Il paese di Perpetua [PDF]

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Zitiervorschau

Fu l’Italia prefascista una democrazia? Nel settembre 1945 Parri affermò che in Italia non era mai esistita una democrazia. Invece Benedetto Croce sostenne che l’Italia aveva posseduto un regime democratico coi fiocchi. Chi aveva ragione? Nel 1952 Salvemini risicò una risposta, dando ragione un po’ all’uno e un po’ all’altro: democrazia non perfetta, ma in cammino. Nei trent’anni del postfascismo l’Italia è una democrazia? L’interrogativo sul postfascismo è di quelli che scottano. Prima di rispondere, ci sono tanti fatti da chiarire, e da considerare. Una cosa è certa, cioè che la situazione internazionale mette a fuoco i punti deboli e le contraddizioni di casa nostra. Con la crisi economica mondiale, un paese naturalmente povero come il nostro non può sopportare quegli sprechi, quei nababbi, quella programmazione del tirare a campare, quella strategia del chiudere un occhio, quell’elefantiasi burocratica, quell’agricoltura presa per il collo, quella corruttela a macchia d’olio, quel disastroso culto dell’automobile, quei seicento miliardi che, secondo De Mita, si perdono nelle tasche dei “maneggioni” appollaiati intorno ai partiti. Con la distensione che avanza, cade il mito dello stato di necessità. Non si può più esercitare “il privilegio dell’intimidazione,” che fu tanto caro al liberale Salandra e che oggi si chiama arroganza del potere. Non si può più andare avanti col giolittismo della DC al posto dello stato.

Italo Pietra è nato nel 1911 a Godiasco (provincia di Pavia). Ha partecipato come ufficiale di complemento alle campagne di Abissinia e di Albania. Ha comandato le formazioni partigiane dell’Oltrepò Pavese. Ha collaborato al “Mercurio,” a “Iniziativa Socialista,” a “Critica Sociale.” È stato per molti anni inviato dell’“Illustrazione Italiana” e del “Corriere della Sera.” Ha diretto “Il Giorno” dal gennaio 1960 al giugno 1972 e “Il Messaggero” dal maggio 1974 al 19 giugno 1975.

ltalo Pietra

Il paese di Perpetua Feltrinelli

Prima edizione: novembre 1975 Copyright by

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Via, Perpetua, siamo amici, ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo. Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.

1.

C'era una volta in Molise un parroco di campagna che confessando la gente di Montàgano imponeva, come penitenza, di piantare alberi. A distanza di tre secoli, le conseguenze sono ancora manifeste nel paesaggio. Se, tra il 1945 e il 1975, i dirigenti della DC avessero dovuto rendere conto dei propri errori ad un uomo di quello stampo, l'Italia avrebbe cambiato colore a poco a poco. Oggi sarebbe verde di foreste infinite, e non avrebbe il primato delle alluvioni e della siccità. L'errore fondamentale è quello di avere guidato il paese dalla liberazione alla restaurazione. I democristiani si danno il vanto di avere "ricostruito," ma hanno il torto di avere ispirato la ricostruzione alla formula "com'era, dov'era," che non è infausta soltanto nel caso dei monumenti. L'obiettivo di De Gasperi era la restaurazione dello stato prefascista. Fanfani poi, che nel 1945 passava per "sinistro," era decisissimo ad andare avanti, ma non sapeva dove: "piu che tendere a destra o a sinistra, bisogna tendere avanti." Adesso capita spesso che su certe posizioni della sinistra italiana, riparlando del 25 aprile, affiorino le delusioni, come dopo il Risorgimento. A volte sembra stimolante parlare di Resistenza tradita. Ma prima di arrivare a tanto, prima di prendere la strada dei "se" e dei "ma" in vista delle cose che potevano essere e non sono, bisogna considerare il contesto internazionale e le condizioni del nostro paese nei primi tempi del dopoguerra. C'era la sentenza di Yalta; l'Europa, spaccata in due, arrancava tra grandi incognite e l'Italia era terra di frontiera, e aveva fame. Il mondo correva verso la guerra fredda: e la Grecia passava dalla Resistenza alla guerra civile, riflettendo di terra in terra, di battaglia in battaglia, le posizioni dei blocchi contrapposti sulla scena pla· netaria. Non era tempo di avventure né di fughe in avanti. Allora per la DC è stato facile, e quasi naturale, prendere la testa del blocco d'ordine. Per tanta e tanta gente, dopo il crollo 7

del fascismo, c'era il vuoto, e l'incognita del nuovo: e la paura del salto nel buio, prima e dopo il referendum. Al nord, tanta gente aveva paura del "rosso," dopo le stagioni della Resistenza e l'avanzata dei comitati di liberazione. In genere il sud non capiva e non poteva soffrire "il vento del nord," questa nuova trovata dei "polentoni" della Valle Padana che avendo dato vita al fascismo nel primo dopoguerra si gloriavano di averlo ferito a morte sul finire della seconda guerra mondiale. Allora, tra l'aria del nord e quella del sud correva la stessa differenza che passa tra liberazione e occupazione: gli angloamericani, che nel luglio del 1943, sbarcando in Sicilia, erano ancora nemici, furono accolti come alleati, nel giugno del 1944, entrando in Roma "città aperta," e il 29 aprile del 1945 trovarono Milano già liberata. Per tanti e tanti reduci, era difficile mandare giu le sentenze sulla "guerra sbagliata" e quindi l'amarezza delle battaglie inutili, dei sacrifici a vuoto, degli anni buttati via, dei compagni perduti. Guadagnava facilmente terreno il mito della "guerra tradita," cosi come nel primo dopoguerra il mito della "vittoria mutilata." Questa volta, c'era anche il problema dei profughi dall'Istria e dalla Dalmazia; la questione di Trieste, bramata da Tito, aveva ben altri echi che quella di Fiume tenuta da D'Annunzio contro Roma e contro lo stato. La DC venne a trovarsi sul filo della corrente; bastava lasciarsi portare da quel fiume, dal fiume dei conservatori che si faceva sempre piu gonfio. Era quel partito a dare un'idea di prudenza, di continuità, di fedeltà alla tradizione, di quiete dopo il vento del nord. Si accendevano battaglie accanitissime per il referendum del 2 giugno: e la DC si teneva in disparte. C'era la paura dell'epurazione: e la DC parlava tanto di pacificazione, propugnando il colpo di spugna, la liquidazione delle "polemiche crude e inutili sulla responsabilità della guerra," il superamento della contrapposizione tra fascismo e antifascismo. C'era la paura del "rosso": e la DC meritava da Nenni l'etichetta di "partito contro la rivoluzione." Era difficile resistere alla tentazione di rovesciare le posizioni del passato remoto, quando i cattolici, non avendo un partito e non ubbidendo al non expedit, avevano votato per i conservatori; adesso i conservatori votavano in massa per la DC. Alle spalle del partito c'era già il Vaticano, con gli apparati collaterali delle parrocchie e delle associazioni cattoliche: a causa della guerra fredda, ci si mise anche l'America, col prestigio della vittoria, del capitalismo trionfante, degli aiuti abbondanti e necessari. La tradizionale condanna del "rosso" riceveva dalla 8

guerra fredda un carattere di necessità. Non c'era PIU spazio per i romanticismi; era l'ora del realismo, della concretezza e cosi via. Romantici erano chiamati quelli della sinistra DC che facevano capo alla rivista "Cronache Sociali" (Dossetti, La Pira, Zaccagnini, Moro, Baget-Bozzo, Lazzati, Fanfani, Glisenti). C'era chi li bollava col marchio dell'integralismo; e chi li accusava di essere "professorini" e di parere domenicani. Avevano tre torti, imperdonabili in quel tempo: si opponevano alla linea di De Gasperi; prendevano di mira i "mobili antichi" del Partito popolare; parlavano sul serio di antifascismo e di tensione morale. Cosi, attaccavano i padreterni del prefascismo, Nitti, Orlando, Bonomi, Croce, "curatori fallimentari di una classe politica che, abituata a intendere l'arte del compromesso parlamentare come unico elemento di azione, non seppe rispondere ai bisogni profondi del paese." Dossetti vedeva nello stato tradizionale la base di uno jus singolare, di un diritto privilegiato per i detentori degli strumenti di produzione: quindi la necessità di fare una "casa nuova," di realizzare l'inserimento e la partecipazione delle masse alla vita dello stato. La Pira metteva a fuoco "l'attesa della povera gente," i problemi della classe proletaria che non dispone degli strumenti di produzione e vive quindi in condizione di inferiorità economica, sociale, culturale e politica: una vera e propria violazione della giustizia. Le posizioni di "Cronache Sociali" erano attaccate duramente dal grosso degasperiano (e con particolare energia da Andreotti). Per giunta, dovevano fare fronte agli attacchi della maggioranza dei partiti minori che partecipavano ai governi De Gasperi. Nell'estate del 1951, la "Corrente" si sciolse. Secondo Dossetti, era troppo forte la distanza tra quello che si voleva fare e quello che si poteva fare; era impossibile contrastare De Gasperi e impossibile collaborare con lui; bisognava tirare un bilancio negativo sul partito; mancavano al mondo cattolico le basi culturali e ideologiche per impostare una politica di rinnovamento dello stato. Non restava che sciogliere ·"Cronache Sociali"; conveniva passare dalla politica attiva ad un lavoro di ripensamento e di preparazione in vista di una nuova ideologia. Alcuni amici di Dossetti si misero in disparte; altri tornarono ad unirsi per riprendere l'azione politica su un piano di "riformismo condizionante De Gasperi." Fanfani si era già distinto nell'avvicinamento a De Gasperi e al centro; ebbe l'onore di andare a fare il ministro dell'agricoltura (e di spolpare un po' la riforma Segni, già molto magra). 9

Li per li, senza gli impedimenti di quell'opposizione, il partito sembrò procedere piu speditamente: in realtà era mutilato. Non aveva piu una sinistra adatta ai tempi, perché quella di Granchi era vecchia, e particolarmente incline al vecchio modo di far politica. Senza il contrappeso di "Cronache Sociali," senza quell'ansia di rigore morale, senza quella spinta alla ricerca di un nuovo modo di far politica, la DC risultò ben presto diversa. Le sue speranze erano i ricordi, il suo obiettivo la conservazione dello status quo. Si presentava come partito di centro che va verso sinistra, ma la tattica prediletta era quella dell'immobilismo: e non si facevano eccezioni che per andare verso destra. Il 3 gennaio del 1952 De Gasperi invocò l'aiuto di Pio XII descrivendo una DC moralmente e ideologicamente a pezzi e indicando le responsabilità, vale a dire il nemico da colpire: no, non era Gedda, bensi ciò che rimaneva ancora del dossettismo, "una frazione la quale presume di rappresentare la vera dottrina cristiano-sociale e che ritiene di essere depositaria dell'intimo senso della riforma cristiana, a differenza degli opportunisti o realizzatori d'oggi, considerati elementi transitori di compromesso." C'era poco da scegliere e bisognava scegliere: "o concentrare attorno ai cattolici piu sicuri e operosi uno schieramento ampio che possa resistere all'ancora fortissimo schieramento nemico, ovvero creare una specie di laburismo cristiano che proceda alla riforma sociale trascurando l'eventualità della riduzione delle forze e quindi il rischio di essere troppo deboli per difendere le nostre ragioni supreme dello spirito e della civiltà." Secondo De Gasperi, gli insegnamenti pontifici e le settimane cattoliche non lasciavano dubbi sulla scelta da fare, cioè sulla necessità di collocare le soluzioni ideali entro il quadro delle condizioni reali: era facile insistere unilateralmente sui provvedimenti sociali ( disoccupazione, distribuzione di terre, costruzione di case, ecc.) "tutte finalità sacrosante, ma che non si possono raggiungere se non a condizione di avere in mano sicura il governo e di non perdere la possibilità di agire sulle leve economiche e finanziarie." Non si poteva essere piu chiari, né piu realisti, ne piu centristi nel senso del centrismo che significa centro-destra. Nel 1952 il segretario del partito, Gonella, propugnò la "democrazia protetta," fondata sulla legge maggioritaria e spinta sino alla revisione costituzionale. La consegna era quella di non cambiare niente, di fare quadrato intorno a De Gas peri, di "sottolineare trionfalmente che l'ideologia e l'opera dei governi a direzione democristiana hanno presieduto alla ricostruzione dell'Italia dalla recente rovina."

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Con un De Gasperi al timone, in mezzo al mare della guerra fredda, era stato possibile andare avanti cosi, all'insegna del "realismo" e della "concretezza": ma gli orizzonti erano limitati, le difficoltà si facevano piu gravi, non c'erano piu margini di sicurezza. Le cose di prima non bastavano piu. Nel 1953 De Gasperi stesso fu battuto sulla "legge truffa"; in quell'anno, per la prima volta gli ex popolari perdettero la guida del gruppo parlamentare, affidata ad un uomo della seconda generazione ed esponente di Iniziativa democratica, Aldo Moro, che nel 1949 era stato battuto grazie all'appoggio dato da De Gasperi a Spataro. Nell'affrontare la crisi di governo e la richiesta di Saragat per una spinta a sinistra, De Gasperi rilevò che molti gli raccomandavano il coraggio, "ma il coraggio principale che bisogna avere è la pazienza." Nel fare il nuovo governo, affidò gli Interni a Fanfani in luogo di Scelba (avversato dalla destra per la legge sul fascismo) e la Giustizia a Gonella (per andare avanti sulla strada della "democrazia protetta"). E fu battuto. Non pensò che a ripetere la stessa strada, riveduta e peggiorata, con la stessa tattica: in nome dello stato di necessità, nella primavera del 1954, si ripromise di superare la coalizione neocentrista per arrivare alla collaborazione coi monarchici. Adesso, dopo la lezione del 15 giugno, è facile tirare le somme. Le radici degli errori di tanti anni e quindi della lezione di quel giorno si trovano proprio nel tempo dei cosiddetti trionfi. La crisi della DC risulta già grave agli albori degli anni Cinquanta; la paralisi progressiva del centrosinistra assomiglia moltissimo a quella del centrismo con la febbre intermittente delle crisi di governo, e con la DC che abbraccia i partiti alleati e Ii soffoca, e se ne fa scudo, verso destra e verso sinistra. Ha ragione, paradossalmente, la signora Claire Booth Luce, ex ambasciatore a Roma, quando parafrasando alla rovescia, e senza saperlo, Petrolini ("a me mi ha rovinato la guerra"), arriva a concludere che la sconfitta della DC ovverosia "i guadagni ottenuti dal Partito comunista nelle recenti elezioni sono i primi frutti della distensione." Quando termina la guerra fredda, cade una colonna della DC; finisce Io stato di necessità che in nome del fine aveva giustificato tutti i mezzi, dando al malgoverno il carattere di male minore e al sottogoverno il peso di risorsa maggiore. Di fronte ad una realtà internazionale in movimento, è sempre piu difficile difendere l'immobilismo in Italia. II prestigio dell'America non è piu quello, dopo il Vietnam; la stessa crisi Watergate pone in risalto gli scandali sistematicamente soffocati in casa 11

nostra. Quando cade il vento dell'anticomunismo senza limite a destra, tornano i climi di trent'anni prima. A questo punto i conti del "realismo" e della concretezza risultano salati. Ha ragione il direttore di "Civiltà Cattolica," Bartolomeo Sorge, quando mette a fuoco le cause del male: "la natura conservatrice della politica della DC; la sua visione statica dell'interclassismo; la perdita di contatto con le classi popolari e operaie; la perdita di una presenza incisiva dei cattolici nei diversi campi della cultura; la struttura oligarchica del partito; il mancato ricambio dei quadri dirigenti; il malgoverno e la partitocrazia con il suo seguito inesorabile di inefficienza, di scandali, di clientelismi." La DC, che nel 1952 era in crisi, ha deciso di perseverare negli errori. La chiesa come corpo, come istituzione, si è evoluta, sotto la pressione degli avvenimenti e per volontà propria. Il PCI, che all'ombra degli errori della DC ha sopportato senza troppi danni le burrasche esterne di Budapest nel 1956 e di Praga nel 1968, si è rinnovato: non è soltanto il piu forte ma anche il piu illuminato partito comunista del mondo occidentale. La DC è rimasta tale e quale; cosi non ha fatto che peggiorare. Le correnti si sono fatte numerose e hanno acquistato il carattere di partiti nel partito, con incessanti lotte di vertice che avevano per spinta e per obiettivo la ripartizione del potere. Ogni corrente aveva una destra, un centro, una sinistra; ogni corrente "batteva moneta," autofinanziandosi, al di fuori degli organi direttivi del partito, con gli stratagemmi clientelari. Erano accomunate dal vecchio modo di far politica, dal nuovo dogma della inamovibilità democristiana dal potere, dal gioco inesausto del trasformismo; non era facile distinguere l'una dall'altra. Fanfani, che nel 1973 scende in campo contro la "centralità" di Forlani, diventa nel 1975 l'uomo della "centralità." In luglio lo attacca duramente il suo alleato di maggio, Piccoli, che, in un grande sforzo di rinnovamento e di sintesi, ripete forse inavvertitamente la stessa formula fanfaniana del 1945, "piu che tendere a destra o a sinistra, tendere avanti." Intanto i dorotei, asse e lume del partito, uccidono i dorotei. Bisaglia non si accontenta di scalzare l'amico Rumor nel Veneto, gli chiude meditatamente in .faccia la porta della segreteria. E Rumor se ne va, scoprendo finalmente che i dorotei hanno fatto il loro tempo. Dai precedenti, ben piu che dalle parole, è facile capire dove va: avanti, né a destra: né a sinistra. L'oscurità non è mai troppa. La DC è stata spesso accusata di puntare al neogollismo. In realtà ha stabilito un clima assomigliantissimo a quello della 12

Francia sotto Luigi Filippo, quando "il torysmo borghese" si era chiuso nel potere e quindi nel proprio ardente egoismo, pensando agli affari pubblici soprattutto per farli tornare a profitto dei propri affari privati. Le strutture del nostro paese erano ancora quelle che avendo dato vita al fascismo ne avevano ricevuto una impronta profonda; in tutti i campi c'era necessità di cose nuove: e la DC decise di andare avanti guardando indietro. Ha scelto la strada del prefascismo, ha riproposto le linee del giolittismo, "un giolittismo non a lato, ma al posto dello stato," arrivando a riabbracciare il trasformismo. Cosi per anni e anni l'Italia ha dovuto fare i conti col fascino della DC come dopo il Risorgimento con il cosiddetto fascino della monarchia, e coi suoi "prigionieri" alla maniera di Crispi e di Depretis. È monotona la vita, in casa nostra.

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2.

Per capire l'Italia di questi anni basta passare un paio di giorni a Saint Moritz, fra Natale e Epifania. Allora quella cittadina svizzera è il vertice europeo della gioia di vivere e della neve cara. È una Gerusalemme per i crociati del successo, inteso come ragione di vita, e per gli appassionati dello sci praticato come dolce vita. È una capitale della ricchezza intesa come benedizione di Dio e come potere sopra uomini e cose, press'a poco alla maniera della Costa Azzurra "fin de siècle," quando i conti ungheresi e polacchi dai duelli elegantissimi e dai latifondi sterminati, gli arciduchi austriaci e russi con fortune inestimabili, i baroni tedeschi dell'acciaio e del Grande stato maggiore, gli amici di Edoardo VII vicini agli affari del carbone, del cotone, delle flotte, del tè indiano, della ferrovia transiberiana erano le colonne dell'Europa, oltre che di Montecarlo, "elegante letamaio dei cosmopoliti." Nell'alta stagione della neve Saint Moritz accoglie i giovani e gli ex giovani delle dinastie che per grazia del denaro dominano i consumi e i destini di decine di milioni di famiglie dall'alto delle Borse e delle materie prime, della carta stampata e delle industrie. Quando la notte dorme distesa sulle pinete, si beve piu champagne in quella cittadina che in tutta Parigi; ci devono essere piu pellicce lassu che in tutta la Siberia, e piu nababbi che in tutta l'India di una volta. In certi alberghi la pensione quotidiana supera facilmente il reddito annuo pro capite del Kashmir o magari della Tunisia, ovverosia la pensione mensile di migliaia di famiglie italiane. Ebbene, gran parte della clientela di Saint Moritz viene dall'Italia. C'è, naturalmente, uno stuolo di americani, di inglesi, di francesi, di tedeschi, di svizzeri; ci sono anche gli armatori greci, i principi dell'Arabia Saudita, dell'Iran, del Marocco, i conti spagnoli e portoghesi, ma è l'Italia che domina il campo con migliaia di riveritissime presenze. Ce n'è per tutti i gusti, e di 14

diversi calibri. Si va dalle api regine delle società multinazionali ai cavalieri del lavoro con quotidiani e jet personali, dai potenti delle banche e della gomma a quelli degli elettrodomestici e dei tessili, dai mecenati del calcio ai superuomini delle raffinerie e della speculazione edilizia, dalle grandi firme della distribuzione a quelle della pubblicità, dai baroni delle cattedre (e quindi delle cliniche private o dei consigli d'amministrazione) ai commendatori dell'importazione di burro, di carne, di legname, di caffè, dai concessionari della coca-cola ai grandi esattori di imposte, dagli agenti di cambio ai sottosegretari, dagli assicuratori ai consulenti fiscali. A giudicare dalla clientela di Saint Moritz, l'Italia è un paese abbastanza ricco per sostenere caterve di famiglie ormai milionarie, cioè pervenute al milione quotidiano, e miriadi di famiglie evidentemente maggiorenni, nel senso che superano tranquillamente i diciotto milioni al mese. Lassu si capisce bene come mai l'Italia largheggi e si distingua nel consumo di whisky e di champagne, nelle aste canadesi e sovietiche per le pellicce piu prezio· se, negli acquisti di cavalli di sangue gentile sul mercato irlandese, nei casinò della Jugoslavia e della Costa Azzurra, nei grandi viaggi di "Connaissance des Arts" e negli alberghi del Nepal. C'è un segno particolare nelle ville e nelle "residenze" premurosamente acquistate da turisti italiani in riva ai prati fra Pontresina, Cellerina e Silvaplana: il segno di un paese abbastanza ricco per assicurare lussi particolarissimi alle sue classi dirigenti. Lassu, si capisce bene che i big di Torino e di Milano, di Varese e di Vicenza, i dentisti e i chirurghi di Bergamo e di Brescia, gli industrialotti di Alessandria e di Piacenza, i commercianti di Udine, di Padova e di Bologna, gli armatori di Genova e di Napoli si concedono abitualmente delizie ed agi poco frequenti tra i loro colleghi di pari livello in Irlanda, in Gran Bretagna, in Francia, in Germania e fors'anche negli Stati Uniti. Durante le vacanze per "milionari" e per "maggiorenni," Saint Moritz è come un laboratorio in piena attività, dalle alte stazioni delle funivie al fondo delle cucine. Dappertutto, i lavori piu umili toccano agli stranieri: camerieri e sguatteri, facchini e fattorini, commessi e domestiche. A questi posti, non si trovano inglesi, né francesi, né tedeschi, né svizzeri: ci sono i negri dell'Europa, cioè i poveri dei paesi poveri, i portoghesi, i greci, i turchi, gli spagnoli, ma anche qui è l'Italia che domina il campo con un'altissima percentuale di presenze. Lassu, si capisce come mai gli italiani siano tradizionalmente numerosi tra i kepi bianchi della Legione straniera e tra i "mu15

si neri" delle mrmere belghe, tra i bersagli del Ku Klux Klan e tra le vittime della "fatalità" che si chiama menefreghismo padronale, da Marcinelle ad Altmark. C'è un segno particolare nelle cucine degli alberghi di Saint Moritz: il segno di un paese cosi povero da assegnare a tanti suoi figli la sorte propria della piu povera gente di Turchia, di Grecia, di Spagna. Cosi, visto di lassu lo stivale fa pensare alla facciata del duomo di Genova, dove si alternano strisce di marmo bianco e di marmo nero. Tocca gli estremi del lusso e della povertà. Se ne scrivono tante sull'Italia e sul cosiddetto carattere nazionale degli italiani, ma è difficile spiegare il senso delle nostre guerre e del nostro dopoguerra, dei nostri miracoli e delle nostre crisi, delle nostre fiammate e dei nostri anni inerti se non si ammette che in casa nostra la storia si ripete. Dopo il 1861 si ripetono con impressionante regolarità gli stessi errori, le stesse scelte sbagliate, gli stessi soprusi, le stesse paure. Non c'è regno né repubblica che tenga. Le classi dirigenti sono sempre inclini al cinismo, come nel tempo di Giacomo Leopardi. Si ripetono sempre le stesse malizie cucite col filo bianco, le stesse pigrizie. Si entra nella prima guerra mondiale propugnando la linea del "sacro egoismo"; si entra all'impazzata nella seconda guerra con la buia e rapace intenzione di correre in aiuto dei vincitori. Dopo il 24 maggio del 1915, si discute per lunghe stagioni prima di dichiarare guerra alla Germania; dopo 1'8 settembre del 1943, non si manca di titubare lungamente. Nel 1915 si perdono giorni e giorni prima di assaltare il Carso; nel 1940 si perdono stagioni e stagioni, e non si assalta mai Malta. Capita spesso che tra il dire e il fare ci sia di mezzo il mare. Per esempio, prima si esalta per anni la strategia della Nazione Armata e dei Valori dello Spirito, ma si va in guerra senza armi, senza strategia, senza passione popolare. In questo dopoguerra, si colgono appassionatamente tutte le occasioni per fare professione di fede verso l'Europa. A parole, siamo indubbiamente primissimi nell"'impegno europeo"; ma coi fatti siamo ultimi, e senza attenuanti. Europa non è soltanto una bella parola, non significa soltanto una dimensione piu ampia ma anche e soprattutto un modello di sviluppo degno del nostro tempo, una condizione di vita e di lavoro piu sensibile alle risorse della rivoluzione scientifica e ai valori della solidarietà umana. Noi siamo abituati a operare in senso contrario, e teniamo duro. Per esempio, nel campo dell'ingiustizia fiscale, cioè nella percentuale delle imposte indirette (37,3) siamo battuti solo dalla Francia (28%), che, in compenso, battiamo con gran distacco nella specialità 16

dell'evasione delle imposte dirette. La Germania (44%), i Paesi Bassi (55%), il Belgio (52%), la Danimarca (59%), il Regno Unito (SO%) seguono a grande distanza. Abbiamo il primato delle chiamate in giudizio e delle condanne da parte della corte di giustizia europea: e non è facile stabilire quante e quali delle innumerevoli inadempienze siano dovute alla lentezza delle procedure parlamentari, alla pigrizia o alla malleabilità della burocrazia, agli ostacoli astutamente frapposti da gruppi che non tollerano di essere toccati dall'Europa nei propri particolarissimi interessi. Quando nel 1973 Bino Olivi, funzionario alla Commissione delle comunità europee, pubblica il volume Da un'Europa all'altra, cinque deputati democristiani presentano un'interrogazione alla CEE per sapere se la Commissione abbia autorizzato il funzionario a quella pubblicazione e se ne condivida i giudizi "oggettivamente lesivi per uno stato membro." L'interrogazione è fatta "all'italiana"; serve solo a dimostrare che quei deputati discutono un libro senza averlo letto attentamente: a pagina 32, infatti, si parla chiaro e tondo dell'autorizzazione formale alla pubblicazione. Per il resto, niente di nuovo. Lo scandalo non è che ci sia del marcio, ma che se ne scriva. Lo scandalo non è che ci siano dei panni sporchi, ma che si ceda alla tentazione di lavarli. Ben presto le polemiche determinate dal libro di Olivi si spengono. È poco interessante accertare se l'integrazione dell'Italia nella Comunità sia stata fortemente ostacolata dalla resistenza, passiva od attiva, di quasi tutti gli organi della struttura statale. Poco importa stabilire quali siano le responsabilità di certe forze politiche e quante e quali siano state le brutte figure fatte a Bruxelles da esperti italiani. Eppure le conseguenze economiche dell'operato di quei signori pesano tremendamente sulla vita italiana, e proprio sui settori piu poveri, a cominciare dall'agricoltura. Al primo gennaio 1972, secondo Olivi, i finanziamenti all'Italia per progetti di miglioramenti agricoli risultano spesi soltanto nella misura del 16% del totale, per i crediti concessi tra il 1964 e il 1968: contro il 40% negli altri paesi. La lettura di tutte le nostre inadempienze verso la CEE sarebbe lunga come la quaresima. Le nostre pigrizie sono tali e tante da determinare giudizi gravi e persino sospetti neri. Si continua a sollecitare la concessione di aiuti ma si fa ben poco, e molto lentamente, per riceverli puntualmente e per utilizzarli: gridiamo che siamo assetati e ricorriamo ai pozzi del vicinato per attingere acqua col setaccio. I progetti relativi ai lavori urgenti dopo le alluvioni del 1966 in Veneto e in Toscana non pervengono a Bruxelles che alla fine 17

del 1971. Lottiamo per strappare lo stanziamento di 2.500 milioni di lire a favore dell'agrumicoltura siciliana, ma, superata di slancio la prova verbale di Bruxelles, cediamo al sonno e non riusciamo a presentare il piano entro la data concordata del 31 dicembre 1970. Ci facciamo vivi finalmente nel dicembre 1971, ma il piano non corrisponde agli scopi prestabiliti e si deve perdere anche il 1972 per rifarlo. Si perdono due o tre anni per i rimborsi agli esportatori di grano duro; molti operatori si decidono a passare per i porti stranieri, dove l'apparato burocratico della "restituzione" lavora rapidamente. Da tempo si dice e si ripete che l'AlMA deve rinnovarsi; da anni la corte dei conti ne parla con preoccupazione, ma le cose non cambiano. All'inizio del 1972 gli olivicoltori sono ancora in attesa di 120 miliardi di lire, come residuo dell'integrazione di prezzo della campagna 1969-1970 e come quota intera per la campagna 1970-1971. L'inchiesta della Commissione sul cartello dello zucchero, conclusa con multe per quasi tre miliardi a carico di cinque industrie italiane, coinvolge anche il nostro sistema amministrativo, per i modi con cui si sono fissati prezzi e ripartite le quantità. Probabilmente a Bruxelles nasce il sospetto che esista collusione fra Amministrazione pubblica e interessi privati. Certamente si ha scarsa fiducia nelle documentazioni degli italiani. L'onorevole Richarts, del parlamento europeo, dichiara che " .. .le cifre italiane sull'olio d'oliva non sono serie, poiché nessuno può credere che nel periodo 1966-1971 il consumo sia aumentato di 1.760.000 quintali, con un incremento pro capite del 35%." Di fronte alle cifre ben diverse fornite dall'IRVAM e dall'ISTAT sulla consistenza del nostro patrimonio bovino, la Commissione sottolinea che "il sistema delle statistiche agrarie italiane è ancora alquanto incompleto." Per il grano duro, si fa osservare al nostro governo che "dalle cifre fornite si dovrebbe dedurre che gli agricoltori siciliani hanno esteso la coltivazione anche alle zone marine prospicienti." Non si tratta soltanto di acqua passata, che non macina piu. Il nostro apparato "europeo" è un mulino che continua a macinare cosi, malamente. Un funzionario francese sfiora l'insulto: "forse la CEE dovrebbe fornire all'Italia dei buoni amministratori." L'irlandese Hillary, vicepresidente della Commissione per la politica regionale, è un po' meno aggressivo, ma ferisce lo stesso: "Non siamo sicuri che i fondi che saranno concessi all'Italia verranno spesi bene." Da un secolo si ripetono le stesse sentenze, gli stessi proponimenti illuminati sul Mezzogiorno, pietra di paragone, cartina di tornasole, banco di prova, linea del fuoco, verifica solenne 18

della politica italiana. Alla resa dei conti, nel 1975 il Mezzogiorno presenta le contraddizioni piu gravi d'Europa, tra i grattacieli trionfali della speculazione edilizia e la sete alle porte, tra il paternalismo arrogante dei potenti e la mortificazione delle turbe votate all'emigrazione, tra i fiumi di automobili e gli acquedotti che danno da mangiare alle clientele ben piu che da bere alle città. Sono manifeste le conseguenze degli errori fatti, per pigrizia o per cecità o per calcolo, innestando le cose proprie del capitalismo vecchio e nuovo nel vecchio ceppo della politica clientelare. Invece della saldatura, auspicata da Gramsci, tra operai del Nord e contadini del Sud, si registra la saldatura tra i vizi delle clientele locali e quelli della burocrazia romana, dai ministeri ai consorzi agrari e alla Cassa per il Mezzogiorno. Nel maggio del 1911 Franchetti aveva parlato delle province napoletane cosi, con lo stesso pessimismo della sua prima inchiesta del 1875: "Dal 1861 tutti i governi di ogni partito hanno visto nel Mezzogiorno non un paese da governare, ma un gruppo di deputati da conciliarsi. E fra tutte le questioni, affascinanti per un uomo di stato, che presentava la rigenerazione di quella regione infelice, ne hanno scorta una sola, piccina invero, ma che a loro sembrava grande: congegnare un meccanismo elettorale agile e flessibile." Ebbene, dopo lustri e lustri di grancassa sul Mezzogiorno, nel 1975 si possono tranquillamente ripetere le stesse sentenze di un secolo fa. Intorno al 1880 il sindaco di un grosso comune del Beneventano era fratello del deputato al parlamento, del deputato provinciale e del giudice conciliatore del comune; un fratello era prete e aveva funzioni di maestro nella scuola; un cugino era ricevitore del Registro e segretario. Nella città di Nola, il sindaco, il deputato al parlamento, il deputato provinciaie, un senatore, il segretario comunale e alcuni appaltatori provenivano dalla stessa famiglia. I comuni del Mezzogiorno subivano spesso farse di quel genere. Era la cosiddetta piramide del blocco agrario, coi latifondisti al vertice e quindi con le clientele in ordine decrescente, dagli avvocati ai fattori e ai mazzieri, dai deputati ai consiglieri comunali, dagli appaltatori di lavori pubblici agli esattori, dai guardacaccia agli aspiranti tabaccai. "Nei consigli comunali, provinciali e parlamentari, si formano associazioni di cointeressati, i quali, pur nascondendosi sotto qualsiasi maschera, sono vere associazioni a delinquere, o se preferite, dei 'mangia con tutti.' Costoro guardano con un certo sorriso caratteristico quelli che ne sono scandalizzati, come volessero dire: poveri di spirito, non conoscono il mondo. Ci deve essere nella nostra ci19

viltà qualcosa che evidentemente è falso, se esso ci conduce a un tale fatalismo da decadenti." Cosi scriveva Francesco De Sanctis nel 1877. Dopo mezzo secolo, Dorso e Gramsci trovarono che quell'"or· dine" regnava ancora. E adesso? In questo dopoguerra, Napoli ha avuto Lauro, poi è passata dalla zuppa al pan bagnato, cioè dai lunghi anni del "!aurismo" a quelli dei Gava. Quando nel· l'estate del 1973 si abbatte sulla città il flagello del colera, si levano i lamenti, i pianti, le denunce: è l'ora delle cozze, e del sangue di san Gennaro, della ".fatalità," e degli stracci che vanno all'aria. Le strutture non risultano abbastanza mutate da quelle dei tempi di Renato Fucini, quando l'unico essere che si occupasse sul serio della questione e che provvedesse instancabilmente abiti nell'inverno, medicamenti e disinfettanti nelle altre stagioni era il sole, "questo meraviglioso assessore di igiene." Nel luglio del 1973 Giuseppe Galasso (sindaco di Napoli dopo la svolta del 15 giugno 1975) afferma amaramente: "la nostra sventura fu il miracolo [ ... ]. Da un buon decennio il Sud tace. E tace non già perché non faccia piu storia. Magari non fa piu notizia: questo si." Alla lunga, gli inviati speciali si stancano di scoprire sempre le stesse cose, gli sperperi e la miseria, le cattedrali nel deserto e le campagne fatte deserto, le industrie nate per gettare fumo negli occhi, cioè per ottenere finanziamenti ma non per dare lavoro, le maree di intellettuali "morti di fame," la straordinaria abbondanza di "prime pietre" che restano tali per chissà quanto. I notabili sono ancora ligi alla tradizione; considerano i lavori pubblici cosi come considerava i bambini la principessa Matilde, che preferiva cominciarne cento che portarne uno a termine. Anche i contadini sono nella tradizione, con quel furore dei blocchi stradali: di quando in quando, perdono la pazienza dovendo lottare ancora coi blocchi vecchi della mafia o della camorra e con quelli nuovi dei mercati generali, del Credito agrario, degli enti di gestione. Nell'estate del 1975 il solito scoppio della guerra del pomodoro dimostra che i problemi sono ancora quelli illustrati nel 1968 nel volume Campania in trasformazione, a cura di Francesco Compagna: " ... il numero chiuso dei grossisti e dei commissionari di mercato ha determinato [ ... ] la formazione di veri e propri monopoli che, specialmente in Campania, talvolta hanno assunto la figura di veri e propri racket, arbitri incontrastati nella formazione dei prezzi, cosi alla produzione come al consumo." È dal 1861 che in casa nostra si trascurano, con rara tenacia, gli stessi problemi. È Mussolini che porta il vanto degli sven20

tramenti romani, ma, a onor del vero, l'Urbe subisce gravi ferite e speculazioni sfrenate sotto Umberto I, sotto Vittorio Emanuele III "antemarcia," sotto tutti i presidenti della repubblica. Nel 1889 il comune di Roma ha debiti per duecento milioni, che assorbono, tra interessi e ammortamenti, il 40% delle entrate comunali: eppure, nonostante tanti dispendi, "si crederebbe di vivere," dice il senatore Vitelleschi, "in una città assediata. Ovunque lavori incompiuti, strade in disordine, comunicazioni interrotte, vastissimi palazzi acquistati inutilmente dal municipio. Insomma, una confusione, uno sperpero indescrivibili. La impudenza municipale permise alla speculazione privata di impadronirsi di quasi tutti i terreni disponibili": quindi, per le imprese edilizie e per le banche interessate, grassi affari, che abbracciarono anche i terreni della stazione e tante ville illustri. Nel 1975 Roma si trova assediata da sterminati e orrendi quartieri nuovi; ha un'estrema povertà di verde; la via Appia è ridotta ad autostrada, tra villini abusivi e monumenti depredati; villa Torlonia e villa Chigi sono in stato di "estrema fatiscenza." Dicono che "c'è una seconda capitale, vasta quasi quanto la prima, ed è sorta senza licenza." Da cinquant'anni non si costruisce un ospedale; "il terzo mondo" chiamato Primavalle è una borgata costruita per 6.850 persone che ha 20.000 abitanti, e quindici centimetri di verde per abitante. Il comune è indebitato fino agli occhi; 2.000 miliardi al 31 agosto 1972, con un bilancio di previsione per il 1972 che prevede un disavanzo economico di 277 miliardi, pari a un quindicesimo del bilancio totale dello stato. I dipendenti comunali sono 24.000 contro i 14.000 del 1948. Nel 1975 i debiti vanno verso i 3.000 miliardi; e i dipendenti verso i 30.000. Intanto i leoni della speculazione edilizia si crogiolano ai grassi fuochi dei cento e cento miliardi accumulati in pochi anni. Marchini, Anzalone e Lenzini guadagnano, alla testa della Roma e della Lazio, la gloria (e il peso specifico) dei "mecenati." Nel campo della speculazione edilizia Roma, Napoli e Palermo si contendono il primato, ma in tante altre città, da Sanremo a Loano, da Genova a Rapallo, da Cervinia a Termoli, da Firenze a Milano, non si scherza. Ad Agrigento, intorno alla illustrissima Valle dei Templi, si registra una lottizzazione selvaggia con oltre duemila costruzioni non regolamentari e con cinquecento villini senza licenza. In tutta la penisola abbondano le case nuove di lusso, sfitte, e c'è carestia di case popolari. A parole siamo quelli del culto dell'arte: coi fatti, siamo peggio dei vandali, peggio della guerra, come una volta. Cento anni 21

fa la Biblioteca nazionale (oggi Vittorio Emanuele) subi una specie di pacifico sacco, con quintali di libri venduti a peso, per pochi centesimi al chilo. Se ne andarono cosi, nel mucchio, edizioni rare e documenti di gran pregio. Nel 1904, a proposito dell'incendio della biblioteca di Torino, Ugo Ojetti scrisse: "le catastrofi artistiche in Italia sono logiche. Gli uffici regionali mancano di personale tecnico e di danaro - e cade il campanile di Venezia: a tutte le biblioteche del regno sono stati soppressi, dal 1894, tre decimi di dotazione - e arde la biblioteca di Torino. Pare a chi ami le cose belle come cose vive che la Loggetta del Sansovino e il Libro d'Ore del duca di Berry si siano sacrificati eroicamente per svegliarci dal torpore e salvare i tesori che ci restano." In quel tempo l'imperatore Guglielmo II, visitando il chiostro di Monreale, disse a un rappresentante del nostro Ministero delle belle arti che se quel monumento fosse stato in Germania sarebbe stato tenuto in modo piu degno. In questo dopoguerra, le "catastrofi" determinate dall'incuria, e dalla speculazione edilizia a ruota libera, sono assai piu gravi che quelle dei bombardamenti aerei. Anche queste catastrofi sono logiche. Nell'agosto del 1975 si riparla tanto del Sansovino; a Firenze cade un braccio del san Giorgio del Battistero: verrà, questa volta, Sansovino a svegliarci dal torpore? I musei, poveri di personale, sono spesso chiusi ai turisti, e disponibili per i ladri. Le sovrintendenze mancano di mezzi. Nasce il Ministero per i beni culturali: resta da stabilire se sia necessario, fra tale e tanta abbondanza di dicasteri, e quali mezzi assorba, e se, dopo tante prediche sul decentramento, convenga "accentrare" ancora una volta a Roma mentre le regioni potrebbero fare, e le sovrintendenze non hanno i mezzi per fare. Va rilevato che nel 1975, secondo il bilancio dello stato, l'intero settore del patrimonio artistico costa 56 miliardi, cioè poco piu della "beneficenza romana," una voce misteriosa che figura per 51. A distanza di tanti decenni si ripetono con curiosa precisione gli stessi errori affrontando alla carlona gli stessi affari imbrogliatissimi, a cominciare dalla mafia. Ecco, per esempio, una pagina fin di secolo di Napoleone Colajanni: "Nel circondario di Termini alcuni anni or sono, c'era un brigante sul quale stava una taglia di alcune migliaia di lire. Il brigante per ragioni private venne ucciso da un suo amico. Che pensa di fare un delegato pieno d'ingegno? All'uccisore procura un passaporto per l'estero ed egli va a riammazzare il brigante morto da due giorni e intasca le migliaia di lire della taglia. Avendo il giornale 'L'Isola' di Palermo, da me diretto, denunziato il fatto, venni sentito

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come testimone nel processo iniziatosi per querela imposta dal ministro dell'Interno del tempo (Di Rudini). Il bravo giudice istruttore terminata la deposizione in tono di rimprovero amichevole mi disse: 'Guardi, Onorevole, Ella ha torto di scaldarsi del fatto: ciò che importava alla società era l'uccisione del brigante. E la si ottenne. Che male c'è se l'ammontare della taglia se l'è presa il delegato?"' La storia assomiglia molto a quella del bandito Giuliano, cosi come le parole del bravo giudice istruttore assomigliano molto a quelle dette sulla fine di Giuliano dal colonnello Paolantonio (in servizio per tutto l'arco di tempo del banditismo a Palermo, presso l'ispettorato di polizia e poi alle dipendenze del colonnello Luca) nell'interrogatorio reso al comitato per l'indagine su mafia e banditismo, nella seduta del 25 marzo 1969. "Tutto quello che facevamo era diretto a buon fine e se talvolta era spregiudicato, era fatto per combattere elementi estremamente spregiudicati." È cosa tradizionale lodare questi machiavellismi in nome del cosiddetto senso dello stato. Il generale Luigi Cadorna deplora i mezzi crudeli cui il generale Manhès "dovette ricorrere," nel 1861-1862, per sradicare il male del brigantaggio negli Abruzzi; ma conclude: "Non era il brigantaggio crudelissimo per efferatezze le piu raffinate? Non si rendeva perciò necessario il terrore, che, come forza morale, agisse su quelle immaginose popolazioni?" Il terrore come forza morale e come male minore entra spesso nella vita italiana, da destra. Sulla mafia si è scritto tanto, ma non abbastanza. Fra i tanti uomini d'ordine che si allearono alla mafia nel custodire il disordine, spicca Vittorio Emanuele Orlando, liberale, presidente del consiglio. Aveva la lacrima facile, tanto che durante la conferenza di Versai!les Clémenceau, affetto da mal della pietra, sospirava d'invidia: "Ah, se potessi urinare cosi facilmente come lui piange ... " Orlando aveva anche il voto facile, come "amico degli amici," nel collegio di Partinico, baluardo della mafia (e di Salvatore Giuliano). Una biografia di quel Grande non sarebbe povera di particolari gustosi. Contro la mafia si è fatto poco piu di niente. La Commissione parlamentare d'inchiesta, presieduta da Donato Pafundi, trasmette 1'8 luglio 1965 alla presidenza della camera una relazione tremenda. Non si può procedere allo scioglimento del consiglio comunale di Palermo per la buona ragione che il governo regionale e gli altri organismi tutori non hanno esercitato i poteri sostitutivi previsti dalle leggi; ma si osserva che l'attività edilizia e quella dell'acquisizione delle aree fabbricabili hanno costi23

tuito, con il concorso determinante dell'irregolarità amministrativa, un terreno quanto mai propizio per il prosperare di attività illecite. Nella deposizione del 15 gennaio 1964 il dottor Pietro Scaglione, procuratore della repubblica di Palermo, osserva: "La Barbera ad un certo momento da modesto carrettiere diventò appaltatore di grido: ha avuto anche lui conniventi dietro alle spalle? Chi lo sa? Chi lo può dire?" Adesso, a distanza di oltre undici anni, si può dire che il dottor Scaglione è stato assassinato il 5 maggio 1971 da ignoti, in pieno giorno, in piena Palermo, e che la relazione presentata nel 1972 dalla Commissione parlamentare presieduta da Francesco Cattanei ha composto un nuovo quadro tremendo delle cose palermitane sotto la mafia. In quei volumoni se ne leggono di tutti i colori. C'è il dottor Scaglione, proprio lui, che afferma, il 25 marzo 1969, che "la mafia è in declino." Si legge che il mercato ortofrutticolo e il commercio della carne e del pesce danno sistematicamente luogo ad abusi, prepotenze, delitti non meno frequenti e non meno impuniti che quelli nel settore edilizio. Il governo regionale, presieduto dall'onorevole La Loggia, nomina Genco Russo (mafioso notoriamente eminentissimo) amministratore del grande consorzio di bonifica del Tumarrano. Grazie ad altre nomine di quello stesso governo, la famiglia di Vanni Sacco (mafioso meno autorevole ma non meno notorio) ha nelle mani il consorzio del Belice. Quando il governo Milazzo allontana Genco Russo e "la mafia di Vanni Sacco," collocando due socialisti alla testa di quei consorzi, è uno scandalo. L'associazione degli agrari sbotta in un comunicato polemico "in difesa degli onesti agricoltori Russo e Sacco allontanati per creare i soviet comunisti." Nel testo delle dichiarazioni rese il 25 marzo 1969 dal dottor Ravalli, prefetto di Palermo, alla Commissione parlamentare, si legge che " ... a Palermo sono stati eliminati quattordicimila suini che venivano allevati clandestinamente: questo era un altro dei comodi redditi della mafia, perché tutti i gestori di questi allevamenti clandestini erano pregiudicati, elementi sospetti e in grandissima parte diffidati. Si trattava di una .facile maniera di fare denaro, anche perché questi suini venivano nutriti con rifiuti organici; ed ecco perché la nettezza urbana non .funzionava, perché i netturbini invece di spazzare pensavano a selezionare i rifiuti per poter rivendere quelli organici, oppure per poterli consegnare a questi allevatori clandestini anche senza compenso perché sottoposti a intimidazioni." Quanto al resto, poco di nuovo, a Palermo. Tra i leader della 24

DC spiccano ancora Gioia, ministro, Lima, ex sindaco, Ciancimino, ex sindaco; si fa avanti Mattarella junior. "Palermo implora Dio per Palermo" dice un manifesto affisso nel luglio 1975 davanti a Santa Maria della Catena. La città assomiglia alla Orano della Peste di Camus; si aspetta sempre l'acqua; si organizzano le marce dell'acqua, mentre i topi escono dalle fogne e la gente fa le code davanti alle fontanelle. L'acquedotto ha le condutture di settant'anni fa; è una specie di colabrodo, con perdite del 40%. C'è la diga dello Jato, che fu costruita nel 1966 dopo le ltmghe lotte guidate da Danilo Dolci e l'opposizione della mafia e i perditempo ufficiali, ma poi, fatta la diga, trovato l'inganno, l'acqua rimane dov'è. Nel 1875 si scopri a Palermo l'esistenza della Compagnia dei Mulini che, con tattiche paleomonopolistiche, con protezioni guadagnate a Roma nei ministeri, con prepotenze mafiose sui mugnai, associati per calcolo o per forza, teneva alto il prezzo della macinazione. L'intervento della polizia e l'arresto dei capi dell'associazione determinarono, da un giorno all'altro, un notevole ribasso nel prezzo delle farine e del pane. Nel 1975, intorno a Palermo, opera ancora sul settore acqua una fitta rete di controlli mafiosi, di aranceti lasciati prepotentemente all'asciutto, di vendite abusive, di boicottaggi ostentati, di impresari con acquedotto personale e con condutture volanti. Se in città la gente fa la coda, tanto meglio; il prezzo sale. Una nota dominante delle nostre classi dirigenti è sempre la "paura del rosso." Basta andare contro gli interessi dei conservatori per meritare il marchio focato del sovversivismo. Sotto "il re buono," la bestia nera è Filippo Turati, Reggio Emilia viene chiamata "il punto nero d'Italia" perché ha il colore delle cooperative e della predicazione di Prampolini. È buona norma diffidare delle cooperative. I fogli moderati le prendono di mira definendole piovre, vampiri, sanguisughe "protette," monopoli: la linea è quella dei due pesi e delle due misure, che porta ad attaccare la protezione del lavoro e a difendere accanitamente i dazi doganali, cioè il protezionismo degli zuccherieri, dei cotonieri, degli agrari. Persino Giolitti diventa un "sinistro," un "pericolo pubblico," nonché un menagramo. Si parla di "gioliettatura." Nel circolo della regina Margherita, i cortigiani gli pongono il soprannome di "mortadella di Bologna," vale a dire metà asino e metà porco. Quando spunta H fascismo, i moderati lo lodano e lo aiutano, come male minore, come rimedio contro il pericolo del rosso. Il piu illuminato dei conservatori, Giustino Fortunato, sarà con-

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tro il fascismo non soltanto perché il fascismo è antidemocratico ma anche perché il regime gli sembra contrario agli interessi dei grossi proprietari di terre. La miseria dei contadini, i problemi del Mezzogiorno diletto, tutto passa in seconda linea ove sembrino minacciati gli interessi di Giustino e del fratello Ernesto, che hanno migliaia di ettari nella valle dell'Ofanto. Nel secondo dopoguerra si loda il riformismo, in odio al comunismo: ma i riformisti sono assiduamente esortati alla prudenza, al buonsenso, al realismo, cioè a contentarsi dell'etichetta e fare a meno delle riforme. Le classi dirigenti sono ostentatamente "aperte"; non mancano di riconoscere la necessità delle riforme: stentano a trovare acconci i tempi. Se c'è il vento in poppa, si sostiene che le riforme sarebbero inutili, pericolose, controproducenti. Se le cose vanno male, mancano i mezzi e i margini di sicurezza. Quando nel 1877 Luigi Luzzatti afferma Ia necessità di una legge per la tutela dei fanciulli e delle donne nelle fabbriche e nelle miniere, si accendono le polemiche. L'industriale laniero Alessandro Rossi di Schio lo accusa di rappresentare "l'autorità moderna dello stato sulle rovine della tradizione, l'invasione della legge positiva ad isterilire i terreni della carità umana." Per difendere l'industria ancora bambina ci vogliono i bambini. ~ inevitabile che donne e fanciulli lavorino per quattro soldi nell'atmosfera irrespirabile dei cotonifici, delle ·filande, delle miniere di zolfo, delle fabbriche di zolfaneUi. "Una limitazione troppo rigida, uniforme e severa delle ore di lavoro dei fanciulll e delle donne non sarebbe sopportata dai nostri industriali, già oppressi da tanti balzelli; danneggerebbe la nostra vita industriale ancora bambina." "La Nuova Antologia" è d'accordo con Rossi. Il direttore del quotidiano "Il Sole," Bellini, esorta Luzzatti al silenzio. "Fammi il piacere di non scrivere nulla per il 'Sole' in argomento. Preferisco tacere che far succedere guai fra te e gli industriali, e tra me e loro. Il bistrattato sono io: pazienza; ma basta." Quando nel 1973 "Il Corriere della Sera" si decide ad affrontare il problema della sicurezza nelle fabbriche, il presidente della Confindustria, Lombardi, scende in campo per "protestare vibratamente per il modo tendenzioso, superficiale e offensivo col quale Zincone conduce l'inchiesta." Può ben darsi che Zincone esageri un po'. I giornalisti sono fatti cosi, sempre in cerca della parte malata, come devono fare i medici. Secondo quell'inchiesta, il medico condotto di Montegranaro (Fermo) sostiene che li "i polmoni di un bambino di tre anni sono piu rovinati di quelli di un uomo di sessanta anni che viva in una zona rurale." Al suo paese e in quelli vicini (Sant'El-

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pidio, Casette d'Ete, Torre San Patrizio) le colle e i solventi han~ no già inchiodato centinaia di operai. Montegranaro ha la febbre della scarpa. Ogni soffitta, ogni scantinato, ogni cucinone è buono per fare da laboratorio; ogni famiglia ha il suo. L'odore della colla invade le case: il veleno vicino alle pentole, il veleno nell'aria che si respira in famiglia. Il lavoro a domicilio nutre buona parte dell'industria calzaturiera italiana; nel Fermano si lavorano tomaie per aziende di Vigevano, di Bologna, di Varese. E. un fenomeno di "colonialismo interno" molto diffuso. In Italia i lavoranti a domicilio sono circa un milione, le ditte subappaltatrici decine di migliaia. I morti di quel "lavoro nero" non sono compresi, di solito, nelle statistiche delle "morti bianche," che sono quelle del lavoro "regolare" e che già ci assegnano amari primati in campo europeo. Può ben darsi che Zincone esageri un po' con certi quadretti strappalacrime alla Dickens. Scrive, per esempio, che "a Napoli dodici ragazzine sono all'ospedale. Bambine piccole, sette hanno meno di tredici anni: paralizzate per appiccicare borsette, per portare a casa mille lire al giorno." Sarà vero? È verissimo che si va avanti cosi, e che non succede niente di nuovo. La vita è monotona, in casa nostra. Il 20 luglio del 1975 si legge sui giornali che proprio a Napoli "i fratelli Giovanni e Salvatore Conte di 16 e 14 anni sono paralizzati alle braccia e alle gambe per avere lavorato in una fabbrichetta di borsette di plastica, adoperando con le mani nude un collante pericolosissimo a base di benzolo e di solfuro di carbonio. All'ospedale Cardarelli sono ricoverate con le mani paralizzate anche due cuginette, Anna e Annamaria Farina, di 12 e 14 anni. Anche loro da due mesi usavano il terribile collante in una fabbrica di borse." Nello stesso giorno a Milano, in una casa popolare della Barona una bambina di sei anni precipita dalla finestra e si sfracella in cortile. Ai cronisti che vanno a interrogarla, la madre racconta che la sua piccola Manuela, con il fratellino Fabio e con un'amichetta, aveva passato il pomeriggio a impacchettare spugne: ogni dodici spugne imbustate due lire di guadagno, cento lire per seicento spugne. "Per la mia bambina era come un gioco!" aggiunge tra le lacrime. Giochi a parte, sono 130.000 i bambini ancora soggetti all'obbligo scolastico che lavorano sotto padrone. Nel 1946, interrogano l'industriale Angelo Costa sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende e sulla loro ammissione nei consigli di amministrazione. Risponde: "Sono contrario; oltretutto perché non serve a niente. Io che credo di

avere una certa esperienza in materia economica, in tutti i consigli di amministrazione in cui sono stato, non ho mai capito niente. Non credo che possano capirvi piu di me delle person