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Italian Pages 98 Year 2007
Sandro Veronesi
LA FORZA DEL PASSATO
Copyright 2000 Rcs Libri S.p.A. Milano I edizione Bompiani marzo 2000 III edizione Bompiani giugno 2000
L'autore Sandro Veronesi è nato a Firenze nel 1959 e vive a Roma. Ha pubblicato: Per dove parte questo treno allegro (Theoria, 1988; Bompiani, 1991); Gli sfiorati (Mondadori, 1990); Cronache italiane (Mondadori, 1992); Occhio per occhio. La pena di morte in quattro storie (Mondadori, 1992); Venite venite B-52 (Feltrinelli, 1995); Live (Bompiani, 1996).
A mia madre
Non posso continuare. Continuerò. Samuel Beckett 1 - Lei - pausa - è un uomo triste? Così mi ha detto, questa giornalista. E' l'ultima domanda, dopodiché un assessore appena sconfitto alle elezioni mi stringerà la mano e mi consegnerà la busta con i quindici milioni del premio Giamburrasca-Narrativa per ragazzi. Quindici milioni. Valgono bene il peso di questa serata, consistente di lunga cena al ristorante in compagnia delle autorità locali, successiva cerimonia di premiazione nella sala-convegni inaugurata di fresco (c'è ancora odore di vernice), discorso del sindaco uscente, di quello entrante, della presidentessa della giuria, e intervista finale al vincitore effettuata da una giornalista con gli occhi a pesce lesso. E valgono, quei quindici milioni, anche tutte le insulse domande che la suddetta mi ha rivolto («Fino a che età ha creduto a Babbo Natale?»; «Quale stagione preferisce?»; «Ho notato che non ha mangiato i dolci: perché?»), alle quali ho risposto con eroica diligenza - senonché improvvisamente tutto è stato reso agghiacciante dall'irruzione di una signora che si è impossessata del microfono per lanciare un appello affinché la si aiuti a tenere in vita artificiale suo figlio Matteo di nove anni (mio fedele lettore, ha precisato), dichiarato clinicamente morto a seguito di un incidente automobilistico e divenuto oggetto di un'accesa disputa cittadina a proposito dell'opportunità di fargli occupare a tempo indeterminato uno dei due respiratori automatici esistenti nella sala di rianimazione dell'ospedale. «Aiutatemi» ha detto con voce ferma. «Mio figlio vive la vita dei tulipani, delle siepi di alloro, e ha il diritto di continuare a viverla finché il suo cuore non cesserà di battere. Invece vogliono togliergli la macchina, vogliono prendersi i suoi organi. Fate qualcosa, vi prego: vogliono ucciderlo!» La donna è stata rassicurata dal sindaco entrante che nessuno toglierà a suo figlio la macchina che lo tiene in vita, e dall'uscente che la delibera per l'acquisto di altri due respiratori artificiali sarà approvata la settimana prossima, prima dell'insediamento della nuova giunta; quindi, con mia immensa incredulità, è tornata al suo posto per assistere al resto della cerimonia, e la giornalista ha ripreso l'intervista come se nulla fosse, rivolgendomi quest'ultima domanda: lei, pausa, è un uomo triste, punto interrogativo. Ho preso fiato ma sono rimasto zitto, tre, quattro, cinque, sei secondi, quel tanto che è bastato a rendere difficilissimo, poi, dare la risposta. Perché se uno dice immediatamente «no», poniamo, oppure «sì», tutto va bene, nessuno si mette a sindacare, e si va avanti. Ma se dopo una domanda del genere si fa tanto di fermarsi a riflettere, allora tutto diventa più complicato, e la risposta deve essere per forza sincera. Sono un uomo triste? Ritto davanti a cento sconosciuti che aspettano, stupito dalla domanda e dal mio silenzio e, già che ci sono, anche da tutto il resto (dal fatto, per esempio, che una città che ha solo due respiratori artificiali sprechi quindici milioni in un premio di narrativa per ragazzi), sono in stallo, incagliato nella mia stessa sospensione. La giornalista continua a fissarmi senza cambiare espressione, pietrificata in quel sorriso che ripete indefinitamente la domanda; e io taccio e penso. Un uomo triste? Sono sposato con la donna che ho amato di più nella mia vita, e abbiamo un figlio sano, intelligente, la cui sopravvivenza non dipende dal funzionamento di nessuna macchina; mio padre è morto da due settimane, dopo una precipitosa agonia, e io non sono mai andato d'accordo con lui, ragion per cui la sua morte mi ha fatto sentire in colpa; faccio il mestiere che ho sempre desiderato fare e sto ricevendo un premio per averlo fatto bene; ho firmato il contratto con l'editore per un terzo libro e già intascato metà dell'anticipo, ma,
dopo Le Avventure di Pizzano Pizza e il qui premiato Le Nuove Avventure di Pizzano Pizza, la vena si è esaurita e non so più cosa scrivere. Sono un uomo triste? Penso, e ricordo. Ricordo che Dominique Sanda, quando doveva avere più o meno la mia età, in un'intervista nella quale le era stato chiesto che tipo di donna ritenesse di essere aveva risposto «Io non sono una donna, sono una ragazza». Ricordo che quando avevo nove anni mi fecero fare il ritratto da un pittore, e il quadro venne fuori cupissimo per quanta tristezza l'artista dichiarò di avere percepito in me - ma vorrei sapere quanti bambini sarebbero contenti di rimanere immobili in posa appoggiati a una sedia per interi pomeriggi. Ricordo il vecchio Marti, l'amico invisibile che mi ero inventato da piccolo per non giocare sempre da solo, le mie collezioni di figurine incomplete, gli anni interminabili del collegio militare, le batoste agli scacchi quando stavo per diventare maestro; ricordo una mia fidanzata, a diciott'anni, che mi accusò di averla intristita perché l'avevo portata a vedere La ballata di Stroszek, e poi di nuovo mio padre che muore, il funerale sotto la pioggia, mia madre e mia sorella appoggiate a me, ma anche l'impagabile bellezza di mia moglie e, giusto stamattina, la risata argentina di mio figlio mentre facevamo il gioco del giornale telecomandato - il suo formidabile diritto di essere reso felice da me. Tutto questo penso e ricordo, mentre scambio una lunga micidiale occhiata con la madre del bambino in coma, che mi fissa esattamente come tutti gli altri, sorridendo per il mio imbarazzo e però fiduciosa che lo supererò, e addirittura curiosa, mi pare, sì, anche lei, curiosa di sentire la mia risposta, come se le interessasse per davvero. Come se avesse qualcosa a che fare con la sua siepe di alloro. Non so da quanto stia durando, questa pausa. A me pare moltissimo, ma non so proprio dire da quanto stia durando. So solo che a un certo punto la risposta mi scivola fuori dalla bocca per conto suo, minuscola e guizzante come un topolino. - Non più - mi sento dire. 2 Scendo dal treno che è passata mezzanotte. Niente metropolitana, ormai; e naturalmente niente taxi, in attesa dei quali, fuori dalla stazione, c'è già una lunga fila di facoltosi viaggiatori appena scaricati da un lugubre pendolino notturno. Ma io penso a un'altra cosa. Penso: niente più soldi del Premio Giamburrasca. Colto da raptus, infatti, ho consegnato l'assegno alla madre del bambino in coma. Gran gesto, il mio - tutti commossi - anche se non c'entrava niente, giacché la donna non sembrava affatto povera e quei soldi non potevano minimamente aiutarla a risolvere il suo problema. O potevano? Sta di fatto che per tutto il viaggio di ritorno fino a Roma ho pensato a quei soldi, alla loro effimera apparizione tra le mie mani, e li ho rimpianti come fossero stati davvero miei. Ma di chi erano, in realtà? A chi appartenevano quei quindici milioni del premio Giamburrasca-Narrativa per ragazzi? E - il passo, da lì, è breve - di chi sono in generale i soldi? Ha un senso parlare di proprietà, per il denaro, se può cambiar padrone così facilmente? Che razza di bene è? A volte non si danno mille lire a un mendicante solo perché non si ha voglia di fermarsi cinque secondi per tirarle fuori dal portafogli - e poi, di brutto, si regalano quindici milioni a una sconosciuta. E se fosse stata una finta? E se l'amministrazione della cittadina fosse stata d'accordo con quella donna, sì, e si fosse trattato soltanto di una commedia per far rientrare immediatamente in cassa il malloppo appena consegnato al vincitore, così da giungere alla fulminante - bisogna riconoscerlo conclusione che quei soldi nemmeno esistevano? Macché, come commedia sembra orchestrata proprio male: fosse stata una sfrattata, una cassintegrata o una ragazza-madre sieropositiva e disoccupata, allora sì; ma una signora borghese col figlio in coma non dà alcuna garanzia di indurre il vincitore a devolverle il premio. Non c'è il nesso. No, via: il dramma di quella donna è autentico. Semmai è stata strana la reazione davanti alla mia botta di solidarietà, tanto la sua quanto quella di tutta la platea: nessuna sorpresa, nessun imbarazzo, nessuna resistenza, solo un commosso ringraziamento e un lungo applauso di approvazione. Un pazzo butta via quindici milioni e in quella città non c'è una maledetta persona che se ne stupisca. Così pensando, ma anche, contemporaneamente, fantasticando su cosa avrei potuto farci, con quei
soldi (una vacanza a Disneyland con mia moglie e mio figlio; un catamarano da spiaggia, preferibilmente un vecchio Hobie Cat 17, usato, senza genoa, per farci un po' di su e giù nel mese di agosto; soprattutto il famoso soppalco in camera del bambino, così da liberare la stanza dall'ingombro del letto e me dal senso di colpa di avere installato il mio studio in quella che avrebbe dovuto essere la sua stanza), l'ora di viaggio è volata via senza che me ne accorgessi; e sono sceso, e mi sono messo in coda per il taxi, senza essere venuto a capo di nulla. L'unica cosa certa è che quei quindici milioni non li ho più, e non li ho mai realmente avuti se non per circa trenta secondi, tra il momento in cui il sindaco uscente mi ha consegnato la busta con l'assegno e quello in cui l'ho data alla donna, ancora seduta in prima fila. E' bastato, quel mezzo minuto, a farli diventare miei? Posso almeno dire di averli donati? D'un tratto, un ceffo tutto riccioli e catene d'oro mi si para davanti costringendomi a interrompere i miei pensieri. «Taxi?» sibila, con un mozzicone di sigaretta ficcato in bocca e un'aria furtiva davvero ridicola se si pensa alle contrattazioni d'altro genere che stanno avendo luogo tutt'intorno. Conosco bene questi abusivi: vogliono farti credere che rischiano la galera, e con questa scusa sparano prezzi assurdi. Sono l'unica categoria di lavoratori con cui riesco a contrattare. - Piramide - sussurro, assecondando la sua furtività. - Trentamila - dice lui, senza pensarci un istante, come avendo in mente la cifra già prima di sapere dove sono diretto. - Quella al Testaccio - sempre sussurrando - Non quella in Egitto. L'uomo rimane interdetto - non gli è arrivata subito -, poi capisce e mi pare che valuti l'ipotesi di appiopparmi una testata al setto nasale: ma la professionalità prevale. - Venticinque. Lo dice in un soffio, voltando la testa di lato, con l'aria di fare un'enorme concessione. - La corsa costa quindicimila lire - dico - Lo so. La faccio sempre. L'uomo sorride, poi solleva la testa indicandomi col mento la lunga coda che mi precede, in attesa dei taxi veri che non arrivano. - Vedi un po' quanto ce puoi schiaccia'... - Non ho fretta. Dopotutto è la verità. Non ho nessuna fretta e non sono stanco. Mi piace l'idea di starmene mezz'ora in piedi al fresco, e mi piace, casomai mi stufassi di star qui, anche quella di farmi una bella passeggiata pensando a come spiegare ad Anna la mia balorda donazione. - Ventimila. E' l'ultima offerta, lo so. Per gli abusivi è regola ferrea non abbassare mai la tariffa fino a quella dei taxi veri. Guardo le persone che mi precedono in coda: quindici, forse venti, tutte ancora bloccate in attesa, avvolte in un mormorio di malcontento, mentre altri abusivi, dislocati in punti diversi, ne collaudano la resistenza bisbigliando le loro tariffe maggiorate. Per giunta una coppia di zingare ha cominciato a risalire la coda dall'altro lato: prego siniore bosnia no casa la guera tanta soferenzia per mangiare siniore bosnia guera e soferenzia. - Mi dispiace, amico - faccio, scuotendo il capo - Dico sul serio: ci sto bene, qua. Cavo il portafogli di tasca e do duemila lire alle zingare, che mi stanno passando vicino. Grazie siniore bona notte tanta felicità. L'abusivo mi guarda storto, una lunga occhiata colma d'indignazione con la quale storna su di me il suo disprezzo per le due zingare, alle quali sa lui cosa bisognerebbe dare. Se ne va senza dir nulla. Dunque, dov'ero rimasto: i soldi. E' tecnicamente corretto sostenere che li ho... - Per me quindicimila va bene. Un secondo ceffo ha preso il posto del primo: più vecchio, questo, più basso, più massiccio, con un naso che deve averne passate parecchie, la panza gonfia che esplode sotto la camicia, e una giaccaccia grigia sul cui bavero brilla un soffice strato di forfora fresca. E sorride. - Piramide, quindicimila - ripete, vedendo che esito. E io esito sì, continuando a cogliere dettagli trucidi nella sua persona. Uno su tutti: da sotto le maniche della giacca, mezze tirate su, sbucano direttamente le braccia nude e pelose. Ora io mi rendo conto che può sembrar niente, ma per me quello è un dettaglio importante, perché c'è dietro tutta una storia, e adesso la racconto.
Come ho detto non sono mai andato d'accordo con mio padre, e come ho pure detto mio padre è morto da poco, ragion per cui sto male e mi sento in colpa. Con qualunque pretesto mi ritrovi a pensare a lui, nei miei ricordi c'è sempre un che di acido che guasta anche il dolore per la sua morte. Senonché quel dettaglio delle braccia nude sotto le maniche della giacca viene dritto da uno dei pochi sprazzi del nostro rapporto che io ricordi senza imbarazzo. Erano gli anni Settanta, e stavamo guardando una Tribuna Politica alla televisione, alla vigilia di non so più quali elezioni. Naturalmente la politica non era la causa dei nostri conflitti, ma certo forniva ottime occasioni per farli deflagrare, e quella sera si annunciava uno scontro memorabile: c'era la conferenza-stampa di Almirante, e io quell'anno ero convinto che mio padre avrebbe finito per votarlo, rivelandosi una buona volta il fascista che era. La mamma, in cucina, stava preparando una torta; mia sorella era già in Canada; eravamo solo io e lui, senza mediazioni, situazione ideale per degenerare. Almirante parlava, e io tacevo per lasciare a mio padre la prima mossa, così da regolarmi meglio sull'attacco da sferrare; ma stranamente, anziché sibilare la sua solita provocazione d'apertura (qualcosa come «certo che non ha mica torto»), quella volta stava zitto anche lui. Almirante era arrivato ormai alla quarta risposta e ancora nessuno di noi due aveva aperto bocca, quando, finalmente, mio padre parlò. «Mai fidarsi di quelli che portano la camicia a mezze maniche sotto la giacca,» disse. Impettito e abbronzato, Almirante pareva il presidente della Croce Rossa; senonché da sotto le maniche della sua impeccabile giacca blu sbucavano le braccia nude, e, a farci caso, quel particolare lo rendeva vagamente osceno. Tradiva, ecco, tutta insieme una sciatteria che nemmeno io gli avrei mai attribuito, convinto com'ero che fosse proprio con l'eleganza che Almirante infinocchiava la gente. Invece quell'osservazione (non mia, maledizione, sua) lo disinnescava completamente, e a quel punto era come se stesse parlando in mutande mentre si tagliava le unghie dei piedi, era stato smascherato: un poveraccio, un infido poveraccio. Sbalordito, attesi in silenzio che mio padre dicesse qualcos'altro, che se la pigliasse anche coi sindacati o con Pajetta, suoi bersagli preferiti, insomma che si rimettesse in carreggiata; ma non disse più nulla, e per la prima volta una Tribuna Politica si concluse senza aver generato la minima discussione tra di noi. Non solo, ma dopo quella sciabolata dovetti prendere atto che mio padre non era fascista, che era realmente democristiano - sebbene il fatto che si potesse essere realmente democristiani continuasse a sembrarmi incredibile; comunque, questo è sicuro, non si può dire una cosa così spietata dell'uomo per il quale il nostro cuore batta in segreto. Ricordo che quella sera non uscii, rimasi in casa con lui e la mamma a vedere Il ritorno dell'uomoombra; ricordo che durante il film mangiammo la torta di pinoli bella calda, e che mentre eravamo lì a mangiarla suonò il telefono, ma non era nessuno; ricordo che mio padre si addormentò sul divano, e che mia madre lo coprì con il plaid. Ricordo tutto con grande precisione. E ricordo che quando andai a letto ancora non mi capacitavo di quanto era successo. All'epoca tra me e mio padre era davvero dura; era il momento peggiore, anche se non è che dopo la situazione sia migliorata di molto. Perciò quella sera mi è sempre rimasta così impressa: era stata una dimostrazione di come tra noi avrebbe potuto andare e non era mai andata, una specie di fulminea interferenza di un'altra vita nella nostra. Di un simile prodigio, oltre che il ricordo, mi era rimasto soltanto quel suo insegnamento, forse l'unico che io sia riuscito a tenere presente: mai fidarsi di quelli che portano la camicia a mezze maniche sotto la giacca. Ecco perché è importante, quel dettaglio. - Allora? - incalza l'uomo con la camicia a mezze maniche sotto la giacca, visto che io continuo a fissarlo senza parlare. Se ne sta lì ad aspettare la mia risposta, a braccia larghe, con più di sessant'anni sul groppone, a occhio e croce, e nessuna traccia della moderazione, e anche della stanchezza, sì, che tutto questo tempo dovrebbe produrre in un uomo: sul suo volto non c'è nemmeno l'ombra di quella levigatezza provocata dagli sguardi di una moglie o di un figlio, di un superiore, di un collega; piuttosto vi sopravvive una specie di selvaggia spavalderia da scugnizzo, segnata dagli anni ma ancora pura e incandescente come ai tempi dell'orfanotrofio, quando da dentro un grembiulino celeste con un pomodoro ricamato sul petto deve aver guardato compagni e istitutori con la stessa identica espressione che adesso riserva a me: l'espressione di chi non ha assolutamente nulla da perdere.
- Quindicimila, d'accordo? E non è nemmeno un abusivo. Un abusivo non abbassa mai la tariffa fino a quella dei taxi veri, l'ho già detto. Se lo facesse andrebbe incontro a una bella ripassata, e giustamente, perché rovinerebbe la piazza. E se fosse messo così male da doverlo proprio fare, allora sì che lo bisbiglierebbe, il prezzo, non si farebbe mai sentire dagli altri. Questo invece parla a voce alta, incurante del fatto che lo sentono tutti, compreso l'abusivo vero che poco fa per quella stessa corsa non è sceso sotto le ventimila lire. Non teme ritorsioni. Se ne frega. No, non bisogna fidarsi di lui. 3 - Va bene - rispondo; e quanto al perché, facciamo così: perché sono stronzo. L'uomo mi prende la borsa e si incammina con passo elettrico alla Bob Hoskins, tutto frizioni e strofinii. Io dietro, molto perplesso su quel che sto facendo: va bene che ho appena perso quindici milioni, ma vale la pena consegnarsi nelle mani di un probabile malvivente per risparmiare cinquemila lire? E, d'altronde, è mai possibile che la certezza che sempre più chiaramente avverto riguardo alle sue intenzioni sia solo una mia paranoia? Prima di abbandonare il marciapiede cerco con lo sguardo l'altro abusivo, quello vero, nella speranza che confermi con una smorfia la mia brutta sensazione, o, meglio ancora, che intervenga per protestare contro quella concorrenza sleale; ma sta già lavorando ai fianchi una coppia di anziani signori, e nemmeno mi vede. La macchina dell'uomo è parcheggiata in seconda fila davanti all'ingresso laterale della stazione, e ostruisce il passaggio a un tram notturno, che scampanella istericamente. E' un fuoristrada, altro dato assai in contrasto con la pretesa dell'uomo di farsi passare per un abusivo: Daihatsu Feroza, si chiama, mai sentito nominare. Ha i fari accesi, le frecce d'emergenza lampeggianti, ed è già in moto. L'uomo rivolge un frettoloso cenno di scuse all'autista del tram e si infila dentro, sistema la mia borsa e mi apre lo sportello. Poi, dato che questo Daihatsu Feroza ha solo due porte, prende a brancolare con le mani alla ricerca della leva per reclinare il sedile, come se non conoscesse affatto la macchina; nel frattempo io ho tutto il tempo di notare i fili ciondoloni sotto il volante, che possono significare solo ciò che significano. Il tram continua a scampanellare, l'uomo lo manda al diavolo con un gestaccio, e io spero che l'autista scenda a fare a botte, così da beccarsi lui la coltellata che con ogni probabilità è riservata a me, mentre io nella confusione potrei recuperare la borsa e fuggire. Invece, addirittura sblocco la situazione, decidendo di mettermi davanti e buonanotte. Perlomeno avrò una via di fuga, penso, una possibilità di scaraventarmi fuori alla prima occasione: intrappolato dietro non avrei scampo. So benissimo che non è facile a spiegarsi, ma ormai agisco e, soprattutto, penso come se quanto minaccia di capitare stesse già capitando; malgrado ancora nulla mi impedisca di andarmene libero per i fatti miei, per qualche insano motivo ragiono come se mi trovassi già immerso fino al collo nel guaio in cui non ho ancora finito di cacciarmi, e tutto ciò che potessi fare fosse cercare una maniera di uscirne. Oppure sono in preda al panico senza neanche essermene accorto, e questo consegnarmi al mio peggiore presentimento ha a che fare con quel genere di letali assurdità che si compiono nell'incombere di un pericolo, quando il terrore si impossessa del nostro cervello e risolve il problema facendoci sentire protetti da quel pericolo, invulnerabili, al sicuro, con una sensazione intensissima e naturalmente del tutto fallace che ci spinge a fare l'esatto contrario di ciò che andrebbe fatto (i fagiani terrorizzati dall'incendio del bosco, che invece di fuggire dal fuoco ci si tuffano dentro; Stanlio che, inseguito dall'assassino, si infila un secchio in testa perché non sa dove nascondersi) o anche a non fare proprio niente, a restare immobili ad attendere l'arrivo dell'irreparabile con l'assurda speranza che quando arriverà non sarà irreparabile. Dunque salgo davanti, e l'uomo parte con un sussulto, come accade matematico - quando si guida una macchina per la prima volta e non si è abituati alla frizione. Deve averla rubata davvero da poco. E mentre si infila nella corsia di svolta verso via Cavour io raccolgo tutta la lucidità che mi
rimane e comincio a mettere insieme un piano. Primo, cerco a tastoni la maniglia dello sportello: è un'altra cosa che nelle macchine che non si conoscono non si trova mai (come la leva per reclinare il sedile), e quando la trovo ci lascio sopra la mano. Secondo, ripasso mentalmente il percorso fino a casa mia, per individuare il limite oltre il quale per nessuna ragione al mondo dovrò più trovarmi a bordo di questa macchina. Colosseo, stabilisco: devo saltar giù prima del Colosseo. Terzo, decido il sistema. Al primo semaforo rosso dirò «Va bene qua», poggerò quindicimila lire sul cruscotto (questo nel caso - che nonostante tutto ancora contemplo - si tratti sul serio solo di una mia paranoia, una specie di shock ritardato per la perdita dei quindici milioni, o vai a sapere cosa, e l'uomo sia solo un padre di famiglia tradito dalle apparenze e costretto da grave congiuntura economica a sfidare il racket degli abusivi per raggranellare qualche soldo), e scenderò, semplicemente. Quarto, preparo le quindicimila cavandole dal portafogli con la mano libera, la sinistra, la destra lasciandola sulla maniglia. Quinto, ricordarsi della borsa, maledizione, perché me ne sto già dimenticando. Mica per nulla: dentro c'è il computer portatile. Frattanto siamo arrivati al semaforo di piazza S. Maria Maggiore; rosso. Non ho più guardato in direzione dell'uomo: ma a macchina ferma, mentre noto con un certo sollievo una gazzella della polizia parcheggiata di traverso alla nostra destra, con gli agenti appoggiati al cofano e tutto, sento che lui sta guardando me, e con insistenza: perciò mi giro d'istinto. In effetti l'uomo mi guarda, e sorride, ancora, come poco fa mentre mandava a quel paese il tram che scampanellava, o come quando mi è comparso davanti alla coda dei taxi - come sempre, si può dire, giacché in realtà l'ho visto solo sorridere. E anche se sul suo viso di vecchio rimane intatta quella mostruosa giovinezza che mi ha già impressionato, non sarebbe corretto sostenere che il suo sia un sorriso minaccioso: sorride e basta. Il fatto è che ora, seduto lì al volante, dalla cintola dei pantaloni gli sbuca il calcio di una pistola. Sì, è un calcio di pistola, non ci sono dubbi. E dice l'ultima cosa che mi aspetterei da lui. - Allora - dice. - Finalmente Franceschino ha imparato a andare in bicicletta... Verde. Non mi vedo balzare giù dalla macchina, sicché non posso descrivermi; ma posso dire come sono: sconvolto. Ci manca un pelo che una Vespa mi metta sotto, ma in tre salti raggiungo il marciapiede. Il fuoristrada, appena ripartito, inchioda in mezzo all'incrocio provocando un immediato raglio di clacson, e io mi ritrovo a pregare, sì, a pregare che l'uomo non mi spari nella schiena prima che io riesca parlare coi poliziotti. Dopo, magari, ma non prima. E in effetti non mi spara, ma riparte a razzo con un furioso stridio di gomme. Così come non mi sono visto balzare giù dalla macchina, nemmeno mi sento parlare coi poliziotti. Devo essere piuttosto concitato, a tratti forse incomprensibile, anche perché quel che ho da dire non è semplice, e non c'è il tempo di star lì a spiegare le cose con calma. I poliziotti, comunque, due ragazzi e una ragazza, sono molto comprensivi, e appena ci capiscono qualcosa mi credono, cosa che, date le circostanze, mi sorprende. Tradotto nella loro lingua, credono al fatto che un ignoto armato di pistola, dopo essersi spacciato per tassista abusivo e avermi tratto a bordo di un fuoristrada presumibilmente rubato, ha minacciato la mia famiglia e in particolare mio figlio, mostrandosi al corrente di informazioni molto personali, per poi dileguarsi con la mia borsa - contenente un computer portatile e altri effetti personali - appena sono sceso a denunciare l'accaduto. In più la ragazza mi permette di chiamare casa col suo cellulare privato, e, quando mi sente assediare mia moglie con la raccomandazione di non aprire a nessuno, per nessuna ragione, per carità, finché non sarò tornato, prende l'apparecchio e si premura di tranquillizzarla, qualificandosi e dicendole di non preoccuparsi perché mi riaccompagneranno immediatamente a casa. Non smetterò mai di immaginarla, Anna, svegliata in piena notte da quella telefonata, nei dieci minuti fino al nostro arrivo sotto casa. Cosa avrà pensato? Cosa avrà fatto? Quanto, esattamente, avrà avuto paura? E di cosa, visto che né io né la poliziotta le abbiamo accennato quale fosse il pericolo? Sta di fatto che come mi hanno preso sul serio gli agenti mi prende sul serio lei, questo è sicuro, e in un certo senso è anche consolante, perché invece dentro di me, in qualche montuosa regione del cervello, sopravvive un
tenace manipolo di perplessità. E mentre, appena piombato a casa, prima ancora di spiegarle il perché, dico ad Anna che bisogna partire, subito, stanotte stessa, metterci al sicuro, mi punge il dubbio che tutto questo vortice sia generato dal lieve battito d'ali della mitomania. Non per nulla la scena è praticamente uguale a quella di Kevin Costner con sua moglie negli Intoccabili, quando gli minacciano la bambina. Faccio la valigia e penso: e se stessi impazzendo? Potrebbe essere esattamente così che di punto in bianco la gente svalvola e dà di matto, potrebbe star succedendo a me. Quando se ne accorgerebbero? Cosa dovrei arrivare a fare? Se da un lato è bello constatare che non si è faticato invano per fare di sé una persona coraggiosa e affidabile, dall'altro è anche preoccupante, poiché ci si sente tremendamente responsabili. Sarà che sono cresciuto con un padre che, sempre e per principio, metteva in dubbio ogni mia affermazione, e che quindi devo essermi assuefatto a una simile sfiducia nei miei riguardi: ma scoprire che non c'è nessuno a proteggermi da me stesso, puta caso ammattissi, perché tutti mi credono anche quando mi comporto in un modo così incongruo, accresce, se possibile, la mia preoccupazione. Però non c'è tempo per rifletterci: ora bisogna scappare, via, via, di corsa... Solo riparlandone a freddo, più tardi, mentre filiamo sull'Aurelia deserta diretti a casa dei miei suoceri, a Viareggio, tutto mi sembra più chiaro: mi sono trovato di fronte all'ignoto, semplicemente, e questo mi ha messo in crisi. Racconto ad Anna tutto l'accaduto, dal principio, con calma, e resisto alla tentazione di mentirle riguardo alla frase precisa che l'uomo ha pronunciato. Non so, ma visto che ho parlato di minacce a nostro figlio, per un istante temo che le esatte parole che mi sono state rivolte non giustifichino del tutto la mia reazione, e mi viene la tentazione di trasformarle in qualcosa di più esplicito, tipo «Certo, ora che Franceschino ha imparato a andare in bicicletta sarebbe un peccato se si facesse male». Io so che non c'è differenza, ma il timore è che per Anna possa essercene. Fortunatamente però le dico la verità, e constato che non c'era ragione di mentire, giacché anche lei, di fronte alla frase così com'era, rimane molto impressionata. Perciò, dal timore di essere preso per mitomane, passo di colpo a quello che lei si angosci troppo, e immediatamente comincio a sminuire la portata della mia avventura. Certo, le dico, può darsi che stia esagerando, forse il pericolo non è così grave da dover scappare come profughi sotto le bombe, e addirittura potrebbe essere tutto un micidiale equivoco congegnato alla perfezione: ma come diavolo faccio a saperlo? Come posso rischiare? Io sono una persona normale, dico, un pacifico scrittore per ragazzi che non fa a botte da più di vent'anni, preparato ad affrontare problemi immensi, certo, ma che nulla hanno a che fare con pistole infilate nella cintola e allusioni di sapore mafioso pronunciate a proposito di mio figlio. Bisogna scappare, no Anna? Anna, devo dire, si dimostra ancora migliore di quanto potessi sperare. Non so come né cosa, esattamente, ma capisce, e tra tutte le reazioni che poteva avere sceglie di assecondare la mia, rendendo tutto più facile. Preoccupata sì, ma non terrorizzata, mi aiuta a recuperare il lato razionale di tutta la faccenda, l'unico che per entrambi sia davvero praticabile, e mentre risaliamo la costa tirrenica, al chiar di luna di questa notte di mezzo giugno, mi viene dietro in una serena conversazione alla ricerca del lato oscuro della nostra vita. Dov'è?, ci chiediamo. Anche se non c'è apparente ragione perché ci minaccino in questo modo, qualcuno lo ha fatto: dunque da qualche parte una zona nera deve esserci. Si tratta di capire dove. Partiamo da me. Sono davvero sicuro di non conoscere quell'uomo, di non averlo mai visto prima? Sì, sono sicurissimo. Sono assolutamente certo di avergli visto addosso una pistola? Sì, Anna: quella era una pistola. Ho forse fatto o scritto qualcosa che possa aver generato una ritorsione? No. Politica? No; nel tempo il mio impegno politico si è via via allentato fino a confluire tutto intero nell'attività di un'associazione di tutela dell'infanzia, che Anna conosce bene perché a volte le riunioni si fanno a casa nostra. Una cosa minima, molto specifica: teniamo sotto controllo la televisione, i fumetti, la pubblicità, scriviamo qualche lettera di denuncia ai giornali, organizziamo un convegno all'anno. Certo, a volte andiamo a toccare qualche interesse, ma francamente non sembra possibile che questa attività mi abbia scatenato contro una persecuzione criminale. Oltretutto sono due mesi che non facciamo nulla. Passiamo a lei - ma la sua vita è talmente trasparente che è difficile trovarci un solo punto
interrogativo. Fa traduzioni, sta dietro a Francesco, si occupa della casa: è tutto. Magari qualche segreto ce l'ha, non voglio negarlo, ma è davvero inconcepibile che una sua qualsiasi faccenda personale possa essere degenerata fino a incarnarsi nell'energumeno che mi ha caricato su quel fuoristrada. «L'altro giorno ho trattato male il piazzista della Folletto,» scherza. «Continuava a darmi tormento perché gli comprassi quell'aspirapolvere.» E tuttavia mi ritrovo a farle una domanda molto sciocca, che lei a me non ha rivolto. Anna, hai un amante? Io no, mi affretto ad aggiungere, non ne ho e non ne ho mai avute, e tu? Rispondi sinceramente, le dico, è importante: si fanno tanti sbagli, nella vita, si può anche andare a letto con un figlio di puttana che poi, al primo caldo e davanti alla prospettiva di non contare nulla, perde il cervello e ti mette un tagliagole alle calcagna. Hai, o hai avuto, una relazione, Anna? - e mentre glielo chiedo mi dico: pensa se ora la vecchia Anna rispondesse «sì»: magari non c'entra nulla con questa storia, magari si tratta di un uomo civilissimo e migliore di me sotto ogni aspetto, ma pensa se venisse fuori, qui, ora, che ha un altro. Mai farle, queste domande. Mai. Risponde senza esitare né protestare per il fatto che io abbia considerato l'eventualità. No, dice - per fortuna. E allora che può essere? Chi può volerci male, a noi, perché? Ed è strano, ma più andiamo avanti a non capacitarci di ciò che è successo e più ci tranquillizziamo, perché se è vero che su di noi ora incombe una minaccia è anche vero che la nostra vita è chiara, pulita, onesta. Ci conosciamo da quando eravamo ragazzi, e ci amiamo ancora; nostro figlio ronfa sul sedile di dietro, perso nei sogni semplici dei suoi otto anni, e nessun fuoristrada ci sta seguendo. Chi può volerci male, a noi, perché? E questa domanda ce la ripetiamo così tante volte, durante il viaggio, che sembriamo attribuirle le proprietà di un mantra tibetano, rassicurante, benigno, capace di scacciare il male se non dalle nostre vite perlomeno dalle nostre teste. Chi? Perché? Chi? Perché? Arriviamo a Viareggio che albeggia. Non possiamo presentarci a quest'ora a casa dei miei suoceri, perciò andiamo in albergo. All'Excelsior, cazzo; alla faccia dei nostri nemici. Una grande camera con vista sul mare, con un immenso letto matrimoniale e un letto singolo dietro un separé, del tutto inutile giacché stanotte siamo noi a voler dormire abbracciati a Franceschino. Il quale Franceschino, però, dopo aver dormito per tutto il viaggio ed essersi risvegliato tra stucchi e marmi sconosciuti, si è giustamente eccitato e pretende una sfilza di spiegazioni che ci risucchia tutti in una sarabanda di variopinte bugie, un mondo meraviglioso di cause ed effetti assolutamente chiari e ragionevoli, in cui nessuno minaccia nessuno e non si deve scappare nottetempo come sorci: esattamente quel mondo che, mi rendo conto, abbiamo vissuto fino a cinque ore fa e che adesso è diventato una favola da raccontare ai bambini. Poi, nel pieno delle nostre spiegazioni, Francesco riprende sonno. Fulmineamente, come suo solito: un secondo fa era ancora lì a domandare perché, e ora dorme come un picchio. Dopo tanto parlare sopraggiunge un silenzio mite e accogliente, mentre il chiarore che filtra dai tendaggi svela i dettagli di questa super-stanza nella quale mai nella vita avrei pensato di ritrovarmi: un tavolo da toeletta, una stampa incorniciata, un poderoso armadio dalle ante rivestite di stoffa. Si addormenta anche Anna, e sono stanchissimo anch'io, perché è stata davvero una lunga, faticosa, incredibile giornata, ma rimango sveglio ancora un bel po'. Guardo il bambino, la pace dipinta sui suoi lineamenti così lievi e temporanei, e mi chiedo se sarò all'altezza della situazione, se riuscirò a proteggerlo. Qualunque cosa stia accadendo sarà dura da fronteggiare, perché non accade certo sul mio terreno preferito; ma devo farcela. Dopotutto lui ce l'ha pur fatta, la sua grande battaglia l'ha pur vinta: dopo anni di fallimenti ripetuti e inspiegabili per un bambino svelto cui è sempre riuscito tutto subito con conseguente crisi d'identità, perdita di fiducia in se stesso, blocco psicologico ecc. - è pur riuscito, lui, per conto suo (e finalmente, come ha detto anche l'uomo con la camicia a mezze maniche sotto la giacca) ad andare in bicicletta senza rotelle. Ce lo ha comunicato il giorno in cui mio padre è stato ricoverato all'ospedale, tre settimane fa, e ce ne ha dato dimostrazione nella piazzetta sotto il nostro palazzo. Pedalava che era un piacere. E noi lo abbiamo detto solo a mio
padre morente, lui che si era tanto incaponito a forzare quel suo blocco, a farlo provare e riprovare, con metodo, diceva, e forza di volontà - secondo me complicando parecchio le cose, ma lasciamo stare. Morto lui, a sapere che Francesco è uscito dal tunnel siamo rimasti solo io e Anna, oltre a quel suo amichetto del pianterreno, coso, lì, Luca, con cui si è messo a fare le corse nel cortile ogni pomeriggio. Non lo abbiamo ancora detto a nessun altro, maledizione, perché Francesco vuole fare una sorpresa a tutti, quest'estate. 4 A Viareggio abbiamo passato dei giorni belli, strani. I genitori di Anna, così come Francesco, hanno accettato senza obiezioni la nostra versione, secondo la quale avevamo semplicemente voglia di stare un po' con loro, e se ne sono goduti le conseguenze - compagnia, pranzetti, nipote a disposizione. Non hanno considerato l'assurdità della circostanza: un bambino che non ha ancora finito l'anno scolastico e due genitori solitamente ultraimpegnati che, di punto in bianco, un mercoledì, piantano tutto e se ne vanno al mare. O magari - più probabile - l'assurdità l'hanno considerata ma non hanno chiesto spiegazioni, perché sono discreti e perché gli conveniva. Sta di fatto che abbiamo trascorso delle giornate serene, nonostante la situazione: in spiaggia, in pattino, in pineta, in passeggiata, in darsena, alla sala-giochi. Sì, probabilmente fingevamo tutti: i miei suoceri fingevano che la nostra visita fosse normale, Francesco fingeva di non avere ancora imparato ad andare in bicicletta (vuole aspettare mio padre, è convinto che dalla morte si ritorni), io e Anna fingevamo che nessuno ci stesse minacciando; e forse è proprio per questo che siamo stati sereni. Certo, i miei occhi erano notevolmente più vigili, pronti a notare la minima cosa fuori posto (Trovare l'Errore, come nei test), ma di fatto non hanno mai visto nulla di inquietante, se si eccettua un Daihatsu Feroza sfrecciato sul lungomare mentre stavamo per attraversarlo - peraltro di colore diverso e targato Lucca, ma che comunque mi ha fatto sobbalzare. Io e Anna abbiamo rimandato di ora in ora il momento di affrontare il problema; e in fondo, mentre recitavamo la commedia, non è stato difficile lasciarsi trasportare per qualche giorno dalle apparenze, immaginando di essere una di quelle felici, cazzutissime famigliole di adepti dell'autosufficienza, che si ribellano alla massificazione ripudiandone non il fondamento bensì i dettagli, e perciò non hanno la televisione, non si fanno regali per Natale, disdegnano il calcio, la pizza al taglio e le tute di felpa. In effetti in queste famiglie c'è qualcosa di eroico che mi ha sempre affascinato: il loro attaccamento a valori sovranamente irrilevanti (la medicina alternativa, le ferie in giugno, lo sci di fondo, la frutta biologica) in nome dei quali sfalsano le partenze, programmano, risparmiano, spendono e percorrono l'Europa con discernimento, in uno strenuo spreco di intelligenza che da un consumismo barbaro e confuso li trasborda in uno molto più cristiano e coerente, anche se non meno vorace. Noi non siamo così - troppa fatica - ma potremmo esserlo; e soprattutto, mentre passeggiamo per il lungomare di Viareggio l'undici di giugno, io con Francesco sulle spalle, Anna col suo passo leggero di ex ballerina, nell'aria profumata delle otto di sera, tra le rondini pazze di spazio, circondati da una giungla di agavi eccezionalmente fiorite (fioriscono ogni quindici anni, e poi muoiono) e da molte altre bellezze ancora risparmiate dall'assalto che di qui a qualche settimana ne farà scempio, possiamo sembrare così. Una famiglia diversa, di quelle che nei sondaggi vengono scartate perché falsano il campione. Del resto Viareggio in giugno è diversa: è aristocratica e languida, perfino esotica, come doveva essere durante i suoi fasti pre-bellici, quando Edda Ciano vi consumava le proprie irrequiete villeggiature, e gerarchi suinomorfi dai capelli impastati di brillantina trafficavano tra alcove e piscine, mentre gli eroi dell'anarchia sognavano di farli saltare in aria con quella famosa bombalibero-tutti che in Italia non è mai scoppiata. Certo, che ne so io di com'era Viareggio a quei tempi. Nulla. Però mi capita di immaginarla: l'aria, i colori e gli odori di allora, non so come ma mi par di ricordarli; e quando ci capito, in giugno, nel paradosso di queste giornate vuote e rarefatte, ma specialmente alla mattina presto, lungo la spiaggia con gli ombrelloni ancora radi, ho sempre la sensazione che riaffiorino da sotto le macerie del presente. Come quando si incontra una donna anziana mai vista prima, e nel modo che ha di sorridere o di ritirare la mano dopo un saluto ci par di
rivedere tutta intera la sua bellezza di mezzo secolo prima, che ovviamente non si è mai conosciuta. Insomma, giorni belli; solo quattro, per la verità, ma sono sembrati molti di più. Soltanto ieri sera, dopo aver messo a letto Francesco, e profittando dell'assenza dei miei suoceri (vanno a ballare, ogni sabato, in posti per vecchi che conoscono loro), io e Anna siamo tornati sulla faccenda fondamentale, ed è stato difficile convincerla di quanto nel frattempo avevo deciso, vale a dire che io sarei tornato a Roma, lei e Francesco no. Si trattava del classico enunciato insostenibile, la cui prima parte contraddice la seconda, perché nel dire che intendevo tornare a Roma dovevo per forza sostenere che non era pericoloso, ma nel chiedere a lei di rimanere al mare con il bambino affermavo implicitamente che lo era. Anna, donna razionale, mi ha molto incalzato su questo, e dialetticamente ha vinto su tutta la linea, non ci sono dubbi, salvo il fatto che alla fine si è convinta a lasciarmi partire, poiché ha capito che la mia non era la soluzione più brillante né la più logica ma semplicemente l'unica. Ed è stata magnificamente improvvisa, nel farsene una ragione: una breve fulminante sequenza che è andata ad aggiungersi al campionario dei suoi gesti esemplari - cioè compiuti alla perfezione - nei quali riesce a far coincidere forma e significato come nessun'altra persona che abbia conosciuto. Eravamo nel pieno della discussione, lei aveva appena preso fiato per ribattere a una delle mie affermazioni: si è bloccata di colpo, e invece di parlare ha girato il viso di lato, abbassando gli occhi a terra come per cercarvi qualcosa. I suoi piedi erano nella posizione di danza numero quattro. E' rimasta così qualche secondo, due, tre, non lo so - so solo che è stato il tempo giusto: di meno e sarebbe stata comica, di più e sarebbe parsa incerta. Poi mi ha guardato di nuovo e ha detto: «D'accordo.» Fine della discussione. Così, ecco che sto tornando a Roma, da solo, in macchina, in una sfavillante domenica mattina che percorro in senso inverso rispetto a quasi tutti gli italiani, cioè dal mare verso la città. Ho pensato che se dovevo tornare tanto valeva farlo subito, e approfittare del vuoto pomeriggio di festa per riflettere in solitudine, cercando di mettere ordine nei miei pensieri. Perché la disavventura chiamiamola così - che mi è capitata con quell'uomo alla stazione, quattro giorni fa, è arrivata nel pieno di un momento per me piuttosto delicato, per parecchie ragioni. Mio padre è morto, l'abbiamo detto, e questa è una ragione. Entro il 31 dicembre devo consegnare un nuovo libro di avventure di Pizzano Pizza, e non solo non ho ancora cominciato, ma non ho idea da dove cominciare: anche questo lo abbiamo detto, anche questa è una ragione. Ma c'è un'altra ragione, sebbene a paragone delle prime due possa sembrare meno oggettiva e quindi meno grave: si tratta della mia idea di me stesso, che negli ultimi tempi si è fatta vaga e traballante. Non sono più sicuro di essere quello che credevo di essere, ecco; e questo mi spiazza parecchio, specialmente nelle situazioni che richiedono una certa prontezza nelle decisioni. Prendiamo proprio il brutto incontro dell'altra sera: non sono sicuro di riconoscermi - se capite cosa intendo - nelle reazioni che ho avuto, tanto a caldo quanto a freddo. Quel salire sul fuoristrada pur avendo intuito che non avrei dovuto farlo, poi quel fiondarmene giù al semaforo rischiando di farmi investire; quell'affidarmi così ciecamente alla polizia - con cui storicamente non è che io abbia un buon rapporto; e poi, a casa, quella certezza assoluta che bisognava fuggire, e nello stesso tempo quel dubbio profondo, autentico, di stare esagerando; quella capacità, per i quattro giorni successivi, di rimuovere il problema, vivendo miti giornate di villeggiante, e anche questa decisione di tornare a Roma da solo, ora, ad affrontare chissà cosa, con chissà quali risorse. A pensarci bene, tutto questo non so da dove venga; certo è che se avessi dovuto immaginarmi alle prese con un problema del genere non mi sarei immaginato così. E questo non è che l'ultimo dubbio. Da un po' di tempo, infatti, si può dire che non faccia altro che dubitare di me stesso. All'origine di questa mia insicurezza c'è anche una specie di trauma. Non nego che debba trattarsi di un processo dalle cause profonde e complesse, che di certo avrà avuto inizio chissà quanto tempo fa, senza che io me ne rendessi conto: sta di fatto però che ho cominciato ad averne brutale cognizione un paio di mesi fa, in seguito a un curioso incidente occorsomi con il citofono di casa mia. Era venuta gente a cena, e precisamente il mio agente con la sua fidanzata e una coppia di amici
comuni, lui critico d'arte, lei logopedista, che io e Anna vediamo spesso perché hanno un figlio dell'età di Francesco. Avevamo mangiato bene, bevuto un buon vino portato dal mio agente che è un intenditore, e chiacchierato amabilmente fino alle undici. A quell'ora, per problemi di baby-sitter, i nostri amici sono dovuti andare via, mentre il mio agente e la fidanzata sono rimasti. Ho accompagnato i partenti alla porta e, subito dopo averla richiusa, ho incrociato lo sguardo del mio agente, che mi aveva seguito nell'ingresso. Era malizioso, quello sguardo; molto malizioso. - Io ascolto sempre quello che si dicono le persone mentre escono da casa mia - ha sibilato, indicando con un'occhiata il citofono attaccato al muro. A me è parsa una cosa orrenda, da maniaci; ma, Dio sa perché, l'ho fatta: mentre lui continuava a fissarmi in quel modo ho alzato la cornetta e mi sono messo all'ascolto - e perciò adesso posso darvi un gran consiglio: non fatelo mai. Non ascoltate mai di nascosto cosa si dicono le persone che stanno uscendo da casa vostra. Per uscire da casa mia ci sono quattro piani da fare a piedi, poi un portone e un cortiletto da attraversare per arrivare al cancello che dà sulla strada, dove stanno i campanelli: per un po', perciò, non ho sentito che rumoretti indistinti, motorini che passavano, fruscii; poi c'è stato lo scatto del portone, e da quel momento le voci dei miei amici hanno cominciato a emergere sempre più chiare. Be', non era vero che avevano problemi di baby-sitter: semplicemente non sopportavano più di stare lì con noi. Lui si congratulava con lei di avere trovato una buona scusa, e quando doveva essere arrivato proprio davanti ai campanelli, poiché la sua voce era molto forte, l'ho sentito che mi dava del ridicolo perché per l'ennesima volta avevo raccontato un certo aneddoto di quando facevo il collegio militare. Ce n'era anche per il mio agente, definito da lei un «parassita», e per la sua fidanzata («non puzza né profuma»), e le voci si erano dissolte mentre entrambi, assolutamente d'accordo, davano dei tirchi a me e ad Anna perché con la barca di soldi che dovevo avere guadagnato grazie a Pizzano Pizza continuavamo a vivere in quella casetta malconcia, col linoleum per terra, le sedie spaiate, senza ascensore. Si è salvato solo Franceschino, ma forse lui l'hanno giustiziato quando erano troppo lontani e io non li sentivo più. Mi costa molto riferire questo fatto, è penoso, ma credo sia importante: quei due erano miei amici, e il fatto che potessero parlare così di me, di mia moglie, della mia casa e dei miei ospiti mi ha molto scosso. D'altra parte, tranne per la faccenda dei soldi (non ne ho affatto guadagnati una barca), non è che abbiano detto cose false: io racconto spesso aneddoti che ho già raccontato, il mio agente vive con le percentuali degli onorari altrui, la sua fidanzata è una splendida ragazza ma in effetti non brilla nelle conversazioni, e la nostra casa avrebbe proprio bisogno di una bella sistemata. Solo, non avrei mai immaginato che loro due facessero caso a queste cose, dopo tanti anni che ci si frequenta, e soprattutto che se le dicessero con quel tono astioso scappando con una scusa da un dopocena che non riuscivano più a sopportare. Sono cose che disorientano. Quando ho riattaccato, il mio agente ridacchiava, e per un momento ho sperato che si fosse messo d'accordo con loro per farmi uno scherzo. Ma non era così, quei due parlavano sul serio, e lui non aveva idea del pasticcio che aveva causato. - Nulla - gli ho detto - Stavano zitti. Non ho detto nulla neanche ad Anna, mi vergognavo troppo, ma è stato da quel momento che ho cominciato a dubitare apertamente di me stesso. Benché la tentazione fosse forte, sarebbe stato stupido liquidare la faccenda con la conclusione che certi presunti amici sono in realtà dei grandissimi stronzi - cosa che a proposito di quei due ho comunque concluso, ma senza considerare risolto il problema. No, quelli stavano parlando di me, della mia vita, ed erano perfettamente d'accordo, accidenti a loro; stronzi quanto si vuole, è così che mi vedono: tirchio, insopportabile, ridicolo. Un problema c'è, ed è mio, non loro. Perciò, abbastanza fatalmente, mi sono ritrovato a farmi una domanda: e se il ragionamento da fare fosse tutto l'opposto di quello che ho fatto fin qui? E se crescere non significasse affatto conoscere se stessi, e il dono portato dall'esperienza consistesse solo nel doverci mettere un bel «non», davanti a «so chi sono»? Tutto mi è parso spaventosamente più plausibile. A vent'anni non sai ancora quasi nulla di te, poiché non ti sei mai ritrovato alle prese con nulla di veramente importante, e credi che
la tua confusione sia dovuta a quello. Poi cominci ad accumulare esperienze, e da ciascuna ricavi le informazioni su te stesso che prima ti mancavano: all'inizio il ritratto che ne scaturisce è vago, ma via via si fa sempre più dettagliato e credibile, finché un giorno pensi di avere ottenuto abbastanza informazioni per poterlo considerare definitivo, e ci fai i conti. Lo accetti, innanzitutto, con fatica ti rassegni a tutti i limiti e a tutti i difetti cui esso ti inchioda, e nel rassegnarti provi per la prima volta un po' di pace - sulla quale, proprio perché la credi scaturita da un lungo processo di conoscenza, cominci a fare affidamento; ma poiché continui ad accumulare esperienze, prima o poi ne arriva una che ti mette in crisi (puoi anche non sollevarlo, quel citofono: tanto, poco dopo tuo padre morirà all'improvviso, e poi un incontro misterioso ti terrorizzerà, e poi chissà che altro), dopodiché le informazioni su te stesso non riusciranno più a coesistere e cominceranno a combattersi furiosamente, dilaniando in poco tempo quanto era stato fin lì composto con tanta ingenua pazienza. In un soffio la rassicurante, sofferta illusione di sapere cosa aspettarti dalla vita viene spazzata via, e a sostituirla spunta il sospetto che d'ora in poi tu, ignoto a te stesso, dinanzi a ogni circostanza dovrai accontentarti di scoprire sul campo se gli amici ti sopportano o no, se sei tirchio o no, ridicolo o no, sapendo che gli altri, intorno a te, potranno giudicarti in maniera molto severa anche se non ne hanno nessun diritto, e soprattutto sapendo che non cesserà mai più d'esser così; il sospetto che la vita che ti resta, in realtà, non sarà altro che questa quotidiana dannazione - un lungo ritorno a tentoni verso la confusione da cui eri partito. Ecco perché da un po' di tempo mi chiedo che diavolo di persona io sia veramente; ecco perché mi pare di non saperlo affatto. E mi torna in mente la domanda di quella giornalista, là alla premiazione: Lei pausa - è un uomo triste? La risposta giusta da dare era «Non so». Frattanto sono quasi arrivato. Roma è calda e vuota, sono andati via tutti. Percorro piano la via Ostiense; vista così, senza traffico, ombreggiata dalle file centrali dei platani che fremono al vento, e perfino silenziosa, sembra un'avenida cubana. E' strano, ma dopo averlo costeggiato per tre ore, giù da Viareggio lungo la costa toscana e laziale, è proprio qui che mi par di percepire il mare, come se dritto davanti a me non ci fosse il Cimitero degli Inglesi (rude di clima, dolcissimo di storia, come dice Pasolini) bensì un molo. Del resto accade lo stesso sul terrazzo di casa mia, là sopra, quando si spazia con lo sguardo per l'ampio orizzonte sud-occidentale della città, aperto e terso ma così poco romano, centrato com'è sul triangolo bianco della Piramide Cestia: sembra di trovarsi in qualche città di mare splendida e mai vista - Salonicco, Alessandria d'Egitto, Smirne - e si ha la sensazione che quella distesa di tetti trafitti da antenne nasconda a malapena la vista di un porto levantino, sensuale e brulicante di attività illecite. Mi fermo a un semaforo rosso, ma l'incrocio è deserto. Abbasso il finestrino, e una vampata di aria calda mi investe, inverosimilmente profumata. La mia casa è lassù, in cima al suo colle senza nome. Potrebbe essere un bel momento, tutto sembra sospeso, quando scatta il verde posso addirittura rimanere fermo senza che dietro di me nessuno si metta a belare col clacson. Potrei anche essere in pace. Invece no, la pace è lontana, e nella bufera di prime volte che è tornata a infuriare su di me, come fossi un adolescente, tra poco parcheggerò sotto casa e mi dirigerò verso il cancello con la chiave già in mano, guardingo, per la prima volta nella mia vita pronto a buttarmi a terra dietro a una macchina in caso qualcuno mi si dovesse avvicinare per spararmi addosso. 5 «Che ognuno faccia quel che deve. Che la vita continui normalmente.» Sono le luminose parole che l'Imperatore del Giappone rivolse al proprio popolo all'inizio della guerra con la Russia, nel 1904. Le ho copiate, tempo fa, sull'agendina, in attesa del momento in cui mi sarebbero tornate utili, e a quanto pare quel momento è arrivato: solo che quando le ho copiate pensavo di farne un uso letterario, cioè di metterle in bocca a qualche personaggio del prossimo libro di Pizzano Pizza, o magari proprio a lui personalmente, mentre invece adesso dovrò farne un uso letterale. E poiché rientrando a casa nel caldo pomeriggio romano tutto si è presentato quieto come sempre, poiché nessuno mi ha aggredito o seguito, né l'appartamento è stato visitato da estranei durante la nostra
assenza, al momento il mio fare quel che devo si riduce a mettere ordine nelle incombenze che si sono accumulate in questi giorni di fuga. Corrispondenza da evadere, pacchi non consegnati da recuperare, bollette da pagare, diciassette messaggi da scaricare dalla segreteria telefonica - oltre alla lista che già mi portavo appresso da Viareggio, nella quale Anna ha elencato tutto ciò che dovrò sbrigare da solo, se voglio mantenerla lontana da Roma insieme a Francesco; e, considerando che con altri adempimenti mi trovo ancora in arretrato per via dello sconquasso causato dalla morte di mio padre, ce n'è per quattro o cinque giorni di lavoro. Certo, fa impressione pensare a quanta continuità d'azione richiedano le cose pratiche in una vita normale. Uno non ci fa caso finché non se le ritrova schierate davanti tutte insieme dopo averle trascurate per un po', e sembra indecente che, mentre tuo padre muore, o mentre scappi perché d'un tratto qualcuno minaccia la tua famiglia, quelle continuino ad accumularsi come se niente fosse. Sembra indecente ma non lo è: è normale, per l'appunto, perfino giusto. Le persone come me devono riconoscere che la loro esistenza, per quanto in certi momenti possa essere spiritualmente intensa o in altri venir turbata da eventi minacciosi, rimane fondata su questo quotidiano metabolismo di cose pratiche. E se, come io credo, in tale esistenza è contenuta una forza, essa è dovuta anche alla capacità che si acquista di controllare quel metabolismo senza disunirsi. Ho giocato a scacchi tanti anni, subendo severissime lezioni da scalcinati maestri russi che durante i tornei smerciavano sottobanco icone in similoro - e binocoli Berkut e macchine fotografiche di contrabbando -, e almeno due cose le ho capite: la prima è che quando ti attaccano - ma anche quando sei tu ad attaccare - bisogna prestare la massima attenzione ai pezzi ininfluenti, difenderli e curarli come se non fossero affatto estranei all'azione, e mantenere sempre un'intelligenza complessiva delle cose; la seconda è che nel mondo, da un certo livello in su, ci sarebbero sempre state parecchie decine di persone più brave di me a fare questo - ragion per cui ho lasciato perdere gli scacchi. Perciò, anche se potrà sembrare assurdo, la prima autentica mossa che ho effettuato in difesa della mia famiglia è stata stilare una lista delle commissioni da sbrigare nei prossimi giorni, in ordine d'importanza, per sciogliere prima possibile il nodo nel quale si sono aggrovigliate. Sono stato accurato, lottando di continuo contro la tentazione di sdraiarmi sul lettino del terrazzo e abbandonarmi alle mie preoccupazioni nel sole del pomeriggio. Ho fatto tutto di slancio, senza mai fermarmi a pensare, ma anche se avessi voluto, nonostante il tripudio di insulsaggini cui mi sono dedicato, non avrei potuto perdere di vista il problema principale, giacché due dei messaggi nella segreteria erano di una certa Ispettrice Olivieri del Commissariato di Polizia Esquilino, che mi chiedeva di passare da lei prima possibile per completare la mia denuncia; solo che mi sono limitato a trascrivere anche questi due messaggi su un foglio insieme agli altri quindici, senza riservare loro nessun trattamento speciale - lasciando che la loro importanza emergesse oggettivamente, ecco, e che si conquistassero il primo posto della mia lista solo in seguito a una leale competizione con tutte le altre faccende pendenti. «Che la vita continui normalmente,» maledizione: il Giappone la stravinse, quella guerra. Ho anche telefonato ad Anna, naturalmente, per dirle che tutto è tranquillo; e solo a quel punto, allungandomi finalmente sul lettino in terrazzo, con un robusto gin tonic da scolare a stomaco vuoto, mi sono concesso il lusso di pensare. Il pomeriggio sta declinando lentissimamente, come solo in giugno può capitare, a queste latitudini. Davanti a me, lontano, il crinale piatto e verde del Gianicolo, trafitto dal grattacielo - lo chiamano così - di piazza Rosolino Pilo, viene sorvolato da un aereo a una quota che sembra spaventosamente bassa. Ma è un effetto ottico, lo so, l'ho imparato. Il cielo è tutto un turbinare di rondini, e i rumori del traffico, laggiù - colpi di clacson, sgassate di motocicletta, ambulanze - arrivano smorzati e paiono naturali, rassicuranti. Finisco il gin tonic e mi sforzo di richiamare alla mente tutto ciò che per gli ultimi quattro giorni ho cercato di tenere lontano: uno sconosciuto armato mi ha individuato in coda fuori dalla Stazione Termini, diciamo che mi ha convinto a salire sulla sua macchina e poi, sorridendo, ha mostrato di sapere una cosa di mio figlio che nessuno sa. E' successo questo, quattro giorni fa. E' indubbiamente grave, ma il tempo che ci ho lasciato scorrere sopra gli ha già lavato via i particolari, così che, a questo punto, non si tratta nemmeno più di un ricordo bensì di una specie di
notizia. Com'era, quell'uomo? Altezza...? Occhi...? Capelli...? Se domani vorrò andare da quella Ispettrice Olivieri a firmare la mia denuncia (tale evidentemente i poliziotti hanno considerato la mia richiesta di protezione), dovrò pur fornire un minimo di indicazioni. Eppure, benché sembri strano a me per primo, quell'uomo io non lo ricordo più. Ricordo che sorrideva, ma non ricordo il suo sorriso. Ricordo che sotto la giacca portava la camicia a mezze maniche, ma non ricordo il colore, né della camicia né della giacca. Che razza di indagini potranno mai essere svolte, se io stesso non sono in grado di dare una sola informazione utile? Decido di farmi un altro gin tonic. Rientrando in soggiorno a prepararlo e poi tornando in terrazza a berlo sento le gambe già leggermente molli, e questo mi piace. Mi sdraio di nuovo, bevo, respiro; mi gira la testa - molto bene. Non bevo quasi mai, ma quando lo faccio voglio vedere i risultati prima possibile, per cui preferisco farlo a stomaco vuoto - e per risultati intendo esattamente la leggerezza di adesso: non ebbrezza vera e propria, solo un lieve appannamento del cervello, quel tanto che basta a scrostarlo dal calcare della razionalità e lasciarci finalmente scorrere le cose insensate. Sì, sto bene: il crepuscolo che si avvicina lentamente, i tetti di Roma, il caldo, le rondini, i sensi leggermente annebbiati e il cervello disposto ad accontentarsi delle soluzioni più improbabili per il mio problema. Per esempio l'eventualità di un universo beffardamente illogico - perché no? in cui gli eventi abbiano luogo senza causa, senza concatenarsi, come nei cartoni animati. Ora, in questo momento, sarei disposto a crederci. Niente ordine naturale delle cose, soltanto un insensato mescolarsi di vicende grandi e piccole, individuali e collettive, che solo localmente, e solo per puro caso, gli stregoni della ragione riescono qualche volta a mettere in relazione tra loro: un universo a immagine e somiglianza del tasto shuffle dei lettori di compact disc. Niente Dio, niente Big Bang, tutt'al più un librone come quello immaginato da Melville all'inizio di Moby Dick, con su scritte le cose che dovranno accadere, ma senza la firma delle tre Parche, e senza nessun altro artefice, nessuna spiegazione. Qualcuno le legge e le esegue come e quando può. Ecco che di colpo il tale dell'altra sera non sarebbe più un problema, perché avrebbe semplicemente fatto il proprio dovere: passava di lì, ha letto nel librone «qualcuno rubi una macchina, infili una pistola nella cinta e dica a un certo Gianni Orzan che finalmente suo figlio ha imparato a andare in bicicletta», e ha eseguito: ma non ce l'ha con me, non sa nemmeno chi sono, e non lo rivedrò più. Il mondo insensato, sì: sarebbe fantastico, ora, scoprire che è così che funziona, e che io ho sbagliato tutto nella vita. All'improvviso, quasi a incoraggiare questa ipotesi, una voce comincia a bestemmiare proprio sotto al mio terrazzo: è una voce giovane e rotta, come di chi, gridando a squarciagola, stia anche piangendo. E bestemmia, bestemmia solamente. Resto in ascolto per un po' sul lettino; le bestemmie continuano, allora mi alzo e raggiungo il parapetto - sul cui perimetro, da quando Franceschino ha cominciato a camminare, circa sette anni fa, ho sistemato un bel metro di rete verde da giardino, per evitare qualunque rischio alla Connor Clapton: disturba il panorama, ma la serenità mia e di Anna sarebbe letteralmente impensabile senza. La voce continua a bestemmiare: tre bestemmie diverse, mi accorgo, ripetute in serie sempre nello stesso ordine - prima la Madonna, poi Dio, poi di nuovo la Madonna. C'è una disperazione assoluta in quelle grida, un insieme di rabbia, dolore, furia, odio, strazio, frustrazione, che tuttavia pare aver trovato un suo strano equilibrio in questo assolo monocorde, senza crescendo e senza variazioni. Prima bestemmia. Seconda bestemmia. Terza bestemmia, Pausa. Prima bestemmia. Seconda bestemmia. Terza bestemmia. Pausa. E via, regolare come un antifurto. Naturalmente il bestemmiatore è invisibile. Credo di individuare la casa dove opera, al primo piano di un palazzo dietro il mio: un appartamento apparentemente modesto, con le finestre spalancate, l'intonaco grigio tutto scrostato e un balconcino sulla cui effettiva destinazione d'uso un gelsomino fiorito aggrappato al muro combatte una strenua battaglia contro spazzoloni e stenditoio: ripostiglio all'aperto oppure angoletto fresco e profumato dove andare a fumarsi una sigaretta in sere come questa, appoggiati al parapetto di ferro a rimirare uno zerbino di cielo tra i palazzi circostanti, riflettendo su come la vita avrebbe potuto andare e non è andata? Ma non sono nemmeno sicuro che sia proprio questa, la casa. Ciò che è strano è che a quella del bestemmiatore non si sovrappone
nessun'altra voce, come invece uno si aspetterebbe, magari di donna che supplica di smettere o di uomo che minaccia botte; nulla: il nostro dev'essere solo in casa. E un'altra cosa strana è l'assenza di qualsiasi rumore d'accompagnamento, il che produce l'ardua immagine di un giovane indemoniato solo vocalmente, che grida bestemmie senza imperversare per casa, senza spaccare nulla, senza sorge il sospetto - potersi nemmeno muovere. Un ragazzo legato al letto e lasciato solo in preda a una crisi d'astinenza: è l'unica cosa cui riesco a pensare. Frattanto le bestemmie hanno attirato parecchia gente alle finestre delle case tutt'intorno, e sono già partiti scambi di commenti, a voce alta, ragion per cui mi ritraggo e batto in ritirata. Capace che sappiano esattamente chi è che bestemmia e perché; ma, sebbene questa sia anche la mia curiosità, non è così che voglio soddisfarla, con chiacchiere da davanzale. Poi, di colpo come erano partite, le bestemmie cessano, e questo, in fondo, risulta ben più misterioso: perché? Cosa diavolo è successo? Resto in ascolto ancora un poco, casomai fosse solo una pausa più lunga; ma l'esibizione sembra proprio finita, e tutto ciò che sento è il mio campanello che suona. Rientro in casa, e si mette a suonare anche il telefono: adesso la testa non mi gira più, le bestemmie hanno avuto l'effetto di una secchiata d'acqua fredda, però questa improvvisa concomitanza, con tutte le nuove domande che si porta appresso (Chi sarà? In che ordine affrontare le due suonerie? Che ore sono?), mi stordisce un po'. Per un momento me ne resto fermo a mezza via, poi, senza averlo realmente deciso, concedo la precedenza al campanello e vado alla porta. Si tratta, se non ho sentito male, del campanello qui del pianerottolo, che ha un suono un po' diverso di quando si suona dal cancello, giù in strada: perciò mentre apro mi aspetto di trovare qualcuno del palazzo, che per chissà quale insulsa ragione domestica, o magari proprio per scambiare due parole sul bestemmiatore, ma in realtà forse soltanto perché sopraffatto dalla solitudine in questa prima vera domenica d'estate, ha pensato bene di... E invece - ecco un bel colpo di scena - è l'uomo dalla camicia a mezze maniche sotto la giacca. Riconosco all'istante il suo grugno di vecchio-adolescente che pochi minuti fa credevo di aver dimenticato (ovviamente sorride), e all'istante il cuore mi balza alla gola, paralizzandomi. Intanto il telefono ha continuato a squillare fino allo scatto della segreteria, che ora spande nella casa la voce di una donna (non di Anna): «...ancora fuori...» dice. «...oppure fuori a cena...» - La borsa - dice l'uomo - ti ho riportato la borsa. Io sono ancora paralizzato. E' strana, come sensazione: vedo tutto, percepisco tutto (anzi, la mia impressione è che in questo stato si percepiscano molte più cose), ma non riesco a muovermi di un millimetro né a emettere un suono, ogni singolo impulso che lancio va a vuoto, e sto malissimo. Non posso dire che sia una sensazione nuova, poiché è più o meno quella che si prova negli incubi, ma da svegli è tutta un'altra cosa. A malapena riesco a dirigere gli occhi verso le mani dell'uomo, che in effetti stringono i manici della mia borsa da viaggio di cuoio marrone: è proprio lei, quella lasciata nel fuoristrada, con dentro computer e tutto. - Tieni - fa lui, e me la porge. La segreteria ha finito di registrare, e lancia il suo tu-tu di fine messaggio. L'uomo sorride, la borsa a mezz'aria, offerta in un gesto quasi votivo. - Ho visto la macchina parcheggiata e... Poi di colpo non sono più paralizzato. Me ne accorgo perché all'improvviso faccio quel che non sono riuscito a fare nel momento in cui andava fatto (subito dopo aver riconosciuto l'uomo, andava fatto), quando avrebbe avuto molto più senso, mentre adesso sembra più che altro lo smaltimento di un impulso in lista d'attesa e ha un effetto, be' sì, abbastanza comico, com'è noto essendo la comicità una questione di tempo, e qui di tempo, tra quando andava fatto e quando lo faccio, ne è passato abbastanza per contenere tutti gli ipotetici fulminei eventi per difendersi dai quali un gesto del genere viene fatto - tipo una pistolettata, per esempio, o una bastonata in testa, o un cazzotto in faccia, o anche soltanto un panzone armato che ti dà una spinta e fa irruzione nel tuo appartamento dopodiché sa Iddio cosa succederà. Senonché è pur vero che nessuno di questi eventi si è verificato, e che anzi non è ancora successo niente di niente, poiché siamo rimasti tutti e due immobili sulla
soglia, io paralizzato, lui sorridente con la mia borsa in mano, per cui alla fine, comica quanto si vuole, si tratta pur sempre dell'unica mossa sensata a mia disposizione, vale a dire: richiudergli di schianto la porta in faccia (slam!) e mettere il paletto. 6 Porta di casa mia. Io di qua, lui di là. Fuori, oltre i muri friabili in calce e foratelli con cui questo palazzo è stato costruito in fretta e furia subito dopo la guerra, nel mio quartierino senza nome e poi via via in tutta Roma, in tutta Italia, in tutta Europa, in questo momento si prepara la cena, si annaffia il giardino, si gioca con i bambini, si torna a casa dalle gite, si guardano i telegiornali o, come di sicuro sta facendo Franceschino a Viareggio, vecchi cartoni animati giapponesi su oscuri canali locali dal logo indecifrabile. E a me invece chissà cosa sta per succedere... - Gianni! - la sua voce è calda, dolce, e attraversa a malapena il legno del portone: è talmente in contrasto con il suo aspetto che pare gliel'abbiano fatta dopo, per rimediare. - Scusa, non volevo spaventarti! Non sono più paralizzato, ora, ma sono fermo. Che fare? Potrei chiamare il 113, che purtroppo però ora non è più 113 ma un altro numero che non ricordo, 118, 119 - maledizione, cosa l'hanno cambiato a fare? Cosa c'era che non andava col numero 113? - Gianni! Arpiono l'elenco telefonico, allungandomi fino alla mensola dell'ingresso dove c'è il telefono andarci no, quello potrebbe sparare attraverso il portone e beccarmi. Consulto l'avantielenco e scopro che il 113 non è affatto cambiato, è sempre lì, al primo posto tra i numeri di emergenza, da comporre «soltanto in caso di reale e incombente pericolo alle persone», come dice la didascalia. Ma allora perché ero convinto che l'avessero cambiato? - Gianni! Il campanello suona di nuovo, due trilli - Sono un amico di tuo padre! Apri, dài... Questa è grossa. Lo so che non dovrei rispondere, non prima di aver chiamato la polizia, perché allora tanto varrebbe aprirgli la porta e buonanotte. Ma questa è davvero grossa. - Amico di chi? - forse grido troppo, ma che ne so qual è il volume giusto per parlare attraverso un portone? - Di tuo padre. Così grossa che è quasi rincuorante, direi. O quantomeno non è minacciosa, ecco; il che è già molto, in questo momento. - Che assurdità - dico, sempre forte. - E' la verità, Gianni. E quattro: ci tiene proprio a chiamarmi per nome. - E come si chiama? - Chi? - Lei. - Gianni anch'io - risponde - Gianni Bogliasco. Il mio nome non ti dirà nulla ma... - Infatti, non mi dice nulla. Dunque lei non è un amico di mio padre. - Invece sì! Mi devi credere! - Mi lasci in pace o chiamo il 113! - Ti dimostrerò che dico la verità! - Chiamo il 113! - Ehi! Ti ho solo riportato la borsa... - Grazie. La lasci sul pianerottolo. - Senti, mi rendo conto che l'altra sera posso averti dato una impressione sbagliata, ma sul serio sono un amico di tuo padre. Il migliore amico di tuo padre, Cristo! Siamo stati prigionieri insieme in Russia, abbiamo passato mezza vita insieme, e per me la sua morte è stata un colpo tremendo! Come posso fare a dimostrartelo? Chiedimi qualcosa! Silenzio.
- Qual era la grande passione di mio padre? Ma cosa sto facendo? Un momento fa la semplice vista di quest'uomo mi ha paralizzato di paura (e a proposito, che immensa delusione scoprirmi così privo di risorse dinanzi a lui, così incapace di reagire, malgrado in questi giorni si può dire io non abbia pensato ad altro che al momento in cui ci saremmo ritrovati, e a come affrontarlo, quel momento, e a come affrontare lui) e ora gli faccio i quiz attraverso la porta? E' uno che va in giro armato, questo qua. E in vita sua mio padre non ha mai pronunciato quel nome, Bogliasco... - Tradurre dal russo - risponde lui. Risposta esatta. E' una cosa che sanno in pochi: mio padre traduceva dal russo, ma non ne parlava mai e, soprattutto, non aveva la benché minima ambizione a pubblicare. Lo faceva per sé, diceva, per amore: l'amore per la lingua russa, che aveva imparato durante la prigionia. - Ha tradotto tutto ¬solochov - continua l'uomo - e, visto che il russo lo so anch'io, lasciami dire che l'ha tradotto benissimo, non come quella robaccia che hanno pubblicato. Tu però non l'hai letta la sua traduzione del Placido Don, vero? - No - rispondo, molto più piano, tanto che potrebbe non essersi sentito, di là dalla porta. - Eh, lo so... E tuo padre ci è rimasto male. Ci teneva, sai, al tuo giudizio. Dovresti leggerla, davvero, e poi confrontarla con quella pubblicata da Bompiani nel 1941. Sei uno scrittore, apprezzeresti la differenza... Che assurdità. Eccomi qua a parlare di traduzioni dal russo con l'uomo che ha sconvolto gli ultimi giorni della mia vita, attraverso il portone di casa. La paura, naturalmente, si è dissolta; in un film americano quest'ultimo spezzone di dialogo l'avrebbe fatta salire ancora di più, perché al cinema i killer intellettuali sono i peggiori: ma questa è la realtà che parla italiano, e gli energumeni che sparano alla gente ¬solochov non l'hanno mai nemmeno sentito nominare. Sento fulmineamente montare una gran vergogna, ora, per averne avuta, e tanta, di paura, fino a un momento fa, e per tutto quello che ho fatto, pensato e detto negli ultimi quattro giorni. E in più non è che ora il mistero di quest'uomo sia risolto, né che la sua presenza al di là del mio portone sia meno incongrua di prima. Tolgo il paletto e apro il portone, nel tentativo di recuperare un po' di dignità: l'uomo non se l'aspettava, trasale, e per una frazione di secondo riesco a vederlo mentre non sorride. Guardandolo, lo ricordo: la sua immagine, ora, qui sul pianerottolo, con la mia borsa tra le gambe, richiama all'istante quella dell'altra sera, quando mi si è presentato davanti per propormi la sua tariffa ribassata, e le si sovrappone perfettamente, come un cucchiaio su un altro. Capelli grigi, forfora sulle spalle, naso rotto, panza gonfia, sorriso, avambracci da lottatore che spuntano da sotto le maniche della giacca, nudi e pelosi: più che altro sembra un ex tallonatore degli anni Cinquanta, intronato di mischie e pastasciutte - di quelli che giocavano con la testa fasciata, in squadre dai nomi leggendari, Petrarca, Fracasso, Amatori, ed erano considerati insostituibili anche se in tutta la carriera non avevano né avrebbero segnato nemmeno una meta. - Lei non era un tassista abusivo? - chiedo, a bruciapelo. - No, no - ride - E' stato, diciamo così, un mio modo infelice di avvicinarti l'altra sera. Volevo fare una cosa simpatica, e invece... Parla con un leggero accento toscano - livornese, o pisano. - E' armato? - chiedo. - Ecco, infatti: anche questa è una cosa che ti devo spiegare, mi rendo conto. Ma ti assicuro che l'altra sera io... - In questo momento, dico. - Sì, sono armato. - Pistola? - Sì. - E ha intenzione di usarla? Prevede di ingaggiare un conflitto a fuoco con me? - Ovviamente no. - E allora perché se l'è portata dietro? - Senti, io ti spiego tutto quello che vuoi, ma è meglio se mi fai entrare, non credi?
La voce però continua a non combinare affatto con la sua figura: è bella, elegante. Ripeto, quasi dolce. - Come fa a sapere che mio figlio ha imparato ad andare in bicicletta senza rotelle? - Me l'ha detto tuo padre. - Ma di che? - scatto - Era moribondo, quando gliel'ho raccontato! Lui non batte ciglio. - Infatti me l'ha detto all'ospedale, l'ultima volta che l'ho visto - la sua espressione si fa grave - Due giorni prima che se ne andasse - poi si alleggerisce di nuovo - Ma dobbiamo proprio restare qui sulla porta? - Sto uscendo - dico. - Ah sì? E dove vai? - Come sarebbe a dire dove vado? - Vai per caso da tua madre? - No. - Be', quando vedi tua madre, chiedilo a lei se sono o no un amico di tuo padre. Tanto, prima o poi ci andrai, no? - Glielo chiederò. - Fa' così, dille che mi hai incontrato. - Lo farò. - Te lo ricordi il mio nome? - Gianni Bogliasco. - Perfetto. Si sfrega il naso con il dorso della mano e tira su. - Naturalmente - riprende - lei negherà di conoscermi. - Prego? - Ho detto che tua madre negherà di conoscermi. Al cento per cento. Ma tu fissala negli occhi, mentre lo fa, e col tuo sguardo esperto di figlio ti accorgerai che mente. E sorride. Più grosse le spara, più sorride, - Capisco - faccio - Adesso posso andare? - La borsa. Già. Me la porge, e io l'appoggio in terra, nell'ingresso. Neanche mi metto a tirar fuori il computer, prendo al volo le chiavi dalla mensola ed esco. Non ho la minima idea di dove andare: la mamma sarebbe un'ottima soluzione, se non fosse a Sabaudia da mia sorella che di figli ne ha tre, e un marito molto ricco, e villa sul mare, e filippini, e tata francese, tutta una serie di lussi che hanno subito consigliato quella destinazione per una vedova di settant'anni la cui casa è divenuta improvvisamente carnivora. Sbatto il portone e mi incammino per le scale, senza badare al mio uomo. - Non dài le mandate? - dice. - Cosa? - Le mandate. Non chiudi a chiave? - No. - Male... Mi raggiunge al pianerottolo del piano di sotto, e da lì procediamo affiancati, senza parlare, fino al cortile. Mi accorgo che ha il fischio ai polmoni, tipo enfisema: si sente distintamente ogni volta che respira. - Allora ciao - dice, quando siamo al cancello - e scusa ancora per l'altra sera. Ho sbagliato l'entrata in scena. Mi tende la mano e io gliela stringo senza guardarlo, buttando gli occhi sul muretto di fronte a casa mia, dove da sempre campeggia la scritta BAGLIONI FROCIONE, e chissà adesso l'autore quanti anni ha. - Arrivederci - dico. La sua mano è dura e callosa come quella di uno scimpanzè. - Chi era quello che bestemmiava, prima? - mi chiede di colpo, tutto allegro. Potrebbe anche
avercela, l'età di mio padre, se non fosse per l'espressione del viso, diabolicamente giovane. - Non ne ho idea. - Non ti fidi di me, vero? - mi chiede. (E, per inciso, come possa la mia risposta avere innescato questa domanda è un altro mistero.) - Non ciecamente - dico. Si fa pensieroso. Non sembra a conoscenza del fatto che nel mondo esiste una cosa chiamata sarcasmo. - Non hai tutti i torti - fa - Ma io ti voglio bene, e te lo dimostrerò - mi accarezza le spalle, nientemeno - Perché bisogna parlare, noi due. - E' un bisogno che io non avverto. Di nuovo, piglia la mia risposta alla lettera, molto seriamente, e annuisce con aria pensosa. - Ma io sì - dice - Ci sono delle cose che ti devo assolutamente dire. La carezza sulle spalle diventa una presa: molto leggera, certo, ma sufficiente a farmi alzare gli occhi verso di lui, che naturalmente sta sorridendo. E comincia la sfida, di quelle che si fanno da bambini con gli amici, e che alcuni - tra cui non io, ma evidentemente lui sì - continuano a fare anche da adulti, con gli sconosciuti, in treno, ai semafori, in ascensore, a chi costringe l'altro ad abbassare lo sguardo - chissà poi per stabilire cosa. Mi accorgo di reggere bene, non me l'aspettavo: tengo inquadrati senza imbarazzo i suoi occhietti ravvicinati, furbi e infingardi come quelli dei fox-terrier, che si muovono impercettibilmente a destra e sinistra per fissare i miei (la solita vecchia storia che, in realtà, di occhi se ne guarda sempre uno solo alla volta), e mi calo talmente nello spirito di questa sfida da arrivare a pensare che vincendola cancellerò la vergogna che ancora mi opprime, per la paura provata e fatta provare negli ultimi giorni. E mentre lo fisso ho la strana duplice sensazione che se, in effetti, da un lato la mia paura era ingiustificata, giacché si vede benissimo che quest'uomo non ha cattive intenzioni nei miei confronti (tutt'al più è un po' scombinato, oltre che fissato con mio padre per qualche ragione che presto - non credo di avere scampo - mi verrà rivelata), dall'altro era giustificata, perché osservandolo bene mi accorgo che il suo viso restituisce in qualche misterioso modo il riflesso di una paura che nel corso del tempo una quantità di persone deve aver provato davanti a lui - perché c'è poco da fare, le espressioni delle persone, il loro modo di sorridere o di serrare le mascelle o di inarcare le sopracciglia, ma arrivo a dire perfino i loro lineamenti, cioè proprio i tratti fisici permanenti, con l'andar del tempo finiscono per trattenere traccia di quello che gli altri provano di fronte a loro: io questo l'ho sempre creduto, e dunque posso ben credere che, sebbene nella particolare circostanza che lo ha condotto fino a me non fosse il caso di provare paura, quest'uomo di paura deve averne provocata parecchia, durante la propria vita, e ne porta i segni addosso. - Non devi andare da nessuna parte, vero? - dice lui, d'un tratto, prendendomi alla sprovvista e interrompendo la concentrazione con la quale gli tenevo testa. Ora, dopo questa - tra l'altro - verità, la sfida mi pare improvvisamente senza senso, e il suo sguardo diventa insostenibile. BAGLIONI FROCIONE. - Dài - mi fa - ti invito a cena. Andiamo a mangiare il pesce, al fresco... Mi accorgo che puzza di sigaretta come un mozzicone schiacciato male. Da quando ho smesso di fumare, nove mesi fa, è una caratteristica che mi capita di notare, nelle persone, e che mi disgusta alquanto: non per la puzza in sé ma perché mi fa pensare che anch'io, per vent'anni di seguito, senza preoccuparmene, senza nemmeno esserne consapevole, mi sono presentato a tutti gli appuntamenti più importanti della mia vita puzzando in questo identico modo (un pacchetto di Marlboro al giorno), compreso naturalmente il primo fatale abbraccio a mio figlio appena nato, il che dovrebbe comportare per lui, secondo la teoria dell'imprinting, e soprattutto considerando i successivi sette anni e mezzo di abbracci ugualmente puzzolenti, un'indelebile associazione tra questa puzza di cicca e l'idea di suo padre - cioè di me: associazione contro la quale il quotidiano eroismo con cui da nove mesi riesco a tenermi lontano dalle sigarette non servirà a nulla, a nulla... - Devo parlarti di tuo padre - insiste - Devo dirti delle cose che non sai... L'imbrunire. A quest'ora, a Viareggio, Anna avrà appena finito di sparecchiare e starà caricando la lavastoviglie - «non ti preoccupare, mamma, faccio io» -, con i guanti di gomma rossa infilati fino
ai gomiti e un ciuffo ribelle che le ciondola sulla fronte. Franceschino, in giardino, sta sicuramente lottando con se stesso, indeciso se rivelare o non rivelare ai nonni di aver imparato ad andare in bicicletta senza rotelle, in attesa che mio padre ritorni dalla morte. E se è vero che i bambini hanno una particolare sensibilità nel percepire fantasmi e spiriti, in questo preciso istante Franceschino dovrebbe decidere che sì, è arrivato il momento, il nonno morto è ritornato e dunque è ora di rivelare a tutti il grande segreto - dal momento che io ho appena deciso di accettare l'invito a cena di questo sconosciuto armato e puzzolente che mi parlerà di mio padre e ho già voglia di sentirlo parlare di lui, in qualunque modo, qualunque cosa abbia da dirmi - anche se, come credo, alla fine busserà a quattrini - e ho voglia di parlarne anch'io, ho voglia di ricordare qualunque dettaglio di lui, malgrado lui fosse lui, perché ho voglia che non sia morto, ecco, l'ho detto, e soffro, soffro, soffro per il fatto che invece è morto, e perciò ho voglia, io, vivo, di dedicare a lui, morto, tutto il tempo che ho a disposizione questa sera, e tutti i soldi che ho in tasca, e ho voglia di tornare a casa ubriaco di lui e addormentarmi pensando a lui e sognare lui. E più di così, figlio mio, un morto non può tornare. 7 Daccapo su questa macchina accanto a quest'uomo, e di mia volontà: fino a mezz'ora fa l'avrei considerata la cosa più improbabile del mondo. Da quando siamo saliti l'uomo guida e non parla, forse pago di essere riuscito a riacchiapparmi. Ha fumato una sigaretta, di quelle sottili, marca Capri Superlights, e si è tolto la giacca, svelando la famosa camicia a mezze maniche: è bianca, col colletto rigido da travet, e, eccezion fatta per le chiazze di sudore attorno alle ascelle, è pulita, il che mi fa pensare che deve averne una bella scorta. Della pistola, invece, nessuna traccia. Il portacenere letteralmente esplode di cicche, la cui puzza combatte un'acre battaglia con l'odore di pino sparso per la macchina da uno stinto Arbre magique appeso allo specchietto. Sotto il cruscotto i fili non spenzolano più. - Certo - attacca d'improvviso - è dura riscattarsi da una falsa partenza come quella dell'altra sera. Cosa mi sarà saltato in mente... Mi guarda di sbieco per non perdere d'occhio la strada, che è comunque mezza vuota, e scuote il capo in silenzio; tiene le mani sul volante nella posizione delle nove e un quarto, cioè la più aperta possibile, e guida di forza, a gomiti larghi, tipo camionista che si è formato in un'epoca in cui il servosterzo non esisteva e che ormai non cambia più. Un po' come me quando scrivo al computer, e batto forte sulla tastiera perché sono ancora abituato alle macchine da scrivere. Significa essere antiquati... - Volevo fare il simpatico... - riprende, e poi scrolla le spalle Vabbe', ormai è andata così. Chiedimi quello che vuoi, ti spiego tutto. - Non doveva parlarmi di mio padre? - Dopo. Prima voglio chiarire le cose, perché tu sei perplesso e hai ragione. Che vuoi sapere? E sorride, ancora, sempre. Forse crede di apparire rassicurante, mentre invece il sorriso sulla sua faccia da vecchio scugnizzo non rassicura affatto. - Di chi è questa macchina? Non se l'aspettava. - Mia. Perché? Combinazione, vedo il libretto di circolazione che spunta dal cassetto del cruscotto e lo prendo in mano. Sebbene sembri, e me ne rendo conto, una mossa premeditata fin da prima della mia domanda, non lo è: non avevo in mente di controllare. Però il mio gesto è così automatico che quest'uomo non lo crederà mai. Pazienza. Anche perché la macchina risulta intestata a un certo Gianni Fusco, nato a Molfetta (ba) l'11 novembre 1929 e residente a Prato in via del Cilianuzzo 23. - L'ho appena comprata e non ho ancora fatto il cambio di proprietà - si giustifica, non interrogato. - Ha solo sei mesi... - Esatto. Un'occasione. Frattanto abbiamo imboccato via della Magliana, dove c'è sempre l'ingorgo, sempre, e non si sa
perché. - Dove stiamo andando? - domando. - A Fregene, pensavo. Ci sono un sacco di ristoranti. Si accende un'altra delle sue sigarettine e se la lascia pendere tra le labbra come Humphrey Bogart; ma è ridicola, così sottile. Tira una bella boccata, e il fumo lo soffia via dal naso, accompagnato dal riemergere del fischio ai polmoni, che da un po' di tempo era scomparso. - Senta - dico - l'altra sera, alla stazione, lei aveva lasciato la macchina in moto, e c'erano tutti i fili ciondoloni sotto il volante. Che era successo? - Oh, avevano cercato di rubarmela. Salvata per un pelo. - Ah... - Mi fermo a mangiare due supplì in rosticceria, e mentre sono lì al bancone non ti vedo lo sportello aperto e l'albanese curvo sotto il volante, che traffica coi fili? Si accarezza con una mano la tasca dei pantaloni. - Ecco una volta che è servita a qualcosa... Allora è lì che la tiene, in tasca. - Gli ha sparato? - chiedo. - Oh no - risponde, sempre senza mostrare d'aver colto il mio sarcasmo - gliel'ho solo fatta vedere, e è scappato come una lepre. No, sparare no... Poi però ridacchia: l'idea non sembra inorridirlo. - Be' - dico - una pistola prima o poi spara, no? Nei film è una regola. - Americani - s'inalbera - Nei film americani. Sono loro che hanno tutte quelle regoline, climax, anticlimax, «la pistola prima o poi spara...» Ma nel mondo i film non li fanno mica solo gli americani. Per esempio, c'è un film russo molto bello, Pace a chi entra si chiama, in cui una pistola sta in scena per tutto il tempo, una pistola vera, carica, in mano a dei ragazzini che la trovano in un campo; resta in scena tutto il tempo e tu pensi ora spara, ora succede una tragedia, e invece non spara mai. S'interrompe un istante per lanciare la cicca fuori dal finestrino, poi continua: - Anzi, che dico, non è Pace a chi entra: è Periferia. Periferia, sì: il regista non sono sicuro, mi pare che sia... E comunque che mi sforzo a fare? Ormai siete tutti filoamericani... Ora, io forse ho detto una banalità, non lo nego, ma il discorso è: chi glielo dà a quest'uomo il diritto di farmi la predica? Sul cinema, poi. - Scusi - ribatto - a parte il fatto che non capisco cosa c'è che non va nel cinema americano, parla proprio lei che indossa la camicia americana standard, con le mezze maniche e il colletto rigido? Le porta qualcuno, in Italia, camicie così? No, a parte i mormoni, peraltro americani pure loro. Eppure lei ce l'ha, e le sembra anche normale, ci scommetto, e ci mette sopra anche la giacca, e lo sa perché? Perché l'ha vista per quarant'anni di fila nei film e nei telefilm americani, ecco perché; addosso agli attori di Hollywood, in storie sempre costruite con climax, anticlimax e pistole che prima o poi sparano. L'ha vista addosso a Tom Ewell in Quando la moglie è in vacanza e addosso a De Niro in Lo sbirro, il boss e la bionda; addosso a Robert Blake in tutti gli episodi di Baretta e addosso a Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia; addosso a Dennis Franz in New York Police Departement, e addosso a Bradley Whitford in Un mondo perfetto quando spara - spara - a Kevin Costner (che, le ricordo, è disarmato, perché la sua pistola l'ha buttata nel pozzo il bambino). Quella camicia è come il telefono attaccato al muro nella cucina, ormai, o il canestro attaccato al bandone del... E qui succede una cosa strana, per me abbastanza umiliante, che mi zittisce di colpo. L'uomo scoppia a ridere, di gusto, con tanto di ingorgo respiratorio, fischio polmonare che si fa più acuto e raglio di tosse catarrosa. Nel frattempo guarda me, poi la strada, poi di nuovo me, poi di nuovo la strada, mentre io lo osservo in silenzio, offeso e spaesato. - Scusa - rantola, e giù a tossire e a ridere. - Perché ride, scusi? - Scusa... - ripete - non volevo... - Ma la tosse ormai ha prevalso, e la turbolenza con cui si divora
tutto il resto quest'uomo farebbe bene a non sottovalutarla. Rimango in silenzio a osservare il rumoroso spettacolo offerto dai suoi malanni, mentre lui cerca di non perdere il controllo della macchina. - Apprezzo il tuo punto di vista, sai - riattacca, quando la tempesta è passata - Veramente, hai fatto delle osservazioni molto interessanti - tossisce - per non parlare della disinvoltura con cui hai citato tutti quei film a memoria, attori e tutto: impressionante. - Tossisce di nuovo, poi si schiarisce la voce - Lo diceva, tuo padre, che sei un osso duro. Solo che questa camicia è bulgara, figliolo, puro sintetico di Plovdiv; non una sola fibra naturale: l'avvicini a un fiammifero e uam!, brucia come benzina. Mi guarda con quei suoi occhi insidiosi, poi accende la luce sopra lo specchietto e s'ingobbisce, rivoltando all'indietro con la mano il colletto della camicia, perché io possa controllare l'etichetta. Ora, a me non interessa nulla dell'etichetta della sua camicia, sono ancora umiliato e spiazzato, e non mi muovo di un millimetro; ma lui insiste, quasi se lo strappa, il colletto, e ha l'aria di voler rimanere così tutta la notte, col volante in una mano e il colletto rivoltato nell'altra, a guidare nel buio in attesa che io mi decida a controllare la sua dannata etichetta. «NIKO Chic», c'è scritto. E con ciò? - Non hai idea di quanta gente porta camicie come questa in tutta l'Europa dell'Est - riprende Romania, Ucraina, Bulgaria: appena comincia l'estate tutti mettono camicie come questa. Non sono abituati al caldo, da quelle parti. Ci sei mai stato? - No. - Male... E c'è poco da fare: quest'uomo mi mette in difficoltà. A parte che mi fa fare troppo spesso quello che vuole - e troppo spesso la figura del cretino, anche - continua a sembrare troppe cose insieme, troppo opposte. Vecchio e giovane, cafone e colto, minaccioso e affettuoso, fisico da gorilla e voce da doppiatore, e poi slavista, pistolero, cinefilo, ladro e vittima di ladri; è da quando mi si è parato davanti, alla Stazione Termini, che mi disorienta. Chi è? Cosa vuole da me? Da dove viene? Come se l'è rotto, il naso? - Una cosa che devi sapere di me - dice - è che non sono mai stato in America. Un'altra è che l'Europa dell'Est è praticamente casa mia. Tieni presente queste due cose, e saprai più o meno cosa aspettarti da me. Quando ero al liceo, sul mio diario B.C. c'era una striscia fulminante: B.C. bussa a una caverna, e quando gli aprono dice «Scusi, stiamo effettuando un sondaggio sulla...» «Telepatia?», lo interrompe l'altro. L'ultima vignetta non aveva parole, ed era irresistibile, per via dell'espressione sul viso di B.C.: un'espressione ebete e un po' trasognata, perplessa ma anche reminiscente, e stupita, e vinta, e ammirata, che è, c'è poco da fare, l'espressione di quando ti leggono nel pensiero. La stessa che ora io mi sento addosso, visto che le mie domande le avevo solo pensate. - Sono un vecchio comunista - si sente in dovere di aggiungere, tanto per ingarbugliare un po' di più le cose, giacché ora diventa del tutto implausibile che fosse davvero amico di mio padre. Nel frattempo la strada è diventata più stretta, e io non la conosco. Niente più alveari imbottiti di famiglie, parcheggi selvaggi e luci gialle, bensì buio, campagna e case isolate. Per la seconda volta in questa giornata mi ritrovo a viaggiare in senso opposto rispetto alla fila delle macchine che, ora, tornano dal mare verso Roma, e, mentre cerco di orizzontarmi per capire dove siamo, un grosso aereo in atterraggio ci taglia improvvisamente la strada, basso basso, talmente vicino che si distinguono i grugni dei passeggeri dietro ai finestrini. O forse no, quelli sono io che li indovino, i nasi spiaccicati al vetro e l'espressione sospesa a metà tra l'estasi per la bellezza che gli allaga lo sguardo e la paura della morte che gli romba nel cervello. (E come sono indissolubilmente legate, durante un atterraggio, specie di notte, la bellezza e la morte, l'estasi e la paura: finché puoi godere del grandioso spettacolo della terra, laggiù, con tutte le sue forme e le sue possenti nervature di luce, vuol dire che la tua vita è in pericolo; quando, come in questo momento - ecco, è andata - l'aereo tocca terra dolcemente, e non succede niente - in realtà non succede quasi mai niente - la vita cessa di essere in pericolo, ma anche la bellezza sparisce.) L'uomo tossisce ancora, e ancora, ma con meno violenza: sembrano più che altro colpi di
assestamento dopo lo sconquasso di poco fa. Ha svoltato di nuovo, lasciandosi alle spalle l'aeroporto, e, se il senso dell'orientamento non m'inganna, ora dovremmo star filando paralleli al mare; ma magari invece m'inganna, e ci stiamo andando dritti contro. Comunque non c'è più fila in senso contrario, solo macchine sparse, segno che siamo su una strada veramente secondaria. - Qui, nel '91 - riattacca - ho fatto il rilevatore per il censimento. Avevo tutta questa zona, Maccarese, Torrimpietra... Lo dice con un tono molto diverso della voce, come per dare inizio a una fase del tutto nuova della nostra conversazione. - L'ho battuta palmo a palmo: case isolate, villini, cascinali, case di vacanza, piccoli condominii; e sai cosa mi ha colpito di quell'esperienza? Sai qual è stato l'insegnamento? E tace, sospeso in un'espressione autenticamente interrogativa. Non li ho mai potuti soffrire quelli che fanno sul serio queste domande: ti chiedono, in pratica, di sparare una risposta a caso per poi dirti quello che volevano dirti fin dal principio, dando però l'impressione di correggere un tuo sbaglio, e di soddisfare una tua curiosità. - Dài, prova a dire - insiste. - Ma che ne so. - La gente mente - svela - Ecco cosa mi ha colpito. Mente, sempre, per principio, anche se non ha il minimo motivo per farlo. E qui tace, perché l'ultima parola è stata pronunciata con tono conclusivo. Ma è una specie di errore di enfasi, poiché non ha affatto finito. E infatti riprende: - Naturalmente lo sapevo già, non è che sia stata una novità. Eppure, vederne le prove in quei modelli compilati a fatica, tutta quella pioggia di insulse menzogne su attività lavorative, servitù e metri quadri abitabili, anche dopo che tu, rilevatore, gli hai assicurato che di quei dati verrà fatto un uso esclusivamente statistico, quello mi ha impressionato. Ecco un tale che abita al numero 212, poniamo, di una strada comunale come questa. Arrivi lì e al 212 non c'è più nemmeno il campanello, nemmeno la cassetta della posta: l'ingresso vero, col campanello, il videocitofono e tutto, è slittato al 214, dove dovrebbe esserci il garage. Ti vengono ad aprire lì, ti fanno accomodare lì, e tu vedi la rampa che è diventata una scaletta, scendi nel garage trasformato in tavernetta, piastrellato a dovere, diviso coi tramezzi, col suo bel cucinotto, il divano, la televisione, il cavallo a dondolo del bambino: anzi, si può dire che della casa tu vedi solo quello, e capisci che anche loro, ormai, sfollati lì sotto ci vivono molto più che nella casa vera, al piano di sopra. Poi torni a ritirare il modello compilato e vedi che l'ingresso di casa viene indicato ancora al numero 212, e che alla casella «altri ingressi» hanno barrato senza esitazioni «nessuno». Mentono, sicuri, e si sentono al sicuro. Non hai idea di quante menzogne del genere ho consegnato all'Istat, in quei modelli; menzogne che io stesso, dopo due sole visite in quelle case, avrei potuto smascherare. La cosa è affascinante, non credi? A me mi incanta ancora adesso, a ripensarci. Mentono al censimento. Non ti sembra affascinante? E ci risiamo, me l'ha chiesto per davvero. Che poi lo so come funziona - ed è proprio la ragione per cui non sopporto questo modo di fare: non gliene importa mica niente della mia risposta, non cambierà di una virgola ciò che ha già in mente di dire. Ne ha semplicemente bisogno per ripartire, come di un colpo di frizione dopo un fuorigiri. Mi tocca dargliela, maledizione. - Non tanto. - E se poi pensi che mentono anche tra loro - riparte, come volevasi dimostrare - cioè che i figli mentono ai genitori, i genitori ai figli, e i fratelli mentono tra loro, e marito e moglie mentono tra loro (quasi tutte fregnacce, per carità: ma qualche volta, però, anche su cose importanti), allora capisci che persino il mondo che credi di conoscere meglio non è altro che un'enorme illusione, e che credere a quell'illusione non è una questione di stupidità, bensì, al contrario, di buon senso; la condizione necessaria perché quel mondo, tutto il mondo, possa continuare a... No, quest'uomo è davvero troppo scombinato. Ora si è interrotto da solo, così, di colpo, al culmine della sua disquisizione sociologica, e ha inchiodato la macchina davanti a un bivio con dei cartelli che indicano tutto tranne Fregene - dal quale bivio, per inciso, ho la sensazione che siamo già
passati poco fa. - Merda - borbotta. Io non ho niente da dire, e dunque sto zitto, ma la situazione è strana. Cerco solo di tenere a mente la ragione per cui sono qui, accanto a quest'uomo, poiché un nesso tra me e lui non è che salti agli occhi: mi deve parlare di mio padre, è per questo che sono qui. Lo osservo riflettere, immobile, poi tossire, poi tornare immobile, larga figura tribolata dai fari di ogni macchina che passa. Cosa avrà in testa? Non posso fare a meno di pensare che nessuno sa che sono con lui; se ora tirasse fuori la pistola e mi sparasse in fronte, così, per sfizio, e poi abbandonasse il mio cadavere davanti a questo bivio, diventerei il giallo dell'estate. La mia morte sarebbe argomento di conversazione per un sacco di gente, e la mia vita anche, raccontata in fantasiose versioni da giornalisti mai visti né conosciuti, ognuno dei quali, per parlare di me, partirebbe da questo bivio, e arriverebbe a dire le losche assurdità che è del tutto logico arrivare a dire parlando di me a partire da questo bivio, che non ha niente a che fare con me. - Perché siamo fermi? - chiedo, più gentilmente che posso. Mi guarda. Sorride. - Sembra che non mi riesca di arrivare a Fregene - dice. 8 Persi... Sembra impossibile che ci si possa perdere qui, a due passi da Roma, in una chiara sera di giugno, nel tentativo di andare a cena a Fregene - io, romano figlio di romani, e lo strano essere al mio fianco, che questa zona ha appena dichiarato di averla battuta «palmo a palmo» per il censimento: eppure è così, ci siamo persi. Lo vedo che fruga accanitamente nelle tasche degli sportelli, dei sedili, del cruscotto, suppongo in cerca di una cartina - e, anche se ormai ho capito che con lui è tutto molto diverso da come sembra, pure non posso fare a meno di notare che il suo modo di frugare - cieco, nervoso - è più da ladro che da proprietario della macchina. E comunque non trova nessuna cartina, ammesso che stesse davvero cercando quella: oltre i documenti che avevo già esaminato io salta fuori solo robaccia ammuffita, crackers stantii, un «Tuttocittà» sbrindellato (ma non di Roma, bensì di Genova), e un libro marcio e mutilato da un... be', sembra proprio un morso Clio Pizzingrilli, riesco a leggere sulla copertina, «Uscita dei... second...»: un morso non umano, si direbbe, a giudicare dall'ampiezza dell'arco mandibolare, preciso, tondo, e regolare per tutto lo spessore del libro, come quelli che vengono dati ai sandwich nei cartoni dell'orso Yogi. - Macché... - biascica. Torna ad appoggiarsi allo schienale, producendo un sinistro scricchiolio, poi scrolla le spalle e, con una smorfia - molto espressiva, devo dire, io non la saprei fare -, mi comunica che in fondo non ha nessuna importanza dove ci troviamo. Si rimette a fissarmi, il fischio del respiro che riemerge dal silenzio, lo sguardo abitato da una luminosa intensità, e io capisco che sta per tirare fuori, qui, ora, assurdamente, la vera ragione della sua comparsa nella mia vita. Siete padroni di non crederci, naturalmente, ma lo capisco prima che lo faccia: non c'è nessun motivo logico che lo lasci prevedere, e io non saprei spiegare come accade che lo capisca, però lo capisco: sta per farlo. E, appena ho finito di capirlo, lo fa. - Anche tuo padre era comunista - dice. Hah. - Apposta prima parlavo della gente che tiene nascoste le cose continua - Cercavo di entrare in argomento, non sapevo da dove cominciare. Ma ci ho girato intorno anche troppo, per cui è meglio dirtelo chiaro e brutalmente, tanto non è che cambi molto. La vera storia di tuo padre è molto diversa da quella che conosci tu. Era comunista da ragazzo ed è rimasto comunista fino al giorno della sua morte. E' stata la cosa più importante della sua vita, il comunismo. Passa un camion, e lo spostamento d'aria fa traballare questa bagnarola. - C'è un paese in Toscana dico - ora mi sfugge il nome ma lo posso ritrovare, dove ogni anno le persone si sfidano a chi la spara più grossa. Non so cosa si vince, prosciutti, credo, ma di sicuro se
lei si presenta con questa... - E non era solo comunista - m'interrompe - Era un agente del kgb. Pausa. - Una spia - aggiunge. Credo che la mia reazione, a questo punto, sia oggettivamente importante, credo che in qualsiasi film adesso ci sarebbe un primo piano su di me: ma come un momento fa, dopo la prima parte della sua rivelazione, mi sono sentito pieno di sarcasmo, così adesso mi sento vuoto, non so perché, e la reazione non c'è. Niente, nessuna reazione. A meno che rimanere immobile e in silenzio non sia una reazione. - Ora - riprende - io sto facendo una cosa ignobile, da un certo punto di vista, perché sto infrangendo un giuramento solenne che tuo padre mi ha chiesto di ripetergli anche l'ultima volta che l'ho visto, due giorni prima che morisse: il giuramento di non dirti niente, mai, per nessuna ragione al mondo. Tossisce, poi con mia sorpresa ingrana la marcia e parte, infilando sicuro la strada che porta - dice il cartello - verso l'autostrada. - Io ho giurato perché non ci si può mettere a discutere con un moribondo, ma non ero d'accordo, e lui lo sapeva, e non ho mai pensato nemmeno per un secondo di rispettarlo, questo giuramento. Perché per me non è giusto che suo figlio non debba sapere che razza di uomo era veramente. Finché lui era vivo era un conto, non c'era scelta, ma adesso no, io non posso rispettare quel giuramento, non voglio, perché sarebbe uno sbaglio, Maurizio, e tu lo sai... Alza per un istante lo sguardo verso l'alto, come rivolgendosi direttamente a mio padre, che si chiamava per l'appunto Maurizio, anche se nemmeno Franceschino è riuscito a credere che se ne fosse realmente andato in cielo; poi lo riabbassa, giusto in tempo per accorgersi di una Panda, quasi ferma e senza fari, che stiamo per investire. E ho l'impressione che, scalando una marcia per sorpassarla come se nulla fosse - però c'è mancato un pelo - e contemporaneamente scuotendo quel suo testone inforforato, l'uomo sia sul punto di piangere. Non fa niente di particolare, tipo sospirare o tirare su col naso, solo che questa è l'impressione che ho, fulminea e netta, e se non si trattasse di un totale sconosciuto, se fosse un vero amico di mio padre, di quelli che sono stati veramente a trovarlo in ospedale - Attanasio, per esempio, o il professor Di Stefano, o il generale Terracina -, che frequentavano casa nostra fin da quando ero bambino e che di conseguenza ho visto incanutirsi e ingrassare e perdere diottrie di anno in anno, di cena in cena, di torneo di bridge in torneo di bridge, lungo tutta la mia vita, finendo per maturare con loro una specie di involontaria, svogliata, e fredda - perché non è che mi piacessero - ma pur sempre autentica familiarità; be', se fosse uno di loro non avrei dubbi, direi che è veramente sul punto di piangere. Ma questo qui non lo conosco. Magari mi confondo, e sul punto di piangere sono io. - E mi ci è già voluta una gran forza - riprende - per aspettare fino a oggi, per non tirarti da una parte durante il funerale e dirtelo lì, sotto quella pioggia, in mezzo a tutta quella gente di merda, quei fascisti. Tuo padre non era come loro e tu devi saperlo: doveva fingere di esserlo, e lo ha fatto, e bene, per tutta la vita, ma non ha mai avuto niente in comune con loro, loro erano i suoi nemici. Tuo padre era comunista, Gianni, è stato una spia per quasi cinquant'anni, e al diavolo il giuramento: io nella tomba questo macigno non me lo potevo portare. Ammutolisce di colpo, ma non può aver finito: forse il seguito deve ancora inventarselo, forse se lo inventa sul momento, continuando a guidare a braccia larghe. Molto più veloci di prima, intanto, sfrecciamo per oscure stradine di campagna. Sotto agli aerei che continuano ad arrivare, fitti fitti, uno dietro l'altro, costeggiamo rade case illuminate, e mucchi di buio che si allargano nei campi lasciando intravedere un'agra bellezza che mi sorprende. - Tre domande - faccio - Prima domanda: davvero lei era al funerale di mio padre? - Certo. Se vuoi posso dirti i nomi di quelli che c'erano, uno per uno. Andreotti, il generale Olivetti Pratese, quella testa di cazzo di Gramellini, i Terracina, i fratelli Urso che sono venuti apposta da Napoli, e poi Attanasio, Anzellotti, Scano... - Lasci stare. Seconda domanda: sarebbe una spia anche lei? - Sì.
Svoltiamo seccamente verso destra, e imbocchiamo una strada più larga, con gli alberi lungo i bordi, e i tronchi cerchiati di bianco. - Anzi, quattro domande. Terza domanda: non ci eravamo persi? Dove stiamo andando, ora, così spediti? - Sempre a Fregene. Solo che io ci so andare solo con l'autostrada: magari eravamo vicini, ma ho pensato di tornare a prendere l'autostrada, uscire allo svincolo di Fregene e arrivarci per la strada che so. - Quarta domanda: sinceramente, spera che io... - Senti - m'interrompe - posso chiederti una cosa io? Mi dài del tu? - E cosa cambia? - Cambia che il lei mi fa effetto. Per favore. Tu non lo sai, ma è probabile che a questo punto, morto tuo padre, e esclusi i tuoi familiari più stretti, io sia rimasto la persona che ti vuole più bene al mondo. - Bum... - Non esagero, Gianni. E ti dirò un'altra cosa che non puoi sapere: non è un caso se tu ti chiami Gianni, come me... Certo che è veramente difficile avere a che fare con quest'uomo. Tutte le volte che la spara grossa, e uno si sente autorizzato a fare un commento, ne ha sempre una ancora più grossa da sparare subito dopo. E' come certi avversari che incontravo ai tornei di scacchi iugoslavi, soprattutto - che combinavano sempre due attacchi insieme, pelosamente, uno nascosto nell'altro. Io lo sapevo, me lo aspettavo, ma finivo per perderci lo stesso. - Ok, come vuoi. Quarta domanda: speri che io ti creda? E invece il tu non funziona, è grottesco. - Vuoi che ti dica cosa spero? - chiede, e per un attimo, mentre si volta a guardarmi (non so come, perché in realtà è molto diverso da lui, più basso, più grasso), assomiglia a Jack Palance - Spero che tu mi lasci parlare. Questo, spero. Visto che infrango un giuramento spero che tu mi permetta almeno di infrangerlo fino in fondo, e di raccontarti questa storia pazzesca tutta intera... - Ecco, pazzesca, ha detto bene... Dicendo «ha detto bene» mi sfugge un piccolo sputo bianco, che si stampa sul cruscotto davanti a me, visibilissimo. Lo spazzo via con la manica, facendo finta di nulla, ma lui deve aver visto. - Lo so - riprende - è pazzesca. Ma se non me la lasci nemmeno raccontare, se a ogni cosa che dico ti metti a far domande e commenti, significa che tuo padre aveva ragione, non dovevo dirti nulla, e io non mi darò pace... Che faccio, sbotto? Ho qualcosa di molto giusto da dire, ora, perché non dovrei farlo? Perché dovrei trattenermi? - Senta un po' - dico - ma non la sta già raccontando, la sua storia pazzesca? Non ha fatto tutto quello che ha voluto, fin qui? Le ho forse impedito qualcosa? E' entrato nella mia vita con la pistola alla cinta e mi ha terrorizzato... sì, proprio così, terrorizzato dicendo quella cosa di Franceschino senza nemmeno essersi presentato. Sono dovuto scappare nella notte come un sorcio, lo sa?, angosciando mia moglie, sparando una montagna di cazzate ai miei suoceri, senza riuscire a capacitarmi di quello che stava succedendo: eppure ora sono qui, a sentirle dire che mio padre, generale dell'esercito, cattolico praticante, anticomunista viscerale, democristiano di ferro, ricevuto in udienza privata da quattro papi e amico di Andreotti (con il quale, per inciso, andava a messa quasi tutte le mattine), nonché, secondo me, ma questo lui lo negava, segretamente membro della Gladio, era una spia comunista. Ha un'idea di quante domande potrei farle? Altro che quattro! Queste ultime parole, mi accorgo, le pronuncio con un tono severo, da istitutore di collegio, che sfugge totalmente al mio controllo e suona abbastanza ridicolo, data la situazione: segno che devo fermarmi qui. Mi conosco: d'ora in avanti non farei che sbrodolare inutili ripetizioni delle cose che ho già detto, continuando a perdere sempre più il controllo del tono, poi via via anche delle parole e le mie ragioni, che ancora brillano limpide e sacrosante, finirebbero per sbiadirsi parecchio. E' un mio difetto, da sempre, e anzi è quasi incredibile che stavolta me ne accorga in tempo: di solito
succede dopo, quando è tardi. - E comunque io il tu non glielo riesco a dare - concludo - perciò veda lei, se riesce a resistere... Abbasso gli occhi, soddisfatto del mio sermone e ancor più d'esser riuscito a interromperlo in tempo, ma noto con orrore che, parlando, altri sputi mi sono partiti dalla bocca, andandosi a stampare sul cruscotto. Ma com'è possibile? Io non sputo mentre parlo. Lo saprei, maledizione; l'avrei sempre saputo, e ne avrei il complesso, e ci starei maniacalmente attento, mettendo in pratica tutti quegli squallidi accorgimenti tipo deglutire ogni tre parole o tenere il più possibile la mano davanti alla bocca facendo finta di nulla, che sono come un cartello, è vero, con su scritto a caratteri cubitali ciò che si vorrebbe celare - ATTENZIONE: sputo mentre parlo - ma che perlomeno evitano di appestare in questo modo i cruscotti degli altri. E mentre pulisco con un altro rabbioso colpo d'avambraccio mi convinco che la mia salivazione dev'essersi temporaneamente alterata, certo, non può essere altrimenti, per via dei due gin tonic bevuti a digiuno e per il fatto che è da stamattina alle nove che non mangio, e infatti ho una gran fame, condizioni alle quali si è aggiunto lo stress di questa inverosimile serata. Fatto sta che io non sputo mentre parlo. Cazzo. - Hai ragione - dice lui - e ti chiedo scusa. Ma non pensare che non mi sia messo nei tuoi panni, sai, che non abbia considerato le cose dal tuo punto di vista... Si accende un'altra sigaretta, e stavolta sento un'acuta fitta nei lombi, perché ora una bella sigaretta mi ci vorrebbe proprio, anche a me. Non delle sue, però, quelle mi fanno schifo, ragion per cui riesco a resistere all'impulso di rovinare, per una Capri Superlights, tutti gli sforzi compiuti da nove mesi a questa parte. Ma mi chiedo cosa sarebbe successo se si fosse acceso una Marlboro, se nella vaschetta dietro al cambio, dove tiene il pacchetto, baluginasse il magico marchio bianco e rosso. - Dopo la stronzata che ho fatto l'altra sera, poi - riprende quella bella pensata... Scuote il capo, e si passa una mano sulla faccia sudata. Frattanto ci siamo arrivati, all'autostrada. Solo che lui imbocca lo svincolo in direzione di Civitavecchia, mentre sono quasi sicuro che siamo già oltre Fregene, e dunque dovevamo tornare verso Roma. - Ma, vedi - continua - la morte di tuo padre mi ha sconvolto, e non riesco più a essere lucido. Ho sempre pensato che sarei morto prima di lui, perché è così che sarebbe dovuta andare. Non ero preparato a sopravvivergli, ecco, e a sopportare da solo tutto il peso di questa faccenda... - Ehi, occhio! - grido. Ha infilato l'autostrada senza guardare, il pazzo, e mentre ci si riversa addosso una furente strombazzata di clacson vedo nello specchietto lo scarto brusco verso sinistra che una Golf è costretta a fare per non travolgerci, proprio mentre nella corsia di sorpasso sopraggiunge come una schioppettata una Saab scura e sfarettante. Il cuore mi balza in gola e faccio in tempo a pensare ci siamo, ora moriamo tutti, sfrittellati in uno di quei grovigli orrendi che si vedono in televisione. Se non succede nulla è solo perché la Saab tira dritto senza rallentare - incredibilmente, sconsideratamente, ma anche provvidenzialmente - attraversando a centottanta all'ora questo improvviso agguato della sorte come un centauro da baraccone col cerchio di fuoco: la Golf, sfiorata, rimbalza di nuovo verso destra, e poi ancora verso sinistra, sempre strombazzando, in uno di quei zigzag che hanno fatto ribaltare la Classe A durante i collaudi; ma non si ribalta, e, quando ritorna nella corsia di sorpasso, ormai la Saab è un bolide che svanisce in lontananza, e il conducente riesce a recuperare il controllo della situazione. In tutto questo, noi, la causa, abbiamo continuato a procedere beati e indifferenti come Mister Magoo: non una frenata, né uno scarto, né un cenno di scuse, niente, e forse è questo, più ancora della nostra manovra, a mandare in bestia il conducente della Golf, che adesso ci affianca e comincia a coprirci di insulti attraverso il finestrino, sempre suonando istericamente il clacson. Entrambi ci voltiamo a guardarlo, e rimaniamo in uno strano silenzio, calmi, mentre questo sconosciuto - un giovanottino brutto, dai capelli a ciuffi e il volto paonazzo, assolutamente fuori di sé - ci scarica addosso tutta l'adrenalina che gli galoppa nel cervello. Un po' troppa, in verità, per quanto odio, addirittura, mette nel suo sfogo: ma accelera e se ne va con un ultimo insulto giusto un attimo prima che io reagisca - non so esattamente come avrei reagito, probabilmente blaterando offese anch'io - e, soprattutto, prima che reagisca anche l'uomo accanto a me, la cui reazione
sarebbe stata certo più temibile. Per cui sembra proprio che questo scalmanato abbia scelto bene il tempo: non saprà mai che i suoi insulti li ha sbraitati a un metro scarso da una pistola, e il ricordo di come, stasera, abbia saputo prima evitare un incidente e poi insultarci a suo piacimento senza che nessuno di noi due si permettesse di reagire gli tornerà probabilmente utile, in futuro, nei momenti di caduta d'autostima. L'uomo al mio fianco - non so ancora come chiamarlo: Gianni? L'amico di mio padre? La spia? - gli saetta dietro una breve, maliziosa sfarettata, poi lancia dal finestrino il mozzicone della sigaretta e lo guarda nel retrovisore disintegrarsi in una minuscola esplosione silenziosa. Dopodiché si volta verso di me, e, manco a dirlo, sorride. - Facciamo un patto - dice - Io adesso mi concentro nella guida e ti porto sano e salvo a Fregene, al ristorante, a mangiare il pesce come ti avevo promesso... CERVETERI-LADISPOLI 8 KM: avevo ragione io, siamo già oltre Fregene, dobbiamo tornare indietro. Ma lui mica se ne accorge... - ...e lì, davanti a dei bei gamberoni alla griglia, ti racconto tutta la storia dal principio. Al diavolo il giuramento. Queste cose le devi sapere. Poi deciderai se crederci o no... Che assurdità, penso. Che immane assurdità. E' la serata più assurda della mia vita. E lui guida tranquillo, concentrato, verso Civitavecchia, convinto di andare a Fregene, e non se ne accorge. CERVETERI-LADISPOli 7 KM. Macché. Glielo devo dire io, lui non se ne accorge. E ho fame... Alla fine ci siamo arrivati, a Fregene. Ma non nella parte più conosciuta e viva, quella a ridosso dell'ex villaggio dei pescatori, dove negli anni Sessanta baluginò la gloria portata dalla transumanza delle star del cinema, bensì nell'altra, al di là dell'area militare che spezza in due la litoranea: la parte borghese, col suo monotono e insulso e buio - di notte - susseguirsi di stabilimenti affogati nel nulla, lungo i quali siamo scivolati fino a trovarne uno col ristorante ancora aperto. Completamente a caso, dunque, siamo approdati a questo posto chiamato «Cutty Sark», costruito a imitazione di un transatlantico, non di un veliero, con spigoli arrotondati e oblò e terrazzi in cemento e ringhiere a tubo e intonaco a smalto che riluce nel buio di un lugubre, screpolato biancore. Visto dall'esterno faceva pensare a un luogo ampio, perlomeno; ma una volta attraversato un ingresso immenso ci ritroviamo in un budello oscuro e sorprendentemente angusto, con la scritta «disco bar» composta da tubi fluorescenti appesi al muro e un gruppetto di ragazzi africani intenti a guardare mtv su un televisore; e da lì, attraverso una porta-finestra, sbuchiamo di nuovo all'aperto, sotto un finto cannicciato che in realtà è una tettoia in lamiera rivestita, e il locale si trasforma un'altra volta, con la rapidità con cui le cose si trasformano solo nei sogni, e diventa ristorantino sulla spiaggia. Al vecchio Cutty Sark, ormai, chi ci pensa più. Una ragazzina sui pattini prende subito a ronzarci attorno, per guidarci verso un tavolo «tranquillo», dice, alludendo al cicaleccio proveniente da una tavolata di cinquantenni effettivamente un po' su di giri, e per questo abbastanza patetici, forse, ma non certo molesti. I capelli corti e nerissimi, molto bella, e anche molto prossima alla nudità, porta solo un paio di shorts incollati al sedere e una striminzita canottiera a mezza pancia, resa ancora più striminzita da un seno insolente che fa fare le montagne russe alla scritta «Roller Betty» stampata sulla stoffa. Pattina distrattamente, ma bene, masticando gomma americana con l'aria di chi rimpiange ogni singola scelta compiuta nella propria vita. Ci prepara il tavolo e ci mette in mano i menu, poi ruzzola verso il ventre fosforescente del disco-bar, dal quale emerge un uomo sui quarantacinque anni, robusto e vestito in maniera sgargiante, che non è difficile immaginare coinvolto nelle afflizioni della ragazzina, visto che le somiglia in maniera atroce. Mentre ci suggerisce le ordinazioni («un'insalata di mare che è una favola», «un risottino fatto espresso»), nel taschino della camicia a fiori gli suona il cellulare con la musichetta credo - di Rambo: potrebbe rispondere oppure spegnerlo, e lui risponde, e rimane un istante in ascolto, aggrottando la fronte, prima di sbrodolare che ha da fare e richiamerà dopo. Poi si scusa, ma la chiamata deve averlo turbato, poiché si mette ad aspettare le nostre ordinazioni dimenticandosi che aveva cominciato a suggerirle lui. Né io né il mio uomo, qui, glielo ricordiamo, perciò alla fine ordiniamo a intuito: lui spaghetti al nero di seppia, io alle vongole; poi gamberoni e verdure alla griglia per due.
- Mi raccomando le porzioni - gli dice Bogliasco - Abbondanti. Dopodiché l'uomo se ne va ed eccoci qua, uno di fronte all'altro, in un silenzio tattico che non ho nessuna intenzione di violare. Sono pronto a lasciargli raccontare la sua storia fino in fondo, ma non sarò certo io a chiedergli di farlo. Anzi, per quanto mi riguarda, se ci avesse ripensato e non mi raccontasse proprio nulla, e rimanessimo incagliati in questo silenzio a riempirci la pancia, e dopo la cena mi riaccompagnasse a Roma, sempre senza dir nulla, e mi salutasse sotto casa con una stretta di mano («allora ciao», «arrivederci»), come se niente fosse, e uscisse così dalla mia vita, ancor più assurdamente di come c'è entrato, e per sempre, sarebbe l'ideale. Non gli chiederei nessuna spiegazione. Mentre lo guardo penso che se riuscissi a ipnotizzarlo potrei ordinargli di fare esattamente questo, e forse tutto tornerebbe come prima: ma i suoi occhi elettrici non riuscirei a imbrigliarli nemmeno se fossi un fachiro. Ed ecco che sono proprio loro, invece, a guizzare in cerca dei miei, senza imbarazzo, segno che tutto questo silenzio non l'ha minimamente scoraggiato, e lo spettacolo sta per cominciare. - Allora - esordisce - ti racconto tutto dal principio, va bene? E il principio è la fine dell'ultima guerra, Gianni, quando i russi... Ha un sussulto. - Le pasticche... Cava dalla tasca una boccetta, ne estrae due pillole bianche e se le spara - letteralmente - in gola. Siccome non ci hanno ancora portato l'acqua, le manda giù a secco, come Ollio coi chiodi. Poi rimette in tasca la boccetta. Il tutto naturalmente senza smettere di sorridere. Per che cosa, le pillole, non lo sapremo mai. - Dicevo - riprende - che, subito dopo la guerra, i russi, come del resto anche gli americani e gli inglesi, potenziarono al massimo le azioni spionistiche. Erano i tempi d'oro dello spionaggio, quelli; prova a immaginare cos'era per esempio Berlino divisa in quattro prima della costruzione del muro, o anche l'Italia subito dopo la liberazione. Tutte le menti migliori, si può dire, lavoravano nello spionaggio... Arriva la ragazzina con una bottiglia d'acqua e una di vino. Le apre maldestramente, specialmente quella del vino, sbriciolando il tappo. Bogliasco non ci bada e va avanti. - Innanzitutto c'era da trarre il massimo vantaggio da quel caos, ma c'era anche da impostare le cose per il futuro, e il futuro non si presentava roseo. Era il 1945, Gianni, l'Europa stava ancora fumando: in quella distruzione immane la cosa più naturale che un servizio segreto potesse fare era prepararsi alla guerra successiva. Perciò venivano organizzate azioni di ogni tipo, anche estreme, con obiettivi di altissimo livello e con tempi di attuazione molto lunghi: quelle che gli americani chiamavano con la sigla L.T., Long Term, e i russi invece, più poeticamente, butylka vi morie, «bottiglia nel mare»: e in effetti era proprio come infilare messaggi nelle bottiglie e abbandonarli in mare aperto, sperando che qualcuno arrivasse a destinazione - benché, per la verità, nemmeno la destinazione fosse molto chiara, allora. Tuo padre, Gianni, è stato una di quelle bottiglie... Agguanta la bottiglia del Frascati, per l'appunto, e riempie il mio bicchiere, poi il suo; e beve, accorgendosi dei pezzetti di tappo nel vino solo quando se li ritrova tra le labbra. Li sputa, come se fosse la cosa più naturale del mondo, e mi guarda dritto negli occhi. - Tuo padre era russo - dice, quasi bisbigliando - Cosacco, per la precisione. Poi col ditone toglie le briciole di sughero rimaste nel bicchiere e finisce di bere, disinteressandosi della mia reazione. Reazione che non c'è, giacché la reprimo completamente, sforzandomi di non battere ciglio e - per quel che posso saperne - riuscendoci anche bene; ma devo ammettere che il bastardo mi ha sorpreso ancora una volta cosacco, addirittura. - Il suo vero nome era Arkady Fokin - riprende -. Era un giovane ufficiale dei servizi del controspionaggio di Stalin durante la Seconda Guerra Mondiale, ed era una specie di genio. A ventiquattro anni era già maggiore dell'Armata Rossa, aveva due lauree e svariati altri talenti - tra cui quello per gli scacchi, che tu, a quanto so, hai ereditato. Parlava alla perfezione tre lingue straniere: inglese, tedesco e italiano. Pilotava gli aerei, aveva una straordinaria resistenza fisica, ed era coltissimo. Insomma era uno degli uomini migliori, se non il migliore, su cui potesse contare in
quel momento l'nkgb - allora non si chiamava ancora kgb - e gli fu affidata una di queste missioni estreme: trasformarsi in un italiano, entrare nei servizi segreti militari italiani e conquistare una posizione di comando tramite regolare carriera. Si ferma un istante, ad arte, per controllare gli effetti delle sue parole, e io resisto nel non dargli la minima soddisfazione. Sbatto gli occhi, ma è la stanchezza. - Cosa che ha fatto, Gianni - riprende. - Perché tuo padre quella missione l'ha compiuta; per quel che ne so, tra quelli che furono incaricati di missioni di questo tipo, in Inghilterra, in Francia, in Germania, è stato l'unico a portarla in fondo. L'unica butylka vi morie arrivata a destinazione... Riecco Roller Betty, che arriva sparata con i piatti in mano e inchioda rumorosamente a pochi centimetri dal nostro tavolo. Ci serve gli spaghetti, e sono realmente delle super-porzioni. Poi ruba una scodella da un tavolo vicino e me la mette davanti, per i gusci. - Buon appetito - dice, e se ne va. Bogliasco osserva un istante il suo piatto, una montagna di spaghetti intrisi di sugo nero come l'inferno, e sembra raccogliere le idee su come venirne a capo. Quindi spiega il tovagliolo e se lo infila nel collo della camicia, non per l'angolo ma lungo tutto il lato, ben rincalzato, come fosse un bavaglio. - Buon appetito - dice, anche lui. Poi arrotola una bella forchettata di spaghetti, la solleva per far scolare l'inchiostro, e l'azzanna, sporcandosi di nero tutta la bocca. Mentre comincia a masticare si pulisce col tovagliolo, sul quale stampa una V nera che sembra una rondine in volo. - Ora - ricomincia, ancora masticando - lo scopo della missione di tuo padre non era spiare. Non si trattava di ficcare il naso negli schedari, né di ricattare i pezzi grossi perché passassero informazioni, né di sfaccendare attraverso i confini per consegnarle, né di smascherare il tale agente nemico o eliminare il talaltro che faceva il doppio gioco. Non era questo il livello per cui un uomo del calibro di tuo padre veniva impiegato - questo semmai è stato il mio livello, ed è tutta un'altra faccenda: in confronto è come giocare alle spie, se capisci cosa intendo. Come sono i tuoi spaghetti? - Buoni. - I miei mica tanto - dice, e ne butta giù un'altra forchettata. Si pulisce la bocca col tovagliolo (altro frego nero, stavolta una croce) e riparte: - No, la missione di tuo padre era radicale: la guerra. In previsione di una guerra tra i due blocchi in cui si stava dividendo l'Europa - e parlo di guerra vera e propria, Gianni, parlo di invasioni, di battaglie, di bombardamenti, mi spiego? - avere un uomo come tuo padre dentro lo stato maggiore di un esercito nemico sarebbe stato un vantaggio incalcolabile. Capisci? Scoppia una nuova guerra, lui si trova lì, alto ufficiale dei servizi militari sovietici nei panni di alto ufficiale dei servizi militari italiani, e a quel punto entra in azione. Questa era la sua missione, fin dal '45... Un'altra forchettata, un'altra pulita di bocca, un altro sorso di vino, e via. Un caratterista, ecco cos'è quest'uomo. Fa fuori il suo intruglio a grandi forchettate e contemporaneamente spara le sue bombe, al collo un tovagliolo che si trasforma in un quadro di Franz Kline, le smorfie sul viso sempre esatte e teatrali, la stazza cubica da vecchio luogotenente di Cosa Nostra, le grasse dita a cotechino che faticano a non stritolare il bicchiere: e tutto questo, ora mi è chiaro, lui lo caratterizza. Ci sono persone così, ne ho già conosciute, che recitano se stesse con l'impeto dei caratteristi, quasi sapessero di non avere una parte molto importante nella vita e si sentissero obbligate a caricare al massimo ogni loro apparizione, a costo di diventar pesanti, pur di lasciare il segno. Oppure è davvero un attore, e questa è una candid camera, il che spiegherebbe tutto. - ...crisi acutissime in Africa, a Cuba, in Sudamerica - sta dicendo - ma la guerra per la quale tuo padre è diventato tuo padre non è mai scoppiata, sebbene quasi nessuno sappia quanto poco c'è mancato, in realtà. Così il suo capolavoro non è praticamente servito a nulla; è rimasto al coperto per cinquant'anni e ha vissuto la strana vita che hai conosciuto tu - strana, dico, per un uomo come lui: andare a messa tutte le mattine, diventare amico di fascisti e reazionari, accoccolarsi nella vita borghese che fanno queste persone, e litigare con suo figlio per ragioni politiche... Finiamo gli spaghetti praticamente insieme. Io sono stato voracissimo, perché ero realmente affamato, e lui nel frattempo avrà anche pronunciato, non so, mille parole. Come diavolo ha fatto? - D'altronde, che altro poteva fare? - riattacca - Avrebbe potuto tradire, certo; e ne avrebbe avuti, di
segreti da svelare... Voglio dire che se avesse saltato il fosso ne avrebbe potuti ottenere, di vantaggi; ma, vedi, tuo padre era comunista sul serio, qualcosa che adesso lo dici e la gente si mette a ridere ma che invece per lui era una ragione di vita molto alta e solenne, perché il mondo era ingiusto, e per lui la strada per migliorarlo l'aveva tracciata Marx, punto e basta. Perciò non gli è mai passato per la testa di cambiare bandiera, di rassegnarsi al benessere conquistato nel mondo capitalistico e diventare veramente ciò che fingeva di essere. No, lui odiava la vita che faceva qui, Gianni, e il suo odio non è diminuito di un'unghia in cinquant'anni. Ma non aveva scelta, quella vita doveva continuare a farla. Era rimasto intrappolato nella sua missione. Si accende una sigaretta, il maledetto. - E nemmeno di tornarsene in Russia ha mai pensato, neppure quando è apparso chiaro che non ci sarebbe mai stata la guerra per la quale lui ogni mattina era pronto a entrare in azione - mentre andava a messa con Andreotti, come hai ricordato tu. Perché qualcosa di autentico, nel frattempo, qui lo aveva trovato: aveva voi, la sua famiglia, e vi amava profondamente. Nonostante l'amore e la fedeltà che manteneva per il suo paese non poteva abbandonarvi, né trasportarvi tutti là. A fare cosa, poi? A vedere le bandiere rosse bruciate davanti al Cremlino? Ad assistere alla disfatta di tutto ciò per cui aveva sacrificato la vita, al trionfo di un capitalismo ancora più sporco e indecente di quello che avrebbe lasciato qua? No, non aveva scelta. L'unica scelta che poteva fare era se dirti o no la verità, un giorno. Ed è stato lì, quando ha deciso di non dirti nulla, di lasciarti il padre che credevi di avere, che io non l'ho seguito più. Perché non è giusto, dico io... Ed ecco qua, ci siamo, ora reagisco. Finora sono stato capace di controllarmi, ma ora, di colpo, sento che non lo sono più. E' un fatto proprio fisico, credo, nervoso: le tempie mi pulsano, il sangue mi sta salendo violentemente verso il cervello, e io non posso più simulare alcuna quiete, perché in tutto questo c'è qualcosa di intollerabile, e l'intollerabile non si può tollerare. - Scusi! - grido, rivolto alla pattinatrice. Ma d'altra parte non posso nemmeno mettermi a discutere con quest'uomo, perché per quel che mi riguarda è uno schermo, un cd-rom, un test di resistenza, e io devo resistere: è l'unica cosa saggia che io possa fare, qualunque macchinazione ci sia dietro, anche se fosse davvero una stramaledetta candid camera. La ragazzina arriva piano, stavolta, frenando delicatamente in punta di pattino. - Può portarci via i piatti, per favore? - ringhio - E' mezz'ora che abbiamo finito. Saranno sì e no cinque minuti. Lei s'irrigidisce e mi fissa: devo sembrarle un vero stronzo, ma pazienza, non so che farci - anzi, mi sento già meglio. Mi fissa, bella anche nell'umiliazione, e forse una voce dentro di lei ruggisce dài, Roller Betty, ribellati, non farti trattare così! Reagisci, non accontentarti di sputargli nei gamberoni, tu non sei una cameriera! Rovescia il tavolo addosso a questa testa di cazzo e manda tutto in vacca, approfittane per liberarti in un sol colpo di un lavoro e di un padre che ti impediscono di essere in discoteca con le tue amiche, in questo momento, a prendere le pastigliette colorate e a ballare sui pattini come una forsennata, e a scegliere tu, mitica leonessa di Fregene, da quale coatto farti rimorchiare... Ma niente, evidentemente anche lei non può. Non può piantare tutto, non può spezzare le catene, non può far altro che, come le ho ordinato, toglierci i piatti dal tavolo senza fiatare, e scivolare via. Siamo tutti agìti, non c'è niente da fare. - Bene - non posso non dire - E' finita la sua storia? Interessante, ma purtroppo non ci credo. Lui scuote la testa, sorride. La mia incapacità di mantenere il silenzio - e dunque, il controllo sembra divertirlo. - No, Gianni. Non è finita. - Ah no? E cosa manca? Schiaccia la sigaretta nel portacenere. Male, perché la sigaretta non si spegne, e deve schiacciarla di nuovo, e ancora la sigaretta non si spegne, e io ho bisogno di fumare, merda, ma non posso fare neanche questo. Posso bere, però. - Mancano tutte le domande che ti ronzano in testa e che ora devi farmi. - Ma non aveva detto che le domande non erano gradite?
No, Gianni, no. Lascia stare il sarcasmo, lui nemmeno lo coglie, «non gli si confà»... - E mancano tutte le risposte che devo darti io - continua - perché per ogni domanda che mi farai avrò una risposta, per ogni obiezione avrò una spiegazione... Taci, Gianni. Taci. Non aprire bocca. - Senta, ho un'idea - dico - Perché non se le fa da solo, queste domande? Si faccia le domande e si risponda, tutto da solo. Sono certo che verrà meglio. Allora vattene, però. E' la battuta perfetta per piantarlo qui: basta aggiungere «arrivederci», poggiare il tovagliolo sul tavolo e andarsene. Basta farlo... Ma non lo faccio, e nel tempo che impiego a non farlo risulta spietatamente chiaro che non lo farò mai, perché a quanto pare questo è un nuovo limite che scopro di me stesso, e cioè: se un tizio si mette a dirmi assurdità su mio padre, e io decido di ignorarlo, e per un po' di tempo ci riesco ma a un certo punto però non ci riesco più, e allora parlo e dico le parole secche e insolenti con le quali dovrei piantarlo lì e andarmene per i fatti miei, be', io non lo pianto lì, io rimango inchiodato alla mia sedia a fare una ricca figura di merda. E' bene saperle, queste cose. E lui? Gongola, ci scommetto, dietro un'aria che si è fatta improvvisamente candida, poverino, e stupita - ma anche quest'aria, insisto, è recitata, è sorniona, sembra quella del tenente Colombo quando gli tocca parlare in pubblico. - Va bene, come vuoi - ridacchia. E certo che gli va bene: ora diventa addirittura un gioco... - Allora - dice - Prima domanda: come ha fatto tuo padre a trasformarsi in un italiano? Finge un po' d'imbarazzo, un'espressione tipo «ma guarda cosa mi tocca fare», ma è perfettamente a proprio agio, invece: pare non abbia fatto altro nella vita che rivolgersi domande da solo. - Tuo padre - si risponde - è diventato il capitano Maurizio Orzan nel 1945, subito dopo la fine della guerra. Fin dal gennaio del 1943, dopo la disfatta di Chertkovo, nei campi c'erano migliaia di italiani, e i servizi segreti sovietici si erano procurati informazioni molto dettagliate su tutti gli ufficiali italiani che erano stati fatti prigionieri. Questo Orzan risultò perfetto; era uno dei pochissimi superstiti di un reparto che era stato praticamente annientato, era orfano di madre, non era sposato, non aveva fratelli e soprattutto veniva da Pola, in Istria - che, come sai, dopo l'armistizio era finita in territorio jugoslavo: dunque non avrebbe potuto tornare a casa. Arriva Roller Betty con i gamberoni - già sgusciati, e dunque congelati - e lui s'interrompe, rimanendo però visibilmente padrone della situazione, come avesse soltanto spinto il tasto «pausa»: dev'essere una di quelle persone che non perdono mai il filo, le più temibili. La ragazza serve prima lui, poi me, poi sistema il vassoio delle verdure in un angolo del tavolo e se ne va. - Capisci? - riprende lui, e mangia un gamberone con le mani Orzan non aveva un posto dove tornare, dove ritrovare amici e parenti. Per tuo padre questo era fondamentale: era fondamentale, una volta rientrato in Italia al posto suo, che le possibilità di essere smascherato fossero ridotte al... - Scusi se la interrompo dico - Secondo lei ci ha sputato? - Come dici? L'ho spiazzato, finalmente. - Secondo lei la cameriera ha sputato nel mio piatto? - E perché? - Perché l'ho trattata male. Ha notato come mi guardava, prima, con che odio? E' rimasto con un gamberone a mezz'aria. - Se lo ricorda Tiberio Murgia - continuo - quello basso, coi baffetti, che faceva Ferribotte nei Soliti ignoti? Non era un attore, lui: era cameriere al «Re degli Amici», in via della Croce, e fu lì che Monicelli lo vide, e gli venne l'idea di fargli fare la parte nel film. Dopo il successo dei Soliti ignoti, Murgia lasciò il lavoro di cameriere e diventò attore sul serio, continuando a fare la parte del sicilianuzzo in tutte le commedie all'italiana, sebbene non fosse nemmeno siciliano, tra l'altro, ma sardo. Be', sa cosa disse a Monicelli per esprimergli la propria riconoscenza, visto che gli aveva cambiato la vita? Sa quale gemma di saggezza gli regalò? «Al ristorante,» gli disse, «mai ordinare le polpette e mai litigare col cameriere.» Questo, gli disse. Guardo il mio piatto, cinque gamberoni disposti a ruota, la foglia di lattuga di guarnizione e lo spicchio di limone.
- Secondo me ci ha sputato dico - Io non li mangio. Lui invece il suo lo mangia, eroicamente - ma d'altra parte ne ha già mangiato uno; e scrolla le spalle, e non si spreca a dibattere con me questo argomento - quanti sputi di cameriere avremo mangiato, nella nostra vita? -, che pure avrebbe una sua raccapricciante importanza; ma sono certo che ci sta pensando, anche se io non l'ho detto, sarebbe disumano se non ci pensasse: «la ragazza,» sta pensando, «potrebbe avere sputato anche nel mio piatto.» - Scusi, l'ho interrotta. Stava dicendo? - E ora è dura, amico mio. Lo vedo annuire, e buttare gli occhi in basso come Steve Mcqueen quando sopporta. Per risollevarli deve far leva sul suo sorriso pavloviano, come fosse un cric. Deve costargli un bello sforzo, ora, continuare con la sua storia; sembra un elefante che si alza... - Questo capitano Orzan - riattacca, a secco - era prigioniero in un campo siberiano, di quelli durissimi, dai quali non si ritornava. Un giorno in quel campo arriva da Mosca una delegazione dell'nkgb, con un ordine perentorio: prendere il prigioniero Orzan per trasferirlo in un altro campo. A capo di quella delegazione c'era tuo padre, che passò quattro giorni insieme a Orzan, viaggiando attraverso la Siberia. Non si può dire che tra loro si sia stabilita un'amicizia, ma si conobbero, parlarono, erano due esseri umani che entravano in contatto nel cuore di una tragedia indicibile; e quando tuo padre gli sparò in testa, una mattina, all'alba, mentre dormiva, dando inizio alla propria missione, fece una cosa che non gli ha mai più dato... - Un momento - lo interrompo - Sa qual è la scena di film che mi piace di più? In assoluto, intendo. Scuote il capo, sorride. Il suo sguardo è di un'intensità maniacale, ma anche il mio non deve scherzare, suppongo. - E' una scena della Ricotta - continuo - quando Pasolini fa leggere a Orson Welles una delle sue poesie di Mamma Roma. E' un momento in cui la troupe è in pausa, la tipica pausa-pranzo del cinema italiano, l'ora più svaccata, con l'aria friccichina, la campagna sbruciacchiata di Cinecittà sullo sfondo, e ci sono le comparse, vestite da angeli colle trombe, da guardie romane colle corazze, che si magnano le pagnottelle e ballano il twist. E Welles si mette a leggere la poesia al cameriere che gli ha portato il gingerino. Ecco, quella secondo me è la scena più bella del cinema italiano. Tra l'altro, ed è una cosa che sanno in pochi, Orson Welles legge in italiano, ma viene doppiato, e la voce che lo doppia lo sa di chi è? Di Giorgio Bassani. Sa chi è Giorgio Bassani? - Lo scrittore? - Esatto. Gliel'ho chiesto perché è un po' trascurato, e invece era un grande. Be', è lui che doppia Orson Welles. E sa un'altra cosa? Io la so a memoria, quella poesia. «Io sono una forza del passato,» giuro, la so tutta, «solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d'altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli...» La mia voce si alza, qualcuno si volta a guardarmi. «...Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l'Appio come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto, per privilegio d'anagrafe, dall'orlo estremo di qualche età sepolta...» Ora sono addirittura in piedi - incredibile - e la mia voce è ancora più alta. «...Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro, più moderno di ogni moderno, a cercare fratelli...» Faccio una pausa, come Orson Welles nel film. «...che non sono più.» Ora mi guardano tutti. Tutti i cinquantenni della tavolata, un altro paio di coppie sedute davanti a noi, perfino Roller Betty: nei loro occhi guardinghi, e nel silenzio disperato che è sceso di colpo su tutti noi, scorgo il successo della mia sortita. Li ho stesi tutti. - Dopodiché - mi risiedo, riabbasso la voce - Orson Welles chiude il libro, si toglie gli occhiali e dice al cameriere: «Ha capito qualcosa?» Ma guarda cosa sono stato capace di fare, penso. Chi se l'aspettava. - Mi dica se c'è una scena più bella di questa... - concludo. Ora dovrei avere vinto. Sono stupefatto dal mio comportamento - e non è tutto, perché c'è ancora una coppia che mi guarda e io sorrido, levo il bicchiere e bevo alla loro salute -, ma lui ora dovrebbe riconoscere che gli sono superiore, perché, se ho fatto questo, allora sono tante le cose che potrei
ancora fare, ho di fronte un repertorio sterminato di azioni provocatorie, che potrei essere capace di compiere una dopo l'altra, a oltranza, pur di fargli chiudere quella boccaccia: davanti a tutto ciò lui dovrebbe riconoscere che è finita e abbandonare - anche se so benissimo che non succede quasi mai così, che quasi mai le cose finiscono quando è finita. E infatti questa non finisce, perché lui ha la slealtà di continuare. - Io capisco quello che provi - dice - Non pensare che non lo capisca. Ma se ti ho detto anche questo è perché voglio che tu sappia chi era tuo padre. Non voglio nasconderti nulla. E tuo padre quell'uomo l'ha ammazzato. Ma anche se è stato l'unico uomo che tuo padre abbia ucciso in tutta la sua vita, e anche se era già praticamente morto, il ricordo di quell'atto non ha mai smesso di tormentarlo, perché uccidere una volta sola è molto peggio che farlo tante volte. Anche in ospedale, quando sono andato a trovarlo, e lui delirava, imbottito di morfina, gli ho sentito sussurrare: «Povero Orzan... Povero Orzan.» Ancora, dopo cinquant'anni... E' vero, diceva così, mio padre, nel delirio: «povero Orzan.» Ma si riferiva a se stesso: è così semplice. Solo che questo pensiero, questo pensiero, oh, è micidiale, perché significa che la sua faccia tosta continua a prevalere sulla mia, e che qualunque atteggiamento io assuma lui continuerà a spingermi verso quel punto di non-ritorno in cui tutto diventa definitivamente incerto, e io sono costretto a produrre prove per difendere qualcosa che non dovrebbe affatto esser difeso, o provato, o spiegato, perché non è un'ipotesi, maledizione, è semplicemente la realtà così come io l'ho vissuta per tutta la mia vita: e allora non ho vinto, ho perso. - E comunque mi arrendo - aggiunge - E' fin troppo chiaro che non hai intenzione di ascoltarmi, perciò... Fa un gesto perentorio all'indirizzo di Roller Betty perché ci porti il conto. - Posso capirlo, del resto - aggiunge. Sorride, si accende un'altra sigaretta, e abbassa di nuovo gli occhi, questa volta senza somigliare a nessuno. Sopravviene il silenzio. Dunque ho vinto io. Hah. Gli sarebbe bastato un altro discorso, un'altra frase appena, e io sarei crollato come un muro morto, perché le sue domande me le faccio eccome, e il mio cervello sta già irresistibilmente lavorando per sostituire la sedentaria, severa, democristiana immagine di mio padre con la figura romanzesca di un giovane ufficiale sovietico che nel cuore della steppa livida, a guerra finita, fa saltare le cervella di un povero istriano prigioniero per poi prendere il suo posto e provarne rimorso fino alla fine dei propri giorni. Solo un altro colpetto e avrei davvero cominciato a... Già, ma lui questo non lo sa. Non sapendo che io mi ero già arreso, si arrende. Chissà quante opere d'arte sono state aggiudicate così, alle aste. Mi guardo intorno, guardo tutte queste persone che, dopo l'intermezzo offerto dal mio spettacolino, sono tornate a occuparsi dei fatti propri. I cinquantenni della tavolata stanno andandosene in silenzio, senza più l'allegria che hanno ostentato durante la cena. Ma sarebbe assurdo pretendere che li abbia fiaccati Pasolini, che ignorano anche più beatamente di quanto lui, se fosse vivo, ignorerebbe loro, e la cui scandalosa presenza non erano nemmeno in grado di fiutare nella mia sortita, come invece i loro genitori avrebbero ancora potuto fare, trent'anni fa, ciecamente, per puro istinto, simili ai cani che sentono arrivare il terremoto. Sono stanchi, tutto qui, perché si è fatta una cert'ora, e se ne vanno a casa riponendo il buonumore nella custodia. Gli uomini sono brizzolati, abbronzati, asciutti, gente sportiva da circolo del tennis, i cui occhi dicono costantemente «tra poco mi faccio un bel viaggio»; e le loro donne sono tutte abbastanza belle, di quella bellezza gassosa, però, e uniformata dai ritocchi del chirurgo estetico, che le rende pressoché interscambiabili. Alla loro età mio padre e mia madre non erano così, e nemmeno gli amici che frequentavano: erano altri tempi, d'accordo, ma nei loro modi c'era proprio un che di austero, di invernale, con cui questa nuova borghesia non sembra avere nulla a che fare. D'altra parte, mio padre non avrebbe mai frequentato un ristorante come questo, così corroso dalle mode, così pieno di malessere. Siamo a cinquanta metri dal mare - perché la striscia nera di fronte a me è il mare - e nemmeno lo si percepisce. No, questo non è un posto adatto a mio padre, nemmeno per parlare di lui; non ha nulla a che vedere con quell'idea di solidità della vita borghese, di immutabilità, che lui
ha sempre preteso intorno a sé: legno, non plastica, libri, non riviste, Dio, non le Maldive. Invece qui tutto ha un'aria così provvisoria che fa direttamente pensare al prossimo cambio di gestione, quando l'uomo con la camicia a fiori sarà andato in rovina e questo posto verrà ristrutturato per l'ennesima volta, e durante i lavori, d'inverno, in un furoreggiare di scirocco, un giorno passerà di qui Roller Betty, non proprio per caso, ed entrerà, e si guarderà intorno come faccio io in questo momento, e i manovali smetteranno di smartellare e guarderanno lei, e il capocantiere le si farà incontro e le dirà «che ci fai tu, qua dentro?», e gli occhi di Roller Betty andranno in cerca delle striate lasciate dai suoi pattini sul pavimento ma non troveranno nemmeno il pavimento, perché anche quello sarà stato strappato via per cancellare ogni traccia di quel prima senza storia dal quale viene lei, e allora risponderà «Niente», e se ne andrà. Bogliasco intanto fuma in silenzio, tutto compunto, in una posa che, se non fosse per il suo aspetto, sarebbe quasi aristocratica: ma quando i nostri sguardi tornano a incrociarsi, nel suo ricomincia immediatamente a pulsare la stessa tammuriata di quando mi diceva che mio padre era un cosacco, una bottiglia nel mare, una spia, un assassino - la sua destrezza di caratterista. Non è finita, no. E non ha vinto nessuno, non c'era niente da vincere. - Senta - gli dico - perché è venuto a dirlo a me? Perché non a mia sorella? - Tua sorella è diversa - risponde - Lei sì che non deve saperlo. - Infatti. Lei avrebbe chiamato la polizia. - Naturale. - E mia madre? Perché a lei niente? Lei lo ha sposato, dopotutto. Arriva Roller Betty col conto. Lui non lo guarda nemmeno e le allunga una carta di credito. - Tua madre lo sa, Gianni. Gianni Costante, c'è scritto sulla carta di credito. 10 p Capitolo Primo «E' arrivato il momento, cari ragazzi, di rivelarvi un segreto che vi stupirà. Anche se lui non approverebbe (anzi, in realtà sto infrangendo un giuramento) ho deciso di dirvi la verità su Pizzano Pizza. Sì, è arrivato il momento e voi dovete sapere. Voi che avete seguito le sue avventure fin dal principio, ma anche voi che di Pizzano Pizza non avete mai sentito parlare e vi hanno regalato questo libro dicendovi che dovete leggere un po' invece di andare sempre a giocare ai videogames con Lorenzo (perché dove ci sono i videogames c'è sempre un Lorenzo, non si scappa, e se a voi non sembra, se a voi sembra che l'amico con cui giocate ai videogames si chiami Giulio o Valerio o Giacomo o Jacopo o Massimiliano, o se vi sembra di giocarci da soli, o addirittura di non giocarci mai, a maggior ragione è arrivato il momento che sappiate la verità su Pizzano Pizza, poiché capirete com'è facile ingannarsi, nella vita, a proposito di un sacco di cose). «Perciò, cari ragazzi, posate questo libro, andate in cucina a prepararvi uno spuntino (pane e maionese, vi consiglio, e mezzo bicchiere di latte), e poi mettetevi comodi a leggere sulla poltrona più morbida della vostra casa; oppure chiudetevi dentro alla vostra cameretta e stendetevi sul letto come un Imperatore romano, cioè su un fianco, continuando a sbocconcellare la vostra merenda, e pazienza se farete un po' di briciole: come ho appena detto, quello che state per sapere è la verità, e la verità deve essere affrontata a stomaco pieno e con il corpo in riposo. Fidatevi, fate come vi dico. Andate. Rifornitevi. Trovate il vostro angolino. Io vi aspetto, non scappo. La verità che devo raccontarvi, su Pizzano Pizza e sul suo segreto, non scappa. Intanto, mentre vi aspetto, vi farò il disegno di un'astronave. Così, perché so che mi viene bene, e anche perché più avanti, chissà, potrebbe tornarci utile. Un'astronave che parte. (disegno di un'astronave che parte) «Bene, ragazzi, ci siamo. Eppure, ora che ci siamo mi accorgo di quanto è difficile accostarsi a questa famosa verità, e mi viene voglia di parlarvi un po' in generale, prima, partendo da lontano, entrando in argomento piano piano. Mi viene voglia di ricordarvi quanto sia frequente, e anche normale, dopotutto, che la gente abbia dei segreti, e come il mondo sia pieno di bugie; non solo di bugie cattive, pronunciate per qualche losco scopo, ma anche di bugie innocue, innocenti,
necessarie, perfino di bugie buone. «Mi viene voglia di partire da Babbo Natale, per esempio. E' una bugia, ormai lo sapete: la verità è che Babbo Natale non esiste, non esistono le renne volanti, non esiste la slitta, non esiste la sua casa al Polo Nord e non esiste che un ciccione come lui riesca a passare dai camini. «Nulla di questo è mai stato vero: i regali li compravano i vostri genitori nei centri commerciali a fine novembre, quando non c'era la ressa, oppure (dipende dai genitori) nei negozi del centro due o tre giorni prima di Natale, quando c'era la ressa; sempre loro, lo sapete, nascondevano i regali in fondo allo sgabuzzino, mimetizzandoli tra lampade rotte e vecchi tappeti malandati, e la sera della vigilia vi mandavano a letto presto con la scusa che Babbo Natale è timido e ha paura d'esser visto; e quando erano sicurissimi che vi foste addormentati andavano a recuperarli in punta di piedi, i regali, confezionavano sul tavolo della cucina tutti i pacchi con la carta colorata, e li mettevano sotto l'albero. E la mattina dopo facevano tutta quella commedia, «avviciniamoci piano piano», «chissà se è venuto», «mmm, ho un brutto presentimento», e lungo il corridoio i più fanatici avevano disseminato carbone di zucchero per mettervi strizza. Ed è così da sempre, più o meno in tutto il mondo, perché Babbo Natale non esiste. Eppure non c'è bambino al quale questa bugia non venga raccontata, e non solo dai genitori, ma anche dalle maestre, dalla televisione, da tutti i parenti e perfino dallo zio scemo, quello che fa il pizzicorino che non si sopporta e quando la mamma non c'è si mette a fare i salti sul letto e sfonda la rete. «Che cos'è, allora, un complotto? «No, è solo un esempio di quelle bugie di cui vi parlavo, quelle buone e innocenti che fanno andare avanti il mondo. Forse il mondo andrebbe avanti anche senza, non dico di no, ma ormai queste bugie ci sono e sono tante, e se ci pensate un momento lo sapete benissimo perché ne dite parecchie anche voi. Così come sono sicuro che anche voi avete dei segreti. Be', quello di Pizzano Pizza è semplicemente un segreto un po' più clamoroso, sbalorditivo e formidabile dei vostri, protetto da bugie come quelle che proteggono Babbo Natale, un po' più complicate delle vostre. «Perché, vedete (ci sono arrivato, finalmente), la verità è che Pizzano Pizza non è un bambino come vi ho fatto credere. E' un marziano. E non si chiama Pizzano Pizza, bensì Qlxxzw'kvsfqz (su Marte non esistono le vocali). E non ha nove anni, bensì settantasei - e gli anni su Marte, si sa, sono molto più lunghi degli anni sulla terra, perché Marte si trova più lontano dal sole e impiega molto più tempo a girarci intorno, quindi si tratta proprio di una certa età. «Ma non è tutto, sentite questa: Pizzano Pizza non è nemmeno un marziano qualsiasi. E' un agente segreto marziano in missione sulla Terra. Una spia. «Ci siete rimasti di stucco, ci scommetto. E state anche sospettando che la bugia sia questa, lo so, e che a dirla sia io. Ma, ragionate: perché dovrei dirvi una bugia simile? Cosa ci guadagnerei? Mi riesce davvero difficile dirvi ciò che vi sto dicendo; molto più facile sarebbe continuare a raccontarvi le sue avventure come se niente fosse: perché mai dovrei complicarmi la vita così? E poi mi conoscete, almeno voi che avete letto qualche altro libro di Pizzano Pizza sapete chi sono, e la vostra fiducia spero di essermela guadagnata, ormai. Fossi uno sconosciuto dall'aspetto minaccioso, vi fossi piombato davanti all'improvviso, di notte, magari armato di pistola, spaventandovi a morte, per poi dirvi una cosa del genere, capirei: ma sono io, e anche se non mi avete mai visto abbiamo passato parecchio tempo insieme, ormai fra noi c'è una certa confidenza. Tra l'altro, se la cosa può aiutarvi a eliminare tutti i dubbi, un'idea del mio aspetto fisico posso anche darvela. Ecco qua un mio autoritratto: (autoritratto del Narratore con una guancia gonfia) «Sì, questo sono io (mentre mangio una castagna, ed ecco spiegato quel gonfiore sulla guancia). Vi sembro uno che si alza alla mattina e s'inventa che le persone sono marziani in missione segreta? «No, rassegnatevi: Pizzano Pizza è un marziano mandato sulla Terra in missione super-segreta, e per compiere questa missione si è trasformato in un bambino terrestre di nove anni. E' la pura verità. «Ora so che mille domande cominceranno a ronzare nella vostra mente, e credetemi se vi dico che considero mio preciso dovere rispondere a ognuna di esse. Solo, poiché questo è un racconto, dovrete darmi tempo, lasciarmi raccontare, e vedrete che una a una le vostre curiosità verranno soddisfatte. «Dunque. Partiamo dall'inizio. Anzi, riepiloghiamo, come si suol dire. Pizzano Pizza, il bambino
che viaggia nel tempo seduto sulla sua seggiolina, è questo: (disegno di Pizzano Pizza sulla sua seggiolina) «Invece Qlxxzw'kvsfqz, la spia marziana mandata sulla Terra in missione super-segreta, è questo: (disegno di un marziano) «Come vedete, tra i due non c'è nessuna somiglianza. Eppure sono lo stesso essere. E non è che tutte le avventure di cui avete letto nei libri precedenti non siano vere: è tutto accaduto esattamente come ve l'ho raccontato, solo che dentro al bambino di nove anni che le viveva c'era il marziano adulto che svolgeva la sua importantissima missione segreta. «Ma in cosa consisteva questa missione, vi starete chiedendo, così importante e così segreta che per ben tre libri vi è stata tenuta nascosta? «La risposta è: la missione segreta di Pizzano Pizza consisteva nel non far sapere a nessuno che era in missione segreta. «E ora, ci scommetto, vi chiederete: ma come mai adesso lo possiamo sapere e prima no? Cosa è cambiato? «E questa è una buona domanda, ragazzi, molto buona: talmente buona che è l'ideale per chiudere il primo capitolo. Non che non vi voglia rispondere, ma come ho già detto questo è un racconto, ed è buona norma, nei racconti, dare immediata risposta soltanto ad alcune domande. Altre, credetemi, è meglio lasciarle in sospeso per un po'. Perciò fidatevi, continuate a leggere, e al momento giusto saprete anche questo. Per adesso lasciatemi raccontare la vera storia di Pizzano Pizza dal suo vero inizio...» v 11 Prima bestemmia. Seconda bestemmia. Terza bestemmia. Pausa. Madonna. Dio. Madonna. Pausa. E via. Il sole sta affondando lentamente nel Gianicolo, e il muezzin del vituperio ha riattaccato la stessa litania di ieri, con la stessa disperazione di ieri. E' straordinario come ci si abitui in fretta alle cose: di nuovo sul lettino del terrazzo, di nuovo a bere gin tonic a stomaco vuoto, più o meno alla stessa ora, le bestemmie urlate da questo povero ragazzo mi sembrano già parte del paesaggio, non più misteriose dei barriti del traffico giù in strada, né delle urla delle rondini che volteggiano nel cielo. Mi ci vuole uno sforzo di volontà per ritrovarci le stesse incognite che mi hanno inquietato ieri sera: chi è che le lancia? Perché soffre? Perché non si sentono altre voci, oltre alla sua, né altri rumori? Sarà davvero legato al letto? Mi alzo e vado al parapetto a dare un'occhiata, attraverso la rete salva-bambini. Come ieri, più di ieri, un pubblico di capoccette affolla le finestre circostanti: persone anziane, per lo più, scandalizzate e forse anche impaurite da questa voce arcana che nel frattempo continua a imperversare: Madonna. Dio. Madonna - a squarciagola. Ammiccano e parlottano da davanzale a davanzale, con aria preoccupata, architettando chissà quali esorcismi condominiali (la vendetta della quiete pubblica sulla sofferenza); però hanno un'aria eccitata, e non hanno esitato a piantar lì i telequiz che guaiscono nelle loro case. Come ieri, batto in ritirata: questo è il momento in cui la gente dà il peggio di sé, meglio non vederla. Torno al lettino e mi distendo. Sto godendo di una strana serenità, inimmaginabile fino a ieri, e non voglio sciuparla. Eppure non ho fatto nulla di ciò che dovevo fare: la lista delle commissioni stilata con tanta cura è ancora lì, intatta, sotto il telefono, e la Vespa con cui avrei dovuto saltabeccare nel traffico per sbrigarle è rimasta tutto il giorno incatenata al cartello di senso unico ingolfata, se non ricordo male - sul marciapiedi davanti a casa. Semplicemente, non ne ho avuto il tempo. Dovevo lavorare, perché stamattina sono stato visitato da una grazia che non conoscevo da tempo, e la cui assenza mi stava sfiancando. Ora, so bene che la parola «ispirazione» può suonare ridicola in bocca a un semplice scrittore per ragazzi, ma davvero non saprei come definire altrimenti ciò che mi ha assalito al mio risveglio, stamattina. All'improvviso sapevo cosa scrivere: le bonacce dei mesi scorsi erano superate, e non vedevo l'ora di cominciare. La cosa mi ha sorpreso, naturalmente, poiché mi ero addormentato nel grembo di un farneticante punto interrogativo e tutto lasciava prevedere che oggi avrei passato la giornata a
liberarmi dal suo ingombro madornale. Invece stamattina mi sono svegliato e lo scroscio rovesciatomisi addosso ieri sera è immediatamente defluito nella sola direzione in cui, da problema, o disturbo, o turbamento, poteva trasformarsi in soluzione, e prima ancora di rendermene conto mi sono ritrovato al computer, risucchiato nel caro vecchio ottovolante delle parole che scivolano via da sole. Una sensazione di rara leggerezza mi ha accompagnato per tutta la giornata, mentre le pagine cominciavano ad accumularsi e io ritrovavo quella voglia di scrivere che avevo smarrito - scrivere senza fermarsi per rispondere al telefono, per mangiare o per pensare ai casi propri, senza preoccuparsi d'altro che di continuare a tirar su il grosso pesce che ha finalmente abboccato. Che poi tutto questo non riguardi un'opera di grande importanza letteraria ma soltanto un libro per ragazzi è, come si suol dire, affar mio, nel senso che è faccenda legata al mio destino: un destino, voglio dirlo chiaro e tondo, che accetto senza riserve. Kafka in preda all'ispirazione scriveva La metamorfosi, io scrivo Il Segreto di Pizzano Pizza: e con ciò? Non ho mai nemmeno sognato di essere grande, non ho ambizioni di gloria e d'immortalità: a me basta cavare dalla testa qualche idea decente che mi faccia battere le dita sulla mia maledetta tastiera in modo da poterci trarre onestamente di che vivere per la mia famiglia: niente di più ma, per Dio, neanche niente di meno. Le crisi creative le lascio volentieri ai geni. Certo, mi rendo conto che a raccontarlo suona di un cinismo raccapricciante: uno sconosciuto infrange un giuramento e ti rivela che il tuo appena defunto padre era una spia, costringendoti a vedere le cose, anche solo per un momento, nell'ottica pazzesca che fa di ogni singolo istante della tua vita passata nient'altro che una sua scrupolosa copertura; e tu, la mattina dopo, prima ancora di prenderti la briga di riepilogare le mille ragioni che rendono semplicemente ridicola questa storia, ti fiondi al computer e te la rivendi di sana pianta in un libro per ragazzi, la trasformi in scrittura d'intrattenimento - nonché in merce, visto che sei un professionista - risolvendo un tuo blocco creativo. Che mondo orrendo, non si salva nessuno. Ma farlo, davvero, non è stato così terribile; e comunque ormai l'ho fatto, e ne ho pure tratto sollievo - e se non è bello, io dico che nemmeno passare interi pomeriggi a giocare alla Peppa elettronica Microsoft è bello, o a riempire lo schermo di «Gianni Orzan Testa Dura Capitano di Ventura» ripetuto centinaia di volte in decine di caratteri diversi; e dico anche che, comunque sia andata, avere ricominciato a scrivere fa di me un uomo migliore, anche se di poco, anche se nessuno se ne accorgerà, e anche se, come è possibile, domani rileggerò le pagine scritte oggi e le troverò brutte e le cancellerò - perché questo è semplicemente il mio dovere: scrivere, cancellare, scrivere ancora, e diventare migliore lottando ogni giorno con la balena bianca della pagina bianca. No, non ho fatto nulla di male. Ho solo mantenuto fede a un mio impegno. Ho preso spunto da una cosa che mi è successa e ho cominciato a scrivere. Che male c'è? Qualunque scrittore lo fa, e il senso di colpa che ora tenta di mordermi è del tutto fuori luogo. Del resto c'era anche prima, quando non riuscivo a scrivere una riga, ed era peggio. E poi non è nemmeno vero che ho trascurato tutto, durante la giornata: due telefonate le ho prese, un po' di tempo agli altri l'ho dedicato. La prima telefonata era della madre del bambino in coma. Non l'ho riconosciuta subito, poiché con la segreteria telefonica si è qualificata semplicemente come «la madre di Matteo», e quando mi sono precipitato a sollevare la cornetta stava già congedandosi. Sono stato felice di trovarla ancora in linea, e credo che se non avessi fatto in tempo la mia giornata sarebbe stata molto diversa (quante variabili, davvero, influiscono sulla nostra vita), perché avrei cominciato un vorticoso giro di telefonate, agli organizzatori del premio, alla giornalista locale, al sindaco uscente e al sindaco entrante e all'ospedale di quella cittadina, nel tentativo di procurarmi il suo numero e richiamarla; ma non ce n'è stato bisogno, meglio così. Dopo avermi ancora ringraziato, la donna mi ha detto che domattina verrà a Roma, per consultare un certo luminare sull'opportunità di trasferire il bambino in un centro specializzato austriaco, e che le farebbe piacere incontrarmi, prima di ripartire. Come la sera della premiazione, ha parlato della sua tragedia con tono secco, privo di angoscia, pronunciando senza tradire emozione parole micidiali come «irreversibile» e «ultimo tentativo». Le ho detto che sarei stato molto contento di incontrarla e ci siamo dati appuntamento per le undici di
domani. Quando le ho chiesto in che zona le tornasse più comodo mi ha risposto che non faceva nessuna differenza - purché, ha aggiunto, fosse all'aperto. Così su due piedi mi è venuto in mente solo il caffè nel parco di fronte a Porta San Paolo, sotto casa mia, e abbiamo fissato lì: ma non perché torna comodo a me, sia ben chiaro. Dopo avere riagganciato mi ci è voluto un po' per ricominciare a lavorare: mi sono messo a pensare a quanto sia esemplare la battaglia che questa donna combatte contro la scienza medica, che considera inutile la sopravvivenza della sua «siepe di alloro», che definisce «accanimento terapeutico» il funzionamento della macchina che la mantiene in vita, e che aspetta con pazienza da avvoltoio il momento in cui anche questa madre, come capita a tutte le madri nella sua situazione esausta, scoraggiata e abbandonata da tutti -, si rassegnerà a considerare il proprio figlio per quello che è nella nostra miserabile società, cioè una mera carcassa da spolpare accuratamente di tutti gli organi riutilizzabili e seppellire con solenne cerimonia funebre celebrata dal vescovo. Ho pensato che io, al suo posto, mi comporterei esattamente come lei, e mi è tornato in mente un racconto di Raymond Carver in cui a un certo punto il narratore raccomanda alla moglie, casomai gli succedesse di entrare in coma, di non staccargli la spina, mai, per nessuna ragione. Sono andato a cercarlo tra i miei libri, l'ho trovato, me lo sono riletto e ho copiato sul taccuino il passo in questione (peraltro già accuratamente sottolineato), poiché ho improvvisamente deciso di regalare quel libro alla donna, domani, e se non avrò tempo per comprarne una copia nuova, o se non riuscirò a trovarla, le regalerò la mia. Il passo dice così: «No. Non staccarmi la spina. Non voglio che mi si stacchi la spina. Lasciami attaccato finché è possibile. Chi si opporrebbe? Tu ti opporresti? Darò forse fastidio a qualcuno? Finché la gente potrà sopportare di vedermi, finché proprio non si mettono a urlare appena mi vedono, non staccare un bel niente. Fammi andare avanti, va bene? Fino in fondo. Magari invita i miei amici a venire a dirmi addio, ma non fare niente di avventato.» La seconda telefonata era di Franceschino - cioè, dopo una raffica di fulminee tenerezze, di Anna. Sebbene, ovviamente, me l'aspettassi, mi ha ugualmente colto impreparato, e non sono riuscito a dirle nulla di ieri sera. Semplicemente, non avendo ancora speso neanche un minuto per cercare le parole adatte ad affrontare una storia così assurda, non le ho trovate, e sono stato reticente come un bambino, e l'ho rassicurata in quel modo scarno e generico che, di solito, non suona affatto rassicurante. Non le ho detto nemmeno del mio raptus creativo, ma sono stato sincero riguardo al non aver fatto nemmeno una delle cose che dovevo fare, incluso telefonare alla scuola di Franceschino per annunciare le sue assenze negli ultimi giorni dell'anno scolastico. E qui mi aspettavo che Anna protestasse, visto che su questo punto si era molto raccomandata, per via di un certo saggio di musica nel quale lui avrebbe dovuto fare una parte importante: avrei solo dovuto avvertire le maestre che non poteva parteciparvi, così che avessero il tempo di ridistribuire le parti. E' rappresentante dei genitori, Anna, e in questo genere di cose è molto scrupolosa; pensavo che avrebbe avuto da ridire, visto che in effetti una telefonata avrei anche potuto farla, e invece, con mia sorpresa, non ha detto nulla. E' stata laconica anche lei, addirittura frettolosa, e in fin dei conti si è trattato di una strana telefonata: ma ero troppo preso dalla mia omertà per farci caso. Solo mentre riagganciavo mi sono reso conto che lei era ancora alle prese con il misterioso energumeno armato che aveva mostrato di sapere tutto riguardo a nostro figlio: una minaccia ormai scomparsa dalla mia vita, ma non dalla sua, e, insieme alla tenerezza che si prova dinanzi a chi continua a vedere ciò che è stato cancellato dalla conoscenza - J.D. Salinger ne è stato un cantore -, ho avvertito anche il peso di una simile distanza tra noi due, e il dovere di colmarla dicendole tutto al più presto. Cosa che farò, stasera stessa, tra poco, appena avrò trovato le parole per farlo. Appena avrò ricominciato ad accollarmi tutte le responsabilità dalle quali, per tornare a essere uno scrittore, mi sono dispensato per un'intera giornata... Ed ecco che la Voce smette. Proprio come ieri, d'un tratto non bestemmia più, e come ieri sembra che al cielo caldo di giugno, al tramonto che sta sopraggiungendo, sia venuto a mancare qualcosa. Per un lungo momento sembra che tutto si sospenda in attesa di scoprire se si tratta solo di una pausa più lunga o se, semplicemente, per oggi è tutto e l'appuntamento è per domani alla stessa ora. Ed è ovvio che è così, perché in questi due giorni la Voce è stata chiara: non esistono pause più
lunghe o più corte; o quella pausa o niente. Ma deve passare qualche minuto perché la Terra, quaggiù, se ne faccia una ragione e riprenda a girare normalmente rispolverando la propria arida capacità di fare a meno di tutto. E questa sospensione io, sospeso per oggi da tutti i miei doveri tranne uno, da tutte le mie responsabilità tranne una, la percepisco come un dono, poiché mi alleggerisce ulteriormente, finisce di svuotare il mio sguardo e lo lascia vagare libero e puro per un eliogabalico giro d'orizzonte. I tetti. Gli alberi. L'antenna bianca e rossa in cima a Monte Mario. Tre quarti di Cupola di San Pietro. La Piramide. Il gazometro, che Franceschino chissà perché chiama «Colosseo Postale». Un gabbiano che plana, silenzioso, padrone assoluto del proprio volo, e si dirige verso di me, sì, sempre più inequivocabilmente, fino a posarsi proprio qui davanti incredibile - sul mio davanzale. Si mette a guardarmi, impettito, col suo cipiglio da rapace e il becco adunco, muovendo la testa da una parte all'altra per inquadrarmi ora con l'occhio destro ora col sinistro, come se tra i due sguardi ci fosse differenza - e infatti probabilmente c'è. Mi guarda con una forza tale che per un lungo attimo dorato io non sono nient'altro che la cosa vaga e irrilevante guardata da lui, e provo una pace assoluta, perfetta, che vorrei riuscire a ricordare per sempre; poi se ne va, di scatto, lasciandosi cadere nel vuoto e sparendo dietro la linea del davanzale, per poi riaffiorarne già lontano, già immemore di me, diretto altrove. Con un lungo ultimo sorso finisco il gin tonic e mi rimetto giù. Il sole tramonta, la giornata è finita. Devo riflettere sul da farsi. Devo telefonare ad Anna. Devo mangiare perché ho fame. Improvvisamente ritorna la coscienza, ricomincia il flusso di pensieri, stimoli, obblighi e ricordi che sono miei e soltanto miei. Torna a pulsare in tutte le cose quel Principium Individuationis che mi inchioda di nuovo a me stesso e ripete ossessivamente - ma senza mai spiegare perché - che io sono io e non sono ciò che ha visto quel gabbiano, e soprattutto non sono quel gabbiano; che questa è la mia terrazza e non un punto grigio nell'azzurro dove posarsi a prender fiato; e che quello che suona è il mio campanello di casa, ecco fatto, fine dell'abbandono, è proprio il mio campanello, e suona, e chiunque sia a suonarlo cerca me, quel me che oggi per un intero giorno sono riuscito a non essere del tutto, e poco fa, per un fantastico momento, a non essere per nulla, e che invece inesorabilmente sono e so di essere. E anche la persona che suona il campanello temo di sapere chi sia. 12 C'è uno spioncino, nella porta. Non lo usiamo mai ma c'è. Deformato nella bolla del fish-eye che inquadra tutto il pianerottolo, Gianni Bogliasco/Fusco/Costante aspetta, piantato in terra come un idrante, con in mano un sacchetto di plastica gonfio e irto di spigoli. Non credo sospetti di essere visto, eppure sorride come al solito. Dev'essere davvero una specie di riflesso condizionato. Che faccio, apro o non apro? Apro. - Ho portato da mangiare - esordisce, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Io non gli dico di entrare, ma nemmeno glielo impedisco, e lui entra. Si guarda un po' intorno, annuendo col capo. - Carino, qua. Poi, siccome è il padrone del mondo, e può fare sempre tutto quello che gli pare, si mette a ispezionare la casa. Entra nella camera del bambino; esce; entra nel mio studio; ci resta un po' di più; esce di nuovo; sparisce in camera da letto; rieccolo. Il tutto sempre annuendo e sorridendo. Io sono rimasto fermo, non ho nemmeno chiuso la porta. - Bravi - sentenzia - Semplice ma accogliente. Si vede che avete gusto. Poi agita il sacchetto strapieno, che ciondola piano: deve pesare parecchio. - Dove ci mettiamo? - chiede - La roba è calda. - Faccia come se fosse a casa sua.
- Grazie. Come è già accaduto ieri, più volte, non coglie minimamente il mio sarcasmo. E' inattaccabile. (O sono io che non so fare sarcasmo?) Forse, per un secondo o due, aspetta che io gli faccia strada, ma anche se così fosse non mi lascia nemmeno il tempo di deciderlo, e infila la porta del soggiorno, scomparendo di nuovo. E ora si saprà se è davvero la prima volta che mette piede qua dentro, per inciso, o se la sua perlustrazione è stata una commedia - tutto può essere, con lui. Perché se è la prima volta che vede casa mia, io so cosa sta per succedere: succede sempre, quando qualcuno entra per la prima volta nel mio soggiorno... - Ehilà, ma che terrazza! - lo sento gridare. Successe anche a me e ad Anna, quando il tizio dell'agenzia ci portò a vedere l'appartamento. Il fatto è che la casa è modesta, lo stabile è malconcio, e la terrazza è sul retro, invisibile dalla strada e assolutamente inimmaginabile fino al momento in cui si entra nel soggiorno e ce la si ritrova davanti, ampia, luminosa e spalancata su Roma. E' una vera sorpresa, sì. - Fantastica - lo sento dire, più piano - E chi se l'aspettava. Lo raggiungo. E' al davanzale, aggrappato alla rete, rapito dal tramonto. - Fantastico - ripete - si vede anche San Pietro - poi si volta di scatto - Oh, guarda che non ce ne sono mica tante, a Roma, di terrazze con tutta questa vista. E' tua, la casa? - No. Siamo in affitto. - Ah. E ti costa tanto? - Insomma... - Quanto? Non so come sia l'occhiata che gli lancio, sta di fatto che subito si sente in dovere di aggiungere: Se non sono indiscreto... Che, mi rendo conto, non è «come non detto, non sono fatti miei», ma è sempre meglio di niente. - Un milione e quattro - rispondo. - E ti lamenti! - Non mi lamento affatto. - Tientelo stretto, dài retta a me, un padrone di casa che ti fa pagare un milione e quattrocentomila lire al mese per una casa con una terrazza così! Cos'è, un tuo amico? - No. - Ah no? E chi è? Cerco di guardarlo di nuovo come un momento fa, ma stavolta non funziona, e lui non aggiunge nulla. - E' uno - rispondo - L'ho trovato con l'agenzia. - Allora sei un ragazzo fortunato, lasciatelo dire - scuote il capo - Un milione e quattro... Ragazzo. Io non sono un ragazzo. - Dài, mangiamo, che si fredda. Cava dal sacchetto una quantità di cartocci e li sistema sul tavolo - involti bisunti e vaschette di carta d'alluminio, più due lattine di birra e due bicchieri di plastica che subito cominciano a vacillare al ponentino, e se non si fa qualcosa tra un momento voleranno via. Poi si mette a scartare gli involti, uno a uno, rivelando supplì, mozzarelle in carrozza, olive ascolane, arancini di riso, crocchette di patate e altra roba fritta. Ce n'è per sfamare una scolaresca. - Qua alla Piramide c'è una delle migliori rosticcerie di Roma: lo sapevi? - Cos'è, Di Pietro? - Esatto. Ci vai mai? - Ci prendo il pollo arrosto quando sono solo. Acchiappo al volo uno dei bicchieri che sta per decollare, e lo riempio di birra. Poi riempio anche l'altro, e attacco le patate al forno che troneggiano in un vassoio. Ho fame. - In effetti - precisa - da quando l'hanno tutta ripulita è un po' scaduta: ora sembra una qualsiasi pizzeria, rispettabile, perfino accogliente, mentre la vera rosticceria dev'essere laida, piccola e puzzolente: proprio com'era Di Pietro prima. Ma, nonostante l'imborghesimento, per certe cose
rimane formidabile. Prova uno di questi... Mi porge una specie di soletta dall'aria minacciosamente oleosa: è l'ultima cosa che avrei scelto di mia volontà, ma so bene che la mia volontà, con lui in azione, è un dettaglio senza importanza. Aspetta che io prenda in mano la soletta, e che le dia un morso, e, mentre comincio a masticare, mi illumina: - Tramezzino al forno: lo conoscevi? Faccio cenno di no col capo, mentre cerco di non scottarmi la lingua con l'interno bollente. - Una vera forza, non trovi? In effetti il sapore è buono. Dentro una crosta di pizza fritta c'è del formaggio, e del prosciutto cotto, mi pare. Quello che mette i brividi, semmai, è la spremuta di olio che si sprigiona in bocca mentre si mastica... - Un po' unto... - dico. - E te credo - ribatte, in un romanesco improponibile, con le «e» aperte, come quello di Celentano in Rugantino. - E' per questo che è buono - prosegue, addentandone uno anche lui. Poi, masticando, continua a parlare: - Vedi, non so te, ma io sono un cultore delle rosticcerie. Ci ho anche scritto sopra un libro: Under 10, si intitola: una guida delle rosticcerie d'Italia, dove si mangia - si mangiava, ora i prezzi sono aumentati - con meno di 10 mila lire. Magari la prossima volta te lo porto... Alé. Anche scrittore. - Il fatto è - continua - che io ho sempre mangiato nelle rosticcerie. Le ho viste nascere, morire, trasformarsi, a Roma, a Genova, a Livorno, a Napoli, a Milano dove ormai sono diventate roba da ricchi ma fino a vent'anni fa, credimi, ce n'erano di formidabili. Ho collaudato almeno tre generazioni di rosticcieri italiani, amico mio... Si impadronisce di un supplì, e, più che mangiarlo lo succhia, come Gassman col crème caramel. Io continuo a pescare dal vassoio delle patate - untissime, rosolatissime, impregnate di aglio e rosmarino, e, perciò, effettivamente, mortalmente buone. - E sai che ti dico? Quando sto all'estero sono la cosa che più mi manca dell'Italia. Non l'arte, non il clima o i ristoranti italiani, che ormai sono dappertutto: le rosticcerie. Quelle non le trovi da nessun'altra parte. Sarà che non ho mai avuto la cucina della mamma, nemmeno da piccolo, ma quando entro in una vera rosticceria, di quelle rimaste uguali a quarant'anni fa, con le luci fioche e l'odore del fritto che ti entra nei vestiti, mi sento a casa. E' pura poesia, per me: quegli omaccioni col grembiule sporco e le mani sempre unte, quelle donne stinte che hanno passato la vita alla cassa, quei modi spicci con cui ti fanno il resto, fingendo di conoscerti benissimo anche se ti vedono per la prima volta... Si scola il bicchiere di birra, pesca anche lui una patata dal vassoio, poi un'altra. E un'altra. - Le pasticche - dico. - Come dici? - Si sta dimenticando di prendere le pasticche. S'irrigidisce. - Ah, già - fa, e si fruga in tasca scuotendo il capo. Trova la boccetta e ripete l'operazione di ieri sera, ingollando le due pillole senza berci dietro, aiutandosi solo con uno scatto della testa. - Però - dice, guardandomi - Hai un bello spirito d'osservazione... Deglutisce una seconda volta - gli devono essere rimaste a metà - e si rituffa con foga sul vassoio delle patate, come volesse spazzolarle prima che io possa prenderne un'altra. - E poi i sapori... riattacca - Questi sono i sapori perfetti, secondo me. Prova l'arancino... Dà un morso a un arancino di riso, e io faccio altrettanto: è buono, sì. In due bocconi lo finisce, poi svuota il bicchiere di birra e si impegna in una laboriosa presa a due mani della mozzarella in carrozza, che cola copiosamente olio e, dopo il primo morso, anche un bianco fluido mozzarellesco - il che lo obbliga a ingobbirsi col riflesso tipico dei mangiatori di hamburger, arretrando con tutta la sedia e protendendo il capo per convogliare lo scolo di tutti quei liquidi in una vaschetta vuota che c'è sul tavolo. - Dice: sono pesanti - ricomincia, con la bocca troppo piena e la voce improvvisamente gutturale -
Certo, non ci trovi le fisime che vanno di moda ora, americane pure queste: la cucina senza grassi, il cholesterol free... Deve zittirsi per inghiottire, altrimenti affoga. La sua pronuncia inglese, comunque, è perfetta. - Ma è una guerra, là dentro - riattacca, e la sua voce è tornata normale -, e il rosticciere è un soldato in trincea, che combatte tutto il giorno per dare piacere a chi può permettersi solo di togliersi la fame... Finisce la mozzarella e attacca una crocchetta di patate. Come ieri sera, è velocissimo, nonostante parli e mangi simultaneamente. Dev'esserci una tecnica precisa. - Perché coi tartufi è facile fare la cucina saporita, e coi funghi e con l'aceto balsamico da due milioni al litro, son buoni tutti: ma prova un po' a farla col riso, col pane, colle patate, con l'olio di semi da due lire. E' proprio come fare la guerra col fucile e la baionetta, è eroismo. La differenza è tutta qui... Fa fuori l'ultima patata, che galleggiava nel fondo d'olio marroncino. L'avrei mangiata volentieri io. - Mmnn - mugola - ma lo senti? Qui siamo ai confini estremi del gusto. Un po' più in là ed è rancio, sbobba, e l'arte del rosticciere sta proprio nella capacità di avvicinare il più possibile quel confine senza superarlo mai. Capisci la difficoltà, la grandezza? Caricarti di calorie per pochi soldi, sfamarti, ma anche darti il massimo piacere possibile, e tutto senza avvelenarti. Invece nei ristoranti queste cose te le danno come antipasto, così, per sfizio, e s'intendono di trasformarle in roba raffinata: te le friggono lì per lì, massacrate di diminutivi, «due crocchettine», «due olivette», «una mozzarellina»... Poi ti rifilano le cozze avariate e ti becchi l'epatite. E' strano, ma sono d'accordo con lui. Forse gli farebbe piacere saperlo, ma non voglio fare lo stesso errore di ieri sera, non voglio dire niente. Continuo a credere che prima o poi, dinanzi a un silenzio ostinato e impenetrabile, anche il più logorroico degli interlocutori finisce per sentirsi a disagio. Ed è esattamente ciò che vorrei io: far sentire a disagio lui, una volta tanto. Però sulle rosticcerie ha ragione, sono dei gran posti. Frattanto la roba è quasi finita, e anche la fame. Io ho già smesso di mangiare, lui spelluzzica ancora le olive ascolane, ma si capisce dallo sguardo che è sazio, e che lo fa più che altro per senso del dovere: infatti un'altra cosa sulla quale credo che ci troveremmo d'accordo è che gli avanzi del cibo di rosticceria diventano subito intollerabili. Quindi o si finisce tutto o si sbaracca in fretta. E quando vedo che anche lui smette di mangiare, e finisce con un lungo sorso la sua birra, e si accende - ahi una sigaretta, mi alzo e comincio a radunare la roba. - Ti aiuto? - chiede, senza nemmeno fare il cenno di muoversi. - Non importa. Ora viene la parte disgustosa, che va sbrigata in fretta. Gli avanzi che colano gli uni sugli altri, le vaschette vuote sovrapposte malamente, la carta appallottolata: raccolgo tutto questo untume e lo porto in cucina, in apnea, gettandolo immediatamente nel sacchetto dell'immondizia. Poi mi lavo le mani, che nell'operazione si sono unte a morte, e prima di tornare in terrazza prendo due birre dal frigorifero, perché ho ancora sete, e probabilmente ne avrà anche lui. Lo trovo di nuovo in piedi, vicino alla rete: gli metto in mano una delle due lattine, lui mi fa un cenno come per dire «buona idea», la stappa e poi beve un lungo sorso, con la sigaretta accesa tra le dita. Il suo interesse sembra concentrato sulle rondini, ora, che volteggiano furiosamente davanti a noi. Ha la giacca aperta, e la panza gli straripa dai pantaloni sotto la camicia bulgara a mezze maniche - la stessa di ieri, stavolta, sporca e spiegazzata. Nessuna traccia della pistola, nessun rigonfiamento nelle tasche: che mi abbia usato il riguardo di venire disarmato? - Le chiamano rondini ma sbagliano - fa - Le rondini sono più grosse, e stanno in campagna. Questi sono balestrini... Resta un altro po' a scrutare le rondini (io questi balestrini non li ho mai sentiti nominare), poi si siede e mi si trascina accanto. - Non è che sei proprio un oratore, stasera, eh? - dice. Mi stendo sul lettino, metto le mani dietro la nuca.
- Già. Ho una gran voglia di fumare, maledizione. Lui si fruga nella bocca con la lingua, e fa quei rumoretti che scandalizzano tanto Anna, per togliersi la roba fra i denti. Poi si lascia andare sulla sedia, e sospira. - Ma guarda che bellezza... In effetti è un momento di grande bellezza: il cielo è di un illogico color blu metallizzato, e il vento lo tiene lucido come smalto. Fa caldo, e i gelsomini fioriti nel mio terrazzo profumano in modo quasi insopportabile. Le luci di Roma brillano dappertutto, i monumenti addirittura sfavillano. Tutto sembra dire che c'è un modo giusto per sprofondare nella notte di una metropoli decadente e piena di storia, ed è questo. - Senta - dico d'un tratto - Perché è venuto qua? E ci risiamo, perché ho parlato? Il silenzio funzionava, lo stava soffrendo. Perché ho parlato? Lui scrolla le spalle. - Perché avevo voglia di fare due chiacchiere con te. - E se non c'ero? E se avevo gente? - Tornavo via. Sposta lo sguardo verso l'alto, a seguire un aereo che traccia la sua rotta lampeggiante proprio sopra di noi. - Senta, io non credo alla sua storia - dico. Torna a guardare me, e fa un'aria sorpresa. - Quale storia? - Quella su mio padre. Non ci credo. - Cosa c'entra questo, adesso? - C'entra che è la ragione per cui lei è venuto qua. - No. Volevo solo fare due chiacchiere. - Due chiacchiere, sì... - Due chiacchiere, sì. Perché, è tanto strano? - E su cosa dovremmo farle, queste due chiacchiere? - Ci sono tante cose di cui si può parlare... - Ah sì? Per esempio? - Mah, non so. Tante cose... Si può parlare di cinema... Fa un rutto, lungo e silenzioso, e mi arriva al naso una zaffata gravida di birra. - Tante cose... - ripete, e si rimette a guardare il cielo. Cosa devo fare? Io desidero liberarmi di quest'uomo: cosa devo fare? Ieri sera mi sono lasciato coinvolgere, ho combattuto, ho cercato di mostrargli quanto sia oggettivamente ridicolo quello di cui mi vorrebbe convincere, ma non ha funzionato, e lui ha ottenuto ciò che voleva: voleva raccontare la sua storia, e l'ha raccontata. Stasera l'ha presa più larga, e io sono riuscito a resistere, l'ho quasi umiliato col mio silenzio, ma intanto lui è qui, imperterrito, a godersi il fresco sul mio terrazzo e a fare rutti aspettando il momento buono per ricominciare. Sta sicuramente meglio di me, anche così. Ma ci deve pur essere un modo per liberarsi di lui, riuscirò pure a trovare le parole per spiegargli che il suo sforzo è vano, e che può darmi tormento tutta la vita ma non mi convincerà mai che mio padre era una spia russa, perché mio padre non era una spia russa. - Senta - attacco, ma già non ci siamo, perché attacco sempre con «senta», è una specie di intercalare che infesta la mia lingua, lo so, e nonostante lo sappia mi scappa sempre di bocca, il che significa che non controllo del tutto le mie parole, nemmeno adesso che mi è venuta in mente una cosa risolutiva da dire. - Mi ascolti - continuo - Stia bene attento a quello che ho da dirle... Taccio un istante, per vedere se ha intenzione di lasciarmi parlare o no. Tace anche lui. Mi guarda e non dice nulla, segno che nella sua concezione delle conversazioni come partite di biliardo all'americana, in cui uno gioca da solo finché non sbaglia e a quel punto si fa da parte e comincia a giocare l'altro, riconosce che è arrivato il mio turno. Coraggio...
13 - Io non credo alla sua storia - dico, ma naturalmente non è questa la cosa risolutiva che mi era venuta in mente: solo che, in un lampo, così com'era venuta se n'è andata. Aveva a che fare, ricordo, con una certa forza che a volte ci si sente addosso e che ci autorizza a lasciar capitare le cose senza opporre resistenza, facendo sembrare che ne siamo travolti anche se invece non è così, si è semplicemente curiosi di vederle capitare; il che sarebbe equivalso a spiegargli ma parlando in generale, che è sempre meglio - perché io lo abbia fatto entrare in casa mia e gli abbia dato tutto questo spago e lui adesso si trovi qui a spadroneggiare sul mio terrazzo; e per un attimo tutto ciò aveva preso nella mia testa una forma splendidamente convincente, ma evidentemente effimera, ahimè, e prima che riuscissi a fissarlo con un discorso è svanito: poi, lo so già, tra chissà quanto tempo mi tornerà in mente, e non servirà più. Anche lui, del resto, è rimasto deluso dalla mia pochezza, quasi sconcertato: continua a fissarmi in silenzio, ed è come se non riuscisse a credere che sia tutto qui, è come se sospettasse qualche trappola. Ricordo questa stessa espressione negli occhi di certi avversari - nel periodo in cui ero candidato maestro e tutti si aspettavano grandi cose da me -, al culmine di partite giocate malissimo, sciatte e rinunciatarie, quando finalmente mi decidevo a tentare una combinazione: li illudevo di poterli mettere in difficoltà, e invece due mosse dopo mi ritiravo. Erano quasi più delusi loro di me... - Quindi la ringrazio per la cena - annaspo - anzi per le cene, quella di ieri e quella di stasera, però adesso se vorrà continuare a parlare con me dovrà puntarmi contro la sua pistola, perché io, di mia volontà, non ho intenzione di... Suona il telefono. - Anna! - dico. Guardo l'orologio: le nove e mezza, e non l'ho ancora chiamata. Mi alzo di scatto e corro a rispondere prima che parta la segreteria, lasciandolo lì come un salame - il che alla fine è più risolutivo di qualsiasi cosa detta. - Pronto? - Papà? Franceschino. Che bello sentire la sua voce, ora. Che sollievo pensare che lui c'è davvero, non è una questione di crederci o non crederci. Che bello sentirlo partire sparato come al solito («Cosa fai?», «Cosa fa Pizzano Pizza?» «Quando vieni?») e poi, di colpo, ma sempre come al solito, bloccarsi e farsi reticente, cominciare a rispondere a malapena «sì» o «no» alle mie domande («Nuoti, pesciolino?» «Sei andato in pineta?»), come se avesse improvvisamente perso ogni interesse per me, o come l'avessi disturbato durante un fantastico gioco che continua senza di lui; mentre invece succede così a tutti i bambini, è noto, è una questione di esaurimento di attenzione per ciò che, come il telefono, per l'appunto, e la tecnologia in genere, appartiene al mondo degli adulti, e, proprio per questo, tanto li attira sulle prime quanto li annoia immediatamente dopo, con tutta la sua pazzia di fragilità e di monotonia e di regole da rispettare - ed è solo per questo, sia ben chiaro, non perché non abbia voglia di parlare con suo padre, che Franceschino mi scarica precipitosamente, passandomi Anna. E' il mezzo, maledizione, che non gli si confà... - Gianni? - la voce di Anna è incerta, come se si fosse svegliata da poco. - Ciao. Tutto bene? - Scusa, sai. Franceschino ti ha chiamato di sua iniziativa - sono le sue strane parole. - Be', che male c'è? - No, magari avevi da fare... E' fredda, Anna, distante. - Che hai? - dico - Sei arrabbiata? - No... - C'è qualche problema? - No, no... - ripete. Ma c'è, il problema, e per forza che c'è: lei ci crede ancora tutti in pericolo... - Ascolta - le dico - Stavo per chiamarti, perché è tutto risolto: non ci minaccia nessuno, sai, l'altra
sera è stato solo un equivoco, quell'uomo non era affatto un estraneo. - Ah - fa lei - E chi era? - Era... un vecchio intendente di mio padre - sparo - uno che credeva che l'avessi riconosciuto. Una brava persona, mi ha riportato la borsa e abbiamo chiarito tutto. E' stato un colossale equivoco, davvero. Non dobbiamo preoccuparci di nulla: nessuno vuol farci del male, è tutto come prima. - Meno male - dice lei, e fa una strana pausa. Strana perché a questo punto dovrebbe ridere, prendermi in giro, oppure, se non fosse ancora soddisfatta - e ne avrebbe tutto il diritto -, chiedermi altre spiegazioni, tempestarmi di domande. Invece sta zitta. - Mi pareva strano... - conclude, ma dopo un bel po'; e il tono della sua voce è ancora freddo e imbarazzato, come se il problema non fosse questo. Ma se è così allora non va affatto bene, perché il problema era questo; che altro? - Probabilmente sono stato un po' paranoico - dico - ma ti assicuro che lì per lì non era facile capire, con quella pistola che aveva alla cinta e soprattutto senza che mi avesse detto chi era. Tanto è vero che se n'è reso conto anche lui e mi ha... Ed ecco che le cose si complicano, perché Bogliasco entra nel soggiorno col suo sacchetto in mano, lo stesso da cui ha cavato le fritture, e che non è ancora del tutto vuoto, poiché ne estrae una videocassetta, e me la mostra. Poi mi fa un cenno come per dire di continuare la telefonata senza badargli, ma si dirige minacciosamente verso il videoregistratore, e anche questo non va bene. - ...chiesto scusa... - continuo, facendo cenno all'uomo di fermarsi, di non toccare niente, ma per tutta risposta ricevo in cambio un altro di quei suoi cenni rassicuranti che non rassicurano proprio per niente. - Be' - dice Anna - quello che conta è che vi siate chiariti... - E' qui con me, ora... - bisbiglio, goffamente, per non farmi sentire da lui, che sta ruzzando attorno al televisore, con la cassetta in mano. - Ah... Ma che succede? Non è possibile rimanere così distaccati davanti a una liberazione, giacché per lei le mie parole dovrebbero essere questo, la liberazione dall'angoscia di essere minacciati senza sapere il perché. - Anna - dico - cosa c'è? - Niente. Nel frattempo l'uomo ha acceso il televisore, ha tolto l'audio e si è messo ad armeggiare col telecomando del videoregistratore. Ha inforcato dei sorprendenti occhialetti da lettura - sorprendenti addosso a lui - eleganti, piccoli, con una leggerissima montatura di metallo che scintilla alla luce. Ne aveva un paio così anche mio padre. - Senti - dico - domani vengo a Viareggio e ti spiego tutto, ma l'importante era che tu lo sapessi. Anzi, ti richiamo più tardi, se vuoi... Va bene? - No, non importa. - Sei sicura? Preferisci che parliamo subito? Nonostante i miei bisbigli lui sente benissimo, e alza le braccia come per autorizzarmi, per parte sua, ci mancherebbe altro, a mandarlo via quando voglio per parlare con mia moglie. Però intanto non va via, e infila la cassetta nel videoregistratore. - No, no - dice Anna - Ci sentiamo domani... - Allora stai tranquilla, per piacere... - Sì. Buonanotte. Butto giù e ora, se fossi solo, resterei chissà quanto tempo a riflettere, immobile, e a preoccuparmi, perché Anna è stata davvero strana. Però non sono solo, ho quest'uomo tra i piedi, che pretende il mio tempo, ancora, la mia attenzione... Un boato. L'uomo ha, non so come, sparato al massimo il volume del televisore, trasformando in una bomba assordante la canzonetta che stanno trasmettendo. Io scatto in piedi per intervenire, ma lui trova subito il tasto per riabbassare. - Scusa - fa - ho involontariamente... - Ma che sta combinando, si può sapere?
- Niente - dice - E' tutto a posto. Volevo solo farti vedere una cosa. Siamo già al punto, è un attimo... Non mi lascia nemmeno dire «d'accordo» (comunque non avrei detto «d'accordo»), e preme «play» sul telecomando del videoregistratore. Si sente il solito faticoso azionarsi di leve e meccanismi, e parte quel tempo tecnico di avviamento che la riproduzione tramite nastro magnetico non è mai riuscita a eliminare: due micidiali secondi che a pensarci bene sono davvero insopportabili, perché ci ricordano il fallimento dell'utopia del progresso assoluto, quello spietato palesarsi dei limiti della tecnologia per cui oggi un volo diretto da Roma a New York dura le stesse identiche otto ore di vent'anni fa, e il più sofisticato motore a scoppio dell'ultima generazione produce e spreca la medesima esorbitante quantità di calore di quello della macchina di Stanlio e Ollio. Due secondi che per me, qui, ora, sono causa di una certa improvvisa trepidazione, sì, riguardo a cosa io stia effettivamente per vedere, perché potrebbe trattarsi davvero di qualunque cosa, considerato il soggetto che me la mostra, e se si rivelasse qualcosa che io non voglio vedere - roba di sangue, poniamo, che non sopporto, o qualche filmino girato con propositi ricattatori - non sarei libero di non vederla, poiché a quel punto l'avrei già vista. Una trepidazione gratuita che monta e monta - mio padre che fa qualcosa di imbarazzante? Io che faccio qualcosa di imbarazzante? Sono molto lunghi, in realtà, questi due secondi -, finché il nastro si decide a partire e sullo schermo appare il busto di Clint Eastwood in mezzo a un campo, col cappello da cow-boy e la divisa da poliziotto, che dice «Va bene». Kevin Costner, a pochi metri di distanza, sanguinante e sofferente, si inginocchia per parlare a un bambino. «Voglio darti una cosa,» dice. E' la fine di Un mondo perfetto, la riconosco subito; lancio un'occhiata al mio uomo, per capire cosa vuole da me, e lui mi fa cenno di continuare a guardare. Lontano, in fondo al campo, tutti i poliziotti schierati tengono Kevin Costner sotto tiro, perché non sanno che è disarmato. «Sta' pronto,» dice quello col binocolo. «Se fa una mossa...», dice Bradley Whitford, col fucile puntato. S'intromette Laura Dern, pure lei col binocolo: «No. Ancora un secondo!» Di nuovo Costner inginocchiato nel campo, che dice al bambino: «Forse, un giorno, ci andrai...», e mette la mano alla tasca posteriore dei jeans. «Sta prendendo l'arma!», dice il poliziotto col binocolo. Kevin Costner cava di tasca la cartolina dell'Alaska, e Clint Eastwood si volta verso i colleghi, facendo cenno di no col capo, perché ha capito cosa sta per succedere; ma Bradley Whitford, col fucile di precisione puntato... Clic: Bogliasco, azionando il mio telecomando, per qualche ragione ha deciso che il nastro deve fermarsi su questo fotogramma: un primo piano delle mani di Bradley Whitford che impugnano il fucile, l'indice sul punto di tirare il grilletto, l'orologio che gli luccica al polso, il polsino della camicia che spunta sotto la manica P R E S T A L I B R O : [email protected] della... Non ci posso credere. Il polsino della camicia che spunta sotto la manica della giacca. Cioè a dire che la sua camicia non è a mezze maniche, cioè a dire che quest'uomo si segna tutto quello che dico, e poi va a verificare ogni mia affermazione - lui, le mie - e si annota gli errori che faccio, e poi viene a casa mia a rinfacciarmeli, usando il mio televisore, il mio videoregistratore, mentre io dovrei essere al telefono a parlare con mia moglie che ha un problema... - Ora non pensare che io sia andato a controllare apposta - dice per poi venir qui e dimostrarti che ti sbagliavi: non sono così testa di cazzo. Solo, mi ha impressionato quando ieri hai citato questo film, perché è un film che è piaciuto molto anche a me, sai, nonostante sia americano, soprattutto nella parte in cui il bandito dice di non sapere cosa avrebbe fatto a quei negri che aveva legato e imbavagliato, se il bambino non gli avesse sparato, perché è così che funziona - s'infervora, - i criminali non hanno la minima idea di quello che faranno, prima di farlo: hanno la pistola, d'accordo, la puntano addosso alla gente, d'accordo, ma non pensano mai veramente di sparare prima di farlo, e se qualcuno li interrompe, come succede in questo film, loro non sapranno mai se lo avrebbero fatto davvero oppure no. Ed è proprio questo tenere il bene e il male su un piano di perfetta equivalenza, dico io, l'essenza vera della criminalità, nel senso che basta e avanza per fare
di un uomo un delinquente, senza bisogno che lui lo sappia, mentre invece nei film americani i criminali sono sempre così consapevoli di essere cattivi, sempre così compiaciuti... S'interrompe, come destandosi da un sogno. - Vabbè, questo per dirti che ieri hai citato un film che mi è piaciuto molto... - la sua voce recupera la pacatezza che aveva perduto quando era partito per la tangente - ...e insomma mi è venuta voglia di rivederlo, e oggi me lo sono affittato, e mi sono messo a guardarlo, e quando sono arrivato alla scena che hai citato tu, capisci, questa scena, non ho proprio potuto fare a meno di notare che la camicia di... come si chiama l'attore? - Bradley Whitford... Fa una smorfia di ammirazione, e rimane in silenzio. Io sono semplicemente sbigottito, adesso, perché quest'uomo è pazzo, sì, è un mitomane solipsista paranoico pazzo, ed è in piena azione, e ha due mani che potrebbero sbriciolare un mattone, ed è a mezzo metro da me - ragion per cui potrebbe anche essere il caso di ricominciare ad aver paura. Ma resta il fatto che questi polsini sono clamorosamente visibili: come diavolo ho fatto a... - Voglio solo dirti riattacca - che le cose possono essere diverse da come uno le crede, o da come se le ricorda. Tutto qui. Se era solo per contraddirti potevo farlo ieri sera, quando hai raccontato quella scena della Ricotta: perché Orson Welles la poesia non la legge a un cameriere, come hai detto tu, ma a un giornalista, e questo me lo ricordavo senza bisogno di... Ci risiamo: di nuovo una più grossa subito dopo una già grossa. - Cosa ho detto, io? E ci casco, non c'è niente da fare. - Lascia perdere... - No, non lascio perdere. Cosa ho detto? - Ma niente, è una sciocchezza... - Non è una sciocchezza. Cosa avrei detto? Lui fa una smorfia, mascherando da imbarazzo la sua malignità, con precisione millimetrica. - ...Hai detto che Orson Welles legge la poesia a un cameriere, e invece la legge a un... Ma insomma, non c'entra nulla, ho sbagliato io a parlarne... A un giornalista, certo, un giornalista cretino che vuole intervistarlo. E invece io ho detto a un cameriere, è vero, me lo ricordo benissimo. Perché? Come ho potuto sbagliarmi proprio su quella scena, proprio io che la so a memoria? Forse perché eravamo al ristorante (ma non c'era nessun cameriere, c'era quella ragazzina sui pattini), e mi era appena stato detto che mio padre aveva ucciso un uomo, e forse - anzi, non forse, di sicuro - ero sconvolto; oppure, più semplicemente, perché il famoso milione di neuroni che ogni uomo perde ogni giorno, dai trent'anni in poi, erosa ben benino tutta la periferia (quante varianti della difesa Nimzo-Indiana sono in grado di ricordare, in questo momento? Sette? Otto? Nove? Come si chiamavano i sottufficiali che mi punivano nei collegi? Sabella o Savella? Schillaci o Schillace? O Squillace?) sta cominciando a intaccare il nucleo attivo della memoria, quello sul quale si fa conto ogni giorno, e vi si attinge automaticamente senza sospettare che le maniche lunghe vi si possono trasformare in maniche corte, o i giornalisti in camerieri, perché altrimenti è la fine... - Quello che voglio dirti - riprende - è che alle volte si è assolutamente certi di una cosa, si metterebbe la mano sul fuoco, e invece quella cosa non è mai stata così. Perché non si ricorda bene, oppure perché a noi, quella cosa, si è sempre presentata in un certo modo, ma in realtà era diversa... Mi siedo sul divano - anzi, per la precisione mi ci lascio andare a peso morto. Io non voglio tutto questo: non voglio che le cose siano diverse. Non voglio ricordarle vagamente... Lui mi si siede accanto, e mi mette una mano sulla spalla. Non voglio che quest'uomo mi tocchi... - Cerca di metterti nei miei panni, Gianni. Tu hai una certezza, e io vengo a contraddirtela con una storia incredibile. Cosa pensi, che non me ne renda conto? - mi toglie la zampa di dosso - E credi che non sappia di avere un aspetto... be'... diciamo poco attendibile? Lo so, non mi presento bene, ma che posso farci? Sono così, sono sempre stato così, e non ho mai nemmeno dovuto pormelo, questo problema: niente amici, a parte tuo padre, niente fidanzate, mogli, figli, vita sociale zero.
Solo puttane, segreti e nascondigli, sempre a fingere di non sapere quello che sapevo, e di sapere quello che non sapevo... Non che abbia rimpianti, intendiamoci, ma dopo una vita come la mia come faccio a essere attendibile? Non dovrei nemmeno essere vivo, in teoria, con la vita che ho fatto... Ridacchia. - A dir la verità sono anche morto, una volta, nel '72; morto e seppellito. Ho un loculo, davvero, al cimitero di Livorno, col mio nome e tutto: solo che dentro c'è un lussemburghese. Quando ci passo ci porto sempre un po' di fiori, e mentre sono lì che li sistemo nel bicchierino... be', è patetico, lo so, ma mi commuovo... Perché penso che quando morirò per davvero non ci sarà nessun lussemburghese che farà la stessa cosa sulla mia tomba, e non ci sarà nemmeno la tomba, per la semplice ragione che io al mondo non ho nessuno. E da un po' di tempo, quando sono lì sulla mia tomba a pensare queste cose, mi capita di mettermi a piangere come un cretino... Scuote il capo, sconsolato. - D'altronde è normale - aggiunge, tirando su col naso - è la vecchiaia... Comincia a farmi male la testa, quest'uomo mi ha sfiancato. Lo guardo: possibile che non una sola delle cose che dice possa essere creduta senza dover fare un atto di fede? Dov'è questa vecchiaia di cui parla? Non certo negli occhi, che gli sono rimasti bugiardi e ballerini come quelli di un bimbetto, o nella resistenza fisica, con la quale sta stroncando me che ho trentasette anni. Non nei discorsi che fa, non nella lingua o nel modo di parlare, e nemmeno nell'aspetto, massiccio e intimidatorio, da sessantenne, massimo sessantacinquenne, sovrappeso quanto si vuole ma in buona salute - a parte quel fischio ai polmoni che peraltro stasera non si è manifestato. Perché non dice almeno una cosa, una qualsiasi, che non sia violentemente contraddetta dall'evidenza? Mi butto all'indietro e chiudo gli occhi, mentre lui continua a concionare: - ...e io non ero preparato a diventare vecchio, e men che meno ero preparato ad affrontare una situazione come questa. Perché, vedi... tutti i segreti che ho conosciuto, nella mia vita (e sono tanti, credimi, tanti), in fondo a me non interessavano. Erano solo informazioni, per me, merce di scambio, era il mio lavoro... La cosiddetta «Italia invisibile», Gianni, quella in cui un aereo di linea precipita in mare e si sa perfettamente cosa è successo, e i responsabili si mettono subito al lavoro perché i genitori delle vittime, i giornali, tu, non veniate a saperlo mai, quell'Italia lì è stata il mio posto di lavoro. Ci sguazzavo dentro, e l'unico modo per sguazzarci dentro è farci il callo, perché il mondo va così ed è proprio per questo che nel mondo ci sono le spie: avevo uno scopo, capisci, e quello scopo mi riscattava. Ma ora è diverso. Per la prima volta non riesco a sopportare il peso di un segreto, perché penso a te, ai ricordi di tuo padre che conserveresti, e poi penso all'uomo che tuo padre era veramente, e mi sento responsabile... Solo che, come faccio a convincerti? Prove non ne posso portare, è ovvio, perché se tuo padre ne avesse lasciata anche soltanto mezza sarebbe stato un... Di colpo, torna a gracchiare l'audio del programma televisivo, e lui si cheta. Già: è scaduto il tempo tecnico di resistenza delle videocassette sul fermo immagine; anche qui, in vent'anni, progressi zero. Una volta ho lavorato per la televisione, e ho constatato che anche le attrezzature professionali hanno questo limite: resistono qualche minuto sul fermo immagine, e poi staccano. Riapro gli occhi. C'è uno spot pubblicitario, in televisione, nel quale un famoso presentatore fa provare le sue scarpe all'omino verde dei semafori pedonali, il quale, per quanto sono comode, gliele ruba, lasciandolo scalzo sul marciapiede. La solita ideuzza rubata dai pubblicitari al cinema, per la precisione al film di Kasdan, come si chiama, quello su Los Angeles, e il titolo è il nome di un posto, due parole, tipo «Bay Area», ma non è «Bay Area», con Steve Martin che fa lo psicanalista, e gli sparano alle gambe e ritrova il senso della vita, e tante altre storie intrecciate, ma la migliore è comunque quella di Steve Martin, ed è lui che parla con l'omino del semaforo pedonale, oh, merda, come s'intitola? Il nome di un posto, due parole, non posso aver dimenticato anche questo... Niente, non me lo ricordo. Mi allungo fino al telecomando e spengo. Bogliasco fa un cenno d'approvazione. Gli occhialetti non li ha più. - Ti ricordi - dice - quando tuo padre vi ha portato a fare quel giro per l'Europa con la Fiat 1500, nell'estate del '68?
Ed ecco che riparte all'assalto. Tanto ormai lo conosco, usa sempre la stessa tattica: ci gira intorno, fa il pesce in barile, divaga, con pazienza, astuzia, e poi di colpo attacca. Bum: il viaggio in Europa con la 1500. Come potrei anche solo fingere indifferenza, se mi parla di questo? - Ti ricordi che la prima sera vi fermaste a Stresa - continua sul Lago Maggiore, per guardare in Tv la finale dei campionati europei di calcio? Che partita era? Un po' di melina, far finta di non sapere certe cose, chiederle a te, così da attirarti dentro l'azione, coinvolgerti... - Italia-Jugoslavia... - Già - un sorso di birra - ma finì in parità, e a quel tempo non era come ora, non c'erano i rigori: i match nulli venivano ripetuti tre giorni dopo, e voi la ripetizione non potevate vederla perché sareste stati all'estero. E tu e tuo padre litigaste, eh? Perché tu volevi rimanere in Italia, a vedere la partita... Poi, contropiede brusco e primo affondo serio per farti capire che mentre ancora tu ti chiedi dove voglia andare a parare, lui ci sta andando. Questa fase deve lasciare il segno, tu devi accusarla, devi chiedertelo, irresistibilmente, devi chiederti come diavolo faccia a sapere queste cose... - Tra l'altro era molto meglio così, secondo me: se una partita finisce pari si rigioca, cos'è quest'invenzione dei rigori che finiscono sempre per far vincere il più debole? Sarebbe calcio quello? Ci sono squadre, oggi, che addirittura puntano a... Quindi, a sorpresa, digressione - e questa è una vera finezza: simulare un punto debole, lasciarti credere che mettendoti a discutere su un argomento irrilevante, («no, i rigori sono emozionanti, spettacolari...», eccetera) tu lo possa contenere, sviare, fargli perdere il filo. Cosa che non succederebbe mai, e anzi a uscirne indebolito saresti tu, distratto da una discussione che non significa nulla e che mai avresti pensato di fare... - ...vinca veramente il più forte. E insomma litigaste, e tu fosti trascinato a forza in quel viaggio, ricordi? Germania, Belgio, Olanda, senza poter vedere la partita, poverino... E arrivo al punto: ti ricordi che ad Amsterdam aveste un incidente, perché tuo padre prese per sbaglio un lungocanale controsenso, e andaste a strusciare contro una Volkswagen? Ti ricordi che il guidatore della Volkswagen ti prese in collo, dopo che ebbe fatto con tuo padre la dichiarazione amichevole d'incidente? Ci siamo, parte la combinazione finale... - Ti ricordi che scoppiasti a piangere e volesti scendere subito, e poi dicesti a tuo padre che quell'uomo non ti piaceva? E quando tutto è preparato a dovere, spararla grossa. Ma grossa... - Quell'uomo era lei - lo anticipo. Ha un lampo di sorpresa negli occhi - non se l'aspettava - poi annuisce, abbassando le palpebre. - Esattamente. Scoppio a ridere, ed è un riso spontaneo, stavolta, autentico, un vero ristoro, perché neanch'io me l'aspettavo, in fondo: centrato in pieno. - Non credi nemmeno a questo? - fa. - Si ricorda come diceva Totò? - sbotto - «Ma mi faccia il piacere!» L'imitazione mi riesce malissimo, ma non fa nulla: sto venendo a capo di quest'uomo. Lo posso prevedere... - Per te è normale che io sappia tutte queste cose? Sorride, imperterrito. - Senta - dico - lei ha delle informazioni molto dettagliate sul mio conto, non lo nego. E magari è davvero una spia, ed è stato in contatto con mio padre, per un certo periodo, di sicuro per questioni segrete, militari, non lo so. Ma, mi creda, nonostante tutto lei le cose non le sa. Non basta essere bene informati per poter riraccontare alla gente la loro vita. Per esempio, lei ha citato quel viaggio, ed è stato esatto sui luoghi e sugli episodi, però è convinto che io quel viaggio l'abbia fatto controvoglia, e invece non è vero. Per me quel viaggio è stato meraviglioso, e se dovessi indicare il periodo più felice in tutta la mia infanzia, io direi «il viaggio in Europa con la 1500». E mio padre questo lo sapeva benissimo. Certo, ci rimasi male quando seppi che avrebbero ripetuto la partita e che noi a quel punto saremmo stati chissà dove e non avremmo potuto vederla. Per me quella finale
era importante, il calcio mi faceva sognare, e mi pareva di non desiderare altro che vedere l'Italia vincere il campionato europeo. Ma ero un bambino, maledizione, e già il giorno dopo, quando viaggiavamo nel cuore della Germania, e ci fermavamo a mangiare quei fantastici würstel giganti, a vedere i cervi nella Foresta Nera, o a dormire tutti in una stanza in certe locande profumate a Magonza, o a Friburgo, io ero felice, e alla partita non pensavo più: non avevo più bisogno di niente, ero felice così, in quella sarabanda di picnic sull'erba, venti sconosciuti, monorotaie, dighe, cattedrali gotiche, chiatte sui fiumi, mucche pezzate, mulini a vento, targhe assurde e televisori a colori. E quando spuntò quel cameriere italiano, ad Amsterdam, per l'appunto, e ci disse che l'Italia aveva vinto, e si mise a raccontare i gol di Riva e Anastasi, a mimarli addirittura, e Facchetti che alzava la coppa, e Valcareggi portato in trionfo, non provai più gioia di quanta già ne provassi, per il fatto stesso di essere lì. Ha capito? Fa un'espressione perplessa, come per dire «E questo che c'entra?» - E anche l'uomo della Volkswagen - continuo -, lo ricordo bene, cosa crede? Perché è vero che piansi, quando mi prese in collo, ma solo perché il mio cuore scoppiava di emozione - un incidente ad Amsterdam, un olandese che mi prendeva in collo; e dopo non dissi affatto che quell'uomo non mi piaceva, perché al contrario mi piaceva moltissimo, ed è proprio per questo che lo ricordo così bene. Era alto, profumava di lozione dopobarba, aveva i capelli fini fini che si agitavano al vento, biondi, e soprattutto non era lei. Sto mentendo, maledizione, non ricordo affatto quell'uomo. Ricordo bene l'incidente, il sole che scintilla sul parabrezza, la Volkswagen che ci viene addosso, il rumore sordo delle fiancate che si toccano; ricordo mio padre e quell'uomo chini sul cofano a compilare i moduli della dichiarazione, il vento che fa volare i fogli, e poi la mamma che tiene per il braccio mia sorella, la gente che tira dritto senza badare a noi, la chiatta che a un certo punto passa nel canale, prodigiosamente silenziosa; ma non è vero che ricordo com'era fatto quell'uomo, né che profumasse o che fosse biondo. Però non ricordo nemmeno di avere detto che non mi piacesse, e comunque di una cosa sono sicuro: non era lui. - Ero io - insiste. - Dica un po' - faccio, e non so perché ma mi scappa uno strano tono milanese - pensa davvero di potersi intrufolare così facilmente nei ricordi della gente? - Ero io... - Pensa davvero che io smetta di fidarmi della mia memoria solo perché ho scambiato un giornalista per un cameriere? - Ero io, Gianni. L'incidente era una messinscena per poter effettuare un Ka Tri, un K3, cioè un contatto in luogo pubblico con scambio di materiale. - Hah... - Un K3, sì - insiste - dove K sta per Kontàkt, appunto. C'erano solo tre tipi di contatto ammessi tra gli agenti coperti, com'era tuo padre, e gli agenti non coperti, com'ero io: quello era il terzo, il più rischioso. Perché era in luogo pubblico, appunto: veniva usato solo in casi d'emergenza... - Quella non era un'emergenza - dico - Era una vacanza. Si accende una delle sue sigarettine. Aspira due lunghe boccate. Tossisce. - Ti ricordi - dice - del generale De Lorenzo? Ti dice qualcosa, questo nome? - No. - Be', era un generale fascista, anche se ufficialmente monarchico, che quattro anni prima, nel '64, aveva organizzato un colpo di stato: era stato scoperto, ma non gli fecero niente, anzi condannarono quelli che l'avevano denunciato. Be', quell'anno, con l'Europa in rivolta, e mentre la commissione Lombardi lo scagionava, lui ne stava organizzando un altro, tramite una rete clandestina molto più segreta e pericolosa della famosa Gladio, che nel caso tu non lo sapessi era solo uno specchietto per le allodole. Tuo padre sapeva, naturalmente, e volle darmi i nomi dei giornalisti e dei parlamentari legati al nuovo progetto, perché a mia volta li passassi a Mosca. Era molto preoccupato, temeva che dài e dài l'avrebbero fatto, il colpo di stato. Eccola, l'emergenza. Ecco perché ci fu quell'incidente, ad Amsterdam: mi scrisse i nomi sui moduli della dichiarazione amichevole, al posto dei dati.
L'Agenzia di stampa Novosti diffuse la lista, in Italia smentirono, ma il progetto abortì. Ecco perché non poté accontentarti, per quella partita: altrimenti l'avrebbe fatto... - Non l'avrebbe mai fatto - ribatto - Non avrebbe mai mandato all'aria il programma che aveva minuziosamente stabilito insieme alla mamma, coi pennarelli rossi sulle carte stradali stese sopra al tavolo del tinello - quello stesso tavolo, per inciso, che qualche anno dopo avrebbe sfondato con un cazzotto durante una lite nella quale mi accusava di essere comunista... Piega la testa all'indietro, sorridendo. - Già - dice - ricordo quel periodo, quando litigavate tutti i giorni. Era molto orgoglioso che tu fossi comunista. Ancora un po' troppo borghese, diceva, ma in fondo questo era colpa sua... - Non ero affatto comunista. Non lo sono mai stato. Era una sua fissazione... - Ma se glielo dicevi tu... - Lui lo diceva, e io glielo lasciavo credere per farlo incazzare. Perché era bigotto, e l'idea di avere un figlio comunista lo faceva incazzare... - Bigotto... - ridacchia. Schiaccia la sigaretta nel portacenere, con forza, poi beve un ultimo sorso dalla lattina, si passa una mano sulla bocca. - Tuo padre bigotto... - Bigotto, sì. Fa un rutto e scuote il capo, sempre più sorridente. - Non lo conoscevi... - Lo conoscevo eccome. Era la persona più bigotta che abbia conosciuto. - Fingeva. - Non fingeva, era bigotto. - Tuo padre non era bigotto, Gianni. - Con me era bigotto. Non dovevo dirlo, questo. E' un errore, è come ammettere che mio padre potesse anche non essere bigotto, con gli altri, mentre invece lo era con tutti. Una volta lasciò il tavolo di una cena di Natale, al circolo del bridge, perché una donna era venuta con l'abito troppo scollato. Era bigotto. Ma ormai ho commesso il mio sbaglio, e lui mi fissa con un ghigno lucente, pieno di gloria. Dev'essere così che un piromane guarda l'incendio che ha appena appiccato. - Già... - dice. Si alza faticosamente in piedi, va fino alla porta del terrazzo e si mette a guardare fuori, annuendo impercettibilmente. Silenzio. Silenzio. Silenzio. Un inaspettato, benevolo silenzio. Mi ributto indietro e chiudo di nuovo gli occhi. Dal fondo di questa sera romana, là fuori, riaffiorano i rumori amici che la voce di quest'uomo, tartassante, aveva cancellato: la sirena di un'ambulanza, sfigurata dall'effetto doppler, l'accelerazione mostruosa di una motocicletta in viale Marco Polo, tutti i suoni dell'indifferenza con cui Roma tira avanti sopportando se stessa, che finiscono per sembrare, e forse anche per essere, silenzio. Ho sonno, e questo mi rinfranca, perché il sonno mi regala un'insperata via di fuga. Lui continua a tacere, e dalle profondità dei suoi apparati respiratori ricomincia a farsi sentire il fischio. Basterebbe che continuasse a tacere un minuto o due e io - assediato, stanco, sconfitto - potrei ancora fregarlo: potrei addormentarmi, già, spingendomi nel terreno delle cosiddette «metasoluzioni», come fa Franceschino quando sta perdendo a scopa e butta all'aria il mazzo. In fondo è anche quello un modo di risolvere i problemi. Ricordo che quando giocavo a scacchi c'era un russo - un russo vero, di nome Victor Balanda - che si conquistò tutta la mia adorazione, oltre a una leggendaria squalifica a vita, per la sua inclinazione a sbrogliare le situazioni difficili con una gagliarda metasoluzione: stendeva l'avversario con un cazzotto in faccia - mossa che ancora oggi, credo, nell'ambiente viene chiamata «variante
Balanda»... Già, il vecchio Balanda. La meteora più sfavillante che abbia attraversato il firmamento scacchistico degli anni Settanta: nessuno sapeva quanti anni avesse, dove vivesse o come si mantenesse, spuntò dal nulla e cominciò a macinare vittorie a un ritmo impressionante, tanto che sembrava avviato verso il famoso Torneo dei Candidati, nel quale si designa lo sfidante per il titolo mondiale. Poi, un giorno, ad Acapulco, si trovò in grave difficoltà di fronte a un outsider messicano, e, dopo avere consumato quasi tutto il tempo alla ricerca della mossa che gli evitasse l'onta della prima sconfitta, si alzò in piedi e gli lasciò andare un cazzotto dritto in bocca, mandandolo all'ospedale. Fu squalificato, espulso dal torneo e in seguito radiato da ogni competizione ufficiale (non senza un grottesco dibattito in seno al Comitato di Disciplina della Federazione Internazionale, poiché il regolamento non prendeva nemmeno in considerazione il caso di violenza fisica nei confronti di un avversario), e sparì dalla circolazione. Ma un anno e mezzo dopo, in occasione del Campionato Mondiale, ci fu un'amnistia, e Victor Balanda ne beneficiò, tornando alle competizioni. Ed è proprio al momento in cui ricompare sulla scena, a Palma di Maiorca, nel 1979, che risale il ricordo che conservo di lui, preciso e netto: eccolo mentre attraversa il salone del Consolat del Mar con addosso il solito abito marrone di velluto, incurante delle occhiate che lo infilzano da ogni direzione perché, malgrado la presenza di un paio di grandi maestri internazionali, è lui l'attrazione del torneo; ecco il suo lungo volto barbuto, il naso da falco, la pelle squamosa, lo sguardo scaltro sotto gli occhiali di metallo. E' un torneo a cadenza italo-svizzera, nel quale ogni concorrente affronta quello che lo segue in classifica al termine di ogni turno, e così Balanda, dopo quattro vittorie di fila, si ritrova a duellare con i più forti. Altre vittorie, un paio di patte, ed eccolo all'ultimo incontro, ormai secondo in classifica, seduto di fronte a un grande maestro suo connazionale che lo precede di mezzo punto: per superarlo e rendere trionfale il proprio rientro deve vincere, mentre se pareggia o perde verrà scavalcato anche da molti altri. Il suo avversario lo ricordo appena, una figura abbastanza ordinaria avvolta nella nebbia dell'oblio, come del resto anche il suo nome, poiché sebbene fosse il più forte giocatore del torneo, e quel torneo uno degli ultimi a cui io abbia partecipato, ciò che sta per accadere lo sfuocherà per sempre nella mia memoria. Io sono in prima fila, ho dato forfait al mio ultimo incontro pur di avere questo posto, perché Balanda per me è un idolo, nel mio pantheon di ventenne ha preso il posto di Bobby Fischer, e la sua esibizione non me la perderei per tutto l'oro del mondo. La partita è una Ruy-Lopez classica, la partita preferita di Balanda, e attorno al tavolo c'è un silenzio irreale, favoloso, due o trecento persone immobili e concentrate sull'icona verdastra - per via delle luci -, vagamente subacquea, di questi due russi che si fronteggiano sotto un enorme ventilatore a soffitto. L'altro ha i bianchi e gioca per la patta, è chiaro, e Balanda ha consumato un po' troppo tempo nel tentativo di stanarlo; ma può ancora farcela, ha una posizione promettente sul lato di Donna e le torri messe leggermente meglio. Non sta perdendo, non è in difficoltà, e anche se alla fine dovesse accettare la patta rimarrebbe pur sempre imbattuto. Eppure, ecco che in lui scatta qualcosa: me ne accorgo solo io, ne sono certo, e non saprei dire nemmeno come io possa avere una tale certezza, su cosa sia basata, ma ce l'ho. Qualcosa scatta in Victor Balanda e di colpo la scacchiera, i pezzi, la posizione, diventano irrilevanti, perché la soluzione si è spostata altrove, oltre quel tavolo, oltre le regole che rendono d'un tratto ridicolo questo rito dell'intelletto che fino a un momento fa sembrava sacro. Eccolo che comincia a perdere tempo: si sfila gli occhiali, se li pulisce, li rimette, poi si volta a guardare gli spettatori, quasi tutti grigi borghesi monomaniaci la cui fantasia non ha il minimo sbocco fuori da quelle sessantaquattro caselle, incapaci perfino di concepire ciò che sta per succedere, sebbene sia già successo una volta e sia proprio per questo, in fondo, che si trovano qui. Mentre il suo orologio continua a correre, ecco che Victor Balanda si alza, lentamente, come ha già fatto altre volte nel corso dell'incontro per concentrarsi girellando a testa china, ma stavolta la sua concentrazione è diversa, è quella del leopardo in mezzo alla savana, che calcola la direzione del vento, la distanza dalla preda, la velocità necessaria per raggiungerla... Il suo avversario, questa nebbia cartesiana piena di calcoli e partite mandate a memoria, è seduto compostamente, assorto, il mento poggiato sul dorso delle mani, i gomiti appoggiati al tavolino. Non ha capito nulla, nemmeno lui, non teme, non sospetta, non vede la dura realtà che prende forma dinanzi ai suoi occhi: vede
magari una cervellotica combinazione di mosse che, in un futuro di cui questa partita ormai è priva, gli potrebbe regalare un pedone, ma non vede il cazzotto partire, un gancio fenomenale che lo centra in pieno volto, tra bocca e naso, e gli spegne ogni luce: crolla, secco, con un lugubre tonfo sul pavimento, passando direttamente dal dopo lucido e soddisfacente previsto dai suoi calcoli a quello confuso e tumefatto di quando si risveglierà sull'ambulanza («Dove sono? Che è successo?»), e il medico a bordo gli raccomanderà di star tranquillo. Ecco fatto: Balanda si siede, spinge avanti un pedone e ferma il suo orologio. Sorride, mentre intorno a lui si scatena il finimondo, e rimane impassibile al suo posto, strattonato, insultato, minacciato, mentre si cerca di rianimare il suo avversario, perché nonostante tutto la variante Balanda non è ancora compiuta: occorre che l'avversario non si rialzi, occorre che l'arbitro sia costretto a interrompere la partita senza poter scrivere nel suo referto che Balanda ha abbandonato, ha perso, o ha pareggiato, no, occorre che si scervelli per trovare nella sua legnosa lingua di burocrate le parole che spieghino l'accaduto («...colpiva l'avversario al volto con bruta violenza, procurandogli la perdita dei sensi e la conseguente impossibilità di proseguire l'incontro, e poi effettuava la mossa 41, ... H5-H4»). Un evento assolutamente inconcepibile nel piccolo mondo cui appartiene lui, eppure assolutamente semplice, e normale, nel grande mondo al quale appartiene Balanda. E l'avversario non si rialza, non si rialza, non si rialza... 14 Apro gli occhi di scatto: ho il fiatone, le cose vanno a una velocità assurda, il mio cuore corre a tutta per raggiungerle... Mi metto a sedere. Mi guardo attorno. La stanza è vuota, la televisione è spenta, la luce è spenta. Sono avvolto nel telo azzurro che solitamente ricopre la poltrona perché non si sporchi. Dalla finestra del terrazzo entra una brezzolina che mi ghiaccia il sudore sul collo. Quanto avrò dormito? E dov'è lui? Sul tavolino ci sono tre lattine di birra, tutt'e tre vuote. D'un tratto, nell'oscurità balena uno sfolgorio verde, seguito da una raffica di esplosioni. Ecco cos'è che mi ha svegliato di soprassalto. Mi alzo e vado in terrazza, ma lui non è nemmeno lì. Guardo bene dappertutto - assurdamente, poiché la terrazza non è che offra nascondigli. Non c'è proprio. Un altro fuoco d'artificio, bellissimo, disegna un enorme ombrello rosso sul cielo del Gianicolo, proprio davanti a me. Guardo l'orologio: mezzanotte e venti. Resto imbambolato a guardare i fuochi, che continuano a emozionarmi come quando ero bambino, ma anziché rasserenarmi accrescono la mia agitazione, perché vorrei che Franceschino fosse qui, addormentato nel suo letto, per poterlo svegliare come l'anno scorso, e portarlo in collo fino alla terrazza, e sistemarlo in piedi sul tavolo a godersi lo spettacolo, che sembra fatto apposta per lui, per noi nel frattempo Anna ci avrebbe raggiunto, sì, e si sarebbe piazzata a sentinella vicino al tavolo, per coprire anche lo 0,0001% di rischio che Franceschino sfugga alla mia presa e, ancora assonnato, caschi dal tavolo. E sento una lancinante, sinistra nostalgia di tutto questo, come se lo avessi perduto per sempre, come se il mio matrimonio fosse andato all'aria e quel quadretto non si potesse ricomporre mai più. Oh, non voglio nemmeno pensarci. Io non capisco come faccia a divorziare la gente che ha figli: eppure divorzia. Arrivo a capire che ci si faccia una ragione delle tragedie, come la madre di quel bambino in coma fatalità che capitano con spietata esattezza proprio a te, e tu non puoi far niente per evitarle - ma non riesco a immaginare come si possa mettere in moto e alimentare giorno per giorno e infine portare a compimento la complessa successione di atti deliberati che porta alla rovina di una famiglia. E' esattamente a momenti come questi che bisognerebbe pensare quando affiora anche solo vagamente il miraggio di un'alternativa: d'accordo, questa ragazza ti attrae, potresti rivederla, conoscerla meglio, scoprirla meravigliosa e via discorrendo, e anche lei potrebbe innamorarsi di te, potreste essere fatti l'uno per l'altra, come no, e raggiungere insieme una felicità che nella tua vita non sei mai nemmeno arrivato a immaginare, intesa sessuale e tutto; ma sappi che una sera d'estate ti ritroverai su una terrazza davanti a una pioggia di fuochi d'artificio, e la cosa banalissima che
vorresti fare - svegliare tuo figlio per guardarli con lui - non potrai più farla, e non perché lui sia al mare o in coma o sia diventato un uomo e tu un vecchio, ma solo perché non è uno dei due fine settimana al mese in cui sei autorizzato a stare con lui. E' un pensiero che tengo sempre a mente, questo, come un numero di telefono d'emergenza, che mi guida nella quotidiana manutenzione del mio matrimonio e a volte mi regala momenti di grandiosa pace solitaria - quella che io chiamo la «pace del pianerottolo», poiché mi coglie per l'appunto sul pianerottolo, subito dopo essere uscito, magari dicendo ad Anna «Devo andare nel tal posto, non ne ho molta voglia, faccio più in fretta che posso», e appena scesa la prima rampa di scale mi fermo, mi appoggio al muro, guardo la porta di casa che si è appena richiusa e mi sento in pace: perché sto davvero andando nel tal posto, ne ho davvero poca voglia, e farò davvero più in fretta che potrò. Solo chi ha provato questa sensazione può capire quanto siano belli i mezzi minuti passati così, appoggiati al muro sul pianerottolo di casa propria (prima mi accendevo pure una sigaretta, ora non più), a constatare quanto si è lontani dalla melma della menzogna coniugale, dal sesso coi sensi di colpa e da quella famosa carta bollata che prima o poi spunterebbe a dirti quante ore alla settimana puoi passare insieme a tuo figlio. Bum, bum, bum: i tre botti finali, sordi e violenti come colpi di grancassa. Restano per qualche momento i fumi bianchi a serpeggiare nel cielo impastato, poi si dissolvono, e io non sto per niente bene. Ho il magone, una specie di grumo duro e freddo incastrato nel petto, che mi fa male come fosse una lama. Mi gira la testa: Anna, Franceschino, dove siete? Che mi succede? Perché soffro così? Mi sdraio sul lettino e respiro forte: il dolore al petto diminuisce. Va tutto bene, mi ripeto, va tutto bene. Non è un infarto, non sto per morire. E non è nemmeno un attacco di panico io non sono così alla moda, ho sempre sofferto di mali antiquati: acetone da bambino, morbo di Osgood-Schlatter da ragazzo, mal di schiena da adulto. Mettiamoci pure i vuoti di memoria, adesso, ma teniamo presente che la mia era una memoria formidabile, maledizione, molto superiore alla media, che probabilmente nessuno avrebbe potuto conservare intatta molto a lungo. In tutta la mia vita non ho mai avuto paura della solitudine, e poi non sono solo, non lo sono mai stato, Resto un po' così, a guardare il cielo respirando l'acuto profumo dei gelsomini, e mi sento meglio. Pian piano il grumo si scioglie, e il male al petto scompare. Mi alzo con cautela, e le gambe sono solide, tutto sembra tornato a funzionare perfettamente. Dev'essere stato un calo di pressione, penso, o un problema di digestione, con tutta la roba fritta che ho mangiato. E poi quel risveglio di soprassalto, quello spavento; bisognerebbe sempre essere svegliati con dolcezza, ecco il punto. Torno in casa. L'uomo se n'è proprio andato - benedette metasoluzioni -, non c'è più nemmeno la cassetta di Un mondo perfetto. Una volta tanto ha fatto una cosa normale: mi ha visto dormire come un angioletto, si è bevuto un altro paio di birre, e quando si è fatta una cert'ora se n'è andato insieme alla sua storia - ma com'è arduo, e addirittura imbarazzante, immaginarlo alle prese con la tenerezza che lo ha spinto, prima di scivolare via, a coprirmi col telo azzurro della poltrona per non farmi prender freddo... Mi siedo sul divano e comincio ad accarezzare l'idea di telefonare ad Anna: ciao, scusa se ti chiamo a quest'ora ma avevo voglia di parlare un po' con te... Non ci sarebbe nulla di male, dopotutto ho tante cose da raccontarle; e sto per farlo, sto per afferrare il telefono quando mi rendo conto di una strana sensazione che m'ingombra il cervello: una specie di allarme trascurato, come qualcosa che da un po' di tempo continui a implorare d'esser notato. Rumori non ce ne sono stati, non è successo nulla d'insolito, eppure ecco che sono di nuovo inquieto come un coyote. Vado in cucina, e tutto è normale; stessa cosa in bagno, nel mio studio e nella camera di Franceschino; resta la mia camera da letto, la cui porta socchiusa mi incute un improvviso, irrazionale timore. Mi avvicino e mi metto in ascolto, mentre il cuore torna a battere forte. Silenzio... Spalanco di scatto la porta, per farmi coraggio, più che per spaventare o cogliere di sorpresa l'altro e poi, siamo seri, l'altro chi? - e ci metto troppa forza, e la maniglia va a sbattere contro il muro, e ci fa una bella tacca: ma il fatto è che non ho proprio idea di quale sia la forza giusta per spalancare di scatto le porte - chi l'ha mai dovuto fare, prima d'ora?
La stanza è in ordine, o meglio, è in disordine, ma nel disordine giusto, quello lasciato da me: finestra aperta, letto sfatto, giacca sulla sedia, biancheria sparsa sul pavimento. Tutto normale, anche qui. Dunque è come dicevo io, va tutto bene: quell'uomo se n'è andato, Anna e Franceschino sono a Viareggio e io posso raggiungerli quando voglio. Non c'è ragione di agitarsi. Torno in soggiorno, ancora deciso a fare quella telefonata - sì, una lunga, languida interurbana notturna con mia moglie - ma i miei occhi mi disubbidiscono platealmente, perché invece di posarsi sul telefono si avventano per conto loro su un punto molto preciso della stanza, con l'avidità di un cane che si butta su una fetta d'arrosto - sul carrello del televisore, si avventano, accanto al telecomando, dove l'uomo ha dimenticato l'accendino e il pacchetto delle Capri. E immediatamente dopo succede una cosa spiacevole. Succede che desidero prenderne una e accenderla, lo desidero talmente che lo faccio: prendo una sigaretta e l'accendo. Ecco fatto, ho ricominciato a fumare. Mi siedo sulla poltrona e aspiro voracemente dal filtro di questa ridicola sigaretta, nell'assurdo tentativo di farla diventare più forte - ma già così com'è, mi accorgo, è sufficiente per farmi risentire il vecchio colpetto alla gola, che tanto mi mancava. Ho ricominciato a fumare. Ecco cos'era quella sensazione: il pacchetto lo avevo già visto, probabilmente è stata la prima cosa che ho visto dopo essermi svegliato, ma la mia forza di volontà, quella che per nove mesi mi ha permesso di resistere alla tentazione, deve avere valutato che stavolta il rischio di capitolare era troppo alto - solo, agitato, con un pacchetto di sigarette a disposizione - e deve essersi riversata all'istante sul compito apparentemente meno difficile, e cioè negare l'esistenza di quel pacchetto, impedirmi di prendere in considerazione la sua presenza... Del resto l'ho sempre saputo di non essere al sicuro, ho addirittura fatto un corso, presso l'associazione degli alcolisti anonimi, nella piazzetta del Velabro: un corso non per smettere di fumare bensì per non ricominciare. Si tratta di un metodo preciso, in realtà, con tanto di nome che ora non ricordo, inglese, tipo Smythson - ma quale Smythson? Smythson è la marca della mia agendina - e funzionava, funziona, posso ben dirlo, perché fino a quando l'ho seguito non ho più fumato. E' un corso basato sulla conoscenza, nel quale ti insegnano tutto quello che accade dentro di te quando smetti di fumare, ti spiegano i meccanismi fisiologici e psicologici della dipendenza dalla nicotina, così che tu conosca a fondo come funziona il tuo avversario, e sappia in anticipo cosa devi fare per superarlo. Sapevo, per esempio - ce lo avevano spiegato molto bene - che non bisogna mai far finta di non vedere i pacchetti di sigarette a portata di mano, ma al contrario bisogna guardarli, sfidarli, e vincerli, ripetendosi mentalmente tutte le ragioni per le quali si è deciso di smettere di fumare. E mi era stato insegnato a distinguere la semplice nostalgia del fumo, che non ha mai fine - come ogni nostalgia - ma non produce nessuna conseguenza grave - come ogni nostalgia -, dal cosiddetto impulso fatale - così lo chiamavano, un po' melodrammaticamente, al corso - cioè quello stimolo improvviso e fortissimo che continua a colpirti di tanto in tanto, e che invece può farti ricominciare a fumare anche a distanza di anni. Tante volte sono riuscito a domarlo, proprio perché lo riconoscevo e sapevo che dura solo dai venti ai trenta secondi, che è di natura esclusivamente psicologica e che, dunque, non è affatto irresistibile: basta scaricarlo in un gesto qualsiasi - un morso a una mela, un bacio a tua moglie, una serie di lunghi respiri -, basta tener duro per quel misero mezzo minuto, e lui passa, come ogni cosa brutta. Basta saperlo, e io lo sapevo, me lo avevano insegnato; eppure eccomi qua: dopo aver tanto lottato e vinto, ho ricominciato a fumare senza nemmeno aver lottato e perduto. Crollato su una Capri Superlights: com'è potuto succedere? Intanto la sigaretta è già finita. La spengo, sottile e rovente, con le mani che tremano, il cervello annebbiato - per una Capri! - e in bocca, mi accorgo, il sapore della prima sigaretta che ho fumato in vita mia - una Virginia, ricordo, rubata dal portasigarette d'argento del salotto, e fumata in tutta fretta nel garage, nascosto dietro un cumulo di ceste di vimini, con lo stesso sapore amaro in bocca, lo stesso favoloso batticuore, lo stesso diabolico senso di colpa di adesso. Era il 1972, c'era appena stata la strage ai Giochi Olimpici di Monaco... Grand Canyon. Ecco qual è il titolo del film di Kasdan che prima non mi ricordavo, quello con Steve Martin che parla con l'omino del semaforo pedonale. Grand Canyon. Però, d'improvviso, non
è più quello il film. Ma certo, non è affatto Grand Canyon, è Pazzi a Beverly Hills, e quello con cui parla Steve Martin non è nemmeno un semaforo pedonale, maledizione, ma un cartello stradale. Sì, ora ricordo tutto, è un cartello stradale elettronico, di quelli che informano sulle condizioni del traffico, che di colpo si rivolge a Steve Martin che sta cambiando una ruota, e gli chiede come va, e lo prega di abbracciarlo, e Steve Martin rimane sbigottito, e lui insiste, lo supplica, «abbracciami», «Hug me», e allora Steve Martin gli si avvicina e lo abbraccia... E' una scena bellissima, tra l'altro, commovente: come ho potuto deformarla così per via di una miserabile pubblicità televisiva? E stai a vedere che c'è una relazione, nel mio organismo intossicato, tra l'assunzione di nicotina e la capacità di ricordare le... No! Stando a quello che dicevano a quel corso, ora devo assolutamente evitare di trovare giustificazioni per la mia caduta. Devo reagire, subito: gettare via il pacchetto tentatore e bere molta acqua, molta acqua, già, perché la nicotina è idrosolubile e io devo espellerla prima possibile dal mio organismo. Prendo il pacchetto delle sigarette e vado in cucina. Lo getto nel secchio dell'immondizia - con furore, direi -, poi apro il frigo e mi attacco alla bottiglia dell'acqua minerale. Ne bevo più di mezza in un lungo sorso che mi lascia senza fiato. Poi ne bevo ancora, e ancora, anche se non ho più sete e la gola mi si è chiusa. Un po' stordito, vado in camera e mi stendo sul letto. Devo rilassarmi, devo recuperare la lucidità. Una sigaretta, mi hanno spiegato a quel corso, può anche essere sopportata, se si è decisi nella reazione. La cosa fondamentale è che sia una sola. Del resto, so cosa accadrà, sono stato addestrato: domani e nei giorni a seguire, più o meno verso quest'ora, avvertirò altri impulsi fatali, resi ancora più forti dalla mia debolezza di oggi, e sarà vitale resistergli. Devo mettermi nelle condizioni migliori per farlo dunque, ad esempio, devo lasciare questa casa, dove è avvenuto il misfatto, e devo fare in modo, quando accadrà, di non trovarmi da solo. Andrò a Viareggio, certo: in fondo è anche quello che desidero. Continuerò a bere acqua e a urinare il più possibile, e quando la nicotina che ho assunto con questa Capri sarà stata espulsa completamente sarò fuori pericolo, vale a dire che potrò tornare a vincere la mia battaglia giorno per giorno come ho fatto in questi nove mesi. Se al contrario non lo farò, se fumerò anche solo un'altra sigaretta, raddoppiando la quantità di nicotina bastarda nel mio sangue, mi attende un lungo periodo nel quale lotterò furiosamente per rimanere a una sigaretta al giorno, poi a due, poi a tre, con la pia illusione di poter rismettere in qualsiasi momento mentre invece continuerò ad aumentare, progressivamente, inesorabilmente, poiché il mio organismo, tornato alle prese con la sostanza che lo ha intossicato, continuerà a pretenderne sempre di più fino a quando avrà recuperato la dose giornaliera alla quale si era assuefatto, e solo a quel punto si placherà. Io mentirò, fingerò, fumerò di nascosto per mesi, finché verrò scoperto come un ragazzino, perché le mie dita, i miei capelli e il mio alito avranno ricominciato a puzzare. Oppure verrò direttamente colto in flagrante, da Anna, in pigiama, di notte, sulla terrazza, quando avrà già ricominciato a far freddo e correrò anche il rischio di prendermi un malanno: «Gianni! Ma che fai?...» Sì, so esattamente come devo comportarmi, e me ne avvantaggerò, ma intanto sono di nuovo in cucina - come diavolo ci sono arrivato? -, a frugare nell'immondizia come un barbone, per recuperare il pacchetto delle Capri Superlights - quando ho deciso di farlo? -, e ne accendo un'altra, alla fiamma del fornello, la mente invasata da una meschina, forse, ma scientificamente incontestabile osservazione a proposito di questi esili cilindretti americani, studiati apposta per far fumare meno la gente, e che perciò valgono a malapena mezza sigaretta normale, il che mi dà tutto il diritto, perché si possa realmente dire che ho fumato una sigaretta, di fumarne due. E fumo, di nuovo, fumo. Niente più batticuore, ora, o senso di colpa, o ebbrezza della trasgressione: sono già tornato ai pragmatici ragionamenti del tabagista. Come diavolo fanno a cambiare così in fretta, queste cose? La sigaretta finisce in un baleno - l'ho succhiata, anche questa. La schiaccio con doppio disgusto nel portacenere, perché l'ho fumata e perché era cattiva. La testa ricomincia a girare, mentre in bocca il sapore di fumo si è fatto insopportabile. Al corso insegnavano a concentrarsi su queste cose, a non dimenticarle mai: il sapore cattivo, la puzza, il
disgusto per i mozziconi... Ed ecco che scatta la mia riscossa: ecco che le mie mani annodano i manici gialli del sacchetto dell'immondizia, ecco che estraggono il sacchetto dal secchio - a fatica, perché è gonfio -, ecco che esco di casa in un lampo, ricordandomi all'ultimo istante di prendere le chiavi, per fortuna, altrimenti le cose si sarebbero complicate parecchio - pompieri? sos casa? O albergo? - essendo di per sé già abbastanza ingarbugliate, d'altronde, poiché mi rendo conto d'improvviso, proprio sul pianerottolo dove coltivo la mia pace quotidiana, che non ho ributtato le sigarette nel sacchetto, macché, ho solo dato per scontato di farlo, ma non l'ho fatto, ragion per cui ecco che risalgo le scale piano piano, umiliato, e al tempo stesso sollevato dal fatto che nessuno mi ha visto, nessuno saprà mai di questa mia strepitosa infilata di cazzate. Rientro in casa, torno in cucina, e le sigarette sono qui, sul ripiano di marmo vicino al fornello; cerco di sciogliere il nodo appena fatto ai manici del sacchetto, ma non mi riesce, ci ho messo troppa rabbia, troppa volontà di renderlo inestricabile, sicché devo tagliarlo con le forbici. Prendo il pacchetto - ci sono ancora sei sigarette - e ce lo butto dentro, e lo spingo in profondità, sporcandomi la mano, finché non è definitivamente, irreversibilmente scomparso in quel pantano di avanzi di rosticceria, bottiglie acciaccate e lattine vuote - dato che io non faccio la raccolta differenziata, tanto lo so che alla fine bruciano tutto lo stesso. Mi lavo la mano sporca, l'asciugo, poi afferro il sacchetto per i manici, che ora, tagliati, sono diventati delle specie di lacci, ma troppo corti perché si possa riannodarli. Con calma, stavolta, riprendo le chiavi, esco di casa e m'incammino giù per le scale, attento a non farmi scivolare di mano il sacchetto, per evitare almeno la comica finale, cioè lo spargimento della mia immondizia davanti al portone di qualche inquilino del palazzo. E mentre attacco la penultima rampa, con la mente già al cassonetto, giù in strada, dove depositerò il mio sacchetto col diavolo dentro, sento il cigolio del portone che si apre, passi che attaccano a salire le scale, lo schianto del portone che si richiude. Chi sarà? E con quale sorriso potrò affrontarlo, chiunque sia, mentre scendo a gettare il sacchetto dell'immondizia all'una di notte passata, segno inequivocabile che dentro c'è qualcosa di veramente orrendo? E' Confalone, l'inquilino del primo piano, l'unico con il quale, per un certo tempo, abbia avuto rapporti che si siano spinti più in là del famigerato «buongiorno e buonasera», e cioè fino a qualche cenetta con mogli e bambini sulla nostra terrazza. Questo prima che il suo matrimonio andasse a puttane, per l'appunto, e lui rimanesse solo nell'appartamento del primo piano in cui viveva con la moglie e i due gemelli dell'età di Francesco. Da quel momento i rapporti si sono raffreddati. - Ciao - mi fa. - Ciao. Tiro dritto - che pensi quello che vuole - e raggiungo il portone senza guardarmi indietro. Attraverso il cortile dove Franceschino ha imparato ad andare in bicicletta, esco in strada e - finalmente scarico il mio fardello nel cassonetto puzzolente. Ecco qua: ho fatto il mio maledetto dovere. Ma è un continuo, stanotte, pare proprio che non riesca a liberarmi dalla morsa dell'apprensione: perché ora ho questo Confalone piantato nella testa, hai voglia tirar dritto e far finta di nulla. Alzo gli occhi e intercetto i lampi bluastri della televisione che escono dalla sua finestra: quell'uomo è lì, penso, da solo, sul divano, a far finta di guardare il Maurizio Costanzo Show, sicuramente braccato dal desiderio di accarezzare i suoi gemelli addormentati, e non può farlo. E io ho visto cose che non dovevo vedere, di questo suo disastro, ho pensato cose che non dovevo pensare, detto cose che non dovevo dire e ho saputo cose che non dovevo sapere: per forza i nostri rapporti si sono raffreddati. Sono stato testimone del momento più agghiacciante della sua separazione, un sabato mattina molto presto, mentre uscivo di casa per andare all'aeroporto: ho visto il furgone dei traslochi che si riempiva di casse piene di roba spaventosamente familiare, e ho salutato sua moglie attraverso la porta spalancata, chiedendole, mentre staccava due quadretti dall'ingresso: «Ma che, traslocate?» La domanda è suonata subito oscena, quel tipo di bestialità che si dicono per cercare di chiamarsi fuori da una situazione intollerabilmente dolorosa - tipo «come va?» a un malato terminale -, ma ormai l'avevo fatta; e lei mi ha punito: poteva far finta di non averla sentita, sorridere e lasciare che me ne andassi a mordermi la lingua, e invece ha risposto «solo noi», spietatamente, accennando ai gemelli
che ciondolavano spaesati per il pianerottolo, con gli occhi pieni di vergogna. E poi ho pensato, quel giorno, durante il volo in prima classe per New York - l'unico volo in prima classe di tutta la mia vita -, ho pensato che in realtà la cosa non mi sorprendeva affatto, perché quel Confalone non mi era mai stato molto simpatico, e non lo avrei mai frequentato se non fosse stato per questioni di promiscuità condominiale: ipersportivo, fanatico della moto, dall'aspetto sempre tignosamente curato, e con un lavoro raccoglitore di pubblicità - che lo risucchiava in continui spostamenti per l'Italia, era proprio il tipo, in fondo, che si fa l'amante in azienda e porta avanti fino allo schianto una doppia vita a base di telefonini segreti e finti viaggi di lavoro; mentre la moglie era un'endocrinologa molto in gamba del Policlinico Gemelli, dolce e materna ma anche attraente, in un suo modo paffuto, che amava i Roxy Music e i libri di Graham Greene. E l'ho detto, più tardi: ho sputato queste sentenze al mio editore che viaggiava sull'aereo accanto a me, e poi anche ad Anna, per telefono, appena arrivato in albergo, dopo averla informata da seimila chilometri di distanza di quanto era capitato alla dottoressa del primo piano. Poi, sette giorni dopo, nella saletta vip del jfk in attesa del volo di ritorno per Roma, mentre ero intento a gozzovigliare tra i lussi della prima classe (cocktail, champagne, salmone affumicato), ho saputo: è entrata lei, la moglie, insieme a un uomo molto più anziano, abbronzato, sportivo, che l'abbracciava con disinvoltura parlando a voce troppo alta di una certa palude intorno all'aeroporto di Bombay. Il primario, maledizione, quel mito che credevo logoro, almeno dal punto di vista sessuale, e che invece evidentemente continua a mietere vittime: aveva piantato il marito per il primario. Erano in compagnia di un'altra coppia egualmente assortita (lui maturo e dallo sguardo internazionale, lei giovane e sottomessa), evidentemente di ritorno da un sontuoso congresso su vattelapesca quale disfunzione ghiandolare, finanziato da qualche multinazionale farmaceutica per consolidare i rapporti con i medici più in vista dell'occidente affinché, dopo aver trascorso quattro simpatici giorni full-credit a New York con le loro ganze, continuassero a prescrivere un certo medicinale sul quale erano imperniati tutti i due-punto-due di espansione di mercato e gli otto-punto-sette di incremento di fatturato disposti per i successivi tre anni da un fottuto Consiglio d'Amministrazione. E' stato lì, nel gelido saluto che io e quella donna ci siamo scambiati in quel rifugio di privilegiati all'aeroporto di New York, che si sono irreversibilmente raffreddati anche i miei rapporti con suo marito. E ora che è passato del tempo, e lei può andare in giro abbracciata a quel vecchiaccio anche a Roma, e anzi magari ci vive insieme ed è lui ad accarezzare quando gli pare i gemelli con le sue costose mani coperte di efelidi, io sono semplicemente in attesa di vedere Confalone rientrare a casa con una donna, una sera, una donna qualsiasi, bella o brutta, giovane o vecchia, non farebbe differenza, della quale si possa pensare che c'era da prima, che c'è sempre stata, e che è lei la vera causa di tutto, come Camilla Parker-Bowles: ma lui continua a tornare solo, stanco e solo, e allora io non sono altro che un condomino pettegolo e ottuso, che ha saputo troppo di una faccenda della quale non ha mai saputo nulla, e ha pensato e parlato a sproposito da una sponda all'altra dell'oceano invece di farsi gli affaracci suoi. Sarà dura, il giorno in cui sollevando un citofono mi sentirò definire così; ma se la voce fosse quella di Confalone avrò poco da indignarmi. Ritorno in casa pensando che in fondo è vero, quello che siamo veramente non lo sa nessuno, perché lo nascondiamo, e se non lo nascondiamo apposta lo nascondiamo d'istinto. Una volta una mia amica è rimasta scioccata perché ha saputo all'improvviso, dopo cinque anni di matrimonio, che suo marito era allergico al pollo. D'accordo, una spiegazione c'era, dato che vivevano sopra al ristorante dei genitori di lei e andavano quasi sempre a cena lì, dove lui si limitava a non ordinare pollo, mentre nelle poche occasioni in cui avevano mangiato in casa, fino a quel giorno, semplicemente non era mai capitato che lei cucinasse il pollo; quella volta è capitato, e allora lui le ha detto di essere allergico al pollo. Tecnicamente, questa spiegazione la mia amica l'ha accettata, ma come potevo darle torto quando ha protestato che una cosa del genere, riguardo al proprio marito, una moglie dovrebbe saperla comunque, e se non la sa allora chissà quante altre cose non sa di lui... Poi, non sfuggendole l'aspetto umoristico della faccenda, si è messa a immaginare l'espressione che farà sua figlia, quando porterà in casa il ragazzo che intende sposare e lei gli chiederà di dichiarare subito a quali cibi è allergico o di tacere per sempre; ma intanto, diversamente da prima, ora si ritrova a prestare una certa attenzione a tutto ciò che suo marito non fa, a quello che
non ordina al bar e che non legge prima di addormentarsi: e non è che sia una cosa tanto naturale. Non si sono separati, ad ogni modo, e questo è già molto. Ho deciso, vado a dormire. Chiudo la finestra, mi spoglio e mi butto sul letto senza nemmeno lavarmi; ma non ho sonno, no, perciò è meglio che mi rassegni, perché per oggi non ho ancora finito di tribolare. Resterò inchiodato qui per chissà quanto tempo, lo so, con gli occhi chiusi, alla deriva nel dubbio e nella malinconia. E va bene, che sia. Meglio pensarle da svegli, certe cose, che sognarle da addormentati. In fondo non è stata una giornata negativa: ho ricominciato a scrivere. Ma ho anche ricominciato a fumare. Quel pacchetto di Capri, come mi ha fregato. I fuochi d'artificio. Confalone. Il bestemmiatore misterioso. Quel gabbiano, con che forza mi guardava. Io sono una forza del passato, solo nella tradizione è il mio amore. La trappola perfetta che mi ha teso Bogliasco, la debolezza immensa sulla quale si è accanito: come ho potuto scambiare il giornalista per un cameriere? Come posso ricordare il nome di un attore insulso come Bradley Whitford e non ricordare le maniche della sua camicia? Perché la memoria è così complessa? Perché si prende tutto quello spazio e poi non sa rispondere alle domande più semplici? L'olandese dell'incidente era biondo o bruno? Come frulla le rivoltelle Burt Lancaster in Vera Cruz, all'indietro o in avanti? Quante zampe ha una formica, sei o otto? Su che fianco dorme di solito Franceschino, destro o sinistro? E se io fossi una spia che fa finta di essere uno scrittore per ragazzi, e venissi misteriosamente ucciso questa notte, pffft, col silenziatore, cosa ricorderebbe, Franceschino, di me? Apro gli occhi e li fisso sul soffitto, nel punto in cui da anni dico che vorrei mettere un ventilatore, e perché non lo faccio è un altro mistero. Che ero uno scrittore per ragazzi, ricorderebbe. 15 Balzo a sedere sul letto: le undici meno un quarto. Quella donna. Ho un appuntamento con quella donna. Non posso arrivare in ritardo proprio con lei... Ancora tonto di sonno mi infilo nel bagno. L'acqua fredda disinnesca completamente il sogno che mi stava tormentando - un inserviente entrava nella camera d'albergo dove dormiva Anna, ma non era un inserviente, io sopraggiungevo e lo affrontavo, Anna era incinta, lui era armato... - col risultato di consegnarmi definitivamente alla fretta per il mio appuntamento. Non posso farla aspettare, maledizione, quella donna merita puntualità. Mi guardo allo specchio, e vedo una faccia che non vorrei vedere, vagamente criminale: barba lunga, occhi gonfi, capelli imbizzarriti. Non posso presentarmi così, quella donna merita anche un aspetto curato, un minimo di eleganza. Li merita più ancora della puntualità, se proprio si deve scegliere; ragion per cui mi impongo di piantarla con la fretta e di prepararmi adeguatamente, senza guardare l'orologio. Che ognuno faccia quel che deve. Che la vita continui normalmente... Mentre mi rado ripenso con un senso di vero sollievo alla notte appena passata, per il semplice fatto che è passata. Del resto, si sa come vanno queste cose: si parte male e si finisce peggio, non è umanamente possibile addormentarsi con l'ansia addosso. Ho bevuto e pisciato un'infinità di volte, ogni volta convinto che sarebbe stata l'ultima, ma ogni volta, in realtà, azzerando l'unico meccanismo capace di sconfiggere l'insonnia - il tempo. Il pesante sonno mattutino che alla fine mi ha raccolto non poteva ristorarmi ma solo spingermi verso il danneggiamento della giornata successiva, ed è una fortuna, dico io, che ci sia questo appuntamento al quale arrivare con lieve lieve - ritardo, poiché è più che probabile che il danno sarà tutto lì: considerando l'argomento di cui parleremo, l'incontro con quella donna sarà una specie di punto e a capo, dopo il quale non potrò nemmeno azzardarmi a concepire il cattivo umore. Al contrario, mi caricherà come una molla, sparandomi di nuovo sull'Aurelia verso Viareggio, e a metà pomeriggio sarò già in pineta, con Anna, a veder rimbalzare Franceschino sul tappeto elastico, ringraziando forsennatamente il Principium Individuationis che lo fa essere lui e non un altro, lì e non in una sala di rianimazione. Dopo essermi sbarbato mi vesto, in fretta ma con coscienza, scegliendo uno per uno gli indumenti,
come quasi mai mi capita di fare: camicia pulita, pantaloni chiari di tela, calzini scuri, scarpe da barca, e giacca, sì, anche se probabilmente farà caldo e suderò. In realtà la mia preferita - grigia, in fresco di lana, regalo di mia sorella, che ha gusto -, essendo stata indossata la sera del premio, poi in treno nel ritorno a Roma, poi in macchina durante la fuga a Viareggio, poi domenica scorsa per il viaggio di ritorno, e dopo di allora essendo rimasta appoggiata allo schienale di una sedia, abbandonata alle sue spiegazzature senza nemmeno la carità di una stampella, è decisamente sgualcita: ma continua a essere la mia giacca preferita, anche così, e me la metto lo stesso. Prima di uscire prendo il libro di Carver che regalerò alla donna, le chiavi della Vespa, quelle di casa, spengo con cura tutte le luci, e solo a questo punto, in una ridicola ma comunque significativa per me, in questo momento - dimostrazione d'autodisciplina, mi concedo di guardare l'orologio: le undici meno due. Quanto avrei guadagnato se mi fossi lasciato vincere dalla furia? Quante cose mi sarei scordato o, peggio ancora, come in quel pezzo magistrale di Alice nel paese delle meraviglie, avrei compiuto nell'ordine sbagliato? L'Imperatore del Giappone era un saggio, c'è poco da fare. E scendendo le scale decido che non prenderò nemmeno la Vespa: andrò a piedi, sì, guarderò i cespugli come Marcovaldo, respirerò a pieni polmoni l'aria di Roma anche se c'è lo smog, e arriverò giù al baretto del parco con un, per l'appunto, lieve ritardo. In strada la luce è accecante: nel granuloso scintillìo che mi abbaglia distinguo un gran crocchio di persone davanti al portone del palazzo vicino al mio, e un'ambulanza sull'altro lato della strada, con gli sportelli spalancati e i lampeggianti in funzione. Poco più indietro, dentro una volante della polizia, un agente parla alla radio. L'altro agente ha il suo daffare per tenere sgombra l'uscita del palazzo. In questa folla c'è praticamente tutto il vicinato: negozianti, portinaie, bambini, vecchi, passanti, il vetraio, il tabaccaio, il tappezziere, tutti raccolti a semicerchio attorno al portone spalancato. Qualcuno, vedendomi, mi saluta, ed è semplicemente impensabile, mi accorgo, che io me ne vada per i fatti miei senza fermarmi a dare un'occhiata: «Vieni,» è come se stessero dicendo, «qui c'è qualcosa che riguarda la nostra comunità, che riguarda anche te...» In realtà dicono altre cose. Dicono: - Pora donna... Dicono; - E' la croce sua... Dicono: - Nun ce l'ha fatta più... Dal portone sbuca una donna che piange. E' Anita, l'infermiera del San Camillo, una donna energica e taciturna che viene sempre a casa nostra a farci le iniezioni, della cui supremazia sulle assunzioni orali il nostro medico è un accanito sostenitore. Cammina all'indietro e piange, con lo sguardo rivolto verso l'ingresso del palazzo e con le mani a coprire la bocca. - Mica l'ha chiamati lei... - No? - No, è stato Don Furio... Esce la barella, spinta da due nodosi portantini che faticano a farsi largo tra la gente. Sulla barella, legato con le cinghie come Hannibal the Cannibal, c'è il figlio di Anita - Italo, se non sbaglio - un ragazzone con gli occhi azzurri e le guance a pentola, che quando arrivai in questo quartiere, dieci anni fa, era un promettente centrocampista delle giovanili della Roma. Palleggiava per serate intere contro il muro del suo palazzo, d'estate, e certe volte io stavo a guardarlo dalla finestra. Aveva classe. - Don Furio? Ma si j'aveva pure trovato er posto in comunità... - Aho, ereno cinque giorni che je tempestava er vespro de bestemmie... Dunque era lui che bestemmiava. Non è ferito, e nemmeno svenuto: tiene ferma la testa e ruota lentamente gli occhi, per guardare lo spettacolo della gente che lo guarda, ma l'impressione è che potrebbe fare molto più di questo, se volesse. Non sembra sopraffatto, ecco, nonostante le cinghie. Rimango colpito dall'assoluta assenza di languore nel suo sguardo, o di vergogna, o di sofferenza: vi sopravvive al contrario una spavalderia minatoria, come se il ricorso alla forza calda e mistica della bestemmia l'avesse condotto esattamente dove lui desiderava, e tutto stesse procedendo secondo i suoi piani. Ed è curioso quanto anche la riservatezza possa portare fuori strada. Quando sua madre veniva a
farci le iniezioni - di Bentelan per il mio mal di schiena, di Buscopan per i dolori mestruali di Anna, di Cortigen B 6 e di Epargriseovit per Franceschino, a cinquemila lire l'una - io pensavo sempre a questo ragazzo dai piedi buoni, ma lei era così taciturna che non le ho mai chiesto sue notizie, e tutto quel non domandare ha lasciato crescere nella mia testa una selvatica divinazione del suo destino, alla quale ho finito per credere sul serio. Parlava, questo destino, il dialetto sporco di una qualche cittadina del centro Italia - Teramo, Viterbo, Chieti -, dove immaginavo che il ragazzo si fosse arenato durante una polverosa gavetta nelle serie minori: una moglie indigena conosciuta in discoteca, un robusto pupetto dentro al passeggino, la fascia di capitano attorno al braccio, e quei campi sempre troppo terrosi sotto le scarpette, pieni di buche, sui quali è impossibile dar spettacolo... Immaginavo uno che non ce l'aveva fatta, ecco, con rimpianti e tutto, ma solo perché a un certo punto della sua vita ci si erano messi in parecchi a farlo esagerare coi sogni; in realtà immaginavo una vita tranquilla, come tante, forse anche migliore di tante. Invece eccolo qui, accalappiato e portato via come un cane rognoso sotto gli occhi di tutto il quartiere: sarebbe bastato chiedere una sola volta sue notizie ad Anita, dopo una puntura, e dal modo in cui lei avrebbe scosso il capo, con la siringa in mano - per l'appunto -, avrei capito che il suo destino aveva preso una piega molto diversa. Perché questa ha proprio l'aria di essere una faccenda che va avanti da un bel pezzo, e che naturalmente non finirà qui. Ed ecco spiegata, forse, la spavalderia che ancora galoppa negli occhi del ragazzo: lui sa benissimo che questa non è la fine; sa che la fine sarà molto peggio, molto più squallida e dura, e disperata, e senza testimoni, come piace a lui... D'improvviso si è fatto un gran silenzio. Prima di sparire nella pancia buia dell'ambulanza il ragazzo sciabola all'intorno un'ultima occhiata giroscopica. Potrebbe lanciare anche un'ultima bestemmia d'addio, un ultimo selvaggio barrito all'indirizzo di quel prete, se davvero è stato lui a farlo portar via: ma si lascia ingoiare senza dir nulla, zitto zitto. La madre sparisce dietro di lui, ma dopo un secondo fa capolino dal portello aperto, con uno sgomento supplementare negli occhi. - La borsa! - grida. La portinaia del palazzo sparisce nell'atrio e subito ne esce con una borsa della Q8, di gomma, di quelle che danno in omaggio al cambio dell'olio. La donna la prende, ringrazia sorridendo la portinaia, sollevata, e l'importanza improvvisamente conferita a questa borsa mi tocca nel profondo, sì, mi commuove: riempita in fretta e furia di oggetti ostinatamente comuni mentre i portantini legavano il ragazzo alla barella - pigiami, ciabattine, calzini, spazzolino, dentifricio, rasoi... -, di colpo diventa l'ultima roccaforte della speranza che questa madre ha ancora il diritto di nutrire in una fine diversa da quella che ha in mente il figlio. Col suo contenuto neutro, qualsiasi, non è stata dimenticata accanto all'ascensore, sul pavimento dell'atrio, dove sarebbe diventata il dettaglio più autenticamente tragico di questa mesta mattinata (oh, l'inguardabile tristezza dei bagagli abbandonati negli aeroporti, che continuano a girare sui nastri trasportatori dopo che i loro proprietari sono stati arrestati, o sono stati colpiti da infarto, o si sono suicidati): al contrario, è dove deve essere, tra le sue mani vigili, vicino al suo ragazzo in contenzione, e sarà sua cura farcela rimanere costantemente, attraverso cambi di reparto e trattamento, pronta ad esplodere la propria potente carica di normalità nel momento in cui, superati i momenti più difficili, lui sentisse affiorare il desiderio di fare toeletta... Slam! Si chiudono gli sportelli. L'ambulanza parte, piano, fendendo la folla che si apre a fatica, e scivola via silenziosamente, forse proprio verso il San Camillo dove la madre ha da poco finito il proprio turno, o tra poco deve cominciarlo: niente sirena, solo i lampeggianti che girano, per dire alla gente, appena svoltato l'angolo, a tutta la gente ignara che la vedrà passare nel traffico del mattino, che non si tratta di cosa grave, dopotutto, e non c'è bisogno di farsi il segno della croce. I poliziotti si attardano a scrivere su un foglio, poi montano in macchina e partono anche loro. Guardo l'orologio: le undici e dieci. Ora sono veramente in ritardo: non posso più andare a piedi, ci metterei dieci minuti, dieci più dieci venti, e non sarebbe più un ritardo lieve. Devo prendere per forza la Vespa: eccola qui, provata dagli anni e spogliata degli sportellini (mi sono sempre chiesto perché li rubino), incatenata al cartello di senso unico, imbrattata dalla sabbia che è piovuta l'altra settimana - vento dal Sahara, hanno detto. Mentre la folla si disperde in piccoli gruppi, ciascuno avvolto in una nuvoletta di commenti, compio
in apnea tutte le operazioni necessarie per partire. Non è così semplice: devo togliere catena e controcatena, aprire il portapacchi, prendere lo straccio per pulirmi le mani (le catene sono molto sporche), prendere il casco, mettere le catene nel portapacchi, pulirmi di nuovo le mani, poggiare lo straccio sulle catene, metterci sopra il libro di Carver, richiudere il portapacchi, infilare il casco, aprire la benzina... e tirare l'aria, già, perché d'un tratto mi ricordo che la Vespa è ingolfata, accidenti - e questa è la ragione per cui è ferma da un po', e andrebbe portata dal meccanico. Provo lo stesso a metterla in moto, uno, due, tre, quattro tentativi con tutto il mio peso scaricato sulla pedivella storta (non ho mai capito nemmeno perché storcano le pedivelle della messa in moto), finché, al quinto, mi arriva il vecchio e stramaledetto contraccolpo sul piede. E' un dolore antico, quello che mi trafigge, familiare, che sa di adolescenza: tornavo a Roma dopo interi trimestri passati in collegio a Trieste, Firenze, Napoli - e la mia Vespa era ingolfata, e non entrava in moto, e puntualmente, prima di rassegnarmi a spingere, provavo e riprovavo sulla pedivella come un forsennato, finché arrivava il contraccolpo a farmi vedere le stelle. E' una delle cose della mia vita di allora da cui non sono riuscito a distanziarmi, e infatti è vana, e fa male. Comincio a spingere. In molti mi guardano mentre arranco per la piazzetta sotto il sole impietoso: prendo un po' di velocità, poi salto in sella ingranando la seconda - niente -, quindi il disperato tentativo di sfruttare l'abbrivio ingranando la prima: niente. Insisto, m'incaponisco, ripeto questa inutile manovra tre, quattro volte, col risultato di ritrovarmi al punto di partenza, boccheggiante, zuppo di sudore e ancor più in ritardo. E mi accorgo di non aver nemmeno chiuso l'aria, prima di cominciare a spingere, per cui la Vespa dev'essersi ingolfata ancora di più. Mi rimane un'unica possibilità. Trascinarmi fino a una discesa molto ripida che c'è qua vicino, e lanciarmi in un estremo tentativo giù per quella picchiata, con la complicazione però che si tratta di lanciarsi contromano, giacché la strada è a senso unico in salita. E' pericoloso, non dovrei farlo, ma non ho alternative, il tempo passa e quella donna sta aspettando me, e allora lo faccio: eccomi arrivato all'inizio della discesa, ecco che lascio passare un furgone che sale sbuffando (mozzarelle Francia), e postulo, sì, ridiventando di colpo un sedicenne illuso e scellerato, che per i prossimi trenta secondi nessuno verrà su per la salita. Ecco che mi butto, sì, e la Vespa prende subito velocità, perché la discesa è proprio ripida, e dritta, e ingrano la terza, poi la seconda, e sono già quasi a metà della picchiata ma la Vespa non entra in moto, e, nonostante il freno motore, va ancora troppo forte perché io possa ingranare la prima, e l'innesto sul viale Marco Polo è sempre più vicino, e se qualcuno imboccasse ora la salita per me si metterebbe male, ma non la imbocca nessuno, per fortuna, e comunque tra qualche istante mi fermerò perché la discesa sta per finire - finché, nell'ultimo secondo utile, passato il quale sarei diventato uno con la Vespa in panne lungo un viale a scorrimento veloce, la Vespa entra in moto. Uno sbuffo bianco espelle l'aria che ingolfava il carburatore, il motore parte, accelera, e io devo subito frenare per non ritrovarmi sparato in mezzo al viale dove le macchine sfrecciano a settanta all'ora, ma contemporaneamente devo tenere il motore su di giri, perché non si rispenga, smanettando con gas, freno e frizione come un fanatico, e il retrotreno accenna una sbandata, e io riesco a controllarla, e la marmitta continua a sputare la sua pestilenza bianca, e io freno più a fondo, progressivamente per non sbandare di nuovo, e mi fermo preciso all'imbocco del viale, sano, salvo e con la Vespa in moto. E' fatta. Ora posso mettere la folle e sgassare a piacimento per spurgare il motore, ed è difficile spiegare il piacere che questo semplice fatto riesce a procurarmi. Solo adesso una macchina svolta e imbocca la salita: è una Uno bianca della Scuola Guida, nientemeno apparizione frequente, del resto, su per questa pettata prediletta dagli esaminatori per la prova di partenza in salita. L'allieva è una ragazza molto bassa che se ne sta aggrappata al volante come un naufrago al relitto. Sembra decisamente spaventata dal cimento che l'attende, ma il suo spavento è nulla rispetto a quello che avrebbe provato se avesse attaccato la salita quindici secondi fa - un pazzo che le piomba addosso contromano -, e non lo saprà mai. Imbocco viale Marco Polo, e il venticello dei quaranta all'ora mi accarezza le carni sudate. Questo sollievo antico, popolare, profondamente italiano, è l'esatto reciproco del contraccolpo al piede di poco fa, ne rappresenta il premio. Vista attraverso questa carezza, col serbatoio pieno, il sole, e tutta una metropoli a disposizione, anche la mia adolescenza non è più tanto male.
Dopotutto me ne ha dati tanti, di momenti come questo. E visto che ho cominciato a dimenticare le cose, facciamo che tra dieci secondi dimenticherò la nottataccia che ho passato - zot -, il losco risveglio, la cattura di quel ragazzo, il contraccolpo. Facciamo che la mia giornata, oggi, comincia qui, da questo vento in faccia, da questo improvviso buonumore... 16 - Oh, salve. La donna mi tende la mano, e la sua bellezza mi mozza il fiato. Non la ricordavo affatto - anzi, ora che ci penso, non ricordavo assolutamente nulla di lei, quasi non fosse fatta di carne ma esistesse soltanto intorno alla sua disgrazia. Ma qui, fuori dalla mia stanca inaffidabile memoria, nella bruta oggettività delle undici e un quarto di mattina, la sua bellezza appare secca e perentoria, chiassosa, sfacciata, messicana, e, mi accorgo, come accelerata da una stupefacente somiglianza aggregata Florinda Bolkan/Tony Musante che la rende assolutamente irreale. Proprio così, somiglia a tutt'e due, in un'ardita crasi somatica che pare ottenuta, dopo centinaia di risultati mostruosi, da un Dottor Frankenstein ossessionato da Anonimo Veneziano. L'abito leggero che indossa percorre una splendida abbondanza di forme, materna ma ben poco cedevole, rivestita da una pelle bruna e luminosa che fa pensare agli interni delle automobili di lusso. La mano che stringo è grande, morbida, curata, e adorna di anelli scintillanti. Il nero dei capelli è lustro come il manto di un gatto, il neo che ha sullo zigomo sembra messo lì da una ferrea equazione matematica, e al centro del suo volto fiammeggia una bocca grande e rossa come un tramonto. - Scusi il ritardo - dico. Odora di fumo, ma anche di mare, nello stesso fantastico modo degli empori della Versilia di quando ero bambino, dove mia madre comprava le creme e io le palline con i ciclisti. Un profumo che non avevo più sentito, perché ora quegli empori sanno solo di plastica. - Oh, si figuri - i suoi denti brillano - ero in buona compagnia... Accenna col mento al cremolato già quasi finito, nel bicchiere sul tavolino. Tra ordinare, aspettarlo e mangiarlo dev'essere passato per l'appunto un quarto d'ora. - Sa che qui fanno il cremolato migliore di tutta Roma? - dico. - Ah sì? In effetti è buonissimo. E' buono, sì. Solo che io ci ho messo degli anni, per scoprirlo, e abito a due passi. Lei, invece, viene a Roma una mattina, le danno appuntamento in questo posto, e lo scopre subito. - Non so lei - aggiunge - ma io sono golosa. Tutte le merende che lei suggerisce nei suoi libri le preparo a Matteo, ma le mangio anch'io. Parla al presente, tipico. - Sono le merende di quando ero bambina. Ricotta col cacao; pane burro e zucchero; Nutella con le pere. E sa una cosa? Le avevo dimenticate. Se non era per lei, credo che non le avrei mangiate mai più. Oggi i bambini chiedono solo le merendine confezionate... Mangia una cucchiaiata del suo cremolato - l'ultima, direi - e mentre inghiotte chiude gli occhi, come una bimba. Arriva il cameriere, e io ordino un caffè. - D'altra parte - riprende - nei suoi libri è tutto così. Per questo mi piacciono. Lei racconta storie ai bambini di oggi, ma si riferisce all'infanzia dei loro genitori, alla sua, alla nostra. E' vero o no? - E' vero. - Ai nostri bambini lei racconta come siamo noi adulti quando sogniamo. Perché ormai, quando sogniamo, non facciamo altro che ricordare. Raccoglie con cura i resti del cremolato nel bicchiere, riuscendo a inventarsene un'ultima cucchiaiata, che manda giù con grazia, ma senza più chiudere gli occhi. - Sì, lei è un gran bravo scrittore per bambini - continua - perché secondo me lei non scrive, lei traduce. Lei va a pescare dove i bambini non mettono il naso, e traduce nella loro lingua le cose belle che non li riguardano. La nostra memoria, il cinema, Leopardi, la musica rock... Non è così?
Sono colpito. Una donna bellissima col figlio in coma mi fa i complimenti per i miei libri e nello stesso momento mostra di averne scoperto il trucco: un trucco da quattro soldi, che era lì, sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno aveva notato. Perché è vero, io non ho mai inventato nulla, ho solo scopiazzato, ho solo riciclato tutto ciò che mi è piaciuto nella vita. Il rock, Shakespeare, Beckett, i film americani, la psichedelia, Leopardi - per l'appunto -, perfino Pasolini, sono miniere inesauribili per scrivere libri per bambini: anche se lei dice che li traduco, in realtà io li saccheggio. I bambini non se ne possono accorgere, ma io ho scommesso sul fatto che non se ne sarebbero accorti nemmeno gli editori, i recensori, i lettori adulti, e così è stato. Viviamo o no in una società superficiale? Una volta una rivista cattolica mi ha dato un premio per la miglior battuta dell'anno in un libro per l'infanzia: Il diavolo trova lavoro per le mani pigre. E io l'ho preso, cosa dovevo fare? Mica potevo stargli a spiegare che l'aveva scritta il vecchio Morrissey - Dio lo protegga - e che era un verso di una canzone degli Smiths, riportato pari pari nelle Avventure di Pizzano Pizza. Poi arriva questa donna, e per lei, invece, è tutto chiaro. - In effetti sì - ammetto - anche se a sentirselo dire suona un po' come un'accusa di plagio. - Oh no... - Arrossisce: è una di quelle donne che arrossiscono Il mio era un complimento, non mi permetterei mai... - Ad ogni modo - cerco di fare un bel sorriso, chissà come mi viene - finora non se n'era mai accorto nessuno. Non che io sappia, almeno. Perciò, basta che lei non lo scriva, e io potrò continuare a... - Oh - m'interrompe - ma io l'ho scritto... Apre la borsetta poggiata sulla sedia accanto a lei, e ne cava un fascio di fogli, che mi porge. - Ecco qua. E' una sciocchezza, naturalmente, solo che... Solo che prima che la borsa si richiuda mi par di vederci dentro daccapo - una pistola. - ...insegnante elementare - sta dicendo - e alla nostra scuola facciamo questo giornalino, alunni e insegnanti insieme. Io scrivo le recensioni dei libri, e ci tenevo a... Ma che diavolo succede? E' una pistola, l'ho vista benissimo. Non è normale che si trovi lì dentro. O lo è? Da quando in qua la gente va in giro armata? - ...anche se, come vedrà, ho decisamente copiato il suo stile. E questo sì che è plagio... Arriva il cameriere con il mio caffè, e io lo bevo a piccoli sorsi mentre fingo - fingo - di leggere il giornalino: in realtà cerco solo di farmi una ragione di quella pistola, di farla combinare con questa donna sorprendente, che somiglia a una coppia di attori, e mi smaschera sul giornalino della scuola, e comincia le frasi con un sospiro; e il risultato, di per sé già abbastanza incongruo - mai sospettato che esistessero donne così - di farlo combinare con la ragione del nostro incontro, che non è, maledizione, il segreto della mia cucina letteraria... Alzo lo sguardo dai fogli mentre lei apre di nuovo la borsetta. La pistola è sempre lì, ed è sempre una pistola. Piccola, argentata non può essere un giocattolo. - Fuma? - mi fa. Tra le sue mani inanellate è fiorito un pacchetto di Marlboro Lights, e un accendino d'oro. - No, grazie - rispondo - Ho smesso. - Oh, allora è meglio se non le fumo sotto il naso... - Ci sono abituato. - Davvero? Da quant'è che ha smesso? - Nove mesi. - Oh, allora è fatta. Sicuro che non le dà fastidio? - Sicuro. Mi guarda intensamente, come intendesse sbarazzarsi, prima di concedermi la sua ammirazione anche per questo, del sospetto che magari dieci ore fa fossi lì a frugare nella spazzatura alla ricerca di una Capri Superlight. Poi accende la sigaretta, e aspira una lunga boccata con quelle sue labbra bellissime. - Avevo smesso anch'io - dice - dieci anni fa, quando ero incinta di Matteo. Ho ricominciato da poco, dopo l'incidente... E ora si fa dura. Come ha fatto a entrare in argomento così fulmineamente? Continua a guardarmi
dritto in faccia, con uno sguardo che già prima era difficile da sostenere e che adesso addirittura mi perfora. Abbasso gli occhi. Perché mi guarda così? Che posso dirle? E se poi, parlando, sputassi come l'altra sera? Posso cavarmela dandole semplicemente il libro di Carver? E, soprattutto, sono ancora convinto di darglielo, visto che mi ha inchiodato e io ho copiato parecchio anche da Carver? - Cos'ha fatto al viso? - mi chiede. Istintivamente porto la mano sulla guancia, e lei scuote la testa, sorridendo, per indicare che ho toccato il punto sbagliato. Poi, anticipandomi, allunga lei la mano sull'altra mia guancia, e scivola con i polpastrelli fino alla mascella, in una casta, vellutata carezza in punta di dita - esattamente quella che dev'essere bellissimo fare a lei, partendo dal suo neo. Poi mi mostra i polpastrelli, e sono macchiati di sangue. - Si è tagliato mentre si faceva la barba... - Non me n'ero accorto - dico. - Eh sì... Immerge il tovagliolo di carta nel bicchiere d'acqua accanto a quello del cremolato, e poi mi pulisce con delicatezza la guancia. - Frizza? - Un po'. Dunque per tutto questo tempo ho avuto il viso insanguinato. Ecco perché mi fissava in quel modo. Dunque ce l'avevo insanguinato anche sotto casa, in mezzo a tutta quella gente, mentre portavano via il figlio di Anita. - Oh, non è niente - dice, come fossi suo figlio - Solo una raschiatina... Conclude l'operazione lasciando appeso alla mia guancia il tovagliolo bagnato, e sorride, visibilmente divertita dal fatto che rimanga su da solo. Anche ad Anna fanno ridere le cose che rimangono attaccate alle cose. - Grazie - dico, e stacco il tovagliolo dalla guancia. Lo guardo: così annacquato, il sangue sembra bitter analcolico. Lei riprende la sigaretta che aveva lasciato nel portacenere - nel quale, mi accorgo, ci sono altri due mozziconi spenti -, tira una boccata e poi d'un tratto si rabbuia, come attraversata da un improvviso nuvolone. - Senta - dice - io credo di non averla ringraziata abbastanza, l'altra sera. La sua generosità mi ha completamente sopraffatta e non sono riuscita a esprimerle tutta la mia... Per un attimo la sua voce s'incrina, e sembra che da quella crepa debba straripare un pianto dirotto. Ma ormai dev'essersi abituata a non scoppiare a piangere, e le basta un nonnulla per recuperare il pieno controllo di sé. Nella fattispecie, tirare un'altra boccata di Marlboro Lights. - Soprattutto - riprende - volevo spiegarle perché ho accettato i suoi soldi, e cosa ne farò. - Non erano miei - faccio. - Oh, erano suoi eccome. E se li ho accettati, è solo perché... S'interrompe di nuovo, e con uno scatto che mi mette paura bagna un secondo tovagliolo e lo poggia sulla mia guancia. - Sanguina ancora - dice - Forse è meglio se ce lo tiene per un po'... Di nuovo lo lascia, e quello resta su da solo, e lei sorride. Io però lo reggo con la mano: meno ridicolo. Ancora una boccata di fumo, lenta, rotonda. - Vede - riprende - la clinica austriaca dove ho deciso di portare Matteo è l'unica possibilità che esiste in Europa per curarlo: ho appena incontrato il professore che l'ha fondata, e lui è il solo specialista che non mi abbia detto «zero possibilità». Ha detto «poche», ma ha detto anche che nella sua Casa dei Risvegli, così si chiama la clinica, la parola «rassegnazione» non esiste: non esistono beghe politiche, nessuno ti sta addosso in attesa che si liberi la sala di rianimazione occupata da tuo figlio, o nella speranza che tu acconsenta all'espianto degli organi per salvare qualche altra vita... Tira l'ultima boccata dalla sigaretta, con una furia che mi fa improvvisamente ricordare Visintin, un compagno di collegio che chiedeva sempre di fare una tirata dalle sigarette degli altri, e le restituiva incandescenti, da tanto le succhiava. Poi la spegne nel portacenere, in un colpo solo.
- Ma io non voglio salvare la vita di un altro - dice - Voglio salvare la vita di mio figlio. E in quella clinica potrò cercare di farlo senza sentirmi in colpa. Meccanicamente, le sue mani estraggono un'altra sigaretta dal pacchetto, gliela portano alla bocca, l'accendono. A quel corso che ho fatto insegnavano come fronteggiare alcune situazioni di forte stress che potrebbero spingere una persona a ricominciare a fumare perdita del lavoro, trasloco, separazioni coniugali ecc. - ma non si erano nemmeno sognati di prendere in considerazione l'eventualità di un figlio in coma. - Solo che è molto costosa - continua - e non si sa quanto dovrà restarci. Per questo ho accettato i suoi soldi: per Matteo potrebbero significare dieci giorni di cura in più, e in quei dieci giorni potrebbe risvegliarsi. Li metterò da parte, in banca, e, quando avrò finito gli altri, li spenderò, e tutto il tempo che Matteo sopravviverà da quel momento in avanti, e tutto ciò che succederà durante quel tempo, saranno un regalo del suo amico Pizzano Pizza... Di nuovo, la sua voce si screpola; di nuovo una tirata di sigaretta la ripara all'istante. - Se invece - riprende -, disgraziatamente, non dovessero servire, glieli restituirò. Tace di colpo, e subito riaffiora intorno a noi il rumoroso silenzio romano. Anche qui, che posso dire? Mi vengono in mente soltanto domande: perché non cita mai suo marito, visto che porta la fede? Perché tiene una pistola nella borsetta? Perché alla premiazione si è rivolta così accoratamente alle autorità locali, se aveva già deciso di trasferire il bambino in quella clinica austriaca? E se non l'aveva ancora deciso - come io cre do -, se questa faccenda della clinica austriaca è sopraggiunta dopo quella sua sortita, forse addirittura in conseguenza di essa, tant'è vero che il luminare lo ha incontrato solo poco fa, allora perché mai mentire, adesso, illogicamente, sulla ragione per cui ha accettato i soldi, a me che non le avevo chiesto nulla? Ma, d'altra parte, quanto può ancora contare la logica, per una persona colpita da una disgrazia così formidabile? Guardo di nuovo il tovagliolo bagnato che tenevo sulla guancia, e di sangue/bitter non ce n'è quasi più. Lei si ravvia i capelli, fuma, abbassa gli occhi, poi apre per la terza volta la borsetta - c'è dentro una pistola, per la terza volta - tira fuori il portafogli, apre anche quello e fa il gesto di estrarne del denaro, così da regalarmi una provvidenziale via di fuga per dire qualcosa, visto che questo silenzio non lo avrei sopportato un secondo di più. - No, no, lasci fare a me - dico. Prendo i due scontrini fradici infilati sotto i bicchieri dell'acqua, e contemporaneamente metto mano al portafogli, cercando di dare naturalezza al mio gesto, e però anche perentorietà, come fosse un'iniziativa inappellabile dell'uomo galante e risoluto che non sarò mai. Lei non obietta, però noto che è rimasta immensamente sorpresa - a bocca aperta, addirittura -, e mi guarda con occhi vacui, stavolta, privi di espressione, come non capisse, come non sapesse che sugli scontrini c'è scritto l'importo delle nostre consumazioni, e qualcuno deve pagarlo, ed è con quei soldi che il gestore si guadagna da vivere. D'improvviso è come se non sapesse più nulla del mondo, e in questo sguardo morto la sua bellezza scompare di colpo, strappata da una qualche fenomenale folata interiore ai suoi lineamenti rimasti d'un tratto spaventosamente spogli. Niente più Florinda Bolkan, niente più Tony Musante; niente di niente: per un lungo terribile momento che paralizza anche me sembra davvero aver raggiunto suo figlio nel gelido interstizio che lo tiene prigioniero. - Il conto - farfuglio, mostrando gli scontrini. - Oh - si scuote - Grazie... - come realizzando soltanto adesso. E va bene, penso, tutto questo è molto strano, strano almeno quanto la pistola nella borsetta, ma ancora una volta si tratta di una donna vicina al limite di rottura, ed è già tanto se non è completamente fuori di testa, ragion per cui non c'è da aspettarsi di capire tutto quello che fa. Solo che mentre io prendo il denaro, e lo sistemo sul tavolo sotto il bicchiere, sempre sforzandomi di apparire naturale, perentorio eccetera, lei continua a frugare nel suo portafogli. Perché? - Io però devo chiederle un'ultima cosa - dice, e arrossisce di nuovo. Arrossisce molto più di prima, in verità: credo di non avere mai visto una persona arrossire tanto. Perché? - Mi dica - faccio, e di nuovo mi sforzo di sorridere, ma stavolta proprio non ci riesco, perché dal portafogli lei ha estratto un assegno, un assegno già compilato che, maledizione, non è un assegno
qualsiasi... - Davvero, mi dispiace disturbarla ma... ...è l'assegno, sì, e lo è talmente che lo riconosco subito, non c'è alcun dubbio, anche se in realtà io non l'ho mai visto, dato che quando l'ho avuto in mano era dentro una busta... - Bisognerebbe che me lo girasse. Oh, no, no. Oh, Targhetta dell'enpi, Dea dell'Imbarazzo, cui tutti rivolgiamo l'occhio dentro gli ascensori per non guardare l'orco che ci sta addosso, per nemmeno incrociare una volta il suo sguardo ossidrico di estraneo, e a furia di consultarti abbiamo imparato a memoria l'orazione che Ti accompagna (Stigler Otis / Capienza Massima 4 Persone / Portata Massima Kg 360 / Categoria A / Vietato l'Uso ai Minori di Anni 12 Non Accompagnati...), salvami Tu, manda un Tuo angelo, qui, presto, al quale il mio sguardo possa incatenarsi, affinché io riesca a sostenere questo momento insostenibile... La tazzina, sì. Questo logo, Morganti il Caffè d'autore, da fissare a più non posso, scrutare, analizzare: marrone, bordato d'oro, realizzato con grafica sciatta e velleitaria e un gusto talmente effimero che deve essere passato di moda prima ancora che il bozzetto venisse completato, con tanto di disegnino che vorrebbe rappresentare la sagoma di un haitiano, presumo, o un'haitiana, o comunque un indigeno caraibico in gonnellino di banane (o si tratta di un indigeno africano? E in questo caso, che c'entrerebbe col caffè?), seduto però in una posa tipicamente indiana, ahimè, da Dea Kalì, col disastroso risultato che... Ma niente, l'assegno striscia fin lì dove il mio sguardo si è inchiodato, seguito da una Parker d'oro, probabile regalo di compleanno, di quando ancora i compleanni questa donna li festeggiava; e io lo guardo, non posso non guardarlo; mi faccio forza, impugno la penna e guardo questo inguardabile rettangolo di carta filigranata (Banca del Fucino), con tutta la sua prosopopea di zeri e la sottostante, ridondante e insultante traslitterazione di sicurezza (Quindicimilioni#, dove il cancelletto ha la funzione di impedire che l'intestatario Gianni Orzan, dopo aver trovato una penna dello stesso tipo e colore, dopo essersi esercitato a imitare la calligrafia che lo ha compilato e dopo avere agevolmente trasformato in 9 gli 0 della cifra in numeri, vi aggiungesse con la propria premiata mano di scrittore un simpatico novecentonovantanovemilanovecentonovantanove); spiegazzato, smangiucchiato agli angoli, stremato dai sei lunghi giorni trascorsi in compagnia di luride banconote di piccolo taglio, tessere scadute e ricevute spiegazzate che lo prendevano per il culo («Non vali una minchia, quel cazzone non ti ha girato...»), sembra uno di quei miracolati che vengono estratti ancora vivi dalle macerie a una settimana dal terremoto, ma diversamente da loro non tace, scemo di luce e d'incredulità, bensì protesta, furioso, con le sue ultime forze agonizzanti. «Voi,» sbraita, «miserabili dilettanti della solidarietà, che fate e non sapete fare, che date e non girate, e costringete la madre di un bambino in coma a prendere appuntamenti, treni, taxi, cremolati al caffè, e ad affrontare situazioni agghiaccianti, agghiaccianti, per rimediare alla vostra merdosa superficialità! Io vi maledico, cani!» Eppure, pur così ridotto, per placarsi gli basta una semplice firma, e amici come prima. Ecco fatto. Ecco che il mortificato, illeggibile frego cui io attribuisco il significato di «Gianni Orzan», e che umilmente gli appongo sulla groppa, è sufficiente a rianimare questo incredibile pezzo di carta, che prima di cadere in disgrazia era stato un Premio e poi, seppur per pochi secondi, catamarano da spiaggia, viaggio a Disneyland e/o soppalco di cameretta, e lo trasforma di nuovo, questa volta definitivamente, in dieci giorni di vita vegetale di un bambino. (E, giusto per inciso, come può non dominare il mondo una civiltà nella quale è possibile questo?) «Senza rancore, ragazzo,» mi dice, prima di ritornare nel portafogli dal quale è venuto - dove saranno cazzi amari, ora, per la minutaglia che lo aveva deriso. - Grazie - dice la voce della donna. Morganti il Caffè d'autore. E ora? Devo sollevare lo sguardo, per forza. Ma sono in grado di farlo? Adesso so che nei grandi occhi neri di questa donna è stato scritto fin dal primo momento «Gli assegni bisogna girarli, cazzo, prima di darli alla gente»: come potrò guardarli ancora? Maledizione, perché non mi ha preso da una parte qualcuno, dopo il mio bel gesto il sindaco uscente, quello entrante, la giornalista - per
dirmi che l'assegno andava girato? Perché questa donna non ha falsificato la mia firma, piuttosto che prendere un treno e venire fin qui ad affrontare una scena tanto penosa? Non soffriva forse abbastanza? Arriva il cameriere, prende i soldi, e mentre mi fa il resto io mi arrampico con gli occhi su per la sua smilza figura, fino al volto: divisa leggermente sporca, orecchino, capelli a spazzola, pizzetto, deve avere vent'anni, sì, e deve anche avere un gatto, dato il dorso delle mani striato di graffi. Strappa gli scontrini, infila il resto sotto il bicchiere, ringrazia e se ne va verso il baracchino con passo leggero, sinuoso: dev'essere omosessuale. E quanta invidia, ora, per i pensieri semplici che deve avere in testa - amore, soldi, voglia di divertirsi... - Le posso lasciare il mio numero? - dice la donna, ancora fuori campo - Sarei felice se lei mi chiamasse, qualche volta... E infine lo faccio, mi volto verso di lei, vada come vada. Per fortuna non mi sta guardando: ha estratto un telefono cellulare dalla borsetta - c'è tutto, lì dentro, è la valigia di Eta Beta -, ed è presa a smanettarci sopra, con la testa china e gli occhi assorti sulla tastiera. - Scusi - dice - ma l'ho preso da poco, e il numero non me lo ricordo... Bip, bip, bip, spinge tasti, scuote il capo... - Ah, ecco... Ecco che solleva gli occhi, e la bellezza, passato quel momento raggelante, le è tornata addosso, scortata dai due eroi di Anonimo Veneziano. - Ha da scrivere? Infilo la mano nel taschino, e l'agendina non c'è. C'è una Bic senza tappino, ma l'agendina no - e infatti l'ho tolta dalla giacca l'altra sera, certo, per leggere la frase dell'Imperatore del Giappone che ci avevo annotato, e l'ho appoggiata sulla scrivania, lo ricordo benissimo, senza più rimetterla al suo posto. - Un momento... - bofonchio. Dunque, il numero di questa donna: dove lo scrivo? Non le telefonerò mai, non dopo ciò che è capitato con quell'assegno; e neanche lei, sono sicuro, si aspetta che lo faccia veramente - però dovrò pur scriverlo, visto che me lo vuole dare. Potrei scriverlo sul suo giornalino, ma mi sembra una cosa un po' sciatta; sul libro di Carver, visto che credo proprio di non darglielo più - ma non è detto, potrei cambiare idea all'ultimo momento; sulla mano, ma sarebbe un gesto troppo sensuale, e di equivoci ce ne sono stati abbastanza. Mi frugo nelle tasche della giacca e trovo un foglio; anzi, ora che l'ho tirato fuori è una busta, una busta spiegazzata e non chiusa, senza nulla scritto sopra, ma piena. Cos'è? Ma questo è un problema secondario, ora, intanto ho trovato dove scrivere il numero. - Ci sono. - 0335 - scandisce - 5348318. Mi hanno detto che prende anche in Austria. Sa, da lunedì prossimo mi trasferisco là. Scrivo il numero, diligentemente, e mi sento un po' meglio. - Dove, di preciso? - riesco addirittura a domandarle. - A Innsbruck. Sì, il peggio è passato, sta passando. Questa donna non mi odia più, mi sorride, di nuovo bella da far male; e in fondo non è nemmeno detto che mi abbia mai odiato - anzi, mi ammira, l'ha detto lei stessa. Dopotutto sono una specie di angelo, per lei, che raccontava storie al suo bambino per farlo addormentare, e ora che si è addormentato troppo le dà una mano a cercare di risvegliarlo. Forse apprezzerebbe anche il libro di Carver, se glielo dessi, forse lo leggerebbe, e quella frase sottolineata potrebbe aiutarla a non mollare, con tutto quel che sta passando. Sì, sorvolando sul terribile dettaglio dell'assegno non girato - molto carveriano, tra l'altro -, non ha avuto che del bene, da me. Perché dovrebbe odiarmi? - Bene - dice - forse è meglio che vada. Sa il numero dei taxi, per caso? - 3570. - Grazie. Si rimette a armeggiare col telefonino, e non è proprio pratica, si vede benissimo. Poi se lo porta
all'orecchio. - Qui dove siamo? - mi chiede. - Porta San Paolo. Resta in silenzio per un po' con un'aria tenera e spaesata che le dona parecchio. - Le linee sono occupate - dice, e io la incoraggio, con una smorfia, a fidarsi della stucchevole voce registrata che la sta pregando di attendere. Lei ubbidisce, e rimane in ascolto. Poi, di colpo, s'irrigidisce. - Buongiorno, avrei bisogno di un taxi a Porta San Paolo... Un piccione zompa d'improvviso sul bracciolo di una sedia vuota, accanto alla mia. - Oh, un momento... - dice la donna. Scosta il telefono dall'orecchio e con la mano mi indica la busta dove ho appena segnato il suo numero. Il piccione vola via. - Scusi, che numero ho? - e arrossisce di nuovo. - Dica che chiama da un cellulare - faccio io, uomo di mondo. Lei esegue, poi annuisce con espressione riconoscente per comunicarmi che le ho fatto fare la cosa giusta. Non mi odia, no. E non credo nemmeno che parlerà male di me passando davanti ai citofoni. Mentre aspetta che le assegnino il taxi, così bella, col telefonino all'orecchio, sembra una pubblicità della Tim. Quando si accende un'altra sigaretta - e fanno cinque - sembra una pubblicità delle Marlboro Lights. E io non posso dire di sentire l'impulso fatale, questo no, ma non provo neppure il solido, compassionevole disgusto che dovrei provare per potermi dire al sicuro: dunque è il momento di compiere un gesto, stando a quel che insegnavano a quel corso, un gesto possibilmente piacevole, o perlomeno utile, insomma un gesto deliberato e dotato di una sua precisa dinamica, per allontanare il diavolo - direbbe Morrissey - dalle mie mani pigre. Un gesto che mi piacerebbe compiere è prendere la mano di questa donna e guidarla scimmiescamente in un'altra carezza sulla mia guancia, come fa Christopher Lambert in Greystoke con la mano del nonno morto. Ma non si può. Un altro gesto che mi piacerebbe compiere è prendere quella pistola dalla sua borsetta, toccarla, chiederle se è carica e perché se la porta dietro. E invece il gesto che faccio è aprire la busta che avevo in tasca e estrarne il contenuto, un foglio di bat-quaderno a righe piegato in quattro. Apro anche il foglio, ed è scritto su un solo lato con la calligrafia di Anna - minuta, ordinata, inconfondibile: «Caro Gianni»... - Cuba 22 - dice la donna - fra quattro minuti. La guardo, sorrido, ma gli occhi tornano subito al foglio. «Caro Gianni, c'è una cosa che devo dirti. Tu sai che non amo scrivere lettere. Non ne ho mai scritte, tranne in quel periodo che sappiamo, quando te ne scrivevo una al giorno, ma per ciò che ho da dirti non c'è altro modo, visto che» - Io la saluto, allora - dice la donna. Sollevo di nuovo gli occhi. Si è alzata in piedi, e sta ficcando sigarette e telefonino nella borsetta. Mi alzo anch'io, e mi sforzo di guardarla, ma quel foglio è ormai dappertutto. «visto che a voce non sono riuscita a farlo. Il fatto è» - Io la ringrazio ancora - balbetta la donna Non potrò mai sdebitarmi, lo so, ma... Ed ecco che l'ho fatta tacere. Ho messo la mia mano sulla sua bocca, ho fatto questo. Ho alzato la mia mano su di lei, già, e ho toccato quelle sue labbra di spugna rossa, sfrontatamente, con le dita, io. E so perché l'ho fatto. - Tieni duro - le sussurro. E so anche perché subito dopo le ho detto questo, dandole del tu così teneramente, così bene, al punto di innescare lo slancio con cui lei mi si catapulta addosso in un abbraccio vero, carnale, così che le sue mani ora stringono la mia schiena, i suoi seni mi si schiacciano sul petto, il suo profumo di empori perduti mi divampa sotto il naso, e il suo viso improvvisamente singhiozzante sprofonda nell'incavo del mio collo. Sì, so esattamente perché ho causato tutto ciò. «Il fatto è che l'altra notte» L'ho fatto perché così, mimetizzato in questo abbraccio, io posso sollevare la mano che stringe il foglio «quando eravamo in macchina» dietro la sua schiena «e tu mi hai domandato» e continuare a leggere «se avessi mai avuto» con l'altra mano ricambiando la sua
stretta «una relazione» ma in realtà sorreggendomi io, a lei, «e io ti ho» per non crollare a terra «detto di no» perché ormai ho capito «io ti ho mentito.» - sono finito. 17 «Caro Gianni, «c'è una cosa che devo dirti, e non so come dirtela. Tu sai che non amo scrivere lettere. Non ne ho mai scritte, tranne in quel periodo che sappiamo, quando te ne scrivevo una al giorno. Ma per quello che ho da dirti non c'è altro modo, visto che a voce non sono riuscita a farlo. «Il fatto è che l'altra notte, quando mi hai domandato se avessi mai avuto una relazione, e io ti ho detto di no, io ti ho mentito. «Ho avuto una relazione, Gianni. Ormai l'ho troncata, perché io amo te e non sopportavo l'idea di tradirti. Però l'ho avuta. E' stata la cosa più bassa che abbia fatto nella mia vita, me ne sono vergognata fin dal primo momento, però l'ho avuta. E l'altra sera, dopo averti mentito, dopo averti visto così disposto a credermi, ho avuto la terrificante sensazione che il fatto di averla troncata non contasse nulla finché non fossi riuscita a farmi giudicare da te. Ho capito che finché non fossi riuscita a dirtelo non avrei potuto dire di aver realmente smesso di tradirti. «So che questo è il momento più sbagliato per dirtelo, e so anche che corro un rischio tremendo, dato che la tua reazione non riesco proprio a immaginarmela, però è giusto, è giusto, è giusto che tu lo sappia. «Ora te l'ho detto, e la mia vita è nelle tue mani. A seconda di come reagirai, io potrò tornare a essere felice insieme a te e a Francesco, oppure la felicità finirò per sempre anche solo di concepirla, e la colpa sarà stata mia. «Scusami per il dispiacere che ti ho dato, Gianni. Sto molto male anch'io, anche se so perfettamente che questo non diminuisce la mia responsabilità. E qualunque cosa succeda, sappi che ti amo. Anna.» 18 Dunque il mio matrimonio muore tra le braccia di una donna esattamente come io ho sempre cercato di non farlo morire giorno dopo giorno per anni lottando e faticando e imparando l'arte certosina della diminuzione e conquistando la fredda capacità di sbucciare le altre donne d'ogni loro attrattiva come fossero cipolle e sostenendo ciecamente l'insostenibile dogma secondo il quale di attrattive non possono averne punto e basta e tutto ciò che risplende attorno a loro è da considerarsi ingannevole punto e basta e va dimenticato all'istante per principio punto e basta o meglio ancora nemmeno notato in una bieca madornale ingiustizia che riesco a commettere per pura abitudine ormai e infatti l'ho commessa anche con questa donna che adesso mi puntella nel suo abbraccio interminabile e languido e morbido e impetuoso e incandescente e quasi osceno per come incenerisce la stoffa dei vestiti e punta dritto alla carne una donna pensa un po' alla quale sono arrivato a donare l'equivalente di un sesto del mio reddito annuo senza nemmeno accorgermi di quanto fosse bella ma sarà poi vero che non me n'ero accorto non si verrà a scoprire un giorno che le ho dato l'assegno proprio perché è bella non sarà successo come stanotte col pacchetto di sigarette o anche con questa lettera mortale che ho avuto addosso per giorni e mi sono ostinato a non trovarla pur essendone ormai tangibili gli effetti attorno a me per forza Anna era gelida al telefono per forza in questi giorni non ho fatto che registrare la sofferenza altrui come se intorno a me non ci fosse altro e invece era tutto il creato panzoni armati pattinatrici bestemmiatori gabbiani vicini infermiere madri di bambini in coma che cercava compassionevolmente di avvertirmi affinché non perdessi altro tempo e mi rendessi conto una buona volta semplicemente mettendo una mano in tasca che a soffrire ero io e alla fine l'ho capito e il mio matrimonio muore e questa donna non smette più di piangere e io continuo ad accarezzare la sua nuca calda meccanicamente disperatamente e forse è per questo che lei non smette di piangere forse la sto facendo piangere io sì e lei sta piangendo anche per me e sebbene sia chiaro che è proprio il pianto a incollarla al mio corpo e io sia consapevole che un simile abbraccio è il più potente anestetico che un uomo ferito possa procurarsi Dio solo sa perché smetto di accarezzarla ed è come smettere di premere un
pulsante perché subito lei smette di singhiozzare dopodiché è solo un catastrofico effetto-domino che io non trovo più il tempo d'interrompere e infatti i nostri corpi si sono già separati e lei mi ha già detto arrivederci e si è già allontanata con andatura un po' legnosa per la verità era meglio da ferma e non si è nemmeno voltata a salutarmi né io le sono corso dietro per raggiungerla e il suo taxi è già arrivato e lei c'è già montata sopra e stanno già svanendo tutti e due l'una confusa nell'altro entrambi confusi nel traffico di mezzogiorno e io so come si chiama il taxi Cuba 22 ma non so come si chiama lei sul serio né nome né cognome non l'ha mai detto ha detto solo la madre di Matteo e soprattutto come sono solo adesso senza di lei come sono perduto con questa lettera in mano la rileggo Caro Gianni no non ci riesco e poi non è che a rileggerla cambi qualcosa e poi mi bruciano gli occhi mi brucia la pancia mi brucia il petto e dove vado ora e cosa faccio ora c'è una cosa che devo dirti la donna non è tornata indietro come nei film ho avuto una relazione e infatti che gliene importa di me a lei importava solo che le girassi l'assegno la mia vita è nelle tue mani certo come no ora salta fuori che la merda sono io e il sangue mi ribolle nelle vene ma per davvero e ho voglia di fumare vomitare urlare di sfasciare qualcosa ma non qualcosa a caso ho voglia di sfasciare qualcosa di bello e di prezioso che dopo non potrò ripagare tipo un'opera d'arte per esempio l'Ultima cena di Jacopo Bassano sì alla Galleria Borghese il mio quadro preferito perché è realistico cazzo e gli apostoli sono ritratti tutti ubriachi sfranti come doveva essere sul serio in quelle sere sacre Gesù astemio che predicava e gli apostoli fracichi di vino a fare sì con la testa ben detto maestro parole sante e giù rutti e Simone col singhiozzo hic e Tommaso che crolla addormentato sì doveva funzionare esattamente come in quel quadro in fondo erano solo pescatori erano poveri pescatori rozzi e avvinazzati e infatti non è che di loro ci fosse da fidarsi granché erano pronti a rinnegare a dubitare a tradire alla prima occasione no non c'era da fidarsi a meno che si volesse finire inchiodati sulla croce e Gesù lo voleva lui sì che voleva essere tradito ma io no cazzo io no e ora lo so dove andare o meglio lo so dove sto andando visto che sto mettendo in moto la Vespa wrooom e stavolta ci riesco subito e parto a razzo prima seconda terza e mi sono scordato di mettere il casco e mi sono scordato il libro di Carver sul tavolino e chi se ne frega perché c'è un cane in quel dipinto fracico anche lui acciambellato sotto al tavolo vicino a una ciotola vuota e si capisce benissimo che l'ha appena vuotata lui ha un'aria sazia e dentro non c'era di certo acqua poiché non c'è la minima traccia di acqua in quel dipinto c'è un'arancia mi sembra e un'orribile testa d'agnello in un vassoio e pane e coltelli e vino vino vino dappertutto ma niente acqua perché l'acqua in Palestina al contrario del vino scarseggiava e insomma è ubriaco anche il cane e il cane ubriaco è la cosa veramente formidabile di quel dipinto perché è l'unico innocente di tutta la combriccola non sono certo innocenti gli apostoli e nemmeno Gesù col suo sapere tutto in anticipo è innocente e nemmeno la testa d'agnello è innocente un agnello intero avrebbe anche potuto esserlo ma una testa d'agnello in un vassoio fa solamente schifo no il solo innocente è quel cane che gli apostoli hanno fatto ubriacare così perché agli ubriachi piace che tutti si ubriachino ed è proprio lì sul cane che voglio sfregiare il quadro col cacciavite che ho qui dietro nel bauletto e infatti ora ci vado e lo sfregio via presto alla Galleria Borghese ma dove cazzo vado ci vuole la prenotazione ora non si può più aver voglia di andare a vedere un quadro in un museo e andarci e vederlo bisogna prenotare una settimana prima bisogna sapere le cose in anticipo come Gesù prevedere che quel tal giorno a quella tal ora ti verrà voglia di vedere quel tal dipinto o di sfregiarlo e quando ci andammo noi la prenotazione la fece Anna telefonò lei a quel numero e prenotò due biglietti e insomma mi ci portò lei visto che io dicevo dicevo ma non riuscivo per l'appunto mai a ricordarmi di fare la prenotazione e magari quel giorno mentre mi portava alla Galleria Borghese Anna aveva già la sua come l'ha chiamata relazione anzi non magari ce l'aveva di sicuro e la prenotazione l'ha fatta tra una telefonata e l'altra al suo ganzo pissipissi baubau lui è lì no non c'è ma sta per tornare ci vediamo domani al solito posto sì amore ciao riattacca prima tu no tu no tu no tu no tu che poi io vorrei sapere chi è questo bastardo vorrei vederlo in faccia vorrei spaccargliela la faccia sì chi può essere uno che conosco o uno che non ho mai visto o peggio ancora uno che ho appena intravisto qualche volta senza minimamente immaginare che si stava scopando mia moglie per esempio uno di quei paparini che vanno a prendere i figli a scuola tutti vestiti precisi con giacca e cravatta per far capire che sono venuti a prendere il figlio sì ma stavano lavorando perché loro lavorano mica cazzi e però trovano
anche il tempo di dividere gli obblighi domestici con le mogli e vanno a prendere i figli a scuola e caricano la lavastoviglie e vanno alle riunioni con gli insegnanti e lì adocchiano le mammine che vengono sempre sole come Anna traendo la conclusione che devono essere infelici e trascurate dal marito e facendo in modo di rimanerci soli nel parcheggio della scuola tra il lusco e il brusco mentre i bambini giocano un po' più in là e il semaforo è rosso e mi tocca frenare e vediamo dove mi trovo Terme di Caracalla e dove vado ora e cosa faccio ora e che ha da guardare questo vecchiaccio guardati la tua faccia di culo nello specchietto della Mazda stronzo quasi quasi me la rifaccio con lui lo massacro di botte sangue sangue sangue una ferocia inaudita se non puoi sfregiare un innocente su un quadro puoi sempre sfregiarlo a un semaforo ma ecco che scatta il verde e scatta anche lui vai vai che è meglio e scatto anch'io prima seconda terza e lo sorpasso addio vecchio bastardo non so che farmene del tuo stupido scalpo a meno che tu non sia lui magari è un dottore uno di quegli specialisti con l'erre moscia dai quali Anna porta Franceschino così spesso e non si capisce perché visto che Franceschino è sano come un pesce ma tanto c'è l'assicurazione che ci rimborsa e davvero io voglio sapere chi è non sarà mica il belga maledizione l'amore scapestrato di quando girava per Viareggio con il laccio di cuoio da squaw sulla fronte e due tribali croste sanguinolente sui polpacci così marchiati dai tubi di scappamento roventi della moto di quel testadicazzo che oltretutto l'ha sverginata questo lo so per certo me l'ha detto lei e sì sì sì sì è lui per forza ricordo che Anna me ne ha anche parlato una volta l'estate scorsa mi parlò di lui perché si erano rivisti dopo tanti anni e lei mi raccontò che aveva perso quasi tutti i capelli poveretto e se la passava male e faceva il fotografo per i giornali scandalistici tipo «Novella 2000» e chissà cosa me ne fregava a me ma quello che in realtà Anna mi stava dicendo era che c'era stata a letto altro che storie o che stava per farlo e come ho potuto io non capirlo come ho potuto non dubitare nemmeno un secondo di lei perché me lo ricordo benissimo non dubitai nemmeno un secondo di lei come ho potuto lasciarla da sola tutto agosto è stato allora di sicuro non ci sono dubbi io a Roma a scrivere Le Nuove Avventure di Pizzano Pizza e lei a Viareggio a farsi tenere interi pomeriggi Franceschino dalla madre per andare dall'estetista dal parrucchiere al mercatino americano di Livorno a Montignoso a trovare Tizia a Lucca a rivedere Caia dopo tanti anni ma in realtà andando sempre e solo a scopare col belga in qualche sudicio bugigattolo che lui chiamava studio impregnato del tanfo degli acidi per lo sviluppo e tappezzato di foto di Tomba Barbareschi Max Biaggi Pierferdinando Casini in barca col pisello di fuori di certo vergognandosene dopo quando tornava a casa e Franceschino le saltava al collo e insieme mi telefonavano a Roma e come stai e fa caldo e quando vieni ma evidentemente non vergognandosene durante e qui stiamo parlando di sesso vero qui volano parole grosse come cazzo in bocca e compagnia bella e cosa fa questo pezzo di merda con la Golf gira o non gira vaffanculo stronzo sì dico a te ti spacco il culo sì ecco vai vai che è meglio e vediamo dove mi trovo sorpresa mi trovo daccapo alla Piramide cioè a dire quasi al baretto dove ho lasciato il libro di Carver e quale migliore occasione per andare a riprendermelo visto che è mio ed è anche raro perciò ora vado lì e me lo ripiglio tanto non so dove andare cosa fare e ci scommetto che è proprio il belga non può essere che lui è successo per forza a Viareggio non sotto i miei occhi ma mentre era al mare col maritino in città come nelle commedie sexy di Edvige Fenech e poi magari si son sentiti tutto l'inverno per telefono pissipissi baubau ed ecco perché Anna si è presa il telefonino bugiarrrrrda maligna meschina traditrice mi pareva strano diceva che era per essere reperibile casomai l'avessero chiamata dalla scuola di Franceschino e non fosse stata in casa ma in effetti era una grandissima cazzata perché in casa ci sono quasi sempre io e anche lì come ho fatto a non dubitare coglione che non sono altro e poi magari si sono anche incontrati in quel fine settimana lo scorso dicembre quando lei è andata a Viareggio mentre io ero a New York e ritonfa a scopare in quel buco nel freddo stavolta a scappa e fuggi con la scusa di andare a fare la spesa al supermercato non hai idea mamma quanta gente c'era e poi a vergognarsi e ora sai che faccio cerco quel figlio di puttana e quando lo trovo l'ammazzo giuro che lo faccio cazzo il tram scusa conducente non t'avevo visto e non t'incazzare pezzo di merda rotto in culo t'ho chiesto scusa ecco sì vai vai che è meglio vai a fare in culo anche tu col tuo lavoro usurante e io mi fermo qui scendo lascio la Vespa in moto e già vedo il libro laggiù ancora appoggiato sul tavolino dove l'ho lasciato il cameriere frocio non se l'è ancora preso sì giuro che lo scovo e l'ammazzo e non sto scherzando e
sai come faccio faccio così appena rispunta il panzone con la pistola perché rispunterà di sicuro gli do del tu innanzitutto visto che ci tiene tanto e gli dico bene Gianni è giunto il momento che tu faccia qualcosa per me hai detto che mi vuoi bene che sono quasi un figlio per te eccetera e ora è il momento di dimostrarmelo perché ho bisogno del tuo aiuto per dare una lezione a un bastardo e non puoi dirmi di no a te che te ne frega sei un fuorilegge rubi le macchine hai documenti falsi cognomi falsi carte di credito false non hai nulla da perdere e poi secondo me è sincero quando dice che mi vuole bene mi ha anche messo la coperta addosso dopo che mi ero addormentato e così ecco che partiamo io e lui sul Daihatsu Feroza e arriviamo allo studio del belga a Viareggio o dove cazzo sarà din don e come apre la porta come fa tanto anche solo di aprire uno spiraglio della sua porta del cazzo comincia la rumba io e il panzone con la pistola una coppia gagliarda e prima ci divertiamo un po' alla film di Tarantino con domande tipo tu lo sai per caso quanto cresce un bambino di otto anni in una settimana dài prova a dire non ti si sarà mica seccata la lingua quanto cresce in altezza un bambino in una settimana non lo sai certo tu non sai un cazzo della vita e il panzone senza dir nulla con quel suo sorriso ischemico gli spara bum una rivoltellata in un ginocchio e allora te lo dico io che invece lo so gli americani ci hanno fatto sopra una ricerca e si dà il caso che io l'abbia studiata un bambino di otto anni cresce mediamente 0,133 centimetri periodico alla settimana il che significa stai attento non ti distrarre non guardarti il ginocchio che tanto è andato il che significa che se un padre separato può vedere suo figlio di otto anni solo due fine settimana al mese perché ha buttato la moglie fuori di casa e la moglie se n'è ritornata al paesiello che altro poteva fare col bambino perché tanto i giudici assegnano sempre i figli alle madri anche quando la colpa è loro e qui bum il panzone spara un'altra pistolettata così senza ragione alla caviglia stavolta dell'altra gamba e questo padre seguimi bene non rantolare per cortesia questo padre per cause di forza maggiore mettiamo una banale operazione d'appendice è costretto a saltare diciamo due fine settimana di fila in cui aveva diritto di stare con suo figlio e perciò lo rivede dopo un totale di 6 settimane non cercare di fare il calcolo fidati se ne salta 2 e gli tocca ogni 2 fanno 6 settimane senza vederlo be' suo figlio nel frattempo sarà cresciuto di 0,799 centimetri periodico capisci cioè di quasi un centimetro che per un individuo alto sì e no un metro e trenta riconoscerai che è una bella misura ma soprattutto ed ecco il punto è una misura distinguibile a occhio nudo ascolta non piangere non ho finito per cui questo padre che fino a un certo giorno semplicemente non si accorgeva che suo figlio stava crescendo perché lo aveva sempre sott'occhio tutt'a un tratto se lo ritrova cresciuto di quasi un centimetro e questo non so a te ma a me non piace no non mi piace per nulla e la cosa peggiore per te è che non piace nemmeno al mio amico qui che come hai visto non può nemmeno sentirlo dire che bum bum bum bum e il panzone a questo punto spara a mitraglia con la Capri Superlights penzoloni dalle labbra e la pistola tenuta col calcio parallelo al terreno come va di moda ora nei film e il primo è stato John Woo in The Killer bum bum bum bum gomito spalla anca polso l'altro ginocchio l'altra caviglia è un professionista lo becca in tutte le giunture una per una dolorosissime prima dell'ultimo colpo alla tempia che non a caso si chiama di grazia e il sangue schizza dappertutto sangue sangue sangue ma cosa mi salta in testa le sto pensando sul serio queste puttanate a mezzogiorno con un libro di Carver in mano davanti alla Piramide Cestia devo calmarmi devo respirare profondamente uuuuno duuuue uuuuuno duuuue devo recuperare il controllo che la vita continui normalmente che ognuno faccia quel che deve devo rimettere il libro nel bauletto devo mettermi il casco ecco così e ripartire piano piano per benino sì ma cosa faccio dove vado amici non ne ho ci sarebbe Paolo ma non posso andare da lui dopo anni che parliamo solo di calcio e di politica e all'improvviso raccontargli i cazzi miei e poi mi vergogno cosa gli dico no non ho più nessuno con cui parlare questa è la verità ormai non ho che Anna e all'improvviso non ho più nemmeno Anna e comunque parliamoci chiaro Anna dev'essere impazzita dev'essere andata via di testa non solo mi ha tradito e questo è già indecente ma rendiamoci conto di quando me l'ha detto che momento ha scelto subito dopo la morte di mio padre me l'ha detto e nel pieno di un evento sinistro e misterioso che ci aveva costretti a sfollare nella notte e ci minacciava inspiegabilmente ora lasciamo stare che non era vero ma mentre lei scriveva quella lettera noi ci credevamo in grave pericolo e dunque eravamo in grave pericolo e lei che fa mentre io torno a Roma eroicamente ad affrontare l'ignoto mi fa scivolare in tasca questa bomba a orologeria ha aspettato chissà quanto
tempo ha lasciato passare chissà quanti momenti in cui sarei stato in grado di reggere meglio il colpo e nel periodo peggiore di tutta la mia vita quando avrei avuto bisogno semmai di una mano ferma alla quale aggrapparmi mi ha scaricato addosso la legnata sdeng come quelle disgraziate che lasciano il fidanzato mentre fa il militare o come è successo a me mentre fa il collegio militare Ilaria Ortoni si chiamava che Dio la maledica e questo non è da Anna come d'altronde anche tradirmi non era da Anna e insomma ora Anna non è più Anna ed è questa la cosa veramente tremenda io non so più chi ho sposato e allora il mio matrimonio è morto è morto è morto dolore avvocati scatoloni di trasloco non rimarrà nient'altro e ora sono calmo ora non penso più di ammazzare nessuno e voglio sottolineare che non mando nemmeno a fare in culo questo morammazzato che mi stringe contro lo spartitraffico con la sua Panda scarcassata e assomiglia a mio cognato cazzo è uguale faccio notare che non mi scompongo abbozzo rallento e lo lascio passare vai pure il Signore sia con te sono calmissimo ma anche così calmo io con quest'Anna della lettera non posso averci nulla a che fare non riesco nemmeno a concepirlo perché non è l'Anna che io amo è una che non conosco e io non amo una che non conosco non amo una che fa i pompini alle sue vecchie fiamme se l'ha fatto lo potrà rifare se la perdono dovrò perdonarla ancora e ancora e ancora ogni giorno dovrò perdonarla di continuo e io non voglio vivere così e cosa fa questo taxi rallenta o non rallenta non rallenta ma viene da sinistra dico è pazzo non rallenta non fa nemmeno il cenno di darmi la precedenza ha anche della gente dentro e così lo prendo in pieno cazzo o lui prende in pieno me e insomma picchiamo cazzo picchiamo anche frenando a tutta la ruota di dietro si blocca la Vespa s'intraversa ma continua ad andare d'abbrivio ormai non c'è più niente da fare picchiamo io prendo lui sì picchiamo per fortuna ho rimesso il casco picchiamo budubum questo sarebbe il botto ho appena avuto un incidente l'ho preso in pieno gli ho sfondato lo sportello il finestrino è esploso sto cadendo in terra sono caduto in terra sono vivo ho ragione io venivo da destra Anna mi ha tradito io non so altro. 19 Ma guarda dove siamo... Franceschino aveva un anno, io uscivo di casa al mattino per andare all'edicola di San Saba a comprare i giornali. Una mattina mi accorsi che da qui (cioè non proprio da qui, ossia non dal centro di questo incrocio, dove ora giaccio, sicuramente ferito, dopo la botta che ho preso, però vigile, cosciente, e senza ancora avvertire dolore, bensì dalla scalinata, ecco, esattamente da là, vicino alla colonnina di pietra bianca dove ci sono quei due che suppongo stiano venendo a soccorrermi) si vedeva il terrazzo di casa mia. Siamo abbastanza lontani, nel mezzo ci sono le mura Ardeatine, e alberi ad alto fusto pieni di foglie e diverse schiere di edifici, ma si vedeva. Era primavera inoltrata, avevamo appena messo la rete al parapetto perché Franceschino stava imparando a camminare, e io riconobbi proprio il segno verde della rete, attraverso la quale si distingueva Anna vestita di bianco. Tornato a casa faticai un po' a rovesciare il campo di quel mio sguardo, ma grazie alla colonnina di pietra riuscii a individuare il punto esatto dal quale avevo visto il nostro terrazzo, e lo mostrai ad Anna. Così, dalla mattina successiva, quando uscivo per andare all'edicola lei stava sul terrazzo con Franceschino in braccio e io, arrivato qui alla colonnina, agitavo i giornali per salutarli. Anna mi vedeva, rispondeva con la mano, ed eravamo felici. Non riesco nemmeno a dirlo, quanto eravamo felici, o perlomeno - d'accordo, andiamoci piano - quanto ero felice io: so solo che non avevo mai sospettato che si potesse essere così felici, e così intensamente, per una fesseria come salutarsi da lontano. Ero talmente felice che ricordo benissimo, una di quelle mattine, all'improvviso, il sopraggiungere di un pensiero semplicissimo e funesto, devastante come un temporale su un roseto: un giorno, pensai, non sarà più così. Un giorno, pensai, queste mattine e questa felicità mi appariranno remote e irripetibili, e io mi commuoverò al loro ricordo. Pensai alle cause per cui questo sarebbe successo, e fu un'infilata di previsioni infauste, spietate, ancorché del tutto naturali: Franceschino diventerà grande, noi traslocheremo, invecchieremo, avremo grane di lavoro, problemi economici, il nostro amore sbiadirà, i nostri genitori moriranno... Pensando a tutto ciò presi il solenne impegno di non abbattermi quando il
giorno fosse arrivato, ma piuttosto di brandire il ricordo di quelle mattine come fosse una spada, e di affrontare senza lamentarmi qualunque avversità il destino mi riservasse, forte del fatto che tutto il male del mondo non avrebbe mai potuto togliermi una sola stilla della felicità che in quel momento stavo provando. Sapevo che non avrebbe funzionato Solo l'amare, solo il conoscere@ conta, non l'aver amato,@ non l'aver conosciuto@ - ma almeno servì, sul momento, a salvare la mia felicità dal pensiero che minacciava di spazzarla via prima del tempo. Ora quel tempo è arrivato, ed è arrivato proprio qui - quando si dice le combinazioni -, proprio nel punto del mondo in cui, sette anni fa, era stato presagito... Dissolvenza su: Rumori metallici. Odore di benzina. Vetri che scricchiolano sotto i passi. Una strana inquadratura obliqua cime degli alberi-tetti dei palazzi-cielo, come di una videocamera caduta e rimasta accesa. I contorni delle cose, sebbene sghembi, sono netti, smaglianti, tagliati da una luce purissima. E' un'immagine molto bella. Ma subito un volto di uomo copre tutto: un volto quadrato, scuro, letteralmente crivellato di foruncoli. Mi fissa, apre le labbra, scopre i denti brutti, piccoli, diseguali: non è un sorriso. - Mi vedi? - mi alita in faccia - Mi senti? Quanti sono questi? Immagino intenda le dita che mi agita davanti agli occhi. Una due tre... - Quattro - rispondo. - Bravo. Ora non ti muovere... Sono sdraiato su un fianco, con la testa poggiata su un braccio, il corpo allungato, abbandonato al calore dell'asfalto, e non ho la minima intenzione di muovermi. - Respiri bene? - Sì. Sto bene. Capoccette che vanno e vengono dietro alla faccia foruncolosa. Jeans. E voci, che si accumulano e si accavallano e si avvicinano e si allontanano, mentre tutto si fa convulso, accelerato. - ...chiamare l'ambulanza... - ...spostarla un po' più in là... - ...nun toccare nulla... - ...potrebbe esplodere... - ...nun di' cazzate... - State indietro! - grida il Re dei Foruncoli. Poi di nuovo a me: - Stai tranquillo. Respira piano. Non muoverti. Ha una ridicola giacchetta celestina. Dove diavolo andava, vestito così? - La gamba! Non toccategli la gamba! Chi ha parlato? Quale gamba? Le muovo tutt'e due, prima una poi l'altra, e mi sembrano a posto. Anzi, sono a posto, non sento il minimo dolore. - Sta' fermo. Non ti muovere... - Controllavo le gambe dico - Non hanno nulla. - Certo. Ora stai fermo. - ...ahò, tutti i giorni un botto... - ...mamma mia, porello... - ...ce vòle er semaforo... - ...manco ha frenato... - ...almeno metterce 'no Stop... - ...Ha battuto la testa! La testa? Faccio per toccarmi la testa con una mano ma - aaagh! Una fitta lancinante mi trapassa la spalla, mozzandomi il respiro, e mi fa ripiombare giù. Il dolore sparisce subito, grazie al Cielo. - Non ti muovere - ripete la faccia. La spalla, sì. Mi sono fatto male alla spalla sinistra. E' del tutto logico, del resto: ci ho sfondato un taxi. La guardo di sguincio: niente sangue, niente giacca strappata... - Fermate le macchine...
- Lasciatele passare... - State indietro... - Venite avanti... - Togliamolo da lì... - Non toccatelo... Resto giù, immobile, perché il dolore che ho provato era davvero atroce, e non voglio provarlo di nuovo. Chiudo gli occhi. Una volta facemmo il contrario: Anna andò a prendere i giornali e la pizza calda, e io rimasi sul terrazzo con Franceschino in braccio. Ci salutammo a parti invertite. Fu bellissimo. - Ehi, mi senti? Cerca di restare sveglio. Riapro subito gli occhi. La faccia foruncolosa è sempre qui, a pochi centimetri dalla mia. - Sono sveglissimo - dico. Riesco a toccarmi il viso, manovrando in modo innaturale il braccio che sta sotto la testa e facendo molta attenzione a non muovere l'altro. Anche il viso sembra a posto. La testa non mi fa male, e il casco c'è ancora... - Non muoverti - daccapo. - Guardi che sto bene rispondo - Devo essermi rotto la spalla. Le gambe e la testa sono sane... Mi guarda, perplesso, e tace. Sta armeggiando con le mani, fuori dal mio campo visivo, verso destra, chissà che fa. - ...manco l'ho visto... - ...battuto la testa... - ...rotto le gambe... - Capito? - faccio - Glielo dica, a quelli. Solo la spalla... - Sì, ma tu non muoverti. E rimane qui a fiatarmi in faccia, con la sua ridicola spolverina celeste. Chi diavolo è? Perché lui sopra di me a darmi ordini e il coro greco a gufare sullo sfondo? Ruoto più che posso gli occhi, e un poco anche il collo, per vedere di nuovo quel cielo, quei contorni, quella luce, ma il suo volto mi copre la visuale. - Scusi, lei è un dottore? - chiedo. Niente, è sparito. C'è un altro al suo posto, ora, uno più vecchio, con la faccia pallida, stranita, e gli occhi da barbagianni. - No, io so' il tassista... Ah, il responsabile. Respira affannosamente, vedo la sua pancia gonfiarsi e sgonfiarsi a pochi centimetri dai miei occhi. Dev'essere in ginocchio. Mi guarda con compassione, poveraccio. E' turbato, si vede che si vergogna di quello che ha combinato. Tutto questo casino, starà pensando, per colpa mia. Mi viene un'idea assurda: e se fosse il taxi che ha preso quella donna, Cuba 22? Se ci fosse lei, qua intorno, stordita, e non si fosse ancora accorta che il ferito sono io? Se lo scoprisse proprio adesso, e tra un secondo si chinasse su di me, col suo profumo di mare, e si rimettesse a piangere abbracciandomi, e mi sussurrasse «poverino» e poi mi accompagnasse all'ospedale? No, è impossibile. E' passato troppo tempo. E poi non succedono queste cose, non succedono, non succedono. Il tassista continua a vegliare su di me, col volto affranto e il respiro pesante. Deve aver paura di averla fatta grossa. - Sa, certe volte - ma cosa voglio dirgli? - Uno pensa... Voglio consolarlo? Io, lui? - Sta' calmo, nun te move' - anche lui - Mo' ariva l'ambulanza... - ...sfondato il vetro... - ...nun se move... - ...se move eccome... - ...conciato male... - Non dia retta a quelli - bisbiglio - Esagerano. Mi sono solo rotto una spalla. Se ho del sangue in faccia è perché mi sono tagliato a farmi la barba. Ho del sangue in faccia?
- No. Dev'essere un brav'uomo, davvero. Dev'essere il migliore amico di qualcuno. Dev'essersi fatto una casetta dalle parti del Nuovo Salario, col mutuo, che finirà di pagare nel 2010. Dev'essere a questo che pensava, quando ha bucato l'incrocio: al futuro... - Benedetto ragazzo - dice - ma nun l'avevi visto er cartello? - Quale cartello? - Quello che dice de dare 'a precedenza - e indica verso destra. Come come come? Che precedenza? Mi sollevo e cerco di girarmi ma non c'è niente da fare, la fitta mi rimanda al tappeto. - Sta' giù... Che precedenza? - ...Ahò, tutti i giorni un botto... - ...nun se vede, nun ce sta un cazzo da fa'... - ...ce stanno 'e fratte... - ...quante volte j'avemo scritto ar Comune pe' 'sta storia... Cosa, non si vede? Che fratte? Che storia? Mi risollevo, e al diavolo la fitta; faccio piano, lentamente, striscio addirittura sull'asfalto come una serpe per girarmi senza che la spalla se ne accorga - ma se ne accorge eccome -, poi mi isso sul gomito sano e trovo una posizione accettabile, forse un po' languida, ma solida, e soprattutto indolore - solo uno strano formicolio, ora, e un gran calore - che mi permette di tenere lo sguardo parallelo al terreno. Finalmente posso orientarlo nella direzione alla quale aveva accennato il tassista. - Nun t'alzare, sta' bono... Lo vedo subito. Sul marciapiede, poco prima dell'incrocio, lungo la strada che stavo percorrendo, in cima al suo bravo palo di ferro grigio ed effettivamente seminascosto dalle fronde di un platano che gli ricadono proprio davanti, c'è... - Sta' giù... ...il triangolo bianco e rosso, merda, il segnale che impone di dare la precedenza. Io venivo da destra, eppure dovevo dare la precedenza a lui. E' assurdo, sono anni che ci passo e non l'ho mai visto, e poi non c'è la più pallida ragione, qui, di rovesciare le regole in questo modo: le due strade si equivalgono, anzi quella che percorrevo io è innegabilmente più... - Vuoi un po' d'acqua? Un braccio, una mano, un bicchiere di carta. Una nuova faccia, grassa, rubizza, un faccione enorme, monumentale, il volto di Falstaff. - Bevi... Ho la bocca secca, in effetti, ho sete. Allungo il collo, con cautela, mentre la mano di Falstaff mi viene incontro col bicchiere. - Fermi! Ma che fate? - la voce del Re dei Foruncoli. Il bicchiere si allontana bruscamente. - Non dategli nulla! Non lo toccate! Il bicchiere è sparito, Falstaff pure. Davanti ai miei occhi ora solo stinchi, jeans, telefonini alla cinta, pance sudate. - Aveva sete, voleva bere... No, vile ciccione, ciò è falso: io non volevo proprio nulla. E nemmeno lo sapevo, di avere sete, prima di vedere l'acqua. Ora, ho sete... - Ma non l'avete vista la televisione, proprio ieri? - Embè? - L'hanno detto lì: mai muovere un ferito, mai dargli sostanze prima che arrivi l'ambulanza... - Un pochetto d'acqua, che sarà mai... Puah. Che razza di soccorritori. E che razza di ferito, anche. Che vergogna, che immensa vergogna essere qui, in mezzo a un incrocio in questa posa pompeiana, inchiodato all'asfalto da un giavellotto che mi trapassa la spalla, dopo avere cozzato con un taxi per colpa mia.
Come cambia tutto, maledizione, tra avere ragione e avere torto. Mi sentivo così bene nella parte della vittima, già mi gustavo il tepore della sofferenza immeritata, il sollievo scagionatore della sorte avversa che si accanisce, e la consolante melodia della storiella dell'eroe senza macchia abbattuto dalle ingiustizie del mondo, incompreso, tradito nei sentimenti e poi anche gravemente ferito nel corpo, da raccontarmi di nuovo dopo tanti anni - era dai tempi dell'adolescenza che non me la raccontavo più. Invece è colpa mia, e allora cambia tutto, perché se non sono la vittima sono solo il fregnone di turno che non vede il cartello e va a sbattere contro la macchina che ha la precedenza. Che vergogna, davvero. Non sono più niente; non valgo più di quei segni che rimangono sul cemento delle rampe di garage, quando finisce la discesa e si va appena troppo forte e la targa sfrega per terra, sdrang, e si storce, e il custode scoglionato alza gli occhi dal «Corriere dello Sport» e borbotta tra sé «Ecco'o llà»... La sirena. Arrivano i nostri. Ora riesco a vedere meglio, da un'angolatura più usuale, se non altro, solo molto dal basso, come fossi, diciamo, un cagnolino: c'è un bel po' di gente, e intorno all'incrocio si è già formata una svastica di traffico; grida, clacson, corsettine, fate largo, la sirena sempre più forte; ecco Falstaff, ecco il Re dei Foruncoli - un barbiere? -, ecco il tassista senza macchia. Un ragazzo, seduto su una Vespa, osserva la scena col casco in testa, un po' in disparte, estraneo a tutta questa frenesia: passava di qui, si è fermato, si riempie gli occhi di questo bordello e quando tornerà a casa racconterà tutto alla sua donna: «Oggi ho visto un incidente...» Oh, perché non sono lui? Potrei esserlo, se non fossi qui in terra, se fossi un po' più giovane, se non avessi lasciato la Vespa in moto quando sono andato a riprendermi il libro e se avessi perso non dico tanto, dieci secondi per rimetterla in moto, e soprattutto se avessi ancora - ah - una donna a cui raccontare le cose... Prima di ammutolire, la sirena lancia un ultimo suono a un volume insopportabile, quasi una minaccia - «Vi assordo tutti, ragazzi, se non state buoni!» Arriva la lettiga con le rotelle, manovrata da uno spilungone. Tra-trac, la lettiga si abbassa, mi si affianca, quasi mi scrosta da terra, come fossi una gomma spiaccicata. Mentre mi ci trasbordano sopra, il giavellotto infilato nella mia spalla si muove, manda una rabbiosa vibrazione nelle carni, e il dolore mi toglie il respiro - chissà quanto ne dovrò provare ancora, così forte o anche di più, chissà per quanto tempo... Tra-trac, la lettiga si rialza. Ecco qua, mi stanno portando via. L'unica cosa che mi hanno fatto è stata togliermi il casco: non mi hanno legato come il figlio di Anita - non c'era ragione di farlo -, non mi hanno messo il collarino come nei film americani, e non hanno neppure controllato cosa avessi, o usato un minimo di cautela; mi hanno semplicemente raccattato e portato via, e questo sia detto a disdoro non degli infermieri bensì di quel barbiere foruncoloso che non mi ha nemmeno fatto bere un bicchier d'acqua. La lettiga viene appoggiata alla bocca spalancata dell'ambulanza: qualche secondo per allinearla a non so che, per infilare non so cosa in non so cosa, poi mi spingono dentro, e le zampe scompaiono, e io scivolo quasi senza attrito nella pancia di questo pesce che non mi aveva mai inghiottito, prima d'ora, perché è la prima volta che entro in un'ambulanza, sono un uomo fortunato... Uno schiocco, lo spilungone mi zompa accanto, gli sportelli si chiudono, la sirena ricomincia a suonare - è molto meno forte, qui dentro - e via, si parte, chissà in quale ospedale mi porteranno. Il formicolio alla spalla è più intenso, ora: è come se dopo ogni fitta fosse cresciuto entropicamente senza mai regredire, ma se sto fermo non c'è dolore. Eppure c'è, il dolore, e ce n'è tanto, sto letteralmente annegando in una pozza di dolore, e di vergogna, e di paura. Perché ci sono verità terribili che stanno scritte solo nei tetti delle ambulanze, e uno riesce a vederle solo quando ci si ritrova sdraiato sotto, un martedì mattina, verso mezzogiorno, mentre lo stanno portando all'ospedale con una spalla rotta e una lettera di sua moglie nella tasca della giacca, e fuori splende il sole, e tutti stanno meglio di lui... 20 Io sono l'uomo, c'è scritto, che attraversa ogni giorno per dieci anni un incrocio vicino a casa sua e non vede che c'è un segnale di precedenza. Sono l'uomo che, in questi dieci anni, assiste ad almeno
tre potature degli alberi che coprono il segnale con le loro fronde, e ogni volta riflette lungamente su quanto poco basti, dopotutto, per rendere ignoto un panorama familiare, e intanto continua a non vedere quel segnale. E sono il padre che buca regolarmente quell'incrocio insieme al figlio, in macchina e qualche volta addirittura anche in Vespa, tenendoselo ben stretto tra le gambe dopo avergli calcato in testa il caschetto non omologato comprato a Porta Portese, convinto di proteggerlo come nessun altro al mondo potrebbe fare. Quell'uomo sono io. Ma sono anche il figlio che non è andato d'accordo col padre, naturalmente per colpa del padre, e che non si è mai domandato chi fosse veramente il padre. Sono il marito che si è sforzato di non tradire la moglie, come se al suo matrimonio potesse accadere soltanto quello, e non si è accorto che la moglie lo tradiva. Sono il fratello che ha criticato la sorella, le idee politiche della sorella, le amicizie della sorella, i fidanzati della sorella, il marito della sorella, convinto di avere sempre ragione, e ora non fa una vita tanto diversa dalla sorella. Sono lo zio di tre nipotini che hanno soggezione di lui. Sono l'uomo che alle cene racconta sempre le stesse cose. Sono l'uomo che non abbellisce la propria casa pur avendo i soldi per farlo. Sono l'uomo che quando vede una pistola cerca un poliziotto, l'uomo che dona gli assegni senza girarli. Io sono l'uomo che smette di fumare e poi ricomincia. Sono lo scacchista che promette mirabilia e poi smette di giocare perché non riesce a sopportare le sconfitte. Sono l'uomo dalla memoria formidabile che sta perdendo la memoria. Sono lo scrittore per ragazzi che ruba le idee a destra e a sinistra, e che sostiene di non voler essere nulla più di questo, ma mente, perché lo vorrebbe eccome... Ah, com'è tutto più chiaro, così; com'è tutto più semplice. Com'è appagante la verità, e luminosa e ineluttabile, quando non la si percepisce controvoglia e a sprazzi, tra uno sforzo e l'altro per ricacciarla indietro, e la si accetta tutta intera. Che sollievo, adesso, insieme alla vergogna; e però com'è diverso, questo momento, com'è più plumbeo e desolato rispetto a quello che desideravo ritrovarmi a vivere, prima o poi, per cominciare da lì una vita nuova, vera: lo immaginavo festoso, pieno di gente e di luci, come la fine di Otto e mezzo, e invece... Già, perché io sono l'uomo che credeva di imparare le cose dal cinema. L'ho anche dichiarato pubblicamente, in un'intervista alla radio, neanche tanto tempo fa: «Il cinema mi ha insegnato a vivere,» addirittura, o qualcosa del genere. Ecco, io sono l'uomo che per arrivare a vergognarsi di aver detto una stronzata del genere deve andare a sbattere contro un taxi, ferirsi, e farsi portar via su una barella. - Come va? - fa lo spilungone. E' una sagoma spettrale nella penombra, che incombe su di me come un capestro. - Certe volte va meglio di certe altre - rispondo, essendo io l'uomo che impara a memoria le battute dei film, e poi le pronuncia, oppure se le rivende nei libri che scrive, oppure tutt'e due le cose, e poi di colpo un giorno le scorda e non sa più cosa scrivere, cosa dire. (Questa era di Paul Newman in Detective Harper: acqua alla gola: quando la dimenticherò?) - Ti fa male l'occhio? - Quale occhio? Mi tocca sotto l'occhio sinistro, con una delicatezza di cui, a vederlo, non lo si penserebbe capace. (Io sono l'uomo che giudica la gente capace o no di fare qualcosa solo a vederla.) - Questo. C'è il bulbo iniettato di sangue. Il bulbo iniettato di sangue... - Non sento nulla - dico. - Dev'esserci entrato un frammento di vetro - fa lui. Già. Oppure la famosa trave del Vangelo: «Ipocrita, leva prima la trave dal tuo occhio, e poi tenterai di levare la paglia dall'occhio del fratello tuo.» - Prova un po' a chiudere l'altro. Obbedisco, ma devo aiutarmi con la mano, perché altrimenti non mi riesce. Continuo a vederci normalmente, mentre lui mi dimena due dita davanti al viso, - Quante sono? - Due. Apre completamente la mano, a dita divaricate. - Ora? - Cinque.
Chiude il pugno. - Ora? - Zero. Dài, continua, amico: io sono l'uomo che a questo gioco vince sempre, e poche cose al mondo sono piacevoli quanto vincere senza lottare... E invece niente, si arrende. Si rialza, si ravvia i capelli, guarda verso il guidatore, oltre il vetro divisorio. La prossima volta devo ricordarmi di sbagliare apposta, così continua un altro po'. La sirena tace di colpo. - Siamo arrivati - dice. L'ambulanza rallenta, svolta a novanta gradi e prosegue lentamente per pochi secondi, poi si ferma. Gli sportelli si aprono di colpo, e poi è tutto un susseguirsi di manovre e di rumori e di superfici orizzontali che scappano via sopra di me: tetto di ambulanza, tettoia di porticato, soffitto di pronto soccorso, soffitto lercio di corridoio. Lo spilungone è scomparso, ora sono nelle mani di un portantino tarchiato e irsuto, che strascica rumorosamente gli zoccoli sul pavimento. Vedo sfilare volti di africani, di vecchi, di poliziotti, finché il portantino mi infila in una stanza spoglia, mi trasborda su un lettino senza ruote (dolore fortissimo, durante la manovra) e mi dice di aspettare. Dal muro filtrano strani rumori, colpi, discussioni, urla addirittura: «Lasciateci lavorare!», «E' una vergogna!», roba del genere, ma non riesco a capire cosa stia succedendo. Il portantino se ne va spingendo via la lettiga con le ruote. Resto solo. Non so dove mi trovo. Non conosco gli ospedali, eccetto il Policlinico Gemelli, nel quale è morto mio padre. Ma questo non è il Policlinico Gemelli: è molto più cadente, sporco, abbandonato. Sembra un ospedale di guerra. Le grida oltre il muro si affievoliscono, come se la discussione stesse allontanandosi. Ho trovato una posizione che non mi fa sentir dolore, sul fianco buono, con la testa poggiata sul braccio, simile a quella che tenevo sull'asfalto poco fa, e sono stranamente calmo. Qualunque sia la gravita delle ferite sento che il mio corpo vi si è già adattato: gonfia dove c'è da gonfiarsi, formicola dove c'è da formicolare, duole dove c'è da dolere, senza ribellarsi a questa nuova condizione, e la stessa cosa sembra accadere anche alla mia mente. Ho avuto un incidente e mi sono fatto male? La mia Vespa è rimasta accartocciata al centro di un incrocio in un lago di benzina? Mi hanno sbattuto qui da solo, non so nemmeno dove, dimenticandosi di me immediatamente? Mio padre è morto? Mia moglie mi ha tradito? Sento tutte queste domande rapprendersi attorno a un unico pensiero risolutore, individuato da una gelida intelligenza subcorticale con la precisione dei giradischi che s'incantano: non posso farci nulla, penso. Non posso farci nulla, no, io non posso farci nulla. E qui finisce tutto. Non so quanto tempo passo così, immobilizzato su questo binario morto: in realtà è come se il tempo non passasse, o comunque non passasse per me, e non ne soffro, e questo è tutto quel che so. Escludi un uomo dal corso del tempo e finirà di penare. Infine qualcosa accade: d'un tratto, tutta una parete comincia a scorrere di lato, come fossimo a teatro - e allora questo è Finale di partita, e io sono Hamm, escluso dal corso del tempo. Stagliata in controluce sul vuoto abbagliante che s'è aperto (sorpresa: questa stanzuccia dà direttamente sull'esterno) compare una sagoma che ormai conosco bene, e che tuttavia mi sorprende - come sempre, del resto: mi sorprende, sì, ma mi fa anche piacere, poiché è la sagoma della persona che mi ama di più al mondo, «esclusi i miei familiari più stretti»... - Ah, sei qui - dice. Richiude la parete scorrevole, poi si avvicina e mi guarda con espressione preoccupata - sebbene sorrida, come sempre. - Ma cosa hai combinato? - Come... - farfuglio - Come ha saputo che... - Che ti sei fatto? - La spalla. Devo essermela rotta. Mi guarda la spalla, poi tutto il corpo, poi di nuovo la spalla, come facesse un suo imperscrutabile raffronto. - E l'occhio - aggiungo - Pare che abbia il bulbo iniettato di sangue...
Mi viene sopra, mi esamina l'occhio. - Hum. Ci vedi? - Sì, ci vedo... Arretra di un passo e torna a considerarmi nell'insieme. - La spalla, dici? - Sì. Ma come ha fatto a sapere... - Gambe e testa sono a posto? Hai battuto la testa? - No. Sollevo tutt'e due le gambe, per provarglielo, e le muovo, ma non è una buona idea, perché mi arriva una coltellata alla spalla. - Sicuro? - Sì. Ho sfondato un taxi con la spalla. Quando sono caduto per terra ero praticamente fermo, e avevo il casco. Ma me lo dice come ha fatto a sapere che ero... - Te lo spiego dopo - m'interrompe - Ora non c'è tempo. Dobbiamo andarcene, e in fretta. Ce la fai a camminare? - Non lo so. Perché dobbiamo andarcene? - Perché stanno sequestrando l'ospedale. - Cosa? Sorride, espira col naso, guarda in basso. Ha sparato la sua consueta enormità, ma se non altro stavolta ne sembra consapevole. - Qui fuori - spiega - è pieno di macchine dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Stanno mettendo sotto sequestro l'ospedale. Ordine del Ministero della Sanità. Non ho potuto approfondire, ma sta succedendo ora. Se resti dentro sei fregato. Da quant'è che sei qui? - Non lo so. Mezz'ora, un'ora. - Ti hanno già visitato? - No. - Ti hanno registrato? Hai dato le generalità, cose del genere? - No. Ridacchia. - Ti hanno sbattuto qui e basta... Chiude gli occhi, scuote il capo. - Be', tanto meglio sentenzia - Dài, tagliamo la corda. «Tagliare la corda»: ecco un'espressione che mio padre usava sempre. - E dove andiamo? - Ora vediamo - risponde - Puoi alzarti? - Ora vediamo - rispondo. Comincio una laboriosa manovra di sollevamento, e lui mi torna addosso, con le manone pronte ad afferrarmi, ma io scuoto la testa perché mi lasci provare da solo. Mi isso lentamente a sedere, e il dolore alla spalla si risveglia subito. In più sento male anche al torace, all'altezza del cuore, e mi gira la testa. I piedi mi ciondolano nel vuoto - è alto, questo lettino - e io striscio giù cautamente fino a poggiarli a terra. Lui continua a seguirmi con le mani pronte a intervenire, ma senza toccarmi, come si fa con i bambini che imparano a camminare. - Ce la fai? - domanda. Io annuisco appena, per risparmiare il fiato, perché anche parlare mi fa male, anche respirare. Molto lentamente guadagno la posizione eretta, appoggiandomi a lui col braccio sano. Provo a muovere un passo, poi un altro, ma è come se una pressa mi schiacciasse la spalla ferita, e il dolore mi sovrasta. Sento le tempie battere sempre più forte, e un calore bulicante scendere impetuosamente dalla testa, o salire, non so bene, mentre la vista si offusca. - Mi prenda - mormoro, e, nel momento stesso in cui mi lascio andare, una forza mi solleva di slancio, come fossi un sacchetto di trucioli, un cuscino, una fascina di grano; come fossi davvero il nulla che mi sento di essere. Un istante dopo sono a un metro da terra, con le gambe penzoloni, il
braccio sano intorno alla sua nuca soda e il viso schiacciato sul suo petto. - Ehi, che fai, svieni? Già, buona domanda: svengo? Ora come ora è impossibile dirlo. Ora come ora sono semplicemente sospeso in una pausa strana, amniotica, e tutto può accadere, ma proprio tutto, mentre riassaporo la beatitudine completamente dimenticata dell'esser preso in collo, e ciò che di senziente ancora possiedo si fa tutt'uno con la massa ruvida e grandiosa dell'angelo che lo fa. Col naso schiacciato sulla sua giacca raccolgo tutto l'odore che la impregna - antico, proletario, quel misto di fumo, sudore e materia inerte che si sente addosso ai manovali quando prendono il caffè al bar; con l'orecchio attaccato al suo petto mi consegno al battito del suo cuore, ipnotico, robusto, regolare, e più in profondità torno a distinguere il fischio che gli smeriglia i polmoni, come il rumore di una chiave che riga una carrozzeria; la sua grande pancia calda, gonfiata e sgonfiata dallo stantuffo del respiro, mi culla in una dolcissima oscillazione pneumatica, e mi spensiera... Poi d'un tratto è come se tutto ricapitasse all'incontrario, e per uno sbalorditivo, straordinario momento avverto sul mio corpo una meravigliosa sensazione di reversibilità - quella reversibilità che la realtà tassativamente non ammette, e che ora, invece, addosso a me, sospeso a mezz'aria tra queste braccia amiche, è come se fosse riuscita a insediarsi di straforo: il dolore si placa, le tempie smettono di pulsare, il calore si raffredda, la nebbia si dirada... Passerà anche questo momento, lo so, lo capisco, e io sverrò oppure non sverrò, dopodiché il tempo riprenderà a correre per il suo verso e io a lottare contro di esso, o a rassegnarmi alla sua immane prepotenza, o tutt'e due le cose insieme; ma finché dura io posso vedere cosa succederebbe se questo momento non passasse affatto, se puta caso invece durasse e durasse e durasse, indefinitamente, e io continuassi a godere del dono di vivere al contrario tutto ciò che mi ha portato fin qui, in un'elettrizzante fuga a ritroso dove il prima riesca finalmente a prevalere sul dopo, e gli effetti vengano sbranati dalle cause: e allora ecco che torno a terra, malfermo, sulle mie gambe, e mi risiedo sul lettino, e mi ci sdraio, piano, per non sentire male, ecco che la parete si riapre e poi si richiude, e quando s'è richiusa quest'uomo non c'è più, e sono di nuovo solo nella mia bolla senza tempo, poi sulla barella a veder soffitti fuggire via, poi dentro l'ambulanza a riconoscere di essere quello che sono, poi sdraiato in terra in mezzo all'incrocio a rendermi conto che la colpa è mia, poi nell'istante pazzesco dello schianto, impotente e gonfio di adrenalina, consolato solo dal fatto che la colpa non è mia, e la spalla torna a posto e il bulbo oculare non è più iniettato di sangue e sto guidando la Vespa, sano, integro, benché scorticato dal dolore del tradimento e atterrito dinanzi al pensiero del mio matrimonio che va in rovina, ed ecco il momento in cui quel dolore mi si pianta nei lombi, ah, il peggiore di tutti, mentre leggo la lettera di Anna abbracciato a quella donna che piange, ma ecco che il dolore passa, sì, per un attimo si trasforma in un fuggevole sospetto e poi scompare del tutto, lasciando il posto all'imbarazzo per un assegno da girare, al piacere per una carezza medicamentosa, alla sorpresa per la bellezza di una madre, e il mio malessere ora è un niente, è solo una questione di lieve ritardo e Vespe che non entrano in moto e vicini di casa legati a una barella e insonnia e sigarette fumate di straforo, e il matrimonio in rovina è solo quello di un mio coinquilino, e c'è quasi da vergognarsi a star male per queste sciocchezze, tutti stanno peggio di me, ma ecco che il malessere cresce di nuovo, e sono nel mio soggiorno, è sera, cresce dinanzi all'ostinazione con cui mi viene ripetuto che mio padre era russo, era una spia in missione e ha sempre fatto finta, e cresce perché io ci sto credendo, e la mia memoria non mi protegge più, non abbastanza, ma ecco che finalmente mi protegge, e io ci credo già molto meno, pochissimo, e sono al ristorante, e recito a memoria Pasolini per tutti i commensali, e questa storia su mio padre m'inquieta, forse, mi irrita, ma non ci credo affatto, e poi non m'inquieta nemmeno più, mi incuriosisce, mi sorprende, al massimo mi diverte per quanto è ridicola, e poi svanisce via, ecco fatto, non esiste più, non è mai esistita, c'è solo un lampo di paura, adesso, e una fuga, e altra paura più forte, più inaspettata, mai provata prima, ma poi scompare anche quella e sono in piedi davanti a una folla che mi applaude, e dono quindici milioni a una donna e poi qualcuno li dona a me, e sono in treno, sono a casa, sono abbracciato ad Anna, sono al funerale di mio padre, sono al suo capezzale, e mio padre muore, entra in coma, peggiora, sembra riprendersi, si risveglia, viene operato d'urgenza, viene ricoverato d'urgenza, perde conoscenza, mia madre mi telefona piangendo,
mio padre si sente male, e poi invece sta bene, eccolo sano come un pesce, e mia madre ride, e sono a cena da loro, sono in macchina, sono seduto alla scrivania e non riesco a scrivere, firmo un contratto per un altro libro, il libro va molto bene, il libro esce, ecco che l'ho consegnato, l'ho finito, sto per finirlo, sono seduto alla scrivania e lo sto scrivendo, è estate, Anna è al mare con Franceschino, ci telefoniamo tutti i giorni e ci amiamo, e sono pieno di idee e incomincio a scrivere un nuovo libro, e festeggiamo con lo spumante, e il primo mi viene pubblicato, e lo scrivo di getto, e mi viene l'idea di scriverlo, e poi l'idea non c'è più, e sono solo lì che racconto a Franceschino le avventure di Pizzano Pizza, così, a invenzione, per divertirlo, visto che comincia a desiderare, a capire, a parlare, a camminare, e sono in strada, a quell'incrocio, appoggiato a quella colonnina, e saluto Anna che mi saluta dal terrazzo, e sono felice, e via e via e via, sempre più veloce, nasce Franceschino, mi sposo, lascio l'Università, mi metto con Anna, mi innamoro di Anna, conosco Anna, smetto di giocare a scacchi, litigo litigo litigo con mio padre, e sono sempre più forte e più leggero, e vedo sempre più lontano, è bellissimo, sembra un disegno di Saul Steinberg, intere epoche liquidate in una parola, giovinezza, adolescenza, infanzia, via, finché, ecco, sono libero, non sono ancora nato e perciò sono ovunque, in ogni tempo e in ogni luogo, è meraviglioso, stupefacente, sono il primo uomo nello spazio, il primo computer, la prima fibra di nylon, sono il consumismo, la televisione in bianco e nero, la rivoluzione a Cuba, la guerra fredda, il muro di Berlino, i Teddy Boys, sono Fred Astaire che balla, Gandhi che digiuna, Charlie Parker che si buca, Ribot che stacca tutti, sono la baia di New York mentre ci affonda dentro l'Andrea Doria, Superga mentre ci si schianta contro il Grande Torino, Norimberga durante il processo, il Tirreno davanti all'eruzione del Vesuvio - sono la steppa siberiana nel '45, e la guerra è appena finita, ed è l'alba di un giorno qualsiasi, livida, gelata, e sono sparso dappertutto in quest'immensità, nel vento, nel ghiaccio, nelle betulle spoglie, e adesso so se è vero o no che mio padre sta facendo saltare le cervella a mio padre, in questo preciso momento, a bruciapelo, per prendere il suo posto di ufficiale, di italiano, e di padre. 21 Uaaaaaaaaaaauuhhhh... La donna ricomincia a ululare. L'hanno portata qui dieci minuti fa, addormentata e intubata, e poco dopo ha cominciato a ululare nel sonno: urla lamentose, guaiti animaleschi, come fosse posseduta dal demonio. E tuttavia nessuno se n'è preoccupato, né l'infermiera che va e viene, e che ogni tanto si ferma da me a controllare come sto, né l'altra che rimane sempre seduta dietro a una piccola scrivania, in fondo a questa stanza a non far nulla. Sala risvegli si chiama questa stanza. E' pervasa da una specie di sussurro di fondo, quando la donna non ulula, come di ventole che girano, apparecchi che funzionano, roba considerata silenziosa ma che silenziosa non è. Auuuuahhhhaaahhh... - Scusi - faccio all'infermiera che va e viene, mentre viene. L'infermiera si ferma. Sospetto che sia bella, ma non mi è ancora riuscito appurarlo, perché non sorride. - Sì? E' alta, magra, senza seno, ha un viso liscio da bambina, e non sorride mai. Non che sia sgarbata, o antipatica: al contrario, è gentile, professionale. Solo che non sorride. - E' normale che ululi, quella signora? - domando. L'infermiera non sorride. - Sì, è normale - dice. Ha gli occhi azzurri, piccoli e forestieri. Dall'accento sembra polacca, o slava. - Cioè lo fanno tutti? L'ho fatto anch'io? - chiedo. L'infermiera fa due passi e mi viene vicino. Ha un'espressione dolce, ma non sorride. - No. Lei è rimasto zitto zitto. Poi, già che c'è, annota delle cose sui suoi fogli. Guarda i flaconi appesi ai trespoli accanto al mio
letto, controlla i rubinetti delle flebo, scrive di nuovo. E' mancina. - E rimanere zitti zitti è normale? - domando. Non sorride nemmeno adesso. - Sì - dice - anche quello è normale. Di nuovo, un ululato echeggia per la stanza. L'infermiera mi guarda. Capisce perfettamente che un sorriso ci starebbe bene, data la situazione, e sembra proprio che si sforzi di trattenerlo. Deve avere i denti brutti, - E' sedata - mi spiega - Sta sognando. E se ne va. Io invece non ho sognato, ne sono sicuro. Non avevo mai subito un'anestesia totale, e devo dire che è fantastica. E' fantastico che la cosa decisiva succeda mentre tu dormi, ma è molto bello anche dopo, il lento pacifico ritorno alla vita che avviene in questa stanza, e poco importa che sia una pace artificiale, procurata chimicamente. Sono sveglio da quasi un'ora, ormai, e sto bene, c'è poco da fare. Sono lucidissimo e non provo dolore, né malessere, solo una gran fame - ma anche la fame è stranamente bella, provata qui, sembra quella che si prova da bambini. Prima ho chiesto all'infermiera quanto ancora sarei dovuto rimanere in questo ventre di balena, e lei mi ha detto «poco». Ma lo chiedevo per curiosità: non sono impaziente di uscire. Uaaaahhhoooaahhhh... Il fatto è che sono stato lucido da subito, appena aperti gli occhi, e mi è successa una cosa molto suggestiva, alla quale non ho più smesso di ripensare. Non so se l'infermiera definirebbe normale anche questo, ma io ho assistito, per così dire, al mio ritorno in me stesso: ho proprio sentito la memoria scivolarmi addosso, in blocchi distinti, dall'altrove in cui l'anestesia l'aveva parcheggiata. E' stato molto diverso da un normale risveglio mattutino, quando si aprono gli occhi e vram, quello che sei ti ripiomba addosso in un secondo: è stato un processo molto più lento e graduale, come quando si fa ripartire un computer e quello comincia a caricare tutto ciò che gli serve per funzionare - programmi, informazioni, memoria pescandolo dal disco in un certo ordine. Equivale a percepire la propria consapevolezza di sé non come un tutt'uno - un granitico, ingombrante tutt'uno - bensì come concatenazione di tante consapevolezze separate. E' stato come osservare i traslocatori rimettere tutte le tue cose al loro posto, ecco, una dopo l'altra nella casa dove hai sempre vissuto e che avevi dovuto lasciare per un certo tempo: alla fine tutto torna come prima, ma l'operazione che lo rende possibile richiede un certo tempo, e durante quel tempo ti accorgi per la prima volta della differenza che c'è tra il muro e la libreria che di solito ci sta appoggiata contro. L'inizio è stato sorprendente: sensazione di nudità. Mi sono semplicemente accorto di essere nudo dentro a questo camice verde; e il primo frammento di passato che mi ha raggiunto è stato il ricordo di averci tenuto le mutande, sotto al camice, quando me l'ero infilato; e il primo ragionamento che ho fatto, perciò, è stato: qualcuno me le ha tolte. Questo è stato l'inizio, prima ancora di ricordare come mi chiamassi o come fossi finito qui, prima ancora di vedere la fasciatura che mi immobilizza spalla e braccio o di accorgermi della benda che copre l'occhio sinistro - prima di tutto; e per un lungo inaudito momento sono stato soltanto quell'elementare forma di vita: sensazione di nudità, ricordo di mutande tenute, constatazione di mutande tolte. Subito dopo sono arrivate le mie pene, in processione: Anna mi ha tradito. Mio padre è morto. Ho avuto un incidente. Ero conciato male. Mi hanno operato. Eccetera. Arrivavano, andavano a occupare il loro posto in prima fila, ma non si portavano appresso nessuna infelicità, nessun dolore - e credo proprio che questo sia merito dei farmaci, del sonno artificiale. Non c'era la minima traccia dell'angoscia di certi disperati risvegli del passato, il cui ricordo è sopraggiunto subito dopo - forse proprio perché potessi apprezzare la differenza: il risveglio dopo che la Juventus aveva perso la finale di Coppa dei Campioni contro l'Ajax; il risveglio dopo che Ilaria Ortoni mi aveva lasciato; il risveglio dopo la terribile sconfitta con Tavella al torneo di Lugano; il risveglio dopo la morte di mio padre... Solo a questo punto sono arrivati i cosiddetti dati di fatto, con le prime immagini. Anna: il suo volto bruno, splendente; il fatto che è mia moglie; la certezza che la amo. Franceschino: la felicità di avere un figlio; il suo volto oblungo, spaurito, che somiglia al mio.
E ancora, mia madre: i suoi occhi verdi sempre pronti alla commozione; la sua leggendaria somiglianza con Sophia Loren; le sue membra gracili tra le mie braccia. E mio padre: la sua distanza, la sua severità, la mia incapacità di andarci d'accordo anche da adulto; il suo cadavere in alta uniforme, distante anch'esso, dentro la bara aperta e circondata di corone di fiori; la notizia pazzesca che non era vero niente, che era russo, che era comunista, che era una spia in missione... Poi, via via, è arrivato tutto il resto, sempre in sequenza, fino a fare di me il Gianni Orzan consapevole e affamato che sono adesso. C'è voluto, non so, un quarto d'ora, ma mentre ancora finivo di caricare il mio destino - perché di questo si trattava, dopotutto - già ricominciavo anche a viverlo, e a pensarci, come Pinocchio che comincia a scappare prima ancora d'esser finito. E allora, più del dolore che Anna ha voluto infliggermi con quella lettera, più della preoccupazione per le mie condizioni e per il mio futuro, a catturarmi è stata la vera novità di questo risveglio, il vero cambiamento rispetto a prima: mio padre era russo, era comunista, era una spia in missione. Nessun dubbio, nessun punto interrogativo. Continuavo a recuperare ricordi e dati di fatto che lo contraddicevano, ma questo assunto si trovava d'un tratto al centro della mia vita, inattaccabile, come se ci fosse sempre stato. Dunque la domanda che mi sono fatto è stata: quand'è successo che ci ho creduto? Come è successo? E il pensiero è tornato a subito prima dello strappo bianco dell'anestesia, a quelle ultime ore passate insieme a Gianni Bogliasco e alla violenta familiarità che ne è conseguita, da quando mi ha sottratto al sequestro dell'ospedale fino a quando il suo volto è stato cancellato dalla porta della sala operatoria, in questa clinica dove lui mi ha portato, affidandomi a medici che lui conosceva - e per i quali si chiamava Gianni Costante, per inciso, come sulla carta di credito. La risposta si trovava lì, in quelle ore. Perché ieri quell'uomo mi ha preso in collo per la seconda volta nella sua vita, quasi trent'anni dopo la prima, ad Amsterdam, anche allora a seguito di un incidente, e mi ha deposto nel suo fuoristrada puzzolente parcheggiato in terza fila, e poi mi ha trasportato fino a questa clinica all'altro capo di Roma, e di passaggio si è fermato all'incrocio dove ho avuto l'incidente, ed è sceso, e ha raccolto la mia Vespa abbandonata sul marciapiede e l'ha pietosamente incatenata a un lampione, e ha recuperato le chiavi, i documenti, il casco, perfino il libro di Carver da dentro al bauletto sganasciato, ed è rimasto al mio fianco mentre gli specialisti mi visitavano, alla spalla e poi all'occhio e poi di nuovo alla spalla, e ha piantato i suoi ditoni sulle radiografie, osservando in controluce la frattura della clavicola, il probabile interessamento dei legamenti e le costole incrinate, e ha discusso con loro sulla mia situazione, riferendomi poi le conclusioni cui erano giunti, cioè che sarei stato operato l'indomani, tanto alla spalla quanto all'occhio, di un duplice intervento congiunto, pare non difficile ma ugualmente delicato, con, tra l'altro, uno speciale sconto sulla tariffa da lui abilmente negoziato di modo che alla fine il costo sarebbe stato coperto dalla mia assicurazione anche se non convenzionata con quella clinica. E ha fatto tutto questo senza mai chiedermi nulla, mettendomi sempre di fronte al fatto compiuto, nemmeno sapesse quanta confusione c'era nella mia mente, e quanto bisogno avevo di qualcuno che prendesse decisioni al mio posto. Nessuno, prima, si era occupato di me in modo così intrusivo, così totale; e infatti ricordo che, seppur nel momento forse più gramo di tutta la mia vita, la sua presenza al mio fianco mi trasmetteva un senso di sicurezza che non avevo mai provato. Ecco, pensavo, la mia vita viene commissariata come una ditta sull'orlo del fallimento: posso abbandonarmi alla corrente del mio tempo impazzito, mentre lui perdonerà Anna e salverà il mio matrimonio, finirà il libro e salverà il mio conto in banca, si occuperà di sbrigare sia le pratiche dell'eredità di mio padre sia, adesso, quelle dell'incidente, e, un giorno di questi, troverà anche il tempo di fare un salto in Austria da quel bambino in coma, ad abbracciare sua madre per conto mio... E' andata così che ho creduto alla sua storia: ho creduto in lui. E' sceso il buio, il tourbillon dei consulti medici è finito, siamo rimasti soli nella stanza, e io credevo in lui. Mi lamentavo, stordito dal dolore e dagli antidolorifici, i contorni della realtà sfumavano in quelli del sogno, le lunghe ore di quell'ipnagogica nottata passavano, e io credevo in lui. Lui mi tranquillizzava, mi raccontava barzellette vecchissime, mi cantava le lodi dell'ortopedico che mi avrebbe operato l'indomani, poi mi parlava di sé, mi diceva che la sua occupazione ufficiale era di investigatore privato anche se in
realtà non la svolgeva affatto, poi mi mostrava il libro che ha scritto sulle rosticcerie e mi spiegava che stava venendo a portarmelo quando ha visto la mia Vespa sfasciata in mezzo all'incrocio, e ha saputo da un barbiere che avevo avuto un incidente e che mi avevano portato al Policlinico, e lì ha visto le Forze dell'Ordine che stavano apponendo i sigilli del sequestro giudiziario, e fortuna che mi ha trovato subito, fortuna che non ero grave, fortuna che non l'hanno visto mentre mi portava via svenuto. Poi andava fuori a fumare, poi ritornava e, credendomi assopito, se ne stava in silenzio sul divano a rileggersi il suo libro, sul naso gli occhialini uguali a quelli di mio padre, o ritto alla finestra a fissare chissà cosa, con la camicia a mezze maniche, il respiro pesante e il fischio ai polmoni, ma io non dormivo e lo guardavo, e lui a un certo punto se ne accorgeva e mi chiedeva se c'era qualcosa che poteva fare per me, e la sua figura fluttuava nella stanza, e io gli dicevo di sì, che c'era, poteva dirmi la verità sul Dc 9 di Ustica, lui che la sapeva, e sulla bomba di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, della stazione di Bologna, e sul caso Moro, e sull'assassinio di Pasolini, e lui si sedeva e me la diceva, è stato un missile francese, diceva, sono stati i fascisti, sono stati i servizi, Fioravanti non c'entra ma sta bene dove sta, si sapeva benissimo che le Brigate Rosse tenevano Moro in via Montalcini, su Pasolini invece non si è mai saputo niente di preciso, perché a nessuno gliene è mai fregato niente; e io mi accorgevo che allora la verità la sapevo anch'io, la sapevamo tutti, altro che misteri, altro che Italia invisibile, è come quando il prestigiatore sparisce da dentro la cassa, c'è una botola, cazzo, è così semplice, lo capisce anche un bambino, ma naturalmente il prestigiatore dice che la botola non c'è e allora tutti lì a chiedersi come diavolo ha fatto a sparire - mistero -, e se qualcuno insiste con la storia della botola viene preso per stronzo. Poi mi assopivo, ma il dolore fortissimo mi risvegliava, e lui andava a chiamare una nana che veniva a farmi un'iniezione, e allora stavo un po' meglio, ed era notte fonda, ormai, e lui si toglieva le scarpe spandendo una discreta puzza di piedi per tutta la stanza, e si sdraiava sul divano, e si addormentava di colpo, un istante prima parlava di una sua remota frattura del bacino e subito dopo russava come un cinghiale, e dormiva un sonno irrequieto, rantolante, la sua mole contenuta a stento dal divano, e all'alba si svegliava, si issava faticosamente in piedi nella penombra e faceva la sua ginnastica mattutina, quattro piegamenti quattro sulle ginocchia scricchiolanti, patetici, antiquati, le braccia tese in avanti come il Duce; e sempre più, in tutti quei momenti, io credevo in lui. Poi, stamattina, poco prima di andare sotto i ferri, mentre l'anestetico cominciava a trascinarmi via e i miei occhi si portavano dietro l'immagine del suo faccione abbrutito dagli spunzoni di una miserabile barba grigia, ricordo di aver pensato una cosa che non mi sarei mai aspettato di pensare: se a mio padre fosse stato concesso di tornare in questo mondo, ho pensato, per dirmi quello che per tutta la vita non mi ha detto, e avesse dovuto scegliere una persona nella quale incarnarsi - tutta diversa, è logico, da quella che aveva finto di essere, un'altra persona, una creatura talmente distante da lui da mostrare quanto anche lui fosse distante da sé, e allo stesso tempo però ardua anch'essa, difficile da accettare, ma buona e misteriosa e forte e romantica e solitaria e piena di passato come ogni padre desidera essere agli occhi di un figlio - be', ho pensato, avrebbe scelto lui. Dopo aver pensato una cosa simile, ed essercisi addormentati nel bel mezzo, non si torna più indietro. E' così che è andata. Aaaahhhhuuuuuuuuhhh... L'infermiera che non sorride continua a ignorare la donna ululante, e viene da me. - Tutto normale - dico. Non sorride. Chissà se è stata lei a togliermi le mutande. - Bene, signor Orzan - dice - La riportiamo in camera. Arriva anche l'altra infermiera: è meno giovane, più massiccia. Assomiglia a Gabriella Ferri. Attacca una cartella al mio letto e si mette a sbrogliare i tubi della flebo. Non Sorrido si guarda lo Swatch e si mette a scrivere su un foglio. Già, il tempo... - Che ore sono? - chiedo. - Le due. Be', si è fatta una cert'ora, come si suol dire. Se invece di operarmi mi avessero messo su un aereo,
sarei arrivato come minimo a Mosca. - Avverte dolore? - ricomincia il rosario. - No - rispondo. - Niente niente? - No. - Anche l'occhio? Fastidio? Formicolio? - Niente - ripeto. Lei trascrive tutto sul suo foglio. - E' normale? - chiedo. Stavolta ho l'impressione che si trattenga davvero a stento, ma non sorride. Tiene gli occhi fissi sul foglio e continua a scrivere. - E' bene - dice, sempre scrivendo - E' molto bene... La donna addormentata ha cominciato a gemere, intanto, e non ulula più. Gabriella Ferri toglie il freno alle ruote, e il mio letto fa uno scatto in avanti. Non Sorrido le fa un cenno per dirle di aspettare, e mi guarda dritto negli occhi. - Speriamo di no - dice - ma se più tardi avvertirà dolore forte, spinga questo pulsante. Mi indica una macchinetta attaccata alla testiera del letto, poi uno dei flaconi che pendono dal trespolo. - La macchina rilascerà automaticamente la morfina - spiega. - Uau - dico - Fantastico. - Naturalmente - aggiunge - la macchina smetterà di funzionare dopo avere rilasciato una certa dose. Perciò non ne abusi. Capito? - Affermativo. Niente da fare, tiene duro e non sorride. Il letto comincia a muoversi. Lei fa il gesto di tirarlo dal fondo, camminando all'indietro, ma si vede benissimo che lo sforzo lo fa tutto quell'altra. - Crede che potrò mangiare qualcosa? - le chiedo, mentre sfiliamo davanti alla donna che geme. - Certo - risponde, sempre facendo finta di tirare il letto - Ha molta fame? - Moltissima. - E' un altro buon segno - dice, e molla il letto per andare ad aprire la porta. Il letto rallenta, si ferma, e quando la porta è completamente spalancata riparte, ma lei rimane ferma sulla soglia. - Allora buon appetito - mi dice mentre le scivolo accanto, e tutt'a un tratto sì che sorride, e i denti li ha perfetti, e le vengono pure le fossette nelle guance, ed è ancora più bella di quanto sospettassi, sembra nata per sorridere, e allora di non sorridere deve averglielo chiesto la direzione, per non scatenare casini con i pazienti, poiché devono essercene stati, in passato, quando sorrideva (telefonate mute, mance imbarazzanti, mazzi di fiori), e per la clinica questo non è bene, senza contare la gelosia delle colleghe, le avances dei medici, e lei si è adeguata: è straniera, è extracomunitaria, non può permettersi di avere noie sul lavoro, e perciò ha ubbidito, ci si è messa d'impegno e ha imparato a rassicurare i pazienti senza sorridere, e adesso le viene quasi naturale ma qualcuno dovrebbe dirle che se poi fa così, se alla fine invece sorride, a tradimento, ed è l'ultima cosa che il paziente le vede fare mentre sta filando via, e ha già un certo magone per conto suo, perché là fuori ci sono i suoi problemi e nessuno potrà affrontarli per lui, allora è tutto inutile, anzi è peggio, perché quello si gira, matematico, o meglio cerca di girarsi per vederla ancora un secondo, ma siccome è invalido non ci riesce, e Gabriella Ferri gli dice di stare buono, e lui ricade giù, agitato, d'un tratto, e vulnerabile come è sempre stato, e allora anche l'anestesia, l'operazione e quel risveglio benedetto non sono serviti a nulla, no, non hanno cambiato la sua vita, se ancora non ha ricominciato a viverla e già gli manca qualcosa. 22 Mia madre. Come entro nella stanza, mia madre si alza dal divano. E' pallida, affranta, non si sforza nemmeno di nascondere la preoccupazione.
Aspetta che Gabriella Ferri parcheggi il letto, che ne regoli l'inclinazione coi pulsanti, e poi mi viene vicino, dalla parte del braccio sano. - Ciao, madre - faccio. Gabriella Ferri se ne va, salutando impercettibilmente. - Come stai? - Bene. Tu? Si china, mi bacia in faccia, e io annuso il suo profumo. Chanel 19, si chiama: gliel'ho regalato tante volte, per Natale. Si risolleva, mi accarezza il viso e mi guarda, un lungo sguardo pieno di pena: sul mio torace fasciato, sul polso trafitto dalla flebo, sulla benda che copre l'occhio. Da ragazzo non so cosa avrei dato per avere un incidente ed essere operato a sua insaputa, e venire guardato così, il giorno dopo, povero figlio ferito che lei non aveva potuto proteggere: ma non mi succedeva mai nulla. Ora che mi è successo me ne vergogno e basta, e mi sento in colpa per non averla avvertita, ieri, quando Bogliasco mi ripeteva di farlo, tra una decisione e l'altra che prendeva per me. - Sul serio, mamma - dico - Sto bene. Mi tiro un po' su - solo pochi centimetri, in realtà - e lei mi accarezza un'altra volta. Poi mi prende la mano e io sorrido di nuovo, consegnandomi ai suoi vecchi occhi verdi, ancora velati dal lutto, e ora anche screpolati dall'angustia. Tuttavia non posso mettermi qui a tranquillizzarla come sarebbe naturale, a sbrogliare l'ingorgo di domande che le ingombra il cervello (cos'è successo, che ti sei fatto, perché non mi hai avvertito subito, perché sei venuto in questa clinica, perché non sei andato da Di Stefano...), rotolandomi nei suoi sguardi e nelle sue carezze. Sarebbe naturale, sarebbe anche bello, ma ci sono cose che si trovano fuori dalla portata della naturalezza: adesso tra noi c'è un'urgenza del tutto nuova, e va affrontata subito, prima che si depositi in profondità, dove comincerebbe immediatamente a crescerci sopra l'alga della consuetudine - che tutto nasconde, nelle famiglie, tutto soffoca, tutto compatta in quel grumo di urgenze trascurate che viene chiamato affetto. Non mi aspettavo di doverlo fare adesso, qui, ma forse è meglio così: sono pronto, sono lucido, e se esiste un modo giusto per farlo lo troverò. Devo solo prendere l'iniziativa e trascinarla lontano da questa stanza, attentamente, strenuamente, volontà contro naturalezza, verso la fondamentale correzione che bisogna apportare alle nostre vite. - Come l'hai saputo? - domando. - Mi ha telefonato il tuo amico, stamattina. Il mio amico. Grande. - E come sei venuta? Col treno? - No. Mi ha accompagnato Graziella in macchina. - Graziella? C'è anche Graziella? - No. Lei voleva rimanere ma l'ho rimandata a Sabaudia. Deve allattare la bambina, altrimenti... - Già. Come va con la mastite? E' guarita? - Sì, le è passata. Ma se non allatta le può tornare. - E la piccina sta bene? E' sempre più bella, scommetto... - Sì, sta bene. Mangia e dorme. - E quei due farabutti? Sono gelosi? - No, per adesso no. - Che fanno? Vanno in spiaggia? Nuotano? Mi guarda, perplessa: non le ho mai fatto tante domande sulla famiglia di mia sorella. - Fanno scuola di vela - dice. - Di già? - incalzo - Ma non sono troppo piccoli? - Pare di no. - Non è pericoloso? - Ci sono gli istruttori - risponde, sempre più perplessa, ma non più solo per causa mia, adesso, perché mi sa che questa scuola di vela la convince poco. (E, per inciso, è commovente l'ingenuità con cui si lascia catturare nei discorsi sui nipoti. E' vedova da neanche un mese, ha un figlio all'ospedale, si vede che vi si vorrebbe sottrarre, ma non ci riesce: è più forte di lei, questo rispetto
immenso delle questioncine familiari che io uso come diversivo...) - Be', è vero - faccio - E poi non è che siano di quei bambini incoscienti, no?, che non vedono il pericolo... Com'è che ha detto il piccolo, in piscina, quando l'istruttore gli ha chiesto perché si rifiutava di tuffarsi? Controvoglia, irresistibilmente, il volto le s'illumina. - «Perché se mi perdete d'occhio affogo.» Scoppio a ridere, una risata schietta, genuina, e controvoglia, irresistibilmente, scoppia a ridere anche lei. Ecco fatto: la morsa dell'apprensione sul suo viso si allenta, la sua testa si sgombra, ha visto che sto bene, e, qualunque cosa abbia temuto fino a cinque minuti fa, adesso è qui che ride insieme a me. - Capito? Lui, all'istruttore... - Che sagoma... - Che sfiducia totale... E' la tattica di Bogliasco, degli slavi che mi battevano sempre: iniziativa, digressione, poi due attacchi micidiali - mai uno solo, due - uno di seguito all'altro. Bussano alla porta, però, e questo è male. Un'infermiera mai vista fa capolino con un carrello: è anonima, bruttina, e perciò sorride senza scrupoli. - Desidera mangiare? - fa. - No, grazie - rispondo. L'infermiera rimane interdetta ma non insiste, scompare, e la porta si richiude. Torno a guardare mia madre, e sorrido di nuovo. - Non posso mangiare fino a stasera - m'invento. In effetti è vero, non posso. Non è il momento di mettersi a mangiare, adesso. Adesso è il momento di fare un'altra cosa. - E vi siete incontrati chiedo - con il mio amico? - Dove? E come farla me lo ha addirittura suggerito lui... - Qui, quando sei arrivata. Vi siete visti? - No. - Lo sai chi era? - Chi? - Il mio amico. Non l'hai riconosciuto, dalla voce? - No. Perché, chi era? Fa' così, dille che mi hai incontrato. - Era Gianni Bogliasco, mamma. Naturalmente, lei negherà di conoscermi. - Chi? Ma tu fissala negli occhi, mentre lo fa, e col tuo sguardo esperto di figlio ti accorgerai che mente. - Gianni Bogliasco. I suoi occhi non esprimono niente. - Gianni Costante. Niente. - Gianni Fusco. Niente, non c'è niente nei suoi occhi, a parte uno stupore da interrogatorio di commissione parlamentare d'inchiesta, che pare vero. Eppure c'è, come c'è sempre stato, solo che io non riesco a vederlo, come non ci sono mai riuscito. Bogliasco sbagliava: non esiste al mondo nulla di meno esperto dello sguardo di un figlio... - Dài, mamma. Quello che ha scritto quel libro lì. Le indico il libro, sul comodino vicino al telefono. Lei si alza in piedi, lo prende e lo osserva come se stesse vedendo uno zuavo. Certo, come libro è bello strano (Gianni Bogliasco, Under 10, Edizioni Tam-Tam, con un supplì in copertina) e in linea puramente teorica potrebbe anche essere la prima volta che lo vede, ragion per cui un po' del suo stupore potrebbe essere autentico: ma io lo so che l'ha visto, e a casa deve
avercene una copia, per la precisione nell'armadio dello stanzino, dove tiene i libri di cucina. - E' lui che ti ha chiamato, mamma. L'amico di papà. Quello dell'incidente di Amsterdam. Brava, mamma. Davanti a questo sguardo la commissione parlamentare si arrenderà. - Gianni - stupefatta, col libro in mano - Ma di che stai parlando? Però io non sono un sottosegretario, mamma, e questa si chiama mossa forzata. Se hai taciuto per tutti questi anni non parlerai certo adesso; se hai giurato di non dirmi niente, il giuramento non lo infrangerai; non puoi fare altro che la faccia sbalordita. E io devo accettarlo, questo, perché d'ora in poi sarà sempre così: devo imparare a crederci e basta, esattamente come ho creduto per trentasette anni alla vostra versione della vita borghese, senza mai sognarmi di pretendere le prove. - Siediti, mamma - dico. Solo che una differenza c'è, ed è immensa: tu ora sai che io so. Continuerai a compiere il tuo dovere fino in fondo, come no, e la prima cosa che farai, appena tornerai a casa, sarà gettare via quel libro sulle rosticcerie; ma almeno è finito il sacrificio più assurdo cui t'ha inchiodata il tuo destino, di sapere tuo figlio alle prese coi problemi sbagliati e non poterglielo dire. Dev'essere stata ancora più dura, per te che non sei mai stata russa, comunista, mandata in missione, per te che eri solo una ragazza piccolo borghese del Nomentano, bella, semplice e senza grilli per la testa - come una pletora di sorelle, cugini, nipoti e zie centenarie ancora in vita possono documentare senza ombra di dubbio. Eppure, in un certo senso, dev'essere stato anche più facile, poiché per te si è trattato di amare e non d'altro, anche se di amare due volte: amare l'uomo che ha tirato il grilletto e amare l'uomo che è rimasto sulla neve; amare lo sposo che hai potuto baciare davanti agli invitati e quello che hai potuto baciare solo in segreto; amare la vita che hai fatto insieme a lui e quella che non hai mai potuto fare; amare la figlia che non ti ha dato pensieri e il figlio che te ne ha dati tanti. Tu quello sapevi fare, amare, e quello hai fatto: hai amato, e sei andata avanti amando, senza stare a distinguere cosa c'era di vero e di finto. Per te è stato tutto vero, in fondo, perché per non sbagliare, davanti a quella vita così complicata, hai amato tutto. E se il prezzo è stato doppio, pazienza: ormai l'hai pagato; e se adesso all'improvviso il prezzo si dimezza, tanto meglio: vuol dire che ne è valsa doppiamente la pena. Se a qualcosa devo credere, mamma, perché non a questo? - Dài, siediti qui - le dico - Ti voglio confidare un segreto. Mia madre si risiede accanto al letto, e il suo volto ora è abitato da una folla in festa: io non ce la vedo, naturalmente, io continuo a non vederci nient'altro che stupore, candore, e d'un tratto di nuovo preoccupazione per il suo povero figlio andato via di testa; eppure ce la vedo. La mia mente è tersa, adesso, e tutto ciò che mi serve posso vederlo lì dentro, con una chiarezza prodigiosa. Non preoccuparti, mamma, so quello che faccio. Non ti farò del male. E' solo che gli attacchi devono essere due, uno solo non basta... - Ti ricordi - dico - quando presi in affitto la mia casa, dieci anni fa? Ti ricordi che in soggiorno una delle finestre era tappata da un camino finto? - Sì. - Ti ricordi com'era brutto, col mobile bar incassato, le maioliche verde bottiglia, e le resistenze elettriche che simulavano il rosso del fuoco? - Sì, era proprio orrendo. - E te l'ho detto che il proprietario, dopo essersi impegnato ad abbatterlo, e a riaprire la finestra che c'era dietro, cambiò idea e disse di no? C'era troppo affezionato, disse, ci aveva passato davanti tutte le feste quando era bambino, ci aveva fatto il presepe tutti gli anni, ci aveva raccolto le calze della Befana, e insomma non lo abbatté. Era un pezzo del suo passato e non voleva buttarlo via, anche a costo di rimangiarsi la parola data. Te l'ho detto, questo? - No. - Già. Mi vergognavo di non essere riuscito a spuntarla, ecco perché non te l'ho detto. Io ci provai, a fare il duro, ma tu mi conosci, mamma, non sono capace di trattare: la casa mi piaceva, avevo paura di arrabbiarmi e mandare tutto all'aria, e alla fine, pur di levarlo di mezzo, quel camino ho accettato di smontarlo io pezzo per pezzo, a spese mie, con la promessa scritta di rifarlo uguale quando andrò via. Una cosa umiliante, mamma, perché è ovvio che la stanza è molto più bella così, più luminosa,
più spaziosa, più tutto, e nemmeno il proprietario stesso, se mai ci tornerà, rivorrà di nuovo tra i piedi quel camino; ma lui questa cosa l'ha pretesa e io l'ho fatta. Un lavoro assurdo, e costoso, solo per non buttare via un pezzo del suo passato del cazzo... - Gianni... - Scusa. E insomma l'abbiamo fotografato, misurato, disegnato in pianta e in prospetto, e alla fine l'abbiamo smontato, io e l'imbianchino che era lì a ridipingere i muri, quello che mi mandaste voi, che poi è morto. Come si chiamava? - Chi, Frate? - Frate, sì. Due giorni, ci abbiamo messo. E qui arriva il segreto, mamma: perché dopo avere tolto tutte quelle piastrelle una per una, tutti i mattoni a facciavista uno per uno, con lo scalpello, tic tic, piano piano, nemmeno fosse la Domus Aurea, lo sai cosa ci abbiamo trovato dentro? Nell'intercapedine, tra il camino e il muro... lo sai cosa c'era? La mamma mi guarda, sospesa tra apprensione e curiosità: e questa espressione taglia la testa al toro, poiché potrebbe essere tanto quella di chi sta assecondando un figlio che delira quanto quella di chi sta ascoltando un figlio lucidissimo e vuole semplicemente sapere cosa c'era nel camino. - Una merda, c'era sussurro - Giuro, c'era una merda umana. Mummificata, liofilizzata, e avvolta in una pagina del «Messaggero» del 1953. La mamma fa una smorfia di disgusto, sorpresa, ma anche lievemente divertita. - E' una cosa che non ho mai detto nemmeno ad Anna - continuo perché avevo paura che... non lo so perché, ma non gliel'ho detta, non l'ho mai detta a nessuno. Però quella scena ce l'ho davanti agli occhi, come se stesse avvenendo adesso in questa stanza: il muratore, che ha appena fabbricato quel camino, nel 1953, quando il mio padrone di casa è un bimbetto di quattro anni e crede che da quel camino entreranno Babbo Natale e la Befana a portargli i regali, caca su una pagina di giornale, prende il cartoccio, sale in cima alla scala, getta il cartoccio nell'intercapedine, mura gli ultimi mattoni, e se ne va tranquillamente a farsi pagare. Il disgusto sul suo volto cancella tutto il resto. - Capisci, mamma? Il mio padrone di casa ha passato i momenti più belli della sua infanzia davanti a una merda. E ora sono io a guardare lei: i nostri occhi continuano a incrociarsi come prima, ma sono io, adesso, che la fisso. - Tu che faresti, al posto mio, glielo diresti? Frate è morto, e probabilmente è morto anche il mattacchione che ce l'ha messa, più di quarant'anni fa. Lo so soltanto io, nel mondo, a parte te. Tieni presente che il mio padrone di casa è un gran tirchio, e mi fa il contratto uso foresteria di anno in anno per potermi buttare fuori quando vuole, e io non posso nemmeno prenderci la residenza, lo sai, e infatti ce l'ho ancora in via Tartaglia. Metti che mi butti fuori: tu, al posto mio, glielo diresti? Bussano alla porta. - Un momento! - grido immediatamente, inappellabilmente. Poi torno a guardare mia madre. - Glielo diresti? - Gianni, ma che significa? - Niente, è una domanda. Glielo diresti sì o no? C'è qualcosa d'implorante, ora, nei suoi occhi. «Smetti, Gianni,» mi stanno dicendo, «ti prego, ti supplico, smetti, non fare come sempre, non accanirti, papà è morto, io non sono forte come lui, quel che è stato è stato, io ti amo, fermati in tempo.» E nei miei, di occhi, se non ho sbagliato espressione, dovrebbe esserci scritto «Tranquilla, ma'. Fidati. Rispondi alla domanda e io mi fermerò, e la mia sarà stata solo una botta di rincoglionimento dovuta all'anestesia. C'è una donna che ulula, di là, e pare sia normale: io avrò straparlato per cinque minuti». - No - risponde. Che cosa fantastica, giocare alla verità con la propria madre: ci si dice anche quello che non ci si dice... - Avanti! - grido. La porta si apre. E' Anna. Certo: il mio amico avrà avvertito anche lei.
23 «I lampi della Tv accesa a notte fonda in casa di Confalone, il vuoto letale che rovesciano in strada attraverso la finestra aperta e desolata. «Le violente metasoluzioni di Victor Balanda, la sua irriducibile incapacità di concepire la sconfitta. «Quei versi di Panella nella canzone di Lucio Battisti: "Ah, come siamo vivi@ Come tutto accade@ Per tutt'altri motivi@"...» Non che sia sempre una forza, ricordare, ma anche quando non lo è dà l'impressione di esserlo, questo è il punto. Ora, per esempio: ora che Anna avanza in silenzio, dopo aver parlottato con la mamma sulla porta, e la mamma è uscita, e ci ha lasciati soli, e ci troviamo davanti a un bivio micidiale, e le nostre vite cambieranno o non cambieranno a seconda di come io mi comporterò nei prossimi secondi; a mantenermi tranquillo non è sangue freddo, o semplice fatalismo, ma una folla di ricordi vividi e agguerriti, rigenerati da questa santa anestesia, che vanno radunandosi intorno a me come volontari nel giorno della battaglia, e mi fanno sentire forte. «Quella sera di qualche anno fa, quando andammo insieme al cinema a vedere Occhi di Serpente e non ci piacque, e lei se la prese con la scena "inverosimile e crudele" - così la definì - nella quale Harvey Keitel vola a New York da sua moglie perché le è morto il padre, e mentre è lì con lei, davanti alla bara ancora aperta, le dice di avere un'amante. Chissà se se lo ricorda: adesso, in questo preciso momento, mentre mi guarda con gli occhi commossi e non sa cosa dire, e aspetta che parli io ma io sorrido e sto zitto, chissà se Anna si ricorda quanta sana indignazione le ha procurato quel dopotutto semplice guizzo di sceneggiatura. E chissà se ricorda cosa le dissi io, che invece del film avevo apprezzato praticamente solo quella scena, e la difendevo: "Se uno fa una cosa del genere," le dissi, "vuol dire che non può fare diversamente."» Eppure, con tutta la forza che i ricordi possono trasmettermi ammesso che di forza si tratti - sono fragilissimo. Davanti alla sua bellezza commovente (commovente perché intatta, e non tanto perché lei invecchia prodigiosamente bene, il che è comunque vero, ma intatta e per sempre intatta nella mia mente, dove lei non smetterà mai di essere «la fantastica ragazza col vento nei capelli e i piedi fuori dal finestrino che mi bacia all'improvviso nella piazzola dell'autogrill Versilia-Ovest mentre Satisfaction dei Devo è sul babe babe babe babe babe babe babe babe babe e la mia sigaretta cade in terra sbruciacchiando tutto il tappetino») sento che posso permettermi un solo tentativo di salvare il nostro matrimonio, uno solo, e poi mi arrenderò, perché comunque vada la forza mi servirà dopo: se il tentativo riesce, mi servirà ogni giorno quando la bacerò, l'accarezzerò o farò l'amore con lei, per sopportare il pensiero di quella stessa intimità con lei goduta e ricordata da un altro; e se invece fallisce, mi servirà lo stesso ogni giorno per resistere senza di lei, senza Franceschino, e senza più nemmeno riuscire a concepirla, come dice anche lei nella lettera, la felicità. «Quei saluti pieni di felicità, lei in terrazza con Franceschino in collo, io laggiù alla colonnina con un fascio di giornali in mano.» Eccola, Anna, ormai è vicinissima. Se si è macerata nel tormento, in questi giorni, se la notizia del mio incidente l'ha sconvolta, se ha guidato come una matta fin qui da Viareggio per arrivare prima possibile, non ne porta i segni addosso. E' fresca, abbronzata, il corpo elastico e desiderabile nonostante il castissimo vestito blu, quella sua espressione lucida e controllata di mitica ribelle di provincia che si è data una calmata al momento giusto ed è riuscita a trasformarsi in donna, sotto ogni aspetto molto più delicata e profonda e sensibile e consapevole e amata e attraente di quando era più giovane - ma evidentemente ancora non del tutto lucida e controllata. Mi guarda e io mi sento perduto, come sempre, nel pozzo dei suoi occhi: so di essere per lei molto più di quanto ora mi dica il mio orgoglio agonizzante, ma anche molto meno di quanto abbia ingenuamente creduto fino a ieri. E' una creatura misteriosa, anche lei, inconoscibile, con tutti i quindici anni che abbiamo vissuto insieme. Ha desideri segreti, passioni ancora accese, debolezze a me del tutto ignote, e anche su questo non ha senso accanirsi a scoprire, sapere, investigare, si può solo prendere o lasciare. Solo prendere o lasciare. Ed è già una fortuna. «La fine della sua lettera: "E comunque vada sappi che ti amo." La fine del terzo atto dell'Adelchi: "Soffri e sii grande: il tuo destino è questo." Le lettere che mi ha scritto ogni giorno per più di un mese, tanti anni fa, molto prima che ci sposassimo, quando volevo lasciarla perché avevo paura di lei, e in particolare quella in cui mi diceva che avrebbe voluto appoggiare la testa sul bracciolo del
divano e farsi succhiare tutto il sangue da me. Di nuovo l'Imperatore del Giappone, quella sua frase che vale davvero per tutto: "Che ognuno faccia quel che deve. Che la vita continui normalmente"...» - Facciamo così, Anna dico - Facciamo che la settimana scorsa ho avuto un gravissimo incidente, e sono entrato in coma, e sono rimasto in coma una settimana. I medici, qui, mi hanno curato benissimo, con tecniche che non si usano nemmeno in Austria, e stamattina mi sono risvegliato. Non ci sono stati danni permanenti, solo una gran botta: fra un paio di giorni mi manderanno a casa, e potrò riprendere la mia vita da dove l'avevo lasciata. Un miracolo, Anna: facciamo che è stata una specie di miracolo. «La strana, a questo punto, stranissima intesa che c'è sempre stata tra lei e mio padre...» - Facciamo così? - ripeto. Si abbassa su di me, i suoi capelli fini mi sfiorano l'occhio sano, le sue labbra mi baciano il viso. - Sì - sussurra. Ecco fatto. Niente discussioni, niente spiegazioni, niente inutili sprechi di forze. C'era un problema e l'abbiamo superato, e ci amiamo e siamo nobili d'animo, e se cadiamo sappiamo rialzarci, e se ci facciamo del male sappiamo perdonarci, e continueremo a stare insieme per il resto della nostra vita senza tormentarci su quello che è stato, sul come e il perché - anzi, quello che è stato sarà la nostra forza, che nessuno potrà mai vincere. E' una cosa bellissima, no? Sono felice, no? «Il titolo di quel giornale algerino che fece il giro del mondo, nel giorno di certe elezioni insanguinate dalle stragi degli integralisti: "Se voti, muori. Se non voti, muori. Dunque vota, e muori."» Anna continua a coprirmi di baci, teneramente, delicatamente. Io sollevo la mano libera, la tengo un istante a mezz'aria, indeciso su dove posarla, in una specie di incerta benedizione del nulla. Poi la rovescio all'indietro, verso la testiera del letto, dove hanno attaccato la macchinetta, e spingo il pulsante della morfina. EPILOGO «Bene, ragazzi, la vera storia di Pizzano Pizza finisce qui. «Se vi sembra un po' triste, come fine, non posso darvi torto. Se credete che io non mi sia battuto abbastanza per farla finire diversamente, non posso darvi torto. Se credete che avrei potuto fare qualcosa in più per scoprire tutta la verità, fino in fondo, o per procurarmi le prove di quello che vi ho raccontato, tanto per non costringervi a crederci e basta, non posso darvi torto. E non posso darvi torto neanche se pensate che avrei potuto continuare a mentirvi, almeno, e a inventarmi altre storie con finali lieti e soddisfacenti come fanno in tanti. Ma ormai è andata, e se vi ho deluso non so davvero come giustificarmi, perché non è che mi è scappato, l'ho proprio fatto apposta: dovevo decidere, e ho deciso di fare così. «Però posso raccontarvi un'ultima storia, prima di lasciarvi, e sono sicuro che questa non vi deluderà, e magari vi farà anche ridere. Si tratta di una storia molto vecchia, che in tanti hanno raccontato in tanti modi diversi, anche se sotto sotto è rimasta sempre uguale: solo che voi siete piccoli, e molto probabilmente non la conoscete ancora. E' la storia di un uomo infelice, che aveva una vite d'oro nell'ombelico e non riusciva a liberarsene. Era andato da dottori, meccanici, carrozzieri, chirurghi, orafi, ferramenta e fattucchiere, in tutto il mondo, nella speranza che qualcuno di loro riuscisse a togliere quella vite: nulla, nessuno era mai riuscito anche solo a smuoverla di un millimetro. Ma l'uomo non si era arreso, e aveva continuato a girare il mondo, ostinato, alla ricerca di qualcuno che riuscisse a togliergli quella vite d'oro dall'ombelico. Finché, un giorno, si recò dall'Imperatore del Giappone - che, come spesso accade in quel saggio paese, era un bambino. L'uomo gli mostrò la vite e, a gesti, poiché non sapeva una parola di giapponese, gli fece capire qual era il suo problema. L'Imperatore-bambino guardò la vite, sorrise, poi si girò lentamente e si mise a frugare in una grande scatola d'avorio che teneva nascosta dietro al trono, finché ne cavò un minuscolo cacciavite d'oro, talmente piccolo che sembrava uno spillo. Lo mostrò all'uomo e, sempre sorridendo, pronunciò nella sua lingua una frase incomprensibile, dal
suono però meraviglioso, come una manciata di campanelle d'argento lasciate cadere su un cuscino di piume. L'uomo, che non aveva capito nulla, annuì, e l'Imperatore allora estrasse dalla sua scatola un drappo di seta viola e lo stese sul pavimento, con molta cura. Quando ebbe eliminato anche la più piccola piega vi fece inginocchiare l'uomo, vi si inginocchiò a sua volta e si mise al lavoro. «Pareva veramente impossibile che un cacciavite così microscopico potesse svitare una vite così grossa, ma la vite cominciò a girare senza fatica, e, girando, a uscire dall'ombelico: un giro, due giri, tre giri, la vite uscì sempre di più, finché fu completamente fuori, e l'Imperatore-bambino la mostrò all'uomo tenendola tra le dita. L'uomo allora si guardò la pancia e sbalordì: per la prima volta la vide normale, liscia e senza viti come quella di tutti gli altri. Era libero: la sua tenacia era stata premiata, la maledizione che lo aveva accompagnato per tutta la vita era finita. Balzò in piedi, pazzo di felicità, e gli cadde il culo per terra.»