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Italian Pages 287 [138] Year 2006
Giovanni D'Alessandro
La puttana del tedesco Rizzoli
® 2006 RCS Libri S.p. A., Milano
Trama Abruzzo Centrale, conca di Sulmona. Ada è una giovane vedova provata dalla vita, con due figli piccoli. Da quando ha perso il marito tre anni prima - si è adattata a fare ogni lavoro, rinunciando completamente a se stessa. E' però fiera e orgogliosa, e sa nascondere le ristrettezze in cui vive. A volte se ne va da sola sui monti, come una pazza, a raccogliere gli orapi una verdura selvatica - e a piangere, là dove finalmente nessuno la vede. Dopo l'armistizio, le truppe tedesche calano sull'Appennino centrale, per attestarvi la linea Gustav. L'Abruzzo si avvia a pagare alla guerra il suo tributo di devastazioni, violenze, eccidi consumati a danno della popolazione inerme; questo mentre i bombardamenti angloamericani riducono interi centri abitati a cumuli di macerie... Nel dolente microcosmo di Ada compare un giorno Helm, un soldato austriaco di venticinque anni, con indosso l'uniforme della Wehrmacht, il quale pian piano entra nel suo mondo. Dopo l'iniziale diffidenza e timidezza, Ada si lascia conquistare. Tra loro nasce così un amore silenzioso e carnale, umile e perentorio, in lotta contro l'ostilità e la condanna della gente che fanno di Ada, vedova stimata da tutti, la scandalosa "puttana del tedesco" Questo è il titolo, venatamente duro, di una storia di tenerezza e amore che si afferma con tenacia, andando contro le logiche di un mondo in guerra. Una vicenda che si inscrive in una pagina del secondo conflitto mondiale non adeguatamente conosciuta per i suoi costi umani, resa da D'Alessandro con meticolosa aderenza alle fonti e con prosa asciutta, rocciosa quanto le montagne abruzzesi.
Tornero', quando sara' il momento - disse allora a se stessa - perché' e' innamorato. e nella vergogna che spesso accompagna la felicita', sorrise. A. V, che ha vissuto quegli anni in quei luoghi e alla quale la vita preparava altre non dichiarate guerre, tutte queste parole che ho inventato, ora che non c'è più, come se fosse lei a raccontarle.
CAPITOLO 1 Abruzzo, coste del monte Morrone 5 giugno 2000. Si è lasciata andare con la schiena contro la roccia. Pensa che morirà. La ritroveranno così, con le gambe stese per terra, la testa immobile sulla spalla, le braccia lungo i fianchi. Diranno: pensa dov'era, qua sopra - dove nessuno sarebbe mai venuto a cercarla - sul Morrone. Vecchia pazza. Cosa ci sarà salita a fare, se non a morire; le sarà pur venuto in mente che poteva aver bisogno di aiuto e non avrebbe trovato un'anima. Alla sua età, senza aver mai imparato a usare il telefonino. Così - mentre l'ambulanza comincerà ad arrancare per i tornanti, faticando sulla strada da lei percorsa a piedi - quelli che non la conoscono scuoteranno il capo, dicendo per compassione: povera signora, la testa non le funzionava più. Ma quelli che la conoscono avranno labbra strette, per non esprimere, su una morta, il loro pensiero: altro che povera signora, era la caparbietà in persona; e c'è rimasta secca, stavolta. I figli si daranno la colpa per non esserle stati dietro. Pensando a loro, due lacrime, spinte da un singhiozzo, rotolano lungo le guance. Be, se dev'essere, che sia subito - prega. Voglio addormentarmi e non sentire più niente. Non quest'affanno in petto, non questi colpi irregolari del cuore che non ce la fa più. Mi sveglierò in quell'altro mondo. Anche morire è una cosa da fare prima o poi, no? Io non ho paura. Se è arrivata l'ora, è arrivata. Ma non voglio soffrire; non voglio risvegliarmi con un muso di cane sulla faccia, quando non avrò più neanche la forza di mandarlo via. Ho sbagliato a venire quassù. Per cosa, poi? Non posso pensarci. Per raccogliere gli orapi, la verdura di giugno. Da sola. Che cosa stupida: morire per dell'erba, quando potevo continuare a vivere. Almeno un altro po. Ma il vero motivo non sono gli orapi. E' il sogno. L'incubo di stanotte, che è continuato anche dopo che mi ero svegliata; quell'idea fissa che mi ha costretto ad alzarmi, ansimando per la paura, come se tutto dovesse risuccedere. Sono passati quasi sessant'anni da allora. Tutto è cambiato. Anche la strada che si fa per arrivare qui sopra è stata asfaltata nel primo tratto. Solo dove comincia la brecciata, tutto è rimasto come allora. I sassi e la polvere. Le pozze d'acqua fatte dalla neve scioltasi. La valle, laggiù, così lontana. Il silenzio, rotto solo dal verso delle cornacchie. E le lacrime, ora come allora, che hanno ripreso a scendere appena passata l'ultima casa, quando ero sicura che nessuno mi vedesse. Sessant'anni fa piangevo per ore, smettendo e ricominciando. Piangevo e parlavo coi morti, strappando orapi alla montagna. Alla fine riscendevo con le retine di corda piene di verdura con la terra, la sciacquavo al fontanile e la scolavo, perché quelli ai quali andavo a venderla non pensassero che volevo farmi pagare anche la terra o l'acqua. La scambiavo con un bottiglione di latte, con del burro o con della ricotta per i bambini; erano cose che non si trovavano e loro ne avevano bisogno per crescere. A volte, quando andava proprio bene, trovavo anche un pezzettino di lardo, prezioso come l'oro. Anche qui, dove adesso sto morendo, devo essere passata. Devo essermi spinta oltre quelle rocce, perché gli orapi si nascondono nei punti difficili; mi ci arrampicavo come una capra, fin dove nessuno arrivava; anche se qui è stato sempre deserto, perché nessuno era così disperato da salirci. Tutti stavano meglio di me. Le donne della mia età o avevano un marito che pensava a loro, o non erano ancora
sposate e stavano in famiglia, aspettando che i fidanzati tornassero dalla guerra. Io non aspettavo nessuno. Per me la vita era già tutta alle spalle. Cominciata e finita presto. Ada Trozzi maritata Tafolla, ventott'anni da compiere, vedova da tre. Un marito, Guerino, morto di affezione ai polmoni nel febbraio '40, qualche mese prima che scoppiasse la guerra, lasciando due figli, Concezio di quattro anni e Mino di due. La mia storia era tutta qui. Non era necessario spenderci altre parole. Dolore, miseria, disperazione, paura erano implicite. A dirla così, ci vuole poco oggi. O forse è il cuore impazzito che accelera ogni cosa per non ricordare. Ma non era la stessa cosa nel 1943. I giorni erano lunghi, le notti anche più, non passavano mai. Non sapevo come tirare avanti. Trovare qualcosa da fare giorno per giorno, mettere insieme pranzo e cena, solo questo avevo in mente, da quando mi svegliavo a quando mi rimettevo a letto; e dopo essermi stesa, non riuscivo a dormire che poche ore. Mi svegliavo e aspettavo l'alba, con gli occhi sbarrati, al buio, pensando che forse sarei riuscita a risolvere il problema quel giorno, ma non in futuro. Prima o poi se ne sarebbe presentato uno troppo grande per me, che non ce l'avrei fatta a risolvere. E stanotte, una notte così è tornata. Si è staccata dal passato, ha scavalcato tutti gli anni ed è venuta in mezzo a questo tempo. I ricordi non si fanno cacciare via per sempre. Si ribellano a volte e tornano nei sogni, dove il tempo si arrende a se stesso, ritirandosi. Una donna, stamattina presto, si è vestita al buio, con un velo di paura nello sguardo, per correre verso il nulla. Non sa in che tempo vive, non le importa. Si è tirata dietro il portone di questa grande casa, girando piano la chiave, per non farsi sentire da quelli che dormono, dentro. Ha ottantaquattro anni. Ne dimostra molti di meno, anche se allo specchio le sembra di essersi abbassata di statura e ingrossata. Lei - così alta, snella - a volte non si riconosce. I capelli bianchi sono tagliati corti e ben curati. Gli occhi chiari, luminosi, sono sempre stati un'attrazione, su quel volto dai lineamenti regolari - il naso piccolo, la bocca morbida, l'ovale perfetto - che fanno pensare anche adesso a chi la guarda: dev'essere stata molto bella. Ha un golfino addosso - alle sei di mattina fa ancora fresco, a giugno - e un elegante foularino stretto al collo. Gliel'ha comprato in Francia la figlia. Quando viaggiano, i figli le riportano dei regali costosi. Lei non approva che buttino via i soldi così. Basta un pensiero - dice; ma dentro di sé scuote la testa: non le piace come si comportano, soprattutto coi nipoti; non insegnano loro il valore del denaro conquistato col sacrificio, il fatto che l'agiatezza, in cui sono nati, non è scontata; è anzi sempre a rischio. E poi non è solo questo: il benessere non deve mai diventare un alibi per fare cose sbagliate. All'ottantesimo compleanno, per esempio, le hanno regalato quell'orologio d'oro di una marca famosa. Aveva capito che costava molto, ma quando è riuscita a farsi dire la cifra dal gioielliere, ha trattenuto il fiato, guardandolo come un nemico: costava più di un'automobile. Che ladro. Era riuscito a far tirare fuori tutti quei soldi ai suoi. Bene, avrebbe ordinato loro di non metterci più piede. Poi ha dato l'orologio alla figlia. «Alla mia età, con questo al polso, sembrerei la reclame dello scippo» ha detto. «L'orologio uscito in omaggio col giornale a me basta e avanza. E' preciso. E' anche più leggero.» E' uscita affrettando il passo. Non sta andando alla prima messa in chiesa, come risponderebbe a chi la incontrasse, sebbene non ci sia un'anima in giro così presto. Va a prendere l'autobus degli studenti che scende da Pacentro alle sei e tre quarti, diretto al capolinea degli extraurbani; sono gli ultimi giorni di scuola, quindi c'è ancora. Arrivata lì, dovrà aspettare un po la coincidenza. Entrerà nella chiesa vicina, in modo da non farsi vedere. E' quasi certa che l'altro autobus, quello per le Marane che
arriva sotto al monte Morrone, parta alle otto. Una volta almeno partiva a quell'ora. E se non dovesse esserci più, pazienza, tornerà indietro. Ma non poteva restare a casa. Qualcosa, ridestatosi da un altro tempo, la spingeva fuori. Non è uscita dal sogno, non può farlo, perché il sogno di oggi è la realtà di ieri e, con gli anni, le due cose abbandonano l'inganno di essere distinte, per presentarsi coalizzate contro un avversario più debole. E' tornata a essere una donna sola che deve lottare. Come sempre. Ecco, sale sull'autobus, seguita da un'occhiata di curiosità dell'autista, mentre timbra il biglietto; perché quel ragazzo non pensa ai fatti suoi? Gli uomini l'hanno sempre guardata. Forse non ha ottantaquattro anni. Di colpo ne ha ventotto. Non lo sa, è confusa. I numeri comunque non significano niente; la vita che le è fluita dentro - anche sottratta tutta quella alle spalle - dà sempre uno come risultato. Ma duemila e millenovecentoquarantatré sono numeri che significano qualcosa, e non solo anni. Significano mondi opposti. Di benessere e tranquillità, adesso, di una famiglia con tanti figli e nipoti, che non hanno coscienza di come fosse il passato, perché non l'hanno conosciuto o erano troppo piccoli per ricordarselo. Di ansia e peso sul cuore, allora, che avvolgevano ogni istante della giornata, sino a far desiderare che tutto finisse, anche con una santa morte, purché venisse meno l'angoscia. Questo significano, e significheranno sempre. Vite diverse. Ora, riunite, gemono davanti ai suoi occhi, confuse nei cespugli in fiore, nei campi di grano alto, negli alberi dalle grandi chiome che corrono veloci ai lati della strada, raccontando senza parole una storia di povertà, paura e amore. Era il terzo anno di guerra e non era l'ultimo, come si era pensato subito dopo la caduta del fascismo. Quando la radio ne aveva dato l'annuncio, in quell'afosa giornata di luglio, erano stati in molti a credere che fosse iniziato un moto inarrestabile. La gente, dopo tanto tempo, si era riunita liberamente nelle piazze e nelle strade a manifestare. In tanti avevano esultato. Le tessere fasciste erano state stracciate davanti alle sedi del Pnf. Il re aveva cacciato Mussolini e messo qualcun altro a capo del governo. I fascisti sembravano spariti. Gli angloamericani - che non si chiamavano ancora alleati perché gli alleati erano ancora, ufficialmente, i tedeschi - sarebbero arrivati di lì a poco. In Italia molte cose sarebbero cambiate. La penuria di generi alimentari, le tessere annonarie, le file ai macelli in piena notte per avere un pezzetto di carne sarebbero finite; le cose, e prima di tutto i viveri, sarebbero ricomparsi, pian piano, nei negozi. Al mercato i contadini avrebbero smesso d'incarognirsi e chiedere, a brutto muso, prezzi prendere o lasciare «Tant'è, signora, potete farvi un giro per vedere a quanto lo vendono gli altri; sennò: buongiorno» - e qualcuno di loro, col ritorno degli uomini dalla guerra, l'avrebbe pure pagata, per il modo in cui si era comportato. Il rientro degli uomini avrebbe rimesso in ordine tante cose. Certo, nessuno avrebbe risarcito i tanti che in Russia, in Africa e su altri fronti avevano perso i cari, ma anche quella carneficina sarebbe finita; sarebbe cessato lo stillicidio d'improvvisi pianti e grida da dentro una casa, seguito dal chiudersi delle persiane, al presentarsi davanti alla porta di due militari col berretto in mano, o di un parente messo in mezzo a dare la triste notizia o di un prete che se ne accollava l'incombenza. Tobruk, Nikolajewka e altri luoghi, rapito il loro tributo di morte, sarebbero ridiventati nomi di lontani deserti e steppe, che non avevano niente a che fare con Sulmona. Tutti pensavano che gli eserciti delle grandi potenze, da qualche altra parte del mondo, se la sarebbero vista tra loro, liquidando i nazisti. I tedeschi erano odiati da tutti perché avevano scatenato la guerra. Fino a quando l'Italia non si era impegnata nel conflitto, sembrava che potessero farsi le loro guerre lontane, che
non l'avrebbero coinvolta. Poi gli italiani erano stati chiamati alle armi e avevano cominciato a morire a migliaia. Allora quasi tutti avevano maledetto i tedeschi e i fascisti loro alleati. Ora le cose si erano rovesciate. L'America era entrata in guerra, il fronte antitedesco era più forte e avrebbe vinto. La caduta del fascismo era arrivata presto, in fondo; nessuno si aspettava che vent'anni si cancellassero così rapidamente, destituendo e arrestando Mussolini in una notte. Cosa avrebbero fatto però i tedeschi? Capivano che la guerra era persa, ma il nazismo era saldo al potere: i tempi per la fine della guerra si annunciavano lunghi. Sarebbero stati lunghissimi, invece. E carichi di dolore, come non avevano ancora mostrato di poter essere, malgrado tutti i morti. Tempi in cui la morsa di ferro dell'occupazione si sarebbe fatta conoscere, per la prima volta, in Abruzzo, più che in altre parti dell'Italia. Non al Sud: non negli agrumeti di Sicilia, non nei mandorleti di Calabria, non nei campi di grano di Lucania, non negli oliveti di Puglia, felici, indifferenti al passaggio di un esercito diretto altrove, che risaliva incontrastato l'Italia. Qui, dove le montagne avrebbero sbarrato il passo. Qui, dove la luce stenta, ogni giorno, a emergere dalle più alte cime dell'Appennino, che rinserrano imprendibili passi e valli. Qui, dove Kesselring avrebbe attestato il tronco orientale della linea Gustav, la vera guerra - dopo la proclamata cessazione delle ostilità - stava per cominciare. Le sirene avevano suonato più a lungo del solito, in quel mattino di fine agosto. Ma era già successo altre 15 volte. Inoltre i sulmonesi si erano un po stancati d'interrompere le loro occupazioni per quegli inoffensivi ricognitori; di chiudere tutto, prendere il valigione pronto presso l'uscio e ritirarsi nei rifugi in attesa che un'altra sirena annunciasse la fine del sorvolo di un aereo isolato. Ada stava preparando il pane da far cuocere al forno e aveva pensato che non poteva esserci un momento meno indicato, perché suonasse la sirena. Mancava meno di un'ora a mezzogiorno e avrebbe avuto solo pane secco da mettere in tavola. Pazienza, l'avrebbe bagnato. Poi le era venuto in mente che forse avrebbe fatto in tempo. Bastava portarsi dietro l'impasto in una tovaglia. L'allarme, magari, sarebbe cessato prima. La cantina dell'Agricola del Fascio che fungeva da rifugio antiaereo - a qualche minuto a piedi da casa sua - era proprio vicino al forno, così non sarebbe dovuta tornare indietro. Sciacquandosi le mani in un catino, si era affacciata subito a chiamare i bambini che giocavano davanti a casa. Avvolto il pane in un mantile, ne aveva annodato le estremità per tenerle con una mano, mentre con l'altra libera aveva poggiato la valigia fuori della porta, mettendosi in bocca, un attimo prima, le chiavi, per essere sicura di non rimanere chiusa fuori. Da quando erano cominciati gli allarmi, qualche settimana prima, rifugi erano stati attrezzati in fretta nei sotterranei dei conventi, nelle cripte delle chiese o negli scantinati delle case più grandi. Correre lì col valigione, tirandosi dietro i bambini, era diventata una scena normale, nel '43. Triste. Ogni volta era un po come sfollare non da casa, ma dalla vita; era l'immagine di quella che sarebbe diventata l'esistenza se - Dio non volesse - la casa fosse stata distrutta in un bombardamento. Per questo tutti si erano preparati il borsone, mettendoci dentro i risparmi, qualche oggetto prezioso, tutto quello che potesse servire. Le porte delle case vicino a quella di Ada venivano chiuse in fretta. Le mamme si assicuravano che i bambini non si allontanassero. Qualcuna aveva più problemi; come la sora Vincenzina che oltre a portarsi dietro i figli, doveva spingere la carrozzella della madre invalida. Fino ad allora, per questi poveri vecchi, l'unico rischio di morte violenta veniva dal terremoto, ma per quello non c'era granché da fare. Con gli aerei era diverso. Le sirene entravano nella vita di ogni giorno, sconvolgendola. Costringevano a fuggire, obbligavano a tirar su all'improvviso dalle culle i piccoli addormentati e a tenere sempre a portata di voce i più grandicelli;
imponevano esodi in successione; creavano dipendenza, quasi sempre, dalla buona volontà degli altri, quando c'era, per essere aiutati. Il pericolo dal basso era conosciuto. Il pericolo dall'alto era orribilmente nuovo. Faceva vivere nella costante apprensione di dover scappare. Rimodellava la vita sulla fuga, sulla corsa, sul levare improvvisamente gli occhi al cielo - come non era mai successo, a memoria d'uomo non per pregare o invocare grazia, ma per scorgervi il male in arrivo, annunciato dal metallico, lacerante suono degli altoparlanti. Ada si affrettava verso il rifugio, guardando i figli che saltellavano davanti a lei, giocando con gli altri bambini. Si sentiva soddisfatta quando li confrontava con loro. Niente nell'aspetto dei due bambini avrebbe lasciato indovinare le ristrettezze in cui stavano crescendo. Le guance paffute e colorite, le gambette sode, l'altezza - giacché erano più alti degli altri bimbi - li facevano apparire per quello che erano, ben nutriti, come se avessero avuto alle spalle una famiglia senza problemi. Invece non avevano una famiglia, ma solo una mamma e due nonni, con pochissimi soldi. I risparmi se li erano mangiati i dottori e le cure per il marito Guerino, specie nell'ultimo periodo, dei ricoveri a Roma. Il suo stato di salute era grave, avevano detto i medici, il tessuto polmonare era compromesso. Ciononostante, ogni cosa era stata tentata per salvarlo. Nessuno poteva rassegnarsi al fatto che un uomo così morisse a trentott'anni. Ma non c'era stato niente da fare. Aveva cominciato a dimagrire, aveva dovuto smettere di lavorare come operaio alla Nobel di Pratola, si era allettato, era morto. Allora - in quel terribile anno e mezzo di malattia, che l'aveva ridotto pelle e ossa - Ada aveva giurato a se stessa che a Ezio e Mino non avrebbe fatto mancare niente. Per quanto era nelle sue possibilità, almeno. L'aveva giurato anche a lui, che aveva visto piangere solo una volta in tutta la vita, per questo motivo: non riuscire - le aveva confessato - a darsi pace di lasciarli senza chi provvedesse a loro. Così, dal '39, si era messa a lavorare all'Unione Nazionale Esercizi Elettrici, per conto di una ditta di pulizie. Lavava le scale, i pavimenti e i bagni, spolverava e vuotava i cestini negli uffici, dopo che gli impiegati se n'erano andati. Al marito però non aveva detto la verità. Siccome sapeva far di conto - per aver aiutato uno zio a tenere una pensioncina in montagna, dalle parti sue, vari anni, d'estate - gli aveva fatto credere che all'Unione l'avevano assunta per un lavoro da aiuto contabile, qualche ora di pomeriggio. Ai suoceri, che sapevano tutto, aveva chiesto di non raccontare la verità al marito. Aveva ingiunto loro: ditegli che faccio la contabile; non fatelo soffrire dicendogli che mi sono messa a fare la strusciascale. Io ho bisogno di lavorare. Devo pensare ai bambini. Quando queste cose erano successe Ada aveva già capito che sarebbe morto. Prima no. Prima che ogni giorno diventasse un rantolo e significasse fazzoletti chiazzati di sangue e di materia - che lei subito faceva sparire in una bacinella coperta, piena d'acqua saponata - Rino sembrava ancora l'uomo vigoroso che qualche anno prima era salito a Pietransieri, il suo paese sui monti, per chiederla in sposa e portarsela in città. Era un bravo giovane. Ada aveva capito subito che si sarebbero voluti bene e se n'era innamorata. Scendere a Sulmona era stata un'ulteriore gioia. Tutte le ragazze che vivevano in montagna volevano trasferirsi in città. Da sposi erano andati a stare in una casetta sulla stessa strada di quella dei suoceri, al Ponte Nuovo, l'ultima di Sulmona verso la campagna aperta. Lì, nei primi anni erano stati felici. Avevano messo al mondo due figli, fatto pranzi per gli ospiti, e riso e ballato finché faceva buio, d'estate, sulla piccola aia, con qualche altra coppia di sposi giovani, ascoltando la radio, poggiata sul davanzale della finestra. Poi, improvvisamente, era arrivata la malattia di Rino. Che lei non capiva, non voleva vedere sebbene l'aspetto di lui mutasse di mese in mese; che si rifiutava di far entrare nella sua vita, come se non potesse farne parte. Poi, un giorno, quando ormai
l'evidenza non consentiva più di chiudere gli occhi, si erano trovati soli in cucina. Rino aveva detto una frase - c'è sempre una frase che svela l'avvenire; che se n'esce per sbaglio, rompendo un guscio di silenzio, per mostrare la strada su cui ci si è già incamminati, senz'essersene accorti -, aveva detto: bisogna volere ai vivi lo stesso bene che ai morti e non bisogna lasciare che i morti rubino loro la vita; se vuoi bene a me, devi farmi stare tranquillo che vorrai bene anche a te stessa, hai capito? sei giovane. Lei stava lavando i piatti, di spalle. Gli occhi avevano cominciato a riempirsi di lacrime, a mano a mano che quella frase le calava in corpo. Dunque Guerino sentiva che sarebbe morto. Pensava a lei senza di lui. Le stava dicendo di risposarsi. Si era quasi offesa, si era asciugata le mani per metterglisi di fronte, a rispondere che doveva smetterla di farsi passare per la testa certe cose e pensare solo a guarire, quando un bicchiere era scivolato, si era rotto e nel poggiarci sopra la mano per riprenderlo, si era tagliata. Allora - con le mani appoggiate al lavandino, senza girarsi - si era messa a piangere, e non per il taglietto; per le parole che aveva ascoltato. Aveva pianto senza potersi fermare, a dirotto, singhiozzando. Lui si era avvicinato e aveva preso a consolarla, tenendosi a distanza. Non l'abbracciava più, non le si avvicinava neppure, per paura di tossire. In quel momento le si era aperto il futuro. Si era vista sola, con un uomo che avrebbe voluto esserle vicino e toccarla, stringerla, accarezzarla, ma non poteva farlo; era un uomo alle spalle, era già lontano e lo sarebbe stato sempre più. Un filo di sangue si era sciolto nell'acqua, allargandosi in volute via via più esili, prima di farsi inghiottire dal lavandino. A tre anni di distanza, Ada non era ancora sicura che tutto quello ch'era venuto poi fosse realmente accaduto. Le sembrava che una parte di lei fosse ancora lì, ad aspettare Guerino che tornava dalla fabbrica la sera, a mettergli in tavola qualcosa di buono da mangiare. Se si distraeva, a volte le sembrava che girandosi l'avrebbe visto giocare con Ezio, o affacciarsi alla culla di Mino per guardarlo mentre dormiva. Scacciava l'immagine dell'ultimo periodo, del funerale, di tutta quella gente in chiesa che l'abbracciava, dicendole: coraggio, fatti forza, devi pensare ai bambini adesso; e non avere paura, ti aiuteremo noi. Parlavano in buona fede, ma non dicevano la verità, perché poche settimane dopo nessuno pensava più a lei e alla sua tragedia. Ne era cominciata una più grande - la guerra - che aveva reso vedove altre donne e sole, anche prima di sposarsi, altre giovani, fidanzate. Un fiume di pena aveva fatto scolorire e inghiottito ogni rivolo di dolore personale. Allora lei aveva alzato la testa e cacciato in gola le lacrime. Era cambiata. Aveva accettato che la capacità di gioire uscisse dalla sua vita giorno dopo giorno, senza accorgersene, forse perché quando si è impegnati a lottare, non si ha tempo neppure di sentire che la vita se ne va; è così: la gioia se ne va senza dolore. Anzi la guerra le era stata d'aiuto, perché a volte l'avevano chiamata a lavorare, qua o là, in quei tre anni, essendo necessario rimpiazzare gli uomini partiti. Per qualche tempo aveva lavorato anche alla fabbrica di Pratola dove faceva l'operaio Guerino ed era stato un buon periodo. Quelli che avevano conosciuto Rino le parlavano di lui ed erano gentili. Poi la fabbrica era stata militarizzata, perché produceva esplosivo per munizioni, i turni avevano coperto tutta la giornata e le donne erano state licenziate. Allora si era messa ad assistere i malati nelle case, a lavorare come stagionale in campagna e a fare i servizi dovunque le si presentasse l'occasione. L'avevano anche aiutata i suoceri, soprattutto a tenere i bambini quando si assentava. In giro c'erano molte facce tristi. Tante donne sole non avevano saputo farsi forza. Alcune erano rimaste come paralizzate dall'assenza degli uomini; abituate a essere mogli e madri, da sole si erano ritrovate sperdute; aspettavano perciò che la bufera passasse, che i
capi famiglia tornassero. Altre, come lei, avevano reagito. Contavano solo sulle proprie forze e si riconoscevano dallo sguardo ansioso e selvaggio, di chi si guarda intorno in cerca di cose da fare, a volte senza sapere quali. La prima era lavorare, provando, quando ce n'era modo, a mettere da parte qualche lira e pregando Dio che non venissero fuori spese impreviste. Così, giorno per giorno, si rubava al giorno stesso quello che sarebbe bastato per il domani, per un pranzo in più, una cena in più... Aveva un piccolo tesoro da parte. A luglio era riuscita a procurarsi mezzo tommolo di farina dal mulinaio, lavorandoci tutto il mese. Magari il mulinaio, don Dino, l'avesse richiamata; gli si era raccomandata per questo. Era una grazia di Dio stare in mezzo a quella montagna di farina e ogni sera riportarsene a casa un po, col suo permesso. Non le pesava insaccare quintali di farina, ore e ore; non le pesava ammucchiare i sacchi, sebbene fosse un lavoro da uomini. Aveva potuto anche preparare qualcosa al figlio per il compleanno. Ai primi di agosto Concezio aveva compiuto sette anni e, con un po di strutto, aveva potuto fare due ciambelloni. Il problema era stato trovare lo zucchero. C'erano voluti due mesi, ma Ada sapeva fare bene i conti e aveva cominciato a nasconderne un cucchiaio settimana per settimana. La tessera annonaria non conosceva i compleanni, bisognava pensare a tutto per tempo. Per le uova, fortunatamente aveva le gallinelle a casa dei suoceri e la regolarità con cui le deponevano era qualcosa per cui dire grazie a Dio ogni pomeriggio. I suoi figli campavano a uova. Così avevano fatto una bella scorpacciata di dolce preparato in casa, per un paio di giorni. E vedere il musetto di Ezio e Mino, quando la mattina bagnavano la fetta di ciambella nel latte con l'orzo e mangiavano a guancette piene, era stata una festa soprattutto per lei. A parte la disponibilità di farina, al mulino la paga era decorosa, per lei anche più che per l'altra lavorante, Adalgisa, una contadina che non sapeva leggere e scrivere. A lei, che invece sapeva anche far di conto, il mulinaio, conosciutala col tempo, aveva affidato la nota dei ritiri e delle consegne e poi anche del dare e dell'avere. Al mulino era stata bene anche perché lì non la vedevano lavorare. Non le piaceva andare a far la serva nelle case, essere comandata e osservata. Era umiliante. Chi la chiamava, non sempre era educato, pretendeva da lei, come se potersi permettere una serva in tempo di guerra fosse un privilegio che l'interessata doveva meritarsi; e sebbene Ada non fosse un tipo remissivo, su certe cose non era in grado di fare le sue ragioni; non una sola volta le era capitato che, approfittando dell'orgoglio per il quale non contrattava mai, le dessero meno di quello che altre riuscivano ad avere. Pezzenti e pretenziosi ecco com'erano, chi più chi meno - certi, nelle cui case andava a lavorare; non le erano simpatici, ma non diceva mai di no. Al mulino la fatica era maggiore, ma lo era anche la libertà. Fare la contabile, nel pomeriggio, la compensava del lavoro manuale del mattino. I contadini e gli acquirenti arrivavano dopo pranzo e la trovavano con il registro in mano, pronta a fare i pesi e le note. Per questa incombenza, finito d'infarinarsi, si dava sempre una rinfrescata e indossava la vestaglietta buona, che teneva appesa in un punto dove non potesse imbiancarsi di farina: quella con le toppe per la fatica, quella non rattoppata per la presenza. E quando la indossava, nella sua semplicità, faceva figura. Se avesse avuto tempo per pensare a sé, si sarebbe vista com'era. Aveva «tutti i sacramenti, ma proprio tutti, ah, che fanno bella 'na femmina», come aveva sentito dire a bassa voce, una volta, da un contadino a un altro. Era da tempre abituata ad ascoltare questi apprezzamenti, che faceva finta di non sentire. Sapeva di essere bella. Non aveva un aspetto italiano. I capelli biondo cenere, gli occhi chiari, la carnagione bianchissima non erano infrequenti tra i montanari come lei, ma erano rari in
pianura, dove le conferivano un aspetto nordico. La grazia del volto, dai lineamenti piccoli, conservava poi un che d'incongruamente timido, contrastando con lo splendore del personale. Alta, snella per costituzione oltre che per necessità, aveva seno e fianchi sodi, gambe muscolose da camminatrice e un Corpo che due maternità avevano reso florido, come può esserlo quello di una ragazza in piena salute, prima di aver contato trenta primavere. Era insomma una di quelle donne su cui lo sguardo d'un uomo torna a potarsi con insistenza, come se non potesse staccarsene; come se avesse visto - lui solo - un tesoro, nascosto dietro forme schive. Era bella, era in fiore, ma era in lutto. Non avvertiva più alcun piacere per il suo aspetto. La vena della gioia si era completamente chiusa nel cuore. Per tre anni si era imposta di pensare che la vita va avanti, ma - come spesso accade, dopo un gran dolore - il sopravvivere aveva ucciso il vivere. Era diventata un'altra persona. Ada ragazza, sposa, moglie e madre felice, era morta in una guerra senza nemici, che non smetteva di essere combattuta ogni giorno. Il rifugio antiaereo era il vasto sotterraneo di una villa appena fuori città, vecchia di secoli, che l'Agricola aveva preso in affitto. Ada abitava vicino, dato che la sua casa era una delle ultime di Sulmona in quella direzione. Per arrivarci, doveva fare un pezzo di strada, percorrere il viale di accesso, entrare nel vasto atrio e scendere una scala a chiocciola. Lo fece tenendo davanti i bambini e stando attenta che non si spostassero verso la parte stretta della scala e cadessero. Appena entrata, vide una novità, molti materassi accatastati e, sopra, delle lenzuola ripiegate. Capì che erano per i bambini. Non si era ancora presentato un allarme notturno, ma poteva succedere e, per questo, qualcuno aveva pensato a una sistemazione per farli dormire. Intanto i piccoli avevano preso a giocare, eccitati da questo diversivo di ritrovarsi tutti insieme nel cantinone poco illuminato, che avevano imparato a conoscere da qualche settimana. Ada poggiò la valigia per terra, in un angolo dove nessuno potesse inciampare e ci mise su il mantile con la pasta di pane. Era accaldata, nell'afa di fine agosto. Tirò fuori il fazzoletto e se lo passò sulla fronte. Salutò con un cenno del capo quelli già arrivati e si sedette su una delle panche più in disparte, per non essere costretta a parlare. Non era mai stata troppo di compagnia, anche prima che la sua vita cambiasse. Adesso si era proprio chiusa. Le sembrava che i problemi che gli altri venivano a raccontarle le dessero la misura di quant'erano più grandi e irrisolvibili i suoi: «Quando Vittorio verrà in licenza, forse, sai, il mese prossimo...»; «Quando Alfredo tornerà...». Guerino non sarebbe tornato mai, non sarebbe mai andato in licenza dalla morte. Perciò non voleva mollare. Se qualcuno le si avvicinava per parlare, rispondeva a monosillabi, con gentilezza, ma senza incoraggiare la conversazione. La cantina era fresca e regalava un po di ristoro dall'afa. Si mise a pensare. Se l'allarme fosse durato quanto gli ultimi, si sarebbe fermata al forno sino alla cottura, anzi no, avrebbe lasciato lì il pane, avrebbe riportato a casa il valigione e sarebbe passata con i bambini dai suoceri, che da un momento all'altro sarebbero arrivati; a proposito, come mai non si vedevano? Aveva raccomandato loro di uscire appena l'allarme cominciava a suonare, ma i vecchi Impiegavano più tempo a fare quella poca strada... Anche a loro le toccava pensare. Avevano solo un'altra figlia, sposata nel nord Italia, per cui l'unica a occuparsi di loro era lei. Da quando era morto Guerino, erano invecchiati di colpo. Per mesi aveva dovuto consolarli, lei che avrebbe avuto bisogno di essere consolata. Si erano lasciati andare. Non erano stati in grado neanche di pensare al loculo dove mettere Guerino. La madre poi si era mezza fissata che non doveva passar giorno senza che andasse a trovare il figlio al cimitero, anche d'inverno con la neve, come se ci fosse solo quello a
cui pensare. Rino non avrebbe approvato, avrebbe detto: chi muore giace e chi vive si dà pace. Ma come fa a darsi pace una madre che vede l'unico figlio maschio andare incontro alla morte, nel fiore degli anni, prima di lei? Quei due vecchi non cucinavano, non mangiavano, non facevano più niente. Gino cercava di consolare Cettina e poi usciva a fumarsi mezzo toscano ammollato tra le lacrime, per non farsi vedere. Così perché non morissero appresso al figlio - subito dopo il lutto, Ada si era trasferita a casa loro e ci era rimasta sei mesi. Erano buoni, per carità, ma la loro era un'altra casa, non la sua e il cambiamento di abitazione accompagnatosi al lutto gliel'aveva fatto pesare anche più. La situazione era un po migliorata col primo lavoro. Allora si era accorta di quanto fosse prezioso affidare ai nonni i bambini, lasciarglieli quando una corriera partiva presto al mattino, sapere che con loro avrebbero fatto colazione, mangiato e riposato un po nel pomeriggio; quando tornava, poi, trovava caldo in tavola anche per lei. Presi da quest'incombenza di dedicarsi ai nipoti, anche i vecchi si erano rianimati, poveretti, non avevano più tempo per lasciarsi andare... Ada era riconoscente a loro, che l'aiutavano in tutti i modi. Amavano i nipoti, troppo, fino a fargliele vincere tutte. Cercavano sempre di averli con loro, anche nei modi sbagliati, come quando la suocera si era messa in mente di portarli, un giorno sì e un giorno no, al cimitero a salutare il padre e quelli tornavano col muso lungo perché non avevano potuto giocare... Quando l'aveva saputo, Ada era dovuta intervenire: come era venuta in mente a Cettina un'idea del genere? I bambini dovevano stare coi compagni, svagarsi; oltre ad aver perso il padre, ci mancava pure che avessero qualcuno che li portava al cimitero! La suocera, mortificata, non ce li aveva portati più. Quando il primo lavoro era finito, Ada aveva riaperto casa e ci era tornata. I suoceri si erano fatti promettere da lei che sarebbero andati loro a casa sua, quando l'avessero chiamata da qualche altra parte. Le due case erano vicine e muoversi non era un sacrificio. Solo d'inverno, forse, si sarebbero ritrasferiti tutti dai nonni; per risparmiare legna, se ne trovava così poca. Si trovava poco, con la guerra, e si trattava dell'essenziale. Farsi un caffè era diventato un lusso. Lo si dolcificava con una punta di miele di favo; il toscanello di Gino era una rarità, che lui, abituato ad accendersene uno appena poteva, riusciva a far durare tre giorni, tirando due boccate e spegnendolo, con la lama del rasoio sul trinciato acceso. Anche per loro era guerra. Erano abituati a un figlio che pensava a tutto. Non li faceva mai trovare senza quello di cui avessero potuto aver bisogno; Ada si ricordava come lo vedeva alzarsi di scatto da una tedia, se si accorgeva che gli era sfuggito di procurare ai vecchi qualcosa; con quegli occhi pensosi, dandosi in silenzio la colpa per essersene scordato e subito pensando come recuperare... Quant'era buono, Rino, quant'era gentile, pensava Ada, quanto mi manca, oltre ogni parola; quanto è dedicato a lui ogni pensiero, ogni ricordo, Ogni momento di solitudine. Ma dov'erano i suoceri, adesso? Benedetto Dio, dalle scale continuavano a scendere altre persone, solo loro mancavano. Ah, eccoli, finalmente; erano gli ultimi. I Vecchi avevano sempre la testa da un'altra parte; chissà Cosa poteva esserci stato di più importante da fare che Scappare subito al rifugio. Come leggendole nello sguardo, Cettina si tenne a distanza e si fece abbracciare da Mino; poi cominciò a dirgli una serie di frasi veloci, per impedire a Ada di rimproverarla. «Sai che ti ha preparato la nonna? Una cosa buona. Indovina. E' una cosa che l'altra volta ti è piaciuta, anche Se te ne sei mangiata troppa; adesso no; quando vorrai mangiarla lo chiederai alla mamma, ci penserà lei a dartela... la marmellata di... indovina!... di more, bravo!» Gli diede un bacio in fronte, poi, tenendolo davanti come un messaggero di pace, si diresse verso di lei. «Mamma» le disse Ada con una punta d'irritazione «tutti gli anziani, qua, sono i primi a uscire di casa quando suona
l'allarme; voi siete gli ultimi. Se non vi avessi visto arrivare, che avrei dovuto pensare? Che v'era successo qualcosa. Sarei dovuta scappare a cercarvi, e come avrei fatto? A rischio mio e soprattutto dei bambini. Avrei dovuto lasciarli a qualcuno qua dentro; quante Volte lo devo dire: venire al rifugio non è come farsi una passeggia...» Tacque. Si accorse di star parlando ad alta voce. Si sentiva infatti un rumore, come di un grande tuono lontano, che si avvicinava. La suocera non l'ascoltava, si era girata a guardare il marito verso le scale. Tutti stavano in silenzio e fissavano il soffitto, come se quelle antiche volte cieche avessero potuto farsi attraversare dallo sguardo e rivelare l'origine del rumore; trattenevano il fiato. Che stava arrivando? Sembrava Dio padre onnipotente nel giorno del giudizio. Era un rumore meccanico enorme, un macinamento dell'immensa mola dei cieli, che riuniva tanti suoni diversi e sembrava non potesse crescere di più. E invece no, perché a ogni istante si faceva più forte, più vicino. Alcuni bambini smisero di giocare e corsero a mettere ansiosamente la manina in quella degli adulti. Questi erano quasi tutti in piedi. Alcune donne invocavano la Madonna e i santi, coprendosi la bocca. Non si era mai sentito alcunché di simile. La suocera disse ad alta voce: «Gino, Gino vieni qua!», perché il marito era rimasto come bloccato, insieme ad altri, ai piedi della scala. Poi vide che si era messo a salire i gradini. L'anziana prese a correre per impedirglielo, sicché a Ada non rimase che correre a sua volta dietro a loro, coi due bambini per mano, in mezzo ad altri che stavano facendo la stessa cosa. Si fermarono tutti sulla scala o intorno a essa. Nessuno osava uscire. La pazzia dunque non si era ancora impadronita di loro, come dicono che accada quando la morte chiama e il chiamato si volta a risponderle per seguirla, sordo a ogni altra voce. Tutti guardavano in alto, impietriti. Ada s'infilò nel gruppo, come meglio poté, per guardare anche lei. E si mise una mano davanti alla bocca. Lo spicchio di cielo che riusciva a inquadrare, oltre l'atrio, aveva cambiato colore. L'azzurro era coperto da sagome nere di aerei, che lanciavano ombre veloci, volando bassi, uno dietro all'altro, come se il loro passaggio non dovesse aver mai fine. Erano bombardieri angloamericani, cento, forse duecento. Provocavano un frastuono stordente, che faceva tremare la terra e le pareti. Venivano dalla parte di Raiano; qualche attimo dopo, si cominciò a sentire un rimbombo lontano, che andò intensificandosi con sibili. Stavano bombardando, ma non era la città il loro obiettivo. Gli aerei l'avevano sorvolata lasciandosela alle spalle. Stavano distruggendo la stazione. Solo perché era ubicata fuori dell'abitato, Sulmona non veniva distrutta; solo perché un viale - che per un miglio correva in mezzo a campi coltivati - la separava dal punto della città a essa più vicino, rappresentato dalla cattedrale, Sulmona si salvava. Se fossero state vicine, la rovina della stazione - tra le più importanti dell'Italia centrale, snodo obbligato tra il Tirreno e l'Adriatico, tra il Nord e il Sud - avrebbe attratto nella sua rovina, con indifferenza, tutto ciò che avesse accanto. Ma se la città veniva risparmiata, la sorte aveva in serbo una tragedia alla stazione. Nel momento in cui gli aerei la raggiungevano, erano appena arrivati due convogli in coincidenza, uno da Roma e uno da Pescara, con passeggeri che scendevano e salivano. Nel programmare l'incursione, non si era previsto che in quei minuti la stazione sarebbe stata gremita di gente; si era calcolato che ci sarebbero stati morti tra i ferrovieri e il personale tecnico, ma non si poteva solo la mala sorte lo poteva immaginare di trovarsi su quella verticale, pronti a sganciare bombe, mentre centinaia di passeggeri, da differenti treni, impegnavano l'area. Pochi minuti, meno di dieci, sarebbero bastati a evitare la strage. Pochi passi, due, trecento metri, e tutta quella gente sarebbe stata in salvo lungo il
viale. Si sarebbe voltata, trattenendo il fiato, e poi data alla corsa nelle campagne intorno, per assistere con raccapriccio alla morte scampata; il destino aveva invece deciso che quei poveretti sarebbero stati attori, non spettatori di quella tragedia. Gli scoppi e i sibili si susseguirono per qualche minuto, poi cessarono. Gli aerei girarono, ripassarono sul rifugio e si rimisero in formazione poco oltre, per tornare ancora a coprire tutto il cielo sopra il rifugio, riavventandosi verso la stazione. Questa volta fu una grandinata di esplosioni e sibili. I passeggeri in preda al panico erano intanto fuggiti dalla stazione e si erano rifugiati nel boschetto di fronte, attraversato dal torrente Velia, che andava poi a lambire la città. Pensavano di essere al sicuro nel bosco perché non c'era alcun obiettivo militare. Invece gli aerei sganciarono sugli alberi e fecero una strage. Alla stazione si salvarono in molti, tutti quelli che si erano assiepati nel sottopassaggio e non avevano obbedito all'istinto naturale di disperdersi nel boschetto. Anche la stagione diede il suo malefico contributo. Erano infatti sbagliate le rilevazioni aeree che avevano preceduto il bombardamento, i piloti erano stati per errore informati della presenza d'istallazioni militari nel boschetto. D'inverno, con gli alberi spogli, i piloti avrebbero visto che non ve n'erano e non avrebbero sganciato sui civili in fuga. Invece il folto fogliame dell'estate nascondeva tutto. Comunque fosse avessero capito qualcosa o no - l'accanimento sul bosco fu orribile, anche se inconsapevole. Sotto centinaia di bombe, in pochi istanti esso si trasformò in un inferno di fuoco, polvere, schegge, crateri, zolle schizzate e cadaveri, moltissimi dei quali smembrati e irriconoscibili. Erano donne coi figli, studenti, insegnanti, pensionati, ferrovieri, commercianti, vecchi che si spostavano all'interno della conca o si trasferivano, da Roma o da Pescara, tra i monti dell'Abruzzo, ritenuti più sicuri. Centossessanta morti, quattrocento feriti, si contarono in quell'incursione. A mezzogiorno del 27 agosto 1943, il boschetto non esisteva più. Solo il torrente Velia continuava a scorrervi, sempre uguale, trasferendo in città il suo lungo lamento di morte, in forma d'acque rosse. Quando gli aerei ebbero abbandonato la valle e, dopo poco, le sirene suonato il cessato allarme, la gente si riversò fuori dei rifugi, correndo. Tutti volevano vedere se la città era stata bombardata, se le loro case erano ancora in piedi. Ada uscì coi figli e il valigione, che lasciò ai suoceri. Disse loro: restate qua, vado io avanti a vedere. Corse, tra quelli che correvano di più, fino alla fine della strada. Molto lontano si levavano due enormi colonne di fumo nero, ma lo spazio dopo ogni albero del viale le confermava che la sua casa e tutte le altre della zona erano intatte. Capì che avevano bombardato solo la stazione. Voltatasi, vide i vecchi che arrancavano, alle sue spalle, con la valigia e i bambini davanti. Santo cielo, non l'avevano aspettata, secondo gli accordi. L'agitazione non era mai sotto controllo alla loro età. Doveva far cenno loro che potevano stare tranquilli, che anche la loro casa era intatta. Per questo allargò ripetutamente le palme delle mani, nell'aria, come a dire: andate piano, tutto è come prima. Era un segno atteso. Vide Cettina staccarsi dal gruppo e fermarsi insieme col marito, il quale poggiò il valigione. Pensò di tornare indietro da loro, ma il bisogno di andare a vedere più da vicino come stavano le cose era troppo forte e riprese a correre, un po meno agitata. I bambini intanto l'avevano raggiunta. Lei entrò in casa, ma li fece aspettare fuori, come se quelle mura fossero state violate. I bambini tuttavia erano spaventati e pochi istanti dopo s'infilarono dentro. Se li strinse al ventre, restando sull'uscio aperto, col cuore che batteva. Tutto era uguale a prima, ma aveva bisogno che la vista delle cose la rassicurasse, che da qualche andito nascosto non emergesse qualcosa, lanciato da
quei mostri volanti, a rivelare la sua presenza. I vicini stavano entrando nelle altre case lungo la strada. Si tranquillizzò, controllò che non ci fossero vetri rotti, e pian piano, seguita dai figli, chiuse la porta per andare a prendere i suoceri. Si voltò e li vide fermi davanti a casa, lui con la valigia in mano e lei con l'involto del pane. Poveri vecchi. Li fece entrare e sedere, ma loro si alzarono subito dopo per uscire a vedere cosa succedeva. Le due colonne di fumo erano diventate quattro, e si levavano alimentate da qualcosa di enorme che bruciava dalla parte della stazione. Gino disse: «Devo andare a vedere» nel momento in cui lei si accorse che Mino, il quale adesso sedeva su una sedia, in cucina, aveva il pantaloncino bagnato tra le gambe. Strano, non succedeva da quando era piccolo. S'era impaurito. «Ma dove devi andare, adesso!» disse al suocero. «Vado io a vedere che è successo.» E borbottò tra sé e sé che aveva passato più tempo a preoccuparsi per loro che per il bombardamento, mentre levava pantalone e mutandina al piccolo, lo lavava con una pezza umida, lo asciugava e cambiava. «Riscaldate la minestra, e fate mangiare qualcosa a questi» raccomandò ai suoceri. «Io vado e torno.» Nell'uscire ebbe il dubbio se portarsi l'impasto del pane. Non era il momento di andare al forno, ma doveva pure metterlo in tavola per la sera e, se quello vicino alla cooperativa era chiuso, forse in città ne avrebbe trovato uno che riapriva... Prese perciò l'involto e uscì. Sulmona appariva intatta. Lungo corso Ovidio, che attraversa la città, c'era gente che si riversava fuori delle case per andare verso la stazione. Ada lo percorse a passo svelto, incontrandosi con alcuni conoscenti che le chiesero se sapeva qualcosa e se c'erano stati danni dove abitava lei, all'altro capo della città. Da loro apprese che, oltre alla stazione di Sulmona, era stata bombardata, a Pratola, la fabbrica Nobel. Gli occhi di tutti erano fissi alle colonne di fumo, che ormai avevano raggiunto la città e diffuso una strana caligine in quel mattino d'agosto, come una nebbia innaturale d'estate. Si sentiva anche un odore acre. Erano i gas dei vagoni bombardati alla stazione che si disperdevano nell'aria, vagoni con materiale chimico che venivano proprio dalla Nobel. Conoscendone i turni, Ada andò istintivamente, col pensiero, a chi poteva essere in servizio prima di mezzogiorno e magari aveva perso la vita. Ma qualcun altro la informò, la maggior parte delle vittime era alla stazione di Sulmona. Un primo assembramento di folla era davanti all'Annunziata, dove si trovava l'ospedale. Si vedevano movimenti concitati di infermieri, crocerossine, volontari, militari, gente comune. Era in corso una raccolta di mezzi, anche dei pompieri e dei carabinieri; alcuni erano già usciti per andare a raccogliere i feriti; erano soprattutto mambrucche, carrozzelle trainate da cavalli. Attraversata la villa comunale, l'area ai lati della cattedrale era gremita di persone. Era stato disposto un cordone per impedire che corressero alla stazione. Solo i mezzi coi militari e il personale medico lo superavano, per raggiungere il luogo del disastro. Tra quelli cui era impedito di seguirli, tuttavia, alcuni aggiravano il blocco facendo finta di tornare indietro e buttandosi invece per stradine che scendevano alle circonvallazioni, nelle campagne. Chi aveva parenti sui treni o alla stazione, verso mezzogiorno, non si faceva certo trattenere e correva verso l'area colpita girando per i campi. Intanto i primi mezzi cominciavano a tornare. In quelli chiusi non si vedeva niente. Erano le facce sconvolte degli autisti e dei barellieri a parlare. Qualcuno assediato dai tanti che chiedevano notizie - si faceva uscire poche parole: «Un inferno. Non avete idea di che c'è, là sotto». Si vide un primo segnale sinistro, il sangue che colava dai mezzi chiusi, con i feriti dentro; si raggrumava sotto il sole d'estate in pochi istanti, come la scia di una vendemmia malefica fatta anzi tempo. Poi arrivò la prima mambrucca e fu l'orrore. Era scoperta e non nascondeva lo
sfacelo di ciò che trasportava. Si fece il vuoto per farla passare. Tutti si portarono le mani al volto, molti gridarono, mentre i carabinieri ordinavano a chi era lì di andarsene, di liberare il passaggio. I corpi dei feriti erano mezzi nudi e coperti di terra impiastrata al sangue, stretti in bende improvvisate, strappate dai loro stessi abiti, nel disperato tentativo di arginare un'emorragia. Giacevano supini, inerti o facendo movimenti lentissimi; gemevano, chiamavano, invocavano aiuto. Nessuno capì mai perché, fra di loro, fosse stato caricato il bambino. La mambrucca riportava solo i feriti e si vedeva che il piccolo era morto. Doveva avere cinque, sei anni. Una scheggia l'aveva raggiunto alla gola e quasi decapitato, per cui la testina, ripiegata avanti, ciondolava sul petto pieno di sangue in una posa innaturale, premuta dal corpo di un ferito alle sue spalle. La mambrucca rallentò, Ada gli vide la testina sbilenca, gli occhi che non guardavano più niente, le gambette aperte; tra di esse, la brachetta era tutta bagnata. Le venne subito in mente Mino, che aveva cambiato poco prima, al sicuro a casa sua. La testa prese a girarle all'istante, si portò una mano alla bocca. Fece appena in tempo a fare qualche passo verso un angolo, dove nessuno la vedesse. L'impasto di pane le cadde per terra e prese a vomitare.
CAPITOLO 2 Ada fu tra i primi a veder arrivare i tedeschi. Si annunciarono con il rombo dei motori dei camion lungo la strada che lambiva le ultime case del paese, dove lei abitava. Ezio e Mino si erano appena seduti a tavola per cenare, ma bastò che sentissero quel rumore per correre alla porta. Ada si parò loro davanti, apostrofandoli con l'indice alzato: «Dove credete di andare? Rimettetevi subito a sedere!» «Ma noi vogliamo andare a vedere fuori!» piagnucolarono. «Nossignore, è pericoloso. Andate a mangiare.» «Gli altri bambini escono!» «E voi no, se quelli hanno la madre e il padre scemi, io non posso farci niente.» Mino cominciò a emettere una nota rauca e prolungata, che anticipava l'inizio del pianto. Ada si avvicinò al faccino e, come se non si fosse fatta capire, scandì: «Ho det-to di no. Va a man-gia-re». La nota cessò all'istante, accompagnata da uno sbattimento di palpebre; lo vide andare verso il tavolo, arrampicarsi con le gambette sulla sedia - era ancora troppo piccolo per arrivarci col sedere - e acciambellarsi su di essa. Ada si avvicinò alla porta e uscì, girandosi la chiave alle spalle. Quei due diavoli non avrebbero aspettato un attimo a uscire se non avesse fatto così. Sulla strada un'autocolonna procedeva velocemente, come se stesse ancora correndo su una strada di campagna e non dovesse rallentare, in quel chilometro che precedeva l'inizio dell'abitato vero e proprio. Poi, quando il campanile di San Francesco annunciò la città ai primi mezzi, quelli dietro presero a rallentare e a fermarsi; i camion avevano l'ordine di rimanere uno dietro l'altro solo durante gli spostamenti, non nelle soste, durante le quali dovevano anzi distanziarsi, per non offrire un bersaglio compatto a eventuali nemici. Si formò così una fila discontinua di camion che stazionavano, a fari spenti, lungo la strada. Ada fece qualche passo sul cortiletto. La gente era tutta fuori a guardare; se poteva esserci un'immagine della prosecuzione della guerra era proprio l'arrivo di tutti quegli stranieri in armi. La chiamarono due vicine di casa, che abitavano un po più giù, facendole cenno di raggiungerle. Ada rimase incerta se fare quei due passi, coi bambini dentro casa. Decise di sì, perché poteva tener d'occhio la porta: e poi non voleva sentirsi sola quella sera, coi tedeschi che arrivavano a Sulmona. Una la accolse a occhi sgranati, esclamando: «Oddio, quanti ne stanno ad arrivare! E che vengono a fare questi mo, a distruggere Sulmona?» «No» la contraddisse l'altra. «Vengono a mettere la contraerea per non farla bombardare, dopo quello che è successo alla stazione. E poi la maggior parte non si ferma in città, va al campo dei prigionieri inglesi; vedi, al bivio per la circonvallazione i camion girano per Fonte; ma gli inglesi se ne sono già scappati.» A Fonte d'Amore, una frazione ai piedi del Morrone, dall'inizio della guerra era stato allestito un campo per prigionieri inglesi, arrivati fino a tremilatrecento. Era uno dei più grandi campi di raccolta in Italia centrale e, in una villetta poco distante, erano stati sistemati alcuni pezzi grossi, generali e alti ufficiali, catturati in azioni avvenute soprattutto nelle colonie e trasferiti lì; uno - si diceva - era addirittura cugino del re d'Inghilterra. La donna aveva ragione, comunque, a dire che al campo prigionieri non c'era più nessuno; erano
tutti scappati dopo la caduta del fascismo. «Ci mancavano i tedeschi, adesso» disse Ada. «Già è tanto facile la situazione, a Sulmona.» Più avanti, intanto, stava succedendo qualcosa. Dai camion era cominciata una gazzarra di grida, richiami e fischi. Tre ragazze, ben vestite e coi tacchi, erano uscite infatti dal portoncino di una casa a due piani, Come se stessero preparandosi a fare la più incongrua delle passeggiate, a ora di cena, davanti a tutti quei soldati. Davano loro le spalle e facevano finta di non sentirli, ma ogni tanto si voltavano, sorridendo loro. Raccolta l'attenzione dei maschi sui camion, s'incamminarono fin quasi al punto dov'erano Ada e le altre due. Si fermarono a pochi passi e confabularono un attimo, per poi tornare verso casa, come se avessero dimenticato qualcosa, con la stessa, innaturale disattenzione per il baccano che provocavano. «Ecco le puttane» disse una delle due donne. «A loro sì che vanno bene i soldati. Arrivano i clienti. Quelle tre schifose di Roma proprio qua vicino dovevano venire a stare. Una è la nipote di Fina. Ve la ricordate, la vecchia? La nipote è quella con la vestaglietta a fiori. Faceva la puttana in un casino a Roma, ma ha ereditato la casa della madre, si è trasferita qua e si è messa in proprio. E tiene un bel traffico d'uomini a casa sua, di pomeriggio e soprattutto di sera. Non sentite? Fanno musica fino a tardi col grammofono, le signore. Mio suocero è andato a protestare sotto le finestre, sere fa, e quelle non si sono neppure degnate d'affacciarsi. Allora lui le ha minacciate di tornarci coi carabinieri, se non smettevano. Ma guarda che scandalo doveva venire fuori tra le case della gente per bene.» «Infatti» confermò l'altra «hai visto? Prima hanno messo in mostra la mercanzia, sculacchiando a quel modo davanti ai soldati. Adesso fanno finta di tornare indietro, per far vedere bene ai clienti dove tengono l'attività; casomai si sbagliassero sul portone. Guardale!» Intanto i soldati tedeschi, affacciati ai camion, gridavano parole non comprensibili, ma dal tono chiaro. Uno, messosi in piedi, faceva la mossa di voler saltare giù, come se non riuscisse a restare sul camion; un altro faceva scorrere la mano sulla canna del fucile, con espressione estatica. Mentre guardava il camion, Ada ebbe un soprassalto. Proprio dietro a uno di essi c'era Mino. Stava impalato, solo, a guardare i soldati; se il camion avesse fatto marcia indietro, l'avrebbe investito. Per un attimo pensò a un abbaglio. Istintivamente si voltò verso la porta di casa, che era chiusa, come lei l'aveva lasciata; oh, Gesù ma com'era arrivato là... Corse a prenderlo, mentre le altre due, che non avevano ancora visto il bambino, la guardavano stupite, chiamandola. Lo raggiunse col cuore in gola, lo afferrò per un braccio e siccome quello, un po per la sorpresa, un po per paura, cercava di scapparle, gli diede due robusti sculaccioni prima di prenderlo in braccio. Mino si mise a piangere, mentre lei gli chiedeva dove fosse il fratello. Ma quello, che le urlava nelle orecchie, non aveva alcuna intenzione di rispondere; adesso che le aveva prese, poteva permettersi di non obbedire. A Ada non rimase che fare il giro del mezzo mentre tutti quei soldati, seduti dietro la ribalta del camion, la guardavano con la stessa faccia con cui avevano appena guardato le puttane. Lei era anche andata più vicino di loro ai camion, ma per un motivo diverso, che non incoraggiava confidenze. Infatti qualcuno sorridendo fece eco alla scena delle sculacciate che aveva appena visto, dicendo: «Ahi ahi mamma» Ancora più lontano, a lato della strada, vide Ezio, con un paio di altri bambini. Lo chiamò e a quello bastò la scena della madre in avvicinamento col fratello che urlava in braccio, per capire cosa lo aspettasse. Si mise a correre per scapparle e dalla direzione presa lei capì subito che andava a rifugiarsi dai nonni. Quando l'avesse preso... «Ezio, vieni qua!» gridò. «Obbedisci!» Gli corse dietro, con Mino in braccio. Mezza colonna di camion seguiva la scena. Alcuni ragazzi si sporsero per vedere se la madre riusciva a raggiungerlo; non erano passati troppi anni da
quando, nella loro terra, erano stati bambini anche loro. A un certo punto Ada si accorse che non ce la faceva a raggiungerlo. Un po si era tranquillizzata vedendo che si era allontanato dai camion e aveva preso il sentierino che, con un giro attraverso i campi, portava a casa dei nonni. Allora poggiò il piccolo e a passo veloce si rincamminò verso la strada. Quasi lo trascinava, quando lo sentì strillare ancora di più e far forza per fermarsi: che Succedeva adesso? «Vuoi che te le suoni ancora?» disse. Ma Mino strattonava e allungava la mano libera verso qualcosa lanciato in direzione loro da un camion. Era una tavoletta di cioccolato. Ada rimase incerta. Poi fece qualche passo indietro e la raccolse. Nel rialzare la testa, fu investita da uno sbuffo di gas del camion che ripartiva, e vide i tedeschi, tutti affilati sui sedili, allontanarsi in una nuvola di fumo biancastro. Si mise sulla stradina tra le case dei contadini e andò dai suoceri. Dopo una lunga mediazione per non suonargliele, Con Ezio chiuso dietro la porta della camera da letto dei nonni - che prometteva di non farlo più e dava tutta la Colpa agli altri bambini che avevano fatto uscire Mino da una finestra grazie a una sedia, per cui lui gli era solo andato dietro - a notte, ormai, se li riportò a casa. Mino intanto si era mangiato tutto il cioccolato. La mediazione aveva richiesto tempo, il fratello era riuscito a non abbuscarci, ma era giusto che non prendesse parte al bottino di guerra, frutto della sua incursione clandestina tra i tedeschi. Quella stessa notte e la mattina seguente successero tante cose, una più confusa dell'altra. I tedeschi occuparono la città e si sistemarono in tutti i punti dove prima c'erano le sedi della milizia o del Pnf e in parte negli edifici dell'esercito e dei reali carabinieri. Entrarono nelle caserme, nel municipio, nelle carceri e nelle scuole ancora chiuse; requisirono anche alcune ville non abitate. Andavano a colpo sicuro in ogni punto, come se stessero seguendo un piano preciso. Ad accompagnarli c'erano i fascisti - le solite facce della zona, ma anche altri di fuori - che da fine luglio non si erano più visti in giro; dunque non erano spariti; caduto Mussolini, erano rimasti acquattati, aspettando i tedeschi. Se a guidarli erano loro, i cancelli degli edifici si aprivano misteriosamente, come se li avessero attesi; ma quando ciò non avveniva, i tedeschi s'innervosivano. Forse perché non conoscevano bene i punti di ingresso negli stabili segnalati, i camion frenavano bruscamente davanti all'accesso principale e i soldati scesi iniziavano a percuotere i portoni col calcio dei fucili o dei mitra; prima, si dividevano velocemente per appostarsi in punti riparati e, da come tenevano le armi in pugno e guardavano attorno, si capiva ch'erano in formazione di combattimento, pronti a sparare. Ma la minaccia non era solo il loro arrivo. Gli avvenimenti, in quei giorni, si erano sgranati in un rosario d'angoscia, uno in contraddizione con l'altro. Una settimana dopo il primo bombardamento angloamericano ce n'era stato un altro sulla stazione e sulla Nobel di Pratola, per completare l'opera; e, sebbene si trattasse in entrambi i casi di aree ormai chiuse perché semidistrutte e si fosse contato, poi, solo un morto, il cielo sopra Sulmona si era coperto ancora di bombardieri, mentre tutti scappavano nei rifugi; il panico era stato anche superiore alla prima volta, ora che si sapeva quel che sarebbe successo. Poi si era detto che la guerra era finita: la sera dell'8 settembre, a ora di cena, la radio aveva annunciato l'armistizio e tutte le campane avevano suonato a festa; il giorno dopo anche i giornali scrivevano a grandi titoli che la guerra era finita. La Settimana successiva erano arrivati i tedeschi. Qualcuno s'illudeva ancora che la loro presenza sarebbe stata breve. Ma i morti del bombardamento, prima d'essere sotterrati, avevano avvisato tutti di ciò che vedevano a occhi chiusi, parlando con labbra esangui. Quello dei tedeschi non era un esercito di passaggio, era un esercito di occupazione. Qualche giorno dopo, Ada lasciò Mino a casa sua coi nonni e portò Ezio al mercato in piazza per vedere di Comperargli un paio di scarpe nuove; stava arrivando l'autunno, tra qualche giorno sarebbe ricominciata la
scuola e il piccolo portava ancora i sandaletti. E poi stava crescendo, le scarpe dell'anno prima non gli andavano più; presto le avrebbe date a Mino. Povero Mino, pensò Ada, chissà quando avrebbe potuto mettersi un paio di scarpe tutte sue, anziché ripassarsi quelle del fratello. E lo pensò con accoramento perché questa idea gliene suggerì un'altra, ancora più triste: adesso era piccolo e stava a casa, ma tra un anno, quando fosse andato a scuola anche lui, forse sarebbe stato l'unico bambino senza un paio di scarpe nuove. La guerra, adesso, aveva eguagliato tutti nel bisogno; ma quando fosse finita, le miserie estranee alla guerra sarebbero risaltate di più. Per un attimo le venne in mente di quando c'era il marito. Tutto ciò sarebbe stato impensabile se fosse stato ancora vivo; ma ricacciò subito indietro il pensiero, perché la faceva soffrire troppo. Ada aveva ormai raggiunto una tregua armata coi ricordi. Avevano diritto di attraversare i confini della memoria, ogni tanto, ma non di occupare il territorio dei nuovi, dolorosi pensieri di adesso: bastava già l'invasione di questi. Si sarebbe dedicata ai ricordi quando fossero finite le preoccupazioni presenti, non prima. Aveva già troppe cose cui pensare. Se era in guerra, aveva almeno diritto di guardare in faccia il nemico, senza dover guardare anche indietro. Il suocero si era offerto di portare lui il nipote al mercato, ma lei aveva rifiutato decisa. Solo la mamma capiva se le scarpe andavano bene; un bambino era capace di dire che gli stavano comode solo perché gli piacevano e poi magari di non mettersele perché gli facevano male. E l'acquisto di un paio di scarpe pesava, in tasca a lei, non poteva permettersi di sbagliare. Inoltre, in giro non sembravano esserci pericoli per una donna con un bambino. Passato lo spavento per l'arrivo di tutti quei tedeschi, la vita era ripresa con guardinga normalità. Nei giorni successivi ne erano arrivati molti altri. Si erano viste autocolonne, a tutte le ore del giorno e soprattutto della notte passare per Sulmona senza fermarsi, dirette verso i paesi del circondario; da quelli in montagna, si diceva, i tedeschi avrebbero fatto sfollare tutti. Comunque fosse, i soldati stavano soprattutto acquartierati in caserma o impegnati in lavori fuori città. Riempivano però le strade nelle ore di libera uscita e un posto che affollavano era ovviamente la casa delle romane; gruppetti entravano alla svelta e uscivano ridendo e parlando forte. Comunque fosse, non importunavano le italiane e quindi non c'era bisogno che il suocero la accompagnasse; a parte il fatto che un vecchio avrebbe avuto più bisogno lui, nel caso, d'essere aiutato, che viceversa... L'allarme suonò mentre stava per entrare nella piazza del mercato da sotto gli Archi. Gli ambulanti chiusero alla meno peggio le bancarelle, raccolsero la mercanzia - quella pregiata adesso la tenevano anche loro sempre vicino a dei valigioni, pronti a portarsela via rapidamente, in caso di fuga e si avviarono a passo svelto al Quadrivio, dove sotto al vecchio convento era stato attrezzato il rifugio più grande di Sulmona. Ada calcolò all'istante che non avrebbe fatto in tempo a tornare a casa; non poteva correre per oltre un chilometro col bambino. Le si strinse il cuore; Mino era coi suoceri: e se fosse uscito a giocare e non l'avessero trovato? Proprio in previsione di un allarme si era raccomandata di non farlo uscire in sua assenza, ma il piccolo era così birichino... Non si concesse alcun indugio. Strinse la mano a Ezio e si mise a correre anche lei, come gli altri, Verso il rifugio; poteva solo aspettare il cessato allarme e sperare che nulla succedesse nel frattempo. Entrò nel grande chiostro del convento, affollato di donne e vecchi con bambini che si dirigevano verso gli accessi al sotterraneo. Scese anche lei, sedette su una panca e si mise Ezio sulle gambe, stringendolo con un'energia che tradiva la sua tensione. Non vedeva l'ora di fidarsene; magari fosse suonato subito il falso allarme; sarebbe corsa a casa. Invece non si udì alcun segnale. Fuori, nel chiostro prima pieno di gente che correva, era calato il silenzio. Il grande convento isolava dal resto del mondo tutte quelle persone, sedute o sulle panche o per
terra - in attitudine forse di morire forse di vivere, fino al prossimo allarme impedendo qualsiasi contatto con l'esterno. Passarono una, due, tre ore. Niente. Un allarme non era mai durato tanto. Ada era sempre più angosciata. Una cosa era aspettare tutti riuniti in famiglia, una cosa aspettare separati; proprio stamattina ch'era fuori col figlio, doveva arrivare un allarme così lungo... Si sentiva sola, impotente in un luogo in cui non avrebbe dovuto essere. A un certo punto qualcuno disse di aver sentito un lombo lontano e di aver visto una squadra di aerei grossi passare ai limiti della conca, ma tutto rimase incerto fino a quando, un po prima delle tre, il cessato allarme suonò. Finalmente. Era durato cinque ore. Ada fu tra i primi a uscire e tenendo Ezio per mano si diresse, quasi correndo, verso casa. La trovò aperta e si chiese perché i suoceri, rientrando non l'avessero chiusa... Ebbe un presentimento che le mozzò il fiato. Una manciata di farina, per terra, gliene diede conferma. Il resto fu una continua presa d'atto che gli occhi si rifiutavano di vedere, a mano a mano che si posavano su cassetti e sportelli aperti. Qualcuno era entrato a casa sua per rubare. Sentito l'allarme, i suoceri dovevano essere scappati lasciando aperta la porta, o forse era stata forzata, anche se non ve n'era traccia. Dunque era vero che i ladri approfittavano degli allarmi per rubare; si diceva che in giro vi fossero bande organizzate a questo scopo. Il ladro, i ladri entrati a casa sua avevano rovistato rabbiosamente dappertutto. Nello stanzino dietro la cucina, non c'erano più il sacco della farina e delle patate! Si mise le mani alle tempie. Come avevano fatto a portarseli via? Dovevano essere più persone, allora! Col cuore che batteva, cominciò a notare altre cose che mancavano. La foto del matrimonio, con una cornicetta d'argento, era sparita dalla mensola dell'armadio; in camera da letto non c'era più il servizietto da pettiniera in cristallo, regalatole per la stessa occasione. I ladri avevano aperto tutto e rovesciato coperte e lenzuola per terra; i cuscini erano stati tagliati per esplorarli con la mano, cercando un involto che contenesse qualche oggetto d'oro. Un lungo taglio si vedeva anche nel materasso, con la lana fuori. Ma lei non aveva mai nascosto lì le poche cose che aveva. Le teneva nel valigione che non lasciava mai quando andava al rifugio... Il valigione! L'idea più angosciosa le attraversò adesso la mente. Emise un lamento, senza curarsi di Ezio che le andava dietro a occhi sgranati. Capì subito che doveva correre dai suoceri per vedere se avevano portato via il borsone, quando l'allarme era suonato. Il cuore le disse: non l'hanno fatto. Una vicina di casa, intanto, si era affacciata all'uscio e aveva capito dai cassetti rovesciati cosa era successo. La sentì esclamare ad alta voce: «Oddio! i ladri sono stati a rubare da Ada!» Tirandosi dietro la porta, lei le impedì di entrare e si precipitò dai suoceri. Le aprì la vecchia, con Mino davanti. Dal suo sguardo tranquillo, che per un attimo maledisse, capì che non sapeva niente. Non perse tempo a spiegare, chiese solo: «Il valigione! il valigione dov'è? Ve lo siete portati appresso quando siete scappati?» «Il valigione... no... perché?» Ada si sentì come se il mondo le fosse caduto addosso. Si avvicinò al tavolo, scostò una sedia, si lasciò cadere. Appoggiò il viso alle mani, come se non avesse la forza di parlare, poi gridò: «I ladri sono stati a casa e hanno rubato tutto!» La suocera si coprì la bocca con la mano. Il tutto era poco, ma infinitamente prezioso in tempi in cui la pochezza reggeva ogni possibilità di sopravvivenza. E comunque in quel poco c'erano la fede d'oro tua e di Guerino, una collana e un braccialetto d'oro, l'anello di fidanzamento, qualche catenina, un paio di spille di granate e il medaglione d'argento con l'angelo custode che era stato appeso sulla culla dei bimbi. C'erano tutti i pochi risparmi di quegli anni, con cui illudersi di avere qualcosa da parte, in caso di bisogno.
C'erano le lettere di fidanzamento che le aveva scritto Rino e la coperta a filet regalatale dalla madre per il matrimonio. La notte successiva al furto fu per Ada la più triste e disperata da quando era rimasta vedova. Aveva perso gran parte di quello che aveva. Del furto era stato portato subito a conoscenza don Liborio, il parroco, perché era un episodio grave e gli andava riferito; inoltre c'era la speranza che potesse aiutare a fare qualcosa. I preti sapevano sempre più di altri. Magari la moglie di un ladro, una ladra stessa, o qualcuno che sapeva, sarebbe andato a confessarsi e il parroco avrebbe detto che Dio perdonava ladri e complici, se si riparava al male fatto, restituendo il maltolto; che le perlone cui era stato sottratto ne avevano veramente bisogno e che lui stesso si sarebbe fatto garante della restituzione, senza che si sapesse mai come ne era tornato in possesso. I ladri erano stati anche in un'altra casa vicino a quella di Ada. Vennero fatte varie ipotesi su chi potesse essere stato. La prima fu quella delle puttane, che non si erano viste al rifugio durante l'allarme. Qualcuno diceva che si ritiravano nella cantina sotto casa loro per la vergogna; in effetti un paio di volte ch'erano andate al rifugio, nessuno le aveva salutate, sicché erano rimaste sull'ingresso a fumare, dando le spalle a tutti. Ma l'idea venne scartata. Le puttane se la passavano troppo bene, per rinunciare ai guadagni della loro attività, facendosi sorprendere a rubare. Nessuno si spiegava come avessero fatto i ladri a portare via due sacchi di farina e patate senza correre il rischio di essere visti. Apparve chiaro che avevano agito più persone e che avevano diviso tutto in sacchetti, separandosi all'uscita, per dar meno nell'occhio. Ma allora doveva essere gente che abitava lì vicino. Si arrivò anche a immaginare la composizione della banda; si pensò a improvvise perquisizioni nelle case sospettate, ma si trattava di chiacchiere inutili. Anche Ada pensò e ripensò a chi poteva essere stato e, dentro di sé, raggiunse la certezza di saperlo, anche se non ne fece parola. Glielo impediva la paura di accusare persone innocenti e soprattutto il suo carattere, che di fronte al dolore si chiudeva a riccio. Quasi non le importava chi fosse stato. Ciò con cui doveva confrontarsi, adesso, erano le conseguenze dell'accaduto. La mattina dopo il furto Ada ricevette la visita di don Liborio, che l'aveva sposata e conosceva la sua situazione. Si chiuse in cucina con lui a parlare, ma non esternò alcun sospetto. Il prete capì allora che non l'avrebbe fatto se non in qualche forma speciale, dove lui potesse far valere la sua autorità. Ada era fatta così. Le disse dunque: «Basta, adesso ti devi confessare». E con quell'espediente, dopo un segno di croce sulla testa, la costrinse a emettere in un soffio, sul tavolo della cucina, alcuni nomi, facendole commettere in confessione il peccato non commesso prima. Dall'espressione preoccupata con cui don Liborio ascoltò i nomi e i motivi del sospetto, Ada capì due cole. Innanzitutto, che anche lui riteneva credibili quelle ipotesi. Poi, che non sperava in una restituzione. Lo Comprese chiaramente - nel modo in cui capiva le cose lei, per intuizione, per immagini che le apparivano d'un tratto nella mente e che una voce riconosceva subito per giuste - ed emise un sospiro di rassegnazione, dicendoli dispiaciuta di avergli confessato quelle supposizioni; ma il prete liquidò gli scrupoli assolvendola, oltre a farle esprimere il proponimento di riferirgli ogni altro particolare utile. Sia lei, sia il prete erano persone che la vita aveva costretto a guardare le cose senza illusioni: chi aveva rubato, non sarebbe mai stato scoperto. L'unico sollievo fu di sentirsi promettere da don Liborio che avrebbe cercato di procurarle un lavoro. L'indomani stesso sarebbe andato in curia a chiedere di farla prendere per le pulizie da qualche parte. Intanto doveva riporre ogni speranza nelle mani del Signore e farsi coraggio. Ada venne chiamata come donna delle pulizie alla curia il giorno successivo. Oltre a pulire, doveva cucinare per due sacerdoti anziani,
che avevano insegnato nell'attiguo seminario e adesso non erano più in grado di badare a se stessi. Quindi, dovendo imboccarli, avrebbe pranzato con loro. Per cena la sostituiva un'altra donna, purché lei le lasciasse tutto già pronto, da riscaldare. Quindi era impegnata dalla mattina al primo pomeriggio, poi era libera. Quella prima mattina aprì piano la porta della casa dei suoceri dove aveva dormito coi bambini e si diresse, con un po di trepidazione, verso l'austero palazzo vescovile a capo della villa comunale. Doveva arrivare quasi all'altro capo di Sulmona, ci voleva un quarto d'ora di buon passo. Mentre si dirigeva lì, le venne in mente che dalla sfortuna era venuta questa non piccola fortuna. Era tanto che non aveva un lavoro stabile. Un'altra voce le suggerì che non era questione di fortuna. Avevano voluto farle la carità senza che apparisse. Ma non diede tempo al cuore di stringersi. S'impose anzi di pensare la cosa nel modo più negativo; reagiva sempre così quando qualcosa la faceva soffrire; cercava di pensarla nella forma peggiore, per vedere fino a dove poteva arrivare. Si disse che era diventata una mendicante non fuori della porta della chiesa, ma dentro, e che non era più una moglie e una madre, perché il marito non l'aveva più e i figli, per lavorare, doveva affidarli ogni giorno a due vecchi. E dopo che l'ebbe fatto, sentì che le parole le erano scivolate addosso senza farle troppo male. Parlassero pure, gli altri, in questo modo del suo caso pietoso, non le importava. A lei toccava viverlo, non aveva tempo per le parole. Il primo giorno fu dunque pieno di speranza, in mezzo a tanta disperazione. Fu il giorno dopo, mentre andava al lavoro, che rischiò la vita. Stava camminando a passo svelto e pensando a quanto fosse impegnativo assistere i preti uno dei due risputava tutto quello che gli veniva messo in bocca quando sentì della gente che parlava ad alta voce, con toni accesi, come se stesse litigando. Erano voci di donne che affollavano via Montello, una traversa a lato di Porta Napoli. Si affacciò a capo della via, incuriosita, per guardare che stava succedendo. Un gruppo di donne premeva per entrare al deposito, dove c'erano i locali di una fureria dell'esercito. Nei 48 giorni precedenti si era sparsa la voce che i carabinieri, anziché farsi requisire tutto, da un momento all'altro, dai tedeschi, avevano preso a consegnare sottobanco viveri alle donne ch'erano andate a chiederli; avevano anche regalato scarpe e capi di vestiario, preziosissimi: da dieci giorni un esercito italiano da vestire non c'era più. Così, sparsasi la voce, altre donne erano andate a chiedere. Ce n'erano molte, ma non ancora moltissime, lì davanti, forse perché era ancora presto. I carabinieri erano in difficoltà. Sebbene le stessero respingendo fisicamente dal portone e minacciassero di arrestarle, era chiaro che non sapevano cosa fare. Erano pochi, con una folla crescente; da un momento all'altro, messi di fronte all'alternativa se intervenire con la forza su donne e bambini o dare il passo, avrebbero ceduto, anche per non essere travolti da quell'esercito senza divisa, armato di disperazione. Raggiunta la coda della fila, Ada domandò: «Che succede?» «Hanno i viveri e del vestiario dell'esercito! Ecco, stanno aprendo!» le rispose una donna che conosceva Un po, e il cui tono di voce divenne stridulo nel pronunciare le ultime parole, come se non ci fosse un istante da perdere. Aveva appena parlato, infatti, che i carabinieri si scostarono dalla porta, questa si spalancò e le donne si rovesciarono all'interno del grande deposito buio, cominciando a prendere quante più cose potevano. Ada respirò profondamente e non ebbe un dubbio. Sarebbe entrata anche lei, se entravano quelle, doveva provarci. Non era troppo indietro. Dopo varie spinte, date e ricevute, ci riuscì. Poi si sentirono dei passi, molti passi, e delle voci straniere alle spalle. Erano i tedeschi. Svoltarono l'angolo, si fecero largo nel gruppo e scollarono rudemente le donne, che vennero a
trovarsi divise in due gruppi, quelle entrate, che non si erano accorte di niente, e quelle fuori, le più numerose, che gridavano: «I tedeschi! i tedeschi!» Ada venne a trovarsi in mezzo, davanti all'ingresso del magazzino militare. Sette, otto soldati si misero davanti, facendo un cordone, coi mitra e i fucili in mano. Altri entrarono nel deposito, intimando alle donne raucamente, in tedesco, di uscire; i carabinieri gridarono a loro volta alle donne di andarsene, se non volevano farsi ammazzare; ma la folla non arretrava e nessuno usciva dalla fureria. Ada provò a girarsi e a scappare, ma fu sospinta, insieme con altre, verso i tedeschi. Finì addosso a uno di loro, di spalle, facendolo barcollare. Si ritrovò distesa ai suoi piedi, mentre venivano gridati degli ordini. Immediatamente sentì la mano del soldato afferrarla per il braccio, quasi all'altezza dell'ascella. Sollevò la testa, fece appena in tempo a vedere sotto l'elmo il viso del soldato. Era un giovane molto alto. Gli occhi chiari non guardavano lei, si volgevano nervosamente da una parte all'altra, come se stesse per succedere qualcosa; ma la mano non la lasciava, stringendole il braccio fino a farle male. Forse voleva aiutarla a rialzarsi. Fu un attimo, la stessa mano che avrebbe dovuto sollevarla, la spostò di peso e la buttò più indietro. Il soldato le finì quasi sopra con le gambe. La scavalcò per riprendere subito il suo posto nella fila e nel farlo le pestò anche una mano, senza volerlo. In quell'esatto istante, i mitra vennero alzati verso l'alto e fecero fuoco, con un rumore assordante, per intimidire la folla. Ma uno dei soldati non sparò in alto. Attraverso le loro gambe, Ada vide accasciarsi varie persone. Un urlo si levò dalla folla, che arretrò immediatamente. Si udì quindi la voce concitata del capo dei tedeschi, che gridava più volte le stesse parole, ascoltate le quali i soldati abbassarono i mitra. Il capo, da solo, avanzò tra i corpi riversi, mentre alcuni dei suoi impedivano alla folla di avvicinarsi per soccorrerli; si fermò e s'inginocchiò tra quelli di una donna e di un ragazzo, che Ada aveva visto accanto a lei, prima che il soldato la buttasse a terra. Prese la donna ferita e la sollevò delicatamente per le spalle, appoggiandola al suo ginocchio; la donna gemette, invocando la Madonna e tenendosi il ventre con le mani. Il tedesco cercò di soccorrerla, poi un altro soldato s'inginocchiò a sua volta sul ragazzo, facendo cenno con la mano alle donne di avvicinarsi. Intanto il capo si alzò lentamente, con l'uniforme macchiata di sangue. Camminando senza staccare gli occhi dai corpi, si riavvicinò ai suoi, parlando piano, in modo grave. Quello che aveva sparato era un ragazzo in uniforme che stava solo, in disparte, con un'espressione colpevole. Il capo gli dava le spalle ed evitava di guardarlo, come se non potesse sopportarne la vista. Poi, giratosi di scatto, lo schiaffeggiò col dorso della mano. Il soldato barcollò, l'altro lo colpì ancora con un calcio, insultandolo ad alta voce; quindi allargò un braccio verso la folla, come se volesse urlare a tutti di andarsene. Ada stava rattrappita contro il muro, alle spalle dei tedeschi, quasi senza respirare. Si era sbucciata le ginocchia, che cominciavano a farle male. Alcune delle donne, intanto, soccorrevano quella ferita, che aveva perso i sensi, e il ragazzo. Ma per il ragazzo non c'era più niente da fare. Ada capì che avrebbe potuto trovarsi tra quei due. Se il tedesco non l'avesse spinta dietro e buttata a terra, forse sarebbe stata colpita anche lei. Molti, dalle case intorno, si affacciavano alle finestre. Le donne entrate nel magazzino venivano fuori, una a una, atterrite. Temevano d'essere uccise dai tedeschi, imploravano di non punirle e mostravano le mani vuote, per far vedere che non avevano preso niente. Ma i tedeschi adesso non si curavano di loro e le fecero passare. Quello ch'era accaduto era troppo grave. Ada capì che non poteva restare accucciata per terra, che doveva cercare di andarsene. Per questo si alzò e si accodò all'ultima donna che usciva dal magazzino. Scappò come tutti, lasciandosi alle spalle la gente
rimasta stesa per terra, i tedeschi, i carabinieri. Vide uno di questi ultimi uscire da un portone a lato, reggendo una sedia. Arrivata a metà strada, si girò e vide che i carabinieri, con molta attenzione, sollevavano la donna per farcela sedere. La reclinarono, sollevarono la sedia da sotto e cominciarono a trasportare, a passo svelto, quella rudimentale barella. La donna era bianca e priva di sensi, ma teneva le mani strette tra le gambe. «Disgraziati, era incinta!» si sentì da una finestra. Intanto, in fondo alla strada, i tedeschi richiudevano il magazzino maledetto, dopo avervi portato il ragazzo morto. Ada si mise a correre. Non voleva restare un attimo di più in quel posto dove non si sarebbe mai dovuta fermare. Lungo corso Ovidio molte persone correvano verso l'ospedale dell'Annunziata, seguendo i carabinieri che portavano la donna e altri feriti sulle sedie. La notizia si era diffusa subito. «I tedeschi hanno ammazzato quelli che cercavano di entrare nel magazzino!» si sentiva dire ovunque. Passò davanti alla scalinata dell'ospedale, superò il monumento ai caduti e, raggiunta la curia, non vi salì, si chiuse nella cappella del seminario, ch'era deserta. Aveva le chiavi, serrò la porta alle spalle e s'inginocchiò sul pavimento, con le mani strette a pugno sul cuore, che batteva forte. Recitò al marmo una preghiera senza parole. Le rispose lo stemma di Sulmona - gelido sotto le ginocchia sbucciate - che le iniziali di un verso di Ovidio, il poeta di quella città, celebravano come patria dell'amore. Si chiuse a lavorare fino al pomeriggio e non le sfuggì il silenzio di fuori. La gente non usciva, le strade erano deserte. Nella piazza maggiore non si era tenuto mercato, le venditrici, appena arrivate, avevano ravvolto in fretta la mercanzia e se n'erano tornate in campagna. L'orrore di quel mattino era una certezza, dopo le false speranze di guerra finita, i proclami, le feste, gli annunci. A Sulmona c'erano i tedeschi, nemici che si sentivano traditi dagli italiani e Uccidevano le loro donne. Altro che protettori dai bombardieri alleati. Poi, improvvisamente, quando stava per uscire dal seminario, Ada vide della gente che scendeva in strada. Si affacciò alla finestra. La scena le sarebbe sfuggita, giacché tutto avveniva in silenzio. C'erano carabinieri e tedeschi, moltissimi tedeschi che si riunivano ai lati della strada. Sembrava una processione del Cristo morto in guerra, con tutti quei soliti in armi e quelle facce serie che aspettavano qualcosa, qualcuno, non si capiva. Ada guardò meglio e vide il [centro dell'attenzione. Era un ragazzo in camicia che dei soldati portavano lì [in mezzo e piangeva. Capì subito. Era il tedesco che aveva sparato. Andavano a fucilarlo, al cimitero probabilmente. Lo avrebbero fatto sfilare in corteo perché tutti vedessero la sua punizione e lo facevano nel tentativo di non inimicarsi la popolazione. Una parte del suo cuore gli augurò, prima che potesse pensare: adesso va a morire ammazzato tu, disgraziato. Ma la testa subito si scosse, per l'orrore e anche per un senso di compassione; sangue che chiamava altro sangue, che mai poteva portare? Chiuse la finestra, non volle guardare. Arrivata l'ora di tornare a casa, decise che sarebbe passata per la circonvallazione, in modo da non incontrare nessuno. Il corteo avrebbe percorso infatti la stessa strada di casa sua, verso il cimitero, all'altro capo di Sulmona. Si affrettò. La prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata di chiudersi in casa coi bambini. Quando rientrò, i suoceri l'avevano preceduta a casa coi bimbi. Si accorse che aveva la fronte calda, le era venuta la febbre per l'emozione, o forse erano le regole che le erano venute in quei giorni. Disse ai suoceri che doveva mettersi a letto, che doveva dormire, non poteva permettersi di ammalarsi, nei primi giorni di lavoro - e loro la incoraggiarono a farlo.
Provarono a raccontarle quello che era successo, ma li liquidò con poche parole, dicendo che non voleva sapere niente di quella cosa tanto era brutta, e che ne era a conoscenza, comunque, dato che tutti ne parlavano: aveva anche visto l'inizio del corteo con il quale i tedeschi andavano a fucilare il soldato che aveva sparato. Non le passò per la testa di dire che c'era anche lei al deposito e che era scampata per un soffio alla morte. Raccontandolo, avrebbe solo fatto perdere a quei vecchi fiducia in lei; e poi, quando la morte ti passa vicino, non la devi rinominare o la richiami. Chiuse gli scuri e cominciò a spogliarsi per stendersi. Ezio e Mino però aprirono la finestra della cucina. A occhi chiusi, li sentì parlare tra loro. Sentì molte voci, fuori. Solo lei era in casa. Tutti i vicini erano lungo la strada, dove stava arrivando il corteo dei soldati; pur avendo fatto la via più diretta, ci avevano messo tanto ad arrivare, pensò. Indossò di nuovo la vestaglietta e uscì anche lei nel cortile. La vicina di casa le raccontò ancora cos'era successo al magazzino, con altri particolari. «Ci sono stati un sacco di morti», mentre Ada sapeva che erano due; gli altri erano dei feriti. Annuì, senza rettificare. Ed eccoli, i tedeschi. Era la prima volta che sfilavano per la città. Coi loro primi morti ammazzati e un altro, dei loro, da ammazzare a breve. Bella sfilata, pensò Ada con tristezza. Camminavano in ordine, una fila da una parte della strada e un'altra fila dall'altra, a distanza di una decina di passi gli uni dagli altri, con le facce serie, guardando fissi davanti a loro. Le file erano lunghissime. Erano forse duecento soldati. Si vedeva che i superiori avevano voluto dare importanza alla punizione; oppure no, dovevano averne fatti uscire tanti temendo una sommossa. 54 11 ragazzo teneva il capo sulla camicia. Non piangeva I ed era come sollevato da due compagni, a lato, che tenevano le mani sotto le braccia ammanettate. Non si rifiutava di camminare, solo che non aveva la forza, la paura gli aveva bloccato i passi. E infatti i due compagni lo sorreggevano quasi - aiutandolo. Non gli piaceva di veder fucilare uno di loro, anche se dovevano farlo. non aveva bisogno di farsi trascinare ancora molto, pensò Ada, per arrivare al cimitero. Dopo un attimo le venne in mente la salita al calvario. ricordava come si chiamava quello buono che aveva portato la croce di Gesù, ma insomma neanche lui che era Dio ce l'aveva fatta ad arrivarci da solo; l'avevano dovuto aiutare a morire. E mentre la mente si smarriva da una parte a pensare che era giusto punire il tedesco per quello che aveva fatto, e dall'altra a chiedersi se era possibile che i tedeschi fossero tanto buoni con un compagno a cui stavano per sparare e perché allora non gli risparmiassero direttamente la vita - che magari assassino di vent'anni, non era neanche un vero assassino, non aveva capito l'ordine e aveva sparato per sbaglio ecco, si sentì come se dovessero fucilare anche lei..a La stavano guardando. Uno, anzi, la guardava. Era l'unico, con il fucile in spalla, che non guardasse intorno a sé come gli altri. La fissava, come se non stesse lì in quel momento. La testa, mezza coperta dal berretto, era girata in direzione di lei e dei bambini. Teneva le labbra schiuse, come fosse sul punto di parlarle da un momento all'altro. Il suo atteggiamento incuriosì i compagni. Due, che stavano dietro, non poterono far a meno di seguire il suo sguardo e girarsi a loro volta. D'istinto Ada si portò la mano al collo della vestaglietta. Ma non era per quello che il tedesco la guardava. Allora lo riconobbe e le si fermò il respiro. Era il solo alto, giovane, che l'aveva tirata indietro, al deposito, Come se le intercettasse il pensiero, lo vide scorrere con lo sguardo il suo corpo, indugiando sulle gambe, dove si era fasciata le ginocchia sbucciate. Ecco, adesso non avrebbe avuto più alcun dubbio; quelle fasciature erano la conferma che si trattava della donna che aveva fatto cadere, quella mattina, al magazzino. Adesso questo mi doveva capitare, pensò, mo pure coi tedeschi devo combattere?
Proprio qua dovevo trovarmi, mentre passava quello che poteva riconoscermi? Cosa avrebbe fatto, l'avrebbe denunciata? Era stato un semplice scambio di sguardi, eppure Ada strinse a sé i bambini e si tirò indietro. Non era stata un'impressione. No, ce l'aveva proprio con lei. Dopo che l'ebbe superata, infatti, il tedesco si voltò a guardarla. E sebbene in quel caldo pomeriggio di settembre, a Sulmona, stesse sfilando il nuovo volto della guerra un uomo disarmato, circondato da tanti armati, con intorno donne vecchi e bambini, tutti insieme lì come figuranti o attori, a recitare in uno spettacolo di morte - qualcosa le disse che non doveva avere paura; o meglio, che doveva rifiutarsi di averne. Quello che doveva essere, sarebbe stato. Se fossero andati a cercarla come una ladra, si sarebbe giustificata dicendo che si era trovata a passare davanti al magazzino per caso. Non aveva preso niente. Non aveva fatto niente di male. Di cosa l'avrebbero accusata, in fondo? C'era tanta gente al deposito, la mattina. Era turbata, comunque. Poco dopo, la sorte del condannato si compì davanti al muro del camposanto. Non gli sparò il plotone. Per evitare che i colpi dei compagni andassero a vuoto, davanti alla gente di Sulmona, fu l'ufficiale di un altro reparto ad abbatterlo, con una raffica di mitra.
CAPITOLO 3 Era settembre e nella Conca Peligna - com'è chiamata la conca di Sulmona dal nome dei suoi antichi abitanti Peligni - indugiava il tepore dell'estate. Ed ecco che al ritorno dal seminario, si presentò una scena da rimanere a bocca aperta. Sebbene non sottovalutasse la felicità dei figli di andarsi a ficcare in mezzo a situazioni impensabili, questa era superiore a ogni immaginazione. I bambini stavano giocando a pallone coi tedeschi. La terra del campetto dove stava svolgendosi la partita era un pantano. Aveva infatti piovuto in quei giorni. I bambini avevano provato a giocare appena uscito un po di sole, ma si erano ritrovati a spazzare acqua dalle pozzanghere e a casa, poi, erano stati rimproverati per essersi inzaccherati a quel modo; dopodiché erano stati costretti a rimanere dentro, una mezza giornata, in casa, mentre gli unici sandaletti che avevano venivano scrostati dal fango, lavati e messi ad asciugare. Ada però voleva bene al campetto. Era infatti proprio fuori alle finestre della cucina, dall'altra parte della via e quindi poteva tenere i figli sotto controllo. Ezio sempre impegnato in partitelle; Mino era troppo piccolo per giocare e guardava il fratello; lei li guardava tutti e due, tenendoli a portata di voce. Vide a distanza agitarsi le sagome degli adulti. Non parevano tedeschi, per la verità; erano ragazzetti in mutandoni e canottiera. Si erano levati le uniformi e giocavano scalzi, come se pioggia e fango fossero elementi naturali per loro. Erano una dozzina, tra quelli in campo e quelli, vestiti, che li guardavano restando fuori dal campo. Le loro voci si sentivano da lontano. Gridavano in modo incomprensibile, presi dalla partita; correvano, si scontravano, con le facce rosse e sudate. Intorno, a fare il tifo, i ragazzini della strada e alcuni vecchi, tutti entusiasti della presenza della nazionale straniera in trasferta, alla quale avevano prestato una palla, preziosa anche s'era tutta una ricucitura. Mino era tra gli addetti a raccoglierla ed era contentissimo; raramente gli veniva affidato un ruolo così impegnativo. Ezio arbitrava. Il primo istinto di Ada fu di chiamarli. Sapeva il motivo della presenza dei militari da quelle parti, di pomeriggio. Nelle tre, quattro ore di permesso, andavano dalle romane. Ne aveva visti alcuni aspettare il loro turno, fumando sotto casa. Magari non erano gli stessi ma, fossero o non fossero loro, non le piaceva di vederli giocare a pallone coi bambini. Eppure qualcosa, nella scena di quegli scalmanati, la trattenne dal richiamare i piccoli. Un ricordo. Quasi tutti i pomeriggi in cui era a casa, in qualunque stagione, Rino si portava Ezio al campetto. Ogni tanto ci trovavano anche altri bambini e i papà, tra una sigaretta e l'altra, ci facevano due tiri. Ma anche quando erano soli, magari mentre lei era impegnata nelle faccende di casa, Rino ed Ezio - che allora era più piccolo di Mino adesso - uscivano col pallone. Rino si metteva in porta e a volte respingeva, altre volte lasciava passare la palla, cosa che inorgogliva il figlio. Allora lo prendeva sotto le ascelle, lo sollevava e gli faceva fare una giravolta, dicendogli bravo bravo l'uccellino di papà, hai fatto un grande tiro. Prima di ammalarsi, l'aveva anche portato a vedere una partita allo stadio. Dopo ch'era morto, le era capitato di vedere Ezio solo, con la palla sotto il braccio, guardare il campetto dalla finestra. Adesso correva nel campetto. Il padre non sarebbe mai tornato dalla guerra, per farlo giocare. Era piccolo tra quei ragazzoni, che stavano attenti a scansarlo, a non tirargli una pallonata, a non cadergli addosso, rinunciando ai contrasti tra di loro, se lui si trovava
in mezzo; se la palla finiva lontano dai bambini, eccoli affrontare a spallate... Mino era troppo piccolo, tre anni prima, per giocare a pallone col padre. Almeno non aveva di che rimpiangere: ma come si divertiva anche lui, adesso, a correre da parte all'altra, lungo il campo, pronto a recuperare ogni pallone che finisse fuori! No, non avrebbe interrotto questo strano gioco in fiera, che la riportava a un altro tempo. Si sarebbe limitata a dare un'occhiata dalle finestre di casa. Tanto i tedeschi non potevano fermarsi ancora molto. Poco dopo, infatti, come se avessero obbedito tutti a un segnale che non ammetteva indugi, vide quei ragazzi smettere di giocare, dirigersi al fontanile per sciacquarsi i piedi e, con mesta energia, rimettersi le uniformi per tornare in caserma. Passando sotto casa delle romane, fischiò e chiamò un compagno, senza smettere di camminare, ma voltandosi ogni tanto a vedere se arrivavano, dopo pochi istanti, quello uscì di corsa dal portoncino, per raggiungere gli altri. A vederli così, camminare tutti insieme, in formazione, non sembravano gli stessi che prima giocavano a palla. Erano ridiventati soldati e i soldati non giocano, fanno la guerra. I bambini tornarono eccitatissimi, ripetendo i nomi dei nuovi amici stranieri. Ma non poté trattenersi dal dir loro che non ci dovevano giocare, che a pallone si giocava tra bambini, che, se vedevano ancora da quelle parti i tedeschi, dovevano andare a casa. Ma lo disse senza troppa convinzione. A cena, da come i bimbi continuavano a parlare tra i capi che se i tedeschi fossero tornati, non solo ci avrebbero giocato ancora, ma avrebbero attrezzato parte a tutto spiano. Si sentiva raccontarsi le azioni che avevano visto in campo, chiamando i giocatori coi loro nomi Spuk, In), Kurz, Hans quello alto e Hans quello basso - pensando in che squadra farli giocare e in che ruolo. Scosse il capo. Tra Wehrmacht e Paesani juniores, l'unica partita persa era la sua. Come rispondendo a un appuntamento, il giorno dopo i tedeschi si ritrovarono al campetto. Ada diede un'occhiata ai figli e capì subito che aveva fatto bene a chiudere un occhio. Anche le altre mamme avevano fatto altrettanto. La vera guerra si sarebbe scatenata dentro casa se avessero impedito ai bambini di partecipare a questa nuova formidabile attrazione. Ezio e Mino, poi, avevano ruoli essenziali. Il pubblico di bambini e anziani era raddoppiato dal giorno prima. In mezzo c'era anche il suocero, che seguiva l'incontro con aria meditativa, seduto tra un altro anziano e due soldati. Vecchi e bambini facevano presto amicizia. Ma ogni proposito di tolleranza era destinato a volatilizzarsi il terzo giorno. Si era rimesso a piovere e il campetto era vuoto. Ada entrò in casa tutta bagnata perché era andata al lavoro senza portarsi un ombrello e l'acqua l'aveva sorpresa per strada. Dalle voci dei bambini capì che erano a casa coi nonni. Entrò, aprì la porta della cucina e le prese un accidente. Il suocero era seduto da una parte del tavolo. Dall'altra c'erano due tedeschi in uniforme. I soldati più soldati, i tedeschi più tedeschi che si fossero mai visti, gli mancavano solo l'elmo in testa e il fucile in mano. Guardavano i padroni di casa che li avevano fatti accomodare, annuendo col capo al suocero che parlava lentamente, scandendo ad alta voce alcune parole. Stavano tutti fumando, dopo aver bevuto il caffè; avevano le tazzine vuote davanti. Nel momento in cui Ada aprì la porta, la suocera sorrideva agli ospiti; stava chiedendo loro se volevano che mettesse sul fuoco un'altra caffettiera; arnese, quest'ultimo, che in verità da tempo non lasciava il suo posto nella credenza, per mancanza di materia prima. Ada non poté reprimere un'esclamazione. Vedendola, i tedeschi si alzarono scostando rumorosamente le sedie - erano alti come armadi - e abbozzarono un cenno di presentazione e saluto con la testa, che portavano quasi rasata. Mino, sulla sua, aveva un berretto militare! «Questi solda... Questi giovani che
abbiamo conosciuto ieri al campetto» prese a dire il suocero, sentendo aria di tempesta «sono stati tanto gentili da portarci il caffè... Li abbiamo fatti accomodare; fuori piove.» Ada non ascoltò. Prese in braccio Mino, gli tolse bruscamente il cappello dal capo e lo poggiò sul tavolo, poi uscì dalla cucina, tirandosi dietro la porta. Prima di completare il gesto, fece in tempo a vedere quei due che all'istante spegnevano le sigarette, si rimettevano i berretti in testa e, dicendo danke danke, prendevano la via di fuga come se una pattuglia nemica li avesse sorpresi dove non dovevano essere. Sentì i loro passi pesanti, qualche altra sillaba di saluto e il rumore della porta che si richiudeva alle loro spalle. Il tutto mentre la suocera aveva il coraggio di proporre: «E mo così presto ve ne andate? Non volete un altro caffè?»; e Mino scalciava in braccio a lei, per riavere il cappello. Ada era furibonda. Toccò al suocero attraversare le linee nemiche e raggiungerla in camera da letto, dove si era chiusa col piccolo. «Ma benedetto Dio, era il caso, mo...» provò a rimproverarla «.di fare così brutto a quei due giovani... avevamo insistito noi per farli entrare...» «Papà!» lo interruppe Ada, dandogli sulla voce. «Qua non ce li dovete portare i tedeschi, hai capito? A me già non piace di vederli fuori a giocare coi bambini! Ma come vi viene in mente? Mo non bastano le puttane di Roma a 'sta strada, pure qua entrano... dalla vedova!» E non proseguì, per lasciare che quest'ultima frase cogliesse nel segno. Vide infatti la suocera fare capolino e ritirarsi subito dopo averla ascoltata. Tra donne si riconosceva la giustezza di certe cose. Il suocero non provò neanche a replicare. Poi disse, remissivo: «E vabbè, vabbè... se mo dev'essere questo un problema... non ci vengono più, non ci vengono più» Poi calò il silenzio. Dopo un po sentì che i vecchi si preparavano a tornare a casa. Non le dispiacque di averli rimproverati. Chissà cosa sarebbe diventata casa sua se non fosse stata così scortese. «Noi andiamo» disse il suocero. «Hanno portato una bustina di caffè, sta sul tavolo» proseguì, per farla sentire in colpa. «Comunque non hanno fatto niente di male» insisté, dato che lei non rispondeva. «Stanno lontano da casa, poveretti... Sono giovani a modo, non sono cattivi.» Ada non poté trattenersi: «Già, come quel disgraziato che ha ucciso i due al deposito! Pure quello era un giovane a modo!» «L'hanno fucilato per punizione, quello. L'ha raccontato il compagno che ti ha vista al deposito» intervenne la suocera. «Perciò è entrato qua a casa, col nostro permesso; a vedere come stavi dopo ch'eri caduta, così ha detto, e se ti eri fatta male ai ginocchi. Mica ce l'avevi raccontato, a noi, che pure tu stavi là. Il tedesco era venuto a informarsi gentilmente. E tu l'hai cacciato.» A Ada si mozzò la parola. Ricollegò e riconobbe all'istante chi era, dei due. Era quello più vicino alla porta. Si ricordò del suo sguardo, che aveva visto quando si era girato a fissarla sulla via per il cimitero; ma non l'avrebbe riconosciuto da sola; e adesso le era anche entrato in casa. Accusò il colpo, anche se si sforzò di non farlo vedere. Il tedesco sapeva dunque dove abitava; certo, l'aveva vista proprio là davanti. Be, cattive intenzioni non doveva averle, sennò l'avrebbe denunciata nei giorni precedenti. Inoltre non le risultava che stessero cercando le altre donne. Soprattutto non sarebbe andato a portare il caffè, si disse, a casa di una che voleva denunciare. «Io... là» disse imbarazzata «mi sono trovata a passare per caso. Era una situazione pericolosa e quello... sì, il tedesco, siccome sono caduta, mi ha... aiutata un attimo.» Era sorpresa. «Comunque non... non ci devono venire qua, per il buon nome della famiglia. Io sono sola, capite. Se voi li incoraggiate, quelli ritornano.» Il suocero emise un sospiro pensoso. Ada non aveva
torto. Peccato, però. Tra caffè e sigarette - ne aveva un mezzo pacchetto in tasca, regalatogli poco prima dai tedeschi - quella visita era la più gradita che avesse ricevuto da tempo. «Una cosa ti voglio dire» concluse, mentre la moglie era già fuori. «Forse hai ragione a dire che qua non devono entrare i tedeschi. Però tu ti devi scusare col soldato per come ti sei comportata. Devi trovare l'occasione, in qualche modo. Magari non da sola, quando ci siamo anche noi. Lo devi ringraziare, primo perché ti ha aiutato, e secondo perché è un bravo giovane eh'è venuto a informarsi su come stavi e ti ha portato un regalo. E non credere che se ne trovano tanti di giovani così, tra i soldati. E' tedesco, e vabbè! che vuol dire, pure nonno era di Teramo... Questo giovane non mi ricordo come si chiama, tiene un nome strano... 'na cosa come "verm" perché si è presentato, eh: sì sì, ha dato la mano, educato, s'è levato il berretto prima di entrare, e tutto come si deve e be, insomma, 'sto giovane un po parla l'italiano. Quell'altro no... pure lui è un bravo figlio, però è completamente scemo, poveretto; non ha capito manco una parola. Io parlavo piano, ripetevo le parole, quello diceva sempre ja ja. Be, adesso s'è fatto tardi, ce ne dobbiamo andare.» Intanto, come se non bastasse Mino in camera da letto a frignare per la causa tedesca, reclamando il berretto, si affacciò Ezio con le mani sui fianchi: «Perché li hai mandati via?» chiese tutto ammusato. «Spuk è bravissimo in attacco.» Tornò il bel tempo, ricominciarono le partitelle nel pomeriggio e arrivò anche un invito particolare. Don Liborio aveva studiato il tedesco e alla curia vescovile gli avevano chiesto di fare da interprete, col Comando della Wehrmacht. Lo si vedeva negli uffici, e perfino nella sede del Comando militare tedesco a Introdacqua, dove a volte c'era anche Kesselring; sempre, ovviamente, con l'autorizzazione del vescovo di Sulmona, il quale, per proteggere la chiesa e la popolazione nella situazione creatasi, cercava di garantire un minimo di rapporti con gli occupanti. Don Liborio ebbe l'idea di dire una messa in tedesco, la domenica, per i soldati che avessero voluto prendervi parte. Non c'era infatti un cappellano e i soldati di stanza in città erano migliaia. Tra di loro c'erano anche austriaci e bavaresi, cattolici. Il comandante tedesco accettò e così il prete cominciò a conoscerli anche personalmente. Fu del suocero l'idea di invitare a casa sua don Liborio, coi due della volta prima, Erm e Spuk o come si chiamavano, dopo avergli spiegato cosa aveva fatto quello alto per Ada. Don Liborio accettò. Ezio e Mino furono felicissimi soprattutto di ospitare Spuk il più grande centravanti tedesco di stanza a Sulmona - a casa dei nonni. Ada incaricò i vecchi di ringraziare il soldato per il suo aiuto e anche di scusarla un po per come si era comportata: in tal modo si sarebbero chiusi i rapporti senza apparire scortese. Don Liborio - raccontò poi il suocero - aveva parlato tutto il tempo coi due giovani, contenti dell'invito. E anche Spuk, quello che la volta prima diceva solo ja ja, aveva parlato, con don Liborio: non era scemo, aveva raccontato che era tedesco, che faceva l'operaio e tante altre cose. A parlare di più però era stato il suo compagno. «Quello, Verm... che brutto nome tiene! è più intelligente» disse il suocero. «Fa il carpentiere. Ha chiesto scusa per essere venuto a casa tua senza invito; voleva sapere se ti eri fatta male, quando sei caduta al deposito; ha visto che scappavi e non sapeva chi eri, anche se ti conosceva da prima.» «... Da prima?» lo interruppe Ada. «E quando mai?» «Eh, così ha detto. Ti conosceva da prima. La sera che sono arrivati a Sulmona, ti ha vista dal camion che menavi a Mino e un suo compagno vi ha buttato una cioccolata. Perciò ti ha aiutata quella mattina; ti si ricordava. Devi vedere come parla con don Liborio. Non ride tanto e non gioca a pallone. Mino però gli ha fatto fare il cavallo.» «Come, il cavallo?» chiese Ada. «Il cavallo, il cavallo. L'ha fatto mettere per terra e gli s'è messo sopra. Verm scherza coi bambini.
Fa pure i disegni con la matita. A Mino ha fatto il ritratto col suo berretto in testa.» Ada sospirò. Guerre e alleanze con gli stranieri avvenivano ormai a casa sua senza che lei potesse farci niente. Si augurò che il tedesco non avesse i pidocchi. I soldati non si fecero vedere al campetto nei giorni successivi. La scia di sangue, anche loro, che li accompagnava, Continuava infatti ad allungarsi e avevano avuto ordine di non lasciare i quartieri. Pochi giorni dopo, la stazione di Anversa-Villalago era stata colpita da aerei inglesi e alcuni di loro, che la presidiavano, erano morti. Le notizie di questo tipo si sapevano subito; infatti i feriti venivano portati all'ospedale dell'Annunziata e da lì partiva la richiesta o di medicinali o d'infermieri in più, in aiuto. Ma nessun aiuto aveva potuto giovare a un ragazzetto di undici anni, che abitava non lontano da Ada, rimasto ucciso per un colpo di fucile, lasciato incustodito da uno dei tedeschi alloggiati a casa sua. C'era mezza Sulmona al funerale. Piangevano tutti. Lei conosceva i genitori, che erano distrutti. Nel seguire la piccola bara, aveva giurato che, proprio in quanto sola, non avrebbe mai lasciato accadere una disgrazia del genere ai suoi. Poi i tedeschi ripresero a uscire, qualche ora, il pomeriggio soprattutto. Si vedevano un po ovunque, alla villa comunale, nelle piazze, sul corso, nelle osterie, e lungo la strada di casa sua. Per evitare quelli che andavano dalle romane, Ada aveva preso a fare un giro da dietro, quando tornava dal lavoro, per non passare davanti a casa loro; c'era traffico di clienti da quelle parti e si era presa qualche complimento. Erano sbruffoncelli in uniforme che, se fossero stati italiani, avrebbe rimesso a posto con un'occhiata; come tutte le donne belle, aveva dovuto imparare fin da ragazzina come tenere in riga gli scostumati; ma coi militari stranieri era meglio essere prudenti. Non erano tutti così, certo. Si vedeva che alcuni erano seri, sebbene non avesse tempo per guardarli. Erano contadini, operai, studenti ai quali avevano dato una divisa e un fucile; ragazzi, certe volte di nemmeno vent'anni, che ancora non avevano imparato come stare al mondo, a casa loro, ch'erano stati sbattuti in un altro mondo. Si riconoscevano da come andavano per strada: stavano in gruppo facendosi compagnia, senza dare confidenza a nessuno. Erano quelli preferiti, per intrattenercisi a scambiare impossibili chiacchiere, dagli anziani, i quali dividono il mondo in due categorie, quelli che hanno tempo per loro e tutti gli altri. E poiché attaccano bottone per parlare solo loro, la lingua non contava tanto. E c'erano i bambini che dividevano, ancor più, il mondo in quelle due categorie, nella prima delle quali il posto d'onore toccava a quelli che li facevano giocare: anche se adesso i tedeschi non andavano più al campetto, perché a metà ottobre faceva troppo freddo per svestirsi. Fu l'attacco congiunto di Ezio, di Mino, del suocero e di due anziani vicini a farle aprire, con disagio, la porta di casa al tedesco, il quale per la verità si era tenuto a debita distanza, dopo l'accoglienza ricevuta. Ma un pomeriggio Mino faceva la spola con certi foglietti e matite tra dentro e fuori, e riportava contentissimo alla madre i disegnini fatti col tedesco, raccontandoglieli; la suocera si era presentata a chiedere in prestito la caffettiera, giacché il tedesco aveva riportato un altro po di caffè, per prepararlo nella casa dei vicini, non potendolo fare da lei; Ezio la guardava imbronciato; e insomma Ada capì che l'assalto proprio non si poteva fermare e che anziché tenerli tutti fuori, doveva farli entrare col soldato, per una volta. Il tedesco entrò per ultimo, col berretto in mano, preceduto da quattro vecchi - c'erano anche i vicini e da due bambini, uno dei quali, Mino, se lo tirava dietro come un trofeo di guerra. Si fermò davanti a Ada, chinò il capo in modo rigido e le diede la mano, dicendo il suo incomprensibile nome, accompagnato da un "grazie" che nelle sue intenzioni avrebbe voluto significare "molto lieto", ma che tra la "erre" e la "zeta" sembrava piuttosto una raffica di mitra. Ada li fece sedere tutti attorno al tavolo della cucina e notò che entrambi i figli erano in tale familiarità con Verm o come si
chiamava, da andarglisi subito a mettere tra le gambe e il tavolo. Poveri bambini, pensò, da inventarsi come padre chiunque non somigli a un nonno, anche se si tratta di Un soldato tedesco; ma non dipendeva solo da questo, doveva ammettere. Il tedesco era molto alto e faceva una certa impressione in divisa; ma, a parte ciò, aveva la faccia meno offensiva che si potesse immaginare in un soldato. Innanzitutto era giovane, non doveva avere più di ventuno, ventidue anni, pensò Ada; e aveva una espressione simpatica, anzi... buffa ecco, che metteva voglia di non trattarlo male: tra il guardingo e l'incerto, come se dovesse continuamente impegnarsi per capire quello che succedeva. Non sorrideva, come aveva detto il suocero; non era bello - la bocca pareva tagliata, con l'accetta e il naso era un po largo alla base - ma non era affatto brutto, era maschile. Belli erano invece gli occhi nocciola chiaro, diretti, intelligenti, sinceri, che rassicuravano tutto il mondo di far buon uso di ciò che capivano. E' vero quello che dicono i vecchi, sembra buono, pensò Ada, mettendo sul fuoco la caffettiera. E sembrava anche qualcos'altro. Completamente assorbito da lei. Indifeso nel confessarlo, con quello sguardo. Tale da metterla in imbarazzo. Non le toglieva gli occhi di dosso, teneva anche la bocca leggermente aperta - il che faceva risaltare la sua insistenza ancor più; ogni tanto la chiudeva mordendosi il labbro, quando riusciva ad abbassare lo sguardo, che però, un attimo dopo, tornava a cercarla. Ada era abituata a non incoraggiare sguardi maschili, ed evitò d'incrociare il suo, mentre disponeva davanti agli ospiti tazze, piattini e un po di zucchero marroncino. Era a disagio: questo tedesco, dentro casa sua, non diceva una parola, la guardava come un'apparizione e sembrava del tutto disinteressato alla conversazione che il suocero cercava, con difficoltà, d'intavolare. Si riscosse solo quando si sentì chiamare per nome. «Verni...» disse il vecchio. «No Verm» rettificò. «Helm. Mio nome Helm.» «Ah» fece il suocero, ripetendo il suo nome senza aspirare la acca. «Elm ti chiami. E' meglio di Verm. Lo sai che significa?» Scosse la testa. «Verm, quello che striscia per terra» e fece la mossa col dito. «Capito? Verm.» «Ach, Wurm!» piegò un angolo della bocca, sorridendo; dunque sorrideva. «Nein, mio nome stesso... di lui. Mino.» Come, si chiesero tutti, che c'entra? «Io Wil-helm. Lui Wil-helm-ino» scandì. Ah. Una nota di meraviglia accolse il parallelo. Se ne fece interprete il suocero: «Capito nonno?» disse al nipote. «Si chiama Guglielmo pure lui, come te: Helm è Uguale a Guglielm.» Questa scoperta suggellò definitivamente la grande amicizia di Mino per il tedesco. «E di cognome, fai?...» chiese il suocero. Il tedesco scosse la testa, non capiva. «Altro nome. Guglielmo, poi...» «Oh, sì, capire! Habichter, Wilhelm Habichter.» «Sei tedesco?» «Nein, ich bin Osterreicher.» «No tedesco?» «Nein, ich bin Osterreicher. O-stri-ah», scandì, fiero di sapere come si chiamava in italiano, o quasi, la sua patria. «Aah. Sei dall'Austria. Embè, austriaco, tedesco, sempre di quelle parti sei.» Il suocero si concesse la battuta. «Mica sei africano.» I bambini risero. «Nein. No afrikano. Mio... nazion... O-stri-ah. Vicino Italia. Non troppo vicino. Poco poco.» «Il tuo paese come si chiama?» «Mio paes-se? Traunkirchen.» L'affilata di nomi e cognomi impossibili tolse al suocero la voglia di fare altre domande. Parlò lui: «Mio paesse, Traunkirchen, bello paes-se... Montagna attorno... acqva di... lago». Fece un gesto come se volesse indicare qualcosa che non sapeva dire. «Piccolo. Troppo troppo bello Traunkirchen, aaach» disse allungando il suono di aaach con una mano sul cuore e assentendo severamente con la bocca chiusa e gli occhi bassi, per far vedere quanto voleva bene al suo paese. Seguì un minuto di silenzio, mentre il caffè
gorgogliava sul fuoco. Ezio chiese: «Quanti anni hai?», ma Helm non capiva. Ezio indicò se stesso, e fece sette sul tavolo con le mani; poi indicò Mino, e fece cinque. Helm assentì subito C prima allargò due volte le mani, poi una volta solo la destra. "Venticinque anni" pensò Ada. "Sembra pure più giovane." «Venticinque anni, beata gioventù!» commentò filosoficamente il suocero, anche se quello, a venticinque anni, in guerra, sballottato a combattere in un Paese straniero, aveva discrete probabilità di passare tra la schiera dei beati non esattamente nel senso che intendeva lui. Il caffè fumante venne versato nelle tazzine, il tedesco fece cenno a Ada che lo prendeva amaro e Ada versò in due bicchieri, per i bambini, un cucchiaino di zucchero con poco caffè sopra. Poi ci aggiunse un goccio di latte. Mino salì su una gamba del tedesco per bere. La mamma lo fece scendere: «Mino, non dare fastidio al signore, vieni da questa parte» disse, anche perché aveva visto che il soldato voleva fumare. Helm offrì le sue sigarette a tutti, anche alle signore, che fecero segno di no col capo. «Una fumatina dopo il caffè» disse l'altro ospite anziano «la facevamo, una volta, dopo pranzo, dopo cena e pure a quest'ora, di pomeriggio. Oggi è diventata una cosa da signori, non si trovano le sigarette, non si trova il caffè, non si trova lo zucchero, non si trova niente. Eh, brutta cosa la guerra. Comunque queste sono piccole cose. La grande preoccupazione è che i figli ritornino sani e salvi dalla guerra. Io ho il più piccolo in prigionia in Africa, in un campo inglese vicino all'Asmara, là ci sono pure molti tedeschi come voi...» Ada pensò che Helm non capiva. Il vecchio l'aveva chiamato tedesco. In effetti anche a lei i soldati stranieri sembravano tutti uguali. Questo era un po meno biondo degli altri, ma era grosso allo stesso modo e bianco bianco di carnagione; poi aveva questa faccia tra l'imbambolato e il serio... Il soldato aveva ripreso a fissarla. «Del caffè si può fare a meno» gli disse, perché qualcosa le toccava pur dire. «Ma manca lo zucchero per i bambini... Io mi faccio dare il miele dai contadini, ma certe volte non si trova neanche quello...» Toccò la zuccheriera, scosse il pollice e l'indice e poi strofinò i polpastrelli. Ma le dispiacque di due cose. Primo, di aver fatto quei gesti per farsi capire, perché vivere la povertà è una cosa, ma lamentarsene significa non aver più dignità; secondo, ch'erano anni che non si rivolgeva a un uomo che non fosse suo marito, o un conoscente, per parlargli così; a un uomo che la guardasse a quel modo. Si accorse di arrossire. Lui si tirò il labbro inferiore sotto i denti come se non avesse aspettato altro, fino ad allora, che lei gli rivolgesse la parola. Be, adesso la stava proprio imbarazzando. I vecchi si sarebbero accorti di quella espressione muta, le labbra ora aperte ora chiuse senza dire una parola, lo sguardo come se stesse per rimettersi la mano sul cuore e dire un altro aaach. «Zucher?» disse invece. «Caro, ja. Kin... Bambini. Papà no. Io so.» Indicò il suocero. Dunque il suocero gli aveva raccontato tutto. Chissà come. Magari mettendosi a piangere. Che poteva farsene di una storia così il soldato? «Guerino, il marito di Ada era un giovane tanto bravo, l'avresti dovuto conoscere.» La vicina di casa aveva ormai deciso che Helm capiva perfettamente l'italiano e aveva aperto la diga delle parole. «Qua a Sulmona tutti gli volevano bene; qualunque cosa gli chiedevi, lui ti veniva sempre ad aiutare; ti ricordi...» disse al marito «... quella volta che s'è arrampicato sul tetto con la scala per sturare il camino e io avevo paura che cadesse; quant'era caro Guerino! io lo conoscevo da quand'era piccolo, era andato a scuola col nostro figlio maggiore... e quando s'è morto, poveretto, io... io... noi non ci
potevamo credere: ma come, Rino? Dicevamo; non tiene manco quarant'anni; e come voleva bene alla moglie, oddio quanto le voleva bene a questa; e per i figli! stravedeva, stravedeva...» «Va bene, comma» la interruppe la suocera «queste mo so cose nostre che al giovanotto, qua, non interessano; che volete, lui non l'ha conosciuto.» «Questo giovane fa il carpentiere all'Austria» cambiò discorso il suocero. «Capisce un po l'italiano perché ha lavorato in Italia.» «Jawohl, io Zimmermann, carpentiere. Mio padre Meisterzimmermann, capocarpentiere. Lavorato Milano con lui qvando... giovane.» Si alzò. «Ora andare.» «Eh no» protestò Mino. «Dopo. Non mi hai fatto fare neanche un disegno.» Helm gli accarezzò la testa. Poi guardò la gonna di Ada: «No male, qvi?» disse toccandosi le ginocchia. Ada scosse la testa: «No, non mi sono fatta male. Solo un po sbucciata, quando sono caduta...». Si sentì imbarazzata a parlare delle sue gambe. «No male, gut.» «Vieni domani?» chiese Ezio; i bambini sono capaci di concentrare in pochissime parole le cose meno indicate da dire. Helm guardò Ada, non i suoceri: «Aaach... io non so...». Ada distolse lo sguardo, per non offrire, neppure indirettamente, il cenno atteso; ma non servì; furono tutti gli altri a invitarlo. «Sì, dai, ti aspettiamo domani...» I bambini ovviamente furono contenti e Mino gli prese la mano, anche per aver l'occasione di avvicinarsi alla fibbia della cintura che guardava da un po; tra i bambini e i soldati, quando non c'è violenza, c'è un mondo di giochi in attesa. Ma il silenzio di Ada non sfuggì a Helm, che continuò a guardarla di sottecchi. «Potere domani, ja?» chiese a bassa voce. Ada annuì. «Dankeschon, Frau Ada.» E che volevi rispondergli, pensò, mentre il tedesco veniva riaccompagnato alla porta da tutti, in un'uscita molto meno frettolosa della prima. Poi, poi avrebbe parlato coi figli per dire che su certe cose dovevano prima chiedere il permesso alla mamma, e soprattutto coi suoceri i quali non s'erano affatto curati della sua raccomandazione e non capivano che invitare il tedesco a casa sua non era come invitarlo a casa loro; appena fatto questo, ovviamente, avrebbe dovuto garantirsi la loro presenza per l'indomani e, quanto a lei, riflettere se farsi trovare. Se si fosse trattenuta un po di più al lavoro, l'ospite avrebbe capito che non doveva tornare, che la sua presenza era motivo d'imbarazzo; per altro verso, però, le seccava di dover aspettare un paio d'ore a rientrare, coi bambini affidati dalla mattina a due vecchi, per colpa di lui; guarda che situazione, si disse. Ma qualcosa le diceva che ci sarebbe stata anche lei il giorno dopo. Certe considerazioni, giuste in sé, appartenevano al giorno prima. Ora che l'aveva conosciuto, era come se tutte le riserve che aveva nutrito nei confronti del soldato avessero perso vigore. Se avesse voluto, avrebbe fatto in modo di chiudere ogni rapporto con lui. Helm avrebbe pronunciato due sillabe educate di ringraziamento, avrebbe abbassato lo sguardo e sarebbe sparito. Tutto sarebbe ritornato a estere come era opportuno che fosse; i bambini avrebbero chiesto per un po di lui e lei avrebbe detto che aveva da fare, che non poteva stare con loro. Se i suoceri l'avessero incontrato e invitato di nuovo, lui stesso, a quel punto, non sarebbe tornato. Ma non avrebbe fatto così. Non subito. Per un giorno, almeno, non avrebbe spento la scintilla che aveva visto accendersi negli occhi marrone chiaro, nel salutarla; mentre il primo, vero sorriso gli era apparso sul volto, indugiando un attimo sulle brevi sillabe del suo nome. Il tedesco si presentò il giorno dopo in anticipo, con forse un chilo e mezzo di zucchero. Rubato in caserma, gli si leggeva in faccia - anche perché gl'involti di carta e il modo in cui li portava, metà in una tasca, metà in un'altra, non potevano significare altro. «A Ezio e Mino» disse semplicemente; ma Ada vide che non era tranquillo e temeva l'arrivo dei vicini da un momento all'altro; guardava la credenza infatti, come se le chiedesse di farlo sparire al più presto. Ada capì e lo mise lì dentro.
Era stupita del dono. Il soldato voleva farsi accettare, ma quel regalo dimostrava anche altro. Innanzitutto era uno che capiva. Il giorno prima, sentito che non si trovava lo zucchero, subito aveva pensato a come procurarne un po... aveva pensato ai bambini che dovevano crescere, e questo mentre lei quasi progettava di non farsi trovare a casa... Lo guardò più attentamente, ora che si sedeva, col busto eretto, allo stesso posto di ieri dietro al tavolo. Stava scambiando qualche parola con il suocero e la suocera, mentre i bambini andavano a prendere un quaderno e delle matite nella loro cameretta. Non vista, lasciò che i suoi occhi interrogassero quel viso da ragazzo serio. I capelli castani. La bocca imbronciata. I lineamenti robusti. Gli occhi guardinghi rispetto alla vita, eppure disposti a farle credito. Povero soldato, pensò; costretto a lasciare la sua vita, la sua casa, la sua famiglia, per andare in guerra. Magari quella divisa lo rende più estraneo a lui, che a noi stessi. Chi era? Cosa voleva da lei? Il regalo, si disse, non l'ha fatto così, senza pensarci. Ha previsto che lo avrei gradito, come mamma, e ha ragione. Vuole farsi accettare tramite i bambini. Perché lo fa? Non serve a niente. Ripartirà, se ne andrà; da un giorno all'altro verrà richiamato da qualche altra parte. Viene volentieri qua. Forse sente nostalgia di casa. E' un buono. Magari è sposato, non porta la fede e ha i figli, perciò gioca coi bambini... No, non è sposato, non ha figli; l'avrebbe detto subito. Magari ha una fidanzata al paese che sposerà alla fine della guerra. O neanche quella; di sicuro sono mesi che non tocca una donna. Ada non aveva paura di pensare certe cose; solo gli stupidi censurano il proprio pensiero - Mi desidera, si vede da come guarda... non è tipo da andare dalle romane, non ce lo vedo proprio. Ma che s'è messo in testa? Gli fosse venuto in mente? Ma no, che non gli è venuto in mente niente. Insomma, però deve anche capire la situazione, non può venire a presentarsi qua tutti i giorni, questa è la casa di una donna sola con due bambini... Questo pensò ed era giusto. Ma le faceva piacere pensare che la desiderasse. Le piaceva quando alzava le sopracciglia, per guardarla. E' poi quando serrava le labbra, abbassando gli occhi, per paura di esser stato sorpreso.
CAPITOLO 4 La prima pioggia segnò l'arrivo dell'autunno. Era come se lo splendore dell'estate non accettasse più d'illuminare uno scenario di guerra. Si dileguò all'improvviso, tirandosi dietro tutte le speranze che aveva portato, per consegnare dapprima a cieli grigi, poi a plumbee nuvole in fuga e infine a fredde nebbie un'umanità preoccupata e armata, che non chiamava né cieli né nuvole né nebbie con la stessa lingua. Ada non vide Helm il giorno successivo. Dopo aver un po rimproverato i suoceri per quest'inviti fatti senza consultarla, aveva deciso che per il caffè farebbe stata a casa anche lei, ma arrivando in ritardo. Così si sarebbe tolto di mezzo ogni equivoco col tedesco: lei sarebbe stata impegnata col lavoro e se lui fosse venuto a casa, l'avrebbe fatto di sua iniziativa, senza essere incoraggiato; come un estraneo accettato per gentilezza, insomma. Fu Ezio a riferirle che Helm era passato solo un momento. La suocera le disse che non si era neanche seduto a prendere un caffè. «Però gli ha lasciato le sigarette» concluse, indicando il suocero, assorto in contemplazione della finestra della cucina, in mezzo a una nuvola di fumo. Ci restò male. Aveva pensato di non farsi trovare e adesso le dispiaceva di non trovare lui. Prima, al seminario, mentre si svestiva del grembiule, si era guardata allo specchio. Aveva indossato la camicetta col collo di pizzo bianco, che le faceva risaltare il colorito sulle guance. Helm non l'aveva mai vista così e avrebbe voluto che la guardasse. In passato, usava mettere la catenina d'oro sotto a quel pizzo; bianco e oro sulla sua carnagione stavano bene. Dov'era adesso la catenina? Dov'erano l'anello di fidanzamento, il braccialetto, l'altra collanina d'oro e gli orecchini - le due paia che Rino le aveva comprato dopo la nascita di Ezio e Mino - e quelli antichi della nonna con le ametiste, tutti spariti con la valigia rubata? Quale disgraziata se ne faceva bella? Pensò che era stato il suo atteggiamento del giorno prima a scoraggiare il tedesco. Non sarebbe più tornato. L'avrebbe incrociato una volta per strada, in mezzo ad altri soldati e avrebbero fatto finta di non riconoscersi, per convenienza. Ma non poteva rimanere con quel dubbio. «Perché non si è fermato?» chiese. «E' passato un momento a salutare» rispose la suocera «perché lo mandano a Fonte d'Amore, a fare la guardia ai prigionieri. Oh, a proposito, ha portato anche un mazzetto di fiori per te. Voleva ringraziarti. Li ho messi in camera, nel vasetto davanti alla Madonna.» E passato un momento a salutare, ripeté Ada a se stessa, con una piccola fitta dentro, che nascose con l'espressione apparentemente neutra del volto. E ha lasciato i fiori per ringraziarmi. Non tornerà più, Fonte è fuori mano, non avrà più tempo di andare e tornare nel breve spazio della libera uscita giornaliera. E chissà dove sarà mandato in seguito. Ecco a cos'erano destinate tutte quelle inutili preoccupazioni di non farlo entrare, di non farsi vedere, di rimproverare i suoceri e i bambini: a niente; la faccenda si sarebbe risolta da sola. Doveva andare così. Questa è la sorte dei soldati in guerra, no? Oggi sono qua, domani là; anzi oggi ci sono, domani non si sa. E io non l'ho ringraziato, per avermi messa in salvo al deposito; per avermi evitato di fare una brutta fine. Non l'ho incoraggiato a venirci a trovare, però... trovarsi in casa un tedesco di 'sti tempi... non è cosa che può fare, una donna sola. Mi sono comportata nell'unico modo possibile. Ma il pensiero di aver agito come doveva non riuscì a consolarla, perché la logica non consola mai il cuore. «Be» disse «cerchiamo allora di non fare il caffè se dovessero arrivare i vicini. Questa casa sta diventando una caffetteria. Dobbiamo conservarne un po per quando
ritorà sì, insomma, se il tedesco dovesse ritornare.» Fece una carezza sulla testa di Mino che si era seduto dove si sedeva lui e disegnava immusonito. Le venne in mente l'espressione del tedesco quando smetteva di guardare i disegni del bambino e sollevava gli occhi nocciola chiaro verso di lei, come se avesse atteso tutto il tempo di guardarla anche quando faceva finta di interessarsi d'altro. Le venne in mente quando la guardava a labbra schiuse - come se non fosse il momento del pensiero ma della vista -, mentre le sopracciglia bionde si sollevavano impercettibilmente. Era il primo uomo cui pensava così dai tempi di Rino. Ora ch'era sparito poteva confessare a se stessa che le piaceva. A volte si era sentita dentro qualcosa d'inquieto, prima che un'immagine le apparisse, di occhi o di labbra o di un volto troppo straniero per essere vero: perché il cuore, nelle sue magie, a volte fa sentire la dolcezza prima delle immagini. Una voce senza suono le aveva detto, allora: mi vedi? sono io, l'amore venuto per te; potresti afferrarmi, prendermi, tirarmi dentro alla tua vita; e invece tu mi lascerai andare, perché pensi che io sia lontano, perché hai paura, o perché ci sono altre cose a separarci, e così ci perderemo per sempre. Ma sono l'amore, mi hai riconosciuto, almeno? Rispondimi di sì. Non ti punirò, ti farò anzi un regalo: un'immagine. La farò riemergere quando meno te l'aspetterai. Ti lascerò dentro labbra sorridenti, sopracciglia alzate, pupille color oro che brillano nel guardarti e tu le riconoscerai. Accarezzò la testa di Mino. Fece a lui la domanda che non aveva fatto a se stessa. «Che c'è, sei triste perché non c'è Helm?» disse. La testina si piegò due volte, rispondendo di sì. «Eh, ci voleva giocare» mormorò la suocera. Dopo l'8 settembre erano stati gli stessi italiani ad aprire le porte del campo di Fonte d'Amore agl'inglesi. Non aveva senso trattenervi un nemico che non doveva più essere considerato tale e stava per diventare alleato. A parte questo, non c'era più un'organizzazione in grado di farlo. Le forze di polizia rimaste attive ricevevano ordini contraddittori ed erano alle prese con ben altri problemi. Far andare via gli inglesi era stato una necessità. Il vettovagliamento del campo, che ospitava oltre tremila uomini, era diventato molto più grave della stessa organizzazione della custodia. Gli inglesi si erano quindi dispersi sui monti e avevano tentato di valicarli a sud, per ricongiungersi agli americani, i quali però non avevano ancora raggiunto il Molise, com'era nelle previsioni di tutti. Per i prigionieri in fuga il problema non erano i pochi giorni di marcia per arrivarvi, ma la sorte che li aspettava una volta scesi nelle piane, senza trovarvi le loro truppe; alcuni che l'avevano fatto non erano poi stati in grado di proseguire. A complicare tutto c'era l'ordine, dato dagli americani ai prigionieri, di non allontanarsi dalla valle di Sulmona. La loro liberazione era stata programmata con un massiccio lancio di paracadutisti, sicché nel dubbio molti erano rimasti sui monti. E nei giorni di quest'incertezza erano arrivati i tedeschi. Subito erano cominciati i rastrellamenti. Un bando condannava a morte chiunque desse anche indirettamente assistenza ai fuggiaschi, ma sui pianori altissimi dei monti - dove l'unico a comandare era il vento e l'unica custodia conosciuta quella delle greggi - era normale che pastori, contadini e abitanti dei paesi aiutassero quei ragazzi in fuga, rispondendo a un'antica legge di solidarietà, non scritta in bandi. Li nascondevano nei pagliai, nelle grotte, negli stazzi più alti, in casupole nei boschi, e
anche dentro casa, come meglio potevano. Chi li ricoverava spesso non riusciva a scambiare una parola con loro, ma non ne aveva bisogno. C'era l'intesa senza tempo degli uomini soli sui monti, che si aiutano contro la natura, e tanto bastava: sapevano quando portar loro il cibo, quando avvisarli di un pericolo, quando dare notizie sicure, perché potessero muoversi. Le montagne intorno a Sulmona erano percorse ogni notte da uomini che si muovevano come spettri. Ma se i pianori e i monti e i boschi non tradivano, l'uomo sì. Al contadino, al pastore, all'uomo e alla donna di paese abituati a osservare il vicino con occhi sottili, e ad aver conferma ogni giorno della sua esistenza, da movimenti sempre uguali, in direzione dei campi o dei pascoli, non sfuggivano deviazioni, ritardi, strani e ingiustificati passaggi in punti remoti. La spiegazione possibile era solo una, gli inglesi. Nella pochezza di elementi da considerare, era poi facile acquisirne conferma e c'erano i tedeschi e i loro confidenti con cui far fruttare l'intuizione; più della ricompensa, a muovere la spiata era il pensiero che se il pastore o il contadino fossero stati condannati e uccisi, le loro cose avrebbero cambiato padrone, perché è dal male di molti che viene il bene per pochi. La guerra, nella regione giustamente detta forte e gentile, strappava a volte la maschera della gentilezza, a chi l'aveva indossata, per mostrare, a tratti, il volto di una forza maligna, nascosta fino ad allora. Così succedevano fatti come quello di Roccacasale. Quattro pastori - il più vecchio di sessantasei, il più giovane di diciassette - s'erano visti piombare addosso i tedeschi, nel remoto rifugio dove si trovavano, di Castel dell'Orsa, presso Rocca. I soldati avevano sparato e loro avevano risposto al fuoco. Poco prima, erano riusciti a far fuggire dei prigionieri inglesi che erano rimasti qualche giorno con loro. I tedeschi l'avevano saputo da una spiata, pur non essendo riusciti a sorprenderli. E comunque l'aver risposto al fuoco, da parte dei pastori, aveva tolto ogni dubbio. Dopo un processo sommario, a meno di una settimana dai fatti, erano stati condannati a morte tutti e quattro. Un camion li aveva caricati, ripercorrendo la strada del cimitero. Era l'alba, ma una pastorella era già salita con le bestie sul colle che sovrasta l'accesso al cimitero. Dalla sommità aveva visto scendere tanti uomini dal camion, senza poterne distinguere quattro, tra loro, con le mani legate e accanto un prete. Il pastorello di diciassette anni aveva pianto e urlato laggiù, ma le sue grida erano diventate lamenti alla sommità dei cipressi, sussurri già alle prime rocce del colle e poi solo vento nel vento. In cima, il disordinato suono dei campanacci legati al collo delle pecore, aveva coperto ogni disperazione. Ma aveva visto, la pastorella, come s'abbracciava al prete, il ragazzo inginocchiato, afferrandosi alla sua tonaca con le mani legate; aveva visto i tedeschi trascinarlo via, per legarlo come gli altri a un albero, tenendolo fermo mentre si dibatteva. I soldati non avevano sparato subito. Prima avevano dovuto soccorrere un loro compagno svenuto, un altro ragazzo col fucile in mano, terrorizzato quasi quanto il coetaneo che doveva uccidere; dall'alto la pastorella lo aveva visto accasciarsi, nella fila, per l'emozione. Poi il vento aveva smesso di mugghiare tra i cespugli. Tutto s'era acquietato. La scarica era partita ed era stata rapida, non sembrava neanche che potesse far tanto male, da lassù; non aveva prodotto che un sussulto di corpi legati. A quel punto un ufficiale era passato accanto a ogni capo reclinato e, tenendosi a distanza, col braccio teso aveva sparato quattro colpi di grazia; infatti, prima di fucilarli ai pastori erano stati tolti i cappelli, poggiati accanto a ogni albero cui li avevano legati. Allora il vento si era rifugiato sulle cime dei monti, per non vedere più, per non sapere più, per non accarezzare più quei corpi senza vita, ripiegati in avanti, con cui tante altre volte aveva giocato, negli stazzi più alti. Non c'era stato un alito per tutto il giorno. A sera, accanto agli alberi, erano rimasti quattro cappelli. Atrocità come quelle contro i pastori di Rocca non erano isolate. I tedeschi trovavano più comodo sparare, che catturare e processare. Nessuno
avrebbe mai saputo se gli inglesi fuggiaschi che venivano uccisi e i loro soccorritori avevano davvero tentato una resistenza. I morti non replicavano, non facevano perdere tempo, non richiedevano avvisi e moniti, scritti in cattivo italiano, dove si leggeva: "Sono stati condannati con pena di morte gli italiani seguenti... tale fucilazione ha stata eseguita in la località di Cimitero al 20 ottobre 1943" Quell'italiano stentato era la lingua che dettava legge nella valle. Niente era più difendibile. L'eremo del papa sulmonese Celestino V, appollaiato sulle rocce del Morrone. Come un nido d'aquila, era stato cannoneggiato, con [l'accusa di aver ospitato fuggiaschi. Non era vero, non c'erano neanche i monaci lassù, ma era bastato il dubbio. E un simbolo che da settecento anni proteggeva la Valle era stato ridotto in polvere. Chi aveva assistito alla sua distruzione, da centinaia di metri più in basso, aveva raccontato che le antiche pareti, affrescate per secoli t dalle mani amorose dei monaci, si erano sbriciolate come un biscotto, nell'aria. Fucilazioni, requisizioni, saccheggi, distruzioni segnavano la presenza dei tedeschi, che ormai non si preoccupavano più di fingere un'intesa con gl'italiani, che li avevano traditi. Se erano stati impegnati a sud in questo nuovo fronte di guerra, era per colpa loro. E c'erano i rastrellamenti. Cioè le requisizioni di esseri umani per portarli a scavare trincee o a fare altri lavori sui monti. Un orrore particolare, questo, perché penetrava nelle case. Annunciati da brusche frenate di mezzi, si vedevano file di tedeschi disporsi all'improvviso ai due capi delle strade, per chiudere vie di fuga. Subito dopo, altri avanzavano in drappelli veloci e non si limitavano a fermare gli uomini abili che vedevano. Entravano dappertutto, sfondando anche le porte, se non venivano aperte subito, dopo averle brutalmente percosse col calcio del fucile. L'accesso veniva chiesto urlando, battendo, minacciando. Le parole erano incomprensibili, il tono quello di padroni irati e violenti. Avevano l'ordine di sparare a chiunque tentasse di fuggire. Molti erano morti così. Per questo nelle case dove c'erano uomini abili o ragazzi più grandicelli, erano stati preparati degl'incredibili nascondigli. Non c'era una soffitta, una carbonaia, un fondaco, che non fosse stato attrezzato con pareti di legni, assi o buche scavate nella terra per ingannare i tedeschi. Le loro azioni erano infatti rabbiose ma veloci, non avevano tempo di setacciare a fondo l'abitato. A peggiorare tutto, a novembre, erano arrivate in città e nei dintorni anche duecento SS. I più impauriti erano gli stessi soldati della Wehrmacht. Ai sulmonesi non sembrò che la paura potesse crescere. La maggior parte di loro non sapeva neanche cosa fossero le SS. I soldati tedeschi sì. E in quel clima in cui crescevano la paura e l'angoscia, all'improvviso, Helm tornò. Si ripresentò di pomeriggio, come se fosse trascorso un giorno, anziché un mese. Andò da lei appena rientrato in città, perché era scontato che andasse subito a trovarla. Bussò alla finestra, attese che lei aprisse, entrò. Ada avvertì un tremore di gioia come se fosse arrivato un momento atteso - mentre lui si toglieva il berretto, educatamente. Vide l'attimo d'imbarazzo in cui egli capiva che erano soli, il suo darle la mano, quello in cui gli occhi nocciola, divenuti improvvisamente scuri, fissavano i suoi, costringendola ad abbassarli. Helm si sedette con un sospiro. Rimase in silenzio. Chinò la tetta, scuotendola come se fosse in una situazione senza uscita e guardando il berretto ripiegato, che rigirava tra le mani. Un istante ancora, poi si alzò, senza avanzare verso di lei, rimanendo vicino alla sedia: «Ada...» disse «io, lontano, sempre... a te...». A te cosa? ho pensato? Forse voleva dire solo: lontano da te. No, non voleva dire quello. Voleva dire: sempre a te ho pensato. Non poteva significare altro. Una sola parola, una sola sillaba e se ne sarebbe andato via. Ma Ada
sentì che qualcosa saliva da dentro di lei qualcosa di gioioso, che s'impadroniva del momento, indifferente al futuro - e non avrebbe pronunciato nulla che potesse farlo andare via. Gli si avvicinò. Non sapeva cosa voleva, le importava solo che fosse tornato. Ogni incertezza, ogni imbarazzo sbiadiva. La colpa più grave, in quel momento, sarebbe stata solo una: rinunciare a farglielo capire. Helm l'attirò a sé e la strinse. Ada si trovò tra le sue braccia, a contatto con il suo corpo - straniero non estraneo -, premuta contro l'uniforme ruvida, che sapeva di pioggia, tabacco e sapone da due soldi. Si lasciò baciare sulla fronte, sulla tempia e sul collo, scostandosi un poco quando si accorse che scendeva sul seno. Helm rispettò la sua volontà e rinunciò a baciarla sul seno; ma subito dopo l'attirò più forte, spostandole il corpo in modo che aderisse meglio al suo, mentre le mani le scendevano dalla schiena sui fianchi. Ne sentì la stretta e non si sottrasse, lei stessa anzi gli mise le mani sulle guance e lo baciò in bocca; era tanto che voleva farlo. Sapeva che, dopo, lui non si sarebbe fermato. Ma sapeva ancor più di essere, finalmente, una donna che stringeva, riamata, l'uomo che desiderava. Questo voleva per un attimo - riessere se stessa. Aveva pensato a tante cose tristi in quegli anni, adesso non voleva pensare. Voleva uscire da quella vita di lutto, di stenti, di paura, che si era impadronita di lei, protestare, gridare ch'era ancora capace di vivere. Tutto quello che aveva sofferto l'aveva resa un'estranea a se stessa, i gesti naturali tra una giovane donna e il suo sposo erano stati vietati a lei da una sorte che le aveva portato via il compagno. Il resto - la fine dell'amore, la solitudine, la miseria erano state una conseguente punizione accettata, senza aver commesso alcuna colpa e senza ribellarsi. Bene, oggi l'avrebbe meritata. Si lasciò scoprire il seno e baciare. Subito dopo sentì Helm aprire le gambe, attirarla contro la sua durezza e iniziare a muoversi, pur vestito, nei gesti ritmici e inconsci che l'amore fa, per rinforzarsi. Lo vide sollevare il volto dalle guance infiammate e cercare, girando gli occhi intorno, dove finire quello che avevano cominciato, col respiro corto tra le labbra. Per qualche istante tutto perse consistenza. Poi la mano di lui sbottonò il pantalone, s'infilò sotto la gonna e salì in fretta tra le gambe di lei, troppo in fretta, in quel gesto d'invasione che una donna non accetta mai, se non lo ha lei stessa deciso. Ada serrò istintivamente le gambe, si staccò da lui. Sentì la sua voce sussurrare: «No no», come quando si chiede scusa a qualcuno per l'amore negato, senza volerlo offendere. Lo disse con una mano davanti alla bocca, e l'altra aperta in faccia a lui, per tenerlo a distanza. Era un comando, a bassa voce, a un soldato. Ne conosceva l'assurdità, per averlo prima incoraggiato e adesso respinto. Helm la osservò incerto. Si fece avanti per stringerla ancora. Lei si sottrasse, tendendo entrambe le mani verso di lui e girando il viso verso il pavimento, per non guardarlo. Allora lui si fermò. Fece un passo indietro continuando a fissarla, deglutì e si passò una mano sulla nuca. Morse il labbro inferiore, come se avesse fatto un gesto sconveniente rispetto a cui non c'erano parole per scusarsi. Poteva solo restar fermo così, sempre più a disagio, lo sguardo ancora ardente, pieno d'imbarazzo. Chinò il viso in fiamme, si riabbottonò, vergognandosi del proprio corpo, da cui lei distoglieva lo sguardo. Nel riassettarsi la camicetta, Ada sentì i capezzoli turgidi. Gettò intorno a sé un'occhiata furtiva, per assicurarsi che le pareti e i mobili non raccontassero a nessuno quello ch'era appena successo lì dentro. Poi si ravviò all'indietro i capelli, nel gesto istintivo che una donna
fa, porre fine allo scompiglio portato dall'amore. Gli scoccò un'altra occhiata. Helm era serissimo. Aveva le labbra chiuse. Avvertì una nuova tenerezza per lui, pur ricacciandola indietro. Sarebbe stato giusto dirgli che aveva ragione, che aveva torto lei e che non doveva vergognarsi; ma neppure lei sapeva come fargli capire queste parole. E poi non sarebbe servito a niente. Adesso era lui a distogliere gli occhi, quasi che incrociarli coi suoi potesse attirargli addosso la più temuta delle condanne. Tutta la fretta di possederla si era trasformata in fretta di andarsene. Che altro poteva fare? S'infilò il berretto, si diresse alla porta senza salutarla. Si è offeso, pensò Ada, sono stata una pazza; davvero adesso non tornerà più. Ma sulla porta lui si girò come se uscire dandole le spalle fosse una mancanza di rispetto ancora più grave di quella di cui s'era appena macchiato. Fece un gesto rigido abbassando il mento, nell'inchino più colpevole che si fosse mai visto. Non attese che gli facesse un cenno di saluto a sua volta, non ci sperò. Uscì tirandosi dietro la porta e stando attento a chiuderla, perché non facesse rumore attirando l'attenzione di qualcuno, dalle case di fronte. Ada lo vide, attraverso i vetri, andarsene a passo svelto, molto più rapidamente della prima volta che lei l'aveva cacciato. Tornerà, quando sarà il momento, disse allora a se stessa, perché è innamorato. E, nella vergogna che spesso accompagna la felicità, sorrise.
CAPITOLO 5 L'inverno giunse presto nella valle. Anticipò la fine dell'autunno, scacciandone la malinconica dolcezza e svolgendo le cime dei monti in nuvole rabbiose, che tuonavano ogni giorno. Ogni tanto si sollevavano, per regalare un azzurro crudele, infido nella sua limpidezza i C più gelido di quanto chiunque ricordasse. Il manto bianco di neve scese sempre più nella conca. A novembre le pozze ghiacciavano ogni notte. I prigionieri inglesi che per qualche motivo non avevano valicato i monti a fine estate, nei pochi fortunati giorni tra l'apertura del campo e l'arrivo dei tedeschi, si rimisero a sperare. Chi tentava di salire ai valichi moriva assiderato o doveva arrendersi alla neve ed era costretto a tornare indietro. I pastori non erano disposti ad accompagnarli, anche nei giorni in cui sembrava possibile. Giuravano che un inverno così duro e precoce non s'era mai visto. Allora tutti capirono che le cime mandavano un messaggio. Sempre uguali e sollevate dalle vicende della terra avvisavano ciò che vedevano arrivare, da lassù. Dicevano: non verso sud, dove per infinite terre si riposa in pace nei campi, e neppure verso nord, dove tutto è ancora incerto, pur se spaventoso, ma da ovest a est, in questa stretta fascia tra il Tirreno e l'Adriatico, si concentra adesso un odio quale qui non s'è mai visto nei secoli; moltissimi uomini da ogni parte del mondo vi sono stati mandati a combattere; non si conoscono, ma sono preda di un comando al quale non possono sottrarsi: uccidere per non essere uccisi. Dicevano: tentate dunque di fare sopravvivere l'amore perché, da Cassino a Ortona, non pianterete il seme che fiorisca nei campi, a primavera, ma decine di migliaia di croci. Ada non vide Helm per due settimane. Dopo quello ch'era successo, non aveva bisogno di conoscere il motivo del suo allontanamento. Ai bambini che chiedevano perché non veniva più, rispondeva che la vita dei soldati in guerra era così, che non sapevano mai dove li mandavano i loro capi. A Mino che chiedeva: perché non lo vai a cercare, così finiamo il gioco che avevamo cominciato? rispose che non stava bene che una mamma andasse a cercare un soldato; nessuna mamma lo faceva. I piccoli naturalmente non si rassegnavano a queste risposte. Non comprendevano le cose complicate dei grandi, ma - secondo la misteriosa legge per cui capiscono benissimo la parte che interessa loro - avevano chiaro che la madre non poteva, ma loro sì che potevano andare a cercare Helm. E lo fecero con la micidiale efficacia dei loro anni. Si appostarono in attesa di uno dei calciatori che saliva dalle romane, e gli diedero un biglietto indirizzato a lui. Ezio ci aveva scritto che loro e la mamma lo aspettavano. Il giorno dopo, Helm tornò. Lo vide arrivare lungo la strada, coi figli vicino. I suoceri erano in cucina, lei era nel sottotetto, in quel momento, a rovistare in ginocchio tra certe vecchie cose, prima che facesse buio e ci fosse necessità di portare un lume là sopra. Nel vederlo, mentendo a se stessa, si disse che era irritata; che avrebbe rimproverato i bambini per averglielo riportato a casa senza dirle niente, ma intanto si guardò in uno specchio, sbiadito al punto da non rimandarle quasi l'immagine. Non era così che avrebbe Voluto incontrarlo. Per fare quel lavoro nella polvere, si era messa la più stracciata delle vesti da casa, mentre avrebbe voluto accoglierlo ben vestita. Scese la ripida scala di legno, stando attenta a dove metteva i piedi. Il suocero era sulla porta e Helm si fermò a salutarlo. Meno male, pensò Ada, così se qualcuno sta guardando ! li vedrà parlare. Il vecchio accolse il soldato con una frase banale che lo rivelava all'oscuro di tutto: «Eh, ci chiedevamo, che fine avrà fatto?
Mica l'avranno trasferito?» Entrato, Helm impiegò qualche secondo ad alzare gli occhi verso di lei, come se una tempesta potesse scatenarsi da un momento all'altro e lui fosse l'unico ad avvertirne i segnali. Ada si avvicinò. Non voleva farlo sentire a disagio e aumentare imbarazzo a imbarazzo. Un ospite era a casa sua, solo questo doveva pensare. Doveva farlo accomodare. Eppure mentre lui si toglieva il pesante pastrano militare e la suocera lo prendeva per appenderlo all'attaccapanni, sentì che quel corpo in divisa - alto, magro vigoroso come il suo. Sentì ciò che le parole non dicono e gli occhi capiscono in un istante: era tornato perché non ce l'aveva fatta a non tornare; aveva pensato a lei tutto il tempo. Ne gioì, non come si gioisce di una vittoria, come si gioisce di una capitolazione fatta da qualcuno al quale ci si stava per arrendere, a propria volta. Sapeva che l'atteggiamento scelto nei confronti di Helm era l'unico possibile: essere se stessa, non lasciarsi condizionare dall'amore che c'era tra loro, comporsi come se non esistesse. Tanto la strada su cui si erano incamminati avrebbe comunque preso una biforcazione: o sarebbero divenuti amanti e questi pensieri non avrebbero più avuto senso; o non sarebbero divenuti amanti e allora si sarebbero rivelati inutili, perché destinati al nulla. Helm sedeva adesso tra Ezio e Mino che guardavano il loro amico tornato. Ada guardò il suo viso da ragazzo, la bocca severa, le guance arrossate dal freddo e dalla reazione all'improvviso tepore di un ambiente chiuso. Guardò le spalle, il petto, i fianchi, le gambe e i piedi negli stivali un po infangati. Guardò soprattutto gli occhi, sormontati da quelle lunghe sopracciglia che s'inarcavano contro la sua volontà, se lei diceva una parola, per cercare di capirla, come se fosse stata la più preziosa del mondo. Helm aveva la tosse e cercava di tenere lontani i bambini per non attaccargliela, senza riuscirci. Mino, soprattutto, voleva mostrargli l'ultimo disegno che aveva fatto; perciò Helm teneva il busto sollevato e girava la testa, quando gli veniva un colpo di tosse. La suocera gli disse che il giorno dopo gli avrebbe fatto trovare a casa sua lo sciroppo di mirtilli, buono contro la tosse. Siccome era una frase impossibile da spiegare, i bambini mimarono la tosse, qualcosa da bere messo in un bicchiere e la tosse che passava. Avendo però trovato gusto nel fare i versacci della tosse, si misero a rifarla, cercando di tossire uno più dell'altro. I versacci divennero un terreno di gara, sicché Ada dovette intervenire: «Basta! Scostumati» li rimproverò. Pensava anche che l'ospite avrebbe potuto sentirsi preso in giro. Ma Helm si mise a ridere, il riso gli fece tornare la tosse e la tosse fece ridere tutti di più. Per evitare che la competizione riprendesse a tre, accettò allora un bicchiere di latte tiepido e miele. Senza complimenti disse che sarebbe venuto a «prendere Sirup domani, jawohl» Ezio tirò fuori un disegno che aveva fatto a scuola. Rappresentava una casetta sul fianco di una montagna: era l'eremo di Celestino V, sopra al campo dei prigionieri inglesi di Fonte d'Amore, che i tedeschi avevano fatto saltare il mese prima. I bambini l'avevano copiato da una fotografia. La maestra glielo aveva fatto disegnare quale tributo alla storia della conca, che la guerra stava cancellando. Helm capì di cosa si trattava, perché si trovava al campo prigionieri di Fonte quando l'artiglieria l'aveva cannoneggiato. Guardò il disegno ricordando la scena cui aveva assistito. Poi prese un foglio pulito, una matita e cominciò a disegnare una montagna. I bambini si fecero attenti. Ezio chiese: «E' il Morro. Il tedesco fece cenno di no. Disegnò un lago, nel quale le montagne si specchiavano. Era bravo, inclinando la matita faceva il riflesso nell'acqua, nitido in superficie, poi sempre più sfumato ed evanescente. Un piccolo poggio si avanzava sull'acqua e Helm schizzò delle case e qualcosa che somigliava a un castello.
Quest'ultimo accese l'interesse di Mino, che si riprese la matita. Voleva intervenire sul castello e cominciò a disegnarci dei merli, facendo sorridere Helm. «No così» disse paziente. «Fare, tu e io, grande tetto di... Rathaus, come dire?» «Castello» risposero insieme i bambini. «Ja.» Ma non era un castello, era un municipio o qualcosa di simile. Prese la mano di Mino e la guidò a disegnare un tetto spiovente. Le piccole dita di Mino disegnarono boschi, nuvole e un campanile sul punto più alto del poggio. «Guarda che ho fatto» Mino disse alla fine, con orgoglio, al fratello. «Mica l'hai fatto tu, l'ha fatto lui» replicò Ezio. «L'ho fatto io!» insistè il piccolo, offeso. La nota nella voce preannunciava un inizio di ostilità col fratello. Per prevenirle, Ada chiese a Helm: «Cos'è?». Helm non rispose subito. La guardò, come se volesse dirle qualcosa. «Mio paes-se.» Deve abitare in montagna, pensò Ada. Le case hanno i tetti spioventi per la neve, come quelle di Pietransieri e Roccaraso. Comprese che aveva fatto il disegno per lei. Voleva farle vedere da dove veniva; trasferirle una scheggia del suo mondo, dirle che non era solo un invasore in divisa. «Come si chiama?» ripeté Ada. Helm scosse la testa. I figli ricorsero al solito sistema di traduzione. «Qui Sulmona» disse Ezio, facendo con l'indice un giro tutt'intorno e indicando poi il foglio. «E qui? Come hai detto che si chiama il tuo paese?» «Ah! Traunkirchen» disse indicando il campanile sul poggio e poi spostandosi sul lago. «Traunsee» aggiunse, facendolo scorrere sull'acqua; negli occhi nocciola chiaro, le pupille si allargarono e scurirono, ospitando ricordi; abbassò il mento sul bavero della giacca; la nostalgia coprì le mostrine della Wehrmacht - «Traunsee, troppo... troppo». Qualunque cosa fosse Traunsee, era "troppo" per lui. Ada prese in mano il disegno: «Ha fatto il suo paese. Guarda quant'è bello» disse mostrandolo al suocero. Helm s'impadronì dell'aggettivo, la guardò negli occhi, e sorrise all'improvviso, dicendo: «Troppo bellissimo sì» Ada capì e arrossì. Helm non stava parlando del suo paese con quel nome impossibile. Aveva pronunciato parole dirette a lei. Si era insinuato nelle pieghe di una lingua che non conosceva per dirle che era bellissima, che era innamorato, e che lei doveva sapere del suo amore. Abbassò gli occhi per nascondere a tutti il complimento nascosto che aveva ricevuto. Se qualcuno le avesse detto, in quegli anni di solitudine, una frase d'amore in italiano perfetto, non le avrebbe fatto effetto come questa. Helm era riuscito a impadronirsi del superlativo e, appena conquistato, gliel'aveva dedicato. Non ce n'era bisogno perché il suo corpo aveva parlato, quando si erano abbracciati e baciati. Ma queste parole significavano altro. Nell'improvvisa ispirazione con cui aveva ripetuto l'aggettivo, c'erano le parole che una donna ama ascoltare in ogni tempo: sei bellissima, ti desidero, vorrei fare l'amore con te. Ada sentì che se in quel momento non si levava da dosso i suoi occhi, sarebbe affogata. Anche lei era innamorata di lui. Le acque del Traunsee erano diventate scure, profonde. Decise che non l'avrebbe rivisto. Aveva paura di se stessa. Si dava della pazza. Come aveva potuto lasciarsi andare così con un soldato straniero? Quale futuro avrebbe avuto una storia tra loro? Come aveva potuto mettere se stessa al primo posto invece della famiglia, dei figli? Ma la voce implacabile che parlava dentro era libera ormai e rispondeva a tutto. Sei pazza, sì - le diceva - ed è bene per te, perché in questa follia hai ritrovato la vita, mentre nel giudizio eri morta. Forse questa storia non ha futuro. Ma a quale futuro ti è stato concesso di pensare, in questi anni? Tu non vivi, sopravvivi nel presente, giorno
per giorno. Lascia dunque entrare il bene nella tua vita, il dolore già ne fa parte. Se chiudi le porte a ciò che può farti gioire, resteranno aperte solo a ciò che ti fa soffrire. Cosa t'imbarazza? D'esserti fatta abbracciare e baciare da un soldato straniero? Ma non hai tradito Guerino, sai che non l'avresti fatto mai, se fosse stato vivo. Avevi bisogno per te stessa di sentirti stringere, di provare che c'era stato un tempo - non un sogno - in cui queste cose accadevano; in cui eri una donna. Guerino è morto. Non è a lui, è alla morte che hai voltato le spalle. Troppo l'hai avuta davanti. Hai fatto bene. Così tentava di assolversi, Ada, da ciò che era successo, così cercava di portare piccoli argomenti a una più [ grande ragione. Lo faceva per trovare la forza di non darsi a Helm. Era molto attratta da lui, lo sapeva ed era forte abbastanza da guardarsi dentro e chiamare le cose col loro nome. Il Volto di Helm le occupava la mente. Aveva perfino il coraggio di confessare a se stessa la cosa che mai avrebbe voluto pensare: lo desiderava più di quanto avesse mai desiderato Rino. Ma proprio per questo doveva fermarsi li, se ciò ch'era successo non aveva già rovinato tutto. Basta, allora, si disse, lui domani non verrà qui, andrà prendere lo sciroppo dai vecchi. Ci manderò solo i bambini. Io non ci andrò e finirà tutta questa storia. Successe il giorno dopo. Il tedesco non andò dai suoceri, andò da lei. Lo vide arrivare, gli aprì subito. Fuori aveva preso a piovere. Capì che era venuto a fare l'amore, sperando che in casa ci fosse solo lei e gli altri fossero dai suoceri dove l'aspettavano con lo sciroppo. Era come se le avesse letto dentro e sapesse che, da loro, non l'avrebbe trovata; o forse aveva solo provato a passare prima da lei. La conosceva, dunque, più di quanto Ada pensasse. Entrò senza dire una parola. Si assicurò con uno sguardo deciso che nessuno fosse in casa. Chiuse la porta, represse due colpi di tosse come se non volesse far rumore. L'abbracciò senza levarsi il pastrano militare e lei non si sottrasse. La baciò sulle guance. Poi la spinse contro una parete, togliendosi in un attimo, senza girarsi, il pastrano e buttandolo su una sedia. Le aderì col corpo, baciandola sulla bocca. Poi, come se il gioco si fosse fatto troppo tormentoso questa volta per non trovare la sua conclusione, la prese per mano e la portò in camera da letto. Si liberò degli stivali e cominciò a spogliarsi. Anche Ada si spogliò. I vestiti caddero seguendo i loro passi. Non voleva restare incinta, sarebbe stato un disastro, ma non era una paura che potesse farla tornare sui suoi passi; guardando Helm, già svestita, gli disse con apprensione: «Dobbiamo stare attenti; hai capito?» e lui annuì subito, come se gli avesse parlato nella sua lingua. La camera era fredda, erano completamente nudi, non se ne accorsero. Il cielo si era chiuso tutt'intorno. L'acqua picchiava, adesso, contro gli scuri. Ada si lasciò cadere sul letto, con lui già sopra, impaziente; mentre entrava in lei, vide la catenina, con la piastra d'identificazione, danzare ritmicamente contro la sua pelle, così bianca, proprio da straniero. Poi in pochi istanti fu tardi per continuare a vedere. Il suo corpo prese a tendersi e contrarsi - per quello che l'altro corpo le faceva, in un'invasione da lungo tempo attesa - ed esistette solo per sentire. 96 Dopo aver fatto l'amore, Ada e Helm ebbero un solo pensiero, rivedersi. L'unica preoccupazione era il modo, adesso che la loro condizione di amanti reclamava di non essere ricacciata fuori dell'esistenza. Avevano avviato una pazzia. Ada era una donna sola Con due bambini, lui un soldato straniero di passaggio e non erano persone per le quali il fare l'amore potesse avvenire così, come una cosa senza importanza. Conoscevano a malapena i loro nomi; non sapevano pronunciare, anzi ignoravano, i loro cognomi; non potevano neppure programmare come vedersi e non avevano alcuna prospettiva per il futuro. Lui poteva essere mandato chissà dove e ucciso, lei poteva rimanere incinta e poi... Indipendentemente da ciò, se la loro storia fosse stata scoperta, Ada avrebbe perso la
reputazione: da madre stimata che pensava solo ai figli, sarebbe divenuta una svergognata da additare in pubblico. Le conseguenze sui figli, sui suoceri e sulla famiglia sarebbero state terribili. Stava giocandosi tutto. Ma per quanto queste considerazioni fossero giuste - e imponessero di far cessare immediatamente ciò che i non doveva iniziare - sia lei sia lui, ormai, non si muovevano più sul terreno del giudizio. Erano due innamorati che non pretendevano di capire la loro storia, ma di viverla. Avrebbero dato ragione a tutti circa l'errore e lo scandalo di essa. Avrebbero trovato giusto ogni rimprovero. Il giudizio - che è l'eterna veste di chi non vive avrebbe potuto avvolgere implacabilmente e velare la tenerezza, perché le voci che parlano dall'esterno dell'amore sono sempre più forti, non capendo la debolezza in tutta la sua essenza. Ma tutto questo non fermava il desiderio. Nei giorni successivi, Helm si presentò a casa come se nulla fosse successo. I suoceri erano sempre presenti, giacché questo era l'accordo fatto da Ada con loro all'inizio, per non trovarsi sola col soldato, né era possibile tornare indietro. Il suo amante arrivava, si sedeva sempre allo stesso posto, giocava coi bambini e solo al momento di uscire di casa, la guardava aspettando un cenno. La presenza dei familiari, rispettata fino a quel momento, conviveva con questo mondo a due ed era una convivenza naturale. I figli restavano al primo posto per Ada e Helm lo sapeva. Anche lui si divertiva coi piccoli, sebbene ora desiderasse soprattutto stare solo con lei e una cosa impediva l'altra. Ma non erano veri ostacoli. Il fare l'amore con lei era una grazia superiore. Quando non era possibile, l'essere accolto a casa sua, lo stare in famiglia con lei era una grazia anch'essa. Con il passare dei giorni, tuttavia, Helm divenne silenzioso. Era inquieto, sorrideva meno. Una sera, cinque giorni dopo che avevano fatto l'amore, portò sotto al pastrano un pezzo di lardo avvolto in mezzo a delle carte e a un panno, per non macchiare l'uniforme. Quel lardo era un tesoro in tempi di ristrettezze, poteva fornire condimento a lungo. Helm stette attento a non consegnarlo a Ada, pur avendo occasione di farlo, ma alla suocera. Lei ne capì il motivo e lo apprezzò. Era la prima volta che portava qualcosa da quando erano stati insieme. Darlo a Cettina, sapendo che per suo tramite le sarebbe arrivato, era una forma di rispetto per lei: un dono che ieri sarebbe avvenuto in modo più diretto, richiedeva oggi una delicatezza in più, togliendo di mezzo ogni idea, per quanto remota, di scambio, di compenso o di altro. Questa delicatezza le fece bene. Ne aveva bisogno. Lui la rispettava, dunque. Certo, ogni giorno che passava, Helm desiderava di più rifare l'amore con lei; Ada glielo leggeva negli occhi. Non chiedeva, tuttavia, rimaneva in attesa, come un alleato che condivide una difficoltà, sapendo che non era facile trovare il momento. Non era uno straniero. Era un amico, e - in più - un amante. In lui la radice - che era la stessa, amare - della prima parola non si sporcava con la seconda. Ciò che facevano era una cosa piccola e calda, dolce e rabbiosa tra un uomo e una donna. Usavano l'eterna chiave del corpo per accedere all'anima. Praticavano l'incolpevole rito della carne per liberarsi, solo pochi istanti, dal pensiero. In quei giorni Ada seppe da una compaesana che la madre e la sorella, coi figli, stavano per sfollare a Sulmona dal suo paese, Pietransieri. Coi tre figli, un po più grandicelli dei suoi, erano cinque; il padre non c'era più da tanto tempo, il cognato era prigioniero in Africa; la madre e la sorella le mandavano a dire che i tedeschi li avrebbero portati giù da un giorno all'altro, e le chiedeva di alloggiarli. L'ordine di evacuazione impartito dai tedeschi a chi risiedeva sui monti aveva dunque raggiunto anche il suo piccolo paese. Riguardava d'altronde tutti i centri, come Castel di Sangro, Alfedena, Ateleta, Roccaraso, Rivisondoli, Pescocostanzo, Campo di Giove, Cansano, Pacentro, Roccapia, e anche Lama dei Peligni e Falena. I genieri tedeschi erano tutti lassù. Ogni casa andava trasformata in casamatta, ogni punto difendibile in postazione armata. La
cintura di ferro che i comandanti chiamavano Gustav richiedeva soprattutto trincee. Per questo in tutto l'Abruzzo s'intensificavano i rastrellamenti, che avvenivano più spesso di prima. Occorrevano uomini e ragazzi da portare in montagna a scavare, fino ai millecinquecento metri, quantunque sui crinali, dove le trincee sarebbero maggiormente servite, non fosse più possibile lavorare a causa del gelo e della neve. Si lavorava nei paesi deserti. Decine di migliaia di persone venivano spostate in pieno inverno. Già da alcune settimane si vedevano camion tedeschi scendere dai monti carichi di civili e risalire a prenderne altri; venivano usati anche i treni, che, distrutta la stazione, si fermavano fuori Sulmona. Parte dei civili veniva anche condotta a nord, verso Chieti o Pescara o più lontano, ma la maggior parte rimaneva nella conca. Chi aveva delle bestie, transumava fuori stagione, portandosele appresso; lo faceva su sentieri più lunghi dove non passavano i mezzi tedeschi, per paura delle requisizioni. Il risultato era che i monti si spopolavano e la valle si riempiva a dismisura. La popolazione di Sulmona, raddoppiata, continuava a crescere. Le scuole, il municipio, le masserie, le canoniche delle chiese di campagna venivano adibite a ricoveri. Era requisito ogni stabile che potesse ospitare gli sfollati. Ada dunque si aspettava l'arrivo dei suoi familiari, e cominciò a pensare a cosa fare. Quasi in contemporanea, Ada seppe che anche il suo incarico al seminario cambiava; essendo pressoché vuoto, veniva infatti destinato dal vescovo a ricovero. Affiancata da altre donne, lei avrebbe dovuto provvedere ad attrezzare una cucina per tutti quei poveretti; dal segretario del vescovo le veniva anzi chiesto di occuparsi degli approvvigionamenti e un po di tutta l'organizzazione dell'edificio. Ne fu contenta. Accettò senza esitazione l'incarico pur sapendo che avrebbe dovuto passare al seminario tutta la giornata. Ci lavorava da tempo ormai, ne conosceva ogni stanza e don Liborio aveva fatto presente che, per aver maturato una certa pratica contabile, Ada era in grado di tener nota di tutto ciò che entrava e veniva consumato. Inoltre - anzi soprattutto - era di fiducia. Chiese e ottenne dunque di destinare una piccola stanza per i parenti nel punto più lontano dello stabile, dove avrebbe potuto provvedere meglio, con una certa discrezione, a loro. Riuscì a metterci anche dei letti, che non era poco, mentre quasi tutti gli altri dovevano accontentarsi di pagliericci sul pavimento. Accomodò tutto come meglio poteva. Alla madre, alla sorella e ai nipoti, che arrivarono due giorni dopo e per fortuna tra i primi, sembrò di andare in albergo. La madre le raccontò che i tedeschi avevano minacciato di morte tutti coloro che non avessero lasciato le abitazioni. Ogni giorno arrivava qualche soldato a controllare, casa per casa, quali fossero vuote e quali no. Prendeva il nome di chi era rimasto e segnava su un registro il giorno in cui sarebbero dovuti scendere, avvisandoli che, in certe ore, Un camion sarebbe stato in attesa nella piazza. Potevano portare lo stretto indispensabile e dovevano sbrigarsi, perché gli ultimi li avrebbero caricati a forza, allontanandoli dalle case senza permetter loro di portare alcunché. Quasi tutti se n'erano andati. Ma gli abitanti delle masserie isolate, fuori del paese, no. L'ordine non li raggiungeva, o si perdeva, in quei valloncelli isolati, col rombo della moto dell'ultimo tedesco passato in perlustrazione. Il problema era salvare il bestiame, unica risorsa per sopravvivere. Chi l'aveva, cercava di metterlo in salvo a ogni costo, salendolo ai rifugi tra i boschi, dove i tedeschi non potevano arrivare; la guerra sarebbe passata da una settimana all'altra, una mandria sarebbe andata perduta per sempre. Così questi pastori e contadini di montagna, che nei secoli avevano imparato a Convivere col lupo e a sfuggirgli, si ritiravano di giorno nei rifugi. Poi, fatto buio, dopo avervi chiuso le bestie, i riscendevano e passavano la notte in
casa. I suoi, intanto, si erano sistemati al seminario. Ezio e I Mino, abituati a vedersi coi cuginetti solo qualche giorno all'anno, trovarono che lo sfollamento era una bellissima occasione per stare con loro. Si trasferirono dunque anche loro al seminario e ci si fermarono, con lei, fino a sera; d'altronde la scuola di Ezio, requisita per ospitare tutta questa gente, era chiusa da settimane; così la mattina presto Ada li imbacuccava e li portava con sé. Vide Helm in fondo al viale della villa comunale, davanti alle finestre del seminario. I tedeschi la frequentavano nella libera uscita del pomeriggio e lui era stato ben attento a fare su e giù dal lato dove lei poteva affacciarsi. Lo vide attraverso i vetri, e ne fu felice. Il suo amante era tornato a cercarla. Alzava gli occhi, nervosamente, verso tutte le finestre, cercando quella giusta; e, perché gli altri non se ne accorgessero, lo faceva restando ogni tanto qualche passo indietro rispetto a loro. Girò la maniglia, per aprire la finestra e farsi vedere. Una voce da dentro, che non apparteneva a lei, le disse: fermati; sei ancora in tempo; puoi ancora ritirarti. Un giorno dirai a te stessa: cosa mi era successo? non ero io quella; forse ero impazzita dopo la morte di Rino e non me ne rendevo conto. Lui non l'aveva ancora vista da sotto. Ada si scostò dal vetro, perché non la inquadrasse girandosi. Poi guardò ancora giù in strada. Helm aveva superato il punto dov'era la finestra. Alto, con una nuvola di fiato in quel gelo, si soffiava nelle mani per riscaldarle e alzava il bavero sul collo per ripararsi. Si voltava, ogni tanto, a sbirciare indietro, per vedere se lei si fosse fatta vedere alle sue spalle. Pensò solo che doveva aiutarlo a smettere di voltarsi così. Aprì un'anta della finestra, schiaffeggiata dall'aria gelida. Le sembrò che Helm l'avesse vista prima che si affacciasse. Possibile? Forse aveva sentito il rumore dei vetri. Poi la bocca tagliata con l'accetta diventò bellissima, mentre le sorrideva, e ne fu certa. Da quel giorno Ada e Helm si incontrarono con questo segnale. Lui gironzolava in un punto dove dalla finestra del seminario potesse essere visto. Lei l'apriva, senza affacciarsi, per fargli capire che stava per uscire. Quindi per strade diverse e a breve distanza di tempo, raggiungevano casa di lei, dove non c'era nessuno. Era l'unico modo che avevano per incontrarsi, non potendo comunicare diversamente. I giorni in cui Helm era trattenuto e non poteva avvisarla prima, Ada non lo vedeva; quando non poteva lei - ma accadeva di rado la finestra non si apriva. Così si incontrava con lui. Lo precedeva a casa, dove aveva anche tempo di prepararsi in bagno, un minuto. Si lavava la faccia, si ravviava i capelli, si metteva una goccia di profumo sotto una camicetta pulita, che non le sarebbe restata molto addosso. Nell'indossarla, si specchiava. I seni le si erano gonfiati con le maternità, non erano più piccoli e sodi come prima di sposarsi. Le cosce erano lunghe e tornite, lavorate prima dalla montagna e poi da tutte quelle corse nella valle. I fianchi e il ventre li aveva resi asciutti la guerra. Di faccia, era sempre stata bella. Se si metteva un fermaglietto, tirandosi indietro i capelli castano chiaro che si erano allungati, aveva un viso da ragazza non ancora sposata. Aveva sempre dimostrato meno dei suoi anni e non ne aveva ancora ventotto. Preparava il suo corpo all'amore anche in altro modo, più intimo, con un podi vergogna e di apprensione. Si lavava prima e dopo - come aveva imparato a fare dopo la nascita di Mino, per non fare un figlio all'anno - con un'acqua preparata da lei stessa, mettendoci un'erba che le donne raccoglievano in montagna e serviva per non rimanere incinte. Certo, stavano attenti. Ada lo chiedeva al suo amante pronunciando il suo nome, «Helm...» con un'intonazione preoccupata che significava quello. Lui faceva l'amore con dedizione. Se ne accorgeva dal modo in cui la possedeva senza perdere un istante, come se il suo corpo non avesse atteso altro in tutte le ore trascorse dall'ultimo incontro. Si spogliava senza vergognarsi davanti a lei; come molti maschi tirati su in campagna, considerava naturale la nudità. Non
parlavano, si ritrovavano nei corpi, nell'essere uniti e poi nel separarsi. Quando finiva di fare l'amore, Helm rimaneva qualche istante immobile, il viso affondato tra i suoi capelli. Ada ne ascoltava il respiro, fattosi d'improvviso profondo. Poi restava un po sul letto con lei accanto, a guardare il soffitto, senza parlare. Non fumava, non l'avrebbe mai fatto. Era prudente e non avrebbe lasciato tracce della sua presenza. Ada provava con lui un piacere che il corpo non le aveva dato prima. La imbarazzava ammetterlo, ma fisicamente lo amava più di Guerino. Tutto era successo nel più semplice dei modi. Un altro uomo era entrato nella sua vita. Guerino era il marito, di parecchi anni più grande di lei, già esperto di donne quando l'aveva sposata, che a letto le sussurrava parole da imbarazzarla; Helm l'amante giovane col corpo da ragazzo, che non parlava. Un amore aveva rioccupato il solco di un altro e non erano amori in contrapposizione, erano amori che si congiungevano su una stessa linea. Erano anche amori capaci di negarsi. Uno era finito presto, l'altro aveva rischiato di non cominciare affatto. Se non avesse incontrato Helm, la sua vita avrebbe potuto essere diversa. Sarebbe vissuta sola, dedicandosi ai figli, vedendoli crescere, annullandosi, per consegnare a loro la speranza di una vita diversa, come si consegna ad altri un'eredità non goduta. Un giorno si sarebbe ritrovata a dire: ho fatto quello ch'era giusto; ho pensato a loro; non ho vissuto per me; non ho vissuto. A questo la parte ancora viva di lei si era ribellata. Le aveva dato una forza, una rabbia, una decisione che non sapeva di possedere. Non la spaventava immaginare la parola - puttana - con cui sarebbe stata chiamata questa sua condizione di piccola e vietata felicità. Non era che un grumo di gioia in mezzo al dolore e allo sconvolgimento della vita, portati dalla morte e dalla guerra. Stava commettendo ciò che gli uomini chiamano peccato: cosa sbagliata e proibita, per cui è giusto essere puniti. Ma erano parole fattesi all'improvviso troppo grandi e lontane. Ada sapeva solo una cosa, che ogni fibra di lei ringraziava, per la vita ch'era tornata ad attraversarla. Non innamorarsi del soldato straniero sarebbe stato giusto. Negare l'amore che provava sarebbe stato giusto. Non concedergli nulla sarebbe stato giusto. Come è giusta la morte, alla fine di una vita. Ma c'è un tempo per vivere e uno per morire. Ogni tempo reclama le sue ore, i suoi giorni e il suo scorrere, prima di sboccare dove non avrà più corso, dove non sarà più. Cioè il suo essere, prima di finire. Lei aveva permesso a quell'amore di essere. Tutto qui.
CAPITOLO 6 Gli incontri di Ada e Helm avvenivano appena possibile. Helm qualche volta spariva. Se la sua compagnia veniva trasferita a lavorare sui monti, non tornava in orario per farsi vedere da Ada, sotto alle finestre del seminario. Altre volte invece era in grado di avvisarla in anticipo. «Domani no fenire. Anche poi domani. Montagna. Troppo lontano.» Lo diceva scuotendo la testa, in modo quasi drammatico. Dev'essere un loro modo di esprimersi, pensava Ada; devono sottolineare, per gentilezza, quanto gli dispiace. Ma era certa che gli dispiacesse davvero. Negli occhi gli leggeva la fretta di rivedersi con lei, la paura che lo trasferissero; e un'altra cosa, che aveva pudore di ammettere anche con se stessa, perché le sembrava una speranza troppo bella: Helm aveva paura di perderla. L'aveva capito durante l'amore, una donna a letto con un uomo capisce sempre più di quanto le parole e i discorsi possano spiegare. Ada sapeva di essere graziosa, ma non credeva di ispirare una simile attrazione. Questo amante senza parole la considerava un tesoro da non perdere. Ogni suo pensiero era diretto a questo, al punto che la preoccupazione toglieva un po di gioia all'amore. Era serio da morire. C'era come una devozione nel suo fare l'amore. L'atto era una conferma, per quanto transitoria, che non l'aveva persa, che era lì con lui. Poi aspettava la quiete, come un momento in cui interrogarsi sul futuro; e allora rimaneva con gli occhi aperti verso il soffitto - la testa di lei sul petto - accarezzandole i capelli come se volesse fermare il tempo. Questo pensare al domani sembrava a lei - lo coinvolgeva più dell'animarsi del suo corpo al quale si era abbandonato fino a pochi istanti prima. Era assorbito dalla loro storia. Non era interessato ad altre donne, non ora che c'era lei almeno. Ada ne era certa. Per il resto, non sapeva niente di lui. Avrebbe potuto essere anche fidanzato o sposato. Sarebbe stato normale. Una volta gliel'aveva chiesto. Il non conoscere la sua lingua non l'aveva trattenuta. Aveva fatto la domanda che nessuna donna evita di rivolgere, in un certo momento, all'amante, come se la sua vita, anche passata, dovesse appartenerle nel presente. «Helm, tu non sei fidanzato? Non hai una fidanzata al paese?» «Nein.» Le aveva dato la risposta che ci si poteva aspettare da lui. Sincera, brevissima, di una sillaba. Un po divertita - una volta tanto nella marcata serietà con cui la pronunciava. «Nessuna? Non hai una ragazza che ti aspetta al paese?» era tornata alla carica, guardandolo attentamente, per essere sicura che non mentisse. «Nein.» Nel dirlo, aveva sorriso, perché non gli era sfuggito l'interesse di lei. Più lo conosceva, più si rendeva conto che il tedesco era completamente diverso dal suo aspetto. Quella faccia da boscaiolo nascondeva un'intelligenza rapida, diretta, unita a una costante attenzione per ciò che aveva intorno. Anche se non capiva l'italiano, capiva benissimo da dove venivano certe domande. «No ragazza paes-se» aveva ripetuto, graziandola di qualche sillaba in più e baciandole un angolo della bocca. «Qvi ragazza. Troppo troppo bella.» Ada era arrossita, un po perché era stata scoperta e, di più, perché le aveva fatto piacere. Aveva capito che Helm diceva "troppo", al posto di "molto", ma la risposta era giusta. Non importava neanche che fosse proprio vera. O, meglio, importava moltissimo, ma non in quel momento.
Helm, per gioco, le stava dicendo la verità; non era capace di mentire. Perciò la sua risposta era... troppo troppo bella. O non doveva essere così? L'amore è fatto di parole esagerate, o non ha voce. E' fatto di sbagli, o non è fatto di niente. Avevano paura che la loro storia fosse scoperta. I momenti più delicati erano quando Helm entrava e usciva da casa. Per questo, naturalmente, si erano trovati subito intesi sul fatto che in alcune occasioni ci sarebbero stati i bambini, i suoceri e anche la sua famiglia, appena scesa da Pietransieri. Speravano di confondere, agli occhi di tutti, le volte in cui si vedevano da soli con quelle in cui Helm veniva accolto da tutti loro. Il suocero l'aveva aiutata a spiegare alla madre e alla sorella come avevano conosciuto il tedesco. Il suo racconto era suonato come una storia che succedeva normalmente in tempo di guerra. Le due donne non se n'erano meravigliate. Anche a Pietransieri, a Roccaraso, a Pescocostanzo, su tutta la montagna c'erano tedeschi, entrati a contatto con la popolazione che, dietro compenso del Comando, a volte li alloggiava; e che potevano fare lassù quei soldati, quando avevano finito la giornata, prima di mangiare? Passeggiavano, chiacchieravano, si intrattenevano con gli italiani. Li avvisavano, anche, di quello che non dovevano fare. Non dovevano contraddire ai bandi del loro Comando, non dovevano tenere armi in casa, non dovevano ospitare i fuggiaschi o aiutare i partigiani, che avevano cominciato a organizzarsi. Per il resto, non chiedevano appoggio e non s'illudevano di suscitare solidarietà. L'ex alleato italiano li guardava male come tutto il resto del mondo; anche peggio, forse, e loro lo sapevano. Altre volte si facevano parte attiva per avvertirli di un pericolo. Un tedesco che riusciva a farsi intendere in italiano si era anche presentato a casa loro, raccontò la madre. Aveva spiegato che la situazione si era aggravata lassù, e che il bando minacciava davvero di morte chi non fosse sfollato; inoltre si aspettavano bombardamenti massicci da parte degli angloamericani da un momento all'altro: non vedevano le mamme italiane i ricognitori alleati che sorvolavano l'area quasi ogni giorno? Che volevano fare, trovarsi coi bambini sotto un bombardamento? Certo che no; dovevano allontanarsi subito, dunque; quella era zona di guerra. Era stato lui a farle scendere. Il nipote di quindici anni, a cui Ezio e Mino mostravano Helm come il loro grande amico, aveva detto a quel punto: «Anche gli altri tedeschi sono venuti» «Qvali altri?» aveva chiesto Helm. «Quelli con l'uniforme con le cose... le fasce nere» e si era toccato il collo della maglia. Helm aveva annuito nervosamente. La sua espressione era cambiata. «Qvando loro... là fenire?» «Il giorno prima di partire» aveva detto il nipote. «Sono passati a dire che ce ne dovevamo andare, ma mamma gli ha detto che stavamo per partirete gli ha fatto vedere le valigie. Così se ne sono andati. E' vero, ma?» Antonina aveva annuito: «Sono passati, ma noi abbiamo spiegato che partivamo la mattina dopo. Hanno pure domandato il postale che avremmo preso. Noi abbiamo risposto: quello che ci avete detto voi tedeschi, che parte in piazza domattina alle sette. Allora si sono segnati i nomi di tutti noi e la mattina dopo li abbiamo ritrovati in piazza. Volevano vedere se avevamo detto la verità. Hanno annotato sul loro registro i nomi di quelli che stavano partendo» «Hanno anche richiesto l'indirizzo di casa» aggiunse il nipote piccolo. «Adesso sanno ch'è vuota e forse sfondano la porta e vanno a prendersi tutte le cose.» «Be, speriamo di no» intervenne la nonna. «Ma trovano poco, comunque. Quelle quattro cose che tenevamo ce le siamo portate appresso. Non si sa quanto resteremo, non si sa quando finirà la guerra, quando se ne andranno i tede...»; e si era interrotta perché, anche se Helm non doveva aver capito molto di quello che stava dicendo, era sempre un tedesco.
«Voi bene qvi» aveva detto Helm, come se non avesse inteso la frase, ma dal racconto della sorella e del nipote avesse avuto conferma di qualcosa di preoccupante che anche lui aveva sentito dire. Poi aveva guardato seriamente Ada e la sorella. La sua voce non era tranquilla. «Qvelli altri tedeschi. No solo Wehrmacht. Es Es. Schultz Staffeln. Loro troppo, troppo... altro di noi.» E si era alzato per andarsene, come se con quella notizia avesse posto fine a ogni visita, a ogni gioco coi bambini, per quel giorno. Li aveva lasciati così, senza che capissero perché era tanto grave che ci fossero quegli altri soldati, su in montagna. Antonina si era preoccupata. Nell'uscire da casa, poco dopo Helm, si era fermata sulla porta e le aveva detto: «Sembra un tedesco buono e pure noi ne abbiamo conosciuto, su, degli altri come lui. Ma sono soldati stranieri, hai capito? Non si sa che pensano, non si sa che ordini gli danno.» Aveva aggiunto, come se le stesse aprendo gli occhi su qualcosa che lei non era in grado di vedere: «Non ti fidare, Adina. Non ti fidare.» Ada e Helm rifecero l'amore qualche giorno dopo, ma non fu come le altre volte. Dopo aver finito, Helm si tirò a sedere verso il cuscino cingendosi le ginocchia con le braccia. C'era una preoccupazione nell'aria. Era la fine di novembre, la stanza era fredda e non poteva stare così, nudo e fermo, senza rimettersi sotto le coperte. Ada prese una copertina e gliela appoggiò sulle spalle. Disse «Grazie» stringendosela al petto e soffiandosi nelle mani. «Che succede?» chiese lei. in Helm sospirò. «Troppo brutta cosa. Montagna. Forse ve-ero, forse no ve-ero» concluse scuotendo il capo. Doveva essere una cosa grave quella che stava per dire. Se uno non guardava negli occhi Helm, il suo viso non era espressivo; i lineamenti forti, lo sguardo sempre preso da qualcosa e il fatto che di rado sorridesse sembravano una scommessa per non far capire quel che gli passava per la mente. Quale pensiero dunque aveva adesso il potere di turbarlo così? Solo pochi istanti prima stavano facendo l'amore come se non ci fosse nient'altro al mondo. Girò la faccia verso di lei, mordendosi il labbro inferiore un attimo prima di parlare: «Tuo paes-se Petranzeri? Ja. Brutta cosa. Troppi troppi morti. Schultz Staffeln, Es Es, dentro Wehrmacht fatto qvesto. No soldati di Wehrmacht» Assunse un'espressione quasi di accusa: «Perché loro di tuo paesse no fenire qvi Sulmona? Perché? Ordine di Comando loro fenire qvi» Ada si sollevò subito a sedere, infilandosi una maglia di lana: «Come troppi morti? A Pietransieri? Che è successo?» domandò. Lo vide scuotere la testa e - per la prima volta da quando era entrato a casa sua - parlare nervosamente, a bassa voce, in tedesco. Si tolse la copertina dalle spalle, si alzò e cominciò a rivestirsi. Ada non sapeva che fare. Adesso il non conoscere l'uno la lingua dell'altra pesava. O forse il comunicare non era il punto. Doveva essere successo qualcosa di talmente grave da non poter essere neanche raccontato. Rimase nel letto, chiedendosi da chi si sarebbe potuta informare. Doveva andare dalla madre e dalla sorella appena possibile. Loro erano a contatto con altri sfollati del paese. Troppi significava molti per Helm. Molti morti dunque - aveva voluto dire. A Pietransieri? Com'era possibile? Non c'era un uomo abile in paese: erano tutti in guerra o alla macchia. Forse ne avevano presi tanti in un rastrellamento. Rabbrividì. Helm si diresse alla porta. Prima scostò la tendina daini la finestra, per vedere se non fosse controindicato quel momento, per uscire. Nessuno fino a quel momento sembrava essersi accorto di niente. Casa sua non aveva altre case intorno, era alla fine di una via dove si apriva la campagna. Helm comunque indugiava. Avrà visto qualcuno fuori, pensò Ada, alzandosi dal letto. Lui ricomparve sulla porta della camera, con una mano appoggiata allo stipite. Si sedette sul letto e l'abbracciò come per farsi perdonare il momento di nervosismo. Sembrava anche che volesse consolarla e la baciò sui capelli, ma durò poco. Si rimise in piedi, come se i non riuscisse a dominarsi, nonostante tutta l'intenzione. Disse, agitato: «No tutti cattivi soldati! Troppi no fuole guerra!
Tedes... und ich bin Osterreicher!» protestò, i battendosi il petto e interrompendo quello che stava dicendo, per dire che lui non era neanche tedesco. «Io... 0-stria-cho! Io no soldato perché fuole... claro?» Sembrava fuori di sé: «Troppi morti tuo paes-se Petranzeri! Tu domani sai e non più me folere! Tu me odiare! Qvesto gverra!» Si girò di scatto e se ne andò, disperato, come se in quel giorno avesse perso l'unica cosa che voleva al mondo e non gl'interessasse più di uscire in faccia i a tutti i nemici, in agguato oltre la porta. Ada corse al seminario a riprendere i figli. Di solito andava più tardi per lasciarli giocare coi cugini, ma Helm aveva parlato come se di lì a poco la notizia del (massacro dovesse divenire pubblica. Vide a distanza don Liborio e affrettò il passo per raggiungerlo. Forse lui era a conoscenza dell'accaduto, anche se Ada non sapeva come chiederglielo. Non poteva dirgli: l'ho saputo da un tedesco. Fu il prete stesso a parlare: «Domenica scorsa» disse I «è successa una tragedia a Pietransieri. Sono state uccise molte persone, non si sa ancora quante. I tedeschi hanno ammazzato tutti quelli che non erano sfollati. A Sulmona la cosa si è saputa da poco...». Ada si mise una mano davanti alla bocca. «... Sono stato al Comando tedesco... sua eccellenza il vescovo mi ha chiesto di andare subito a informarmi; e al Comando prima non volevano dire niente, poi l'hanno confermato. Forse non sono stati loro a dare l'ordine. Penso che non sapessero niente. Ma lassù ci sono le SS... Capito, Ada? I nazisti fanatici, infiltrati nell'esercito... o forse sono stati dei reparti speciali aggregati all'esercito, che prendono ordini direttamente dal loro Comando. Hanno fatto una strage.» Inspirò dolorosamente. «Ora ho fretta, non posso fermarmi. Tu va dai tuoi. Loro si sono salvati, per fortuna, avevano lasciato in tempo il paese. In curia c'è tanta gente che chiede di essere ricevuta dal vescovo, per avere notizie dei parenti rimasti nei paesi in montagna. Sua eccellenza ha già fatto telegrafare ai parroci di Roccaraso, Pesco e Rivisondoli. Nelle prossime ore sapremo qualcosa di più preciso.» Ada corse al seminario e, appena arrivò, vide che nessun bambino giocava. Si sentivano grida e pianti disperati di donne. La sorella teneva per le spalle-un'altra donna, la quale, seduta, fletteva di continuo il busto sulle ginocchia piangendo con le mani in faccia, mentre un bambino strillava ai suoi piedi. La riconobbe, era una contadina giovane dei Limmari, una frazione nelle campagne fuori del paese. Piangeva anche Antonina, pur cercando di consolarla. Guardò Ada con un'espressione severa, come se avesse avuto la conferma di ciò per cui l'aveva messa in guardia qualche giorno prima. «Ecco vedi di che sono capaci i tedeschi. Hanno ammazzato tutti quelli che non erano sfollati! A questa poveretta hanno ammazzato i vecchi, la cognata e i nipoti. Disgraziati!» Sollevò da terra e si mise a baciare il piccolo che piangeva. Ada glielo tolse dalle braccia e gli disse di non piangere, che adesso gli avrebbe dato una cosa buona: voleva una bella fetta di pane con la marmellata di cotogne? Il piccolo fece cenno di sì, continuando a piangere. Anche la sorella la seguì in dispensa. Abbassò la voce mentre preparavano due fette di pane nero e marmellata. Antonina stava per raccontare quello che aveva saputo e non voleva farlo sentire al bambino, anche se era troppo piccolo per capire. Era una storia terribile. «Domenica mattina i tedeschi sono andati ai Limmari, casa per casa. Hanno aspettato che chi era dentro aprisse loro. Poi li hanno riuniti tutti in una stanza e li hanno ammazzati a mitragliate. Ti ricordi Doralice, la poveretta, quella con il marito morto in Russia e cinque figli? Be, adesso non deve più preoccuparsi di come tirarli su. Li hanno ammazzati tutti!» Antonina pronunciò l'ultima frase con voce rotta, scoppiando in singhiozzi: « S'è salvato solo il figlio grande, che non c'era. Li ha trovati rientrando, con la faccia tra le tazze di latte. Sembravano addormentati, se non fosse
stato per il sangue dappertutto. Per terra, tra le gambe della madre c'era il più piccolo, di tre anni! Pure a lui avevano sparato! A un bambino...». Ada si mise a piangere. «... E così hanno fatto, casa per casa, a Serracina, a Massaloni, a Fonte» proseguì la sorella. «Hanno sparato a tutti quelli che trovavano. Erano solo donne, vecchi e bambini. Non c'erano uomini. Ne hanno ammazzati almeno cinquanta a questo modo, come li trovavano, chi c'era c'era, chi non c'era non c'era. Poi hanno smesso. Sono andati in tutte le altre case e ne hanno rastrellati (tanti, compresi quei nostri mezzi parenti...» e le disse i Borni, insieme con quelli degli altri disgraziati. Ada li conosceva tutti, alcuni bene altri meno. «Li hanno ristretti tutti al torrente, a decine, e li hanno fatti marciare verso l'ultimo casolare dei Limmari. Loro hanno capito subito che, se li portavano là, era per ammazzarli. Hanno pregato di non farlo. Hanno giurato che avrebbero subito lasciato il paese, così com'erano, senza portarsi niente appresso, ma era inutile... Siccome nel far questo, gridavano, chiedevano pietà, invocavano Dio e qualcuno poteva sentirli, i tedeschi li hanno portati più lontano, allo spiazzo sopra il casolare. Li hanno riuniti tutti sotto un albero, intorno a una mina, tenendoli sotto tiro perché non scappassero. Si sono allontanati... tirandosi il filo e si sono messi al riparo. Poi hanno fatto scoppiare la bomba. Lo scoppio s'è sentito fino a Roccaraso, ma nessuno ha capito cos'era. La mina ha fatto il grosso del lavoro...» Antonina fece una pausa come se non avesse la forza di dire quello che seguiva. «I pezzi dei corpi si sono sparpagliati tutt'intorno, insieme con l'albero. A quel punto i tedeschi sono passati tra la carne martoriata e hanno sparato a quelli che non erano morti. Non a tutti, per non sprecare colpi. Quelli a cui mancava un braccio, una gamba o che avevano ferite grandi, li hanno lasciati a dissanguarsi, tanto non ne avrebbero avuto per molto. Sparavano un colpo in testa solo a quelli che non erano sicuri se morivano o no. Ad altri, poi, non potevano proprio arrivare a sparargli, perché erano finiti sotto a mucchi di corpi. Così s'è salvata la figlia di E. La bambinetta è rimasta tutt'un giorno sotto alla madre e a quelli della sua famiglia. Non se ne sono accorti. Te lo dico subito, hanno ammazzato tutta la famiglia della comare C., e pure quella di A. Tutti, anche lo zio che aveva quasi novant'anni. Lei aveva figliato il mese scorso, poveretta. Non hanno avuto compassione né della madre né della creatura: non ha fatto in tempo a nascere, che l'hanno ammazzata. Maledetti tedeschi, possano fare tutti la stessa fine.» Antonina si asciugò le lacrime con uno strofinaccio. Ada singhiozzava, seduta al tavolo della dispensa, coi gomiti sul tavolo e le mani sulle guance. «Gli uomini, in montagna, ci hanno messo tempo a capire cos'era successo. Il primo ad accorgersene è stato E., che stava nascosto in un rifugio, dall'altra parte del monte. Non vedendo salire nessuno a portargli da mangiare, si è insospettito e col buio è sceso a casa. L'ha trovata vuota, come vuote erano tutte le case intorno. Allora si è avvicinato ai casolari oltre il paese e ha trovato i morti dentro. A Pietransieri non c'era nessuno a cui chiedere. Allora è tornato al rifugio e ha aspettato che rifacesse buio, il pomeriggio dopo. Sperava che i suoi li avessero sfollati e non ammazzati. Poi, girando e girando tutta la notte, verso l'alba per caso è arrivato allo spiazzo sopra all'ultimo casolare. Li ha trovati là, tutti morti. A pezzi.» Sospirò, come se avesse pronunciato una bestemmia da non ripetere più. «Noi l'abbiamo saputo oggi.» «E tu!...» disse Ada alla sorella, più per farla tacere che per rimproverarla. «Se non venivo io, non mi dicevi niente! Non t'è venuto in mente di correre a casa ad avvisarmi? L'ho dovuto sapere da... da don Liborio, in mezzo alla strada.» Antonina distolse lo sguardo da lei, come se fosse l'ultima cosa ad avere importanza in quel momento. Il bambino chiedeva dell'altra
marmellata. Mentre gliene dava un cucchiaio, disse a bassa voce, come se parlasse a se stessa: «Ci sono venuta, ci sono venuta. Verso le quattro...» Ada si sentì mancare «...e me ne sono tornata indietro, quando ho visto entrare quello, davanti a me. Il tedesco, a casa tua». Ada lasciò il seminario sconvolta. Prima di riprendere i figli, si lavò la faccia per non far vedere ai bambini che aveva pianto, e mentre si lavava le veniva da piangere ancora. Poi, con la faccia congestionata, andò a dare un bacio alla madre, che insieme con altre donne, inginocchiata nella cappella, piangeva e recitava ave marie ad alta voce. Per consolarla, le disse: «Hai visto ma, che dovevate scendere a Sulmona? Voi avete fatto bene. C'è la guerra, che s'erano impazziti, quelli? Hanno sbagliato a non sfollare» Ai vecchi bisognava dire cose di questo tipo. Non ammettere mai la paura, non darle spazio, frapporre distanza rispetto all'ala nera della sorte che li aveva appena lambiti. Dare un po di colpa alle vittime, anche se non ci si crede, aiuta sempre; fa sentire meno arbitro di tutto il destino. Tornò a casa tirandosi dietro i figli, senza dir loro una parola. La notizia della strage di Pietransieri si diffuse subito. Sconvolse Sulmona, tutta la valle, tutto l'Abruzzo. A mano a mano che si veniva a sapere, si arricchiva di particolari, troppo orribili per essere ascoltati. I bambini sopravvissuti erano tre. Non era stato un uomo il primo ad accorgersi della strage, ma due donne che li avevano trovati feriti sulla riva del torrente, a qualche passo dai familiari, e non li avevano soccorsi; dopo aver depredato i cadaveri di quanto gli trovavano addosso, avevano abbandonati i piccoli. Così due di loro erano morti. La bimba ferita, invece, era rimasta un altro giorno lì da sola e poi era stata salvata dalla nonna. Si scoprirono anche altre uccisioni, sempre in quella zona. Anche nei giorni precedenti, attorno alla metà del mese, i tedeschi avevano ammazzato altre persone che non erano sfollate. Sorpresi in vari punti da pattuglie in perlustrazione, undici pastori tra cui una donna, erano stati costretti a scavarsi la fossa e fucilati là dentro; sembra che alcuni avessero già preso la via della valle e quindi non ci fosse alcun dubbio sulla loro intenzione di sfollare, ma i tedeschi volevano le bestie e così avevano ucciso sia loro, sia qualunque altro testimone presente, vecchio o ragazzo. Avevano sparato anche alla vecchia B., paralizzata, che proprio non poteva muoversi e a G. e B., due coniugi che, a ottant'anni, cercavano di arrampicarsi nei boschi per nascondersi. A M., madre di due bambini piccolissimi, sorpresa a preparare il pane nell'aia, si erano divertiti a buttare una bomba a mano nel forno, dopo aver finto di andarsene; la poveretta era morta fatta a pezzi dalle schegge. Poi giunse la notizia della grande neve. Tutti gli uccisi dalla mina erano insepolti. I familiari nascostisi in montagna o sfollati - non potevano seppellirli, perché sarebbero stati scoperti e uccisi a loro volta, né ci pensavano i tedeschi; se non erano stati i morti Stessi a scavarsi prima la fossa, nessuno lo faceva per loro. C'era anche un motivo preciso, di rapporti tra i tedeschi, a impedirlo. Le ricognizioni avevano confermato la strage, ma l'ordine non era partito dal Comando della Wehrmacht e non si sapeva chi l'avesse dato e se fosse stato dato, in effetti. Forse era venuto dalle SS ai loro uomini nell'esercito o, dai superiori, a una pattuglia di Diavoli Verdi, i paracadutisti appena arrivati dal Lazio e già noti per le spietatezze consumate laggiù. Intorno a Kesselring tutti tacevano. Da Introdacqua - dove il comandante teneva il quartier generale orientale della Gustav - nessuna indicazione filtrava, circa un'indagine in atto per individuare gli assassini. Era evidente che li coprivano. Tutto veniva coperto, tranne quei morti ai Limmari. Allora il cielo s'era impietosito. Aveva chiamato le nuvole, ghiacciato l'aria e fatto cadere una nevicata mai vista, su quei pianori a millecinquecento metri. Non potendo coprire i morti di terra, li
aveva coperti di neve. Uccisi dagli uomini, tutti quei, (seguiva una parola, in italiano, sottolineata: Aspetta. Le frasi poveretti erano stati seppelliti dal cielo. E perché non vi fosse alcun dubbio su questo, la neve aveva continuato a cadere ininterrottamente per giorni, stendendo una coltre silenziosa che Impediva ogni passo e ovattava tutto, su quei luoghi già teatro di pianti, grida e gemiti. Poi, siccome il dolore era troppo grande per rimanere isolato lassù, aveva preso a scivolare nella valle di Sulmona, imbiancandola già tutta, a novembre. Non si era mai sentita una notizia atroce come quella la strage di Pietransieri, dall'inizio della guerra. Per l'orrore delle sue modalità, superava anche quella del bombardamento angloamericano ad agosto. La guerra era dunque entrata in una nuova fase, di terrore. I bandi affissi dal Comando militare tedesco contribuivano ad accrescerlo. La fila dei manifesti che si susseguivano sui muri era spaventosa. Tutto veniva ordinato, tutto veniva vietato. Tutti erano in colpa per qualcosa e potevano essere puniti. Bisognava consegnare le armi. Bisognava consegnare i documenti di riconoscimento dell'intero nucleo familiare o presentarsi a dichiararlo. Bisognava spiegare dov'erano gli uomini. Bisognava che questi, se abili e non in guerra, si presentassero spontaneamente al Comando per mettersi a disposizione. Le sanzioni erano dure; anche se spesso rimanevano inapplicate, non essendo possibile ottemperare agli ordini. Ogni parvenza di normalità della vita era scomparsa. Ciononostante, fino a Pietransieri, la guerra non aveva superato un preciso confine: da una parte c'erano quelli in guerra, militari o civili, dall'altra quelli non in guerra. Se uno non si metteva contro i tedeschi, se non aiutava i prigionieri inglesi, se non andava coi partigiani, era possibile non gli accadesse alcunché. C'erano i rastrellamenti, certo, e sottrarsi a quelli era pericoloso, perché i tedeschi sparavano; a chi veniva sorpreso conveniva piuttosto farsi portare in montagna a scavare; ma poi lì, forte di una maggior conoscenza dei luoghi, riusciva a fuggire, e senza che i tedeschi si mettessero seriamente a cercarlo, non essendo possibile tenere il conto dei rastrellati. In città e nei paesi non pochi pensionati, che odiavano i tedeschi, si erano messi a lavorare con loro. Lo facevano per sopperire al vuoto lasciato dai giovani padri di famiglia, creato o dall'essere fuori in guerra, o dal non esserci più. Che dovevano fare, lasciar morire di fame le loro famiglie? I piccoli lavori manuali che svolgevano per i tedeschi erano giustificati solo dalla necessità di guadagnare qualche extra indispensabile, rispetto alla tessera annonaria. Il vero problema di ogni giorno, con cui non c'era alcuna mediazione possibile, era procacciarsi da mangiare. Perciò gli italiani usavano i tedeschi, come i tedeschi usavano loro. Questi ultimi, d'altronde, aspettavano solo di andarsene. La maggior parte, senza dirlo per paura o per disciplina, non capiva perché a Berlino non prendessero atto della situazione e non negoziassero la pace, richiamando tutti in Germania, anziché tenerli sparpagliati per il mondo a combattere. Li sgomentava l'idea di essere inchiodati sui monti gelati dell'Italia centrale, con una guerra persa alle spalle e nessuno a difendere le loro famiglie, oltre le Alpi. Gli americani da una parte e i russi dall'altra stavano arrivando e avrebbero travolto il Reich, con la loro forza congiunta. Era solo questione di tempo. Un fronte a sud non serviva a niente. C'erano naturalmente anche quelli dalla parte dei tedeschi. Chi voleva collaborare nel vero senso del termine - e non erano molti, con gli americani in arrivo - seguiva le altre, fangose strade di sempre: il contatto nascosto ; con la polizia o, direttamente, il collegamento con un certo ufficio del Comando tedesco. Spiate, informazioni remunerate arrivavano giornalmente: ma erano d'esito incerto e difficili da lavorare, richiedendo l'impegno di uomini già in
guerra; chi le faceva, poi, stava attento a non esporsi, per guardare da che parte soffiava il vento. i I proclami fascisti, a tratti, tornavano fuori. Le trasmissioni del vecchio regime, che cercava di cambiare {faccia e stile, chiedevano ancora appoggio per l'alleato germanico, ma parlavano una lingua non più attuale. Il tempo dei richiami alla patria, come entità fascista, aveva perso senso già prima dell'estate del '43. Si era decomposto coi morti, negli anni successivi all'entrata in guerra. Italiani e tedeschi, occupati e occupanti, vittime e carnefici aspettavano, dunque. Al momento l'Italia era divisa in tre: il Meridione, già in mano agli americani, pacificato; il Centro, dove ci si preparava a combattere tra alleati e tedeschi; il Nord, dilaniato tra il vecchio che non voleva cedere e il nuovo che avanzava, anche tramite i partigiani. Una sola cosa, al di là delle parole e degli schieramenti, accomunava tutti, collaboratori o non collaboratori: nessuno voleva più i tedeschi in Italia. Ada era turbata dal fatto che Antonina si fosse accorta di lei e di Helm. Ricollegando certi sguardi della sorella, si convinse che doveva essersene accorta subito e, vedendo entrare il tedesco a casa sua quand'era sola, ne avesse semplicemente avuto conferma. Ma si rifiutava di preoccuparsene per due motivi: primo, perché anche la sorella era riservata di carattere e la sua relazione apparteneva a quel genere di cose di cui non avrebbe parlato con nessuno; secondo, perché non erano affari suoi e non ammetteva, con se stessa, di dover rendere conto a qualcuno delle sue scelte, tantomeno a sua sorella. Si preparava al momento in cui Antonina l'avrebbe sconsigliata dal continuare a incontrare Helm, ma non si sarebbe intromessa più di tanto. L'ostacolo era un altro ed era dentro di lei. L'orrore per il massacro di Pietransieri l'aveva fatta richiudere. Come avrebbe potuto riandare a letto con Helm, dopo quello che era successo? Non per lui, non per se stessa; per i tempi che erano. Non erano tali da far l'amore, dopo aver saputo, né con lui né con altri. E lui era pur sempre un soldato di quell'esercito. Non bastava che fosse contrario alla strage. Sapeva però che Helm, dietro quell'espressione che sembrava perennemente in difficoltà a comprendere certe cose, seguiva ogni suo pensiero. Proprio il non poter parlare con lui, a causa della lingua, le aveva fatto capire com'era. Le parole, i discorsi gliel'avrebbero piuttosto nascosto. Aveva messo le mani avanti, prima che lei sapesse della strage a Pietransieri. Aveva detto molte cose, con forza: erano state le SS e non i soldati dell'esercito; non tutti i tedeschi erano cattivi o stavano in guerra per loro scelta; e lui non era neanche tedesco, era austriaco. Era certa che Helm avrebbe aspettato che fosse lei a prendere una decisione. Non sarebbe tornato, prima di aver saputo quale fosse. Era fatto così. Se tutto fosse finito, sarebbe accaduto per una ragione gravissima e comprensibile. Ma lui non c'entrava con la strage e gliel'aveva gridato. Questo Ada doveva sentire: «Tu domani sai e non più me folere! Tu me odiare! Qvesto gverra!» Così l'aveva messa in croce. Poi si era ritirato - come il peggiore dei nemici rispettandola. Non tornò, Helm, ma si fece vedere. Mentre era definitivamente cessata la fragile tregua fra la città e i tedeschi dopo l'ulteriore notizia dell'uccisione di alcuni italiani e fuggiaschi inglesi -, Helm si fece rivedere sotto alle finestre del seminario. Al solito modo, con prudenza, aspettando un segnale. Erano passati quindici giorni dall'ultima volta in cui si erano incontrati. Ada aveva sperato di vederlo. Non sapeva cosa fare con lui, ma non voleva perderlo. Quando passò sotto alle finestre come usava fare, cercando di farsi notare da lei senza lasciarlo capire a nessun altro, Pietransieri, la strage, la distanza che tutti a Sulmona tenevano coi tedeschi, non contarono più. Lei e Helm erano due amanti che si cercavano. Ada sapeva che se ora l'avesse riammesso nel suo letto, avrebbe superato quella linea oltre la quale scattano
l'esecrazione del mondo, la condanna, l'impossibilità di giustificarla o di comprenderla, qualora fosse stata scoperta, anche da parte di chi fosse stato meglio disposto verso di lei. Aveva paura, certo. Ma la paura era fatta di accuse, giudizi, condanne; tutte cose degli altri. L'amore era fatto di carne, piccoli affannosi respiri ascoltati insieme, corpi che non mentivano nel cercarsi; tutte cose loro. Ada scelse le seconde, lo fece consapevolmente; per quanta consapevolezza possa esserci in una donna innamorata. Uscì dal seminario, i figli non erano a casa, lui la raggiunse dopo un po. Si spogliarono senza guardarsi. Allontanarono le stragi, i morti ammazzati, i tedeschi, gli italiani. Il pastrano fu gettato a lato del letto e le maglie tenute addosso, perché adesso faceva troppo freddo. Il berretto di lui finì tra i piedi, insieme con un reggipetto. Se ne accorsero appena avevano cominciato a fare l'amore e non riuscirono a riprenderli; erano istanti che non ammettevano d'essere interrotti, prima di finire da soli; com'è giusto che sia, per confessare all'altro, nel tempo più breve, quanto a lungo lo si è aspettato. Ripresero a vedersi come prima, di nascosto, ogni volta che potevano. In altre occasioni si vedevano coi familiari. Helm andò da lei ogni pomeriggio. Poi si assentò per alcuni giorni. Antonina si tenne lontano da quella situazione, come Ada aveva previsto. Era l'unica ad aver capito, e non andò più a trovare la sorella, che vedeva al seminario. Tuttavia tentava di tener lontani da casa sua i figli e la madre, e da ciò Ada comprese che immaginava che la relazione andava avanti. Che poteva fare, comunque, sua sorella? La capiva. Forse era stupita che lei avesse potuto fare una cosa del genere - una volta, tra le righe, gliel'aveva anche detto - e non aveva torto, la prima a stupirsene era lei. Ma non dimenticava di essere una sfollata ospitata al seminario, grazie a lei; di aver avuto la miglior sistemazione possibile; soprattutto, di aver potuto evitare, per l'ospitalità offertale, la morte al paese. Per queste ragioni oltre che per carattere, Antonina restò silenziosa. Don Liborio avvisò che per Santa Lucia avrebbe detto messa per i tedeschi cattolici, alla sede del Comando. Era gente in guerra da anni, che aveva sparato e forse ammazzato, ma non avrebbe mancato quella celebrazione religiosa così sentita oltre le Alpi. La messa degli assassini, la chiamò qualcuno. Ma era sempre meglio averli a messa, che in giro a sparare, - pensò don Liborio, mentre leggeva il messale in tedesco. Parteciparono in molti, compresi gli ufficiali. Alla messa erano stati invitati anche il comandante dei Reali Carabinieri e alcuni dei suoi, ma nessuno di loro si presentò: una cosa era dover lavorare coi tedeschi tutti i giorni, un'altra farci le feste insieme. Naturalmente in quel periodo fecero anche affari le romane. Ci fu un bell'andirivieni da loro. Ognuno celebrava l'Avvento a modo suo. Helm arrivò a casa il pomeriggio dell'Immacolata, coi dolci della festa. Aveva pensato a tutti quei bambini e li aveva ordinati a un forno, dando al panettiere lo strutto e la marmellata. Gli aveva anche chiesto di fare uno strudel di mele, ma il fornaio, non pratico di quel dolce delle sue parti, aveva messo insieme un impiastro, che Helm voleva buttare; mele e pasta si erano appiccicate. Finì per essere l'attrazione principale, sparì per primo in bocca ai bambini. Oltre ai suoceri, anche la sorella e la madre vennero a casa. Ada vide Antonina osservare Helm, poi spostare lo sguardo su di lei, pensando di non essere vista. Era certa che li stesse immaginando insieme e non smettesse di meravigliarsene; era certa che stesse chiedendosi com'era potuta iniziare e quando sarebbe finita quella storia tra loro. Ma approvava il fatto che i suoi bambini stessero mangiando i dolci e che il più piccolo si fosse messo a disegnare, con Mino, accanto al tedesco. Antonina non parlò mai a Helm, ma a Ada parve di vedere nello sguardo di lei un'ombra di comprensione, o solo di minor sospetto, prendere il posto della diffidenza nei suoi confronti. La madre rimaneva all'oscuro di tutto. Non immaginava la sua storia con Helm, altrimenti chissà che avrebbe fatto. Il soldato straniero le faceva paura. Si aspettava di vedergli aprire il
fuoco da un momento all'altro, perché i soldati fanno questo. Dopo un po, seguì la suocera nella camera dei bambini come se la presenza di quell'uniforme tra le mura di casa, pur con tutta la gentilezza, la imbarazzasse. Ada sentì la suocera che la rassicurava: «No! E' un buon giovane! Viene sempre. Hai visto i dolci che ha portato ai bambini? Non è come gli altri» La domenica successiva, Ada andò coi suoi alla messa. Don Liborio aspettò che tutti fossero usciti e Ada fosse un attimo da sola, per parlarle. Le disse: «Manda avanti i tuoi, coi bambini. Devo parlarti». Ada capì subito che sapeva. Era l'unico motivo per cui avrebbe potuto chiederle un colloquio riservato. Sentì i battiti del cuore accelerare, ma s'impose la calma. Non era preparata. Doveva decidere cosa rispondere, non come: l'avrebbe fatto in ogni caso a testa alta, ma non sapeva se negare o ammettere. Per carattere sarebbe stata più portata ad ammettere, anche se forse farlo adesso poteva non essere la scelta opportuna. Per i figli, non per lei. Decise rapidamente che se don Liborio le avesse solo riferito delle voci, non avrebbe ammesso alcunché. Se l'avesse accusata con sicurezza, avrebbe ammesso. Don Liborio l'aiutò con una premessa in cui parlò della sua funzione di parroco e di quello che, a causa di essa, poteva venire a sapere. Lo fece con sincero imbarazzo, quasi infastidito per le parole che doveva pronunciare. Poi, a lungo, la lodò. Ricordò come aveva seguito tutta la malattia di Guerino; come fosse toccato a lui, che aveva battezzato i bambini, trovarseli davanti, insieme con lei, al funerale; come tutti avessero ammirato il modo in cui Ada aveva fatto fronte alla situazione ed era riuscita a portare avanti la famiglia, sola, in tempo di guerra. Nel sentirsi dire quello che era e come gli altri la consideravano, raccontando la sua vita in difficoltà, Ada si commosse, come se le fosse stato riconosciuto un conto di sacrifici e privazioni che credeva di esser stata sola, fino a quel momento, a portare. Decise che qualunque cosa le avesse detto don Liborio, non gli avrebbe mentito. Ma don Liborio non aggiunse altro. Il discorso finì nella premessa. Non volle sapere, non giudicò, non diede consigli. Disse solo che niente avrebbe potuto scalfire quello che lei era e sempre era stata, come moglie e come madre, per cui doveva solo stare un po attenta a certe cose, per esempio a chi aprire se i suoceri non c'erano, in modo che nessuno potesse aprir bocca, ecco, e dicendo questo aveva detto più di quanto doveva; ma confidava che lei non gliel'avrebbe rimproverato, se parlava così era per il bene suo e dei suoi. E, in qualunque momento, confidasse in lui, come un sostegno. Le era vicino. Il parroco aveva parlato da signore. Le aveva tolto la parola. Ada comprese che sapeva tutto e si preoccupava solo di non farlo vedere per non offenderla. Non poteva Approvarla, ma le era vicino. Questo la commosse ancor più. Era un prete straordinario. «Mi avete già tanto aiutata col lavoro, padre» disse di getto «che non saprei proprio da che parte cominciare a ringraziarvi. Ma io devo parlarvi. Don Liborio, non lo so neanche io che m'è successo... Mi sembrava di avere risolto tante preoccupazioni col lavoro e invece, a un certo punto, qualcosa dentro di me si è come... basta, ve lo dico io stessa: io m'incontro col tedesco... sì... anche da sola, avete capito che voglio dire? Sì che l'avete capito. Io non vi posso lasciare col dubbio se siano vere o false le voci che vi sono arrivate, dopo un discorso come quello che avete fatto. Io mi sono...» lo disse con un filo di Voce, come se fosse la colpa più imperdonabile da confessare, soprattutto a se stessa «.mi sono innamorata di i lui. E lui di me. Helm è un bravo giovane, anche se... è Un soldato tedesco. E non mi dite che un giorno se ne andrà e mi lascerà. Lo capisco da sola. Me ne assumo tutte le conseguenze. Solo per una cosa ho paura: per i bambini. Non posso distruggere la loro vita. La mia sì, la loro no. Hanno già perso il padre...» Non riuscì a proseguire perché,
nominando i figli in mezzo a questa storia, si era liberata del peso più grande. Non trattenne le lacrime e abbracciò don Liborio. Lui le lasciò fare quel gesto istintivo, l'accolse come un padre. Ma rimase in silenzio, mentre Ada cercava un fazzoletto nella tasca. Le disse: «Come si chiama? Helm? Ma chi è, l'austriaco giovane, quello alto?» Lei lo guardò allibita: «Sì! perché? lo conoscete?» Don Liborio annuì. «Ci ho parlato un paio di volte. E' un granatiere del Comando. Quel giovane...» disse e rimase a pensare, senza finire la frase. Poi, prima che il giudizio gli suggerisse la via più sicura, che è sempre quella che costeggia la vita senza entrarci, disse: «Fallo venire da me. Digli che venga di pomeriggio, quando è in libera uscita... Voglio parlarci. Se lui è d'accordo, naturalmente, non ho alcuna intenzione d'insistere. E se dice di sì, fammi sapere il giorno...». «Domani... domani stesso ve lo farò sapere.» Ada non rifletté sulla inopportunità di una risposta così rapida. Stava dicendo al prete che il giorno dopo lo avrebbe visto. Ma non le importava. Si sentiva un po felice, nella tristezza. Don Liborio, in mezzo a tanti soldati, conosceva Helm: ci aveva addirittura parlato un paio di volte. Non l'avrebbe mai pensato. Il giudice si scopriva conoscente dei colpevoli e parlava con loro. Forse allora non li avrebbe condannati; non troppo gravemente, almeno. Il mondo vecchio e il mondo nuovo avevano un contatto. Nessuno era estraneo a nessuno.
CAPITOLO 7 Helm non venne il giorno dopo. Ada non l'aveva visto passare, ma gli aveva dato il segnale lasciando aperta l'ultima finestra del seminario. Voleva riferirgli la richiesta di don Liborio e farlo non era molto semplice, non solo per le difficoltà della lingua. Le premeva fargli capire che lei non c'entrava con la richiesta. Era stato il prete ad avere l'idea di incontrarlo, giacché si erano parlati qualche volta al Comando; sapeva di loro, era un sacerdote amico che l'aveva tanto aiutata e che non avrebbe fatto alcuna pressione per incontrarlo, se lui non l'avesse voluto. Così, per tutta la mattina si era preparata a dirgli la verità con poche parole chiare, ma non era facile. Don Liborio non le aveva anticipato nulla di ciò che avrebbe detto a Helm; non era tipo da mettersi sul pulpito, si preoccupava di capire, ma insomma quello che facevano era peccato e lui era un prete. Soprattutto, avrebbe potuto interrogare Helm sulle sue intenzioni; chiedergli se si rendeva conto delle conseguenze per lei della loro relazione. Questo la impensieriva. Terminato il lavoro, Ada aveva lasciato i ragazzi a giocare a palle di neve nel giardino ed era andata a casa ad aspettarlo. Poi, dal declinare della luce aveva capito ch'era troppo tardi perché arrivasse. Prima di andare a riprendere i figli, era passata allora in parrocchia ad avvisare don Liborio; alla prima occasione avrebbe riferito l'invito al tedesco. Ma Helm non si fece vedere neanche il giorno dopo. Dovevano averlo mandato fuori in missione, pensò. Tornò dal prete, perché non pensasse che era lei a voler evitare l'incontro. Per la verità non pensava che don Liborio avrebbe avuto un tale sospetto; Ada non sapeva mentire e il prete la conosceva, per quella misteriosa via per la quale gli esseri umani che non mentono si riconoscono tra di loro. Era così. Don Liborio le disse: «Forse ha avuto qualche impedimento» Ebbe un'esitazione: «Magari avrò modo d'incontrarlo io stesso al Comando domattina... Devo andarci per un altro funerale, dopo i due di ieri. Gli aerei inglesi hanno colpito un convoglio a Falena, ci sono stati vari morti e feriti; i tedeschi non hanno il cappellano militare» E venne il giorno dopo, molto presto, al seminario. L'espressione era grave, di chi sa che farà male e non vorrebbe. «Ada» le disse «devo darti una notizia. Ho chiesto del granatiere austriaco Helm, Wilhelm Habichter, è lui, quello alto. E'... tra i feriti dell'attacco al convoglio di Falena. I camion tedeschi sono stati bombardati e mitragliati dagli inglesi... lui è il ferito più grave, purtroppo. Adesso è ricoverato all'ospedale; non a quello militare, che è soltanto un'infermeria; qui da noi» disse indicando con la mano il vicino ospedale dell'Annunziata «perché... è stato operato, ha bisogno di tutte le cure e non si sa... te lo dico, non si sa se può farcela. Ha ferite gravissime. Quando ce l'hanno portato, sembrava morto, aveva perso molto sangue... I tedeschi hanno dovuto aspettare che degli altri mezzi salissero a prenderli a Falena, giacché tutti quelli del loro convoglio erano stati distrutti o danneggiati. Ieri sera è morto un altro soldato. Ada...» Le gambe avevano preso a tremarle. Doveva essere impallidita, se ne accorse da come il prete la guardava. L'antico incubo si ripresentava. L'uomo che amava moriva. Dunque era il suo destino, perderli. «Voglio andare a vederlo» disse. «Portatemici...» «Non possiamo andarci. Non sarebbe... opportuno e comunque lui non riconosce nessu...» «Ci vado da sola, allora. E ci vado,
don Libo, non provate a impedirmelo, io non resto qua ad aspettare che torniate voi a dirmi che... è morto. Già l'ho dovuto sentire dai medici per Rino» la voce le si spezzò, ma si riprese. «Non ci resto qua, no; vuol dire che morirà con me vicino. Non fa niente se non mi riconosce. Magari invece mi riconosce e voglio stare là, a vedere se Cristo mi toglie pure lui...» Un singhiozzo coprì la bestemmia, in cui c'era una preghiera che non trovava parole abbastanza disperate per salire al cielo. Don Liborio si arrese. Da come sospirò, Ada capì che secondo lui Helm stava per morire. Uscirono insieme dal seminario e lei sperò che i figli non la vedessero in quello stato. Non c'erano loro, ma la sorella e la madre. Antonina provò ad avvicinarsi, lei la respinse. «Portati tua sorella, invece» la rimproverò don Liborio. «E' meglio se c'è qualcun altro con te. Non so cosa troveremo. Puoi aver bisogno di tua sorella in un momento così.» E, prima che Ada potesse opporsi, chiamò Antonina e la madre, spiegò dove stavano andando e perché. La sorella capì subito che doveva accompagnarli; e rimandò indietro la madre, che guardava sia Ada sia il prete in modo interrogativo; da quel momento avrebbe cominciato a fare molte domande. Andarono all'ospedale poco distante. Svoltarono per la strada a lato del grande, antico edificio che sorgeva attaccato alla chiesa dell'Annunziata. Don Liborio passò da una porta sul retro, facendo un giro più lungo, finché, di corridoio in corridoio, arrivarono alla camera dov'era Helm. Era nascosto dietro un paravento, con un medico e una suora le cui sagome s'intravedevano attraverso la tela. «Padre, no, scusi!» disse il medico appena lo vide. «Non potete entrare. Il paziente è in fase postoperatoria... be, se sapete le sue condizioni, capite che... da un momento all'altro...» Cambiò la frase: «. Arriverà il professore a visitarlo. Aspettate fuori. Sorella, chiuda la porta, per favore» C'era solo il letto di Helm nella stanza. Quello a fianco aveva il materasso ripiegato; quasi di sicuro era stato occupato dall'altro soldato, morto. Ogni cosa parlava di una prossima liberazione di tutta la stanza. Ada si lasciò cadere su una panca. Antonina le si sedette accanto, guardandola e accarezzandole una guancia. Don Liborio capì che restando lì da sole si sarebbero esposte. Soprattutto non doveva restare sola Ada. Appena arrivato il professore andò a parlare con lui. Ada e Antonina lo seguirono. Il soldato era grave, disse il chirurgo, l'aveva operato lui. Era stato colpito al fianco, ma la ferita che poteva rivelarsi mortale era quella alla gamba, dove una scheggia era arrivata vicino all'arteria femorale. Se l'avesse recisa, sarebbe morto. Per fortuna non era successo, ma si era comunque prodotta una lesione con un sanguinamento copioso, aggravato dall'attesa dei soccorsi, lassù in montagna. Trasportato a Sulmona, il tedesco era arrivato privo di conoscenza, con l'uniforme completamente intrisa di sangue. Era incerto se sarebbe sopravvissuto a una lesione di quella entità, poteva non superare quella notte stessa. La prognosi era questa. Per il momento era inutile chiedere altro e - don Liborio doveva capire, disse il professore - non era consentita neanche la loro presenza lì. Potevano comunque prendere l'indomani ogni informazione al Comando tedesco. Vedendo l'espressione del prete, si affrettò ad aggiungere che da parte sua non aveva nulla in contrario, in ogni caso, a dar loro notizie dirette; se non c'era lui, potevano rivolgersi al medico di turno o alla stessa suora che avevano visto nella camera; non prima del giorno successivo, tuttavia. L'unica cosa da fare adesso era dar tempo al tempo. Ada e Antonina ascoltarono le notizie senza parlare. Don Liborio raccomandò
loro di aspettare altre informazioni da lui, di non andare a chiederle di persona e di tornare a casa. Ada scosse la testa. Voleva vederlo, se questa era la situazione, giacché rischiava di non vederlo mai più. Questo stava chiedendo, quando Helm venne portato fuori della camera. Il lettino con le rotelle ospitava un corpo immobile. Ada si avvicinò alla suora, agli infermieri e al medico, per guardarlo. Dalle lenzuola usciva solo la testa. Era bianchissimo. Sembrava morto. Gli occhi erano chiusi, la bocca era semiaperta come se avesse già detto addio al mondo. Sembrava un altro, un ragazzo senza più uniforme, venuto a morire in terra straniera. Non sapeva di essere guardato, non aveva neanche il conforto di sapere vicino a lui, in quel momento, qualcuno che lo amava. Il lettino si diresse in fretta verso l'infermeria. Lo portavano alla medicazione, la quale era di per sé talmente problematica, disse il professore, che poteva morire mentre era in corso. In fondo al corridoio apparvero due tedeschi. Erano venuti a informarsi anche loro. Don Liborio andò a riferire quanto aveva appena saputo. Anche Antonina, adesso, si asciugava gli occhi con un fazzoletto. La vista del tedesco in quelle condizioni le aveva fatto impressione. Passò il fazzoletto a Ada. Guardandola, Ada sentì che non avrebbe sopportato di essere compatita da lei. Non un'altra volta, no, come quando era morto Guerino: quando il destino colpisce, cosa può aggiungere la compassione altrui? Don Liborio aveva sbagliato questa volta. Non avrebbe dovuto far venire anche la sorella. Prese una decisione. Se Helm doveva morire, sarebbe morto; quanto a lei, non si sarebbe fatta imporre da alcuno di non vederlo. E se, volesse fare Dio il miracolo, doveva salvarsi, lei sarebbe stata lì a ricevere la grazia. Doveva essere la prima a sapere, in ogni caso. Helm non riprese conoscenza per altri due giorni. O forse sì, ma per brevi tratti e lei non poteva vederlo, perché non era ammessa nella camera. Non aveva alcuna notizia. A parte una, la più importante: che non moriva. Ogni ora che passava era un'ora guadagnata alla vita. A Ada bastava sapere questo; non vedere la rapida uscita da quella stanza di un'infermiera, che tornasse poco dopo con un medico, dicendogli parole a bassa voce, per fargli constatare il decesso. Stava disobbedendo alle raccomandazioni di don Liborio. Sia di mattina sia di pomeriggio andava in ospedale. Più volte, come una pazza. Si metteva sulla panca nel corridoio davanti alla stanza chiusa di Helm. Spiava l'arrivo dei medici. Senza chiedere, temendo che la cacciassero. Lasciava anche il lavoro per venire in ospedale. A un certo punto della mattinata le sembrava d'impazzire vedendosi impegnata in gesti privi di senso, mentre lui forse stava morendo, in quel momento. Rubava minime informazioni sulla stazionarietà del paziente. Erano piccoli passi in una direzione, che si sarebbero potuti interrompere improvvisamente, ma anche fondamentali vittorie in quelle ore che non passavano mai. Il paziente non si era aggravato. Non era successo niente. C'era ancora. Il terzo giorno una suora ebbe compassione di lei. Probabilmente aveva capito la situazione ed era stata sorpresa dall'insistenza, dalla follia di questa donna sola, seduta in silenzio ad aspettare, a cui si leggeva in faccia la disperazione. Prese a informarla quando la vedeva, a farle coraggio, se non c'erano medici in corsia; così riusciva a farla tornare al lavoro, dandole il permesso di riaffacciarsi. «E adesso che hai parlato con me, torna al lavoro, avanti. Restare qui è inutile. Se dovesse succedere qualcosa, verrò io a informarti. Ma tu intanto una cosa puoi fare, pregare che non succeda.» E Ada se ne andava. A volte pregava, anche se era una preghiera che Dio non poteva sentire. Un'amante non può pregare Dio perché salvi la vita all'uomo con cui commette peccato, pensava; così smetteva di pregare. Altre volte ci riusciva. Raccomandava a Dio di non guardare chi era a recitarla; di salvare la vita al giovane
come se a chiederlo fossero i suoi familiari i quali forse, in Austria, non sapevano niente; ed era giusto che Helm morisse lontano da casa perché nessuno glielo raccomandava? Non era giusto. E comunque Dio, se non avesse voluto ascoltare la sua preghiera, l'avrebbe scartata. Lei intanto gliela mandava. All'ospedale si metteva davanti alla porta, che era un po lontana dalle camerate degli altri pazienti. Poggiava i gomiti sulle gambe e si teneva la testa tra le mani, a occhi chiusi. Parlava a Helm, come se le sue parole potessero arrivargli, per miracolo. A volte le sembrava di addormentarsi, ma era sempre lì, su quella panca. Questo contava. Se Helm avesse voluto morire, sarebbe andata a prenderlo per mano e gliel'avrebbe impedito. Aveva più paura che succedesse di notte, quando nel sonno - pur agitato chiudeva gli occhi e si allontanava da lui. Magari Helm si sarebbe svegliato per decidere di morire mentre lei dormiva. Avrebbe ricordato il bombardamento, i compagni morti e avrebbe deciso di seguirli, perché non c'era nessuno vivo, lì intorno. Non avrebbe trovato nessun amore a trattenerlo, nessuna disperazione a urlare, minacciando vendetta contro il destino, se fosse successo, e avrebbe deciso di addormentarsi anche lui per sempre. No, non gliel'avrebbe permesso. Se Helm avesse avvertito quanto era profonda l'invisibile sofferenza oltre la porta, non avrebbe avuto il coraggio di aggravarla. Lei sapeva bene come se ne andava un amore. L'andarsene di Guerino era stata una cosa segnata, un tempo che arrivava alla sua fine, un continuo avvicinarsi di qualcosa che l'aveva sfibrata, togliendole ogni capacità di reagire. Per Helm non si sarebbe arresa, la morte avrebbe dovuto strapparglielo a forza. Certe volte, per stanchezza si lasciava scivolare in pensieri strani. La morte del marito doveva averle fatto più male di quanto lei stessa sapeva. Voleva che Helm si salvasse comunque. Aveva ingaggiato una battaglia selvaggia contro la morte. Non voleva vederla più. Non voleva sentirla più nominare. Non era dunque solo per l'amore che lottava, lottava per odio contro la morte, con tutta la forza che l'odio può dare. La vecchia malefica con la falce non doveva incamerare un'altra vittoria. Doveva andarsene. Poi - arrivava a pensare - se Helm fosse guarito si sarebbero anche potuti lasciare, lui avrebbe potuto tornarsene in Austria e dimenticarsi di lei. Adesso non doveva morire, però. I suoi occhi sarebbero stati uno specchio di accusa. Si era messa in piedi a chiederne conto a Dio. Se gliel'avesse fatto morire davanti, le sue pupille avrebbero riflesso la scena e l'avrebbero rimandata al mondo come una muta richiesta di giustizia. Ecco perché doveva restare lì il più possibile. Doveva fare da specchio all'ingiustizia. Doveva continuare a guardare. Forse stava impazzendo. La sua presenza accanto alla stanza del tedesco era stata notata da tutti, ormai. Se ne accorgeva da come la guardavano, ma era l'ultima cosa di cui le importava. Né don Liborio né la sorella osavano dirle qualcosa. Si erano rassegnati. O forse, pensava con sgomento, sapevano che il tedesco sarebbe morto e la lasciavano fare, per compassione. Invece Helm non morì. Sei giorni dopo che l'avevano portato in ospedale, cominciò a uscire dallo stato d'incoscienza, a tratti almeno. Glielo disse la suora, la mattina del settimo giorno, con un sorriso. «Sta meglio. Da ieri sta meglio. E' debole non può ancora parlare. Ha cominciato a dire qualche parola, ma in tedesco. Domani faremo venire qualcuno dei suoi... un tedesco, che capisca; il medico vuole qualcuno che sappia la sua lingua per...» «La sa don Liborio!» la interruppe Ada, che non riusciva a controllarsi. «Non vi preoccupate, ci penso io, vado a dirglielo subito... Sorella, che Dio vi benedica!» sussurrò, con le mani giunte davanti alla bocca. «Mo, per l'amore di Dio, non mi fate impazzire... me lo fate vedere un attimo? Sto qua da... voi sapete da quanti giorni...» La suora scosse il capo. Non per negarle quanto aveva chiesto, tuttavia. Per dire che l'aveva vista lì tutti quei giorni e le era sembrata scossa. Ma non deplorava lei, deplorava la sofferenza che l'aveva rattrappita su quella panca, a elemosinare
un'informazione, uno sguardo che le dicesse che non c'era niente di nuovo. Bene, era felice di averle dato una buona notizia. Acconsentì alla richiesta. «Non devi parlargli» la ammonì, dopo aver dato in giro un'occhiata per assicurarsi che non le vedessero. «Ecco guarda. Dorme.» Ada soffocò un'esclamazione vedendolo. Era magrissimo. Più di quando, giorni prima, l'aveva visto passare con il lettino. Gli zigomi emergevano dalle guance. Su di esse stava formandosi un velo di barba bionda, che gli dava un aspetto diverso. Dormiva profondamente. Gli avevano messo dei cuscini per tenere inclinata una gamba. «Sai» le disse la suora «ieri sera ha bevuto del brodo, gliel'ho dato io; ha ricominciato a mangiare... E' riuscito a dire grazie. Quando non dorme, penso che capisca. Piano piano dovrebbe farcela. E sarà stato un miracolo, in quel caso, lo ha detto anche il professore; l'operazione è stata difficile, non puoi immaginare com'era cominciato, povero giovane, in un modo... Be, ovviamente ci metterà tempo a ripren... o benedetta figlia! Guarda questa! Vuoi sentirti male tu, adesso?» Ada si era lasciata cadere su una sedia di metallo, la suora aveva fatto appena in tempo a sorreggerla; per la felicità di avere visto che Helm guariva, per il macigno che le si sollevava dal petto, per tutto. A sentire quelle parole tanto sperate, si era sentita improvvisamente leggera, sollevata, fino a perdere l'equilibrio. La sedia si era spostata rumorosamente sul pavimento, facendo sobbalzare anche Helm, il quale però non aveva girato la testa dalla sua parte, continuando a dormire. Non importava, aveva ricevuto il suono, anche se non ancora la vista, della felicità alle sue spalle. Andava bene così, andava bene. La vera felicità deve far rumore, perché è incontrollata. Non c'è vera felicità, sotto controllo.
CAPITOLO 8 Don Liborio venne informato del miglioramento di Welm e accettò subito di parlare con lui. Decise che sarebbe andato all'ospedale insieme con Ada. Non avrebbe avuto senso farlo senza coinvolgerla, che lei gli aveva chiesto di fare da traduttore. E lui, quando entrarono nella camerata, li riconobbe. Fece loro un sorriso stanchissimo. Gli si chiudevano gli occhi. Erano passati parecchi giorni da quando era stato operato ed era molto debilitato. Si era riavviato sulla via della guarigione, ma riemergeva da un punto lontano, dove la vita era stata flebile. Aveva riportato tre ferite, al fianco, all'inguine e alla gamba sinistra, vicinissima all'arteria femorale, miracolosamente non toccata. Le lacerazioni dei tessuti muscolari erano estese. L'operazione era riuscita, Helm si era salvato, ma andava considerata la possibilità che non si rimetta in piedi. Questo avevano detto i medici al prete, Ada aveva ascoltato queste notizie con una stretta al cuore. Helm fece loro cenno di avvicinarsi, senza parlare. Liborio pensò che la sua presenza in quel momento non serviva a niente, anche se sapeva il tedesco. Il soldato non parlava ancora la lingua dei vivi. Invece, a contraddirlo, Helm disse in un soffio: «Grazie per tutto quello che fate per me» Il prete rispose: «Non affaticarti. Pensa a guarire. Vedi, è venuta a trovarti A...». li sembrò ridicolo quello che stava dicendo. Helm non aveva scostato un attimo lo sguardo da lei. La toccava, anzi. Ada gli stava accarezzando la fronte con un fazzoletto; lui la guardava con un sorriso rabberciato, felice, ammesso che un corpo in quelle condizioni potesse ancora esprimere qualcosa di simile alla felicità. Aprì il palmo della mano e vi attirò dentro quella di lei, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Per un po si guardarono. Don Liborio ebbe l'impressione di entrare nei loro pensieri. In quelli del ragazzo c'erano liberazione dalla paura della morte e la soddisfazione di rivedere Ada; in quelli di lei la speranza che stesse migliorando e la gioia di vedersi riconosciuta. Li guardò. Lei era una ragazza di montagna, diventata sposa, madre e vedova nel tempo in cui altre non si erano ancora fidanzate; lui, un soldato che aveva rischiato di morire in un paese straniero; due giovani coi quali la vita non era stata amica, tentando di cancellarli come esseri capaci di gioire. E si chiamava peccato questa gioia che si erano ritagliati, secondo l'insegnamento che lui per primo, come prete, avrebbe dovuto impartire: era il nome da dare all'opposto della morte. La maggior parte della gente ne era convinta, o diceva di esserlo. In fondo, si disse, anche io come prete, pur sforzandomi di comprendere, ragiono così. Quanta inutile sapienza, allora, smentisce la scena di questi due che ho davanti agli occhi. I loro anni, sommati, non arrivano ai miei. Possiamo separarli. Possiamo richiamarli alla ragione. Possiamo, con le parole e con i gesti, far finire lo scandalo, la colpa, il peccato e tutto il resto. E poi, quando li avremo allontanati? Saranno in pace loro? Saremo in pace noi? Di colpo si sentì un estraneo. Doveva lasciarli soli. La sua presenza non aveva senso. Uscì dalla stanza con una scusa: «Avevo detto anche all'altro dottore che sarei passato a salutarlo. Torno più tardi». Il giorno dopo tornò con lei all'ospedale. Non li lasciarono entrare subito perché stavano facendo la medicazione. Helm si lamentava da far impressione. A momenti di silenzio seguivano grida soffocate, coperte dalla voce della suora che lo rincuorava. Quando entrarono era stremato, sudato e teneva gli occhi chiusi, come avesse dovuto combattere una battaglia con le poche che aveva. Ma il medico uscendo disse: «La medicazione è dolorosa... il paziente sta meglio; il circolo sanguigno non è
compromesso» Per un po Helm restò come assopito, con la faccia sul cuscino verso la finestra. Poi si ridestò, sorrise debolmente e chiese in tedesco di parlare con don Liborio. Il prete capì che aveva compreso il motivo della sua presenza; pur in quelle condizioni, doveva essersi riproposto, per tutto il giorno prima, di parlare con Ada. Già, pensò, mentre accostava al letto una sedia, è la la volta che si parlano. Sono stati amanti, ma non si sono mai parlati finora. Lo fanno adesso in un ospedale, in queste condizioni... «Voglio ringraziarla per la sua presenza, padre» disse; poi fece una pausa. «E ringraziare Ada. Io stavo per morire, ho visto morire i miei camerati. Quando gli aerei hanno attaccato il convoglio, abbiamo capito subito che non c'era niente da fare. Eravamo in un tornante scoperto della strada, gli aerei ci sono piombati addosso da sopra il monte, non avevamo scampo... Hanno colpito con una bomba il primo camion, che era vuoto, e l'autista è morto. Noi eravamo su quello dietro e gli siamo finiti contro, abbiamo provato a scendere e a disperderci ma hanno cominciato a mitragliare... Non mi ricordo se sono stato ferito, ero già a terra quando i mitra hanno spazzato la strada; vicino a me c'era il comandante di compagnia, morto... credo che sia morto prima; non l'ho chiesto a quelli del Comando, sono tre giorni che non vengono, ma nei giorni scorsi non potevo chiedere... Però dovevano portarmi qualcosa per scrivere a casa... Ho paura che mia madre e i miei si disperino se sanno che sono stato ferito così. Non so cosa gli abbiano comunicato. Forse sarebbe meglio se non gli avessero detto delle ferite e dell'operazione, in modo da non farli preoccupare; ma se li hanno informati, allora bisogna far sapere che adesso le cose vanno... un po meglio.» «M'informo al tuo Comando» lo rassicurò il prete. «Ti faccio sapere se hanno scritto e nel caso tu mi detti una lettera e la mandiamo ai tuoi.» Ada lo guardava stupita. Non capiva una parola di quello che Helm stava dicendo a don Liborio, ma era la prima volta che gli sentiva fare un discorso tanto lungo. La voce dell'uomo che amava era una voce con delle emozioni. Non l'aveva pensato. Come sono stupida, si disse. Don Liborio le disse: «Sta raccontando come è stato ferito. Dice che ha visto morire i camerati e non credeva di salvarsi. Ma è preoccupato che il Comando abbia informato la sua famiglia che stava per morire e vuole rassicurarli» Helm intanto aveva assunto un'espressione preoccupata. «... Però non so cosa dire ai miei. Il medico ha detto che forse non camminerò più. Resterò a letto per tutta la vita» Girò la testa dall'altra parte, per non far vedere la sua disperazione. «Aaach era meglio morire che restare... paralizzato!» «Che sta dicendo?» chiese Ada. «Che ha paura di non camminare più.» «Non rimarrai paralizzato» disse allora don Liborio. «Il medico era preoccupato nei primi giorni, ma ci ho parlato e mi ha detto che il circuito sanguigno non è compromesso. Me l'ha appena detto. Hai capito che significa? Che la circolazione del sangue tornerà normale. Non hai lesioni irreparabili. Se ne sono accorti quando ti hanno operato. Ti vai ristabilendo... Wilhelm. A questo devi pensare. Ma devi dare tempo al tempo. E non bestemmiare: che se il Signore ha voluto salvarti, mentre altri tuoi camerati non ce l'hanno fatta, vedrai che farà il miracolo completo. Ti rimetterà in piedi.» Assentì col capo per gentilezza, senza sollevarsi dalla sua disperazione. E don Liborio decise di cambiare discorso, perché temeva che gli chiedesse di parlare, tramite lui, col medico e non era affatto certo di cosa quello gli avrebbe detto. «Ti curano bene? Ti serve qualcosa?» chiese. «Sì, bene. Gli italiani sono buoni con i soldati del Reich che fanno la guerra nella loro patria.» Guardò Ada. «Puoi dirle una cosa per me?» «Sì.» «Quando io sono stato operato, ecco, io ho pensato che forse stavo per morire, ma in ogni momento avevo presente Ada e quando l'avrebbe saputo. E dicevo: come è triste morire qui lontano dalla mia terra, dopo averti conosciuto. E volevo dirle una cosa che dico adesso. La guerra è brutta, ma per me... conoscere lei è stato bellissimo.» Don Liborio
traduceva ogni parola che sentiva. «Perciò ho detto questa preghiera, che se fossi morto senza poterle parlare, avrei voluto che non mi vedesse da morto, per non ricordarmi... così. Volevo che mi ricordasse... meglio. Come l'immagine che io ho di lei. Perché in mio cvore, aaaach...» smise di parlare in tedesco; disse poche sillabe sgrammaticate in italiano, perché per certe cose non andava bene il traduttore « troppo penzare lui Ada.» Le cambiò sesso, ma non se ne accorse nessuno. Non era il momento. C'era una grammatica più profonda in azione, che conosceva molto bene maschile e femminile e li conciliava alla perfezione. Helm tacque. Guardò Ada per vedere se era riuscito a farsi capire. Lei fece cenno di sì e gli carezzò una guancia, su cui era cresciuto un velo di barba chiara. Magro come uno spino, pieno di punti, non poteva neanche girarsi senza lamentarsi; ma era vivo e aveva appena confessato di amarla. Non poteva dirgli niente, adesso. Lo disse a se stessa: sarebbe stata capace di stargli vicino, anche in quelle condizioni, per tutta la vita. Dopo questo colloquio a tre e la dichiarazione d'amore di Helm, don Liborio trovò privo di senso accompagnare ancora in ospedale Ada. Non le avrebbe impedito di andarci da sola, soprattutto adesso. Doveva tuttavia avvisarla dei rischi che correva. Uscito dall'ospedale, le parlò con franchezza, riferendole quello che da tempo si diceva di lei: che era l'amante di un soldato tedesco, che lo riceveva a casa dopo aver mandato via i figli, che aveva perso la testa. «Queste voci su di te» le disse «erano arrivate alla curia prima che lui fosse ferito. Adesso, con la tua presenza in ospedale, sono peggiorate. Qualcuno è andato di persona a protestare per lo scandalo. Così mi hanno convocato per parlarmi. Ho sentito... cose cattive; non sono vere, ma devi saperle, per capire a che punto è la situazione. Dicono» sospirò come se gli pesasse ripeterle «che quando hai finito di lavorare coi preti, vai a lavorare coi tedeschi. Che sei diventata una pubblica. Che non riesci a stare lontano dal tuo amante neppure in ospedale. Che non te ne importa più niente della reputazione e stai infangando anche il nome della chiesa, protetta da qualcuno dentro, o non si capirebbe per quale ragione, con tante brave donne bisognose, tengano al seminario la... sì, la donna del tedesco, a fare il comodo suo.» Ada ascoltava tutto. Don Liborio usò le stesse parole che erano state riferite a lui. «Le cose non stanno così, certo» le disse «ma non conta. Il punto è che hai messo tutti in condizione di parlare di te. Quelli che ti hanno chiamata al seminario sono in difficoltà. Non possono tenere a lavorare da loro una che si comporta così. Perciò, Ada, quanto prima devi smettere di vedere il soldato. E non basta; forse sarai cacciata lo stesso; la cosa è andata troppo avanti. Puoi solo sperare che in curia ci ripensino. Quindi nel frattempo, devi far cessare qualunque - hai capito? - qualunque occasione per far parlare di te. Non puoi permetterti di pensare all'amore. Hai due figli a cui pensare.» Ada non rispose. Il prete le vide una caparbia, disperata ruga tra le ciglia aggrottate. Era combattuta, ma non avrebbe abbandonato il tedesco. Tutta la forza che l'aveva sorretta in tre anni, facendola considerare una madre modello, dedita solo all'amore per i figli, s'era adesso riversata in un altro amore, senza mancare al primo; ciò per cui era stata lodata in passato era uguale a ciò per cui veniva deplorata, disprezzata, minacciata nel presente. Non le si poteva chiedere di non essere ciò ch'era sempre stata. Non era una donna che si sarebbe lasciata comandare da parole dette da altri, che non condivideva. E forse sarebbe stato inutile. Cambiare il suo comportamento adesso non sarebbe servito. Era davvero troppo tardi. La nominata era fatta. Una frettolosa marcia indietro avrebbe semmai rivelato a tutti che temeva delle reazioni nei suoi confronti. Forse le avrebbe affrettate. Lo scandalo di Ada era di dominio pubblico. «S'è impazzita per un tedesco» dicevano. «Siccome lui è ferito e ricoverato in ospedale, va tutti i giorni a trovarlo; ha perso la testa.» «E ai figli non pensa?» «Macché. Li ha affidati alla madre e alla sorella; d'altra
parte, se avesse pensato a loro, non si sarebbe compromessa così. Glieli dovrebbero togliere. Chi l'avrebbe mai detto? Svergognata.» I più gentili scuotevano la testa, senza parlare. La graziavano semmai di qualche parola di dubbio, in cui però non credevano: «Non bisogna giudicarla. E una donna sola. Sbaglia, ma forse non se ne rende conto» La reputazione che aveva sempre avuto, infatti, a volte prevaleva ancora su quanto era sotto gli occhi di tutti. Che Ada facesse tutte le sue ore, molte di più anzi, al seminario e riportasse ogni sera a casa i bambini e pensasse a loro, non contava. Tutto era assorbito dallo scandalo della sua presenza in ospedale accanto al tedesco. Era la prova inconfutabile della colpa. Le infermiere e i medici cominciarono a dire che era di disturbo, ma non poterono cacciarla, giacché si recava dal paziente in orario di visita. Dichiarato fuori pericolo, Helm era stato trasferito in corsia, così adesso era venuto meno anche quel minimo di riservatezza che una porta chiusa, in un luogo pubblico, garantiva. Ada non poteva più fargli una carezza, non poteva alleviare l'angoscia che gli leggeva nello sguardo al pensiero di restare invalido. Era abbattuto. Forse aveva sperato in un miglioramento più rapido, ma non era così. Non sapeva quale sarebbe stata la sua sorte; dal Comando ogni tanto veniva qualcuno a informarsi, solo perché era un atto dovuto. Anche loro aspettavano di prendere una decisione per lui: cioè di trasferirlo in un ospedale militare - cosa che avrebbero già fatto se fosse stato trasportabile. Comunque i suoi superiori avevano altro a cui pensare, che a un granatiere di venticinque anni in un letto d'ospedale. La vista di Ada accanto a lui suscitava commenti di ogni tipo. Gli infermieri, i dottori, i maschi che lavoravano all'ospedale parlavano di lei, seguendola con lo sguardo, quando arrivava o se ne andava. Farlo era un modo per rispondere alla sua provocazione. La fissavano perché era bella, perché l'avevano desiderata e ora non dovevano più rispettarla; potevano immaginarsela mentre si dava a un soldato straniero, farla entrare nelle loro fantasie. Tutto quadrava. Era stata brava a farsi passare per una seria, a non dare confidenza a nessuno; e invece era una puttana, che aveva trovato conveniente, di questi tempi, farsela coi tedeschi... «Deve averne fatte di battaglie col soldato» dicevano. «Hai capito, la vedova. Pareva tanto seria, povero Guerino, e invece sotto sotto... Certe donne non si finisce mai di conoscerle... Guarda come gli sta addosso. Da perfetta innamorata. Eh! per stargli così sopra adesso, chissà quanto gli è stata sotto, prima.» Le donne erano più cattive. Le facevano sentire il loro disprezzo. Non c'erano molte occasioni per palesarlo, ma questo non bastava a tenerle alla larga. La odiavano perché la sentivano desiderata dagli uomini. Finché era stata la moglie di Guerino, una bella femmina seria sposata, era stata considerata un tesoro riservato. Adesso s'era scoperta. Presto sarebbe entrata in azione con altri. Chissà che avrebbe fatto in futuro. Per forza. Se era andata a letto con un soldato di passaggio, voleva dire che s'era buttata tutto alle spalle. Non si contentava di essere bella, aveva deciso di mettere a frutto la sua avvenenza. Fino a disinteressarsi di tutti i commenti che le fioccavano addosso. Bene, avrebbe dovuto avere spalle larghe, perché sarebbe stata servita. Un'infermiera, in particolare, le era ostile. Se incrociava Ada, canticchiava LiliMarlen o faceva la spiritosa. «Come sta il soldatino oggi? Ha rimesso il colpo in canna? O sta ancora tutto inceppato?» Oppure diceva: «In riga, Kameraden, ce n'è per tutti» Un'occhiata di Ada aveva il potere di farla azzittire. Quelle parole erano Un prezzo che aveva accettato di pagare. Vedere quanto poco valessero, per la persona da cui venivano - quella sì davvero una pubblica - era quasi
un sollievo. Altre cose non erano così facili da sopportare. Consistevano in piccoli gesti, che avrebbero anche potuto passare inosservati. Una testa che si girava, incontrandola per strada. Uno sguardo carico di curiosità, come non era stato in passato. Una conoscente che all'improvviso si scopriva assorta in qualcosa, per non salutarla in pubblico. Le pesava che queste cose accadessero soprattutto quando c'erano i bambini, anche se erano troppo piccoli per accorgersene. Loro a volte avevano chiesto di Helm, ma come chiedevano i bambini: quando sarebbe tornato a trovarli a casa, a fare i disegni, cose così insomma. Lei rispondeva con qualche parola rassicurante. In ospedale non li aveva portati, ovviamente. Ma era contenta che lo nominassero. Certo, non potevano sapere o immaginare come stavano le cose. Nel loro piccolo cuore però lo avevano accolto come un amico. E forse avevano più ragione dei grandi. In fondo ciò che non sapevano - la grande vergogna - erano pochi minuti, consumati furtivamente in un'altra stanza della loro casa, tanto proibiti quanto inoffensivi. A considerare tutto in termini di tempo, era molto più quello che il tedesco aveva passato a giocare con loro, o in quelle strane riunioni di famiglia attorno al caffè, che quello passato da solo con lei. Ma quel breve tempo produceva una lunga colpa. Ecco - a questo proposito - tra qualche giorno sarebbe stato Natale. Già si chiedeva come avrebbe dovuto comportarsi. Era un giorno di riunione familiare. Non avrebbe accettato che, mentre loro stavano insieme, in un ospedale ci fosse qualcuno malandato e solo come un cane. Helm avrebbe fatto un Natale in gran parte così. Ma non tutto. Lei sarebbe andata a trovarlo. Glielo disse il giorno della vigilia: «Domani vengo a farti gli auguri» Lui annuì. Dai suoi occhi capì che ne era sicuro. Quella che si annunciava per lei come un'impresa rispetto al resto del mondo - allontanarsi da casa, stare dietro ai bambini, ricevere la madre, la sorella e i nipoti, conciliare l'andata a messa con la preparazione di un piccolo pranzo dai suoceri, andare da lui - diventava il minimo tra loro. Il contrario sarebbe stato impensabile. L'amore era un'altra parte della vita e aveva le sue esigenze, semplici e impossibili. A messa ebbe un battesimo di ciò che l'aspettava. Vide che la salutavano, ma in modo diverso. Quasi tutti la guardavano, pochi si avvicinavano. Aleggiavano, nell'aria, le cose dette su di lei. C'era chi le condivideva e chi no, ma non era più quel fiore di ragazza sfortunata, tutta dedita ai figli. O meglio lo era: ma pensava anche a se stessa. Si era procurata un amore, addirittura e se lo era procurata nel modo più scandaloso. Si era dimostrata capace di felicità. Forse questo non le perdonavano - intuì in modo confuso, mentre prendeva posto nel banco e la vicina impercettibilmente si scansava, assorbita in una preghiera poco pietosa delle cose di quaggiù. Non c'entrava il fatto che avesse per amante un tedesco. Era più grave, certo, ma sarebbe stata la stessa cosa con un italiano. Non le perdonavano la più invidiata delle colpe, la felicità: anche se era una piccola isola in cui era approdata, dopo esser stata preda di un mare d'infelicità. Il peggio venne alla fine della messa. Qualcuno la ignorò. Altri la salutarono in modo innaturale, cioè con eccessiva gentilezza; volevano dimostrarle di essere ancora amici, malgrado tutto. La comare C. la raggiunse mentre si avviava all'uscita e l'abbracciò platealmente; gli occhi spalancati brillavano di preoccupata incredulità, contrastando col calore del gesto. Le donne che passavano a fianco finsero di non accorgersi della piccola messinscena che avveniva a loro uso. Ada si trovò in imbarazzo. Mentre parlava con la comare, doveva tenere d'occhio chi passava. Tutto si trasformò in un veloce gioco di sguardi, per intuire chi la riconosceva ancora e quindi andava salutato, e chi adesso non la riconosceva più, e con cui dunque andava evitato anche un cenno del capo, che non sarebbe stato ricambiato. Quando
Ezio si avvicinò a un compagno di scuola per parlarci, la madre di lui ebbe improvvisamente fretta e si trascinò dietro il figlio, impedendo che i bambini parlassero. Vide Ezio tener aperto il battente di legno della chiesa e guardare il compagnuccio che, di spalle, lo salutava tirato dalla madre, senza capire quello ch'era successo. Guardando quella scena, trovò impossibile nascondere alla comare quello che provava, per cui approfittando del fatto che il piccolo aveva cominciato a dire che voleva andarsene - si congedò da lei. Appena sola, respirò. L'avevano umiliata. L'avevano fatta sentire una presenza inopportuna in chiesa. Potevano stare tranquilli: non ci avrebbe rimesso piede. Non a quella messa almeno. Non avrebbe più esposto se stessa e i figli a un'altra umiliazione così. Com'era diverso questo Natale, pensò, camminando coi bambini accanto, dagli altri, quando, tutta ben vestita, dava il braccio a Guerino che s'intratteneva a parlare con gli amici sul sagrato; e facevano tardi a rientrare a casa dove però ogni cosa era pronta sulla tavola. I piatti e i bicchieri del servizio migliore, girati di coppo sulla tovaglia linda, con accanto le posate e i tovaglioli ben disposti, giuravano che la vita sarebbe stata così, un'accoglienza del buono, precisa e festosa, di anno in anno. Sui fornelli le pietanze di Natale, preparate dal giorno prima, attendevano di essere riscaldate per il loro momento di gloria. Ora solo il pensiero di Helm le allargava il cuore. Non le importava altro che di vederlo. Avrebbe portato i bambini dai suoceri, i quali avevano capito - poveri vecchi - e non dicevano niente. Chissà cosa avevano dovuto sopportare di sentire. Non nominavano più il tedesco, infatti. Corse da Helm. Natale era anche star seduta vicino al letto dove il suo amore guariva. Stargli accanto, dargli un bacio sulla fronte, se non la guardavano, perché di pomeriggio non sarebbe tornata e quel Natale italiano non avrebbe avuto altre voci amiche per lui. Sarebbe stato il più brutto della sua vita: in guerra, in terra straniera, in un letto d'ospedale dal quale non sapeva se si sarebbe rialzato. Per questo gli aveva preparato un piccolo dolce da lasciargli. Ne avrebbe mangiato un pezzetto alla volta, durante la giornata; non importava quando, importava che lo avesse vicino. E c'era anche un regalo di Natale per lui. Un fazzoletto. Di notte, nell'ultima settimana ci aveva ricamato le parole "herzliche Glùckwunsche! " tanti auguri!; le aveva trovate su un giornale fascista di qualche anno prima, quando, per essere più alleati, italiani e tedeschi si scambiavano informazioni sulle rispettive usanze di Natale. A Helm avrebbe fatto piacere riceverlo. Erano le prime - e certo uniche - parole che avrebbe ricevuto da lei nella sua lingua. Non avrebbe imparato a pronunciarle, erano difficili anche da ricopiare. Ricamarle col filo verde e rosso era stata un'impresa. Le aveva controllate di continuo, lettera per lettera, sperando che non fossero sbagliate sul giornale. Gli avrebbe consegnato il fazzoletto, augurandogli in italiano... non sapeva bene cosa. Di rimettersi in piedi, certo. Di vivere ed essere felice. Di ritrovare il suo mondo. Di tornare in Austria, dai suoi. Di non tornare in Austria, di non lasciarla, di non dimenticare l'amore che avevano costruito insieme; provando - in qualche modo, in qualche forma che non sapeva neppure immaginare - a non perdersi, se era vero che in suo cuore troppo penzare lui Aàa e neppure a lei era importato che fosse uno straniero, un soldato di passaggio, per innamorarsene così. Le feste di Natale passarono. Ada andò a trovare Helm ogni giorno. Una volta vide a distanza dei tedeschi nella camerata dov'era e aspettò che se ne andassero per entrare. Quando andava a trovarlo, stava vicino al letto senza parlare o facendo domande semplici, a bassa voce; chiedendogli soprattutto
come si sentiva, appena arrivava, ogni giorno. Il tedesco capiva e rispondeva con qualche parola. Si guardavano. A volte lui si addormentava con lei vicino e questa era una prova certa dell'amore per lei, perché solo con chi si è condivisa l'animazione del corpo non si prova pudore nel condividere la quiete; la naturalezza è sempre la forma dell'amore. Qualche volta Ada fu vista anche fare una carezza a Helm, di solito prima di andarsene. Non riuscì a nasconderlo o non si curò di nasconderlo e la cosa fu giudicata indecente, quanto il darsi a lui in pubblico. Era una svergognata, che carezzava l'amante. Davanti a tutti. Poco importava che il gesto durasse pochi secondi: il tempo che impiegava una mano a passare sulla fronte o sulla guancia. Poi una mattina, sul tardi, accadde una cosa che allontanò tutte le tristezze del momento. Ada arrivò e dal letto disfatto capì che stavano provando a far camminare Helm. Erano passate varie settimane dall'intervento e già nelle ultime aveva potuto rimettersi a sedere sul letto. Ma alzarsi no, perché era ancora rischioso. Helm era dovuto rimanere quasi immobile a letto e questo aveva avuto su di lui un effetto deprimente. Faceva ginnastica da fermo, certo, con l'aiuto di un infermiere, col quale muoveva lentamente anche la gamba operata. Helm aveva paura di rimanere allettato. Così, a mano a mano che si avvicinava la possibilità di riprovare a fare qualche passo, cresceva in lui l'ansia del responso. Avrebbe risposto il suo corpo? Ada vide il letto vuoto. Voleva dire forse - che stavano riuscendo a farlo stare in piedi e a fargli muovere qualche passo. Aveva temuto di scorgerlo steso, con la faccia disperata verso la finestra, dopo aver provato invano a reggersi dritto. C'era riuscito, invece. Lo avevano aiutato gli anni, la voglia di farcela, l'impossibilità di accettare che, da quel mattino in cui il convoglio era stato colpito, tutta un'altra vita gli si fosse rovesciata addosso. Dopo alcuni passi fatti la mattina intorno al letto, lo avevano portato alla sbarra perché si appoggiasse. Ada lo vide rientrare, sul lettino a rotelle, raggiante. Sorrideva come il ragazzo più felice del mondo. La grande paura era passata. Appena la vide, smise di scherzare in tedesco con l'infermiere, che non capiva una parola, e le sorrise. Così le disse che stava guarendo. Le settimane di gennaio e febbraio trascorsero nella felicità, con continui progressi. Tutto passava in secondo piano rispetto alle piccole tappe che segnavano il recupero di Helm: la cicatrizzazione delle lesioni profonde, il graduale riformarsi del tessuto muscolare, la sua ripresa di tono, il buon esito della radiografia. E gli altri progressi, esterni. Si era rimesso in piedi con le stampelle; poteva alzarsi dal letto senza l'aiuto di nessuno; poteva andare in bagno da solo. Quando Ada arrivava lo trovava spesso vicino al letto di qualche altro paziente. Si alzava ogni volta che la vedeva arrivare. Raccattava le stampelle e sorrideva, cercando di non far vedere che gli faceva ancora male appoggiarsi sul lato ferito. Ada lo rimproverava: «Sta fermo. Che ti alzi a fare?». Ed era il tono delle parole di lei a farlo rimettere seduto, a volte, con un sospiro di resa. Ormai sperava di riprendere a camminare, quasi come prima. «Un passo alla volta» gli diceva Ada. E siccome la frase d'incoraggiamento veniva ripetuta, «Cosa qvesto un passo la folta? Sich drehen? Ich no folta» le disse un giorno. Aveva capito "volta" come "voltarsi", ma non lo convinceva che lei gli dicesse di fare esercizio per girarsi. In effetti era il movimento più difficile; doveva far compiere alle stampelle una rotazione, a piccoli scatti, appoggiandosi prima su una e poi sull'altra. «Un passo alla volta: oggi così» spiegò Ada, mostrandogli il pollice e l'indice, avvicinati, per far vedere il piccolo progresso. «Domani così. Dopodomani così.» «Oh, jawohl» rispose serio Helm. Adesso il tono
d'incoraggiamento corrispondeva alle parole: gli stava raccomandando di dare tempo al tempo, di non essere impaziente. Lei adorava quel suo modo di dare importanza a ciò che diceva. Qualunque cosa venisse da lei era come attesa. Non capiva le cose, le riconosceva. L'amore era stato in agguato dentro di loro prima di farli incontrare. Il fatto che parlassero lingue diverse rendeva più visibile il loro riconoscersi senza conoscersi. Non c'era solo quello, tuttavia. Mentre la situazione di Helm migliorava, quella di Ada peggiorava. La decisione di stargli vicino non era stata preceduta da alcun dubbio ed era stata seguita da una serie di comportamenti, da cui derivava una completa visibilità del loro amore. La disapprovazione circondava Ada in modo palpabile. Lei sembrava non avvertirla, per la felicità del suo uomo che stava guarendo; il mondo a due ha sempre il potere, o l'illusione, di escludere il resto del mondo. I parenti si erano ritirati come lumache nel guscio. I suoceri erano come... incapaci di concepire un'idea tanto assurda; dunque il tedesco - amico, ospite a casa loro - con Ada, aveva... Quanto alla madre e alla sorella, parlavano con gli occhi, come se la Ada che conoscevano si fosse trasformata in un'altra persona. Il loro silenzioso smarrimento era fonte di disagio, per lei, più che se l'avessero sgridata. Avrebbe reagito, se l'avessero fatto; era sempre stata forte di carattere. Probabilmente pensavano che non si rendesse conto di quello che faceva, ma non osavano contrapporsi a lei. Comunque fosse, era sola. E si sentiva sempre più in apprensione. Se dai parenti non le venivano che sguardi preoccupati, dagli estranei montava un rumore indistinto, spaventoso. Erano voci che si rincontravano e approdavano tutte allo stesso giudizio negativo. A questa disapprovazione che si levava dalla città, non bastava più d'esercitarsi solo a parole. Doveva arrivare a una punizione. La svergognata non si sarebbe corretta da sola. Ada sapeva su quale lato era più esposta: il lavoro. Anche se dentro di sé sperava che i nemici non sarebbero stati capaci di arrivare a tanto. Per i figli, se non per lei. Moltiplicava quindi l'attenzione quando era al seminario, per essere irreprensibile. Si fermava molto più di quanto avrebbe dovuto. Cercava di rendersi indispensabile nella contabilità. Tener nota, sui registri, di tutto ciò che serviva al ricovero degli sfollati e quindi dei debiti e dei crediti nei confronti dell'amministrazione civica, dei rendiconti mensili del dare e dell'avere, non sarebbe risultato facile, a chi fosse stato messo al suo posto. Soprattutto curava la gestione degli sfollati. Cercava in ogni modo di prevenire problemi. La situazione era a rischio di settimana in settimana. Sarebbe bastato un ritardo nella distribuzione alimentare - ordinario, in tempo di guerra - per mettere alla fame, di colpo, duecentocinquanta persone, quant'erano adesso gli ospiti del seminario. Questa priorità la faceva stare con gli occhi sbarrati di notte. Il pensiero doveva andare a cento cose. All'inizio non era sicura di riuscire a evitare problemi e invece ci stava riuscendo; era stata solo mamma e moglie per tanti anni; forse adesso aveva scoperto, per necessità, una parte di sé che in altre circostanze non sarebbe mai venuta fuori; imparava lavorando. L'organizzazione era tutto. Per le faccende materiali - cucinare, fare il bucato, stirare, pulire, rassettare - aveva formato dei gruppi di donne, fissato dei turni e nominato una referente per ogni gruppo, la quale rispondeva del lavoro assegnato. Lei controllava che tutto avvenisse secondo la regola stabilita; così durante la giornata, con un occhio a loro, un altro ai fornitori e ai registri, arrivava a tutto. Considerando che doveva anche stare dietro ai figli e farci entrare la visita a Helm, si spaccava davvero in quattro. Solo per una cosa non era disponibile: per le lagne. Non aveva tempo di sentire quelli che volevano lamentarsi e non le piacevano.
Quando c'era un problema da affrontare, lo si affrontava. Per il resto, il piangersi addosso era lontano dal suo carattere. Questo era Ada. Era brava, energica, affidabile; lo leggeva in faccia al segretario del vescovo, a don Liborio che le aveva trovato quel lavoro, ad altri della curia, perfino all'economo, il quale le era ostile. Eppure proprio dalla coscienza della sua capacità venne l'attacco temuto. Il fatto che lavorasse a testa bassa e non sentisse nessuno per quanto riguardava la sua relazione col tedesco, si fusero in un'unica accusa. La colpa cancellò il merito. Il peggioramento della situazione non giunse quindi inatteso. Fu preceduto da una serie di piccole azioni, incontenibili come lo smottamento di una montagna che, arginata in alcuni punti, rivela la sua forza in altri, fino a franare tutta all'improvviso. Le lavorarono alle spalle, soprattutto l'economo. Mobilitò contro di lei persone che, con la loro richiesta, erano tali da provocare disagio, nella curia che l'aveva accolta. A provocare questa reazione contro di lei, fu l'ondata di odio e disperazione che attraversò la città, nei confronti dei tedeschi, degli inglesi e di tutti coloro che avevano portato la guerra nella conca. Avvenne con la ripresa dei bombardamenti a metà gennaio e con altri episodi che segnarono un incrudelirsi della guerra e della cattiveria. Il primo bombardamento di gennaio fece dodici morti. Pochi giorni dopo, un altro ne fece due, e a suscitare orrore fu che fossero morti mitragliati, e non per caso. Erano infatti civili, perfettamente riconoscibili dai piloti. Sembrava che gli alleati - se così si potevano chiamare quelli che ammazzavano quasi quanto i tedeschi - falliti gli obiettivi militari, in quella missione, avessero voluto sfogarsi sulla popolazione. Poi seguirono altri bombardamenti, con uno stillicidio di morti giorno per giorno. Squadriglie di aerei inglesi sbucavano improvvisamente da dietro le montagne, adesso neppure segnalati dalle sirene, e non se ne andavano senza aver lasciato una scia di distruzione e terrore. Fino alla fine del mese si susseguirono molte incursioni, che la città subiva senza poter reagire. Era infatti priva di postazioni contraeree e, da qualche settimana, anche di segnalazione. Questo faceva crescere l'odio nei confronti dei tedeschi che l'avevano esposta, con la loro presenza, a questi attacchi senza munirsi di adeguate difese, tutte concentrate sui monti, vicino alle fortificazioni. Se gli aerei superavano la cresta, in pochi minuti potevano colpire, come colpivano, i borghi della conca e Sulmona. La città conobbe una terribile strage il 3 febbraio. Fu il più grosso bombardamento dopo quelli di agosto alla stazione e colpì una scuola improvvisata, dove si tentava di tenere qualche lezione per i figli degli sfollati. Era un modo per raggrupparli qualche ora insieme e distribuire latte, orzo e pane; un sacerdote aveva procurato i locali; gli sfollati ci portavano i bambini a mangiare. L'incursione avvenne di mattina. Si capì che la formazione sopra Sulmona era grossa, ciò che indicava, con terrore di tutti, un bombardamento più esteso. Era evidente che gli alleati lo preparavano da tempo. Da giorni infatti i ricognitori cercavano di localizzare il Comando militare dei tedeschi o altri edifici, sparsi in città e nei dintorni, occupati da loro. Era una giornata nebbiosa, gli aerei arrivarono prima di mezzogiorno e sganciarono sulla scuola. Ci si diressero a colpo sicuro, come se avessero avuto chiaro cosa colpire, ma l'obiettivo era ancora sbagliato. Le mamme avevano appena fatto scendere i bambini nello scantinato, ritenendolo più sicuro, che questo venne centrato. Le bombe rasero al suolo tutta l'area circostante e non c'era scantinato che potesse resistere a quella furia. Le piccole grida furono completamente soffocate dal boato delle esplosioni. Morirono in ottantacinque, quasi tutti bambini. Una strage d'innocenti. Grande commozione suscitò anche la sorte di una donna, che era rimasta viva sotto le macerie della sua casa distrutta, lì vicino. Donne e vecchi tentavano insieme coi tedeschi di tirarla fuori. Gli uomini non potevano: dovevano rimanere nei rifugi per non essere rastrellati. Il marito, impazzito
di dolore, tuttavia, si espose coi soldati, facendosi vedere da loro, tra le macerie della casa, mentre la chiamava a gran voce e scavava con le mani. I tedeschi ebbero compassione di lui e gl'intimarono di allontanarsi senza arrestarlo, prima che arrivassero altri meno comprensivi; a tirar fuori la moglie avrebbero provveduto loro; lui poteva osservarli da qualche punto nascosto lì intorno. Dopo parecchio lavoro, trovarono la donna sotto le macerie, ma non riuscirono a salvarla. La uccisero involontariamente spaccandole la testa con una picconata. La tirarono fuori, credendola svenuta; era appena morta, in realtà. Quando lo capirono, furono loro stessi a far scappare il marito che, senza aver capito cosa fosse successo, in preda alla disperazione, voleva morire lì con lei. Così la mala sorte vinceva sulla pietà anche laddove pietà sembrava esserci ancora, e non accadeva spesso. A parte episodi come questo, la fama di spietatezza che accompagnava i tedeschi non era immeritata. Vicino a Sulmona, dopo aver investito e ucciso con un camion una bambina, dei soldati furono sentiti cantare ubriachi, fino a tarda notte, di fronte alla casa dove si vegliava il cadaverino. Ed erano brutali anche tra loro. Una sera un soldato molto giovane, ubriaco, aveva tentato di baciare una ragazza italiana presso una giostra in piazza e si era creato trambusto. Raggiunto dai suoi, non aveva accettato di consegnarsi, o aveva indugiato nel disarmarsi, o forse, sempre a causa del vino, aveva detto qualche parola sbagliata al suo superiore. Era stato ucciso sul posto con un colpo di pistola, da un altro soldato che fino a poco prima s'intratteneva con lui - per ordine del superiore, il quale aveva minacciato di far fare la stessa fine a entrambi, se l'ordine non fosse stato eseguito. Il cadavere era rimasto poi lì per ore, sotto la pioggia, avanti all'uscio sbarrato dell'osteria; per l'orrore di chi guardava, prima tra tutti della ragazza molestata. Anche la natura si era alleata col male. Nel gelo delle marce a piedi, i prigionieri fuggiaschi, gli sfollati o quelli che di nascosto cercavano di rientrare nelle loro case per controllare la situazione, a volte sparivano nel nulla. Morivano assiderati e la neve li ricopriva, nascondendoli. Ne avrebbe restituito i corpi, a decine, solo a primavera. Tutto - anche ciò che non era umano - contribuiva ad accanirsi contro l'uomo, nell'inverno più triste che la conca avesse conosciuto da secoli. E in quel clima di gelo e di sangue, di paura e di cattiveria, Ada venne convocata a colloquio, per essere cacciata dal seminario. Come non meritava - molti le dissero davanti. Come meritava le dissero dietro - perché era uno scandalo che la Chiesa continuasse a tenere la puttana del tedesco. La ricevette l'economo, con una faccia in cui si leggeva che, qualunque cosa fosse stata detta o fatta, Ada doveva andarsene. Accanto a lui, a occhi bassi, c'era don Liborio. Non si capiva se era lì in veste di difensore o di accusato anche lui, per averla raccomandata. Ada deglutì, preparandosi a reggere la botta. S'impose di non pensare alle conseguenze che quel giorno avrebbe avuto sul suo futuro. L'economo parlò chiaro. «Ada, tu immaginerai il motivo di questo colloquio, che non è facile per nessuno» le disse. «Con sincerità, devo dirti che è stato anche meno facile, per noi, tenerti qua tutti questi mesi, senza farti pesare minimamente la tua condotta; e questo ce lo devi riconoscere... per la situazione che era... è di grave imbarazzo per tutti. Questa è la curia vescovile. E' la Chiesa. La quale ha i suoi doveri d'immagine, di sostanza e di decoro. Non puoi immaginare il disagio che hai creato per come ti sei portata. Ma cosa pensavi? Cosa ti eri messa in mente? Scusa se te lo chiedo, ma non lo capisco: di continuare la... storia con un soldato straniero, che sta in bocca a tutta la città, e di continuare a lavorare qui? Io non... non mi permetto di chiederlo nel senso di voler sapere... se pensi che sia giusto per la memoria di tuo marito...» «... E fate bene a non chiedervelo, perché sono io che ne rispondo a lui e non a voi.» Ada tremava, ma sentì la propria voce levarsi con fermezza, affilando le parole; se c'era uno spazio di recupero, ora se lo giocava definitivamente; ma non c'era alcuno spazio di
recupero, per cui faceva bene a parlare; chissà com'era contento l'economo di cacciarla, così adesso avrebbe avuto mano libera coi fornitori; era un vecchio ladro, ma non gli bastava cacciarla; doveva aggiungerci anche la predica. Lo vide allibire. «Ah certo che no...» le disse. «E' affar tuo la memoria di tuo marito, e chiedo scusa se mi sono permesso di nominarlo. Però non è affar tuo il modo in cui ti comporti. Ci sono proteste, devi sapere. Anche sua eccellenza le ha ricevute, personalmente. Abbiamo fatto finta di non vedere e di non sentire. Ti abbiamo anche fatto avvertire da don Liborio, che a suo tempo era venuto a raccomandarti qui, data la situazione... difficile in cui ti trovi... E questo lo penso io anche se avresti dovuto pensarlo e ricordartelo tu, se permetti, prima degli altri... Ma tu, niente: dritta per la tua strada, dando retta solo alla tua testa. Tu ti senti libera di fare quello che ti pare.» Fece una pausa velenosa, prima del finale. «Non qua però. Qua, per le situazioni di bisogno c'è la fila fuori. Mi riferisco al lavoro. Io nel tuo non ci voglio entrare...» «... Perché, avete qualcosa da dire? Avanti, fatemi le vostre osservazioni. Ditemi che cosa non ha funzionato. La contabilità? Vi dà fastidio come tenevo i registri? O non siete contento di come sono tenuti gli sfollati? Avete avuto problemi? Ditemi un problema che avete avuto.» «... Non sto dicendo del lavoro...» «Non state dicendo chiaramente, ma insinuate, perché dite: non ci voglio entrare. Come se mi steste facendo una grazia. E io vi dico allora: entrateci. Ditemi che cosa avete da rimproverarmi. Avanti. Sto aspettando.» «... Ti ripeto che il lavoro non c'entra...» «Ah. Questo è un altro parlare. Non potete lamentarvi di niente. Prima avevo sentito una cosa diversa. Come se ci fossero state delle mancanze da parte mia. Forse il modo in cui ho lavorato, va bene per tutti, ma non per voi.» L'economo impallidì per la provocazione; Ada pensò che l'avrebbe fatta uscire dalla stanza su due piedi, ma non le importava più, al punto in cui erano. «Vi potete sciacquare la bocca quando parlate di come lavoro io. Per onestà e per bravura. Riconoscetelo a don Liborio che mi ha raccomandata. Ne ha diritto, no? Ditegli chiaramente: sul lavoro di Ada non c'è niente da ridire. E me ne vado. Ma lo voglio sentire prima...» La voce le si spezzò e le dispiacque. «Be, dato che non volete farlo, ringrazio io don Liborio a nome vostro. Ringrazio tutti di... aver capito la mia situazione, giacché l'avete nominata poco fa, per farmela pesare, come se fosse la carità. Forse è vero e allora vi ringrazio per avermela fatta. Io però ho cercato di meritarmela: arrivando qua la mattina col buio, anche d'inverno, per essere presente alle consegne; portando il conto del dare e dell'avere, e di tutto il resto; facendo le note mensili; controllando il magazzino dei viveri; cercando di alleviare i problemi di tutta questa gente e facendo in modo che non mancasse a loro il minimo indispensabile. Senza assentarmi un giorno e fermandomi tante ore di più, ricordatevelo: quando arrivavano dieci, venti, trenta sfollati al giorno a tutte le ore e non si sapeva neanche dove farli stendere... se i carabinieri non ci avessero dato i materassi dal campo dei prigionieri inglesi. Vi ricordate? E' stato don Liborio a procurarmeli e io...» «E stata Ada» rettificò don Liborio. «L'idea è stata sua. Io ho solo fatto la richiesta.» Lo vide guardare gravemente negli occhi l'economo, come se il parlare di lei l'avesse colpito e stesse per attaccarlo a sua volta. «Senza Ada non avremmo messo in piedi il ricovero degli sfollati. Quando l'abbiamo scelta» scandì «l'abbiamo fatto perché si sapeva che era capace e non ci avrebbe deluso, come non ha deluso... che poi sia bisognosa è un'altra cosa, che se permettete non dovevate nominare. Come quegli altri discorsi.» L'economo si indispettì. Tagliò corto. «Sì, don Libo, qua tra un po finisce che a dovermi giustificare sono io...» «Per come avete parlato, cioè male, sì. Dovreste scusarvi. Con lei e con me» lo interruppe il parroco. «Ah, pure questo,
adesso!» Ci sarebbe stata ruggine tra loro, da ora in poi; molto più di prima. «No. No. No. Permettete, il problema è un altro; e non pensate che, mettendo in imbarazzo me a non nominarlo, non esista. Sta tutto là, invece, il discorso.» Fece una pausa. «Diciamola così: quante altre donne, qua a Sulmona e nei dintorni, sono andate a mettersi in una situazione del genere?! A parte quelle... che non hanno niente da perdere perché lo fanno di mestiere, ma lasciamo stare.^ Quante donne hanno provocato un tale... scandalo?! E' venuta la gente a reclamarmi con le mani in faccia, per Ada! A me, al vescovo, ad altri. Allora la domanda la faccio io: ditemi un nome che abbia provocato un tale scandalo. Uno solo. Sto aspettando.» E stette zitto. Riprese: «Rispondo io: nessun nome. Nessuna donna si è comportata come lei. Nessuna donna, onorata, riceveva i soldati da sola a casa, e per questo Ada se la vede con la sua coscienza, per carità. Ma nessuna si è fatta vedere a fare segnali dalle finestre del seminario a chi la stava aspettando sotto. Nessuna si è andata a sedere all'ospedale, tutti i giorni, uscendo da qua ogni volta che le pareva. Per cui l'ultima domanda la faccio io a 'sto punto. La dovevo fare all'inizio, per la verità, quando abbiamo cominciato questo discorso, che non doveva cominciare per niente.» La guardò negli occhi con cattiveria. «Ma pensavi... veramente di uscire ogni giorno da qua dentro, dal vescovado per andare a... a... intrattenerti col soldato?» Della conclusione di quel colloquio Ada ricordava solo la volgarità di quell'ultima parola coperta da un'altra. Non la rabbia che aveva trattenuto, presente don Liborio, mentre la cacciavano; non il tremore nello scendere le antiche scale di marmo, che erano sembrate palpitare come le vene delle tempie; le avrebbe risalite una sola volta, la mattina dopo, molto presto, per mettere in ordine e consegnare i registri. Poi non ci avrebbe poggiato il piede mai più. Col cuore che batteva, la gola secca, e un amaro mortale in bocca, fece un breve tratto di strada con don Liborio, senza dire una parola. Si sentiva come se l'avessero bastonata, ma anche come se le avesse date a sua volta. Si fermò davanti all'ospedale dell'Annunziata. «Come sta?» le chiese don Liborio. Dopo quella tempesta, era l'unica cosa importante. «Meglio. Sta riprendendo a camminare, piano piano...» guardò il prete negli occhi, disperata. «Non so cosa mi succederà.» «Portagli i miei saluti. Digli che prego perché si ristabilisca. Digli che prego... per voi. E adesso vediamo di pensare a qualcosa.» La guardò con occhi pensosi; lei capì che era sempre stato il suo alleato, anche in ciò che non approvava. «Di chiacchiere ne abbiamo sentite abbastanza. Ora torniamo ai fatti.»
CAPITOLO 9 Dopo esser stata cacciata dal lavoro, Ada strinse un patto con se stessa: tentare di far rimanere uguale la vita. Impegnarsi in una lotta segreta perché nulla, fuori, cambiasse. Non lasciar trasparire la paura, l'angoscia, la solitudine di cui era ridiventata preda. Inventò tutto ciò che serviva a chiudere rapidamente ogni discorso, a liquidare ogni domanda indiscreta. Disse che il lavoro al seminario era sempre stato a termine; che lei aveva solo dato una mano in attesa di essere sostituita da qualcun altro; che ringraziava dell'aiuto che le avevano dato. Ai bambini annunciò che sarebbe stata più tempo a casa con loro, e fu premiata da un sorriso; ai familiari, che si era già messa in cerca di un altro lavoro, di ogni tipo, certo, in tempi così bisognava prendere di tutto. Non diede alcuno spazio alla curiosità altrui e qualcuno, sentendo delle risposte così decise, ci credette anche. Ma la maggior parte sapeva o pensava che l'avevano messa alla porta a causa del tedesco. Naturalmente non disse niente a Helm. Non cambiò neanche gli orari di visita. Ci andò sempre nel pomeriggio, come se avesse finito allora di lavorare al seminario. Lui era molto migliorato, ma il recupero era lento. Ai primi di febbraio aveva voluto provare a camminare da solo senza stampelle ed era stato un disastro. Era caduto, un infermiere aveva dovuto tirarlo su da terra; l'aveva rimproverato, ma l'aveva anche coperto col medico, dicendo che era scivolato con le stampelle mentre andava in bagno; questo per evitare che lo mandassero via prima dall'ospedale. Ormai tutto quello che si poteva fare lì dentro per lui era stato fatto. Era ricoverato all'Annunziata da varie settimane e non poteva restarci troppo a lungo. Fino a quel momento non aveva potuto essere trasferito altrove, solo perché all'inizio avrebbe corso il rischio di morire e poi per motivi di opportunità; quanto al fatto di tornare operativo, con un incarico in ufficio al Comando, non se ne parlava. Di tutti questi sviluppi Ada e Helm non sembravano consapevoli. Nella precarietà infinita di ogni giorno, non si affacciavano a scenari futuri. Vivevano alla giornata, come tutti. Nel loro caso, con un amore fatto di vicinanza, ogni pomeriggio, tra una sedia e un letto di ospedale, sfiorandosi una mano, facendosi una carezza quando nessuno li vedeva, sperando di non perdersi in un mondo che si era perso. Un giorno Ada si trovò a passare fuori dell'orario di visita. Era poco dopo pranzo. Aveva imparato ad andare dai contadini a quell'ora per comprare a buon prezzo ciò che avanzava sarebbe stato buttato. Non si vergognava di dire: mi prendo io questa roba, tanto non ve la riportate. Come cambia la vita: questo faceva lei, che quando c'era Rino andava presto al mercato per trovare le cose migliori, senza preoccuparsi di pagarle di più; ora trattava coi contadini per riportarsi un prodotto pagato - frutta, patate, verdura - e farsi aggiungere roba che avrebbero buttato. Qualcuno, dopo averla guardata, capiva la situazione di bisogno e gliela regalava. Altri, per lo stesso motivo, stringevano le labbra e cercavano di farsela pagare. La guerra li aveva incattiviti. Questi ultimi li lasciava senza una parola, voltando le spalle. Si era umiliata per nulla. Era proprio un giorno così quello in cui decise di salire da Helm. Una contadina al mercato le aveva fatto sentire una brutta frase: se non si aveva di che pagare, era meglio non scendere al mercato, a farsi venire la voglia; mica era un posto dove si faceva la carità. Le parole le erano scivolate addosso si era anzi detta che aveva ragione, la contadina, e che con troppi altri doveva essersi allenata, per pensare una frase tanto cattiva - ma si era sentita sola. Non voleva tornare a casa a mani vuote. Doveva dare un senso a
quella uscita. I passi la portarono all'ospedale, senza essere sicura di salire. Poi, scalino dopo scalino, lo fece, varcando l'accesso: tanto che poteva succederle? Tutt'al più, che le dicessero di tornare quand'era orario di ricevimento. Voleva vedere Helm. I corridoi erano deserti, doveva essere l'ora di cambio turno degli infermieri. Non incontrò nessuno. Bussò alla porta della camerata. Helm era solo. Gli altri letti accanto al suo avevano i materassi arrotolati, segno che gli infermieri dovevano aver spostato chi ci dormiva. Helm era assopito, ma si svegliò sentendola entrare. Gli lesse negli occhi un'espressione di gioia e sorpresa e gli andò subito vicino, per impedirgli di mettere mano alle stampelle e alzarsi. Così lui rimase seduto sul letto ad aspettarla. La attirò a sé, restando seduto e baciandola sul seno, come se dovessero far tesoro di quel raro momento d'intimità, soli in una camerata d'ospedale, con la porta che poteva aprirsi da un momento all'altro. Anche lei lo baciò. Poi i baci non bastarono più. Helm si alzò, col respiro stretto tra le labbra, appoggiandosi a lei per non cadere, e indicò con la testa il paravento che fungeva da spogliatoio, in un angolo della camerata. Lo guardò a occhi spalancati. Fece per ritrarsi: cosa gli era venuto in mente? La fermarono i suoi occhi. Febbrili - quasi - annebbiati. Da donna, aveva imparato a conoscere le vie dell'amore, quelle che vogliono farsi solo intravvedere e quelle che reclamano, imperiosamente, di essere percorse subito, e sino alla fine. Perché c'è una legge non scritta nel modo in cui un uomo chiede a una donna di fare l'amore. A volte è una preghiera che chiede d'essere subito esaudita. Non c'era gioia, in quel momento, nelle pupille di Helm all'improvviso allargatesi, a scurire il nocciola dorato. C'era ansia. Ada capì subito. Voleva una conferma, dopo essere stato ferito, che il suo corpo rispondesse ancora al desiderio. Perciò non disse niente, si lasciò guidare da lui, sorreggendolo sino alla fragile, trasparente barriera che avrebbe schermato il loro amore. C'era un lettino, si stese, si alzò la gonna e si scoprì, pensando solo che doveva farlo e sperando che tutto finisse presto, il più presto possibile, col cuore che le batteva all'impazzata nel petto, per la paura. Lui le si stese sopra con difficoltà, senza esitare un attimo, dopo essersi abbassato il pantalone del pigiama. Sentì che non era necessario aiutarlo e non lo fece, ma nel ritrarre la mano, mentre lui la penetrava, avvertì qualcosa sulla pelle del suo ventre. Si scostò, guardò e vide la cicatrice dell'operazione. Non poté far a meno di emettere un'esclamazione di raccapriccio. Era lunga, larga, orribile, ancora non perfettamente suturata. Dal fianco, scendeva all'inguine e da lì a metà gamba. All'istante le fu chiara una cosa. Helm era un sopravvissuto. Si sentiva così. Nessuno con una cicatrice tanto orrenda poteva aver sperato di continuare a vivere. Portava sul corpo, avrebbe portato a vita, il segno della vicinanza alla morte. La paura di non poter più possedere una donna era molto meno di questo. Tremò e lo sentì ritrarsi, come se lei ne avesse avuto ribrezzo. Infatti si scostò all'istante da lei. La guardò in modo interrogativo, quasi offeso, mordendosi il labbro inferiore. Ma fu un attimo, solo un attimo. E con tutto l'amore di cui era capace lo strinse, gli accarezzò la nuca, gli respirò nell'orecchio il suo desiderio, per dirgli di non fermarsi, di ritrovare se stesso in ciò che avevano appena iniziato. Chiuse gli occhi a tutto, ai pensieri che l'affliggevano, alla miseria, alla paura che qualcuno entrasse nella camerata e la sorprendesse nella più vergognosa delle situazioni; lasciò che lui la possedesse con un'ansia che lentamente si apriva al piacere. Il suo corpo offeso si perse nel movimento che annullava ogni paura, fino ai respiri
contratti con cui tutto finì. Il suo amante stette allora quieto su lei. Lo sentì scivolare in un respiro sempre più profondo - che si spezzava in una seconda voce - tra il suo collo e la spalla. Il cuore prese a battergli con un ritmo più lento e regolare. Dopo qualche istante, Helm si riscosse. La fortuna era stata generosa con loro quel giorno, non dovevano offenderla con un'imprudenza, facendosi sorprendere da qualcuno che entrasse. Si rivestirono in fretta, Ada lo sorresse fino al letto, salutandolo con una carezza tra i capelli. Gli disse: «Domani»; era la parola con cui si salutavano ogni giorno. Nel dirigersi a passo svelto alla porta, vide che la seguiva con occhi pieni di gratitudine, ma anche che restava immobile sul letto, per dormire, come se avesse sostenuto una battaglia. Com'era diverso, pensò, in quell'ospedale, dal ragazzo col quale aveva fatto l'amore a casa sua, che saltava fuori dal letto, esclamando: «Troppo tardi! ach!» pieno di energia, per correre a rivestirsi. Eppure era bellissimo. Era tornato a stringerla e ci aveva fatto l'amore, facendola sentire una donna desiderata. Che giorno speciale. Tornava a casa senza niente da mangiare, mentre lui non aveva neanche la forza di alzarsi dal letto. Ma in una camerata d'ospedale, su un lettino a rotelle impolverato, erano stati gli amanti più disperati e felici di tutte le guerre. Per la prima volta da quando Rino era morto, Ada fu costretta a chiedere aiuto ai suoceri. Tutte le famiglie, d'altra parte, si stringevano, nella comune situazione di bisogno. La vita era diventata problematica, nella città piena di sfollati. La popolazione era raddoppiata; c'era chi diceva che, tra registrati e non, ci fossero trentamila persone in più. Per strada si vedevano ormai più facce sconosciute che note. Sulmona era diventata un immenso ricovero obbligato per migliaia di famiglie. Alcune vi si erano trasferite da Roma, da Napoli, dal Lazio o da altre regioni, prima dell'inizio dei bombardamenti e non potevano tornare indietro. La massima parte vi era confluita dall'Abruzzo centromeridionale, coi bandi di sfollamento di Kesselring. Oltre a ciò vi erano migliaia di tedeschi; vi si concentrava il grosso delle forze della linea orientale Gustav. Così, mentre in tutto il resto dell'Abruzzo la situazione si presentava relativamente calma - a parte la distruzione dei centri ferroviari più importanti, come Pescara - la Conca Peligna pativa duramente la guerra. La penuria di viveri era indicibile. Anche nei giorni in cui non c'erano bombardamenti e morti, si presentava un nemico fisso: la fame. La tessera annonaria non garantiva più nemmeno quantità razionate di cibo. Dopo aver atteso ore davanti ai punti autorizzati, mettendosi in fila prima che facesse giorno, non si era sicuri di riportare a casa qualcosa. L'unica certezza, di non riportare nulla, era di quelli arrivati tardi. Ogni fazzoletto di terra vicino alle case era coltivato; si aspettava, giorno dopo giorno, che l'inverno si rassegnasse a seguire il calendario e la primavera si facesse finalmente sentire, per raccogliere la prima verdura. Nelle scuole, ridotte a ricoveri, non si tenevano lezioni. Nelle chiese, alla domenica, le messe della tarda mattina erano state annullate per paura delle incursioni aeree, che arrivavano sempre verso mezzogiorno. Le funzioni religiose, d'altra parte, erano come sospese. A Pasqua non si erano tenute né la processione del venerdì santo né quella della Madonna che scappa in piazza ed era sembrato a tutti naturale: a parte il gelo, in giro c'erano migliaia di facce sconosciute e ostili; la città era stata espropriata a se stessa dagli eventi. Gli ospedali e le altre strutture di accoglienza, come il vecchio ospizio di Santa Chiara, non avevano né medici, né medicinali, né personale a sufficienza. I tedeschi affiggevano ogni settimana bandi che imponevano di denunciare, registrare e consegnare uomini e cose utili, dalle vanghe alle accette agli sci che servivano a loro in montagna. Sulla porta di ogni casa doveva
essere registrato il numero di persone residenti; se nei rastrellamenti si fosse trovato un uomo valido, sottrattosi ai precedenti bandi di collaborazione col Comando germanico, sarebbero seguite sanzioni nei confronti dell'intero nucleo familiare. La pena più grave, la fucilazione, era stabilita per chi svolgesse attività ostili ai tedeschi o aiutasse i prigionieri inglesi. In questo clima le spiate, per ottenere qualcosa dai tedeschi, erano continue. La miseria e la paura avevano abbassato in tutti la soglia dell'umanità. Di continuo avvenivano furti, compiuti soprattutto da bande di ragazzi che non avevano paura di niente, non avendo più niente da perdere. Ada disse ai suoceri che non intendeva gravare su di loro, sebbene avesse bisogno di aiuto, in quel momento. Avrebbe fatto di tutto, per pesare il meno possibile sulla pensione del suocero. Si era messa subito alla ricerca di piccoli lavori saltuari. Aspettava soprattutto che arrivasse l'estate, per fare la stagionale in campagna. In città, a parte una vecchia che andava ad assistere un paio d'ore al giorno, non trovava nulla. Sotto un certo punto di vista la situazione di miseria generale la aiutava; avrebbe sofferto di più se gliel'avessero negato a causa della sua condotta; almeno adesso non c'era lavoro per nessuno. Ogni volta che passava sotto al seminario, avvertiva un moto d'odio. Seppe dalla sorella chi era la donna che aveva preso il suo posto. Era una ruffiana dell'economo, un'incapace; le fu quindi chiaro perché avesse reagito così, in presenza di don Liborio, alle parole con cui lei rivendicava di aver lavorato bene; prevedeva che il confronto sarebbe stato imbarazzante. Ebbe anche la soddisfazione di sentire che si erano già avute lamentele e che in un paio d'occasioni la nuova incaricata aveva fatto ritrovare senza cibo tutte quelle persone ricoverate lì; non faceva come lei, che la settimana prima si faceva camminare la testa per prevedere cosa sarebbe servito la settimana successiva. Ma non dedicò più di tanto a quei pensieri. La storia del seminario, brutta, era alle spalle ormai. Lei doveva guardare avanti, per problematica che fosse la sua strada. Poi un giorno successe un episodio che la turbò, più di ogni altro verificatosi fino ad allora. Vide rientrare Ezio col sangue al naso. Aveva pianto, ma non voleva farglielo vedere. Non era un bambino che piangeva facilmente; era successo qualche volta, per un litigio con un compagno, o per un capriccio, ma questa volta era diverso. Dall'espressione che aveva, Ada intuì che nel suo piccolo mondo era accaduto qualcosa di grave. Gli chiese: «Che è successo?» e si preoccupò anche più vedendo che non rispondeva. Ezio scappò in camera, stendendosi sul lettino. Allora gli andò dietro. Il piccolo rimase con il corpo voltato verso la parete, dandole le spalle. Per un po aspettò. Poi l'abbracciò e il bambino si abbandonò tra le sue braccia, stringendosi a lei e mettendosi a piangere. «Non lo dire a Mino» chiese «e chiudi la porta, sennò quando arriva, entra.» Teneva molto a che il fratello minore non lo vedesse piangere. Cosa stava per raccontarle? Mentre giocava con i cugini nel giardino del seminario, un altro bambino gli aveva detto: «Voi siete amici dei tedeschi; tua madre è amica a loro, gli vuole bene» E se la prima frase aveva addirittura quasi fatto piacere a lui e Mino, la seconda li aveva fermati. Conteneva un'allusione a qualcosa di grave, che non capivano, erano troppo piccoli - ma si trattava di qualcosa di sporco che la loro mamma aveva fatto e che la esponeva al disprezzo. Loro potevano essere amici dei tedeschi. Il nonno e la nonna potevano essere amici dei tedeschi. La mamma no. Ada gli chiese di andare avanti. Prima però, col cuore che batteva, andò in bagno a mettere sotto l'acqua un fazzoletto. Aspettava di ascoltare le parole offensive con cui avevano parlato di lei ai suoi bambini. Era l'unico prezzo che non avrebbe mai voluto pagare. L'amore che si metteva contro un altro amore; l'amore evitabile contro l'amore che avrebbe dovuto assorbire tutto; ciò che aveva fatto, per se stessa, contro ciò che non
avrebbe dovuto fare, per i figli. Tutte le fragili categorie di giustificazione che si era costruita cadevano di fronte alle lacrime del figlio, mentre gli puliva il sangue nelle narici. Poteva sopportare per se stessa qualunque offesa; si sentiva morire per una parola arrivata a quelle orecchie innocenti. «E che altro ha detto questo bambino?» chiese. «Niente.» «Sicuro? Né a te né a Mino?» Ezio scosse la testa. La guardò con due occhi in cui leggeva tutta l'innocenza del mondo. «E perché vi siete dati le botte?» chiese. «Non lo devi mai fare. Te l'ho detto altre volte. Chiamavi la mamma.» «E invece gli ho menato» disse. «Perché si era messo a ridere. A dire che sua mamma aveva detto...» Arrivava la coltellata. «... Che Ada fa l'amore coi tedeschi.» «E tu che hai detto?» «Io... io non gli ho detto niente. L'ho buttato per terra e... ci siamo rotolati. E ho vinto io. Lui è scappato dalla mamma, dopo.» «E... tu credi a quello che ha detto?» «No!» «E non glielo potevi dire?» «Gliel'ho detto!» «Cosa?» «Che vuoi bene solo a Helm! E pure nonno e nonna!» Ah... benedetti figli. «... Così gli hai detto, allora. E lui che ha detto?» «Ha detto: eh, allora siete tutti gli innamorati dei tedeschi. Pure tuo nonno e tua nonna e tua zia. E io gli ho menato.» «Hai sbagliato, Ezio; lo piantavi in asso, anziché appiccicartici; lo sai che potevi farti male...» «No, io sono più forte. Infatti ho vinto io.» «Ezio, ninni: non bisogna né vincere né perdere, non bisogna proprio darsi le botte con gli altri bambini. Mino ti ha visto?» «No.» «Sicuro?» «Se n'era andato dentro da nonna.» «E nonna e zia ti hanno visto?» «Zia sì, alla fine.» «E che ha detto?» «Ha detto che ti sei fatto al naso e sei tutto sporco.» «E tu che hai risposto?» «Me ne sono... scappato sennò mi faceva brutto.» Ada annuì. «Devi promettermi due cose. La prima è che se incontri quel bambino, lo eviti e basta. Fai finta di non averlo visto. Se si mette a prenderti in giro, non gli dai retta e te ne vai...» «No, ma, non mi canzona più: s'è messo a piangere come una femmina quando scappava dalla mamma.» Non c'era verso. «Be, comunque devi promettermi che non farai più a botte con nessuno. Né per questa cosa, né per altre. Se senti dire qualcosa... me la vieni a dire. Anche perché è giusto, no? Se mi riguarda, devo saperla. Quello che hai fatto oggi è sbagliato. Sai come ti rimprovererebbe papà, se ci fosse?» Le dispiacque di averlo detto. Il piccolo tornò a stringersi a lei. Lo cullò, cercando le parole migliori per parlargli ancora. «Stammi a sentire: innanzitutto la mamma pensa solo a voi e vi vuole bene. Voi siete tutta la mia vita. Lo sai, no?» Ezio annuì. «E... da quando non c'è più... papà, siamo stati solo noi, no? Uno, due e tre e siamo stati...» si commosse lei, adesso; era la prima volta che stava riassumendo quattro anni di vita al figlio; era la prima volta che gli stava parlando come se fosse stato grande. «... Voi siete stati bravi. Tanto bravi. Ecco, la mamma ha in mente solo il vostro bene. Tutto quello che fa dalla mattina alla sera è per voi.» La voce le si arrochì. Non doveva assolutamente piangere anche lei, sarebbe stato un disastro. Si riprese, schiarendosi la voce. «Poi è scoppiata la guerra e sono arrivati i tedeschi. Sono venuti a casa nostra, sono stati dai nonni, hanno giocato a pallone con te e Mino e con gli altri bambini, ti ricordi?» Il piccolo annuì; nominare le partite a pallone aveva sortito un buon effetto; tanti altri bambini e nonni, gli aveva fatto pensare, erano stati a contatto con questi soldati. «Molti di loro sono giovani. Stanno lontani da casa. Un giorno ci torneranno... Ma intanto noi non li abbiamo cacciati fuori da casa nostra. Sono soli. Ci facciamo venire i buoni, però. Quelli che sono cattivi invece non li facciamo venire. Questo non è male, capito? Noi non abbiamo fatto del male a nessuno.
Perciò non preoccuparti di quello che dicono. I tedeschi non sono tutti cattivi... E' cattivo Helm? E' cattivo quell'altro?... come si chiama?» La domanda le sembrò stupida nel momento stesso in cui la fece. Invece era giusta. «Spuk.» «Ecco, Spuk. Non sono cattivi, no?» «No.» Ma tu non hai avuto lo stesso rapporto con l'uno e con l'altro, le disse una voce da dentro; e quello che hai avuto con Helm non puoi dirlo ai tuoi figli. Com'è facile non contarla giusta a un bambino, eh? complimenti. Azzittì quella stupida voce interna. Sentì il bisogno di chiedere a Ezio perché aveva risposto come lei voleva: «Perché non sono cattivi?» Ezio ci rifletté un momento, tirando su col naso. «Perché... a Helm gli hanno sparato e se era cattivo invece sparava lui. E Spuk... a Mino... l'ha fatto giocare e gli ha passato la palla a porta vuota.» Lo guardò come se non capisse. «L'ha fatto segnare. Mino è piccolo, non sa tirare» spiegò Ezio. «Magari non segnava neanche a porta vuota. Spuk ha rischiato.» Avevano uno strano metro, i bambini per misurare la bontà, si disse Ada. Helm era buono in quanto ferito e non feritore. Spuk in quanto autore di un passaggio a Mino. Erano piccole, sconclusionate verità, ma funzionavano. La causa della bontà di almeno due tedeschi, in tutta la Wehrmacht, era dunque vinta per quel giorno, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. «Allora: mi prometti che non litigherai più?» Ezio fece cenno di sì. «E che verrai a raccontare quello che hai sentito alla mamma.» Fece ancora cenno di sì. Si stese sul letto accanto a lui. Gli levò le scarpe, gli sbottonò il calzoncino, gli mise il cuscino sotto la testa e una coperta addosso, carezzandogli la fronte. Dopo un po, sentì che si era addormentato. Allora si alzò senza fare rumore e chiuse gli scuri. Era bene che facesse un sonnellino. E così questo avevano detto di lei. Non altro. Ezio le aveva raccontato tutto. Per un attimo si chiese chi erano il bambino e sua madre. Una mezza idea ce l'aveva. Ma non gliel'avrebbe chiesto quando si fosse svegliato. Anche quell'altro piccolo non aveva colpa. Aveva solo ripetuto malignità sentite dalla madre, senza capirle. Era meglio cancellare l'episodio. Aveva il cuore pesante, però. Quante altre mamme erano state causa di una sofferenza così, per un bambino? Ezio cominciava a crescere, adesso: chissà che avrebbe sentito dire in futuro... Forse avrebbe anche capito... Scacciò il pensiero. Si era tranquillizzato sentendola parlare. Non solo, gli si era accesa una luce d'interesse, di gioia, ricordando le partite fatte al campetto coi tedeschi. Helm era un buono, per lui; superiore a ogni sospetto, come la mamma. E lei sapeva cosa volevano Ezio e Mino. Andarlo a trovare. Era tanto che glielo chiedevano e rispondeva di no. Adesso capiva che aveva sbagliato - per imbarazzo, per tenerli lontani da una certa situazione, per altri comprensibili motivi. Li aveva privati di una gioia. Bene, il giorno dopo li avrebbe portati da lui. Era un'idea che la metteva in ansia, ma serviva a dimostrare a loro, e soprattutto a se stessa, che non aveva paura degli altri. Al punto in cui era, poteva permetterselo. L'avevano cacciata dal lavoro per indegnità, sparlavano di lei, non voleva che pagassero un prezzo aggiuntivo anche i figli. Il giorno dopo andò in ospedale un po più tardi del solito, all'imbrunire; negli altri pomeriggi preferiva passare prima. C'era gente e nessuno fece caso a lei. Percorse i corridoi tenendo per mano i figli, che gettavano occhiate curiose qua e là. Entrò e pensò di aver sbagliato camerata. Il letto di Helm era vuoto e c'era solo una persona anziana nella camerata, sul letto più vicino all'ingresso. Istintivamente arretrò, ma no, era proprio quella la camera giusta; forse l'avevano spostato da qualche altra parte... «Cercate il soldato tedesco?» le disse il vecchio. «L'hanno trasferito a Roma. Così ha detto. Io mi sono ricoverato stamattina, quando arrivava l'ambulanza a prenderlo... Siete la signora... Ada? Mi ha detto lui il vostro nome. Ecco, ha lasciato... questo
foglietto per voi.» Ada lo aprì con ansia. "Cara Ada troppo subito partire Roma, ospedale militare. Io scrivere te Roma. Grazie grazie grazie. H." Il viso del vecchio divenne sempre più lontano ed estraneo, mentre lei scorreva quelle parole scritte a matita su un foglio a quadretti, ripiegato con cura, come se le mani di chi le aveva scritte avessero indugiato a lungo, su di esso, prima di consegnarglielo. La luce di una lampada a petrolio, già accesa, ondeggiò dietro il vetro, sciogliendosi nei suoi occhi in una liquida fiamma; si affacciò sulle ciglia e il polso la raccolse, per non farla vedere ai bambini. Ringraziò il vecchio, si mise in tasca il foglietto. In un soffio rispose alla domanda di Ezio: «Non ci sta più, Helm? Se n'è andato? E dov'è andato?» «Sì, l'hanno portato in un altro ospedale per curarlo meglio.» Non rispose a quella di Mino: «E quando torna?». Non lo sapeva. Non sapeva se sarebbe tornato. Forse i medici potevano dirle qualcosa. Non poteva andarsene a casa senza aver avuto qualche notizia in più; si sarebbe tormentata fino alla mattina dopo, per scappare in ospedale appena possibile, rimproverandosi per non essersi informata subito. Disse dunque ai bambini: «Mettetevi seduti qui, su questa panca. La mamma va a chiedere. Torna subito». Si diresse verso la stanza dove aveva visto il chirurgo, dall'altra parte dell'ospedale. Si vergognava di parlare con lui; forse non era neanche in servizio a quell'ora. Cercò un infermiere, un'infermiera che potesse dirle se era il caso di cercarlo. Alcuni di loro erano gentili, ma quella che le si parò davanti era la peggiore. Sorrise subito, vedendola, come se avesse capito. La fissò senza salutarla. «Sono venuta a cercare il dottore... per avere notizie del soldato tedesco» disse. «Il dottore a quest'ora non c'è» le rispose, cattiva «e comunque queste notizie non si possono dare. Bisogna chiedere al Comando tede...»; non completò la frase pentendosi di avere detto dove poteva informarsi; non voleva dirle neanche quello. Assunse un tono di stizza e di rimprovero. «Tu non sei una parente. Perché vieni a chiedere? Chi sei tu? Non ti vergogni? Sei venuta qua tutti i giorni; se non era per rispetto al prete, ti cacciavamo subito. Adesso hanno mandato via il tuo fidanzato tedesco. Vattene a casa, pensa ai figli, fa come tutte le altre. Non venire più.» Ada si sentì avvampare. Non per la vergogna, ma per la cattiveria che c'era in quelle parole. S'impose di non rispondere. Le provocazioni non le avevano mai fatto paura, ma non voleva reagire, il silenzio era la risposta migliore. Si girò, lasciando l'infermiera. Raggiunse a passo svelto il corridoio dov'erano i bambini. Non vedeva l'ora di andarsene, non avrebbe più rimesso piede in ospedale. Qualcosa di vero l'aveva detto, quella disgraziata: non aveva più motivo di tornarci. Arrivata dove aveva lasciato i figli, vide il ragazzo che faceva fare la riabilitazione a Helm e lo fermò. «Sai niente di Helm?» domandò. «Il tedesco? L'hanno portato via stamattina, in un'ambulanza dove c'era anche un altro soldato ferito ieri in un'azione... Li hanno portati a Roma.» «Lui... non tornerà, quindi?» «E chi lo può sapere, signo» disse. «In caserma, forse, una volta che migliora. Qua in ospedale penso di no. Lui non si aspettava che lo trasferissero; difatti ieri sera avevamo deciso di fare i soliti esercizi, oggi... Avete visto? Sta facendo molti progressi. Certo, poveretto, con quell'operazione che ha avuto.» La guardò negli occhi. «E' un miracolato. Non so come ha fatto a salvarsi. Io l'ho visto quand'è arrivato. Sembrava morto dissanguato. Il chirurgo l'ha operato tre ore. Gli ha fatto una sutura a punti grandi, non ne ho mai visto una più lunga; praticamente, l'ha ricucito tutto, dal fianco, all'inguine, alla gamba.» S'interruppe per far segno con la mano, a Ada, della ferita che lei non poteva aver visto. «Il tedesco, signo, è una quercia. Ah, però una cosa vi debbo
dire. Tiene una volontà di ferro. Anche quando non si poteva ancora alzare, già diceva che voleva farlo. E c'è riuscito. Non si può dire se riprenderà a camminare normale... secondo me, rimarrà zoppo, ma - oh - come si dice? con quello che t'è successo, ringrazia Dio che lo puoi raccontare... Helm è uno serio, si vede, non è 'nu pazzo di questi che vanno in giro ad ammazzare la gente.» Abbassò un po la voce, come se dovesse toccare un argomento delicato. L'aveva vista continuamente lì. Chissà cosa aveva sentito dire di lei, pensò Ada. «Forse da Roma vi scrive che sta meglio, chi lo sa. L'indirizzo vostro... ce l'ha?» Già, pensò Ada, l'indirizzo. Ce l'ha? «Forse sì» rispose; sennò come fa a dire che scriverà da Roma? Deve averlo. E' uno preciso. Ha letto la via e il numero civico quando veniva a casa. «Be, comunque, se so qualcosa qua in ospedale, ve lo faccio sapere; voi non siete la mo... la vedova di Rino? State per la via...» A quel punto arrivò come una furia l'infermiera che l'aveva trattata male prima. Il ragazzo se ne andò all'istante, per non essere rimproverato. «Non ti avevo detto di andartene? Il tedesco se n'è andato, il fidanzato non ci sta più» scandì, rivolta a lei, come se fosse sorda, senza preoccuparsi dei bambini. «Vattene a casa!» Ada prese i figli e raggiunse l'uscita. Scese le scale interne, attraversò il cortile, superò il vasto portale, senza guardare i bambini. Il cuore le batteva all'impazzata, Le sembrò che la mano di Ezio si stringesse forte alla sua. Uscita, sentì che non ce l'avrebbe fatta questa volta. Disse ai bambini: «Solo un momento. State fermi qua, non scendete in strada. Guai a voi se vi muovete. La mamma ha dimenticato una cosa là dentro» Risalì le scale a labbra strette, quasi correndo. L'infermiera era di spalle lungo il corridoio. Se non l'avesse ritrovata, forse si sarebbe calmata, ma quello era un segno. «Tu!» le disse, e quella non fece in tempo a girarsi da sola, che, afferratala per i capelli, Ada le piegò la testa all'indietro. Il primo schiaffo che le diede, ebbe l'effetto di farla finire in ginocchio sul pavimento, mentre una bacinella di metallo le cadeva dalle mani per terra, e un flacone di vetro andava in pezzi, facendo rumore. «Questo è per le gentilezze dei mesi scorsi, che ho fatto finta di non sentire; e questo» disse a bassa voce, colpendola con un manrovescio, che si abbatté sulla mano con cui l'altra cercava di ripararsi la faccia «per quelle di poco fa. Ti basta eh? Ti basta?» disse scuotendola per i capelli. «O no? Com'è, hai perso la lingua adesso?» Quella, in ginocchio sulle gambe, cominciò a chiedere aiuto. Alcuni, richiamati dal rumore si affacciarono alle porte delle camerate. Ada si girò e se ne andò. «Schifosa! Sporcacciona!» sentì che le gridava dietro, mentre veniva aiutata a rimettersi in piedi. Si voltò all'istante e fece alcuni passi minacciosi. L'infermiera se ne scappò dentro la camerata più vicina, sbattendo la porta. La bacinella rovesciata rimase in mezzo al corridoio, tra i pezzi di vetro. Adesso erano in tanti a guardare. Uscì scuotendo il dorso della mano che le faceva male. Come poteva fare le prediche a Ezio se poi era lei la prima a... Meno male che i bambini non l'avevano vista. Non si sarebbe mai lasciata andare così di fronte a loro. Ezio e Mino non potevano aver sentito, ma qualcosa dovettero capire dalla sua faccia, o forse dall'energia, ancora un po incontrollata, con cui li prese per mano, uno da una parte e uno dall'altra, perché si allinearono al suo passo lungo senza dire una parola. La sera, dopo averli messi a letto, rassettò la cucina. Spense il lume e si mise a sedere al tavolo, con la testa tra le mani. Era contenta di aver dato due sberle a quella là. Non le piaceva mandare giù le offese senza reagire. Erano già tante le cose alle quali non poteva reagire. Certo, aveva passato il segno. Be, quella strega se l'era proprio voluta. Si spogliò e si mise a letto, ma non provò a dormire.
Era troppo agitata. Si mise a pensare fissando il soffitto. Era altro, quello che le faceva male davvero. Helm se n'era andato. Adesso era sola. Si voltò verso la finestra. La campagna intorno a casa sua era immersa nel buio più cupo dell'inverno. La scelta di vita che aveva fatto era lì intorno, in quella solitudine, a incontrarla dove l'aveva attesa pazientemente. Sarebbe sempre stata sola. Si rivide per le scale dell'Annunziata. Era lei, quella? Una donna - aggredita, aggressiva, indifesa - con due piccoli per mano più indifesi di lei, aveva sceso, uno dopo l'altro, i gradini della disperazione. Ogni giorno li aveva risaliti con gioia, con paura, con coraggio, in una sfida cui non era mai mancata, contro ogni nemico del suo amore. Aveva perso. Aveva imposto a se stessa di non pensare che questo giorno sarebbe arrivato. Be, era arrivato. Una voce - ch'era sempre stata in agguato - le chiese se non avesse sbagliato tutto; se non sarebbe stato meglio non diventare la puttana del tedesco. Soprattutto, non innamorarsi di lui. Rimanere la Ada di prima. Non le prestò ascolto, la cacciò via. Valutare in anticipo le conseguenze delle azioni le apparteneva, pentirsene no. L'avrebbe rifatto.
CAPITOLO 10 Dopo la partenza di Helm, Ada non ebbe tempo di pensare a lui. S'impose di non aspettare nemmeno una sua lettera, sebbene, dentro di sé, ogni giorno sperasse di vederla arrivare. Quello "scrivere Roma" non poteva significare altro; toccava a lui scrivere, lei non conosceva l'indirizzo e, anche se l'avesse saputo, non l'avrebbe fatto; aveva diritto di restare ad attendere. Cosa? Una verifica, forse; una di quelle che la donna cerca sempre, nella storia con l'uomo di cui si è innamorata, per capire se ha ben riposto il suo amore, per difendersi, per cercare di intuire cosa c'è davanti a lei; attendendo l'uomo a varchi ch'egli non sa di attraversare e ricavandone risposte sicure, anche se spesso non volute. E una voce le diceva di non aspettarsi niente. Alla storia tra un soldato straniero e una donna sola non apparteneva lo scrivere, il continuare. Eppure se le fosse arrivata una lettera - una busta con un'intestazione dell'ospedale militare o un'anonima busta, con l'indirizzo pieno di errori - le si sarebbe riallargato il cuore. Avrebbe riconosciuto subito la grafia, l'avrebbe aperta con ansia per sapere se conteneva l'amore, il suo trascorrere, o la sua fine. In ogni caso le avrebbe detto qualcosa. Sarebbe stata la prova che, anche da lontano, Helm aveva pensato a lei. Se l'amore non poteva riprendere, doveva esserci almeno una sua decorosa conclusione. Assistita da quelle illusioni che si chiamano nostalgia, tenerezza, attaccamento, che a volte aiutano ad accompagnare gentilmente la passione alla porta di uscita dalla vita. Non quel "grazie" ripetuto tre volte, che sembrava liquidare tutto sul piano della riconoscenza, il meno adeguato. Dopo Pasqua cominciò ad andare per verdure selvatiche. Non aveva mai pensato di ridursi così. Farlo era stato per secoli il segno più chiaro e vergognosamente nascosto di una condizione di povertà. Solo chi era proprio bisognoso si affidava ai prodotti spontanei della terra, nel tempo in cui si potevano raccogliere. Cercava di non farsi vedere da nessuno. Si allontanava da Sulmona, s'inoltrava nei campi e non le importava di camminare tanto per arrivare nei punti dove poteva raccoglierle. Erano verdure scomparse al mercato, perché in tempi normali nessuno si preoccupava di raccoglierle. Solo gli orapi erano ricercati, ma per quelli era presto - spuntavano tra fine maggio e giugno - e bisognava salire in montagna a prenderli. Queste erano le verdure poverelle. La loro raccolta era un rito doloroso: scendere nei fossi; mettere i piedi nell'umido sperando di non pestare qualche biscia; salire sul fianco ripido di un colle dove, intorno a un masso, aveva scorto occhieggiare la borragine, il cardarello, la cicorietta; allargare un mantile per terra, strappare la verdura o romperne i gambi più resistenti con un falcetto; scuotere un po di terra, buttare sulla tovaglia quello che aveva preso. A volte si graffiava una mano. Si fermava, si succhiava il punto dove s'era fatta male e riprendeva a raccogliere. Ringraziava quel graffio perché le dava l'occasione di far scendere qualche lacrima di rabbia. Rimproverava il destino di averla ridotta così, a farsi male alle mani in campagna, dicendosi che - però forse sarebbe stato di buon augurio: far male a chi sta male chiama la sorte avversa sulla cattiveria; forse, con quel graffio, le cose sarebbero cambiate. Quando la tovaglietta si riempiva, certe volte si sedeva per riposarsi e guardava intorno a sé. Erano questi campi deserti, queste montagne enormi e incombenti, o la linea bianca della città, laggiù, l'orizzonte della sua vita? Sarebbe sempre stato così, lei a raccogliere erba nei campi e questo mondo insensibile a
circondarla? Nel rispondere di sì, avrebbe dovuto disperarsi e invece succedeva il contrario. Ritrovava forza. Un giorno tutto sarebbe finito. Se le cose fossero andate bene, col farsi grandi dei figli, che un giorno avrebbero aiutato lei; se male, con una santa morte. E così sia. Al ritorno si fermava dai contadini per cercare di barattare quel che aveva raccolto. Con un po di formaggio e del latte, soprattutto, giacché quello in polvere era razionato a uso dei neonati e Mino ed Ezio ne avevano bisogno. Se riusciva nel baratto, faceva la strada principale; vedendola con quel ben di Dio, c'era chi si sarebbe chiesto da quali contadini l'aveva trovato. Se invece riportava le retine piene di verdura, come accadeva la maggior parte delle volte, preferiva rientrare da strade secondarie, per il motivo opposto. Un altro momento felice era quando metteva in tavola quello che aveva riportato. Se uno dei bambini le diceva: «E basta, non me ne dare più! Mo scoppio!» veniva ripagata di ogni fatica; non erano molte le case dove si sentivano frasi così, in quella primavera del '44. La frittata con la borragine, la cicerchia, i fagioli "a parte" - che adesso riusciva a trovare a buon prezzo, giacché stavano per riuscire i nuovi - erano quelli che piacevano di più ai bambini. La carne era diventata introvabile, ma sulla sua tavola i legumi selvatici non mancavano: erano la carne dei poveri, come diceva il proverbio. In questo Ezio e Mino stavano meglio di altri. Era un grande vantaggio avere una mamma giovane, con tanta energia da dedicare a loro, anche se andava come un'anima persa nelle campagne. Adesso i piccoli passavano molto più tempo con lei. Le scuole erano state chiuse da mesi per ospitare gli sfollati. A volte si trovava in casa sei, sette, otto bambini, tra i suoi, quelli di Antonina e qualche altro piccolo. Se aveva qualcosa da dar loro, gliela dava. I nipoti non se ne meravigliavano. Per loro, zia Ada era rimasta sempre quella ricca, ch'era andata a vivere in città. I suoceri l'aiutavano. Condividevano con lei tutto quello che avevano. L'unica fonte di reddito era la pensione del padre di Rino; il giorno che non ci fosse più stata quella, sarebbero venuti a trovarsi nel bisogno totale. Anche Antonina e la madre avevano capito la sua situazione. Ora che il tedesco se n'era andato, cercavano di starle più vicino. Nei loro occhi Ada scorgeva un'immagine: quella della ragazza fortunata che alcuni anni prima era scesa, sposa, da Pietransieri a Sulmona, con la vita carica di promesse e con un marito che le voleva bene e provvedeva a lei. Cosa le era stato riservato, invece! Glielo leggeva pure sulle labbra chiuse, piegate verso il basso, in un'espressione ancora incredula. E ci soffriva, perché alle ferite proprie si fa l'abitudine, facendole cicatrizzare; mentre quelle inflitte dagli altri, anche involontariamente, si riaprivano di continuo. Antonina e la madre, se riuscivano a mettere da parte qualcosa di quello che veniva dato loro al seminario, glielo portavano. I ruoli si erano invertiti; non era più lei a pensare a loro, ma loro a lei. Le portavano anche tocchi di pane un po passato. Ada lo ammollava e lo bolliva come pancotto, con le foglie d'alloro e l'aglio rosso. Ai bambini piaceva. Aprile stava finendo e con la bella stagione c'era la speranza di essere chiamata a lavorare in campagna. Era anche andata a raccomandarsi al mulinaio per l'estate. Bisognava occupare certi spazi, prima che lo facessero altri. Poi successero due cose - una più inattesa dell'altra - a farle palpitare il cuore. Tutt'e due avevano a che fare con gli stranieri: inglesi, tedeschi gente venuta da lontano nella conca d'Abruzzo a portare la guerra, a far l'amore, a far interrogare tutti gli abitanti su cosa volessero, quei forestieri in armi, da loro. Una mattina presto don Liborio fu raggiunto dalla ferrista dell'ospedale, che chiese di parlargli a quattrocchi. La sera prima, in ospedale, era successa una cosa di cui solo lei e il chirurgo erano a conoscenza. Alcuni giorni prima, i tedeschi avevano individuato tra Cansano e Campo di Giove
un gruppetto di prigionieri inglesi evasi d'estate dal campo di Fonte d'Amore. Prima erano stati nascosti dagli abitanti, ma nelle ultime settimane, quando la situazione era peggiorata, si erano ritirati in un rifugio sui monti, dove ogni tanto qualcuno portava loro da mangiare; aspettavano, come tutti, di potersi riunire agli alleati. Gl'inglesi si erano accorti del rastrellamento ed erano riusciti, per un soffio, a fuggire, disperdendosi nei boschi. Ma tre di loro erano stati intercettati, si erano difesi sparando ed erano stati mitragliati dagli inseguitori. Un inglese era morto; era quello gli diceva la ferrista del quale, certo, don Liborio aveva saputo. Degli altri due, uno era stato ferito ma, aiutato dal compagno, era miracolosamente scampato alla cattura; poi era sopraggiunta la notte e i tedeschi avevano interrotto il rastrellamento. Approfittando dell'oscurità, il compagno era sceso allora in un casolare fuori Cansano e aveva chiesto soccorso a una famiglia dalla quale era già stato aiutato. Il vecchio capofamiglia aveva capito che altrimenti sarebbero stati catturati all'alba e li aveva nascosti due giorni in una buca nel terreno nel bosco, con dei viveri. Così erano ancora sfuggiti alla cattura. A quel punto il ferito aveva perso conoscenza, ma il vecchio, con un gesto eroico, era riuscito a farlo arrivare di nascosto, come se fosse un civile bisognoso di cure, all'ospedale di Sulmona, dov'era tuttora. Come, tenevano un fuggiasco inglese in ospedale? Sì. Per il momento lo tenevano separato da tutti gli altri degenti, nell'infermeria attigua alla sala operatoria, come se fosse in rianimazione. Ma non sapevano più che fare. E l'altro? Non chiedetemelo, padre, era stata la risposta; mia madre e i miei figli non sanno niente... ho un tramezzo nella carbonaia... ma non può restare lì... Don Liborio sgranò gli occhi. La situazione era pericolosissima. Se li avessero scoperti, i tedeschi li avrebbero immediatamente fucilati, come stabiliva il bando di Kesselring; gli inglesi oltretutto erano considerati belligeranti, non fuggiaschi, poiché si erano difesi sparando. Don Liborio capì che dalla sua risposta dipendeva la vita di quattro persone, i due inglesi, il medico e lei. Non vi era alcuno spazio di mediazione con i tedeschi. Certo nelle intenzioni della ferrista c'era questa non dichiarata richiesta, che lui potesse in qualche modo intervenire sul Comando. No che non poteva: li avrebbe fatti ammazzare tutti. Dovevano subito far uscire l'inglese dall'ospedale e l'altro da casa di lei; in questo modo il medico e la donna sarebbero stati salvi; in ospedale vi era infatti presenza di tedeschi che - spiate a parte l'avrebbero notato da soli, prima o poi. E c'era un solo posto dove le perquisizioni non arrivavano, almeno per ora: gli edifici ecclesiastici. Dovevano portarlo al seminario. Occorreva parlare col vescovo, esporgli il caso. Non c'era un minuto da perdere. Chiese alla ferrista se l'inglese poteva essere trasportato, si trattava di pochi passi dall'ospedale. La donna gli rispose di sì, ma non immaginava come farlo uscire. E la mambrucca? Il carretto della biancheria che usciva ogni giorno per andare al seminario? Le sfollate ricoverate lì collaboravano da tempo ormai con l'ospedale, facendo vari lavori, tra cui lavare i panni; ogni giorno una carrozzella riportava e ritirava la biancheria in ospedale. «Sì» rispose la donna «nascosto lì, probabilmente potrebbe uscire. E' rischioso, ma è anche così vicino.» E l'altro? Quello che stava da lei? «L'altro...» ebbe un istante di esitazione; poi parlò; lei abitava vicino alla parrocchia, vero? «Sì.» «Bene» sospirò. L'altro l'avrebbe preso lui. L'avrebbe ricoverato in cantina. Meglio da lui che da lei, per lo stesso motivo. I tedeschi non varcavano la soglia degli edifici di culto. Finora, almeno. La donna si chinò a baciargli le mani, commossa. Don Liborio si sottrasse al gesto e la congedò. La porta della canonica - avvertì - sarebbe stata accostata, di notte. Lei avrebbe mostrato all'inglese come arrivarci, erano pochi passi. L'avrebbe fatto col coprifuoco, dopo il rientro della ronda di mezzanotte; dall'una
alle cinque non c'era nessuno, di solito. Lui avrebbe tenuto un lume acceso alla finestra fino a quando avesse sentito ripassare la ronda; appena spento, l'inglese doveva uscire. Lei avrebbe dovuto mostrargli bene i pochi passi che dividevano le due case, ci mancava altro che si perdesse. Mentre se ne andava, don Liborio vide molta apprensione negli occhi della ferrista e glielo confermò la stretta alle braccia che, andandosene, lei gli diede con entrambe le mani, invocando la Madonna. Era una madre di famiglia, rischiava la sua vita e forse quella dei suoi, per salvare quella di uno sconosciuto. Don Liborio si recò immediatamente in curia. Chiese e ottenne protezione per l'inglese, il vescovo non ebbe un istante d'esitazione - non poteva permetterselo - pur scuotendo la testa, mentre diceva di sì, per deplorare la gravità del gesto che stava per autorizzare. Dell'altro inglese, don Liborio non disse nulla, per non coinvolgerlo due volte. Accennò di sfuggita al fatto che era risalito in montagna. Verso l'una e mezzo di notte, la porta della canonica ruotò impercettibilmente. Don Liborio aspettava in un'altra stanza. L'inglese era un tenente di una quarantina d'anni, fuggito a settembre dal campo. Per fortuna non era ferito. Capiva qualche parola di tedesco e in quel modo s'intesero. Il ferito - spiegò - era un ragazzo gallese della sua compagnia, che non avrebbe mai abbandonato; s'informò di lui. Senza entrare in particolari, don Liborio gli disse che veniva curato in un luogo sicuro. L'inglese era affamato e divorò il cibo che il prete aveva preparato per lui. Poi in cantina trovò un materasso e delle coperte dove sdraiarsi. Ringraziò e promise di andarsene appena possibile. Don Liborio assentì, pensando il contrario; sapeva che consentirgli di andar via avrebbe significato mandarlo a morire; ottenne perciò da lui la promessa che non avrebbe tentato di farlo senza il suo permesso. Il trasporto del ferito, la mattina dopo, fu favorito da un'improvvisa mobilitazione dei reparti tedeschi, che all'alba uscirono da Sulmona. Era successo anche nei giorni precedenti. Nel Lazio stava verificandosi una grande concentrazione di forze, ma gli americani avanzavano anche a est, verso l'Adriatico. I bombardamenti si erano intensificati in tutta la provincia meridionale di Chieti, seguendo soprattutto la linea dei fiumi. Molti paesi, per fortuna sfollati, erano stati rasi al suolo. Si distruggevano i capisaldi della linea Gustav, tentando di sfondarla verso l'Adriatico, qualora l'esito della battaglia che si annunciava a ovest non fosse stato favorevole agli alleati. I tedeschi erano costretti ad abbandonare le fortificazioni che avevano realizzato in otto mesi. Per questo molti reparti della Wehrmacht di stanza a Sulmona venivano mobilitati in quei giorni. Il ragazzo inglese fu portato al seminario senza che nessuno lo notasse. Ci rimase due settimane, fu curato e guarì. Data la vicinanza all'ospedale, nessuno notò il medico e l'infermiera che ogni tanto passavano da quelle parti. Poi, appena fu in grado camminare, il gallese - con la testa rapata per non dare nell'occhio, con tutti quei capelli rossi che aveva, vestì una tonaca da seminarista e andò a rifugiarsi anche lui da don Liborio, autorizzato dal vescovo. Al prete si pose subito il problema di come sfamare quei due fantasmi che si aggiravano in cantina e pensò a Ada. Ada non aveva mai smesso di pulire in chiesa e in canonica. Nessuno si sarebbe insospettito vedendole portare qualcosa da mangiare; chi l'avesse notato, avrebbe pensato che fosse per don Liborio. Naturalmente il prete non le disse che c'erano due inglesi in cantina; le accennò a situazioni di bisogno, molto vicine. E Ada non capì, sulle prime, ma sentì benissimo che c'erano delle persone in cantina e capì che don Liborio aveva accennato a quelle, senza volerla mettere a parte precisamente di quali fossero. Disciplinata com'era, non fece domande. Quando intuì che se n'era accorta, fu don Liborio stesso a rivelarle che si trattava di due fuggiaschi inglesi; l'avvertì: «Non scendere da loro, se succede qualcosa, deve risultare che solo io ne ero a conoscenza, capito? Perciò quando hai finito di pulire in chiesa, vattene,
prendi quel po che c'è qui e cucina a casa tua. Quando torni il giorno dopo, me lo lasci. Se bussano, non aprire a nessuno. E preghiamo Dio che tutto passi. Alla Feldgendarmerie ci sono segni di... non di andata via, ancora, ma di smobilitazione... Bisogna vedere che succede nel Lazio e sull'Adriatico. Comunque i tedeschi non pensano di far arrivare altre truppe qui. E sarebbe un bene, se andassero via... sarebbe una salvezza...». Ada non pensò neppure un attimo che se una spiata avesse avvertito i tedeschi di quello che succedeva in canonica l'avrebbero fucilata. Capiva il rischio, ma l'aiutare don Liborio non si discuteva. Il prete le aveva anche detto chiaramente di riportarsi a casa qualcosa per la sua famiglia, quando preparava per lui e per gli inglesi. Così senza incontrarli mai, diventò la loro assistente. Poi una mattina don Liborio riportò dal Comando una lettera di Helm. L'aveva indirizzata a lui. Era scritta in tedesco e gli chiedeva di dare sue notizie a Ada. «E' indirizzata a me, da Wilhelm Habichter, l'austriaco...» disse guardandola; che gli toccava fare, tradurle la sua lettera. «... Ma è quasi tutta per te. Mi chiede di tradurtela. Ti ha mandato anche questo pacchetto.» Ada non disse una parola. Il cuore accelerò il battito. Dunque aveva pensato a lei. Con quale intenzione non sapeva. Forse per liquidarla con un grazie definitivo, forse no. Adesso lo avrebbe saputo. Ma era un buon segno che si fosse fatto sentire. Voleva dire che non li aveva dimenticati, altrimenti sarebbe sparito e basta. Mentre apriva il pacco che conteneva un tesoretto di zucchero, marmellata e miele in barattoli, don Liborio la fece sedere. Quella lettera non era affatto un addio. Ogni rigo, scritto nella dovuta forma perché sarebbe stato il prete a leggerglielo, riguardava il futuro. Innanzitutto le dava sue notizie. Stava meglio. Era ricoverato presso un ospedale militare di Roma. Aveva ripreso a fare qualche passo senza stampelle. La commissione medica, comunque, l'aveva visitato e aveva deciso di prolungare il ricovero. Non era in grado di rientrare in servizio e, considerando i lunghi mesi di degenza, forse sarebbe stato congedato. Era ritornato in contatto con la sua famiglia, proprio il giorno prima aveva ricevuto una loro lettera. Finalmente! A Sulmona nessuna, di quelle che i familiari gli avevano scritto, era arrivata dall'Austria. Tutti gli ospedali militari tedeschi erano pieni di feriti. Si combatteva a sud. Le notizie sulla situazione della guerra e su quella sua personale a questo punto diventavano più caute; ai militari non era consentito trasferire informazioni, neanche indirette; sulla corrispondenza incombeva il rischio della censura e per loro due funzionava anche un'altra censura, giacché non poteva neppure parlare di lei, con il prete come intermediario. Così scriveva, tra le righe, quello che la censura del ricordo gli permetteva di passare. Alludeva a episodi che solo lei poteva comprendere, inscriva particolari che ricordavano i giorni del loro amore. Ricordava, mamma Ada, quando aveva accolto a casa sua un'intera squadra di calcio? E quelle volte che aveva giocato a disegnare con Mino? E i suoceri, stavano bene? Lui sperava di sì. Mai poteva scordare come era stato trattato da loro, in quei giorni. Anche quando... - don Liborio ebbe un'esitazione su una sillaba: giesst... pioveva forte? le chiese; lei annuì - sarebbe dovuto restare in caserma, era potuto andare in una casa amica. Lui aveva nel cuore quei giorni. E lei, ricordava quei giorni di pioggia, Ada? Don Liborio la guardò. Lei fece cenno di sì, arrossendo. La pioggia di cui Helm parlava si riferiva al giorno in cui avevano fatto l'amore per la prima volta. Era una pioggia che solo loro sapevano. Ne parlava in modo vago, ma scavalcando l'interprete - le faceva arrivare un messaggio, sicuro che lei avrebbe capito. Ada si sentì felice. Certo che non aveva mai dimenticato quel giorno, anche se lo ricordava con un po d'imbarazzo.
Era stato il primo in cui si era data all'altro uomo della sua vita; e in cui il fare l'amore era stato da amante, non da moglie. Il fatto che anche lui lo ricordasse lo sollevava da un piano di vergogna. La lettera finiva poco dopo. Non era decoroso impegnare un vecchio prete in un ruolo d'inconsapevole messaggero d'amore. Seguiva un ringraziamento per lui, l'indirizzo dell'ospedale dove Ada avrebbe potuto scrivergli, un augurio di cose buone per tutti e soprattutto di speranza che un giorno lui potesse tornare a rivederli. A questa seguiva una parola, in italiano, sottolineata: aspetta. Le frasi erano ridiventate quelle normali, di commiato, di una lettera. L'ultima parola era diversa. Era molto più di quello che Ada avesse sperato di leggere; o forse era solo quello che voleva, perché chi ama non ha molto più dell'amore dell'altro, da attendere. E lui questo le diceva, in italiano, con la parola che riassumeva tutto: aspetta. Intanto a Sulmona la situazione stava diventando sempre più drammatica. Si percepiva un cambiamento nell'aria. C'era chi diceva che l'intera città e i borghi della conca sarebbero stati sfollati e fatti saltare dai tedeschi, per trasformarli in un invalicabile baluardo di rovine, dove si sarebbero fronteggiati gli eserciti. A questa ipotesi obiettava chi diceva che, se gli alleati avessero sfondato la linea Gustav verso il Tirreno o l'Adriatico, la resistenza del nucleo centrale sarebbe avvenuta sui monti, non nella valle. Ma qualcosa che riguardava la conca doveva esserci nell'aria, perché gli alleati intensificavano i bombardamenti. Non massicci, ma tali da lasciare ogni mese la loro scia di morti, due, tre in uno, quattro, cinque in un altro, dieci, quindici in un altro ancora. Si intensificavano anche i rastrellamenti da parte dei tedeschi, divenuti quotidiani, ma condotti con una ferocia sconosciuta prima. Bastava un sospetto per aprire il fuoco. Chi aveva la sfortuna di non fermarsi a un altolà, magari perché non l'aveva sentito, o perché pensava di riuscire a sottrarsi, veniva ammazzato; quasi ogni giorno, così, qualcuno o più d'uno moriva, in città o nei dintorni. I tedeschi in città si ubriacavano. Abituati alla birra, non reggevano il vino. Faceva impressione vedere quei pezzi d'uomini in uniforme barcollare per strada, o sorreggere un loro compagno. Passavano dall'aspetto truce e inquadrato che avevano durante il giorno, a quello assente e alticcio delle ore di libera uscita, molto ridotte, peraltro, dall'intensificarsi dei continui spostamenti. Si chiudevano nelle cantine, che prosperavano su di loro. Molti avevano capito, ormai, che la guerra era persa. Adesso consideravano una fortuna essere stati mandati nella Conca Peligna, fino a quel momento almeno, scampando alla moria che c'era a est e a ovest. Speravano solo di riuscire a sopravvivere alla guerra. Tra i peggiori c'erano invece i più giovani. Cresciuti in piena propaganda nazista, erano ragazzetti, tanto ignoranti quanto fanatici, forse perché si rifiutavano di guardare la realtà. Ada portava da mangiare agli inglesi, in un involto, ogni giorno. Non li aveva mai visti in faccia, ma li sentiva muoversi e parlare a bassa voce in cantina. Don Liborio li aveva avvertiti che dovevano rimanere in assoluto silenzio, prima, durante e dopo la messa, ma quando si allontanava, aveva cominciato a chiudere la chiesa - come non aveva fatto mai prima con la scusa dei ladri che imperversavano in città, per far sì che i due ospiti si sgranchissero un po le gambe nei locali superiori della canonica. Qualche vecchia baciapile aveva dovuto rassegnarsi a non entrare in chiesa. Ma don Liborio era fatto così, tra il primato del corpo e il primato dell'anima era ben convinto che Nostro Signore avesse dato chiare indicazioni per una teologia di rispetto del corpo, quale sede dell'anima; e ne faceva coerente applicazione. Così, quando Ada se ne andava, gli inglesi salivano. Lei se n'era accorta da alcune cose che lasciavano fuori posto. Non la conoscevano, sebbene il prete avesse detto loro che potevano stare tranquilli; ma li aveva anche avvisati che non dovevano in alcun modo esporla. Se solo cinque anni prima, quando c'era Guerino, avesse potuto immaginare tutto questo! Ora tutto
succedeva e basta. Quel che importava era che don Liborio non le faceva mancare qualcosa da riportare a casa, ogni giorno. E intanto passavano i giorni, ma Ada non si decideva a far scrivere a Helm dal prete. Aveva l'indirizzo dell'ospedale militare di Roma dov'era ricoverato, ma la lettera ci aveva messo tanto ad arrivare e poteva esser stato spostato da un'altra parte; in tempi di guerra tutto era diventato precario, figurarsi i recapiti per la corrispondenza. Si vergognava però di chiedere al sacerdote di scrivere. Così si decise a farlo lei stessa. Gli scrisse due righe in italiano. Dilungarsi non era nel suo stile. Helm si sarebbe fatto tradurre la lettera da qualcuno. Doveva assolutamente rispondergli. Dirgli che anche lei lo aspettava. Erano gli ultimi giorni di maggio, quando decise di andare per orapi. Sarebbe stata la prima ne era certa - e per questo non sarebbe dovuta salire agli stazzi alti. Nessuno aveva potuto raccoglierli, fino a pochi giorni prima, a causa della neve. Gli orapi sono una prelibatezza. Un piatto da ricchi, per la loro rarità. Crescono solo su alcuni monti a mezza quota, non più in basso, e non somigliano a nient'altro, neanche agli spinaci con cui sono imparentati. Spuntano intorno agli stazzi, sul terreno concimato dalle pecore e vanno raccolti appena si scioglie la neve, perché poi in pochi giorni il sole li spiga - come si usa dire - cioè li rovina, indurendoli in punta. Hanno una vita misteriosa, sono erbe del freddo. Dove tutto muore - sulla striscia di terra che copre la roccia, sferzata dal vento gelido - si direbbe che gli orapi siano felici, che traggano, dalla terra non visitata da nessuno, un solitario calore nascosto. Ma occorre saperli cercare, perché si nascondono. Stanandoli, il primo sole toglie loro, con la neve, l'elemento che amano, il freddo letto - così strano in cui sono nati. Ma prima che ciò avvenga, quella verdura, cotta, regala a chi l'abbia raccolta, un sapore e un profumo senza pari; chi dice di spinaci selvatici, chi di cicoria aromatica. Per questa stranezza e rarità, gli orapi sono sempre stati una scommessa in tavola, un piatto che - due, tre volte l'anno al massimo - compare sulla tavola dei ricchi, a fine primavera. Ada veniva dalla montagna e li sapeva preparare benissimo, ma non era per questo che si era decisa, senza dirlo a nessuno, ad andarli a cogliere. Per un paio di giorni non voleva dipendere né da don Liborio né dai suoceri e quelli erano i primi giorni degli orapi. Perciò la sera prima era andata coi bambini a dormire dai suoceri. Doveva alzarsi presto, il Morrone era a qualche chilometro da Sulmona e la raccolta degli orapi l'avrebbe impegnata fino alle prime ore del pomeriggio. Li aveva avvisati di non dire niente ai piccoli, o si sarebbero svegliati e avrebbero cominciato a frignare per andarle dietro, cosa impossibile. La suocera, a sentire che andava per erbe selvatiche, aveva scosso la testa, tristemente; chi l'avrebbe mai immaginato, per la moglie di Guerino; ma non aveva detto niente. Non le pesava alzarsi con la prima luce, ora che le giornate si erano tanto allungate. Non voleva incontrare nessuno e, se prima che facesse giorno avesse potuto trovarsi già sotto alla montagna, sarebbe tornata dopo pranzo, quando la gente sta in casa, evitando chiunque sia all'andata, sia al ritorno. Forse per questo pensiero di alzarsi presto, non aveva quasi dormito. Prima che la luce s'infiltrasse dagli scuri, era già in piedi, a vestirsi in silenzio, per evitare che i bambini si svegliassero. Calzati gli scarponcini da montagna, si era vestita di tutto punto, mettendo nella retina con cui avrebbe riportato la verdura anche un giaccone pesante e una cuffia di lana. Erano indispensabili: sul Morrone il vento poteva girarsi da un momento all'altro e non voleva prender freddo. Si era tirata dietro il portoncino, era uscita. Fuori non c'era nessuno. La città dormiva ancora. Non si sentiva alcun rumore, tranne quello dei suoi passi. Percorse rapidamente le strade verso la periferia dell'abitato, con un po di apprensione. Quando la distesa deserta dei campi le si aprì davanti, per un attimo esitò. Solo una pazza, si disse, poteva incamminarsi da sola verso la montagna, di mattina presto. Ma i passi continuarono a portarla dove aveva
deciso di andare. Dopo un'ora e mezzo era già sul primo tratto del sentiero che saliva al monte. Si era proprio fatto giorno adesso, ma l'erba ai lati della strada di terra battuta era ancora coperta di guazza. La luce, le piccole pozzanghere che evitava, giacché il sole non aveva ancora la forza di asciugarle del tutto, le ricordarono le volte che era venuta qui con Rino. Anche allora ci venivano insieme, la mattina presto. Rino era ghiotto di orapi e quando stava ancora bene pensava lui ad andarli a prendere. La raccolta lo impegnava più giorni, per i quali si prendeva apposta il permesso dal lavoro. E qualche volta, se la giornata era bella, ci portava anche lei. La faceva montare sulla canna della bici e cominciava a pedalare, lasciandosi Sulmona alle spalle; ogni tanto, per scherzo, le prendeva i capelli tra le labbra e glieli tirava. Arrivati sotto al Morrone legavano la bici a un albero in un punto nascosto dietro un cespuglio e cominciavano a salire. Salivano, salivano, compiendo, quasi ogni anno quello strano rito su per la montagna tra le pozze di neve sciolta e la prima polvere estiva del sentiero. Sotto al monte, le case diventavano puntini, da cui più nessun rumore veniva. La prima parte della salita finiva quando arrivavano a una roccia sporgente, non schermata da chiome d'albero, da cui lo sguardo poteva abbracciare tutta la conca, punteggiata dalle linee bianche dei paesi; dalla linea che era Sulmona, a vari chilometri, emergeva appena un esile stilo, il campanile altissimo dell'Annunziata. Allora le rocce che nessuno era andato a trovare, per tutto l'inverno, gioivano, facendo scintillare grumi d'arcobaleno, nell'ultima neve, per i visitatori di primavera. Il vento gioiva, facendo finta di rubare loro la cuffia di lana con un'improvvisa raffica, per portarsela a giocare oltre le cime. L'acqua del torrente gioiva, garantendo che il greto non avrebbe più crocchiato di ghiaccio, sotto i piedi, e presto si sarebbe coperto di erba soffice. E gli orapi soprattutto - gioivano per il loro momento di gloria, parlando con la voce di Rino, che diceva: «Forza, che tra un po li troviamo. Sbrighiamoci però. Su in cima può sbucare una nuvola nera, quando meno te l'aspetti, e gelare il vento» Così li trovavano e li raccoglievano. Lo facevano in silenzio, a volte distanziandosi di qualche decina di passi, ma senza perdersi di vista, per paura: la montagna, lassù, aveva grandi magie e poteva inghiottire uno di loro, lasciando l'altro a cercarlo per sempre. Ogni tanto, uno andava a mettere sotto il naso dell'altro un mazzetto più grosso, fiero di stupirlo, stringendo tutte quelle punte vellutate dai riflessi quasi viola, là dove più si addensava la vita. Finita la raccolta in un certo punto, legavano gli orapi con delle cordicelle che s'erano portati e li lasciavano, in modo da riprenderli al ritorno. E continuavano a salire. Non era solo per gli orapi che andavano fin lassù. Ada l'aveva sempre intuito, ma ora ne era certa. Ci andavano per ritirarsi dal mondo, senza dichiararlo. Col fiatone, con le guance rosse, cercavano ogni anno di arrivare più in alto, contemplando tutte le cose piccole e senza suono, da lassù, come se un angelo li avesse sollevati verso il cielo, con la scusa della verdura. Poi, passati i momenti dell'incanto, riscendevano. Lui davanti, lei dietro. Tornati a Sulmona, Rino andava sempre a regalare un po di orapi ai suoi. Erano gente della valle, non della montagna e li preparavano in modo diverso da Ada, saltandoli in padella per condirci la pasta. Anche Ada li usava qualche volta per condimento, ma ci metteva insieme la ricotta, con la quale il loro sapore si esaltava; l'amaro e il dolce si compensavano al meglio. Si finiva sempre per mangiarli sia da loro, sia dai suoceri. Mettendosi in bocca la prima forchettata, in un'attesa mistica di piacere, Rino aspettava che liberassero il loro gusto amaro e aromatico per ripetere un antico proverbio di Sulmona: «Dove sta pax e dominus vobisco, non mancano carne, vino e cacio... frisco; ma questi, oggi, non se li mangia neanche il
vescovo!» E si batteva il petto, orgoglioso, con la mano: «Qua non mancano, grazie a 'sto fesso, che li va a raccogliere sopra alla montagna» Ada, nei tre anni prima, non aveva voluto ricordare quei giorni di luce sul monte e quei pranzi di fine primavera con gli orapi. Erano tra i ricordi più dolorosi. Fu accontentata dal poco tempo che ci volle a raccoglierli. Era veramente la prima che andava lassù e li trovò anche a quota bassa. Non guardò la conca verdissima, incastonata come uno smeraldo nella corona dei monti. Passò in fretta davanti allo spuntone di roccia su cui era solita fermarsi, non erano più tempi di panorami, tenerezza e magia. La valle dall'alto era sempre uguale, ma la vista mentiva. Laggiù c'erano fame, paura, bombardamenti, morti ammazzati e tanti stranieri, che da una parte e dall'altra dei monti si erano ritrovati proprio lì, per uccidersi e uccidere. Per un momento sentì di odiare tutti, tedeschi e alleati. L'unica cosa che avrebbe rivoluto era la vita di prima. Raccolse gli orapi imponendosi di non pensarci. All'una, ubriaca di stanchezza, era già ai piedi del monte, con due retine stracolme. Passò davanti al cespuglio e all'albero dove lei e Rino legavano la bicicletta. Adesso, soprattutto, le sarebbe servita, ma non ci sapeva andare. Rino le aveva sempre detto che gliel'avrebbe insegnato, ma non aveva fatto in tempo. Così l'aveva barattata con patate e farina due anni prima. Poi se n'era pentita. Tra qualche anno sarebbe servita anche a Ezio. L'aveva data a poco, lo sapeva, ma quando comanda il bisogno di vendere, il prezzo lo fa sempre il compratore. O forse, si disse per consolarsi, la bicicletta non le sarebbe servita. I tedeschi certe volte requisivano anche quelle. Magari gliel'avrebbero presa. Comunque era inutile stare a rimuginare adesso anche sulla bicicletta che non c'era più. Alle Marane, le chiese gli orapi un contadino che conosceva di vista; chissà a quanto li avrebbe rivenduti il giorno dopo al mercato. Ne barattò una retina con mezzo caciocavallo e una bottiglina d'olio. Alle due era alle prime case di Sulmona. Cucinò tutti gli orapi la sera stessa. Li fece saltati in padella e li mangiò coi suoceri. E forse fu merito della lunga attesa di quell'erba sotto la neve più alta degli ultimi anni, o del ramoso aglio di Sulmona - molto contribuì la fame - sta di fatto che quegli orapi vennero giudicati, dai suoceri, i più buoni che avesse mai preparato. Perfino i bambini, che di solito facevano storie per la verdura, li mangiarono di gusto, come due lupetti; per loro ci aveva sciolto sopra il caciocavallo. S'era capito: il giorno dopo, se il tempo l'avesse permesso, sarebbe risalita per orapi. Si sentiva tutti i chilometri e tutto il sentiero fatto nelle gambe, ma stavano mangiando un piatto da re: quando stava a Pietransieri, aveva sentito dire che perfino il principe Umberto in visita a Roccaraso li aveva chiesti. Ce n'era per un altro giorno, ma disse ai vecchi di non toccarli, che doveva sdebitarsi col prete. Poi, morta di sonno, si svestì e andò a buttarsi sul letto. Prese subito sonno. La mattina riusci all'alba. Passò in canonica, lasciò l'insalatiera con gli orapi sul tavolo e si scusò con il prete dicendo che non si sarebbe fatta vedere fino al primo pomeriggio, perché tornava a raccoglierli; a portarli giù in cantina agli inglesi, oggi avrebbe pensato lui. Si avviò verso il Morrone, risalì il sentiero e alle undici e mezzo cominciò a riempire le retine; riscesa ai piedi del monte, le poggiò un attimo per riposarsi. Era vicina all'albero della bici. Il giorno prima non l'aveva degnato di uno sguardo, adesso scostò il cespuglio, per guardarlo. C'era ancora, era anzi cresciuto; Rino non si sentiva mai sicuro, quando gli legava attorno la catena della bicicletta, diceva: se la vedono, spezzano questo alberello e se la portano a spalla; ma non era mai successo. Be, adesso sarebbe potuto stare tranquillo, pensò, il fusto era diventato un tronco; avrebbero dovuto usare l'ascia per tagliarlo. Ma l'aver varcato
il cespuglio non fu solo causa di ricordi tristi. La premiò la vista - che accolse con un'esclamazione di gioia - degli asparagi selvatici. Là dietro non li aveva visti nessuno. Per un attimo, mentre cominciava a raccoglierli delicatamente, pensò che fossero un regalo del passato. Ce n'era un altro in arrivo, che riguardava il futuro, ad aspettarla in canonica, quando vi entrò, stanchissima. Il regalo più bello e insperato che potesse pensare. Un biglietto di don Liborio le diceva di affrettarsi a casa dei suoceri, dove lui aveva appena accompagnato Helm Habichter. Era tornato! Rilesse il biglietto, mentre il cuore le si dilatava di felicità, più volte, per essere sicura di aver capito bene. Lo piegò, lo mise in tasca e scese in fretta le scale, tirandosi dietro l'uscio senza star attenta ai rumori che potevano venire dalla cantina, come faceva di solito. Forse era tardi, lui se n'era già andato! O forse no, forse avrebbe fatto in tempo a rivederlo, anche per pochi minuti, prima che tornasse al Comando. E come aveva fatto a tornare a Sulmona? si chiese, mentre correva per strada, il petto che si sollevava sotto il maglioncino! Passando davanti a casa sua, pensò per un attimo di entrare a darsi una rinfrescata alla faccia, ravviarsi i capelli, lavarsi almeno le mani, verdi di due giorni di raccolta; ma no, non c'era tempo e non si sarebbe perdonata mai di averlo lasciato andar via per una stupida preoccupazione. Col cuore che le batteva forte, girò la chiave ed entrò a casa dei suoceri. Helm stava seduto accanto a Gattina ed era bellissimo. Con l'arrivo del caldo, doveva essersi rasato i capelli, che proprio adesso avevano cominciato a riaffacciarsi sulla testa. Le sorrise appena la vide, si alzò e, appoggiandosi alla sedia dov'era seduto Ezio, la abbracciò e la baciò sulle guance. Non era più il tempo dell'imbarazzo, era il tempo della verità. Di far vedere a tutti che la amava. Il suocero, la suocera e don Liborio rimasero interdetti. Era poco più di un abbraccio di riconoscenza, perfettamente naturale dopo la lunga assistenza in ospedale. Eppure non era così. Quel gesto era un'ammissione, un riconoscimento di cosa lei rappresentava per lui. Ada arrossì. Guardandosi intorno capì che gli era stato riferito qualcosa di ciò che stava passando, a causa della sua storia con lui, e della sua condizione di difficoltà. Helm non aveva le stampelle. Aveva ripreso a camminare, ma il suo passo era incerto. Lo vide passare cauto tra le sedie della cucina e piegare con prudenza il bacino, prima di rimettersi a sedere. Don Liborio intercettò quei pensieri: «Non cammina ancora bene. E' venuto qui con un Beiwagen, la moto col passeggero a fianco, portato da un compagno. Tuo suocero poi è venuto ad avvisarmi. Il soldato passerà tra un po a riprenderlo. Riparte dopodomani. Si è rimesso la divisa, ma non è ancora uscito dall'ospedale, a Roma. Sta in un presidio militare là dentro, si occupa dell'accoglienza dei ricoverati, ne stanno arrivando a migliaia dal Sud. Ha ottenuto di venire qui solo oggi, con un camion che recuperava i feriti. Sai, ce ne sono tanti da portare a Roma, a parte quelli che stanno morendo qui intorno. Forse lo congedano. Non possono tenerselo in ospedale in queste condizioni. Comunque se ne deve andare da Roma. Il papa ha chiesto che Roma sia abbandonata dai tedeschi. Ma lo vogliono anche loro, con quello che sta succedendo dappertutto» Le parole di don Liborio si persero nell'aria, tranne che per quello che aveva detto prima: riparte dopodomani, Ada gli fece, tramite don Liborio, le domande che voleva rivolgergli: come stai? fai progressi? hai difficoltà a camminare? e gli rivolse gl'incoraggiamenti che si fanno sempre, anche quando non si ha alcuna base per farli: vedrai che ti rimetterai, tornerai a trovarci e anche a vedere le partite a pallone: parola magica, in grado di mettere subito in moto l'interesse dei piccoli, i più sinceri nella loro deliziosa non comprensione del tutto: quando rigiochiamo con Spuk? e con Ingo? Ingo in porta? presero a chiedergli. Helm s'intristì: «Ach, vielleichtà forse Spuk sì. Ingo...» completò la frase in tedesco, rivolgendosi a don Liborio per non farla sentire ai bambini. «... Ingo è morto. L'ho saputo stamattina. E' stato ucciso in montagna. E' sepolto qui, a
Sulmona.» Don Liborio annuì, come se stesse ricordando qualcosa; forse aveva detto lui due parole quando l'avevano seppellito nel piccolo cimitero tedesco, che stava riempiendosi di croci. Povero Ingo. Non avrebbe fermato più palle in porta con acrobatiche parate; ad aprile aveva fermato, di testa, l'ultima palla, vicino ad Alfedena; una palla d'acciaio da mezzo centimetro, fabbricata a Longwall, Birmingham, England, sparatagli dal mitragliere di uno Spitfire, insieme ad altre dieci in cinque secondi; con la quale avrebbe avuto fine per sempre la sua gloria sui campetti fangosi di tutto il mondo. Don Liborio evitò di tradurre. Negli occhi di Ada, nel suo sorriso, c'era una domanda che non avrebbe fatto mai: sei venuto per me, che vorresti dirmi, anche se non puoi? Allora - per quello strano gioco dell'amore, che accelera la comprensione di tutto - Helm chiese a don Liborio di tradurre. «Il mio camerata può arrivare da un momento all'altro a prendermi e io devo dire una cosa prima che arrivi. Ringrazio tutti voi per quello che avete fatto per me, ma non è per questo che sono venuto. Io... certo, volevo rivedere Ada... ed Ezio e Wilhelmino, ma sono qui, mi sono fatto mandare qui apposta, perché volevo dire una cosa. Non è questo il momento di dirla, ma quando ricapiterà un'occasione? La guerra, ach...» scosse la testa, malinconicamente, dando tempo al prete di tradurre l'ultima frase « ha tolto sicurezza a tutto. Nessuno di noi sa se vivrà o morirà. Io sono venuto qui oggi a dire che...» prese la mano a Ada, e la strinse in un gesto, che la fece arrossire all'istante; e quello che seguì fu peggio, pronunciando poche parole in italiano «.io folere sposare Ada. Lei mia moglie. Se mi folere. Qvando guerra finisce, io tornare di O-strri-ah. Qvesto... Ehrenwort...» «... Parola d'onore...» tradusse il prete in un soffio. «...di Wilhelm Habichter.» Lo disse gonfiando il petto e toccandosi il cuore solennemente. La guardò negli occhi. «Io tornare! Tu aspetta me.» Aveva lasciato tutti senza parole. Tra un attimo sarebbero seguite quelle di circostanza: che la proposta gli faceva onore, che lui era un bravo giovane - se avesse parlato il suocero, nessuno avrebbe potuto impedirgli di aggiungere: «Malgrado che sei tedesco» - e che per il momento, come aveva detto lui, bisognava pensare a far finire la guerra; erano tempi duri, chissà cosa li aspettava. Ma c'era bellezza in quel momento assurdo: chiedere in sposa Ada tenendole la mano davanti a tutta la famiglia del suo primo marito e a un prete, non sapendo se sarebbero morti o vissuti. E anche se nessuno sapeva che rispondere, la verità se ne scappò, vergognosa di fronte alla magia. Ada era rossa in volto e aveva gli occhi luminosi. Respirava sollevando il seno e cercando di non farlo vedere, sotto la vestaglietta estiva. Si ravviò i capelli dietro la nuca, per timidezza. Le mani verdi nel biondo erano quelle di una ninfa selvaggia, che viveva tra erbe di montagna. Lo pensarono tutti, non lo disse nessuno: era ridiventata bellissima, da quando aveva ritrovato l'amore, pure in mezzo a tante sofferenze. Poi parlò Ada e diede l'unica risposta che una donna come lei poteva dare: sì. In modo diretto, immediato, inopportuno, perché la legge della sincerità ignora quella della opportunità. Lo fece sapendo di sbagliare, come sempre; lo fece sapendo di fare la cosa più giusta del mondo, perché il suo amore era venuto a chiederla in sposa e non doveva ripartire col dubbio. Disse, guardando negli occhi sia Helm, sia don Liborio, perché traducesse: «Se tu torni, io t'aspetto. Ditegli così, don Libo» E il prete tradusse. Sul volto di Helm si dipinse un'espressione di felicità, rivelata da un grande sorriso; subito inghiottita, tuttavia, dal pensiero che la gioia appena toccata potesse dileguarsi con la guerra, con la morte. Era fatto così. Lottava per raggiungere quello che voleva, senza la minima paura; poi temeva di perderlo. Pronunciò delle parole in tedesco, che neanche don Liborio riuscì a capire. Si era emozionato, per cui scosse il capo, aggiungendo di non far caso a quello che stava dicendo. Poi tacque. I bambini guardavano a bocca aperta
Ada e Helm. Sorridevano anche, ma non erano sicuri di aver capito le cose dei grandi. Poi Mino ruppe il silenzio: «Tu, se sposi mamma, diventi mio papà?» «Sì» rispose Helm, che aveva capito la domanda. «E mi fai giocare?» «Sì.» «E mi fai disegnare?» «Cosa qvesto... disinare?» «Zeichnen» tradusse don Liborio. «Oh, zeichnen! jawohl; sì.» Mino assentì soddisfatto. Andò a cercare di metterglisi su una gamba, da cui Helm, soccorso da Ada, lo scostò subito, perché non poteva permettersi di reggere pesi, lì. Lo tenne in piedi tra le gambe, cingendolo con le braccia. Che strana scena, pensò Ada, per un attimo, col cuore che batteva. Un gigante in divisa, uno straniero, un nemico con le braccia al collo del suo bambino; se l'avesse visto solo qualche mese prima, avrebbe gridato. Mino stava riflettendo. Sembrava vagliare cose che non gli dispiacevano affatto. Tutti gli occhi erano puntati su lui. Alla fine chiese aiuto al fratello più grande. «Tu sei contento?» «Cazzo!» rispose all'istante Ezio, facendo segno di sì più volte con la testa. In tempi normali si sarebbe preso una sberla. Tutti sorrisero, adesso, a sentirlo rispondere così, serio serio. Anche Helm sorrise. Poi si girò verso il prete; non aveva capito: «Cosa qvesto... cazzo?». «Ha detto che anche lui è contento» tradusse don Liborio, senza addentrarsi in spiegazioni e senza riuscire a reprimere un sorriso. Capirono subito che il giorno dopo non avrebbero potuto fare l'amore. Dopo la scoperta della loro storia, dopo la dichiarazione di quel pomeriggio, Ada non avrebbe potuto portare i bambini dai suoceri. Troppe cose erano cambiate. E la suocera ebbe l'idea di invitarlo a mangiare gli orapi da loro. «Facciamogli assaggiare gli orapi» sussurrò a Ada. E Ada non poteva dire di no, perché averlo a pranzo significava rivederlo, prima che ripartisse. Lo invitò quando per strada si sentiva il motore del Beiwagen venuto a riprenderlo; c'era un altro soldato che non conoscevano alla guida della moto, che aspettava fuori a motore acceso. La suocera alzò il tono della voce, come faceva il marito, per essere sicura che capisse l'invito. «Domani vieni a mangiare gli orapi qua. Sai che sono gli orapi? Ah, non li conoscete alla Germania. So buoni! Portati pure il tuo compagno.» Helm capì che lo invitavano a pranzo per il giorno dopo. Quando don Liborio glielo confermò, scosse la testa, dispiaciuto. A ora di pranzo disse - non poteva uscire dalla caserma. Forse, ma solo forse, all'ora del caffè sarebbe potuto passare per un saluto... «E noi ti aspettiamo, a mangiare! Chi ci corre dietro?» lo incoraggiò il suocero. Helm sorrise. Non voleva che aspettassero lui, ma era contento. «Be» fece Ada «si potrebbe anche far mangiare prima i bambini e poi noi aspettare lui... per farglieli assaggiare.» A questo punto la parola orapi era stata detta tante di quelle volte che Helm fece una domanda. «orapi... Gemüse? verdura?» domandò al prete... Se gli italiani davano tanta importanza a questa verdura, doveva essere speciale. «Cosa ferdura?» voleva sapere di quale verdura si trattava. Ezio e Mino non persero un istante. Corsero subito a prendere un ciuffetto d'orapi da fargli vedere; fu necessario separarli, giacché avevano preso a spingersi l'un l'altro per arrivarci prima; alla fine gliene portarono un mazzetto ciascuno. «Ah!» esclamò il tedesco, riconoscendoli. «Eiszichorie! Io capire! Anche mio paes-se qvesto» disse facendo salire la mano sopra la testa, per dire che sapeva quanto in alto bisognasse salire per raccoglierli. «Troppo oben... montagna. Eiszichorie.» «Eh, bravo, 'a cicorie, 'a cicorie» assentì il suocero, che aveva sentito il dialetto di Sulmona nella parola tedesca che indicava gli spinaci del ghiaccio. Mino cominciò a dirgli a che ora doveva venire a mangiare gli orapi, il giorno dopo; il fratello, sentendosi scavalcato dal piccolo, gli scrisse subito dei numeri su un foglietto.
Helm emise uno dei suoi sospiri pieni di "a". Prese la matita dalle mani di Ezio e «Vielleicht...», mentre scriveva "4" sul foglio. «Ah no. E' tardi!» fecero all'unisono i bambini, delusi dal fatto di non poter pranzare con Helm. Ada si affrettò a intervenire per dire che andava bene, e anche il suocero l'anticipò. «Non stare a sentire i bambini, Helm. Certo che va bene. Vieni quando puoi. Ti terremo gli orapi in caldo per farteli assaggiare.» «E perché non viene a mangiare?» chiese Mino. «Perché è un soldato, ninni. Prima non lo fanno venire» rispose il vecchio. «Prima deve fare la guerra?» «Deve fare le cose sue.» «Deve fare la guerra anche quando le scuole sono chiuse?» insistè il piccolo; con la chiusura delle scuole, era giusto che tutto il mondo andasse in vacanza. «Eh. In qualche modo. Pure durante le vacanze.» «Be, non saranno come quelli che preparavamo gli altri anni» disse il suocero. «Manca il cappone, da accompagnarci.» «Capone, Kapaun?» disse all'istante il tedesco. «Io domani trofare Kapaun, ja. Vielleicht, vielleicht» disse scuotendo la mano, come se non ne fosse sicuro. «No...» si schermirono i suoceri. «Era solo per dire come lo facevamo quando non c'era la guerra... Ma non si trovano più i capponi, di 'sti tempi...» «Io trofare.» Lo guardarono tutti come se avesse detto un'idiozia. Loro conoscevano la situazione a Sulmona e in tutta la conca. Con l'arrivo di tutti gli sfollati, era ulteriormente precipitata. Se non si voleva essere risucchiati fino al midollo dai contadini incarogniti al mercato, tutto quello che si poteva trovare di carne erano le risicate razioni delle tessere della Se. Pr. AL, la Sezione Provinciale per l'Alimentazione, che tutti chiamavano "la Sempre" Bisognava prenderne non più di un certo peso. Solo per i malati si aveva l'autorizzazione, se c'era un certificato medico, ad averne un po di più per un certo periodo. Poi ai contadini era stato impedito di vendere carne al mercato. Potevano solo "conferirla" alle macellerie autorizzate, per farla macellare. Ma il prezzo al mercato nero era talmente superiore a quello - fissato con un nuovo bando - del macello pubblico, che ci si metteva d'accordo con lui. Così le macellerie autorizzate funzionavano con un doppio giro. La carne scadente, che non si trovava mai, per i poveracci; e l'altra, "andata via presto, purtroppo" al nero. Non serviva presentarsi nelle macellerie a orari impossibili, anche prima dell'alba. Chi esibiva la tessera, trovava gli scarti, e a che prezzi: cinquanta lire al chilo per la "polpa assoluta", quaranta per il "netto di testa", che era poi il cervello. Si arrivava appena a comprare la "testa con cervello", a dieci lire, ma era tutt'osso. Così chi aveva poco, trovava impossibile anche il prezzo fissato; chi aveva disponibilità, non aveva problemi al nero. Ma un cappone di quei tempi era un sogno per poveri e per ricchi. Si sentì un giro di manetta fuori, di quello al Beiwagen, che sollecitava la partenza. «Domani... hier, qvi» confermò Helm andandosene. «Tu mamma Ada fare kapone, ja? Io mandare prima.» Mamma Ada, aveva detto. In pubblico, rivolgendosi a lei, quasi sempre la chiamava così, pensò Ada. Il suocero sorrise: «Che hai detto? Che porti un cappone domani? Sì, come no. Beato te! E perché non due?» «Zwei?» chiese mostrando l'indice e il medio; non aveva inteso assolutamente l'ironia; si morse il labbro inferiore con quell'espressione che assumeva ogni tanto, come se volesse essere sicuro di aver capito bene e capire gli costasse fatica; fece cenno di sì con la testa per incoraggiarsi. Tagliò corto: «Zwei Kapaune, jawhol, irgendwie... uno modo io mandare prima». Ada intanto cercava di dirgli di non pensarci proprio; non li avrebbe trovati. Lo disse perfino don Liborio: «Sì, come no. Pensa di trovare due capponi, questo». «Don Liborio, voi naturalmente siete il primo invitato domani, non mi farete la scortesia di mancare, vero?» disse la suocera; era un modo di richiedere una sua presenza protettiva. «Lo diremo anche alla mia consuocera e alla sorella di Ada coi figli.» No, il prete non aveva
pensato di mancare. La situazione era troppo delicata. Farlo, inoltre, avrebbe significato condannare quella gente a un dialogo tra sordi. Helm intanto aveva raggiunto la porta. Si trattenne fuori qualche istante a salutare don Liborio. Lo fece apposta, per farsi vedere, dato che il Beiwagen non era passato inosservato ai vicini. Era per lasciar intendere loro che in quella casa poteva entrare a testa alta, quando c'era tutta la famiglia e pure un prete. Il primo a presentarsi il giorno dopo, verso mezzogiorno, fu proprio il soldato con il Beiwagen. Ci mancava un altro tedesco, pensò Ada, a presentarsi da lei, con quella moto rumorosissima. Non entrò, disse solo due parole: «Frau Ada», ma le disse tante di quelle volte, rifiutandosi di consegnare alla suocera il pesante involto poggiato sul manubrio, che Ada dovette affrettarsi alla porta. Scese, aprì l'involto e dentro c'erano neanche a dirlo - due capponi. Enormi. Ada avvertì l'esigenza di farli sparire. Non osava pensare a come se li fossero procurati. Nello stesso tempo, il tedesco le diede un biglietto di Helm per farglielo leggere. C'erano scritti cinque nomi e una domanda: "Helm, Horst, Walter, Spuk, Furz. Sì?". Le chiedeva se oltre a lui e al pilota del sidecar, poteva portare anche Walter, Spuk e Furz. Dire di no sarebbe stato impossibile per educazione, per raffronto con il regalo portato e soprattutto a causa delle urla di giubilo con cui i figli accolsero i nomi di Spuk, Furz e la notizia della ricostituita nazionale tedesca, in trasferta a casa loro. Ripartito il soldato, la famiglia si raccolse in contemplazione degli ultimi due capponi della Conca Peligna. Ada e la suocera si misero a prepararli. Per farsi aiutare, mandarono a chiamare anche Antonina. Poi Ada si ritirò per un po a prepararsi. Era il giorno in cui si sarebbe salutata con Helm e voleva apparirgli carina. Si sciolse i capelli, e poco prima delle quattro si mise la vestaglietta buona a pois, che del resto era l'unica non rammendata. Alle quattro arrivarono anche sua madre e i nipoti. Tutto era pronto e sulle frissore grandi finivano di rosolarsi due leccornie, gli orapi e i capponi con peperone e cipolla. Poi arrivarono i tedeschi. Una compagnia da far impressione. Non c'erano solo Helm - con l'espressione molto imbarazzata, mentre scendeva piano dal sidecar - e gli altri quattro annunciati. Ce n'erano altri quattro. Si erano tutti incamminati prima e dovevano aver aspettato che arrivasse lui con la moto. Complessivamente nove tedeschi. Una compagnia, un battaglione, tutta la Wehrmacht di stanza nella Conca Peligna: un'uniforme dopo l'altra, una faccia imbambolata dietro l'altra - età media vent'anni nell'unico ricevimento per il quale una casa abruzzese per bene avesse dischiuso loro le porte, in otto mesi. Vedendoli tutti in gruppo davanti all'ingresso, neanche il suocero poté trattenersi dal dire, riferendosi a Helm e Spuk: «L'avevo detto io ch'erano scemi. Guarda quanti se ne sono portati». Ma un minimo d'imbarazzo dovevano averlo avvertito anche loro, perché nessuno era venuto a mani vuote. Ognuno aveva qualcosa. L'approvvigionamento della Wehrmacht era noto per la sua efficienza. Zucchero, sale, qualche chilo di fagioli e lenticchie, margarina, moltissime uova e un salame intero si depositarono all'atto stesso dell'ingresso sul tavolino del soggiorno, fino a quando fu necessario liberarlo per poggiarci due enormi pagnotte, elemento indispensabile della tavolata: tutto rigorosamente sottratto alla fureria germanica. La quale, in precedenza, l'aveva rigorosamente sottratto agli italiani. Per quanto si sforzassero di essere educati, come era stato loro raccomandato, bastava una battuta detta da qualcuno, che interpretava l'atmosfera di quell'attesa di festa, per provocare rumorose risate collettive, che si sentivano benissimo fuori. Una sillaba di Helm, ogni tanto, li
costringeva a riabbassare il tono, ma durava poco. Per fortuna arrivò don Liborio. Ada e la suocera fecero un gesto con la testa, per lasciargli intendere ch'erano sorprese quanto lui di tutti quei soldati, ma non potevano farci niente. Se don Liborio fu sorpreso di vederne tanti, e certamente lo fu, non lo diede a vedere. Passò in mezzo a loro dicendo «guten Abend» Era abituato a trovarsi in mezzo ai tedeschi, per la sua presenza al Comando. Alcuni ragazzi lo conoscevano e gli risposero; altri si meravigliarono di sentire la loro lingua. Il prete aveva appena cominciato a chiacchierare con loro - chiedendo come ti chiami, da dove vieni, o altro - che Helm gli si mise davanti per scusarsi di averne portati tanti. Gli fece cenno di andare con lui in cucina e, siccome di sedie non ce n'erano abbastanza per gli altri, con due parole li mandò tutti fuori casa, dicendo che li avrebbe chiamati quand'era pronto; era impensabile che un pezzettino di cappone con gli orapi bastasse per tutti e le donne avevano già suggerito di aggiungere delle grandi frittate. I bambini approvarono e seguirono i tedeschi con un pallone tra le mani. Don Liborio si accorse dell'espressione preoccupata delle donne. Non poteva tenere un esercito in vista all'aperto. Fece cenno allora al suocero e propose al tedesco di uscire a fumare. Helm si affrettò a offrir loro una sigaretta e uscirono ad accendersela fuori. La tonaca in mezzo alle uniformi era rassicurante, era quello che bisognava mostrare: a una strada dove da ogni casa, dietro le finestre, si osservava quella riunione da Ada. Lei era agitata. Troppe cose insieme: ieri la richiesta di sposarla da parte di Helm; oggi tutta quella gente che avrebbe finito per distruggere definitivamente la sua reputazione; il prete a mettersi in mostra fuori per dimostrare il contrario; la necessità di preparare alla svelta per un esercito. L'ultima preoccupazione, più urgente, finì per scacciare ogni altro pensiero. Erano quattro donne e dovevano pensare a una ventina di persone. Il salame, il pane vennero subito affettati al centro della tavola. Tutti gli orapi che non erano stati cotti vennero sfasciati, passati in fretta in acqua e buttati in padella. In due insalatiere, intanto, la madre rompeva forse sessanta, settanta uova, tutte quelle portate; parte sarebbe andata con gli orapi e il cacio grattugiato, il resto sarebbe finito in altre padelle con il lardo e i peperoni, per farne grandi frittate. Tutti avrebbero avuto il loro piatto di verdura, un assaggio di cappone, frittata, pane e salame. Peccato non ci fosse un po di vino. Ma era già molto, quello che poteva esser messo in tavola, per tutta quella gente. E invece proprio in quel momento, ecco, due coppie di vicini, che sicuramente fino a poco prima avevano seguito a bocca aperta la scena dell'arrivo dei tedeschi, si avvicinarono a don Liborio. Ada capì che non ce l'avevano fatta a trattenere la curiosità. La scena del prete fra i tedeschi a casa sua era troppo. Alla fine, erano venuti a constatare di persona. Erano dei vecchi: due li conosceva bene, gli altri dovevano essere loro amici. Nuovi ospiti. Ada e la madre uscirono a riceverli. «Venite, signora Dora, venite» disse alla vecchia che conosceva. «Eh, stiamo preparando qualcosa per questi tedeschi che don Liborio ha fatto venire qua... sapete, lui parla la loro lingua. Accomodatevi, accomodatevi. C'è anche mia suocera, dentro, che sta ai fornelli con mia sorella Antonina.» Li invitò ad assaggiare quello che stavano preparando, sebbene i vicini sgranassero anche più gli occhi, per la curiosità, vedendo quattro donne intente a cucinare, di pomeriggio, per tutta quella gente; vedendo i capponi cotti, soprattutto. Imbarazzati, dissero che si sarebbero fermati un attimo, ma accettarono di entrare; Ada insistette perché si mettessero a sedere. Appena dentro, si accorsero che mancava il vino. Il vicino anziano scambiò
un'occhiata con la moglie. Si alzò e uscì con l'altro vecchio. Ricomparvero dopo pochi minuti, ognuno con una damigianetta in mano. L'arrivo del vino fu salutato con grandi esclamazioni dai soldati. Niente adesso mancava in tavola. Sedie non ce n'erano abbastanza, forchette per fortuna sì, e i tedeschi in piedi si tennero in equilibrio i loro piatti d'orapi fumanti, fino a quando il primo fece il gesto più naturale. Si sedette per terra, con la schiena al muro, imitato da tutti gli altri. Ada guardò quei ragazzi sulle sedie o, in gran parte, col sedere per terra. Le sorprese di questi giorni non si possono raccontare, pensò. Non era ancora finito il primo giro di piatti, che già - tra sillabe di profondo apprezzamento alcuni si rialzavano col piatto a chiederne ancora. Ma era calato uno strano silenzio. L'alzarsi a prendere altra verdura era diventata una cosa serissima, nessuno sorrideva più. Stavano assaggiando qualcosa di sconosciuto? No, stavano riconoscendo un sapore familiare; Helm aveva detto il nome, Eiszichorie, di quella verdura, quindi voleva dire che c'era anche dalle parti loro, la verdura che spunta dall'ultima neve. Don Liborio aspettò, poi fece una domanda. Alcuni, tra cui Helm, risposero con voce lenta, annuendo. La domanda del prete era andata dritta a qualcosa che stava attraversando la loro mente. «Ho chiesto perché stavano zitti. Mi hanno detto che il trovarsi qui, anziché in caserma, li ha fatti pensare a casa loro. Anche loro mangiano l'Eiszichorie, gli orapi, in questo periodo. Credo che si siano... commossi a ricordarlo.» Tutti fecero scorrere lo sguardo sui soldati. Commossi chi, i tedeschi? Sì. A guardarli adesso sembravano diversi. Di un altro mondo. Un mondo che doveva essere un inferno, ma nel quale volevano tornare perché era il loro. E di cui bastava un piatto di Eiszichorie a far avvertire la nostalgia. Venne servito un secondo giro di verdura, poi il cappone coi peperoni e un tocco di frittata con qualche fettina di salame. Ma prima fu dato a tutti un bicchiere di vino. I tedeschi lo bevvero di gusto, con due, tre sorsi, che finivano in un grande sospiro di soddisfazione. E riallungavano la mano. Solo dopo aver avuto il secondo bicchiere, tornavano a sedersi al loro posto. Buffo. Nessuno si allontanava, prima, dai bottiglioni dov'era stato appena travasato. Bevevano, non si muovevano e tendevano il braccio aspettando che il bicchiere fosse riempito di nuovo. Sembrano in caserma anche qui, pensò Ada, la vita da soldati dev'essergli entrata dentro al punto che non se ne dimenticano mai; o forse è una caserma tutto il mondo da cui vengono. Poi uno dei soldati fece il gesto di brindare e questo produsse una generale levata di sederi dal pavimento. Erano tutti col braccio alzato, ma restava il problema della lingua, non si poteva fare un brindisi che fosse capito solo da metà dei presenti. Gli sguardi si volsero a don Liborio, che tradusse il brindisi dal tedesco, augurando a tutti che si realizzasse il desiderio che avevano nel cuore. Gli occhi di Ada cercarono quelli di Helm. Lui annuì, impercettibilmente. I bicchieri si sollevarono, i soldati si risedettero, chi aveva da finire qualcosa nel piatto la finì. Qualche doveroso rutto, più o meno trattenuto, alcune incomprensibili frasi di complimenti alle cuoche, poi tutti tirarono fuori i pacchetti di sigarette; il figlio maggiore di Antonina si prese dalla madre uno schiaffo sulla mano, per averla allungata verso un tedesco che gliene offriva una. I soldati si accesero le sigarette in fretta passandosi i fiammiferi, uno ogni tre, l'ultimo più in fretta degli altri, mentre i bambini lo osservavano per vedere se riusciva a non scottarsi; quando fu il suo turno, Helm fece finta ovviamente di scottarsi, emettendo una serie di suoni buffi. Dopo qualche minuto, il lampadario si allargò e si sciolse in anelli di fumo, densi al punto
che fu necessario chiedere di fumare fuori, in attesa del caffè, o nessuno avrebbe dormito quella notte. Uscirono in fila uno dopo l'altro. Le finestre furono tutte spalancate, per rinnovare l'aria. Nel fumo che l'aria, entrando, cancellava, restò sospesa per qualche istante un'immagine d'allegria dentro una festa impossibile da chiamare così, con amici vestiti da nemici, armati di piatti e bicchieri. Don Liborio uscì per ultimo con Helm e andò a mettersi con lui un po più lontano degli altri. Ada li guardò attraverso la tendina. Che stavano dicendosi? Sarebbe riuscito il prete a parlare - di lui e di lei - in un'occasione tanto affollata? Perché l'intenzione con cui si erano appartati non poteva essere che quella. Cosa gli avrebbe detto, di rispettare la parola data? Lei non voleva che glielo chiedesse. Vide Ezio avvicinarsi a loro e fu contenta, anche se forse il bambino interrompeva un discorso serio... Parlava di rigiocare a pallone, appena Helm fosse guarito. E gli altri? chiedeva. Sì, anche gli altri. In che ruolo? Poteva sceglierlo lui? Sì. E avrebbero fatto giocare anche i bambini? Sì. Lui poteva anche arbitrare? Sì. Helm rispondeva sorridendo. Non voleva dirlo a se stessa, ma sarebbero stati bene tutti insieme, se davvero fosse stato possibile, un giorà Le si gelò il sangue a sentire la domanda che il bambino stava facendo. E gli inglesi che mamma gli fa da mangiare, in che squadra li mettiamo? Oddio! pensò Ada con un colpo al cuore. Vide Helm sollevare all'istante la testa e guardarsi intorno. Si voltò istintivamente verso i compagni. Non era probabile che avessero capito la frase in italiano, se anche l'avessero sentita; ma potevano aver capito benissimo la parola "inglesi" I tedeschi erano tutti presi a fumare e nessuno diede segno di reazione. Anche don Liborio aveva la faccia preoccupata. Si allontanò di qualche passo con il bambino, per impedirgli di parlare. Ada uscì. L'istinto di protezione del piccolo prese il sopravvento su tutto. Passò accanto a Helm, che si guardava i piedi senza dire una parola. Prese Ezio per mano e si spostò verso la strada. La situazione era grave. Tutto dipendeva da quello che sarebbe successo nei prossimi secondi. Se qualcuno avesse cominciato a urlare "ci sono inglesi, qui?" o qualcos'altro, quella serata si sarebbe trasformata in una tragedia. Don Liborio evitava di guardare i tedeschi. Per la prima volta le sembrò che non sapesse come comportarsi. A quel punto un tedesco si avvicinò a Helm, che continuava a guardare per terra. Ma non gli chiese nulla, passò oltre, si diresse verso lei ed Ezio. Helm guardò freddamente il compagno. Doveva essere uno di quelli che conosceva di meno, o forse era di un grado superiore, perché sennò gli avrebbe fatto velocemente una domanda, per capire che intenzioni aveva. II tedesco si avvicinò a Ada, mentre gli altri lo guardavano. «Frau Ada» disse. «Noi no cattivi, hier però italiani no buoni con tedeschi...» Don Liborio interruppe la frase, dicendo di parlargli in tedesco. Il soldato gli si rivolse con una serie di frasi dal tono crescente. Il prete rispondeva annuendo. Il soldato sembrava sempre più irritato. Nominava Frau Ada, Sulmona e alzava la voce per farsi sentire dai compagni. Stava... minacciando, voleva farsi sentire da tutti gli altri camera... No. No. Grazie a Dio. Non stava minacciando, era l'esatto contrario. Stava scherzando. Era allegro. Un po alticcio, forse. E nell'esatto istante in cui la faccia del prete si apriva a un sorriso che era soprattutto un sospiro di sollievo, ecco che l'ultima frase - una battuta - fece esplodere un coro di risa alle sue spalle, a cui partecipò anche Helm. Con sforzo. «Ha detto... ha chiesto» tradusse don Liborio «se si può aprire l'altra damigianetta... Il vino è il migliore che abbiano bevuto a Sulmona e ce n'è un'altra damigianetta, dice... Kurt,
ti chiami? ma certo che Frau Ada adesso la va a prendere, Kurt. Ha detto che si sente uno scostumato, ma che nessuno degli altri ha il coraggio di fare la richiesta. E perciò lui si prende la nominata di essere lo scostumato del gruppo, ma gli altri sono... dei cacasotto.» Finita la traduzione abbassò la voce. «La Madonna mia, Ada, vagli ad aprì subito 'sta damigiana» l'ultima frase la emise in un soffio. I tedeschi continuarono a ridere, Ada si affrettò in casa con la sorella, tirandosi dietro Ezio. La salvezza, la grazia, il pericolo scampato assunsero la forma degli onori di casa da riprendere. Tutto ciò che seguì sembrò un sogno; meglio, la fine di un incubo. La damigianetta fu versata, in più passate, dagli stessi anziani che l'avevano portata, e finì in cinque minuti, coi tedeschi sempre fermi ad aspettare che il bicchiere teso fosse ancora riempito. Ezio intanto era sparito, mandato dalla madre in camera a prendere una cosa che non esisteva. Ada ci rimase qualche minuto, con l'indice teso davanti alla bocca. Ma non era un bambino disubbidiente, non avrebbe più nominato gli inglesi. Come sapeva di loro? Ci aveva parlato. Incredibile. Quando? Un giorno ch'era andato a trovarla, lei non c'era e li aveva visti. E l'aveva detto a qualcun altro? No. Sicuro? Sì. Helm e il prete intanto rimanevano in disparte, fuori. Non si associarono alla nuova passata del vino. Il tedesco era preoccupato, il prete pure. Parlavano a bassa voce, guardando verso la montagna, con le spalle alla casa, perché nessuno potesse leggere neppure le labbra. Era evidente che Helm si era fatto raccontare tutto. Non gl'interessava un accidente degl'inglesi, che erano a centinaia sui monti e anche in città; ma chi veniva trovato a dar loro ospitalità, veniva fucilato; si rendeva conto, il prete, di come aveva esposto Ada? Poi rientrarono, per non dare nell'occhio. Don Liborio, appena finita la riunione, avrebbe dovuto farsi venire in mente qualcosa per i due in cantina. Ada era certa che Helm gli avesse ingiunto di non coinvolgerla in alcun modo, mai più, in una faccenda del genere. E arrivò il lusso finale del caffè, coi biscottini di pastella su una guantiera. Poi tutti cominciarono ad alzarsi e ad andarsene, dicendo dankeschon e guten Abend. Diedero la mano ad Ada e ai suoi familiari. Sembrò la rassicurazione migliore: quelle stesse mani, c'era da sperare, non li avrebbero fucilati, il giorno dopo. No, per fortuna gli ospiti non dovevano aver sentito niente. S'incamminavano ridendo lungo la strada, seguiti da tutti gli occhi delle case attorno. Don Liborio e Helm si fermarono oltre la porta ancora un attimo a parlare, a bassa voce. Dopo un po dalla strada quello del Beiwagen fischiò. Helm gli fece un cenno infastidito. Ada capì che rientrava per salutarla da sola. Anche lei attendeva quel momento. Poteva essere l'ultima volta che si vedevano. Trovarono un angolo minimo tra la porta e la cucina dove le altre donne stavano sparecchiando. Helm la guardò severamente. Non sarebbe stato un saluto tenero. Era arrabbiatissimo. Zoppicando, con un gesto brusco si tirò dietro la porta, lasciando il prete fuori. Le labbra erano serrate per il disappunto. Le avvicinò la bocca all'orecchio e lei pensò che la baciasse: «Tu... wahnsinnig, tu pazza!» le sussurrò nell'orecchio, toccandosi la tempia con l'indice. «Tu no aiutare inglesi! tu kaputt, tutta famiglia kaputt, se tedeschi sapere!» Poi si staccò da lei, con un sospiro di grandissima deplorazione, come se lei non potesse capire quant'era grave quello che aveva fatto e alzò una mano stizzita verso la porta, in direzione del prete. Ma i suoi occhi, mentre si rimetteva in testa il berretto, allineando la visiera, presero a scorrere il corpo della donna che desiderava. «No. No. No inglesi» disse Ada. «Va bene, va bene. Non ci vado più in canonica a portargli da mangiare. Giuro.» Si voltò gli indici a croce sulla bocca per farglielo capire, ma forse dalle parti sue quel gesto non era conosciuto, perché Helm rimase perplesso e continuò a guardarle le mani. Allora lo abbracciò, pensando che non le importava di essere vista dagli altri e neanche di essere fucilata da lui stesso sul posto; solo che non voleva essere fucilata,
voleva essere baciata, anche lui voleva baciarla e forse era così arrabbiato perché non poteva farlo. Comunque fosse, sapevano tutti e due che poteva essere l'ultima volta che si vedevano e non volevano lasciarsi con parole di rimprovero. Disse lei quelle giuste. Fece un giro nell'aria con la mano. «Passa da dietro al campo. Aspettami. Ti vengo a salutare lì.» «Ja, ja» disse capendo al volo e rinunciando a rimproverarla; con la mano ripeté il giro che aveva fatto lei, per essere sicuro di aver capito dove passare. Poi uscì, salutò tutti rapidamente e si fermò ancora un attimo a salutare don Liborio, per darle tempo di raggiungere il posto stabilito. Ada uscì alle sue spalle e attraversò tutto il campetto dove i bambini avevano giocato a pallone. Lì gli alberi li avrebbero coperti. Sentì il rumore della moto. Helm fece fermare il compagno dove cominciavano gli alberi, perché non la vedesse. Quando cercava di camminare speditamente, si notava anche più quanto zoppicava. Cercava di evitare le buche, i sassi. Prima di raggiungerla, si levò il berretto e lo mise nella cinta; avevano pochi istanti, e la visiera non andava d'accordo col modo in cui volevano salutarsi. Si abbracciarono e si baciarono dietro un albero. I capelli furono foglie, i seni fiori, le mani percorsero tronchi, nessun punto rimase inesplorato. I primi duri frutti d'estate premettero per avere la loro stagione, ma non c'era tempo. Pochi istanti dopo, Helm, col berretto in testa, zoppicava verso il Beiwagen. Sul manubrio, il compagno con le braccia poggiate, fumava guardando dalla parte opposta. Quando Helm si fu seduto, mise in moto e partì. Ada rimase sola in mezzo al campo, a seguire con lo sguardo il suo amore che se ne andava, nascosto dalla polvere sollevata dalla moto.
CAPITOLO 11 Il giorno successivo, poche ore dopo la partenza di Helm per Roma, si cominciò a dire che i tedeschi si ritiravano dall'Abruzzo. Gli alleati erano attestati in massa dietro una sottile linea di monti, nel Molise e nella Puglia settentrionale. Dalle basi aeree nel Foggiano grandi formazioni di Liberator si levavano ormai da mesi per bombardare la parte più alta della linea Gustav, ormai sfibrata, sfaldata e giudicata indifendibile anche a Berlino, dove si riteneva inutile lasciare altre migliaia di morti in Abruzzo. Sul Tirreno, dopo Cassino, il tronco meridionale dell'asse era ormai sfondato. Sull'Adriatico, la battaglia del Sangro aveva dimostrato che anche la parte settentrionale era non difendibile e che il fronte risaliva sempre più a nord. Restavano immani cumuli di macerie, inutili, al posto di quelli ch'erano stati i paesi del Chietino e dell'Aquilano meridionali. Nove mesi di occupazione, stragi, bombardamenti, decine di migliaia di morti, militari o civili, si risolvevano così, presso l'Alto Comando tedesco, in un minuto, con una retrocessione di piombini colorati sulle mappe militari, in direzione dell'Appennino toscoemiliano. La sorte di Sulmona, Castel di Sangro, Alfedena, Scontrone, Roccaraso, Ateleta, Roccacinquemiglia, Quadri, Pizzoferrato, Capracotta e di tutti gli altri paesi non ancora distrutti avrebbe richiesto anche minor tempo, quello di una parola: minateli. In previsione dell'abbandono dell'area, i tedeschi cominciarono dunque a piazzare cariche esplosive sui ponti o su ogni altro impianto di Sulmona e dei dintorni, dopo aver provveduto ad allontanare chi abitava nelle aree adiacenti. Si sfollava così anche da un punto all'altro della città. Da fine maggio, in vista del ripiegamento, stavano confluendo a Sulmona molte altre migliaia di soldati tedeschi che attendevano di essere trasferiti altrove. Spesso arrivavano a piedi, di notte, dopo esser stati lasciati alla periferia dell'abitato da mezzi che si affrettavano a rientrare nelle zone limitrofe, o in Campania o nel Lazio, per caricare altre truppe. Ma non erano più movimenti tranquilli. Nei dintorni s'intensificava infatti l'azione delle bande partigiane, ormai collegate con gli alleati. Fu probabilmente da queste che gli angloamericani seppero della presenza del comandante in capo, Kesselring, a Sulmona. Aveva convocato tutto il comando orientale della Gustav per il 30 maggio al ristorante Italia, nel pieno centro della città, per stabilire le modalità del ritiro. La soffiata arrivò per tempo, gli aerei si levarono subito in volo dalla Puglia; come riferimento del punto da bombardare fu data loro la pensilina del ristorante nella piazza dov'era il monumento a Ovidio. Pochi si accorsero che, a trecento metri, gli aerei avrebbero inquadrato un'altra piazza, molto più grande, anch'essa con una pensilina, la piazza del mercato. Gli aerei arrivarono a mezzogiorno e fu l'inferno nella piazza maggiore. Disorientati dal non riuscire a localizzare l'obiettivo, mitragliarono senza pietà qualunque cosa si muovesse nel vasto quadrilatero cinto da chiese e palazzi, dove c'erano solo sfollati, venditori e compratori; volarono radenti, al punto che gli scampati, poi, raccontarono di aver potuto distinguere le sagome dei piloti. Per quale motivo continuassero a falciare a morte la piazza, pur avendo visto che non c'era un tedesco, rimase un mistero doloroso. Alla fine di quella grandinata di piombo, su di essa giacevano solo corpi inerti. Grande impressione suscitò il racconto della sorte toccata a un poveretto, il cui corpo decapitato continuò a correre per un tratto, offrendo una vista spaventosa, prima di accasciarsi. E anche quello di una madre che aveva fatto scudo ai bambini, salvandoli
col proprio corpo, poi trovato ridotto a brani. I morti e feriti, tutti civili, furono moltissimi. Alla fine dell'incursione, la leggera pendenza della piazza verso punti laterali mostrava, dall'alto, un reticolo di rigagnoli rossi rilasciati dalle carni di uomini e di bestie, raccolti in pozze che si allungavano lentamente tutt'intorno al quadrilatero. La città si chiuse in sé, inorridita. L'azione era stata inutile. Kesselring si era messo al sicuro con tutti i suoi. Ma non era finita. Poche ore dopo, venne dato l'ordine di bombardare tutta l'area centrale della città. Secondo gli informatori, Kesselring si trovava ancora lì. Giunse una formazione di bombardieri più estesa della precedente e la sorte della città sembrò segnata. Si preparava un grande massacro. Miracolosamente però, pochi istanti prima che cominciassero a sganciare, i piloti furono avvertiti che il comandante tedesco non era più in città, per cui fecero ritorno alla base. La città fu salva, ma nessuno sperò di sopravvivere a quel giorno. Nessuno avrebbe creduto che, due settimane dopo, quei balconi affacciati sul sangue, quelle finestre chiuse per non permettere ai bambini di vedere lo strazio delle carni, sarebbero state piene di gente che, tra le lacrime, accoglieva i primi reparti angloamericani e le prime formazioni partigiane. I tedeschi non minarono Sulmona e i paesi dei dintorni. Fecero saltare tutti i ponti, quello che restava della linea ferroviaria, alcuni stabilimenti e, nel dubbio - se potessero servire o no a quelli che arrivavano -, anche molte abitazioni di privati. Poi cominciarono ad andarsene. Lo fecero pochi giorni dopo che si era saputo di un enorme sbarco di truppe in Normandia. Presero a sciamare dalla città dopo il coprifuoco, la sera del giorno di sant'Antonio, e a tutti parve un miracolo del santo degl'impossibili. L'esodo durò due notti. I tedeschi erano decine di migliaia, compresi quelli arrivati negli ultimi giorni. La città, appena faceva buio, cominciava a esser circondata da moltissimi mezzi che si muovevano a fari spenti, poi per ore veniva attraversata da file interminabili di soldati con lo zaino in spalla. Nei punti di raccolta, salivano sui mezzi e aspettavano di dileguarsi nel buio, camion dopo camion. Sfilavano in silenzio, ordinatamente, sicuri di aver perso, sicuri di vincere un'altra guerra a nord, sicuri di dover continuare a combattere, in una vita della quale, forse, l'unica cosa di cui non erano sicuri era che appartenesse a loro. Se ne andarono senza lasciare niente, tranne odio alle loro spalle, come una scia incancellabile. Era giusto. Se fossero rimasti, avrebbero continuato a uccidere, distruggere e razziare con la stessa mostruosa normalità con cui vivevano il loro essere in guerra. L'artiglio si ritrasse dunque dalla valle. Sembrava irreale. Sotto il solstizio estivo, un tappeto verde coprì tutta la conca senza più temere di bagnarsi di sangue. Era finita, era finita. Il vento sulle montagne si spostò, per annunciarlo, sopra tutte le cime; ora non sarebbero più state remote e gelide, nel loro manto di neve, ad annunciare sventure in arrivo per la valle. Sarebbero tornate maestose, protettive, benevole, col sole che gioiva tra di loro, accarezzando dall'alba al tramonto - misteriosi profili intagliati nella roccia, che solo lui conosceva e di stagione in stagione andava a cercare, per rianimarli di luce e d'ombra. Quando arrivarono a Sulmona le prime truppe alleate, ci fu un'esplosione di gioia. Erano di tutte le razze: scozzesi, negri, indiani, cingalesi, australiani, nordafricani, con uniformi diversissime e l'aspetto da vincitori, non da sconfitti che si sentivano traditi dagli ex alleati. Raggiungevano la città dai paesi circostanti, accompagnati da gente in festa, tra suoni di motori, clacson, cornamuse e tamburi; accompagnati, soprattutto, dalla certezza che dopo di loro non si sarebbero più sentiti altri suoni, quelli delle sirene per gli aerei in arrivo, e nelle strade sarebbero tornati gli ordinati piccoli suoni, scomparsi, di una vita in pace. Tutta la festa, più che per loro, era per quell'unico, agognato silenzio. Con gli alleati,
precedendoli, scesero dai monti i partigiani abruzzesi. Avevano compiuto azioni impossibili in piena occupazione tedesca, sia all'inizio, sia in seguito, quando le avevano intensificate. Avevano rischiato la vita, perdendola nei monti e nelle campagne, dopo esser stati catturati, imprigionati, processati e condannati; o semplicemente uccisi, senza tutte queste complicate fasi, quando i tedeschi li avevano sorpresi in azione; Kesselring aveva ordinato di considerarli banditi, da abbattere, se non si riusciva a catturarli, appena individuati. Appartenevano a ogni ceto sociale, ricco o povero, colto o incolto, consapevole o inconsapevole della direzione che altri avrebbero impresso alle loro azioni; quell'esperienza li accomunava in una fase che raramente è dato, nella storia, sperimentare e dura solo fino a quando cessano le circostanze eccezionali che l'hanno prodotta. Ma intanto li aveva uniti. E per poco o molto che fosse ciò che ognuno di loro rischiava, rischiavano tutto; non era ancora giunto il tempo dei calcoli e degli opportunismi che, di lì a breve, sarebbero tornati a dividerli, espropriandoli di ciò per cui avevano combattuto. I prigionieri inglesi nascosti dagli abruzzesi spuntarono fuori dappertutto per riunirsi al loro esercito. Non credevano che ce l'avrebbero fatta. Tra i più increduli, due fantasmi inglesi riemersero dalla cantina di don Liborio. Il primo grande segnale di normalità, in un mondo non ancora pacificato, fu l'abbandono della città da parte degli sfollati. Erano tutti ansiosi di tornare alle loro case, di vedere se ne avevano ancora una, di recuperare quello che restava. Il giorno dopo l'arrivo degli alleati, tutti quelli che potevano fecero ritorno a piedi ai loro paesi; nei giorni successivi si organizzarono convogli per chi doveva raggiungere i luoghi più lontani. Le strade della guerra furono ripercorse in direzione opposta da lunghe file di gente o da poche stracariche corriere. Poi riapparvero i generi alimentari e questo fu il segnale più atteso. C'era sempre da spaccare il soldo in quattro, ma la situazione non era penosa come prima. La sorpresa maggiore fu scoprire che solo a qualche decina di chilometri a nord, dopo i Tre Monti di Popoli, c'era tutto un altro Abruzzo, ch'era stato anch'esso occupato e aveva sofferto, con morti e distruzioni, ma non aveva patito a quel modo la fame. Una certa quantità di generi alimentari era sempre circolata e le razzie tedesche non avevano fatto il vuoto. I Peligni rimasero sbalorditi di trovare tanti animali nelle stalle. Vi erano state distruzioni, operate dagli alleati coi bombardamenti, come a Pescara e in altri centri della costa, per non parlare di quelli in provincia di Chieti dove gli eserciti si erano fronteggiati, con perdite enormi da entrambe le parti. Ma la guerra - capirono tutti, ora che cominciavano a riaffacciarsi fuori della conca - aveva isolato in una bolla di dolore soprattutto una certa parte dell'Abruzzo. Antonina, i figli e la madre tornarono a Pietransieri, dove rivissero lo strazio del loro paese sterminato dai tedeschi. Ci vollero settimane per recuperare i resti dei morti di novembre. Dentro di loro, la madre e la sorella non si capacitavano che quei ragazzi che avevano visto da Ada, che parlavano con don Liborio e che loro stesse avevano conosciuto prima di sfollare, potessero essersi trasformati in assassini capaci di compiere una tale strage. Le campagne intorno a Pietransieri si erano svuotate. Qualcuno confermò: non sono stati quelli dell'esercito, sono state le SS. Altri dissero: no, sono stati quattro, cinque assassini vestiti da paracadutisti, i Diavoli Verdi, un reparto venuto da Cassino. Altri ancora ricordarono: gli austriaci, i polacchi e anche dei tedeschi buoni hanno cercato sino alla fine di avvertire gli italiani del pericolo, per salvarli. La terra che ospitava i corpi non raccontò loro nulla di chi li aveva uccisi. Continuò a coprirli in un silenzio ch'era la fine di un ciclo singolo, dentro un ciclo generale, disinteressato, ormai, a cause colpe parole. Ma nella valle il sangue reclamava vendetta. E nei giorni che seguirono l'arrivo degli alleati, in assenza della
legge, i vecchi odi e rancori serrarono i pugni a molti, mentre gli occhi cercavano dove dirigere un'indomabile resa dei conti. I colpevoli sparirono, aspettando tempi più tranquilli. Cominciarono i processi, ufficiali e non ufficiali, con pochi presenti e molti assenti. Si ricordarono episodi, violenze, collusioni e connivenze. Alcuni volevano girar pagina, altri non avevano alcuna intenzione di farlo; dipendeva da quanto avevano sofferto. E siccome la vendetta è sempre dalla parte dei peggiori, furono questi a prendere il sopravvento e ad avvelenare l'aria. Denunciarono quello ch'era vero, denunciarono anche quello che non era vero. Chi aveva da raccontare, si fece avanti; tra loro c'erano anche gli informatori dei fascisti, che avevano operato di nascosto, senza esporsi. Ripresero il loro antico mestiere mettendosi al servizio del nuovo e in molti casi trovarono accoglienza. Ma dovevano far presto, per acquisire meriti agli occhi di chi ora comandava. Il tempo della resa dei conti era breve, poi sarebbe venuto quello della giustizia ordinaria, più rischioso per loro. Fornirono informazioni a chi aveva un conto personale da farsi pagare, senza andare per il sottile nella individuazione del debitore. Ada non aveva fatto del male a nessuno. Era solo stata l'amante di un soldato straniero. La denunciò l'infermiera a cui aveva dato due sberle, che - purtroppo per lei - aveva credito presso alcuni prepotenti in azione. La calunniò. Disse ch'era andata coi tedeschi, che li riceveva a casa, che da lei c'era stato un via vai paragonabile a quello dalle romane; che mentre la gente pativa la fame, si erano fatte feste da lei; che l'avevano cacciata dal seminario per indegnità; chiedessero all'economo o ad altri; tutti lo sapevano. Era stata l'amante pubblica di un giovane, per il quale aveva perso la testa, al punto da venire a trovarlo ogni pomeriggio in ospedale, incurante del fatto che loro cercassero di cacciarla. Non le importava più né dei figli né dei suoceri, né della sua famiglia che infatti, appena possibile, per la vergogna se n'era riscappata a Pietransieri. Sì, proprio là. Dove i suoi amanti avevano ammazzato tanta gente. Tutto sembrò coerente in quest'accusa, che per la sua evidenza non aveva bisogno di prove. Ada era contenta, perché l'avevano chiamata a raccogliere la frutta in campagna. Oltre alla paga, era consentito alle lavoranti di riportarsi qualcosa di ciò che raccoglievano, sicché persiche, prugne, percoche e altri frutti adesso non mancavano mai in tavola. Da una settimana lavorava tra Pratola e Corfinio. Scesa dall'unico postale che trasportava le donne - partendo la mattina all'alba e tornando in città dopo pranzo camminava a passo svelto verso casa, sicura di arrivare prima che i bambini si svegliassero dal sonnellino pomeridiano. L'afa di luglio era opprimente. Prese i vicoli deserti del centro, diede un'occhiata alla piazza del mercato ormai vuota, passò accanto ai cumuli di macerie prodotte dai bombardamenti e proseguì per tutto il corso, fino a Porta Napoli. Superati i giardinetti, si meravigliò di vedere un gruppo di persone riunite, come se avessero qualcosa da fare lì, a quell'ora in cui tutti erano ritirati a casa a riposare. Erano in sei, tre uomini e tre donne. Aspettavano lei. Se ne accorse quando due - un uomo e una donna - si staccarono a passo svelto dal gruppo per andarle addosso. «Che volete?» gridò, pensando che fossero ladri; ma dei ladri in gruppo, allo scoperto? La donna aveva l'espressione cattiva. Non la conosceva. «Tu sei Ada» le disse. «Dobbiamo parlare con te.» E le mise una mano sul braccio. Ada tentò di scostarsi, ma si sentì afferrare dall'uomo, dietro. «E non fare tante storie, dobbiamo parlarti.» La spinsero a forza nel gruppo, dove c'erano altre due donne. Una la riconobbe subito, era l'infermiera che aveva schiaffeggiato in ospedale. «Lasciatemi stare!» gridò spaventata. «Non so che volete da me! Io sto andando a casa dai miei fi!» L'infermiera le diede una sberla in faccia. «Ah, ti ricordi di avere dei figli, adesso, brutta puttana?» le disse.
«E dove li avevi messi tutti i pomeriggi che venivi a trovare i tedeschi in ospedale? E quando li facevi venire a casa tua, per aprirgli le gambe, eh?» «Puttana!» sibilò quella che l'aveva fermata e le sputò in faccia. «... Adesso se ne sono andati, non hai più i protettori» disse tentando di colpirla ancora, ma lei si riparò con le braccia. «Non ho fatto niente!» gridò, col cuore che batteva all'impazzata, sperando che si aprissero le persiane delle case lì intorno; temeva volessero ucciderla. «Lasciatemi, che volete da me?» «Solo che vieni con noi un attimo, signo», disse uno degli uomini, il più giovane. «Non ti facciamo niente di male, non avere paura, non siamo cattivi come i tedeschi. Noi non andiamo in giro a sparare alla gente e non facciamo saltare le case. Siamo... addetti alla nettezza urbana. A fare un po di pulizia in giro. Hai capito che significa pulizia?» Non capiva, non si preoccupava di capire in una situazione del genere, ma dal modo in cui l'uomo aveva parlato capì che non stava mentendo. Forse non volevano ucciderla. Ciononostante era spaventatissima, non le era mai capitato di essere aggredita, così, da un gruppo... Che volevano? «Significa» proseguì quello «due cose. Primo, che la città va un poco liberata dall'immondizia. Perché ci sono persone pulite e persone non pulite. L'hanno sporcata quelle come te, che se l'intendevano coi tedeschi, fregandosene della guerra e di quello che andavano facendo gli assassini. Siete state bene prima, quindi è giusto che stiate un po male adesso. E secondo, che col caldo che è scoppiato, ci sono i pidocchi. E tu magari, signo, in testa tieni qualche pidocchio tedesco. Per cui noi ti diamo una bella rapata, così dopo stai meglio. E con la capa fresca, ripensi a come ti sei comportata. Cioè male.» «Perciò tu adesso con le buone vieni lì dentro e noi facciamo i parrucchieri. Veramente non pensavamo di fare questo mestiere, ma qua, siccome oggi bisogna inventarsene uno per campare - tu facevi la puttana, no? eppure non ci hai la faccia da puttana - be, noi stiamo imparando questo. Andiamo a fare i capelli anche a domicilio. A proposito, ringrazia la signora che ha detto di non farti i capelli a casa tua, davanti ai bambini. E mo cammina. Avanti, poche storie, ti tocca. Andiamo a farti un taglio alla garçon alla fontana là sotto. Poi te ne torni a casa.» Cominciarono a spingerla verso un fontanile alla fine alla strada, dove l'avrebbero rapata. Ada aveva sentito dire che lo facevano alle donne ch'erano state coi tedeschi. Questo dunque mi vogliono fare, disse a se stessa deglutendo. Ebbene, che lo facciano. Basta che non succeda davanti ai bambini. Non so come lo spiegherò a loro, ma almeno non avranno visto la scena; e allora, se lo devono fare, che si sbrighino. «Non spingete» gridò ancora «ci vengo da sola. Però una cosa me la dovete far dire. Non è vero quello di cui mi accusate. Io non vi conosco, però vi giuro sulla testa dei miei figli che non sono stata una... di quelle. Non ho aiutato i tedeschi. Tante persone li hanno avuti a casa, e voi non andate a rapargli la testa; tanti pensionati si sono messi a lavorare per loro, ci hanno fatto mangiare le famiglie e oggi sono i primi a essere contenti che se ne sono andati!» «Sta zitta, sta zitta, che sei conosciuta!» disse l'infermiera, impedendole di continuare a parlare per paura che li convincesse. «Specchiati alle donne serie che non sono andate a letto coi tedeschi! E anche tra le puttane, non ce n'era una così svergognata. Quelle stavano chiuse a casa. Tu ogni pomeriggio, in ospedale, stavi attaccata...» allungò la voce, mimando una posa sdolcinata «attaccata alla branda dell'amante, amore mio quanto ti voglio bene!» «Voi fate questo perché io sono sola» insistè Ada «ma non mi sono venduta né ai tedeschi, né a nessun altro. Ho tirato avanti... voi... non sapete come! Ho fatto tutti i mestieri. Sono andata per erbe sulla montagna. Ho lavorato al seminario... Chi ha seguito tutti quegli sfollati, eh? Chi? Chiedete. Chiedete a tutti. Informatevi su di me. Vi diranno che è stata Ada, la vedova di
Guerino. Chi ha tenuto la contabilità di quello che entrava e che usciva, chi ha fatto le nottate, là dentro, quando arrivavano cinque, dieci famiglie al giorno? Chiedete ai fornitori! chiedete al molinaro! chiedete al beccaio! chiedete a tutti! Mi volete rapare? E rapatemi. Ma state facendo un errore. Perché io non sono una di quelle.» Vide un'espressione di dubbio negli occhi del più giovane. «C'è gente ch'è stata bene prima, avete detto. Be, io sono stata male, malissimo, per tutta la guerra, e anche prima della guerra, sola con due figli. Mo dovete farmi stare peggio? Ve lo porterete sulla coscienza.» Camminavano a passo svelto, in silenzio adesso. Le sue parole dovevano averli fatti riflettere, anche se non volevano darlo a vedere. Ma non erano convinti. E poi non volevano perdere la faccia l'uno con l'altro. Ada capì che doveva continuare a parlare di sé, ma erano quasi arrivati al fontanile. Ada pensò che avrebbe potuto mettersi a gridare, ma avrebbe ottenuto solo d'incattivirli e di rendere pubblica la sua punizione. Molti infatti stavano seguendo la scena da dietro e le persiane chiuse. Tranne una, da cui sembrò venire una voce di condanna: «Disgraziata! Disgraziata!», ma forse non era diretta a lei; vide infatti l'infermiera girarsi verso la parte da cui era venuta la voce, come se la riconoscesse. In quel momento si aprì un cancello e un bambino, a cui forse avevano raccomandato di non fermarsi a guardare quello che succedeva, scappò via. Ada identificò la voce della donna che aveva urlato e che riprese: «Cosa volete farle? Quella è una vedova con due bambini! Chi le vuole fare del male, quella schifosa là in mezzo? Vergognati, disgraziata» Si aprirono altre finestre. Non tutte per sostenere Ada. «Fanno bene a raparla, fanno bene, quella andava coi tedeschi!» si sentì; dopo un po, alcune persone scesero in strada. Tutto quel pubblico rafforzò il proposito dei rapatori di dare una bella ripulita pubblica alla città. Nonostante le grida di qualcuno che sosteneva Ada - «Oh Signoreddio, guarda che vogliono fare a quella poverella! E non è stata già abbastanza sfortunata? Tutta Sulmona conosce la sua storia!» - sembrava che molti considerassero inevitabile la punizione e stessero radunandosi per assistervi. Era uno dei peggiori risultati. Ada non sarebbe stata rapata in una casa, ma in pubblico, sul muretto di un fontanile. La costrinsero a sedersi. L'infermiera fece la spiritosa: «Si accomodi, madame» e solo in quel momento a Ada venne da piangere, ma era ben risoluta a ricacciare indietro le lacrime. Un po di solidarietà, per quanto inutile, l'aveva incoraggiata. Non tutti dunque la condannavano. «Metti la testa sotto l'acqua» le disse la donna che l'aveva bloccata per strada. «Avanti.» E le spinse la testa sotto il getto d'acqua. Ada si ritrasse e quella ce la spinse più sotto. Nelle mani di un uomo vide comparire un paio di forbici e un rasoio. «Mo devi stare ferma signo, sennò ti tagli» le disse. «Finiamo in cinque minu...» Aveva l'acqua davanti agli occhi, per cui non capì cosa stesse succedendo alle sue spalle. Sentì solo allentarsi la mano sul collo. Si tirò su, vide tanta gente e in mezzo don Liborio, che si dirigeva a passo svelto in direzione loro, con un bambino accanto. Arrivò e chiese: «Che succede?» «Prete, fatti i fatti tuoi» disse l'uomo che doveva raparla, con l'aria di esser stato disturbato dal suo arrivo, oltre al fatto che non doveva avere simpatia per le tonache. Ma don Liborio non era uno da disarmarsi per una frase del genere. «Io?» rispose senza scomporsi. «Io sono venuto ad assistere al taglio. Sono interessato.» «Ecco bravo» disse quello che doveva rapare Ada. «Così ci dai anche tu un consiglio su come farlo. Magari, sai che è? Mo le faccio una tonsura da prete. Non ho mai fatto un taglio per signore con la tonsura. Mo la faccio in onore del prete.» E spinse giù la testa di Ada. Forse fu la violenza di quel
gesto, o il fatto che Ada non reagisse, a far intervenire don Liborio. «Tu puoi fare quello che vuoi» gli disse. «Poi fai bene a filartela, però, prima che tutta questa gente ti corra appresso. O pensi che non succeda? Perché se lo pensi, sei in errore. Stammi a sentire, piuttosto, che sei... confuso. Stai facendo un errore. Ti hanno informato male sulla persona che stai offendendo. Perciò te lo ripeto: ti illudi di farla franca? Pensi che io tra dieci minuti non starò, con tutti questi, al comando dei Reali Carabinieri? O pensi che ti aiuteranno i tuoi amici? Forse lo faranno. Ma loro poi chi li aiuta? A te non ti conosco, non sei di qua, ma loro sì che li conosco: a uno a uno, e molto bene, purtroppo. E a meno che non vogliano essere denunciati al posto tuo, loro denunceranno te. Per sequestro di persona e per violenza. Non pensare che ti coprano, quando c'è di mezzo una condanna penale: e non so come ti metterai, eh? tu sarai processato. Tutti - tutti noi - andremo subito a denunciarti. Poi, al processo, verremo a deporre. Magari non succederà domani. Passerà un po di tempo. Ma tu sarai condannato.» «E bravo don Liborio, amico delle puttane...» la frase scappò all'infermiera prima che si rendesse conto di come suonava « delle puttane dei tedeschi» corresse. S'imbarazzò, provò a reclamare appoggio popolare: «Questa schifosa stava tutti i giorni all'ospedale dove lavoro io, vicino al letto dell'amante tedesco, nella camerata. Lo sanno tutti. Ci stava perché aveva perso la testa e non gliene importava di niente e di nessuno per stare accanto al suo tedesco. E voi che siete un prete non dovreste mettervi a difenderla, voi non conoscete la situazione...». «Oh sì, che conosco la situazione. Anche la tua, anche la tua. Che parli di giustizia e di buona costumanza e faresti bene a non nominarle per niente. Sciacquati la bocca prima di parlare di queste cose, tu. Quanto a questa poveretta, ma veramente!» disse con foga, come se stesse sul pulpito «ci siamo impazziti, qua? Abbiamo tenuto i tedeschi per mesi, con centinaia di morti, la città mezza distrutta dai bombardamenti, la fame, la paura e... adesso? Ce la prendiamo tra di noi anziché darci una mano a vedere se ce la facciamo a rimetterci in piedi? Con questa poveretta, ve la prendete? Vedova con due figli? E credete che Dio non ve la farà pagare? Far male a chi sta male! Siete dei disgraziati.» Non doveva perdere il vantaggio, si era fatto silenzio intorno; molta gente era alle finestre, adesso. «Dovete starmi a sentire» riprese. «Io conosco Ada da quando è venuta sposa a Sulmona. L'ho sposata io e ho battezzato io i suoi figli. E' stata una moglie esemplare, completamente dedita alla famiglia. Poi è rimasta vedova! Ve lo ricordate il funerale di Rino qualche anno fa? Chi l'ha assistito per due anni, prima che morisse? Ada. Chi s'è messa per serva nelle case? Ada. Chi è venuta a pulire in chiesa? Ada. Chi andava ad assistere i preti vecchi? Ada. Chi ha tenuto!... ricordatevi questo, chi ha tenuto il seminario con tutti quegli sfollati dentro? Ada. E' la vita dell'amante dei tedeschi, quella che ha fatto? Rispondete.» Don Liborio aveva parlato tutto d'un fiato. Era sempre più improbabile che, a meno di provocare una sollevazione, i rapatori potessero portare a compimento il loro proposito. «Be, s'è capito, oggi abbiamo anticipato la perdonanza» fece l'infermiera, che aveva compreso la mala parata; rischiava di passare da accusatrice ad accusata, adesso; l'arrivo del prete aveva rovinato tutto. «Don Liborio non ha ragione! La verità è che questa era l'amante di un tedesco, è vero o non è vero? Rispondete a questo.» «Ti rispondo subito» disse il prete. «Io so tutto. E sai perché? Perché io ho conosciuto a
casa dei suoceri alcuni soldati tedeschi, tra i quali anche quello che lei ha poi assistito in ospedale, e che non è tedesco, tra l'altro, è austriaco e per niente nazista; stava in quel gruppo che giocava a pallone coi ragazzini! Li avete visti tutti! E sai perché l'ho conosciuto? Perché io parlo il tedesco: e non vorrai dire che non vi è stato utile per i contatti col Comando di quelli là, o no? Anche io li ho frequentati: e sono un collaborazionista, io? Sulmona non è stata fatta saltare, perché siamo riusciti a parlare con loro; quante volte siamo stati con sua eccellenza al Comando? Lui e io a fargli da interprete. Ebbene quando questo giovane tedesco è stato ferito gravemente, lei lo ha assistito giacché si era creata una... conoscenza con la sua famiglia, un'amicizia...» «Ah, mo si chiama amicizia di famiglia? E su, don Libo... questa ci andava a letto.» «... E io sto parlando dell'assistenza al soldato quand'era mezzo morto, invece. Ti dava tanto fastidio vederla in ospedale? Veniva ad assistere un malato, mi pare che sia anche una pratica cristiana. Ma siccome vedo che sorridi, perché sei in mala fede, e faresti sbagliare i tuoi amici, adesso ti racconto io una cosa che non sai. Tutti testimoni, eh? di quello che sto per dire; così poi non diranno che non lo sapevano. Ada ha assistito un ted... un austriaco. Un nemico. Sissignore. Con la divisa da nemico; sotto, però, un buon ragazzo che anche io ho conosciuto, e ve lo posso garantire; una delle poche facce non da delinquenti, là in mezzo; uno ferito, che è stato per giorni e giorni più di là che di qua. Ma non è questo che volevo dire. Ada ha assistito anche due inglesi.» Si fermò per guardare l'effetto che la frase aveva prodotto. Riprese: «Ah, non lo sapevate questo? Per mesi, li ha assistiti. Gli ha fatto da mangiare e gli ha lavato i panni. E dove? mi chiederete. Sotto alla canonica mia. In cantina. Li tenevo io nascosti là sotto» Si rivolse all'infermiera: «Se non ci credi, puoi informarti dalla ferrista e dal chirurgo, che me li hanno mandati. Anche uno di loro era ferito. Li hanno mandati da me e da Ada. E sapete che voleva dire, coi tedeschi in giro, essere sorpresi ad aiutare gli inglesi? Fucilazione immediata. Questo ha fatto Ada. Il rischio era più suo, che di un prete. Per lei non ci sarebbero stati santi, a lei non ci avrebbero pensato due volte a sparare. Altro che amica dei tedeschi. Questo ha fatto Ada, per mesi, senza volere una lira, giorno dopo giorno, dentro a casa mia» Percorse con l'indice teso tutte le finestre dove c'era gente affacciata. «C'è qualcuno qua, che favorisce un attimo in canonica, per controllare se sto dicendo la verità? Ci sono ancora le cose degli inglesi. Vi faccio vedere dove Ada lasciava loro il mangiare tutti i giorni e vi racconto come io lo portavo sotto e come raccomandavo a quei due di stare in assoluto silenzio, non solo alla messa della mattina, che c'era poca gente, ma anche al rosario e ai vespri. Così è andata, per tutto il tempo. Mesi, quei due sono stati rintanati là sotto.» Qualcuno disse: «E' vero, don Liborio nascondeva gl'inglesi...». Il più giovane del gruppo rivolse uno sguardo irritato all'infermiera e alla donna che aveva sputato a Ada: se aveva aiutato anche gl'inglesi, allora... Ma don Liborio aveva in serbo il finale della predica: «Andiamo in canonica, forza. E scusino le signore se adesso dovrò dire qualche brutta parola, ma se assistere i bisognosi, rifugiare i condannati, e rischiare la vita per loro, con due figli, oggigiorno significa fare la puttana allora: io, don Liborio, sono stato il ruffiano. Eh sì. Io le ho portato i clienti. Tedeschi e inglesi. Sono più colpevole di lei. Dovete rapare prima me». Si sedette con un gesto plateale, vicino a Ada. «Forza, mastro: barba e capelli.» L'uomo ripose il rasoio. «Il prete ha detto delle cose che non sapevamo» disse. «... Tu no: ma qualcun altro sì, qua in mezzo» lo interruppe don Liborio, senza dargli tregua «di certo non te l'aveva contata giusta. E stato evitato un torto. Un brutto torto... prendersela con una donna sola, che vigliaccata. Be, sia come sia, adesso sapete le cose come stanno.
Andiamocene. Ada me la riporto a casa io, adesso. Anzi no, è meglio se passa prima a casa di qualcuno, a darsi una sistemata» alzò la voce. «Nessuno ha un vestito da prestarle? Non può tornare dai suoi conciata così. Si deve asciu... guarda qua. Aiutiamola. Non sta bene.» Ada era bianchissima. I capelli bagnati, scuriti, pendevano ai lati del viso. Il vestito, il collo, le spalle, il seno, erano fradici. Gli occhi erano arrossati come se avesse pianto tutto il tempo, ma era l'acqua della fontana. Si passò il polso sul naso, alzandosi con passo malfermo. Don Liborio le prese la mano per aiutarla. La donna che aveva mandato il nipote ad avvisare il prete se la mise sottobraccio e la invitò a salire da lei; voleva farle bere qualcosa, povera figlia, con lo spavento che s'era presa... Così mentre parecchi si accodavano a loro, don Liborio, Ada e la donna si avviarono. I sei del gruppo, guardati male da tutti, se ne andarono; avevano delle cose da chiarire tra loro, in particolare con l'infermiera, dopo quello ch'era successo. I giorni dell'estate volarono e ognuno portò in Abruzzo un piccolo miglioramento. Mentre il Nord Italia affrontava il suo travaglio, che sarebbe finito molto più tardi, in Italia centrale la vita riprendeva piano piano. Gli uomini erano sempre lontani e molti continuavano a languire nei campi di prigionia o a morire sulle navi con cui li spostavano da una parte all'altra del mondo, silurate dai tedeschi, ma la fine della guerra era sicura, perché si vedeva con certezza chi aveva vinto e chi perso. L'autunno portò due novità. La più importante fu l'arrivo dei primi aiuti alimentari dall'estero, che cominciarono a essere sbarcati e distribuiti dal Comando alleato; consentirono la risoluzione del principale problema, che non aveva a che fare con i corpi d'armata ma coi corpi normali: la fame. La seconda fu la riapertura delle scuole e degli uffici giudiziari e amministrativi - dove si insediarono figure provvisorie, non sempre estranee al precedente regime - con una parvenza, dunque, di ripresa della normalità. Alla fine del '44 in Abruzzo una stentata vita civile ricominciava, dove poteva. Ma la terra era piagata. Troppi morti, troppe distruzioni, troppi percorsi di vita che qualcosa aveva interrotto o sviato per sempre. Tra i cumuli di macerie dei bombardamenti, i ponti saltati, gli impianti messi fuori uso, si aggiravano esseri per i quali la vita non sarebbe mai più stata la stessa. Molte famiglie non esistevano più. Altre erano contratte intorno al dolore per i cari perduti. Anche adesso che non si combatteva più, ci si trascinava di giorno in giorno. Il futuro appariva qualcosa che, da un momento all'altro, un nuovo pericolo avrebbe ancora potuto rubare. Ada lasciò il lavoro in campagna perché l'avevano richiamata al mulino. Il vecchio mulinaio, don Dino, aveva il figlio in guerra ed era malmesso in salute; in attesa che tornasse il figlio, aveva deciso di passare l'attività al nipote, Sergio. Ada era pratica e avrebbe dovuto affiancarlo a sé, insegnandogli il lavoro. Il primo giorno ci parlò un po. Era un ragazzo diplomatosi da un paio d'anni al liceo. L'aveva visto qualche volta col nonno e non immaginava che potesse sostituirlo. Il lavoro comportava troppa responsabilità. I mulini erano strutture fondamentali per la vita della campagna, che andava riprendendo lentamente. Il raccolto dell'estate, grazie a Dio, non aveva risentito dell'occupazione dei tedeschi; arrivati a settembre, se n'erano andati a giugno, prima della mietitura, e quindi prima di poterci mettere le mani sopra. Sergio, comunque, non aveva niente del mulinaio. Figlio unico, era stato tirato su dalla madre come un signorino. Sempre ben pettinato, con la camicia pulita, sembrava capitato lì per caso. Anche don Dino nutriva le stesse perplessità, ma le aveva detto: «E' intelligente; ha studiato. Deve solo impratichirsi e puoi insegnargli tu. Gli spieghi la nota del dare e dell'avere, gli fai vedere come funzionano gli scarichi, le pesature e le riprese... tutto quello che ci vuole, Ada: chi meglio di te...». E Ada aveva
cominciato a spiegargli tutte queste cose, non meravigliandosi del fatto che arrivasse dopo di lei, al mattino, e parecchio, sicché il mulino sarebbe rimasto chiuso, se non fosse corsa lei ad aprirlo. Non sempre l'occhio del padrone ingrassa il cavallo, si diceva: il ragazzo avrebbe fatto andare in malora l'attività. Comunque non credeva ai proverbi. Semmai era giusto quell'altro, pensava, che chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non il pane. Aveva però anche dovuto ricredersi, un po. Il nipote di don Dino non avrebbe toccato un sacco di farina con un dito - questo l'avevano capito subito sia lei, sia Gisa, l'altra lavorante - però non era stupido. Quando si trattava di ascoltare, stava attento. La fissava senza perdere una parola, come se fosse stata una maestra in un'aula tutta per lui. E faceva domande a tono. Un'altra cosa buona era che risultava simpatico ai clienti. Ci parlava, usciva a fumarcisi una sigaretta, dava notizie del padre e del nonno, sapendo che i vent'anni non deponevano a suo favore, quanto ad affidabilità. «Mi sta insegnando tutto Ada» diceva. «Io non sono ancora pratico, ma ho la maestra più brava del mondo. Quel po che so... è farina del suo sacco!» Ada sorrideva quando lo sentiva parlare così. «Non è vero, è bravo, è bravo, imparerà» diceva ai clienti. «Chi ha volontà, impara.» E quest'ultima cosa era diretta a lui, perché non aveva volontà. Un figlio unico cresciuto nell'agiatezza non avrebbe mai avuto interesse per ciò che la produce. Infatti perdeva tempo anche a chiacchierare con un compagno, Alfredo, che veniva a trovarlo; uno ancora più signorino di lui, figlio dell'avvocato M., a cui il mulino, i sacchi di farina e tutto il resto sembravano far schifo; quando arrivava: «C'è Sergio?» chiedeva, senza salutare né lei né Gisa. Forse Sergio si pavoneggiava un po col compagno di avere una lavorante così bella. Ada lo capiva istintivamente, anche se faceva finta di non accorgersene. Ogni tanto li vedeva affacciarsi senza motivo sopra, dove lei e Gisa, tutte infarinate, stavano lavorando. Eppure questo era un costo che faceva parte della vita. Un po d'imbarazzo, bisognava pagarlo. Gisa le aveva detto: «II nipote di don Dino ti guarda e... pure il compagno. A me non mi guarda nessuno, so brutta. Neanche mio marito mi guardava più, prima di partire per la guerra, e meno male. Spero Dio, anzi, che mo che riviene, non mi fa figliare ancora... che ne tengo già quattro» Da anni Gisa si tirava su quattro figli da sola. Il giorno prima, Sergio aveva riempito la pagina delle consegne e dei ritiri, con tutte le pesature e il resto. Era la prima volta, c'era qualche errore e aveva detto: «Ada, domani, quando hai finito, rivediamo tutto insieme e mi spieghi gli errori, prima che vengano i clienti. Va bene?». Così, verso le due - dopo che Gisa era andata via - Ada non si meravigliò di sentirlo salire, sebbene fosse in anticipo: non le aveva neanche dato tempo di rinfrescarsi e di sedersi a fare colazione. Quello che trovò strano era che insieme con lui ci fosse il compagno: non era tornato a casa a mangiare? e che lezione sarebbe stata, con tutti e due? si chiese, mentre finiva di lavarsi la faccia in un bacile pieno d'acqua. Doveva sbrigarsi e si affrettò a chiudere la porta dello stanzino per evitare che la vedessero svestita. Sulla gonna portava solo il reggipetto. «Sergio, aspetta giù» gli disse attraverso la porta. «Scendo io tra un minuto, che finisco di prepararmi.» Non aspettò. Si affacciò alla porta, sorprendendola svestita, insieme con Alfredo. Istintivamente si coprì con la vestaglia. «Eh! Ma non hai sentito? Ti ho detto che...» Poi, dai loro occhi, capì che erano entrati apposta. Le parole di Sergio, il suo sorriso teso, gliene diedero conferma. «Dai, Ada» le disse «non ti arrabbiare. Oggi fammi un'altra lezione. Sei bellissima. Non ci vede nessuno qui...» Il compagno si mise di spalle alla porta, per impedirle di uscire. Sergio le si avvicinò. Non credeva a se stessa, mentre con le mani teneva stretta la vestaglietta sul seno. Era più sorpresa che impaurita, pur avvertendo
quell'antica sensazione di pericolo, che una donna conosce. «Uscite immediatamente tutti e due. Cretini» disse con freddezza. «E dai» le si fece sotto; con un movimento rapido la toccò, mettendole le mani sui fianchi e cercando di attirarla. «Non lo viene a sapere nessuno...» Ada si ritrasse. Le fece impressione la faccia di Alfredo. Era come se lei non avesse parlato. Gli vide fare una cosa con la mano tra le gambe. Provò ribrezzo, stava... Lasciò cadere la vestaglietta per avere le mani libere, senza preoccuparsi di esser vista col reggipetto. Sergio cercò di baciarla, le mise le mani sulle natiche... quel viso giovane, con gli occhi chiusi, sembrava così per bene e in vece... Lo allontanò con un ceffone e fece in tempo a vedere che ritirava la faccia, offeso. «Andate fuori! Immediatamente!» gridò. Siccome non si muovevano, afferrò in un attimo il bacile con l'acqua e lo buttò addosso ad Alfredo, che non riuscì a scansarsi. L'acqua gli inondò la camicia, i pantaloni e le scarpe. «Toh, fatti passare i bollenti spiriti... porco!» gli urlò. Sergio sbiancò e si allontanò all'istante. Alfredo avrebbe voluto ucciderla. Non solo non aveva ottenuto quello che era venuto a fare con Sergio, ma adesso come avrebbe spiegato quei vestiti bagnati... «Troia!... una come te la trovo al casino quando voglio, cosa credi? Ma guarda che m'hai fatto!» sibilò, guardandosi gli abiti bagnati. «Fuori! Ho detto fuori!» continuò a gridare Ada e siccome dalla finestra poteva sentirla qualche contadino in arrivo, i due uscirono. «Troia, puttana!» le urlò Alfredo, già in mezzo all'altra stanza. «Ti faceva onore farti chiavare da me anziché dai tedeschi!» L'insulto la colpì come uno schiaffo. Questo dunque avevano pensato quei due maiali... Fece un passo minaccioso verso di loro, che si affrettarono per le scale. Ormai era chiaro che la cosa non era andata come avevano pensato. «Domani vedi, con tuo nonno! Fila via, adesso!» Se ne scapparono per le scale, mentre Alfredo continuava a offenderla dicendole un sacco di volgarità. Ada ansimò. Era impaurita, anche se si era sforzata di non darlo a vedere. Scese e serrò la porta del mulino. Poi per prudenza chiuse tutte le finestre, per assicurarsi che non potessero rientrare da una di quelle, anche se era improbabile che ci provassero. Il cuore le batteva all'impazzata, per l'emozione e per l'offesa. Risalì e si vestì, pensando di chiudere prima il mulino e di andarsene. Doveva parlare col nonno di Sergio. Non poteva fare altro, non poteva tacere, lasciando le cose come prima. Se voleva continuare a lavorare al mulino, doveva dire al vecchio di non farci mai più affacciare il nipote. Doveva raccontargli quello che era successo, magari senza dire proprio tutto. Stava quasi uscendo, quando arrivò il primo cliente e non ebbe il coraggio di rimandarlo indietro. Lo fece scaricare, gli fece la nota e, siccome dopo di lui ne arrivavano altri, decise di finire la giornata. Cercò di non restare sola, però. Si mise a parlare, per trattenerli, anche se parlare le pesava. Si sentiva il volto in fiamme. Alla fine chiuse e andò a casa di don Dino. Il vecchio rimase sorpreso. Le disse che non avrebbe mai pensato che il nipote potesse fare una cosa del genere. Ma per quanto le desse ragione, Ada capì che c'era un'altra preoccupazione che non riguardava lei. Gli aveva raccontato in breve l'accaduto: «Mi hanno mancato di rispetto, don Dino! sia Sergio sia Alfredo! non ci posso ripensare!» e, poiché il vecchio insisteva per saperne di più, fu abbastanza signora da non scendere nei particolari: «Sono entrati nella stanza dove mi stavo rinfrescando, anche se avevo chiuso la porta e gli avevo detto di aspettarmi sotto e... hanno provato ad allungare le mani; sì, vostro nipote mi ha messo le mani addosso e quell'altro... lasciamo stare; li ho dovuti cacciare a schiaffi. Comunque sia, non fateli tornare al mulino perché, lo capite anche voi, non è più una situazione possibile, dopo oggi» Non disse altro, ma accennò al fatto che per una cosa del genere, un'altra avrebbe sporto denuncia. Al vecchio - capì - non piacque quest'ultima cosa. Anzi per la verità fu l'unica a interessarlo. «Be, Ada,
che ti devo dire...» Cambiò tono. «... Tutta 'sta tragedia, mo... non è successo niente... sono giovani, non si rendono conto...» «Ah no? Allora cercate di fargliene rendere conto voi, delle conseguenze a cui possono andare incontro... anche a quello scostumato del figlio di M.: nessuno s'era mai permesso...» Lo vide irrigidirsi. «Be, su questo...» Voleva dire che aveva dei dubbi, ma non finì la frase, tanto era offensiva; la cambiò: « Se mi dovevo scusare, l'ho fatto, ma adesso non ho voglia di sentire altro. Se vuoi fare denuncia, falla, non posso impedirtelo. Sta attenta, però. Certe cose è meglio se non si vengono a sapere. Sai, ognuno può dare la sua versione... qua, con i tedeschi, sono successe delle cose... e una donna... magari calunniata dalle malelingue, deve stare attenta ai passi che fa...» Ada spalancò gli occhi. Non credeva a quello che aveva sentito. Don Dino le aveva mancato di rispetto. E senza pronunciare una sola, vera parola di recriminazione nei confronti dei giovani. Di colpo lo vide per quello che era. Non una figura bonaria, come l'aveva considerato; era solo un miserabile commerciante, preoccupato per suo nipote e per il figlio dell'avvocato. Ma certo capì - aveva paura dell'avvocato. L'ultima cosa che gl'importava era l'offesa che avevano recato a lei. Glielo disse: «Ah, bene, don Dino... grazie che vi preoccupate per me... questa facciamo finta che non l'ho sentita. Quello che non avete detto è una parola su vostro nipote e su quell'altro... vi preoccupate per lui, vero? Bene, state tranquillo. Non ho intenzione di denunciarli e non per il motivo che avete detto voi. Voglio solo che mi rispondiate a quello che vi ho chiesto prima... Mi ritrovo Sergio al mulino? Questo dovete dirmelo» «Be, che vuoi, benedetta figlia?» le rispose. «Si deve impratichire: io avevo pensato a te, ma se ci stanno questi problemi, che ti posso fare... mica posso trattenerti contro la tua volontà...» La stava cacciando. Non aveva avuto il minimo dubbio tra lei e il nipote. Ada inspirò: «Allora, giacché non potete trattenermi, me ne devo andare, giusto? Ho capito. Potete dirlo chiaramente. Tra il far fare a vostro nipote il porco» indugiò sulla parola « comodo suo e fargli imparare il mestiere, con rispetto per gli altri, non ci tenete mezzo dubbio. Be, io non posso restare, lo capite da solo, in questa situazione. Vi avevo dato tutta la mia disponibilità, prima di oggi, ma adesso... che dovrei fare? Comportarmi come se niente fosse successo? Non potrebbe essere comunque. Mi dite di andarmene. Ma sbagliate. Perché vostro nipote non ha voglia né di fare né d'imparare. Io non andrò più al mulino. Ma non ci andrà neanche lui; potete stare sicuro. Mi dispiace, veramente... Adesso, se volete, mi pare che dobbiamo regolare per il lavoro fatto, o no?» Il mulinaio non aspettò un attimo ad aprire il cassetto. Le diede quello che le spettava. Tutto si chiuse senza saluti. Ada si concesse solo, la mattina dopo, di aspettare Gisa sulla strada per raccontarle cosa era successo. Le disse che forse l'avrebbero affiancata con qualcun altro o il mulino sarebbe rimasto chiuso qualche giorno. Gisa non era in grado di assolvere agli stessi compiti, dato che non sapeva leggere. Due settimane dopo, Gisa andò a casa a trovarla. I primi giorni c'era stato il vecchio. Poi aveva chiuso, dicendole che avrebbe aspettato il figlio, per riaprire; il nipote non si era visto più. Ada riprese a lavorare nei campi. Tirò avanti alla giornata, senza pensare all'avvenire. Questi episodi di violenza l'avevano segnata e impaurita, più per i bambini che per se stessa. Si rimproverava di non aver pensato adeguatamente a loro. Capiva solo adesso lo scandalo che la sua situazione aveva prodotto, nel momento stesso in cui cominciavano a rinascere una stima e una solidarietà intorno a lei. In effetti, a parte queste brutte offese, era stata appoggiata da molti. La voce secondo la
quale aveva aiutato gli inglesi si era sovrapposta a quella della sua storia col tedesco, compensando la colpa col merito, l'incredibile col veritiero. Aveva sbagliato, ma insieme con don Liborio aveva aiutato chiunque si fosse trovato in difficoltà, questo dicevano. In tal modo si chiuse, con qualche resistenza, il cerchio di parole intorno a lei, secondo un moto naturale: Ada beneficiava di quell'istintiva buona considerazione che fa chiudere gli occhi anche di fronte all'evidenza e crea difensori e giudici ben disposti perfino tra coloro che non conoscono i fatti. Sparì, Ada. Non volle più sentire nessuno, non accettò inviti, non spiegò, non diede più confidenza, cosa che a molti parve la conferma del torto subito. Quanto a se stessa, tornò a non vivere. Il dovere, il giudizio, il senso di responsabilità si rimpadronirono di lei. E sebbene non volesse confessarlo, in quella tana stava, - non bene, no, - ma senza alcuna voglia di riuscire allo scoperto. Helm non aveva dato più notizie. Chissà dov'era. Chissà se era, ancora, da qualche parte. Ada s'imponeva di non pensarci. Il fatto che non avesse scritto non significava niente: poteva anche averlo fatto, ma tanta corrispondenza non era arrivata dagli italiani alle loro famiglie, figuriamoci dai tedeschi. La guerra, comunque, proseguiva ancora. C'erano moltissimi morti tra i tedeschi. La Germania, dopo avere occupato e distrutto tanti altri Paesi, sperimentava adesso una distruzione senza pari in Europa, con continui bombardamenti. Il mondo che aveva fatto paura a tutti era in ginocchio. In questa situazione, che senso avrebbe avuto per un soldato della nazione sconfitta mettersi a scrivere? Non c'era alcuna prospettiva per il futuro. Ada stessa ricordava di continuo il loro amore, ma lo collocava nel passato e in un passato che si allontanava sempre più. Passò l'inverno, molto migliore del precedente. Anche la natura sembrava non incrudelirsi più. Fu un inverno freddo, ma nevicò molto meno. E nessun fuggiasco - italiano o straniero rimase chiuso al gelo nei rifugi sui monti, in attesa di un impossibile passaggio dei valichi coperti di neve; nessuno temette di vedere spuntare all'improvviso un nemico con un'arma in mano; i pastori tornarono a occuparsi delle bestie, non dei cristiani, piovuti da tutte le parti del mondo sulle loro montagne. Con la primavera si cominciò a parlare della fine della guerra. Ada riandò per orapi come l'anno prima, senza gioirne. La sua vita era questa. Contro il destino non c'era niente da fare. Sarebbe andata per erbe e avrebbe sentito una stretta al cuore a ogni primavera della sua vita. Poi la guerra finì. Tra l'estate e l'inverno del '45, gli uomini erano ormai tornati da ogni parte del mondo e non avevano lavoro, anche se c'era tutta un'Italia da ricostruire. Prosperava chi s'era fatto i soldi durante la guerra. Gli altri stavano male come prima di partire, anche peggio, perché tutto era cambiato e non si capiva più niente. Nelle chiese, comunque, si celebravano tanti matrimoni, che sarebbero andati avanti per tutto l'inverno e la primavera successiva; i rimpatriati, quasi sempre senza lavoro, e le fidanzate che li avevano aspettati non avevano altro da fare che sposarsi. Era già tanto essere sopravvissuti al passato: poveri sposi, povere spose con tanta parte della loro vita rubata, quando non era stata rubata tutta, in quei cinque anni. Molti non avevano più nulla, neanche i punti di riferimento. Tutto un mondo di piccole certezze e abitudini si era dileguato. Gli anni Trenta sembravano ormai del secolo prima. Erano successe cose incredibili. Il fascismo era caduto. Mussolini era stato fucilato. Non c'era più il re, ma la repubblica. A giugno '46 Ada aveva votato per la prima volta, senza capire; all'inizio pensava di doverlo fare per sostituire il marito, come faceva in molte occasioni, in veste di capofamiglia; ci aveva messo un po di tempo a comprendere che una volta tanto non stava facendo le sue veci - in una cosa della quale non le importava granché; votò comunque per la repubblica, sperando che cambiasse qualcosa - ma che andavano al voto tutte le donne. La vera vittoria non fu per lei quella elettorale. Fu il lavoro che le arrivò poco dopo la proclamazione dei risultati. La
chiamarono all'ospizio di Santa Chiara, a occuparsi dei vecchi. Era un lavoro umile, ma era un lavoro in tempi impossibili, e per una donna. Fu ancora don Liborio a farle questa grazia, scavalcando la curia e segnalando il suo nominativo direttamente alla casa generalizia dell'ordine a Roma. Quando la chiamarono, non dormì varie notti per la contentezza. Tornava ad avere un lavoro stabile - sì, quasi stabile, insomma: e con il lavoro avrebbe potuto contare su una paga, disporre di una certezza a fine mese, mettere qualche soldo da parte, programmare qualche spesa necessaria per i bambini, i quali adesso andavano a scuola tutti e due. Significò anche un'altra cosa, che chi le aveva nuociuto nel periodo del bisogno, non aveva vinto. Quando le veniva questo pensiero, diceva a se stessa: ci sono un prima e un dopo; speriamo che il dopo duri. L'avevano chiamata prima di Pasqua. A giugno del 1946 era in una delle fasi più tranquille degli ultimi anni. Non voleva altro. Ma il destino si diverte a giocare così, che quando uno vorrebbe mettersi tranquillo, si sente scavalcato. E siccome non gli piace che si prendano decisioni al posto suo, si offende e salta su, a dire: eccomi, sono ritornato, si ricomincia coi giochi; e lo si vorrebbe mandar via, perché certe volte uno sta talmente felice, attaccato al suo piccolo bene, da trovare impossibile staccarsene per uno più grande. C'è chi ci crede e chi no, al destino. C'è chi pensa che sia una forza interna, chi qualcosa di esterno. Ma tutti sono d'accordo sul fatto che, non appena ci s'incammina su una strada ritenuta definitiva, qualcosa si mette in moto per scombinare le carte. Una domenica di giugno, nel giorno di libertà, Ada uscì di casa presto al mattino. Era tempo d'orapi e voleva stare un po da sola, in montagna, nel silenzio. Non sapeva perché avvertiva l'esigenza di andarci; il cibo, adesso, non mancava. O meglio, sapeva perché aveva preso quella decisione, ma era una cosa priva di senso. Voleva far vedere a se stessa ch'era in grado di rifare la stessa cosa, la raccolta degli orapi, in un tempo diverso, più sereno. Se fosse tornato quello del dolore, avrebbe avuto la certezza di poter ripetere lo stesso gesto umile, propiziatorio, aspettando che la ruota rigirasse. Come un rito magico. Come una preghiera pagana non al cielo, ma alla terra. Come un tributo alle direzioni che la vita può prendere e non si sa mai quali siano. Arrivò sotto al Morrone non troppo presto. Sarebbe tornata nel pomeriggio. Aveva lasciato i bambini a dormire dai suoceri, la sera prima. La suocera non approvava che lei andasse sola lassù e lei le aveva mentito, dicendo che l'accompagnava un'altra donna. E aveva aggiunto: che vuoi che mi succeda, comunque? Io sono una montanara, mi arrampico lassù come una capra... e mica ci stanno più in giro i tedeschi. Quest'ultima frase aveva posto fine al discorso. Nominare coi suoceri i tedeschi era ancora imbarazzante. Era meglio seppellire la storia senza parlarne più, dopo quello ch'era successo. Anche Ada ne era convinta: la sua storia col soldato era una fase della vita rivangare la quale non era facile: se gliel'avessero chiesto, avrebbe scosso la testa senza raccontare i fatti suoi; ma era meglio se non glielo chiedevano per niente. Cominciò a seguire il sentiero che saliva sulla montagna. Ma non era una mattina da stare tranquilli, in effetti era stata anche indecisa se andare. L'aria era tiepida, ma il cielo velato e, quando le nuvole grigie gravano sulla conca, può scatenarsi un temporale, da far paura, in montagna. Arrivata al primo costone del monte, fece un patto con se stessa: se avesse trovato bassi gli orapi, li avrebbe raccolti; sennò se ne sarebbe tornata indietro; non era giornata per imprese straordinarie. Con questa piccola scusa, continuò a salire per un'ora, senza vedere un'anima, con il fiato profondo dei montanari e i passi cadenzati, tutti uguali, che rifiutano di sprecare energia variando il ritmo. Arrivò alla roccia dove lei e Guerino si fermavano a guardare il panorama e non la degnò di un'occhiata, non aveva tempo per certe romanticherie. Riconobbe il sentiero che portava allo stazzo più basso. Attorno a questo, vide gli orapi. Altri si trovavano sullo stesso sentiero d'erba bassa, più sopra.
Fu felice. L'avevano aspettata dall'anno prima, ricrescendo proprio in quel punto. Nessuno c'era stato prima di lei. Ne raccolse parecchi strappandoli e sentendo il velluto delicato delle foglie nel palmo della mano. Si distrasse e non notò il grigio che stava chiudendo il cielo tutt'intorno alla conca, finché sentì un brontolio lontano. Uh! Tuona, si disse. Sollevò la testa ed ebbe paura. Le nuvole gravavano sopra di lei, a mezza costa. Il Morrone ridente, pieno di fiori a giugno, era diventato nero come d'inverno. Incombeva altissimo, con nuvole grigie e sfilacciate che, rincorrendosi impazzite, velavano e svelavano le cime, a tratti. E se l'avesse colpita un fulmine? Non c'era neppure una roccia sotto cui ripararsi. Ecco la pazza della montagna, si disse, sola qua sopra. E chi altro poteva venirci, oggi? Be, un po d'orapi li ho presi e adesso mi fermo. Guarda quanti ce ne sono là sopra!... no, non ci salgo, riscendo. E se mi prende l'acqua, pazienza... tornerò bagnata fradicia come un pulcino. Il cielo si era ancor più scurito. Prese a scendere quasi di corsa, evitando le pozzanghere e giocando contro il tempo: meno male che a calare ci voleva la terza parte del tempo necessario a salire. Corse, quasi. Forse ce l'avrebbe fatta. Magari il temporale le voleva bene; per scatenarsi, aspettava che lei raggiungesse un punto riparato; c'era vento caldo infatti e finché ci fosse stato vento non sarebbe piovuto. A ogni tornante che guadagnava, si sentiva in ansia e felice al tempo stesso. Le sembrava che la sua vita fosse adesso proprio così, in discesa dopo un'erta salita, con la tempesta alle spalle. Doveva solo non farsi sorprendere. Riuscì ad arrivare alle falde della montagna e capì che stava davvero per piovere. Mancavano alcuni chilometri a Sulmona. Be, almeno era a valle; già si vedevano le prime case di contadini, alle Marane. "L'acque di ghigne distrugge lu munne", l'acqua di giugno distrugge il mondo - diceva il proverbio; i contadini la temevano più che in ogni altro mese perché distruggeva il raccolto imminente e, se grandinava, anche quello delle settimane successive. Se fosse riuscita a fare ancora un pezzo di strada, forse non si sarebbe neanche bagnata. I contadini, vedendola, l'avrebbero invitata a entrare in una casa. Riuscì a scendere, s'incoraggiò a proseguire, passò addirittura le prime case. E sbagliò, perché adesso aveva davanti tre quarti d'ora di cammino per arrivare a Sulmona, ed erano tutti campi aperti. Pensò di tornare indietro, si decise a farlo, ma sentì le prime gocce. Corse ansimando, con una retina per mano, fino a una chiesetta, che aveva una tettoia sporgente. Mi sta bene, si disse, dovevo fermarmi prima; chi troppo vuole... Adesso dovrò starmene qua sotto, aspettando che passi l'acquazzo... O Signoreddio, ma quel bambino in bicicletta, laggiù, portato da un uomo, non era? sembrava... sì era... Ezio! La vide anche lui: «Mamma, mamma! La vedi?» disse indicandola col braccino teso al giovane che lo portava. «Eccola, sta là sotto, l'abbiamo trovata!» Lampeggiava e tuonava. L'uomo sulla bici si fermò; girò il manubrio e ricominciò a pedalare - con fatica, dato il peso del bambino - verso la chiesetta dove si era riparata lei. Lo riconobbe dalla gamba, quando la mise a terra - nessuno aveva gambe così lunghe - prima che dalla faccia, nascosta dalla testa di Ezio. Anzi non lo riconobbe, lo sentì dentro, con un tuffo al cuore. Era Helm. I primi scrosci di pioggia presero i due sulla bici prima che potessero arrivare alla chiesetta. Helm frenò direttamente sotto alla tettoia. Scese dalla bici, appiattendosi contro il muro, con Ezio tra sé e Ada, mentre davanti a loro si scatenava il finimondo. Helm! Era completamente diverso da come se lo ricordava: in abiti... incredibile! normali. Un pantalone normale arrotolato verso il ginocchio, delle scarpe normali, una camicia normale con le maniche corte... Ma certo, non poteva essere vestito ancora da soldato, a un anno dalla fine della guerra; solo che lei se l'era sempre immaginato come l'aveva conosciuto. I capelli bagnati, piuttosto lunghi, gli si erano appiccicati alla fronte. Il cuore prese a batterle forte. Si guardarono di traverso, appiattiti contro il muro, senza riuscire a non bagnarsi.
Helm non staccava gli occhi da lei, annuendo col capo e sorridendo senza scostare le labbra. Negli occhi nocciola guizzò la gioia dell'oro, il calore dell'ambra. Le diede la mano, come se dovessero ripresentarsi. «Io tornare» riuscì a dire, poi, con quell'accento che sembrava una raffica di mitra anche in tempo di pace. L'espressione era quella di sempre. Anzi no, migliore: felicissima. Era un altro, era lui. Lui com'era normalmente, in quella vita che lei non aveva conosciuto e per lui era stata l'unica, fino alla guerra; la sua vita. Un po più robusto, in abiti civili, estivi, con la camicia che gli si era un po aperta sul petto; Ada pensò istintivamente che gli mancava qualcosa. Ricordò, con imbarazzo: era la piastrina d'identificazione attaccata alla catenina; quando facevano l'amore, le dava fastidio e lui, sorridendo, se la buttava dietro le spalle. Helm non staccava gli occhi da lei, come se avesse una visione davanti. «Ma quando sei... arrivato?» Non era la cosa giusta. Avrebbe voluto dirgli: Dio, come sono contenta. Ma lo era davvero e chi è contento dice quasi sempre cose sciocche. «Di notte» rispose Ezio per lui. «Stamattina tu eri già andata via e lui è venuto a casa con don Liborio, che gli ha prestato la bici per venirti a cercare. A ma, Mino prima ci ha abbuscato da nonno, perché voleva portarcelo lui... ma non sa la strada!» Helm continuava a guardarla, senza aver capito cosa stesse dicendo Ezio. «Io troppo... aspettare. Troppo scrivere, aaach...» emise una delle sue note dolorose. «Tu mai rispondere. Così io venire di Osterà O-stri-ah.» «Ma io non ho ricevuto nessuna lettera, nessuna... sono contenta che tu stia bene, che sia voluto venire a trovarci.» Era un'altra frase sbagliata. Sembrava un congedo prima ancora d'essersi ritrovati, lui la capì così e si rabbuiò. Forse don Liborio non gli aveva detto la verità. Forse non la sapeva. Ada non si era sposata, ma forse si era fidanzata con qualcuno; non ci sarebbe stato di che meravigliarsi, erano passati due anni senza una lettera e che voleva lui? Era solo un soldato straniero... Inspirò parlando nell'unico modo in cui sapeva parlare. O meglio ci provò, perché in quel momento arrivò un tuono da far tremare la terra. «Madonna santa!» dissero la stessa parola insieme, in italiano e tedesco. Dovevano ripararsi. «Entrare» disse preoccupato. Avevano le gambe e i piedi completamente bagnati. Gli scarponcini di Ada avevano cambiato colore. I pantaloni di Helm gli aderivano ai polpacci, le calze erano zuppe, i piedi sembravano ancora più lunghi, col pantalone ritirato. Ezio si sarebbe preso un raffreddore. Gli orapi gioivano nelle retine, per la danza che la pioggia torrenziale faceva su di loro. Nascevano nel cattivo tempo che annuncia il buono; erano gli unici a saperlo riconoscere quando arrivava. Le ante della chiesetta erano chiuse, ma non resistettero alla terza botta che centottantasette centimetri di santantonio austriaco diedero loro, con tutto il corpo. Entrarono. L'interno era buio, vuoto, polveroso, con delle foglie secche sul pavimento. Chissà da quanto non ci entrava più nessuno. L'altare era spoglio, senza statue, senza niente, solo con qualche stucco sbreccato. Alle loro spalle, un rettangolo semiaperto si apriva sul diluvio. Sul tetto, intanto, picchiava tanta di quell'acqua che sembrava dovesse farlo venir giù. Helm portò dentro la bici. Poi uscì a riprendere le due retine piene di orapi rimaste sotto alla tettoia. Quando rientrò, Ada, pur stordita per quanto stava succedendo, notò che zoppicava ancora. Si sedettero a una panca, con Ezio in mezzo. «Come va la ferita?» gli chiese. «Stai bene?» «Ja» scosse un po la mano, per dire che le cose andavano così così; si toccò la gamba. «Io congedare subito di Roma, dopo. No guerra. Tornare Traunkirchen. Guerra finire.» Pensa, si disse Ada. Doveva morire per la ferita e magari proprio per quella si era salvato. L'avevano congedato. Aveva fatto tutta l'ultima parte della guerra a casa. Ma non era del passato che Helm voleva parlarle. «Tu dire: tu pensare Helm? Altro... uomo, ja? Tu fidanzata? Se
sì, essere... gerechtà normal.» Lo disse assentendo come per incoraggiarla a dargli il colpo di grazia; gli occhi erano febbrili, in attesa della risposta. Aveva fatto mille chilometri per ascoltare quella sentenza. La testa si muoveva nervosamente. Ada lo guardò e disse le parole che lui aveva diritto di sentire: «Io non ti ho mai dimenticato. Non ti aspettavo più, perché non sapevo se eri vivo o morto e se ti eri dimenticato di me. Non sono fidanzata, Helm». Helm sorrise come se in quella buia chiesetta gli fosse arrivata la notizia più luminosa del mondo. Gonfiò il petto, emise un sospiro lunghissimo. Ezio girava la testa da una parte e dall'altra, ma dal modo in cui la voltò verso Helm, si capì che voleva aver parte nel discorso: «Mamma ha detto che non è fidanzata» confermò. Helm gli andava proprio a genio. Helm gli accarezzò la testina, sorridendo. Poi prese la mano di Ada e se la mise sul cuore, rovesciando la testa all'indietro, le palpebre chiuse in un'espressione solenne. Doveva essere un'altra usanza delle sue parti, ma lei s'intimidì e la ritrasse. Sulla camicia bagnata, sul petto caldo, aveva sentito un battito forte, accelerato. Ma non poteva tenerci la mano sopra. Non così, non davanti al bambino. Ezio si mise in ginocchio sulla panca. Se era un gioco tra grandi, doveva andare bene anche per i bambini. «Lo fai sentire anche a me?» chiese; Ada e Helm si sorrisero; la piccola mano andò a poggiarsi dove Helm aveva prima portato quella di Ada. «Qvesto, Ezio, Herz... come tuo nome» decise che Ezio e Herz, cuore in tedesco, significavano la stessa cosa «bum bum bum di Helm perché... Glùcklich!. filice! Io sempre pensare voi di O-stri-ah. Sempre ricordare mamma Ada, tu und Mino. Sempre hier» disse toccandosi la fronte e poi toccando la panca, per dire che col pensiero era sempre rimasto qui. Fuori tuonava di continuo. Per sentirsi, dovevano chiedere permesso ai tuoni, sfruttando le pause. Ada si sentiva frastornata. L'aveva pensata tutto il tempo, dunque, non era stata solo lei a pensare lui. Non l'aveva dimenticata, era tornato per sposarla: era così, sennò non avrebbe avuto senso. Tutto quello che non aveva mai osato sperare si avverava adesso, semplicemente. Le stava dicendo che era sempre innamorato di lei. Anzi non lo sapeva dire, però sapeva farle sentire il suo cuore. La voce di dentro, che per tanto era rimasta silenziosa, parlò e disse: hai sempre saputo che sarebbe successo, non fingere di essere meravigliata; oggi è solo quel giorno ch'è arrivato; doveva essere. Quale futuro li aspettava? Ora si erano ritrovati, ma come avrebbero fatto a riprendere la loro storia? C'erano mille difficoltà... Ma non era questo il momento per pensarci. Questo giorno aveva regalato una gioia attesa da due anni, e bisognava viverlo; non mortificarlo, proiettandosi nei giorni futuri, o si sarebbe dileguato. Contava l'oggi, il giorno della festa. Ezio si alzò e andò a curiosare verso l'altare. Helm ne approfittò per guardarla. La fissò negli occhi, poi, impudicamente, fece scorrere lo sguardo sul suo corpo. Sotto le palpebre abbassate, Ada vide che le guardava, sorridendo, i seni, le gambe, le mani - erano verdi! ogni volta che lo rivedeva c'erano gli orapi di mezzo! «Tu troppo... più bella, Ada, due anni...» disse piano, rubando un attimo all'attenzione del bambino, prima che tornasse da loro; voleva dirle che si era fatta più bella in quei due anni; o forse quanto l'aveva desiderata, « io, tu...» respirò sul suo volto, cercando di dare un bacio veloce sulla guancia. Ada si ritrasse. «Helm» disse abbassando anche lei la voce, senza riuscire a non arrossire. «Sono così felice di rivederti. Che ti devo dire... anche io ti ho sempre pensato; ti ho aspettato, sei stato l'unico, ma non sapevo se tornavi.» Era sicura che non avesse capito la parola "unico", ma gliel'aveva detto fissandolo negli occhi. E non importano le parole nell'amore, ma come si dicono. «Dobbiamo parlare. Appena avrà smesso di piovere, ci riavviamo a casa. Devi raccontarmi di te, di com'è stato questo periodo dopo
la fine della gue...» Helm sorrideva, senza capire una parola. La donna che amava lo aveva aspettato. «... Io troppo folere te sposare» la interruppe, e si alzò di scatto, come se rimanerle vicino senza toccarla fosse troppo difficile, e il tempo trascorso troppo, e tutto troppo. Fece qualche passo dandole le spalle, in direzione di Ezio, preso da pensieri che gli impedivano, adesso, di star fermo sulla panca. Stava incassando la vittoria della sua vita. Quando si girò, passeggiava nervosamente con gli occhi fissi sul pavimento, mordicchiandosi il labbro, come faceva sempre quando rifletteva. Ada lo amò per questo. Si era scordata di com'era bello o brutto o buffo, di com'era lui, quando faceva così. Ma era un riflettere diverso rispetto a due anni prima. Allora non sapeva se sarebbe morto in guerra. Ora progettava una vita, sorridendo. E stettero seduti in quella chiesa, dicendosi una frase o un'altra e parlando un po con Ezio. Le parole non erano mai state importanti per loro. Ci volle un'ora perché spiovesse. Helm disse allora: «Tu prendere bici e portare Ezio. Io» scosse l'indice e il medio «zu Fuss» Li avrebbe seguiti a piedi. «Non la so portare» disse lei. «Possiamo andare a piedi, se vuoi, tutti e tre insieme.» Indicò loro tre e fece lo stesso gesto con le dita. Helm assentì. Prima di spingere fuori la bici, inforcò le retine con gli orapi ai lati del manubrio. Scosse la testa un po dispiaciuto quando riaccostò la porta; l'aveva rotta, ma almeno non si erano presi una polmonite. Il cielo, per farsi perdonare, fece allora uno di quei miracoli che regala solo nei tramonti di giugno, quando prima ha mancato di rispetto alla stagione: mentre le nubi grigie su di loro rimanevano gonfie, cominciò a scoprire e ad allargare all'orizzonte, sempre più, una striscia celeste, che divenne cremisi nella prima mezz'ora di campi, d'oro al vecchio convento a metà strada e turchina alla periferia di Sulmona, quando ormai scendeva la sera. Entrarono in città in tre, portandosi una bici con due retine di verdura ai lati, senza che alcuno riconoscesse Helm, senza che alcuno si curasse di loro. Tutto ciò che seguì fu un allinearsi di cose che il tempo aveva sempre contenuto in sé, anche quando aveva deciso di non rivelarle ancora. Appena ebbero un momento per se stessi, rifecero l'amore per potersi riconoscere davvero. Adesso non si trattava più di rubare due ore alla guerra, ma di pensare al loro futuro. Quello che fecero non fu neanche un possedersi l'un l'altro, sebbene vi fosse molto desiderio da parte di entrambi. Fu una dimensione già più quieta e forte, per la consapevolezza che non sarebbero più stati privati l'uno dell'altra, per tutto il tempo che fosse loro toccato. Anche questa volta, comunque, l'impazienza bruciò il tempo e impose i suoi riti di tributo: i vestiti coprirono le mattonelle del pavimento, passo dopo passo; il letto matrimoniale, riabitato finalmente da due amanti, li ospitò, amico; la camera assistette ancora, silenziosa, al riconoscersi tenero e selvaggio dei corpi, ognuno dei quali rivendicava il suo primato di attesa, di desiderio. Nello spogliarsi, Helm non si vergognò di mostrarle la sua nudità, ma la cicatrice che la deturpava. Ci tenne davanti la camicia, finché si unì a lei, come se fosse una colpa. Non aveva mai superato il trauma della ferita. Ada lo aiutò a non vergognarsi, anche se vide quanto era rimasto largo il segno che, partendo dal fianco e dall'inguine si allungava nella parte interna della gamba, sfregiandola; era il ricordo del passaggio della morte. Ma aveva vinto la vita. Potevano celebrarne il trionfo, la meccanica misteriosa del sesso, rito dai movimenti sempre uguali e differenti l'uno dall'altro, con cui si chiede ai corpi di animarsi, risvegliando il piacere di cui sono capaci. Quando si sciolsero, ansimando, dall'abbraccio, avevano chiara solo una cosa: non potevano stare separati. Adesso dovevano vivere insieme. Raccolta la promessa di Ada, incontrati i familiari, presa la benedizione di tutti e soprattutto di don Liborio, Helm ripartì per l'Austria. Tornò a fine estate col padre, la madre e il fratello minore, per consegnare a Ada l'anello di fidanzamento; e soprattutto per fissare la data delle nozze. Vedere questi austriaci, che non avevano mai messo
piede fuori della loro terra, a passeggio con Ada, i bambini e i suoceri, richiamò alla memoria di alcuni, vecchie cose; e siccome Ada era bella - il nuovo amore, a trent'anni, l'aveva fatta anzi bellissima - qualcuno disse che «questa con gli stranieri, c'è sempre andata d'accordo»; ma lo disse senza sprecarci troppe parole cattive. Nessuno, infatti, almeno all'inizio, riconobbe in Helm il soldato straniero che Ada aveva amato in guerra. Passò per «uno ricco, di fuori, un americano; per forza che se l'è venuta a prendere, bella com'è» Non importava più niente a nessuno. Ciononostante, don Liborio appoggiò la proposta di Helm di sposarsi in Austria e non a Sulmona. Era meglio. Così si sposarono sotto Natale a Traunkirchen - officiante nella doppia lingua, com'era naturale, don Liborio stesso. La cerimonia avvenne con intorno un manto di neve che richiamò a tutti quella altissima di tre anni prima. Rimasero lassù fino alla fine delle feste di Natale, ma solo perché Ada aveva ottenuto un congedo matrimoniale all'ospizio di Santa Chiara, o sarebbe tornata prima. L'Austria incantò tutti come un paese di fate, con le case dai lunghi tetti di legno spioventi, il lago grigio, i monti bianchi e tutto pulito, in ogni stradina del paese. Ma fu subito chiaro che Helm sarebbe venuto a vivere in Italia. L'aveva messo in conto anche lui. Era una cosa che lo preoccupava, ma non aveva mai pensato diversamente. Ogni altra soluzione era impossibile. Ada lavorava a Santa Chiara, i bambini dovevano studiare e non conoscevano la lingua, i suoceri stavano facendosi vecchi. Fecero allora il patto che sarebbero tornati a vivere in Austria solo se le cose fossero andate proprio male in Italia, ma che si sarebbero impegnati tutti e due perché non succedesse. Helm rassicurò i suoi familiari dicendo che da ragazzo aveva già lavorato col padre a Milano; l'Italia era subito dopo il confine. Anche se ci voleva un giorno, poi, per arrivare in Abruzzo. Così nel '47 Helm aprì a Sulmona una piccola ferramenta, andando a rifornirsi ogni tanto in Austria, o in Germania, di materiale che non si trovava in Italia. E venne fuori, o meglio si confermò una cosa: era un grandissimo lavoratore. La sua dedizione al lavoro era pari a quella per gli affetti. Era ordinato, serio, preciso e capace di farsi in quattro per ogni richiesta che gli arrivasse, attinente o no al suo lavoro. Il risultato fu che, con tutto quello che c'era da rimettere in piedi o da far funzionare, gli caddero addosso richieste da tutte le parti, e non solo da carpentiere; da meccanico, fontaniere, autista, muratore, per ogni abilità manuale occorrente. Ormai tutti l'avevano riconosciuto come il soldato ch'era stato l'amante di Ada. La colpa divenne un merito. L'assoluzione arrivò in forma generale, dissero: «Be, se l'è sposata» E aggiunsero con meraviglia: «Però: se n'è venuto a vivere qua» Sul lavoro, poi, era tutta una lode: «E' uno serio. Si vede. E' proprio tedesco». Helm rinunciò definitivamente a rivendicare la sua nazionalità austriaca. Rinunciò anche al cognome, Habichter - impronunciabile con tutte quelle "acca" Per tutti fu quello ch'era sempre stato: il tedesco. Quando serviva qualcosa, anche in condizioni impossibili, c'era il tedesco. Quando si parlava di un lavoro che nessun artigiano sapeva fare, bisognava rivolgersi al tedesco. Quando qualcosa non si trovava, si diceva: «Sei stato dal tedesco? Prova dal tedesco» Helm trattava con la stessa teutonica precisione la richiesta di trenta finestre da rifare per la curia vescovile e quella, fattagli da un contadino di Bugnara, di dieci chiodi grossi, in uso anteguerra. Imparò meglio l'italiano e l'impaccio della pronuncia, che non perse mai, contribuì a farne l'immagine. «Non sa tanto parlare, però capisce» dicevano. Ada si sforzò di non rimanere incinta subito. Non voleva perdere il lavoro, ma non voleva neanche aspettare troppo e così, un anno e mezzo dopo che Helm era venuto a vivere a Sulmona, si accorse di essere in attesa. A
marzo del '49 partorì una bambina e tutti impazzirono per la gioia; Ada aveva trentatré anni, Helm poco più di trenta. L'unica cosa su cui puntò i piedi fu che non si chiamasse Gertha come la madre di lui. «Gherda no, proprio no.» «Perché?» chiese Helm. «Perché in italiano somiglia a una brutta parola, e la farebbero martire a vita, con la rima» rispose. «Cosa qvesto ri-ma? Reim? Was... che ri-ma?» chiese. «Merda» risposero all'unisono Ezio e Mino. La loro risposta congiunta fu più convincente di ogni altro argomento e di chiamare la figlia con un nome così pericoloso in Italia non si parlò più. Trovarono però un nome che ci somigliava: Greta, ch'era quello di una famosa attrice del cinema. Ada riprese a lavorare due settimane dopo aver partorito. La ferramenta di Helm cominciò a godere di quella strana sorte che alcune attività commerciali conoscono, trasformandosi in qualcosa di diverso da ciò per cui sono state messe in piedi: diventano un punto dove tutti vanno. Naturalmente ospiti fissi erano Ezio e Mino, ai quali Helm voleva bene come se fossero figli suoi. Non distingueva assolutamente tra loro e la bambina, e lo faceva per carattere, non perché fossero figli della donna che amava. Quando era l'anniversario di Rino, si rivestiva anche lui e li portava tutti al cimitero, rimanendo tuttavia a una certa distanza dalla tomba, per rispetto, fino a quando gli dicevano di avvicinarsi; non si sarebbe mai fatto avanti senza invito, come non sarebbe mai mancato a una ricorrenza tanto importante per la sua famiglia. L'unico a lamentarsi di lui con qualche strillo, nei primi tempi, fu Mino perché "papà" tornava sempre tardi a casa e non giocava a pallone. Non aveva mai dimenticato che alcuni anni prima erano stati Helm e Spuk ad ammetterlo alle partite al campetto. Molti paesi del circondario erano distrutti. A volte a Helm capitava di salire col camion verso Falena e non lo faceva volentieri. Diceva di non ricordare il punto dov'era stato ferito, ma non era vero. Una volta che Ezio l'aveva accompagnato, raccontò che al ritorno si era fermato in un certo punto, era sceso, era tornato indietro ed era rimasto lì mezz'ora a fumare in silenzio, guardando la terra davanti ai suoi piedi, senza dire e senza voler sentire una parola. In quel punto - tre passi avanti, tre passi indietro - la vita era stata incerta se riprenderselo o se darlo in consegna a un'altra padrona. E invece nella valle a una ventina di chilometri aveva trovato la gioia. Strano il destino. Ognuno ha davvero un luogo che lo aspetta. Può essere un luogo di vita o di morte, ma del primo, spesso, non ci si accorge, e del secondo non si può mai raccontare. Ada e Helm parlavano italiano, come poteva lui, tra di loro. Ma non parlavano moltissimo, non ne avevano bisogno. La forza di carattere di lei non mancò di fare qualche scintilla a contatto con la determinazione di lui, come due pezzi di acciaio che, prima d'incastrarsi quasi alla perfezione - perché la perfezione, proprio, non esiste -, fanno un po di fiamma, sfregandosi verso il punto d'incontro. In quei casi la bocca di lui si serrava qualche ora, la gamba cominciava a ballare sul piede e gli occhi nocciola lanciavano fiammate che, però, di regola, si spegnevano nell'arco del giorno. E se qualche accidente mandava, a bassa voce, se ne sentiva solo l'intonazione; il dialetto del Salzkammergut schermava tutto. Ormai si erano tirati su. Con l'attività di lui e il lavoro di lei, potevano mettere qualche soldo da parte e allontanare il ricordo dei tempi della guerra: Ada conosceva un benessere che per lei significava soprattutto assenza di preoccupazioni; lavorare era un minimo prezzo da pagare a questa nuova fase della vita. All'ospizio ormai non faceva più lavori ai vecchi, aveva preso in mano l'organizzazione. Nel '51 partorì ancora, un maschietto. Questa volta non ci furono santi, si chiamò Werner, come il nonno austriaco. Ada stava per iniziare una delle sue battaglie, «Werner? e che nome è?», ma la dissuase Ezio dicendo che tutti l'avrebbero chiamato Rino. E così Rino,
registrato all'anagrafe Werner Habichter, si chiamò per tutti l'ultimo figlio di Ada. Il nome del primo marito rivisse nel figlio avuto da Helm; per la felicità, ovviamente, anche dei suoceri. Poi, negli anni seguenti accaddero altre cose inaspettate. Cominciarono a diffondersi le automobili e Helm, pur essendo carpentiere, manifestò subito interesse per la novità. Finora si era occupato solo di aggiustare qualche macchina agricola, soprattutto mototrebbiatrici; non era il suo mestiere, ma negli anni dopo la guerra non si andava troppo per il sottile. Avviò allora nella stessa ferramenta un ricambio di pezzi d'auto. Con gli anni, quell'attività, che era stata pensata come secondaria, si sviluppò molto. Helm riprese a mordersi il labbro inferiore e a parlare poco, come se per la testa gli passasse qualcosa che si sforzava di allontanare, per l'impegno necessario, ma che tornava alla carica. Poi se ne uscì una sera - e non lo disse affatto diplomaticamente: «Penso andare a Pescara. Qvi Sulmona è paes-se. Lì tutta città ricostruire. Lì va tutto lavoro». E, sebbene Ada nei mesi seguenti mettesse in campo le più sottili strategie italiche per vincere la battaglia contraria e impedirgli di andarsene da Sulmona - dal silenzio a certe girate di spalle che durarono mesi, sotto le lenzuola -, l'Austria felix si trasferì sul mare, dove stava sorgendo una grande città. Fu un bene, perché a Pescara l'attività s'ingrandì davvero. Helm assunse un aiutante, poi due, tre e per anni lavorò gran parte della settimana a Pescara e il fine settimana a Sulmona. Poi, dovette assumere più aiutanti all'anno. Dieci anni dopo, nei primi anni Sessanta, era il rivenditore di ricambi d'auto più conosciuto d'Abruzzo, con filiali a Chieti, L'Aquila e Lanciano, e senza aver dismesso l'attività di ferramenta in ogni sede, che teneva sotto un'altra ditta. Ormai da anni la contabilità, per la sede di Sulmona, era gestita da Ada, che si era dovuta arrendere all'evidenza dei fatti e dimettere da Santa Chiara. C'era troppo da fare nella ditta di famiglia. Quando aprirono una filiale a Teramo e una a Vasto, capirono che dovevano trasferirsi tutti a Pescara. Ezio stava finendo Medicina a Roma. Mino non aveva voluto studiare e lavorava con Helm; Greta e Rino erano ancora piccoli. I suoceri erano morti; fino all'ultimo, Helm, nel poco tempo che aveva a disposizione, li aveva trattati con la stessa deferente attenzione di un soldato tedesco "un po scemo" - come lui stesso ripeteva ridendo -, ammesso a casa loro. Loro gli avevano sempre voluto bene. A metà degli anni Settanta le filiali del tedesco arrivarono ad avere, complessivamente, sessanta dipendenti. Ada aveva passato i cinquant'anni ed era ancora bella. Era diventata nonna sia di Mino che di Ezio. Poi, uno dopo l'altro, anche i figli piccoli erano cresciuti, si erano sposati e se ne erano andati di casa. Gli anni seguenti furono tutti uguali, veloci e di crescente benessere. Loro vivevano con semplicità. Pensavano all'azienda, non frequentavano persone fuori della famiglia, che era già abbastanza numerosa e in grado di assorbire tutto il tempo che non era assorbito dal lavoro. D'estate si concedevano due, tre settimane in Austria a passeggiare nei boschi, come due orsi bruni appenninici migrati sulle Alpi. Ogni tanto si guardavano in faccia, per essere sicuri che tutte queste cose stessero davvero succedendo. Quando ebbero qualche preoccupazione, che non mancò, l'affrontarono come se si riaffacciasse il passato, aspettandolo al varco come si aspetta, sfidandolo, un vecchio nemico, per regolare i conti: lo presero per le corna, facendogli intendere che doveva proprio sloggiare dalla loro vita. Erano una bella famiglia, Ada, Helm e i figli. Si erano costruiti una villa ai colli, nella zona bella di Pescara; Helm aveva comprato una casa a Traunkirchen e una vecchia grande masseria a Sulmona, che aveva fatto ristrutturare, sulla stessa strada dove aveva abitato Ada, ma più fuori. I figli vivevano tutti a Pescara. Mino e Werner avevano ormai preso in mano l'azienda. Gli anni
Ottanta scivolarono così, crescendo i nipoti, lavorando anche se avevano i capelli bianchi e non dimenticandosi di aiutare ogni tanto qualcuno che aveva necessità, dopo averlo guardato bene negli occhi. Sia Ada, sia Helm erano in grado di riconoscere i veri segnali del bisogno. Nel '71 avevano festeggiato le nozze d'argento. Nel '96 festeggiarono quelle d'oro. Pochi mesi dopo, Ada compì ottant'anni. Non li dimostra proprio, dicevano; e lei stessa non ci credeva. Aveva i bargigli al collo, sotto al foularino; ma non se li sentiva - era vero - ottant'anni; certe volte pensava che sarebbe ripartita alla carica e se li sarebbe rifatta all'indietro tutti quanti. Helm doveva compiere settantasette anni. Era un bel tedesco. Se non avesse avuto quell'aspetto straniero nessuno lo avrebbe scambiato per un italiano; l'espressione severa; il prendere tutto sul serio; il modo di ragionare tutto squadrato, o bianco o nero, lo facevano apparire nordico più di una caricatura di nordico. Fisicamente, poi, era rimasto magro come un ragazzo, lo sguardo diretto, chiaro, incapace di finzione. Fu proprio alla festa per le nozze d'oro, però, che qualcuno si accorse di quanto s'era fatto vecchio. Non perché zoppicasse di più, come aveva preso a fare negli ultimi anni, nel bel vestito scuro tagliato apposta per l'occasione, ma perché volle fare un discorso col microfono, tenendo la figlia più piccola di Werner, Dina, in braccio. Fu un disastro. Andò bene fino a quando parlò di come nel '43, in piena guerra, lui e Ada si erano conosciuti a Sulmona, si erano innamorati e s'incontravano di nascosto - «. Non proprio tutto io racconto!», disse, facendo ridere i presenti; Ada alzò gli occhi; era una battuta collaudata, la faceva sempre - fino a quando arrivò a parlare del giorno in cui l'avevano ferito in montagna. Allora si fece silenzio tra i figli, perché non vi aveva mai fatto cenno. Non riuscì a parlarne neanche questa volta. Dopo aver detto qualche frase, strinse la bocca e tacque, mettendosi a fissare un punto oltre il tavolo, e annuendo a lungo, come se guardasse una scena di cinquantatré anni prima, che solo lui poteva rivedere. Ricordò i compagni, ne disse il nome; ragazzi di vent'anni come lui, morti tremando nel sangue annacquato di neve, dopo che li avevano tirati giù dal camion colpito dall'aereo, già privi di conoscenza. Anche lui, dopo che l'avevano messo giù, aveva perso i sensi, guardando quel cielo grigio e basso, che aveva pensato fosse l'ultimo. S'interruppe, tirò fuori dal taschino il fazzoletto e si asciugò gli occhi. Tutti avevano abbassato le videocamere, perché non andava bene riprendere quel momento. Si è proprio fatto vecchio, si commuove in pubblico, pensò Ada. Poi, siccome era chiaro che non riusciva a riprendere a parlare, Rino e un nipote fecero partire l'applauso. Ma una voce uscì dal microfono, come un singhiozzo: «Es ist wohl ein Traum... Io sono morto lì, questo io credo a volte: tutto il resto, tutti questi anni, tutti voi siete stati un sogno. Una cosa che non so se è successa davvero. Il tempo si era fermato là, a Falena, in quel giorno d'inverno. Chissà... Forse oggi è la festa di questo sogno» Poggiò Dina per terra, guardò Ada e le prese la mano. «Lei è la donna che ho sognato» disse con la stessa cupa serietà di quando, da ragazzo, si metteva la mano sul cuore «ma lei è stata anche l'unica certezza della mia vita. Ha vegliato per ore accanto al mio letto, quand'ero mezzo morto in ospedale... lei mi ha strappato alla morte: lei ha lottato per amore, ha sofferto per noi, anche quando non dice... e dunque lei è vera. Io ho sognato. Però una cosa dico: se tornassi indietro cinquant'anni, questo sogno vorrei risognare, e nessun altro.» La frase finale era bella e aveva commosso tutti. Si risedette, tirando fuori il fazzoletto dal taschino. Tutti applaudirono ancora. Quelli che erano seduti scostarono le sedie e cercarono di raggiungere il loro tavolo e di baciarli, perché erano proprio una bella coppia d'innamorati, anche cinquant'anni dopo le nozze. Ma Ada era più vicina degli altri a Helm, per cui gli prese la testa tra le
mani; che gesto tenero - pensarono tutti - vuole baciarlo perché si è emozionata, mentre lei gli avvicinava le labbra alla guancia. Ada però non aveva intenzioni romantiche. «Non ti azzardare più a bere tanto» disse a bassa voce al marito. «Sei un cretino. Ti fa male, con la pressione che hai, te l'ha detto anche il medico. Ricordati che ti è successo l'altra volta. Perciò niente champagne al brindisi. Fa solo la mossa. Hai capito? Guarda che ti tengo d'occhio.» Tre anni ancora. L'ultimo, il 1999, aveva dato la speranza di varcare il nuovo millennio e di entrare nel cinquantaquattresimo anno di matrimonio. Ormai lui e Ada si muovevano sempre meno. Passavano il tempo soprattutto a casa, curando il giardino e la serra. Helm si era rimesso a fare il carpentiere e aveva attrezzato un piccolo laboratorio a uso personale nella dependance dei box. Figli e nipoti venivano a trovarli e loro erano contenti: ma lo erano anche quando se ne andavano. Era così: con gli anni le energie venivano meno e i giovani non capivano. Li credevano eterni, li vedevano sempre uguali; e questo faceva piacere a loro, che si sforzavano di sostenere la parte, ma potevano riuscirci poche ore, non di più. Poi, quel giorno di giugno. A metà mattina. Ezio aveva dormito da loro quella notte, perché la moglie, i figli e i nipoti erano fuori. Dove s'era cacciato? Di sicuro con Helm, da qualche parte; Ada non li aveva sentiti da quando si era alzata, ma la villa era grande o potevano anche essere fuori. Poi, guardando dalla finestra, Ada vide che il cancello si apriva - era Helm col telecomando, pensò, o forse Ezio - e la macchina di Greta entrava e si fermava in mezzo alla piazzetta: così, benedetta figlia, senza preoccuparsi di chi dovesse entrare o uscire dopo... ma perché correva ad abbracciare Ezio? le era successo qualcosa? Sì, doveva esserle successo qualcosa. Aveva perfino lasciato aperto lo sportello. Scese le scale con ansia. E quando arrivò, stava entrando anche la macchina del figlio di Werner, con accanto la madre. A farle capire tutto, furono Ezio e Greta che piangevano abbracciati e il nipote che telefonava al padre. «E' successo qualcosa a Helm?» disse; non sopportava che stessero così, con lei davanti, a piangere, e non rispondessero. Parlò Ezio, mentre la figlia correva ad abbracciarla singhiozzando e al nipote squillava, in modo incongruamente allegro, il telefonino; era Mino che chiamava. «Stava nel garage, ma, quando sono entrato» disse Ezio. «Era seduto... sulla poltrona vecchia. L'ho chiamato, non rispondeva, l'ho scosso: papà, papà! Non aveva polso, mi sa... che era successo tutto già da un po... Adesso abbiamo chiamato subito l'ambulanza, arriva da un momento all'altro, però... a ma, non serve a niente, ti devi fare forza... se n'è andato... sai, con la pressione che aveva...» L'unica cosa che riuscì a fare fu di continuare a battere la mano sulla spalla di Greta che singhiozzava Per rincuorarla. Helm era morto. Non poteva crederci. Di colpo! sì, all'improvviso. Che modo scemo di morire, si disse. E' offensivo anche. Senza prepararla. Senza dar modo a nessuno di organizzarsi. Non riusciva a piangere, scuoteva la testa. Per deplorare quello che il destino aveva fatto, a lei e a tutti. Non se lo meritava. Far morire Helm prima di lei. Farle mancare un'altra volta il compagno, adesso ch'era anche vecchia e quindi più debole... che vigliaccata prendersela con una donna sola. Aveva quattro anni più di lui, toccava a lei morire prima, e che diamine! a due mariti doveva sopravvivere, nessuno che rispettasse i tempi giusti. Uno era morto giovane, quest'altro, comunque, prima di lei. La condussero nel box, tenendola sottobraccio. Helm stava in poltrona, con la faccia ripiegata su una spalla. Sembrava che dormisse. Non sopportava che lui non la guardasse con gli occhi nocciola chiaro color oro color ambra, Dio come le sarebbero mancati quegli occhi - e pensando questo pianse, mentre gli accarezzava una guancia. «Datemi un fazzoletto» disse, ma non era per sé, voleva asciugargli un filo di saliva dal labbro al mento prima che arrivassero gli
altri. Aveva ancora colore: le guance con una punta di rosso, le labbra non ancora esangui. Poi, tutti quei capelli bianchi. Era bello, vecchio e bello, il suo Helm. Lo baciò sulla fronte. E bravo il tedesco, pensò. M'hai fatto innamorare tanti anni fa, quando portavi ancora l'uniforme e tutti dicevano che dovevo trattarti da nemico. Mi hai salvato la vita, quando i soldati hanno sparato al deposito. Mi hai salvato fino a oggi, sei stato l'angelo straniero della vita. Mo questo non me lo dovevi fare: non mi ci so vedere senza te, dopo tanti anni. Adesso sì che mi farai morire. E... vuoi sapere? Non mi dispiacerebbe per niente di venirti appresso - disse, tirando su col naso, mentre lo adagiavano lungo lungo e magro, ancora come un ragazzo, sulla barella.
CAPITOLO 12 Si è svegliata al tramonto, con la testa su un braccio che le fa male. L'ombra del grande faggio sotto cui si è stesa l'ha protetta. Con la primavera meno avanzata, sarebbe morta di freddo, con l'estate, di disidratazione; ma i primi giorni di giugno sono amici della vita e non temono né il gelo né la vampa del sole. Ha la testa pesante. Vuole solo riaddormentarsi. Così morirà dormendo. Ne è sicura, ormai. Se per tante ore nessuno è salito, non la ritroveranno in tempo. Arriveranno tra uno, due giorni, comunque troppo tardi per lei. Spera di non soffrire, ecco. Vorrebbe morire senza accorgersene, ma anche la morte, come ogni altra cosa della vita, non dipende solo da lei. Piange. Di rabbia per se stessa, a pensare in che situazione è andata a cacciarsi, a ottantaquattro anni sonati. Cosa credeva, di aver ancora le forze di quand'era giovane? Ma non accetta di darsi tutta la colpa neanche adesso. Non serve. Lo sbaglio che ha fatto è solo un tranello usato dal destino per farla uscire dalla vita. Helm l'ha fatto all'improvviso, da solo anche lui, su una poltrona in garage, vicino ai suoi attrezzi da carpentiere. Per lei il destino aveva in serbo un modo selvatico di morire, da vecchia montanara. A ognuno il suo. Se non fosse stato qui, alle coste del Morrone, qualcosa del genere l'avrebbe attesa da qualche altra parte. Solo nel momento in cui uno muore, capisce quello che è, prima no. Prima ci sono tante altre cose possibili davanti; tutto può ancora cambiare. Ma quando arriva quel momento, un attimo prima di morire, una voce dice: ecco, adesso ti puoi voltare; non ci sarà più altro; ormai tutto è alle spalle. E' l'unico momento in cui si riesce a dire alla vita: ora non mi costringerai più a fare altro. Pensa di essere svenuta. O forse si è solo addormentata. Le sembra di avere sentito a tratti i grilli e gli uccelli. Le sembra che l'aria sia diventata calda verso mezzogiorno e che il vento l'abbia svegliata. Si gira dall'altra parte, richiude gli occhi. A svegliarla, ch'è sarà ormai, è un rumore. Forte, da disturbarla quasi. Le ruote di una macchina hanno frenato all'improvviso sulla strada, subito dopo la curva, prendendosela coi sassi della strada sterrata. Le sembra di sentire un grido ovattato. Il rapido aprirsi delle portiere del fuoristrada lo rende nitido. E' la voce di Greta. «Mamma, mamma! Oddio qua stai!» corre verso di lei piangendo, insieme con altri, ma Ada non ha proprio la forza per girare la testa e vedere chi sono. L'hanno trovata, dunque. Bene. E stata ancora fortunata. La vecchia nera con la falce deve tornarsene indietro, per questa volta. Arrivano insieme Ezio e Greta. Sente che la tirano su per le spalle, le sollevano la testa. «Mamma, mamma! Mi senti?» le chiede Ezio battendole con la mano le guance. Ha gli occhi pieni di lacrime, ma non vuole farlo vedere. Ti sento - vorrebbe rispondere, se potesse - e non è necessario che ti metti a piangere. Ezio avvolge la giacca e gliela mette sotto la testa, tenendole il pollice premuto sul collo, per sentire il battito del cuore. Dietro di loro, in piedi, c'è Samuele, il figlio piccolo di Werner. «... Oddio, mammina bella, t'abbiamo ritrovata!» La voce di Greta si spezza nel pronunciare quest'ultima parola. «E come t'è passato per la testa di venirtene sola sola qua sopra? Ci hai fatto morire di paura... Lo so, la colpa è nostra, ti dovevamo stare dietro!» Ecco, adesso cominciano coi rimproveri. E a dirle ch'è fuori di testa. Prova a parlare, ma le esce solo un gorgoglio al posto delle parole. Ezio dice di rimetterle giù la testa, sulla giacca. A lei sembra che tutta l'energia sia scivolata nelle gambe. Un cellulare si mette
a squillare. Il nipote risponde. «... Sì, a pa, l'abbiamo trovata qua, sopra al Morrone!» dice. «Qua sopra... cioè insomma non tanto sopra, dove comincia a salire la mont...» Ezio deve avergli tolto di mano il telefonino: «Rino, sta qua, sta qua, l'abbiamo ritrovata... sta... eh, sta come sta. Debole. Alle coste sopra a Fonte, capito? Vienici dalla strada vecchia, un paio di chilometri dopo la fine dell'asfalto, dove comincia a salire la brecciata... sali, dopo qualche curva vedi la macchina mia, forza. Senti: fatti venire dietro l'ambulanza... subito, Ri! Io mo chiamo il medico... tu corri al Pronto Soccorso; il capo, prima, mi ha detto che mi avrebbe messo un'ambulanza a disposizione. Nel caso, chiama» Come sono bravi, i suoi figli. Pensano a tutto. Prova a sorridere alla figlia e al figlio, per farsi perdonare. «Sammy, va a prendere l'acqua in macchina» dice Ezio. Bravo, vorrebbe dirgli, ho una sete da morire. Quando le alzano la testa verso la bottiglietta, manda giù due sorsi. Vorrebbe mettersi più comoda e bere ancora. Fa cenno di tirarla su. Ma la chioma del faggio diviene grandissima, si riempie di stelline colorate e avvolge tutto nel buio. In ospedale, la sera del giorno dopo, c'è aria di festa. Se ne accorge dalle facce che ha intorno - moltissime tra figli, nipoti e una pronipote tutte felici. E' felice anche lei. I suoi familiari si sono parlati. Tutti hanno saputo dove l'hanno ritrovata. Brutta avventura per la nonna. Andata sola in montagna, per orapi. Comincia la serie dei rimproveri, ma fatti sorridendo, mentre Greta non smette di carezzarle la testa e di guardarla con occhi preoccupati. Mino è sempre il più irriverente: «Ma, ieri ci hai fatto pigliare un accidente che... ecco, io mo non so se, quando ti dimettono, mi ci metto io dentro a 'sto letto d'ospedale. Insomma... tutti mi hanno raccomandato di non dirtelo... te ne sei andata sola sola a fare gli orapi in montagna; e brava; non potevi farti accompagnare, no? Sempre la solita testa dura. E noi ci siamo girati tutta Sulmona, casa per casa. Siamo andati al cimitero, casomai ti fossi sentita male là. Abbiamo guardato tutte le strade intorno, casomai te ne fossi calata lungo la via. Abbiamo pure telefonato su, a quelli di Roccaraso e Pietransieri, perché magari mamma - che ne puoi sapere? - è salita a trovare i figli di zia Antonina. Niente». Si guarda intorno per vedere se può continuare, perché gliel'avevano proibito, prima. «Anche la polizia a quel punto ha cominciato a mandare le volanti, noi ci siamo fatti tutte le strade di campagna, in mezzo ai campi... Tu non ci vorrai credere, ma sai a chi è venuto in mente per prima che potevi essertene andata al Morrone per orapi? A Caterina. Non è che è andata in montagna a raccogliere gli orapi? ha detto, è il tempo loro; nonna dice sempre che deve farmi vedere come si preparano, come li cucinava quand'era giovane. Così Ezio e Greta, che ci hanno perso un anno di vita 'sti due poveracci, sono saliti a cercarti con Samuele, mentre noi giravamo sopra a Pacentro, verso Pettorano e in un sacco di altri posti da orapi. Sai perché è voluto venire Ezio là dove stavi? Perché io non sapevo la strada. Lui la sapeva: tantissimi anni fa era venuto a prenderti in bici prima che ti sposassi con papà. E ha fatto centro! Là t'abbiamo trovato! Dio ti benedica, Cateti! vieni qua, da un bacio a zio» dice accostando le labbra ai capelli della nipote che sorride. «Come ci hai pensato, Stelli?» «Solo una cosa, nonna» chiede Caterina. «A Fonte come ci sei arrivata?» Si fa silenzio perché solo questo tassello manca alla ricostruzione dei fatti. «Con l'autobus» risponde. «E a che ora sei partita?» «Col primo della mattina.» «Col primo della mattina...» ripete Mino « cioè sei uscita di casa verso... che ora?» «Verso le sei.» «Quando stavamo tutti a dormire?» Ada fa cenno di sì. Parecchie teste si scuotono. Mino dà voce a quello che pensano. «A ma» dice con quel tono un po sul disperato, un po sul teatrale che fa di lui il portavoce della famiglia «uno adesso non ti vuole rimproverare sennò qua tutti gli sparano, ma
insomma ti sembra il caso, alla tua bell'età, di andartene da sola a fare una stronzata del genere? E ti mancava 'na macchina che ti ci portasse? Dieci ce ne stavano, solo intorno a casa. O prendevi un taxi... tutti i tassisti abbiamo sentito, lo sai? anche se Greta ha detto: no, non ha preso il taxi, non lo prende per non spendere. E vabbo. Comunque, ammesso e non concesso che 'sti cazzo di orapi fossero così importanti, non li potevi comprare? Si trovano, no? al mercato, dai contadini, da qualche parte. No, tu sempre speciale: li devi andare a raccogliere di persona. In montagna. A rischio della vita. Eh. E questo naturalmente perché nessuno mai ti può dire che devi fare e nessuno mai può sapere che ti passa per la testa... Non potevi lasciare due righe? Va-do al Mor-ro-ne a rac-co-glie-re gli ò-ra-pi!» sillabò per far pesare il rimprovero, scuotendo le mani giunte. «Eh, benedetto Dio! Ci hai fatto perdere cento chili, fra tutti quanti. Il telefonino no, che non lo sai usare; essere portata no, che nessuno lo deve sapere; andarci accompagnata da qualcuno no, non sia mai... a parte il fatto che non lo trovi uno così matto che ti venga appresso là sopra. Ma almeno lasciare detto, lasciare scritto do-ve an-da-vi: da sola là sopra, questo lo potevi fa...» «E voi non me l'avreste fatto fare!» sbotta. «Se ve l'avessi detto prima, me l'avreste impedito. Se ve l'avessi lasciato scritto, mi sareste corsi dietro prima che ci arrivassi. Sì, lo so che ho sbagliato; ho sbagliato. Sono stata... avventata. Chiedo scusa a tutti. Non succederà più. Voi però adesso dovette essere altrettanto sinceri.» Li squadra con un'occhiata, tre generazioni non ce la possono ancora, con lei. «Voi non ci sareste venuti e l'unico risultato dell'avervi avvisato sarebbe stato quello di sentirmi rispondere no, non ci vai. E a me non piace sentirmi dire di no. Preferisco non chiedere. E poi non è questione di orapi e di verdura. Gli orapi non sono soltanto... una verdura; sono...» Le dispiace di aver iniziato la frase. «per me, almeno... sono...» Ma perché adesso s'è andata a ficcare in questo discorso... «... Sono?» chiedono i figli insieme. «Un'altra cosa.» «Cosa?» «Una... vittoria» abbassa la voce. Non le viene in mente nessuna parola per nascondere il pensiero; di male in peggio - pensa. «Una che?» Risponde la nipote: «Ha detto una vittoria» Si fa silenzio. Ada si rende conto che deve raccontare, a questo punto. Non può tenerli tutti là intorno, dopo che l'hanno salvata, lasciando la frase a mezzo. «Voi non... sapete. Perché non ve ne importa di sapere ed è giusto che sia così. Avete avuto un'altra vita, siete nati... o siete cresciuti nel benessere. Ma noi vecchi ricordiamo cose che sappiamo solo noi... e abbiamo il dovere di non scordare. Guai se succedesse. Sarebbe peggio di un peccato mortale. Io sono nata a Pietransieri e questo lo sapete. Sono una montanara, cresciuta sugli altipiani a millecinquecento metri. Sono stata un'orfana di padre, in tempi in cui non ti aiutava nessuno. E andavo per orapi con mamma e con Antonina. Anzi, prima di loro, ci andavo con nonna, che per prima mi ha insegnato come trovarli e riconoscerli, non solo vicino agli stazzi, ma anche dove l'erba è battuta, perché il pastore ci è passato col gregge: spianata, diciamo noi... così sono nati i tratturi, nell'antichità.» «Al tempo dei romani?» la interrompe la nipotina di Ezio. «Prima. L'Abruzzo è una terra antica» riprende. «E dove passa il gregge, sempre più in alto, di giorno in giorno, lì... si concima la terra. Così nascono gli orapi. Sugli altipiani nostri, da Roccaraso a Pietransieri, da Pescocostanzo a Rivisondoli, tu le vedi queste vie che portano agli orapi. Pare che t'aspettino, pare che ti chiamino con una voce nel vento, che solo i poveri possono sentire... Sai perché, ninni?» carezza la guancia della pronipote. La piccola scuote la testa. «Perché i poveri sono gli unici
che ascoltano. Non si possono permettere di non ascoltare. Debbono tenere le orecchie sempre dritte e capire, giorno per giorno, come fare a campare. Così dice la canzone delle vedove poverelle, che cantavano le nostre nonne: per anni sono andata, piangendo, per orapi. Io sono stata una di loro. E ci sono rimasta, che credete? Soltanto le donne sole, col dolore nel cuore, possono andare per orapi. Salgono, salgono, salgono. Pregando e piangendo, perché là sopra, finalmente, nessuno le vede e possono farsi uscire le lacrime. A casa no, mai. Guai a farsi vedere. Questo è successo per secoli. Oggi succede un po meno, perché c'è benessere. Ma in futuro, chissà, forse potrebbe succedere ancora.» Fa una pausa. Deve cambiare tono. Le sembra di star imbarazzando tutti. «E poi c'è un altro motivo meno triste per andare a orapi. Nessuna verdura è tanto buona. Oggi sono un piatto da ricchi più di una volta. Per due motivi. Primo, perché nessuno ha più voglia di andarli a cercare: tutto dev'essere facile, veloce e con le macchine non si arriva alle coste dove stanno... neppure con le jeep che avete voi... e non basta arrivarci, comunque. Bisogna dedicare tempo a trovarli. Ci vuole l'occhio attento, "juorebe s'annascùnnene" - si dice - gli orapi si nascondono. Chi mi dà un bicchiere d'acqua?» Mino e Werner si alzano insieme per andarglielo a prendere. Ma non dicono una parola, perché vogliono che continui a parlare. Ada beve due sorsi e poggia il bicchiere sul comodino. «E poi?» chiede la piccola. «E devi prenderli quando è il tempo loro. Si possono raccogliere solo pochi giorni all'anno, quando si ritira la neve. Nascono piano piano, nel gelo, dove non cresce niente. Si affacciano al primo sole di giugno e subito si alzano, ma non resistono. Si spigano e non sono più buoni. Perciò bisogna regolarsi col sole. Se l'inizio di giugno entra col sole forte, bisogna salire subito. Se entra coperto, può anche rifare la neve, lassù, e. allora bisogna aspettare; anche per non morire congelati, se ci si va! Ieri era il giorno giusto. Mi sono svegliata come se... una voce mi dicesse di salire lassù ancora una volta...» Non sa se dire quello che le sta venendo in mente adesso. E' un ricordo suo; ma sì, può dirlo, oggi: « Io per orapi ci andavo con Rino, come in gita, ridendo, appena sposata; e pensavo: non mi capiterà mai di doverci andare da povera, come dice la canzone, e invece... sono rimasta vedova a ventiquattro anni... e ci sono salita non da povera, da poverissima... Poi è arrivata la guerra, i bombardamenti, la paura di non dare da mangiare ai piccoli; io ero sola, avevo perso il lavoro... e andavo sui monti. Poi ho conosciuto Helm. E anche lui, montanaro dell'Austria, conosceva gli orapi, che dalle parti sue non si chiamano così, hanno un nome lungo, complicato. E li mangiammo un giorno con don Liborio, buonanima, che poi ci ha sposato, e coi miei suoceri e con dei soldati portati da Helm, che si commossero, quei tedeschi che sembravano così cattivi, perché dalle parti loro c'è tanta neve e si trovano... e li davo anche da mangiare agli inglesi nascosti da don Liborio; se m'avessero scoperta i tedeschi, mi avrebbero fucilata... Lo sapete chi ha rischiato di farmi fucilare? Questo qua.» Sorrise e indicò Ezio. «Se ne uscì a dire, proprio di fronte a tutti i tedeschi, che io facevo da mangiare agl'inglesi nascosti da don Liborio; meno male che non capivano l'italiano, o mi avrebbero sparato.» «Ma nonno Helm non ti faceva sparare, ti salvava!» dice la piccolina. «Eh, povero nonno, non è che potesse fare granché, durante la guerra... Poi per fortuna la guerra finì. Si cominciò a vedere qualche segnale buono; già le cose s'erano messe meglio, e avevo ricominciato a lavorare a Santa Chiara, però dentro di me avevo giurato che sarei riandata su a cercarli. Avrei detto grazie al destino, raccogliendoli, proprio del fatto di non avere più bisogno di campare con la verdura selvatica. Avrei strappato alla terra quello che poteva sempre tornare a servire, un giorno; perché non andasse sprecato. Era la mia certezza, che mi aspettava sui monti. E fu scendendo dal Morrone che lo
rivi... che rividi Helm; Ezio ce lo portò, vennero in bici... quando fece quell'acquazzone, ti ricordi?» Ezio fa cenno di sì con la testa. «Per la strada vecchia che abbiamo rifatto ieri» aggiunge. «E così ci sposammo. Poi siete nati voi, sono nati i vostri figli... Ce ne siamo andati da Sulmona. Così è stato. Tornarci ieri, era... non so... una cosa sbagliata, sì, certo, ho fatto una sciocchezza, ma sarebbe stato ancora più sbagliato non farlo; magari non in quel modo... ho sentito delle voci che mi chiamavano... mi sono svegliata strana; non riuscivo a farle star zitte. Era come un sogno che continuava e mi metteva l'ansia. Mi sembrava che mancasse il mangiare... ero angosciata... Ho sbagliato, non me lo dite più. Ho sbagliato.» Tutti tacciono. Non la rimproverano più. Hanno sentito, in quel racconto, tutte le storie che fanno una vita, anzi più vite. Solo lei le conosce, e forse non le avrebbe raccontate più a nessuno, se non fosse successo quello ch'è successo. Ada prova un po d'imbarazzo, adesso. Sarebbe stato meglio stare zitta. Non è mai stata brava a parlare. Chiede, quando la dimettono. Tra stasera o domattina al massimo, le rispondono. «Io sto bene» dice con chiarezza, perché non venga in mente a nessuno di tenerla là come un'invalida. «Domani a che ora è la messa di Helm?» Alcuni scuotono la testa; è indomabile. Alle sei, domani pomeriggio rispondono - ma tu non sai ancora se ci puoi venire. Lo deve dire il medico. Guarda subito Ezio. E' medico, no? E' anche suo figlio. Non si permetterà di contraddirla. E' il giorno dopo la messa di Helm. Una mattina di sole all'inizio di giugno. E non presto come tre giorni prima, perché la gente, di questi tempi, è di comodo. Una fila di macchine si dirige piano al Morrone, come se stessero andando tutti a fare una cosa che non sanno fare, ma di cui sono convinti. Una cosa strana, da scuotere la testa. Assolutamente inutile. Assolutamente necessaria. Percorrono la strada fino a Fonte d'Amore, svoltano piano dietro le ultime case dei contadini, si lasciano alle spalle il boschetto che le nasconde e iniziano a salire i tornanti della montagna. Su! più speditamente, le altre macchine soffrendo un po di marce scalate, a ogni curva. Le case, ai piedi della montagna, sono tetti rossi e bianchi; i campi fazzoletti sempre più piccoli, verdi e gialli, macchie di colore regolari e ben pettinate. Sulmona, in lontananza, è una striscia nella conca, col campanile altissimo dell'Annunziata che si leva dal bianco. L'aria si è fatta fina, ma nessuno sente le voci nel vento, perché quelle vogliono la povertà e la fatica di chi sale a piedi, per farsi sentire, non gli stereo dei duecento cavalli. Nessuno si ferma al faggio sotto cui l'hanno trovata, perché a Ezio dà fastidio ricordarlo, ma Ada lo vede, o le sembra di riconoscerlo. I patti sono chiari: lei resterà seduta in macchina, mentre gli altri raccoglieranno gli orapi. Non farà il minimo sforzo, ci manca altro, col rischio che ha corso. E con tutti quei lavoranti ai suoi ordini. La cosa bella è che non ha dovuto chiederlo. Sono stati loro a offrirsi. Dopo la messa di Helm, Mino è salito in camera sua con Greta. Ha esordito con uno dei suoi profondi sospiri, dicendo: «Che si deve fare con te, ma...». Poi le ha chiesto: «Da uno a dieci, quanto ci tieni?» senza specificare a cosa si riferiva la domanda, tanto era inutile. «A cosa?» ha chiesto Ada, cominciando a sorridere. «Avanti, non far finta di non capire, che hai capito benissimo.» Per un attimo è rimasta incerta se continuare la parte, ma non è mai stata brava a fingere. Coi numeri sì, invece. Perciò ha risposto: «Undici» Mino ha fatto un cenno col capo. «Lo sapevo. E allora adesso stabiliamo le condizioni» ha detto, guardandola negli occhi. «Tu resti in macchina e non ti muovi. Dici dove dobbiamo fermarci, ci fai vedere dove dobbiamo raccogliere gli orapi e non ti alzi. Rino e la moglie, devi sapere, non erano d'accordo. E' stato Ezio a convincerli: si è preso lui la responsabilità di tutto. Ha detto che potevamo riportarti lassù, a queste condizioni. Perciò te ne stai in macchina: va bene?» Ha detto subito di sì. «Giura.»
«Giuro.» Così adesso ci stanno andando. La macchina di Mino guida la carovana. A un certo punto si ferma. Tutti si fermano dietro. Mino scende e si avvicina al fuoristrada di Werner, dove sta lei. Ada preme il pulsante per abbassare il finestrino, godendo del vento fresco che pizzica le guance. Sono abbastanza in alto. «Ma... dobbiamo salire ancora?» chiede il figlio. «Un altro po e arriviamo in cima!» «Non esagerare» risponde Ada. «Dobbiamo ancora arrivare allo stazzo più in alto. Sotto, corriamo il rischio che se li siano già presi. Là, no. Forza, saliamo.» Mino la guarda perplesso. «Sopra sopra, in pratica» dice. «Sopra sopra» ripete lei. Poi dice: «Senti un po, ci stai andando in macchina: io e tuo padre ci salivamo a piedi» Le macchine riprendono a salire. Lo stazzo appare alla fine di un sentiero. Parcheggiano sotto, tutti in fila. Scendono e s'incamminano, la moglie di Werner coi tacchi. Ada scuote la testa. Vuole andarci per orapi con quelli, pensa. Rischia di rompersi una caviglia. Resta seduta in macchina, con lo sportello aperto e i piedi sulla predella del fuoristrada di Werner. Che macchine strane, oggi: ci vuole la scala per scendere. Segue con lo sguardo tutto il plotone di raccoglitori - più di venti persone - che salgono per qualche decina di metri sul sentiero, col vento che muove i capelli alle donne. Hanno tutti già il fiatone dopo i primi metri. Ridono. Forse per la stranezza e l'assurdità di questa gita in montagna. O forse si stanno divertendo. E non stanno attenti agli orapi. «Sono questi, ma?» sente che le chiede Ezio, con un mazzetto in mano; ma la voce è arrivata in un soffio, da là sopra. E come faccio a vederli da qua sotto - vorrebbe rispondergli. Magari è un'altra erba. Va a finire che siamo venuti fin qua sopra, con tutta questa gente, per non raccogliere niente. Vorrebbe scendere, ma non può. L'ha giurato e in ogni caso non saprebbe come arrivare a poggiare i piedi sulla strada, dalla macchina. Sbuffa. Era tanto bella la Bmw di Helm, altro che 'ste jeep... Poi vede la nipote Caterina che scende a passo svelto da là sopra, per farglieli vedere. Ha il passo cadenzato e attento del montanaro che non vuol essere tradito da un piede messo in fallo; si vede che le piace la montagna; ce l'ha nel sangue, pensa Ada. A un certo punto Caterina si ferma. La vede mettere con prudenza i piedi fuori dal sentiero. Si china più volte, a strappare da terra qualcosa. Poi si rimette sul sentiero e arriva da lei, con un ciuffetto in tutte e due le mani. «Quali sono gli orapi, nonna?» chiede. «Questi o questi?» «Questi. Meno male che sei scesa a farmeli vedere.» «Quelli che ho preso io» dice buttando gli altri. «Adesso però devi risalire e farli vedere agli altri.» «Okay» risponde e fa per andarsene. «Aspetta» Ada la trattiene. «Prima aiutami a scendere da 'sto carro allegorico.» «Ma papà...» «A tuo padre ci penso io» taglia corto. «E comunque mica vengo là sopra. Voglio prendere quelli, li vedi?» dice indicando delle pianticelle sul ciglio del sentiero. «Vieni, andiamoci insieme.» Scende appoggiandosi alla nipote che le tiene le braccia sotto le ascelle. Mi sono proprio fatta vecchia, pensa, mi sorreggono. Guarda la nipote. Hanno ragione a dire che somiglia a lei. E' più bella. Chiara di occhi e di capelli, ha quel sorriso irresistibile, timido ma forte, che sembra dire alla vita: fatti sotto, che vediamo chi vince. L'aria della montagna le ha fatto uscire i colori alle guance. Per qualche minuto Ada raccoglie con lei gli orapi: finalmente! Torna a sentirne, nel palmo della mano, il tocco vellutato con cui ringraziano chi sale a far loro onore, cogliendoli. Sono appena cresciuti, si trovano nel momento migliore per essere raccolti. Poi dice alla nipote di portarne un po là sopra, da mostrare agli altri.
Riscendono tutti dopo un'ora, a gruppetti, dopo averne trovati moltissimi, con le buste di plastica gonfie, perché le retine non si usano più. Si rimettono in macchina e riscendono. Sono un po in apprensione per lei. Non vogliono che si stanchi. Una volta tornati a casa, la maggior parte della verdura viene lavata e messa nel congelatore. Parte viene cucinata la sera stessa. Ada la fa in padella e ci condisce gli anelli alla mugnaia, con la ricotta. Spiega a Caterina come si fa, come va cotta e quanto tempo deve stare sul fuoco. Il primo segreto è trovarla, il secondo saperla cucinare. Greta e il marito hanno fatto venire due coppie di amici da Pescara. Tutti vogliono assaggiare i famosi orapi. Alla fine ci sono trenta persone attorno alla tavolata; sembra come a Natale, ma è giugno e cenano in giardino. E' un trionfo. Quando Ada, Greta e Caterina riescono dalla cucina con i secondi vassoi, parte l'applauso. Ada non è soddisfatta. Per far vedere alla nipote quanto sale mettere, ce ne ha messo una punta di troppo, mentre quella verdura aromatica vuol arrivare in tavola quasi scondita, per valorizzare tutto il suo sapore; infatti poi, forse anche perché fa caldo, le sembra che gli ospiti cerchino spesso da bere. Poteva fare meglio. Un'altra volta deve stare attenta ad assaggiare gli orapi durante la cottura. E ad aggiungere sale, un pizzico, solo se necessario; anzi no, a non metterlo per niente in quelli che vanno a parte con la ricotta dolce; è meglio cuocerli proprio in due padelle diverse, per non confonderli. E non usare olio negli orapi alla mugnaia. Meglio il burro. Se ne ricorderà? Ci sono troppe cose a cui pensare. Forse l'anno prossimo respirerà ancora l'aria della montagna, dal sedile di una macchina. Poi arriverà il giorno che morirà. Sarebbe ora, no? con tutti quegli anni. Però anche lì c'è da farsi camminare la testa. Vuole dare delle... disposizioni. Non economiche, a quelle ha già pensato Helm col notaio. Su come affrontare la sua morte. Non la vede bene per niente: non per sé, per i figli. Non si fa illusioni, avranno un colpo. A Ezio e Mino verrà a mancare un mondo, e poco conta che Ezio sia già nonno; si ritroveranno... come sessant'anni prima. Quanto a Greta e Werner, che non hanno sofferto, sono anche meno forti. Farà così, allora. Alla prima occasione, lancerà il sasso e comincerà a dire che quel giorno, quando arriverà, devono farle tutti una promessa, di lavorare un poco. Come una piccola azione dimostrativa, per accontentarla e provare a se stessi che la vita va avanti. Come un piccolo rito, dalle radici affondate nel passato. Un giorno non lavorato è un giorno non guadagnato alla vita. Poi non vuole che piangano troppo. Sarebbe proprio cretino, con tutte le primavere che ha sulle spalle. E di motivi per piangere ce ne sono stati fin troppi prima. Ecco - questo deve dire - di ricordarsi di chi sono figli. Di gente magari buona dentro, con la scorza ruvida fuori e che non si fa dire da nessuno cosa è giusto fare, ma cerca di capirlo con la propria testa; hanno sempre fatto così. Come la chiamavano, lei? La puttana del tedesco, mica se l'è scordato - ma è andata dritta per la sua strada. Ed eccoli là, tutti intorno a lei, adesso. Che non piangano troppo perciò quando morirà, solo perché lo fanno gli altri. Campare, è difficile. La vita è molto più tosta della morte. Qualcosa del genere deve riuscire a dire. Solo che non vuole sprecarci troppo tempo. Non è mai stata brava a parlare. Che fatica si prepara. Pensare le parole, sentire quali sono giuste, afferrarle, non scordarsele e poi saperle affilare. Non è per niente facile. C'è sempre un modo su cento per far bene una cosa e altri novantanove per farla male, o meno bene. Hmm. Questa va bene come frase.
Era del tedesco. Infatti le era venuto spontaneo pensarla con l'articolo sbagliato, come la diceva lui, «uno modo su cento» Deve segnarsela. Vale anche per la morte. Ma per ora non può permettersi di morire. Ci sono troppe cose a cui pensare. FINE Un particolare ringraziamento a Rosanna Bianchi D'Aurelio, Franco Ciarelli, Antonio Del Giudice, Silvio Luciani, Antonio Montechiari, Vietta Paparisto, Vanda Rupolo.