più fare appello ad antiche esenzioni dal servizio nella milizia. I rivoluzionari credevano nel libero mercato: tutti dovevano essere liberi di commerciare su un piano di parità, senza godere di speciali privilegi o mettere in atto pratiche restrittive. Buona parte della loro legislazione economica e sociale fu diretta ad abolire tali pratiche e ad assicurare la libera circolazione delle merci - fin quando, naturalmente, la dichiarazione di guerra rese necessari nuovi controlli e fissò nuove priorità per lo stato. Tali controlli però raramente furono voluti: erano visti come misure contingenti rese necessarie dalla crisi, dalla domanda di approvvigionamenti, dalla necessità di requisizioni, dalla fame che aveva colpito le città, ma non fecero mai parte dell'ideologia rivoluzionaria. Quello che valeva per i commercianti e per i dignitari locali valeva anche per la forza-lavoro. La società corporativa settecentesca doveva cedere il passo all'individualismo. Vennero pertanto abolite le gilde in quanto dannose per il libero commercio, e i mastri artigiani furono costretti a competere con quelli che venivano da fuori, gli artigiani immigrati dai faubourgs parigini. Poiché il lavoro, come praticamente ogni aspetto della vita settecentesca, era organizzato su base

corporativa - le gilde rappresentavano ogni gruppo, dai carpentieri agli avvocati - questo provvedimento prometteva di apportare un cambiamento radicale nelle pratiche lavorative. I suoi effetti poi non si limitavano ai mastri artigiani che guidavano le corporazioni, ma avevano ripercussioni anche sui diritti dei lavoratori. Operai e apprendisti furono privati delle loro tradizionali associazioni, i compagnonnages, che organizzavano il loro tour de Trance - l'apprendistato che veniva effettuato in diverse località del paese - e ai quali si appellavano in caso di controversie sul lavoro. Si potrebbe affermare, anzi, che fu quella dell'operaio comune la categoria più colpita dall'inflessibile individualismo di quel periodo, in quanto, con la legge Le Chapelier del giugno 1791, gli fu negata ogni rappresentanza collettiva che avreb89

be potuto tutelare i suoi interessi. Le Chapelier non fe mistero delle sue intenzioni: quando illustrò il suo provvedi1 mento dinanzi all'Assemblea denunciò le riunioni di categ ria dei lavoratori che si avvalevano della forza collettiva p ottenere aumenti salariali o per migliorare le condizioni lavoro: essi, affermò, tentavano di ricreare organizzazioni illegali sotto un nuovo nome, ricattando i padroni e minacciando il ricorso alla violenza. C'erano gruppi di artigiani che approvavano risoluzioni, nominavano presidenti e segretari, tenevano mimile regolati delle loro attività. Il suo decreto rese illegali tali riunioni in quanto contrarie allo spirito della rivoluzione; e i lavoratori, in linea con la filosofia del libero mercato del regime, furono lasciati da quel momento in poi senza alcuna forma di protezione nelle controversie lavorative. Quelli che per i proponenti erano i benefici di un libero mercato del lavoro potevano apparire poco più che anarchia economica agli occhi degli individui privati delle loro associazioni di mestiere. Un buon esempio è dato dall'industria del libro parigina, anch'essa liberalizzata in ossequio alla politica rivoluzionaria. Stampatori ed editori, emancipati dai controlli della gilda del libro di Parigi, in un primo momento si inebriarono delle libertà appena conseguite. Gli anni 1790 e 1791 furono contraddistinti da una forte domanda di libelli e trattati, e l'abolizione della censura incoraggiò il fiorire di molte iniziative. Con la nascita però di piccole tipografie, spesso con capitali drammaticamente inferiori

al necessario, il commercio librario entrò in crisi e nell'anno II l'intera industria tipografica era sull'orlo di una disastrosa recessione economica [Hesse 1991, 135]. E istruttivo notare come alla fine della rivoluzione gli editori sopravvissuti chiedessero spesso al governo la reintroduzione di taluni meccanismi di controllo per scongiurare il fallimento. L'individualismo economico, a quanto sembrava, non era la panacea che i rivoluzionari avevano immaginato. Inoltre, se anche le strutture corporative scomparvero dopo il 1791, i problemi sociali che avevano provocato diffuse controversie tra i membri delle gilde rimasero. Conflitti tra i mestieri, dispute sui debiti, manutenzione delle attrezzature e una miriade di altri problemi continuarono ad affliggere i proprietari di officine ben oltre il 1791 [Sonenscher 1989, 90 s

]. Orefici ed ebanisti non avevano motivo di denunciare ^ pettive gilde o di inneggiare aJJa nuova legge rivoluzio.Né l'attaccamento alle gilde era confinato ai mestieri; *Ie professioni fecero resistenza ai cambiamenti introcon la forza dalla rivoluzione. A Parigi sii avocats au per il getgo cui poi ai ivo (in erano abilitali | l'il/snninoii 1987, 88-9J. A Tolosa la maggioranza degli avvocati vide li salvezza nella diserzione del nuovo ordine istituzionale [Berlanstein 1971*, 187). Anche per il privilegio ecclesiastico era giunto il mo mento della resa dei conti. 11 clero come l'aristocrazia gode va di significativi privilegi fiscali, in particolare il diritte all'autotassazione; era il beneficiario dell'odiatissima deci ma; inoltre la chiesa era annoverata tra i maggiori proprietà ri terrieri: nel complesso si calcola che controllasse tra il 6 ^ il IO per cento della superficie del paese, e in certe region come la Piccardia e il Cambrésis tale percentuale saliva ; oltre il 30 per cento [McManners 1969, 6]. L'alto clen spesso si occupava di politica di corte come di salvezza delianime: i vescovi erano poco interessati all'amministrazione mentre abati e monasteri erano generalmente attaccati pc la loro ricchezza e per l'insensibilità ai bisogni della società Come istituzione, la chiesa era venuta identificandosi con 1; monarchia, tanto che alcuni dei philosophes più anticlerica] vedevano le sorti dell'una e dell'altra indissolubilmente le gate. Anche negli ambiti della vita sociale nei quali la chies;

svolgeva un ruolo importante - come l'assistenza ai poveri < l'istruzione - la pressione demografica e l'ineguale distribu zione delle risorse alimentavano le critiche. Inoltre le tradi zioni cattoliche erano centrali nella cultura francese del Set tecento, ed erano tradizioni che mettevano l'accento sulh disuguaglianza, l'ordine, l'obbedienza e la gerarchia. Come in politica, la posizione della chiesa risultò incompatibile con la sovranità nazionale rivendicata dalla rivoluzione, cos nella sfera sociale il connubio tra chiesa e stato si rivelo impossibile. I residui legami tra chiesa e stato vennero se riamente intaccati quando nel 1791 una parte consistente del ceto ecclesiastico rifiutò di prestare giuramento di fedel tà al nuovo regime in base alla Costituzione civile del clerc (carta 6), preferendo l'emigrazione e l'esilio [Tackett 1986] 91

Nonostante le propensioni deiste dello stesso Robespierre e il culto dell'Essere supremo fa pensare che egli non fosse privo di fede - la prima repubblica fu costruita essenzialmente su fondamenta secolari. Il sovvertimento del sistema dei privilegi deìYancien regime era un poderoso compito legislativo al quale i rivoluzionari si dedicarono con entusiasmo. Gran parte della legislazione permissiva del periodo 1789-91 fu efficacemente finalizzata alla liberazione dei francesi dai vincoli di deferenza e dagli obblighi sociali esistenti. Ma cosa si sarebbe dovuto mettere al posto della vecchia società privilegiata e stratificata à^iS!ancien regime? Quali dovevano essere i principi fondamentali del nuovo ordine sociale? I rivoluzionari, non più anarchici nella sfera sociale di quanto non lo fossero in politica, avevano un bisogno disperato di nuovi parametri sociali. Sia i contadini sia gli abitanti delle città dovevano essere educati ai nuovi valori della cittadinanza rivoluzionaria, tutti dovevano trasferire al nuovo regime il tradizionale rispetto per il re, il signore, il curato. L'individuo riceveva una posizione civile - e nel contempo sociale - attraverso il suo ruolo di cittadino. Quello che cercavano di creare era una società in cui il rango si identificasse strettamente con il servizio, con il compimento dei doveri nei confronti della causa rivoluzionaria. E il servizio non era riservato a una ristretta élite come era accaduto sotto i Borboni: la rivoluzione creò una società

più aperta in cui le carriere erano meritocratiche e la mobilità sociale risultava così estremamente potenziata. Erano valori che naturalmente favorivano soprattutto la borghesia, quegli esponenti del commercio e delle professioni che aderirono alla causa rivoluzionaria; ciò però non significa ridurre l'intera rivoluzione a un movimento borghese, quanto piuttosto far presente che non esisteva incompatibilità tra l'idealismo liberale e l'interesse privato di coloro che si trovarono a gestire il potere. Non occorre aderire a una visione marxista della storia per concludere che molte delle riforme economiche introdotte tra il 1790 e il 1800, dall'abolizione dei pedaggi e dei privilegi al divieto delle corporazioni e delle associazioni operaie, possedessero, come dice Colin Lucas [1991, 114], «un classico carattere capitalistico ». Né è necessario esagerare le tensioni che dividevano le 92

élite del commercio e quelle delle professioni. Abbiamc fonti che documentano nell'ultimo scorcio del Settecentc una crescente interazione tra le due, una comunanza di interessi e una crescente interdipendenza economica. In alcune città esse fecero persino causa comune su certe questioni politiche. Lo studio che William Scott ha dedicato ai mercanti di Marsiglia dimostra che alle elezioni per l'Assemblea nazionale essi poterono asserire di rappresentare tutta l'«industria», compreso il piccolo artigianato indipendente, e poterono definire il commercio un «baluardo contro il dispotismo», una fonte di equità sociale e un bastione contro il privilegio [Forrest e Jones 1991, 88]. Più facile da dimostrare è l'interesse degli avvocati e delle professioni liberali per la causa delle riforme. Le ricchezze e il prestigio di alcuni erano legati senza dubbio alla struttura privilegiata deiY ancien regime, al servizio alla corona o alle varie corti dei parlements, ma si trattava di una minoranza. La maggioranza sostenne con lo stesso entusiasmo dell'Assemblea nazionale la causa delle carriere aperte al talento, che offriva una miriade di nuove opportunità. I singoli interessi potevano facilmente confluire nella causa ideologica suprema, quella rivoluzionaria. La rivoluzione e Varistocrazia Dal programma sociale della rivoluzione c'era chi aveva tutto da guadagnare ma anche chi aveva solo da perdere, in particolare l'aristocrazia, che vedeva ben poco di attraente

nelle nuove norme sociali. C'è chi sostiene che gli aristocratici non furono adeguatamente incoraggiati: fin dall'inizio furono identificati con i privilegi d^XY ancien regime, e considerati nemici potenziali delle riforme. Questa è la tesi di Patrice Higonnet, che illustra efficacemente la costanza con cui i rivoluzionari portarono il loro attacco ai valori e ai diritti dei nobili. Infatti la rivoluzione, pur gloriandosi di essere portatrice di una società aperta, non pretendeva di essere tollerante; la libertà e la meritocrazia erano legate alla moralità politica, e l'offensiva antiaristocratica fu senza quartiere. L'assalto alle posizioni dei nobili cominciò prestissimo: la notte del 4 agosto i loro privilegi furono aboliti, e un anno 93

dopo ogni riferimento all'aristocrazia fu rimosso dalle leggi. Da quel momento in poi i nobili divennero privati cittadini come gli altri, senza diritti speciali o uno statuto giuridico particolare. Il loro rango non contava più nulla. Ma le loro traversie non finirono qui. Molti emigrarono; molti di più furono quelli che si astennero da ogni partecipazione alla vita pubblica. Dopo la fuga del re e il tradimento di molti ufficiali dell'esercito di rango nobiliare le cose peggiorarono ancora, in quanto per i rivoluzionari gli ex nobili - i «cidevants» - divennero dei potenziali controrivoluzionari. Durante la repubblica giacobina l'appartenenza aristocratica fu considerata un delitto, una prova di inaffidabilità, tale da trasformare automaticamente l'individuo in sospetto. Nei mesi del Terrore la società giunse a rispecchiare da vicino l'ideologia dei governanti: la posizione individuale dipendeva dal lealismo politico e dalle virtù civiche (il pagamento delle imposte, il servizio nella Guardia nazionale, la frequenza delle sezioni e la partecipazione alla vita politica attraverso i club). Queste non erano prove che gli aristocratici potessero facilmente superare, e molti di loro finirono in carcere e davanti a un tribunale rivoluzionario. Il loro calvario tuttavia non era ancora finito. Molto dopo la caduta dei giacobini, nel novembre del 1797, il Direttorio fece sfoggio delle proprie credenziali antiaristocratiche privando tutti i nobili - «lattanti compresi» - della cittadinanza francese [Higonnet 1981, 1]. Da quel momento la condizione nobiliare divenne incompatibile con l'appartenenza alla comunità nazionale; il processo di esclusione

iniziato nel 1789 si era concluso. Il destino dell'aristocrazia è significativo anche da un altro punto di vista. Come quelle politiche, le riforme sociali degli anni della rivoluzione furono il risultato di una coercizione legislativa. Per creare le infrastrutture di un ordine socioeconomico e per negare all'aristocrazia e al clero la posizione sociale consacrata nel corpo dei secoli fu necessaria la promulgazione di tutta una serie di leggi. A livello locale il cambiamento sociale, proprio come il nuovo ordine politico, dovette passare attraverso l'educazione e la propaganda: nelle aule i maestri repubblicani dovevano sostituirsi ai preti e predicare un catechismo secolare repubblicano. Anche negli ospedali il ruolo della religione fu 94

posto sotto stretta osservazione: gli elemosinieri venner sospesi dalle loro funzioni e le infermiere attentamente con trollate affinché non tentassero di indottrinare i malati e morenti. Tutto quello che ricordava apertamente il regim precedente era disprezzato. I simboli della monarchia e del l'aristocrazia - come iscrizioni e stemmi - vennero asportai dagli edifici pubblici da stuoli di scalpellini; le dimostrazio ni pubbliche di fratellanza furono incoraggiate e messe ac curatamente in scena; persino il linguaggio del discorso quo tidiano venne sottilmente alterato nel tentativo di rimuover» ogni residuo sintomo di deferenza e di oligarchia. Nel 179* i sindaci furono obbligati a fare rapporto ai superiori ogn dieci giorni sullo stato dell'opinione pubblica nei loro co muni e a segnalare ogni possibile minaccia all'ordine socia le. E ai giudizi dei tribunali rivoluzionari contro accaparrator e aristocratici si attribuì sia un valore sociale normativo sia il fine di veicolare un chiaro messaggio politico; i processi vennero adeguatamente pubblicizzati mediante manifesti a stampa che informavano l'opinione pubblica dei casi politici, e le esecuzioni divennero veri e propri eventi pubblici, un pubblico esercizio di esorcismo. Lo scopo di tutte queste misure era chiaro: creare un uomo nuovo, non contaminato dalla corruzione del mondo settecentesco. Con una miriade di provvedimenti, taluni rozzi e brutali, altri sottilmente psicologici, la vecchia struttura sociale doveva essere sovvertita e i valori del nuovo ordine civico francese inculcati nel popolo.

Sarebbe sciocco esagerare l'impatto di questa rivoluzione sociale: in fondo la storia dell'Ottocento suggerisce maggiore continuità di quanto ci si potrebbe aspettare; tuttavia, l'impatto nel breve periodo fu indubbio. A una società fondata sul diritto di nascita subentrò una società fondata sulla funzione: gli individui dovevano essere giudicati per quello che facevano piuttosto che per il nome che portavano. Le vecchie élite della chiesa e dell'aristocrazia si rifugiarono nell'emigrazione oppure accettarono una marginalizzazione delle potenti funzioni svolte in passato. Al contrario, la borghesia urbana colse ovunque le nuove opportunità: nel commercio, nel mondo legale, nella politica. Il suo ruolo nella politica locale si ingigantì, a livello sia comunale che distrettuale; borghesi erano le guardie nazionali, i comitati e 95

i tribunali rivoluzionari, i funzionari dei club giacobini locali. Economicamente i borghesi potevano sperare di approfittare della liberalizzazione dell'economia, e puntare, se così desideravano, ad acquistare terre nelle campagne circostanti. Il denaro e una certa dose di accortezza furono il loro passaporto per il successo materiale e molti approfittarono delle vendite di terre nazionali per acquistare proprietà di grande valore a prezzi vantaggiosi. Se i nobili furono quelli che più chiaramente uscirono perdenti dalla rivoluzione, i borghesi - e soprattutto forse quelli delle città minori furono gli indiscussi vincitori. Il livello di alfabetizzazione li favoriva nell'accesso all'informazione e alle cariche pubbliche, e le loro idee avanzate avevano il sostegno di Parigi. Già nell'anno II essi ricoprivano sovente posizioni di potere nelle località in cui vivevano, dove imponevano politiche anticlericali e costringevano la restante popolazione a conformarsi alle loro direttive. Erano i quadri della rivoluzione, i notabili di città e di paese. La rivoluzione e i poveri Quale fu invece la sorte dei gruppi sociali più poveri della società del Settecento, i contadini e i braccianti delle campagne, gli artigiani e gli operai delle città? La politica sociale della rivoluzione fece molto per loro o in qualche modo offrì loro maggiori opportunità? Erano realistiche le attese innescate nei contadini dai cahiers? E la rivoluzione era interessata a esaudirle? Sotto certi aspetti è evidente che

tale interesse esisteva: l'abolizione delle decime e almeno di parte degli obblighi feudali, l'abolizione di pedaggi e dazi onerosi, l'eliminazione delle iniquità del sistema dell'appalto delle imposte, furono tutte misure chiaramente vantaggiose per la società nel suo complesso. Si trattava pur sempre, ancora una volta, di novità legali piuttosto che economiche, il tipo di cambiamento" che riesce meglio a un regime parlamentare. In realtà l'economia rurale ristagnò per gran parte del decennio, con una serie di cattivi raccolti concentrati nei primi anni dopo il 1790 e crisi ricorrenti che colpirono la produzione cerealicola, la viticoltura e l'allevamento. Gli anni 1790-1800 anzi sarebbero stati a lungo ricordati 96

come un periodo di ristrettezze e povertà, senza che tale situazione fosse temperata dalla celebrata politica agraria della rivoluzione. La quantità di terra messa a disposizione dei contadini poveri dalla vendita dei biens nationaux - le terre confiscate alla chiesa, alla corona e agli emigrati - fu spesso piuttosto scarsa, mentre i contadini ricchi e i borghesi delle città poterono investire in estesi appezzamenti o ingrandire le proprietà che già possedevano. Infatti l'obiettivo primario del governo nel procedere alle vendite non fu la redistribuzione della terra bensì la raccolta di fondi per sostenere lo sforzo bellico; solo nel periodo giacobino fu fatto qualche tentativo di usare le terre nazionali a fini sociali, e i benefici che ne trassero i contadini variarono da regione a regione. Sotto altri punti di vista le leggi rivoluzionarie sulla proprietà potevano persino apparire gravemente lesive del patrimonio contadino. L'insistenza su nuove norme per un'eguale suddivisione dell'eredità tra tutti i figli, per quanto palesemente eque e meritorie nel senso che per la prima volta venivano riconosciuti i diritti delle figlie femmine e degli illegittimi, era una iattura per i piccoli proprietari, consapevoli che gli appezzamenti non erano in grado di sopportare una suddivisione e che ciò avrebbe comportato necessariamente un impoverimento. In quanto alla politica giacobina del partage - la ripartizione delle terre comuni tra i singoli contadini - le reazioni furono molto diverse nelle varie comunità agricole. Popolare nelle regioni cerealicole del nord, essa ebbe scarsa rilevanza in molti dei pays de petite culture del Massiccio Centrale o nel

sudovest, dove l'agricoltura era per lo più di sussistenza e la conservazione delle terre comuni era vitale per garantire la solidità economica locale [Jones 1988, 144-6]. Nemmeno per gli artigiani urbani o per i lavoratori non qualificati le scelte della rivoluzione si dimostrarono sempre vantaggiose. E vero che questi soggetti si videro riconosciuti i diritti politici e civili, e che poterono partecipare al lavoro delle loro sezioni; tuttavia dal punto di vista economico gli interessi dei lavoratori erano scarsamente compatibili con il libero mercato che la rivoluzione cercò di instaurare. Essi avevano bisogno di protezione contro la recessione e la disoccupazione e contro lo sfruttamento della loro categoria a opera di datori di lavoro privi di scrupoli; volevano pane a 97

buon mercato e controlli sul mercato dei generi di prima necessità per impedire le manovre di accaparratori e speculatori; chiedevano che il governo controllasse i produttori, impedisse ai ricchi di ammassare grano, vietasse ai contadini di trattenere una parte della loro produzione e ai mugnai di perpetrare frodi; per esercitare il loro mestiere avevano bisogno di quantità garantite di materie prime, e a prezzi accessibili. In breve, volevano che il governo agisse come regolatore del mercato, imponesse controlli e condizioni al commercio e punisse coloro che abusavano del loro potere economico: avevano perennemente paura che si ripetesse ai loro danni il pacte de fantine [Kaplan 1982, 1-4]. Per molti di loro l'abolizione delle organizzazioni di mestiere significò un cambiamento in peggio in quanto si trovarono privi di qualunque protezione. Queste differenze economiche aiutano a comprendere l'abisso che si creò tra la politica del governo rivoluzionario - tutti i governi del periodo, compreso quello giacobino - e i leader delle sezioni radicali parigine. Solo per breve tempo, nel 1793 e nel 1794, le sezioni riuscirono a imporre una politica di controlli sull'economia come prezzo del loro appoggio. Con la rottura dell'alleanza e la caduta dei giacobini, i sanculotti si trovarono ridotti all'impotenza e gli strati popolari che rappresentavano furono nuovamente esposti ai rigori del mercato, che divennero evidenti nell'inverno del 1795. Fu un inverno terribile, durante il quale la Senna rimase gelata per settimane e molti furono condannati al freddo, alla miseria e alla morte per fame. Si esaurirono le scorte di legna da ardere e

circa sessantamila parigini dipesero per la loro sopravvivenza dalle distribuzioni gratuite di pane. L'anno nonante-cinq, come fu chiamato nella capitale, ossessionò in seguito l'immaginario parigino. Per i poveri fu un simbolo atroce del libero mercato rivoluzionario. Per tutto Vancien regime la grande paura delle famiglie povere, in città come in campagna, era stata la miseria: l'eventualità di cadere al di sotto della soglia di sussistenza, di solito non per colpe individuali bensì per una malattia o per la morte della persona che manteneva la famiglia, per la perdita del lavoro, o semplicemente per un cattivo raccolto. Esse temevano il fallimento della loro economia di espedienti, temevano di trovarsi senza un tetto e costret98 4

te a dipendere dalla carità delle istituzioni. A loro la rivoluzione, con la sua enfasi umanitaria sulla libertà e sulla dignità dell'uomo, parve offrire nuova speranza; e il Comité de mendicité dell'Assemblea costituente alimentò questa speranza effettuando approfondite ricerche sul fenomeno della povertà e suggerendo ambiziose soluzioni legislative. I rivoluzionari vedevano nella povertà una questione nazionale e nella sua soluzione un «debito sacro» che i governi non potevano eludere [Hufton 1974, 22-4], Infatti i leader rivoluzionari credevano che la povertà fosse incompatibile con la libertà e sostenevano che la mancata eliminazione della miseria umana costituiva una macchia per il buon nome della rivoluzione. Le soluzioni da loro proposte, benché fortemente influenzate dagli esperimenti d^W ancien regime in materia, dimostrarono un grande sforzo creativo. Essi operarono una chiara distinzione tra i poveri che meritavano aiuto e quelli che non lo meritavano, e proposero il diritto all'assistenza per la maggioranza dei poveri del paese, escludendo solo quanti erano restii a lavorare. Ospedali e ospizi dovevano occuparsi di vecchi e malati, furono aperte officine per dare lavoro ai disoccupati, e fu messa a punto una forma di assistenza con contributi in denaro che consentisse agli indigenti di rimanere nelle loro comunità. Era una politica che mirava al superamento delle crisi economiche di breve durata, le crisi cicliche che tradizionalmente affliggevano un numero elevato di famiglie contadine. Era anche una politica che

implicava un certo grado di fiducia: per avere diritto all'assistenza i poveri non erano costretti a subire controlli o ad accettare il ricovero in istituti, con tutta la perdita di libertà e le meschine umiliazioni che ciò avrebbe comportato. Essi erano visti al contrario come cittadini nei cui confronti lo stato aveva responsabilità immediate [Forrest 1981, 13-33]. II fallimento della politica sociale rivoluzionaria Se l'ambizione a una politica sociale fallì non fu perché mancò la volontà; il fallimento va ascritto piuttosto all'incapacità della rivoluzione di controllare l'economia. Fin dal99

l'inizio il regime si trovò di fronte a crescenti difficoltà economiche. Esso era nato nel mezzo di una crisi, la crisi che nel 1787 e nel 1788 aveva contribuito al collasso dell1 ancien regime. L'Assemblea nazionale assicurò che avrebbe onorato i debiti ereditati dai governi monarchici, anche se il costo avrebbe pesato come un macigno sulle autorità rivoluzionarie. I cattivi raccolti degli anni immediatamente precedenti, oltre a provocare disordini popolari, spinsero i contadini a consumare le sementi che avrebbero dovuto essere messe da parte per il futuro; la prima fase della rivoluzione fu pertanto condannata a una produzione alimentare mediocre. Ulteriori difficoltà vennero dalla rivoluzione stessa: l'abolizione di alcuni obblighi feudali e la promessa soppressione di altri oneri furono motivo di soddisfazione ma anche di confusione, con la conseguenza che gli introiti fiscali calarono nettamente, e non fu possibile rimediare con i prestiti alle più scarse entrate, in quanto i creditori non avevano motivo di dare fiducia a un paese instabile. I primi anni della rivoluzione videro sfumare la base impositiva del paese a causa dell'emigrazione di molti dei nobili più ricchi, carichi di oro, argento e oggetti preziosi. Molti contadini smisero di pagare le tasse, e mastri artigiani come i Setaioli di Lione seguirono i loro clienti in Svizzera e in Germania. Peggio sarebbe andato con la dichiarazione di guerra: le risorse furono sempre più assorbite dalle industrie belliche e dall'approvvigionamento dell'esercito, mentre il commercio e l'agricoltura subirono perdite sia in termini di risorse umane che di mercati. L'entrata in guerra della Gran Bretagna

nel 1793 sferrò un colpo durissimo al commercio atlantico francese; porti come Nantes, Bordeaux e La Rochelle conobbero un drastico declino economico nel momento in cui si trovarono tagliati fuori dalle rotte per le Americhe e per le isole delle Indie Occidentali a opera delle navi da guerra e corsare britanniche. Di conseguenza la ricerca di fonti non tradizionali di gettito divenne una delle preoccupazioni dei governi che si succedettero alla guida del paese. Questi ultimi si rivolsero alla popolazione sollecitando donazioni volontarie, imposero tributi a carico dei ricchi, espropriarono i beni degli emigrati. Si trattò però solo di rimedi temporanei. Più cruciale fu la decisione di emettere una nuova valuta cartacea, 100

l'assegnato, il cui valore sarebbe stato sostenuto non dall' riserve d'oro e d'argento, ma dalle vendite delle terre nazio nali, con le quali la cartamoneta poteva, quanto meno teori camente, essere scambiata. L'accettazione dell'assegnate divenne ben presto una dimostrazione di patriottismo ( virtù rivoluzionaria. Tutti i governi rivoluzionari dall'As semblea costituente al Direttorio si videro costretti a fan della cartamoneta la base della gestione dell'economia; sen za di essa non sarebbero stati in grado di finanziare i lorc ambiziosi programmi pubblici. Tale politica era però gravida di pericoli. Divenne ben presto evidente che i rivoluzionari non comprendevano realmente tutte le implicazioni derivanti dall'adozione di una valuta cartacea, e molti politici, tra i quali Necker, espressero pubblicamente i loro timori. Quanti assegnati dovevano essere messi in circolazione? Potevano circolare a fianco della moneta metallica? In quali tagli dovevano essere stampati? E il governo come sarebbe riuscito a convincere la gente a usarli? Non erano problemi di poco conto per un paese in cui gran parte della popolazione aveva poca dimestichezza con qualsiasi tipo di moneta; in molte aree in cui prevaleva un'agricoltura di sussistenza era ancora assai praticato il baratto. Eppure Parigi ritenne di poter persuadere contadini che quasi mai usavano la moneta a fidarsi di pezzi di carta stampata. Le prime reazioni furono poco promettenti. I datori di lavoro protestarono che la cartamoneta era stata stampata in biglietti di

taglio troppo elevato rispetto al valore delle paghe giornaliere; alcuni per arrivare alla somma di cui avevano bisogno arrivarono addirittura a tagliare in più pezzi gli assegnati. All'estero fu impossibile costringere i mercati ad accettarli, e anche in Francia molti insistevano per esser pagati in moneta sonante. Il valore della moneta cartacea fu ben presto eroso dall'inflazione e i prezzi cominciarono a essere fissati a due livelli differenti, uno per i pagamenti in moneta, l'altro in assegnati. La fiducia del mercato si esaurì rapidamente. Eppure i funzionari di governo e gli appaltatori erano spesso obbligati a usare cartamoneta; e i pagamenti agli ospedali, le pensioni statali e i salari del settore pubblico venivano effettuati solo in assegnati. Con il diminuire del loro valore i poveri divennero sempre più 101

poveri, finché sotto il Direttorio molti ospedali lamentarono di essere totalmente privi di mezzi: non c'era da mangiare né da bere, mancavano bende e attrezzature, non c'erano lenzuola né letti, gli edifici cadevano a pezzi, infermiere e medici rimanevano senza paga per mesi, e quando finalmente il denaro arrivava aveva ormai perduto gran parte del suo valore. Una delle conseguenze degli insuccessi economici del governo fu lo sfascio della politica sociale rivoluzionaria. L'inflazione era il problema numero uno, causato in parte dall'eccesso di emissione di assegnati per finanziare la spesa statale, ma ancor più da una profonda sfiducia che scoraggiava la gente ad accettare cartamoneta o, avendola, a conservarla. Ciò era stato ben chiaro ad alcuni deputati già nel 1790 quando la questione era stata dibattuta nell'Assemblea. Mentre i radicali erano favorevoli all'uso degli assegnati per finanziare la legislazione rivoluzionaria, i deputati con idee più conservatrici sulla finanza consigliarono prudenza. Dupont de Nemours fu uno di quelli che si attirarono le ire dei radicali suggerendo che solo i ricchi si sarebbero avvantaggiati dell'emissione di cartamoneta: avrebbero potuto acquistare le terre nazionali a prezzi d'affare utilizzando una moneta svalutata, mentre il popolo si sarebbe trovato alle prese con l'aumento del prezzo del pane [ Aftalion 1987, 116, trad. it. 1988]. Pochi gli prestarono ascolto; la questione era già diventata uno slogan politico, e la Costituente si era impegnata sulla cartamoneta. Eppure quelli di Dupont erano saggi consigli. L'afflusso di biens nationaux

sul mercato fondiario fece scendere i prezzi della terra e il valore reale della moneta entrò in una spirale discendente: fissata la parità (100) al giugno del 1790, il suo valore nell'estate del 1793 era solo il 22% di quello nominale. Il governo giacobino e l'instaurazione del Terrore in qualche modo arrestarono la discesa, e all'epoca del termidoro l'assegnato era risalito fino al 48%. Dopo la caduta di Robespierre tuttavia si instaurò una fase iperinflattiva che portò il valore dell'assegnato, nell'estate del 1795, al di sotto del 3% del valore nominale, e lo rese praticamente senza valore nei mesi seguenti. Il Direttorio, in gravi ristrettezze finanziarie, abbandonò l'assegnato e cercò di rimborsare gran parte del debito mettendo in circolazione un secondo esperimento di valuta cartacea, il mandai territorial, il cui valore era pari a 102

trenta volte quello dell'assegnato e che si supponeva avesse un equivalente in oro. Il pubblico rimase tuttavia scettico < il mandai perse rapidamente ogni credibilità. La rivoluzione e le donne La mancanza di fondi ebbe probabilmente l'effetto di frenare i programmi di lavori pubblici e di limitare la spesa statale destinata ai poveri e agli infermi. Non tutta la legislazione in materia sociale richiedeva però investimenti di denaro pubblico, soprattutto se si considera che alcune delle idee rivoluzionarie più radicali riguardavano i diritti sociali e gli atteggiamenti. Particolarmente istruttivo fu l'approccio adottato nei confronti delle donne. Nelle questioni civili i rivoluzionari riconobbero che le donne dovevano godere di maggiori diritti rispetto al passato, soprattutto nella sfera privata. Perché mai le mogli dovevano ubbidire ai mariti in silenzio o lasciarsi maltrattare senza lamentarsi? Perché mai la proprietà doveva passare ai figli maschi e non alle figlie femmine, e al figlio maggiore a scapito di tutti gli altri? Per quale motivo le maggiori opportunità educative dovevano essere riservate ai ragazzi? Al di fuori delle ragioni legate alla tradizione cattolica, per quale motivo a due coniugi in lite doveva essere impedito di risolvere col divorzio i problemi coniugali? Nel periodo rivoluzionario marito e moglie furono messi su un piano di maggiore uguaglianza di fronte alla legge. Le mogli ottennero il diritto di comprare, vendere ed ereditare; a tutti i figli vennero riconosciuti uguali

diritti ereditari; l'istruzione scolastica statale fu garantita sia ai ragazzi che alle ragazze; l'istituzione del divorzio permise a molte donne di liberarsi da matrimoni infelici e mariti tirannici [Phillips 1981, 196-203]. Anche se il sistema politico rivoluzionario rimase in netta prevalenza maschile - si può addirittura affermare che l'anticlericalismo rivoluzionario e la chiusura forzata delle chiese fossero una discriminazione contro le donne e i loro interessi - il sistema sociale fu più equo nel trattamento dei due sessi [Hunt 1984, trad. it. 1989]. Ciò non vuol dire che le donne fossero considerate uguali agli uomini, poiché c'erano ambiti dai quali continuarono a 103

essere sistematicamente escluse. Esse non ottennero mai, durante la rivoluzione, pieni diritti di cittadinanza, e il diritto di voto alle donne non fu tra le priorità rivoluzionarie. I club femminili che pure si formarono furono pallide ombre di quelli maschili; scarsamente frequentati, si sforzarono di attirare l'attenzione sulla loro causa. I rivoluzionari per lo più li ignorarono, e cercarono di escluderli da ogni decisione politica. Da questo punto di vista i giacobini furono ancor meno tolleranti dei loro predecessori, e nell'autunno del 1793 il processo di emarginazione delle donne dalla sfera pubblica fu pressoché completato: le donne furono esplicitamente escluse dai diritti politici, le organizzazioni politiche femminili furono vietate, e fu addirittura negata la possibilità di perorare la loro causa davanti alla Convenzione. Il ruolo delle donne nella vita pubblica doveva essere puramente simbolico. Infatti, come hanno osservato Sarah Melzer e Leslie Rabine [1992, 5], «proprio mentre le donne venivano espulse dalla sfera pubblica, la Donna come figura allegorica veniva sempre più capillarmente a simboleggiare la Libertà, l'Uguaglianza, le virtù repubblicane e la repubblica stessa nelle rappresentazioni maschili del nuovo ordine politico». L'iconografia rivoluzionaria sostituiva al corpo maschile del re il simbolo femminile della Dea della Libertà. Nelle sezioni parigine i radicali erano poco propensi a permettere l'attivismo politico delle loro mogli e figlie. L'immagine popolare della donna patriottica era rigidamente definita all'interno delle mura domestiche. La donna

era onesta e fedele, brava cuoca e madre di famiglia; il suo posto era la casa, dove educava i figli ai principi repubblicani, non in tribunale o nelle assemblee di sezione frequentate dal marito. Nel suo «Pére Duchesne» Hébert ci offre un quadro convenzionale della vita di una famiglia di sanculotti in cui non c'è dubbio che il ruolo primario della donna sia di supporto. Il sanculotto infatti trova conforto e consolazione in famiglia dopo una dura giornata di lavoro in officina: «A sera, quando rientra nella sua soffitta, la moglie si precipita ad abbracciarlo, i piccoli corrono a baciarlo, il cane salta a leccargli il viso. Lui racconta le novità che ha appreso in sezione [...] Poi cena con appetito e dopo il pasto intrattiene la famiglia leggendo brani del "Pére Duchesne"» [Hardman 1973, 218]. Non era previ104

sto che le donne prendessero parte attiva alla rivoluzione, e ogni passo in tale direzione era motivo di timore per le autorità. Il Comitato di salute pubblica osservò con preoccupazione, ad esempio, la costituzione nel maggio del 1793, a opera di alcune militanti, di una società popolare femminile, il Club des citoyennes républicaines, il cui obiettivo dichiarato era impedire l'accaparramento e la speculazione sui generi alimentari, ma che evocava il duplice spettro dell'invasione delle strade di Parigi da parte delle donne lavoratrici e di una possibile alleanza tra le donne dei mercati e la fazione estremista degli arrabbiati, uno dei cui esponenti era Jacques Roux, che aveva un programma simile [Hufton 1992, 25]. Per quanto i politici repubblicani preferissero escludere le donne dalla sfera politica, esse tuttavia svolsero un ruolo significativo nella rivoluzione, in particolare nelle journées popolari e nelle sommosse nei mercati. Non furono spettatrici passive, né si comportarono alla stregua di intriganti di corte dell''ancien regime. In parte, naturalmente, il loro contributo si inserì nel solco della tradizione: protestavano per il prezzo del pane e reclamavano l'apertura di fabbriche statali; costituivano il personale degli ospedali rivoluzionari; portavano avanti la produzione quando i loro mariti partivano per combattere alle frontiere. Il loro ruolo tuttavia non si limitò a questo. Nei giorni dell'ottobre del 1789 furono le donne di Parigi - ventimila, se diamo credito a Mercier - a marciare fino a Versailles

per riportare il re e la sua famiglia a Parigi. Il loro fu un intervento decisivo per il corso della rivoluzione e per ridurre gli spazi di manovra della corte. Esso ebbe inoltre l'effetto di accentuare la consapevolezza politica delle donne, anche se suscitò timori reali nell'intera classe politica maschile [Hufton 1992, 18]. Alcune donne cominciarono a rivendicare una completa uguaglianza di diritti con gli uomini. Per Pauline Leon, ad esempio, era ovvio allo scoppio della guerra che alle donne di Parigi dovesse essere consentito di formare un'unità della Guardia nazionale a difesa della capitale. La richiesta naturalmente fu ignorata. Si stava tuttavia sviluppando un femminismo embrionale che non ammetteva distinzioni legali tra uomo e donna. Toccò a Olympe de Gouges, figlia di un macellaio di 105

Montauban, esprimere tutto ciò in forma estremamente succinta nell'opuscolo sui Diritti delle donne pubblicato nel 1791. «Il principio della sovranità risiede essenzialmente nella nazione, che non è altro che l'unione di donne e uomini». E la legge «deve essere espressione della volontà generale; tutti i cittadini, maschi o femmine, devono contribuire alla sua formazione personalmente oppure attraverso i loro rappresentanti». Agli uomini lanciava una sfida clamorosa: «Che cosa vi dà il potere sovrano di opprimere il mio sesso? La vostra forza? I vostri talenti? Osservate il Creatore nella sua saggezza; esaminate in tutta la sua magnificenza quella natura con la quale sembrate volere essere in armonia, e datemi, se potete, un esempio di questo potere tirannico» [Levy, Applewhite e Johnson 1979, 89-90]. Le idee di libertà e di uguaglianza, anche se pensate per gli uomini, non potevano non riguardare anche le donne. L'ostilità mostrata da molti rivoluzionari all'idea della donna come cittadina trovava un parallelo nell'atteggiamento ambivalente nei confronti delle popolazioni delle colonie francesi. Nella seconda metà del Settecento c'era stata una certa opposizione illuministica al traffico degli schiavi che era culminata nella fondazione nel 1788 di un'associazione di riforma detta degli Amis des Noirs. Eppure la questione della schiavitù fu a malapena trattata nei primi mesi della rivoluzione, quando i deputati dimostrarono di essere interessati esclusivamente alle cose francesi. Considerati gli ideali

che i rivoluzionari sbandieravano ciò può apparire sorprendente. Se «gli uomini nascono e restano liberi ed eguali nei diritti», tali diritti non dovevano forse spettare anche ai nati in schiavitù, o alle persone di pelle nera? Oppure l'attacco all'istituto della schiavitù doveva essere interpretato come un attacco a un'altra delle cause sacre della rivoluzione, la proprietà? In effetti le proposte che furono avanzate riguardarono l'abolizione del traffico di schiavi piuttosto che l'emancipazione degli individui già in schiavitù. Gli sviluppi nelle isole caraibiche però ben presto forzarono la mano ai rivoluzionari. Il tessuto sociale di Santo Domingo e delle altre isole caraibiche era complicato dal fatto che nella popolazione coloniale si mescolavano schiavi neri e liberi hommes de couleur (mulatti); la vibrante proclamazione dei diritti 106

dell'uomo nella Francia metropolitana trovò risonanza in entrambe le comunità. A Santo Domingo il conflitto politico tra piantatori bianchi e comunità di colore deflagrò nell'ottobre del 1790 con una violenta sollevazione che fu repressa con brutalità: il capo degli insorti di colore, Ogé, subì il supplizio della ruota a Le Cap. La riforma proseguì con molta lentezza, anche se almeno alcuni dei deputati, tra cui si distinse Brissot, rimasero indignati dalle atrocità che si commettevano in nome della Francia. Nel maggio del 1791 l'Assemblea decretò la concessione delle libertà civili ai mulatti, ma ciò non valse a placare gli schiavi che temevano di essere oppressi dai mulatti né più né meno che dai francesi. Nell'agosto di quell'anno nell'isola scoppiò una rivolta che sarebbe durata dodici anni e che avrebbe fatto di Toussaint-Louverture il primo leader nero di un movimento di liberazione. Ancora una volta la Francia rispose, anche se la sua esigenza primaria era di contrastare i britannici e gli spagnoli che minacciavano le colonie francesi. Nel luglio del 1793, su mozione àeìYabbéGrégoire, furono aboliti tutti i sussidi al traffico degli schiavi. Nel mese di ottobre, il commissario inviato dalla Convenzione, Sonthonax, desideroso di mobilitare i neri dietro il vessillo francese, annunciò la fine della schiavitù in tutta Santo Domingo; e all'inizio dell'anno seguente, Parigi replicò abolendola in tutte le colonie francesi. Ciò che più desta perplessità è forse la lentezza e lo scarso entusiasmo delle risposte francesi. Se è vero che Brissot, Clavière, Condorcet e un pugno di deputati di analoghe vedute mostrarono un

interesse costante per la questione della schiavitù, molti altri - compresi molti leader radicali - si rivelarono molto meno appassionati alla cosa. Facendo un bilancio dell'attività dell'Assemblea costituente, Yves Benot [1988, 101] nota che né Robespierre né il club giacobino si erano mai espressi sulla questione coloniale; anche Marat aveva taciuto. La rivoluzione francese attribuiva un grande valore al servizio, in special modo a quello reso allo stato, e ciò si rifletteva ampiamente nella priorità data alle istanze sociali. I gruppi che trassero maggior vantaggio dalla situazione furono quelli più impegnati a sostegno del regime - ad esempio avvocati, funzionari statali, amministratori locali e, sempre più frequentemente, militari. Anche l'istruzione aveva 107

un'alta priorità, pur se nei limiti imposti da un bilancio zoppicante. Essa aveva evidenti implicazioni ideologiche ed era una questione troppo delicata perché fosse demandata ai preti e agli insegnanti dell'ancien regime, i quali, si presumeva, avrebbero inculcato i valori cristiani e preparato la strada alla riaffermazione della monarchia. Pertanto la responsabilità dell'educazione dei cittadini doveva ricadere sullo stato. Fu lo stato a organizzare le biblioteche nazionali e a creare la grande galleria d'arte del Louvre, e sempre lo stato si addossò compiti via via più gravosi nell'istruzione scolastica. L'istruzione laica - che ben presto sarebbe stata riconosciuta come uno degli istituti repubblicani più preziosi - era prevista a tutti i livelli. Al livello più alto, il Direttorio fondò le prime grandes écoles, l'Ecole normale supérieure e il Polytechnique, scuole che nel servizio allo stato vedevano la più nobile delle vocazioni, e che dovevano insegnare il valore del servizio pubblico alle nuove generazioni di francesi. Fu tuttavia soprattutto attorno all'istruzione primaria che si accese il dibattito repubblicano, in quanto era questo l'ambito in cui venivano formati i giovani la cui innocenza doveva essere difesa dalle incursioni del catechismo cattolico. Poiché numerosi ecclesiastici rifiutarono di prestare giuramento in base alla Costituzione civile del clero, la struttura scolastica esistente era in ogni caso ridotta in rovina. Il problema era però come rimpiazzare frati e preti considerato che non esisteva una tradizione di insegnamento laico o di addestramento secolarizzato degli insegnanti in grado di sfornare il gran numero di maestri richiesti

dal regime. La soluzione giacobina prese forma con la legge Lakanal del novembre del 1794 che stabiliva che in ogni comune di oltre mille abitanti la repubblica avrebbe istituito una scuola elementare per ragazzi e ragazze in cui avrebbero insegnato instituteurs e institutrices reclutati ed esaminati in ambito distrettuale. Data la situazione del 1794 il piano era ovviamente utopistico: esso rifletteva più le ambizioni e le energie di uomini come Lakanal che le capacità economiche del tempo. Come ha dimostrato Isser Woloch, negli anni del Direttorio, più volte parti del progetto furono tuttavia riesumate da politici che chiesero ripetutamente l'implementazione di un programma di educazione primaria laica. Il sogno non sarebbe stato dimenti108

cato, nonostante la provata inconsistenza della retorica re pubblicarla [Lucas 1988, 372-3]. Napoleone e la politica sociale della rivoluzione In molti ambiti i risultati della politica sociale rivoluzio naria sopravvissero al rovesciamento del Direttorio avvenu to col colpo di stato di brumaio. Napoleone infatti, pei quanto desideroso di riportare l'ordine sociale in Francia e di rafforzarne l'ordine politico, non era un reazionario nelk questioni sociali e aveva scarsa simpatia per il sistema di ordini sociali e privilegi corporativi che era stato spazzate via. Piuttosto era un sostenitore senza remore della meritocrazia, e mirava a temperare gli ideali rivoluzionari attraverso la creazione nella società francese di un'elite di uomini nuovi e di talento. Sarebbero stati ricompensati i servizi meritori resi allo stato, nell'amministrazione o nella politica ma soprattutto nell'esercito, e in questo modo si sarebbe garantita la lealtà dei cittadini e lo stato stesso ne sarebbe stato rafforzato. L'obiettivo politico si fuse perfettamente con quello sociale. Vennero conferiti nuovi titoli nobiliari (non moltissimi per la verità): gli aiutanti di campo divennero marescialli di Francia; fidati commilitoni vennero promossi alla carica di prefetti. La legione d'onore veniva conferita a funzionari pubblici in riconoscimento del loro operato; anche la scienza e lo sviluppo tecnologico furono incoraggiati attraverso le onorificenze. Persino il Senato poteva essere considerato una sorta di istituzione sociale: Louis

Bergeron [1972, trad. it. 1975, 68] lo ha descritto come «una specie di microcosmo, dove sono chiamati a raggrupparsi poco più di un centinaio di alti notabili». Ancora una volta il talento era tutto, la nascita nulla: tra i marescialli, ad esempio, Ney era figlio di un fabbricante di barili, Murat di un taverniere. Nemmeno il passato politico valeva a escludere dalle cariche gli uomini dotati di capacità. La grande maggioranza degli uomini promossi da Napoleone aveva già ricoperto cariche pubbliche durante la rivoluzione, e una settantina dei futuri prefetti aveva fatto parte di una delle assemblee rivoluzionarie degli anni 1790-1800. Come giustamente osserva Bergeron, la soluzione dell'Impero non 109

consistette nel ripudio della mobilità sociale voluta dalla rivoluzione bensì nella conferma della promozione di un'intera generazione di uomini provenienti dal ceto medio e nel loro inserimento nell'elite del paese. A essere emarginati non furono i rivoluzionari - persino ex giacobini ebbero modo di fare carriera - bensì coloro che avevano detenuto cariche elevate negli ultimi anni della monarchia [ibidem, trad. it. 1975, 65 ss]. Ciò che contraddistinse il periodo napoleonico fu il netto primato dell'autorità nelle questioni socioeconomiche oltre che nella sfera politica, e a ogni livello sociale. La ricerca dell'ordine sociale era evidente ovunque - nella meticolosa codificazione della legge, nell'intensificazione dei controlli amministrativi, nella riorganizzazione della polizia. Nei dipartimenti il nuovo ufficio prefettizio rafforzava il ruolo dell'amministrazione centrale a spese di quelle elette dalle popolazioni locali. Nell'esercito furono riaffermate le qualità della disciplina e del professionismo. Ovunque ubbidienza e autorità ebbero la priorità rispetto alle libertà individuali; ciò anche nella famiglia, dove il codice napoleonico riaffermò il ruolo del padre e del marito. Sebbene alcune delle conquiste della rivoluzione rimanessero in vigore - il divorzio fu confermato anche in caso di adulterio non provato, ad esempio, ed entrambi i coniugi mantennero il diritto alla separazione dei beni nel matrimonio - molte delle riforme più libertarie vennero revocate. Il Code Napoléon ribadiva l'autorità dei genitori sui figli e dei mariti

sulle mogli; i diritti dei figli illegittimi furono limitati, le cause di divorzio ridotte, e abolita l'equa divisione dell'eredità. Queste modifiche ebbero un'importanza normativa notevole in quanto ribadivano il messaggio che anche in un microcosmo la società era chiaramente strutturata a forma di piramide con in cima una figura autoritaria. Il significato politico di tale messaggio era trasparente. Questo desiderio di riportare ordine nella società francese dopo gli sconquassi degli anni creila rivoluzione si estese anche alle questioni religiose. Ampi settori della classe contadina non avevano mai digerito l'anticlericalismo della repubblica, e Napoleone aveva bisogno del loro sostegno, sia come produttori che come soldati. Le sue convinzioni religiose potevano essere tiepide, ma gli era perfettamente 110

chiaro il valore che la fede aveva per gli altri e il suo significato per il governo del paese; inoltre una chiesa compiacente offriva preziose opportunità di sorveglianza e controllo. Il suo patto con Roma - il concordato del 1801 - fu una mossa politica ispirata e lo rafforzò notevolmente. Poche le concessioni: il cattolicesimo fu dichiarato ufficialmente «la religione della grande maggioranza dei cittadini»; i nuovi vescovi dovevano essere scelti dal primo console e non dal papa, e la chiesa era soggetta a rigide regolamentazioni di polizia e amministrative. In cambio il papa riprendeva il controllo spirituale del più ricco stato cristiano. Il vero vincitore fu però Napoleone: sfruttando i successi anticlericali della rivoluzione, si garantì quella stabilità politica che i rivoluzionari avevano messo a repentaglio con la loro lunga controversia con Roma, e fece un passo importante nell'ambito di un processo molto più generale di estensione dell'autorità statale sul tessuto sociale oltre che sul corpo politico. La religione avrebbe ripreso la sua tradizionale funzione, duramente contestata in precedenza, di cemento dell'ordine sociale e baluardo dell'autorità dello stato. Ili

CAPITOLO QUARTO LA GUERRA Il 20 aprile 1792 l'Assemblea legislativa votò la dichiarazione di guerra all'Austria o, nella formula che i deputati preferirono impiegare, al «re d'Ungheria e di Boemia». Fu una decisione importante, che avrebbe condizionato il carattere della rivoluzione per il resto del decennio. La guerra infatti non sarebbe stata, come supponevano i contemporanei, breve, decisiva e vittoriosa. Le condizioni dell'esercito francese non avrebbero consentito una facile vittoria e i primi scontri inflissero anzi un duro colpo perché le armate francesi furono respinte e il territorio nazionale corse il rischio di un'invasione. Ma anche quando cominciarono le vittorie e il morale delle truppe si risollevò la speranza di una rapida conclusione delle ostilità restò minima. Gli obiettivi che l'Assemblea aveva proclamato con tanto vigore si dimostrarono inattuabili e irrealistici. Il paese, dichiarò l'Assemblea, prendeva le armi esclusivamente in difesa della propria libertà e indipendenza, e non aveva motivi di ostilità nei confronti degli altri popoli d'Europa. Si prometteva però preventivamente di adottare «tutti gli stranieri che, abiurando la causa dei suoi nemici, verranno a schierarsi sotto le sue insegne e consacreranno i loro sforzi alla difesa della sua libertà» [Hardman 1973, 141]. Era un'offerta generosa, un'affermazione della fede dell'Assemblea nella fratellanza umana, e rispettava lo spirito della costituzione,

secondo la quale, la Francia non avrebbe mai «dichiarato guerra con l'obiettivo di fare conquiste». Una volta scoppiate le ostilità, questi sentimenti cedettero però il passo a un nazionalismo più brutale ed esclusivo. Nel volgere di un anno la Francia si sarebbe trovata in guerra con la maggior parte delle teste coronate d'Europa, e nel 1793 il fatto stesso di essere un cittadino straniero sarebbe stato sufficiente a destare sospetti. La guerra dichiarata il 20 aprile si sarebbe 113

trascinata per il resto del decennio e, sotto il Direttorio e il Consolato, avrebbe oscurato tutti gli altri lini della rivoluzione diventando l'obiettivo primario dello stato. Le cause della guerra Perché la Francia entrò in guerra? Le origini del conflitto scaturirono, come qualcuno sostiene, dall'ideologia, dallo scontro tra sistemi politici incompatibili e antagonisti? La dichiarazione di guerra francese fu un fatto prevalentemente tecnico, in quanto la Francia stava per essere invasa dalle monarchie europee timorose che le idee corrosive predicate dalla rivoluzione francese minassero l'assetto politico dei rispettivi stati? Questa fu l'opinione di molti contemporanei, e soprattutto dei deputati girondini, che, nei loro discorsi a favore della guerra pronunciati davanti all'Assemblea, richiamarono l'attenzione sulle armate degli emigrés che si radunavano in capitali straniere come Magonza e Coblenza, sotto l'aperta protezione dei governanti locali. Essi ritenevano, a ragione, che Maria Antonietta stesse cospirando con i suoi parenti austriaci e tramando la caduta della rivoluzione: la cattiva reputazione di cui la giovane regina godeva presso l'opinione pubblica non faceva che confermare la sua immagine di traditrice e spia di una potenza straniera. Gli interminabili tentennamenti di Luigi non contribuirono certo a rinsaldare l'immagine della monarchia, e la fuga del re a Varennes nell'estate del 1791 accrebbe ulteriormente le paure francesi di un attacco

controrivoluzionario attraverso il Reno. La notizia dell'arresto e dell'umiliazione del re suscitò la reazione negativa delle monarchie europee. In Inghilterra contribuì a volgere il sentimento popolare contro la rivoluzione; a Pillnitz l'imperatore d'Austria e il re di Prussia rilasciarono una dichiarazione congiunta in cui condannavano la rivoluzione e invitavano gli altri sovrani europei ad appoggiarli nella restaurazione dell'ordine in Francia. Per i principi e i nobili emigrati era la promessa di quell'intervento armato che essi auspicavano, anche se nel 1791 c'erano poche possibilità che altri paesi unissero le loro sorti a quelle di Leopoldo. In quanto ai leader rivoluzionari pari114

gini, molti di loro interpretarono la risoluzione in senso letterale, come una minaccia di restaurazione della monarchia borbonica a spese del popolo francese. Il partito della guerra era composto da diverse fazioni, tra cui la maggior parte del gruppo parlamentare girondino e i seguaci di Lafayette. Anche se i loro scopi erano nettamente differenti, la loro effimera alleanza diede un impulso determinante alla causa della guerra. Particolarmente rumorosa fu la campagna antiaustriaca dei girondini, tra i quali si mise soprattutto in luce Brissot, sostenitore appassionato dell'idea che la guerra era una necessità per il popolo francese, e non una scelta. Il suo linguaggio, come quello dei suoi colleghi girondini, era pervaso da un nazionalismo bellicoso; in ballo era nientemeno che la sovranità nazionale. Nel dicembre del 1791 disse davanti all'Assemblea che era giunto il momento di «una nuova crociata, una crociata per la libertà universale » [Lefebvre 1951, trad. it. 1962, 254]. Nel suo Discours sur la necessitò de déclarer la guerre Brissot sostenne che la guerra era necessaria perché i francesi potessero consolidare le loro libertà, e che attraverso la guerra il popolo poteva purificarsi dei vizi del dispotismo e sbarazzarsi di coloro che continuavano a essere fonte di corruzione. Aggiunse, inoltre, che, se la Francia non avesse attaccato, sarebbe stata considerata debole dalle altre nazioni; per essere forte la rivoluzione doveva imporsi attraverso la guerra [Ellery 1915, 233]. Per Brissot la guerra era una

causa che avrebbe incontrato il favore non solo dei patrioti francesi ma anche dei popoli che i francesi avrebbero liberato dalla tirannia. In patria la guerra avrebbe mobilitato il sentimento nazionale a sostegno della rivoluzione e costretto un monarca riluttante a optare per un programma e un ministero rivoluzionari; all'estero - e di questo Brissot sembrava assolutamente convinto - la Francia non avrebbe corso veri e propri pericoli. Spiegava, infatti, con l'ottimismo del vero estremista, che le truppe francesi in Germania sarebbero state accolte favorevolmente dalla popolazione locale che le avrebbe considerate alla stregua di missionari di un nuovo ordine e portatori di libertà [Hampson 1981, 5]. Queste tesi furono riprese anche da altri oratori. Alcuni, 115

come lo svizzero Clavière o i diversi esuli olandesi che appoggiarono Brissot, avevano evidenti ragioni personali per farsi paladini della guerra [Bosher 1988, 160], Altri invece erano mossi da autentiche convinzioni. Gensonné, persuaso dalle tesi di Brissot, spinse il Comitato diplomatico ad appoggiare la guerra contro l'Austria e insistette perché si chiedesse all'imperatore di chiarire le sue intenzioni. In particolare quest'ultimo doveva garantire che non avrebbe attaccato la nazione francese, la sua costituzione o la sua assoluta libertà di scegliersi la propria forma di governo [Stephens 1892, voi. I, 401]. Vergniaud sostenne con grande fervore che la rivoluzione aveva messo paura a tutte le monarchie europee, che aveva dato agli altri popoli un esempio di come si potessero rovesciare i despoti, e che era solo questione di tempo prima che questi ultimi passassero al contrattacco. Era perciò nell'interesse della Francia sorprendere i nemici facendo il primo passo, la dichiarazione di guerra [ibidem, voi. I, 276]. Non tutti concordavano sulla diagnosi. Robespierre in particolare ammonì di non rispondere in modo troppo affrettato alle provocazioni di re e imperatori, provocazioni che a suo modo di vedere puntavano a indebolire la Francia inducendola a dissipare le energie in guerra quando c'erano battaglie interne più importanti. In due discorsi pronunciati al club giacobino nel gennaio 1792 Robespierre prese le distanze dall'entusiasmo girondino e invitò i suoi colleghi alla cautela. Era indubbiamente un gesto nobile e altruista

per la Francia aver promesso di aiutare gli altri popoli a raggiungere la libertà, disse, ma era una mossa gravida di pericoli, dei quali si doveva essere consapevoli. Sarebbe stato ansioso come gli altri di mandare un'armata nel Brabante o in soccorso della popolazione di Liegi, e avrebbe gareggiato con Brissot nell'entusiasmo per la guerra, se non fosse stato per una considerazione: se la Francia fosse rimasta intrappolata in avventure militari all'estero, non se ne sarebbero forse avvantaggiati i monarchici-e i controrivoluzionari in patria? Non era proprio questo ciò che gli avversari più accesi della rivoluzione - i nobili emigrati, gli ufficiali dell'esercito di estrazione aristocratica, la corte, la regina desideravano? Il fatto che questi gruppi si fossero mobilitati a favore della guerra non poteva non confermare i sospetti 116

di Robespierre, che volse rapidamente le sue batterie contro i girondini, i quali, disse, cercavano di usare lo spirito bellico per sviare l'attenzione dagli errori commessi in patria. Alcuni - e il tradimento di Dumouriez alcuni mesi dopo venne a corroborare quest'idea - erano già al soldo della corte. Robespierre e i giacobini che lo appoggiavano erano convinti che dichiarando guerra la leadership francese avrebbe fatto il gioco dei suoi nemici [ibidem, voi. II, 304]. Nella primavera del 1792 prevalse la posizione girondina e Robespierre, come chiunque altro, si schierò con l'esercito e per il successo delle armate francesi. Ma Brissot e i suoi seguaci avevano ragione a presupporre che si trattasse di una guerra ideologica, di natura differente dagli altri conflitti che avevano visto la Francia contrapporsi all'Austria, alla Prussia e alla Gran Bretagna per tutto il Settecento? T.C.W. Blanning ritiene invece che non ci siano molti motivi per crederlo. I governi settecenteschi concepivano la guerra e la diplomazia in termini di conquista imperiale e interesse dinastico. Facevano guerra quando pensavano di poter vincere, quando l'altra parte appariva vulnerabile: perché debole finanziariamente o militarmente sguarnita, perché la successione era contestata o perché era impegnata su un altro fronte. Combattevano per ottenere vantaggi limitati, colonie o tratti di territorio conteso, non per distruggere il sistema politico altrui. E se si guardava le cose dal punto di vista di Berlino o Vienna, perché mai queste considerazioni non dovevano essere più valide?

Se l'Austria e la Prussia erano attratte dall'eventualità di una guerra con la Francia ciò non dipendeva forse dal fatto che erano consapevoli che la rivoluzione aveva indebolito la capacità militare francese distruggendo l'alto comando militare ed esacerbando la crisi fiscale degli anni Ottanta? E se si mostravano riluttanti a scendere in campo, non era forse ugualmente per ragioni strategiche, ossia per il fatto che in quel periodo i loro veri interessi erano altrove, in quanto erano impegnate a spartirsi la Polonia? Anche la Gran Bretagna poteva guardare alla condizione delle difese francesi con un occhio pragmatico anziché ideologico. Infatti il conflitto americano era terminato con delle concessioni britanniche e con un risultato estremamente insolito, una vittoria navale francese a Yorktown. Una nuova 117

guerra, in un momento in cui l'attenzione francese era rivolta altrove, poteva servire a riconquistare le isole caraibiche francesi e a riaffermare il dominio britannico sui mari. Non ci sono motivi fondati per credere che Leopoldo fosse ispirato a cercare la guerra con la Francia da uno zelo antirivoluzionario. Al contrario, sappiamo che guardava con simpatia almeno ad alcune delle riforme proposte in Francia, e se il duca di Brunswick in seguito diede alla campagna antiaustriaca una giustificazione ideologica col suo famoso manifesto, ben presto dovette pentirsene. Leopoldo era dell'idea che i francesi fossero una facile preda: gli austriaci parlavano addirittura di una passeggiata, credevano che i francesi si sarebbero arresi senza combattere. I prussiani erano altrettanto ottimisti, e ritenevano che la Francia potesse essere sconfitta in due mesi. Non avevano, ne erano convinti, nulla da perdere [Blanning 1986, 116]. Ma cosa accadeva intanto nel campo rivoluzionario? Secondo Blanning, nonostante la retorica ideologica, i calcoli francesi erano altrettanto pragmatici. Se il partito della guerra in Assemblea usava un linguaggio politico era solo perché nel 1792 era diventato quasi obbligatorio giustificare ogni scelta in termini politici. Lo studioso sottolinea le continuità che contrassegnarono la politica estera francese nel corso del Settecento, continuità dalle quali l'opinione rivoluzionaria non si era emancipata - in particolare una spiccata anglofobia da un lato e l'austrofobia

dall'altro. La politica estera dopo il 1789 seguì un solco già scavato, e poiché ora veniva ideata e dibattuta con tutta la pubblicità che circondava ogni discussione in assemblea, non si poteva non tenere conto dell'opinione del paese. Inoltre i rivoluzionari erano influenzati dalla considerazione più pragmatica che esista, la convinzione di essere in grado di vincere. Essi erano convinti che il popolo fosse invincibile quando si trattava di affrontare monarchi e tiranni, e la facilità con cui avevano annesso Avignone nel 1790 accentuò il loro falso senso di sicurezza. Come i loro avversari, ritenevano che la sconfitta fosse impensabile e che la vittoria fosse a portata di mano. 118

Sviluppi del conflitto Quei calcoli si dimostrarono terribilmente sbagliati. I francesi in effetti avevano preso di sorpresa gli austriaci ma non fecero nulla per approfittare di tale vantaggio. Le prime campagne furono mal coordinate e costellate da dure sconfitte. Dumouriez, lo stratega dell'esercito francese, tentò di isolare gli austriaci e di annettere il Belgio, nella speranza di ottenere rapide e sonanti vittorie sulla frontiera settentrionale (carta 7). Il suo insuccesso trasformò la campagna in un'indegna miscela fatta di confusione, indisciplina e sconfitte. Tra i generali in azione solo Custine riportò dei successi (la conquista della fortezza di Porrentruy); altrove le armate francesi dovettero cedere terreno e ripiegarono senza impegnare il nemico. Dovunque si avvertiva un senso di fallimento, al quale si sommava sempre più l'accusa politica di un deliberato boicottaggio dell'apparato militare. Ci furono ufficiali accusati di incompetenza e tradimento che persero la fiducia dei loro reggimenti; il generale Dillon, che aveva ordinato ai suoi uomini di ripiegare, fu ucciso nelle strade di Lilla. Deleterie per il morale si dimostrarono le risse tra le forze politiche, che finirono per gettare un'ombra sulla campagna militare. Di conseguenza l'iniziale vantaggio dei francesi fu sperperato in brevissimo tempo. All'inizio di luglio il fronte delle ostilità si estese alla Prussia; l'I 1 luglio la patrie fu dichiarata en danger (con questa mossa si annunciavano nuove restrizioni per la popolazione civile); e durante il mese di agosto il territorio francese fu invaso

da nord e da est. Una guerra, che solo pochi mesi prima era stata dichiarata con tanta ingenua spavalderia, si stava trasformando sempre più in una catastrofe nazionale. Nella seconda metà del 1792, però, le sorti francesi si risollevarono in maniera spettacolare. Il morale tornò alto quando l'esercito, oramai abituato alla sconfitta, cominciò a gustare il sapore della vittoria. La svolta fu la battaglia di Valmy del 20 settembre, quando le armate di Dumouriez e Kellermann, ammassando la loro artiglieria, sconfissero un'armata prussiana che altrimenti avrebbe avuto alla sua mercé la Francia e, probabilmente, Parigi. Fu una vittoria inaspettata e cruciale: Valmy «respinse l'invasione straniera e salvò il nuovo regime francese» [Scott 1978, 172]. Fu 119

anche l'annuncio di una rapida successione di importanti vittorie. Alla fine di settembre il generale Montesquieu aveva preso la Savoia e Nizza; in ottobre Gustine conquistò la Renania con le città di Francoforte e Magonza; e alla fine del mese Dumouriez condusse un'armata di quarantamila uomini contro il Belgio. Il 6 novembre queste forze si scontrarono con gli austriaci a Jemappes riportando un'altra celebre vittoria. Come spiega Scott, l'importanza del successo di Jemappes fu per molti versi molto superiore a quello di Valmy. La battaglia di Valmy infatti era stata vinta dall'artiglieria con sporadici combattimenti corpo a corpo; la buona sorte vi aveva svolto un ruolo importante, e il valore delle truppe non era stato messo alla prova. A Jemappes invece le truppe dovettero combattere duramente e con risolutezza, resistendo a un attacco dopo l'altro; il loro valore era stato provato, come riconobbe lo stesso Dumouriez, nel più difficile dei contesti, quello della battaglia campale [ibidem, 174]. I francesi avevano dimostrato al nemico, ma anche a se stessi, di essere capaci del coraggio e della disciplina necessari per sostenere uno scontro tra fanterie. Nell'inverno del 1792 molti francesi si lasciarono trasportare dall'euforia per la vittoria e dalla forza della loro stessa propaganda. La Convenzione era stata eletta in settembre ed era stata proclamata la repubblica; il re era sotto processo e rischiava la pena capitale; i massacri di settembre avevano opportunamente ricordato fino a che punto

nella capitale imperassero il panico e l'agitazione popolare. Nulla sembrava impossibile alla repubblica in fasce. All'estero, la Convenzione offrì «fratellanza e assistenza» a tutti i popoli che desideravano riacquistare la loro libertà, e il nuovo governo girondino cominciò a parlare di frontiere naturali, ambizione che lo accomunava a diverse generazioni di sovrani borbonici. A novembre Brissot scrisse che «il solo confine della repubblica francese può essere il Reno» e ammonì: «non potremo ritenerci tranquilli [...] se non quando l'Europa, tutta l'Europa, sarà in fiamme» [Lefebvre 1951, trad. it. 1962, 312-3]. Durante i mesi seguenti la Savoia e Nizza furono incorporate nella repubblica francese, e si procedette all'annessione del Belgio e della Renania, mentre l'antico vescovado eli Basilea diven120

ne il dipartimento francese di Mont-Terrible. Fiduciosa della sua forza militare, la repubblica stava adottando un approccio sempre più nazionalistico e imperialistico nelle sue conquiste, atteggiamento che ebbe l'effetto di consolidare l'opposizione austriaca e prussiana e di coinvolgere altri paesi nella guerra. Benché a Londra Pitt avesse mantenuto fino a quel momento una posizione di neutralità, l'esecuzione di Luigi provocò un'ondata di sentimenti antifrancesi nel paese; inoltre, aggredendo il Belgio, la Francia aveva colpito una regione con la quale la Gran Bretagna aveva una tradizione di amicizia e alleanza. L'invasione del Belgio, la minaccia all'Olanda e l'apertura della Schelda alla navigazione furono i fattori che contribuirono a una rottura dei rapporti con la Francia. Il 1° febbraio la Convenzione anticipò una possibile mossa britannica dichiarando la guerra, e il 7 marzo seguì una dichiarazione di guerra alla Spagna. Nella primavera del 1793 la Francia era in guerra contro una coalizione che comprendeva la maggior parte delle grandi potenze dell'Europa occidentale. L'euforia determinata dai successi di Valmy e Jemappes svanì con i rovesci che i francesi subirono su tutti i fronti. Nel mese di marzo Dumouriez fu duramente battuto a Neerwinden, dopo di che fu costretto a rinunciare a ogni ambizione sull'Olanda e a ripiegare su Liegi. Sarebbe andata ancor peggio in seguito, quando Dumouriez cercò di incolpare della sconfitta il dipartimento della guerra e negoziò una soluzione politica personale con gli austriaci. Senza

alcuna autorizzazione da Parigi ordinò la chiusura dei club giacobini, restituì gli arredi alle chiese belghe e firmò un armistizio col nemico che prevedeva la consegna di diverse piazzeforti lungo la frontiera settentrionale [Sutherland 1985, 168]. Quando fece l'ulteriore passo di volgere la propria armata contro la repubblica a difesa della costituzione ormai screditata del 1791, i soldati rifiutarono di seguirlo e Dumouriez emigrò. Il danno per il morale fu incalcolabile. A nord gli austriaci approfittarono dello sconcerto francese e attraversarono la frontiera assediando diverse città tra cui Valenciennes; a est i prussiani tagliarono fuori un'armata francese a Magonza; nei Pirenei le forze spagnole contrattaccarono conquistando una serie di villaggi sul lato francese del confine e avanzando su Perpignan. Nell'estate del 121

1793 la situazione militare si era fatta di nuovo disperata, ed era complicata dal fatto che l'insurrezione della Vandea bloccava alcune truppe a occidente. Agli occhi di molti l'amministrazione girondina era colpevole di incompetenza sul piano militare e di connivenza con i traditori. Fu nei mesi della repubblica giacobina che le sorti militari francesi mutarono nuovamente e il paese venne liberato dagli eserciti stranieri. Fu anche il periodo in cui la gestione dell'esercito passò sempre più strettamente sotto il controllo del Comitato di salute pubblica, e in particolare del membro del comitato più interessato alle faccende belliche, Lazare Carnot. Nel sudovest gli spagnoli furono respinti dai Pirenei orientali e i combattimenti proseguirono su suolo spagnolo, mentre a nord le truppe repubblicane dimostrarono di saper affrontare e sconfiggere i migliori eserciti d'Europa. Il 26 giugno gli austriaci furono travolti a Fleurus e i francesi si trovarono ancora una volta nella condizione di poter attaccare il Belgio. Poco più di una settimana dopo le armate di Pichegru e Jourdan erano sul punto di conquistare Bruxelles e Anversa; la minaccia dal nord non esisteva più. E con la richiesta di pace avanzata da prussiani e austriaci - la Prussia era di gran lunga più interessata ai vantaggi territoriali che si profilavano dalla spartizione della Polonia - si sgretolò in pratica la prima coalizione. L'accordo fu raggiunto col trattato di Basilea firmato con la Prussia il 5 aprile del 1795, che spaccò l'alleanza piuttosto traballante della Prussia con l'Austria e riconobbe il diritto francese alla riva

sinistra del Reno. Ciò a sua volta permise al governo francese di imporre le proprie condizioni agli olandesi col trattato dell'Aja e di preparare l'annessione permanente del Belgio. La Spagna firmò la pace due mesi dopo. La vittoria Dopo l'estate del 1794 la Francia'non era più minacciata d'invasione e l'obiettivo primario della guerra, salvare la patria in pericolo, era un fatto compiuto. Determinante era pure il fatto che la Francia non doveva più affrontare a est le forze alleate di Austria e Prussia; la Prussia non aveva interesse a riprendere le ostilità e l'Austria aveva ora come 122

alleati un numero sparuto di elettorati tedeschi. Rimaneva però il problema della Gran Bretagna che, nonostante i trattati con la Prussia, l'Olanda e la Spagna, era ancora in guerra e mirava ad aprire un nuovo fronte in Bretagna confidando nell'aiuto di Puisaye e di un'armata di chouans (i contadini-guerriglieri insorti nella regione). Il risultato, lo sbarco nella penisola del Quiberon del giugno 1795, fu un disastro per i britannici, in quanto Hoche li isolò insieme agli alleati e li respinse in mare. Il governo francese però prese sul serio il tentativo, e ciò rese più duro il suo atteggiamento. Questa seconda fase della guerra si differenziò per un aspetto importante dalle campagne del 1793 e del 1794. La guerra che i termidoriani e il Direttorio si trovarono a gestire non aveva lo scopo di salvare la Francia dai suoi nemici, di difendere una rivoluzione minacciata dai suoi avversari ideologici. A dire il vero, essa aveva ben poco di ideologico: era una pura e semplice guerra di conquista scatenata dalla rivoluzione per sfruttare i successi precedenti e per garantire l'approvvigionamento di generi alimentari e altri materiali dall'Europa continentale. Le ambizioni militari francesi sembravano senza limiti. All'altezza del 1797 la Francia aveva messo in piedi una serie di stati cuscinetto a protezione delle sue conquiste militari, come la Repubblica batava in Olanda e la Repubblica elvetica in Svizzera; le truppe francesi si erano inoltre macchiate del peggiore degli oltraggi, penetrando nella città di Roma. A Campoformio nel mese di ottobre gli austriaci furono costretti ad accettare le condizioni poste da Bonaparte e l'Italia settentrionale

rimase alla mercé dei francesi. Anche la vittoria portò comunque i suoi problemi. Il Direttorio era impopolare in patria in quanto giudicato generalmente burocratico, corrotto e oppressivo, mentre all'estero gli eserciti francesi riportavano sonanti vittorie e sembravano incarnare tutta la gloria e il patriottismo del sogno rivoluzionario. Il Direttorio vedeva nella guerra uno strumento per tenere alto il morale e per distogliere l'attenzione dagli insuccessi interni; tuttavia l'alto comando militare diveniva sempre più indipendente e guardava con sempre maggiore disprezzo i politici da cui prendeva ordini. Bonaparte era più degli altri in condizione di prendere le distanze dal Direttorio: in qualità di comandante in capo 123

delle armate dislocate in Italia godeva di una rara autonomia economica che gli derivava dai frutti dei suoi saccheggi e non trascurava di rafforzare la sua popolarità con una serie di giornali destinati alle truppe. Sulle pagine di «La France vue de l'Armée d'Italie», ad esempio, sia ifrancesi in patria che i soldati al fronte potevano leggere gli» sfoghi moralistici di un Bonaparte che sfidava nobilmente la corruzione dilagante attorno a lui: «Ho veduto dei re ai miei piedi», scriveva nel 1797, «avrei potuto avere cinquanta milioni nei miei forzieri, avrei potuto esigere ben altro: ma io sono cittadino francese e il primo generale della Grande Nazione; so bene che la posterità mi renderà giustizia» [Tulard 1977, trad. it. 1994, 99]. In pratica però si considerava molto più di un generale della Grande Nazione in quanto poteva fare affidamento sulla lealtà dei suoi uomini anche quando agiva contravvenendo agli ordini di Parigi. Nel 1797 fu Bonaparte, non i membri del Direttorio, a prendere decisioni politiche importanti in Italia settentrionale. Fu lui a dichiarare guerra a Venezia, a fissare le clausole della pace di Campoformio, a trasformare la Lombardia in Repubblica cisalpina e a impadronirsi di Genova per ottenere uno sbocco sul mare. Il suo prestigio sminuiva la reputazione dei politici e gli assicurava quel trampolino di lancio di cui si sarebbe servito per conquistare il potere col colpo di stato di brumaio. Il colpo di stato, la conquista cioè del braccio politico del governo da parte di quello militare, mutò la natura del

governo rivoluzionario e fu in pratica il suggello finale della rivoluzione stessa. Fu l'esempio estremo, durante il decennio rivoluzionario, dell'impatto della guerra sulle istituzioni politiche francesi, ma non l'unico. Sin dall'avvio delle ostilità nel 1792, la guerra aveva avuto importanti ripercussioni sulla Francia rivoluzionaria, rimescolando le priorità nazionali e limitando le possibili scelte dei leader. Ne fu toccata persino l'ideologia rivoluzionaria, e il generoso messaggio universalistico del 1789 cedette il passo a una visione molto più patriottica ed esclusiva della nazione. Mentre l'Assemblea nazionale aveva apprezzato che persone come Paine, Anacharsis Cloots e tutti gli altri «cittadini del mondo» facessero causa comune con la Francia, la dichiarazione di guerra fece di tutti costoro dei nemici, schiavi di tiranni e 124

spie potenziali. Solo i francesi erano i depositari delle qualità che costituivano la virtù repubblicana. E sebbene fosse invariabilmente la Francia a dichiarare guerra, i repubblicani non faticarono molto a convincersi di essere, insieme alle loro istituzioni e ai loro valori, le vittime designate. Norman Hampson ha discusso l'ambiguità del termine patrie e ha mostrato come i suoi due significati si fondessero all'indomani della dichiarazione di guerra. «La nuova Francia, i cui cittadini si presumeva che si identificassero con la comunità di cui eleggevano legislatori, amministratori, giudici e sacerdoti, potè sopravvivere solo proteggendosi dall'invasione straniera» [Lucas 1988, 132]. Finché il paese rimase in guerra i rivoluzionari avrebbero fatto appello alla passione patriottica, alla difesa del suolo nazionale; quello che però invocavano era anche la sopravvivenza della virtù, della patrie in senso repubblicano. Gli storici hanno dibattuto a lungo sul ruolo che la guerra ebbe nella liquidazione del liberalismo rivoluzionario. Per alcuni la negazione del liberalismo era un elemento portante di un'ideologia repubblicana che aveva trovato espressione ben prima della sospensione del re: gli istinti autoritari dei rivoluzionari risalirebbero al periodo della monarchia costituzionale, all'idea che la sovranità derivasse dal popolo e non potesse essere divisa o alienata. L'essenza della repubblica, secondo Pierre Nora, si era già affermata nel giugno del 1789 quando gli Stati generali avevano accettato il loro nuovo ruolo di assemblea nazionale

[Furet e Ozouf 1988, trad. it. 1988, 107]. Altri studiosi invece, partendo da una concezione meno ideologica della repubblica, sono giunti ad accettare l'idea che la deriva autoritaria affondasse le sue radici nei problemi quotidiani posti dall'approvvigionamento alimentare, dalla controrivoluzione e dalla guerra. Naturalmente, le sezioni di Parigi invocavano con veemenza il ricorso all'arma del Terrore contro gli accaparratori e i traditori; le sollevazioni realiste e le macchinazioni dei preti refrattari non facevano che amplificare il loro grido di allarme. Tuttavia per molti fu la guerra, e la necessità di mantenere truppe alle frontiere, a garantire il fallimento della moderazione. La guerra infatti generò paura e invidia. Paura della sconfitta, paura di rappresaglie sanguinose, paura 125

degli aristocratici e dei realisti che erano i nemici dichiarati del nuovo ordine, paura di una restaurazione dei Borboni; questi erano tutti argomenti potenti a favore di un rafforzamento dei controlli e della centralizzazione. A innescare i massacri di settembre nelle prigioni cittadine di Parigi era stato in sostanza il timore delle sanguinose conseguenze della sconfitta militare. La guerra e i sacrifici da questa imposti crearono però anche una politica dell'invidia: invidia verso coloro che cercavano di sfuggire al servizio militare, che continuavano a commerciare e ad accumulare mentre altri offrivano la propria vita alla patrie. Il pensiero che alcuni riuscissero a eludere le loro responsabilità e continuassero ad accumulare ricchezze non solo ossessionò i poveri, ma contribuì anche a rafforzare la volontà di patrioti e giacobini nell'imporre sacrifici che colpivano tutti in egual misura; fermezza che portò all'insistenza sul dovere pubblico, a una sorveglianza più rigorosa e in definitiva al Terrore. Effetti della riforma delle forze armate In un paese in guerra - si affermava - l'esercito esigeva che anche i sacrifici dei civili fossero visibili, che non fossero solo i soldati a sopportare tutto l'onere del conflitto. Ciò era particolarmente vero in una società rivoluzionaria in cui le forze armate erano fatte di cittadini, uomini con diritti e opinioni politiche proprie, che si infuriavano se le pensioni non venivano pagate alle mogli e ai familiari, e reclamavano vendetta quando le loro razioni alimentari venivano lasciate

marcire da appaltatori corrotti. Nel 1789 i soldati si erano uniti alle folle parigine sulla piazza della Bastiglia per combattere la tirannia; e a Nancy nel 1790 si erano ammutinati ai loro ufficiali chiedendo paghe più alte e migliori condizioni di vita. I rivoluzionari, dal canto loro, si trovarono sempre più a dover fare affidamento sulle virtù del soldato qualunque, sul suo senso del dovere, del servizio, della giustizia più elementare; non potevano fidarsi, infatti, degli ufficiali ereditati dall'esercito regio degli anni Ottanta. A partire dall'ordinanza Ségur del 1781, la legge aveva prescritto che gli ufficiali dovevano appartenere alla nobiltà: lontani per educazione, addestramento militare e senso del 126

privilegio dai loro sottoposti. Spesso i figli e i fratelli minori degli emigrés, avevano ben poche ragioni di amare la rivoluzione: avevano prestato giuramento di fedeltà al re, e molti di loro non sapevano nulla della sovranità popolare. Quando si trovarono di fronte all'alternativa tra servire una rivoluzione alla quale si sentivano sempre più estranei o servire il re in esilio, molti preferirono abbandonare il servizio ed emigrare (carta 8). Ciò accadde in particolare dopo la fuga di Luigi a Varennes: tra la metà di settembre e l'inizio di dicembre del 1791 circa 2.160 ufficiali optarono per l'emigrazione [Scott 1978, 106-8]. Il governo aveva tutte le ragioni di diffidare di coloro che erano rimasti. I rivoluzionari trovarono nuovi ufficiali nei ranghi stessi dell'esercito, tra i molti caporali e sergenti che si erano distinti nelle guerre di fine Settecento ma che nei reggimenti reali non avrebbero potuto aspirare realisticamente alla carriera. La decisione di basare le promozioni sul valore anziché sulla nascita rappresentò un attacco alla gerarchia proprio nell'istituzione che più si conformava al principio gerarchico. Essa contribuì anche a forgiare un esercito molto diverso, in cui gli ufficiali parlavano lo stesso linguaggio dei loro uomini e in cui la disciplina era basata sul consenso e sul reciproco rispetto. I nobili che rimasero ai loro posti di comando - molti anche sotto la repubblica giacobina - erano tenuti a giustificare le proprie azioni sia davanti ai propri subalterni sia davanti ai deputati in missione e ai commissari politici che seguivano l'esercito. In quanto cittadini, i soldati

avevano diritti politici nuovi e fino ad allora inconcepibili [Bertaud 1979]. Nel 1793-94 furono incoraggiati a cantare canzoni patriottiche, leggere giornali radicali e frequentare le riunioni dei club giacobini nelle città in cui erano di guarnigione. Avevano anche facoltà di denunciare i loro ufficiali se si sentivano traditi o se scelte tattiche inadeguate portavano a perdite inutili. Al loro arrivo presso l'Armata del Reno, Saint-Just e Le Bas emanarono un proclama che si rivolgeva direttamente alle truppe. La vittoria poteva essere conquistata solo restando uniti e smascherando i traditori. «Se ci sono tra voi», dissero agli uomini, «traditori o uomini indifferenti alla causa del popolo, noi portiamo la spada che li colpirà. Soldati! Siamo venuti a vendicarvi e a portarvi dei capi che vi condurranno alla vittoria. Siamo decisi a far 127

emergere i meritevoli, a premiarli e incoraggiarli, e a perseguire ogni tipo di crimine, chiunque possa averlo perpetrato » [Hampson 1991, 146]. Come forma di educazione politica poteva essere dolorosa: nella sola regione settentrionale nel giro di un anno vennero ghigliottinati tre generali dell'esercito.

La rivoluzione non aveva bisogno solo di nuovi ufficiali ma anche di soldati per completare i ranghi, uomini che dovevano essere orgogliosi di servire una causa in cui credevano. Il morale del vecchio esercito infatti era basso. Troppo spesso nel Settecento ci si arruolava perché non si vedeva alternativa al servizio militare, perché non si trovava posto nella società civile. Spesso erano i figli più giovani di contadini poveri che, senza alcuna speranza di ereditare terre, erano condannati a un'esistenza ai margini della vita di villaggio. Alcuni entravano nell'esercito per sfuggire alla legge dopo una intemperanza giovanile oppure ai genitori dopo una lite in famiglia. Molti erano costretti con la forza ad arruolarsi. E una volta nell'esercito la disciplina veniva mantenuta con metodi aspri e brutali che garantivano la sottomissione piuttosto che legami di fedeltà e di fiducia. I rivoluzionari erano convinti che un esercito siffatto fosse poco adatto ai compiti che doveva affrontare, e l'alto tasso di ammutinamenti e diserzioni dei primi mesi della rivoluzione li obbligò a trovare rapidamente nuovi soldati. Come raggiungere però tale risultato? Nel 1791 e nel 1792 il governo era ancora dell'avviso che i ranghi potessero essere completati

facendo appello ai volontari, ma tale speranza si rivelò ben presto illusoria. E quando iniziò la guerra le prime sconfitte e le scelte tattiche che richiedevano un gran numero di fanti determinarono una grave carenza di risorse umane. A partire dalla primavera del 1793 furono fissati dei contingenti che le comunità locali erano tenute a fornire, e dall'agosto di quell'anno - il mese della famosa levée en masse, la coscrizione generale - Parigi pretese che un sorteggio stabilisse quali giovani in ogni comune avrebbero dovuto arruolarsi nell'esercito. Con la coscrizione generale si proibì anche la compravendita di sostituti: per la prima volta si cercò di costringere tutti i designati - anche i ricchi o quelli con amicizie altolocate - a svolgere quel servizio che era implicito nel concetto di cittadinanza. 128

CARTA 2. La suddivisione della Francia in dipartimenti nel 1790. Fonte: Sutherland [1985].

CARTA 4. Numero delle sentenze capitali emesse durante il Terrore, per dipartimento. Fonte: Greer [1935].

CARTA 7. Le campagne militari òéYarmée da nord (1792-1794). Fonte: Lynn [1984].

Un 'economia di guerra Gli eserciti non avevano solo bisogno di uomini ma anche di rifornimenti sicuri, specie nei primi mesi di guerra durante i quali le truppe francesi rimasero inchiodate sul suolo nazionale. Era una necessità urgente: la rivoluzione sapeva bene che truppe affamate avrebbero cercato di riempirsi la pancia saccheggiando e depredando il territorio, e che ciò avrebbe provocato ostilità e sconcerto tra i ranghi. Con migliaia di uomini schierati in certe regioni del paese era inoltre inconcepibile pensare di dipendere dai contadini del luogo o dal mercato locale per soddisfare le esigenze alimentari. La Francia fu quindi costretta ad adottare controlli sempre più stretti sull'economia. Il sostegno al libero mercato dovette essere attenuato per permettere le requisizioni su vasta scala imposte dalle necessità dell'esercito. Gli agricoltori furono costretti a vendere i loro prodotti sul mercato locale, dove, durante il governo dei giacobini, i prezzi vennero fissati dalla legge sul maximum generale. Gli appaltatori di forniture militari furono autorizzati a effettuare acquisti massicci, spesso suscitando l'ostilità delle popolazioni locali. Intere regioni furono dichiarate aree di approvvigionamento dalle quali l'esercito poteva attingere i suoi vitali rifornimenti di grano, farina, carne, verdure e vino. Sappiamo anche che nei periodi di penuria i deputati in missione permisero all'esercito di pagare prezzi ben superiori al massimo fissato: si infrangeva la legge per garantire che le truppe non soffrissero la fame. La rivoluzione in

sostanza si stava muovendo sempre più decisamente verso un'economia di guerra le cui priorità erano necessariamente diverse da quelle prevalenti in tempo di pace: sfamare i soldati per mantenere un minimo senso di benessere fra le truppe divenne una delle priorità assolute dello stato. E non erano solo i generi alimentari a dover essere requisiti. I controlli furono rapidamente estesi ad altri prodotti, in quanto chi si occupava degli approvvigionamenti cercava di garantire che l'esercito disponesse delle risorse necessarie per combattere efficacemente. I soldati dovevano essere vestiti oltre che sfamati, in un'epoca in cui il paese non possedeva ancora l'infrastruttura industriale in grado di fornire uniformi a centinaia di migliaia di uomini. In un 129

primo momento le soluzioni adottate furono semplici, addirittura alquanto primitive: le municipalità erano tenute a fornire un'uniforme completa a ogni uomo arruolato nell'esercito. Nel 1793 però queste soluzioni abborracciate si rivelarono manifestamente inadeguate al compito e il governo fu costretto a ordinare quantità fisse di giacche, pantaloni e camicie alle cucitrici di Parigi e di altre città. Durante la permanenza di Bouchotte al ministero della Guerra, gran parte del lavoro fu affidato a officine pubbliche messe in piedi nelle sezioni parigine, che assicuravano al governo migliori strumenti di pressione e controllo. L'epoca rivoluzionaria fu tuttavia contrassegnata da continue lamentele, e ancora nell'anno VII era chiaro che l'industria dell'abbigliamento, con le sue piccole unità produttive domestiche, non era all'altezza del compito, se non con grandissima difficoltà. Altrettanto problematico era l'approvvigionamento di stivali, che dipendeva dall'organizzazione di migliaia di cordonniers e sabotiers, piccoli artigiani di quartiere che improvvisamente si trovarono ingaggiati dagli appaltatori di forniture statali. Nell'anno II Bouchotte ordinò che ogni calzolaio francese producesse una quantità fissa di stivali per l'esercito, in proporzione al numero dei dipendenti; ci fu addirittura un periodo di crisi, nell'inverno del 1793-94, in cui ai calzolai fu imposto di lavorare esclusivamente per l'esercito [Forrest 1990, 1401]. Eppure il problema rimaneva nevralgico. Nel ventoso dell'anno II Celliez scrisse dal nord che la penuria di calzature faceva infuriare gli uomini dell'Armata del Nord. «Molti vanno ancora a piedi nudi, senza nemmeno gli zoccoli;

circolano voci irate tra i ranghi e gli uomini hanno paura di trovarsi ancora in queste condizioni quando cominceranno le campagne» [Soboul 1959, 159]. Per chi si occupava di forniture militari, cibo, vestiario e calzature erano un grosso problema, sintomatico di una crisi più generale. I soldati avevano bisogno di armi e polvere, tende e coperte, e troppo spesso ne erano privi. Quando combattevano con le picche, simbolo àeìYélan repubblicano, lo facevano per necessità e in mancanza d'altro, checché ne dicessero i politici. Collot d'Herbois lanciò nel settembre del 1793 un memorabile proclama: «Non è la baionetta, l'arma bianca, che decide la superiorità dei francesi sugli schiavi dei tiranni?» [Bertaud 1979, 162]. Il suo, però, non 130

era che il tentativo di ammantare di audacia una situazione disperata. La rivoluzione ebbe a disposizione armerie statali in grado di fabbricare armi da fuoco, ma mai in misura sufficiente a soddisfare le necessità di un paese in guerra. Le armi dovevano, oltretutto, essere riparate: nelle retrovie degli eserciti la repubblica requisiva fabbri, armaioli e lavoratori del metallo per i depositi militari preposti alle riparazioni di emergenza. Alle famiglie fu chiesto di raccogliere salnitro nelle cantine per rimediare alla penuria di polvere da sparo che rischiava di mettere in pericolo l'intero sforzo bellico. Un problema costante fu la legna da ardere, in particolare d'inverno, nelle zone montuose dell'Italia settentrionale: fu necessario requisire boschi interi per evitare che i soldati morissero congelati. E anche quando tutti questi beni essenziali erano disponibili, le armate avevano ancora il problema di trasportarli al fronte, il che costituiva una vera e propria impresa. Anche in questo settore le risorse dell'esercito erano spesso insufficienti, e il governo fu costretto a confiscare grandi quantitativi di carri agli abitanti delle campagne. Anche il bestiame veniva requisito, dai cavalli ai buoi, dai muli agli asini; il colpo era durissimo soprattutto per i contadini più poveri che avevano bisogno dei loro animali per arare i campi, mietere e anche, particolare di vitale importanza, per concimare il terreno. Quando si aggiungeva alla partenza dei figli prelevati dai sergenti reclutatori, la perdita degli animali poteva risultare insostenibile per un'economia rurale già allo stremo.

L'economia di guerra lasciava poco spazio al laissezfaire, e i principi economici liberali dell'Ottantanove furono ben presto sacrificati a esigenze più immediate. Con l'estendersi del fronte la rivoluzione approvò leggi su leggi che regolavano il commercio e introducevano controlli sui prezzi, sperando con questi mezzi di costringere i produttori a vendere e di colpire il fiorente mercato nero. Questi controlli avevano anche un aspetto morale: con tanti giovani chiamati a servire la repubblica in guerra, i sanculotti e i giacobini credevano che a quelli abbastanza fortunati da essere sfuggiti al servizio attivo si dovesse impedire di prosperare a spese dei concittadini. I profitti divennero motivo di sospetto, e l'interesse privato fu contrapposto all'interesse pubblico, all'interesse della comunità intera. Naturalmen131

te c'erano possibilità eli guadagno, soprattutto per gli appaltatori di forniture militari e per coloro che erano in grado di sfruttare le economie degli stati occupati. I successi sui fronti europei spalancarono nuovi mercati ai prodotti francesi. L'entrata in guerra della Gran Bretagna fu un duro colpo per il normale commercio di import-export, e il protezionismo potè essere presentato come il solo modo efficace per garantire che tutti i francesi avessero di che sopravvivere. L'allargamento delle operazioni belliche alla costa atlantica e l'affondamento di navi mercantili a opera della flotta da guerra britannica provocarono il tracollo di gran parte del commercio francese con le colonie e con l'America, condannando i porti atlantici francesi a una severa recessione e costringendo la rivoluzione a dipendere molto di più dalle proprie risorse economiche interne [Forrest e Jones 1991, 40-1]. Il giudizio sugli effetti della guerra sull'economia dipende in gran parte dal punto di vista politico dell'osservatore. Per storici marxisti come Albert Soboul la guerra fu il catalizzatore che permise al Comitato di salute pubblica di prendere misure nel senso di un'economia controllata, cosa che a sua volta contribuì a porre le fondamenta di una società più giusta e più equa. Il Comitato cercò di mobilitare tutta la società francese, e per la prima volta la ricerca scientifica fu posta al servizio della difesa nazionale. C'è chi ha colto in questo approccio un elemento di progresso e di opposizione al privilegio consolidato [Soboul 1962, trad. it.

1964, 358]. I sostenitori delle idee liberali in campo economico d'altra parte giudicano negativo il bilancio complessivo e ritengono che i controlli resi possibili dalla guerra vanificassero molti dei primi successi del periodo rivoluzionario. Florin Aftalion espone questa tesi con argomentazioni convincenti. Dopo aver ammesso che le misure contro le gilde e le corporazioni avevano contribuito a emancipare il commercio dai vincoli del Settecento, coglie nella guerra una svolta nella storia economica "del decennio rivoluzionario. «La tradizione protezionistica che la Rivoluzione avrebbe potuto rompere fu in realtà definitivamente consacrata in questo periodo, e sarebbe durata, con conseguenze distruttive incalcolabili, fino ai nostri giorni» [Aftalion 1987, 253, trad. it. 1988]. 132

Che la guerra avesse ripercussioni importanti sulla politica interna della rivoluzione è indubitabile. Altrettanto importante però fu il suo effetto sull'immagine della Francia e del suo governo presso gli stranieri. Le reazioni iniziali alla rivoluzione, almeno tra i liberali, erano spesso state estremamente favorevoli: in Olanda, Gran Bretagna, Svizzera e molti degli stati tedeschi i pensatori più moderni erano stati tra i sostenitori più appassionati della Francia rivoluzionaria. L'esperienza pratica della guerra li portò tuttavia a rivedere l'entusiasmo iniziale. Con l'avanzata delle armate francesi in Europa divenne sempre più evidente che i pays ennemis e i pays conquis potevano aspettarsi ben poca generosità dalla Francia. Furono asserviti agli interessi nazionali francesi e annessi alla Francia come nuovi dipartimenti (come nel caso belga) o trasformati in repubbliche sorelle (come quella batava e quella elvetica) più o meno secondo il capriccio di Parigi. I francesi ridefinirono i confini nazionali, proclamarono la necessità di fissare frontiere «naturali» e rivendicarono il diritto di imporre le istituzioni politiche agli stati conquistati. La causa della libertà e dell'autodeterminazione era stata rapidamente accantonata; la Francia sembrava perseguire fini molto più egoistici quali la sicurezza nazionale e la convenienza diplomatica. Inoltre, tutte le innovazioni che gli eserciti francesi portarono ai popoli d'Europa arrivarono sulla scia dell'occupazione e della conquista. Era del tutto naturale che belgi, italiani e tedeschi avessero un'idea dei loro interessi nazionali

del tutto diversa da quella prevalente a Parigi. Inoltre il ricordo dell'occupazione francese era recente e assai sgradevole. Le armate francesi avevano ordine di sostentarsi a spese dei territori occupati; lo scopo primario delle annessioni fu infatti non la liberazione di popoli oppressi dalla tirannide quanto piuttosto l'acquisizione di generi alimentari e rifornimenti a beneficio dell'apparato militare. Il 18 settembre 1793 il Comitato di salute pubblica ordinò ai comandanti di reperire nei territori occupati, per quanto possibile, tutte le provviste, il vestiario, le armi e l'equipaggiamento di cui avevano bisogno. Nel maggio dell'anno seguente furono istituite quattro agences de commerce con il preciso mandato di evacuare i materiali essenziali dai territori occupati, non solo oggetti d'importanza strategica per 133

la guerra ma anche opere d'arte e tesori nazionali. Gli effetti furono in qualche caso devastanti: in Belgio, ad esempio, metà del raccolto di grano del 1795 fu requisita a beneficio delle truppe francesi. E questo fu solo il prezzo che le popolazioni locali dovettero pagare sotto forma di requisizioni ufficiali: oltre a questo c'erano i costi dell'altra faccia dell'occupazione, il mantenimento dell'esercito occupante. Come tutti gli eserciti nel Settecento, anche quello francese trattò le popolazioni locali con la brutalità del conquistatore: il saccheggio e il bottino erano considerati naturali complementi di una guerra continentale. I campi erano regolarmente spogliati delle loro messi e gli agricoltori erano costretti a rinunciare ai carri, ai cavalli, al bestiame, a materassi e coperte, agli utensili da cucina. Nonostante purghe occasionali come quella attuata da Saint-Just sul Reno, i francesi tentarono con assai poca sistematicità di scoraggiare i saccheggi. Le popolazioni locali non avevano altra scelta se non quella di tollerare tali spoliazioni, ma non erano certo obbligate a fingere esultanza per essere state liberate dai francesi o a nutrire simpatia per quella rivoluzione nel cui nome la liberazione era stata compiuta [Furet e Ozouf 1988, trad. it. 1988, 101-109]. Per quanto i generali si sforzassero di instillare zelo patriottico nelle loro truppe, la guerra tolse alla rivoluzione gran parte del suo idealismo. Nel 1795 - ma in grande misura anche prima - le guerre rivoluzionarie erano diventate guerre di conquista combattute per conseguire guadagni territoriali da truppe che prima di tutto si consideravano

militari di professione. E la rivoluzione sopportò costi enormi: le spese per guerre che si svolgevano su scala tanto vasta e su tante frontiere diverse alimentarono l'inflazione e spinsero il paese sulla china del dirigismo economico, contribuendo a creare una situazione favorevole al Terrore e all'intolleranza politica. Inoltre, assorbendo una quota importante dell'attenzione e delle risorse del governo, l'impegno bellico impedì che altre ambizioni rivoluzionarie venissero perseguite e realizzate. La guèrra, in altri termini, pervertì la rivoluzione e la sviò dagli obiettivi originari. Da questo punto di vista si può dire che essa ebbe molto in comune con il fenomeno della controrivoluzione che, in forme differenti, fu una spina nel fianco dei rivoluzionari per tutto il decennio 1790-1800. 134

CAPITOLO QUINTO L'OPPOSIZIONE Gli uomini dell'Ottantanove avevano sperato di costruire una nuova Francia fondata sugli ideali di libertà e uguaglianza di fronte alla legge. Il loro sogno era una nazione liberata dall'assolutismo monarchico ed emancipata dall'autorità clericale e dal potere feudale. L'ordine rivoluzionario era identificato con la libertà, con l'emancipazione del popolo francese dagli oppressori tradizionali. I francesi non erano sudditi ma cittadini, e come tali erano invitati a partecipare massicciamente alla vita politica attraverso il voto, il dibattito politico, la lettura dei giornali, l'iscrizione ai club. Già nel 1789 però c'erano persone - vescovi e abati, nobili e cortigiani - che, vedendo restringersi gli spazi attorno a sé nel nuovo ordine, cercarono scampo nell'emigrazione. Il corpo degli ufficiali dell'esercito, come abbiamo visto, ne risultò rapidamente decimato; e la fuga del re bloccata a Varennes nel 1791 servì a convincere molti altri che per loro nella Francia rivoluzionaria non c'era futuro. Per i realisti l'alternativa era davvero radicale: obbedire al governo o seguire i dettami della coscienza e rimanere fedeli al re. Molti trovarono difficile tollerare i precetti della monarchia costituzionale, e il punto di rottura giunse con la decisione di proclamare la repubblica nel 1792; altri furono aizzati contro la rivoluzione dalla minaccia alla gerarchia sociale, dalla scoperta che la rivoluzione era per sua natura nemica

della nobiltà e intollerante verso il privilegio. Molti di loro presero la via di Torino o Milano, Londra o Madrid, dove cercarono di ricreare la società di corte cui erano appartenuti; altri si sarebbero arruolati nelle forze armate realiste per combattere per la restaurazione delle istituzioni monarchiche: furono questi i veri controrivoluzionari, coloro che avversarono i principi stessi su cui si fondava la rivoluzione. A differenza di quanti emigrarono successiva135

mente, pochi rimasero affascinati dal Direttorio o dall'età napoleonica. Il loro ritorno, quando avvenne, dovette attendere la restaurazione borbonica del 1814. La controrivoluzione Non diversamente dalla rivoluzione, anche la controrivoluzione ebbe i propri teorici e apologeti intellettuali, molti dei quali fuggirono dalla Francia tra il 1789 e il 1792 e continuarono a scrivere dall'esilio. Il più famoso fu Jacques Mallet du Pan, autore delle Considérations sur la revolution en Trance, pubblicate a Bruxelles nel 1793, che criticò il concetto di rivoluzione sociale in quanto costituiva un pericolo per l'ordine e consegnava il governo del paese alle folle. Realisti arrabbiati come Rivarol posero al servizio del re il loro spiccato talento giornalistico, parodiando le conquiste rivoluzionarie e facendo dell'Assemblea nazionale il bersaglio di una satira estremamente feroce ed efficace. Altri, come Vabbé Royou, adottarono un ruolo più tattico e cercarono di suscitare l'interesse di una platea più ampia di lettori predicando un'ideologia realista più moderata e una visione profondamente conservatrice del cattolicesimo [Chisick 1992, 63]. Molti pubblicisti dell'epoca preferirono anzi considerare una sola cosa l'attacco alla monarchia e l'attacco alla chiesa, additandoli come strade pericolose verso l'anarchia. Il più eminente fra loro fu probabilmente Vabbé Barruel, che non solo respinse - cosa prevedibile - la Costituzione civile del clero, ma si spinse fino a mettere in discussione la

filosofia individualistica che era alla base di tutto il pensiero rivoluzionario. Barruel rimproverava alla rivoluzione una concezione dello stato come luogo d'incontro di interessi individuali, alla quale preferiva, nella migliore tradizione de\V ancien regime, una concezione corporativa: come ha notato Jacques Godechot [1961, trad. it. 1988, 64-5], per Barruel lo stato «è formato da tutta una serie di famiglie; la nazione è la riunione di tutte le famiglie e il re è, in un modo o nell'altro, il padre di famiglia di tutta la Francia». Queste idee ebbero i loro sostenitori negli Stati generali e nelle prime assemblee rivoluzionarie: tra i monarchici più eloquenti ci furono non a caso leader politici della prima ora 136

come Cazalès e Maury, uomini di indole profondamente conservatrice che guardavano al re come fonte di quella stabilità che la nazione richiedeva. Tuttavia nei primi mesi della rivoluzione la loro opposizione fu episodica e inefficace; nonostante il numero - tra il 1789 e il 1791 riuscirono a raccogliere circa trecento sostenitori in parlamento - si dimostrarono incapaci di formulare un programma alternativo comune. Ciò fu vero in particolare nel 1789, allorché non riuscirono a concordare alcuna contromossa per risolvere la crisi che incombeva sul popolo francese. I più conservatori tra loro abbracciarono il programma di riforma del re, abbozzato nella séance royale del 23 giugno e subirono come un oltraggio l'intervento delle folle parigine che nell'ottobre invasero Versailles e riportarono nella capitale la famiglia reale. La loro opposizione rimase però piuttosto sterile, forse perché non tutti erano motivati dalle stesse aspirazioni. Gli assolutisti volevano che ai Borboni venissero restituiti poteri illimitati, mentre altri erano molto più interessati a rafforzare la posizione sociale della nobiltà o i poteri del clero, e vedevano in Luigi poco più che uno strumento per conseguire tali obiettivi; e tra i conservatori c'erano molti che non rifiutavano in loto la rivoluzione, che erano favorevoli al rovesciamento del regime assolutistico e auspicavano l'istituzione in Francia di una potente monarchia costituzionale in grado di difendere i loro valori. Insieme non formavano un partito unico né avevano interessi comuni; persino i loro obiettivi sul piano sociale erano confusi. Il linguaggio antirivoluzionario dei primi anni fu in realtà contraddittorio:

da un lato cercava di difendere i valori della proprietà dalla violenza popolare della strada, dall'altro si proponeva di approfittare dello scontento popolare denunciando l'egoismo borghese. Se gli avversari della rivoluzione sottolineavano la propria fedeltà al re, era in parte perché la monarchia - di qualsiasi tipo fosse - era una delle poche cose in grado di unirli contro gli elementi più repubblicani e libertari del pensiero rivoluzionario. L'opposizione non era limitata naturalmente ai realisti e agli aristocratici, né, va detto, ebbe necessariamente motivazioni ideologiche. Nel 1789 gran parte delle persone di idee progressiste aveva appoggiato iniziative di carattere generale quali la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadi137

no; più tardi, tuttavia, la rivoluzione avrebbe imboccato con sempre maggiore precisione il sentiero della correttezza politica, creando in tal modo nuovi nemici dai suoi stessi ranghi. I repubblicani non mostrarono grande tolleranza per i monarchici costituzionali, e lo stesso fecero i giacobini con i girondini. Con l'intensificarsi del ritmo di avvicendamento dei governi divenne difficile resistere, e coloro che si erano identificati con un precedente regime si vedevano esclusi dai centri di potere e denunciati quali nemici della rivoluzione, della repubblica e del popolo. Nel 1793 non erano più considerati criminali solo i realisti e gli emigrati: di volta in volta tale etichetta sarebbe stata attribuita a foglianti e moderati, girondini e amici di Danton, federalisti e hébertisti. Dopo il termidoro, toccò agli ex amici di Robespierre sopportare l'esclusione dal corpo politico e il patibolo. La virtù politica, chiaramente, non era suddivisibile; non apparteneva ai rivoluzionari e nemmeno ai repubblicani, ma alla specie giusta di repubblicani, coloro la cui ideologia coincideva con quella del gruppo dirigente del momento. Ciò naturalmente ebbe conseguenze importanti per la stessa rivoluzione: spinse all'opposizione molti che in precedenza erano stati ben disposti nei confronti del nuovo ordine politico, e creò sacche di ribellione e di scontento da cui gli oppositori viscerali della rivoluzione poterono sperare di attingere. La maggioranza dei francesi aveva scarso interesse per le sottigliezze degli ideologi parigini. Non aveva alcun desiderio di lasciarsi infastidire e comandare da altri, si trattasse

del governo centrale con i suoi decreti e requisizioni o della fascia intermedia dei consigli locali, dei club e dei commissaires (funzionari governativi preposti al controllo di municipi e distretti). E agli occhi di molti la rivoluzione sarebbe stata ben presto associata a questo genere di ingerenze. Dopo una breve aurora di riforme liberali e di decentramento dei poteri il governo parve trasformarsi sempre più in controllore e poliziotto nei suoi tentativi di sradicare l'opposizione e garantire l'applicazione delle léggi. L'esistenza stessa della controrivoluzione fu responsabile in parte di questo approccio più rigido e repressivo dell'attività amministrativa, ma non fu così che le cose furono viste dall'occhio popolare. La responsabilità dei controlli estenuanti e delle restrizioni, imposti al popolo da uno stuolo di leggi e decreti, truppe e 138

gendarmi, corti e tribunali, fu per lo più attribuita al governo, e il diffondersi di questa percezione contribuì a rendere nemici della rivoluzione molti di quelli che avevano salutato la liberazione del 1789 ma che ora erano sempre più propensi a scaricare su Parigi la colpa dei loro mali. La responsabilità non fu di un singolo partito o regime, sebbene gli inasprimenti del carico fiscale e le requisizioni avessero considerevolmente peggiorato dopo il 1793 i rapporti con il centro. Sia nella repubblica giacobina che con i termidoriani, il Direttorio e l'impero, lo stato venne sempre più strettamente a identificarsi con le figure investite di autorità, commissaires e agents nationaux, deputati in missione e prefetti, giudici di pace e sergenti addetti al reclutamento. Tale autorità si estendeva fino alle più piccole comunità locali in quanto fu progressivamente accresciuta la responsabilità dei sindaci nei confronti del ministro dell'Interno a scapito di quella nei confronti degli elettori. Per molti francesi, soprattutto per coloro che abitavano nei villaggi e borghi rurali, si trattava di una sgradita intrusione che calpestava le più preziose tradizioni comunitarie; era mal tollerato il coinvolgimento di forestieri, cittadini, borghesi negli affari locali. La rivoluzione, proclamata nel nome della libertà, veniva sempre più ad assumere ai loro occhi un carattere dirigista e oppressivo [Montpellier 1988, 265-96]. Questa impressione generale contribuì in modo determinante a distruggere il consenso che pure all'inizio si era raccolto attorno alla rivoluzione. Divenne infatti ben presto

evidente, che i cambiamenti proposti dai rivoluzionari non potevano soddisfare tutti e che nella società francese esistevano interessi inconciliabili che non sarebbero stati appagati dagli appelli all'unità nazionale o dal linguaggio della fratellanza. Fin quando la rivoluzione si limitò allo smantellamento dell'apparato monarchico, essa ottenne il favore di gran parte della popolazione, poiché pochi erano contrari a maggiori libertà e all'abrogazione di oneri fiscali o imposizioni giudiziarie. Il programma rivoluzionario tuttavia non si esaurì mai in questi punti: in particolare, l'attacco ai privilegi implicava la negazione di alcuni principi basilari dell'ordine politico e sociale settecentesco. Il conflitto divenne inevitabile quando l'Assemblea si prefisse il compito di definire e in ultima istanza imporre il proprio ordine. La 139

gravità del conflitto naturalmente fu variabile. Nella maggior parte dei casi esso si svolse relativamente in sordina pensiamo ad esempio alla domanda di maggiori libertà regionali, alle proteste per le divisioni amministrative del paese, alle prime rivendicazioni femministe di diritti politici per le donne. Erano tutte proteste limitate a particolari regioni o a specifici gruppi, che potevano essere riassorbite nel nuovo ordine. Sussistevano tuttavia altri tipi di conflitto, direttamente generati dalle politiche rivoluzionarie, cui era impossibile trovare una soluzione. Nel 1793 larghi settori della popolazione francese erano arrivati a respingere specifiche iniziative rivoluzionarie e con esse a contestare il nuovo ordine sociale e politico che i rivoluzionari proponevano. La maschera dell'unanimità era caduta. Coloro che si opponevano alle misure rivoluzionarie non erano sempre dei controrivoluzionari sul piano ideologico. Il termine «controrivoluzione» in realtà è ingannevole in quanto parte integrante della persistente e stridula campagna di propaganda condotta dai gruppi al potere contro i loro avversari. Ciò fu particolarmente evidente a partire dal 1793, quando prima i girondini e poi la Montagna assunsero un atteggiamento estremamente fazioso nei confronti dei loro avversari, ricorrendo alla retorica della controrivoluzione per stigmatizzare coloro che li criticavano e non si identificavano con le loro scelte politiche. I giacobini furono naturalmente i massimi esponenti di questa forma di denigrazione,

attribuendo a se stessi il monopolio della virtù e infliggendo l'etichetta di «moderati», «controrivoluzionari» o «federalisti» a quanti osavano disapprovare. Questo linguaggio così smaccatamente fazioso non finì però il 9 termidoro: i termidoriani e il Direttorio avevano ogni interesse a giocare le carte repubblicane e anticlericali e quindi lo stesso linguaggio polemico sarebbe rimasto in auge fino alla fine del decennio. Al fine di evitare di confondere la propaganda con i fatti storicamente accertati è dunque consigliabile una certa cautela. Non tutti coloro che contestavano la politica del governo erano avversari del regime repubblicano. Nel 1794, ad esempio, la legislazione terroristica di Robespierre poteva indignare molti di quelli che si consideravano difensori delle libertà costituzionali e dello stato rappresentativo. L'opposizione non era necessariamente collegata al movi140

mento monarchico, come del resto il dissenso rurale è più giustamente definibile come una forma di opposizione popolare alla rivoluzione che come espressione di un movimento controrivoluzionario. Nel sud-est, anzi, come suggerisce Colin Lucas, la resistenza contadina dovrebbe essere vista per quello che realmente fu, vale a dire «un movimento popolare autentico e radicale quanto il sostegno popolare per i rivoluzionari radicali» [Nicolas 1985, 484]. L'opposizione nelle province Nella nuova atmosfera generata dalla' rivoluzione - un'atmosfera di speranza, nella quale gli uomini potevano attendersi che qualcuno prestasse orecchio alle loro lamentele e prendesse in base ad esse delle iniziative concrete - la società era più volubile, più soggetta a sfogare i sentimenti in esplosioni di violenza. In questo senso la convocazione degli Stati generali da parte del re e la consultazione della popolazione attraverso i cahiers de doléances furono d'importanza fondamentale. Alla gente comune parve giunto il momento della riparazione dei torti e dell'emancipazione dai peggiori abusi ancien regime. La violenza entrò nell'ordine delle cose nel momento in cui le loro aspirazioni rimasero frustrate. La Grande Paura dell'estate dell'Ottantanove fu, come si è visto, il primo esempio di tale violenza, ma non sarebbe stato l'ultimo. Tra il 1789 e il 1792 le rivolte contadine colpirono a ondate la provincia francese, soprattutto il tradizionale pays de petite culture del centro-sud del paese.

Tali rivolte non furono innescate dal panico o da voci incontrollate, bensì dall'ira dei contadini che prese di mira i signori, naturalmente, ma anche altri bersagli. Il ceto contadino infatti non era un gruppo o classe sociale indifferenziato: alcuni erano proprietari delle terre che coltivavano, altri affittuari; alcuni erano autosufficienti, altri per sbarcare il lunario dipendevano dal mercato; i titoli di possesso e il regime fondiario variavano considerevolmente da una regione all'altra e a seconda del tipo di coltivazione. Jean Boutier [1979, 760-86] ha dimostrato che il bersaglio più frequente degli attacchi dei mezzadri del sudovest furono la borghesia rurale o i contadini ricchi, i percettori di rendite. 141

In Guascogna, dove le decime erano alte, la chiesa era particolarmente detestata. Anche il risentimento antiurbano era spesso forte, specialmente nelle zone in cui i cittadini più ricchi delle città vicine approfittavano delle proprie ricchezze per acquistare terre contro la volontà degli abitanti dei villaggi. Quando i contadini venivano ingannati e scoprivano di essere ancora tenuti al pagamento di esazioni feudali che pensavano abolite, o quando il gravame fiscale imposto dallo stato cominciava a superare i benefici ottenuti, allora la rabbia poteva rivolgersi contro gli stessi agenti dello stato. La protesta contadina era diffusa e differenziata, così come la classe sociale da cui essa proveniva. Diverse le cause dell'opposizione delle campagne, diversissime le forme che essa assunse. In alcune aree le rivolte contadine continuarono, nel 1791 e nel 1792, a porsi come obiettivo l'abolizione delle ultime vestigia del feudalesimo; altre zone rimasero tranquille e in altre ancora leader contadini radicali reclamarono l'applicazione del partage e la suddivisione delle terre comuni tra i contadini proprietari locali; altrove invece la cosa suscitò scarso entusiasmo e fu ritenuta inattuabile. Nelle comunità rurali i contrasti sorgevano di solito tra i beneficiari e le vittime della rivoluzione, come dimostrano ad esempio le aspre contese in Bretagna tra proprietari e affittuari che preannunciarono il dilagare della guerriglia controrivoluzionaria della chouannerie [Sutherland 1982, 308]. Anche in questo caso vecchie dispute sui titoli di possesso

della terra e sui versamenti potevano facilmente ammantarsi di un linguaggio politico assumendo una connotazione falsamente ideologica [Le Goff 1981, 363]. E la tradizionale diffidenza nei confronti delle città, diffusa in molte aree rurali, fu esacerbata dall'azione del governo rivoluzionario. Non era solo la rivalità tra produttori contadini e consumatori urbani a schierare gli uni conto gli altri. Ad alimentare l'animosità dei ceti rurali furono anche gli ingenti acquisti di biens nationaux effettuati da abili speculatori urbani nell'hinterland rurale nonché il fatto che gli apparati di governo si concentrassero soprattutto nelle città. Durante la repubblica giacobina, ad esempio, furono le città a fornire ai club i loro militanti; furono le città a orchestrare i controlli e a imporre le requisizioni; fu dalle città che uscirono le 142

unità deìVarmée révolutionnaire destinate a minacciare e commettere prepotenze contro gli abitanti delle campagne. Durante il Direttorio fu fatto poco per decentrare il potere, finché sotto Napoleone l'intero sistema amministrativo si imperniò attorno alla préfecture della città capoluogo del dipartimento. Le imposizioni amministrative e le intrusioni burocratiche vennero strettamente identificate con le città. L'opposizione nella capitale Le città, e in particolare Parigi, soffrivano di un disordine popolare di altro genere, il disordine delle folle arrabbiate e delle dimostrazioni politiche. Nulla di nuovo in ciò: come alcune delle aree tradizionali delle jacqueries contadine che riscoprirono sotto le vesti rivoluzionarie la vecchia militanza, così anche Parigi aveva una lunga storia di rivolte per il pane e di sommosse politiche. La sua popolazione era una ricca miscela di parigini di nascita e di lavoratori immigrati, questi ultimi generalmente ammassati in alloggi situati al centro della città oppure emarginati nei sobborghi popolari in espansione. I suoi mercati erano pieni di rumori, le sue osterie il luogo preferito dell'agitazione politica. E il semplice fatto di vivere nella capitale dava alla folla parigina una forza di impatto che le popolazioni delle città di provincia non potevano sperare di uguagliare. A Parigi, a differenza di Lione o Bordeaux, la folla poteva fare pressione sui ministri, ed era questo che aveva spinto i governi del Settecento a trattare la città con un atteggiamento di particolare

rispetto e apprensione. Si radunavano regolarmente folle che intendevano coltivare interessi collettivi o protestare contro una presunta ingiustizia. Le pubbliche esecuzioni, la penuria di merci sul mercato o le crisi politiche potevano scatenare le violente proteste della capitale, cosa di cui il governo aveva preso atto con l'istituzione del sistema di polizia urbana più efficiente d'Europa. Con il montare dell'eccitazione politica nel 1789 era prevedibile che Parigi non se ne sarebbe stata tranquillamente da parte e che le classi popolari della capitale si sarebbero inserite nel nuovo processo politico. Tra il 1789 e il 1795 il popolino di Parigi avrebbe eser143

citato pressioni costanti sul governo centrale. Agitatori politici e polemisti del Palais Royal portarono il messaggio della rivoluzione nei quartieri popolari della città; giornali e opuscoli divulgarono un credo rivoluzionario radicale. E sebbene la folla rimanesse una fonte di pressione esterna sull'azione del governo - il suo ruolo non fu mai istituzionalizzato all'interno del sistema - il popolino di Parigi vedeva in se stesso un motore essenziale del processo di radicalizzazione. Si vantava l'importanza che il suo intervento aveva avuto nell'estate del 1789, quando la presa della Bastiglia aveva contribuito a rafforzare l'Assemblea nazionale e a scongiurare il rischio di una reazione. Quell'estate i disordini parigini erano stati in gran parte spontanei, stimolati dalla sferza degli oratori e dei giornalisti popolari; allo stesso modo la marcia su Versailles dell'ottobre 1789 fu orchestrata dalle donne dei mercati parigini, infuriate dall'aumento vertiginoso del prezzo del pane. Nel 1792, invece, i radicali di Parigi avevano acquisito una loro base di potere nelle sezioni cittadine e nelle società popolari, con un portavoce centrale nella Comune. Organizzarono journées popolari nelle strade a sostegno dei giacobini e contro i girondini, e rivendicarono una maggiore influenza nelle decisioni del governo. Nelle assemblee di sezione più radicali i sanculotti reclamavano l'introduzione di controlli sull'economia e predicavano la sovranità popolare; esaltavano i discorsi dei leader egualitari come Jacques Roux, leggevano giornali radicali come l'«Ami du peuple» di Marat e il «Pére Duchesne» di Hébert; rivendicavano con sempre maggior fervore la

sorveglianza politica e l'uso del Terrore. Nell'estate del 1794 non potevano più essere considerati semplicemente degli alleati dei giacobini: piuttosto erano un vero e proprio movimento di opposizione a sé stante, che propagandava una propria interpretazione patriottica, puritana ed egualitaria della politica rivoluzionaria. Il disordine urbano a Parigi fu tenuto sotto controllo da una politica di compromesso, almeno fino al rovesciamento della repubblica giacobina. I radicali parigini ottennero il controllo delle strade e spuntarono importanti concessioni in materia di controllo dei prezzi e di terrore economico; sotto i giacobini la Comune fu chiamata a partecipare al governo. Nei comitati rivoluzionari delle sezioni i radicali 144

svolgevano un ruolo di sorveglianza e di denuncia; attraverso le armées révoluttomiaires collaboravano alla funzione di polizia. Hanriot, Ronsin e altri estremisti radicali si compiacevano della rispettabilità politica così conquistata. Naturalmente gli avversari dei giacobini biasimavano il cinismo di questa alleanza e denunciavano lo sfrenato estremismo del movimento popolare che mirava a sprofondare il paese nell'anarchia. E dopo la caduta dei giacobini nessun altro governo fu disposto a permettere che le sezioni parigine mantenessero un ruolo significativo nel processo decisionale. Già nel 1794 però si diffidava manifestamente delle sezioni, viste come una fonte di disordine e di disunione che indeboliva il governo centrale. Le loro idee di uguaglianza economica e sovranità popolare minavano la politica del governo; il rifiuto di accettare la logica del libero mercato, la preferenza per una contrattazione collettiva e la riluttanza a rinunciare alle strutture corporative erano tutti elementi di una filosofia che contrastava con quella del governo, e quindi della rivoluzione; inoltre, poiché la loro propaganda nelle province e nell'esercito era considerata un attacco all'ideologia giacobina, i loro appartenenti venivano denunciati in quanto hébertistes e exagérés (arrabbiati). Nell'estate del 1794 il Terrore investì con tutte le sue forze i leader del movimento delle sezioni, che ne uscì indebolito e inerme. Nell'anno III due disperate journées popolari, quella di germinale e di pratile, furono gli estremi tentativi delle sezioni di imporre la propria volontà al governo nazionale. Le loro sollevazioni furono brutalmente represse: al governo

non appariva più utile - o tollerabile - il perdurare di disordini nella capitale. L'agitazione popolare al di fuori della capitale ebbe raramente la connotazione ideologica delle sezioni parigine o la loro coesione strutturale. Nelle aree rurali essa prese di solito la forma di una reazione spontanea alle politiche del governo o ai suoi funzionari, talvolta fomentata dall'eccessivo entusiasmo dei sindaci o dei commissaires. Le popolazioni locali furono spinte a ribellarsi contro quella che ai loro occhi era un'intollerabile interferenza in uno stile di vita consacrato dalla tradizione. La loro azione fu una riaffermazione dei diritti tradizionali della comunità locale, una negazione dell'apparato ufficiale e delle pretese dello stato. 145

In questioni come la regolamentazione delle fiere e dei diritti di pascolo le comunità locali avevano sempre agito autonomamente, e molte erano restie ad accettare interferenze esterne. La presenza di polizia e sorveglianti era particolarmente esasperata nelle zone in cui la popolazione aveva goduto per tradizione di un certo grado di autarchia. In due ambiti in particolare quel risentimento era suscettibile di sfociare in rivolta aperta: nelle questioni religiose e nella gestione del reclutamento militare. L'opposizione della chiesa La politica rivoluzionaria nei confronti della chiesa cattolica contribuì in modo determinante alla perdita di consenso, in particolare tra le donne, tradizionalmente più timorate di Dio rispetto ai mariti. Già nel 1789 e nel 1790 lo stato era entrato in urto con la chiesa in materia di obblighi feudali, di decime e sugli stati papali di Avignone e del Comtat Venaissin. Al Vaticano la rivoluzione era apparsa sospetta fin dall'inizio con i suoi proclami contro il privilegio e la sua adesione agli ideali illuministici. L'anticlericalismo prevalse anche nella fase della monarchia costituzionale, quando i rivoluzionari attaccarono l'istituzione della chiesa abolendo le decime e nazionalizzando le proprietà ecclesiastiche. Un ulteriore punto di scontro con Roma fu la liquidazione dello statuto speciale del cattolicesimo e la proclamazione dell'uguaglianza tra la religione cattolica e le altre. La stessa fede religiosa divenne oggetto di attacco quando il

clero fu costretto a prestare giuramento di fedeltà allo stato, i preti refrattari vennero esiliati o giustiziati e infine - durante la campagna giacobina di scristianizzazione - furono chiuse le chiese e vietato il culto. E nonostante il carattere effimero della campagna di scristianizzazione radicale, seguita dal tentativo alquanto farsesco di imporre il culto dell'Essere supremo, l'anticlericalismo nomfinì con la caduta di Robespierre. Nel periodo del Direttorio il governo continuò a scoraggiare ogni volta che potè la pratica cattolica. I preti rientrati dall'emigrazione spesso subirono persecuzioni ufficiali, e in certi villaggi bretoni ci furono episodi strazianti quando i paesani cercarono di costringere i commissaires 146

governativi ad autorizzare la riapertura delle chiese. Le donne, come ha documentato Olwen Hufton, svolsero un ruolo particolarmente importante nell'assicurare la ripresa del culto cattolico [Lewis e Lucas 1983, 23-6]. Solo sotto Napoleone sarebbe stato fatto un serio tentativo di sanare la spaccatura tra lo stato francese e la religione della maggioranza del popolo, ma nemmeno questa ricomposizione sarebbe stata completa, e la petite égli se sopravvisse a stento fino alla restaurazione dei Borboni nel 1814. Qualsiasi attacco alla fede religiosa era destinato a suscitare una dura opposizione all'interno della società francese. La convenienza politica non poteva cancellare convinzioni religiose profondamente sentite, e nelle aree cattoliche del paese i preti refrattari poterono contare su un ampio sostegno popolare. Le convinzioni religiose variavano però enormemente da regione a regione: negli ultimi anni dell1'ancien regime la Francia nel suo complesso non era più un paese devotamente cattolico. C'erano zone di profonda fede religiosa: l'ovest e la Bretagna, il Massiccio Centrale meridionale e parti del sudest, le Fiandre e il paese basco. Qui preti e parrocchiani facevano fronte comune contro l'avanzata del razionalismo e dell'ateismo: i preti potevano rifiutare di prestare il giuramento civile con relativa tranquillità, sapendo che il loro gregge li avrebbe appoggiati, protetti e se necessario difesi con la forza contro lo stato rivoluzionario. E possibile che i giacobini esagerassero quando vedevano la mano del clero refrattario in ogni rumorosa manifestazione

di scontento rurale, ma l'idea in sé non era assurda. In regioni come quelle occidentali, infatti, la questione religiosa avrebbe lasciato profonde ferite sociali e politiche che avrebbero dominato i programmi politici. L'opposizione alla rivoluzione in Bretagna, ad esempio, fu alimentata dall'intolleranza religiosa della rivoluzione e dai suoi effetti su una popolazione di profonda fede cattolica. Altrove - ad esempio in ampie aree della Provenza e dell'Aquitania - la diffusione della pratica religiosa era già molto diminuita verso la metà del Settecento e l'anticlericalismo godeva di un consistente sostegno popolare. I deputati in missione venivano acclamati quando ordinavano la chiusura delle chiese, i club locali sollecitavano ulteriori misure contro il clero, i nuovi riti secolari venivano entusiasticamente adot147

tati. Già alla fine del Settecento esistevano dal punto di vista religioso due nazioni; fra queste due realtà distinte la rivoluzione finì col frapporre un cuneo durissimo, tanto che lo scisma così apertosi tra clericali e anticlericali contribuì in misura rilevante a determinare l'appartenenza politica per gran parte dell'Ottocento e del Novecento [Vovelle 1988]. A parte le considerazioni di ordine ideologico l'attacco della rivoluzione alla chiesa ebbe un importante peso culturale che aiuta a spiegare l'intensità della reazione popolare. Ciò che veniva attaccato, agli occhi delle popolazioni locali, non era la gerarchia remota àe\Y establishment cattolico quanto piuttosto la presenza cattolica nei villaggi. In particolare era minacciata la chiesa del paese, che occupava nella vita di molte comunità rurali una posizione che trascendeva la comunione con Roma. La chiesa era il centro della parrocchia, il luogo dove si tenevano generalmente le assemblee di villaggio; era spesso la sola fonte di educazione e di assistenza ai poveri; e in caso di pericolo o di calamità erano le campane della chiesa che chiamavano a raccolta gli uomini nei campi. L'attacco alla religione era dunque qualcosa di più che un'aggressione alle coscienze cattoliche: era anche un'aggressione alle tradizioni e alle libertà del villaggio, con le quali le pratiche e i riti del cattolicesimo erano profondamente intrecciati. Per gran parte del Settecento la religiosità popolare si differenziò appena dalla superstizione tradizionale, e proprio questa era la sua forza in molte comunità contadine. La gente pregava i santi per un buon raccolto o

faceva benedire dai preti le vacche e le pecore malate. Le festività religiose riflettevano fedelmente gli alti e bassi dell'anno agricolo. Furono per l'appunto queste tradizioni secolari che la rivoluzione cercò di sopprimere: nel 1795, come dice Suzanne Desan [1990, 2], essa aveva «creato un intero sistema culturale composto da un linguaggio, riti e simboli rivoluzionari, la cui ambizione era di sostituirsi al cristianesimo» e mirava a rieducare le persone ai propri ideali e valori. Naturalmente cr furono resistenze: quando i giovani di un villaggio si radunavano per proteggere il parroco dall'arresto non difendevano solo la chiesa cattolica dall'anticristo, ma, cosa forse più importante, svolgevano la tradizionale funzione di difensori della comunità dalle minacce esterne. 148

Altri motivi di scontento L'altro grande catalizzatore del malessere era il servizio militare, che divenne fonte di scontento per la popolazione con l'ampliarsi del teatro di guerra e l'irrigidirsi delle imposizioni governative. Era opinione generale che fossero necessarie nuove tecniche di reclutamento, e che i metodi usati per il vecchio esercito realista fossero inadeguati alle necessità delle guerre rivoluzionarie. La Francia non poteva più dipendere da squadre di reclutamento e da reggimenti di mercenari stranieri; e la crisi dei primi anni dopo il 1790, con gli ufficiali che presentavano le dimissioni o disertavano a frotte, spesso portando con sé i propri uomini, e con i soldati che si ammutinavano o si arruolavano nella Guardia nazionale, fece della riforma una necessità urgente [Scott 1978, 81-108]. Inoltre, gli ideali rivoluzionari sembravano incompatibili con i reggimenti ereditati da\V ancien regime: l'esercito, dopo tutto, avrebbe dovuto portare il messaggio libertario dell'Ottantanove ai popoli d'Europa. I problemi pratici erano enormi. Dove trovare e come addestrare l'enorme quantità di uomini necessaria a combattere una lunga guerra contro le potenze coalizzate d'Europa? E come cambiare i metodi di reclutamento in modo da formare un nuovo tipo di esercito, in sintonia con gli ideali della rivoluzione? La risposta non era facile. Dopo aver tentato di soddisfare le necessità delle armate ricorrendo ai soli volontari, i rivoluzionari furono costretti a introdurre contingenti locali fino a quando nel 1799 questo sistema fu sostituito da una

coscrizione annuale regolare. In altri termini, ripiegarono su varie forme di coercizione, quanto meno in quelle aree del paese che non riuscirono a fornire i previsti battaglioni di volontari. Ma la coercizione provocò resistenze e l'estrazione a sorte dei coscritti fu denunciata come una nuova versione dell'odiato servizio nella milizia settecentesca. Ciò accadde soprattutto in aree che non avevano alle spalle una tradizione consolidata di partecipazione al servizio militare, nelle quali le resistenze e la renitenza all'obbligo sarebbero rimaste una spina costante nel fianco del governo. Le resistenze naturalmente non furono universali (c'erano regioni del paese che patriotticamente fornirono i contingenti di soldati richiesti per la difesa della causa naziona149

le) ma in ampie aree del sud e dell'ovest, in particolare, assunsero carattere endemico e si rivelarono pressoché impossibili da sradicare. Il fenomeno, le cui dimensioni si estesero con il propagarsi del conflitto e l'aumento dei contingenti richiesti dalle autorità, si manifestò in molte forme, tutte ben note: alcuni si fingevano malati o si mutilavano per evitare l'arruolamento; altri ricorrevano a matrimoni precipitosi o fraudolenti; coloro che ne avevano i mezzi si compravano un sostituto. Le forme più comuni di evasione dell'obbligo, quelle che più seriamente preoccupavano il governo, erano però la renitenza e la diserzione, che ancora nel 1809 e nel 1810 ponevano gravi problemi a Napoleone. Il disertore inoltre non poteva dirsi un individuo isolato, alienato dal resto della società: l'aspetto allarmante del problema era appunto il fatto che il disertore poteva contare generalmente sul sostegno della comunità a cui apparteneva o presso la quale cercava di nascondersi, dei genitori e vicini di casa, degli agricoltori ansiosi di procurarsi manodopera a buon mercato, dei sindaci mossi a pietà nei suoi confronti, e dei giovani che facilmente si identificavano con lui. In ampie zone del paese l'appello patriottico aveva scarsa eco: durante la rivoluzione e l'impero diverse centinaia di migliaia di giovani francesi avrebbero scelto la strada della diserzione o della renitenza alla leva pur di non sottomettersi alla disciplina dei reggimenti. E quando il governo cercava di intervenire, quando i gendarmi arrivavano in una località o vi veniva insediata una guarnigione, il tetro risentimento dei paesani si manifestava in modo più che evidente. I gendarmi

venivano presi a sassate e minacciati, in qualche occasione uccisi. Quando i giovani erano minacciati di arresto per reazione si poteva arrivare persino a vere e proprie rivolte. Con una presenza di polizia più forte e il ricorso all'esercito contro i villaggi recalcitranti - le odiate colonnes mobiles messe in campo sotto il Direttorio - il governo poteva sperare di rendere meno allettante la scelta della resistenza, ma non di eliminare il problema. E Parigi pagò un prezzo salato in termini di odio e di risentimento [Forrest 1989, 219-37]. La religione, il servizio militare e la difesa della cultura locale sono tutti elementi che contribuiscono a spiegare le ondate controrivoluzionarie degli anni 1790-1800. In 150

Bretagna la chouannerie si nutrì dello scontento sociale, in particolare delle insoddisfazioni dei fittavoli, ma ebbe anche un'importante dimensione religiosa nei villaggi bretoni cattolici diventati nemici della rivoluzione e nei preti refrattari che offrivano rifugio e aiuto. Più a sud, i sei dipartimenti occidentali che formavano la Vendè e ?n ili taire si rivoltarono contro la campagna di reclutamento avviata nel marzo 1793. Ancora una volta però le cause di fondo della ribellione erano più profonde, e il sostegno di cui i giovani godevano nelle comunità locali va spiegato in termini sociali. Come hanno dimostrato Paul Bois e Charles Tilly, le tensioni tra città e campagna ebbero una parte rilevante nel fomentare la ribellione in una regione in cui la rivoluzione era strettamente identificata con le città e i loro club politici. L'insensibilità dei patrioti e dei giacobini delle città - il loro palese disprezzo per la cultura rurale, il deciso sostegno alle arme e s révolu tio n n a ires, la prematura ed esasperata campagna di scristianizzazione - contribuirono a spingere i contadini sotto il vessillo della rivolta. I rivoluzionari locali infatti diedero prova talvolta di una totale chiusura nei confronti del mondo rurale, e mostrarono scarso rispetto per i timori e le tradizioni altrui. Nel sudest, ad esempio, la controrivoluzione cattolica fu incoraggiata dall'anticlericalismo dell'elite protestante urbana che guidò le prime fasi della rivoluzione nel Gard. E nella Vaucluse - l'ex Comtat Venaissin - il conflitto tra l'hinterland cattolico e la città repubblicana di Avignone fu enormemente inasprito dagli eccessi del leader avignonese dei

patrioti, che aveva il nome assai appropriato di Jourdan Coupe-tètes («tagliateste»). Le forme e il linguaggio della rivolta variarono da un luogo all'altro, con talune insurrezioni più apertamente monarchiche di altre; a ogni modo il collegamento tra opposizione e cattolicesimo rurale fu spesso forte. Nel 1791 i realisti cattolici radunarono le proprie forze nel camp de Jalès, nella regione del Gard, con il preciso intento di attaccare i sostenitori della rivoluzione nelle città vicine come Uzès; e mentre i realisti cercarono l'appoggio dei villaggi cattolici, le autorità municipali chiesero rinforzi ai villaggi protestanti della valle del Gardon [Lewis 1978, 32]. Nell'ovest e in alcune zone del sud i preti refrattari, tornati 151

dall'esilio spagnolo, presero parte attiva nel fomentare lo scontento contro una repubblica che denunciavano come l'anticristo. Sempre nell'ovest i nobili locali offrirono spesso il proprio appoggio, per cui i contadini finirono ancora una volta per schierarsi sotto le insegne dei nobili della loro comunità. Alcuni, come Puisaye e d'Antraigues, tramarono per rovesciare il governo entrando in corrispondenza con i Borboni in esilio o avvalendosi di una rete segreta di spie e di collaboratori. O come i fratelli Allier, tra i più potenti leader clerico-realisti del sud, che convinsero la corte in esilio a Coblenza che ben presto un massiccio movimento controrivoluzionario nel Midi avrebbe spodestato i rivoluzionari. In Bretagna Puisaye lavorò a stretto contatto con agenti inglesi, e i fondi forniti dal servizio segreto inglese contribuirono a oliare gli ingranaggi della rivolta: nel 1797 il governo inglese arrivò persino ad appoggiare una disastrosa operazione militare nella penisola di Quiberon [Hutt 1983, 272-323]. Benché i sospetti giacobini sull'oro inglese non fossero infondati, l'idea di un complotto organizzato era una grossolana esagerazione. Gli avversari della rivoluzione non smisero mai di polemizzare sull'ordine politico e sociale che avrebbero costruito. Non tutti i controrivoluzionari rurali erano in realtà sostenitori dell'idea monarchica, e tra i monarchici c'erano spesso aspre divergenze sul tipo di monarchia auspicata. Non esistette pertanto una sola o coerente causa controrivoluzionaria. Quello che pare aver accomunato tutti questi oppositori

era la convinzione di battersi a difesa dei propri valori e della propria gente contro l'intromissione di elementi estranei, che miravano alla distruzione di tradizioni secolari. Fu appellandosi a questo senso di localismo che vennero reclutati giovani per le armate ribelli, molti dei quali in precedenza avevano disertato dall'esercito della repubblica. Nelle aree rurali controrivoluzionarie in effetti l'ideologia nazionalistica repubblicana fece scarsa presa; era invece l'insensibile centralismo rivoluzionario, tetragono, a quanto pareva, ai bisogni e alla cultura locali, a essere oggetto di un profondo risentimento. Nel nome dell'unità nazionale, della «nazione una e indivisibile», il governo fece poche concessioni alla storia e alle tradizioni. Sotto i giacobini anzi la Convenzione si distinse per la repressione di ogni diversità 152

culturale, imponendo il francese come «lingua della libertà » e condannando l'uso dei dialetti locali e delle lingue regionali. Come affermò Bertrand Barère in un brano di una durezza rivelatrice, queste ultime erano le lingue del disordine e dell'insurrezione. «Il basso bretone è la lingua del federalismo e della superstizione; il tedesco dell'emigrazione e dell'odio per la repubblica; l'italiano la lingua della controrivoluzione, il basco del fanatismo. Stronchiamo questi perniciosi strumenti dell'errore» [De Certeau et al. 1975,295]. In tali circostanze non sorprende che la rivoluzione parigina fosse così ampiamente avversata nelle regioni più periferiche del paese. Tale rifiuto non era necessariamente legato a un'ideologia monarchica o a un desiderio di restaurare la gerarchia sociale de\Y ancien regime. L'insurrezione non era inevitabilmente controrivoluzionaria. In molte aree rurali essa fu poco più che una richiesta di essere lasciati in pace, di non dover subire ulteriori intrusioni dal mondo esterno. In un certo senso gli insorti si ribellavano addirittura in nome dell'ordine, dell'autarchia della loro tradizione e della consuetudine. Agli occhi di molti provinciali infatti era la repubblica a minacciare veramente l'ordine costituito, indebolendo la religione, distruggendo l'istruzione ecclesiastica, scalzando le tradizioni secolari; era la repubblica, distogliendo i giovani dai campi e chiamandoli a servire alla frontiera, a disgregare le famiglie e a provocare una grave carenza di braccia per l'agricoltura; era la repubblica infine

a proibire le feste tradizionali e le sagre paesane e a privarli della libertà domenicale (il dècadi, il giorno di riposo ogni dieci di lavoro, era solo un pallido surrogato). Nel 1794, inoltre, l'immagine della repubblica in molte zone del paese era divenuta quella di un odiato predatore, che sacrificava tutto e tutti alle necessità della guerra: i commissaires rubavano il grano e requisivano i cavalli, i soldati portavano violenza e spargimento di sangue; soprattutto a occidente la repubblica sarebbe stata per sempre identificata con le colonnes infernales di Turreau, le truppe che nella Vandea bruciavano villaggi, saccheggiavano il grano e sgozzavano tutti quelli che sbarravano loro il cammino. Non era un'immagine di ordine bensì di anarchia. La paura dell'anarchia contribuisce inoltre a spiegare le 153

rivolte urbane dell'estate del 1793, quando molte delle città di provincia più importanti - tra cui Lione, Marsiglia e Bordeaux - dichiararono di non riconoscere più l'autorità della Convenzione [Edmonds 1990; Scott 1973; Forrest 1975]. Esse denunciarono la presa del potere da parte dei giacobini e affermarono che la Convenzione non era più libera in quanto ventinove dei suoi componenti erano stati arbitrariamente arrestati. Riappropriandosi della loro parte di sovranità, cercarono l'appoggio dei dipartimenti vicini e, in alcuni casi, raccolsero forze armate locali con lo scopo manifesto di inviare truppe contro Parigi. I giacobini denunciarono queste insurrezioni come «federaliste» e cercarono di associarle, di fronte all'opinione pubblica, alla Vandea e alla controrivoluzione. In realtà le due forme di opposizione avevano poco in comune. Le città federaliste non erano monarchiche né cattoliche. I loro leader erano spesso avvocati e mercanti facoltosi e con esperienza della vita politica, che godevano dell'appoggio di un movimento popolare che si articolava su assemblee di sezione. Se per federalismo si intendeva il desiderio di costruire un sistema di repubbliche federali e di distruggere l'unità nazionale, allora esse non erano neppure federaliste. Perché dunque si ribellarono? In parte agirono per disperazione, per il desiderio di proteggere da colpi ulteriori se stesse e le proprie economie disastrate. Come ha detto Paul Hanson [1989, 246] nella sua analisi delle politiche divergenti di Caen e Limoges, «il tessuto sociale e le strutture economiche di una città o di una regione sono fattori cruciali nel determinare la forma che assume

il dibattito politico locale». I loro timori erano però più spesso politici che economici. Non di rado i principali bersagli della loro rabbia furono i militanti dei club locali che predicavano il Terrore e che in qualche caso avevano già preso il potere a livello locale. Proclamarono la loro incrollabile fede repubblicana e la fedeltà agli ideali rivoluzionari e alle libertà costituzionali che ora venivano così smaccatamente calpestate. I giacobini naturalmente replicarono che si trattava di un'elite privilegiata e plutocratica il cui solo obiettivo era mantenersi al potere a spese altrui; così facendo essi in realtà evitavano di rispondere alla questione politica posta dai federalisti. La propaganda giacobina fu molto aiutata dalle vicende del porto navale di Tolone, 154 4

che nell'agosto del 1793 si uni a Marsiglia nella rivolta e consegnò l'arsenale, le installazioni navali e un certo numero di navi da guerra ai britannici [Crook 1991, 126-57]. Fu facile allora accusare il federalismo di tradimento e di propositi controrivoluzionari [Edmonds 1983, 26]. Il movimento antigiacobino urbano - definizione molto più precisa del termine «federalismo» - non fu affatto controrivoluzionario in quanto non mise in discussione la legittimità delle istituzioni repubblicane. La vera controrivoluzione fu un fenomeno rurale, e le regioni in cui essa imperversò furono quasi per definizione aree in cui la legge del governo nazionale era pressoché inesistente. Tali zone, spesso prossime alle frontiere o protette da barriere naturali come le catene montuose, erano difficili da pattugliare, specialmente là dove erano più radicate le tradizioni criminali e banditesche. In effetti la distinzione tra le attività delle bande controrivoluzionarie e le bande di delinquenti comuni era spesso pericolosamente sfumata. Entrambe vivevano in semiclandestinità, pronte a nascondersi all'avvicinarsi dei gendarmi; né le une né le altre si facevano scrupolo di macchiarsi di ruberie e assassinii; la loro integrazione nella comunità rurale fu, a quanto ne sappiamo, ugualmente profonda. La sola differenza tangibile potrebbe essere nella scelta delle vittime e nella giustificazione che davano dei loro crimini. Le bande terroristiche monarchiche del sud est, ad esempio, svaligiavano le vetture postali e rubavanc l'oro della repubblica. I loro furti erano per Cristo e per il

re. Durante il Terrore bianco del 1795-96 uccisero in nome di Cristo e del re, scegliendo i loro bersagli tra gli esponenti locali di notorie simpatie repubblicane, che avevano fatte parte dei comitati e dei tribunali rivoluzionari o la cui testi monianza aveva contribuito alla condanna di realisti e ari stocratici. C'era ben poco che la rivoluzione potesse fare pei porre fine a simili eccessi, in quanto la polizia non era ir grado di effettuare arresti e le giurie intimidite rifiutavane di pronunciare verdetti di condanna. Alla fine dell'epoca del Direttorio c'erano ancora, nel sud, zone in cui i brigant spadroneggiavano e nessun repubblicano poteva viaggiare tranquillo. Il Terrore bianco si confuse sempre più co brigantaggio, appagandosi di uccisioni e ruberie. I temut briganti del sudest, come Saint-Christol e Dominique Allier 155

furono banditi prima che realisti; la loro opposizione alla repubblica fu un fatto pressoché accidentale [Lewis e Lucas 1983, 195-231]. Fu solo nel periodo napoleonico che il governo riuscì a estirpare questa illegalità di fondo dalla società francese. Tale successo va attribuito in parte alle politiche economiche che fecero rialzare i prezzi dei prodotti agricoli e resero popolare il regime presso la maggioranza dei contadini. Infatti ciò a sua volta spinse le comunità a denunciare i briganti che si erano rifugiati nel loro territorio. In parte Napoleone approfittò del desiderio di stabilità del popolo francese che, stanco dei disordini e della confusione politica, fu ben contento di accettare un ordine imposto dall'alto purché in grado di garantire la pace sociale. La sconfitta del banditismo fu dovuta però più all'impiego delle forze di polizia e dei poteri repressivi che all'opinione pubblica. Fu una missione che Napoleone perseguì con determinazione e spietata efficienza, consapevole che la stabilità del regime dipendeva dal successo che avrebbe avuto nell'imporre la supremazia della legge. A questo riguardo Bonaparte conseguì risultati impressionanti, anche se non dobbiamo dimenticare che disponeva di un apparato amministrativo e poliziesco molto più sofisticato di quello su cui la rivoluzione abbia mai potuto contare. Attraverso i prefetti raccoglieva informazioni sulle bande e su coloro che le proteggevano. Il corpo dei gendarmi ricevette specifiche disposizioni di distruggere le ultime bande di briganti, con il sostegno, ove necessario, di

unità dell'esercito. E qualora le giurie non avessero pronunciato verdetti di colpevolezza, ci avrebbero pensato i tribunali speciali composti da collegi giudicanti che avevano ricevuto chiarissime disposizioni di distruggere le bande e giustiziare i loro capi. Nel 1804 con l'annientamento dell'ultima delle grandi bande di terroristi fu posta la parola fine al disordine che aveva afflitto endemicamente gran parte del mondo rurale. La rivoluzione: una valutazione Per tutto il periodo rivoluzionario la resistenza alla rivoluzione aveva continuato a rappresentare una spina nel fian156

co delle autorità e, nonostante i discorsi sull'unità, Pari non era mai riuscita a soffocare l'opposizione di vasti sette della popolazione. L'opposizione non fu prerogativa del élite privilegiate o delle consorterie di monarchici e arist« cratici. In molte zone essa si tradusse in un movimem popolare a pieno titolo, popolare forse quanto il radicalisrr delle sezioni parigine. I rivoluzionari in realtà difficilmen avrebbero potuto evitare di farsi dei nemici: essi tentaror di rivolgere le fondamenta stesse della società e i modi in e i francesi si rapportavano fra loro, abolirono le struttili corporative, cercarono di plasmare una società individuai stica là dove in precedenza c'erano stati ceti e privile; definiti per legge. Erano tutti cambiamenti enormi, che r chiedevano un'altra rivoluzione, una rivoluzione delle mei talità e delle sensibilità popolari. Erano altresì cambiamen che rischiavano di sollevare l'opposizione di tutti i versan dello spettro politico: dei contadini timorosi di perdere ì terra a vantaggio dei borghesi della vicina città, delle comi nità unite nella difesa della religione tradizionale, degli art giani parigini le cui idee politiche radicali non collimavan con la fede nell'individualismo economico. Dove erano co piti gli interessi l'opposizione era prevedibile, come abbh mo visto, si tramutava spesso in resistenza politica e persin militare. Il pericolo era tanto più grave in quanto al govern mancavano gli strumenti per garantire efficacemente l'ai tuazione delle riforme, mentre in intere regioni del paes

prevaleva l'opposizione. E in questo senso che la contre rivoluzione dovrebbe essere considerata parte integrant dell'esperienza rivoluzionaria. Essa agì da potente catalh zatore delle spinte centralistiche e repressive. Anzi, se 1 guerra fu responsabile di molti nuovi oneri imposti dai rive luzionari alla popolazione civile, allora la controrivoluzion ebbe un effetto ugualmente importante sulla politica intei na. L'esistenza in Francia di gruppi consistenti di avversai del programma rivoluzionario costrinse Parigi a irrigidire 1 proprie posizioni e ad abbandonare il costituzionalismo ÌJ favore di maggiori controlli. La cittadinanza venne definit con maggiore rigore, i benefici che essa comportava venner» concessi in modo più selettivo. La rivoluzione divenne pii che una rivoluzione di tutto il popolo francese, una rivolu 15".

zinne di pochi delegati, di coloro che ne sostenevano la politica, dei virtuosi. E in questo senso, come ha dimostrato Donald Sutherland [1985, 14], che la controrivoluzione modificò le priorità e la rotta della Francia rivoluzionaria, tanto che «l'intera storia del periodo rivoluzionario può essere intesa come la lotta a una controrivoluzione non tanto aristocratica, quanto di massa, estesa, radicata e popolare». 158

CRONOLOGIA

Corrispondenza tra il calendario rivoluzionario e quello gregoriano Calendario rivoluzionario Calendario gregoriano Vendemmiaio {Vendémiaire) 22 settembre - 21 ottobre 1793 Brumaio (Brumaire) Frimaio (Frimaire) Nevoso (Nivose) Piovoso (Pluvióse) Ventoso (Ventóse) Germinale (Germinai) Floreale (Floréal) Pratile (Prairial) Messidoro (Messidor) Termidoro (Thermidor) Fruttidoro (Fructidor) 22 ottobre - 20 novembre 1793 21 novembre - 20 dicembre 1793 21 dicembre 1793 - 19 gennaio 1794 20 gennaio - 18 febbraio 1794 19 febbraio - 20 marzo 1794

21 marzo - 19 aprile 1794 20 aprile - 19 maggio 1794 20 maggio - 18 giugno 1794 19 giugno - 18 luglio 1794 19 luglio - 17 agosto 1794 18 agosto - 16 settembre 1794 A partire dal settembre 1793, nel quadro del processo di scristianizzazione, le autorità rivoluzionarie smisero di usare il calendario gregoriano sostituendolo con un sistema che continuò a essere utilizzato fino in epoca imperiale. L'anno venne diviso in dodici mesi di trenta giorni l'uno, e i mesi a loro volta in tre décades. Poiché nel sistema rivoluzionario l'anno aveva solo 360 giorni, i cinque giorni rimanenti venivano recuperati mediante il semplice anche se goffo espediente dei jours co?nplémentaires. Pertanto, ad esempio, il 20 luglio 1794 corrisponde al 2 termidoro dell'anno II, mentre il 19 settembre 1794 corrisponde al troisième jour complémentaire dell'anno II.

CRONOLOGIA 1787 22 febbraio Si riunisce l'assemblea dei notabili giugno-agosto II parlement di Parigi rifiuta la registrazione delle riforme promosse dal sovrano; esilio dei parlementaires 1788 8 maggio Riforme di Lamoignon per ridurre il potere dei parlements 7 giugno «Journée des Tuiles» a Grenoble 8 agosto Convocati gli Stati generali per il 1° maggio 1789 1789 gennaio Disordini causati dalla penuria di pane e di legna da ardere marzo-aprile Elezioni per gli Stati generali

marzo-maggio Rivolte popolari in Provenza e in Piccardia 5 maggio Inaugurazione a Versailles degli Stati generali 17 giugno II Terzo stato si autoproclama Assemblea nazionale 20 giugno Giuramento della Pallacorda 23 giugno Séance royale: Luigi ordina ai tre stati di riunirsi separatamente 11 luglio Licenziamento di Necker 14 luglio Presa della Bastiglia luglio-agosto Rivolte contadine e fenomeno della «grande paura» in molte province 4 agosto Viene proclamata (pur se non applicata opera

tivamente) la soppressione dei privilegi e dei diritti feudali 161

26 agosto Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino 6 ottobre Marcia delle donne di Parigi su Versailles; la fami

glia reale è costretta a tornare nella capitale 2 novembre Le proprietà ecclesiastiche sono messe a disposizione della nazione 14-22 die. Divisione della Francia in dipartimenti e municipalità

19 dicembre Vengono messi in circolazione i primi assegnati 1790 gennaio ]acqueries nel Quercy e nel Périgord 13 febbraio Abolizione dei voti monastici 10 giugno Avignone chiede l'annessione alla Francia 19 giugno Abolizione della nobiltà 12 luglio Costituzione civile del clero 14 luglio Fète de la F édera tion

16 agosto Riorganizzazione per decreto del sistema giudiziario 18 agosto Prima assemblea controrivoluzionaria a Jalès 31 agosto Repressione di un ammutinamento dell'esercito a Nancy 27 novembre Decreto sul giuramento dei pubblici funzionari 1791 2 marzo Soppressione delle corporazioni 13 aprile Una bolla papale condanna la Costituzione civile del clero 14 giugno La legge Le Chapelier vieta le organizzazioni dei lavoratori 20 giugno Fuga del re a Varennes 17 luglio Massacro al Campo di Marte a Parigi 4 agosto Primo reclutamento-di battaglioni di volontari

27 agosto Dichiarazione di Pillnitz 14 settembre Luigi XVI accetta la nuova costituzione 14 settembre Annessione di Avignone e del Comtat Venaissin 30 settembre Scioglimento dell'Assemblea nazionale 162

1° ottobre Prima seduta dell'Assemblea legislativa 9 novembre Decreto contro gli émigrés (sul quale il re appone veto il 12 novembre) 1792 marzo Cospirazione di La Rouerie in Bretagna 20 aprile Dichiarazione di guerra all'Austria 27 maggio Decreto sulla deportazione dei preti che rifiutano prestare giuramento (sul quale il re appone il vetc 19 giugno) 8 giugno Decreto che istituisce un campo di fédérés a Pari 12 giugno Licenziamento dei ministri girondini 20 giugno Prima invasione delle Tuileries da parte della fol parigina 11 luglio Dichiarazione della «patria in pericolo» 25 luglio Pubblicazione del manifesto di Brunswick 10 agosto Assalto alle Tuileries e sospensione del re

19 agosto Le truppe prussiane invadono il territorio france: 2-6 settembre Massacri nelle prigioni parigine 20 settembre Vittoria di Valmy 21 settembre Prima seduta della Convenzione nazionale 9 ottobre Un decreto introduce la pena di morte per gli émign in caso di ritorno in patria 6 novembre Vittoria di Jemappes 11 dicembre Prima apparizione di Luigi XVI davanti alla Cor venzione 1793 16-18 gennaio La Convenzione vota la pena di morte per il re 21 gennaio Esecuzione di Luigi XVI 1° febbraio Dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna all'Olanda 24 febbraio Nuove misure di reclutamento: levée des 300.000 7 marzo Dichiarazione di guerra alla Spagna

9 marzo La Convenzione manda i primi deputati in mission nei dipartimenti 16;

10 marzo Creazione di un tribunale speciale rivoluzionario 10-11 marzo Massacri di Machecoul e inizio dell'insurrezione vandeana 4 aprile Dumouriez passa agli austriaci 6 aprile Istituzione del primo Comitato di salute pubblica 29 maggio Lione insorge contro il comune giacobino 31 maggio - Invasione della Convenzione da parte delle sezioni 2 giugno parigine; caduta dei girondini 7 giugno Rivolte federaliste a Bordeaux e nel Calvados 18 giugno Gli insorti della Vandea conquistano Angers 29 giugno Sconfitta dell'armata vandeana davanti a Nantes 13 luglio Assassinio di Marat 17 luglio Esecuzione di Chalier a Lione 27 luglio Robespierre entra nel Comitato di salute pubblica 23 agosto Decreto sulla levée en masse

TI agosto Tolone consegnata alla flotta britannica 17 settembre Approvata la legge dei sospetti 29 settembre Introduzione del maximum per le granaglie e il foraggio 10 ottobre Decreto sul governo rivoluzionario fino al ritorno della pace 16 ottobre Esecuzione di Maria Antonietta 31 ottobre Esecuzione di leader girondini 24 novembre Adozione del calendario rivoluzionario 4 dicembre Decreto sul governo rivoluzionario: legge del 14 frimaio 1794 gennaio Repressione nelle regioni occidentali; le colonnes infernales di Turreau febbr.-marzo Riprende in Bretagna la chouannerie sotto Puisaye 26 febbraio - Decreti di ventoso: sequestro delle proprietà dei sospetti

3 marzo e loro assegnazione ai poveri 4 marzo Tentativo insurrezionale del club dei cordiglieri 13-24 marzo Arresto ed esecuzione degli hébertisti 164

30 marzo - Arresto ed esecuzione del gruppo di Danton 6 aprile 8 giugno Festa dell'Essere supremo a Parigi 10 giugno Legge del 22 pratile: inizio del Grande Terrore 26 giugno Vittoria di Fleurus 23 luglio Introduzione di una regolamentazione salariale Parigi 27 luglio 9 termidoro: caduta di Robespierre 28 luglio Esecuzione di Robespierre e Saint-Just 30-31 luglio Riorganizzazione del Comitato di salute pubblic 1° novembre Hoche è nominato comandante delle armate oc dentali 12 novembre Chiusura del club giacobino 24 dicembre Abolizione del maximum generale 1795

1° aprile Germinale: journée popolare a Parigi 5 aprile Trattato di Basilea con la Prussia aprile-maggio Inizia il Terrore bianco a Lione e nel sudest 16 maggio Firmata la pace con l'Olanda 20 maggio Pratile: invasione della Convenzione da parte de folla parigina 24 maggio Le sezioni parigine vengono disarmate 21 luglio Hoche annienta un'armata di émigrés a Quibero 22 luglio Firmata la pace con la Spagna 22 agosto La Convenzione adotta la costituzione dell'a no III 5 ottobre Vendemmiaio: sollevazione realista a Parigi 26 ottobre Scioglimento della Convenzione 3 novembre Instaurazione del Direttorio 1796 19 febbraio Ritiro degli assegnati

2 marzo Bonaparte nominato comandante in capo dell'a mata d'Italia 16

10 maggio dicembre Congiura degli Eguali; arresto di Babeuf Fallimento della spedizione di Hoche in Irlanda 1797 marzo-aprile Successi dei realisti nelle elezioni legislative 27 maggio Esecuzione di Babeuf 4 settembre Fruttidoro: colpo di stato contro i realisti a Parigi 17 ottobre Pace di Campoformio tra Bonaparte e l'Austria 1798 11 maggio Destituzione dei deputati monarchici più estremisti 19 maggio Bonaparte inizia la campagna d'Egitto 1° agosto Nelson distrugge la flotta francese ad Abukir 5 settembre Legge di Jourdan sulla coscrizione militare 1799 marzo Guerra della seconda coalizione

aprile Successo dei neogiacobini alle elezioni legislative 23 agosto Bonaparte si imbarca per la Francia 9-10 novem. Brumaio: un colpo di stato porta Bonaparte al potere

15 dicembre Proclamata una nuova costituzione 25-27 dicem. Istituzione del Consiglio di stato e del Senato 28 dicembre Le chiese riaprono al culto la domenica 166

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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INDICE DEI NOMI

INDICE DEI NOMI Ado, A., 38 Aftalion, F., 102, 132 Agulhon, M., 75 Allier, D., 155 Antrai'gues, E.-H.-L.-A. de Launay conte di, 152 Applewhite, H.B., 106 Artois, C. conte di, 30 Audouin, J.-P., 45 Aulard, F.-V.-A., 13 Babeuf, F.-N., 51, 69, 86, 166 Baczko, B., 54 Bailly, J.-S., 28-30, 56 Baker, K., 14, 15, 48 Barentin, C.L.F. de Paule de, 30 Barère de Vieuzac, B., 66, 153 Barnave, A.-P.-J.-M., 29, 56, 59 Barras, P.-F.-N.-J. de, 54 Barruel, A., 136 Benot, Y., 107 Bergasse, N., 23 Bergeron, L., 82, 109 Berlanstein, L.R., 91

Bertaud, J.P., 127, 130 Birotteau, J.B., 53 Blanning, T.C.W., 117, 118 Bois, P., 151 Bonneville, N. de, 59 Bosher, J.F., 116 Bossenga, G., 33 Bouchotte, J.-B.N., 130 Boutier, J., 37, 141 Breteuil, L.-A. Le Tonnelier barone di, 31 Brienne, E.Ch. de Loménie de, 24 Brissot de Warville, J.-P., 34, 56, 59, 107, 115-117, 120 Brunswick, K.W.F. duca di, 118, 163 Calonne, C.-A. de, 24 Campbell, P., 9, 28, 63 Carnot, L.-N.-M., 122 Carrier, J.-B., 53 Cazalès, J.-A.-M. de, 137 Censer, J., 46 Chalier, J., 164

Chaunu, P., 13, 14 Chaussinand-Nogaret, G., 3^ Chenier, A.-M. de, 16 Chisick, H., 136 Chomel, V., 25 Church, C, 73 Clavière, É., 107, 116 Clermont-Tonnerre, S.-M.conte di, 23 Cloots, A., 124 Cobb, R., 11, 74, 85 Cobban, A., 11 Colbert, J.-B., 32 Cole, A., 63 Collot d'Herbois, J.-M., 130 Condorcet, M.-J.-A.-N. de Cari marchese di, 107 Crook, M., 54, 155 Custine, A.-P. conte di, 119, ] Danton, G.-J., 13, 59, 71, 1 165 Darnton, R., 26 David, J.-L., 16, 76 De Certeau, M., 153

Desan, S., 148 De Sèze, R. conte, 57 Desmoulins, L.-S.-C.-B., 34, < 71 Dillon, T., 119 Doyle, W., 9, 11, 46, 62, 70, Dumouriez, Ch.-F.,59,117, 1 121, 164 Dupont de Nemours, P.-S., 1 1

Edmonds, W.D., 154, 155 Ellery, E., 115 Emmanuelli, F.-X., 22 Federico Guglielmo II, re di Prussia, 114 Fitzsimmons, M., 91 Flesselles, }. de, 41 Forrest, A.,'93, 99, 130, 132, 150, 154 Forster, R., 35 Fouquier-Tinville, A.Q., 53 Fréron, L.-M.-S., 54 Furet, F., 10-12, 14, 17, 53, 55, 83, 125, 134 Garrioch, D., 40 Gendron, F., 51 Gensonné, A., 58, 116 Gobry, I., 72 Godechot, J.L., 42, 136 Goodwin, A., 24, 29, 30 Gouges, O. de, 105 Gough, H., 26 Greer, D., 70, 73

Grégoire, B.-H., 107 Griffiths, R., 79 Guadet, M.-É., 58 Guilhaumou, J., 17 Hampson, N., 11, 57, 69, 71, 72, 115, 125, 128 Hanriot, F., 145 Hanson, P., 154 Hardman, J., 62, 104, 113 Hébert,J.-R.,53,71,74,78,86, 104,144 Hesse, C, 90 Higonnet, P., 31, 93, 94 Hirsch, J.-P., 18, 19 Hoche, L., 123, 165, 166 Holbach, P.H.D. barone di, 48, 82 Hufton, O., 99, 105, 147 Hunt, L., 15, 16, 103 Hutt, M., 152 Isnard, M., 53 Javogues, C, 72

Johnson, M.D., 106 Jones, P., 36, 84, 88, 93, 97, 132 Jourdan Coupe-tètes (M. fouve), 151 Jourdan, J.-B. conte, 122, 166 Kaplan, S., 17, 37, 98 Kates, G., 59 Kellerman, F.-C, 119 Kennedy, M., 77 Labrousse, E., 34 Lafayette, M.-J.-P.-Y.-R.-G. Motier marchese di, 28, 31, 56, 59, 115 Laffon, T.-B., 66 Lakanal, J., 108 Lally-Tollendal, T.-G. marchese di, 23 Lameth, A. conte di, 59

Lamoignon, C.F. de, 161 La Rouerie, A.T. marchese di, 163 Launay, B.-J. de, 41 Le Bas, P.-F.-J., 127 Le Bon, J.-G.-F., 72 Le Chapelier, I., 29, 90 Le Goff, T.J.A., 142 Lefebvre, G., 10, 11, 30, 32, 33, 38, 115, 120 Leith, J., 16, 76 Leon, P., 105 Leopoldo II, imperatore d'Austria, 114, 118 Lepeletier de Saint Fargeau, M.-L., 76 Levy, D.G., 106

Lewis, G., 60, 147, 151, 156 Loustallot, A.E. de, 34 Lucas, C, 16, 19,47,54,72,82, 92, 109, 125, 141, 147, 156 Luigi XVI, re di Francia, 9, 23, 25,27,30,31,34,43,44,50, 52,55-57, 114, 121, 127, 137, 161-163 Mably, G.B. de, 48 Mallet du Pan, J., 136 •Malouet, P.-V., 24, 79 Marat, J.-P., 34, 53, 59, 60, 76, 79, 86, 107, 144, 164 Maria Antonietta, regina di Francia, 23, 44, 56, 114, 164 Markov, W., 85 Mathiez, A., 13 190

Maury, J.-S., 137 McManners, J., 91 Melzer, S., 104 Mercier, L.S., 105 Milhaud, J.-B., 84 Mirabeau, H.-G. de Riqueti conte di, 23, 28 Miromesnil, A.-TU. de, 25 Mitterrand, F., 12, 14 Montesquieu, C.-L. de Secondat barone di La Brède e di, 33, 48 Mounier, J.-J., 23, 24, 29, 31,55 Murat, J.-J.-A. conte, 109 Napoleone I Bonaparte, imperatore dei francesi, 9, 63, 66, 67, 79, 109-111, 123, 124, 143, 147, 150, 156,

165, 166 Necker, J., 24, 30, 31, 41, 42, 101, 161 Nelson, H., 166 Ney, M., 109 Nicolas, J., 141 Nieto, P., 13 Nora, P., 125 Ogé, V., 107 Ozouf, M., 16, 53, 55, 65, 76, 83, 125, 134 Ozouf-Marignier, M.-V., 65 Paine, T., 124 Patrick, A., 58 Périer, J.-C, 13 Phillips, R., 103 Pichegru, Ch., 122 Pitt, W. (il Giovane), 121 Provence, L. conte di, 30

Puisaye,J.-G. contedi, 123, 152, 164 Rabine, L., 104 Richelet, C.P., 47 Rivarol, A., 136 Roberts, W., 76 Robespierre, M.-F.-I. de, 13, 53, 56, 59, 61, 62, 69-71, 85, 92, 102, 107, 116, 117, 138, 146, 164, 165 Roederer, P.-L., 83 Roland de la Platière, J.-M. Ronsin, Ch.P., 71, 145 Rose, R.B., 86 Rousseau, J.-J., 33, 48 Roux, J., 86, 105, 144 Royoux, T.M., 136 Saint-Etienne, R., 81 Saint-Just, L.A. de, 57, 62. 127, 134, 165 Santerre, A.J., 85 Schama, S., 11, 17 Scott, S., 1.19,120,127, 149. Scott, W., 93

Secher, R., 13, 14 Sieyés, E.J., 17, 23, 27, 28 Soboul, A., 10, 29, 40, 82 130, 132 Sonenscher, M., 49, 90 Sonthonax, L.F., 107 Soulet, J.-F., 66 Stephens, H.M., 116 Steward, J.H., 52 Sutherland, D.M.G., 121, 158 Tackett, T., 91 Tallien, J.-L., 54 Target, GJ.-B., 29 Thompson, J.M., 63 Thouret, J.-G., 64, 65 Tilly, Ch., 151 Tocqueville, Ch.-A.-M. C conte di, 23, 26 Toussaint-Louverture ( Toussaint), 107 TulardJ., 124 Turgot, A.R.J., 33 Turreau de Linières, L., 153

Vergniaud, P.-V., 58, 116 Vincent, F.N., 71 Voltaire (F.-M. Arouet), 4< Vovelle, M., 10, 148 Woloch,!., 79, 108

Finito di stampare nel febbraio 1999 dalla litosei via bellini, 22/A, rastignano, bologna 4

UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO STORIA Pekàry T., Storia economica del mondo antico Lotze D., Storia greca Gschnitzer F., Storia sociale dell'antica Grecia Prayon F., Gli etruschi Bringmann K., Storia romana Alfòldy G., Storia sociale dell'antica Roma Vincent C, Storia dell'Occidente medievale Brunner O., Storia sociale dell'Europa nel Medioevo Fink K.A., Chiesa e papato nel Medioevo Watt M., Cristiani e musulmani Burke P., Il Rinascimento Braudel F., Espansione europea e capitalismo Huppert G., Storia sociale dell'Europa nella prima età mode Monter W., Riti, mitologia e magia in Europa all'inizio dell moderna Weisser M.R., Criminalità e repressione nell'Europa moderna

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Merlo G.G., Eretici ed eresie medievali Schorn-Schùtte L., La riforma protestante FILOSOFIA Hollis M., Introduzione alla filosofia Armstrong A.H., Introduzione alla filosofia antica Kerferd G.B., I sofisti

Guthrie W.K.C, Socrate Melling DJ., Fiatone Ross D., Platone e la teoria delle idee Ackrill J.L., Aristotele De Libera A., La filosofia medievale Bloch E., Filosofia del Rinascimento Cottingham J., Cartesio Yolton J.W., John Locke Ayer A.J., Voltaire Hòffe O., Immanuel Kant Gallie W.B., Filosofie di pace e guerra. Kant, Clausewitz, Marx, Engels, Tolstoj Taylor C, Hegel e la società moderna Bloch E., Karl Marx Murphy J.P., 17 pragmatismo Schòpf A., Freud e la filosofia contemporanea Bernet R., Kern I. e Marbach E., Edmund Husserl Jay M., Theodor W. Adorno Roberts J., Walter Benjamin

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MUSICA E SPETTACOLO Dahlhaus C. e Eggebrecht H.H., Che cos'è la musica? Besseler H., L'ascolto musicale nell'età moderna

Bianconi L., // teatro d'opera in Italia D'Amico F., Il teatro di Rossini Elam K., Semiotica del teatro Maravall J.A., Teatro e letteratura nella Spagna barocca Taviani F., Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento PSICOLOGIA E SCIENZE COGNITIVE Sanford A.J., La mente dell'uomo Tabossi P., Intelligenza naturale e intelligenza artificiale DEMOGRAFIA Vallin J., La popolazione mondiale Véron J., Popolazione e sviluppo SOCIOLOGIA Elster J., Come si studia la società. Una «cassetta degli attrezzi» per le scienze sociali Giddens A., Durkheim Parkin F., Max Weber Hamilton P., Talcott Parsons

Coulter J., Mente, conoscenza, società Popitz H., Fenomenologia del potere Poggi G., Il gioco dei poteri Kaufmann J.-C, La vita a due. Sociologia della coppia Laslett P., Una nuova mappa della vita. L'emergere della terza età Willaime J.P., Sociologia delle religioni Wilson B.R., La religione nel mondo contemporaneo Wolff J., Sociologia delle arti ANTROPOLOGIA CULTURALE Rivière C, Introduzione all'antropologia Schneider H.K., Antropologia economica Lewellen TG., Antropologia politica

POLITICA Rosen K., i7 pensiero politico dell'antichità Laurent A., Storia dell' individualismo Shklar J.N., Montesquieu McLellan D., Marx Poggi G.y Lo stato. Natura, sviluppo, prospettive Kellas J.G., Nazionalismi ed etnie Lijphart A., Le democrazie contemporanee Moreau Defarges P., Introduzione alla geopolitica Wallace W., Le trasformazioni dell'Europa occidentale Lippolis V., La cittadinanza europea ECONOMIA Dasgupta A.K., La teoria economica da Smith a Keynes Skidelsky R., Keynes Phelps E.S., Sette scuole di pensiero. Un'interpretazione dell ria macroeconomica Arndt H.W., Lo sviluppo economico. Storia di un'idea Lafay G., Capire la globalizzazione Dal Bosco E., L'economia mondiale in trasformazione

Grigg D., La dinamica del mutamento in agricoltura Cottrell A.H., Ambiente ed economia delle risorse Solow R.M., Il mercato del lavoro come istituzione sociale Stiglitz J.E., i7 ruolo economico dello stato Zanetti G. e Alzona G., Capire le privatizzazioni DIRITTO Ducos M., Roma e il diritto Mcllwain C.H., Costituzionalismo antico e moderno Galgano F., Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale De Vergottini G., Le transizioni costituzionali Giannini M.S., 17 pubblico potere. Stati e amministrazioni Miche

In bilancio dell'azione rivoluzionaria e una sintesi della più ecente storiografia in argomento: è quanto si propone il bro di Forrest, che discute le ragioni politiche e sociali che iel 1789 hanno portato il processo rivoluzionario ad (inescarsi. Valutando in particolare l'apporto popolare, autore esamina da un lato l'aspetto politico della Evoluzione, le fazioni in conflitto, le riforme costituzionali e mministrative tentate e attuate, e dall'altro l'opera di iforma dell'ordine sociale. Si delineano così i diversi modi l'intendere la questione dell'uguaglianza, l'abolizione dei privilegi, l'atteggiamento nei confronti dell'aristocrazia e dei noveri. Infine sono affrontati i temi della guerra e della ontrorivoluzione, decisivi nelPinfluenzare i programmi dei ivoluzionari. vlan Forrest insegna Storia moderna nell'Università di York. Tra i noi libri: «Conscripts and Deserters» (1989) e «Sokliers of the Vench Revolution» (1990). Lire.18.000 (i.i.) Cover design: Miguel Sai & C. ISBN 88-15-06837-fc 9788815068378 9788815068378