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Zitiervorschau

PICCOLA BIBLIOTECA EINAUDI

Filologia. Linguistica. Critica letteraria

30

Titolo originale The Latin Language Copyright 1954, © 1961 Faber and Faber, London /

Copyright © 1977 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

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Seconda edizione Traduzione di Maurizio Vitta

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LA LINGUA LATINA

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Indice

p. IX

Prefazione

La lingua latina PARTE PRIMA Lineamentí di storia della lingua latina 5

X.

7 15 28 3o

42

Il latino e le altre lingue indoeuropee I dialetti italici: l'osco-umbro La teoria italo-celtica e la civiltà nordoccidentale Aflìnità italo-greche Fenomeni marginali

II.

I Protolatini in Italia

49

L'illirico

52 54

Il venetico Il siculo e l'« italico occidentale ››

57

L'etrusco

61 64 66

Il greco Il celtico Il lepontico

67

Il ligure

68

Il sostrato mediterraneo

73

III.

I dialetti latini e i testi piú antichi

9o

IV.

Il latino parlato: Plauto e Terenzio

INDICE 116

v.

174 184

VI.

La poesia La lingua della prosa letteraria Poesia e prosa postclassiche

Il latino volgare Fonologia Morfologia Sintassi Lessico

193 198 206 209 224.

Gli sviluppi della lingua letteraria A. B. C.

116 14.6

VII. Le lingue speciali: il latino cristiano PARTE SECONDA

Grammatica storico-comparativa 257

V111. Fonologia Le vocali Vocali Le sonanti Le consonanti

259

263 272 275

285

IX.

285 288

Morfologia Alcune nozioni preliminari

Formazione dei nomi Le classi declinazionali e le desinenze dei casi

293

308 310 315 316

Gli aggettivi

I pronomi I pronomi personali

323

I numerali I verbi La formazione dei temi verbali

342

Gli indeclinabili

319

344

345 369 373

X.

Sintassi I nomi Il verbo I modi

INDICE

383 395 4oo 4II

I nomi verbali Il periodo complesso Le congiunzioni Aggiunta

413

Bibliografia

421

Appendice

43 9

Indice analitico

447

Indice dei termini latini

Prefazione

In questo libro, appartenente a una serie che non si rivolge essenzialmente a specialisti, ho cercato di riassumere i risultati a cui è giunta la ricerca nella storia della lingua latina dall'Età del bronzo fino alla caduta dell'impero romano, rivolgendomi non solo a studiosi del mondo classico, ma anche a colleghi che lavorano in altri campi e in generale a chi ha interesse per questi studi. Non si è presupposta nessuna precedente conoscenza dei principi e dei metodi della filologia comparata, in quanto essi sono spiegati nella discussione dei vari problemi in cui acquistano rilevanza. Il mio intento è stato quello di fissare, nei casi in cui esiste, la communis opinio e, negli altri casi, di esporre nel modo piú imparziale i dati e i punti di vista espressi pro o contro un determinato argomento, sebbene non sia stato capace di nascondere proprio in ogni punto le mie opinioni personali. Per contenere la mole e il costo del libro entro limiti ragionevoli, fu necessario eseguire una rigida scelta degli argomenti. Questa necessità è valsa soprattutto per il capitolo riguardante la sintassi, che si deve considerare come un rapido commento sul tipo dei libri di grammatica scolastici. Per comodità del lettore non si è applicata una rigida ortodossia, cosa che, spero, renderà piú facile il libro. Cosi per i testi letterari del primo latino mi sono rifatto alla raccolta di E. H. Warmington, Remains of Old Latin, piuttosto che a testi meno accessibili. Visto che non sono riuscito ad accordare tutti i miei gentili critici sull'uso della zz consonantica, ed essendo d'altra parte la distinzione filologicamente utile, mi sono limitato a seguire l'esempio di Leumann e Hofmann. Le quantità sono state segnate solo quando la

X

PREFAZION E

lunghezza della vocale è rilevante ai fini della discussione. Mi sono avvantaggiato della dottrina e dei consigli di molti amici e colleghi a me vicini. In particolare voglio ringraziare ]. Crow, i professori W. D. Elcock e D. M. Iones, S. A. Hanforth, il professor W. S. Maguinness, A. F. Wells e il professor E. C. Woodcock, che hanno letto interamente o in parte le bozze, eliminando molti difetti di fatto e di presentazione. Inoltre mi sento obbligato nei confronti di tutti gli studiosi in generale. Dato che, in un lavoro di questo tipo, un dettagliato riconoscimento dei miei debiti non era praticamente possibile, ho tentato di fare in qualche modo una tenue ammenda nella bibliografia, che ha però solo lo scopo, limitato, di aiutare coloro che desiderano approfondire i propri studi fino a trovare la loro via all'interno della letteratura specialistica sull'argomento. Visto che è del tutto insufficiente un°esposizione dei miei debiti, in generale si adattano all'autore di questo lavoro le parole: si in tanta scriptorum turba mea fama in obscuro sit, nobilitate ac magnitudine eorum qui namini ofiicient meo consoler. L. R. PALMER

LA LINGUA LATINA

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Parte prima Lineamenti di storia della lingua latina

Capitolo primo Il latino e le altre lingue indoeuropee

His constitutis rebus, nactus idoneam ad navigandum tempestatem III fere vigilia solvit equitesque in ulterio~ rem portum progredi et navis conscendere et se sequi iussit. a quibus cum paulo tardius esset administratum, ipse hora dici circiter IIII cum primis navibus Britanniam attigit atque ibi in omnibus collibus expositas hostium copias

armatas conspexitl (CESARE, De bello Gallico IV 23 I-2). Questo brano, in cui il grande statista e stilista romano Gaio Giulio Cesare descrive il primo cruento sbarco delle legioni romane sulla nostra isola, ha rappresentato per molte generazioni di Inglesi il difficile contatto iniziale con la vera lingua latina. Un colto patriota britannico che si fosse trovato fra i guerrieri appostati sulle colline del Kent, si sarebbe certamente chiesto che genere d'uomini fossero quegli invasori, e donde provenissero. Meno di un secolo dopo, un re britannico veniva condotto nella capitale dei conquistatori, dove, secondo quanto narra Tacito, tenne un discorso in un latino cosí impeccabile e si espresse con tanta dignità e consumata retorica, da guadagnarsi il rispetto di tutti e un'onorevole prigionia. Nella città dei suoi vincitori questo re avrà certo avuto modo di leggere, in Livio, l'orgogliosa storia delle leggendarie origini di Roma e della sua ascesa alla grandezza imperiale. Il suo moderno discendente, per quanto incoraggiato dall'idea di studiare nel pae1 «Dopo aver preso questi provvedimenti, verso il terzo turno di guardia, approfittando del tempo propizio alla navigazione, fece salpare le ancore e ordinò alla cavalleria di raggiungere il porto ove si trovavano le altre navi, di imbarcarsi e di seguirlo. Poiché però questa operazione fu da loro eseguita con un certo ritardo, verso l'ora quarta egli, con le prime navi, toccava la Britannia; e poteva scorgere, schierate su tutte le alture, le truppe nemiche in armi L› (trad. di S. Giannetta) [N.d. T.].

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STORIA DELLA LINGUA LATINA

se di Carataco, deve quindi accostarsi con umiltà al compito di tracciare, sia pure nei suoi lineamenti generali, la storia della lingua che i Romani diedero a tanta parte del mondo occidentale. Questa lingua è detta latina in quanto, fondamentalmente, non fu che uno dei dialetti parlati dai Latini, un gruppo di tribú associate e stanziate nel territorio del Latium, ove Roma occupò una posizione predominante (si veda oltre, cap. III). Il compito dello storico sarà principalmente quello di seguire le varie forme successivamente assunte dal latino, quali si riscontrano in una serie di testi risalenti a ritroso (per i nostri fini), dalla caduta dell'impero fino ai piú antichi documenti pervenutici. Va subito detto che, da tale punto di vista, la lingua latina non ha una storia molto ricca. Esiste una documentazione diligente e accurata sui cambiamenti sicuramente intervenuti nei suoni, nelle forme, nella sintassi e nel senso, ma mancano quasi del tutto testi anteriori al terzo secolo a. C. In Plauto, le cui commedie costituiscono il primo consistente corpus di latinità, la

lingua dei Romani appare in una forma che differisce fondamentalmente assai poco da quella del latino dell'età aurea. Lo storico del latino è del tutto privo di elementi significativi quanto il Beowulf lo è per uno studioso dell'inglese; quindi, dal momento che lo studio storico dei monumenti della lingua latina non arriva neppure alla leggendaria fondazione della città, nel 7 53 a. C., per non parlare delle origini ancor piú remote, è necessario ricorrere a un altro metodo, quello comparativo, a proposito del quale dobbiamo spendere anzitutto qualche parola. Le lingue, fondamentalmente, sono sistemi di segni vocali che gli esseri umani usano per comunicare l'uno con llaltro. Queste espressioni 0 complessi di suoni emessi da chi parla provocano nell'uditore determinate reazioni, che chiamiamo comprensione. Ma non tutti gli uditori possono comprendere, giacché la comprensione di una lingua richiede un lungo e complicato addestramento nell'uso di quel particolare sistema di segni. Tale addestramento, l'«apprendimento della lingua››, è reso necessario da un fatto di estrema importanza per la scienza della lingua: fra i segni sonori e il significato che essi comunicano non c'è

IL LATINO E LE ALTRE LINGUE

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alcuna connessione naturale o necessaria. Ora, la natura arbitraria dell'attribuzione del significato ai segni sonori porta con se un'importante conseguenza teorica. Se due (0 piú) gruppi di persone usano segni sonori simili o identici, dovremo ritenere come assai improbabile che siffatta similarità sia dovuta al caso o a un'invenzione autonoma. Quanto piú la connessione fra suono e significato è arbitraria e le similitudini fra i sistemi comparati si rivelano estese, tanto piú la casualità delle somiglianze appare improbabile. Nel caso di sistemi di segni tanto arbitrari e complessi come le lingue, ogni similarità molto accentuata deve condurre alla conclusione che i due sistemi sono storicamente connessi, e cioè che o uno dei due deriva dall'altro, oppure entrambi discendono da un ceppo comune. In tedesco, ad esempio, segni come Mann, Gras, Hand, ecc. hanno in gran parte lo stesso significato dei termini inglesi man, grass, hand, ecc., e l'ipotesi di una creazione indipendente è infinitamente meno probabile di quella di una connessione storica. Le similarità del lessico e della

struttura grammaticale sono tali da poter essere spiegate solo postulando una progenitura comune, da cui tali lingue sono entrambe derivate. Ora, noi ci proponiamo di applicare qui questo metodo comparativo per scoprire le possibili parentele della lingua latina, nella speranza di riuscire in tal modo a tracciarne la storia risalendo, nel tempo, assai piú addietro di quanto ci consentano i piú antichi documenti scritti esistenti.

I dialetti italici: l'osco-umbro. Fra le iscrizioni dell'antica Italia un gruppo è redatto nella cosiddetta lingua osca. Osci, da *Opsci, fu in realtà il nome dato dai Romani agli abitanti della Campania, chiamati ,Omxoi dai Greci. Tuttavia, poiché la lingua parlata dalle tribú sannite con cui Roma venne piú tardi in conflitto risultò piú o meno identica a quella degli Osci, i Romani finirono col designare questo gruppo di dialetti con il nome della tribú da essi incontrata per prima, cosí come i Francesi usano il termine tribale Alemanni per indicare la

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STORIA DELLA LINGUA LATINA

lingua che noi chiamiamo tedesca. Livio, ad esempio, nel suo resoconto della guerra contro i Sanniti (X 20.8) scrive: «gnaros Oscae linguae exploratum quid agatur mittit›>. Le iscrizioni in osco figurano nelle regioni italiane un tempo occupate dalle tribú sannite: Samnium, Campania, Apulia, Lucania, Bruttium. La lingua fu anche introdotta in Messana (Messina) quando la città venne espugnata dai «Mamertini››, i mercenari campani reclutati da Agatocle. Le iscrizioni, che coprono all'incirca un periodo di cinque secoli, dalle prime leggende incise sulle monete fino ai graflìti pompeiani posteriori al primo terremoto del 63 d. C., sono redatte in vari alfabeti, fra i quali il piú frequente è l'alfabeto osco, che risale, attraverso l'etrusco, a quello greco calcidico. Ma il testo piú esteso, la Tabula Bantina, una tavola in bronzo rinvenuta a Bantia nel 1793 e contenente i regolamenti municipali, è scritta in alfabeto latino, mentre nelle iscrizioni provenienti dall'Italia meridionale l'alfabeto usato è quello greco. L'osco fu la lingua dominante nell'Italia centrale fino alla conquista romana, e rimase in uso nei documenti uflìciali fino alla guerra civile del 9o-89 a. C. Il fatto che le iscrizioni denuncino poche variazioni di dialetto, nonostante la vastità dell'area in cui esso veniva impiegato, lascia intendere che questo osco ufliciale fosse una lingua comune standardizzata. In stretta parentela con l”osco è la lingua nota come umbro, della quale l'unico documento di una certa estensione sono le famose Tabulae Iguvinae. Scoperte nel 144.4 a Gubbio (antica Iguvium) in Umbria, queste nove tavole bronzee (due delle quali andarono perdute sin dalla loro scoperta) contengono le leggi di una confraternita religiosa simile ai Fratres /lrvales romani (si veda oltre, pp. 77-79). Redatti parte in alfabeto latino e parte in quello nativo umbro (derivato, al pari dell'osco, da un alfabeto greco occidentale attraverso la mediazione etrusca), i testi risalgono a un periodo all'incirca compreso fra il 400 e il go a. C. A parte queste tavole, l'umbro è noto solo grazie a poche scarse iscrizioni rinvenute in varie città umbre; ma è dimostrato che gli Umbri erano un tempo stanziati in una regione che si estendeva fino alle coste occidentali della penisola.

IL LATINO E LE ALTRE LINGUE

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Oltre all'osco e all'umbro, sono rimaste alcune deboli tracce dei dialetti parlati dalle tribú minori dell'Italia centrale, talvolta opportunamente raggruppati sotto il nome di «sabellici››, e comprendenti i dialetti dei Peligni, dei Marrucini e dei Vestini, tutti considerevolmente simili all'osco. Il dialetto dei Volsci, a noi noto solo attraverso una breve iscrizione rinvenuta nella città di Velitrae, sembra occupare una posizione intermedia fra l'osco e l'umbro. I cosiddetti «dialetti italici›› presentano indubbiamente molte somiglianze col latino; ma è diflicile determinare con precisione il grado della loro parentela, e gli studiosi discutono ancora se si debba considerarli dialetti differenti riconducibili ad un'unica e medesima lingua, l'« italico ››, oppure a due lingue distinte. Si tratta comunque, in gran parte, di una disputa riguardante termini privi di una precisa definizione scientifica. Una lingua è un sistema di segni vocali usati da una data comunità di esseri umani. Ogni persona che faccia un uso intelligibile di tale sistema diviene ipsoƒacto, almeno per tutto il tempo che se ne serve, membro di quella comunità linguistica. Questo fattore di intelligibilità può essere utilizzato per tentare una definizione approssimativa del dialetto. Nell'ambito di un dato sistema possono darsi variazioni locali e personali, che tuttavia, fino a quando Pintelligibilità non è seriamente compromessa, non vengono sentite come tali da comportare l'esclusione dall'appartenenza alla comunità linguistica. Queste forme di linguaggio locali e individuali sono semplicemente giudicate sottovarietà del sistema usato in tutta una regione. Il termine «dialetto» implica quindi tanto la differenza quanto la similarità, vale a.dire un senso di esclusività e, al tempo stesso, di solidarietà. Là dove il senso della solidarietà linguistica viene a rompersi a causa dell'organizzazione in stati politici separati, chi parla tende a nobilitare la propria varietà di linguaggio dando ad essa il nome di « lingua ››, Cosi i Norvegesi, gli Svedesi e i Danesi possono benissimo prender parte a un congresso in cui ogni membro usi la propria « lingua ››, sebbene, in base al test d'intelligibilità, tali lingue possano essere tutte considerate come dialetti dello «scandinavo››. Resta da aggiungere che il criterio dell'intelligibilità costituisce sgl_o

IO

STORIA DELLA LINGUA LATINA

un mezzo approssimativo e immediato per operare una distinzione fra lingua e dialetto, e può variare con l'andamento del discorso e da frase a frase. Inoltre, in una serie di dialetti parlati in una determinata area, quelli geograficamente contigui possono risultare reciprocamente intelligibili, mentre quelli situati ai margini rispondono negativamente al test. La vera differenza fra le due definizioni è che «lingua» è un termine assoluto, mentre «dialetto» pone il problema della parentela: dialetto = una varietà di x. Ora applichiamo questo test al latino e ai dialetti italici, e confrontiamo un testo umbro con una traduzione latina, ad esempio: I A7 sgg.: pusveres Treplanes tref sif kumiaf feitu Trebe Iuvie ukriper Fisiu, tutaper Ikuvina = post portam Trebulanam tris sue: gravidas ƒacito Trebo Iuvio pro aree Fisia

pro civitate Iguvina 2. Appare subito evidente che si tratta di due lingue reciprocamente inintelligibili. È stato calcolato che il 6o-7o per cento delle parole contenute nelle Tabulae Iguvinae sono diverse da quelle latine, mentre per quanto riguarda il greco solo il 10-15 per cento delle parole ricorrenti nelle leggi cretesi di Gortina non figurano nell”attico. A queste decisive differenze lessicali dobbiamo aggiungere profonde divergenze di natura fonologica e morfologica. Fonologia. 1. Le consonanti labiovelari (si veda oltre, pp. 277 sg.) sono trattate in modo diverso: sicché al latino quis e 'uivus l'osco corrisponde con pis e bivus. 2. In latino le occlusive aspirate indoeuropee (si veda oltre, pp. 279 sg.) bh, dh compaiono mediamente come b e d, mentre in «italico» si presentano come ƒ: tibi, media = umbro tefe, osco mefiai. i 3. Il kt e il pt del latino figurano nell'osco-umbro come ht e ft: Octavius, scriptae = osco Uhtavius, osco scriftas. 4. La sincope delle vocali brevi nelle sillabe medie (si 2 «Fuori della porta Trebulana sacrificherai a Giove Trebio tre scrofe gravide per la salvezza della rocca di Fisia e della città Iguvinzl» [N. d. T.].

IL LATINO E LE ALTRE LINGUE

II

veda oltre, pp. 260 sg.) appare piú netta che in latino: agito = osco actud; hortus = osco húrz. 5. La ã finale > 6 in «italico ››: viã = osco viú; atrã = umbro atru. Morfologia. Nella prima e nella seconda declinazione l'osco-umbro

presenta le originarie desinenze nominative plurali -ãs, -ãs (si veda oltre, pp. 295 sg.), che il latino ha sostituito con le forrne pronominali -ãi (-ae) e -oi (-i). Nei temi consonantici l'osco mostra la flessione originaria -ës, cui il latino ha sostituito -és (si veda oltre, p. 299). Nel genitivo singolare dei temi in -o e consonantici il latino presenta rispettivamente -z' e -is, mentre l'osco-umbro ha -eis in entrambe le declinazioni. Anche la coniugazione del verbo denuncia considerevoli divergenze. Il caratteristico futuro in

-bo del latino è sconosciuto all'osco-umbro, il cui futuro deriva da un'antica formazione congiuntiva: ad esempio deivast = iurabit; ferest = ƒeret. L'infinito presente attivo dell'italico finisce in -om: osco ezum, umbro erom = esse. Il futuro anteriore rivela la presenza del suffisso -us: umbro benust = venerit. Di fronte a queste notevoli difl`erenze fra il latino da una parte e l'osco-umbro dall'altra, sembrerebbe indubbia la necessità di considerare separate queste due lingue, il cui grado d'inintelligibilità è di gran lunga superiore, ad esempio, a quello riscontrabile fra l'italiano e lo spagnolo. Ma, come abbiamo detto, l'uso dei termini «dialetto ›› e «lingua ›› è questione di definizione, e studiosi come A. Meillet, che giudicano il latino e l'osco-umbro due diversi dialetti dell'« italico ››, basano le loro tesi su alcune importanti somiglianze che dovremo ora prendere in esa-

me. Fonologia (si veda oltre, p. 257). In entrambi i gruppi 1) la a ie. diventa a; 2) eu > ou; 3) _r e > or, ol; 4) m e n> em, en; 5) le aspirate sonore bh, dh, gh divengono fricative sorde; 6) l'intervocalica s è sonorizzata; 7) t-t > ss; 8) le parole dello schema sillabico p-qu' > qw-qu' (ad esempio *pen-qwe > quinque); 9) la finale -t diventa -d.

I2

STORIA DELLA LINGUA LATINA

Dinanzi a questi fatti dobbiamo rammentare ancora una volta il principio fondamentale della linguistica comparata: la parentela viene stabilita in base all'esistenza di similarità di natura tale da escludere la possibilità di uno sviluppo indipendente. Perciò, per postulare una «unità italica» esclusiva, dalla quale si sarebbero sviluppati il latino e l'oscoumbro, occorrerebbe individuare, fra queste due lingue, delle spiccate somiglianze, non comuni ad altre lingue di piú lontana parentela. Ora: 1) è uno sviluppo presente in tutte le lingue indoeuropee eccettuato il sanscrito; 5) ricorre separatamente nel greco ellenistico; 6) è un fenomeno fonetico ampiamente diffuso e senza significatività agli effetti della parentela; 7) ricorre in germanico e nel celtico; 8) è anch'esso una peculiarità del celtico. Ma quando pure si escludano tutti questi casi, la prova fonetica rimane una base incerta per formulare un'ipotesi di parentela, in quanto si è spesso osservato che le lingue geograficamente vicine denunciano similarità nella struttura fonetica e fonemica anche quando fra esse non si dà alcuna parentela. Sicché Sapir ha potuto affermare che parecchie lingue «indiane ››, prive d'un rapporto di parentela, sulla costa nordamericana del Pacifico dalla California all'Alaska meridionale, «hanno molte importanti e peculiari caratteristiche in comune». Il cambiamento della eu in ou, di cui al punto 2) del precedente elenco, si verifica non solo nel latino e nell'osco-umbro, ma anche nel venetico e nel messapico. Parimenti, la modificazione 1, l> or, ol è una caratteristica del venetico e dell'illirico. Tali similarità possono quindi rivelarsi come una conseguenza della contiguità, anziché frutto di una parentela linguistica, e quindi come pri_ve di peso a favore dell'ipotesi di una unità italica. Di maggiore importanza sono le similarità di natura morfologica, in quanto è raro che una lingua prenda a prestito da un'altra i meccanismi della declinazione e della coniugazione. Ora, sia nel latino che nell'osco-umbro l'ablativo in -d, che nell'indoeuropeo fu confinato ai temi in -o (« seconda declinazione ››), si estese ad altri tipi, ad esempio lat. praidad, osco toutad, lat. loucarid, osco slaagid (= fine), lat. castud, ecc. La stessa finale appare anche negli avverbi, che, formalmente, sono antichi strumentali in

IL LATINO E LE ALTRE LINGUE

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-e'; ad esempio lat. facilumed, osco amprufid (= improbe). La formazione del dativo singolare dei pronomi personali è anch'essa marcatamente simile in entrambi i gruppi: lat. ant. mihei, umbro mehe; lat. ant. tibei, umbro teƒe; lat. ant. sibei, osco szƒez'. Se prendiamo ora in esame il sistema verbale, troviamo che i tipi delle coniugazioni sono gli stessi in entrambi i gruppi: in altre parole, i verbi sono organizzati nelle quattro coniugazioni a noi ben note dai grammatici latini. Inoltre l'osco fuƒans = erant suggerisce che l'osco-umbro aveva creato un indicativo imperfetto del tipo rappresentato dal latino amabam (si veda oltre, p. 329). La formazione del congiuntivo imperfetto è anch'essa identica: ƒoret = osco fusia' (*fu-sê-d). Un caratteristico sistema passivo (si veda oltre, p. 321) era stato analogamente creato da elementi presenti nel piú antico indoeuropeo: cosí sacratur = osco sakarater. Ulteriori somiglianze si devono rilevare nella formazione del supino (umbro anzeriatu = observatum) e del gerundivo (sacrandae = osco sakrannas). Infine, possiamo menzionare la fusione dell'aoristo e del perfetto indoeuropei in un singolo « perfetto», nonché quella dei modi originari congiuntivo e ottativo, evidente nelle forme congiuntive del latino e dell'oscoumbro. Siffatte cospicue somiglianze nella riorganizzazione dei sistemi nominali e verbali pongono il latino, rispetto ai «dialetti italici››, in una parentela piú stretta di quella che esso presenta nei confronti di altre lingue indoeuropee: sebbene D. M. ]ones abbia di recente affermato in un suo saggio che i fatti riscontrati si inseriscono meglio «in uno schema di relazioni indoeuropee occidentali [si veda oltre], che non nell'evoluzione di un italico comune e uniforme ››. L'interpretazione in termini storici di questa piú stretta parentela è comunque controversa. L'ipotesi piú semplice per la spiegazione dei fatti osservati è che per un determinato periodo, nel passato, sia esistita una comunità « italica ››, nell'ambito della quale si sono sviluppate le caratteristiche comuni che abbiamo osservato nel latino e nei dialetti italici; a loro volta le considerevoli differenze sarebbero il prodotto di uno sviluppo indipendente, successivo alla rottura dell'unità linguistica.

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STORIA DELLA LINGUA LATINA

Ma uno studioso tedesco, A. Walde, in un saggio sulla parentela fra italico e celtico su cui avremo occasione di tornare, ha affermato che le somiglianze fra il latino e l'osco-umbro sono un fenomeno di convergenza, il riflesso linguistico di contatti fra i due gruppi, avvenuti in un periodo relativamente recente nella stessa Italia. La scuola linguistica italiana preferisce questa ipotesi, pur con minore entusiasmo. Il Devoto afferma che le divergenze fra latino e osco-umbro sono di antica data, e che le somiglianze si sono prodotte in un'epoca relativamente tarda, quando i Protolatini si erano già stanziati nel Lazio. Dall'v111 secolo in poi (con la fondazione di Roma e la presenza di una tribú sabina su uno dei colli) si stabilirono relazioni che diedero luogo a uno scambio di elementi linguistici fra i Protolatini e gli Osco-umbri; ed è questa fase di progressivo avvicinamento che si dovrebbe definire come « periodo italico››, benché, come afferma il Devoto, tutto ciò non vada inteso in senso genealogico, tale cioè che comporti un'antica identità dei due sistemi linguistici. A tutto ciò si può tuttavia obiettare che la vicinanza geografica e i contatti sociali e culturali fra popoli che parlano lingue differenti può certamente dar vita a somiglianze nel sistema fonetico e allo scambio di prestiti linguistici; ma le caratteristiche strutturali fondamentali come i tipi di tempo, modo e formazione dei casi non sono cosí facilmente trasferibili. Gli sviluppi linguistici, infine, devono esser fatti risalire a norme di discorso, vale a dire, essenzialmente, a consuetudini sociali, le quali, cosí come appaiono nei congiuntivi e simili, sono trasferibili da uno stanziamento umano a un altro solo in condizioni di intimità linguistica equivalenti all'esistenza di una «comunità linguistica ››, Una istituzione osca come la «taverna» può diventare una stabile caratteristica della vita romana, e portare con sé il nome osco popina; ma in quali condizioni di discorso possiamo immaginare lo scambio di un gerundivo, di un supino o di un congiuntivo imperfetto fra chi parlava, in questa ipotesi di convergenza, in condizioni di reciproca inintelligibilità peggiori di quelle in cui si trovavano i Latini e gli Osco-umbri, secondo quanto è storicamente attestato? I concetti di «scambio linguistico», «schemi mentali

IL LATINO E LE ALTRE LINGUE

Is

comuni», « convergenza ››, e cosí via, con cui il Devoto opera, sono troppo distanti dalle realtà del discorso inteso nella sua concretezza. I fatti linguistici esigono che si postuli l'esistenza, in altri tempi e in altro luogo, di una forma di società in cui fossero comprese le rappresentanze dei due principali gruppi italici, cioè i progenitori linguistici dei parlanti il latino e dei parlanti l'osco-umbro. Ma questa esigenza non implica necessariamente una «unità italica ›› comprendente tutti i Protolatini e i Protoitalici. Come ipotesi minima sarebbe sufficiente presupporre che un gruppo di Osco-umbri invasori si sia unito ai Protolatini, e che questo innesto di un popolo straniero sul ceppo latino abbia causato le somiglianze fra latino e osco-umbro che formano il punto di partenza di questa discussione. Le leggende delle origini di Roma (Tito Tazio e il ratto delle Sabine) sembrano sottintendere un qualche evento storico del genere da noi postulato (gli elementi sabini presenti nel latino saranno presi in esame alla p. 47), e lo stesso può dirsi per la dimostrata esistenza di dialetti non romani nel Lazio (si veda il cap. III). Resta da notare che questa conclusione concorda in gran parte con la tesi del Devoto, in quanto esclude l'esistenza di una «comunità italica ›› anteriore all'invasione della penisola appenninica da parte dei progenitori dei due gruppi di tribú. D'accordo sul fatto che lo sviluppo delle somiglianze piú marcate comprese sotto la definizione di « italico ›› ebbe luogo sul suolo italiano, abbiamo semplicemente fatto osservare che il concetto di convergenza esige una trasposizione nella realtà del discorso concreto e nelle condizioni della società umana in essa implicita. La teoria italo-celtica e la civiltà nordoccidentale. Se rivolgiamo ora la nostra attenzione ancor piú lontano, possiamo dire subito in breve che il metodo comparativo ha stabilito l'appartenenza del latino a un gruppo di lingue che si estende dall'India in Oriente, fino al celtico e al germanico in Occidente. In queste lingue le somiglianze strutturali e quelle riguardanti il lessico fondamentale sono apparse talmente pronunciate da escludere ogni spie-

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s'roR1A DELLA LINGUA LATINA

gazione che non sia quella della discendenza da un progenitore comune, noto come indoeuropeo. Questo postulato di una lingua madre piú o meno uniforme, inteso a spiegare le somiglianze che si sono riscontrate nel gruppo di lingue collegate da rapporti di parentela, deve inoltre presupporre l'antica esistenza di un gruppo di parlanti, e cioè di una popolazione indoeuropea; l'analisi del gruppo di parole comuni ha permesso agli studiosi di dare un quadro di almeno alcune caratteristiche della sua civiltà. Sembra dunque che queste popolazioni conoscessero il rame e l'arte di lavorarlo; che praticassero quanto meno un'agricoltura di tipo primitivo e addomesticassero certi animali, come la mucca e la pecora; infine, che adorassero un dio del cielo luminoso e che la loro società fosse organizzata su basi patriarcali. Non dobbiamo però credere di trovarci dinanzi a uno stato politico saldamente unito e di lingua uniforme: piú probabilmente si trattava di un aggregato non ben definito di tribú seminomadi, che si stabilivano per qualche tempo in una regione per dissodarne la terra, rimettendosi poi in cammino quando non riuscivano piú a sfruttarla con i loro primitivi metodi agricoli, e forse riunendosi periodicamente per celebrare riti religiosi comuni. Una siffatta «società» dovrebbe inevitabilmente mostrare delle diversità dialettali: inoltre, durante il lungo periodo delle migrazioni che avrebbe portato questi popoli a sparpagliarsi ampiamente nei luoghi in cui li ritroveremo nell'età storica, certe tribú possono aver stretto maggiormente i loro legami per un periodo limitato di tempo, oppure possono essersi formate bande di predoni composte da membri di tribú diverse. Dobbiamo perciò tener conto della possibilità che fra l'originario periodo 'indoeuropeo e la comparsa di popoli ben distinti nei loro insediamenti storici, si siano create altre «unità» di durata e intensità variabili. La nascita di queste comunità si sarebbe riflessa sulla lingua, e il compito del linguista è quello di tentare, attraverso l'analisi, l'individuazione di queste piú strette parentele dialettali nell'ambito del gruppo principale. Orbene, l'analisi ha rivelato parecchie caratteristiche comuni all'«italico›› e al celtico, con esclusione di altre lingue collegate dalla stessa parentela. Elencheremo anzitutto i fatti,

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prima di esaminarne il significato, in quanto la loro interpretazione è tuttora assai controversa. Fonologia. 1. Le labiovelari indoeuropee 3 (qw, gw, gwh) denunciano un analogo trattamento sia nell'italico che nel celtico, di-

ventando labiali nel britannico e nell'osco-umbro, velari nel latino e nel gaelico (ad esempio il tema interrogativo ie. q“`is, ecc., compare nell'irlandese come cia, nel latino come quis, nel gallese come pwy, nell'osco come pis). È stata avanzata l'ipotesi che questi fatti rispecchino antiche parentele dialettali nell'ambito di un gruppo italo-celtico, e che, in qualche periodo preistorico, i progenitori linguistici dei Celti e degli Italici vivessero in stretta vicinanza, raggruppati in modo da rendere questo mutamento q'” >p comune alle popolazioni pre-britanniche e ai pre-Sabellici. Piú tardi l'intero gruppo si sarebbe scisso e diversamente ricomposto: i pre-Britanni e i pre-Gaelici avrebbero formato il celtico comune, e i pre-Latini e i pre-Sabellici l'italico comune, due lingue che d'ora innanzi si sarebbero

sviluppate separatamente. Questa ipotesi è però confutata da un semplice dato di fatto: in tutte le lingue celtiche l'originaria iniziale ie. p- è scomparsa (ad esempio irl. én 'uccello', gall. edn < *pet-n, cfr. lat. penna, ecc.). Ciò significa che il mutamento q'” > p ha avuto luogo nel britannico dopo il periodo celtico comune e si è perciò verificato indipendentemente rispetto all'analogo cambiamento avvenuto nell'osco-umbro. In ogni caso, un mutamento similare si è avuto nel greco eolico, ove le labiovelari figurano anche come labiali (ad esempio *penqwe > rrépnre). Il fenomeno non può quindi indurre ad affermare l'esistenza di una parentela piú stretta. 2. Piú peculiare, e di conseguenza piú significativo a tale riguardo, è il cambiamento verificatosi nelle parole la cui prima sillaba iniziava con una labiale e la seconda con una labiovelare: in tali parole l'assimilazione ebbe luogo sia nell'italico che nel celtico 4, p-qu' > qu'-qw: ad esempio ie. *penqwe 'cinque' > italo-celtico *q'”enq'”e; ad esempio irl. ant. cóic, gall. ant. pimp, lat. quinque, osco-umbro *pompe (cfr. osco púmperiais `quincuriis'). 3 Cfr. oltre, p. 277. Le lingue celtiche si differenziano soltanto per trattamento della qw. 4 Cfr. oltre, pp. 277 sg.

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Morfologia. 1. Il genitivo singolare dei temi in -o finisce in -1: irl.

maqi `del figlio', gall. Segomari, lat. domini. Il fatto che nel sanscrito siano state trovate tracce di un caso avver-

biale in -í (si veda oltre, p. 296) non diminuisce la portata di questo fenomeno. La sua incorporazione nel regolare sistema di declinazione al posto dell'originario genitivo in -osyo è un'innovazione comune non solo al celtico e al latino (l'osco-umbro ha sostituito -eis dai temi in -i della terza declinazione), ma anche al venetico e al messapico, un dialetto illirico (si veda oltre, pp. 5o sg.). 2. Le forme impersonali del verbo, nell'osco-umbro e nel celtico, sono caratterizzate da -r: ad esempio umbro ferar “si deve sostenere', gall. gweler 'si vede', irl. berir `si porta'. Questa -r indica anche la forma deponente e passiva in entrambi i gruppi: ad esempio lat. sequor, sequitur; irl. sec/zur, sechitir. Siffatte finali in -r sono state scoperte in altre lingue indoeuropee, ad esempio l'ittita, il tocarico e il frigio, e lasciano intendere che la finale in -r figurasse in origine solo nel singolare e nella terza persona plurale del presente. Qui, invero, siamo dinanzi a un significativo sviluppo comune di una caratteristica ereditata. 3. I verbi del tipo amã-re, mone'-re formano nel latino il loro futuro con un elemento -b- (amabo, monebo), che risale alla radice indoeuropea bhu `essere' (si veda oltre p. 330): la formazione è infatti un tempo perifrastico col significato di «sto per amare», ecc. Lo stesso tipo è riscontrabile nel celtico, ad esempio irl. léicƒea “lascerò”. Pur essendo difficile ridurre a un singolo prototipo le forme attestate, sembra inevitabile concludere che il germe del futuro in -b- era già presente nei dialetti da cui si sono sviluppati il latino e l'irlandese: sorprendente innovazione, che è la prova significativa di un'antica stretta parentela fra italico e celtico. 4. Nell'indoeuropeo il congiuntivo era formato dai vari temi temporali con l'aggiunta o l'allungamento della vocale tematica e/o: ad esempio nel greco omerico indic. Iuav, cong. ìfouev, oppure indic. kúogiav, cong. ìtúr-›|Lev. Ma nel celtico il modo congiuntivo è indipendente dal tema temporale ed è formato con l'aggiunta di -ã o -s alla radice: ad esempio irl. bera (ber `portare'), tiasu (tiag 'andare'). Gli stessi tipi sono presenti nell'italico (si veda

oltre, p. 337): ad esempio lat. ant. advenat, con il con-

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giuntivo costruito sulla radice ven e non sul tema del presente 'veni-, e faxo, capso con una -s- aggiunta alle radici

fac- e cap- in quanto distinte dai temi del presente facie capi-. Questa caratteristica morfologica, riscontrata, fra le lingue indoeuropee, solo nell'italico e nel celtico, do-

vrebbe essere la prova conclusiva di una stretta parentela. Ma il fatto che il congiuntivo sia indipendente dai temi temporali e possa anche essere formato da una radice diversa (ad esempio fuam come congiuntivo di sum) concorda con le caratteristiche piú arcaiche del sistema ver-

bale indoeuropeo, dove non si aveva una «coniugazione» vera e propria, ma ciascun tempo era indipendente dagli altri. È perciò possibile che i congiuntivi in ã siano degli arcaismiã, eliminati in altre lingue indoeuropee e conser-

vatisi solo nell'italico e nel celtico. Se accettiamo questa tesi, tali congiuntivi risulterebbero meno convincenti per dimostrare l'esistenza di una parentela, in quanto nelle lingue, come abbiamo detto, gli arcaismi possono sopravvi-

vere in modo del tutto indipendente. 5. Anche nella comparazione degli aggettivi l'italico e il celtico denunciano delle concordanze che li uniscono strettamente l'uno all'altro. Nell'indoeuropeo il «comparativo»° era formato 1) mediante l'aggiunta del suffisso -iãs alla radice, ad esempio sanscr. náoa- “nuovo”, náv-yas 'piú nuovo°; 2) mediante il suflìsso -tero, che aveva una funzione di « contrasto ›› o « separazione ››, come in laevus: dexter; magister: minister, ecc. Sia il latino che l'irlandese avevano elaborato e regolarizzato la prima procedura (ad esempio lat. senior, irl. siniu). Anche nel superlativo si possono distinguere due tipi: 1) suflìsso -t°mo (lat. ultimus, intimus), la cui funzione originaria era forse quella di denotare il «punto estremo di un continuo spaziale ››7; e 2) il tipo in -is-to (ingl. sweetest, gr. ^'r',8Lcrroç, ecc.) che, al pari dei numeri ordinali (ad esempio ingl. first, ted. zwanzigste, gr. vrpãrroç, ecc.) denotava il membro culminante o completante di una totalità. Questo secondo tipo non è riscontrabile nell'italo-celtico, che tuttavia, oltre al tipo 1), presenta una forma complessa in -soma, non riscontrabile altrove: lat. maximus, osco nessimas (= proximae), irl. ant. nessam, gall. nesaf. 8 Cfr. oltre, p. 330. 6 I: probabile che l'indoeuropeo non possedesse alcun «comparativo» vero e proprio, ma che i derivati in -iãs, -isôn avessero lo stesso significato dell'inglese biggish, sizish, i quali hanno una funzione -s-s; ma ciò è riscontrabile anche nel celtico (si veda oltre). 2. In entrambi i gruppi si ha la sonorizzazione delle fricative intervocaliche sorde (ad esempio lat. aedes dalla radice ie. *aidh, riscontrata anche nel gr. otìlfìos); ma si tratta di uno sviluppo fonetico che potrebbe essersi verificato, con tutta facilità, in modo indipendente; ciò traspare dal fatto che, nell'italico, il mutamento è limitato al latino. Cosi da questa somiglianza non si può trarre alcuna con-

clusione circa l'esistenza di una parentela. 3. L'aoristo e il perfetto indoeuropei sono uniti a formare un singolo tempo passato (si veda oltre, p. 33 1). 4. In entrambi i gruppi (e nel celtico) il paradigma del verbo «essere» è formato da due radici, es e bhu: lat. est, fuit; ingl. is, be, ecc.; irl. is, biuu, ecc. 5. La formazione del perfetto nöfuí corrisponde all'ingl. ant. cneow. Ma questa -u appare anche nel presente germanico cnãwan, mentre in latino l`origine del perfetto in -u- è talmente incerta (si veda oltre, p. 333) che siffatta equivalenza costituisce una prova di scarso affidamento per l'esistenza di una parentela linguistica. 6. Forme di perfetto con. una vocale tematica lunga del tipo di sêdimus sono presenti anche nel germanico: cfr. il got. sëtum. È da notare, tuttavia, che nel gotico la vocale lunga è limitata al plurale, sicché le forme singolari latine sêdi, ecc. andrebbero considerate come livellamenti analogici (si veda oltre, pp. 331 sg.). 7. Il dimostrativo latino is, ea, id 2 got. is, i]`a, ita. 8. A questi esempi possiamo aggiungere numerose corrispondenze lessicali. Molte equivalenze verbali sono limitate all'italico e al germanico: ad esempio dücere = got. tiuhan (ingl. tug); clãmãre = alto germ. ant. hlamön; tacêre = got. pahan; sile're = got. ana-silan. Inoltre entrambi i gruppi hanno in comune, con l'esclusione di tutti gli altri 8, termini di carattere agricolo come far = norv. ant. barr (ingl. barley 'orzo'); sulcus 'solco' = ingl. ant. sulh K Eventuali forme consimili possono riscontrarsi in altre lingue inil( ›curopee, ma si tratta di parole confinate al germanico e all'itaIico nelIn forma e nel significato particolari che abbiamo citato.

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'aratro'; e inoltre haedus = got. gaits (ingl. goat `capra'); ulmus = elm; annus = got. apns “anno”.

Parole occidentali. Si è spesso osservato che il celtico, l'italico, il germanico (e talvolta il balto-slavo) hanno in comune parole che non compaiono nel greco, nell'armeno e nell'indoiranico. Si tratta di parole tanto numerose e di componenti cosí importanti del lessico, che, si dice, siffatte coincidenze non possono attribuirsi a semplici mutamenti, ma devono rispecchiare un comune periodo di civiltà, indicato col nome di « civiltà nordoccidentale ››. Fra queste parole troviamo gli aggettivi corrispondenti a «vero›› (vêrus, irl. ƒir, alto germ. ant. wãr = slavo ant.

'vè'ra 'fede'), « cieco ›› (caecus), « liscio ›› (glaber); nomi di vegetali: corilus `nocciòlo', flös 'fiore d'albero”, salix 'salice', ulmus, irl. lem 'olmo'; termini zoologici: porcus “porcellino' (non «maiale domestico» in opposizione a süs 'maiale selvatico', come spesso si è affermato), merula

“merlo”, natrix `serpente d'acqua', piscis 'pesce'; termini agricoli (designanti oggetti e operazioni): grãnum, faba, sero “seminare', scabo `raschiare', seco 'tagliare, segare', sügo `succhiare', molo `macinare' (comune all'indoeuropeo nel senso di «frantumare››), lira 'margine del solco'; termini sociologici: civis, hostis, homo (che contiene la radice *ghem/ghom, specializzata nella denotazione di «essere umano››, come nel got. guma, irl. duine, lit. šmuã), 'vas 'pegno, garanzia'; termini vari: 'verbum “parola” (got. e pruss. ant.), nidus, nel senso specializzato di «nido ››, mare, vinco, ferio, cüdo 'lavorare un metallo col martello, forgiarlo', emo 'trarre dalla propria parte, comperare'.

I dati cosí scelti ed esposti sembrerebbero fornire un valido appoggio alle conclusioni che si basano su di essi, secondo le quali le popolazioni che piú tardi parlarono le lingue italiche, dopo la rottura della comunità indoeuropea si stanziarono o rimasero in Europa, entrando per qualche tempo a parte di una civiltà comune a quella dei progenitori linguistici dei Celti, dei Germani e dei Baltoslavi. Ma vi sono altri dati, che dovrebbero farci riflettere. Fra queste parole occidentali troviamo, ad esempio, l'im-

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portante termine teutä “popolo” (osco touto = lat. civitas, umbro tota, irl. tuath, got. piuda `nazione'): tale termine non figura nel latino. Lo stesso può dirsi del termine occidentale equivalente a « casa ››, esemplificato nell'irl. treb, lit. trobà, ingl. thorp: esso compare in italico nell'osco triibúm, umbro tremnu; il latino invece ne è privo, essendo assai dubbio che trabs “trave” sia da mettere in relazione con esso. D'altra parte in domus il latino ha conservato un sostantivo indoeuropeo molto diffuso, ma non riscontrabile nel celtico, nel germanico o nel baltico. Tali esempi mettono in evidenza il rischio che si corre nel sostenere la tesi della parentela linguistica basandosi su somiglianze o divergenze lessicali. In ogni lingua la perdita di certe parole dipende da molti fattori, la cui interazione è talmente complessa che l”assenza di uno o piú termini particolari può rivelarsi del tutto casuale. Per esempio, ignis 'fuoco' è affine al sanscr. agnis e anche al balto-slavo; tuttavia non figura nell'osco-umbro, dove, viceversa, l'umbro pir trova una parentela nel gr. Ttüp, nell'ingl. fire e anche nell”ittita, nell”armeno e nel tocarico. Pure in questo caso il latino ha perso un”antica parola indoeuropea, rompendo cosí il suo legame anche nei confronti di quei dialetti italici con i quali denunciava una piú stretta parentela. Lo stesso discorso vale per la parola corrispondente ad « acqua ››, che il latino designa con aqua, termine che trova aflìnità soltanto nel germanico (got. ahwa `fiume”) e forse nel celtico. Solo nel senso diverso di « onda ›› il latino conserva in unda l'antica parola indoeuropea, altrove ampiamente attestata: ad esempio umbro utur, ingl. water, gr. ißòtop, ecc. Delle due parole indoeuropee corrispondenti a «uomo ››, 1) *wire e 2) *ner, il latino non ha conservato la seconda (se si eccettuano i nomi propri sabini Nero 9, Nerio), che tuttavia è rappresentata nell”osco niir, umbro nerƒ (ace. plur.), irl. ant. nert, gr. åLw']p, sanscr. nár-, ecc. Questi esempi potrebbero moltiplicarsi, ma riteniamo di aver chiarito a suflìcienza i pericoli insiti nell'aflidarsi ad argomenti ex silentio quando ci si trova dinanzi a problemi lessicali. Ogni parola ha una sua propria storia, e lo schema delle somiglianze fra le lin9 Secondo svE'roN1o, Tiberíus 1.2, Nero = ƒortis ac strenuus.

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gue varia da parola a parola: cosí terra, ad esempio, figura nel celtico e nell”italico, mentre il germ. earth trova una parentela nel gr. ëpotç e nel celt. ert. Non dovrebbe essere diflìcile, in effetti, tracciare un elenco di parole latine comuni al greco, con l”esclusione di questo o quel «gruppo occidentale ». Fra le parti del corpo, ad esempio, cutis trova corrispondenze nel gr. xútog, nel germanico (ingl. hide) e nel baltico (pruss. ant. keuto); inguen 'inguine” ha un esatto corrispondente nel gr. ååfiv, con parentele anche nel germanico (norv. ant. økkr); anche neƒrundinés denuncia una parentela solo col gr. vecppóç e col germanico (ted. Niere); per pellis possiamo trovare un”equivalenza in 'rté)\?\ot e nell”isl. ant. e ingl. fell; penis è aflìne al gr. Ttéoç e al sanscr. pásas; per pugnus 'pugno' vengono menzionati i gr. rtúš, rtuypsíi; iecur, parola del tipo morfologico piú antico, è riscontrabile nel greco (ifrcotp), nel lituano (jãknos) e nell'indoiranico, ma non compare nelle lingue occidentali celtica e germanica; inoltre il germanico e il baltico sono privi della parola corrispondente a «osso ››, lat. os, gr. ôotéov, sanscr. áshti, itt. hastái, ecc. Certe parole di natura agricola o zoologica denunciano uno schema analogo: agnus trova un esatto corrispondente solo nel gr. o”Lp.vóç (entrambi < *ag"'nos), mentre le forme celtiche presuppongono un”originaria -o iniziale (irl. uan, gall. oen), che in slavo si presenta come 6- oppure ã- (jagnç); pullus è affine al gr. 1t6›}\oc,, alle parole germaniche rappresentate dall”ingl. ƒoal e all”arm. ul; la parola corrispondente a «uovo», öfoum, ha un elemento -w- che appare solo nel gr. dor. ó$.Feov (e nell”iranico), mentre il germanico e lo slavo non mostrano tracce di questa -w- interna (ad esempio ted. Ei < *aiya); glãns ha aflinità col greco ßo't7\oo/og, col balto-slavo e con l”armeno (kalin); -virus “succo velenose di una pianta” è ricollegabile all'irl. ant. fi, al gr. fui; e al sanscr. visám; in questo gruppo possiamo includere i sostantivi termen, terminus 'segni di confine”, affini al gr. tépuoc, e vallus `palo, steccato”, che può essere messo in relazione solo con il gr. *Ifitoç (eolico Fo't)0\oL). A tutto ciò possiamo aggiungere i verbi carpa “strappare”, aflìne al gr. xotprtóg, a parole germaniche fra cui indicheremo l”ingl. harvest, nonché a parole balto-slave come il lit. kerpù; e lego `cogliere, radu-

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nare”, che trova affinità solo nel greco (ìtéyw, ecc.) e nell'albanese; un altro verbo tecnico di questo tipo, glubo `scortecciare”, ha precise corrispondenze nel gr. yìtútpm e nelle parole germaniche come l'ingl. cleave (ingl. ant. clêoƒan, alto germ. ant. klioban, norv. ant. kljüfa); sarpo `potare, mondare” ha una radice serp che compare nel gr. öpnnš “virgulto, alberello”, nello slavo ant. srüpü 'coltello da potatura” e nel lett. sirpis. Anche creo può essere opportunamente inserito in questo gruppo, come parola relativa a operazioni agricole: afline a crêsco, è stato eguagliato agli arm. serem “genero” e sermn “seminagione', nonché al lit. šeriù 'alimentare' e al gr. šxópeoot, xópoç “saziare, sazietà”. Infine, la parola corrispondente a «orso ››, ursus, può rafforzare l'invito alla cautela a proposito degli argumenta ex silentio in materia lessicale: affine al gr. ôipwroç, sanscr. ƒksas, arm. arj e irl. ant. art, non compare nel germanico e nel balto-slavo, ove è stata sostituita da nuove parole, forse per ragioni di tabú. Nel lessico sociologico noteremo che la parola 'vícus può trovare una parentela nel germanico (ad esempio got. weihs `villaggio”), gr. Foixoç, sanscr. oéšás, e nel balto-slavo (ad esempio balt. ant. visi “villaggio”), non figurando, viceversa, nel celtico, se si eccettuano i prestiti latini quali l'irl. ƒich. Anche il greco è membro del gruppo in cui sono presenti le parole affini a nurus 'nuora' (sanscr. snusä, arm. nu, balt. ant. snücha, alto germ. ant. snur, gr. vuóç). Analogamente ianitríces “mogli dei fratelli” è rappresentata nel gr. eivoirepsg, insieme al sanscr. yãtãr-, all'arm. ner, al lit. ant. jénte', allo slavo ant. jçtry; è però assente nelle lingue piú importanti del «gruppo occidentale», che formano la parola corrispondente a «sorella del marito ››, glãs, ancora aflìne al gr. Yotìótoç e allo slavo zülüva (russo zólva). Vale anche la pena di osservare, a questo proposito, che liber 'libero ” ha un solo esatto corrispondente nel gr. åkeußcpóç, sebbene sia possibile una connessione piú antica con l”alto germ. ant. liuti “gente” (ted. Leute), ecc. Il latino ha in comune col greco (talora esclusivamente) importanti parole religiose e rituali. Per esempio libare trova un”immediata relazione soltanto con l”importante gruppo greco Àeißco, ìioißfg, ecc., benché si possa rintracciare

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un legame piú lontano con il lit. lieti “versare”; il lat. spondeo “promettere formalmente”, che presumibilmente si riferiva un tempo all”operazione religiosa che accompagnava il voto, è la forma causativa-iterativa della radice presente nel gr. ortévårn “versare una libagione”: si può giudicare l”antichità di questa parola dal fatto che essa figura anche nell'ittita šipanti “egli versa una libagione'. Altro termine del lessico religioso è voveo, vãtum: come si può vedere dall”umbro -vuƒetes (lat. ootis), la parola può essere fatta risalire alla forma radicale *wô'g”'h, cui appartiene il vedico aãghát “sacrificante, chi fa un voto”, nonché il gr. eöxouat “prego”. templum “lo spazio contrassegnato dall”augure” non ha parentele piú strette di quella con il gr. répevoç “recinto sacro”, dalla radice *tem “tagliare”. nemus “bosco sacro” somiglia piú da vicino, nella forma e nel significato, al gr. véuoç, sebbene il carattere religioso della parola sia piú marcato nei tipici esempi celtici, irl. nemed “santuario”, gall. vep.v;'rov1°. Invece il celtico non fa parte del gruppo che presenta termini religiosi corrispondenti al lat. daps “banchetto sacro”, e che include il germanico (isl. ant. tafn “animale sacrificale'), l”arm. tawn e forse il gr. Seintvov. Possiamo integrare questi dati con una miscellanea di parole nelle quali figurano il latino e il greco, con l'esclusione di una o piú lingue del gruppo occidentale. ƒãma (anche in italico) ha un esatto corrispondente solo nel gr. ph). Ma tale fenomeno fonetico, anche se dimostrato (ma è ipotetico per l”italico primitivo), è talmente comune che potrebbe facilmente essersi verificato in modo indipendente, cosi come nel greco postclassico l”aspirata sorda divenne una fricativa, rendendo qoépw e fero (< *bher6) piú o meno identiche nella pronuncia. 3. Piú plausibili sono certe caratteristiche morfologiche comuni. Cosi il nominativo plurale dei temi in o terminava in origine in -ös, e tale si conserva nell'indoiranico, nel germanico e nell”osco-umbro. Sia il latino che il greco, però, l'hanno sostituito con -oi, caratteristico dei dimostrativi (si veda oltre, p. 297). Inoltre in entrambe le lingue l”originario nominativo plurale dei temi in -a, -ãs (ad esempio osco aasas = arae), è stato sostituito da -ai in analogia con l”-oi della seconda declinazione. Questa azione per contatto dei dimostrativi, che li precedono, sui sostantivi è tuttavia un fenomeno comune, e presumibilmente la coincidenza del greco e del latino riposa su uno sviluppo indipendente. La troviamo ancora nelle finali del genitivo plurale dei temi in -a: nell”indoeuropeo la finale era -öm < ã- + -öm, la forma corrispondente del dimostrativo femminile era però *tãsöm (cfr. il lat. is-tarum, gr. -ro't(c)mv), e questa finale venne trasferita ai corrispondenti sostantivi femminili (regin-arum, 8eöì(o')o›v). In entrambe le lingue un'analoga interazione si riscontra fra i sostantivi in -ã e quelli in -o nell”accusativo plurale. Nell”indoeuropeo primitivo tale fenomeno si pre-

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sentava sotto la forma -ã-ns e -o-ns, ma presumibilmente

nel primo caso scomparve la -n-, producendo la dissimiglianza -ãs, -ans. Sia il latino che il greco ripristinarono la regolarità reintroducendo -ans nella prima declinazione: poi nel latino e nella maggior parte dei dialetti greci (si osservi però il cretese -rovç åìeuäepovç, ecc.) la -n- scomparve con allungamento di compenso della vocale precedente, sicché la finale di 'vi-äs ecc. è ora identica a quella di rnuåç, ecc. Anche nel verbo possiamo riscontrare un esempio di sviluppo indipendente, che dà luogo a un'apparente coin-

cidenza. L'« imperativo futuro ›› fu formato con l'aggiunta dell'ablativo del dimostrativo -töd al tema dell'imperativo (ad esempio datôd, gr. 86-ru›(8)). Queste forme ser-

vivano per ogni persona e per qualsiasi numero, ma tanto il greco quanto il latino avevano creato delle forme per la terza persona plurale, sicché ƒerunto è marcatamente si-

mile a cpepóvrw (si veda oltre, p. 337). 4. Delle similarità del lessico ereditato abbiamo già par-

lato; in entrambe le lingue si produssero però nuove «isoglosse ›› (p. 38) grazie a prestiti culturali dalla civiltà mediterranea con cui il greco e il latino vennero in contatto (si veda oltre, p. 69, a proposito di comus, porrum, malva, vaccinium, ervum, ecc.). Queste similarità, naturalmente, non hanno alcun rapporto con la questione dell”unità preistorica italo-greca.

Per riassumere, possiamo dire che le differenze fra greco e latino superano di gran lunga le somiglianze, che sono per lo piú dovute a evoluzioni parallele e a prestiti indipendenti da lingue mediterranee sconosciute 11. Le coincidenze fra latino e greco dovute alla conservazione di antichi elementi della lingua madre indoeuropea non possono naturalmente valere come prove di una stretta parentela nel periodo successivo alla rottura della comunità indoeuropea. Il fatto che esse appaiano relativamente numerose deve essere ascritto alle circostanze fortuite con cui siamo venuti in possesso di una quantità di testi latini e greci arcaici. Se disponessimo di testi celtici e germanici dello stesso 11 La diretta influenza del greco sul latino sarà presa in esame nel capitolo seguente.

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periodo 12 lo schema delle parentele linguistiche si disporrebbe senza dubbio in modo assai diverso.

Fenomeni marginali.

Nei paragrafi immediatamente precedenti si sono prese in esame certe caratteristiche comuni a una o piú lingue occidentali, un gruppo di dialetti che si può ragionevolmente presumere siano rimasti in una stretta contiguità geografica dopo la rottura dell'unità indoeuropea, e che quindi diedero luogo alla formazione di caratteristiche comuni. Ma gli studiosi hanno anche individuato nell'italico e nel celtico altre caratteristiche in comune con lingue situate all'altro estremo del mondo indoeuropeo, ma assenti in quelle intermedie. In altre parole, abbiamo una nuova classe di caratteristiche, dette «periferiche» in quanto opposte a quelle «centrali ››. Anche in questo caso sarà opportuno far precedere da un elenco di fatti il loro esame e le conclusioni che se ne possono legittimamente trarre. 1. Nel latino si ha una forma della terza persona plurale dell'indicativo perfetto, ad esempio díx-êre, che si presenta priva della caratteristica -nt riscontrabile in dicunt, dícebant, díxêrunt, díxerant, ecc. Ora, analoghe finali in -r figurano nell'ittita -ir, nel tocarico -år, -åre, mentre anche nell'indoiranico la terza persona plurale del perfetto e dell'ottativo è caratterizzata da una -r (per maggiori particolari si veda oltre, p. 33 5). Nessuna di queste finali è riscontrabile nelle lingue «centrali ››, vale a dire nel greco, nel germanico, nel celtico o nello slavo, che devono averle quindi eliminate nel periodo preistorico. Il latino conserva due altre peculiarità del perfetto che si possono far risalire al periodo piú arcaico dell'indoeuropeo. 12 Il gallico, o celtico continentale, ci è noto solo grazie a brevi iscrizioni e a parole citate da autori greci e latini. Per il gaelico il documento piú antico è l'iscrizione Ogham, fatta risalire al v secolo d. C. Il germanico fa la sua prima comparsa in alcune iscrizioni runiche del Ill secolo d. C., ma il primo testo abbastanza cospicuo è la traduzione gotica della Bibbia a opera del vescovo Ulfila nel lv secolo d. C. Per quanto riguarda il baltico, il primissimo documento - la traduzione del catechismo di Lutero - risale solo al xvi secolo.

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2. Il ben noto tipo del perfetto in -'v-, quale appare ad

esempio in amãvit, docuit, si ritiene che si sia sviluppato da forme come nãví, ove appare una caratteristica -v- pre-

sente anche nel sanscr. jajñau `egli ha conosciuto', e ancora nell'arm. cnaw “egli è nato'. Degno di nota è il fatto che questa -v- figurava in origine solo nella prima e nella terza persona singolare: ad esempio toc. prakwã = *precãví, mentre anche l”ittita denuncia forme del passato in -un per la prima persona singolare, dove la -n finale è congiunta alla caratteristica -u-_ Anche in questo caso si è giunti alla conclusione che il latino abbia costituito la sua piú peculiare formazione del perfetto sulla base di un tipo antico, le cui uniche vestigia permangono nelle lingue «marginali» come l'indoiranico, il tocarico, l'ittita, l'armeno e forse il celtico. Osserveremo tuttavia che nel sanscrito la finale in -u appare soltanto nei perfetti con raddoppiamento, ad esempio paprãu 'riempii' (ie. *plê `riempire'), mentre nessun perfetto latino in -'v- è caratterizzato dal raddoppiamento (si veda oltre, p. 331). 3. L'altra caratteristica della flessione del perfetto latino, per la quale si possono rilevare analogie in altre lingue,

è la -is- precedente le finali della seconda persona: dìxistí, díxistis. Anche nell'ittita il passato mostra talvolta una -sprima delle finali inizianti per -t-, ma non prima di quelle inizianti con una vocale; analoghe testimonianze sono state rilevate nel tocarico e nel vedico. Se ne è concluso che anche in questo caso il latino ha conservato una caratteristica arcaica del sistema flessionale indoeuropeo, presente altrove solo nelle lingue periferiche. Questa -is-, tuttavia, figura in tutti gli altri modi e tempi del perfetto latino, ad esempio díxero, díxeram, díxisse, nonché, indirettamente, nella nuova finale della terza persona plurale díxêrunt, che ha sostituito díxêre (per i particolari si veda oltre, p. 334); molti studiosi fanno risalire queste formazioni del perfetto latino a un originario aoristo in -s- (si veda oltre,

P- 332)4. Un'altra caratteristica « periferica ›› si è ravvisata nel fatto che, mentre altre lingue indoeuropee hanno una forma femminile distinta per i participi presente e passato, il latino ha una sola forma comune, ad esempio ƒerêns. Dal momento che anche l'ittita non distingue fra maschile e femminile, e lo stesso vale per l'armeno - altra lingua periferica -, se ne è concluso che l'indoeuropeo completò il

processo di distinzione formale del genere solo dopo la

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partenza delle genti che costituirono i progenitori linguistici dei popoli che parlavano le lingue periferiche. Il che, tuttavia, può essere sostenuto solo ignorando o negando la spiegazione alternativa, secondo la quale in tal caso lo

sviluppo formale del latino avrebbe oscurato un'originaria distinzione indoeuropea del genere. Per quanto riguarda l'ittita, la piú autorevole fra le grammatiche recenti” afferma: «L'ittita distingue due generi, il genus commune (maschile-femminile, personale), comprendente gli antichi maschile e femminile, e il genus neutrum».

Inoltre, in questo caso si trascura la testimonianza di altre lingue periferiche: ad esempio, formazioni femminili

come satí (participio presente del sanscr. es 'essere') portano su di sé i segni dell'antichità. Eppure la piú vicina forma corrispondente che sia stata scoperta è l'ëacrca (< ""esntia) del greco, una delle cosiddette lingue «centrali››. E diflìcile conciliare questi dati di fatto con il preteso piú antico distacco dell'indoiranico, in quanto lingua periferica, dal ceppo principale della famiglia indoeuro-

pea. (Per le altre caratteristiche comuni al greco e all'indoiranico, come l'aumento e la particella proíbitiva, si veda oltre, p. 39). 5. Anche nel lessico latino gli studiosi hanno creduto di individuare elementi marginali comuni solo al celtico e alle lingue parlate all'estremità orientale del mondo indoeuropeo. In particolare si è prestata molta attenzione ai termini appartenenti alla sfera della religione e a quella della legge. La parola rêx 're' è presente, in Occidente, nel celtico, ad esempio nell'irl. rí, femminile rígain, e nel gall. Dumno-fix (anche come prestito celtico al germanico, ad esempio ingl. bishop-ric), e inoltre solo nell'indoiranico, ad esempio sanscr. rãjan-, femminile rãjñí. Molti studiosi, poi, mettono in parallelo flãmen 'sacerdote' col sanscr. brahmán; in tale caso, però, la quantità lunga della -a- latina dà luogo ad alcune difficoltà, sicché altri fanno derivare la parola latina da *bhlãd-(s)men e indicano come affini il got. blötan 'signoria' e il norv. ant. blöt 'offerente, vittima'. Anche iüs è stato messo in relazione

con il sanscr. yãh 'salvel ' e con l'avest. yaoš-daôãiti 'esso rende puro' ; alla forma madre ricostruita, *yevos o *ya'uos, è attribuito il significato originario di «formula religiosa che ha forza di legge». Di qui íüdex 'colui che pronuncia 13 J. FRIEDRICH, Hethitírcher Elementarbuch, I, p. 14.

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la formula sacra', e ius iurare 'pronunciare la formula sa-

cra'. In latino, naturalmente, questo significato è divenuto profano; cosí Servio, commentando le Georgiche di Virgilio, I 269, dice: «ad religionem fas, ad hominem iura pertinent›› 14. Altra parola appartenente alla medesima sfera è lêx 'legge', usata per i singoli decreti, la cui raccolta costituisce lo ius. Quanti sostengono la teoria della «marginalità» fanno equivalere questo termine al ved. rãjaní (locativo) 'sotto la legge di', e all'avest. rãzan-

'legge religiosa'. Ma siffatte parole indoiraniche sarebbero meglio ricollegabili alla radice reg 'tendere, rendere diritto, guidare in linea retta', e lêx è connesso o al verbo lego 'cogliere, scegliere' - che però ne lascia inspiegato lo sviluppo semantico - oppure alla radice *legh 'giacere, posare', che appare nell'ingl. law (ingl. ant. lagu, ecc.). Piú plausibile è giudicata l'equivalenza di un'altra parola giuridico-religiosa, crêdo, con il sanscr. šráddadhãti, composto

da una radice sostantivale *kred e dal verbo *dhê 'mettere in condizioni di, porre', un composto ricorrente nell'avest. zrazdã 'credere'. Secondo questa tesi, il sostantivo *kred denotava un tempo il magico potere di una

cosa, e l'espressione verbale composta *kred-dhê significava quindi «conferire potere magico a una cosa o a una persona», operazione che produsse un sentimento di fede o di fiducia. Ma anche in questo caso, cosí come è avvenuto con íüs, i Romani hanno laicizzato e reso concreto il termine, al pari del corrispondente sostantivo fidêx. Catone, ad esempio, lo formula cosí: vilicus credat nemini 'un fattore non presti ascolto a nessuno'. Aflermare quindi che il significato religioso presente nell'indoiranico sia quello originario è una pura supposizione, e si potrebbe avanzare l'ipotesi, non meno probabile, che *kred denotasse un tempo qualcosa come un «pegno» depositato presso un'altra persona, col che si creava e simbolizzava il rapporto tra fede e fiducia, un'operazione ritenuta valida anche per gli dèi forse in base al principio del do ut des. Un altro termine giuridico che denuncia un'analoga distribuzione «marginale» è rêr. Ne troviamo un esatto corrispondente nel vedico rãm (accusativo), che significa « ricchezza ››. Anche nel Galles centrale rai ha il significato di « ricchezza, averi», ancora manifesto nel latino in espressioni come res familiae. 14 «Alla religione si addicono i doveri, agli uomini i diritti» [N.d. T.].

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A questo punto sarà chiaro che siffatte concordanze riscontrabili in lingue situate ai poli opposti del mondo indoeuropeo escludono la possibilità che si tratti di innovazioni comuni, determinate dalle lingue medesime; esse possono essere spiegate solo supponendo che le lingue abbiano conservato antiche caratteristiche della lingua madre. Che poi un tale fenomeno di conservazione sia dovuto alla loro posizione «marginale» è affermazione ancora piú discutibile, e comporta un problema metodologico meritevole di esame: tanto piú che del principio di marginalità 15 è stato fatto un uso troppo acritico, specialmente da parte della scuola «neolinguistica›› italiana. Il principio in questione trae origine dallo studio geografico dei dialetti. Se osserviamo una mappa dei dialetti come quella formata dalle parole gallo-romanze corrispondenti a «giumenta››, vediamo che il termine standard francese jument è difiuso nella maggior parte della Francia centrale e settentrionale; che cavalla - un intruso proveniente dall'Italia - copre una compatta regione del sud; mentre l'antico termine equa si è conservato solo nel Massiccio Centrale e in poche isolate località dei Pirenei e delle Alpi, vale a dire in aree marginali e isolate. Tali mappe hanno quindi indotto i linguisti a formulare il principio secondo cui le aree marginali tendono ad essere arcaiche. Occorre però rammentare che nella maggior parte dei paesi in cui sono stati condotti studi linguistici di tal genere si rileva una congerie di comunità locali organizzate in uno stato nazionale, i cui dialetti sono esposti all'influsso di una lingua standard diffusa dovunque e irradiantesi da un centro culturale e amministrativo. Ciò che è essenziale comprendere è che la forza esercitata dalla lingua standard su quanti parlano un dialetto è tale da determinare un fenomeno di bilinguismo: infatti colui che parla in dialetto comprende, quanto meno, la lingua standard. Se la comunità è isolata, egli avrà meno contatti con persone che la parlano, e sarà quindi meno esposto alle innovazioni provenienti da quella fonte. Naturalmente è altrettanto vero che in tal modo egli sarà privato degli influssi conservatori e protettivi della lingua standard. Ma 15 In italiano nel testo [N.d.T.].

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l'aspetto fondamentale, nella geografia linguistica, è che una data area di linguaggio costituisce un campo di forze linguistiche e sociali operanti, in quanto il linguaggio è un processo mimetico. Esse perciò possono agire a) dove c'è una reciproca intelligibilità, e b) dove la vicinanza geografica e i mezzi di comunicazione assicurano il necessario contatto fra chi parla e chi ascolta. Se ora prendiamo in esame le interrelazioni fra le lingue indoeuropee, vedremo che la loro origine deriva dai principi della geografia dialettale. Rispetto a quale centro d'ínnovazione il sanscrito può essere qualificato un'area marginale o centrale? Marginale nei confronti di che? Centrale rispetto a che cosa? Nel II millennio a. C. l'indoiranico, l'ittita, il greco, il latino, il celtico e le restanti lingue erano presenti in regioni geografiche ampiamente separate; e si trattava di lingue reciprocamente inintelligibili. Dov'era allora lo Stato indoeuropeo organizzato? Dov'era la lingua standard fondata sulla solidarietà di una classe dominante? Dov'era la carriera aperta dinanzi agli oratori ricchi di talento e di elo-

quenza? Dove, inoltre, il diffuso bilinguismo, il contatto dell'uomo con l'uomo, che solo rende possibile l'ininterrotta catena dei processi mimetici che stanno alla base della diffusione delle forme linguistiche dai centri d'innovazione ? Pochi esempi, scelti fra le parole già prese in esame, chiariranno fino a qual punto sia inammissibile l'applicazione delle nozioni di geografia dialettale a un gruppo di fatti linguistici radicalmente diversi. aqua (1) è stato definito piú arcaico di fiòoap (2) poiché figura nell'area centrale, cioè innovativa, come appare nella seguente tabella: Germanico

Latino

I . got. ahva, ecc.

aqua

2. got. wato, watins

(unda)

Oscoumbro

Greco

Ittita

Indoiranico

utur

üötop

watar udnah (genitivo)

Secondo questa teoria il latino sarebbe piú «marginale» dell'umbro. Ma la concordanza fra germanico, ittita e in-

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doiranico, insieme al tipo declinazionale estremamente arcaico, esemplificato nel got. -watins, nell'itt. wetenas e nel sanscr. udnas, mostra oltre ogni ragionevole dubbio che questa parola appartiene alla piú antica famiglia di parole indoeuropee. Resta da aggiungere che il celtico, all'estrema periferia occidentale, l'ha sostituita con una nuova parola (irl. dobur, gall. dwfr, brit. dour) che figura anche nel nome germanico di località Uerno-dubrum 'ontano d'acqua'. Inoltre si è asserito che ignis è piú antico di pur, in quanto quest'ultimo figura in un'area centrale, e quindi innovativa, con la seguente distribuzione: Germanico Latino I. 2. fire

Osco-

Balto-

umbro

slavo

ignis

Indo-

Greco iranico

lit. ugnís pir

agnih nup

Questa volta il germanico è meno «marginale» del latino e inoltre, in questo caso, l'umbro ha in comune col greco una parola la cui presenza nel tocarico (puwar 'fuoco') ne rivela Pappartenenza a un'antica famiglia. Ancora una volta il celtico (marginale e arcaico!) procede per suo conto: irl. ten 'fuoco', gall. tân, brit. tan, parola che è stata collegata all'avest. taƒnah 'calore”. Questo punto non necessita di ulteriori approfondimenti. Dovrebbe infatti essere chiaro che i concetti fondamentali della «linguistica areale ›› - centro d'innovazione, marginalità e simili, per lo piú derivati dallo studio del comportamento dei dialetti in Stati a organizzazione centrale, nei quali un determinato gruppo di forze sociali regola la disposizione dei dati linguistici - non hanno alcuna validità se applicati a una serie del tutto diversa di fatti linguistici, vale a dire ai rapporti fra lingue reciprocamente inintelligibili, disseminate in immense aree geografiche. I metodi e i principi della geografia linguistica sono applicabili esclusivamente a un materiale sincronico raccolto in un sistema di dialetti estremamente compatto. Perché siffatti principi possano considerarsi validi anche per i dialetti indoeuropei, occorrerebbe anzitutto ridurre a una

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base sincronica il materiale di cui si dispone, attestato in epoche assai diverse e in differenti circostanze. In altri termini, sarebbe anzitutto necessario ricostruire, tanto per fare un esempio, il celtico del zooo a. C. e situarlo nella posizione geografica che occupava in quel tempo, compiendo poi un'analoga operazione nei confronti di tutti gli altri principali gruppi indoeuropei. Quanto diflìcili e controverse siano tali ricostruzioni è già stato detto: il materiale disponibile è troppo frammentario. In particolare occorre procedere con la massima cautela nei riguardi delle concordanze e delle discordanze lessicali fra le lingue indoeuropee. I linguaggi sostituiscono con facilità, a causa di svariati accidenti linguistici e storici, l'antico gruppo di parole da essi ereditato, a tal punto che solo per una minima parte del lessico di una famiglia indoeuropea sono state accertate connessioni etimologiche ragionevolmente sicure, e in pratica assai poche parole sono rappresentate in tutti i rami della famiglia indoeuropea. I fatti di sopravvivenza relativi a parole particolari potrebbero essere riportati su

schede perforate e quindi classificati con l'aiuto di un calcolatore (tuttavia occorrerebbe far variare le dimensioni dei fori, per rappresentare i diversi gradi di plausibilità etimologica!) In tal modo si potrebbe ottenere una serie di statistiche relative alle diverse interrelazioni, alcune delle quali sono state discusse sopra, e, una volta chiarita la questione della significatività statistica, sarebbe possibile formulare un'interpretazione piú convincente dei fatti lessicali. Nel frattempo, è lecito dubitare se, nel caso di rêx, di lêx e del resto, si sia di fronte a elementi di un lessico arcaico, sopravvissuto solo grazie ad alcuni gruppi distaccatisi anticamente dalla nazione indoeuropea, e scomparso invece nell'area «centrale» di questa. Dobbiamo anzitutto chiederci, ad esempio, in che periodo la parola straniera ßoccikeúg abbia fatto la sua comparsa in Grecia, e quale parola abbia sostituito. Qualora essa abbia rimpiazzato il termine rêx nel Ii millennio a. C., dopo la penetrazione dei Greci in quella regione, un'innovazione siffatta non avrebbe nulla a che fare con la posizione «centrale» del greco fra le lingue indoeuropee. Il fatto si accorda con la sostituzione delle parole corrispondenti ad «acqua» e a

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«fuoco» nel «marginale» celtico, e con la sostituzione dell'antico equus 'cavallo' da parte di un derivato, *hro.rsan, 'il saltatore, il corridore' nel germanico occidentale (l'antica parola sopravvive nell'ingl. ant. eoh, got. aíhwa, alto germ. ant. ehu). La perdita di rêx, nel greco, può essere quindi dovuta a un semplice accidente lessicale, verificatosi piú tardi e non maggiormente significativo di quanto lo sia la sopravvivenza delle non meno importanti parole religiose o'†cév8o›, Ãcíßm, réuevoç, ecc. (si veda sopra). La stessa critica può essere rivolta ad altri tentativi di determinare le affinità dialettali del latino. Si è detto, ad esempio, che certi gruppi linguistici indoeuropei tendono a confondere la o con la a (ad esempio ie. *oktö(u) 'otto', got. ahtau, lit. aštuoní, sanscr. a;_tãu). Questa tendenza, evidente nell'indoiranico, nel balto-slavo, nell'albanese e nel germanico, non appare nel celtico, nell'italico e nel greco, ed è considerata un'importante «isoglossa›› per raggruppare i dialetti indoeuropei. Il termine «isoglossa», ripreso dai geografi linguistici, è comunemente impiegato dai linguisti per indicare una caratteristica comune rilevabile in parecchi dialetti e lingue. Anche in questo caso, però, sarà bene esaminare le implicazioni proprie di questo termine, prima di applicarlo acriticamente a materiali del tutto diversi. Sulle mappe che indicano le varianti dialettali di una determinata caratteristica linguistica, si traccia una linea che collega le località nelle quali compare una certa peculiarità. Questo modo di procedere è giustificato dal fatto che la contiguità geografica e ciò che sappiamo della storia sociale e politica ci autorizzano a concludere che i fenomeni fra loro separati sono connessi da catene di processi mimetici, e la linea (l'isoglossa) è un modo di esprimere siffatta concatenazione. Ma applicando il termine «isoglossa›› alle somiglianze rilevate in lingue assai distanti l'una dall°altra e reciprocamente inintelligibili non si tiene conto di un presupposto assai importante, vale a dire che le somiglianze devono essere tali da escludere la possibilità di uno sviluppo indipendente e da lasciar presumere, invece, un contatto e un'imitazione linguistica in un determinato periodo storico. Un breve riesame della mutazione della o in a sarà sufliciente a mettere in luce l'inesattezza

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che si cela nell'uso del termine «isoglossa›› in un caso del genere. Siamo infatti di fronte ad un mutamento fonetico relativamente minore, verificatosi in tempi piú recenti in taluni dialetti inglesi (strop e strap sono doppioni dialettali), nonché in certe varietà del moderno inglese americano. Il processo, pertanto, è di natura tale da costringerci a rispondere affermativamente alla domanda che il comparatista deve continuamente porsi: è possibile che tutto ciò sia accidentale? Stando cosí le cose, il mutamento della o in a deve essere privato dell'importanza che ha assunto nelle discussioni sui rapporti dialettali indoeuropei, mentre sarebbe piú saggio astenersi del tutto dall'uso del termine «isoglossa››, col suo implicito concetto di «concatenazione di processi mimetici ››. Forse piú significativo come criterio per stabilire l'esistenza di una parentela è il mutamento provocato dalla giustapposizione di due occlusive dentali in parole come *aid-tos, ove il trattamento latino vísus (< víssus) è simile al germanico wíssan (< ie. wid-tan) e contrasta invece con il gr. (F)Lo"róç. La -ss- è riscontrabile nell'italico, nel celtico e nel germanico, mentre la -st- è presente nel greco, nello slavo e nell'iranico; proprio quest'ultimo fatto diminuisce la significatività del fenomeno, in quanto l'indoariano sattá differisce dal termine iranico, strettamente congiunto, hastö (entrambi < ie. *sed-to-, cfr. lat. sessus); ciò lascerebbe intendere che tale sviluppo, in iranico, è relativamente recente e del tutto indipendente dall”analogo mutamento verificatosi nel greco e nello slavo. Si è avanzata l”ipotesi che nell”indoeuropeo primitivo t-t si sia sviluppato in tst, combinazione fonetica che nelle singole lingue si è semplificata indipendentemente in un numero limitato di modi. Ciò è plausibile, e un fenomeno del genere, se vero, non può essere considerato come una «isoglossa›› implicante una «concatenazione di processi mimetici››, quindi come un'indicazione di parentela dialettale. Ha basi piú solide l'isoglossa relativa al trattamento delle esplosive palatali indoeuropee, che appaiono come fricative in un gran numero di gruppi linguistici. L'esempio solitamente citato è la parola corrispondente a «cento ››. La palatale appare inalterata nel lat. centum, irl. cet, gr. åxocróv

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(il got. hund è oscurato dall'azione della legge di Grimm), mentre l'iran. satam, l'indico çatam, lo slavo ant. süto, il lit. širñtas, presentano tutti una fricativa sorda. Il fenomeno, di cui questa parola è esempio tipico, viene impiegato per la suddivisione delle lingue indoeuropee in due grandi gruppi principali, un gruppo centum, comprendente il celtico, il germanico, l'italico, il greco, l'ittita, il tocarico, e un gruppo satam comprendente l'albanese, il balto-slavo, l'armeno e Findoiranico. Si può dubitare che un simile fatto rivesta un'importanza cosí rilevante, in quanto tale suddivisione s'incrocia con altre isoglosse. Per esempio l'uso dell'aumento per caratterizzare i tempi passati è riscontrabile nel greco, nell”armeno e nell'indoiranico (ad esempio È'- am, an, mentre in latino sono rappresentate con em ed en). Le liquide sonanti 1' e 1 denunciano comunque gli stessi mutamenti nel venetico, nell'illirico e nel latino (> or, ol). Del sistema morfologico non si conosce gran che. Nei sostantivi il venetico mostra un dativo plurale -(pos-, -bos che ricorre nel celtico, nell'italico, nell'illirico e nell'indoiranico. La declinazione in -o ha il genitivo singolare in -í, comune al latino-falisco, al celtico e all'illirico. Nel sistema verbale troviamo un aoristo in -to (ad esempio zonasto = donavit), che richiama quello dell'indoiranico e del greco (šåoro) 7. Le affinità lessicali con il latino sono notevolissime. Il nome della dea Louzera corrisponde al latino Libera, e la parola equivalente a «libero ›› ha acquistato, in entrambe le lingue, il particolare significato di «figli ›› (louzeoçpos = liberis). I verbi latini donare e ƒaxo sono costruiti esattamente come il venetico zonasto e vhaxsfio, mentre la dea Reitia, sopra menzionata, è invocata con l'appellativo s'ahnate'i che, interpretato come «guaritrice››, trova il suo unico etimo nel lat. sãnare. Ma esiste un altro gruppo di «isoglosse›› che collega il venetico al germanico. Piú sorprendente è forse il fatto che l'accusativo singolare del pronome di prima persona ha acquistato dal nominativo una consonante gutturale: sicché exe, mexo = got. ik, mik (anche itt. uk, ammuk). Il pronome di identità mostra anch'esso una forte somiglianza in entrambe le lingue: ven. sselboi sselboi _ sibi ipsi; cfr. l'alto germ. ant. der selb selbo. Anche nel lessico è riscontrabile un importante punto di similarità: a'hsu, se l'interpretazione come «erma » è corretta, può appartenere alla stessa famiglia linguistica del germanico ansu- 'divinità'. Che i Veneti fossero un tempo geograficamente assai vicini ai Germani è indicato dalla menzione dei Venedi, da parte degli antichi autori, nella regione della Vistola. Le contrastanti testimonianze inducono quindi ad accettare in via provvisoria il recente ver7 In zoriar-to la flessione personale è stata aggiunta a una forma passata caratterizzata da -r. T. Burrow ha attratto la mia attenzione sulle analoghe forme ittite, ad esempio na-ii'-ta 'egli lasciò'.

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STORIA DELLA LINGUA LATINA

detto di un esperto, secondo cui il venetico è una branca indipendente dell'indoeuropeo, in stretta parentela con il latino e l'illirico, e con punti di contatto con il germanico, il celtico e anche il balto-slavo.

Il siculo e l'«italico occidentale». L'esame dell'illirico ci conduce ora a prendere in considerazione la lingua sicula, le cui testimonianze consistono in poche iscrizioni, in un considerevole numero di glosse e in nomi di persona e di località. Benché gli studiosi concordino sul carattere indoeuropeo di questa lingua (la forma verbale esti ne è una prova inconfutabile), le sue parentele piú strette sono alquanto controverse. I dati etimologici, che lasciano intravedere l'esistenza di legami con l'illirico (ad esempio la -nt- di Agrigentum, Zapyévttov), trovano conferma nel riferimento di Esichio ai Siculi nella Dalmazia (cfr. Plinio, III 141). Il conseguente movimento di popoli dai Balcani fino alla Sicilia attraverso l'Italia è tuttavia contraddetto dalle testimonianze archeologiche, in quanto, sebbene siano state rinvenute vestigia sicule nel Bruzzio, è chiaro che tale cultura proveniva dalla Sicilia attraverso lo stretto. Di maggiore consistenza sono i dati riguardanti una piú stretta parentela fra il siculo e l'italico. Secondo alcuni autori antichi (Varrone e Favorino) i Siculi avevano un tempo insediamenti nell'intera penisola fino alla Gallia Cisalpina, come è confermato dalla diffusa ricorrenza di certi nomi di persona e di località (ad esempio Sicilinum). Anche alcuni elementi sicuri delle testimonianze linguistiche indirizzano nel medesimo senso, e lo stesso nome Siculi presenta il medesimo suffisso di altri antichi nomi etnici appartenenti alle tribú indoeuropee in Italia (ad esempio Rutuli). Le glosse (lasciando da parte le iscrizioni, la cui interpretazione è solo oggetto di congetture e, in genere, di disaccordo fra gli studiosi) suggeriscono in particolare una piú stretta connessione con il latino: ad esempio oìpßivvr; 'carne', cfr. lat. arvina; xoiunoç 'ippodromo', cfr. campus; xoi-rwozg, cfr. catinus, catillus; dös 'dono', cfr. dös; Aouxétioç, un re dei Siculi, cfr. dux;

i PROTOLATINI IN ITALIA

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Yéìtoc (= †:o'tXw;), cfr. gelu; rtovroiviov, rtocroivot, cfr. patina. Un gruppo semantico ben definito è costituito dalle parole che si riferiscono alle monete e ai pesi: uoitov = mutuum, voüuuog = nummus, Ãítpoc cfr. libra (entrambe da *li19ra), ôyxíoc = uncia. Il siculo Àšrcopiç, sebbene di origine iberica, è stato collegato da Varrone al lat. lepus, con un commento che ha un certo peso per il nostro problema: lepus quod Siculi quídam Graeci dicunt Ú-rtopiv. a Roma quod orti Siculi, ut annales veteres nostri dicunt, fortasse hinc illuc tulerunt et hic reliquerunt id nomens (De

lingua Latina V loi). Questa asserzione, che i Siculi fossero un tempo insediati nel Lazio, trova conferma nel fatto che i Sicani erano fra le trenta tribú che si riunivano annualmente per l'adorazione di Giove Laziale sul colle Albano. Ora, se un popolo di origine laziale si fosse aperto una strada fino alla Sicilia, sarebbe ragionevole attendersi di trovare qualche traccia del suo passaggio, o magari di qualche suo stanziamento, nelle regioni attraversate; difatti alcuni studiosig hanno tentato di stabilire l'esistenza di un gruppo «italico occidentale ›› di dialetti comprendente il laziale, l'ausonio, l'enotrio e il siculo. La Campania, prima dell'invasione dei Sanniti nella metà del V secolo era abitata dagli Opici, la cui lingua, secondo quanto si afferma, differiva per importanti aspetti dall'osco: cosí, il nome di località Liternum, in gr. Acurcpvo-, sembra derivato dalla radice *leudh, che in osco darebbe luogo a Louferno. L'«opico›› inoltre presenta la forma sum come il latino, laddove l'osco ha sim. C'è poi un importante criterio fonologico che stabilisce un altro collegamento dell'«opico ›› con il latino anziché con l'osco: tra vocali, esso presenta occlusive sonore in luogo delle fricative sorde dell'osco-umbro. Cosí i nomi Stabiae e Allibae sono presenti nel periodo sannita nelle forme Stafia e Allifae. Analogamente la parola 3 «lepus, poiché alcuni Greci di Sicilia lo chiamano Ãérropty. Giacché, come dicono i nostri antichi annali, i Siculi provengono da Roma, è probabile che essi vi abbiano portato questo vocabolo, lasciandovelo» [N. d. T.]. 9 G. DEvo'ro, Storia della lingua di Roma, pp. 56 sg.



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mediterranea teba 'collina' si rinviene piú tardi nella Campania sannita con la forma di tifa. Viceversa l'«opico» si unisce al siculo nella rappresentazione di un'antica dh mediante t, rispetto al latino d/b: ad esempio Liternum. In questo gruppo «italico occidentale ›› vengono compresi gli Ausoni, a nord degli Opici, ma l'unica prova addotta è il nome tribale Rutuli che, essendo etimologizzato come «i rossi ››, è servito a rivelare la stessa caratteristica fonologica (dh > t) dell' pšymp). Ciò significa che nel latino i prestiti in cui figura ã (ad esempio mãcina < uãxåvã) devono derivare dai dialetti dorici d'Italia. Un'altra utile indicazione cronologica è fornita dal trattamento del digamma (F, pronunciato come l'inglese Questo suono scomparve dall'attico-ionico prima del periodo delle iscrizioni piú antiche; in taluni dialetti dorici esso è risultato piú tenace, ma anche in questo caso il suono scomparve ben presto nella posizione intervocalica. Pertanto, parole come Achí1›ì(< 'Axou.Foi) e olí-va (< š}\otiFot) devono essere fatte risalire a tempi molto antichi. Il trattamento, in questi prestiti, delle vocali interne e dei dittonghi ci fornisce un'ulteriore testimonianza cronologica, in quanto nel latino tali suoni erano soggetti in antico, probabilmente sin dal Iv secolo a. C., a processi d'indebolimento (ma, a questo proposito, si veda oltre, pp. 269 sgg.). Cosí prestiti come camera (xoqioipot), phalerae (q›o0\o'cpot), trutina (rpuroivot), mãcina (uãxdwâ), balineum, H ALTHEIM, History of Roman Rvligiun, p. 149.

I PROTOLATINI IN ITALIA

balneum (ßockotveìov), talentum (roiìavrov), Tarentum (Toipavroc), ecc. devono essere entrati nella lingua prima che siffatti mutamenti di suono cessassero di operare, e sono perciò chiaramente distinguibili da prestiti piú tardi come cerasus (vocabolo introdotto da Lucullo nel 76 a. C.), ove tale fenomeno non è rilevabile. Si può anche presumere che le parole greche la cui forma latina tradisce un'influenza etrusca risalgano ai tempi della dominazione etrusca sul Lazio. Tale mediazione è messa in luce dall'incertezza insita nella resa delle consonanti occlusive, com'è testimoniato, ad esempio, in amurca (oìuópya, con un mutamento della vocale interna comparabile a quello verificatosi in alumnus < *alomnos), gubernare (xußepvãv), Agrigentum ("A›~:potyocç); o, ancora, dal cambiamento di quantità di crëpída (xpmrìåa). Anche in questo caso, come per i prestiti diretti dall'etrusco, la sola prova di una mediazione etrusca è il piú delle volte indiziaria. Cosí sporta è ovviamente collegato col gr. orcupíåoc. La prova della mediazione etrusca si basa sulla sostituzione di d con t e di u con 0, che troviamo ancora in cotoneum < xuòoßvtov. Inoltre gruma deriva da Yvöua (cfr. Memrun < Méuvmv), triumpus da flpioqißoç, e catamítus da Fowup.'í)3^11ç. Nel caso di cisterna (xiam) e lanterna (Àaunrfip) si tratta dell'aggiunta di un familiare suffisso etrusco, da cui si intravede quale strada la parola ha percorso per approdare infine nel latino. A questi termini possiamo comparare crêterra = xpryrfipoc. Nel caso di gutturnium o cuturnium, «vas quo in sacrificiis vinum fundebatur», sia la fonologia che la morfologia mostrano che il gr. xmßóviov venne deformato dagli Etruschi prima di raggiungere Roma. Questa parola può essere inoltre considerata sotto il profilo semantico, in quanto molti termini denotanti la ceramica e gli utensili furono forniti ai Romani dagli Etruschi, tanto che probabilmente sia urna che urceus hanno un lontano legame col gr. iipxvq. Un altro gruppo semantico degno di nota è formato da parole relative a rappresentazioni teatrali. Abbiamo già visto come hister e histrio derivassero dall'etrusco, e verosimilmente persôna era una parola etrusca formata dall'aggiunta del suffisso -öna alla parola (persa, probabile deformazione etrusca di npóawnov. Anche scêna può essere

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STORIA DELLA LINGUA LATINA

giunta per la medesima via, dal momento che talvolta è pronunciato scaena, e il fatto che l'etrusco rendesse talora l'ã con ae risulta evidente da Calaina (per Fochìv â) e laena, un capo di vestiario, se questo è un prestito dal latino lãna. Altri esempi a conferma del mutamento sono Saeturnus, Aesculapius (Aioxìrotmóg) (un esempio di sostituzione inversa è rilevabile in crápula per xpou.†ro'O\cx). paelex per 1coc}.?\ot›n'] è piú complicato, giacché la parola può appartenere alla famiglia mediterranea, e lo stesso può dirsi per caupo, il cui significato corrisponde esattamente a quello di xannlóq, e dove la sostituzione della a con au lascia intendere una mediazione etrusca. Tuttavia la differenza nei suffissi induce a escludere l'ipotesi del greco come lingua creditrice, e si può pensare che tanto il greco quanto l'etrusco abbiano attinto al nativo lessico mediterraneo, che avrebbe a sua volta trasmesso la parola al latino. Interessante, circa l'origine di elementum, l'indicazione di un gr. *eleparzta 'lettera d'avorio': il mutamento di p in m rappresentò un contributo etrusco, per il quale possiamo indicare una parziale analogia nel prenestino Melerpanta per Bs)\7\epo é, come pretod = praetor; ou > 6, come loferta 1 = liberta); e la perdita delle consonanti finali, ad esempio cra(s), zenatuo(s), sta(t), mate(r). Per quanto riguarda la morfologia, possiamo indicare il dativo singolare della seconda declinazione in -oi (zextoi); la desinenza secondaria della terza persona singolare in -d (douiad = det); il futuro in -ƒ- (careƒo, pipaƒo), e il raddoppiamento del tema del perfetto fifiked = finxit ( P). Molta importanza è stata attribuita a un supposto genitivo in -osio della seconda declinazione. Ma l'unico esempio indicato è kaisiosio 2, che però si sospetta sia una dittografia, mentre si conoscono molti esempi autentici del normale genitivo latino in -i. Abbiamo lasciato per ultimo un interessante elemento di fonologia: l'interscambio di ƒ e h all'inizio di parola, ad esempio hileo efilea, haba = lat. faba, maƒoied =

hodie. Questo fenomeno è riscontrabile nel sabino e nell'etrusco, la qual cosa lascia pensare che col falisco si sia di fronte a una lingua latina in bocca toscana 3. In ogni caso lo stesso fenomeno fa la sua comparsa anche nel dialetto latino di Praeneste (Palestrina), ove tuttavia sono state rilevate altre influenze etrusche. È appunto da Preneste che ci è giunto il piú antico testo in lingua latina: su una fibula risalente al VI secolo a. C. risultano scritte in caratteri greci le parole Manios : med: 'vhe : 'vhaked : numasioi _ Manius me fecit Numerio. Qui troviamo ancora il dativo in -oi e un altro raddoppiamento del tema del perfetto fefaced per il ƒêcit, ereditato e conservatosi nel latino romano. Questo perfetto ricorre nelle forme osche feƒacust, ƒeƒakid, e ciò può forse spiegarsi con la posizione geografica di Preneste, sulla frontiera linguistica fra latino e osco. Tanto ƒefaced quanto Numasioi denunciano la conservazione delle vocali forti nelle sillabe in1 Per questa parola cfr. oltre, p. 268. 2 Cfr. comunque eco quto Iz~uoteno.\°ío 'sono il xtßflcov di Giove' (Vešter, in «Glotta››, 1939, pp. 163 sgg.). In italiano nel testo [N. d. T.].

I DIALETTI LATINI

terne, ma è anche possibile che in un periodo cosi antico il latino romano non avesse ancora effettuato il caratteristico indebolimento delle vocali atone (si veda oltre, pp. 269 sg.). Un'altra caratteristica prenestina è il mutamento della i in e davanti a vocale (conea, fileai) e nelle sillabe aperte interne, ad esempio Orcevio = Orcivius (cfr. Varrone, De re rustica I 2.14: «rustici etiam quoque viam veham appellant et vellam non villam››). Viceversa, in una sillaba chiusa davanti a -r- la e si mutò in i (ad esempio Mirqurios, cfr. stircus nella Lucania e ancora l'osco amiricatud = immercato). Cosí il lat. ƒìrmus, di contro a ferme, può rappresentare una forma dialettale, e parimenti anche a hircus possono essere attribuite origini rustiche. Nel trattamento dei dittonghi il prenestino, al pari di altri dialetti rustici, divergeva dal romano. La finale -ãi > ã (ad esempio dat. Fortuna, primocenia); ai > E (Esculapio); ei > e (ad esempio Hercole); oi > 6 (coraveron = curaverunt); eu > ou > 6 (Poloces < Iloìtuòr-:6x^r;ç); au > 6 (Plotia). Come nel falisco, la s cade in fine di parola (nationu = nationís), ma si conserva dinanzi alle consonanti nasali, ove invece il romano la perdette (losna = lüna < *louksnã). Per quel che concerne la morfologia, possiamo menzionare i nominativi plurali della seconda declinazione in -es (magistere(s)), una formazione rilevata altrove, ad esempio a Tivoli, Capua e Faleri. Un altro fenomeno diffuso nel latino non romano è il genitivo singolare in -us (-os), esemplificato in nationu(r). Anche nel lessico troviamo alcune testimonianze della diversità dei dialetti di campagna rispetto al romano. Cosí, a proposito della parola nefrendes, Festo scrive: «sunt qui nefrendes testiculos dici putent, quos Lanuvini appellant nebrundines, Graeci vstppoúç, Praenestini nefrones››. Abbiamo qui una parola dialettale corrispondente a « reni ››, affine al ted. Niere, per cui il latino romano usava rënes. Le varianti fonetiche neƒrones, neƒrundines, nebrundines, che mostrano rispettivamente la -fe la -b-, sono notevoli. Un'altra antica parola conservatasi nel latino rustico, ma andata perduta nel dialetto di Roma, è il prenestino tongitio, sostantivo verbale del verbo tongeo, affine all'inglese think. A tale proposito Festo scrive: «tongere nosse est, nam Praenestini tongitionem dicunt notio-

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nem››. Anche l'osco presenta una parola afline, con tanginom Âvententiam'. A parte il prenestino e il falisco, le iscrizioni in latino «arcaico ›› provenienti da altre località denunciano ulteriori spiccate differenze rispetto al latino romano, oltre a quelle incidentalmente menzionate sopra. Sarà opportuno riassumere qui di seguito le piú importanti. Fra gli aspetti fonologici citeremo il mutamento della d in r davanti a labiale, come in arvorsum, arƒuisse (cfr. il volsco arpatitu = aflundito e il marsico apur finem), per cui arbiter potrebbe essere un termine dialettale. La vio-

lenta sincope delle vocali atone, esemplificata in forme come lubs per lube'(n)s, dedront per dederunt e cedre = caedere, è solo apparente, in quanto in molti di questi esempi le consonanti possono avere un valore sillabico: b = be, d = de e c = ce. Il trattamento dialettale dei dittonghi è

rispecchiato nella declinazione dei nomi, ad esempio i dativi singolari Locina e Diane (entrambi < ãi), Marte, ecc. (e' < ei).

Nella prima declinazione il nominativo plurale spesso conserva l'antica desinenza -ãs (matronas, quas), mentre il dativo plurale appare una volta in -as (< ãis, ad esempio devas Cornircas). Per il genitivo singolare in -aes (ad esempio /lquiliaes) si veda oltre, p. 294. Fra le peculiarità dialettali della seconda declinazione l'asserito plurale in -ãs ricorre solo nei nomi gentilizi preceduti da due prenomi denotanti i figli del medesimo padre. Le forme in -o(s) possono quindi essere interpretate come singolari. Nei verbi, la desinenza della seconda persona singolare media appare spesso in -ur anziché in -is come nel latino classico, ad esempio spatiarus. Nel deda(nt) del Corpus inscriptionum Latinarum I2 379 abbiamo una forma raddoppiata di do come nell'umbro. L'influenza dell'osco è ravvisabile nelle forme imperative ƒundatid, proiecitad, parentatid provenienti da Lucera, in Apulia, per le quali si

veda oltre, p. 338. Del latino di Roma vero e proprio non abbiamo che poche, vaghe e suggestive idee fino alla fine del III secolo, quando i testi divennero piú numerosi. La piú antica iscrizione è quella incisa su di un cippo mutilo, che si rinvenne nel 1899 sotto una pietra nera ritenuta il contrassegno

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della tomba di Romolo. Su questo cippo, che risale all'incirca al v secolo, è iscritto verticalmente, in caratteri bustrofedici, un testo (cfr. Appendice, n. 3) la cui evidente antichità e la cui importanza per la storia del latino hanno acceso l'interesse degli studiosi. Il testo è stato variamente interpretato e considerato via via come una serie di regole riguardanti i privilegi del rex sacrorum, come una legge di Tarquinio Prisco composta in saturni, come una legge di Tarquinio il Superbo relativa ai bottini di guerra, ed altro ancora. Per quanto riguarda le parole incise sulla parte superstite, si è generalmente d'accordo sul fatto che quoi = qui, sacros = sacer, recei = rêgi, iouxmenta = iümenta, iouestod = iüstã. Tutto ciò non aggiunge alla nostra conoscenza del latino molto piú di quanto non si fosse già appreso attraverso un'opera di ricostruzione. Non meno scoraggiante è l'iscrizione redatta su un vaso a tre scomparti ritrovato nel 1880 nella valle fra il Quirinale e il Viminale (cfr. Appendice, n. 2). Nella prima riga è possibile decifrare le parole deiuos, qoi, med, mitat, cosmis, virco, siet, ma il suo senso complessivo ci sfugge tuttora. Della seconda riga non abbiamo nulla di sicuro, mentre le prime tre parole della terza riga duenos med ƒecet significano chiaramente Bonus me ƒecit. Le piú antiche testimonianze, come si vede, aggiungono poco di positivo a quanto già sappiamo del latino antico, ma ci permettono di concludere che tra il v e il 111 secolo a. C. il latino subí dei mutamenti cosí profondi, che gli studiosi non possono piú decifrare i testi del periodo precedente. Sembra che gli stessi Romani incontrassero le medesime diflicoltà 4, a giudicare dal Carmen /lrvale incluso nei documenti riguardanti il rito dei Fratres Aroales nel 218 d. C. Si tratta di un testo rituale nato in un periodo assai remoto e che, tramandatosi attraverso le successive generazioni di ministri religiosi, era diventato 4 Ciò è espressamente affermato da Polibio (III 22.3) nella sua analisi del trattato stipulato fra Roma e Cartagine Panno successivo alla cacciata dei re: «Fornisco qui di seguito la traduzione piú accurata che mi è possibile. Infatti la differenza fra il dialetto quale è parlato dagli odierni Romani e l'antica lingua è tale, che è diflicile decifrare alcune sue parti anche per le persone piú ricche di talento, dopo un attento studio» (cfr. TENNEY FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, I,

pp- 6-7)-

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inintelligibile a coloro che lo pronunciavano. Questo testo (cfr. Appendice, n. 4) è stato di recente interpretato da E. Norden, che cosí lo traduce: 1) 2) 3) 4) 5) 6)

Ahinoi, aiutateci Lari [tre -volte]. Non permettete che peste o rovina afliiggano il popolo. Sii sazio, crudele Marte, balza sulla soglia e restaci. Chiamaci tutti i Semoni uno alla volta. Ahinoi, Marte aiutaci triumpe.

L'inno veniva cantato in occasione di una cerimonia che si svolgeva sul confine (limen, usato in senso metaforico, cfr. postliminium) dell'ager Romanus. Dapprima s'implorava l'aiuto dei Lari (gli agri custodes, cfr. Tibullo, I 1.9), quindi si invocava Marte, che non era solamente il crudele dio della guerra, ma anche il protettore delle messi, della casa e degli edifici degli agricoltori, aflinché prendesse posto sulla «soglia» e proteggesse la terra dalle calamità. I Semoni erano un gruppo di dèi di cui sappiamo poco, ma il Norden avanza l'ipotesi che si trattasse di potenze divine, agenti esecutivi, per cosí dire, degli dèi supremi: «I Semoni, manifestazioni di potenze che proteggono il popolo, collaboreranno››. Di certo interesse linguistico sono l'interpretazione di enos come e' (particella affermativa simile al gr. piú nös; la cantilena lue(m) rue(m) (ruës per il piú tardo ruina; nello stesso gruppo semantico possiamo indicare lãbês, strãgês, tãbês); sins sta presumibilmente per sinãs; fu è un imperativo dalla radice *bhu, che tanta parte ebbe nella coniugazione del verbo inglese to be; berber è la forma raddoppiata di un tema del dimostrativo, presente anche nella forma augurale ullaber arbos (Varrone, De lingua Latina VII 8; si veda oltre, p. 81). alternei è apparentemente una forma locativa usata in senso avverbiale col significato di «alternativamente ››. advocapit è una forma apocopizzata di adoocapite, essendo il futuro usato imperativamente. È evidente che in questo documento abbiamo un testo latino molto antico, pur con qualche modernizzazione superficiale (ad esempio pleoris per pleoses) e qualche probabile corruzione. Esso si riferisce a un'antichissima cerimonia situata nel cuore stesso della religione statale

1 DIALETTI LATINI

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romana. Il Norden adduce inoltre cospicue prove da cui si ricava che anche questo antico documento della latinità romana deve molto, nella concezione, nella struttura e nella formulazione, ai modelli greci. L'influenza del greco è evidente anche in un altro documento risalente al v secolo a. C., le Dodici Tavole, con le quali passiamo a una piú tormentata fonte di informazioni sull'antica latinità: infatti la nostra conoscenza delle Dodici Tavole non si avvale di testimonianze fondate su iscrizioni di prima mano. Indipendentemente dal fatto che le tavole in bronzo siano andate o meno distrutte nel sacco di Roma a opera dei Galli nel 390 a. C., è indubbio che «nessun testo autorevole esisteva alla fine della repubblica»5. La nostra conoscenza di questo testo si basa su citazioni o parafrasi tratte da alcuni autori, soprattutto Cicerone e i giuristi, a partire dal I secolo a. C. I Romani stessi ritenevano che quando i patrizi erano stati costretti, sotto la pressione dei plebei, ad accettare che si redigesse un codice di leggi, fosse stata inviata ad Atene un'ambasceria col compito di studiare la legislazione di Solone, e che i decemviri avessero redatto al suo ritorno un codice inciso su dieci tavole di bronzo e collocato nella piazza del mercato (450 a. C.). Che questa origine leggendaria contenga un fondo di verità è reso probabile dalle somiglianze col contesto e la formulazione dei primi codici di leggi greci, come quelli di Gortina a Creta. L'origine greca di questo fondamentale documento della legge romana spiegherebbe come mai una parola cosí centrale per il lessico giuridico, come il latino poena, sia un prestito greco (1'toLvv')). L'immensa importanza che le Dodici Tavole ebbero sullo sviluppo del linguaggio letterario romano può essere misurata dall'osservazione di Cicerone (De legibus II 4.9): «a parvis enim, Quinte, didicimus si in ius oocat atque eiusmodi alias leges nominare ››. La significatività del fatto che un testo appreso con tanta venerazione da ogni scolaro romano si basasse su modelli greci, sarà piú esaurientemente esaminata nel capitolo seguente, dedicato all'evoluzione della lingua letteraria. Le caratteristiche linguistiche arcaiche dei testi che 5 ]o1.ow1cz, Hìstoriz.-al Introduction to Roman Law, p. 106.

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la tradizione ci ha conservato verranno prese in esame nella seconda parte di questo volume. Per gli esempi si veda l'Appendice. Tra i testi primitivi conservati negli scritti di autori romani piú tardi ve ne sono altri la cui evidente antichità li rende particolarmente ricchi di valore per la nostra conoscenza del latino preletterario. Uno di essi è la formula augurale conservata in Varrone, De lingua Latina VII 8. Tali formule erano divenute per lo piú inintelligibili ai Romani dei secoli posteriori, ed erano oggetto d'interpretazioni e controversie fra grammatici e lessicografi, come appare chiaro dal commento di Varrone: «quod addit templa ut sint tesca, aiunt sancta esse qui glossas scripserunt. id est falsum, nam... ››. Riportiamo qui il testo della formula principale, cosí come è stata ricostruita e interpretata dal Norden (si veda tuttavia la critica di K. Latte, in «Philo-

logus», xcv11, 1948, pp'. 143 sgg.): templa tescaque m(eae) fines ita sunto quoad ego easte lingua nuncupauero ollaner arbos quirquir est quam me sentio dixisse templum tescumque m(ea) f(inis) esto in sinistrum ollaber arbos quirquir est quod me sentio dixisse templum tescumque m(ea) f(inis) esto (in) dextrum inter ea conregione conspicione cortumione utique eas rectissime sensi.

L'augure è impegnato a tracciare il templum all'interno del quale devono essere osservati i segni. Davanti a lui è un tratto di terreno ritenuto di natura sovrannaturale (cfr. Accio, 5 57 Warmington: «quis tu es mortalis qui in deserta et tesca te apportes loca››: e Varrone, De lingua Latina VII 1o: «loca quaedam agrestia, quod alicuius dei sunt ››). Nella prima parte della formula l'augure sceglie due alberi a sinistra e a destra, e dichiara che_ognuno di essi è un templum tescumque. templum, qui, ha il significato di «limite ››, mentre tescum precisa che si tratta di terra sacra. Virgilio sembra riecheggiare questa frase augurale nel suo limina laurusque (Eneide III 91). Le ultime due righe sono mutile e oscure. Varrone ne parafrasa il senso scrivendo: «al loro interno sono definite regioni in cui gli occhi devono guar-

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dare ››. I tre nomi astratti in -io possono essere attivi come in obsidio, oppure passivi come in regio, dicio, ecc. Il prefisso con- nei composti verbali ha valore di completamento (ad esempio conficere). Al medesimo gruppo semantico appartiene condicio, dalla diffusa radice indoeuropea *deikƒ dik, che significa « segnare, indicare ››. Cosí condicio significò in origine «un atto di delimitare» oppure «il terreno cosí delimitato ››. Esso naturalmente figurava in contesti relativi alla composizione di controversie territoriali (cfr. aequae condiciones), sicché in certi testi condiciones è sinonimo di pax, altra parola denotante il segno di un confine 6 (*pag 'punto di riferimento', cfr. pãla 'paletto'). Cosí conregio, ecc. può significare lo spazio compreso in determinati limiti segnati mediante l'atto fisico del tracciare linee (conregio), facendo uso degli occhi (conspicio) e ricorrendo a un'operazione mentale (cortumio). inter ha il suo piú antico significato: è la forma separativa di in caratterizzata dal suflisso -ter (si veda oltre, p. 343), e al pari di in poteva reggere originariamente l'ablativo locativo. La formula, cosí com'è, è incompleta e terminava sicuramente con un appello al dio sulla base delle righe citate da Livio, I 18.9: «uti tu (Iuppiter) signa nobis certa adclarassis inter eos fines quos feci». Gli aspetti linguistici piú interessanti, a parte l'arcaica parola tecnica tesquom, sono i dimostrativi easte = istas; ollaner e ollaber (per -ner cfr. l'osco-umbro ner = sinister, e il gr. vép-'repot = inferi, sinistri; per -ber cfr. la raddoppiata berber sopra); quirquir = ubicumque, con formulazione avverbiale in -r, simile a quella dell'ingl. where, there, lit. kuf e lat. quör, cür (si veda oltre, p. 342). Fra le altre formule religiose conservate dagli autori piú tardi possiamo menzionare le preghiere contenute nelle istruzioni di Catone agli agricoltori (De agricultura 132.1 e 134.3). I riti descritti appartengono allo strato piú antico della religione romana e, fra le preghiere, le piú sorprendenti, per quanto riguarda la fraseologia, sono quelle rivolte a Iuppiter Dapalis e a Giano, mentre si fa un'offerta di strues, fertum o vino. Per esempio: «postea Iano vinum 6 Per gli aspetti semantici dei vocaboli relativi a «confine ›› cfr. il mio The Indo-European Origins of Greek justice, in «Transactions of the Pbilological Society», 1950.

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dato sic: " Iane pater uti te strue ommovenda bonas preces precatus sum, eiusdem rei ergo macte vino inferio esto". postea Iovi sic: "Iuppiter, macte isto ferto esto, macte vino inferio esto”››. Non v'è dubbio che siamo qui di fronte ad «antiche preghiere romane, certamente autentiche, riprese dai libri dei pontefici e conservate, parola per parola, nel loro stato originario ›› 7. Un termine tecnico costantemente ricorrente in tali preghiere è il misterioso macte, il cui significato, indubbiamente assai antico, era compreso solo vagamente anche nel periodo repubblicano, degenerando poi in una mera esclamazione di congratulazioni, ad esempio macte virtute 'bravol '. L'etimologia popolare ricollegava macte, mactus a magnus, spiegandolo come magis auctus. Questa spiegazione gode ancor oggi di un certo credito, essendo mactus considerato participio di un verbo *maga Tuttavia la serie di parole mactus, mactare, magmentum, se poste a raffronto con aptus, aptare, ammentum, da apio, fanno pensare che il verbo di base fosse *macio. Altre analogie morfologiche, come lacio da lax,

opio da ops, rendono verosimile che macio sia analogamente collegato a un sostantivo *max, il cui diminutivo è macula `macchia'. Il significato di «aspergere» attribuito a macio, mactus, mactare in quanto verbi che si applicano a un concreto atto rituale, è sorto in virtú dei contesti in cui tali parole sono attestate. Ad esempio Servio, nel commento all'Eneide IX 641, scrive: macte, magis aucte, adfecte gloria. et est sermo tractus a sacris: quotiens enim aut tus aut vinum super victimam fundebatur, dicebant «mactus est taurus vino vel ture ›› 8.

Non v'è nulla di sorprendente nello sviluppo semantico di una parola, che in origine denotava uno speciale atto rituale, nel significato piú generale di «sacrificare, adorare, benedire ››. Dei numerosi esempi rintracciabili in parecchie lingue, basterà citarne uno relativo al latino immolare, originariamente 'spargere farina sacrificale sulla vittima'. Ma 7 warm Fowuan, Religious Experience of the Roman People, p. 182. 8 « macte, elevato, glorificato. E si tratta di parole tratte da testi sacri: infatti, ogni volta che si spargeva 0 vino o incenso sulla vittima, dicevano: "Il toro è asperso di vino o d'incenso"›› [N.d. T.].

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forse l'analogia piú sorprendente è data dalla parola inglese bless, che può essere usata in alcuni contesti per tradurre macte e mactare. Bless risale (si veda l'Oxƒord English Dictionary, s. 1).) al teutonico *blôdisôjan, un derivato di *blôdo 'sangue'. In origine significava «aspergere con sangue sacrificale››, e il suo significato si spinse tanto avanti, che al tempo della conversione inglese al cristianesimo esso venne scelto per rendere il lat. benedicere, con le sue associazioni di «venerare, pregare, adorare Dio, invocare la benedizione, invocare il favore di una divinità», ecc. A proposito dell'uso di macte nei riti dedicati a Giano, le osservazioni dell'Oxford English Dictionary circa il significato originario dell'ingl. ant. bloedsian risultano di particolare interesse: Significato originario (probabilmente): rendere «consacrato» 0 «sacro» con sangue; consacrare mediante un rito sacrificale che si riteneva rendesse una cosa inviolabile dall'uso profano degli uomini e dalla malvagia influenza umana o dei dèmoni (il concetto espresso col termine bloedsian nei tempi precristiani era evidentemente quello di striare col sangue l'architrave e gli stipiti di una porta [Esodo 13.23], indicandoli come sacri al Signore e inviolabili dall'angelo della distruzione).

Esiste dunque un generale accordo sul fatto che l'aspersione cerimoniale descritta col termine mactare fosse simile a un rito che trasferiva la vittima dalla sfera del profano a quella del sacro. Sicché un porco cosí trattato è definito da Varrone mola mactatus (Menippeae 2 Bücheler) «benedetto con farina (consacrante)››. E ora giunto il momento di lasciare da parte queste scarse vestigia del latino arcaico, per esaminare in che modo il latino romano abbia gradualmente sostituito i dialetti del Lazio. Come sempre, questa evoluzione linguistica fu il riflesso e la conseguenza di eventi politici e sociali. Intorno alla metà del V secolo, le genti sabelliche delle montagne cominciarono la loro discesa nelle pianure, e la tradizione vuole che il Campidoglio venisse occupato dai Sabini e Tusculum dagli Equi. Di fronte a un simile pericolo il popolo di Roma e le altre comunità latine furono costretti a dar vita a una collaborazione politico-militare, nella quale

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Roma venne ad assumere gradualmente un ruolo predominante. In seguito, le minacce provenienti dai vari nemici condussero all'alleanza del 358-54 con i Latini, a quella del 354-50 con gli Equi di Tivoli e di Preneste, e a quella del 343-39 con i Falisci. Infine scoppiò il conflitto tra Roma e i suoi alleati latini, i quali, a partire dal 335, dovettero sottomettersi al dominio romano, con le loro città ridotte a municipia e il loro territorio controllato dalle colonie di Roma. Tuttavia la strada scelta dai Romani per consolidare il proprio predominio non fu quella della soppressione, ma dell'assorbimento. Durante questo periodo si videro famiglie di origine non romana giocare un ruolo preminente negli affari della città. L'annessione del Lazio aprí la via del consolato a nobili famiglie appartenenti alle comunità conquistate, e Gaio Marcio Rutilio, il primo dittatore plebeo, fu di origine volsca. Senza dubbio fu questo afliusso di elementi non romani e il loro conseguente assorbimento nella compagine statale, a trasformare il dialetto romano in un latino metropolitano, proprio come l'inglese standard, che pure era in sostanza il dialetto delle classi colte e mercantili di Londra, nacque dalla fusione di elementi provenienti da dialetti fra loro assai diversi. I risultati piú caratteristici di questo processo sono i doppioni dialettali come whole e hale, skirt e shirt, fox ma wixen, raid e road, ecc.; e, per quanto riguarda la morfologia, la desinenza della terza persona singolare in -s, che ha sostituito il -th solo nel Seicento e nel Settecento, e che è di origine settentrionale, come i pronomi they, them, their. Nello stesso modo il latino metropolitano accolse parole e forme originarie dei distretti di campagna, la cui posizione di intruse è denunciata dalle loro forme fonetiche divergenti. Taluni dei criteri piú rilevanti sono già stati menzionati. Il dittongo ou si sviluppò in ü nel romano, ma in 6 in certi dialetti di campagna, cosí che röbus e röbigo (< *reudh-) spiccano nella metropoli in quanto intruse d'origine rustica. A questi esempi, e per i medesimi motivi, possiamo aggiungere ôpilio (per l'urbano üiplio < *avi-pilio). domãs è ritenuto una forma rustica del genitivo singolare di domus, usato da Augusto per domüs (< *domous). Lo sviluppo dialettale di au in 6 rivela la rusticità di parole quali clödus,

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cöda, côdex, lãtus, lötium, lãmentum, olla, ollula, plöstrarius, plöstellum (urbano plaustrum), ecc. Per il mutamento rustico di ae in ë possiamo citare Varrone, De lingua Latina V 97: «in Latio rure edus qui in urbe ut in multis A addito haedus». Certi dialetti di campagna si distinsero dal romano per l'assenza del fenomeno del rotacismo, per cui la -s- intervocalica si mutò in -r- (flãs, flöris), e forse è ad essi che dovremmo far risalire parole latine come adasia («ovis vetula recentis partus››), caseus e i nomi propri come Caesar, Valesius, ecc. casa, se correttamente derivato da *qatja, deve provenire da un dialetto che aveva assibilato la t dinanzi alla i, cfr. osco Bansae = Bantiae, marsico Martses 'Martiis'. In ogni caso la -s- intervocalica non è romana. Cosí anche la -ƒ- intervocalica per la b o la d urbana latina rivela la natura di intrusa dialettale nelle seguenti parole: rüfus (< *reudhos, altra forma dialettale corrispondente al romano rüber < *rudhros), scroƒa, oaƒer (anche fvaber). Infine la forma fonetica di furnus (cfr. fornax) e ursus (ci aspetteremmo *orsus, si veda oltre, p. 274) fa pensare che tali parole provengano da dialetti in cui la o si era mutata in u dinanzi a -r- in una sillaba chiusa. Che nei tempi piú antichi Roma fosse essenzialmente una comunità di agricoltori risulta evidente dalla sua religione di Stato, che, a quanto si è asserito, non era che l'adattamento di un culto agricolo, nonché dall'antica legge romana rispecchiante gli interessi e i conflitti dei proprietari terrieri. In un suo suggestivo saggio, ]. Marouzeau ha osservato che in molte parole, metafore e proverbi romani, permane la visione del mondo del contadino. Cosí pecunia rispecchia una valutazione della ricchezza in termini di bestiame, come notava lo stesso Cicerone: «tum erat res in pecore... ex quo pecuniosi... vocabantur››. Di qui il termine locuples, indicante colui che ha «ricolmo il suo pezzo di terra (locus)››. Anche emolumentum deve presumibilmente la sua origine a un termine agricolo indicante la quantità di farina « macinata ›› (molere) ricavabile da una determinata quantità di grano. tuttavia da rifiutare la connessione che si è voluta stabilire fra il termine arcaico adoria 'gloria militare come ricompensa' e ador, adoris, 'farro, frumento'). Anche laetus era una parola rurale col

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significato di « fertile, ricco, rigoglioso», detto di terra e messi (« quid faciat laetas segetes››, Virgilio, Georgiche I 1; «ager laetus››, Catone, De agricultura 61.2) e animali (« glande sues laeti redeunt››, Virgilio, Georgiche II 520). Questo senso di estrema concretezza emerge chiaramente dai derivati laetare `concimare' e laetamen 'letame, concime '. Nella lingua degli àuguri un laetum augurium era un presagio di abbondanza e prosperità, donde il significato corrente di « lieto, allegro ››. Anche ƒëlix significava in origine «ciò che produce messi» (i derivati in -íc-, -ãc-, -üc-, ecc. sono caratteristici in particolare del lessico rustico) e venne poi usato in senso metaforico con il significato di «felice, favorito dagli dèi, propizio». almus, un derivato di alere, rivela un'analoga tendenza semantica: è usato con ager, terra, vitis, ecc., ed è anche detto delle dèe collegate alla fertilità, Ceres, Maia, Venus. probus è derivato da *pro-bhuos e significa «ciò che cresce adeguatamente», ad esempio «probae... fruges suapte natura enitent» (Accio, Tragoediae 199 sg. Warmington). Quindi venne usato

in senso morale traslato. Sviluppo analogo è osservabile in ƒrügi, dativo di ƒrux, che veniva usato in espressioni come esse frugi bonae `essere in grado di dare una buona messe'. La locuzione fu poi applicata in senso morale alle persone, e infine bonae ƒrugi fu abbreviato in ƒrugi, con la funzione di aggettivo indeclinabile. In un primo tempo luxus e luxuria erano a quanto pare riferiti alla crescita incontrollata e disordinata della vegetazione: «luxuriem segetum tenera depascit in herba›› (Virgilio, Georgiche I 112). Queste parole sono state plausibilmente ricollegate all'aggettivo luxus ' slogato' (per il mutamento del significato, cfr. il gr. ?\s7tu'y|.o'uévoç `effeminato'), che però altri studiosi ritengono derivato da un desiderativo contenente una forma ampliata della radice ravvisabile in luo (cfr. fluxus e laxus). Anche pauper era un termine agricolo usato sia per gli animali che per la terra, col significato di «produrre poco ››. Dalle operazioni dell°aratura provengono delirare, letteralmente `scostarsi dal margine del solco (lira)', donde «uscire dai binari, impazzire ››, e praevaricari, un derivato di varus 'con le gambe storte, curvato, piegato'. Nell'aratura praevaricari significava «arare un solco ricurvo» («arator praevari-

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catur››, Plinio, Naturalis historia XVIII 179) e nel linguaggio giuridico era detto di un avvocato che agisce in collusione con la controparte. Gli interessi del pastore sono evidenti nel termine subigere 'sottomettere la femmina al maschio' o 'portare il bue al giogo'. ƒënus 'interesse' fu fatto derivare anch'esso dagli antichi dalla stessa radice di fêlix. Il capitale era considerato una risorsa produttiva: «fenus... a fetu quasi a fetura quadam pecuniae parientis atque increscentis ›› (Varrone, in Gellio, XVI 12.7); cfr. il gr. róxoç. All'azzoppamento o meno degli animali dobbiamo i termini impedire ed expedire. Un animale zoppo era peccus, donde il verbo derivato peccare (« solve senescentem mature sanus equum, ne peccet ad extremum ridendus et ilia ducat ››, Orazio, Epistulae I 1.8). incohare è letteralmente 'attaccare al cohum', una parte dell'aratro. stimulare e instigare significavano « incitare col pungolo ››. egregius ed eximius volevano entrambi dire «uno distinto mediante un fiocco, animale prescelto ›› («eximium inde dici coeptum quod in sacrificiis optimum pecus e grege eximebatur››, Festo, 72.3). Viceversa contumax era detto un tempo di animali intrattabili, ribelli. Una nozione analoga è sottintesa in calcitro («equum mordacem, calcitronem», Varrone, Menippeae 479). Nel linguaggio giuridico troviamo il termine rioalis che, derivato da rifvus 'ruscello', acquistò un significato metaforico nelle dispute riguardanti i diritti sulle acque, come è evidente nel Digesto XLIII 20.1: «si inter rivales, id est qui per eundem rivum aquam ducunt, sit contentio de usu... ›› Il termine legale stipulari deve la sua origine alla rottura simbolica del filo di paglia (stipula) nella stipulazione di un contratto. Il forum, la piazza mercato romana, centro della vita pubblica, denotava un tempo la recinzione intorno alla casa colonica. Anche cohors era un termine agricolo indicante la corte, il recinto o luogo chiuso, in cui veniva custodito il bestiame, il pollame o le masserizie, ecc. («cohortes sunt villarum intra maceriam spatia», Nonio, 83.1 1). Esso venne poi applicato, da questo popolo di contadini-soldati, a un settore del campo militare e poi ancora all'unità ivi accampata, fino ad acquistare il significato tecnico di suddivisione di una legione. Una coorte comprendeva tre manipuli. Anche questa unità de-

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rivava il suo nome dal lessico rustico - letteralmente 'un pugno di' -, e il suo significato tecnico era quello di fascio afferrato con una mano dal mietitore e poi legato con alcuni steli attorcigliati (manipulos obligare, oincire, ecc.). Secondo quanto si narra, ogni manipulus portava come insegna un fascio di fieno, sicché la parola finí con l'essere usata per designare l'unità stessa (cfr. la traduzione del prestito greco crrteipot 'qualcosa di attorcigliato o cinto'). Infine possiamo citare il termine militare agmen, designante «qualcosa di guidato: un gregge o una mandria››. Un'energica figura di discorso, che può ricorrere solo fra contadini, appare in tribulare, tribulatio, derivata da tribulum, una slitta da trebbiatura fornita di denti acuminati. Che anche aerumna dovesse avere un tempo un significato concreto, è evidente dalla nota di Festo a proposito del diminutivo aerumnula: «aerumnulas Plautus refert furcillas quibus religatas sarcinas viatores gerebant..., itaque aerumnae labores onerosos significant››, (Festo, 22.13). La parola ha, forse, origini etrusche, come è suggerito dal suffisso

-umn- (si veda sopra, p. 61), e la sottintesa nozione di «fardello» è ancora evidente nei primissimi esempi: aerumnas ferre, gerere (Ennio). Anche promulgare è un pittoresco termine contadino, usato originariamente con il significato di far sprizzare il latte dalla mammella. Lo stesso dicasi dei comuni verbi cernere e putare, che significavano le operazioni agricole di «setacciare›› e «sfrondare›› (putare è in effetti un derivato di putus, 'pulito, puro'). propagare vuol dire «interrare un ramo o talea (_propago)››. Il Marouzeau ha anche richiamato l'attenzione sul gran numero di espressioni verbali che nel latino si riferiscono alla vita contadina nei suoi molteplici aspetti. Ma la portata di tale osservazione è discutibile, dal momento che essa può valere per qualsiasi lingua: è infatti abbastanza facile sentir pronunciare da persone anche fra le piú urbanizzate espressioni come «sotto la paglia maturano le nespole››. Inoltre, dato che lo sviluppo dell'industria è relativamente recente e la grande maggioranza dell'umanità, sin dai tempi neolitici, ha trovato il suo sostentamento nelle occupazioni agricole o affini, è inevitabile che tutte le lingue siano eminentemente langues de paysans.

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Tale, dunque, era la lingua dell'antica Roma, introdotta in Italia da un popolo indoeuropeo che dopo lunghi vagabondaggi si stanziò infine nel Lazio. Qui essa si fuse con la lingua di un altro popolo indoeuropeo e cominciò la sua lenta evoluzione verso una preponderanza su scala mondiale, sotto la tutela dell'Etruria e della Grecia. Con la crescita della potenza romana e il suo avvio verso la supremazia politica in Italia, essa ricevette e assorbí nuovi apporti dal Lazio e infine dall'intera penisola, compresa la Magna Graecia. Né fu soltanto l'aristocrazia di governo ad accogliere tale rinforzo. Sin dal v1 secolo Roma era diventata «la piú ricca città dell'Italia a nord della Magna Graecia», che attirava e accoglieva gli immigranti e, fra costoro, «un folto gruppo di artigiani, artisti greci e costruttori ›› 9. Una autorità in materia ha di recente argomentato con forza che lo scopo delle riforme serviane fu quello di imbrigliare tale massa di residenti senza cittadinanza per i bisogni militari dello stato romano Last, in « Iournal of Roman Stu-

dies», Xxxv, 1945, pp. 33 sg.). L'influsso di questi nuovi elementi non poté rimanere senza conseguenze linguistiche. Nei brulicanti quartieri della grande metropoli, la lingua, senza la disciplina di una norma letteraria, cresceva in uno sfrenato rigoglio. Il nostro compito sarà ora quello di tentare una valutazione di questa lingua parlata nei primi tempi della repubblica. 9 Cfr. CICERON1-2, De republica II 19.34: «non tenuis quídam e Graecia rivulus in hanc urbem sed abundantissimus amnis illarum disciplinarum et artium ››: Cicerone cita ad esempio Demarato di Corinto (cioè la seconda metà del V11 secolo a. C.).

Capitolo quarto Il latino parlato: Plauto e Terenzio

È nella natura delle cose che, in assenza di un apparato documentario, non si possa avere una conoscenza diretta della forma parlata di una lingua non contemporanea. Tutt'al piú si potrà riuscire a individuare le caratteristiche colloquiali presenti nei documenti scritti a nostra disposizione, con un'analisi che richiede tutta una serie di criteri in base ai quali si possano definire «colloquiali›› determinati fenomeni. La lingua parlata si distingue da quella scritta soprattutto per il piú intimo contatto tra chi parla e chi ascolta. La botta e risposta del dialogo aumenta la tensione emotiva, che si manifesta nelle interiezioni, nelle esclamazioni, nell'irruenza, nelle esagerazioni, nell'insistenza e nelle continue interruzioni. La rapidità e la spontaneità della conversazione riduce l'aspetto riflessivo: le frasi non vengono organizzate in strutture logiche coerenti, ma il significato è trasmesso irregolarmente, con parentesi, ripensamenti e quei mutamenti di costruzione che i grammatici classificano come anacoluti, contaminazioni e simili. Ma è forse piú importante il fatto che la conversazione si svolge in un complicato contesto situazionale, che spesso rende non necessario e tedioso il riferimento linguistico dettagliato ed esplicito. Perciò il linguaggio colloquiale è caratterizzato dalla sua allusività, da elementi dimostrativi, da abbreviazioni, ellissi e aposiopesi. I. B. Hofmann ha applicato tali criteri alla lingua dei commediografi romani e delle lettere ciceroniane, confermando l'opinione generale secondo cui tali documenti rispecchierebbero il latino parlato contemporaneo. Esamineremo ora la sua tesi. Già a prima vista l'abbondanza delle interiezioni confe-

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risce una certa plausibilità a tale opinione: vae tergo meo ./, hau me miserum/, heus tu !, hem./, ecc., molte delle quali sono riprese dal greco: attatae, babae, eugepae. Una interiezione può anche introdurre una domanda: «eho an dormit Sceledrus intus ? ›› (Miles gloriosus 822). Frequenti sono gli accusativi esclamativi: lepidum senem, ƒacetum puerum, bono subpromo et promo cellam creditam; questi accusativi si uniscono spesso a interiezioni quali en ecastor hominem periurum, edepol senem Demaenetum lepidum fuisse nobis, ecc. A tale proposito possiamo citare le invocazioni e le imprecazioni quali ita me Hercules (iuz1et); l'infinitivus indignantis, come in perii, hoc servum meum facere esse ausum 'sono perduto! Pensare che il mio servo abbia osato far questo'; e in generale frasi esclamative come «ut adsimulabat Sauream med esse quam facete! ›› (Asinaria 581). La tensione emotiva del linguaggio corrente è inoltre messa in evidenza dalle ripetizioni, come abi abi aperite aperite; ut ~voles, ut tibi lubebit; e dalla costante insistenza sull'attenzione dell'ascoltatore: tu, ƒrater ubi ubi est; tun, Sceledre, hic, scelerum caput. Siffatto uso «prostatico» del pronome di seconda persona provoca talvolta un evidente sconvolgimento sintattico: « tu, si te di amant, agere tuam rem occasiost›› (Poenulus 659); «sed tu, qui pro tam corrupto dicis caussam filio, eademne erat haec disciplina tibi ? ›› (Bacchides 420 sg.); e, ancora piú notevole, «ea1nus, tu, in ius» (Truculentus 840), che è stato, alquanto tortuosamente, spiegato come una contaminazione di eamus ambo in ius e i tu mecum in ius. Il linguaggio colloquiale fa dei pronomi personali e dimostrativi un uso assai piú libero che non il latino scritto. Esempi tipici sono: «quia si illa inventa est quam ille amat, recte valet» (Bacchides 192); «pallam illam quam tibi dudum dedit, mihi eam redde››. Questo is «anaforico›› può anche riferirsi alla persona cui ci si rivolge: «tu autem quae pro capite argentum mihi iam iamque semper numeras, ea pacisci modo scis›› (Pseudolus 225 sg.); «quid illum ferre vis, qui tibi quoi divitiae domi maxumae sunt, is nummum nullum habes P ›› (Epidicus 329 sg.). Tale ridondanza di espressioni, frutto della preoccupazione da parte di chi parla di ribadire il proprio punto di vista, è particolarmente frequente nei superlativi: pri-

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mundum omnium 'prima di tutto'; hominem omnium minimi pretii; perditissimus ego sum omnium in terra; quantum est hominum optumorum optume, ecc. Anche i doppi comparativi contraddistinguono il linguaggio corrente: «nihil invenies magis hoc certo certius ›› (Captioi 644); « inimiciorem nunc utrum credam magis ›› (Bacchides 500); «magis maiores nugas›› (Menaechmi 55). Plauto abbonda inoltre di esempi della tendenza universale a rafforzare le espressioni negative: «neque ego hau committam›› (Bacchides 1037); «nec te aleator nullus est sapientior» (Rudens 3 59); «neque id haud immerito tuo ›› (Menaechmi 371). Spesso la negativa è resa in una forma piú piena: ad esempio nullus è usato per non, in «is nullus venit›› (Asinaria 408); o per ne in «tu nullus adfueris ›› (Bacchides 90); haud quisquam è sostituito al piú insipido nemo. Strettamente connesso a questo è l'uso pleonastico dei pronomi che significano « qualcuno, qualcosa» nelle frasi negative: «ne quid significem quippiam mulierculis›› (Rudens 896); «ne dum quispiam... imprudentis aliquis immutaverit›› (Miles gloriosus 431); «nisi quid ego mei simile aliquid contra Consilium paro» (Vidularia 67). Il pleonasma è in pratica un accorgimento cosí naturale della retorica popolare, che possiamo accontentarci di darne pochi esempi illustrativi: ambo... duo; idem unum; par idem; reperite... subito; continuo... protinam; omnibus universis; rursum... recipimus; exire foras. E nel lessico che il bisogno di impressionare, convincere e dominare l'ascoltatore produce i suoi effetti piú incisivi, ed è qui che il sapore colloquiale delle commedie plautine è piú evidente. Parole incolori come dico vengono sostituite da vocaboli piú evocativi come narro, fabulor, memoro, oppure, dall'imperativo, cedo 'fuoril '. Per miser sum troviamo 'vivo miser, per beneoolens est, beneoolens 'z1i'vit. I banali bonus, bene cedono il posto a bellus, pulchre, lepidus, lautus; minutus e grandis suonano piú efficaci che parvus e magnus. Una ricca varietà di espressioni rende il concetto di « molto, pienamente ››: admodum, nimis, oppido, solide, probe, strenue, ecc. Non si può sbagliare sul sapore colloquiale di espressioni come «verum, si frugist, usque admutilabit probe›› 'ma, se serve, continuerà a tosarlo ben bene' (Captioi 269); «epityra estur insanum bene » (Miles glorio-

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sus 24). Plauto impiega abbondantemente tale gergo pittoresco: «me... decet _curamque adhibere ut praeolat mihi quod tu velis›› 'è per me giusto e conveniente cercare di captare in anticipo il profumo della tua volontà' (Miles gloriosus 40); «ea demoritur te ›› 'è pazza di te' (Miles gloriosus 970); «mulierem nimi' lepida forma ducit›› 'mi reca una donna molto carina' (Miles gloriosus 870); «sed ecqua ancillast illi? est prime cata» 'ha un'ancella? Sí, ed è molto furba' (Miles gloriosus 794); cfr. «fabula prime proba» (Nevio, Comoediae 1); «tum igitur ego deruncinatus, deartuatus sum miser›› 'allora io sono ridotto a trucioli, sono disarticolato' (Captioi 641). Quest'ultimo caso ci pone di fronte a un accorgimento che godeva di grande favore nella lingua corrente, e cioè la sostituzione di verbi semplici con i relativi composti piú espressivi. Esempi con il prefisso de- sono deascio, deamo, delacero, deludifico, derogito, delucto, ecc. Questo prefisso serviva anche a rafforzare altre parti del discorso: ad esempio derepente, desubito. Forse i composti espressivi piú numerosi sono quelli con prefisso con-, tra cui comedo, che poi soppiantò il verbo semplice edo, è un tipico esempio; ma ricorderemo anche condeceo, consilesco, commereo, commisceo, commonstro, comperco, comprecor, concaleo, condolesco,

conƒodio, conƒulgeo, ecc. Meno frequenti sono i composti in ad-: adcredo, adformido, adlaudo, admoderor, costituiti con un prefisso destinato anche a rafforzare le altre parti del discorso: apprime, approbe, adaeque. L'aggiunta di un suffisso era destinata anche a dare maggior volume e forza ai verbi semplici. Cosí fodico, frico e oellico facevano le veci di fodio, frio e vello. Ma una particolare caratteristica del linguaggio corrente era la sostituzione dei verbi semplici con le loro corrispondenti formazioni frequentative, secondo un processo che continuò per tutta la storia del latino fino al periodo romanzo. Plauto abbonda di verbi come essito, fugito, sciscito, ducto, minitor, quaerito, negito, dormito, loquitor; ma la piú importante classe di parole caricate di emotività sono i diminutivi. Tali formazioni, naturalmente, non denotano semplicemente la piccolezza, come in catillus, un piccolo catinus, ma con l”aggiunta delle denotazioni «piccolo caro ››, «povero pic-

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colo ›› e simili, esprimono un'intera gamma di atteggiamenti emotivi: tenerezza, allegria, lepidezza, familiarità e disprezzo. Una muliercula non è una donna piccola, ma «una donna da poco», e si usava generalmente con riferimento a una cortigiana. Quando Egione, nei Captioi, dice: «ibo intro atque intus subducam ratiunculam» (v. 192) la frase assume un sapore assai simile a quello della nostra locuzione «fare i conti ››. Nel [Miles gloriosus il tono astuto e suadente di Lurcio, sottoposto al controinterrogatorio di Palestrione, è reso manifesto dal diminutivo presente in «sed in cella erat paullum nimi' loculi lubrici›› “ma c'era, giú in cantina, un posticino troppo sdrucciolevole' (v. 852). La familiarità non scevra di un certo disprezzo è evidente in «quis haec est muliercula et ille gravastellus qui venit?›› 'chi è quella donnetta e quel vecchione che vengono qui P' (Epidicus 620). La scena dell'asta burlesca dello Stichus fornisce alcuni esempi dell'uso eufemistico dei diminutivi, in quanto alcuni degli articoli offerti in vendita sono «cavillationes adsentatiunculas ac peiieratiunculas parasiticas» (vv. 228 sg.). Ma è naturalmente nel linguaggio amoroso che i diminutivi vengono impiegati piú copiosamente e in modo piú congeniale come espressione di tenerezza: mi animule, mea melilla, meus ocellus, meum corculum, melculum, oerculum, o corpusculum malacum, mea uxorcula, edepol papillam bellulam, belle belliatula. Uno stravagante esempio è fornito da una famosa lettera d'amore, Pseudolus 64 sgg.: nunc nostri amores, mores, consuetudines, iocu', ludus, sermo, suavisaviatio, compressiones artae amantum corporum, teneris labellis molles morsiunculae, nostrorum orgiorum... iunculae, papillarum horridularum oppressiunculae... 1.

Lo stesso stile è parodiato nell'Asinaria 666 sgg.: dic me igitur tuom passerculum, gallinam, coturnicem, ' «Ora i nostri amori, le abitudini, le consuetudini, i giochetti, lo scherzo, le paroline, i dolci baci, gli stretti abbracci dei nostri corpi amanti, i languidi morsettini sui teneri labbretti delle nostre nottate... i teneri palpeggiamenti dei seni turgidetti...» [N. d. T.].

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agnellum, haedillum me tuom dic esse vel vitellum, prehende auriculis, compara labella cum labellis 2. Occorre osservare che tali formazioni diminutive sono riscontrabili non solo nei sostantivi, ma anche negli aggettivi (ad esempio oetulus, dicaculus, primulo diluculo, minutulus, ecc.), negli avverbi (pausillatim, pauxillisper, ecc.) e soprattutto nei comparativi (plusculum, ampliuscule, liquidiusculus, maiusculus, nitidiuscule, tardiuscula). In missiculare (Epidicus 132) troviamo anche u11 derivato verbale paragonabile a pensiculo (Gellio e Apuleio). Concluderemo ora questo rapido esame delle caratteristiche colloquiali del latino plautino considerando alcuni fenomeni che rispecchiano la rapidità e la spontaneità del dialogo. L'attenzione dell”ascoltatore viene attratta con frasi introduttive come: quid ais?, quid vis?, 'z1iden?, scin?, quid tu ?. Il discorso prosegue quindi con poche locuzioni slegate, senza espliciti segni di subordinazione: ad esempio nunc quid vis? id volo noscere; dic mihi, quid lubet; cfr. «sed volo scire, eodem consilio quod intus meditati sumus gerimus rem?» (Miles gloriosus 612). Fu per l'appunto tale giustapposizione a dare origine all`uso non classico dell'indicativo nelle interrogative indirette: «scio iam quid vis dicere» (Miles gloriosus 36). In Plauto queste costruzioni paratattiche (si veda il cap. X) abbondano: «sed taceam, optumum est ›› 'ma la cosa migliore è che io stia zitto' (Epidicus 59); «iam faxo hic erit» (llfiles gloriosus 463); «adeamus appellemus» (llfiles gloriosus 420); «ibo... visam ›› 'andrò... saprò' (Bacchides 235); «hoccine si miles sciat, credo hercle has sustollat aedis totas » (llfiles gloriosus 309); « hercle opinor, ea videtur» 'per Ercole, sí, credo, sembra lei' (Miles gloriosus 417). Inoltre tali giustapposizioni possono sottintendere ogni tipo di subordinazione logica: consecutive, come in «tantas divitias habet, nescit quid faciat auro›› 'è cosí ricco, non sa cosa farsene dell'oro' (Bacchides 333); «nam nimi' calebat, amburebam gutturem » (Miles gloriosus 835); «sed me excepit: nihili facio quid illis faciat ceteris›› 2 «Chiamami tuo passerotto, pollastrella, tortorella, agnellino, caprettino, oppure dimmi che sono il tuo vitellino, prendimi le orecchiette e accosta i tuoi labbretti ai miei labbretti›› [N.d. T.].

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(Miles gloriosus 168). Nell'esempio seguente la domanda rappresenta una proposizione condizionale, essendo l'apodosi espressa nella frase dimostrativa: «opu' ne erit tibi advocato tristi, iracundo? ecce me! ›› (Miles gloriosus 663). L'espressione colloquiale è spesso interrotta da incisi: «nam vigilante Venere si veniant eae, ita sunt turpes, credo ecastor Venerem ipsam e fano fugent ›› `perché, se loro venissero mentre Venere è desta, io credo, in fede mia, che la farebbero fuggire dal tempio tanto sono brutte' (Poenulus 322 sg.). Tali incisi sono particolarmente frequenti nelle espressioni di cortesia (ad esempio « sed, amabo, advortite animum ››, Miles gloriosus 382) o di timidezza (opinor, credo) ecc. Ma la proposizione parentetica totalmente esplicativa sembra piú rara in Plauto che in Terenzio, da cui Hofmann trae la maggior parte dei suoi esempi: «dictum hoc inter nos fuit (ex te adeo ortumst) ne tu curares meum neve ego tuom P ›› (Adelphoe 796 sgg.); « minis viginta ut illam emisti (quae res tibi vortat male): argenti tantum dabitur ›› (Adelphoe 191); «nimium inter vos, Demea, ac (non quia ades

praesens dico hoc) pernimium interest ›› (Adelphoe 392). Nel linguaggio colloquiale è anche frequente il caso in cui chi parla completi lo schema di una frase aggiungendovi tutta una serie di precisazioni. Tale integrazione è ravvisabile in «ait... sese illum amare, meum erum, Athenis qui fuit» 'dice... che ama quello che in Atene era stato il mio padrone' (Miles gloriosus 127); «dedi mercatori quoidam qui ad illum deferat, meum erum, qui Athenis fuerat, qui hanc amaverat›› `ho dato [la lettera] ad un mercante perché la consegnasse a lui, il mio padrone, quello che era stato ad Atene, che questa donna aveva amato' (Miles gloriosus 131 sg.). Entrambi gli esempi sono tratti naturalmente dal prologo ritardato (atto II, scena I) di questa commedia, ma illustrano una procedura tipica dell'esposizione orale. È per l'appunto questa integrazione ottenuta mediante una serie di precisazioni, a originare un colloquialismo sintattico particolarmente frequente, l'accusativo prolettico. Frasi come «viden tu hunc quam inimico vultu intuitur?›› (Captiw 557) conducono naturalmente a costruzioni del tipo «qui noverit me quis ego sum ›› (Miles gloriosus 925); «dic modo hominem qui sit ›› (Bacchides 555).

IL LATINO PARLATO

La spontaneità del discorso, che dà poco tempo alla riflessione, o alla correzione, conduce, come abbiamo visto, a dislocazioni sintattiche e ad illogicità che i grammatici classificano come anacoluti. Una lingua può offrire una varietà di alternative all'espressione di un determinato significato. Nel corso della frase chi parla può dimenticare il modo in cui ha cominciato, e passare a una costruzione diversa. È cosí che nasce la contaminazione, un fenomeno estremamente comune nel discorso quotidiano. Ad esempio in «triduom non interest aetatis uter maíor siet ›› (Bacchides 461) chi parla ha mescolato due modi di espressione: «è maggiore di lui di tre giorni appena» e «non sapresti dire chi dei due è piú vecchio ››. Analogamente, « ut edormiscam hanc crapulam quam potavi praeter animi quam libuit sententiam›› “per smaltire con un po' di sonno la sbornia che ho preso bevendo piú di quanto avrei voluto' (Rudens 586) si presenta come una mescolanza di praeter animi sententiam e praeter quam libuit. Un anacoluto sintattico particolarmente frequente è causato dal desiderio di chi parla di concentrare fin dall'inizio l'attenzione sul particolare punto che al momento lo interessa. Lo scopo è raggiunto menzionando l'argomcnto di maggiore interesse nella prima parte della frase, la cui costruzione viene modificata dando cosí luogo ad anacoluti del tipo detto nominati-vus pendens: «nam unum conclave, concubinae quod dedit miles... in eo conclavi ego perfodi parictem›› (Miles gloriosus 140); «plerique homines, quos quom nil refert pudet, ubi pudendum est, ibi eos deserit pudor›› (Epidicus 166). Talvolta una proposizione sostantiva introdotta da quod occupa la stessa posizione di neutralità sintattica: «istuc quod das consilium mihi, te cum illa verba facere de ista re volo ›› (Miles gloriosus 1114), che equivale alla frase colloquiale iniziante con «circa il consiglio che mi hai dato... ››; cfr. «quod apud nos fallaciarum sex situmst, certo scio, oppidum quodvis videtur posse expugnari dolis›› “con tutti i tranelli che abbiamo tra noi sei, sono certo che è possibile espugnare ogni fortezza' (Miles gloriosus 1156 sg.). In entrambi gli esempi il tema della proposizione pendens è inserito successivamente nella costruzione: ad esempio de ista re, dolis. Sarà chiaro, a questo punto, che disponiamo di prove

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sostanziose ed evidenti per concludere, in via provvisoria, che le commedie di Plauto rappresentano un idioma parlato; e si potrà ragionevolmente supporre che si trattava del linguaggio colloquiale di quel tempo. Possiamo ora brevemente esaminare le sue caratteristiche principali. La prima impressione è quella di una sovrabbondante fecondità lessicale - l'ubertas sermonis Plautini, a cui questo autore deve la sua fama nell'antichità e che indusse Varrone a formulare il suo giudizio: «in argumentis Caecilius poscit palmam, in ethesin Terentius, in sermonibus Plautus›› (Saturae Menippeae 399 Bücheler). Leggi, religione, guerra, intrighi e amore, vizi e virtú, lussuria e dissolutezza, adulazione e maldicenza: su tutti questi argomenti Plauto si diffonde con chiassosa allegria e con aggressiva esuberanza. A un simile diluvio di parole apparentemente inesauribile, il greco aveva continuato a dare il suo contributo. Fra i termini nautici noteremo prora, nauta, nautea, nauclerus, celox (xéìcqš trasformato per analogia con velox), carina (se è davvero derivato da xotpL'›'ívoç), lembus, stega `cassero della nave', exanclare (cìvrìtsiv). Sarà opportuno aggiungere qui altre parole nautiche non effettivamente attestate in Plauto: aplustra (plurale), una parola riscontrabile nella poesia da Ennio in poi (= ôígoìtotorov), campsare 'doppiare (un capo, ecc.)' (xo'tp.tl›otL) e pausarius 'capo dei rematori', cioè colui che dava il segnale d'arresto ('n:ot\'›o'ou.). Il commercio e la finanza sono rappresentati in Plauto da danista, logista, trapessita, symbolum, syngraphus, exagoga “esportazione”, ecc.; la medicina da glaucuma, l'istruzione e Papprendimento da paedagogus, syllaba, ecc.; la tecnologia da architectus, ballista, machaera, pessulus ('rco'cccot}\oç). Nelle «commedie plautine non ricorre la parola contus (xóiirog), ma la sua esistenza è garantita dal verbo colloquiale percontor, che presumibilmente un tempo significava «far risuonare o sondare con un'asta››. L'influenza greca sull'organizzazione della vita urbana è evidente in prestiti come platea, da cui discende l'ingl. place, e macellum 'mercato alimentare'. Il greco contribuí anche con molti termini relativi al regno animale: «edepol haec quidem bellulast. :: pithecium haec est prae illa et spinturnicium›› (Miles gloriosus 989). Altri vocaboli sono cantherius, balanus

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- un crostaceo -, ballaena, concha, narita (vnpimç), scomber. Particolarmente numerosi sono i vocaboli relativi a recipienti per il vino e a utensili domestici: ampulla, batioca, (ßovrnobm), cadus, cantharus, cyathus, gaulus, lagona ()\o't'yuvoç), patina, scyphus, cista, culleus (xoìtsóç), marsuppium, ecc. Di particolare interesse è la parola clatri 'grata' (Catone), che può essere fatta risalire al vocabolo dorico ›~:?\5_'c~9pot, ed è presumibilmente un prestito assai antico. Plauto ne usò un derivato in «neque fenstra nisi clatrata›› 'non vi è finestra senza inferriata' (Miles gloriosus 379). Ma è soprattutto nella sfera del piacere, della lussuria, della stravaganza e della dissolutezza che il greco diede il suo contributo piú incisivo alla lingua e al modo di vivere dei Romani. Che le donne romane guardassero alla Grecia per la moda, come oggi si guarda alla Francia, risulta evidente dal brano che segue: quid istae quae vestei quotannis nomina inveniunt nova? tunicam rallam, tunicam spissam, linteolum caesicium, indusiatam, patagiatam, caltulam aut crocotulam, subparum aut subnimium, ricam, basilicum aut exoticum, cumatile aut plumatile, carinum aut cerinum 3.

(Epidicus 229 sgg.) A proposito di cumatile, Nonio commenta: « cumatilis aut marinus aut caeruleus; a graeco tractum, quasi fluctuum similis; fluctus enim graece xL'›|J.ot1'oc dicuntur››. Possiamo inoltre citare i nomi degli artigiani operanti nel campo dei prodotti di lusso elencati in Aulularia 508 sgg.: phyrgio, patagiarii, murobatharii, diabathrarii, molocinarii, strophiarii, zonarii, thylacistae, corcotarii. Anche gli ornamenti e i cosmetici derivavano il loro nome dal greco: spinter (ccpvyxr-l]p 'braccialetto'), fucus `belletto`, cincinnus 'ricciolo' e schoenus 'un profumo a buon mercato' (cfr. Varrone, De lingua Latina VII 64: «schoenicolae ab schoeno, nugatorio unguento»). Illustreremo infine gli aggettivi e 3 «E che dire di costoro che ogni anno inventano nuovi nomi agli abiti? La tunica velata, la tunica foderata, lo zendado merlettato, la sottogonnella, il blusettino, rancia o fiorrancia, la sottana e la soprana, la veletta, la reginella e la forosella, la verdicchina e la broccatina, la cerambrata e la nocina» [N.d. T.].

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gli avverbi relativi alla moda, sul tipo dei nostri chic, soigné, ecc.: eugae, eugae! exornatu's basilice. tiara ornatum lepida condecorat schema.

tum hanc hospitam autem crepidula ut graphice decet! 4. (Persa 462 sgg.) L'influsso del greco è evidente anche nel campo dello sport (palaestra, discus, athletice, pancratice) e del teatro (scaena, choragium; per bis! i Romani gridavano †:o'0u.v), e perfino hilarus, parola per «ilare›>, era greca. Ma il contributo meno innocente fornito dalla lingua greca appare evidente in sychophanta, parasitus, moechus, moechisso, comissor (xm;.Lo'tCw); e in quale considerazione i Romani tenessero i Greci loro maestri di dissolutezza, appare chiaro nel significato annesso ai vocaboli graecor, pergraecor, congraeco, come risulta dal brano che segue: «aurum... quod dem scortis quodque in lustris comedim congraecem» `l'oro... perché lo dia alle sgualdrine e me lo mangi nelle taverne e nelle crapule' (Bacchides 743). In qualche caso la presenza di queste parole greche nelle commedie plautine può essere naturalmente dovuta agli originali greci cui l'autore si rifaceva. Cosí exenterare ricorre quattro volte nell'Epidicus, ma è assente in tutte le altre opere di Plauto 0 di Terenzio. Tuttavia, anche se fosse giusta l'ipotesi secondo cui questa parola sarebbe un calco di åševreplfleiv, nessun autore comico avrebbe adoperato termini che il suo pubblico non poteva comprendere. Non è da escludere che gli spettatori romani trovassero il greco irresistibilmente divertente, come capita un po' dovunque con certe parole straniere, ma è abbastanza certo che essi fossero piú o meno in grado di intendere il greco, come è del resto implicito nei giochi di parole con termini greci, in cui Plauto indulge spesso: «quis istic est? :: Charinus :: euge iam Xoìpw 'roú-rq› 1'coLã››› (Pseudolus 712); «quis igitur vocare? :: Diceae nomen est :: iniura's, falsum nomen possidere, Philocomasium, postulas; ôiòixoç es tu, non 4 « Evviva, evviva! Ti sei vestito come un re. Quel turbante corona il tuo vestito spiritoso, e a questa ospite la scarpetta calza che è un incanto» [N.d.T.].

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Smotíoc et meo ero facis iniuriam ›› (Miles gloriosus 436 sgg.). Occorre poi tener presente che in quel periodo la maggior parte dei prestiti greci riscontrabili nel latino non erano stati introdotti dalle classi colte. E non v'è dubbio che molti di tali prestiti vennero assimilati dai plebei romani a causa dei loro stretti contatti con i Greci che avevano soggiornato nella città, finendo col diventare parte integrante del linguaggio quotidiano parlato dagli strati piú bassi della popolazione. Ciò È: facilmente intuibile dal fatto che nelle commedie di Plauto le parole e le espressioni greche ricorrono soprattutto nei passi che hanno come protagonisti schiavi e personaggi di bassa estrazione. Un'ulteriore indicazione ci viene dall'uso frequente del greco in parole ed espressioni gergali: morus, bardus ([3901Súç), blennus, logi (equivalente a ƒabulae), graphicus servus 'uno schiavo svelto e intelligente”; «bene usque valuit? :: pancratice atque athletice›› 'è stato sempre bene? - Da atleta! Da pugilatorel' (Bacchides 248). Anche massa (gr. uãcoc *focaccia d'orzo'; piú tardi, nel greco dei Settanta, « mucchio, ammasso ››) è usata in una locuzione sorprendentemente moderna: «argenti montes non massas›› 'l'argento non è in masse, è a montagne' (Miles gloriosus 1065). harpago, un adattamento gergale di åp1to'tYY;, denota «un arraffatutto››. In «aeternum tibi dapinabo victum, si vera autumas ›› *ti farò banchettare eternamente, se hai detto il vero' (Captivi 897), dapino = öotrrotvoìoa, sebbene sul significato romano abbia influito una errata associazione con daps. Anche il vocabolo popolare xóìrotcpoç “una botta in testa', attestato come nome proprio da Epicarmo, autore siciliano di commedie, trovò la sua strada nel latino. Plauto presenta una forma trascritta colaphus, ma il fatto che la lingua parlata possedesse una forma *colopus è evidente dal verbo derivato percolopare rilevabile in Petronio. Questa forma popolare è all'origine dell'italiano colpo, fr. coup. Infine, a testimoniare la capacità della popolazione romana di accogliere anche le piú curiose parole greche, ricorderemo Livio, XXVII 1 1: «quos androgynos vulgus ut pleraque faciliore ad duplicanda verba Graeco sermone appellat››. Nel latino venne anche trapiantato un comune suflìsso verbale greco che divenne poi produttivo: malacissare, cyathissare,

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purpurissare, ecc. sono modellati sui prestiti greci in -Km, con la C trasformatasi in -ss- nel sistema fonematico latino (cfr. massa < uãšot). Lo sviluppo indipendente di questo suflìsso nella lingua latina è manifestamente indicato da patrissare 'seguire le orme paterne' (sebbene un -n:ot~rpLo'tCo› in questo senso sia attestato da Polluce), graecissare, drachumissare, comissari (xmuoíšeiv). Nella sua struttura grammaticale la lingua di Plauto si distingue ben poco dal latino classico. In seguito si evitarono certi usi sintattici, ma l'accusativo con utor, le preposizioni ex e in con i nomi di città, l'indicativo nelle interrogative indirette, o l'infinito nella proposizione finale, erano tutti aspetti che potevano preoccupare, ma non certo mettere in difficoltà un purista. Nella morfologia troviamo talune divergenze dalla norma classica: abbiamo un vocativo puere; il genitivo singolare dei nomi della quarta declinazione è regolarmente del tipo senati, il locativo della quinta appare come die in die crastini ; né Plauto tiene conto della distinzione classica fra l'ablativo singolare in -e per i participi e quello in -i per gli aggettivi (ad esempio malevolente). I pronomi presentano forme come ipsus, eumpse, eampse, eumpse; nominativi plurali come hisce, illisce; l'ablativo singolare aliquí, qui (interrogativo, relativo e indefinito). Per quanto riguarda i verbi possiamo menzionare gli imperativi face, dice, il perfetto tetuli ; i congiuntivi e gli ottativi aoristi come ƒaxo, capso, ƒaxim, dixis, induxis e l'infinito passivo in -ier, ad esempio adducier. Certi verbi appartenenti alla terza coniugazione vennero in seguito trasferiti alla seconda: olëre, ƒervëre, intuor. I verbi impersonali hanno un perfetto passivo: puditum est, miseritum est, pertaesum est 5. Taluni verbi classici deponenti compaiono all'attivo: ad esempio arbitro. Si notano poi certe forme perifrastiche: carens fui, sis sciens, audiens sum, ecc. Anche fra gli avverbi sono riscontrabili degli arcaismi: antid hac, antehoc (Plauto non usa antea), interdius. Aggiungeremo infine il prefisso verbale indo: indaudio, indo-tueri, indupedio. 5 puditum est anche in c1cERoNE, Pro Flacco 22.52; pertaesum, in ID., Ad Quintum ƒratrem I 2.4..

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Nella pronuncia vor- non si era ancora trasformato in ver- (si dice anche che Fortografia di vert- per vort- sia stata introdotta da Scipione l'Africano (Quintiliano, I 7.25)); la vocale lunga era conservata nelle sillabe finali, ad esempio dicãt, dicêt, audit, dicãr, matêr, oratôr; la -s finale dopo le vocali brevi veniva pronunciata debolmente e non aveva valore prosodico (Cicerone ci informa, in Orator 48.161, che ai suoi tempi questo tipo di pronuncia era considerato come subrusticum); la -d finale risultava ancora pronunciata in mêd, têd; e la *zz intervocalica risultava eliminata in parole come obliscor, dinus, controrsia, aunculus. Talune di queste deviazioni dalla norma classica sono esemplificate nelle iscrizioni risalenti a quel periodo. Cosí il Senatus Consultum de Bacchanalibus del 186 a. C. (si veda Appendice, n. 8) riporta arvorsum, sêd, figier, gnoscier e la perifrastica scientes esetis (cfr. sis sciens sopra), il che potrebbe ritenersi in certo modo una conferma che Plauto aveva adottato nelle sue commedie l'idioma parlato ai giorni suoi. Ma un'osservazione piú attenta degli arcaismi ricorrenti nei testi plautini dovrebbe indurci a riflettere: molti di essi risultano infatti confinati alla fine del verso, come ad esempio gli infiniti in -ier riscontrabili quasi invariabilmente 0 alla fine del verso (circa centosessantotto esempi) 0 alla fine dell'emistichio (sei esempi). Maggiori licenze sono ravvisabili nel verso. Per lo piú lo stesso discorso vale per i congiuntivi ƒuam e ƒuas e per gli ottativi duim e duis, che appaiono solo alla fine dei senari. Anche interduim c creduis figurano solo alla fine di misure lunghe. In Plauto antidhac ricorre nove volte in tutto, e sempre alla fine del verso. Una simile limitazione dei fenomeni arcaici farebbe pensare che la lingua delle commedie plautine fosse, almeno in certa misura, stilizzata e artificiale, smentendo cosí la nostra conclusione provvisoria, secondo cui essa doveva rispecchiare l'idioma parlato contemporaneo. H. Haífter, in un attento studio condotto su pochi fenomeni selezionati, ha dimostrato che in effetti esiste una netta distinzione tra la lingua dei senari e quella delle misure piú lunghe. Cosí la figura etymologica, cui lo stesso Cicerone ricorse nelle sue lettere in certi passaggi di intensa

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emotività (« cura ut valeas meque ames amore illo tuo singulari ››, Adfamiliares XV 20.3), appare piú frequentemente nelle misure lunghe che non nei senari giambici. E anche nei casi in cui figura in un senario, si tratta manifestamente di uno studiato accorgimento stilistico, indicativo di una forte emozione: di insulto, in «pulmoneum... velím vomitum vomas›› (Rudens 511), di derisione in «calidum prandisti prandium›› (Poenulus 759), di allegria in «opsonabo opsonium›› (Stichus 440), di pathos in «aequo mendicus atque ille opulentissimus censetur censu ad Accheruntem mortuos›› (Trinummus 493 sg.). L'accorgimento, naturalmente, favorisce gli intenti essenziali ricercati dai molteplici effetti comici di Plauto, e ricorre quasi invariabilmente nei discorsi dei principali personaggi comici, uno schiavo, un parassita e simili. I senari e le altre misure denunciano analoghe differenze anche nel modo di usare i vari accorgimenti stilistici tipici della prima letteratura latina. Questo punto sarà preso in esame nel corso del capitolo seguente; per ora ci accontenteremo di pochi esempi illustrativi. Di primaria importanza è lo stile ampolloso e verboso ottenuto con una quantità di espedienti, fra cui il piú ovvio è l'accumulo di sinonimi: «spes opes auxiliaque a me segregant spernuntque se ›› (Captivi 517); «ut celem patrem, Pistoclere, tua flagitia aut damna aut desidiabula?›› (Bacchides 375); «vos amo, vos volo, vos peto atque obsecro›› (Curculio 148)6; «stulti stolidi, fatui fungi, bardi blenni, buccones›› (Bacchides 1088). La stessa diversità stilistica fra senari e misure lunghe è riscontrabile in Terenzio. In Phormio 458 troviamo una formula usata per prendere commiato: «numquid nos vis?››, che però nel verso 563, un settenario trocaico, compare in una forma piú ampollosa: «num quid est quod opera mea vobis opu' sit ? ›› Anche Plauto è ricco di siffatte espressioni infarcite di pleonasmi. Cosí una variazione sul semplice opportune advenis è «optuma opportunitate ambo advenistis›› (Mercator 964), cui possiamo paragonare «te expecto: oppido opportune te 6 Anche piú elaborato è il passo «pro deum popularium omnium adulescentium clamo postulo obsecro oro ploro atque imploro fidem

(cncruo, Comoediae, 201 sg. Warmington).

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obtulisti mi obviam›› (Terenzio, Adelphoe 322). L'elegante formula di dent quae velis è resa ampollosamente con « di tibi omnes omnia optata offerant» (Captivi 355). Questi esempi illustrano un altro ricorrente accorgimento stilistico, consistente in vari tipi di assonanza. Le locuzioni allitterative erano naturalmente una caratteristica della latinità piú antica, come possiamo vedere nelle espressioni proverbiali (ad esempio « plaustrum perculi ›› *ho rovesciato il carro delle mele', Epidicus 592; «iam ipse cautor captust››, Epidicus 359), e in esempi tratti da altri dialetti italici (si veda il capitolo seguente). Quasi tutte le pagine plautine abbondano di siffatte soluzioni stilistiche, fra cui particolarmente frequenti sono le coppie di parole allitterative, spesso in asindeti: «cibatus commeatusque», «victu et vita», «nec vola nec vestigium››, «oleum et operam perdere ››, «vivus videns››, «impetrítum ínauguratumst», «vivit valet», «obliga obsigna››, «se adplicant adglutinant ››, «complicandis c0mponendis››, «labitur liquitur››, ecc. Estremamente comune è anche la ricorrenza di tricola con allitterazione (del tipo *veni vidi vici): «exitium, excidium, exlecebra›› (Bacchides 944); «screanti, siccae, semisomnae» (Curculio 1 15); « retines, revocas, rogitas ›› (Menaechmi 1 14); «compellare et complecti et contrectare›› (Miles gloriosus 1052); «supersit, suppetat, superstitet›› (Persa 331). Come esempio di un tricolon che denuncia la «legge della grandezza crescente» (si veda il capitolo seguente) possiamo citare «fac fidele, sis fidelis, cave fidem fluxam geras» (Captivi 439). Né sono infrequenti effetti di rima, come ad esempio: neque ut hinc abeam, neque ut hunc adeam scio, timore I

ol-peo

.

(Truculentus 824)

pol magi' metuo ne defuerit mihi in monendo oratio. :: pol quoque metuo lusciniolae ne defuerit cantio. (Bacchides 37 sg.) teneris labellis molles morsiunculae, nostrorum orgiorum... iunculae, papillarum horridularum oppressiunculae.

(Pseudolus 67 sgg.)

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nemo illum quaerit qui optumus et carissumust:

illum conducunt potius qui vilissumust. (Ibid. 805 sg.) L'elaborata stilizzazione della lingua plautina emerge chiaramente da un'attenta lettura di quasi tutte le pagine aperte a caso: liber captivos avi' ferae consimilis est: semel fugiendi si data est occasio satis est, numquam postilla possis prendere. :: omnes profecto liberi lubentius sumu' quam servimus. (Captivi H6 sgg_) nunc ego omnino occidi,

nunc ego inter sacrum saxumque sto.

(Ibi-d_ 616 sg)

inicite huic manicas* mastigiae. ::

quid hoc est negoti? quid ego deliqui? :: rogas, sator sartorque scelerum et messor maxume? (Ibid. 659 sgg.) Per la raffinata stilizzazione delle misure lunghe e dei cantica citeremo : haec est. estne ita ut tibi dixi? aspecta et contempla Epi-

dice: usque ab unguiculo ad capillum summumst festivissuma. estne consimilis quasi quom signum pictum pulchre aspexeris P e tuis verbis meum futurum corium pulchrum praedicas, quem Apelles ac Zeuxis duo pingent pigmentis ulmeis. (Epidicus 622 sgg.) illic hinc abiit, mihi rem summam credidit cibariam. di immortales, iam ut ego collos praetruncabo tegoribusl quanta pemis pestis veniet, quanta labes larido, quanta sumini apsumedo, quanta callo calamitas, quanta laniis lassitudo, quanta porcinariis.

(Captivi 901 sgg.) Vediamo ora quanto profondamente si debbano modificare le nostre prime conclusioni. La lingua di Plauto contiene indubbiamente numerosi elementi colloquiali, che sono

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però solo alcuni fra i molti ingredienti con i quali l'autore compose una lingua elevatamente elaborata e artificiale. Attingendo altrettanto liberamente alla lingua del diritto, della religione e della tragedia contemporanea, e ricorrendo alle caratteristiche colloquiali citate sopra, egli ottenne una nota di brio che ben si adattava al genere comico. Ma anche nei suoi senari la lingua plautina è ben lungi dal linguaggio quotidiano dell'età di Annibale, e pochi altri esempi ci consentiranno di rilevare sino a qual punto il colloquiale e lo stilizzato si intreccino inestricabilmente fra loro. Nella locuzione lepida memoratui (Bacchides 62) l'aggettivo colloquiale lepidus è usato con un dativo del supino, costruzione estremamente rara e antica. In «magistron quemquam discipulum minitarier›› 'e pensare che un alunno potrebbe minacciare il suo maestro' (Bacchides 152), la costruzione e il verbo frequentativo sono colloquiali, ma la desinenza dell'infinito passivo è arcaica. In Poenulus 308: «eho tu, vin tu facinus facere lepidum et festivom ? ›› il tono colloquiale è inequivocabile (si notino l'esclamazione, la ripetizione del tu, gli aggettivi lepidus e ƒestivus), eppure il verso contiene una figura etymologica. Come esempio finale citeremo il divertente passo della scena d'apertura7 della Casina, in cui Olimpione minaccia Calino: quid facies?,:: concludere in fenstram firmiter, unde auscultare possis quom ego illam ausculer: quom mihi illa dicet 'rni animule, mi Olympio, mea vita, mea mellilla, mea festivitas, sine tuos oculos deosculer, voluptas mea, sine amabo ted amari, meu' festus dies, meu' pullus passer, mea columba, mi lepus'. quom mihi haec dicentur dieta, tum tu, furcifer, quasi mus in medio parieti vorsabere. nunc ne tu te mihi respondere postules abeo intro. taedet tui sermonis 3. _

(Casina 132 sgg.)

7 Haffter ha osservato che nelle scene di apertura la lingua è spesso piú elevatamente stilizzata di quanto non appaia in altri brani in senari giambici. Ad esempio: «saepe ego res multas tibi mandavi, Milphin, i

dubias, egenas, inopiosas consili, [ quas tu sapienter docte et cordate et cate I mihi reddidisti opiparas opera tua ›› (Poenolus 129 sgg.). 3 oclu (it. occhio).

Vocali_ Il sistema fonologico indoeuropeo comprende le vocali a, e, o, i, u, che potevano essere lunghe o brevi, e le combinazioni in dittonghi delle prime tre con le semivocali 0 sonanti i, u, r, l, m, n. In latino, il trattamento di questi suoni ereditati varia a seconda del tipo di sillaba in cui essi sono presenti. Li esamineremo qui, distinguendoli in tre gruppi: 1) sillaba iniziale, 2) sillaba media, 3) sillaba finale.

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GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

Sillabe iniziali. Nel latino piú antico, come abbiamo visto, queste vocali erano accentate, e hanno in seguito conservato l'accento con una certa tenacia.

acíês = gr. âxpóç 4. ago = gr. ôiyoa.

ager = gr. oìypóç, sanscr. ájras, ingl. acre. alíus = gr. 6å?0\oç. mãter = gr. dor. p.á'r1]p, sanscr. mãtár-.

fr_ãter = gr. cppámp. fama = gr. dor. cpãua. ego = gr. šyoß. genus = gr. Yévoç. est = gr. åcrí. 1. Davanti a nasale velare [13] e > i: tinguo = -réyym, quinque < *penqwe (con vocale allungata per analogia con quíntus). Si noti che gn fu pronunciato [r_]n]: donde dignus da *dec-nos, cfr. dec-et. 2. La vicinanza di un suono u provocò il mutamento di e in 0: ad esempio novo: == vá(F)oç, novem = (èv)vé.Fa, socer = (cr)Fexupóq, cfr. sanscr. pváçuras; soror < *swesôr, cfr. germ. Schwester; somnus < "'swepnos, cfr. sanscr. svápnas, norv. ant. svefn; coquo < *quequo (si veda oltre, p. 276), bonus < lat. ant. duenos. Questa tendenza deve essersi conservata fino al momento dei primi contatti di Roma con la Grecia, se ovare è derivato, come sembra probabile, dal grido rituale greco I-:lion lanciato dalle baccanti. 3. e divenne o davanti alla velare [ ai in latino antico, > ae all'inizio del II secolo a. C. aedes (lat. ant. aidilis) = gr. oc'í§}co, sanscr. édhas. laevus = gr. )\ou(F)óç, scaevus = gr. cmocL(.F)óc,. Questo suono si è chiaramente distinto dalla í ereditata, presente in antiche iscrizioni, ma si è mutato in í dalla metà del II secolo a. C. La fase intermedia della é chiusa compare in ortografie come de-vos, vecos, e questa pronuncia si è conservata evidentemente in alcuni dialetti di campagna. Varrone, De re rustica I 2.14, attribuiva infatti il termine -vella per -villa ai rustici. Lat. ant. deico = gr. Seíxvuut, ecc. fido = gr. rrsíßco (*cpeí3co), ecc. it = gr. ci.-cr., sanscr. éti, lit. eíti. si è conservato nel latino antico, ma circa al tempo di Plauto, a giudicare dal gioco di parole fra Lydus e ludus (< loidos) da lui creato, si è mutato nel monottongo ü. Evidentemente si è avuta una fase intermedia in oe, che

1=oNoLoc1A

267

si è conservata nelle ortografie arcaiche, riscontrabili, ad esempio, nel De legibus di Cicerone (coerari, ecc.). Lat. ant. oíno, lat. class. ünus = gr. oiví] *uno sui dadi', got. ains, ecc. Lat. ant. comoinem, lat. class. commünís = irl. ant. mãin; mãin < *moini-. Lat. ant. coiravit, pelign. coisatens = cürãvêrunt. Lat. ant. südor = sanscr. svédas, alto germ. ant. sweiz `sudore' < *swoid. I. Nel latino antico, a causa di un processo di dissimi-

lazione, oi nelle sillabe iniziali dopo 'U si è mutato in ei, divenuto piú tardi í (vedi ei): 'vídí = (F)oì'3a, sanscr. véda, ecc. 'uícus = (F)oIuoç, ecc.; vinum = (F)oìvoç ecc. 2. Lo stesso mutamento si verifica dopo una l davanti

a una consonante. labiale in líquit, se tale forma è derivata da ""leloiq"et, il che è incerto. La ì potrebbe essere stata importata dal composto reliquit, dove i è regolarmente un prodotto di oi in una sillaba media (si veda oltre).

3. In alcune parole appartenenti alle sfere conservative della legge e della religione si è mantenuta l'antica ortografia: poena (gr. rrowvh), ma pünio; ƒoedus (lat. ant. ƒoidere), moenia (ma mürus, lat. ant. moiros, moerus, correlato all'ingl. mere in mere-stone); Poeni ma Pünicus (gr. (Dobuvcç).

au si conserva immutato. auris, aus-culto = lit. ausìs, got. ausô. augeo, augur, ecc. = gr. odíE,o›, got. aukan. paucus = gr. Ttotüpoç. 1. In latino au rende anche la forma sincopata avi-: auceps < *avi-caps; nauƒragus < "'nãviƒragos. 2. Nel dialetto e nella lingua volgare au > 6: ad esempio olla, plostrum, ecc. Publio Clodio adottò, per ragioni di natura politica, la pronuncia volgare del suo nome gentilizio Claudio. La reazione nei confronti della 6, considerata come un segno di volgarità, diede luogo all'iperurbanismo plaudo, comfè evidente dal composto explödo, dato che explaudo si sarebbe dovuto sviluppare in explüdo (si veda oltre, pp. 270 sg.). Si dice che Vespasiano, rimproverato per la sua pronuncia volgare di plãstra, si sia rivolto

al suo precettore chiamandolo Flaurus anziché Flörus.

268 Eu

GRAMMATICA sToR1co-COMPARATIVA > ou in molte lingue dell'antica Italia, compreso il latino (si veda sopra, p. 12). Il latino antico conservò ou, che però sarebbe divenuta ü nel latino classico (l'esempio piú antico risale al III secolo a. C.). Lat. ant. abdaucit, lat. class. dücit = got. tiuhan < *deu/L Lat. ant. Loucilios, lat. class. Lücius; lücem = gr. Ãeunóç, got. liuhaß < *leuk. üro = gr. sil(-› < *euso. 1. Nel latino-falisco, ou situata fra l e una consonante

labiale veniva dissimilata in oi. Ad esempio "'leudhro- 'li-

bero' (cfr. il gr. š-Àsuä-epóç) > *louƒro- (si veda oltre, p. 280 per -dh- > ƒ) nel latino primitivo. Questo vocabolo venne in seguito dissimilato in *lozfro- (cfr. il falisco loiƒirtato). Nel latino antico tale suono divenne ei (leiber) e quindi si trasformò in í(líber, si veda sopra, p. 267). Tale

mutamento rappresenta una specie di dissimilazione analoga a quella della u fra una l e una consonante labiale (si veda sopra, p. 266).

> ou nel latino antico, quindi > u. Lat. ant. loucom, lücus = alto germ. ant. lãh “rischiarante”, ingl. lea, lit. laükas. noutríx, nütríx < ant. femm. *noutrí < radice *sneu. In generale possiamo dire che il latino tende ad assimilare il primo elemento dei dittonghi al secondo, sebbene in condizioni speciali predomini il primo (ad esempio oi > ei). Oltre ai dittonghi brevi, l'indoeuropeo possedeva una serie di dittonghi lunghi, conservati relativamente meglio nell'ind0iranico. Tuttavia in certe posizioni il secondo elemento cadeva anche nell”indoeuropeo primitivo: ad esempio dinanzi a una -m (*g”'öus, ma accusativo *g“`6m). In latino questi suoni si distinguono dai corrispondenti dittonghi brevi solo se si trovano in posizione finale: davanti a una consonante essi vengono abbreviati, ma dinanzi a vocale la serie in i perse tale suono, per cui ã1'> ã, ôi > 6. ël rês = sanscr. rãs, gen. sing. rayás < *rêisz ôu duã = sanscr. dvä, dvãu < '*d(u)^wöu. octã = sanscr. astãu, got. ahtau < *oktöu. Ou

1=oNoLoc1A

269

Sillabe non iniziali. Come abbiamo visto sopra, nelle sillabe non iniziali le vocali e i dittonghi brevi subivano un processo di aumento che variava a seconda che la sillaba terminasse in vocale o in consonante: ad esempio *ád-fa-cio, *ád-fac-tos > af-ficio, af-fec-tus. Possiamo perciò riassumere i dati di fatto raccogliendoli in due gruppi: 1) sillabe aperte; 2) sillabe chiuse.

Sillabe aperte. Tutte le vocali brevi si trasformano in i. a facio: canficio; cado: occido; ratus: irritus; mãcina uz percello: perculsus < *percelsos.

o onustus < *onostos; euntis < *eyontes; alumnus < *alomnos; secundus < *seqwondosç industrius < *endostruos; gr. åuópyr] > amurca (ma tale prestito è giunto attraverso la mediazione dell'etrusco). I. La o si è mantenuta dopo la u sino al secolo 1 d. C. Le ortografie classiche erano pertanto ƒruontur, sequontur, ecc.

u *dù'ctos: adductus, ecc. Dittonghi. ei e ou subirono gli stessi cambiamenti che nelle sillabe iniziali, ossia si conservarono nel latino antico, donde > ì e ü: ad esempio ƒeido: confido; douco: addüco. ai > ei nel latino antico, e in seguito > iz inceideretis < *encaid-; aestimo: exístimo; aequos: iníquos; gr. å7\cxíF'ã: olwa. au > ü, presumibilmente attraverso uno stadio medio ou: fraudo: lat. ant. deƒrüdo; claudo: inclüdo; audio: oboedio non ha avuto una spiegazione soddisfacente. Potrebbe

i=oNoLoc1›.

271

semplicemente trattarsi di una pronuncia arcaizzante di *obüdio nel linguaggio giuridico. oi L'unico esempio è pömêrium < *postmoiriom. Vocali e dittonghi nelle sillabe finali. Sillabe aperte. a si è chiaramente conservata in ita, aliuta (cfr. itidem). Secondo alcuni studiosi, queste forme erano originate dall'abbreviazione giambica di *itã, *utã (si veda comunque oltre, p. 342). e persiste: age, domine. 0 > e: sequere < *sequeso, cfr. il gr. ërcso. Per ille si veda

oltre, p. 312. i > e: mare, mari-a; *anti (gr. oìvti) > ante. Gli ablativi pede, ecc. erano in origine dei locativi corrispondenti in greco a rcoòí, ecc. In talune particelle e in qualche forma abbreviata del linguaggio corrente la vocale breve viene talvolta a mancare: quin < qui-ne, sín < sine, vidên < vidësne, ain < aisne. Ciò ha dato origine ad apparenti eccezioni alle regole dell'accentazione: vidés-ne > vidén. La i finale andò persa nelle desinenze primitive dei tempi principali: tremonti > tremunt, *santi > sunt, *es-ti > est (ma per ess si veda oltre, pp. 320 sg.). Sillabe chiuse. a > e: artiƒex < *-fax, rêmex < *-ags, cornicen < *-can, princeps, auceps < *-caps. e persiste: auspex, senex, nãmen (con en < °= , decem (con em < \-/

1. e > i dinanzi a -s e a -t nel 111 secolo a. C.: donde agzs < *'ages(i),_agit < *aget(i); cfr. 1 genitivi del lat. ant. Cereres, ecc. e il perfetto dedet.

i si conserva in ovis la is < *la id-s salix ecc. Il diverso trattamento riscontrato in iüdex < *youz-diks, cãmes < Y

}

)

272

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

*comit-s è probabilmente dovuto all'analogia con forme quali auspicem: auspex; artificem: artifex. u si mantiene inalterata: manus, manum, ecc. o > u in aliud, istua'. Nel latino antico persisteva dinanzi a -s e a -m: manios, Luciom, ecc., ma > u nel periodo classico, tranne che quando era preceduta da v, u: donde dominus ma parvos, exiguos, ecc. 1. Il diverso sviluppo di hospes < *hostipots è ancora dovuto all'analogia con artificem: artifex, ecc. Dittonghi. Per i dittonghi lunghi si veda sopra, p. 270. I dittonghi brevi subirono gli stessi mutamenti delle sillabe medie. -ai, -ei, e -oi tutti > lat. ant. -ei > lat. class. -i. Per

qualche esempio si vedano le desinenze dei casi al capitolo IX. In genere le vocali lunghe nelle sillabe finali si conservavano, ma nel periodo classico ebbe luogo Fabbreviazione

dinanzi a -m, -t e -nt, e nelle parole polisillabe anche dinanzi a -r e -1. Di qui abbiamo dücãs, dücës, ecc., ma dücãm, dücãr, dücãt, dücëm, dücër, dücët. A ciò dobbiamo aggiungere i numerosi esempi di abbreviazione giambica quali ëquà', bönã, ëgã, ecc. Ma questo processo era, a un tempo, esteso e limitato da influenze analogiche, per cui in Plauto troviamo i previsti rãgã, cãvë, pur riscontrando in seguito rögã, cave'. Abbreviazioni regolari sono visibili in mãdö, bënë, ma ergö e contrã non possono, naturalmente, essere dovuti all'azione di questa legge. Per l'allungamento di vocali dinanzi a certi gruppi di consonanti, si veda oltre, p. 283.

Le sonanti. Alcuni tipi di suoni assumono la funzione di vocali o consonanti, e cioè divengono sillabici o non sillabici, a seconda delle condizioni fonetiche in cui ricorrono. Tali erano le sonanti indoeuropee y(i), w(u), r(_r), l(1), m(r_n), y (per la i si veda sopra) fu inizialmente conservata nel

latino: ad esempio iugum: gr. Cuyóv, sanscr. yugám, ingl.

FoNoLoc1A

273

yoke; iecur: gr. ipcocp, sanscr. yakrt. La y intervocalica andò persa: ad esempio trés < *treyes, cfr. il sanscr. tráyas; moneo < *mone-yô. La y dopo le consonanti si vocalizzò in i. medius = osco mefiai, gr. p.Éo(cs)oç, sanscr. mádhyas < < *medhyos alius = osco allo-, gr. öí}O\oç < *alyos. venio < gwrp-yö (si veda oltre, p. 278). 1. -dy-, -gy-, -sy- > -iy-, scritto i, ad esempio maius (pronunciato maiyus) < *mag-yos; peius (pronunciato peiyus) < *ped-yos. Per quoius < quosyo-s si veda oltre, p. 311. Cicerone si diceva preferisse le ortografie con ii in

queste parole (Quintiliano, Institutio oratoria I 4.11). 2. Iovis < *dyewes risultava ancora scritto Diovis nel latino antico.

si era, all'inizio, conservata dinanzi a vocale e intervoca-

lica: vidi = gr. (F)oì'òot, sanscr. véda, ecc. vicus = gr. (.F)oixog, ecc. novem = sanscr. náva, ecc. novos = gr. vé(.F)oç, sanscr. návas, ingl. new. ovis = gr. ìi(.F)v.;, ecc. 1. Fra vocali similari la w scomparve, e le vocali medesime subirono una contrazione: sis < sivis, lãtrina < lavãtrina, ditias < divitias. Spesso, tuttavia, la vi venne ripristinata per analogia. 2. La w si conservò dopo k, s: equos = sanscr. áçvas, ecc. < *ekzvos; suãvis = sanscr. svãdús, ingl. sweet, ecc. < *swãdwi-s. 3. Dopo la t mediana la zu si vocalizzò: quattuor = sanscr. catváras, gallese pedwar < *qwetwãres (si veda oltre,

p. 316). 4.. Dopo le labiali p ed ƒ la zo cadde: aperio < *ap-weriö; ƒore's = slavo ant. dviri, ingl. door < *dhwer-/dhwor-.

5. La w entrava in combinazione con d (p. 277), gh (p. 281), e gwh (p. 281). 6. La vv cadde dinanzi a u e, salvo che inizialmente, dinanzi a o: somnus < *swopnos *swepnos (p. 284); parum

274

GRAMMATICA STORICO- COMPARATIVA

< parvom; deorsum < devorsum; soror < *swesôr- (si veda oltre). Per colo, cum, cur si veda oltre, p. 278. r La r consonantica si è conservata. ruber = gr. å-pußpóç, ingl. red (p. fero = gr. t_rs > ters > ter); cfr. certus < *kritos, testis < *terstis < *tri-stis (cfr. l'osco

tristaamentud = testamento); ager < *agros (gr. åypóç); ãcer < ""ãcris; agellus < *agrlos < ""agrolos. r La 1' sonante indoeuropea (da non confondere con la r divenuta sonante secondariamente in latino) è rappresentata in latino con or: fors = sanscr. bh_rtis < "*bhg'tis. mors = sanscr. m_rtis < mrtis. posco = sanscr. prcchámi “chiedo”, ted. ƒorschen < *porc-scã < *pyk-skô. In una sillaba finale -or > -ur: iecur: sanscr. yak_rt
coquã; *penqwe > *quenque > quinque (i allungata per analogia con quintus).

b Sono state stabilite poche equazioni che esibiscano q SÈO SLIOHO

trabs =osco triibúm 'domum', lit. trobà “casa”, ingl thorp.

dë-bilis = sanscr. balám 'forza'

t Si veda tres, pater, est, septem, tego, ecc.

' ' 1. tl > cl: a -d : ad esempio feced, ecc. (si veda oltre, p. 321).

d domus = gr.. òóuoç, ecc. dãnum, dare = gr. òöpov, ecc. edo gr. ëòco, ingl. eat, ecc. cord-is = gr. xocpò-loc, xpotò-iv), ingl. heart < *kerd/kr 1. In talune forme dialettali si osserva un'alternanza di d ed l: lingua X dingua; lacruma >< dacruma; oleo >< odor, sedeo >< solium (si veda sopra, p. 48).

roNoLoc1A

277

2. dw > b-: ad esempio bonus, bellum, lat. ant. duenos, duellum. 3. La d finale cade dopo vocali lunghe: se' per sêd, ablativo -6 per -ãd (p. 297). 4. La d cade dopo una finale consonantica: ad esempio cor < *cord.

k Si veda centum, decem, vicus, dico (lat. ant. deico = gr. Saiu-vuui), ecc.

q Si sostiene che questa occlusiva velare indoeuropea spieghi le equazioni nelle quali le lingue satem (pp. 39 sg.) denunciano un'occlusiva gutturale k distinta da una fricativa s, ecc., corrispondente in altre equazioni alla k non satem: ad esempio cruor = gr. xpéotç, sanscr. kravis < '*qrewas. Le lingue non satem non distinguono fra le serie velari (q, ecc.) e quelle palatali (k, ecc.).

g (g)nösco = gr. Yi-Yvoßaxw, sanscr. jñã-, ecc. < ""gnô. genus = gr. yévoç, ingl. kin, sanscr. jánas < *genos. ago = gr. óíyw, sanscr. ájãmi < *ag6. augeo = gr. oullšw, got. auka, sanscr. ójas- `forza' < *aug. g Si ritiene che questa occlusiva velare spieghi, al pari della q, le equazioni nelle quali, come nella seguente, la g satem corrisponde alla g non-satem. tego = gr. crråyoç, lit. stógas 'tetto' < *steg. Le occlusive labiovelari. Questi suoni, ritenuti indoeuropei, rappresentavano probabilmente delle occlusive velari articolate con un arrotondamento simultaneo delle labbra («protrusione delle labbra ››). Nel greco esse appaiono, a seconda del contesto, come dentali (T, 3, 8), labiali (Tr, B, (p) e palatali (x, Y, X). Nelle lingue satem sono indistinguibili dalle semplici velari. Nei «dialetti italici» tali suoni sono rappresentati da labiali (per le intrusioni nel latino si veda sopra, p. 47). 11'” si e conservata nel latino: quis = osco pis, gr. tig, sanscr. kás < *q'”i-. quod = osco po, gr. 'rtof'›, Tcóilav, 1:03-omróç, ecc. < q'”o-. quattuor = osco petora, gr. dor. 'fé-ropeç, sanscr. catvä-

ras (si veda oltre, p. 316).

278

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

sequor = gr. årtouou, sanscr. sácate < *seq“”. linquo, liqui, gr. ?\sím«›, sanscr. ri-nei-kti < *leiq“'. 1. L'elemento labiale scompare: a) Dinanzi ad u e ad oz secundus < *sequondos; iecur < *iequor < *yeqwy-t (p. 274); colo < *quolo < quelo (p. 265) < *q"'el. Si noti il contrasto fra in-

cola e inquilinus. la) Dinanzi alla y indoeuropea: socius < *soquiosz lacio < *laqwyã (cfr. laqueus). c) Dinanzi ad altra consonante: coctus (cfr. coquo); relictus (cfr. linquo); cfr. nec e ac, forme preconsonantiche di neque e atque.

d) Dinanzi a s: vãx < *wöqws (cfr. gr. (.F)é1-roç). 2. In alcuni complicati gruppi di consonanti -qu- cade: quintus < *quinqutos (con allungamento della vocale dinanzi a -nkt, come in sãnctus, iünctus, ecc.), tormentum < *torqumentum gu' All'inizio di parola, dinanzi a una vocale, e in posizione intervocalica > v: venio = umbro benust “venerit”, osco kumbened = 'convenit', gr. ßotivm, sanscr. gam-, got. qiman < *g“'my6. vívus = osco bivus `vivi', sanscr. jivás < gwiwo-. veru = umbro berus `veribus', got. qairu, irl. ant. bir

< *gweru. fivo (lat. ant. per figo) = lit. djgti < *dhig"'. Il lat. class. figo è stato coniato sul perfetto ƒixi. 15

nüdus = got. naqaps, ingl. naked, irl. nocht. La parola latina ha la radice nogw con un suffisso -edo: *nogw-edos > *novedos > nüdus. 1. La gw si conserva dopo una nasale velare [i3]: inguen = gr. áöñv < *ng'”ên; unguen, unguo = umbro umtu `unguito', sanscr. anákti, irl. ant. imb 'burro' < *e/ong”-. 2. Dinanzi a r ed l la gw perdeva l'elemento labiale: gravis = gr. ßocpúç, got. kaurus, “pesante”, sanscr. gurús < *gwƒaw-. Cfr. grãtus = osco brateis 'gratiae', sanscr. gürtás, lit. girtas < ""g'”_ratós. glãns, glandis e il gr. ßákavoç provengo-

no dalla medesima radice con un suffisso differente; la d

1-`oNoLoc1A

279

della parola latina è riscontrabile nello slavo šelodíz < *gwela/gwlea.

Le occlusive aspirate. Nel latino e nei «dialetti italici», durante il periodo preistorico, le occlusive aspirate sonore divennero sorde e in seguito si mutarono in spiranti sorde, salvo dopo una s, nel qual caso perdettero l”aspirazione diventando occlusive sorde: bh >f, dh > *19 >f, gh > *Q5 > h. Questi suoni si conservarono soprattutto nei dialetti italici, mentre nel latino urbano il trattamento variava a seconda del contesto fonetico. bh All'inizio di parola > f: fero = gr. qoåpos, sanscr. bhárãmi, ingl. bear < *bher. flôs = sabino Flusare ` Florali', ingl. blossom < *bhlö-s. fãma: gr. dor. h: (h)anser = gr. Xfiv, sanscr. harnsás, ingl. gander, goose < *ghans-. hiems: (him- in bímus < *dwi-himo-s) = gr. Xiuapoç,

1=oNoLoG1A

281

xicßv, sanscr. himás < *ghi-em, *ghi-m. Un altro grado di apofonia appare in hibernus < *gheimrinos, cfr. il gr. Xeiucptvóç. humus, homo = gr. Xoqioti, got. guma < *ghem-, ghom-. hostis = ingl. guest, ted. Gast, slavo ant. gostz' < *ghosti-. veho = gr. (F)o)(_åop.ocL, sanscr. váhati, ingl. wagon f dinanzi a u (cfr. gwh): ƒundo = gr. )(é.Fo›, X6-ro, got. giutan < *gheu-, ghu-; ferus = gr. ãhfip, slavo ant. zve"rz" < *ghwer-. 2. All'interno della parola la combinazione -ghu- > -gw- > -v- (cfr. il trattamento della labiovelare gw): brevis = gr. ßpaxóç < *mreghw-i (la m è supposta a causa degli altri membri dell'equazione che qui non figurano). 3. gh > g dopo una nasale velare [r3]: fingo = gr. raìxoç, ingl. dike< *dheigh, *dhi-n-gh; ingo = gr. Àetxw, ingl. lick < *leigh, li-n-gh; ango, angu-

stus = gr. ôíyxco, got. aggwus, ted. eng < *angh-. "'h All'inizio di parola > ƒ: ormus = r. Se óç, sanscr. harmás < * whe orm-. g på* , 3 «fl . de_ endo = g r. Ssstvm, (P ovoç, sanscr. han-ti 'e 8 li colpisce', < gwhen-. All'interno della parola: a) Fra vocali > v: nix, nivem gr. vicpoc, veicpet, slavo ant. snëg ü 1 in g 1. snow_ < *snei,g Wh- › sni "'h-; voveo = umbro vuƒetes 'votis', gr. eùxouat < *wog'”heyô; levis < legwhu-1-s. b) Dopo [13] > g: ninguit “nevica” < *mi-n-g"'h; anguis = lit. angis (cfr. il gr. bcptç, sanscr. áhis). c) Dinanzi a r troviamo una traccia del trattamento di ƒ nell' fr- (ƒrigus, cfr. il gr. bìyoç < *srigos); e internamente > -br- (ƒünebris
-tst-, -dtt-, ecc., una combinazione di suoni che compare nel latino (e nel germanico) come ss: ad esempio messis < *metstis (cfr. meto), passus < *patstos (patior), quassus < *quatstos (quatio). Dopo un dittongo o una vocale lunga questa ss veniva semplificata: visus oe (ad esempio poploe nell'inno dei Salii) > ai (servei, ecc.) > e (ploirume) > i (servi, ecc.) si veda sopra, p. 272. Nei testi provinciali figura una forma ampliata -eis, -es, -is, con la -s della terza declinazione: ad esempio Ieibereis, magistres, duomvires, ministris. Accusativo *-0-ns, ad esempio cretese škeóilspovç. Per lo sviluppo fonetico -ons > ös in latino si veda sopra, p. 275. Genitivo *-öm < **o + ôm. Persiste nel latino antico con regolare abbreviazione della 6 dinanzi a m, Romanom, ecc. Queste forme erano ancora frequenti nel latino antico (ad esempio i plautini verbum, inimicum) e si mantennero invariate nella fraseologia conservatrice della religione e della legge: ad esempio deum, triumvirum, nummum, ecc. La consueta desinenza in -ãrum nacque per analogia con la -ãrum dei temi in -á (si veda sopra). Dativo e ablativo. La desinenza latina è rintracciabile nello strumentale indoeuropeo in -öisz gr. innotç, sanscr. uçvãis, ecc. Il dittongo originario è ancora visibile nel peligno suois cnatois. Festo cita un privicloes del latino antico. (ìli altri stadi fonetici erano -eis (castreis), -és (ad esempio il prenestino ueque = suisque) e infine la -is del latino classico. '

298

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

I nomi neutri della classe in -o presentano la vecchia desinenza -m nel nominativo e nell'accusativo singolari. Nel plurale, la desinenza -a può esser fatta risalire ad un collettivo singolare femminile in -á (donde la costruzione greca con un verbo al singolare). Nei vocaboli giambici come iügã ebbe luogo la regolare abbreviazione in iügã, e tale forma di desinenza venne generalizzata. I nomi in -io- (-ius) hanno nominativi singolari dialettali in -is: Caecilis, ecc. Il vocativo singolare si presenta in -i: fili (si noti che mi risale a un genitivo enclitico *mei o *moi). Le forme piú tarde, filie, ecc., rappresentano delle innovazioni analogiche. Nel genitivo la -ii venne contratta in -i, ma anche in questo caso l'unità della declinazione venne ripristinata per analogia (il primo esempio della -ii in un vocabolo si trova in Properzio). La contrazione nel locativo singolare e nel nominativo e dativo plurali non ebbe luogo fino a che la -ei non subí un'evoluzione in -i. Di conseguenza nel latino primitivo il locativo -iei è nettamente distinto dal genitivo -i. Lo stesso dicasi per il nominativo

plurale -iei e per il dativo e ablativo plurali -ieis, ove la contrazione non si verificò fino al mutamento ei > i. Agli sviluppi fonetici va addebitata tutta una serie di raddoppiamenti originati dalla declinazione della parola *deiwos. *deiwos e *deiwom > regolarmente *deios, *deiom > deus, deum: ma dove non seguiva alcuna -o, la w veniva conservata: ad esempio deiwi > divi. Da ognuna di queste varianti fonetiche venne creato un paradigma completo: deus e divus. I nomi in -ro-s perdono la -o per sincope e si evolvono foneticamente attraverso gli stadi -[S > ers > -err > er: donde ager < *agros, sacer < *sacros. Il vocativo *-ere perde la sua vocale finale, ripristinata però nel linguaggio volgare: di qui il plautino, ecc., puere. La terza declinazione. In latino le desinenze della terza declinazione sono il risultato dell'unificazione delle fonti dei temi consonantici da un lato, e dei temi in -i dall'altro. Nella seguente tabella è indicata la situazione originaria nell”indoeuropeo:

MoR1=oLoc1A

299

Nom. sing. Acc. sing. Gen. sin . _ - g Abl sing Dat. sing.

Temi in -i

Temi consonantici

*owi-s *owi-m .

due-s due-r_n ,

_

*owez-s o *owios

Nom. plur. Acc. plur. Gen. plur. }

due-es 0 -os

*owei-ei o *owiei

düc-ei

*owei-es *owi-ns *owi-ãm

duc-ës due-ns due-ãm

*owi-bhos

due-bhos

Nei temi in -i dobbiamo distinguere fra la declinazione sostantivale con radice accentata, ad esempio *áw-i-os, e la declinazione aggettivale con suflisso accentato, che assume il grado pieno, *ow-ei'-s. La suddetta declinazione comprende forme appartenenti a entrambe le serie. I nomi con una -i aggiunta hanno un importante ruolo nel sistema derivazionale dell”indoeuropeo 4. Temi consonantici (per le caratteristiche dei temi liquidi si veda oltre). Singolare. Nominativo *-s: vöx, rëx, index, ecc.' Si noti che l'occlusiva dentale finale è assimilata: pês < pêd-s, ferêns < "ferent-s. Accusativo *-m > -em: rêg-em, iüdicem, ecc.; cfr. il gr. -is (p. 271). Il grado apofonico *-os (gr. cpúltotxoç, ecc.) è riscontrabile nei testi provinciali, soprattutto a Preneste e nell'Italia meridionale, fino al periodo imperiale: ad esempio nominus, regus, Venerus, Diovos. Dativo *-ei. Compare ancora nel latino antico (ad esempio Apolonei, salutei, virtutei); > la -i classica secondo quanto detto a p. 272: rëgi, ecc. " Per ulteriori dettagli cfr. ibid.

300

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

Ablativo. Nell'indoeuropeo non abbiamo una desinenza speciale per questo caso (salvo che per i temi in -o). Il lat. -e risale al locativo in -i (che sopravvive come dativo nel greco, ad esempio cpúkaxi). Nei temi in -i si sviluppò una forma -id sul modello in -öd (donde anche -ãd, si veda sopra). Questa desinenza in -id è anche di tanto in tanto riscontrabile nei temi consonantici: ad esempio opid, coventionid. Locativo. Alcune parole hanno speciali forme locative caratterizzate da una -i tratta dalla classe in -o: rürí, Carthaginz, temperi. Plurale. Nominativo. La '*-ës originale, ancora conservata nell'osco, ad esempio humuns (con la perdita della è' per sincope) = hominês, venne sostituita in latino dalla -és, appartenente per l'esattezza ai temi in -i (si veda oltre): rêgës, ecc. Accusativo *-ns (gr. cpúluxxotç con ot < > ens in italico, donde és secondo quanto detto a p. 275: vôcês, rëgës, ecc. Genitivo *-ãm (gr. cpulioixwv) procede regolarmente in -öm > um: ad esempio rêgum, ecc. Dativo e ablativo *-bhos fu aggiunta in origine direttamente alla consonante del tema, ad esempio sanscr. vãgbhyas, da vãc = vóx. Si dovrebbe pertanto prevedere "'“rëgbus. La -i di rêg-i-bus, ecc., è presa in prestito dai nomi in -1. Il nominativo singolare dei nomi neutri consisteva semplicemente nel tema puro ad esempio lac < *lact. Per il plurale la testimonianza del gr. cpépovtot e del sanscr. bharanti fa pensare che la desinenza originaria fosse -2 (p. 265)~". Anche il latino ha -ã (ad esempio nomina), ma ciò non può essere direttamente eguagliato al sanscr. nãmãn-i, dal mo5 Siffatta equazione è stata smentita da T. Burrow (in maiãr, maiörem. Il neutro singolare maius è il prodotto regolare di *majos < *mag-ios (p. 273). L'altro suffisso del comparativo, -tera, era in origine aggiunto al secondo membro di una coppia di contrari (ad esempio gr. Sešióqz oìpno'-repóç). La sua funzione era contrappositiva e separativa, il che appare evidente nell'avverbio inter, che costituisce la forma contrappositivo-separativa in in: ad esempio inter-ficio 'togliere di mezzo, uccidere ', inter-dico 'interdire, porre in una categoria di esclusi', inter-eo, ecc. Tale suffisso, che appare negli ingl. other, further, ecc., in latino veniva impiegato per indicare coppie di contrari, dexter, alter, uter, mater-tera (rispetto ad amita). In alcune parole è unito alla -is- di cui abbiamo appena parlato: sin-is-ter, mag-is-ter, min-is-ter. Anche il superlativo presenta due suffissi che in origine avevano funzioni differenti. -io- appare nei numerali ordinali (si veda oltre), nei quali indicava il membro completante un gruppo determinato: la sua era una funzione di completamento (cosí Benveniste). Esso venne aggiunto alla -is- per dar vita al suffisso -isto-, esemplificato 'dall'ingl. sweetest (gr. ì';8|.o'froq). Il latino ha però preferito il suffisso -mo (-emo in taluni ambienti fonetici), la cui funzione era in origine (secondo l'ipotesi del Benveniste) quella di indicare il membro estremo di un gruppo: in altri termini, esso forniva in origine un riferimento spaziale, come nel caso di summus (*sup-mo-s) 'il piú alto', dêmus, infimus, primus ('*prís-mo-s). In suprêmus, extrêmus il suffisso è stato aggiunto alle antiche forme strumentali (si veda oltre a proposito degli avverbi). In intimus, ultimus, extimus, optimus il suffisso -mo- venne unito a -to-_ Un'altra forma estesa di suffisso è -simus, in cui la s risulta variamente originata: 1) -t-t,,mo- > -ssimo- (ad esempio pessimos < *ped-temo-); 2) da probabili forme sincopate del suffisso -is-. La forma piú caratteristica del suf-

3 IO

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

fisso superlativo latino, -is-simo, nacque dalla combinazione fra -is- e -semo-. Tale suflisso, quando veniva aggiunto ai temi nominali terminanti in -r ed -l, era nascosto dai mutamenti fonetici: *ƒacil-semo-s > facillimus (p. 283, a proposito di -ls-), *acri-semo-s > *aq-samos > *acers-samos (p. 274) > acerrimus; analogamente pulcherrimus < *pulchro-semos. Per plüs, plürimus non è stata proposta alcuna soluzione soddisfacente. È chiaro che tali forme si riferiscono ad aggettivi col significato di «molto ›› in altre lingue (ad esempio il gr. †:o}\t'›ç), formatisi dalla radice *pel `pieno' (lat. plenus). Il tema comparativo plê-yes-, plê-is, che compare nel gr. rclisiv (accusativo) e nel superlativo 'rckeio'-roç, stabilisce un soddisfacente fondamento, *pleis-,mo-, per il lat. ant. plísima, tramandatoda Festo. Viceversa, abbiamo un sostantivo neutro derivato dalla stessa radice *plewes (om. 'r:}\šoç), che può costituire la base del lat. ant. plous; cosí il lat. class. plüs non è, in origine, un comparativo, piú di quanto non lo sia il suo contrario minus. Il vero comparativo *plê-yôs potrebbe essere sotteso dal pleores del Carmen Arvale, benché la rotacizzazione lasci intendere che la forma tradizionale sia stata in parte modernizzata 7. Possiamo perciò tentare una ricostruzione della situazione primitiva: *ple'y6s- *plê-is-,mo che avrebbe dato luogo al latino pleôrplírimo-. In tal caso il sostantivo neutro plous (frequentemente accoppiato con minus) sostituí il comparativo, influenzando quindi la forma del superlativo: donde plüs, plürimus. Il ploirume del Corpus inscriptionum Latinarum I2 9 può essere puramente considerato come un altro esempio del prediletto metodo di raggiungere l'arcaicità sostituendo semplicemente la oi alla ü classica (si veda sopra, pp. 266 sg.).

I pronomi. Occorre distinguere due gruppi: I) i temi dimostrativi e relativo-interrogativo-indefiniti; 2) i pronomi personali. 7 Anche Festo ha modernizzato *pleisima in plisima.

MORFOLOGIA

3II

Il gruppo 1) presenta i temi in -e/0 e in -ã rispettivamente per il maschile e per il femminile, mentre il neutro singolare, nel nominativo e nell'accu'sativo, termina in -od (> ud): ad esempio is-te, is-ta, is-tud. Nel genitivo e nel dativo singolari troviamo invece forme comuni a tutti i generi: -ius, -í“. In molte lingue i pronomi dimostrativi tendono ad assumere forme rafforzate, sia ricorrendo alla combinazione di diversi temi dimostrativi, sia con l'unione di elementi indicativi (cosa che possiamo definire come il fenomeno di «quello là ››, «questo qui ››). Nel latino troviamo entrambi gli aspetti. is-tud è composto dal tema anaforico in i- e dal dimostrativo *ted. ille ha sostituito un piú antico olle, che univa ol (cfr. ul-tra, öl-im) al tema -se (si veda oltre). Le principali particelle dimostrative aggiunte ai temi pronominali sono -ce e -i (si veda oltre a proposito di hic, istuc,

ecc.). La flessione in -ius del genitivo singolare (Plauto scandisce sovente êius, che sottende la pronuncia ejjus, indicata anche EIIVS dalle iscrizioni, ecc.) non trova paralleli in altre lingue. Nell'indoeuropeo la forma era e-syo (sanscr. asya), ed è stata avanzata l'ipotesi che il latino vi abbia aggiunto la -s del normale genitivo (si veda sopra), dato che *esyos dà regolarmente luogo a eiius. Cosí anche huius < *ghosyo-s, cuius < *quo-syo-s (cfr. il sanscr. kásya). Altri studiosi farebbero invece risalire tale forma a cuius, un aggettivo in -ios ancora riscontrabile nel quoius plautino, incorporato nella declinazione (sul genitivo come caso aggettivale si veda oltre, pp. 3 51 sgg.). Gli altri genitivi pronominali erano semplicemente modellati sulla base di quoius. Se si analizza quest'ultimo in quoi-us, era possibile isolare un tema quoi- che, con l'aggiunta della normale desinenza del dativo, dava luogo a quoiei (cosí il latino antico), al plautino quoíí e a quoi. Quest'ultima forma è quella classica, la cui ortografia cui farà la sua prima apparizione al tempo di Augusto. Per quanto riguarda le altre desinenze, solo il genitivo plurale merita qualche commento. -rum va fatto risalire alle forme femminili, che nell`indoeuropeo avevano 3 Sulla forma femminile volgare illae, ecc. si veda a p. 202.

3I2

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

*-ã-söm (ad esempio il sanscr. tãsãm). Al maschile, -ôrum rappresenta un'innovazione analogica, dato che l'indoeuropeo aveva *-oi-sôm (sanscr. têsãm, kêsãm = (is)-tãrum, quôrum). ' hic. Il tema è *ghe/o, ghã- (pp. 280 sg.), con l'aggiunta della particella -ce. Il maschile singolare presenta una -í- nel plautino hic, ricomposto in hicc per analogia con il neutro hocc < *had + ce. Il tema in -i appare anche nelle forme plurali figuranti sulle iscrizioni, heis, heisce e nel plautino hísce. Altrove esso si presenta come ho-, hã-, che, con l'aggiunta di -ce (spesso ricorrente nel latino antico nella forma piena) consente la nota declinazione classica di questo pronome: *hom-ce, *hãm-ce, *had-ce > hunc, hanc, hoc(c). È da notare che il latino antico non aveva neppure introdotto l'a1-tificiale distinzione fra hae (femminile plurale < hã-i) e haec (neutro plurale < *ha + í + pe). Per il genitivo e il dativo singolari si veda sopra. L'ablativo singolare forma höc, hãc < *hód + ce, *hãd + ce. ille. ille rappresenta una modificazione del lat. ant. olle (cfr. ul-trã, ãl-im) sotto Pinfluenza di is, iste, ipse. alle nasce da una combinazione fra ol e se/o (si veda oltre). Sono anche attestate forme che presentano una flessione aggettivale: ollus, olla. Di quando in quando vi si trovano unite particelle dimostrative: illaec, illuc, illunc, ecc. Il nominativo plurale ricorre nella forma illisce in Plauto (cfr. heisce, ecc., sopra). Per il genitivo e il dativo singolari si veda sopra. iste. È un altro dimostrativo composto, di cui solo la seconda parte viene declinata. Anche qui possono essere aggiunte particelle dimostrative: nominativo singolare maschile istiç, femminile istaec, neutro istuc, ecc. Il genitivo ha normal-

MoR1=oLoG1A

313

mente la desinenza -ius (si veda sopra), ma esiste una forma isti (con la normale desinenza di un tema in -0) che appare in istimodi. Il lat. ant. istis (Plauto) non rappresenta probabilmente una forma sincopata di istius, bensí isti + la s genitivale. 18.

Questo tema, usato nell”indoeuropeo in correlazione con il pronome relativo, appare nei gradi apofonici i/ei. Il grado debole fa la sua comparsa nel nominativo del maschile e del neutro, i-s, i-d, mentre il previsto im dell'accusativo ricorre nelle Dodici Tavole. In una forma secondaria del nominativo, al grado pieno veniva aggiunta una particella -om: *eni-om (sanscr. ayam), che venne usato in latino come accusativo maschile singolare, *ejom > eum, donde venne creato un nuovo tema, *efiio-, con la corrispondente forma femminile *e_iã-. Nel nominativo maschile plurale *eioi regolarmente > *eiei > ei > i. L'ei dissillabico venne rico-

stituito per analogia con eum, ecc. Anche qui troviamo nominativi in -s: is, eis, eeis e ieis. Le forme plurali attestate del dativo e dell'ablativo rappresentano i previsti prodotti di *eiois, *eiais, cioè eis, is, con i ripristini disillabici eeis, ieis, ecc. Il lat. ant. ibus è, a quanto pare, il previsto risultato di *ei-bhos (sanscr. ebhyás). Per il genitivo e il dativo singolare si veda sopra. A questo tema venne aggiunta una particella -em: il nominativo neutro singolare id-em, erroneamente analizzato, ha dato luogo alla particella dem, che venne aggiunta a is, ea, ecc. determinando idem, eãdem, ecc. Per gli avverbi ibi, ecc. si veda oltre. so-, to-. L'indoeuropeo possedeva un pronome dimostrativo *so, ,lg , . z z 1 8 sa, tod, che aveva fra laltro creato 1 gr. 0, 7;, ro( Ennio presenta le forme accusative som, sam, sös, sãs, che possono essere accolte qui, mentre to- appare in tum, topper (< *tod-per), ecc. Anche si(c) rientra in questo gruppo: è la forma locativa *sei(ce). I* _

3 I4.

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

ipse. Nelle forme latine antiche eumpsum, eampsam troviamo una combinazione fra il tema eio- e som, sam (la p è una consonante sdrucciolante come in sumpsi < sum-si). Questo som, sam è probabilmente da distinguere dal precedente e risale al riflessivo *suos Dalle forme dell'accusativo venne ricavato un tema -pso, -psã che compare nel nominativo femminile eapsa, maschile ipsus, ecc. Quest'ultimo venne assimilato a iste e ille, dando cosi luogo alla normale declinazione ipse, ipsa, ipsum. Si noti che l'assimilazione del neutro ipsud a illud, ecc. non si verificherà, nella storia dellatino, se non tardi. Per il volgare isse, issa, si veda sopra,

p. 198. Interrogativi-indefiniti-relativi. Il tema interrogativo-indefinito dell'indoeuropeo aveva la forma qui- quei-, la stessa per tutti e tre i generi: quis, quid. Il previsto accusativo *quim acquistò la -em dei temi consonantici (si veda sopra). Il qui strumentale persiste come avverbio, mentre il nominativo plurale *quei-es diede luogo al quês del Senatus Consultum de Bacchanalibus. Il neutro plurale quia venne conservato solo come congiunzione. Il plurale del dativo-ablativo, quibus, rimase come una caratteristica della declinazione regolare. In italico si formava un corrispondente tema relativo quo- qua-, che al maschile (quoi > quei > qui) e al femminile (quae) mostra la particella dimostrativa -i. quod presenta la normale -a' dei neutri. Nell'accusativo, quom si conservò solo come congiunzione, e venne sostituito da quem (si veda sopra). Per il genitivo (quoius, ecc.) e il dativo singolari, si veda sopra. Le forme plurali sono prodotti regolari di *quoi, *quai, quäi, ecc. Il nom. plur. -quãs è una forma dialettale per quae (si veda sopra, p. 295). Una forma secondaria quis nel dativo-ablativo plurale continua *quois, *quais.

MoR1=oLocm

315

I pronomi personali. ego, tu sono forme indoeuropee ereditate (gr. šyoß, 16, o'\'›). Una forma allungata in -om appare nel gr. šytßv, nel sanscr. ahám 9, ed è questa la base del lat. egom-et da cui, in virtú di un'analisi errata, venne ricavato un suffisso -met: ad esempio mihi-met, ecc. Nell'accusativo, mê, té continuano le forme accentate indoeuropee (il greco presenta ue, oe non accentate). Nell'indoeuropeo venivano usate le forme enclitiche *moi, *mei, *toi, *tei con funzione di genitivi, dativi e locativi. Estese con l'aggiunta della -s genitivale, *mei-s, *tei-s formarono la base per il lat. ant. mis, tis. I classici mei e tui vennero ricavati dagli aggettivi possessivi, mentre mihi e tibi risalgono a *meghei, *tebhei (umbro mehe, teƒe). Il sanscrito rivela la presenza delle stesse consonanti nella flessione mahyam, tubhyam, ma tali forme presuppongono l'ie. *meghi, *tubhi, con l'aggiunta di una particella probabilmente connessa alla -om di *eg-om. Nell'ablativo, l'indoeuropeo aveva *mëd non accentato e *mêd accentato. Il primo è conservato nel sanscrito (mãt); il secondo appare nel lat. ant. mêd (cfr. tëd < *tuêd Tali forme vanno distinte da quelle accusative del latino antico, mêd, têa', nelle quali la particella aggiunta, -d, è di origini oscure, ed è difficile pensare a una confusione fra accusativo e ablativo, o alla sua provenienza dai pronomi neutri. Le forme dei pronomi riflessivi presentano una stretta somiglianza con le precedenti. se'(d) < *sue (il gr. ë continua nella forma breve non accentata). Il genitivo sui è ricavato dall'aggettivo possessivo. sibi < *sebhei con assimilazione della e in i e abbreviazione giambica come nel precedente caso di mihi, tibi. Anche l'ablativo sé-d è parallelo a mêd e ted. nös e 'vös costituiscono forme accentate ereditate, corrispondenti al non accentato sanscr. nas, vas. nostrum e vestrum sono genitivi plurali di noster e oester. Le corrispondenti forme singolari, nostri e vestri, vennero specialmente usate come genitivo « oggettivo ››, e compaiono per la prima 9 La consonante aspirata suggerisce l`analisi *egH-om.

3 IÖ

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

volta in Terenzio. Il latino ricostituí il dativo e l'ablativo aggiungendo la desinenza -bhei ai temi nô-, 'vö- ricavati da nös e vãs. A *nôbhei e *vöbhei venne aggiunta una -s per analogia con la comune flessione in -bus. Gli aggettivi possessivi furono formati con Paggiunta di una -o- tematica ai temi pronominali, *mej-o-s > meus; *teu-o-s (gr. refóç) > lat. ant. tooos > tuus; *seu-os (gr. šfóç) > sovos (ad esempio il dat.-abl. plur. del latino antico soveis) > suus. Nel plurale il suflisso contrastivo -ter(o) venne aggiunto alle forme brevi nãs, vãs. Il lat. ant. noster fu mutato in oester (p. 265). Il vocativo singolare maschile mi è rintracciabile nel genitivo enclitico *mei di cui abbiamo parlato sopra.

I numerali. I cardinali. Per quanto riguarda ünus < *oino- si veda sopra, p. 267. La radice *sem, (donde il gr. sig, pia, åv) appare in sem-el, sim-plex, sin-guli e sem-per. duö (duö per abbreviazione giambica) è una forma ereditata < *ie. duuö(u). Questo numerale aveva in origine le flessioni del duale, fra cui si sono conservate nel latino le seguenti: accusativo maschile plurale duo (Plauto); neutro duo. Le desinenze plurali duös, duom e duörum, il dativoablativo duóbus e inoltre l'intera serie delle forme femminili duae, ecc. costituiscono delle innovazioni, in quanto in origine duö era sia maschile che femminile. Un'altra forma ereditata è ambö (gr. ôíucpw). trés (maschile e femminile) rappresenta il regolare prodotto di *treies (gr. rpciç, sanscr. trayas). Il vocabolo corrispondente a « quattro ›› rivela una gradazione vocalica con generalizzazione di diverse forme nei differenti dialetti indoeuropei. Il latino quattuor può essere fatto risalire a *q“'etuores, con una vocale ridotta nella prima sillaba e il grado o, caratteristico del nominativo, nella seconda (cfr. il dor. té-ropeç). Il latino ha eliminato le flessioni, rendendo questo numerale indeclinabile. Non vi

MoRFo1.oc1A

317

è alcuna spiegazione convincente per la forma quadruusata nei composti. Per quanto riguarda quinque < italico qwenqwe < ie. *penq"'e, si veda sopra, p. 276. sex potrebbe derivare sia da *seks che da *sweks: gr. ëš, Féš. Per septem < *septm (gr. årvroi), si veda sopra, p. 274. 'octã < *okt6(u) è una forma duale di una parola significante «una serie di quattro dita ›› (conservata nell'avestico ašti 'una ampiezza di quattro dita'). novem deriva da *new-gi (cfr. nãnus, ingl. nine). Il previsto *nooen venne trasformato per influenza di septem e di decem. I' numerali dal venti al novanta sono derivati da un tema nominale *(d)kmti- col significato di «una serie di dieci ››. Il duale è ravvisabile in -viginti, in cui vi- (cfr. il dor. FExovn) può essere affine all'avverbio sanscrito vi 'a parte'. I restanti numerali del gruppo conservano il plurale neutro in -ã (si veda sopra, p. 298). tri- e quadrã-1° sono neutri plurali, e la -ã venne allungata per analogia con quinquágintã, sexãgintã, septuãgintã, nonãgintä. octöginta sostituí probabilmente *octuãgintã (cfr. il gr. Öy3o(F)*fptovTot), che influenzò la forma di septuãgintã. Per centum < *(d)kmtom si veda sopra, p. 274. I numerali dal duecento al novecento sono semplicemente dei composti dei numerali cardinali dal due al nove e centum. In origine indeclinabili, essi furono considerati, in latino, come aggettivi numerali. ducenti, trecenti, sescenti conservarono la c, che venne sonorizzata in nöngenti, ("*no°uem-genti), quingenti, donde anche lo -ingenti di quadringenti, septingenti, octingenti. Non sembra che l'indoeuropeo abbia avuto una parola corrispondente a « mille ››, e il lat. mille non ha consimili. Gli ordinali. Gli ordinali mostrano i suflissi -io- e -mo-, di cui abbiamo già detto parlando degli aggettivi comparativi. 1° La il resta inspiegata.

3I8

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

primus < *pris-mo-s, superlativo di prius. secundus è un aggettivo verbale (si veda il gerundivo) del verbo sequor: < *seqwondo-s. tertius < *trityos, tramite *trtyos (p. 274). quartus. La forma originaria sembra sia stata *qwtru-tós con il grado zero del numerale (cfr. l'osco trutum = quartum). Il vocabolo latino potrebbe essere basato su *q“'atwortos, in cui è stata reintegrata la forma piena del numerale cardinale, con caduta della prima dentale per aplologia. Il prenestino conserva la prevista contrazione quorta, ulteriormente trasformatasi nel latino in quartus, sotto l'influsso della forma cardinale. quintus (< *'quinq“'tos) e sextus mostrano il suffisso -to. septimus, octãvus (per 611 > ãv si veda sopra, p. 265) e decimus sono aggettivi formati con l'aggiunta della -o- tematica al cardinale. Questo stesso tipo di formazione è rilevabile in *no'venos, che avrebbe prodotto regolarmente *nünus, se la qualità vocalica della ö non si fosse conservata per influsso di novem. L'ordinale «ventesimo ›› è formato grazie all'aggiunta del suffisso -temo (si vedano i superlativi): foi-kront-temo > *vicenssimos (per t-t > ss si veda sopra, p. 284) > vicësimus. Gli aggettivi numerali moltiplicativi sono composti in cui il secondo elemento è costituito da 1) plo- dalla radice plê- `pieno' (duplus, triplus, ecc.), oppure 2) plek- dalla radice significante « piega ›› (simplex, duplex, ecc.). Fra gli avverbi corrispondenti, semel contiene il numerale sem-, ma il suflisso non trova spiegazione. bis ("'“duis), ter (""tris), quater (*qwatrus) contengono una -s avverbiale. La desinenza -ie'ns, che compare in altri avverbi rientranti in questa classe, ebbe probabilmente origine nei derivativi pronominali quotiens, totiens, in cui, in base alla testimonianza degli equivalenti sanscriti, possiamo isolare un suffisso *-ig1t- > lat. *-ient-, che, unito alla -s avverbiale appena presa in esame, avrebbe dato luogo alla -iêns. Gli aggettivi numerali distributivi, con l'eccezione dell'isolato singulus (< *sem-gelo), sono formati con il suffisso -n- dagli avverbi moltiplicativi: *duis-noi > bíni, *tris-noi > terni (con ter ristabilito al posto del previsto sviluppo fonetico *trini).

Monroroom

3 19

I verbi. Flessioni.

Attivo. Le flessioni del verbo indoeuropeo riguardavano fondamentalmente l'indicazione della persona, comprendente la categoria del numero (singolare e plurale). Cosí -m, -s, -t rappresentavano la prima, la seconda e la terza persona singolare, e -me/o, -te e -(e/o)nt le corrispondenti forme plurali. In una determinata fase, nell'indoeuropeo venne aggiunta una particella -i per indicare «qui e ora ››. Da ciò nacque la distinzione fra desinenze primarie e secondarie, con riferimenti temporali rispettivamente al presente e al passato: -mi : -m, -ti : -t, -nti: -nt. È da presumere che la particella -i avesse in origine un carattere opzionale: essa non appare nelle forme «noi» e « tu ›› del verbo, ed è da dubitare che -si della seconda persona singolare possa es-

sere attribuita all'indoeuropeo. Un'ulteriore distinzione da fare è quella tra le forme tematiche e atematiche del verbo. Nei paradigmi verbali come *bhero-mes, *bhe-re-te, *bhero-nti, ecc. il tema che appare togliendo la desinenza risulta finire in una vocale -e/o, detta vocale tematica. Altri verbi come *ei-mi, *i-mes, il cui tema è privo di tale vocale, sono detti verbi atematici. Tale distinzione, evidentemente grossolana, è di fondamentale importanza nella morfologia verbale indoeuropea, in quanto le due classi di verbi si distinguono, fra l'altro, a seconda della maniera in cui formano i diversi modi (si veda oltre). Tuttavia nelle flessioni la distinzione è introdotta solo nella prima persona singolare attiva: -6 è fondamentalmente tematica e -mi essenzialmente atematica. Medio. I/indoeuropeo distingueva due «voci ››. Nell°« attivo ›› l`uzione verbale era diretta verso l'esterno a partire dal soggetto «ergativo›› (si veda oltre, p. 346). Nel «medio ›› 1'azione era intesa come operante nel o sul soggetto: Fazione ha luogo nella persona del soggetto, interessa il soggetto, ecc.

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GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

Cosí verto 'volto (qualcosa)' si contrappone a vertor 'il voltare ha luogo in me'; -rcopišco “fornisco”, r:opiCop.ou 'mi fornisco, mi procuro '. In tal modo le forme medie del verbo, denotando fra l'altro le azioni che si verificano nella persona del soggetto, erano impiegate anche per esprimere il passivo, per il quale l'indoeuropeo non aveva alcuna forma morfologica distinta. Le desinenze del medio furono create aggiungendo varie particelle alle primitive desinenze personali, e anche in questo caso, verosimilmente, la distinzione temporale fra tempi principali e tempi storici costituí un tardo sviluppo nella storia dell'indoeuropeo. Le sole desinenze medie indoeuropee che interessino agli effetti dello studio delle flessioni latine sono -so, -to, -nto, che appaiono nel greco come desinenze medie secondarie rispettivamente della seconda e della terza persona singolare e della terza persona plurale, in opposizione alle desinenze primarie -sai, -tai, -ntai. Il tempo perfetto ha, nel singolare, una serie di desinenze distinte dalle precedenti: -a, -tha, -e. Possiamo ora procedere all'esame delle flessioni verbali latine. Prima persona singolare. Primaria. La -mi atematica è conservata solo in sum, con la perdita della -i. Altrove l'originaria -6 tematica venne generalizzata: eo, fero, amo, moneo. La stessa desinenza è riscontrabile nel futuro *-bhã (p. 330). Il lat. ero è un antico congiuntivo *esö (p. 330). Secondaria. Il latino conserva la -m: amabam, ferebam, amaveram, ecc. Questa desinenza appare anche nelle forme congiuntive e ottative: amem, regam, sie_m, ecc. Seconda persona singolare. In latino, a causa della perdita della -i finale, non c'è distinzione tra forme primarie e forme secondarie: ducis, amas, eras, amabas, sies, ecc. L'ess di Plauto è spesso rapportato all'omerico šooi. Vi sono però testimonianze, in Omero, di una forma piú antica, sig, che rappresenta semplicemente un modo di indicare una sillaba lunga, z-'zo'-g. Questa forma piú antica ricevette una -i per l'influsso esercitato da šcri: šaci. L'ess di Plauto può essere quindi rapportato alla piú arcaica forma omerica. È da dubitare

MORFOLOGIA

32 I

che, di fatto, l'indoeuropeo abbia sviluppato una forma primaria distinta per la seconda persona singolare, piú di quanto abbia fatto per quella plurale. Terza persona singolare. Il latino antico distingueva ancora la -t primaria (< *-ti) dalla -d (< *-t, p. 276) secondaria; ad esempio esed, feced, sied. La medesima distinzione risulta nell'osco-umbro: ƒust *erit', fusid “foret”. Nel latino classico la -t primaria venne generalizzata: dedit, fecit, siet, esset, ecc. Prima persona plurale. In latino non v'è traccia della desinenza secondaria *-mo, ma si ha una generalizzata presenza di *-mos > -mus: ducimus, ducebamus, duximus, ecc. Una diversa gradazione vocalica *-me appare nel gr. dor. cpépoueç, ecc. Seconda persona plurale. Il latino -tis proviene da *-tes, in cui la -s della corrispondente forma singolare è stata aggiunta alla *-te rilevabile nel gr. cpéps-re, ecc. Terza persona plurale. L'osco-umbro distingueva fra la -nt primaria < *-nti (ad esempio sent = sunt) e la -ns secondaria < *-nt (ad esempio deicans = dicant, sins = sint). Il latino ha solo -nt, dalla generalizzata *-nti primaria, di cui l'unica testimonianza diretta è l'incerto tremonti del Carmen Saliare (n. 53). Le desinenze estese -nont, riscontrabili negli arcaici danunt, explãnunt, redinunt, nequinont, restano inspiegate. Se la -n costituisce un suffisso formante il tema (p. 325), è difficile spiegare come mai essa compaia solo in questa persona. È probabile che tali flessioni siano nate da forme dialettali in cui la -t finale era caduta (ad esempio dedron dederont). Quindi '*dan, *explen, ecc., mancando la caratteristica -nt, vennero estese dalla consueta -ont. Voce medio-passiva. Nell'italico e nel celtico le flessioni delle voci medio-pasaive sono caratterizzate da una -r, mancante invece nel

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GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

greco, nel sanscrito, nel germanico, ecc. Questa -r può essere eguagliata in primo luogo alla desinenza che nell'osco-umbro distingue il passivo impersonale: ad esempio fera-r = *è da trasportare, si dovrebbe portare', tipo riscontrabile anche nell'irlandese antico. Ciò corrisponde all'uso del passivo impersonale risultante nel lat. pugnatur 'si combatte'. Cosí le forme latine -tur, -ntur, ecc. possono essere spiegate come combinazione delle flessioni del medio con la -r dell'impersonale. Non è chiaro il rapporto esistente fra questa r formante e la -r- che appare con molte funzioni nei paradigmi verbali di altre lingue indoeuropee (indo-iranico, frigio e armeno, tocarico e ittita). È possibile che le forme semplici in -r dell'italico e del celtico fossero in origine nomi verbali destinati a designare semplicemente l'azione. Prima persona singolare. In -or (lat. ant. -ôr) la -r è stata semplicemente aggiunta alla desinenza tematica primaria -ó. Altrove essa risulta aggiunta al tema verbale: amer, regar, amabar, ecc. Seconda persona singolare. La forma latina piú antica è -re, sviluppatasi regolarmente dalla desinenza secondaria media -so (p. 271): cosí sequere manifestamente = gr. išrreo (*seq'”e-so). Nelle forme che non siano quelle dell'imperativ(,, viene aggiunta una -s, per analogia con l'attivo *-es: *sequere-s > sequeris. Nelle occasionali forme dialettali spatiarus, utarus, la -s dev'essere stata aggiunta a -so prima che la finale -0 si sviluppasse in -e. Terza persona singolare. -tur nasceva dall'aggiunta di -r alla desinenza media secondaria -to. Prima persona plurale. -mur < -mo secondaria + r. Seconda persona plurale. Le forme in -mini vengono normalmente spiegate come

MoR1=oLociA

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nominativi del participio presente medio usato in perifrasi quali *feromenoi (este) (gr. cpepóiievoi šcsre), da cui venne tratto un suffisso, -mini, applicato ai vari temi verbali: regebãmini, ecc. Ciò tuttavia appare improbabile, e altri studiosi fanno invece risalire tali forme ad infiniti in -menai, che erano usati in senso imperativo. Essendo tale forma identica al modo imperativo, essa verrà piú adeguatamente esaminata in seguito. Terza persona plurale. -ntur è nata dall'aggiunta di -r alla flessione media secondaria -nto. Per le flessioni del perfetto si veda oltre, pp. 334 sg. Per l'imperativo si veda oltre, pp. 336 sg.

La formazione dei temi -verbali. I temi temporali. Chi 'studia il greco si avvede subito della necessità di distinguere tre temi temporali: ad esempio presente N-:irc-, aoristo Mn- e perfetto }\e-)\oi1r- (corrispondenti all'ingl. drive, drove, driven, si veda sopra, pp. 286 sgg.). Egli dovrà inoltre imparare che questi temi, con l'eccezione dell'indicativo, non hanno un riferimento temporale, ma si riferiscono al tipo di azione: il cosiddetto tema del presente rappresenta un'azione continuativa (il tema durativo), il tema dell'aoristo (7\L'rt-) un'azione momentanea e il tema del perfetto (Àe-Àoirt) lo stato risultante da un'azione. In tal modo il tema del presente lfviqoxciv significa 'stare morendo', åìotveiv `spirare' e ^ref}vo'cvoti 'essere morto'. Questa, che è la dottrina prevalente nelle grammatiche scolastiche, richiede una modifica soltanto in un punto: il tema come tale non ha un riferimento temporale neppure nell'indicativo, essendo il riferimento al passato contenuto nell'aumento, che viene messo davanti al verbo, e nelle desinenze secondarie. Cosí da un unico e medesimo tema durativo lieve/o possiamo formare un tempo presente Àéyw c un passato Fs'-Àeyo -v. Queste diverse rappresentazioni del-

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GRAMMATI CA STORICO-COMPARATIVA

l'azione verbale, durativa, aoristica e perfetta, determinate dai differenti temi «temporali» sono note come «aspetti» del verb_o. La situazione presente nel greco riflette quella dell'indoeuropeo. La definizione di «durativa» data alla funzione del tema del «presente ››, rispetto a quella «momentanea ›› dell'aoristo, non esaurisce tutta la questione. Nel Fedone di Platone, ad esempio, gli amici di Socrate attendono fuori della prigione dopo la condanna a morte. Il carceriere li invita a entrare, e «trovammo Socrate appena liberato dalle catene». Qui il verbo tradotto con «trovammo›› è xaraìoqißáveiv, che significa « cogliere ››, «sorprendere ››. L”azione cui esso si riferisce è chiaramente momentanea, ma tuttavia Platone usa la forma durativa xorreÀaußávoiiav. Questo è solo uno dei molti esempi da cui si ricava che la differenza essenziale fra gli aspetti del «presente» e dell'«aoristo›› non è quella fra azione continuata c azione momentanea, ma risiede nel fatto che il tema durativo appare piú immediato e vivido: esso fa balzare agli occhi l'evento in una progressione cinematografica. Possiamo definirlo «aspetto oculare» o «di presenza». L'aoristo, invece, riferisce con minor vivacità l'evento inteso come unità storica. Un unico e medesimo evento, per quanto momentaneo, può essere rappresentato come se stesse svolgendosi dinanzi ai nostri occhi: u.ot'reÀotp.ßoivop.ev “là noi venivamo sorprendendo Socrate', oppure xarekoißousv 'trovammo Socrate'. Allo stesso modo ßvficuetv ci pone dinanzi all'agonia della morte, fiotveiv riferisce il fatto della morte e -reflvoivoti lo stato della morte`. In latino i tre aspetti del verbo indoeuropeo vennero ridotti a due, in quanto il suo sistema verbale si limita a contrapporre l'inƒectum al perfectum; quest'ultimo unisce in sé le funzioni dell'aoristo e del perfetto originari. Per ciascuno di questi due aspetti venne sviluppato un completo sistema di tre tempi, presente, passato, futuro: dico, dicam, dicebam: dixi, dixero, dixeram. La nostra esposizione dei sistemi dei tempi latini si divide perciò in due parti: la formazione dei temi 1) dell'infectum e 2) del perƒectum.

1vioRFoLoGiA

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Temi dell'infectum. Sarà opportuno iniziare indicando alcuni esempi dei principali accorgimenti morfologici in base ai quali l'indoeuropeo formava il suo aspetto verbale progressivo («oculare ››). La nostra scelta cadrà sugli elementi piú pertinenti al latino. I. Temi radicali che possono essere a) atematici, ad esempio *ei-mi, oppure b) tematici, *deik-6. Il tipo atematico mostra alternanze apofoniche, con il grado pieno per il singolare e il grado debole per il plurale: ad esempio *ei-mi, *i-me/ós. Il latino conserva ancora alcune tracce del tipo atematico: ad esempio i-s, i-t (< *ei-s, *ei-ti); -volt, 'vult < *uel-ti; vi-s dalla radice *uei 'desiderare'; és, ëst < *ed-s, *ed-ti ` mangiare ' ;ƒer-s,ƒer-t, < *bher-s, *bher-ti; per *es 'essere' si veda oltre, p. 328. Ma i temi radicali latini sono per lo piú del tipo tematico, düco, dico, ecc.

Ii. Temi con raddoppiamento. Anch'essi si dividono in

III. Iv.

v.

vi.

a) atematici e b) tematici, ove a) mostra ancora una gradazione vocalica come nel gr. 'ri-31;-p.i: 'ri-Â-le-p.ev, Si-Sw-ui: Si-So-uev. Nel tipo tematico raddoppiato la radice appare normalmente nel grado zero: ad esempio gi-gn-o (radice *gen), sido < *si-zd-6 (radice *sed), sero < *si-s-6 (radice *sé/sa, cfr. se'-vi, sà'-tus). Temi con infisso nasale: ad esempio iu-n-go (radice *yeug/yug), lin-quo (radice *leiqw/liqw), scindo, rumpo. Temi con suflìsso nasale: ad esempio gr. xoip.-v-o›, Saiu-v -oa, lat. cer-n-o (*krinö), ster-no, si-no (perfetto sivi), pello < *pel-nó, tollo < *ll-nö (cfr. il perfetto tuli). Verbi incoativi in -skô: gr. ßáoxw, lat. posco (< prk, grado zero di prek + sko). Questo tipo è riscontrabile anche con raddoppiamento: yi-Yvoß-oxm. Il lat. gnôsco può anche provenire da una forma raddoppiata. Gli sviluppi fonetici hanno messo in ombra disco < *didk-sko, con il grado zero della radice riscontrabile in dec-et, doc-eo. Di grande importanza è il suflìsso -ye/yo. 1) Esso può

326

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

essere unito a una radice verbale: ad esempio spec-io (radice con grado normale), venio (radice con grado zero *gwm-yo: cfr. ßocivco). Il suflìsso può anche essere aggiunto a temi del presente già caratterizzati: fvinc-io. 2) Con l'aiuto di questo suffisso vengono formati dei verbi da nomi (verbi «denominativi››). Se esso viene unito a un tema vocalico, si ha la perdita della -y- intervocalica. Da ciò si ricavano i seguenti tipi: a) dai temi in á: ƒugo, ƒugãre < *ƒugã-yö; b) dai temi in e/0: albeo, audeo (da avidus); c) dai temi in i : finio; d) dai temi in u: metuo; e) da temi consonantici: custodia. Dai denominativi albeo, ecc., dobbiamo distinguere 1) i verbi causativi in -éyö unito al grado o della radice, come in moneo, doceo, torreo, ecc.; e 2) i presenti esprimenti uno stato, formati dall'aggiunta di un suffisso -ê (impiegato per la formazione dei passivi aoristi greci come š-uoivr; -v) alla radice verbale: ad esempio oidêre, tacêre, iacêre (in contrapposizione al transitivo iac-io), ecc. Queste molteplici formazioni dei temi vennero organizzate dal latino nelle quattro coniugazioni che le grammatiche scolastiche ci hanno ormai rese familiari. La prima coniugazione è costituita per lo piú da denominativi in -yo modellati sul tipo fuga, fugãre. Oltre a questi, troviamo alcuni verbi atematici provenienti da radici terminanti in una ä lungazƒãri (cfr.fa'tum, gr. dor. cpã-iii). Anche stãre può rientrare in questo tipo. I verbi irregolari della prima coniugazione, come domãre, sonãre, con i perfetti domui, sonui, sono formati da radici disillabiche, *domã, *sonã, con il suffisso -ye/yo. I gradi deboli di queste radici, *doma, *sona, compaiono nel participio -to (pp. 340 sgg.): domitus, sonitus. La seconda coniugazione comprende: 1) verbi atematici con radici terminanti in -E, ad esempio plêre, flêre; 2) i denominativi in ye/yo derivati da temi in e/o; 3) icausativi del tipo moneo; e 4) le formazioni in ê, in origine intransitive, esemplificate da vide"-re. La quarta coniugazione contiene I) i temi radicali (scio, ƒio); 2) i denominativi derivati da temi in i (finio, vestio); e

MORFOLOGIA

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3) un gruppo di verbi nei quali la radice è stata estesa dal suflisso -i, alternantesi con -i sulla base di un curioso principio ritmico. I temi consistenti in una sillaba lunga o in due corte hanno i: audíre, sãgire, vãgire, ƒarcire, sarcire, sëpëlire, åpërire, ãpërire. Essi si contrappongono a iãcio, iãcëre, cåpio, cãpëre, fãcio, ƒãcëre, ƒügio, ƒügëre, quãtio, quãtëre (tutti con la ë, anziché la i, dinanzi a -r, secondo quanto detto a p. 269). Si noti che in ferire, salire, 'venire la vocale breve è seguita da una sonante. pario, parere, morior, mori rappresentano delle eccezioni. La distribuzione secondo un chiaro principio ritmico potrebbe far pensare che la -i di capis, ecc. sia dovuta all'abbreviazione giambica di capis. Ma il tipo è indoeuropeo: ad esempio got. hajfia 'sollevo' sanscr. kupyati (latino cupio). Dobbiamo perciò postulare due forme di questo suflisso primario: -i e -i (probabilmente un prodotto di i + laringeo). Per quanto riguarda la flessione di queste tre coniugazioni, le vocali ã, E, i, dopo la scomparsa della -y- intervocalica, si sono contratte con le vocali successive. Cosi *amãye-s, *amãye-t > amãs, amãt (abbreviato in amãt nel latino classico), e tale forma del tema amã- venne generalizzata con l'eccezione di amö < *amãy-6. Anche nei denominativi e nei causativi della seconda coniugazione, *moneye-s, ecc. > monês, ecc. Alla generalizzazione di questa forma del tema monê- ad altre persone (eccettuato moneo < money-6) contribuí la ricorrenza di vidê-s, 'vide'-mus, vident, ecc. nei quali le desinenze erano aggiunte direttamente al tema 'vide'-. Nella quarta coniugazione, audio e audiunt sono i regolari prodotti di audi-6, audi-ont. Nelle altre persone, audis, ecc. seguono lo sviluppo riscontrabile nella prima e nella seconda coniugazione. ` La terza coniugazione comprende la restante parte dei tipi elencati alle pp. 325 sg.: 1) verbi tematici radicali, come dico, ago, ecc.; 2) i temi raddoppiati gigno, ecc.; 3) temi con infisso nasale, rumpo, ecc.; 4) temi con suffisso nasale; 5) incoativi in -sco; 6) una quantità di suffissi meno frequenti, non elencati sopra, ad esempio -to (necto), -do (tendo),~-so (suifisso desiderativo ravvisabile in quaesso, 'oiso; da quaesso è stato ricavato un suflisso -sse/0 riscontrabile in petesso, lacesso, capesso).

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GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

In questa coniugazione la vocale tematica e/o mostra il consueto indebolimento in -i nelle sillabe non accentate (p.

269): *-esi, *-eti, *-ete-s> -is, -it, -iris, *-omos> -imus, *-anti > -unt. Alcuni verbi anomali. sum. La radice es 'essere' come verbo atematico aveva in origine il grado pieno della radice al singolare *es-mi, *es-s, *es-ti, e il grado zero al plurale *s-mos, *s-te, *s-enti. es ed est sono i regolari prodotti di questo sistema. Il grado pieno venne introdotto nella seconda persona plurale, estis, per analogia con il singolare. A s-enti fu data la desinenza tematica s-onti (donde sunt), il che influenzò la forma della prima persona plurale, *somos > sumus; da questa venne creata una nuova prima persona singolare, sum, in sostituzione di *esmi. possum accoglie in sé un aggettivo pote o potis + sum: ad esempio il lat. ant. potisit, potis est. potest deriva dalla contrazione della forma neutra pote con est. volo rappresenta un antico verbo atematico *wel. La terza persona singolare volt è il regolare prodotto di uel-ti (si veda sopra, p. 264 a proposito di el > ol). Nel plurale *vl-te-s, con grado zero, ha dato luogo a voltis. Nella terza persona plurale la sostituzione della desinenza tematica -ont costituí il punto di partenza per lo sviluppo delle forme tematiche volumus, volo. vis, come si ricorderà, è formato da una diversa radice, *wei, riscontrabile anche in in-vi-tus. nölo e mãlo rappresentano delle contrazioni rispettivamente di ne-volo e mag(i)s-volo. Nel latino antico ricorrono forme non contratte, ne vis, ne volt, mã-volo, mã-velim. Anche fero presenta le forme atematiche ƒers, fert, fertis (cfr. il gr. *regezbãm (con sincope della vocale non accentata) > regêbam. Nella quarta coniugazione la forma piú frequente d'imperfetto è audiêbam. Ma in tutta la storia del latino ricorre anche, benché con meno frequenza, il tipo audibam. Si tratta probabilmente di una forma analogica determinatasi sul modello di amãre: amãbam, monêre: monêbam :: audi-re: audibam. È da notare la creazione di una corrispondente H Si noti che la stessa forma verbale ricorre nei composti arë-facio, putrë-facio, ecc.

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GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

forma futura audibo, ricorrente non meno spesso dell'imperfetto audibam. Futuro. L'indoeuropeo non aveva indicativo futuro e le lingue da esso derivate hanno autonomamente creato delle forme speciali con tale funzione, dalle espressioni di volere, desiderio, probabilità, ecc. Fra queste espressioni era il congiuntivo indoeuropeo con la sua duplice funzione, consistente nell'esprimere volontà e probabilità (congiuntivo desiderativo e di probabilità: si veda oltre, pp. 373 sgg.). La morfologia del congiuntivo verrà presa in esame piú oltre. Per ora basterà dire che il latino ha elaborato due forme di congiuntivo, 1) in -ã, 2) in -E. La prima venne usata per assolvere le tradizionali funzioni del congiuntivo (pp. 373 sgg.), mentre la seconda si specializzò nell'espressione del futuro. Donde la divisione di compiti fra le due serie di forme nella terza e nella quarta coniugazione: regãs, regãt, ecc., congiuntivo; regês, regët, ecc., futuro. In quest'ultima serie la prima persona singolare regô era identica a quella dell'indicativo presente, per cui la forma regam dell'altro sistema dovette svolgere entrambi i compiti. Tuttavia nella prima e nella seconda coniugazione lo sviluppo fonetico neutralizzò l'uno o l'altro dei due congiuntivi; cosí amãy-ãs divenne identico all'indicativo amãs, mentre nella seconda coniugazione tale sorte toccò al tipo in -é: money-ês. In tal modo in queste due coniugazioni le funzioni del congiuntivo vennero affidate unicamente ai tipi amês e mone-ãs rispettivamente. Il divario venne colmato grazie alla creazione di un nuovo futuro perifrastico sulla scorta dell'imperfetto: si trattò di una combinazione fra i temi verbali amã-, monë-, con un congiuntivo con vocale breve (p. 337) della radice *bhu: *bhw6, *bhwe's, ecc., che diede luogo alla forma attestata amã-bis, monê-bis. Per quanto riguarda l'innovazione analogica audibo per audiam, si veda il paragrafo precedente. ero, eris, ecc. hanno dato origine a un congiuntivo con vocale breve della radice *esz *es6, ese-s, ese-ti. In un certo numero di lingue il futuro è costituito dalle forme desiderative del verbo con il suffisso -s (cfr. quaes-so

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e il futuro greco Ãü-0-co, ecc.). Tale potrebbe essere l'origine delle forme latine come capso, ƒaxo, dixo. I futuri in s sono anche occasionalmente formati, nel latino antico, da temi in á- ed ê-. La -s- rimase non rotacizzata e venne rappresentata come -ss-: amãsso, enicãsso, commonstrãsso, cui possiamo paragonare i verbi desiderativi del tipo quaesso, capesso, lacesso (p. 330), e gli «ottativi» servassint, ecc. (p. 338). Si noti che Plauto usa talvolta gli infiniti in -assere per il futuro in -turum: ad esempio «illum confido domum in his diebus me reconciliassere›› (Captivi 168). Il perfectum. Questa parte del verbo latino, con la sua duplice funzione corrispondente all'aoristo e al perfetto indoeuropei, comprende temi tratti da entrambe queste serie di temi temporali. Gli antichi temi del perfetto sono piú evidenti nel tipo con raddoppiamento, esemplificato nel greco ÚÀoir:-ot, ecc.: ad esempio ce-cin-i, pe-pul-i, pe-per-i, ecc. In questo caso la vocale del raddoppiamento è -e-, come nell'indoeuropeo. In alcuni verbi, tuttavia, la vocale è assimilata a quella della radice: momordi (lat. ant. memordi), poposci (lat. ant. peposci), cucurri (lat. ant. cecurri), tutudi (< tundo). Nei verbi composti in cui l'accento cadeva sulla sillaba iniziale, la vocale del raddoppiamento poteva cadere per sincope: cecidi, ma occidi (< *obcecaidi), tetigi, ma rontigi, spopondi, ma respondi. rettulí corrisponde al lat. ant. tetuli, che venne sostituito da tuli, ricavato dalle forme composte. Distinto dal perfetto raddoppiato è il tipo latino con vocale radicale allungata. Queste forme ebbero origine in vari modi. Alcune, come liqui e ƒügí, sono considerate semplicemente come perfetti del primo tipo, che hanno perso il loro raddoppiamento. Altri, come vêní, sêdí, lêgi, ödi, trovano rispondenza nei passati germanici 12: qëmum 'venimmo', sëtum 'sedemmo'. Altre ancora discendono da originari aoristi forti: fêci (gr. å-flrpt-ot), iëci, (¬}'ptot), cui possiamo aggiungere pëgi (pango), cêpi (capio) e ƒrêgi (franlz È da notare, tuttavia, che la vocale allungata caratterizza solo il plurale nel germanico: sat (sing.): sêtum (plur.),

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GRAMMATICA STORI CO-COMPARATIVA

go), formato per analogia con i primi due. Nelle radici inizianti con una vocale, la vocale lunga può essere dovuta all'azione di una sonante laringea caduta, e tali forme sono riconducibili al tipo raddoppiato: ad esempio se em < *alem, il perfetto raddoppiato *alealem-ai darebbe luogo al lat. e'mi. Nella struttura del sistema latino, però, il grado allungato del perfetto di tutti questi tipi corrisponde al grado normale del presente. L'analogo rapporto di scãbi: scäbo, ƒödi: ƒödio potrebbe anche essere ereditato e quindi esteso ad altri verbi, ad esempio cãvi: caveo, móviz moveo, ecc. Si noti che ãdí non ha un presente corrispondente, ma in ãdium è rilevabile una vocale breve: anche ôdí è un perfetto, che si può far risalire a una forma raddoppiata della radice *a3ed > *od. ' Infine, vidi rappresenta un fenomeno isolato, che trova corrispondenze nel gr. Foiòot, sanscr. véda; si tratta di un perfetto non raddoppiato della radice *weid. vidi: video potrebbe essere stato il modello per l'allungamento analogico cãví: caveo cui abbiamo accennato. Il -tipo sigmatico dixi corrisponde agli aoristi sigmatici presenti in altre lingue, come il gr. Èíòeišoi -ei-t > -it. Le desinenze della prima e della seconda persona plurale non hanno bisogno di commenti. Terza persona plurale. _Appaiono tre forme di desinenze: I) -ërunt < *-is-ont, dove -ont è la desinenza tematica primaria (per -is- si veda oltre). 2) -êre conserva una traccia della desinenza in r, riscontrabile in non meno di sei gruppi di lingue indoeuropee (si veda sopra, pp. 17 sg.). Peri nostri scopi immediati possiamo osservare che la -r era la desinenza attiva secondaria corrispondente alla prevista -ri della primaria. La -ri si' sarebbe sviluppata in -re nel latino, ove la desinenza sembra essere stata aggiunta al tema verbale in -ê, che esprimeva stato (p. 326). 3) -êrunt rappresenta presumibilmente una contaminazione di -ërunt ed -êre. Nella seconda persona singolare e plurale e nella terza persona plurale appare un elemento -is-. Riscontrato anche in altre forme del perfetto, amãvis-se, amãvero (*amãviso), amãveram (*amãvisam), ecc., tale elemento si ritiene originato negli aoristi in s delle radici disillabiche: ad esempio *weidi-s-, donde è stato esteso per analogia a verbi di vario tipo. I tempi del perfectum. Il futuro, in origine, era un congiuntivo con vocale breve degli aoristi in s del tipo appena preso in esame: *weidi-s-o, *weidi-s-es > videro, videris, ecc. Nella terza persona plurale la desinenza del congiuntivo perfetto (si veda oltre) venne usata per evitare confusioni con l'indicativo vidërunt. Nel passato del perfetto (piuccheperfetto) troviamo lo stesso suflisso -ã- dell'imperfetto. Esso venne presumibilmente aggiunto al tema prolungato in -is, weidis-ã-m > viderãm; oppure' il piuccheperfetto potrebbe essere una creazione analogica intesa a determinare una corrispondenza con il futuro in ero sul modello di ero: erãm.

3

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

I modi. Imperativo. Nel latino un imperativo viene formato solo dal tema del presente, con l'eccezione di memento (< *memntód, cfr. il gr. iiepárco; per -töd si veda oltre). Esso consiste nel puro tema: es, dã, plê (atematici), age, lege, rege, ecc. (tematici). È da notare che alcuni imperativi di uso molto frequente, ƒac, dic, duc, hanno perduto la vocale finale. Nel plurale la flessione è -te. Le forme passive amare, monêre, sequëre, sono riconducibili alla desinenza -so (si veda sopra, p. 322). La corrispondente desinenza plurale in -mini è rapportata o a -uevoi, che appare nei participi medi del greco, o con la desinenza infinitiva -usvoci (36-iievoti). Non sembrano sussistere molti dubbi sul fatto che -min- sia identico al diffuso suffisso -men-, che forma i nomi e gli aggettivi verbali (ad esempio gli infinitivi greci come 36 -psv; si veda anche pp. 338 sg.). Una forma tematica con grado ridotto -mno- contraddistingue i participi medi del tipo alumnus (si veda oltre). Il suflisso sembrerebbe quindi aver avuto determinate funzioni medio-passive. Ora, una particella -i/i, probabilmente identica a quella dimostrativa, appare in altre lingue indoeuropee nelle forme dell'imperativo e dell'infinito. Cosí un imperativo del tipo agimini può essere plausibilmente analizzato come un nome verbale *age-men rafforzato dalla particella -i (si veda oltre, a proposito dell'infinito passivo). L'imperativo in -tó (agito, ecc.) è chiaramente distinto, nel latino antico, dal presente: ad esempio hanc a me accipe atque illi dato (Plauto). Forme corrispondenti sono rilevabili in altre lingue indoeuropee (ad esempio il gr. oi-ye -rw), ed è chiaro che l'indoeuropeo aveva una sola forma di questo imperativo, che veniva usato tanto per la seconda quanto per la terza persona singolare e plurale. In latino venne creata una forma plurale separata con l'aggiunta della caratteristica flessione -te: agito-te, ecc., essendo poi agito riservato alla seconda e alla terza persona singolare. -töd (lat. ant. statod, licetod, datod, ecc.) era in origine l'ablativo

MoR1=oLoc.1A

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del dimostrativo to-; con il significato di «da quel (momento, ecc.)››. Sulla base di es-to, erroneamente analizzato come est-o, vennero create nuove forme della terza persona plurale: sunt-od, ferunto, ecc. Sulle peculiari forme dialettali in un'iscrizione lucerana ƒundatid parentatid, proiecitad, si veda oltre, nel paragrafo dedicato al congiuntivo. Le forme passive dell'imperativo futuro sono costruite aggiungendo a -to la caratteristica -r. La rara forma in -minó (lat. ant. progredimino) ha evidentemente la stessa origine di -mini, con la sostituzione della -6 derivata dalle forme in -tã. Il congiuntivo. Il congiuntivo latino ha le funzioni del congiuntivo e dell'ottativo indoeuropei (si veda il capitolo X) e, inteso morfologicamente, contiene forme derivate da entrambi i modi indoeuropei. Nell'indoeuropeo c'erano tre modi per formare il congiuntivo. Nei tempi atematici esso veniva formato con l'aggiunta della vocale ë/5: ad esempio il gr.

'l-psv (indicativo), 'if-o-uev (congiuntivo). Questo tipo con vocale breve sta dietro i futuri erö, viderö, ecc. (si veda sopra). Il congiuntivo dei temi temporali tematici era formato con l'allungamento della vocale tematica: é/6. Nel latino la -e'- venne generalizzata: ad esempio amë-m, amês, amët, amêmus, amêtis, ament. Come abbiamo già visto, questo tipo di congiuntivo venne costretto a fungere da indicativo futuro per la terza e la quarta coniugazione. La -e' venne anche aggiunta all'aoristo in s, producendo la -sé- caratteristica del cosiddetto congiuntivo imperfetto (capitolo X, p. 375): es-se*-m, ama-rê'-m, ecc. Si noti forem < *bhu-sé-m. -sê- appare anche nel congiuntivo piuccheperfetto vidisse-m, ecc. Il terzo tipo del congiuntivo indoeuropeo riguarda i temi atematici terminanti in vocale; in essi il modo veniva formato mediante allungamento della vocale (gr. 3i'›vã'rou: Súvãrai). A questo tipo possiamo forse far risalire i congiuntivi in -ã- caratteristici dell'italico. Alcuni studiosi eguagliano tale suffisso a quello passato in -ã, preso in esame sopra, ma è diflicile spiegare come il segno di un modo

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

che esprime essenzialmente un'attitudine verso il futuro, possa aver acquistato funzioni di passato. Si noti che nel latino antico sono riscontrabili esempi in cui la -ã- era aggiunta alla radice e non al tema del presente: ƒuat, attigas (da tag-, non lang-), abstulas, advenat, duas. L'ottativo indoeuropeo era formato grazie all'aggiunta di una -i ai temi tematici (gr. qaépo-L-p.i, ecc.). Il suflisso ottativo dei temi atematici mostra un'alternanza apofonica: -yê- nel singolare e -i- nel duale e nel plurale. In latino l'unica traccia di quest'ultimo tipo è l'arcaico congiuntivo di esse: *s-iê- in siem, siês, siet, e *s-i- in simus, sitis, sient. Questo paradigma venne però regolarizzato tramite la generalizzazione del tema si-: sim, sis, sit. La -i è anche rilevabile nelle forme congiuntive velim, edim, duim”, creduis, e inoltre negli ottativi derivati dall'aoristo in s quali ƒaxim, faxis, faxit, ausim; curassis, celassis, prohibessis (pp. 331 sg.). Tali formazioni stanno all'origine del congiuntivo perfetto: ad esempio viderim < *weidis-i-m. Da viderim venne estratto un suffisso -eri- aggiunto poi a tutti i tipi del congiuntivo perfetto: egerim, dixerim, amaverim, ecc. Nel latino non v'è traccia del tipo tematico in -oi-. Restano da prendere in considerazione le curiose forme imperative ƒundatid, parentatid, proiecitad, trovate in un'iscrizione lucerana. È evidente che la lingua di questa iscrizione rispecchia un dialetto influenzate dall'osco, ove il congiuntivo dei temi in -ã risulta -ãid (ri-e'-d) e quello del tipo iacio appare come -iãd. parentatid e proiecitad trovano cosí una spiegazione plausibile in quanto sarebbero il risultato di una mescolanza fra gli imperativi in -töd e i corrispondenti congiuntivi iussivi *parentãid, *proieciãd. I nomi e gli aggettivi verbali. L'infinito. A rigore, il cosiddetto modo infinito non è un modo, ma consiste, in tutte le lingue indoeuropee, in isolate forme di casi (soprattutto dativo e locativo) di nomi verbali. Que13 Questa forma è basata su "deu, una forma ampliata della radice dô, che si riscontra anche nel greco.

ivioRi=oLoc1A

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sti possono apparire sotto forma di semplice radice (*ag), oppure con un certo numero di suflissi e di ampliamenti. Di particolare importanza sono i nomi verbali neutri in -i, -s, -r, -n e le forme complesse -wer/wen, -mer/men, nelle quali i suflissi er/en sono aggiunti alle radici ampliate con -w e -m. L'infinito presente nel lat. -se (es-se, *vel-se > velle, *fer-se > ferre) può essere inteso come locativo singolare di un tema in -s, essendo la -i finale divenuta regolarmente -e (p. 271). La -s, se preceduta da vocale tematica, venne rotacizzata: *age-se > agere. Il latino antico presenta pochi esempi con perdita della vocale finale: biber, tanger. Anche -se venne aggiunta al tema del perfetto in -is-, dando luogo al caratteristico infinito perfetto in -isse (amavisse, dixisse, ecc.). L'infinito passivo termina in -i, che alcuni studiosi fanno risalire a -ei, considerabile come dativo di un nome radicale *ag-ei, o locativo di un nome tematico *ago-, il cui accusativo appare nell'infinito osco acum < *ago-m. A questa tesi si oppone però la testimonianza dell'iscrizione di Dueno, nella quale la forma pacari fa pensare che la lat. -i fosse una vocale lunga originaria e non il prodotto di un dittongo; inoltre, in tal modo non si fornisce alcuna spiegazione convincente circa la specializzazione di questo caso di un nome verbale nell'espressione del passivo. Ora, come abbiamo visto, il passivo della seconda persona plurale in -mini è caratterizzato anche da una -i lunga, e sembrerebbe piú plausibile stabilire un'equivalenza fra le due particelle, con la loro funzione medio-passiva. Negli imperativi la -i venne aggiunta a un nome verbale in -men; nel caso degli infiniti, essa venne aggiunta ai nomi radicali ag-, düc-, dic-, ecc. La i può essere fatta risalire a *iH; cfr. l'alternanza di i e i nella formazione dei temi verbali ƒaci- e audi-_ Nel latino antico le forme dell'infinito presente passivo, come agier, vortier, ecc., che fornivano una « glossa ›› di conveniente forma metrica per la poesia, avevano una -ier, normalmente intesa come una -i ampliata dalla finale dell'infinito attivo, con caduta della vocale finale come in biber, tanger. H. Pedersen ha tuttavia affacciato l'ipotesi che si tratti di un suflisso composto -i-er, formante un no-

340

GRAMMATI CA STORICO-COMPARATIVA

me verbale comparabile agli astratti verbali ittiti in -š-ar, -tar, -mar, -war (cfr. i-ter). L'infinito futuro. Nel prendere in esame la morfologia di questo infinito dobbiamo lasciarci guidare dal fatto che nel latino antico esso può apparire come forma invariabile -türum, indipendentemente dal genere, caso o numero del nome cui si riferisce (ad esempio «illi polliciti sese facturum omnia››, Catone, citato da Prisciano; cfr. «hanc sibi rem praesidio

sperant futurum››, Cicerone, In Verrem II 5.65.167). Secondo alcuni studiosi, questo infinito non è quindi identico al participio futuro attivo (si veda oltre), ma è il prodotto del supino con un infinito del verbo « essere ››, *esom, che appare nell'osco ezum: *factu-esom > facturum. Questa forma invariabile, se usata con un nome neutro o maschile all'accusativo fu ritenuta un aggettivo accordantesi con il nome, e ricevette quindi l'appropriata declinazione aggettivale. La debolezza della spiegazione risiede nel fatto che in latino non è rintracciabile un infinito di questo tipo. Naturalmente esso potrebbe essere attribuito al periodo «italico ››, ma nel capitolo I abbiamo avanzato alcuni dubbi sull'esistenza dell'« italico comune». fore, che si comporta come un infinito futuro, è il normale infinito latino della radice bhu: *bhu-s-i. Per gli infiniti dei verbi desiderativi

in '-ãsso, si veda sopra, p. 331. Sulla base degli infiniti futuri perifrastici attivi come cubitum ire, il latino creò un futuro infinitopassivo del tipo factum iri. Il supino. I supini in -tum e -tü sono rispettivamente gli accusativi e i dativi (o locativi o ablativi) dei nomi verbali in -tus (p. 289). Occasionalmente sono anche rilevabili forme del dativo in -ui : ad esempio memoratui (Plauto). I participi. Il participio presente è un aggettivo verbale costruito con il suffisso -nt-. Tale suffisso, se unito alla vocale tematica -o-, si presenta come -ont-_ Il solo esempio latino

MORFOLOGIA

34.1

è riscontrabile nella declinazione di iens: euntem, ecc. < *eg`ontem, e in sons, insons, che contiene il participio presente del verbo «essere ››, s-ont-. Altrove il latino ha -ent-, che può rappresentare *-ent- o *-nt-, essendo quest'ultimo il grado debole che appare, nell'indoeuropeo, nella declinazionedei temi atematici terminanti in consonante. È da notare che dens è il participio presente contenente il grado debole della radice ed: d-ens. Il participio perfetto passivo del latino era in origine un aggettivo in -to- di genere neutro. Nell'indoeuropeo esso prese l'accento, e la radice verbale apparve nel grado debole: dic-tós, düc-tós, üs-tós (radice *eus, come in üro), stãtós (da sta-tós, radice *stã), sãtus (*sê). Negli aggettivi verbali che terminano in -itus la i- rappresenta il grado debole delle radici disillabiche del tipo domã/doma, tacê/tace: domitus, tacitus. Quando la radice terminava in una occlusiva dentale, -t-t- e -d-t- davano luogo a -ss- (p. 284), che veniva semplificato dopo una vocale lunga o un dittongo *claud-los > claussus > clausus, *fid-tos > fissus, *ƒod-tos > ƒossus, sed-tos > sessus. Sebbene in origine la -to- fosse unita alla radice, e l'aggettivo fosse indipendente da temi temporali, la sua inclusione nella coniugazione verbale provocò molte interferenze analogiche: ad esempio mansus (perfetto mansi), flexus (flexi), sparsus (sparsi), fluxus (fluxi). In combinazione con il verbo « essere ›› questo participio formava la coniugazione perifrastica del perfetto passivo: amatus est. Il participio futuro attivo è un aggettivo con il comune suffisso -ro- aggiunto al tema del nome verbale in -tü: futü-ro-s. Il gerundivo. Per l'aggettivo verbale latino in -ndus non è stata avanzata alcuna spiegazione soddisfacente. Il suffisso -do- appare, tuttavia, in altri aggettivi verbali come timidus, nei quali è stato aggiunto a un nome verbale in -i-. Il significato dei gerundivi era quello di «implicato nel fatto di sollevare, seguire, ecc. ››. Con i verbi intransitivi, essi assumevano un significato intransitivo: oriundus, secundus. Con i

verbi transitivi, ad esempio agnus caedundus, il senso di

34.2

GRAMMATI CA STORICO-COMPARATIVA

«implicato nell'uccisione» poteva facilmente evolversi in vari significati adatti a diversi contesti, «atto a essere ucciso ››, «sul punto di essere ucciso», «destinato a essere ucciso ››, ecc. Nella terza e nella quarta coniugazione il suflisso compare, nel latino antico, sotto la forma -undus. Che il mutamento in -endus fosse dovuto all'influsso del participio presente risulta palese dal fatto che eundum, mai apparso nella forma in -endus, è messo in parallelo col participio presente euntem. Il gerundio consta di una serie di casi del gerundivo neutro sostantivato (si veda tuttavia alle pp. 387 sg. e 41 I). In latino sopravvivono solo poche tracce del participio medio in -meno-: fëmina, da *dhê 'succhiare'; alumnus, da *al 'nutrimento'. Comeabbiamo visto, v'è motivo di dubitare della teoria che eguaglierebbe la desinenza imperativa media -mini con la forma plurale del participio medio.

Gli indeclinabili. Riuniamo sotto questa voce gli avverbi, le preposizioni, i prefissi e le particelle che contrassegnano o rafforzano la relazione sintattica delle parole e dànno indicazioni locali, temporali e infine logiche. Taluni di questi termini sono estremamente antichi e sfidano ogni analisi: ad esempio *en (in), *anti (ante), *op(i) (ob, obs), *apo (ap, ab, abs), *pro (pro), *eks (ex, ë), ecc. Fra gli altri possiamo distinguere i) i temi dimostrativi: to-, ad esempio tum, tam, tan-dem, topper, ecc.; i- in ita, item, iam, ecc.; no- in nam, dô-ni-cum, dô-ni-que, ecc.; e 2) il tema interrogativo-relativo qui/quo- (quid-em, quip-pe, quom, quãr, ecc.). Molti degli elementi costitutivi sono peculiari alle formazioni avverbiali. Ad esempio ut, sulla base della testimonianza di aliuta, uti-nam e del correlativo i-ta, contiene un suflisso -ta che può essere fatto risalire all'ie. *-ta (cfr. il sanscr. iti), e che è stato aggiunto alla radice *q"'u. A uta venne unita la desinenza locativa o particella dimostrativa -i : donde utei, uti < *uta-i. *q"'ut- potrebbe essersi ampliata grazie a una -s avverbiale (osco puz < *qwut-s), forma che spiega uspiam, usque, usquam. La -stessa radice

Moiu=oi.oG1A

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*q“'u- soggiace a (c)ubi (ali-cubi, né-cubi). La testimonianza dell'osco-umbro (umbro pufe) e di altre lingue indoeuropee dimostra che la forma primitiva era *qwu-dhe, ampliata mediante l'aggiunta di una desinenza locativa, *qwu-dhei > regolarmente in (c)ubi (p. 280). ubi ha influenzato la forma del correlativo ibi, per cui sulla scorta del sanscrito (iha) si dovrebbe prevedere *idi < *i-dhe-i. cür, lat. ant. quör, contiene un elemento formante avverbiale r, riscontrabile anche nell'ingl. where, lit. ku-F. La grande maggioranza degli avverbi è costituita da forme fossilizzate di casi nominali. Nominativi sono versus e secundus. Accusativi sono 1) parum, primum, multum, nimium, magis, minus, plus, ecc. (neutri); 2) quom, tum, dum, nunc < *num-ce, partim, statim, olim (maschile e femminile). I caratteristici avverbi latini iam, nam, tam, quam, clam, palam sono probabili forme accusative femminili di i-, no-, to-, ecc. Genitivi temporali sono nox e dius. Ablativi sono i comuni tipi in -ó(d), -ê(d) e -ã(d): primô, meritô(d), intrö retrô; bene, ƒacilumêd; extrãd, inƒrã. Anche il -tos di intus (gr. švróç), penitus, ƒunditus, subtus, ecc. è un'antica desinenza ablativale. Locativi sono hic, noctü, temere (' nel buio ', temperi e penes. Tali forme di casi possono essere combinate con aflissi come -per in parumper, semper, topper (*todper) ed -em in quidem (cfr. idem, p. 314). Il dô- di donec (lat. ant. donicum, donique) è identico all'ingl. to. Ancora altri avverbi sono costituiti da locuzioni fossilizzate: quãrë, intereä, häctenus, interim, adfatim, scilicet (= scire licet), dumtaxat (essendo taxat il congiuntivo di un aoristo in s o di una forma desiderativa della radice *tag, ta-n-go). Per quanto riguarda il comune tipo avverbiale in -ter, si pensa sia identico al suffisso contrastivo -ter (p. 309). Il punto di partenza era aliter, donde esso si diffuse dapprima alle parole di significato correlato, come pariter, similiter, e poi ad altri vocaboli.

Capitolo decimo Sintassi

La sintassi di una lingua come il latino considera l'aspetto funzionale della morfologia (si veda il capitolo precedente). Essa tratta in primo luogo delle relazioni intercorrenti fra le parole della proposizione cosí come vengono espresse nelle flessioni, e cioè soprattutto delle funzioni dei casi, dei tempi, dei modi, ecc. Chi si pone a studiare il latino, tuttavia, si avvede ben presto che non vi sono singole funzioni chiaramente definite, attribuibili, ad esempio, alle varie desinenze dei casi. Al contrario, egli si troverà di fronte a una sconcertante molteplicità e avrà a che fare, per esempio, con dativi di interesse: vantaggio e svantaggio, etici, simpatetici, finali. Ciò si deve a un semplice fatto linguistico, la cui comprensione è essenziale se si vuole afferrare bene la sintassi analitica e storica. Le parole non vivono isolate nella mente di chi parla, ma si aggregano in gruppi associativi. Tutti i membri di ogni gruppo tendono a uniformare il loro comportamento sintattico, per cui se impero prende il dativo, il sinonimo iubeo farà probabilmente altrettanto. Difatti iubeo è costruito cosí da Catullo e anche da Cicerone in una delle sue lettere (ad Atticum IX 13.2). Analogamente laedere segue l'esempio di nocere, sinere e pati quello di permitto, e impedire (nel grammatico Varrone!) quello di obstare. Perciò l'evoluzione della sintassi può essere paragonata alla crescita graduale di un cerchio magico, formato dall'aggregazione di tanti funghi intorno a un fungo padre. Questi «cerchi magici» sintattici possono intersecarsi: in altri termini una parola può appartenere a vari gruppi associativi e partecipare a costruzioni diverse. Il campo sintattico di una lingua si presenterà quindi, agli occhi dell'osservatore, come un complesso

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disegno di questi «cerchi magici», e compito dello studioso sarà anzitutto quello di determinare e definire la loro area, per poi tentare di ricostruirne la crescita partendo dall'originario nucleo di sviluppo. In pratica, si verrà a scoprire che un certo «fungo originario ›› era esso stesso membro di un altro «cerchio magico ››, giacché il raggruppamento associativo delle parole è comune a tutte le lingue. Ciò significa che il nostro osservatore non arriverà mai, ad esempio, alla funzione primitiva del caso, ma, al contrario, scoprirà un sistema interconnesso di «cerchi magici». In vista di una descrizione e di una classificazione, lo studioso della sintassi escogiterà una formula generale che comprenda le consuetudini osservate: ad esempio «il nome, nel caso dativo, designa la persona (o la cosa) implicata nell'evento cui ci si riferisce tramite il verbo ››. Questa formula non va confusa con la «funzione singola primitiva ››, che presumibilmente non è mai esistita. In ogni periodo una lingua, considerata sotto il profilo sintattico, è costituita da gruppi associativi (i «cerchi magici ››) di consuetudini

concrete. Nel corso delle generazioni gli anelli crescono e diminuiscono, e gli schemi mutano. Definirli e tracciare la storia della loro crescita è il compito 'fondamentale della sintassi descrittiva, storica e comparativa. I nomi. Il nominativo. Il nominativo è il caso «nominante», in cui la parola rappresenta una semplice etichetta, come avviene negli elenchi, negli inventari, ecc. In questa funzione esso può essere usato in senso predicativo: «si chiamava "Corvinus"››, cognomen habuit «Corvinus››; cfr. «per valle illa quam dixi ingens›› (Peregrinatio Aetheriae). Il nominativo, in quanto caso nominante, formula un avviso preliminare inteso a far convergere l'attenzione sul centro d'interesse del momento, sul «soggetto» del discorso. Un tipo primitivo di frase consta di due nominativi, il «soggetto» e il «predicato››: ille servus. Per rendere esplicita la relazione fra soggetto e predicato viene usata una quantità di verbi:

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

est, factus est, creatus est, ades (tu mi accusatrix ades), ecc. Nei casi in cui il centro dell'interesse è già determinato e non necessita di un riferimento esplicito, i nominativi predicativi fungono da esclamazione: nugae !, ƒabulael; con un'espressione dimostrativa introduttiva «em tibi anus lepida!›› (Plauto, Curculio 120). In molte asserzioni che 'si riferiscono a un evento, la persona o cosa « nominata ›› come centro d'interesse è considerata l'iniziatrice dell'azione: donde la cosiddetta. funzione « ergativa›› del nominativo, che può essere rappresentata nel modo seguente: Nell'espressione «nominante›› preliminare troviamo talvolta due nominativi in apposizione: homo adulescens, homo servus, mulier meretrix. In siffatti esempi, a un termine vago e generale viene conferita precisione mediante, per cosí dire, un ripensamento: cfr. «nos libertinae sumus, et ego et tua mater». Nel libero linguaggio colloquiale, una volta nominato l'argomento della discussione, la frase devia in costrutti diversi. Per questo nominativus pendens si veda sopra, p. 97. Il vocativo. Il vocativo è il caso dell'appello inteso a richiamare l'attenzione dell'ascoltatore. Nella sua funzione esso si avvicina all'imperativo del verbo, con cui presenta anche una somiglianza morfologica, in quanto entrambi sono costituiti dal puro tema. In latino possiede un preciso carattere morfologico soltanto nella seconda declinazione (si veda il capitolo precedente), e anche in questo caso si trova talvolta il nominativo, specie nella poesia. Da un punto di vista sintattico il nome al vocativo è isolato dal resto della frase, e in origine anche un aggettivo qualificativo prendeva la forma nominativa: « salve, primus omnium» (Plinio, Naturalis historia VII 117). Ma in latino troviamo sin dagli inizi un esempio di attrazione del vocativo, se macte, come appare probabile, è il vocativo di mactus (si veda sopra, pp. 82 sg.). Ma, in generale, tale fenomeno rappresenta un grecismo dei poeti augustei: ad esempio «prima dicte mihi, summa dicende Camena... Maecenas›› (Orazio, Epistulae I 1.1-3).

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Tali esempi sono soprattutto poetici, in quanto la prosa preferisce espressioni come o tu qui... Attrazioni analoghe si verificano anche nell'aggettivo predicativo: «quo moriture ruis›› (Virgilio, Eneide X 811); «tu quoque... miserande iaceres ›› (ibid. X 324 sgg.). L'accusativo. L'accusativo presenta tutta una serie di modi d'uso che possono essere genericamente definiti come il fine o l'obiettivo verso cui tende l'azione o è diretta. La relazione è cosí rappresentata: -›|. Questo caso è chiaramente ravvisabile soprattutto con i verbi di moto, in quanto il latino conserva l'accusativo puro per esprimere questa relazione in domum, rus, con nomi di città e di piccole isole e in alcune altre locuzioni come exsequias, infitias ire, pessum ire, venum ducere, ecc. Piú frequentemente, però, l'avverbio di sostegno è divenuto la «preposizione›› indispensabile per «reggere» il caso. Il tempo del perfetto, in tali verbi di moto, esprime lo stato risultante dall'azione, ma, ciò nonostante, la locuzione preposizionale propria di altri «aspetti» (si veda sopra, pp. 323 sg.) resta immutata: ad urbem venire > ad urbem venisse; e di qui, grazie a un facile legame analogico, ad urbem adesse. In tal modo la preposizione ad con l'accusativo viene ad assumere una varietà di funzioni locative: «ubi summus imperator non adest ad exercitum›› (Plauto, Amphitruo 504); «esse ad sor0rem›› (Terenzio, Heautontimorumenos 979); «totam hiemen ipse ad exercitum manere decrevit›› (Cesare, De bello Gallico V 53.3); «habes hortos ad Tiberim» (Cicerone, Pro Caelio 36); « mihi... est ad portum negotium›› (Plauto, Mercator 328); «ego ad forum illum conveniam » (id., Miles gloriosus 930). ad diviene cosí intercambiabile con apud. I verbi composti sorsero dalla fusione di verbi semplici con avverbi che un tempo formavano un'unità indipendente della frase. Una volta verificatasi tale fusione, essendosi conservati gli accusativi di scopo, il verbo composto sembrò reggere un oggetto diretto (si veda oltre): aliquem ad + ire > aliquem adire. Donde il fenomeno detto della funzione transitivizzante dei prefissi verbali: ad esempio

GRAMMATICA STORICO-COMPARATIVA

accedere, advenire, aggredi, antecedere, circumire, incurrere, irrumpere, introire, percurrere, subire, transmittere, oppugnare, ecc. L'elenco veniva ad allungarsi in virtú- di influssi analogici di vario tipo: cosí dopo egredi, exire ci si aspetterebbe l'ablativo; l'accusativo può essere dovuto al 'collegamento con il suo contrario, inire, o con espressioni di significato similare, come relinquere. Con certi verbi l'accusativo di scopo o fine verso il quale l'azione è diretta è costituito da qualche cosa 0 persona esterna: «cacciare il cervo», «mangiare pane ››, «seminare il grano ››. Tali sono gli accusativi «esterni ››, esprimenti l'oggetto diretto del verbo. Gli studiosi sono inclini a separare questa serie di modi d'uso dall'«ablativo›› di «scopo o fine››, ma fra l'una e l'altro non c'è un grande divario. In latino la gamma dei verbi che reggono tali accusativi venne costantemente ampliata per l'azione d'infiussi analogici; cosí amare attrasse nella sua orbita tutta una varietà di espressioni sinonime: «hic te... deperit, ea demoritur te ›› (Plauto, Miles gloriosus 970), e anche «amare eum haec perditast›› (id., Cistellaria 132). Grazie ad analoghi sviluppi, una quantità di verbi esprimenti uno stato emotivo divennero transitivi: timore (timeo, metuo, abhorrere), speranza e aspettativa (sperare, desperare, manere, expectare, moraril), gioia e dispiacere (laetari, ridere, gaudere, fiere, lugere, gemere, dolere, maerere, plorare, ƒremere, tremere, ecc.). Anche i verbi impersonali denotanti stati emotivi risultano costruiti in questo modo: me miseret, paenitet, pudet, taedet, piget. Molti verbi costruiti in origine con altri casi (genitivo, dativo o ablativo) finirono con l'essere costruiti, a seguito d'interferenze analogiche, con l'accusativo: abutor, careo, ƒungor, supero, indulgeo, servio, curo, studeo, ausculto, ecc. Grazie a questa multiforme evoluzione, l'accusativo estese progressivamente la sua portata finché, dal suo originario significato concreto-spaziale di «fine 0 scopo», non si trasformò nell'espressione grammaticale generale di complemento verbale. Nel latino antico sono riscontrabili accusativi esterni 1 L'accusativ0 dopo morari è meglio riunito qui col suo sinonimo manere: «id modo moratus ut consulem percontaretur» (Livio, XXIII 47.1) è classificato da Ernout e Thomas come accusativo avverbiale «interno» (cfr. oltre).

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anche dopo nomi verbali: «quid ibi hanc aditio est ›› (Plauto, Truculentus 622); «quid tibi hanc curatiost rem P » (id., Amphitruo 519). Antico è anche l'accusativo dopo verbi medi relativi al vestirsi e allo svestirsi: «quid erat induta ?; aspexit virginem ibi stantem in capite ostrinum indutam riculam›› (Turpilio 73); cfr. loricam induitur. Alternativamente la parte del corpo interessata appariva all'accusativo (caput velati), con l'abito ecc. in ablativo strumentale: ad esempio «togae parte velati ›› (Catone), cfr. «succincti corda machaeris ›› (Ennio), il che forní la nativa « struttura ›› latina per grecizzare espressioni poetiche, come «exuta pedem›› (Virgilio, Eneide IV 518), «suspensi loculos›› (Orazio, Saturae I 6.74), «concussa metu mentem›› (Virgilio, Eneide XII 468) e il molto discusso «saepes Hyblaeis apibus florem depasta salicti›› (id., Bucoliche 1.53-54). Infine la costruzione si estese agli aggettivi, dato che exuta pedem conduce naturalmente a nuda pedem. Con ciò giungiamo all'accusativo di relazione, categoria nella quale convergono altre linee di sviluppo che dobbiamo brevemente tracciare.

In certe espressioni l'accusativo di scopo non si riferisce a un oggetto esterno, ma al contenuto del verbo, al risultato verso il quale si dirige l'azione. I grammatici classificano questi modi d'us0 sotto la voce accusativo dell'oggetto in-

terno, in opposizione a quello dell 'oggetto esterno considerato nel paragrafo precedente. Come accade spesso nei fenomeni sintattici, le due sfere si fondono l'una con l'altra: «costruire una casa ››, «accendere un fuoco», «forgiare una spada», «dire una bugia», «sferrare un colpo ››, ecc. Gli esempi latini sono: facinus audere, mendacium dicere, foedus ferire, verbum muttire, lapides loqui, propino tibi salutem (quest'ultimo è collegato anche con l'accusativo dell'oggetto esterno dopo volo, ecc.). Un antico tipo, risalente al periodo indoeuropeo, è l'accusativo di contenuto, che nomina l'azione significata dal verbo: aetatem vivere. Una sottovarietà stilistica è costituita dall'«accusativo afline», in cui il nome è tratto dalla stessa radice del verbo: vota vovere, donum dare, cenam cenare, dicta dicere, auspicium auspicare. Questo tipo di accusativo ereditato si sviluppò in qualche misura sotto l'ìnflusso greco: il prototipo è l'enniano «vicit Olympia ››.

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Alcuni esempi di accusativo dell'oggetto interno prolificarono e diedero luogo a «cerchi magici» di uso abbastanza importante da meritare particolari etichette. Dalle espressioni come longam viam ire e noctem pernoctare nacquero gli accusativi di estensione, con riferimento allo spazio e al tempo. Dal concetto di «spazio attraversato», come in non pedem discedat, si ebbe facilmente il passaggio a «distanza da ›› con abest, distat, ecc. Parallelamente a queste si hanno espressioni temporali come: « abhinc ducentos annos mortuus est ››, e, ancor piú liberamente, «iam multos annos est quom possideo›› (Plauto). Infine, tali accusativi figurano con aggettivi di misura: panem tris pedes latum, cfr. annos octingentos natus. Per l'intrusione dell'ablativo di «estensione temporale», tota vita, ecc., si veda oltre. I singolari neutri dei pronomi vennero usati con particolare libertà come accusativi dell'oggetto interno: istuc pessume consulis; istuc crucior; si quid erro; si id fallo; «advorte ut quod ego ad te advenio (' il motivo per il quale sono qui ') intelligas›› (Plauto, Epidicus 456). Esempi come id maeret diedero luogo a «id misera maesta est ›› (id., Rudens 397), ove l'accusativo è di «relazione» (si veda sopra). Nelle espressioni puramente latine questi accusativi di relazione sono limitati ai pronomi neutri: ad esempio nescio quid tristis est. La consuetudine si sviluppò piú liberamente nell'imitazione dei greci anzitutto nei poeti augustei: «qui genus P» (Virgilio, Eneide VIII 114); «maculosus alvum›› (id. Georgiche III 427); «nigra pedes» (Ovidio, Metamorfosi VII 468). Tacito fu il primo ad introdurre questa espressione idiomatica nella prosa: «clari genus» (Annales VI 9); «rnanum aeger» (Historiae IV 81). Nel latino antico anche i neutri di certi aggettivi fungono da accusativi dell'oggetto interno. Plauto si limita soprattutto ad aggettivi di quantità: multum, nimium, magnum, maxumum. Anche in questo caso il greco stimolò un uso latino indigeno, e fu Catullo il primo, con il suo dulce ridentem, a rendere 'yeìtoticotg ipépocv (Saffo). La prosa si astenne da tali licenze fin dopo il tempo di Livio. I diversi tipi di accusativo possono apparire nella medesima proposizione: ad esempio «quid nunc te litteras doceam›› (Cicerone). Con i verbi di informazione possiamo

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raggruppare i loro contrari, i verbi che significano nascondere, i quali reggono parimenti due accusativi: ad esempio «ut celem patrem tua flagitia›› (Plauto, Bacchides 375). I verbi esprimenti il «fare ››, il «pensare ››, il «chiamare ››, reggono un accusativo dell'oggetto diretto ed un accusativo predicativo: ad esempio «is me heredem fecit›› (id., Poenulus 1070). Anche qui in molti esempi l'accusativo predicativo esprime il risultato dell'azione. In altri, i due accusativi sono in apposizione: «malam fortunam in aedis te adduximeas» (id., Rudens 501). Tali sono anche gli «accusativi del tutto e della parte ››: ad esempio «meretrices... maiorem partem videas valgis saviis›› (id., Miles gloriosus 93), in cui il secondo accusativo rappresenta un semplice ripensamento correttivo - «cioè la maggior parte di esse». Gli accusativi dell'oggetto interno e appositivi risultano spesso cristallizzati come avverbi. Ne sono esempi nimium, plus, multum; gli avverbi del tipo partim, statim, ecc. (si veda il capitolo precedente); e gli originali appositivi id genus, omne genus: ad esempio «coronamenta - omne genus - facito ut serantur›› (Catone); «aliquid id genus solitum scribere›› (Cicerone, Ad Atticum XIII 12.3); «in hoc genus praediis» (Varrone, De re rustica I 16.4). Possiamo aggiungere le espressioni temporali del tipo id aetatis: ad esempio «ego istuc aetatis non amori operam dabam» (Terenzio, Heautontimorumenos 110). Infine abbiamo gli accusativi esclamativi, dipendenti da un verbo inespresso: nugas! hercle rem gestam bene I artificem probum! Il genitivo.

È difficile trovare una formula che raccolga tutti i modi d'uso del genitivo, e perciò prenderemo anzitutto in considerazione quelli piú chiaramente definiti, la cui antichità sembra fuori di dubbio. Il genitivo possessivo. Tale termine si spiega da sé: aedes eri, filius eri, patris amicus, ecc. A questo genitivo fanno una certa concorrenza gli aggettivi derivati (erilisfilius, Campus Martius, virgo Ve-

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stalis, ecc.), di cui taluni studiosi hanno sostenuto la maggiore antichità. Ma, in senso puramente possessivo, il genitivo risulta regolare anche nei piú antichi testi latini, dove l'aggettivo ha il senso piú vago e ampio di «connesso a››. La sua area di riferimento comprende perciò quella del genitivo, e, come suo sostituto, appartiene a un livello stilistico piú elevato (ad esempio nelle «misure lunghe ›› plautine). I genitivi possessivi possono essere usati in senso predicativo: « fratris igitur Thais tota est » (Plauto); «agrum numquam siris fieri gnati tui›› (id.). L'ellisse di un nome facilmente supplito spiega l'esistenza di locuzioni come ad Dianae (fanum). Il genitivo partitivo. Dall'« appartenere a» il passaggio a «parte di » è facile. In questo caso il genitivo sta al nome definito come il tutto alla sua parte (o alle sue parti). Ciò risulta chiaro soprattutto nelle espressioni di quantità: granum salis, vini gutta, panis pondo quattuor, cadus vini, ecc. I genitivi partitivi sono particolarmente frequenti dopo i pronomi e gli aggettivi neutri singolari: ad esempio aliquid, quid, multum, plus (negati, rei, aetatis, animi, ecc.). Si tratta piú comunemente di genitivi di nomi, ma non sono infrequenti certi aggettivi sostantivati neutri: mali e boni predominano nell'antico latino, ma Cicerone aumentò considerevolmente il numero di questi aggettivi sostantivati usati nel caso partitivo. Questo modo d'uso del genitivo è riscontrabile anche, in qualche misura, dopo espressioni non quantitative. Di natura colloquiale sono i genitivi che seguono gli avverbi di spazio e di luogo: ad esempio ubi terrarum, nusquam gentium (donde minume gentium). Gli altri esempi di genitivi che seguono gli aggettivi neutri non quantitativi rientrano soprattutto nel campo della poesia e della prosa poetica: ad esempio «incerto noctis›› (Sallustio), «sub obscurum noctis ›› (Virgilio). Piú rari risultano i genitivi partitivi dopo neutri plurali sostantivati: Cicerone ha «summa pectoris›› e «interiore aedium››, ma tale uso si estese per influsso del greco: ad esempio «in infera noctis›› (Ennio), «per cava terrae ›› (Sallustio), « strata viarum ›› (Virgilio), «angusta viarum ›› (Tacito).

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In origine il partitivo poteva fungere liberamente, nella frase, da soggetto, oggetto, ecc. (« qualcuno dei nemici» venne ucciso; bevvi «un po' di vino ››). Di ciò sussistono alcune tracce nel latino antico (ad esempio «aquae... addito», Catone), ma siffatte costruzioni vennero eliminate dai puristi classici. Riappariranno nel latino volgare, dove, sostituite da de + ablativo, furono all'origine di espressioni romanze come de l'eau. Il partitivo si trova con certi verbi dal significato di «riempire ›› e con altri aflini: complere, abundare, ecc. ; egere, indigere, carere, levare («me omnium iam laborum levas››, Plauto, Rudens 247), ecc. I corrispondenti aggettivi assumono la medesima costruzione: plenus, largus, refertus, onustus, particeps, expers, ieiunus, ecc. Dalle solide basi latine del genitivo con espressioni di «perdita ››, « privazione ››, ecc., Orazio compí un salto nel grecismo: «desine mollium tandem querellarum›› (Carmina II 9.17-18). In origine anche potiri 'farsi padrone di' e gli aggettivi corrispondenti, compos, impos, presero questo genitivo. impos animi, compos animi, expers consili e simili condussero facilmente ad-altre espressioni di stupore e incertezza: incertus consili e persino ƒalsus animi (Terenzio). Anche i genitivi avverbiali come desipiebam mentis (Plauto), animi excruciari, animi pendere e simili si uniscono naturalmente a questi «cerchi magici» semantici, e non sembra necessario distinguerli come «locativi ››. La costruzione puramente latina potiri con il genitivo consentí a Orazio di azzardare regnavit populorum, a imitazione del greco (Carmina III 30.12). I partitivi erano originariamente usati con i verbi che si riferiscono al mangiare e al bere. Ciò condusse naturalmente alle forme «essere affamato di », «essere assetato di ››. Cosí possiamo forse classificare come partitivi i genitivi usati con verbi di desiderio e iloro contrari (domi cupio, mein fastidis ?, studeat tui), e anche i genitivi con verbi di ricordo e dimenticanza. Tuttavia si veda, oltre, il genitivo di sfera. Il genitivo definiente (genitivo di qualità). I genitivi possessivi non sono solo limitati a espressioni di possesso fisico. Nei nomi di località il genitivo posses-

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sivo del nome della divinità, ecc., che ad essi presiede (lacus Averni, urbs Patavi) diede luogo ai cosiddetti genitivi epesegetici 0 appositivi, fra i quali si trova lo spauracchio di tutti gli insegnanti, urbs Romae, apparso alla fine della repubblica. Ma i possessivi vennero anche estesi ad altre relazioni nelle quali la nozione di possesso si era progressivamente indebolita: corporis candor, adventus hostium, fides clientum, iniustitiam lenonum, finché con supplicium virgarum il genitivo «delle verghe›› definisce semplicemente il tipo di punizione. Allo stesso modo, Poenorum bellum è una guerra «dei Cartaginesi»: ma che essa sia stata ingaggiata con o contro questo popolo deve essere ricavato dal contesto. Non per questo sarà tuttavia necessario istituire speciali categorie grammaticali per i genitivi «soggettivi» e «oggettivi ››. Anche i partitivi ampliarono analogamente il loro campo: virga lauri condusse infine all'appositivo arbor fici (Livio, ecc.). 'In certi modi d'espressione il partitivo si fuse con il possessivo, dando vita a un importante «cerchio magico», il genitivo di qualità. La relazione del tutto con la parte si era facilmente estesa a quella di genere con la specie, di classe con l'individuo, ecc., e analogamente i possessivi quali patris filius condussero a Graeci generis homo. Tale fu l'origine dei genitivi di qualità, che nel latino antico risultano per lo piú concentrati nelle espressioni di origine e appartenenza, nonché a quelle di prezzo 2, misura e simili: ad esempio «talentum rem... decem››, «vir minimi preti ››, «trium litterarum homo» (Plauto). Nel primo latino, i soli esempi che cadono all'esterno di questa ristretta gamma semantica sono «homo iracundus, animi perditi›› (Plauto, Menaechmi 269) e «tam iners, tam nulli consili sum » (Terenzio, Andria 608). Anche in Cicerone e Cesare tali genitivi di qualità sono in pratica ristretti ai nomi qualificati dagli aggettivi magnus, tantus, summus, maximus. Piú tardi, però, siffatta costruzione ebbe la meglio sulla sua concorrente, quella dell'ablativo sociativo (si veda oltre). I genitivi definienti possono essere usati in senso predicativo: «magni sunt oneris» (Plauto). Troviamo qui un 2 Cfr. oltre, ii proposito del genitivo di registrazione.

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importante derivato, il genitivo « di caratterizzazione ››: ad esempio «est miserorum ut... invideant bonis›› (Plauto); «ea exquirere inìqui patris est ›› (Terenzio). In questo caso il contributo del possessivo è particolarmente evidente. Il genitivo di sfera (genitivo di relazione, riferimento). Il partitivo e il possessivo sono semplicemente due delle numerose funzioni genitivali interconnesse, definite come «genitivi di sfera». Abbiamo visto come il partitivo possa esprimere il concetto di classe (iuniorum est 'è uno degli, appartiene agli, íuniores') e anche come il possessivo si fosse esteso fino a divenire il caso mediante il quale un nome definisce l'altro. In una proposizione come ei non fidem habui argenti, il genitivo è aggettivale e definisce fidem. Ma se il vincolo aggettivale s'indebolisce, diviene possibile, in virtú di uno «spostamento relazionale», interpretare la proposizione come «non mi fidai di lui nelle questioni di denaro, in materia di denaro ››. Forse il genitivo di riferimento nacque in modo analogo. Quel che appare chiaro è che esso si era già saldamente radicato nel latino antico, specie in contesti di natura legale e giudiziale, con verbi di accusa, intimazione, condanna: «iniuriarum... induci», «quem mendaci prendit manifesto ››, «probri accusare ››, «quarum rerum, litium, causarum condixit pater patratus›› (Livio I 32.11), ecc. La quantità di questi verbi aumentò gradualmente (interrogare, postulare, arcessere, urgere, ecc.). Un satellite alquanto isolato di questo gruppo è il genitivo che talvolta si riscontra col verbo credo: «quoii omnium rerum ipsus semper credit ›› (Plauto, Asínaria 459). Un altro noto gruppo da classificare qui comprende i genitivi usati con verbi impersonali come paenitet, pudet, piget, ecc.: ad esempio ƒacti piget; taedet tui sermonis. Anche i genitivi di esclamazione, come mercímoni lepidi/ 0 mercis malae/, appartengono a questo gruppo. Il genitivo di registrazione. I grammatici definiscono in questo modo un ristretto gruppo di genitivi riscontrabili in quelli che potremmo chiamare contesti contabili: ad esempio lucrifacere, «regi-

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strare alla voce “profitti” ››, «considerare un profitto» (cfr. compendi, dispendi, sumptiƒacere; aequi boniqueƒacere). Sotto questa voce dobbiamo classificare inoltre i ben noti genitivi di stima: flocci, nauci, nihili, tanti, quanti, pluris, minoris. Per lo piú si tratta di genitivi in -í, e Wackernagel ha-sostenuto che questo caso in -ì è uno speciale caso avverbiale conservatosi anche, per analoghi modi d'uso, nel sanscrito, e che non ha nulla a che fare con il genitivo. Questa tesi è stata messa in dubbio, e sembra piú probabile che siflatti genitivi siano derivati dall'uso genitivale preso in esame sopra. dotis dare 'dare a titolo di dote' non può essere separato da espressioni partitive del tipo «et dotis quid promiseris›› (Plauto, Poenulus 1279). A ciò hanno dato il loro contributo anche genitivi qualitativi come vir minimi preti, che si avvicina di molto a homo trium litterarum, il cosiddetto genitivo di prezzo non essendo altro che una particolare sottospecie lessicale del genitivo di qualità. In tal.. modo il genitivo di registrazione «reputare come, iscrivere come ›› va incluso nel genitivo di sfera. Possiamo ora tentare una definizione generale della funzione del genitivo: un nome al genitivo definisce e delimita la gamma dei riferimenti di un altro nome o di un verbo. Nel suo uso aggettivale può essere rappresentato cosí: ®; nel suo uso avverbiale, cosí : Nel periodo piú tardo il genitivo cominciò ad essere sostituito da locuzioni prepositive (ex, de). _La sua funzione possessiva venne ulteriormente indebolita dal piú caldo, vivace e intimo dativo possessivo (si veda oltre), ed esso conservò per un periodo assai lungo le funzioni possessiva, partitiva e qualitativa. Il dativo. Il dativo indica che la persona nominata è coinvolta o interessata all'evento o allo stato di cose cui il verbo oppure l'espressione verbale si riferisce. Tale funzione venne trasferita secondariamente ai nomi non di persona, ma si è osservato che nel latino antico solo un dodicesimo dei nomi (e dei pronomi) al dativo si riferiscono a cose. La funzione del dativo può essere cosí rappresentata: +›.

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Le relazioni cosí generalmente indicate dal dativo, nelle quali una persona (o cosa) può porsi rispetto a un evento o a una situazione, sono innumerevoli. Quelli che seguono sono alcuni dei « cerchi magici ›› semantici ritenuti dai grammatici abbastanza circoscritti da meritare una definizione particolare. Occorre però rammentare che tali definizioni costituiscono, a rigore, delle suddivisioni non grammaticali, ma lessicali. La persona è interessata in quanto beneficiario o perdente (dativo di vantaggio o di svantaggio): «tibi aras, tibi occas, tibi seris» (Plauto); «si quid peccat, mihi peccat›› (Terenzio); «mihi ego video, mihi ego sapio›› (Plauto); «ego tibi comminuam caput›› (Plauto); «saluti vestrae providere ›› (Cicerone); «pacem exposcere Teucris ›› (Virgilio); «vobis arabitur ager›› (Livio). Fra i verbi interessati predominano quelli che esprimono il concetto di dare (do, mando, praebeo, largiri, solvo, sacrifico(r), fero, ecc.) e di togliere (demo, adimo, eripio, defendo, deest), ed è appunto a questo importante gruppo semantico che il caso deve il suo nome:

dativus “il caso del dare” (gr. So-rudy). In latino questi dativi di vantaggio e di svantaggio ricorrono con una quantità di verbi i cui equivalenti inglesi sono transitivi: ad esempio parco, indulgeo, invideo, medicor (transitivi anche nel latino antico), fa-veo, ignosco, servio, noceo, obsum, consulo, studeo, nubo, ecc. La gamma di siffatti dativi venne molto estesa dai poeti: ad esempio «hunc... arcebis gravido pecori›› (Virgilio, Georgiche III 154-55). Il latino unisce spesso un dativo di vantaggio al verbo «essere» per esprimere il possesso. Nella gran massa di esempi ricavabili dal latino antico e dalle opere di Cicerone, il soggetto è un nome astratto, e dal momento che ciò si verifica regolarmente anche nel germanico è possibile che questo modo d'impiego cosí limitato costituisca un'antica eredità. Tuttavia anche nel latino antico questi dativi di possesso erano stati estesi a oggetti concreti: «est ager... nobis ››; «quot digiti tibi sunt?››; «illi... duae fuere filiae», ecc. Mediante lo «spostamento relazionale» questi possessivi vennero uniti ai nomi, e questo sviluppo è chiaramente visibile nell'esempio che segue: «quis est homo? :: amicus vobis ›› (Plauto, Poenulus 1213); cfr. «quis erat igitur? ::

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Philocomasio amator›› (id., Miles gloriosus 1431). (Per i dativi aggettivali di scopo come pabulum ovibus, si veda

oltre). Il dativo dei pronomi personali veniva usato frequentemente nel linguaggio colloquiale per indicare il coinvolgimento fisico o emotivo nell'azione: «animus mihi dolet››; «ego tibi comminuam caput››; «minatur mihi oculos exurere››; «oculi splendent mihi››; «quoi auro dentes iuncti escunt›› (Dodici Tavole). Tale è il «dativo etico», il cui uso era stato ereditato dall'indoeuropeo. Dal punto di vista del significato esso non si allontanava troppo dal genitivo possessivo, e in latino è possibile dire sia «nostris animus augetur›› (Cesare), sia «ea animum eius non augebant›› (Cicerone), giacché la differenza fra i due modi d'espressione è tutta nel tono. Il dativo, piú carico di emotività, veniva preferito nel linguaggio popolare, tanto che in Petronio la maggior parte di tali dativi ricorre per lo piú nei brani dialogici «volgari ››; la consuetudine è sopravvissuta nelle lingue romanze. Inoltre il suo tono piú caldo lo rende adatto alle espressioni poetiche, mentre la prosa classica evita d'impiegarlo con i nomi, benché Cesare ne ammetta l'uso con i pronomi, nei confronti dei quali si dimostra meno esigente di Cicerone. L'idea di possesso era ulteriormente messa in evidenza, nel linguaggio popolare, dall'uso dell'aggettivo possessivo: ad esempio «meas mihi ancillas invito me eripis›› (Plauto). Queste abituali combinazioni di un aggettivo possessivo e di un dativo etico nella terza persona diedero luogo a una fusione di suus sibi, usato anche dove il pronome riflessivo era inesatto: «reddam suom sibi ›› (Plauto, Trinummus 156); «cum suo sibi gnato ›› (id., Asinaria 825); « priusquam tu suum sibi venderes ›› (Cicerone, Philippicae II 96). La persona (o cosa) può essere coinvolta non necessariamente con suo vantaggio o svantaggio materiale: l'interesse indicato può essere del tipo piú blando. Usando il dativo, specie nei pronomi della seconda persona, chi parla aggancia, per cosí dire, l'ascoltatore e lo attrae nell'orbita dell'azione, si assicura il suo interesse e la sua simpatia e lo convince che l'evento lo riguarda, come noi diciamo «c'è un bel pasticcio di pesce per te! ›› Questo è il cosiddetto

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dativo etico, che costituisce prevalentemente una caratteristica del caldo e intimo linguaggio colloquiale: ad esempio «em ergo hoc tibi ›› (Plauto); «atque eccum tibi lupum in sermone›› (id.), Analogo è l'uso di mihi : «quid mihi Celsus agitì» “cosa fa Celso che mi interessi ?' (Orazio). L'interesse o la partecipazione indicati possono essere quelli di un semplice osservatore dell'evento riferito, e in tal caso abbiamo il datifuus iudicantis: ad esempio «quasi piscis est amator lenae›› 'agli occhi di una mezzana un innamorato è una specie di pesce' (Plauto); «ut me purgarem tibi» ' come potevo giustificarmi con te' (id.); « erit ille mihi semper deus ›› (Virgilio). Questo dativo si sviluppò in seguito particolarmente in participi con un riferimento indefinito nelle espressioni di orientamento di luogo, ma una simile costruzione, cosí frequente nel greco, non è riscontrabile nel latino antico né in Cicerone, e il primo esempio è «quod est oppidum primum Thessaliae venientibus ab Epiro›› (Cesare, De bello civili III 80). È da notare che il latino predilige la forma plurale, dove il greco preferisce quella singolare. La stessa costruzione, da Orazio - e specialmente da Livio - in poi, si estese fino a indicare il punto di vista mentale: «vere aestimanti Aetolium magis bellum fuit ›› (Livio). Con le espressioni che indicano un obbligo, la persona interessata è considerata come agente: «faciendum est tibi ›› 'occorre fare qualcosa, e ciò tocca a te' (Plauto). Questi dativi sono soprattutto comuni con il gerundivo (abeundum est mihi ; tibi cavendum censeo; 'virtus nobis est colenda), e il loro uso si estese al participio perfetto passivo (ad esempio «argenti quinquaginta mihi illa emptast minis››, id., dove è ancora evidente il legame con il dativo di vantaggio; «mihi decretumst remunerare omne aurum», id.), e, infine, alle forme finite del verbo, compreso l'inƒectum («dissimillimis bestiis communiter cibus quaeritur», Cicerone, De natura deorum II 123). Nel latino antico i dativi costruiti con astratti verbali, ad esempio «quid tibi hanc digito tactio est?››, e «quid tibi... hic... clamitatiost?›› (Plauto), possono essere interpretati come dativi di agente, ma si mostrano chiaramente affini alla categoria del «possesso ››: «cos'è questo tuo gridare qui?›› I dativi di agente sono

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anche riscontrabili con gli aggettivi verbali in -bilis: amico exoptabilem (Lucilio); ma in questo caso potrebbe trattarsi altrettanto verosimilmente di un dati-vus iudicantis, «desiderabile ai tuoi occhi ››, oppure di una derivazione analogica del dativo di vantaggio dopo utilis, ecc. Tutte queste difficoltà che s'incontrano nel tentativo di stabilire distinzioni precise, valgono a rammentare come in latino il dativo possegga una sostanziale unità di funzioni. Strettamente connessi ai verbi di dare e prendere sono i gruppi semantici comprendenti le espressioni relative al portare e all'inviare: «hominem alicui adducere›› (Plauto); «iussit Euclioni haec mittere›› (Terenzio), ecc., e quelle significanti l'avvicinamento e Pallontanamento (occurro, appropinquo, cedo). In tali proposizioni il dativo della persona svolge la sua consueta funzione, consistente nell'esprimere il vantaggio e lo svantaggio. Quando però tale uso venne esteso ai nomi denotanti cose, si verificò un nuovo sviluppo: il coinvolgimento della cosa nell'azione venne costruito come il fine dell'azione medesima, e ciò è l'origine del dativo di scopo. Fra i primissimi esempi sono i dativi dei nomi astratti in -tus: ad esempio « receptui canere ››, « cibatui oifas positas», tipo di espressione caratteristica soprattutto delle lingue speciali dei militari e degli agricoltori. Altri esempi sono: «ager oppositust pignori» (Terenzio), «arraboni dare››, «pecuniam doti dare ››, «auxilio venire», «succurrere››, «mittere››, ecc. Questi dativi possono unirsi a quelli personali di vantaggio: donde il ben noto fraseggiare latino: «dare alicui pecuniam faenori ›› (Cicerone); « emit eam dono mihi ›› (Terenzio); « Sabinis eunt subsidio ››; «res et fortunae tuae mihi maximae curae sunt ›› (Cicerone), ecc. In virtú dello spostamento relazionale in proposizioni come satui semen dare, receptui signum dare, i dativi di scopo vengono a essere usati in senso aggettivale: «pabulum ovibus, bubis medicamentum›› (Catone), «triumviri agris dandis adsignandis ››, ecc. I dativi commodi con verbi di moto diedero vita a un altro «cerchio magico ››, vale a dire il dativo di direzione, che ebbe inizio con dativi personali del tipo «tun mihi huc hostis venis» (Plauto, Stichus 326). Anche in questo caso, l'estendersi della costruzione ai nomi che non fossero di

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persona costituí la base per una nuova interpretazione, germe dell'ulteriore evoluzione. Il primissimo esempio è l'antica formula Quiris leto datus; cfr. «me morti dabo›› (Plauto, Mercator 476). Da dare si ebbe un facile collegamento semantico con mittere: donde «morti mittere›› (Plauto). Ennio si concede un «conveniunt... tela tribuno››. Un istruttivo esempio di sviluppo ne è dato dalle costruzioni col dativo in cui figura Pespressione manus tendere: nella prosa classica gli autori si limitavano a. un dativo personale, ad esempio «Romanis de muro manus tendebant›› (Cesare, De bello Gallico VII 48.3): cfr. «manus diis immortalibus tendere» (Cicerone); a diis Virgilio sostituisce caelo: «caelo palmas tetendit››. Tale possibilità sintattica, una volta radicatasi nel latino, venne stimolata dal piú libero uso greco di questi dativi locali di scopo: donde le espressioni virgiliane «it clamor caelo››, «facilis descensus Averno», «pelago dona praecipitare», ecc. Abbiamo finora considerato il dativo nella sua funzione consistente nell'esprimere l'interesse o il coinvolgimento nell'azione verbale. Tali usi si diffusero ai corrispondenti aggettivi verbali, che assunsero il ruolo di centri focali intorno ai quali si raggrupparono moltissimi aggettivi latini che prendono il dativo. Fra essi hanno assunto una posizione predominante quelli denotanti prossimità (propiaquus, adfinis, vicinus, ecc.), similarità (similis, par, aequalis, congruens, aptus, ecc.), amicizia (amicus, carus, bene-volus, fidus, ecc.) e i loro contrari. L'ablativo. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, l'ablativo latino è un caso sincretistico che ha assunto le funzioni dell'ablativo originale, dello strumentale e del locativo. La nostra analisi dell'uso latino deve pertanto svolgersi sulla base di queste tre voci. L°ablativo puro. Questo caso sta a indicare il punto di partenza di un'azione, e può essere cosí rappresentato: ›-›. L'ablativo semplice rimane in uso con i nomi di città e di certe isole, nelle

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espressioni domo e rure e in poche formule fisse come manumittere, cedere loco. Ma il significato locativo era in genere rafforzato da preposizioni quali ab, ex, de, ecc. Se queste si uniscono al verbo per formare verbi composti, può persistere l'ablativo semplice: «patria hac ecfugiam», «oppido eicere», «portu exire››, «castris producit exercitum››. Questo caso appare assai piú raramente con i verbi semplici: «primus cubitu surgat›› (Catone), ma un simile uso era naturalmente influenzato dalla poesia, che tende a liberarsi delle parole non necessarie e incapaci, per loro natura, di accentuare la tensione emotiva. L'ablativo viene inoltre usato nelle espressioni indicanti la fonte o l'origine: «genere quo sim natus››, «sanguen dis oriundum ››, « humana matre natus ››, ecc. Sotto questo profilo, l'ablativo puro è conservato anche nella poesia e nel latino antico, ma già in quest'ultimo troviamo le preposizioni (« quo de genere natus est ››, Plauto) destinate in seguito a divenire consuete. Lo spostamento relazionale diede luogo agli ablativi aggettivali d'origine: «Periphanes

Rhodo mercator dives›› (id.), «Philocratem ex Alide›› (id.), «video ibi hospitem Zacyntho» (id.). Il cosiddetto ablativo di separazione non è altro che una sottovarietà lessicale dell'ablativo puro, ed è riscontrabile con i verbi che significano tener lontano, distogliere, ecc.: «ut te ara arceam» (Pacuvio); «interdicere igni et aqua», «abstinere nupta, vidua, virgine››; «anima privabo virum», ecc. Tali ablativi si trovano anche dopo gli aggettivi di significato corrispondente: «expers metu», «virginem dote cassam›› (Plauto); «arce et urbe orba sum ›› (Ennio); «Roma... recentes›› (Cicerone), cfr. «recentem caede locum» (Virgilio). L`ablativo di paragone si sviluppò da quello puro, che esprimeva il punto di vista dal quale un altro oggetto veniva giudicato. Nel latino antico questi ablativi sono assai piú rari delle costruzioni con quam, essendo soprattutto limitati 1) alle espressioni negative o virtualmente negative del tipo nihil hoc homine audacius e quis homo est me hominum miserior; 2) a espressioni come melle dulcior; e 3) a

espressioni numeriche dopo plus, minus, ecc. Nelle proposizioni comparative ordinarie, come «Cicerone è piú elo-

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quente di Cesare ››, l'ablativo di paragone non veniva usato nel latino antico. Anche nella prosa classica, la gran parte degli esempi è fornita da espressioni negative o seminegative. I poeti manifestano una certa preferenza per l'ablativo semplice rispetto alla costruzione, alquanto goffa, con quam sebbene anche in questo caso non sia da escludere l'influsso dei modelli greci. Ma in tutta la latinità rimane inalterata la tendenza a esprimere paragoni reali mediante la costruzione con quam, e di riservare l'ablativo di paragone alle espressioni enfatiche del tipo nive candidior, che noi dovremmo naturalmente rendere con l'equazione “bianco come la neve'. Nel tardo latino, quando l'evoluzione fonetica aveva cancellato le distinzioni fra i casi, l'ablativo di paragone venne sostituito da locuzioni prepositive. ab compare sin dall'inizio, ed è riscontrabile in Orazio dopo secundus, in Virgilio dopo alter. Uno dei primi esempi, dopo un comparativo, è «nec Priamost a te dignior ulla nurus›› (Ovidio, Heroides 15.98). Piú tardi, quando ab si confuse con ad, il suo posto nelle espressioni comparative venne preso da de. Il primo esempio di questa costruzione, progenitrice di quelle romanze come plus de, lo troviamo nelle Vitae Patrum, «plus facitis de nobis ›› (dal Iv al V secolo). Il sociativo-strumentale. Questo caso esprime «compagnia» o « unione ›› - stare insieme, mettere insieme, ecc. - e può essere cosí simbolizzato: -›