Kant e il modello cosmopolitico di pace perpetua [PDF]

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Zitiervorschau

Raimondo De Capua

Kant e il modello cosmopolitico di pace perpetua

Rubbettino

«.... i diritti dell’uomo nascono come diritti naturali universali, si svolgono come diritti positivi particolari per poi trovare la loro piena attuazione come diritti positivi universali». N . B obbio

Premessa

I problemi posti dal diritto internazionale si evolvono e si arricchiscono continuamente, in funzione del fenomeno sem pre più ampio e intrecciato della globalizzazione degli interes si delle varie nazioni e dei vari gruppi umani. Gli sbocchi del l’analisi critico-politica al riguardo sono pertanto sempre prov visori, anche se è pur necessario che si individuino dei punti fermi e irrinunciabili cui fare costante riferimento. Le proposte teoriche di Kant, certamente datate per alcuni aspetti, sono nel complesso straordinariamente attuali e rap presentano tuttora uno stimolo potente alla ricerca e alla ri flessione sul tema, sicché ci è parso opportuno rivisitarle e ri chiamarle nei loro tratti essenziali al fine di riproporre i ter mini di una prospettiva che, pur nella sua peculiarità, riassume una tradizione di pensiero e apre la via agli sviluppi critici del posteriore dibattito, oggi più che mai vivo nella sua ineludibi lità ed urgenza. Raimondo De Capua

Kant e il modello cosmopolitico di pace perpetua Nella Introduzione a L’età dei diritti, sottolineando la stretta connessione fra tre dei termini fondamentali del les sico politico, Norberto Bobbio afferma che il problema dei diritti dell’uomo «è estremamente connesso a quello della democrazia e a quello della pace (...). Il riconoscimento e la protezione dei diritti dell’uomo stanno alla base delle costi tuzioni democratiche moderne. La pace è, a sua volta, il pre supposto necessario per il riconoscimento e l’effettiva pro tezione dei diritti dell’uomo nei singoli stati e nel sistema in ternazionale. Nello stesso tempo il processo di democratiz zazione del sistema internazionale, che è la via obbligata per il perseguimento dell’ideale della «pace perpetua», nel sen so kantiano della parola, non può andare innanzi senza una graduale estensione del riconoscimento e della protezione dei diritti dell’uomo al di sopra dei singoli stati. Diritti del l’uomo, democrazia e pace sono tre momenti necessari del lo stesso movimento storico: senza diritti dell’uomo ricono sciuti e protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti (...). La democrazia è la società dei cittadini, e i sud diti diventano cittadini quando vengono loro riconosciuti al cuni diritti fondamentali; ci sarà pace stabile, una pace che non ha la guerra come alternativa, solo quando vi saranno cittadini non più soltanto di questo o quello stato, ma del mondo»1. Nell’intreccio indissolubile fra diritti dell’uomo, demo crazia e pace, Bobbio coglie, giustamente, l’eco del saggio di 1N. Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp. VII-Vili.

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Immanuel Kant, Per la pace perpetua, l’opera più celebre e teoricamente più impegnativa del pacifismo giuridico. Ela borata durante la rivoluzione francese nei termini di un «progetto filosofico», l’opera più illuministica del filosofo di Königsberg è apparsa nel 1795, all’indomani della pace fran co-prussiana di Basilea. Concependo la pace come il traguardo del processo dia lettico della storia e contestando che il diritto internaziona le e l’equilibrio tra le potenze siano strumenti efficaci per ga rantire la pace, Kant istituisce un nesso indissolubile fra la federazione mondiale, la pace universale e l’emancipazione umana. Il suo progetto di «pace perpetua», fondato «filoso ficamente», si distingue profondamente da quelli che lo han no preceduto, elaborati a tavolino da singoli pensatori o di plomatici, nel corso di quella vasta e molto variegata tempe rie culturale, che è l’età dei lumi, e concepiti come proposta da presentare per l’esecuzione ai potenti della terra2. La maggior parte di questi progetti pacifisti, facendo pro­ pria l’ipotesi giusnaturalistica e riprendendo, a volte con qual­ che correzione, la grande lezione di Hobbes, concepisce il processo di formazione della società internazionale ad analo gia del processo di formazione dello Stato, cioè estendendo il principio contrattualistico dai rapporti interindividuali a quel li internazionali. Secondo Hobbes, infatti, la pace è possibile soltanto se si esce dallo stato di natura, che è stato di guerra, e se ci si sottopone ad un’unica autorità superiore, ad un pote re comune «irresistibile». Del filosofo di Malmesbury, i teori ci del pacifismo giuridico, o della pace attraverso il diritto, ri fiutano però l’opinione secondo la quale non è necessario estendere il patto di unione al di fuori del singolo Stato. Per i 2 Sulla storia dell’idea di pace perpetua, cfr. D. ARCHIBUGI, Le utopie della pace perpetua, «Lettera internazionale», V, n. 22, 1989, pp. 55-59; D. ARCHIBUGI - F. V o lta g g io , Dai progetti di pace perpetua ad un modello co smopolitico di relazioni internazionali, saggio introduttivo a Aa. Vv., Filo sofi per la pace, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. IX-LXV; A. BURGIO, Per una storia dell’idea di pace perpetua, in I. K a n t , Per la pace perpetua, Pre fazione di Salvatore Veca. Traduzione di Roberto Bordiga con un saggio di Alberto Burgio, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 87-131.

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pacifisti, infatti, la guerra fra Stati è più dannosa e distruttiva di quella tra i singoli individui e tra gruppi sociali. Da ciò la ne­ cessità che gli Stati entrino vicendevolmente in un rapporto contrattuale riconoscendo un’autorità comune, che sia in gra­ do di dirimere, per via pacifica, le loro controversie. La tesi dei pacifisti non è esente da difficoltà, anche sul piano teorico. Tra l’organismo internazionale per la pace e il singolo Stato esiste un rapporto di analogia molto imper­ fetto. Il primo manca, infatti, di un’autorità giuridicamente coercitiva, che è la caratteristica fondamentale del secondo: l’istituzione internazionale per la pace non è in grado di im porre la sua legge alle nazioni allo stesso modo con cui il so vrano di uno Stato comanda ai suoi sudditi. Gli estensori dei progetti di pace perpetua escludono l’opportunità di affida re il mantenimento della pace ad una sorta di Stato univer sale sovranazionale, con potere coercitivo nei confronti dei singoli Stati nazionali. Questa esclusione - come si vedrà - è esplicita in Kant, che distingue, nettamente, tra uno «Stato di popoli» e una «federazione di popoli» e per difendere l’e guaglianza e la sovranità dei singoli Stati federati preferisce persino la guerra ad una pace d’imperio, che rischia di dar luogo al «più orribile dispotismo». Il precedente storico più immediato del contributo kan­ tiano alla tradizione pacifista è il Projet pour rendre la paix perpetuelle en Europe (1713-1717) dell’abate di Saint-Pier re, reso celebre, soprattutto, dall'Estratto e dal Giudizio sul medesimo che ne fece Rousseau: ad entrambi gli autori si ri ferisce più volte Kant, per criticarli. Il progetto di una re pubblica universale dei popoli, «al cui imperio tutti gli Sta ti particolari dovrebbero sottoporsi per obbedire alle sue leggi, può nella teoria di un abate di Saint-Pierre o di un Rousseau far buon effetto, ma non ha praticamente alcun valore». La pace universale durevole, fondata sul principio dell’alleanza perpetua fra gli Stati sovrani, cioè sul principio dell’equilibrio delle potenze europee, appare a Kant una «chimera» e gli suggerisce il confronto con la «casa di Swift, che era costruita secondo tutte le regole dell’equilibrio così perfettamente che, appena un passero vi si posava, subito

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essa crollava»3. L’ordinamento internazionale basato sull’e quilibrio delle potenze appare a Kant, appunto, troppo la bile e rischia di precipitare ad ogni passo nella guerra. Soltanto la federazione dei popoli rappresenta un vinco­ lo che consente di rendere funzionale il diritto internaziona le, «che decide le controversie dei popoli in modo civile co me per mezzo di un processo e non in modo barbaro (al mo do dei selvaggi), vale a dire per mezzo della guerra»4. I progetti di pace universale, elaborati da Saint-Pierre e da Rousseau, non si sono realizzati, secondo Kant, perché erano privi di fondamento filosofico. Kant non è un utopi sta. Nulla di più estraneo alla sua mente che il pensiero uto pico. Delle utopie in genere egli dice che è «dolce» immagi narle, ma è «temerario» proporle e «colpevole» sollevare il popolo per tentare di attuarle5. Per ovviare all’inconveniente dei suoi predecessori, Kant ancora, saldamente, il progetto di pace perpetua alla propria teoria etica e ad una filosofia della storia. Egli affida cioè la realizzazione del progetto di pace universale all’azione con sapevole dell’uomo, essere razionale per eccellenza, e, insie me, all’intervento provvidenziale della natura. Per Kant, in fatti, il conseguimento della «pace perpetua» universale non è «il sogno di un visionario», ma un dovere morale, pre scritto dalla «ragione pura pratica»: cioè un imperativo ca tegorico, che stabilisce che non ci debba essere nessuna guerra: «Ma ciò a cui il dovere ci obbliga è di agire secondo l’idea di questo fine, quantunque non vi sia la minima veri simiglianza teoretica che esso possa essere raggiunto, e quantunque anche l’impossibilità di esso non possa essere ugualmente dimostrata. Ora la ragione morale pratica pro nuncia in noi il suo veto irrevocabile: «Non ci deve essere nes3 I. K a n t, Sopra il detto comune: «Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, tradotti da Gioele Solari e Giovanni Vidari, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, UTET, Torino 1965, p. 280. 4 I. KANT, P er la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 301. 5 I. K a n t, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politici, cit., p. 545.

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suna guerra, né tra te e me nello stato di natura, né tra noi, come Stati»6. Per Kant, l’idea del conseguimento della pace non può essere effetto di un giudizio teoretico: come tale, cioè dal pun to di vista della «ragion pura», la pace sarebbe un’idea «im praticabile», qualcosa di assurdo e di poco edificante; rien trando, invece, in una prospettiva morale, la pace è condi zionata dell’impegno degli uomini a costituire la federazio ne dei popoli, intesa come approssimazione o «avvicinamen to» continuo all’idea della pace perpetua: «Così la pace per petua (ultima meta di tutto il diritto delle genti) è certo un’i dea impraticabile. Ma i principi politici che tendono a que sto scopo, che cioè servono a produrre tali alleanze degli Sta ti per avvicinare continuamente i popoli a un tale Stato, non sono più impraticabili, perché, siccome questo avvicina mento è un problema fondato sul dovere e in conseguenza anche sul diritto degli Stati, esso è certamente praticabile»7. Per superare lo scetticismo del «questo può esser giusto in teoria, ma non vale per la pratica», occorre trasferire, se­ condo Kant, il problema della pace dal piano empirico a quello della «ragion pura pratica», ossia del dovere. Infatti, egli precisa, «non si tratta più di sapere, se la pace perpetua sia una cosa reale o un non senso, e se noi non ci ingannia mo nel nostro giudizio teoretico, quando accettiamo il pri mo caso; ma noi dobbiamo agire sul fondamento di essa, co me se la cosa fosse possibile (...). Che, se noi non possiamo raggiungere questo scopo, e se esso rimane sempre per noi un pio desiderio, almeno noi non ci inganneremo certa mente facendoci una massima di tendervi senza posa, per ché questo è il nostro dovere»8. Scrive, a questo proposito, Giuseppe Lumia che, per Kant, la pace perpetua universale e lo Stato cosmopolitico, che solo è in grado di realizzarla, «sono degli ideali-limiti, 6 I. KANT, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in Scritti politici, cit., p. 226. 7 Ivi, p. 542. 8 Ivi, p. 546.

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che noi dobbiamo sforzarci di tradurre in realtà, sebbene non le esauriremo mai nelle nostre intenzioni. Non si tratta di un concetto teoretico, ma di un’idea regolativa, di un cri terio che serve come riferimento per l’interpretazione della realtà storica e come ideale pratico che ci obbliga ad agire conformemente ad esso, rappresentandolo come il fine ulti mo della nostra presenza nel mondo»9. Oltre che nella prospettiva morale, la realizzazione della pace perpetua è iscritta, secondo Kant, nello sviluppo mec canico della natura e, al tempo stesso, nel disegno generale della Provvidenza; infatti, la pace universale, ossia l’avvento di una comunità giuridica universale, è «il segno della rag giunta razionalità dei rapporti delle società politiche, cioè della conformità alle regole del diritto internazionale e del diritto cosmopolitico. Essa segna una doverosa meta finale ed un traguardo verso il quale la Provvidenza o natura spin ge gli uomini»10. Per Kant, infatti, la storia del genere umano progredisce verso un fine e a tale fine l’uomo è condotto consapevol mente dalla Provvidenza. Nella quinta tesi dell'Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), Kant afferma che «il più grande problema alla cui soluzione la na tura costringe la specie umana è di pervenire ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il diritto»11. La soluzione del «grande problema» avviene mediante due tappe fra loro interdipendenti: la prima riguarda l’uscita dal lo stato di natura degli individui; la seconda quella degli Sta ti, i quali dovranno, alla stessa maniera degli individui, por re un limite al loro antagonismo, costituendo un ordina mento giuridico universale, che garantisca la pace, condi zione preliminare della libera convivenza di tutti i popoli del pianeta. Infatti, secondo Kant, che afferma l’intreccio indis9 G. L umia, La dottrina kantiana del diritto e dello Stato, Giuffrè, Mi lano 1960, p. 123. 10 D. FAUCCI, Introduzione a I. K ant, Scritti di filosofia politica, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. XXVIII. 111. KANT, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopoli tico, in Scritti politici, cit., p. 128.

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solubile fra «costituzione civile» e «rapporto esterno fra gli Stati», il problema della instaurazione di «una costituzione civile perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno fra gli stati regolato da leggi, e non si può risolvere il primo senza risolvere il secondo»12. I requisiti fondamentali per giungere alla realizzazione della pace perpetua, che non sia quella dovuta alla trasfor mazione del pianeta in un «grande cimitero dell’umanità», sono enunciati da Kant nei tre articoli «definitivi» dell’im maginario trattato fra gli Stati: cioè, in una sequenza di ar gomenti di diritto pubblico, interno ed esterno, descritti an che nella seconda parte della «Dottrina del diritto»: il dirit to dello Stato, o costituzionale, che regola i rapporti fra lo Stato e i suoi cittadini, il diritto dei popoli, o internazionale, che regola i rapporti fra gli Stati, e quello cosmopolitico, che regola i rapporti di uno Stato con i cittadini degli altri Stati13. Scrive Bobbio, a questo proposito, che soltanto tenendo conto «di tutti e tre gli articoli definitivi, di cui il secondo è costitutivo, il primo e il terzo sono integrativi, ci si rende conto della straordinaria forza suggestiva che la teoria kan tiana della pace perpetua ha esercitato in tutti i tempi e an cora esercita nel nostro per la complessità dell’articolazione interna che procede di pari passo con la semplicità essen ziale della intera costituzione»14. Anche Veca sottolinea che «il primo e il terzo articolo presentano un tratto di marcata originalità», allo stesso mo do della «struttura dell’argomento a sequenza». Infatti, egli spiega, «la salienza della proposta filosofica di Kant dipen de (...) dalla connessione fra quanto è richiesto dai tre arti coli, considerati in un ordinamento che muove, per dir così, dalla specificazione dei principi di giustizia locale delle isti12 Ivi, p. 131. 13 I. KANT, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politi ci, cit., pp. 497-567. 14 N. BOBBIO, Introduzione a I. KANT, Per la pace perpetua. Un proget to filosofico e altri scritti, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1985, p. XVII.

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tuzioni politiche per pervenire ai principi di giustizia globa le per Stati e concittadini del mondo. Globalizzare la giusti zia locale: questa sembra essere la logica soggiacente al pro getto»15. Il primo articolo, secondo cui «la costituzione civile di ogni stato dev’essere repubblicana», riguarda il diritto pub blico interno, o costituzionale. Sulla scia di Rousseau, che aveva rimproverato all’abate di Saint-Pierre di non aver te nuto conto della tendenza dei principi al dispotismo, causa fondamentale della guerra (la guerra, appunto, come «ca priccio» dei principi secondo un’idea prevalente fra i filoso­ fi illuministi)16, Kant indica la condizione fondamentale del la pace perpetua nella democratizzazione interna degli Sta­ ti, cioè nella trasformazione delle istituzioni politiche dei singoli Stati in senso antidispotico. Il secondo articolo, se condo cui «il diritto internazionale dev’essere fondato su un federalismo di liberi Stati», appartiene al diritto pubblico esterno e tocca il tema delle relazioni internazionali. La fine dell’anarchia internazionale richiede, per Kant, la costitu zione di un sistema basato su un accordo fra gli Stati, i qua­ li appunto, grazie alla loro omogeneità costituzionale, rego lano pacificamente le loro relazioni, limitando così l’uso del­ la forza. Il terzo articolo, secondo cui «il diritto cosmopoli tico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità», focalizza il tema dei diritti degli individui e della loro pari dignità, indipendentemente dalle appartenenze e dai confini degli Stati. Con questo nuovo diritto, diverso dal diritto pubblico in terno e dal diritto pubblico esterno, Kant enuncia l’esigenza che ogni uomo sia considerato potenzialmente cittadino non solo di un singolo Stato, ma dell’intero pianeta, o del «vil laggio globale»17. 15 S. Veca, Prefazione a I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 13. 16 M. Mori, L'Illuminismo francese e il problema della guerra, in «Ri­ vista di filosofia», voi. LXV n. 2-3, Aprile-Settembre, Torino 1974, pp. 145-187. 17 I. Kant, Per la pace perpetua in Scritti politici, cit., pp. 291-305.

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Le idee sul «diritto pubblico», contenute nel progetto fi losofico Per la pace perpetua, non sono il risultato di una ri­ flessione occasionale, dal momento che Kant ritorna con fre quenza sulle stesse idee in diverse altre sue opere, precedenti e successive: nell ’Idea di una storia universale dal punto di vi sta cosmopolitico, primo scritto impegnativo di filosofia del­ la storia, apparso nel 1784, alcuni anni prima della Rivolu zione francese; nella terza parte, dedicata al rapporto fra mo­ rale e politica, di Sopra il detto comune: questo può essere giu sto in teoria, ma non vale per la pratica, pubblicato nel 1793, e nelle ultime due sezioni, rispettivamente dedicate al dirit to delle genti e al diritto cosmopolitico, dei Principi metafi­ sici della dottrina del diritto, pubblicati nel 1797. La prima pubblica manifestazione dell’interesse di Kant per il tema della pace perpetua, che occupa un posto cen trale nella considerazione teleologica della Storia universale, risale al 1784; l’ultima risale, invece, al 1797. Il tema della pa ce perpetua, che occupa anche un posto di rilievo nella filo­ sofia del diritto, essendo la soluzione proposta da Kant emi nentemente giuridica, non è perciò strettamente connesso «con l’esplosione delle guerre rivoluzionarie». Concepito in seguito alla notizia della pace di Basilea, che sancisce il rico noscimento della repubblica francese da parte della Prussia, il progetto kantiano di pace perpetua, indipendentemente dalle circostanze storiche, trova «la sua ragione d’essere e il suo sviluppo logico in una concezione generale della storia, della società e del diritto»18. Dal saggio kantiano, Per la pace perpetua, ci separano duecento anni, durante i quali la storia sembra aver fatto passi da gigante, creando fra il nostro e il mondo di Kant un solco incolmabile. Secondo Salvatore Veca, autore della Pre fazione ad una recente traduzione del testo kantiano, il mon do in cui viviamo è caratterizzato dall'intrecciarsi di «op portunità globali di pace» e «realtà globali di guerra», dal l’abbassarsi della «soglia della deterrenza nucleare», dall’o scillazione fra «universalismo e tribalismo». In questa situa18 N. BOBBIO, Introduzione a I. KANT, Per la pace perpetua cit., p. VIII.

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zione, diritti, democrazia, pace sono riconoscibili «in un sin golo puzzle rispetto a cui è difficile congedarsi o semplicemente rinunciare all’esercizio della ragione, o al suo uso pubblico»19. Nel progetto «filosofico» di Kant si riconosce, appunto, l’intreccio di questi temi e la spinta ad esercitare l’«uso pub blico della ragione o, come la chiama Umberto Eco, la «fun zione dell’intellettuale», che consiste nel dovere, inteso in senso kantiano, di proclamare «l’impossibilità della guerra», anche se non «vi fosse alternativa»20. Chiunque intenda esercitare la funzione critica della ra gione potrà trovare nelle pagine di Kant, secondo Salvatore Veca, «le impronte e le tracce vive di un progetto filosofico audace ed illuminante tanto quanto caratterizzato dalla con sapevolezza della problematicità e della impervia difficoltà dei suoi esiti ai fini del nostro continuo approssimarci alla pace perpetua»21. Nonostante la «impervia difficoltà dei suoi esiti», con l’i dea della pace perpetua bisogna confrontarsi costantemen te. La rinuncia all’esercizio della funzione intellettuale, e cioè al dovere di «approssimarci», il più possibile, all’idea della pace perpetua incoraggia, con la nostra inerzia, la schiera di coloro che, secondo Kant, dicono che «il mondo andrà sempre così com’è andato sinora», e in questo modo contribuiscono «a far sì che la loro previsione si avveri»22. Per differenziare il proprio progetto di pacifismo giuri dico da quelli dei suoi predecessori, Kant ricorre a conside­ razioni teleologiche ed etiche, che non godono, soprattutto le prime23, di molta credibilità. Scrive, a questo proposito, 19 S. VECA, Prefazione a I. KANT, Perla pace perpetua, cit., pp. 7-8. 20 U. Eco, Pensare la guerra, in «La Rivista dei libri» I, n. 1, aprile 1991. 21 S. V eca, Prefazione a I. Kant , Per la pace perpetua, cit., p. 11. 22 I. K ant , In che cosa consiste il progresso del genere umano verso il meglio?, in Scritti politici, cit., p. 234. 23 M. D al Pra, Pace, guerra atomica e dialettica, in Aa. Vv. Cultura per la pace, Artecultura, Milano 1982, pp. 111-117; dello stesso Autore, Inter vento, in Aa. Vv., Disarmo o sterminio? LUmanità al bivio del2000, Mazzotta, Milano 1983, pp. 69-73.

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Salvatore Veca che non possiamo essere tenuti «a una ec cessiva deferenza verso un capitolo di filosofia della storia che non sembra da tempo godere più di grande prestigio», né possiamo aderire alle «pretese normative» della dottrina etica di Kant, oppure «alla concettualizzazione della politi ca come attività intrinsecamente subordinata alla morale»24. È probabile - rileva ancora Veca - che il progetto «filosofi co» di Kant, disancorato da una filosofia della storia, «risulti inesorabilmente utopistico nel senso peggiorativo del termi ne»25. Tuttavia, nonostante questo e altri suoi limiti storico-teorici, il progetto kantiano offre valide indicazioni per compren dere l’intreccio dei problemi più complessi del nostro tempo sui quali è chiamata a riflettere la coscienza contemporanea, «impegnata in una affannosa ricerca di punti di riferimento ideali, capaci di farle superare la crisi che attraversa»26. Fra i temi più complessi del nostro tempo, Bobbio indi ca, come si è visto, quello dei diritti, della democrazia e del­ la pace, considerandoli appunto un’eco degli articoli «defi nitivi» del progetto filosofico di Kant. Per dare a questi te­ mi un fondamento, che tenga anche conto della «lezione dei classici», la filosofia politica di Kant offre, secondo l’unani me consenso degli interpreti, un ricco modello teorico. Per definire le condizioni di possibilità di pace, Kant suggerisce di riflettere su alcune grandi dicotomie del pensiero politi­ co: sulla dicotomia democrazia-stati totalitari (e sul connes­ so contrasto pace-guerra), su quella dell’anarchia-diritto nel sistema internazionale, ossia sul fondamento del federali­ smo, nonché sulla difficile convivenza fra i coinquilini del pianeta, soprattutto per quanto attiene alla protezione dei diritti umani in ambito internazionale. Se pure una distanza incolmabile sembrerebbe separare il nostro mondo da quello di Kant - scrive, a questo proposito, Alberto Burgio -, «resta fondamentale l’idea che l’analisi del­ 24 S. VECA, Prefazione a I. KANT, Per la pace perpetua, cit., p. 11. 25 Ivi, p. 17. 26 G. BEDESCHI, Il pensiero politico di Kant, Editori Laterza, Roma-Bari 1994, p. 5.

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le cause oggettive dei conflitti sociali e internazionali e l’agi­ re concreto per il riconoscimento dei diritti fondamentali di ogni uomo siano premessa ineludibile all’eliminazione della violenza e alla realizzazione di una pace durevole, per quan­ to, almeno, possono durare nel tempo le cose degli uomi­ ni»27. Per comporre un quadro d’assieme del pensiero politi­ co di Kant, in relazione al tema della pace internazionale, è indispensabile, a causa della connessione fra quanto è richie­ sto dai tre articoli, saldare le varie parti del sistema che stan­ no a fondamento degli stessi articoli «definitivi» del proget­ to «filosofico». Nel primo articolo, Kant pone come prima condizione che tutti gli Stati, per potersi riunire in una con­ federazione universale, la sola in grado di eliminare la vio­ lenza e realizzare la pace perpetua, devono avere una identi­ ca costituzione, e questa costituzione deve essere «repubbli­ cana». L’ordinamento repubblicano è da Kant contrapposto a quello dispotico, tipico degli Stati monarchici. Il concetto di repubblica non s’identifica, in Kant, con quello odierno di democrazia. Il contrasto che ai tempi di Kant si poneva fra repubblica e monarchia, rispetto alla mi­ nore o maggiore bellicosità, oggi si pone fra democrazia e Stati totalitari. L’ordinamento repubblicano, privilegiato da Kant e quello democratico assolvono, però, una analoga fun­ zione: sono cioè, per loro natura, più pacifici degli Stati di­ spotici, o totalitari. Pertanto proprio dal modello cosmopo­ litico di Kant, che incarna l’idea della cosmopolis come co­ munità di cittadini, Bobbio rileva infatti, come si è visto, la stretta connessione fra democrazia e pace, sottolineando che l’unico modo per garantire la pace perpetua sia quello di ar­ monizzare, in senso decisamente democratico, l’intero siste­ ma internazionale. Le indicazioni fornite da Kant, attraver­ so il modello cosmopolitico, costituiscono, com’è stato giu­ stamente sottolineato, «un fruttuoso punto di partenza per la trasformazione delle relazioni internazionali contempora­ nee, ossia per un sistema internazionale che favorisca la de­ 27 A. BURGIO, Per la storia dell’idea di pace perpetua, in I. KANT, Per la pace perpetua, cit., p. 115.

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mocrazia tanto all’interno degli stati che nei rapporti fra gli stati»28. Kant privilegia la costituzione repubblicana, perché essa è, per sua natura, pacifica, richiedendo la partecipazione diret­ ta dei cittadini alla gestione del potere. La ragione per cui l’or­ dinamento repubblicano, in contrasto con quello degli Stati monarchici, è in grado di garantire la pace infatti, secondo Kant, sta nel fatto che, «se (...) è richiesto l’assenso dei citta­ dini per decidere se la guerra debba o non debba essere fatta, nulla di più naturale pensare che, dovendo far ricadere sopra di sé tutte le calamità della guerra (...), essi riflettano a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco». Kant condivide l’opi­ nione della cultura illuministica, secondo la quale la guerra è frutto del «capriccio» dei sovrani. In una costituzione dispo­ tica - egli afferma infatti - in cui il suddito non è cittadino ed il sovrano è proprietario dello Stato, «la guerra diventa la co­ sa più facile del mondo». Non rimettendoci nulla, i sovrani as­ soluti decidono della guerra come se si trattasse di una parti­ ta di piacere, come cioè una sorta di divertissement - nel sen­ so pascaliano del termine -, non diverso dalla caccia, affidan­ do quindi, «per salvare le apparenze, al corpo diplomatico, pronto in ciò in ogni tempo, il compito di giustificarla»29. Per la sua natura antidispotica, Kant attribuisce grande rilevanza alla costituzione «repubblicana», elevandola a ran­ go di primo articolo «definitivo» del progetto «filosofico» di pace internazionale. Prescindendo dalle questioni dottrina­ li, l’esigenza repubblicana come «forma» di governo privile­ giata da Kant contiene «un riferimento trasparente alla Francia rivoluzionaria, il più grande paese repubblicano d’Europa»30. La definizione di governo «repubblicano», 28 D. A rchibugi - F. V oltaggio, Introduzione a Aa. Vv. Filosofia per lapace, cit., p. LUI. Sulle implicazioni internazionali della democrazia, con particolare riferimento a Kant; cfr. M ,V. D oyle, La voce del popolo. La teo­ ria politica delle implicazioni internazionali della democrazia, in «Teoria po­ litica», XI, n. 2,1995, pp. 3-31. 29 I. K ant, Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., pp. 293-294. 30 A. BURGIO, Per la storia dell’idea di pace perpetua, in I. K ant, Per la pace perpetua, cit., p. 106. Sulla possibilità di leggere nel progetto kantia-

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contrapposta a quella di regime dispotico, deriva a Kant da Rousseau, per il quale, appunto, «ogni governo legittimo è repubblicano»31. Contrapposto al governo dispotico, è an­ che il «governo patriottico», identificato da Kant con quel­ lo repubblicano: «Non un governo paterno, ma un governo patriottico (imperium non paternale, sed patrioticum) è quel­ lo che solo può essere concepito per uomini capaci di dirit­ ti»32. Identificando, in altro contesto, il governo patriottico con quello repubblicano, Kant scrive appunto: «Un gover­ no, che fosse nello stesso tempo legislatore, potrebbe giu­ stamente chiamarsi dispotico in opposizione al governo pa­ triottico»33. L’obbiettivo polemico costante di Kant è lo Stato dispoti­ co, nel quale, per mancanza di alcune fondamentali garanzie legali, regna l’arbitrio più assoluto. Stato dispotico per eccel­ lenza, contrapposto a Stato di diritto, ch’è lo Stato ideale di Kant, è tanto lo Stato paternalistico, o eudemonistico, quan­ to quello democratico. La forma di governo che più si avvi­ cina all’ideale kantiano è quella repubblicana, la quale eser­ cita il potere legalmente, in quanto deriva dalla «pura fonte del diritto», e realizza in se stessa il triplice principio della li­ bertà dei membri di una società in quanto «uomini», della di­ pendenza di tutti da un’unica comune legislazione in quanto «sudditi» e dell 'eguaglianza di tutti in quanto «cittadini»34. Poste queste premesse, la struttura interna dello Stato as­ sume, in Kant, un’impronta fondamentale. Respingendo la tesi dei teorici dell’assolutismo, per i quali la bontà o meno dello Stato dipende dalla personale bontà o cattiveria del no, redatto nell’estate del 1795, all’indomani della pace franco-prusssiana di Basilea, una sorta di manifesto rivoluzionario, cfr. D. LOSURDO, Autecensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Bibliopolis, Napoli 1983, pp. 55-64 e 84-171. 31J.J. ROUSSEAU, Contratto Sociale, II, 6, trad. it. di R. Mondolfo, Cap­ pelli, Bologna 1949, p. 195. 32 I. KANT, Sopra il detto comune, in Scritti politici, cit., p. 225. 33 I. KANT, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politi­ ci, cit., p. 503. 34 Ivi, pp. 292-293

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principe, Kant considera buona esclusivamente quella for­ ma di governo che realizza in se stessa «l’idea di diritto». Per queste ragioni - sottolinea Gennaro Sasso -, il problema del­ le forme politiche di governo «diviene per Kant il problema in certo senso pregiudiziale di tutta la filosofia giuridica e politica»55. Kant riduce le forme politiche di governo ad una sempli­ ce questione di legalità o di illegalità. Dei due diversi criteri comunemente assunti per la distinzione delle forme politi­ che, quella che tiene conto di «chi governa», ossia della dif­ ferenza delle «persone» che tengono il potere sovrano (uno, pochi, o molti) e che Kant chiama «propriamente la forma del dominio (forma imperii)», è del tutto inconsistente ri­ spetto a quella che tiene conto, invece, del «come governa», cioè del modo come i governanti, indipendentemente dal numero (uno, pochi, molti), esercitano il loro potere legal­ mente o arbitrariamente, e che Kant chiama «forma di go­ verno [forma regiminis)»36. Kant fonda su questo secondo criterio la distinzione fra «repubblica» e «dispotismo». La forma repubblicana non si contrappone dunque, secondo la classica distinzione già no­ ta ad Aristotele, a quella monarchica, bensì ed unicamente al dispotismo, ch’è, per Kant, l’assenza di legalità. Nulla to­ glie quindi, non coincidendo le due distinzioni, quella tra autocrazia, aristocrazia, democrazia, e quella tra repubblica e dispotismo, che la forma di governo repubblicana possa coesistere anche con una forma di sovranità monarchica: ch’è, appunto, la forma preferita da Kant, «corrispondente grosso modo, a quella forma di governo che diventerà comu­ ne a tutti gli stati d’Europa con la caduta delle monarchie as­ solute, cioè alla monarchia costituzionale»37. Kant rileva in­ fatti, a questo proposito, che «è dovere dei monarchi, anche 35 G. SASSO, Introduzione all’Antologia degli scritti politici di E. Kant, cit., il Mulino, Bologna 1961, pp. 21-22. 36 I. Kant, Ver la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 294. 37 N. B obbio , Diritto e Stato nel pensiero di E. Kant, Giappichelli, To­ rino 1957, p. 237.

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se autocratici, di governare in forma repubblicana (non de­ mocratica), cioè di trattare il popolo secondo principi conformi allo spirito delle leggi di libertà (cioè quali un po­ polo di matura ragione prescriverebbe egli stesso), anche se, stando alla lettera a questo popolo non viene richiesto il suo consenso»38. Per Kant, dunque, «repubblica» significa un certo metodo di governo, anche se chi applica quel determi­ nato metodo di governo sia poi un monarca, che governi sul­ la base di principi e di regole che caratterizzano il buon go­ verno, che, per Kant, si identifica con quello «rappresenta­ tivo»; infatti, egli sostiene, «ogni forma di governo che non sia rappresentativa, è propriamente informe, poiché il legi­ slatore può essere in una sola e medesima persona esecuto­ re del proprio volere»39. La repubblica, intesa come metodo di governo, non si identifica con la democrazia, che, per Kant, oltre ad essere la forma politica «più complicata di tutte», equivale al di­ spotismo40. «Delle tre forme di governo - scrive Kant infatti-la forma democratica nel senso proprio della parola è ne­ cessariamente un dispotismo, perché essa stabilisce un pote­ re esecutivo in cui tutti deliberano anche contro uno (che non è d’accordo con loro), e quindi tutti deliberano anche se non sono tutti, il che è una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà»41. Il metodo di governo, che consente di distinguere un go­ verno repubblicano da un governo dispotico, è il principio della separazione dei poteri: «Il regime repubblicano applica il principio politico della separazione del potere esecutivo (governo) dal potere legislativo; il dispotismo è l’arbitraria esecuzione delle leggi che lo Stato si è dato: in esso la volontà pubblica è sostituita dalla volontà privata del sovrano»42. 38 I. K a n t, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio,

in Scritti politici, cit., pp. 225-226. 39 I. Kant , Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 295. 40 I. K a n t, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politi­ ci, cit., p. 530. 411. K ant, Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., pp. 294-295. 42 Ivi,- p. 294.

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Considerando la separazione dei poteri come elemento ca­ ratteristico dello Stato repubblicano, Kant accoglie nel pro­ prio sistema uno dei cardini fondamentali dello Stato libera­ le moderno e rivela, al tempo stesso, l’affinità di ispirazione con Montesquieu43. Scrive, a questo proposito, Gioele Solari che Kant, invocando la separazione dei poteri come mezzo per impedire la formazione del governo dispotico e a tutela della libertà dei cittadini, «si ispira a Montesquieu». Tutta­ via, mentre Montesquieu aveva concepito i tre poteri - legi­ slativo, esecutivo, giudiziario - «in un rapporto puramente meccanico, senza spiegare come la molteplicità dei poteri potesse conciliarsi con l’unità e indivisibilità della sovranità dello Stato, Kant concepisce i tre poteri uniti e distinti a un tempo come le tre proposizioni di un sillogismo»44. Solari riconosce, giustamente, maggiore rigore formale a Kant rispetto a Montesquieu, dal quale pure il filosofo te­ desco trae l’ispirazione nell’analisi del principio della sepa­ razione dei poteri. Per entrambi, infatti, la teoria della divi­ sione dei poteri è un’esigenza di libertà, avvertita primiera­ mente da Montesquieu, riflettendo sul sistema: politico in­ glese del suo tempo, caratterizzato da un «equilibrio» fra monarca, nobiltà, borghesia: «Vi sono in ogni Stato tre spe­ cie di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, ed il potere ese­ cutivo delle cose che dipendono dal diritto civile (...). Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magi­ stratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguir­ le tirannicamente. E non vi è libertà neppure quando il po­ tere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il po­ tere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al po­ 43 G. SASSO, Introduzione all’Antologia degli scritti politici di E. Kant,

cit., p. 23. 44 G. SOLARI, Introduzione a I. KANT, Scritti politici, cit., p. 17.

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tere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un op­ pressore»45. Montesquieu, come si vede, non teorizza una rigida se­ parazione fra i tre poteri dello Stato, attribuendoli a tre «orga­ ni» separati; al contrario, soltanto il potere legislativo - quello che rappresenta la volontà generale dello Stato - deve esse­ re distribuito fra Re, Camera Alta e Camera Bassa, tre orga­ ni, che rappresentano gli interessi permanenti del Regno. La distinzione dei poteri non coincide, però, con quella degli organi46. Per Kant, che, a differenza di Montesquieu, trae ispira­ zione dalla realtà socio-politica scaturita dalla Rivoluzione francese, l’unità della volontà generale dello Stato «si de­ compone in tre persone {trias politica): il potere sovrano (la sovranità), che risiede nella persona del legislatore; il potere esecutivo nella persona che governa (conformemente alle leggi); e il potere giudiziario (che assegna a ciascuno il suo se­ condo la legge) nella persona del giudice (potestas legislatoria, rectoria et iudiciaria)». Kant osserva, quindi, che i tre po­ teri dello Stato si configurano nelle forme di un «sillogismo pratico»: alla proposizione maggiore corrisponde il potere legislativo, «che contiene la legge della volontà», vale a dire la norma generale ed astratta; alla proposizione minore cor­ risponde il potere esecutivo, «che contiene il comando di comportarsi secondo la legge»; alla conclusione corrispon­ de, infine, il potere giudiziario, cioè la «sentenza» del giudi­ ce che decide, nel caso controverso, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto47. Kant precisa, quindi, il proprio pensiero in ordine al rap­ porto fra i tre poteri: un rapporto definito da Bobbio di «di­ stinzione nell’unità»48. Infatti, secondo Kant, i tre poteri del­ 45 M o n te s q u ie u , Esprit des Lois, Libro XI, 6, Antologia degli scritti politici, a cura di N. Matteucci, il Mulino, Bologna, 1961, pp. 147-148. 46 Sulla distinzione fra organi e funzioni, cfr. N. M a tteu cci, Introdu­ zione all’Antologia degli scritti politici del Montesquieu, cit., pp. 29-31. 47 I. K a n t, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politi­ ci, cit., pp. 499-500. 48 N. B o bbio ¡Diritto e Stato nel pensiero di E. Kant, cit.,p. 241.

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lo Stato sono, in primo luogo, «coordinati» tra loro, cioè l’u­ no è «il complemento necessario degli altri due per la com­ piutezza (complementum ad sufficientiam) dello Stato»; in secondo luogo, essi sono subordinati, nel senso che «uno non può usurpare nello stesso tempo le funzioni dell’altro»; in terzo luogo, essi sono uniti nel senso che soltanto dalla sintesi delle loro singole funzioni è dato «a ogni cittadino ciò che gli è dovuto»49. Il caposaldo della teoria della divisione dei poteri è la su­ periorità del potere legislativo sugli altri due poteri. Kant af­ ferma, a proposito del potere legislativo, che esso «può spet­ tare soltanto alla volontà collettiva del popolo» e, afferman­ do che il cittadino non può essere danneggiato da ciò che egli stesso ha deciso «riguardo a se stesso (perché volenti non fit iniuria)», conclude che soltanto «la volontà concorde e collettiva di tutti, in quanto ognuno decide la stessa cosa per tutti, e tutti la decidono per ognuno, epperò soltanto la vo­ lontà collettiva del popolo può essere legislatrice»50. Nonostante queste affermazioni di principio di chiara ispirazione rousseauiana, Kant non è un pensatore demo­ cratico. La limitazione dei «diritti politici» da parte di Kant ai soli possidenti è la più chiara manifestazione che il suo pensiero differisce, radicalmente, da quello di Rousseau, no­ nostante il grande fascino che quest’ultimo esercita sul suo pensiero. Kant, infatti, rimane sostanzialmente legato e coe­ rentemente fedele al principio liberale della libertà, e le sue formulazioni teoriche, la sua apertura verso forme democra­ tiche di governo, non trovano mai, nel suo sistema politico generale, applicazione pratica. L’eguaglianza teorizzata da Kant (e, in generale, riaffer­ mata dai teorici liberali) trova la sua giustificazione soltanto se viene riferita al regime di privilegio monarchico, che ha sempre misconosciuto l’eguaglianza politica dei cittadini. L’e­ guaglianza non deve essere soltanto formale, eguaglianza cioè 49 1. K a n t, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politi­ ci, cit., pp. 502-503. 50 Ivi, p. 500.

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davanti alla legge già fatta, alla quale il cittadino deve ade­ guarsi, ma anche e soprattutto eguaglianza nella formazione della legge. Commentando la definizione kantiana di «libertà giuridica», contenuta nel progetto «filosofico»51, Giuseppe Bedeschi rileva infatti che Kant, nonostante quella formula­ zione di chiara intonazione rousseauiana, «si iscrive non già nella tradizione democratica, bensì in quella liberale»52. 51 è visto che alla esaltazione della costituzione repubbli­ cana fa riscontro, in Kant, la violenta polemica contro la de­ mocrazia, considerata necessariamente una forma di dispoti­ smo, in quanto in essa le assemblee esercitano sia il potere le­ gislativo sia quello esecutivo, cioè, come precisa Bedeschi, es­ se «deliberano e governano a un tempo»53. Contrapponendo la costituzione repubblicana a quella democratica, Kant non riesce a ricongiungere pienamente la propria vocazione paci­ fista con quella democratica, non riesce a superare cioè il di­ vario fra pace e democrazia, intesa, quest’ultima, come so­ vranità popolare esercitata direttamente dal popolo, e nega, di conseguenza, quanto «mostrava l’esperienza storica della rivoluzione americana e francese, ossia la nascita contempo­ ranea dell’ordinamento repubblicano e della democrazia»54. Una volta affermata l’indispensabilità della costituzione repubblicana, la sola in grado di evitare per principio la guerra, Kant si pone il problema di come adeguare a tale co­ stituzione ideale quella degli Stati storicamente esistenti, cioè quale debba essere, in concreto, il processo di trasfor­ mazione politica alPinterno di ogni singolo Stato. In pole­ mica diretta contro le teorie politiche estreme, Kant nega il 511. Kant , Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 292. 52 G. BEDESCHI, Il pensiero politico di Kant, cit., p. 42. Sulla coesisten­ za delle due anime della libertà, quella come «autonomia» di derivazione rousseauiana, e quella come «non-impedimento», che caratterizza, in ge­ nerale, il pensiero politico e giuridico kantiano, cfr. N. Bobbio , Due con­ cetti di libertà nel pensiero politico di Kant, in Aa. Vv., Studi in onore di Emilio Crosa, Giuffrè, Milano, 1960, Voi. I, pp. 219-235. 53 Ivi, p. 41. 54 D. A rchibugi - F. V oltaggio , Introduzione a A a . Vv. Filosofi per la pace, cit., p. XLIX.

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diritto di resistenza e di ribellione da parte del popolo, anche di fronte alle leggi manifestamente ingiuste, e sostiene che la modificazione della costituzione deve essere soltanto il risul­ tato delle riforme affidate al sovrano: «Un cambiamento nel­ la costituzione (difettosa) dello Stato, cambiamento che può ben essere talvolta necessario, può (...) essere eseguito sol­ tanto dal sovrano stesso a mezzo di riforme, ma non dal po­ polo, e quindi non da una rivoluzione; e se mai questa rivo­ luzione ha luogo, essa non può colpire che il potere esecuti­ vo, e non il potere legislativo»^. Per Kant, infatti, «ogni resistenza al supremo potere legi­ slativo, ogni rivolta diretta a tradurre in atto il malcontento dei sudditi, ogni sollevazione che mette capo alla ribellione, è il delitto più grande e più esecrabile che si possa commettere in uno Stato, essendo quello che ne distrugge le fondamen­ ta». Kant spiega - di seguito al passo citato - che questo di­ vieto è «assoluto», anche nel caso «di governo dispotico»56. Per Kant, il cittadino deve allo Stato la propria esistenza e al­ lo Stato deve, appunto, completa obbedienza. Kant ribadisce, quindi, che «contro il supremo legislatore dello Stato non vi può essere dunque nessuna opposizione legittima da parte del popolo», il quale ha il dovere di sopportare l’abuso del pote­ re, «persino quando questo è dato come insopportabile»57. Perciò, spiega Kant, «si deve ubbidire al potere legislativo at­ tualmente esistente, qualunque possa esserne l’origine»58. Ogni attentato contro la costituzione esistente è ingiusto e deve essere considerato, per Kant, «come contrario alla leg­ ge, anzi come distruggente l’intera costituzione civile»59. Se una costituzione riconosce il diritto di resistenza, il legislato­ re cessa di essere sovrano e il principio di sovranità viene va­ nificato. Kant arriva a sostenere che «una qualsiasi costitu­ 55 I. K ant , Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politi­ ci, cit., pp. 509-510. 56 1. K a n t, Sopra il detto comune, in Scritti politici, cit., p. 265. 57 I. K a n t, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politi­ ci, cit., pp. 507. 58 Ivi, p. 506. 597w',p. 507.

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zione legale, anche se solo in piccolo grado conforme al di­ ritto, è sempre migliore che la mancanza di ogni costituzio­ ne, e una riforma precipitosa avrebbe come ultimo risultato l’anarchia»60. Nell’approssimarsi alla costituzione repubbli­ cana, che è la forma di governo ideale di Kant, è necessario muoversi con estrema cautela ed evitare di abolire una co­ stituzione giuridica «prima che una migliore costituzione sia pronta per sostituirla»61. Kant suggerisce, quindi, di non procedere all’instaurazione di una costituzione repubblica­ na « fino a quando il popolo non diventi a poco a poco ca­ pace di subire l’influsso della pura idea dell’autorità della legge (proprio come se questa fosse dotata di forza fisica) e non sia maturo per la sua propria legislazione (la quale è ori­ ginariamente fondata sul diritto)»62. Procedendo nella sequenza degli argomenti tratteggiati negli articoli «definitivi» del progetto «filosofico», Kant af­ fronta, «grazie all’estensione analogica del contratto socia­ le»63, il tema dell’assetto delle relazioni internazionali. La confederazione internazionale di «liberi Stati» e la costitu­ zione repubblicana di ogni singolo Stato giuridico costitui­ scono, per Kant, i presupposti istituzionali della pace per­ petua universale. Il sistema concettuale entro il quale Kant si muove per costruire la sua teoria della pace perpetua è quello giusnatu­ ralistico, o hobbesiano, dal nome del suo capostipite, Hobbes, appunto64. Il modello hobbesiano, ideato dai giusnaturalisti per descrivere il processo di formazione dello Stato e giustificarne razionalmente l’esistenza, è dicotomico, costi­ tuito cioè da due elementi fondamentali contrapposti: lo sta­ 60 I. K ant , Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 230. 61 Ivi, p. 319. 62 Ivi, p. 320. 63 S. VECA, Prefazione a I. K a n t, Per la pace perpetua, cit., p. 12. 64 N. B obbio, Prefazione a I. K a n t, Perla pace perpetua, cit., pp. VIII-

IX. Per una circostanziata ricostruzione del sistema concettuale dei giusnaturalisti, cfr. N . B obbio, Il modello giusnaturalistico, in N. B obbio - B oVERO, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano 1979, pp. 17-109.

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to di natura e lo stato civile. In quanto antitetici, il passaggio dall’uno all’altro non avviene necessariamente, per la forza delle cose, ma per mezzo di uno e più atti di volontà degli stessi individui, interessati ad uscire dallo stato di «libertà selvaggia» e a vivere secondo ragione. Nel processo di formazione dello Stato, prima tappa del­ la società giuridica universale, Kant segue il modello giusna­ turalistico: assume cioè come punto di partenza lo stato di natura, come punto di arrivo la società civile e come mezzo del passaggio dall’uno all’altro il contratto sociale. Pur ado­ perando gli stessi temi dei giusnaturalisti, Kant li trasvaluta, sottoponendoli ad alcune importanti variazioni, che tuttavia non inficiano la validità del modello. Di Hobbes, ideatore inconsapevole del modello, Kant condivide la massima secondo la quale lo stato di natura è uno stato di guerra o, come egli lo chiama, di diritto «provviso­ rio», dal quale si deve uscire necessariamente per costituire la società civile, che è uno stato giuridico, o di diritto «perento­ rio», per usare ancora la terminologia kantiana. Assertore di un’etica deontologica, Kant concepisce il passaggio dallo sta­ to di natura allo stato civile non come qualcosa di utile, di ne­ cessario, ma di doveroso: il passaggio avviene, appunto, non per una regola della prudenza, ma per una norma morale. La doverosità deriva dal fatto che gli uomini, rimanendo «in uno stato che non è giuridico», nel quale nessuno ha la sicurezza «del suo contro la prepotenza degli altri», commettono verso se stessi «una ingiustizia in massimo grado»65. Perciò —sottolinea con forza Kant, - «l’uomo deve uscire dallo stato di na­ tura (...) e unirsi con gli altri (...), sottomettendosi ad una co­ stituzione esterna pubblicamente legale (...); vale a dire (...), ognuno deve, prima di ogni altra cosa, entrare in uno stato ci­ vile»66. Il superamento dello stato di natura è una esigenza morale, che Kant chiama «postulato di diritto pubblico» e dà, quindi, di esso la seguente formulazione: «Dal diritto privato 65 I. KANT, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politi­ ci, cit., p. 494. 66 Ivi, p. 498.

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nello stato di natura scaturisce ora il postulato del diritto pub­ blico: tu devi, grazie al rapporto di coesistenza che si stabili­ sce invitabilmente tra te e gli altri uomini, uscire dallo stato di natura per entrare in uno stato giuridico, vale a dire in uno stato di giustizia distributiva»67. All’origine della società civile, Kant pone, in armonia con la tradizione giusnaturalistica, il contratto originario, che è «l’unico sul quale si può fondare una costituzione civile uni­ versalmente giuridica tra gli uomini e si può costituire una comunità». Il contratto originario è inteso «come unione di tutte le volontà particolari e private di un popolo in una vo­ lontà comune e pubblica, ai fini di una legislazione sempli­ cemente giuridica». Rispetto alla tradizione giusnaturalisti­ ca, Kant apporta al contratto originario una variante fondamentale: non considera il contratto come un «fatto storico», alla maniera di Locke, ma come «una semplice idea della ra­ gione»; un principio razionale che consente di misurare la ra­ zionalità e la legittimità dello Stato. Si tratta, spiega Kant, che qui risente fortemente l’influsso di Rousseau, di una idea che ha una sua realtà pratica, la quale consiste, precisamente, «nell’obbligare ogni legislatore a far le leggi come se esse do­ vessero derivare dalla volontà comune di tutto il popolo e nel considerare ogni suddito, in quanto vuol essere cittadino, co­ me se egli avesse dato il suo consenso a una tale volontà»68. Infatti, il sovrano deve fare leggi come se esse- derivassero dalla volontà del popolo, anche se, di fatto, il popolo non ha dato il suo consenso. Ciò significa, precisa Bedeschi, che il sovrano «deve valutare, a suo insindacabile giudizio, se le leggi siano o no conformi a quella volontà»69. Per Kant, «se è solo possibile che un popolo consenta a tale legge, allora si ha anche il dovere di tenerla per giusta»70. Il progetto kantiano di pace perpetua deriva dall’esten­ sione del modello giusnaturalistico dai rapporti fra gli indi­ 67 Ivi, p. 493. 68 I. Kant , Sopra il detto comune, in Scritti politici, cit., p. 262. 69 G. BEDESCHI, Storia del pensiero liberale, cit., p. 108. 701. K ant , Sopra il detto comune, in Scritti politici, cil., p. 262-263.

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vidui ai rapporti fra gli Stati. L’estensione del modello, come Kant lascia intendere, è analoga, nel senso cioè che i popoli, in quanto Stati, sono analoghi agli individui isolati dello sta­ to di natura. Trasferito lo stato di natura dai rapporti fra gli individui ai rapporti fra gli Stati, Kant considera, infatti, gli Stati sovrani, soggetti dell’accordo, «come singoli individui che, vivendo nello stato di natura (cioè neH’indipendenza da leggi esterne), si recano ingiustizia già solo per il fatto della loro vicinanza». Gli Stati, per la loro sicurezza, devono en­ trare «in una costituzione analoga a quella civile, nella quale si può garantire ad ognuno il suo diritto»71: devono cioè ab­ bandonare la loro «libertà selvaggia» per riprenderla subito dopo - secondo il patto istitutivo della società civile - come libertà regolata dalle leggi coattive: dalle leggi che sono su­ periori ai singoli Stati come, all’interno di ciascuno di essi, sono superiori ai singoli uomini. Anche gli Stati quindi, co­ me gli individui, per porre un limite al loro antagonismo, che può diventare distruttivo, quando degenera nelle guerre, si costringono, reciprocamente, a cercare una legge di equili­ brio e un potere comune irresistibile che dia ad essa autorità, introducendo appunto un ordinamento cosmopolitico di «sicurezza pubblica». Scrive infatti, a questo riguardo, Kant: «Come la generale violenza e i mali che ne derivavano do­ vettero da ultimo portare un popolo alla decisione di sotto­ porsi alla coazione (...), ossia alla pubblica legge, e di entra­ re in una costituzione civile, così i mali derivati dalle conti­ nue guerre, per le quali gli Stati cercano a loro modo di in­ debolirsi e di soggiogarsi reciprocamente, dovranno da ulti­ mo portarli, anche loro malgrado (...), a entrare in una co­ stituzione cosmopolitica»12. Estendendo il modello giusnaturalistico dei rapporti fra gli individui ai rapporti fra gli Stati, Kant non lo riproduce esat­ tamente, ma lo sottopone ad una duplice modificazione e li­ mitazione: la prima riguarda la clausola, assente nel modello, secondo la quale la condizione preliminare dell’accordo fra gli 711. KANT, Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 297. 72 I. KANT, Sopra il detto comune, in Scritti politici, cit., p. 278.

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Stati sovrani è che questi adottino una costituzione - quella re­ pubblicana appunto - «tale che già di per se stessa li rende più disponibili al ripudio della guerra»; la seconda riguarda la spe­ cificazione del patto di pace che deve intervenire fra gli Stati, «che per la loro stessa costituzione sono al loro interno meno proclivi ad avventurarsi in imprese belliche»73. Il patto fra gli Stati che Kant ha in mente, abbozzato nelYldea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e chiaramente delineato nel secondo articolo «definitivo» del progetto «filosofico», è un patto di società cui non segue un patto di assoggettamento ad un potere comune stabilito dagli stessi Stati ed in grado perciò di prendere decisioni va­ lide per tutta la comunità e di farle poi osservare. Per Kant infatti, che non segue esattamente il modello hobbesiano, il patto deve dar vita ad una costituzione giuridica che sia una «federazione di popoli» e non uno «Stato di popoli»: deve dar vita cioè ad una lega di natura speciale che Kant chiama «lega della pace (foedus pacificum)», che si propone di porre fine «a tutte le guerre e per sempre», e la distingue dal «pat­ to di pace (pactum pacis)», che invece si propone «di porre termine semplicemente ad una guerra»74. Kant si arresta alla confederazione degli Stati e non spinge la sua audacia teori­ ca fino all’ideazione di uno Stato federale universale, il cui primo esempio storico era costituito, ai suoi tempi, dagli Sta­ ti Uniti d’America. La nozione di patto cui Kant approda è, come da più parti è stato rilevato, basilare per comprendere gli ulteriori sviluppi e l’intera storia del federalismo. Il grande insegnamento di Kant, secondo Mario Albertini, sta in ciò: «se si pensa il federalismo si pensa la pace, e se si pensa davvero la pace si pensa il federalismo»; Kant, del resto, «ha stabilito lo schema concettuale entro il quale può svilupparsi sia la teoria degli aspetti storico-sociali del fede­ ralismo, sia la teoria dei suoi aspetti di valore: la pace, e la rea­ lizzazione della pace con la libertà e l’eguaglianza»75. 73 N. BOBBIO, Introduzione a I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. XIV. 74 I. K ant , Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 299. 75 M. ALBERTINI, Introduzione a I K ant, La pace, la ragione c la storia,

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Commentando il secondo articolo definitivo del progetto filosofico («Il diritto internazionale deve essere fondato su una federazione di liberi Stati»), Kant contrappone la «fede­ razione dei popoli» allo «Stato dei popoli»: la prima indica un’unione di Stati, o popoli, nella quale i componenti man­ tengono la loro autonomia; la seconda indica, invece, un’or­ ganizzazione politica nella quale gli Stati membri sono sot­ toposti ad una autorità sovrana centrale. Kant si arresta alla «federazione dei popoli», a quella «le­ ga di pace» cioè, che si propone di porre termine «a tutte le guerre e per sempre», e scarta lo «Stato dei popoli», scor­ gendo nell’idea di quest’ultimo una «contraddizione»: quel­ la, appunto, che ogni Stato implica «il rapporto di un supe­ riore (legislatore) con un inferiore (colui che ubbidisce, cioè il popolo), mentre molti popoli in uno Stato costituirebbero un solo popolo, ciò che è contrario al presupposto»: che è, per Kant, quello secondo il quale i diversi Stati che compon­ gono l’umanità sono regolati da leggi proprie76. L’argomen­ to addotto qui da Kant per respingere lo stato universale è considerato da Bobbio «una pura e semplice petizione di principio». Infatti, spiega il filosofo torinese, si vede «quale sia il nesso tra il rapporto superiore-inferiore aH’interno del­ lo Stato e il rapporto esterno di uno Stato con gli altri Stati che è un rapporto d’eguaglianza, quello stesso rapporto di eguaglianza che vigeva fra gli individui nello stato di natura e che gli individui hanno abbandonato sostituendolo con un rapporto superiore-inferiore. Nel rapporto con gli altri Stati ciò che viene in questione non è la superiorità interna ma l’e­ guaglianza esterna, e pertanto la eventuale rinuncia a questa eguaglianza non fa venir meno quella superiorità»77. il Mulino, Bologna 1985, pp. 13-14. Sull’apporto di Kant al federalismo, cfr. L. LEVI, Il Federalismo, in Aa. Vv., Il pensiero politico contemporaneo, a cura di G.M. Bravo e G. Rota Ghibaudi, Franco Angeli, Milano 1987, voi. Ili, pp. 608-720. 76 I. K a n t, Ver la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 297. 77 N. BOBBIO, Introduzione a I. K a n t , Ver la pace perpetua, cit., pp. XII-XIII.

Un’organizzazione cosmopolita, retta da un potere cen­ trale sovrano, come appunto lo Stato unico di tutti i popoli, contraddice il principio dell’eguaglianza degli Stati sovrani. Per mantenere integra la loro sovranità, che è condizione del­ la loro eguaglianza, gli Stati devono, perciò, entrare in «una condizione giuridica di federazione sulla base di un diritto in­ ternazionale stabilito in comune». La ragione fondamentale che spinge Kant ad opporsi allo «Stato dei popoli» è che una «comunità cosmopolitica sotto un unico sovrano» può rive­ larsi pericolosa per la libertà, potendo essa dare origine al «più orribile dispotismo». L’aspirazione di ogni grande Stato è quella di stabilire una pace attraverso la sopraffazione degli altri Stati «dominando, se è possibile, l’intero mondo»: una pace, dunque, attraverso la «forza» e non già mediante il «di­ ritto». Kant denuncia, perciò, i pericoli di una pace assoluta, garantita da un unico sovrano e rileva il nesso esistente fra ta­ le tipo di pace e il dispotismo. Non è improbabile che egli, mentre scriveva le sue pagine, in un periodo burrascoso del­ la storia europea, pensasse alla pace d’imperio che sarebbe stata instaurata se l’avventura napoleonica avesse avuto suc­ cesso. Per Kant infatti, nemico di ogni dispotismo, uno stato di guerra vale sempre meglio che la fusione degli Stati «per opera di una potenza che soverchi le altre e si trasformi in monarchia universale». Tra il pericolo dell’anarchia e la cer­ tezza del dispotismo, Kant privilegia la prima, soprattutto perché «un dispotismo senza anima, dopo avere sradicato i germi del bene, cede da ultimo in preda all’anarchia»78. Kant respinge la monarchia universale, ritenendola ina­ datta a risolvere il problema delle relazioni internazionali; considera l’equilibrio delle potenze europee - oggi il rap­ porto fra i soggetti reali del sistema internazionale è defini­ to «equilibrio del terrore» - «una chimera, essendo tale equilibrio troppo fragile, come aveva già argomentato Rous­ seau, per riuscire a garantire la pace; soltanto la «federazio­ ne dei popoli» è in grado di rendere operante il diritto in­ ternazionale. Concentrando l’attenzione sulle aporie interne 78 I. Kant , Ver la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 313.

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del pensiero politico kantiano, soprattutto sul contrasto, non risolto, fra la soluzione del rapporto fra diritto pubblico «in­ terno» e diritto pubblico «esterno», Sasso rileva che Kant «non è riuscito a sfuggire del tutto al rischio, se non della contraddizione, certo della non piena coerenza»79. Mosso, infatti, dalla fondamentale preoccupazione della cessazione deña guerra e, al tempo stesso, deña non meno fondamenta­ le preoccupazione che la libertà ceda il posto, in un organi­ smo cosmopolitico retto da un potere centrale sovrano, al «dispotismo», Kant non riesce ad avvertire, «nelPurto delle due preoccupazioni fondamentali», che l’idea federativa fi­ nisce «per ingenerare uno squiñbrio nel ritmo analogico da lui stesso postulato tra il contratto originario degli uomini e il contratto originario degli Stati»80. Pur riconoscendo che «per gli stati che stanno fra loro in rapporto reciproco non vi è altra maniera razionale per usci­ re dallo stato naturale senza leggi, che è stato di guerra, se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro selvaggia li­ bertà (senza leggi), sottomettersi a leggi pubbliche coattive e formare uno stato di popoli (civitas gentium), che si estenda sempre più, fino ad abbracciare da ultimo tutti i popoli del­ la terra»81, Kant preferisce poi alla soluzione autentica una soluzione-surrogato, optando appunto, come si è visto, per il «surrogato negativo» della federazione dei popoli, nella qua­ le le singole individualità sono conservate da un diritto in­ ternazionale stabilito di comune accordo. La repubblica universale non è, per Kant, «un ideale in sé errato, ma è decisamente errato perseguirlo con mezzi estra­ nei al diritto internazionale, ossia con la guerra». Con l’in­ tento di evitare la nascita dei conflitti distruttivi, Kant opta, appunto, per il surrogato-negativo, rappresentato da una «lega permanente deña pace»82. 79 G. Sasso, Introduzione all’Antologia di scritti politici dii. Kant, cit., p. 27. 80 Ivi, p. 31. 811. K ant, Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 301. 82 D. ArchibuGI-F. Voltaggio , Introduzione a A a.V v., Filosofi per la pace, cit., p. L.

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Kant non si arresta, però, al diritto intemazionale e so­ stiene che la realizzazione della pace perpetua richiede, ol­ tre alla lega dei popoli a regime repubblicano, anche l’attua­ zione del diritto cosmopolitico. Tale diritto, posto da Kant a coronamento del diritto internazionale, non regola i rappor­ ti fra lo Stato e i suoi sudditi (come fa il diritto pubblico in­ terno, o diritto costituzionale) e tantomeno i rapporti dello Stato con gli altri Stati (come fa il diritto pubblico esterno, o diritto internazionale), bensì i rapporti di ogni singolo Sta­ to con i cittadini degli altri Stati. Concepito come ultima fase del processo di sviluppo giu­ ridico del genere umano, tendenzialmente proteso «verso il meglio», il diritto cosmopolitico non è, per Kant, «una rap­ presentazione fantastica di menti esaltate, ma il necessario coronamento del codice non scritto, così del diritto pubbli­ co interno come del diritto internazionale, per la fondazio­ ne di un diritto pubblico in generale e quindi per l’attuazio­ ne della pace perpetua alla quale solo a questa condizione possiamo lusingarci di approssimarci continuamente»83. Kant vede nel diritto cosmopolitico, considerato come il su­ premo principio regolativo del genere umano84, una condi­ zione fondamentale per il perseguimento della pace perpe­ tua in un’epoca della storia, nella quale «in fatto di associa­ zione di popoli della terra (...) si è progressivamente perve­ nuti a tal segno, che la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti»85. Con il diritto cosmopolitico, focalizzando i diritti dei cit­ tadini come persone morali, e sancendone la condizione di «cittadini del mondo», Kant completa il sistema generale del diritto e «rappresenta compiutamente lo svolgimento stori­ co del diritto, in cui l’ordinamento giuridico universale, la città del mondo o cosmopoli, rappresenta del sistema giuri­ dico generale la quarta ed ultima fase, dopo lo stato di natu­ 83 I. KANT, Ver la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 305. 84 Su ciò richiama l’attenzione M. Serra, Etica e cosmopolitismo in

Kant, Edizioni Parallelo 38, Napoli 1976, p. 270. 85 I. K ant , Ver la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 30'5.

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ra, ove non c’è altro diritto che il diritto privato, il diritto tra gli individui, dopo lo Stato civile, regolato dal diritto pub­ blico interno, dopo l’ordine internazionale, regolato dal di­ ritto pubblico esterno»86. Si tratta, in realtà, di un diritto che, dopo essere stato a lungo fra i meno esplorati, rischia forse di essere oggi un po’ troppo enfatizzato da parte degli interpreti, i quali traggono conseguenze a volte diverse da quelle che Kant, che aveva compreso nella nozione di diritto cosmopolitico il diritto di «ospitalità» dei cittadini in paesi stranieri e se ne era servito come strumento di critica giuridica nei riguardi del colonia­ lismo. Così Bobbio, riferendosi al diritto cosmopolitico, af­ ferma che è il «più trascurato», pur non essendo il «meno si­ gnificativo di per se stesso considerato, ed essenziale rispet­ to al disegno generale kantiano»87. Dei tre articoli «definiti­ vi» del progetto kantiano di pace perpetua, è l’ultimo, se­ condo Archibugi, «ad essere veramente significativo», dal momento che con esso Kant «allarga decisamente la pro­ spettiva teorica dei progetti per la pace perpetua». Con il di­ ritto cosmopolitico, infatti, «i cittadini di tutto il pianeta vengono ad essere titolari di diritti e doveri che vanno al di là della loro condizione formale di sudditi e cittadini di uno Stato particolare»88. Kant limita la nozione di diritto cosmopolitico «alle con­ dizioni di una universale ospitalità», precisando che si trat­ ta, peraltro, di un diritto e non soltanto di un dovere pura­ mente filantropico. La massima fondamentale della «uni­ versale ospitalità» comprende, da un lato, «il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di un altro stato di non es­ sere trattato da questo ostilmente»89 e, dall’altro, l’obbligo dell’ospite di non approfittare dell’ospitalità che gli è dovu­ ta per trasformare il diritto di visita in conquista. Kant giu­ 86 N. B obbio , Kant e la Rivoluzione francese (1990), in 11età dei dirit­ ti, cit., p. 153. 87 N. BOBBIO, Introduzione a I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. XV. 88 D. ARCHIBUGI, La democrazia nei progetti di pace perpetua, in «Teo­ ria politica», n. 1, 1990, p. 125, a. VI. 891. K ant , Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 301. 39

ra, ove non c’è altro diritto che il diritto privato, il diritto tra gli individui, dopo lo Stato civile, regolato dal diritto pub­ blico interno, dopo l’ordine internazionale, regolato dal di­ ritto pubblico esterno»86. Si tratta, in realtà, di un diritto che, dopo essere stato a lungo fra i meno esplorati, rischia forse di essere oggi un po’ troppo enfatizzato da parte degli interpreti, i quali traggono conseguenze a volte diverse da quelle che Kant, che aveva compreso nella nozione di diritto cosmopolitico il diritto di «ospitalità» dei cittadini in paesi stranieri e se ne era servito come strumento di critica giuridica nei riguardi del colonia­ lismo. Così Bobbio, riferendosi al diritto cosmopolitico, af­ ferma che è il «più trascurato», pur non essendo il «meno si­ gnificativo di per se stesso considerato, ed essenziale rispet­ to al disegno generale kantiano»87. Dei tre articoli «definiti­ vi» del progetto kantiano di pace perpetua, è l’ultimo, se­ condo Archibugi, «ad essere veramente significativo», dal momento che con esso Kant «allarga decisamente la pro­ spettiva teorica dei progetti per la pace perpetua». Con il di­ ritto cosmopolitico, infatti, «i cittadini di tutto il pianeta vengono ad essere titolari di diritti e doveri che vanno al di là della loro condizione formale di sudditi e cittadini di uno Stato particolare»88. Kant limita la nozione di diritto cosmopolitico «alle con­ dizioni di una universale ospitalità», precisando che si trat­ ta, peraltro, di un diritto e non soltanto di un dovere pura­ mente filantropico. La massima fondamentale della «uni­ versale ospitalità» comprende, da un lato, «il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di un altro stato di non es­ sere trattato da questo ostilmente»89 e, dall’altro, l’obbligo dell’ospite di non approfittare dell’ospitalità che gli è dovu­ ta per trasformare il diritto di visita in conquista. Kant giu86 N. B obbio , Kant e la Rivoluzione francese (1990), in 11età dei dirit­ ti, cit., p. 153. 87 N. BOBBIO, Introduzione a I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. XV. 88 D. ARCHIBUGI, La democrazia nei progetti di pace perpetua, in «Teo­ ria politica», n. 1, 1990, p. 125, a. VI. 891. K ant, Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 301. 39

sùfica questa massima con il diritto di visita, «.s| tei lai il e a tut­ ti gli uomini, cioè di entrare a far parte della società in virtù del diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo essa sferica, gli uomini non possono di­ sperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rasse­ gnarsi a incontrarsi e a coesistere»90. Al dovere, da parte dello Stato ospitante, di non impedi­ re il libero accesso ai sudditi degli altri Stati, corrisponde il diritto di impedire che gli stranieri, accolti in virtù del do­ vere di ospitalità, compiano atti ostili allo Stato ospitante: trasformino, cioè, il diritto di visita in diritto di conquista. In questo rapporto di «reciprocità» tra il diritto di visita spet­ tante al cittadino straniero sulla base del diritto comune al possesso della superficie terrestre, e il dovere dello Stato vi­ sitato di non impedire il libero accesso nel proprio territorio ai sudditi degli altri Stati, Kant aveva prefigurato, scrive Bobbio, «originariamente il diritto di ogni uomo di essere cittadino non solo del proprio Stato ma del mondo intero, e si era rappresentato la terra intera come una potenziale città del mondo, appunto come una cosmopoli»91. Il dovere dello Stato di lasciare libero accesso ai sudditi degli altri Stati favorisce, per Kant, il commercio, che è un’alternativa pacifica alla conquista nei rapporti interna­ zionali: «Lo spirito commerciale non può coesistere con la guerra e prima o poi s’impadronisce d’ogni popolo»92. Il do­ vere dello straniero di non impossessarsi di alcun territorio dello Stato ospitante elimina una delle forme di uso smoda­ to della violenza della quale risultano «abbastanza speciosi i motivi della giustificazione», con cui i popoli colonizzatori tentano di «provare che una tale violenza ridonda a vantag­ gio del mondo»93. La massima fondamentale del diritto co­ smopolitico serve a Kant per condannare le potenze colo­ 90 Ivi, p. 302.

91 N. Bobbio, Kant e la Rivoluzione francese, in Uetà dei diritti, cit., cit, pp. 152-153. 92 I. K ant , Ver la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 314.

93 I. K a n t, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politi­

ci, cit., p. 544.

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niali del suo tempo, affermando che, se si confronta con il di­ ritto cosmopolitico «la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto degli Stati commerciali del nostro continente, si rimane inorriditi a vedere l’ingiustizia che essi commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che significa per essi conquistarli)»94. Kant condanna, quindi, le conquiste colo­ niali europee, rilevando che non è possibile togliere «al cit­ tadino del globo il diritto di tentar di entrare in comunità con tutti e, a questo scopo, di esplorare tutte le contrade della ter­ ra, quantunque egli non possa avere un diritto di colonizza­ zione sul suolo di un altro popolo (ius incolatus), per il qua­ le è necessario un contratto particolare»95. Kant, come chia­ ramente si desume da questo passo, riconosce un legame co­ munitario fra tutti gli uomini che rende ciascuno individuo un cittadino del «villaggio globale». La trattazione del dirit­ to cosmopolitico è importante, soprattutto, per l’affermazio­ ne dell’esistenza di una «cittadinanza mondiale», che trava­ lica i confini dei singoli Stati e, attraverso il diritto cosmopo­ litico, garantisce un’estensione planetaria dei diritti dell’in­ dividuo.

94 I. K ant, Per la pace perpetua, in Scritti politici, cit., p. 303. 95 I. K ant , Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politi­ ci, cit., p. 544.

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