Il museo immaginato
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Zitiervorschau

PHILIPPE DAVERIO il museo

immaginato

Rizzoli

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Le Ombre della Rete

leombre.html[14/02/2015 23:27:01]

Firmato digitalmente da Le Ombre della Rete ND: cn=Le Ombre della Rete, o=Le Ombre della Rete, ou=Netshadows.it/forum, [email protected], c=IT Data: 2015.03.07 01:32:30 +01'00'

il museo

immaginato

PHILIPPE DAVERIO

il museo

immaginato

p. 8: Jan van Eyck, Polittico di Gand, particolare, 1433, olio su tavola, cm 350x450 (aperto), Gand, San Bavone

p. 257: Innocenzo X © The Estate of Francis Bacon by SIAE 2011.

Coordinamento del progetto: Nadia Dalpiaz Coordinamento editoriale: Giulia Dadà Redazione e ricerca iconografica: Daria Rescaldani, Ultreya Coordinamento tecnico: Sergio Daniotti Art director: Davide Vincenti Disegni: Adriana Feo

© 2011 RCS Libri Spa, Milano Tutti i diritti riservati www.rizzoli.eu Sesta edizione: dicembre 2011 ISBN 97888-58-62778-5

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

Ringraziamenti

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A MO’ DI PREFAZIONE

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ANTICAMERA

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PENSATOIO

53

BIBLIOTECA

75

GRAND SALON

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SALA DA PRANZO

133

PETIT SALON

163

SALA DA GIOCO E DELLE CURIOSITÀ

181

CUCINE

199

GRANDE GALERIE – LA BALCONATA

223

CAMERE DA LETTO

267

CAMERA DELLA MUSICA

307

LA CHIESA E IL GIARDINO

327

Indici

344

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Ringrazio, per avermi permesso di scrivere questo libro, le persone che mi hanno insegnato a guardare i quadri. In primo, il principe degli antiquari di Milano, che purtroppo non è più qui a ricevere il ringraziamento, l’Alessandro Orsi che mi mise in mano una veduta di Guardi, fresca e croccante, e mi permise di tenere tra queste mani inesperte il dipinto muovendolo in modo che capissi il ritmo della materia che il pennello aveva depositato sulla tela. Avevo allora ventisei anni. Tramite lui conobbi Enos Malagutti, che era un mantovano d’origine contadina, diventato restauratore con una abilità alle attribuzioni che faceva allora morire d’invidia Federico Zeri. Lui mi fece capire cos’era lo stato di conservazione d’un dipinto, le sue mutazioni, le sue trasformazioni nei secoli. Aveva egli un fratello, mantovano quanto lui, ch’ebbe la fortuna di seguire da ragazzo il carretto d’un liutaio. Divenne lui stesso liutaio, eccellente, con bottega nell’atrio d’una casa settecentesca di via Pantano, vicino alla Ca’ Granda. Lui mi insegnò a guardare un ricciolo e ad annusare una vernice appena data sul dorso d’un violino. Mi fu utile quest’esperienza per il rapporto di amicizia che da allora mi lega a Luigi Gerli, il quale m’insegnò i segreti degli strumenti a tastiera, quelli pizzicati, quelli martellati e quelli soffiati, oltre ad altre utili considerazioni sulla libertà del pensiero, percorso nel quale, quello del pensiero indipendente, ebbi la fortuna di peregrinare con un altro mio amico, Massimo Negri, il quale nei ritagli di tempo fra una considerazione sulla macropolitica e l’altra sulla microesistenza, mi iniziò ai misteri incerti e necessari della museologia. Ma devo molto anche agli intellettuali dell’Accademia e dello Stato, perché passare due ore con chi sa è più utile che passare due mesi in biblioteca. Carlo Bertelli mi ha fatto capire che cosa è il medioevo, mi ha introdotto ai misteri arcani delle miniature. L’Antonio Spinosa mi ha portato nel primo convegno alla Yale University per parlare degli angeli nella pittura napoletana, poi mi ha evocato Caravaggio nei bassifondi partenopei. Antonio Paolucci, lo conobbi ch’era egli ministro e io banale amministratore (non amministratorte) locale, e invece di litigare su questioni di competenza mi spiegò con un entusiasmo retorico tutto suo il cuore della questione rinascimentale fiorentina. A Claudio Strinati devo d’aver capito la Roma del primo Cinquecento quando da quelle parti girava l’Erasmo e sosteneva che gli umanisti parlassero benissimo, ma non si sa di che cosa. E non voglio dimenticare l’Andrea Emiliani, che vedo sempre troppo poco, ma che è il custode della magia che portò la pittura bolognese a conquistare Roma quando il Rinascimento s’era sciolto nel tardo manierismo. E tanti altri, ma forse non troppi, perché quelli che sanno sul serio sono assai rari.

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Le nuvole di Guardi e di Turner, la densità vegetale del Doganiere, i voli di Courbet in un particolare dell’altare di San Bavone

A MO’ DI PREFAZIONE

’argomento trattato in questo libro non è la pittura ma i quadri (a dir il vero c’è anche un tondo). La pittura è una prassi ben vasta rispetto al tema. Va, la pittura, dalle grotte di Altamira alle insegne dei barbieri, si dipingono i musi dei caccia Spitfire e le strisce pedonali per terra. L’argomento che trattiamo è quindi molto più ridotto, ma lo è addirittura nel campo dove la pittura è da considerarsi solo artistica, quello che spazia dagli affreschi alle miniature dei codici, dai disegni per gli arazzi ai polittici a fondo oro, dagli acquarelli alle varie tecniche dell’incisione. Qui ci occuperemo solo d’un settore molto ristretto, quello che riguarda i dipinti su supporto mobile, tavola, tela o rame, e che non abbiano una destinazione prettamente ecclesiale. La categoria dei quadri, in questo senso, per quanto allo spirito contemporaneo possa apparire naturale e universale, è una sorta di eccezione nel vastissimo panorama delle cose dipinte. È vero che esistevano già nell’antichità greca, e Plinio racconta dei prezzi folli che le comunità e i ricchi privati pagavano per opere trasportabili realizzate da sommi artisti quali Apelle e Zeusi. Ma già i romani preferivano la pittura parietale, ch’era un ibrido fra i quadri e il decoro vero e proprio. Il tardo impero e il medioevo andarono di icone e

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affreschi. A Carlo Magno della pittura importava ben meno di quanto non avesse interesse per le pergamene istoriate e per gli antifonari. Ai raffinati parigini del XIII secolo cominciarono a piacere molto i libri miniati, a tal punto che si sviluppò allora una vera e propria editoria degli amanuensi. La scultura lapidea, le vetrate delle chiese, costituivano la forma di espressione massima delle comunità. E v’era una ragione in tutto ciò. Le corti dei re e dei principi, dei duchi di Bretagna e di Normandia, erano in costante spostamento, erano prive di capitali come oggi le intendiamo con uffici ed edifici corrispondenti: erano i monasteri e le cattedrali che fornivano le risorse delle cancellerie. Pratica questa che costò caro all’ultimo duca di Borgogna, Carlo il Temerario, quando venne sconfitto dai montanari svizzeri nella primavera del 1476 prima a Grandson e poi a Morat: i rustici gli portarono via, come se ancora fosse bottino, tutto ciò che conteneva il suo lussuoso accampamento, gioielli, sigilli, arazzi e preziosi manoscritti, ben più importanti di alcune piccole tavole con il suo ritratto o quello della moglie. La collezione del duca di Berry, quello delle famose Ore, dimostra quanto per il principe d’allora la cultura visiva dipinta era quella che si celava in rari manoscritti. La tradizione del trasporto delle cose d’arredo, degli arazzi che servivano a separare gli stanzoni dei castelli per renderli adibibili e abitabili alle corti dei cortigiani, è durata fino al XVII secolo in Francia e ha generato la categoria del Mobilier Royal che si distingueva da quella dei Menus plaisirs, la quale comprendeva il vasellame e le minutaglie. Diverso era il caso italiano, in quanto i nostri principi, i nostri monasteri e i nostri comuni erano stanziali. Si cominciò a dipingere le pareti. Dopo la Grande Peste del Trecento, passate le due generazioni necessarie a ricostituire la morfologia demografica, si costruì moltissimo, si imbiancò a calce e si decise di affrescare l’affrescabile. Fare il pittore di pareti divenne mestiere sociale, mentre fare quadri, principalmente a fondo oro, rimaneva mestiere di culto. Ma in quel tripudio di colori e di pennelli nacquero le abilità tecniche di ciò che poi fu chiamato Rinascimento. Nel frattempo avveniva fra i borgognoni, alcuni francesi e gli abitanti delle Fiandre, una mutazione sociale inattesa: crescevano le città, si accumulavano ricchezze, si formava una borghesia pron-

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ta a viaggiare per i commerci ma felice di tornare a casa, stanziale nel suo focolare. È un rappresentante esemplare di questo nuovo ceto, il borgomastro di Gand, Joost Vijdt, che fa realizzare il prototipo della nuova pittura per la cattedrale della sua città, San Bavone. Il lavoro lo inizia Hubertus van Eyck, che muore nel 1426, e lascia il compito di completarlo a suo fratello Jan. La tecnica usata è quella dell’olio, come da oltre due secoli si usava per dipingere le statue lignee. La cifra stilistica è quella dei grandi codici miniati trasferiti su tavola. Il contenuto appare rivoluzionario perché riassume tutto il mondo che lo ha preceduto, dal sentimento per la natura alla consapevolezza del voler stupire con i due nudi di Adamo ed Eva. Passano meno di dieci anni e Jan van Eyck ritrae la prima coppia in un interno borghese, Giovanni Arnolfini, probabilmente mercante lucchese da dieci anni attivo a Bruges, e la sua giovane moglie, Giovanna Cenami. Il dipinto contiene già molti temi dei secoli successivi ed è una pubblicità per la nuova pittura, zoccoli di lei e di lui compresi, arance sul davanzale, lo specchio dove si vede entrare un visitatore mentre scorge il pittore, e la luce che fa riflettere la trasparenza della collana appesa al muro con chiodo realista, infine l’immancabile cagnetto ben più espressivo dei personaggi. Nessun monarca aveva mai avuto l’omaggio pittorico di questa coppia mercantile, già pronta per Luchino Visconti in Gruppo di famiglia in un interno. In Italia la rivoluzione borghese era avvenuta già nel Duecento, all’insegna della moralità determinata dall’etica monastica dei vizi e delle virtù capitali: tutto doveva essere sottotono e il bello parietale era del palazzo comunale o della chiesa. La signoria italiana cresce con la ripresa d’importanza dei territori agricoli atti alla rinascita demografica. Il Quattrocento mescola la figura principesca e quella della ricchezza urbana: a Venezia, a Firenze, a Padova come a Milano si inizia a dipingere quadri, oggetti amovibili, parte del patrimonio delle famiglie legate all’umanesimo e all’accumulo del danaro. Si continua in Italia a pittare la tavola come il muro, con le tempere, semmai arricchite da leganti naturali. A metà del secolo, la competizione commerciale fra peninsulari e fiamminghi sfocerà in una nuova tecnica pittorica unificatrice. Nasce il quadro, prodotto tecnologico avanzato,

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opera dove si condensa il sapere dell’epoca, prezioso addobbo del patrimonio personale. È la testimonianza concreta e ultima dell’aristocrazia borghese delle città d’Europa. E così può oggi iniziare il gioco dell’invenzione d’un museo ideale, un luogo dove le muse possano seguire l’ipotesi d’una idea. Per giunta è tutta colpa di André Malraux, il famoso ministro degli Affari Culturali del generale De Gaulle, anzi il primo ministro incaricato di occuparsi di cultura in Europa dopo la Seconda Guerra mondiale. Dieci anni prima di salire sull’augusta poltrona aveva scritto un saggio pieno di geniali anticipazioni, Le Musée Imaginaire. Sosteneva il sommo intellettuale che la caratteristica della modernità consistesse nella genesi d’una conoscenza sincretica dove le epoche entravano tutte in confronto. Ben più ancora, si rallegrava della formidabile qualità delle riproduzioni in offset piano bianco e nero che consentivano di vedere contemporaneamente una statua khmer e un Cristo catalano del XII secolo. La sua passione per l’editoria d’arte postbellica non prevedeva ancora l’infinito circo mediatico nel quale viviamo oggi, e neppure l’abolizione della pellicola in epoca digitale, quella per la quale oggi ogni amatore si può organizzare una fototeca infinita. Sosteneva egli inoltre che rispetto all’epoca nella quale il gusto di Baudelaire si formava quasi esclusivamente dall’apprendimento che consentiva la frequentazione del Louvre, non avendo il poeta critico mai visto Giotto ad Assisi, il gusto della modernità sorgeva dall’allargamento dell’informazione e quindi sulla fortuna d’un passato che si faceva tutto contemporaneo. Il suo intuito è quindi ancor più stupefacente perché consentiva già allora una libertà di fantasia che legittima oggi questo volume, altrimenti da considerarsi assolutamente impertinente. L’informazione del XXI secolo corre sulla rete, dove il vaso di Pandora si rovescia costantemente offrendo meraviglie d’ogni genere e colore. La formazione nel caleidoscopio conseguente è ben più enigmatica. I riferimenti tutti si equivalgono. Le attrazioni sono incantevoli e si sa che l’incanto porta talvolta alla

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perdizione. Il gioco che viene proposto in questo libro è per conseguenza all’apparenza un esercizio moralista che si arroga il compito di offrire una ipotesi di ordine. Sublime crimine di hybris! L’excusatio non petita è tipica di chi lancia il sasso e nasconde la mano; anzi, dopo aver nascosto la mano del crimine, consiste nel portare avanti tutte due le mani sperando nel perdono. Qui invece l’excusatio può essere petita. Perché trattasi d’un gioco. È un percorso da saltimbanco nel quale ci si concede la libertà delle associazioni. La coscienza del bagaglio mentale che ognuno di noi si porta appresso è il fondamento d’un altro tipo di conoscenza, nuovo labirinto dove il contrappunto barocco riemerge nella musica africana del jazz, dove la percezione d’un dipinto di Eric Fischl contiene la memoria di Caravaggio e di Courbet combinate come nel sonno REM che gli psicanalisti hanno decifrato. Ognuno di noi possiede nelle stratificazioni del cervello e dell’anima un suo museo ideale, quello che il coltissimo Giorgio de Chirico aveva ironicamente indicato dicendo che la fonte immaginifica dei suoi cavalli impennati sulle rive della Tessaglia era la pubblicità del cavallino del cioccolato Poulain. Vi propongo il mio. Attenzione! È il risultato del momento contingente che sto vivendo. E, poiché la memoria è un armadio dal quale estraiamo di volta in volta lo strumento che ci serve a pensare nel momento di vita che attraversiamo, questo museo è puramente effimero. Potrei, se l’editore volesse in futuro offrirmi una seconda opportunità, cambiarlo in molti punti, non per migliorarlo o peggiorarlo, ma solo perché i tempi miei o quelli che sono costretto a vivere saranno mutati. La stessa opportunità viene offerta al lettore, il quale, da solo o con gli amici, è invitato a inventare il proprio museo ideale. Il vasto cosmo dell’editoria internazionale sarà felice, avendo tanto tempo da investire, di esaminare le proposte che gli perverranno. Ma il museo, per quanto virtuale, non è affatto astratto. Il libro può essere astratto in quanto propone una sequenza di immagini collocate sulla pagina, che è una sorta d’anticamera del cervello. Il libro si guarda, si legge. E l’ordine

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che vi si stabilisce può seguire in libertà ogni tipo di criterio, cronologico, estetico, tematico, poetico. Il museo invece è necessariamente concreto: ci si cammina, anche se solo virtualmente. Le opere vivono sulla parete del museo come sulla pagina del libro: un buon accrochage è simile a una bella impaginazione. Mentre però la pagina aspetta solo d’essere voltata, la parete dialoga con lo spazio, le porte, le altre pareti. L’ordine d’un museo è la naturale conseguenza della sua forma architettonica. Ecco perché ho portato il gioco fino a disegnare il museo. Un direttore di museo tedesco, quando è in ufficio o semplicemente in funzione, dice: “Ich bin im Haus”, sono nella casa, un po’ come se in italiano dicesse “Sono in ditta”. Per lui, ma anche per noi, la ditta “museo” è necessariamente una casa, un edificio. Mi sono quindi trovato obbligato a portare il gioco avanti, fino al disegno puerile del progetto dell’edificio. E poi, sono state le stesse stanze, una volta nate, a determinare l’itinerario e a scandire l’ordine. La scelta delle opere esposte non è altro infine che la conseguenza inevitabile di gusto, di memoria, di capriccio e di spazi. La prossima volta farò meglio. A VVISO AL LETTORE : questa raccolta di immagini commentate avrebbe in passato richiesto un lettore avveduto oppure provvisto d’una biblioteca sostanzialmente ricca. L’epoca straordinaria che stiamo vivendo non lo esige più: ogni curiosità che la consultazione vi potrebbe sollevare potrà facilmente trovare risposta interrogando la nuova sibilla sapiente che è l’internet. Non esitate a cercare immagini e connessioni ulteriori. Spesso ritroverete immagini che qui avete scoperto. È ovvio: anche noi abbiamo agito così.

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COME SI GUARDA UN QUADRO: LO SI GUARDA A LUNGO

ochi spettacoli generano un senso di disagio umano maggiore di quelli che si ripetono quotidianamente nei musei. Intere truppe di esseri umani vengono spinte da un mito ignoto a percorrerne le sale a velocità da maratoneta per vedere da lontano opere celate dagli altri visitatori che si trovano davanti a loro. Lo potete vedere al Louvre come agli Uffizi. Al Louvre si sale con elegante fatica lo scalone che porta alla Nike di Samotracia, poi si gira a destra e si corre velocemente fra le sale degli artisti d’Italia, fino a entrare in un grande salone dove le orde, ormai già perse e disaggregate, rivolgono preferibilmente lo sguardo al soffitto: esso è molto decorato, ricorda una immagine confusa di pompa monarchica e viene come tale fotografato. Il Paolo Uccello appeso sotto appare un marinaio perso in un porto lontano. Poi si entra nel corridoio, si passa accanto al San Giovanni di Leonardo che sembra indicare la strada con il suo dito alzato; la porta del destino è fra pochi passi a destra. Si scivola senza accorgimento lungo il Parnaso che piacque a Lévi-Strauss e si penetra nel salone grande. Le enormi Nozze di Cana di Veronese vengono sbirciate nel retrovisore perché si è giunti a destinazione: eccola la folla davanti

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JAN VAN EYCK

R ITRATTO

DEI CONIUGI

ARNOLFINI

1434, olio su tavola, cm 81,8x59,7, Londra, National Gallery

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alla Gioconda. Guai a essere un po’ più bassi della media, perché allora la si può vedere solo quando la coda avanza. Nella coda tante mani sono alzate perché protendono i telefonini per la foto d’obbligo. Infine per alcuni secondi si può vedere l’icona, dietro uno spesso vetro protettivo verde che la fa apparire come un’ostrica nel suo sugo. Cinque secondi per non vedere il capolavoro che Napoleone teneva in camera da letto e guardava prima di cadere nel suo breve sonno. Ma a quel punto il compito è svolto, si esce, un salto al bookshop, una cartolina e il meritato ristoro in una brasserie con la baguette jambon beurre. Non diverso agli Uffizi, solo che lì di solito fa più caldo. Disattenzione totale per la Madonna d’Ognissanti di Giotto. Lo scopo unico è la Primavera di Botticelli, la quale è già stata conquistata purtroppo da un autobus di giapponesi che non mollano la piazza occupata. Il vetro protettivo è più grande e la polvere (si sa che in Italia manca sempre il personale) si è irrimediabilmente annidata sul retro. I piedi si gonfiano nel frattempo, si prova la panchina e si aspetta il turno, immersi nella illuminazione grigia del sommo museo. La soddisfazione è infinita ma non appare. I vetri di Bruges sono perfettamente puliti (roba belga) e l’illuminazione è buona, sicché potrete specchiarvi benissimo e vedere se le cozze e patate fritte della sera precedente hanno lasciato nere le occhiaie. La pittura nei musei è più sfortunata del melodramma all’opera. La musica, e in generale tutte le arti che richiedono la rappresentazione, obbligano lo spettatore a un tempo di fruizione stabilito dallo spartito e dalla volontà del direttore d’orchestra di accelerare un poco o rallentare il tempo d’esecuzione. Ma il tempo lì c’è. Al massimo si riesce a sfuggire dall’influenza artistica schiacciando un sonnellino, ma non è detto che Morfeo impedisca l’assimilazione. Il tempo dedicato ai quadri è talvolta di pochi secondi, e per giunta si può fingere di vederne trecento in un’ora. Ovviamente vedere ma non guardare. Non si può sentire e non ascoltare la Traviata, ed è tuttora impossibile sentire tutte le opere di Verdi in un’ora. I dipinti che qui trattiamo, ma non solo loro, nascevano da un lungo periodo di gestazione, e per quanto Luca

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Giordano fosse chiamato “Luca fa presto”, non riusciva a realizzare un dipinto in una mattina. I dipinti che finivano in chiesa erano poi guardati dai fedeli lungo l’arco d’una intera vita, talvolta col sole che permeava un vetro o che si colorava in una vetrata, altre volte con il sapore grigio d’una giornata di pioggia, oppure ancora di notte o di prima mattina nella calda luce delle candele. Lo si vedeva ogni volta diverso e, anche se non lo si scrutava con attenzione, lo si assimilava lentamente. Però lo si rispettava, ed era frequente che dinnanzi a esso si facesse il segno della croce, si meditasse o si pregasse, magari chiedendo a san Rocco di guarire le piaghe della zia inferma. I dipinti “laici” rimanevano nelle stesse famiglie spesso per generazioni. Il Tondo Doni rimase nella stessa proprietà dal 1506 fino al 1825, quando gli ultimi eredi lo vendettero al Granduca di Toscana per gli Uffizi. E ora gli si presta una attenzione non superiore ai venti secondi pretendendo di averlo capito. C’è un modo per uscire dal consumismo dell’arte visiva. Ridare tempo al tempo. Andare nel museo e guardare un quadro solo. Non è facile, è veramente roba da iniziati. E poi uscendo velocemente si può scorgere un quadro al quale non si sarebbe mai pensato: lo si saluta con un arrivederci. Poi ci sono i libri. Vanno guardati con simpatica e distratta attenzione, aprendoli di tanto in tanto. Infine c’è il magico strumento della nostra epoca. Vorrei suggerirvi un esercizio. Andate a cercarvi una grande riproduzione dei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck. La scaricate dal web. Poi ingranditela e muovetela. È come se aveste il dipinto in mano. Per un attimo, anche lungo questa volta, siete gli eredi Arnolfini. Poi andate a vedere la collana di vetro appesa al muro, rimarrete stupiti dalla abile riproduzione della luce nell’ombra che lascia sul muro, vedrete quanto questo muro è screpolato, come in un dipinto dell’Ottocento. Poi andate a salutare le arance sul davanzale, troverete il legno dell’incavo della finestra con i chiodini arrugginiti, mentre la maniglia è fresca e potrete toccare il cemento che lega i mattoni. Poi tralascerete per un attimo la faccia cerulea del padron di casa, quella l’avete già da tempo in fondo alla memoria, quasi banalizzata, come la mano della moglie sul proprio ventre. Guardate invece gli zoccoli

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di legno di lui, con le stringhette di cuoio invecchiato, e lui invece felice d’avere la calzatura di seta indenne dalle sozzure stradali. Che delizia poi le scarpette riposte di lei, vicino al tappeto d’Oriente, su di un pavimento di legno inchiodato che sentirete con la punta delle vostre dita. E ricordatevi che è del 1432, e che tutto ciò ossessiona ancora oggi la pittura del reale. Siete pronti a questo punto ad andare a Londra, fare un paio d’acquisti inutili e una seria visita alla National Gallery dove il dipinto è appeso. Vi garantisco che non lo guarderete solo dieci secondi.

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’anticamera d’un museo importante esige la retorica architettonica d’ogni anticamera che si rispetti, a tal punto che è autorizzata a prendere come riferimento la sala centrale delle grandi ville disseminate nella campagna inglese, quella che viene comunemente chiamata hall in base al suo baricentro logistico e sociale. Erano da sempre punto di adunata con una funzione non dissimile da quella svolta nei palazzi veneziani dalla sala centrale del piano nobile, quella detta portego e così chiamata in quanto citava l’uso dei cortili dabbasso. Quella inglese apre direttamente sull’esterno, quella serenissima parte dallo scalone che sale dal pian terreno. Ecco perché la hall, l’inverso quindi del portego, molto spesso si trova a concludersi con lo scalone che porta ai piani superiori, mentre le porte del calpestio fanno accedere ai vari saloni del pian terreno. Così è pure nel caso nostro. Quindi l’anticamera non è una sala d’attesa ma un luogo d’incontri, talvolta rapidi e furtivi, talvolta veramente riflessivi, quando chi vi passa commenta ciò che ha visto o meglio ancora ciò che intende guardare. Fiori freschi tutti i giorni.

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MICHELANGELO

T ONDO D ONI 1503-1504 o 1506-1507, tempera su tavola, Ø cm 120, Firenze, Galleria degli Uffizi

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IL MUSEO IMMAGINATO

— A NTICAMERA

on ho potuto evitare di mettere sotto l’ortogonalità della scala il cerchio della pittura. Qui il cerchio si apre. E lo fa con un capolavoro assoluto e mai ripetuto. È questo l’unico dipinto mobile di Michelangelo ed è ovviamente stato commissionato e acquistato da un mercante fiorentino, Angelo Doni, che la pittura “borghese” la amava perché si fece nello stesso anno 1506 ritrarre da Raffaello poi, contento del successo ottenuto, fece fare il ritratto pure a sua moglie, sempre da Raffaello, il quale s’impegnò a renderla, la signora Doni nata nientemeno che Strozzi, oltre che elegante anche esteticamente presentabile. Dopo Michelangelo i quadri, almeno quelli in cornice e come tali suscettibili di trasporto, divennero rettangolari. Michelangelo aveva un opposto, Leonardo. Se il tosco-milanese era lì a decantare sempre la superiorità della pittura, il tosco-romano non poteva fare a meno che ragionare costantemente da scultore, anche quando dipingeva, abbandonando, ma solo parzialmente, questa sua ossessione per progettare architetture con stentati disegni ch’erano il momento della concrezione dell’idea. Duro mestiere quello del neoplatonico! Ma felice risultato quello di attribuire alla Madonna una muscolatura che farebbe invidia a ogni praticante di Pilates. Geniale il dialogo colto con una antichità nuda e a nudo sullo sfondo, felice di assistere alla Redenzione. Ma poi ancora Michelangelo aveva un concorrente, al quale tutto andava bene, mentre a lui tutto andava a fatica. Penso al Botticelli, che anche lui s’era dato più d’una volta a dipinti tondi, come i Lippi, sia il Filippo che il Filippino, solo che quelli sembravano posti nella centrifuga d’una lavatrice, con tutti i corpi che seguono la curvatura del cerchio, come se fosse questo cerchio il fuoco d’un fisheye o come se fosse lo specchio convesso ch’era già nel primo dipinto di Jan van Eyck. Michelangelo batte Botticelli perché il suo tondo non è altro che un ritaglio circolare su una composizione perfettamente a croce fra Sacra Famiglia e antichità. Il suo cerchio non è ottico, non è artigianale, è architettonico.

N

Tondo Doni

Sandro Botticelli, Madonna del Magnificat, 1483, tempera su tavola, Ø cm 118, Firenze, Galleria degli Uffizi

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JAN VAN EYCK

L’UOMO

COL TURBANTE

1433, olio su tavola, cm 25,5x19, Londra, National Gallery

Omaggio ai fiamminghi

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otto le scale, vicino alle porte che a sinistra introducono alla scala e ai meandri della cucina e a destra portano nella camera blindata dove vengono ricoverate le opere in spostamento, troverete due ritratti: da un lato un ritratto maschile di Jan van Eyck, il quale a questo punto vi è già famigliare. Un borghese fiammingo non privo d’una certa fantasia nell’inventarsi il copricapo, con uno sguardo indagatore e penetrante al quale corrispondono le labbra strette d’un uomo pronto al giudizio senza appello. Dall’altro una dolcissima signora, leggermente stupita di trovarsi in questa valle di lacrime, anche se probabilmente era nata per stare come predella sul bordo d’un altare. Questa è opera

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IL MUSEO IMMAGINATO

— A NTICAMERA

ROGIER VAN DER WEYDEN

T RITTICO

DELLA FAMIGLIA

BRAQUE

particolare, 1452-1453, olio su tavola, comparto centrale cm 41x69, ciascuno sportello cm 41x34, Parigi, Musée du Louvre

di Rogier van der Weyden, che ritroverete citato ben più avanti. Il dipinto è probabilmente eseguito attorno al 1450, l’anno nel quale l’artista intraprende il suo pellegrinaggio in Italia per il giubileo a Roma. Passa in rassegna tutto il paese, da Milano verso Ferrara e da Firenze verso Napoli. Piacque agli Este, a Bianca Maria Visconti e ai Medici. Fu lui il primo a contaminare l’ambiente della penisola con alberelli che fra poco appariranno nei dipinti di casa nostra. E non poco doveva piacere la sontuosa veste della signora santa, che sembra l’illustrazione migliore per l’Autunno del medioevo di Huizinga.

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L’incontro dei fidanzati nel ciclo di Sant’Orsola

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piccano in anticamera due formidabili vedute di Venezia, che accolgono il visitatore come un augurio. Sulla parete di sinistra, nelle immediate vicinanze, un dipinto più piccolo di Guardi. Lo devo, come collezionista di questa bizzarra raccolta, al rispetto per mia moglie, la quale si ritrova veneziana, e all’affetto per mio figlio che ha la bisnonna sotterrata al cimitero di San Michele. Hanno i tre quadri, nell’arco di due secoli, in comune il sentore di freschin dell’acqua lagunare, il gusto esaltatorio delle architetture e una notoria sapienza tecnica nella descrizione delle imbarcazioni. Il più antico è quello di Vittore Carpaccio, il quale va così fiero dell’opera compiuta che la firma in modo evidente nel bel mezzo della composizione con un largo cartiglio, in latino ovviamente.

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IL MUSEO IMMAGINATO

— A NTICAMERA

Carpaccio vi applica la sua cifra costante, quella sonora per via della quale lo spettatore è invitato a guardare il dipinto molto da vicino, in modo da potere ascoltare il ciacolesso dei presenti, pratica necessaria e obbligatoria dei veneziani anche nei momenti più aulici della loro vita pubblica. I dettagli, in quel lontano 1495, quando Venezia non s’era ancora accorta dell’inizio della curva discendente della propria storia per colpa della scoperta dell’America, sono tutti esaltanti. Perfette le descrizioni dei pali piantati in acqua per sorreggere i pontili: ogni dettaglio è documento, compresa la cima di ormeggio della lancia, sulla quale sono assicurati i dieci remi che fra poco si metteranno in moto per raggiungere la sua caracca all’ormeggio. Roba di lusso per utenti di lusso,

VITTORE CARPACCIO

INCONTRO DEI FIDANZATI E PARTENZA PER IL PELLEGRINAGGIO

1495, olio su tela, cm 280x611, Venezia, Gallerie dell’Accademia (p. 32, particolare)

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IL MUSEO IMMAGINATO

— A NTICAMERA

vestiti nel più sofisticato dei lussi, quelli concessi dalle severe leggi suntuarie veneziane solo nelle grandi occasioni. Ovunque appoggiati ricchi tappeti d’Oriente per evitare di sporcare vesti e dita pulite. Se tutto appare vero, o quasi, compresa la caracca inclinata per le delicate operazioni di carenaggio, l’architettura invece è di totale fantasia. Carpaccio non si è mai forse allontanato dalla città per correre in terra ferma a vedere le prime meraviglie dell’architettura rinascimentale o gli affreschi di fantasia architettonica che nello stesso anno Mantegna sta dipingendo nella Camera degli Sposi a Mantova. La sua informazione è per sentito dire o per pochi disegni che circolano fra gli addetti. Nella bottega dei Bellini questo tipo di follia è bandito. La sua di architettura è totalmente surreale, non pretende di essere modello. D’altronde a Wall Street non serve uno stile.

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Il molo verso la riva degli Schiavoni con la colonna di San Marco

CANALETTO

R IVA

DEGLI

S CHIAVONI,

VEDUTA VERSO EST

particolare, 1730, olio su tela, cm 58,5x101,5, Tatton Park, Cheshire, National Trust, Gran Bretagna (pp. 36-37, intero)

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n quarto di millennio separa questo dipinto dal precedente. Venezia ha perso potere ma ha acquisito fascino ulteriore. Il ciacolesso permane, sulle note di Albinoni e di Vivaldi e con le battute di Goldoni. Quante volte la ha dipinta questa veduta l’Antonio Canal, in piccolo, in medio, in grande, secondo le tasche dell’acquirente, che spesso ormai non è più ambasciatore, ma semmai console come il console inglese Smith, collezionista e mercante di quadri e vedute, o viaggiatore del Grand Tour che si porta via la tela come souvenir. Le barche e i personaggi talvolta cambiano, e cambia anche il punto di vista catturato con il prisma ottico. Conversano due preti dal cappello tondo, forse uno dei due è il prete rosso Antonio Vivaldi, fa capannello un gruppetto di siori col tricorno, il cagnetto è d’obbligo. Ormai la riva degli Schiavoni non è più il quartiere obbligato degli slavi. Le vesti settecentesche sono tutte color pastello o grigio-marrone Armani: Venezia non partecipa all’allegra policromia di Parigi e di Londra. Anche le gondole sono tutte irrimediabilmente nere, ma hanno ancora il diritto, e per poco, di portare il felze, versione lagunare della portantina, nel quale era vietato celare merci, ma consentito nascondere intrighi. Questo dipinto, a differenza di quello di Carpaccio, va visto da vicino prima e poi da lontano. Allontanandosi, lo spettatore potrà percepirne la misteriosa magia: se ne sente il grado di umidità e il pigro movimento dell’aria. E qui sta il segreto di Canaletto. Riesce egli a restituire il senso del reale con la totale semplificazione del segno. L’acqua è fatta da piccole pennellate prive d’ambizione, così come le ombre delle pietre della banchina sono portate alla essenzialità. È quindi il cervello che ricompone l’immagine perché, cela va de soi, non vediamo con l’occhio ma con il sistema cerebrale.

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La laguna guardando verso Murano

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llievo di bottega di Canaletto, assieme al di lui nipote Bernardo Bellotto, Francesco Guardi sembra essersi adoperato a sovvertirne il linguaggio pittorico, inventando una sua personale versione della nervosità settecentesca del segno, dove il colpo di biacca serve a esaltare la vela come a rivelare il remo, e dove la pittura esige d’essere apprezzata per la sua pura qualità. In questo senso riesce

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IL MUSEO IMMAGINATO

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ad anticipare le ritmiche di Boldini e la migliore pittura astratta della poco nota Venezia del XX secolo, da Tancredi a Vedova. Predilige quindi, da ottimo sperimentatore, i formati piccoli fino ai preziosi suoi capricci, totalmente inventati. Un buon cocktail di Carpaccio, Canaletto, romanticismo e modernità.

FRANCESCO GUARDI

LAGUNA

VERSO

MURANO

VISTA DALLE

FONDAMENTA NUOVE

1765-1770, olio su tela, cm 31,7x52,7, Cambridge, Fitzwilliam Museum

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Amor Sacro e Amor Profano

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si torna indietro di due secoli, sempre rimanendo a Venezia, con il meno veneziano dei veneziani, il cadorino che secondo Malraux appendeva le sue Veneri nel cielo delle Alpi. Lui porta, assieme all’altro campagnolo Giorgione, la passione per le carni nella città della pietra e delle acque. Questo dipinto è il simbolo di come l’umanesimo possa corrompere la fierezza militare e militante dell’agreste ch’era diventato pittore ufficiale della Serenissima dopo la morte di Bellini. Il putto gioca nel sarcofago della storia antica come Bembo o Marsilio Ficino avevano giocato nei miti di Ovidio. Vestito o nudo, per il cadorino, l’Amore è femmina. La scena ha abbandonato le acque per

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le ricchezze della terraferma, proprio come la Repubblica dopo la lega di Cambrai, e come farà fra poco il principe degli architetti Palladio, che si darà a far ville. Dopo gli anni delle battaglie è venuta l’ora del compiacimento. E lui, il pittore, non ancora quarantenne, è ormai provvisto d’esenzione fiscale e d’una pubblica rendita di 100 ducati. Donde il senso di ricchezza e l’inizio d’un accumulo che ne farà il primo artista ricco della penisola. Si capisce che cent’anni dopo Scipione Borghese, cardinal nipote di papa Paolo V, abbia fatto capricci per acquistare il dipinto.

TIZIANO

A MOR SACRO

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AMOR P ROFANO

1514-1515, olio su tela, cm 118x278, Roma, Galleria Borghese

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La Caccia di Diana oppure il Bagno di Diana e per noi: l’Albero della Cuccagna ra Scipione Borghese collezionista che combinava passione e avidità, grande senso dell’estetica con scarso senso dell’etica. Un vero italiano secondo la tesi di Robert Hughes nella sua analisi del caso Sigismondo Malatesta. Fece fallire il Cavalier d’Arpino per acquistare i suoi dipinti; non si applicò a graziare Caravaggio per risparmiare sui prezzi e fece metter in galera, è vero per poco tempo, il Domenichino bolognese, il quale si spaventò talmente che se ne scappò poi in Emilia e a Roma non rimise mai più piede. Lo scopo di quest’ultima prevaricazione era il convincere l’artista a cedergli il Bagno di Diana ch’era stato commissionato dal suo predecessore, il cardinal Aldobrandini, nipote di papa Clemente VIII, il quale come molti papi VIII (Bonifacio e Urbano) non era per nulla tenero, e passò alla storia per il truce caso di Beatrice Cenci e quello intellettualmente ancor più funesto di Giordano Bruno. Stava nascendo il barocco e le pelli candide delle amiche di Diana apparivano apotropaiche. Il mondo era crudele, pochi anni prima a Parigi era stato squartato Ravaillac, il regicida di Enrico IV. Si faceva di tutto per tornare a una società meno feroce e i gentiluomini incominciavano a farsi crescere baffi e pizzetto. I bolognesi pittori, arrivati a Roma in seguito a Gregorio XIII sul finire del secolo precedente, l’esercito

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DOMENICHINO

L A C ACCIA

DI

DIANA

1616-1617, olio su tela, cm 225x320, Roma, Galleria Borghese

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dei Carracci in Casa Farnese e poi l’eccellente Guido Reni, avevano dato nuova vita al manierismo estenuato. Come a Venezia cent’anni prima, la periferia rinvigoriva la capitale. Il Bagno è di cent’anni dopo l’Amor Sacro e l’Amor Profano e l’avido Scipione, come un collezionista d’oggi, comperava il nuovo e lo storico già sancito.

Giove e Io (da non confondersi con Giove e noi altri)

CORREGGIO

GIOVE

E

IO

1531-1532, olio su tela, cm 163,5x70,5, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie

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n realtà è proprio a lui, Antonio Allegri da Correggio, che si deve la prima mutazione sensuale in area emiliana, lui praticamente coetaneo di Tiziano, nato ancora nel Quattrocento e capace di portare la rivoluzione umanista e rinascimentale verso la sublime atmosfera dell’ambiguità, verso le prime cosce lunghe della pittura italiana, quelle che forse hanno fatto allungare i colli al Parmigianino. Padre della sensualità transpadana e prozio del classicismo dei Carracci, non poteva evitare d’affrontare gli amori di Giove, come non lo potrà Tiziano per il severo suo cliente spagnolo. Delle copule del capo dell’Olimpo, che il veneto riprende volentieri nella fase di Danae con la pioggia d’oro, la più eterea è senz’altro, lo dice la parola stessa, quella praticata travestito da nuvola. Prototipo di morbidezze bianche raggiunte grazie a una tecnica d’impasto allora totalmente innovativa, il dipinto ha un afflato surreale, dove la faccia e le mani di Giove vanno più intuite che viste. E corrispondono qui all’abbraccio della fortunata con uno zampettone da orso e al bacio naso a naso. Non riesce mai il Correggio a evitare il movimento a spirale nelle sue composizioni, tutto deve roteare, talvolta come nel vento, qui come in una sospensione. E in questa spirale si nasconde il virus che contaminerà prima le sculture del Mochi e poi gli angeli di Caravaggio, per giungere dopo un secolo di maturazione agli svolazzi di Bernini.

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Marriage à la mode - The Toilette l quadro di Correggio probabilmente apparteneva ai duchi di Mantova e fu venduto, quando le loro finanze iniziarono a scricchiolare, nel 1627 a Carlo I d’Inghilterra che non aveva ancora perso la testa. Fu quella una potente iniezione di pittura nel mondo anglosassone che fece agli inglesi superare i rigori di Holbein e portò addirittura alcuni di loro ad avere il coraggio di dipingere. Innegabilmente Hogarth fu il primo grande maestro d’afflato internazionale e dall’ironia sublime quanto caustica. Il ciclo di dipinti del 1743, dedicato all’illusione dell’ascesa sociale attraverso il matrimonio, ne è eccellente esempio, quanto quello precedente del A Rake’s Progress. Gli ambienti della classe alta sono quasi sempre decorati con dipinti provenienti dalla vendita Gonzaga. In uno si intravvede una delle repliche della Gorgone di Caravaggio: per un gioco di società si possono andare a identificare quasi tutti i dipinti. A noi interessa la ricomparsa della ninfa Io nella stanza dove avviene il risveglio della contessa. C’è tutto ciò che serve. La contessa col parrucchiere, il contino coi bigodini per evitare di portar parrucca, i musici che allietano la scena col cantante che porta l’antenato del black tie, il servetto bimbo rigorosamente coloured che gioca con la collezione d’oggetti antichi dalla quale estrae una statuetta-pupazzo dalle ricche corna, a significare la conclusione dell’Histoire des

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WILLIAM HOGARTH

M ATRIMONIO

ALLA MODA ,

LA

TOELETTA

1743 ca, olio su tela, cm 70,5x 90,5, Londra, National Gallery

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Voyages De Scarmentado di Voltaire, contemporaneo, che così saggiamente recita: “Je me mariai, je fus cocu et je vis que c’était le plus bel état du monde”.

Il Tempio di Nettuno a Paestum

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l che mi permette di tornare alla Francia, alla quale in fondo devo molto. E a un pittore, non particolarmente importante, ma così genialmente evocativo, quel Hubert Robert che come tanti altri scoprì la sua vena migliore nella penisola, come prima di lui il ben più grande Claude Lorrain, il più curioso Didier Barra e tanti altri che conoscete benissimo. Mi piace, come talvolta mi piacciono i francesi, più per il percorso intellettuale che per la mano pittorica. Fu egli uno dei fortunati che, come in un film di Spielberg, andarono nelle paludi di Paestum appena scoperta a sfidare, nel 1763, le zanzare che avrebbero ucciso Piranesi, per scoprire le colonne doriche fino ad allora ignote. Nasceva un altro classicismo che vedeva il suo esempio nella polis greca che tanto piaceva a Rousseau, e nell’antichità che tuttora viveva nella rosa del Mediterraneo, che forse altro non era che un normale oleandro a fiore doppio. Winckelmann, di ritorno dal medesimo viaggio, aveva dato alle stampe nello stesso 1763 la Geschichte der Kunst des Altertums a Dresda, con la quale si può sostenere che sia nato il pensiero moderno dell’arte.

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HUBERT ROBERT

P AESTUM, TEMPIO

DI

NETTUNO

1800 ca, olio su tela, cm 38x55, Mosca, Museo Puškin

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sito sempre sul percorso da proporre al visitatore quando arriva al Museo. L’ambizione dovrebbe esortare a introdurlo senz’altro nel Grand Salon, il garbo a suggerire un percorso più aggraziato passando dalla porta di destra nel piccolo Pensatoio che dà sulla grande biblioteca: opto per la seconda ipotesi, che consente di affrontare il giro della casa in senso antiorario e quindi geometricamente positivo. Il pensatoio è la necessaria appendice d’ogni biblioteca che si rispetti. Perché la biblioteca esige rispetto e come tale non tollera la palpebra che lentamente cade durante la consultazione. Questo il motivo d’una stanza nella quale il pudore possa scomparire. Qui, des meubles luisants, polis par les ans, décoreraient notre chambre: mobili lucidi, patinati dagli anni, decorerebbero la nostra stanza. Il tavolo dovrebbe essere una di quelle meraviglie che la seconda generazione dei Boulle offriva ai lussi della corte Régence, quei bureaux plats che furono segno d’un potere ministeriale garbato quanto intransigente. Le poltrone si differenziano fra quella in uso al padrone della scrivania, una seduta più antica del tavolo stesso, una di quelle poltrone del primo barocco che incitano all’autorevolezza e inclinano al sonno, e quelle suggerite ai visitatori, preferibilmente Luigi XV

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con decori di Aubusson richiamanti le fiabe di La Fontaine, ma con quella rigidità di seduta ch’era una volta naturale per chi passava ore quotidiane in sella e che oggi spinge l’ospite a dipartire velocemente. Lampada sul tavolo, una bouillotte con paralume in metallo dipinto a greche neoclassiche. Lampada da terra (non la si vede nel disegno perché è collocata nell’angolo opposto) L.C. Tiffany, piede di bronzo a decori di foglie di loto e paralume a vetro piombato con papaveri ocra. Baudelaire è soddisfatto per luxe, calme et volupté. I quadri qui hanno il compito di suscitare percorsi mentali inattesi in ogni direzione della curiosità intellettuale, poiché il ghiaccio col visitatore è già stato rotto affrontando l’anticamera per percepirne il grado di passione, dalla somma inclinazione all’iconomania warburghiana alla più semplice socialità del conversation piece.

San Gerolamo

ANTONELLO DA MESSINA

SAN GEROLAMO

NELLO STUDIO

1475 ca, olio su tavola, cm 45x36, Londra, National Gallery (p. 57, particolare)

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l camino è una di quelle edizioni recentemente fatte dei progetti di Piranesi, un marmo già neoclassico con due eleganti levrieri sui montanti laterali. E da sempre il camino esige un’opera di dimensioni ridotte appesa sopra di lui. Quale miglior opportunità per collocare la piccola tavola di tiglio che Antonello ha fortunatamente inclusa nella propria cornice dorata dipinta a trompe-l’oeil, che lascia passeggiare sul bordo il pavone e una coturnice, simboli di fede, ma pure utile strumento d’illusione per far percepire la tavoletta di 45x36 cm come una composizione vastissima. Perché è proprio la dimensione percepita per via della cornice che viene calibrata sulla lunghezza dei volatili. Questa la prima lezione del curioso dipinto: i quadri hanno una dimensione concreta e un’altra psicologica. E così si apre la mente a un percorso lungo e meditativo nelle epoche e negli stili di quell’inizio di ultimo quarto del Quattrocento, quando Piero sta dipingendo la concettualissima Madonna di Senigallia (in alto la medesima attenzione allo scaffale con natura morta, più succinto ovviamente) e Hugo van der Goes il Trittico della Natività, che l’anno seguente il banchiere Portinari spedirà a Firenze per dimostrare quanto la pittura a olio possa battere la tempera all’uovo, quella Natività che contiene in primo piano gli stessi fiorellini della piccola tavola di Antonello, disposti in analoghi vasi di terraglia, in fondo non lontani da quelli che reggevano centocinquant’anni prima gli angeli di Giotto in

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Piero della Francesca, Madonna di Senigallia, particolare, 1472-1475, olio su tavola, cm 61x53,5, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche Hugo van der Goes, Trittico Portinari, particolare, 1476-1480, olio su tavola, cm 253x586, Firenze, Galleria degli Uffizi Giotto, Madonna di Ognissanti, particolare, 1310-1311, tempera su tavola, cm 325x204, Firenze, Galleria degli Uffizi

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ginocchio dinnanzi alla Madonna d’Ognissanti. Questo spiega molto dell’incrocio estetico che Antonello raccoglie nel suo operare. Curiosissimo caso il suo, primo pittore d’una Sicilia che dovette aspettare quasi mezzo millennio per avere altri esimi pittori nella modernità. Perché lui sarà pure di Messina, ma di siciliano non ha nulla. Anzi è proprio di Messina, dove passavano le navi veneziane che scendevano l’Adriatico facendo rifornimento a Senigallia e da lì incrociavano quelle che salpavano dalle Fiandre oppure talvolta le inseguivano. La paternità estetica di Antonello è quindi al contempo quella di Vivarini e di van Eyck, sotto edifici catalani ancora gotici e pensando leoni immaginari mai visti dal vero. L’aver preceduto i fiorentini nel dipingere con l’olio è forse privo di merito, la ricetta essendo direttamente fiamminga. Ma aver capito a che cosa poteva servire quest’olio è segno di genialità, con le mille declinazioni narrative che si offrono alla mano sapiente guidata da una mente fervida, i legni col dettaglio delle assi e la struttura delle venature, le pietre con l’indicazione della loro composizione geologica, il vaso di garofani pronti alla loro vitrea spezzatura e la natura morta infinita che si conclude con uno di quei cenci a bordature blu, appeso al chiodo senza rivelare la sua provenienza, poiché appare uguale nella pittura di Gand e in quella di Siena. E non per niente il dipinto viene citato per la prima volta a Venezia mezzo secolo dopo come opera di maestro fiammingo, van Eyck o Memling. Arrivato lì, o dipinto lì?

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Il Parnaso l testo di sublime acume di Claude LéviStrauss Regarder, écouter, lire, il micro breviario di metodologia dell’intelligenza antropologico-culturale, inizia con la narrazione delle visite che l’autore faceva da adolescente quando il padre lo accompagnava nei corridoi domenicali d’un Louvre deserto e non ancora turistodromo. Era prima della Prima Guerra e il pensiero di de Saussure non s’era ancora diffuso. Il giovane Claude si fermava ad ammirare Il Parnaso e vi trovava quella forza d’anticipazione che lo faceva volare direttamente fino alle Arcadie del Guercino, convertendolo alla potente magia semantica della pittura. Il dipinto era nato per decorare gli appartamenti di Isabella d’Este, nella parte ch’ella s’era riservata in quell’infinito cremlino ch’era il palazzo ducale di Mantova, laddove le sue manie poetiche trovavano terreno fertile per elucubrazioni d’ogni sorta e incarichi virtuosistici. Poi l’opera fu spostata e parzialmente ridipinta a olio probabilmente dal Leonbruno. Fu infine regalata a Richelieu nel 1627 quando, estinto l’ultimo duca di discendenza diretta, il suo posto fu preso da Carlo I di Gonzaga-Nevers, nato a Parigi e felice d’ingraziarsi il cardinale che iniziava a guardare con concupiscenza le piane d’Italia. Storia che finì male tre anni dopo col saccheggio della città da parte delle truppe alemanne dell’impero, mentre a Casale il giovin Mazzarino faceva far pace a francesi e asburgici. Quanti miti in una tela.

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ANDREA MANTEGNA

P ARNASO 1497 ca, tempera su tela, cm 92x150, Parigi, Musée du Louvre

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La collezione a Gonzaga a Gonzaga, da Cinquecento a Settecento, da miti a mitomania. Valenti Gonzaga lo incontrerete fra poco nella galleria dei ritratti dei cardinali al primo piano, come pure Richelieu. Di Pannini vi voglio parlare e di come quel Settecento romano era, nella sua esaltazione estetica, aperto a ogni bulimia intellettuale, e perciò ben più libertario di quanto la storiografia anticlericale talvolta intenda restituircelo. I papi avevano sancito nuovi musei, dato vita alla scuola del nudo, creato scenografie folgoranti per consentire ad Anita Ekberg di passare alla storia. Scrivevano a Voltaire mentre lo mettevano all’indice. Il barocco celebrava la sua stagione fulgida e ultima, e per la prima volta i musicisti avevano diritto a ritratti di marmo come i principi. Lo svolazzo aveva sconvolto le menti e le collezioni.

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GIOVANNI PAOLO PANNINI

LA GALLERIA DEL CARDINALE SILVIO VALENTI GONZAGA 1749, olio su tela, cm 198x267, Hartford (CT), Wadsworth Atheneum Museum of Art

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L’esperimento

JOSEPH WRIGHT OF DERBY

E SPERIMENTO

CON UNA POMPA AD ARIA

1768, olio su tela, cm 183x244, Londra, National Gallery

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l Settecento è anche il secolo della grande sperimentazione scientifica che inizia a invadere tutti i campi. Gli italiani hanno Volta, i francesi Lavoisier, i tedeschi Goethe, gli inglesi la loro lucida follia. Pochi quadri sono al contempo più bonari e più crudeli di questo, dove si impara che il misero volatile, un cacatua per l’occasione, perde la vita quando perde l’aria che viene estratta dalla campana di vetro. E tutti imparano la lezione sotto la luce romantica d’una lampada ch’è già testimone della rivoluzione industriale in corso. Tutti, o quasi, poiché mentre i tre maschi adulti stanno esaltandosi in varie riflessioni e gesti serenamente pedagogici, la fanciulla a sinistra trova promesse di futuro ben più attraenti nelle guance carnose del giovin signore. Premesse di romanticismo che vengono salutate da una inquietante luna piena.

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l rinoceronte invece è ben vivo negli stessi anni e pare pure contento di esserlo, perché a Venezia fa la sua bella figura, laddove tutto deve essere rappresentazione e teatro. Ma contento non lo è del tutto, mastega mesto un fil de erba. La storia è autentica e vera, ne parla anche Casanova, del rinoceronte. È stato scornato per evitare ogni pericolo alla bimba accompagnata dalla sorella mascherata, ambedue custodite dalla serva di casa, mentre

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Il rinoceronte

PIETRO LONGHI

IL

RINOCERONTE

1751, olio su tela, cm 62x50, Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento Veneziano

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JEAN-BAPTISTE OUDRY

NATURA

MORTA CON LEPRE E COSCIOTTO DI AGNELLO

1742, olio su tela, cm 98,2x73,5, Cleveland, The Cleveland Museum of Art

Lièvre et gigot d’agneau

Jean-Baptiste Oudry, Caccia al cervo nella foresta di Saint-Germain, 1730, olio su tela, cm 206x385, Tolosa, Musée des Augustins

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sotto siori e siore, chi in bauta chi in mascara, si lasciano stupire dal domatore che s’è appropriato del corno. Chissà, ma credo che proprio lo sappiano, quanto è afrodisiaco il corno di rinoceronte grattugiato. Pietro Longhi sta alla pittura come Goldoni alla Comédie humaine, racconta, in quadretti deliziosi nati per le ombre dei corridoi e dipinti con nevrotiche pennellate dall’apparenza distratta, tutto il pulsare di una società che mescola classi sociali e affari in un tripudio di decadenze. E se la sua ironia è dolce mentre quella di Hogarth è tagliente è forse solo perché lui sa che la sua storia sta concludendosi, mentre quella britannica sta per vincere i mari che una volta erano suoi.

i sono permesso l’indelicatezza di far salire dalle cucine questo dipinto per appenderlo nel pensatoio. Con pudore l’ho appeso dietro alla porta. Chiedo venia, ma è esso al contempo un autentico memento mori e un documento necessario a completare la crudeltà scientifica inglese e quella sociale veneziana. Solo allo spettatore inavvertito può sembrare una esaltazione gastronomica. La sua freddezza, l’enfasi della sua esposizione compositiva, retorica e realista, l’eleganza della morte procurata non

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sono altro che la dimostrazione del privilegio del principe. Qualsiasi contadino avesse, prima della rivoluzione, osato appropriarsi di simili simboli del privilegio, sarebbe finito sulla forca. Quel sangue che cola dal musetto della lepre è il contrappunto inquietante delle Liaisons Dangereuses di Pierre Choderlos de Laclos, dei testi surreali del marchese de Sade e della Anti-Justine di Restif de la Bretonne. La qualità della pittura è insuperabile, ricorda il meglio di Chardin e anticipa le raffinatissime intuizioni di de Pisis. Il fondo grigio ne è la sorprendente meraviglia. Assomiglia già ai cappotti lugubri che si agiteranno mezzo secolo dopo attorno alle lame della ghigliottina.

Dante

GIUSTO DI GAND

D ANTE 1473-1475, olio su tavola, cm 111,5x64,5, Parigi, Musée du Louvre

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on è affatto un gran dipinto. I capolavori del Quattrocento son ben altri. Ma mi commuove la sua provenienza dallo studiolo di Federico di Montefeltro a Urbino, quella stanza che fu luogo di meditazione per un tagliagole letterato che il mio amico Antonio Paolucci definisce più colto d’un monarca di Francia. Faceva parte d’una collezione intera di ritratti fra i quali apparivano tutti i miti letterari della seconda metà del Quattrocento, quando Dante raggiunse l’apice della sua notorietà e Benozzo Gozzoli lo raffigurò come personaggio centrale, assieme a Petrarca e a Giotto, fra i terziari francescani di Montefalco. Dante introduce alla libreria, ne ha tutti i diritti, egli sapeva scolpire le parole per colpire. Nessuno è stato più bravo di lui se non forse il cieco Omero. Eppure personalmente non mi è affatto simpatico, arcigno, innegabilmente reazionario, oggettivamente poco spiritoso e pronto a narrare solo il passato. Ben più simpatico mi è Petrarca, senza il quale Gautier non avrebbe mai scritto un sonetto.

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elle varie composizioni surreal-manieriste dell’Arcimboldo questa è naturalmente la più adatta a essere appesa accanto alla porta d’accesso alla biblioteca. Ma svolge pure una funzione di chiarimento sulla complessa personalità dell’autore milanese che decise di prendere la strada verso gli Asburgo di Vienna quando molti suoi colleghi, ormai ispanici, prendevano la strada verso la corte degli Asburgo dell’Escorial. Attenzione! A quella Milano lì devo personalmente attenzione. Molti la considerano ormai espulsa dalla storia, senza ricordarsi il sangue che vi versò l’incrocio degli eserciti da Francesco I a Carlo V, senza ricordare la figura potente e centrale d’un san Carlo Borromeo che si sentiva chiave di volta della teologia controriformata. Era una Milano di fatto capitale mondiale del rigore, riferimento necessario per un impero cattolico che si stava dividendo in due nuclei diversi. E il mondo intellettuale si rifugiava nelle sottigliezze dell’ironia, quella che il pittore Giovanni Paolo Lomazzo celebrava nella da lui inventata Accademia dei Facchini della Val di Blenio, scanzonando in lombardo periferico e antico le manie letterarie dei circoli colti. Leone Leoni, lo scultore dell’imperatore, addobbava la facciata della sua casa con i noti Omenoni, mentre all’interno collezionava e vendeva di tutto e di più, compresi i codici di Leonardo. E nel mentre Pellegrino Tibaldi, architetto del Duomo di Milano, natio di Puria di Valsolda, dopo aver inventato quello che Giuliano Briganti chiamava il manierismo eroicomico, se n’andava a decorare in Spagna le biblioteche di Filippo II, preceduto dalla nobile pittrice Sofonisba Anguissola ch’era dama di compagnia della regina Isabella. A Vienna la fantasia creativa dell’Arcimboldo lasciò tale germe di follie che il suo committente Rodolfo II se ne scappò a Praga e inventò la Wunderkammer.

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Il libraio

Giovanni Paolo Lomazzo, Rabisch, Frontespizio, 1589, stampa

ARCIMBOLDO

IL BIBLIOFILO 1566, olio su tela, cm 97x71, Balsta, Svezia, Skoklosters Slott

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La libreria

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ra quindi naturale equilibrare l’altro lato della porta con il notissimo capolavoro di Giuseppe Maria Crespi, il pittore bolognese, parallelo per biografia ad Alessandro Magnasco, ma parallelo pure nella pratica d’una pittura dove il pennello muove la materia come il mestolo agita le salse. Crespi in più ha una mania personale per l’uso delle biacche che dà rilievo ai suoi dipinti con quella abilità che i cuochi emiliani stanno portando alle pietanze. Come Magnasco entra nel vivo delle ansie del Settecento, quasi fosse uno scenografo in attesa del suo Stanley Kubrick. Viene invece fatto cavaliere da papa Benedetto XIV, il più colto della sua specie, quel cardinale Lambertini, di Bologna anche lui, che s’era adoperato a ridar vita alla accademia dell’università, a quella della scienza e delle lettere, alle collezioni di Aldrovandi, prima di scendere a Roma, salire sul trono di Pietro e chiamare Ferdinando Fuga per arricchire i giardini del Quirinale con la Coffee House. Gaudeamus.

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GIUSEPPE MARIA CRESPI

SCAFFALI

CON LIBRI DI MUSICA

1720-1730, olio su tela, cm 165,5x153,5, Bologna, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica

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on c’è casa che conti senza i caminetti e l’impianto termico, necessari al riscaldamento dei corpi. Non c’è casa che conti senza una biblioteca, necessaria al riscaldamento dello spirito. È talmente importante la biblioteca che Hercule Poirot regolarmente vi trova un cadavere. Madam, there is a corpse in the library. Il modello è così diffuso che lo si riscontra pure nelle avventure di Philip Marlowe in California. La nostra biblioteca per il momento è ancora vergine: nessun sangue vi è stato versato se non quello che appare nei dipinti. La sua forma architettonica nasce dall’altezza che gran parte delle stanze del pianterreno pagano alle leggi ferree della retorica. Alta poco più di dieci metri, consente in realtà la convivenza fra scaffali facilmente raggiungibili senza scala, il che fu richiesta sindacale della bibliotecaria stufa di farsi mirare le gambe. Ma il sistema open shelves ha l’altro pregio, quello cioè di liberare vaste porzioni di muro, perfettamente adatte all’appenditura dei quadri, lasciando pure piovere dalla balconata una luce soffice per illuminarli. L’arredo è succinto assai, con un grande tavolo fratino in legno di noce centroitaliano attorno al quale la lettura è confortevole. Ho suggerito di posare sul tavolo,

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per una illuminazione degna della miglior fotografia cinematografica americana, un ulteriore sofisticato prodotto antiquariale di Louis Comfort Tiffany, un paio di lampade Turtleback, sapete, quelle con il blocco di vetro iridescente che lascia cader sulle pagine una bella luce gialla, mentre diffonde nella stanza una atmosfera verdastra similare a quella della Bibliothèque Sainte-Geneviève di Parigi, quando fuori piove. I dipinti sono ovviamente tutti intonati a quest’aria di riflessione.

Il polittico Spitzweg

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’introduzione a questa sala severa deve necessariamente essere ironica. Per questo motivo abbiamo deciso di raccogliere quattro opere di Spitzweg per farne un polittico come se fossimo in una cappella medioevale. Il tema trattato è legato al curioso destino dell’intellettuale in epoca Biedermeier, quando la Germania stava per assistere alla nascita del primo fenomeno unitario, quello del Zollverein, l’Unione Doganale (pensate a quanto è tedesca oggi la UE), mentre lasciava crescere il ruolo del borghese e decadere l’immagine dell’intellettuale (pensate a quanto è tedesca oggi la UE), mentre si stava preparando ad affrontare le turbolenze europee delle rivoluzioni del 1848 (pensate quanto è poco europea la UE).

L

IL MUSEO IMMAGINATO

— B IBLIOTECA

CARL SPITZWEG

IL

TOPO DI BIBLIOTECA

1850, olio su tela, cm 49,5x26,8, Collezione privata

Quando un artista minore riesce a redigere un capolavoro assoluto… Che cos’è un capolavoro assoluto? Certamente, spesso, un’opera che muta il percorso stilistico della pittura. Talvolta ancora un’opera densissima per i suoi significati e per l’influenza che avrà sul pensiero successivo. In questo caso invece, un’icona che si incide nella mente e non la lascia più. Un piccolo virus. La pittura di Spitzweg è innegabilmente banale, la sua influenza sul dibattito politico germanico certamente inferiore a quella di Hegel e

p. 76, da sinistra CARL SPITZWEG

IL

POETA POVERO

1839, olio su tela, cm 36,2x44,6, Norimberga, Germanisches Nationalmuseum CARL SPITZWEG

LO

SCRITTORE

1880, olio su tela, cm 38,1x22,4, Monaco, Kunsthaus CARL SPITZWEG

IL TARTUFE 1855, olio su tela, cm 39,5x22, Schweinfurt, Museum Georg Schäfer

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di Marx, ma quel bibliotecario pulcioso, detto in tedesco il “verme da libri”, è diventato una icona con il medesimo potere evocativo della Marilyn o della zuppa Campbell di Andy Warhol. È guardando questo dipinto che la nostra bibliotecaria ha richiesto con determinazione gli open shelves. Tra l’altro allo Spitzweg si devono altre icone altrettanto potenti, quella del poeta squattrinato che non esce dal suo letto nella mansarda e si protegge con un ombrello aperto dalle infiltrazioni d’acqua mentre legge un libro, quello dello scrittore che cerca invano la sua ispirazione fuori dalla finestra (ha sul tavolo la testimonianza del medesimo nostro gusto per abat-jour e versi), quella del moralista, il Tartufe, che guarda con attenzione una pianta grassa dalla evocazione inequivocabile.

ALESSANDRO MAGNASCO

SCENA

NEL TRIBUNALE

1710-1720 ca, olio su tela, cm 44,5x82,5, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie

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IL MUSEO IMMAGINATO

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mo’ parliamo di cose serie. El Lisander, così chiamavano i milanesi suoi clienti l’incredibile ed eccentrico pittore genovese (ricordatevi il parallelo con il Crespi); ebbene l’Alessandro Magnasco eccelle nel narrare l’ansia che pervade il nostro continente prima della caduta dell’Ancien Régime. Due scene di galeotti a testa rasata pronti per i remi sono conservate al Museo di Bordeaux, vi consiglio d’andarle a vedere. Quella che abbiamo appeso in biblioteca è per un certo verso ancor più istruttiva. Il Lisander muore nel 1749, esattamente due secoli prima che nasca io. Ma questa anticipazione è del tutto ininfluente, ben più seria quella del 1763, quando inconsapevoli l’uno dell’altro, Voltaire pubblica il Traité sur la tolérance a proprosito dell’orribile affaire Calas e Cesare Beccaria

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L’interrogatorio

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dà alle stampe Dei delitti e delle pene. Sta così nascendo il senso moderno della giustizia e s’impiantano le radici del mondo nostro attuale, o almeno così mi piace di pensare malgrado la lettura dei quotidiani. Magnasco restituisce di quell’elegante Settecento dell’Europa delle Corti una immagine che sicuramente sarebbe utile alla cinematografia moderna quando volesse far vedere il rovescio della medaglia delle damine e marchesi. Per lui l’umanità è un vermicolaio agitato quanto la sua nervosa pittura, in un destino che sembra privo di soluzione e di fede. Racconta con la medesima compassione distaccata il mondo dei teatranti alla Cyrano de Bergerac, quello delle fattucchiere e delle dicitrici di buona ventura assieme a quello dei frati che vivono in convento, mangiano e muoiono rincorrendo inafferrabili fantasmi. Il suo scetticismo illuminato è necessario in ogni biblioteca che si rispetti.

l dipinto è enorme, una tela dalla dimensione innegabilmente retorica, ma questa dimensione se la merita tutta. Vi colpisce appena entrate nella sala, e questo era proprio il nostro proposito. Per ben tre motivi, la rivoluzione neoclassica, la rivoluzione della modernità, la rivoluzione della ghigliottina. La tela fu dipinta a Roma nel 1784 circa, durante un soggiorno dell’artista allora trentacinquenne e già noto. Aveva tentato varie volte e sin dall’inizio di carriera di vincere il Prix de Rome, il prestigioso premio che l’Académie Royale bandiva ogni anno in relazione al Salon offrendo al vincitore un soggiorno romano a palazzo Mancini e l’opportunità della formazione attraverso il viaggio in Italia, il Grand Tour versione artista di regime. Ce la fa finalmente nel ’74 con Antioco e Stratonice, un grande dipinto che rompe con la tradizione settecentesca di Fragonard e Watteau, celebrando già l’antichità e le posizioni figurative dei profili da sarcofago. Rimane a Roma per più di cinque anni e cade in depressione, forse influenzato dal pensiero innovativo di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, l’amico di Canova, forse mosso dalla lettura di Winckelmann tramite l’astuto Mengs. Se ne torna a casa, si sposa, ma non riesce a evitare di tornare nella città eterna. Nel secondo giro coagula ansie e conoscenze e redige

I

Il giuramento degli Orazi

JACQUES-LOUIS DAVID

GIURAMENTO

DEGLI

ORAZI

particolare, 1784, olio su tela, cm 330x425, Parigi, Musée du Louvre (pp. 82-83, intero)

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IL MUSEO IMMAGINATO

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IL MUSEO IMMAGINATO

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il presente capolavoro. Manifesto mondiale del neoclassicismo? Molto di più: manifesto della modernità, dove per la prima volta gli insegnamenti di Winckelmann prendono corpo. L’antichità non è più tema da citare, è realtà autentica che si può vivere mantenendo le medesime caratteristiche etiche. Il dipinto è il manifesto della virtus repubblicana. Fu esposto dinnanzi a Luigi XVI a Parigi nel 1785. Se il buonuomo capetingio avesse avuto a disposizione, invece d’un esperto d’orologeria, un buon critico d’arte, avrebbe capito in anticipo che quattr’anni dopo avrebbe perso la poltrona e sei anni dopo la testa.

proposito di rivoluzioni linguistiche, il Piero non lo frega nessuno. E la sapeva lunga, se in questa pala pone tutte le teste alla medesima altezza esattamente come aveva fatto Masaccio a Firenze nella cappella Brancacci mezzo secolo prima. Nel frattempo la classicità aveva vinto la sua battaglia in architettura, proprio sul medesimo versante adriatico dove guardava lui e dove l’Alberti aveva preso la commessa dal Malatesta per ridare forma nuova al tempio malatestiano. Marmi bianchi e lesene co-

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La Pala di Brera PIERO DELLA FRANCESCA

P ALA

DI

B RERA

1472-1474 ca, tempera su tavola, cm 248x170, Milano, Pinacoteca di Brera (pp 86, 87, 88, particolari)

Masaccio, Il tributo, 1425-1426, affresco, Firenze, chiesa del Carmine, Cappella Brancacci

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rinzie uguali a quelli dei balconi di Urbino, uguali a quelli della sua Flagellazione. Un duca, il Federico, ch’è nemico dell’odiato confinante Sigismondo Malatesta. Una cultura estetica che li accomuna invece, i due duchi. A riprova del fatto, come sostiene Robert Hughes, che per gli italiani etica ed estetica non hanno nulla a che vedere. Una Madonna dolcissima ed enigmatica, come sempre le sue. Il significato cristologico riscontrabile nel rosso corallo appeso al collo di Gesù come anticipo della Passione vi è a tutti noto. E lo era allora a tutti i pittori. Ben più interessanti sono due curiose inversioni nella stesura dell’immagine. Curioso il fatto che il pagante-pregante-brigante abbia chiesto di spostarsi dalla posizione rituale a sinistra del dipinto verso la destra: questo gli consentiva di far vedere, come alla televisione oggi, il lato bello, quello nel quale conservava l’unico occhio superstite, motivo dell’operazione di chirurgia plastica che lo aveva spinto a farsi limare l’osso del naso per sbirciare dal lato opposto. Era svelto con l’occhio come con la spada. D’altronde lo sguardo a destra era necessario alla sua funzione di gonfaloniere di Santa Romana Chiesa. E otteneva così un ulteriore piccolo vantaggio ritrattistico, quello di mettere in primo piano gli anelli della mano sinistra, poiché la destra, guerriera, ne era probabilmente sguarnita. Quanto mi piacciono le stringhe di cuoio rosso, tipico vezzo dei ricchi d’allora, che ritroverete, simbolo di moda, se guardate con attenzione, in molti dipinti di quell’epoca, le stringhe delle armature e i finimenti dei cavalli. L’altra inversione è ancor più curiosa. Si tratta della nicchia a forma di nicchio in fondo alla volta romana. Il nicchio è la parola storica per parlare della conchiglia di San Giacomo, quello di Compostela, ma pure quello della coquille Saint-Jacques, vanto della cucina francese, la capasanta chiamata scallop dagli inglesi per via della dimensione del gustoso mollusco che contiene. Nicchio viene per alcuni dal latino (mytilus-myt’lus-niclus) e secondo altri dal tedesco Schnecke (lumaca). Fatto è che dal nicchio, dalla conchiglia, viene la nicchia, quella dell’architettura che conclude l’incavo murario con la forma del nicchio e dove la parte larga è in alto in quanto sposa la forma dell’arco. Così è la ver-

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Léon-Joseph Chavalliaud, Il Cardinale John Henry Newman, 1858-1921, granito, Londra, Brompton Oratory

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sione classica. Quella che dall’antichità è pervenuta fino al neoclassicismo. Ebbene Piero la rovescia, forse avendo visto l’esempio raro dell’arco di Giano a Roma, quand’era stato lì su chiamata di Pio II, e così facendo le dà pure il significato ambiguo d’un sesso femminile dischiuso. E in questo sesso appende l’uovo, ch’è un uovo di struzzo, l’uovo di struzzo che allora si reputava ermafrodita, e quindi già fecondato in se stesso. Diventa il tutto simbolo della Verginità Perfetta della Madonna stabilito come dogma nel secondo Concilio di Costantinopoli del 553. Pensate al destino poi di questo dipinto: durante le depredazioni napoleoniche che fecero carne da porco delle collezioni adriatiche, tutto fu mandato a Parigi per fare il grande Louvre, fuorché Piero, che piaceva poco agli esperti imperiali. La Madonna di Senigallia fu lasciata laddove era e questa pala fu asportata dalla chiesa del convento di San Bernardino a Urbino, più per odio agli ordini ecclesiali che per passione artistica. Finì quindi nel museo napoleonico minore di Brera, quello che, nei progetti dell’impera-

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Arco di Giano, IV secolo d.C., marmo, Roma

tore, doveva comunque essere il secondo in Europa dopo il Louvre e nel quale confluirono gran parte dei prelievi veneziani. Ultimo segno iniziatico di Piero, la data della sua morte, in quel medesimo giorno dell’ottobre 1492 nel quale Colombo scopriva l’America. E non per niente è un giovane critico venuto dall’America, Bernard Berenson, che ne rilancerà la fama sul finir dell’Ottocento.

rieccoci di nuovo col cardinale Scipione Borghese. Questo quadro lo fece prelevare in fretta e furia dal convento francescano vicino a Perugia contandola su ai frati, dicendo loro ch’era opera troppo importante per essere custodita così malamente e sarebbe stata quindi ben più al sicuro in casa sua. Ne seguì una questione diplomatica non indifferente coi perugini, risolta allegramente da Sua Santità Paolo V, dichiarando in un Breve apostolico che l’opera era “cosa nostra” ovvero “cosa privata” dell’amato nipote. Raffaello, che è spesso troppo dolce quando lo

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La deposizione

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influenza ancora il Perugino, cosa che una volta piaceva moltissimo e oggi lo fa apparire obsoleto, in questo capolavoro è assolutamente sweet and sour. È opera di rottura totale col passato, firmata fieramente RAPHAEL URBINAS MDVII , e fu causa forse della fortunata chiamata di Raffaello a Roma nel 1508 da parte di Giulio II. Fu cruenta la genesi del dipinto, anzi del polittico del quale esso era opera centrale. Versa in pieno nel sangue che bagnava la penisola durante quel passaggio di millennio che era iniziato con le guerre francesi di Carlo VIII e si era concluso nelle catastrofi delle ambizioni unitarie del Valentino, il nipote di papa Borgia. Ci si scannava a meraviglia. L’opera complessiva è passata alla storia come Pala Baglioni, non per via dell’albergo di Bologna o di Firenze, ma per via della famiglia feudale Baglioni che tentò in tutti i modi d’imporre una signoria alla repubblicana Perugia durante le agitazioni del Quattrocento. Grifonetto Baglioni, per assicurarsi il controllo dell’eredità famigliare, fece fuori quasi tutti i parenti durante un matrimonio, roba da siciliani novecenteschi nell’Umbria d’allora. Fu a sua volta trapassato dalla lama nella via principale della città. Emozionante operazione che Oscar Wilde ricorda bene nel Ritratto di Dorian Gray: “Grifonetto Baglioni col suo giustacuore trapunto, il berretto gemmato e i ricci in forma di acanto, che uccise Astorre con la sposa e Simonetto col suo paggio, e che era di una tale bellezza che quando giacque morente nella piazza gialla RAFFAELLO

DEPOSIZIONE

DI

C RISTO

1507, olio su tavola, cm 176x184, Roma, Galleria Borghese (pp. 92, 93, particolari)

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IL MUSEO IMMAGINATO

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di Perugia coloro che l’avevano odiato non potevano trattenere le lacrime e Atalanta, che l’aveva maledetto, lo benedisse”. Atalanta era la mamma ovviamente, cosa molto italiana, e lei decise di chiedere la realizzazione della pala per la cappella di famiglia. Ecco la causa d’una pietas finora ignota al pittore mondanissimo. Del Perugino rimane solo il sottile alberello che si staglia sul cielo. La boccuccia femminile che era la sua cifra, e che aveva spesso influenzato Raffaello, diventa una schiusura di labbra sotto uno sguardo di dolore mentre lei, forse Maddalena, ma sicuramente Zenobia la moglie di Grifonetto, sorregge il braccio del Cristo, che più morto di così non potrebbe essere. La madre di Gesù è svenuta. Giovanni è talmente preso dal ruolo che gli viene il vento nei capelli mentre assume la prima vera posa neoclassica della pittura rinascimentale.

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La città ideale

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ia Piero che il Raffaello dello Sposalizio hanno le loro radici architettoniche nella città ideale del Quattrocento. Molto più modestamente insegno in una Facoltà di Architettura. Non posso evitare questa parete in accrochage. In esso ritrovo tutto il mito riassunto dell’architettura quattrocentesca, da quando Leon Battista Alberti fece risorgere le acque degli acquedotti romani su incarico di Niccolò V riscoprendo il passato che risorgeva dalla terra a quando Enea Silvio Piccolomini, il poetico papa Pio II, decise di costruire ex novo la città sua omonima di Pienza. Gli umanisti sognavano l’urbanistica. I pittori la realizzavano ben più in fretta dei capomastri. Molti di questi dipinti sono di incerta attribuzione, chi pensa al Laurana, chi addirittura a Piero; le tavolette dell’agiografia di san Bernardino vengono alcune attribuite al Pinturicchio, altre al Perugino, altre ancora alla cerchia o agli allievi. Non ha importanza alcuna, perché ciò che fa sognare è vedere le chiusure di finestre che oggi appaiono ben diverse e ben meno casalinghe, e che riportate nel loro bro-

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IL MUSEO IMMAGINATO

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ANONIMO

LA

CITTÀ IDEALE

1480-1490 ca, tempera su tavola, cm 67,5x239,5, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche

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IL MUSEO IMMAGINATO

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do d’origine assumono una immediatezza impressionante, quanto all’opposto appare metafisica la presenza umana nelle dimensioni infinite dei marmi. Sogni quasi tutti dei primi anni ’70 che ebbero col Bramante, col Peruzzi e col Sangallo la loro realizzazione costruttiva. La pittura è formidabile terreno di sperimentazione.

ue o tre volte nella sua breve vita Vermeer (16321675) è andato per strada a dipingere, presumo con una sciarpa al collo. E lì ha abbandonato la luce trasversale che lo ha reso noto a tutti per una bella luce grigia piena, sotto al cielo dalle nuvole rapide, quella che piace a Gabriele Basilico quando scatta le sue fotografie urbane. Il dipinto, piccolo come spesso i suoi, è mentalmente grandissimo. Ogni dettaglio è reso con una verosimiglianza che sarebbe anche lei piaciuta ad altri, in modo particolare agli aristotelici che cercavano nella pittura la mimesi perfetta. Addirittura la sua firma sembra un graffito sulla calce invecchiata. Ho per Vermeer una stima assoluta. Di lui si sa poco, se non che morì lasciando debiti pure essendo vissuto in modo frugale, che sua moglie cedette la casa all’amministrazione comunale per coprirli e che le rimasero diciannove quadri: non aveva egli, nel paese dei calvinisti, saputo fare soldi, forse perché allontanato dalla sua Chiesa d’origine. Fu però eletto a trent’anni capo della corporazione dei pittori di Delft, la gilda di San Luca, il che lascia presupporre una sua autorevolezza riconosciuta. Come si deve d’ogni buon artigiano, vita breve, nato protestante, sposato cattolico e quattordici figli. La genialità sta nell’applicazione al lavoro, nel passare dall’osservazione attenta alla stesura precisa. È nato nello stesso anno di Baruch Spinoza; e se Spinoza, anche lui vita breve (16321677), scrive Ethica more geometrico demonstrata, anche in questo quadretto l’etica è dimostrata in modo geometrico. La geometria, la matematica, l’ottica sono le scienze d’avanguardia nell’Olanda del secolo d’oro. Spinoza, scomunicato dalla sinagoga di Amsterdam, e che aveva rinunciato alla cattedra a Heidelberg per rimanere libero, campava facendo il tornitore di lenti. L’ottica era allora il

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La città vera

p. 96 dall’alto PINTURICCHIO (?)

SAN BERNARDINO

RESTITUISCE , POST MORTEM , LA VISTA

A UN CIECO

1473, tempera su tavola, cm 76x56, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria (p. 95, particolare) PINTURICCHIO (?)

SAN BERNARDINO APPARE DI NOTTE A GIOVANNI ANTONIO TORNATO FERITO IN UN AGGUATO E LO RISANA 1473, tempera su tavola, cm 76x56, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria (p. 95, particolare) PINTURICCHIO (?)

SAN BERNARDINO

RISUSCITA IL BIMBO NATO MORTO

1473, tempera su tavola, cm 76x56, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria PINTURICCHIO (?)

SAN BERNARDINO

RISANA UNA FANCIULLA

1473, tempera su tavola, cm 76x56, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

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IL MUSEO IMMAGINATO

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campo nel quale si esercitavano le menti più acute d’Olanda. Cartesio dopo avere studiato dai gesuiti francesi andò a fare il soldato di Guglielmo d’Orange, lo Stadhouder, che essendo di Orange parlava francese, e Cartesio, il più neosocratico fra i pensatori del Seicento, pubblicò il suo Discorso sul metodo a Leida nel 1637, si occupò molto di ottica e spinse il giovane Christiaan Huygens, laureato in Giurisprudenza a Leida nel 1644, a intraprendere la strada per la Francia e per le scienze. I lavori di Huygens sulla natura della luce furono fondamentali e lui scoprì nel 1655, con un cannocchiale di sua invenzione, Titano, la luna di Saturno. Aveva allora ventisei anni, tre in meno di Spinoza, e mi piace pensare che adoperasse le lenti che il filosofo levigava. In quanto all’altro coetaneo Vermeer, recenti studi lasciano intendere che usasse egli la camera ottica per evidenziare senza errori la distanza fra gli oggetti, un po’ come Canaletto probabilmente usava il prisma ottico. Ci credo e non ci credo, in quanto sia la camera che il prisma sono soggetti alle geometrie dell’ottica in modo identico alla macchina fotografica. E questo dipinto non potrebbe essere realizzato che con un banco ottico: nessuna macchina fotografica normale può riprendere le linee senza la distorsione delle fughe prospettiche. La ricomposizione è geometrica. Aveva scritto Cartesio nel Discorso: “Volendo seriamente ricercare la verità delle cose, non si deve scegliere una scienza particolare, infatti esse sono tutte connesse tra loro e dipendenti l’una dall’altra”. N.B. Di curiosità: la strada sembra una strada di Londra oggi. Ed è così. In Olanda queste architetture attorno alla metà del secolo erano già belle obsolete, fra i puritani. I puritani vinsero la battaglia politica d’Inghilterra con la decapitazione di Carlo I nel 1649. Poi Londra bruciò nel Great Fire del 1666 (666 è il numero del diavolo) e fu ricostruita in stile puritano.

JAN VERMEER

STRADA

DI

DELFT

particolari, 1657 ca, olio su tela, cm 53,5x43,5, Amsterdam, Rijksmuseum (p. 98, intero)

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L’immaginazione al potere i pensa spesso che il surrealismo sia cosa tipica della modernità, afflitta dalla rappresentazione reale fotografica e stirata oltre i confini della mente razionale dalle scoperte della psicanalisi. Nulla di più grossolano. La parete intera è dedicata alla fonte delle immaginazioni iconiche, dei rapporti simbolici fra immagine e parola, della creatività onirica. Emblematica, da questo punto di vista, la riva sinistra del Reno, un po’ come se il Sacro Romano Impero, ben oltre la sua fondazione carolingia e ottoniana, ancorasse le sue radici nella contaminazione latina che ha fatto dei popoli che navigavano su quella riva, da Basilea a Rotterdam, dei contaminati dal morbo della pittura e degli esaltatori delle virtù etiliche del vino. È quindi quasi automatico che quell’Erasmo che pendolava, fra una istruzione parigina, un viaggio a Roma e un incarico a Londra, con regolarità fra le due estremità renane, abbia scritto l’Elogio della follia, che è in verità l’esaltazione d’una altra razionalità, e abbia influenzato i suoi più attenti contemporanei. È centrale in questa storia il bosco ducale detto ’s-Hertogenbosch, allora città fiorente, che appariva e scompariva secondo quelle inondazioni che diedero agli

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HIERONYMUS BOSCH

G IUDIZIO

UNIVERSALE

1482 ca o successivo, olio su tavola, trittico, cm 163,7x242, Vienna, Akademie der Bildenden Künste, Gemäldegalerie (pp. 102-103, 104, particolari)

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abitanti del Brabante la certezza d’essere popolo salvato come quello d’Israele dopo il passaggio nel Mar Rosso. Lì nacque nel 1453 Jeroen van Aken, Geronimo d’Acquisgrana, che diventerà buon borghese per matrimonio con la figlia del borgomastro e gran pittore come Hieronymus Bosch. Lì passò parte della sua infanzia Erasmo, nato nel 1466. Mi piace fantasticare che si siano incontrati sulla piazza del mercato. L’Olanda non esisteva ancora, le terre basse erano di pertinenza borgognona e il medioevo entrava in quell’autunno coloratissimo che Huizinga ha raccontato con brillante perspicacia. I membri delle confraternite giravano ancora con appuntate sul petto quelle piccole insegne iniziatiche d’argento che spesso erano scurrili ed evocavano organi che i successivi puritani celarono per sempre. La fantasia non aveva limiti di sorta e Geronimo la portò oltre ogni confine, addirittura nell’ambito delle critiche teologiche che fra poco Lutero avrebbe

PIETER BRUEGEL IL VECCHIO

COMBATTIMENTO

TRA

CARNEVALE

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QUARESIMA

1559, olio su tavola, cm 118x164,5, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie (pp. 106-107, 108, particolari)

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FRANCISCO GOYA

LA

SEPOLTURA DELLA SARDINA

1812-1814, olio su tavola, cm 82,5x52, Madrid, Academia de Bellas Artes de San Fernando

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mosso alla Babilonia papale di Roma. Settant’anni dopo nasceva Pieter Bruegel il Vecchio, che riprendeva l’eredità della fantasia intellettualizzata e la riportava in seno al popolo. Finirono, le opere dell’uno e dell’altro, laddove finì la libertà di Brabante e di Fiandre, nelle casse della Spagna di Filippo II e poi al Prado di Madrid. Lì generarono altre ossessioni nella mente del grande Goya, che tutti conoscono per via delle incisioni, come per via delle pitture nere, ma che qui è rappresentato con un dipinto che mi è particolarmente caro, quella Sepoltura della sardina che segna la fine delle esaltazioni carnascialesche spagnole sbandierando una figura ridente che è tornata di voga nella recente politica italiana. E che c’entra allora Monsù Desiderio? Lui è in realtà François Didier Nomé, nato nel

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1593 ancora una volta in quelle terre ch’erano nate come eredità di Lotario, quando i tre nipoti di Carlo Magno si spartirono l’Europa, e a lui toccò una parte che immediatamente i suoi cari fratellini Carlo e Lodovico gli mangiarono, ma che rimane nei cromosomi della cultura europea come il vivaio della fantasia. Nacque in una città, Metz, che Teodorico d’Austrasia aveva già scelto come capitale nel 511, e dove la regina Brunilde, sua erede, fece investimenti colossali d’abbellimento, la città dove Lodovico Pio l’imperatore papà dei tre discoli che ruppero l’Europa del nonno ha trovato eterna sepoltura. E Didier divenne il signor Desiderio per portare il suo contributo di follia ai pittori napoletani.

FRANÇOIS DIDIER NOMÉ, DETTO DESIDERIO MONSÙ

L’INFERNO 1622, olio su tela, cm 175x113, Besançon, Musée des Beaux-Arts

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GRAND SALON

iete ora pronti a tirare un respiro di sollievo, e ve lo meritate. Per questo il grande salone vi propone una leggerezza che forse in biblioteca vi è venuta a mancare. Ma siete autorizzati ad andarvene per tornare domani in quanto così propone la metodologia dello Slow Museum. Se invece ne avete voglia già ora, perché no? Il Grand Salon è solitamente destinato al ricevere e al far festa, guarda sulla pelouse dei giardini e vede in fondo stagliarsi i massi scuri dei rododendri che s’infuocano a primavera. Un antico cedro del Libano lo conclude a sinistra, mentre sulla destra si dipartono i vialetti misteriosi verso la chiesa, le serre, i roseti e il tempietto del tè. Vi si accede dalle due porte della biblioteca come da quelle simmetriche della sala da pranzo. Vi si entra pure direttamente dall’atrio. I dipinti che contiene non richiedono lunghe riflessioni: sono appesi per la pura gioia dello spettatore e celebrano, ben prima che lo dichiarasse Baudelaire, l’Art pour l’Art. Sposa in pieno questo spazio la teoria estetica del plaisir così ben espressa da Diderot.

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Marte e Venere si abbracciano

PITTURA ROMANA

M ARTE

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VENERE

secolo a.C.- I secolo d.C, affresco strappato, da Pompei, Casa di Marte e Venere, Napoli, Museo Archeologico Nazionale

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uest’opera, che direttamente dall’antichità ci proviene, è una piccola provocazione. Serve a far intendere che la pittura di ieri è come quella dell’altro ieri, una pratica fondante e perenne dei popoli stanziali del Mediterraneo che la esercitano da quando hanno deciso le sepolture stabili dove si tornava a trovare ed evocare gli antenati. Non si tratta d’un affresco, tecnica del medioevo, ma d’un encausto che, per il coinvolgimento della materia e la necessità di muoverne gli spessori, è molto simile alla pittura a olio. I motivi sono greci, il gesto appartiene all’eterno barocco di Roma.

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IL MUSEO IMMAGINATO

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er un attimo abbiamo pensato di porle in biblioteca, vista la densità delle evocazioni umanistiche. E dopo attenta riflessione abbiamo deciso che poche opere potevano rappresentare altrettanto bene il concetto di lusso della corte di Lorenzo il Magnifico. Quadri da guardare con occhio distratto o con attenzione concertata, nello stesso modo e con la medesima soddisfazione. Quadri che contengono storie complesse decifrabili solo dai lettori accaniti di Ovidio. Soffia lo zefiro della primavera in un aranceto dove simultanei convivono frutti e fiori profumati. Non conosco arance primaverili, e forse non le conosceva neppure Botticelli al quale era invece ben noto il corbezzolo che si comporta nel medesimo modo degli agrumi versione limone, anch’essi noti al pittore. Nasceva così però un mito: Kennst du das Land wo die Zitronen blühn scriverà Goethe appena mette il naso in Italia. Perché il dipinto è sostanzialmente un’opera profumata, come lo sono le zagare. Venere è la figura centrale dei due dipinti, che furono eseguiti e appesi in coppia à pendant per il nipote del

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La Primavera e La Nascita di Venere

SANDRO BOTTICELLI

ALLEGORIA

DELLA

PRIMAVERA

1481-1482, tempera su tavola, cm 203x314, Firenze, Galleria degli Uffizi (pp. 118, 119, particolari)

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Magnifico, Lorenzo anche lui, ma figlio di Pierfrancesco, prima nella casa cassaforte di via Larga e poi nella villa di Castello, dove li vide anche il Vasari. Sono ambedue quadri che giocano sul concetto della fecondazione. Nella Primavera Zefiro feconda la ninfa Cloris che si riempie di fiori, non per nulla fiorentini, sulla sinistra Ermete-Mercurio caccia le nuvole; in mezzo ballano tre Grazie compiendo con le mani alzate l’inequivocabile gesto delle femministe recenti. Sul tutto svolazza Cupido, tanto è tutto affare suo. Siamo nel 1482. La Nascita di Venere è apparentemente successiva, molto più influenzata dagli umanisti, Marsilio Ficino in testa, che dicono al pittore che cosa deve dipingere dopo gli errori non interpretabili della prima opera. Sicché il Botticelli si trovò a dover leggere le Stanze del Poliziano che riprendeva Ovidio: Una donna non con uman volto Da’ Zefiri lascivi spinta a proda Gir sopra un nicchio; e par che ’l ciel ne goda Vera la schiuma e vero il mar diresti, E vero il nicchio e ver soffiar di venti: La dea negli occhi folgorar vedresti, E ’l ciel ridergli a torno e gli elementi L’Ore premer l’arena in bianche vesti, L’aura incresparle e’ crin distesi e lenti: Non una, non diversa esser lor faccia, Come pare che a sorelle ben confaccia. In realtà assai truce è il mito antico: tutto inizia con quel maniaco sessuale di Urano che continuava a giacere con e sulla moglie impedendo ai figli di uscire dal grembo. Cronos, il figlio primigenio, ovviamente nato prima della psicopatologia, decise di evirarlo e così facendo, nella foga del gesto, gettò l’organo amputato in mare e alcune gocce di sperma fecondarono le onde. Poi prese il posto di lavoro del padre a capo degli dèi, cacciando i propri fratelli; generò figli che mangiava regolarmente, finché l’ultimo nato non riuscì a scamparla e da grande divenne Zeus che mise le cose a posto. Nel frattempo, secondo Esiodo, l’organo del nonno continuava a galleggiare. Dalla spuma bianca

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SANDRO BOTTICELLI

N ASCITA

DI

V ENERE

1484, tempera su tela, cm 184,5x285,5, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Domenico di Bartolo, Accoglienza, educazione e matrimonio di una figlia dell’Ospedale, particolari, 1441-1442, affresco, Siena, Ospedale di Santa Maria della Scala, Pellegrinaio

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nacque Afrodite che prese poi il passaporto romano col nome di Venere. Si vede bene che Botticelli, piqué au vif, andò oltre il Poliziano e si fece raccontare la storia vera da uno di quei grecisti che giravano Firenze da quando sul finire del Trecento s’era imposta la prima cattedra di greco. Le ondine sono tutte bianche, come da copione. Il vento è cambiato, in tutti i sensi. Soffia pure dall’altro lato, il che è di gran vantaggio per il nostro salone perché ci crea un flusso di ricambio d’aria costante. Questo soffio boreale abbraccia ovviamente la sua temporanea compagna. Quella posta dall’altro lato è ben più curiosa: porge una veste alla dea nel caso le venisse freddo o pudore. È piena di misteri questa veste, cosa che ha dato molto lavoro agli iconologi, agli interpreti e agli ermeneuti. Forse tutti fuori strada. Quella veste esiste sin dagli anni nei quali Domenico di Bartolo le dipinse nel Pellegrinaio dell’Ospedale di Santa Maria alla Scala di Siena. Ebbe egli l’incarico di dipingere nel 1441 la campitura nella quale viene narrata la fortuna della fanciulla orfana ormai educata e cresciuta e come tale destinata al matrimonio. I dettagli non offrono alcuna ipotesi di equivoco, per quanto equivoci. Il responsabile dell’orfanotrofio tiene soddisfatto in mano la borsa dei quattrini che ripagano l’educazione erogata. Lo sposo felice infila l’anello sul dito della fortunata. Con l’altra mano regge la propria veste presentandone una cocca a mo’ di pene, garante d’una futura fortuna matrimoniale. Nel contempo la fortunata tiene la sua veste con la mano libera in forma evidente di sesso femminile ancora vergine; lo si evince dalla matrona vicina, che tiene invece la sua in forma di sesso già fortunatamente iniziato alle gioie del matrimonio. Botticelli, l’artigiano pop, si vendica in questo tono ironico e a suo modo colto, delle angherie umanistiche. Il tutto dipinto secondo una tecnica accertatamente retrò, alla tempera magra quando già andava di moda l’olio fiammingo.

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a questione di come vestire la Venere non ossessiona solo il Botticelli, importa anche a Tiziano nel 1538, quando pone le due serve in fondo al dipinto mentre sono intente a frugare nel cofano per trovare la veste più adatta alla Venere nuda, detta di Urbino perché commissionata da Guidobaldo II della Rovere, duca d’Urbino appunto, un po’ come dipinto da cassapanca con intento iniziatico per la giovanissima sposa. Si tratta di Giulia Varano ch’era allora appena una adolescente, e gli lascerà dopo il matrimonio una figlia, prima di morire giovanissima. Secondo Mark Twain, questo sarebbe il dipinto più sconcio della storia dell’arte. Forse il battelliere del Mississippi la storia dell’arte la conosceva solo a grandi linee, il che non è grave, poiché il nostro Museo Immaginato non era ancora aperto. Forse era egli particolarmente maschilista, il che si può dedurre dalla sua sottile ironia. È certo che tuttora gli americani sono ossessionati dal sesso, come lo prova la loro coscienza politica e anche la recente storiografia dell’arte nel libro di Rona Goffen Sex, Space and Social History in Titian’s Venus of Urbino, dove si sostiene che il color rosso era quello del matrimonio, scordandosi che di rosso erano vestiti tutti i magistrati della Serenissima. Va vista dal lato lagunare, la questione: nialtri venexiani o trovemo assoltumanente natural, un fià domestico. La questione è dunque assolutamente diversa. Bellini, Vivarini prima, Carpaccio, mai avrebbero ipotizzato il nudo. Tutta gente di città, interessata al sommo pensiero rappresentativo, al potere, della Chiesa o del patriziato. Ci vollero i foresti per scoprire il sexy. Il primo che disegna corpetti e corsetti con fiorellini sui capezzoli veniva da Conegliano. Il Cima dipinge una Sant’Elena che chiamarla provocante è poco, e sono sempre stato convinto che: “sotto il vestito niente”. Siamo nel 1495. Poi arriva dalla campagna il Zorzon, il grande Giorgio, quello di Castelfranco. È il primo a osare con la sua Venere nuda, prima del 1510, che non fa affatto scandalo in casa del coltissimo Marcantonio Michiel, parente del cardinal Giovanni Michiel, avvelenato a Castel Sant’Angelo da Cesare Borgia. Marcantonio è protagonista della cultura, anche di quella visiva, e lascerà una serie di appunti oggi alla Biblioteca

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Da Venere in Venere, dal Zorzon al Tiziano

Cima da Conegliano, Sant’Elena, 1495, olio su tavola, cm 40,2x32,2, Washington, National Gallery of Art

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Marciana, che sono preziosissimo materiale per indagare l’epoca. Il natio veneziano, ma iniziato alla carnosità campestre a Bergamo, l’ormai cinquantenne Lotto dipinge la sua di Venere, che s’è levata la mano pudica per tenere lontano il mirto del matrimonio mentre la innaffia allegramente Cupido e sopra di lei è appesa una conchiglia vulva che ricorda il panneggio di Botticelli. La carnalità nella pittura veneziana vien sempre da fuori laguna, fino all’ultimo apporto di Paolo Veronese. Lo ha intuito anche il nostro vate André Malraux, quando scrisse che Tiziano appendeva le sue Veneri nel cielo del Cadore. E forse questo pure è il motivo per il quale l’uomo che abbandonò Parigi per meditare la forma della montagna di Sainte Victoire, Cézanne ovviamente, disse in modo succinto: La peinture moderne est née à Venise, avec Titien. Tengo, su due piccoli guéridon in salotto, una serie di coffeetable books, quelli non da biblioteca, quelli più faceti atti a intrattenere l’ospite intimidito e metterlo a suo agio, oppure a far piccoli commenti salaci con gli amici. Questi libri servono più al gioco dell’intelletto che all’istruzione nell’arduo mondo della storia dell’arte. Mi spiego: guardate il mazzo di fiori della Venere di Urbino, lo ritrovate in mano alla serva negra in Manet, la quale fa un po’ già la serva a Urbino. Guardate la Danae di Tiziano, quella nella quale l’assatanato Giove la feconda con una pioggia d’oro: è di sedici anni dopo, ed è invecchiata sia la serva che la Venere, la quale ha preso quella ciccia che torna naturale a Rubens. Lo specchio di Rubens lo ruba Velázquez sommandolo al furto della modella di Tiziano e viene fuori la sua, di Venere. Solo che Velázquez, essendo non realista ma reale, dipinge di tutta la collezione, l’unico sexy moderno. E così via, con la Maja desnuda, che è contemporanea alla signora Récamier (ritratta da David) con ancora una volta sotto il vestito niente. Siamo già nel 1800. Otto anni dopo il giovane Ingres riprende la posa di Rubens e mette alla sua modella il turbante di Raffaello, del quale andava pazzo. Qualche anno dopo ancora riprende in sommatoria il Cinquecento veneziano, il Velázquez e il turbante. Poi scopre lo stile troubadour e riassume le nude precedenti in piedi con san Giorgio. Nel frattempo la Francia conquista l’Algeria, e

Lorenzo Lotto, Venere e Cupido, 1540 ca, olio su tela, cm 92,4x111,4, New York, The Metropolitan Museum of Art

TIZIANO

LA VENERE

DI

U RBINO

1538, olio su tela, cm 119x165, Firenze, Galleria degli Uffizi GIORGIONE

VENERE

DORMIENTE

1508-1512, olio su tela, cm 108x175, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie Alte Meister

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1. Tiziano, La Venere di Urbino, 1538, olio su tela, cm 119x165, Firenze, Galleria degli Uffizi 2. Édouard Manet, Olympia, 1863, olio su tela, cm 130,5x191, Parigi, Musée d’Orsay 3. Tiziano, Danae, 1545 ca, olio su tela, cm 120x172, Madrid, Museo Nacional del Prado 4. Pieter Paul Rubens, Venere allo specchio, 1613, olio su tela, cm 124x98, Collezione privata 5. Diego Velázquez, Venere allo specchio, 1650 ca, olio su tela, cm 122,5x175, Londra, National Gallery 6. Francisco Goya, Maja desnuda, 1797-1800, olio su tela, cm 95x190, Madrid, Museo Nacional del Prado 7. Jacques-Louis David, Madame Récamier, 1800, olio su tela, cm 174x244, Parigi, Musée du Louvre

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8. Jean-Auguste-Dominique Ingres, Bagnante, 1808, olio su tela, cm 146x97,5, Parigi, Musée du Louvre 9. Raffaello, La Fornarina, 1518-1519, olio su tavola, cm 85x60, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini 10. Jean-Auguste-Dominique Ingres, La grande Odalisca, 1814 , olio su tela, cm 91x162, Parigi, Musée du Louvre 11. Jean-Auguste-Dominique Ingres, Ruggero libera Angelica, 1819, olio su tela, cm 147x190, Londra, National Gallery 12. Jean-Auguste-Dominique Ingres, Bagno turco, 1862, olio su tela incollata su tavola, Ø cm 110, Parigi, Musée du Louvre

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Ingres ormai maturo ma non senile mette tutti i nudi possibili in bagno turco. Siamo nel 1862. L’anno successivo succede lo scandalo al Salon perché Manet presenta la sua Olympia, lei nuda come la Venere d’Urbino, col mazzo di fiori in mano alla negra di Rubens e il cagnetto che s’è fatto gatto nero. Lo scandalo non è né per il gatto nero, né tanto meno per il nudo, ma perché la modella è una nota prostituta di Parigi che molti visitatori avevano avuto la fortuna di frequentare.

Rosalba Carriera, Ritratto di Antoine Watteau, 1710-1720 ca, pastello su carta, cm 55x43, Treviso, Museo Civico

ANTOINE WATTEAU

PIERROT 1718-1719, olio su tela, cm 185x150, Parigi, Musée du Louvre

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E allora che c’entra Watteau? Beh, intanto se siamo finiti in Francia è giusto onorarla. Lui è il primo vero pittore triste della storia del lusso e del godimento. Eppure tutto avrebbe dovuto portarlo al buon umore. Era finita l’epoca conclusiva e mesta del potere assoluto di Luigi XIV, lentamente marcito nelle proprie carni nel 1715. La Régence stabiliva l’equilibrio fragile e allegro fra i poteri, un godere quotidiano che Bertrand Tavernier ha raccontato con brillante dolcezza nel suo film Que la fête commence. Lui, Watteau, vince il suo posto nell’Académie Royale nel 1717 come pittore delle delizie festose con La partenza per Citera, l’isola dove è nata Afrodite, alla quale questo salotto è dedicato. Eppure Rosalba Carriera, la psicologa dei ritratti a pastello, lo dipinge tre anni dopo con lo sguardo blasé del day after. Lui da poco ha dipinto il suo Pierrot, quello che dovrebbe vivere au clair de la lune, e che si trova invece in un’alba tragica. Ma ha appena finito quel grande dipinto che rappresenta l’interno del negozio d’un mercante d’arte, Gersaint, dove si sta impacchettando il passato raffigurato dal ritratto del defunto Re Sole, in una atmosfera di svagata mondanità. Forse in questa stanza siamo tutti Monsieur Gilles vestito da Pierrot. E lui, Jean-Antoine Watteau, muore l’anno dopo, a trentasette anni, come i grandissimi, come Raffaello, come Mozart.

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n realtà non c’è dubbio. A tavola non s’invecchia. E se c’è un luogo dove la convivialità raggiunge il massimo del suo fascino e della sua forza di aggregazione, è il desco. Senza mangiare (e allora sicuramente non bene) non sarebbe nata la filosofia greca. Le abitudini d’oggi sono purtroppo state forgiate nel periodo vittoriano, dove la conversazione permise la nascita di Bloomsbury, ma pure della noia. È per questo che la nostra sala da pranzo rivendica diritti didattici. L’arredo riprende alcune abitudini delle case d’Italia, con una bella consolle dorata veneziana senza specchio, a piano di marmo vecchia Verona bordato di marmo giallo, ben inteso pieno barocco settecentesco. Vi abbiamo posato sopra una ciotolona romana di scavo in porfido imperiale. Dai due lati della finestra, due piccole consolle veneziane in bosso e una vasta collezione di piatti Compagnia delle Indie. Si accede alla sala da pranzo dalla doppia porta che la collega con il Grand Salon. Una porta scorrevole in radica di noce porta al salottino. Il tavolo vero e proprio, in omaggio all’epoca, è un tavolo che viene montato di volta in volta, habillé, secondo la quantità di ospiti.

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Le nozze di Cana

PAOLO VERONESE

N OZZE

DI

CANA

1562-1563, olio su tela, cm 666x990, Parigi, Musée du Louvre (pp. 134-135, intero; pp. 136, 137, particolari)

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er quanto il dipinto sia stato concepito per concludere il fondo del refettorio nel convento di San Giorgio a Venezia, dove andava visto da lontanissima distanza, ci siamo permessi l’impertinenza di appenderlo a chiudere l’intera parete del muro perimetrale della stanza. Il che consente d’entrare nell’opera come se si fosse invitati alla festa, di percepirne la grande apertura sul vuoto del cielo e d’ascoltare i musici. Di questo capolavoro celeberrimo, pieno di ritratti dei potenti dell’epoca, m’interessa principalmente la simpatica atmosfera del disordine umano nell’ordine architettonico. Poi, lo vuole il tema stesso, m’interessa la faccenda del vino. Venezia considerava il vino un bene alimentare necessario alla vita della sua vasta comunità, lo classificava in base alla provenienza vici-

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Vittore Carpaccio, Sant’Agostino nello studio, particolare, 1502, tempera su tavola, cm 141x210, Venezia, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni Tiziano, La Venere di Urbino, particolare, 1538, olio su tela, cm 119x165, Firenze, Galleria degli Uffizi Canaletto, Riva degli Schiavoni, veduta verso est, particolare, 1730, olio su tela, cm 58,5x101,5, Tatton Park, Cheshire, National Trust

na o lontana, lo vendeva nelle mescite. Vedere il padrone di casa, sulla destra, che assaggia il miracolo compiuto, sembra vedere per la prima volta un enologo all’azione, quando gli altri artisti rappresentano il vino come prodotto sacrale delle feste bacchiche. L’enologo ha uno splendido naso rosso, dovuto alla sua pratica. E di fronte a lui, per far ancor più veneziano, il cagnetto cammina sulla tovaglia, il cagnetto che fu di Tiziano, che appariva in Carpaccio e che è onnipresente in Canaletto. Da Veronese a Veronelli. E il servetto moro gli sta già preparando l’altro bicchiere. Dal lato opposto del dipinto, un altro moretto offre il vino ormai testato a un ospite di riguardo. I bicchieri sono rigorosamente soffiati a Murano. Alla salute!

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Jean-François de Troy

JEAN-FRANÇOIS DE TROY

PRANZO

DI OSTRICHE

particolare, 1735, olio su tela, cm 126x180, Chantilly, Musée Condé

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opra alla finestra, appeso con un cordoncino che passa fra due rivetti laterali nascosti dalla cornice, in modo che il dipinto penda con una inclinazione di trenta gradi rispetto alla parete e che lo si possa vedere bene da sotto, un’opera d’un artista noto a pochi. Jean-François de Troy è forse un fatuo protagonista dei primi anni del regno godereccio di Luigi XV, ma le sue rappresentazioni di colazioni da caccia e di cene della società aristocratica ne fanno un antropologo ante litteram. Ancora una volta il disordine regna, e la buona educazione non prevede nulla delle costrizioni che leggete nei trattati di bon ton. Le ostriche sono rovesciate a terra vicino ai piatti d’argento che le aspettano. Il benedettino Dom Pérignon da poco è passato a miglior vita, lasciando ai suoi eredi in questa la scoperta del vino con le bollicine che sta raffreddando in bottiglie appropriate nei secchi di ghiaccio. Alla salute!

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er il greco antico che compose questa opera formidabile, la natura per definizione non poteva essere morta. Per questo i pesci sono tutti in acqua. M’immagino la difficoltà ch’egli abbia dovuto superare nel disegnare pesci, quando a lui piaceva solo il capretto arrosto. È che purtroppo il cliente ha sempre ragione, e i romani di Napoli andavano ghiotti per ogni tipo di pesce che pescavano e allevavano. Le leggi suntuarie della Repubblica s’erano trovate costrette a codi-

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I pesci

ARTE ROMANA

MARINA I secolo d.C, mosaico, da Pompei, Napoli, Museo Archeologico Nazionale

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ficare il massimo di spesa in sesterzi che si poteva erogare per le cene, in ragion pure della qualifica degli ospiti, dove i senatori e gli ambasciatori portano in su il prezzo della portata. È fantastico notare quanto le nature morte barocche napoletane riprenderanno il medesimo gusto esposto già in epoca antica.

L’acqua

ARCIMBOLDO

ACQUA 1566, olio su tela, cm 66,5x50,5, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie

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en diverso il caso dell’Arcimboldo. Ne abbiamo già parlato nel pensatoio, ma questa opera merita una riflessione ulteriore. Ben oltre la fantasia, qui conta lo spirito di osservazione scientifica in un dipinto sicuramente realizzato a Vienna, dove le specie raffigurate non erano di facile reperimento. Il dipinto fa parte dei due cicli di quattro ogni volta, dedicati alle stagioni e agli elementi aristotelici. Si trova a essere immediatamente intellettuale. La mini-foca col mini-tricheco, l’ippocampo e gli octopus di varie dimensioni, tutto fa pensare, ben più che al pranzo di Babette, allo studio di Ulisse Aldrovandi che stava fondando in quegli anni a Bologna, come sostiene Buffon, le basi delle scienze naturali moderne.

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Quattro nature morte intellettuali

’eleganza prima di tutto in sala da pranzo, e curiosamente appaiono per la prima volta due donne, che non stanno a dipingere padelle da cucina, ma sofisticate elaborazioni da desco. Ho sempre pensato che in Occidente le donne non fossero pittrici non per motivi di repressione maschilista, ma perché la pittura medesima è lingua specifica dei maschi adulti del Mediterraneo. In un certo senso la pensava così anche Fernand Braudel quando sosteneva che la casa del Mediterraneo non ha, come quella del Nord invece, il suo centro nel focolare ma nel telaio di Penelope. E Penelope, mentre si dà alla creatività, si affida alla sperimentata abilità delle mani ed è comunque capace mentalmente di seguire altre faccende. L’Ulisse è molto più monotematico, semmai sarebbe pronto ad andare a dipingere la parete della tomba di Laerte, una volta tornato a casa dopo avere girato il mondo. È certo che Louise Moillon precede altre due Louise della modernità, la Nevelson e la Bourgeois, con le quali ha in comune l’inclinazione all’attenta decorazione dello spazio, la manualità sofisticata dell’esposizione. In fondo la fisicità di Méret Oppenheim o di Louise Bourgeois, quella di Benedetta Marinetti e di Louise Nevelson non è poi tanto lontana da quella di Penelope o da quella che così sottilmente applicava alla tastiera del pianoforte Wanda Landowska e alle pedaliere del grand’organo Marie-Claire Alain.

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Caravaggio è il primo che intuisce la natura morta come opera in sé. E poche nature morte sono nell’insieme più vive di questa, in quanto la vita viene testimoniata in ogni segno di marcescenza, di decrepitudine, di evoluzione organica, dagli acini dell’uva nera che sono già oltre la maturazione, a quelli bianchi che sono in parte strappati, dalla bacatura della mela e della pera alle foglie ormai secche. Di sicuro una vanitas fra le più efficaci. Il dipinto è degli ultimi anni del Cinquecento. Il Caravaggio era ancora un bell’ignoto, e si disputa se l’acquisto sia stato fatto dal cardinal Federico Borromeo a Roma quand’era in visita al cardinal Del Monte, primo acquirente romano del giovane pittore, oppure ancora a Milano. Non è di per sé rilevante.

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Ben più interessante il fatto che due cardinali al contempo avessero allora la capacità d’indovinare e apprezzare un’esordiente in procinto di cambiare il corso delle arti visive. Diversi sicuramente e più garbati del già tanto citato cardinal Scipione Borghese loro contemporaneo. Quanto mi mancano oggi i cardinali!

CARAVAGGIO

CANESTRA

DI FRUTTA

1597-1598, olio su tela, cm 31x47, Milano, Pinacoteca Ambrosiana (pp. 144-145, particolare)

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FEDE GALIZIA

C ILIEGIE 1610 ca, olio su tavola, cm 28x42,5, Campione d’Italia, già Collezione Silvano Lodi

Fede Galizia, milanese come Caravaggio, e di pochi anni più giovane di lui, apre una singolare questione. Passò la sua vita a dipingere molte nature morte. Era ella figlia dello stesso tempo o da lui convertita? Il cardinale Federico regala la sua natura morta alla sua Ambrosiana appena fondata nel 1607 e aperta al pubblico due anni dopo. Il cardinale collezionava con passione i dipinti fiamminghi e le nature morte. Fede riprende le farfalle tanto care ai fiamminghi e le frutte concettuali della Canestra, in quella definizione che il mio amico Nicola Spinosa chiama “natura in posa”. Fede frequentava sicuramente l’Ambrosiana. La Moillon è della generazione successiva, quando questo gusto sperimentale è diventato linguaggio internazionale; lei lo esprime con delicatezza assoluta, ma anche lì mi vengono dubbi e sospetti: il suo dipinto sembra la sommatoria di due Galizia. Erano gli anni ’30 del Seicento, nei quali Mazzarino cominciava a portare lussuose curiosità a Parigi, e molte da Milano, gli oggetti preziosi dei Miseroni, le pietre dure lavorate e i dipinti che esaltavano la sua personale follia di grandezza intellettuale.

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Francisco de Zurbarán, generazione a metà fra Caravaggio e la Moillon, raggiunge risultati analoghi senza avere frequentato né l’uno né l’altro mondo. Ma va ricordato che la Spagna d’allora, per quanto potente, per quanto sublimemente ancorata ai sogni contorti dell’Escorial dove Filippo II da vivo celebrava i propri funerali, ebbene quella Spagna lì (Barcellona non c’entra!) aveva come città principali Anversa, Milano, Napoli, Palermo e Genova se non sotto controllo almeno sotto contratto per il trasporto dell’oro dalle terre nuove d’America. La cultura spagnola si formava già in versione globalizzata. Ma ispanico è lo spagnolo, quindi incline alla ieratica esagerazione delle situazioni, mosso da una capacità realista che raggiungerà gli apici con Velázquez, Goya e Pablo Picasso. E in Zurbarán, nei suoi monaci esaltati, vedo già i saltimbanchi del periodo rosa. Come nel bodegón, così si chiama la natura morta da quelle parti, vedo l’anticipazione di quelle che Pablo farà vedere a Georges Braque che ne farà buon

LOUISE MOILLON

CESTA

CON CILIEGIE , PRUGNE E MELONE

1633, olio su tavola, cm 48x65, Parigi, Musée du Louvre

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pp. 148-149 FRANCISCO DE ZURBARÁN

N ATURA

MORTA CON LIMONI

1633, olio su tela, cm 60x107, Pasadena, Norton Simon Museum of Art

La brioche

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commercio da salotto. Per ogni verso, Zurbarán è il primo che indagherà con attenzione maniacale la qualità della materia, la terracotta della tazzina, i piattini d’argento con i riflessi degli oggetti posati sopra, la canestra e quelle arance d’allora che erano amarissime da mangiare (quelle buone arrivano ben due secoli dopo e si chiamano Portugal sia in Spagna che in Sicilia) e che talvolta convivono sugli aranci con i fiori che appaiono all’inizio dell’estate successiva alla loro maturazione. i Chardin non mi stuferei mai. Lo posso vedere in ogni sua versione, quest’ometto dall’aspetto mite nato e vissuto a Parigi senza mai uscire dalla città. Un occhio indagatore il suo quanto lo era la voglia scientifica dei ben maggiori illuministi dell’Encyclopédie. Ogni materiale è esattamente definito, la doratura a pennello sul cristallo di Boemia, il tappo di metallo giallo, la qualità della terraglia della zuccheriera come il brillante della brioche, quello ottenuto, quand’è già lievitata e prima di estrarla dal forno, da una rapida pennellata di chiara d’uovo. Tutto un cosmo di pennelli. Il dipinto è del 1763 ed è una rappresentazione psicologica della dolcezza della vita. Circa trent’anni dopo, la sfortunata Maria Antonietta affronterà malauguratamente il tema delle brioches, che non sono quelle del cappuccino al bar, con il popolo affamato di Parigi, e sarà rivoluzione.

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JEAN-BAPTISTE-SIMÉON CHARDIN

NATURA

MORTA CON BRIOCHE

1763, olio su tela, cm 47x56, Parigi, Musée du Louvre

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Willem Claesz. Heda

WILLEM CLAESZ. HEDA

C OLAZIONE

CON GRANCHIO

1648, olio su tela, cm 118x118, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage (pagina a fianco, particolare)

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furia di mangiare, o forse di non mangiare e dipingere solamente il cibo, Willem Claesz. Heda ha campato ottantasei anni. Membro della vasta tribù dei Claesz., forse meno noto di Pieter, m’interessa di questo dipinto la sua sintomatica data, il 1648, anno della fine della Guerra dei trent’anni con il trattato di Westfalia, che ridisegna l’Europa per il secolo e mezzo successivo, e pure anno della definitiva vittoria dell’Olanda sulla Spagna. I severi puritani vestiti di sete nere hanno vinto i severi spagnoli vestiti di sete colorate. Ma in tutto quel periodo della lotta, quando i puritani conquistano mari e mercati, la loro severità si scioglie dinnanzi alla tavola e dinnanzi alla sontuosa vita domestica. Le brocche d’argento sono la risposta calvinista alla Babilonia romana. L’alimentazione il risultato dei

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commerci, il limone non crescendo nelle terre basse, e della abilità marinara, il granchio aspettando ignaro la sua sorte sulle spiagge di Scheveningen, e infine della Compagnia delle Indie che fornisce il piattino di porcellana per le olive. Il tutto si compone accettando le contorsioni di quel barocco che l’architettura razionalista e neoclassica di van Campen invece rifiuta. essuna sala da pranzo che si rispetti può evitare i fiori, talvolta in centro al tavolo, talvolta composti con garbo nella ciotolona romana, ma sempre appesi al muro. Anche il borghese primigenio d’Olanda la vedeva in questo modo. Il più commovente di tutti è innegabilmente Jan Bruegel il Vecchio, figlio di Pieter Bruegel il Vecchio e fratello del minore Pieter Bruegel il Giovane. Ebbe egli la fortuna, sul finire del Cinquecento, d’incontrare il cardinal Federico Borromeo, il quale se lo portò a Milano

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p. 154 JAN BRUEGEL IL VECCHIO

NATURA

MORTA CON FIORI IN UN BICCHIERE

1600-1625, olio su rame, cm 24,5x19, Amsterdam, Rijksmuseum (p. 157, particolare)

Fiori fiamminghi, insetti compresi

BALTHASAR VAN DER AST

STUDIO

DI FIORI E INSETTI

1625, Collezione privata

155

BALTHASAR VAN DER AST

C ANESTRA 1632, olio su tavola, cm 14,3x20, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie (p. 157, particolare)

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dandogli da fare. Se ne tornò ad Anversa nel 1596 con un potente bagaglio d’immagini italiane d’avanguardia che mescolò con le sue fantasticherie fiamminghe. Aveva forse dagli italiani, dai premantegneschi in poi, imparato l’affetto per la mosca nei dipinti che divenne poi passione per ogni tipo di animaletto. Trasmise questa sua inclinazione bizzarra a Balthasar van der Ast, che di citazioni ambrosiane sembra farcito, al tal punto che le sue elucubrazioni sulla Canestra del Caravaggio darebbero una certezza sul fatto che il cardinale possedesse il dipinto già nel 1596. Il resto della fantasia al Balthasar gli veniva dal suo maestro Bosschaert, ma l’effetto definitivo del dipinto appeso vicino alla porta è stupefacente, con quella finestra che guarda sulla triste architettura di mattoni, quella che trovate regolarmente in Vermeer e che diventerà quella di Londra dopo il Big Fire del 1666. E poi ci sono sempre, fa già Olanda definitiva, i tulipani. Storia estrema quella dei

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tulipani, raccontata con brillante intelligenza da Charles Mackay nel 1841 in Extraordinary Popular Delusions and the Madness of Crowds: i ricchi mercanti olandesi andavano pazzi per i bulbi di tulipani, simboli del fiore perenne d’Oriente e della loro personale indipendenza e ricchezza, i prezzi salivano al punto che negli anni ’30 un bulbo poteva costare quanto un tiro a quattro cavalli, e un cuoco fu processato per avere affettato un bulbo prendendolo per una cipolla un po’ fuori misura. Nel febbraio del 1637 i prezzi a un tratto crollarono, fu un disastro con fallimenti e suicidi. Che poetici i tulipani!

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Mario dei Fiori

MARIO NUZZI DETTO DEI FIORI

SPECCHIO

CON VASO DI FIORI E TRE PUTTINI

1625-1713, olio su vetro, cm 248x166, Roma, Galleria Colonna

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a moda dei fiori prese tutta l’Europa, l’Italia pure in modo coinvolgente, dai napoletani alla Margherita Caffi. Mi piace però ricordare fra tutti loro il Nuzzi, detto anche Mario dei Fiori, per ben due motivi, oltre la sua innegabile abilità. Il primo è che via Mario dei Fiori era, prima che la zona di via Condotti a Roma diventasse una sorta di area commerciale di grandi marche da aeroporto, una delle strade più deliziose della capitale. Il secondo, che la sua passione floreale corrisponde alla genesi della prima vera corte barocca del mondo, quella che Maffeo Barberini durante il suo ventennio papale come Urbano VIII inventò per primo, mettendo a stipendio un migliaio fra cuochi, musicisti, poeti e decoratori. Fu lui, il Papa, a spedire in Francia la sua spia più affascinante, quel giovane Mazzarino che convertì per primo il cardinale Richelieu, poi la regina senza figli Anna d’Austria, la quale appena incontratolo dopo ventitré anni di matrimonio sterile con un Luigi XIII, innegabilmente tebano, mise subito al mondo il protagonista del barocco totale, Luigi XIV. E l’Europa rifiorì.

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DA PRANZO

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uando le celebrazioni alimentari della Sala da pranzo coinvolgono più di dieci persone (si riesce, per via dei servizi da tavola e della dimensione della stanza ad arrivare fino a trentasei ospiti comodamente seduti), è di buona creanza passare nel Grand Salon per caffè e liquori. Quando la tavolata si fa solo tavola e gli ospiti costituiscono un petit comité, risulta molto gradevole passare alla medesima prassi postprandiale nel Petit Salon, quello al quale si accede dalla porta scorrevole. Il Petit Salon è inoltre assai utile per ricevere piccoli gruppi (conferenze stampa per esempio) che vi accedono dall’atrio attraverso la sala da gioco, quando la confidenza non è tale da farli sedere nel Pensatoio. Il Petit Salon è stato disegnato con garbo, tagliando gli angoli della stanza quadrata con pareti che le danno una elegante forma ottagonale, in onore della rivista di design diretta da Aldo Colonetti. Si formano così quattro armadi segreti, che servono a conservare disegni e dipinti, vasellame di uso raro, e una scala a chiocciola di pietra serpentina che scende nelle cucine e sale nella camera da letto del cuoco. Tutta la forma ottagonale viene esaltata da un tavolo centrale in bronzo con micromosaici che raffigurano le glorie

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dell’archeologia italiana, intorno a esso quattro divani a due posti, di quel tipo che gli inglesi chiamano love seat in quanto consentono a chi vi è seduto di guardare a sessanta gradi il vicino. Sulle pareti esterne, da un lato la finestra, dall’altro un camino in terracotta neoclassica che riprende le decorazioni di Pompei, così ben illustrate da Pietro Bracci in nero e rosso per le Antiquités étrusques, grecques et romaines pubblicate a Napoli nel 1766 a testimonianza delle raccolte di sir William Douglas Hamilton, il console inglese collezionista e fortunato marito della traditrice lady Emma. Questo libro ebbe una importanza minore della contemporanea pubblicazione di Winckelmann per quanto riguarda la coscienza della modernità, ma ben maggiore per quanto concerne l’evoluzione dell’architettura e della decorazione. La stanza è dedicata al paesaggio e alla sua influenza sulla mente romantica che trova un fulcro nel demone del meriggio e nella melancolia (la bile nera) della digestione.

Giorgio Gasparini da Castelfranco, detto Zorzon e dagli italiani Giorgione, La Tempesta

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appeso sopra il camino. Avrete notato che le posizioni sopra il camino sono sempre emblematiche. Il dipinto ha subito nei secoli la violenza di ogni tipo di interpretazione, un caso di accanimento terapeutico ermeneutico che si riscontra forse solo a pari livello di determinazione con la Flagellazione di Piero e la Primavera di Botticelli. Mi è troppo simpatico il Zorzon per perseguitarlo anch’io, mi è troppo di guida il Sigmund Freud per non dar retta al suo adagio famoso espresso in inglese: Sometimes a cigar is just a cigar. Il Giorgione è in realtà il primo pittore metafisico in senso dechirichiano della nostra storia. Non conta la motivazione degli elementi posti nella composizione, conta l’atmosfera estraniante che il contemplatore ne ricava. Tutto avviene in quella campagna veneta che, nella bella stagione, è umida ed erotica, dove il tempo è sospeso in un suo fluire ineluttabile. È ovvio che stia per scatenarsi la tempesta, ma la pioggia, con quella temperatura, è un dolce sollievo. Infatti l’airone, o cicogna che sia, sul tetto non appare per nulla preoccupato dal fulmine che si staglia su una linea d’orizzonte che sembra quella d’una New York d’allora. La stessa calma, che oserei

È

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GIORGIONE

LA

TEMPESTA

1503-1504, olio su tela, cm 82x73, Venezia, Gallerie dell’Accademia (pp. 165, 167, particolari)

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chiamare platonica senza accusare il Zorzon di neoplatonismo, è quella del giovanotto che assomiglia così tanto a un santo laterale di Cima da Conegliano, e che sembra dire alla mamma lattante: no sta a preoccuparte, te ne fasso un altro. E se lo sguardo di lei una piccola preoccupazione la rivela, è

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solo perché, nuda per gli affari suoi, scorge con gli occhi neri e svegli il Zorzon che la ritrae; sta per dirgli: e ti, cossa ti vol?. È ovvio che il Giorgione frequentasse (abitava accanto alla chiesa principale del suo paese) gente colta in quell’inizio di Cinquecento. Ma è facilmente comprensibile che di questa cultura egli era più affascinato che pratico. Quindi solo la sommatoria sincretica degli elementi compositivi, compresa la naturale citazione del passato archeologico, va a determinare l’atmosfera fisica e metafisica del dipinto, quella che, virus inatteso nella Venezia dei Bellini, contaminerà fra poco la visione pittorica dei veneti. Rimane la questione del perché mai questa piccola tela, alta un pelo più di ottanta centimetri, abbia suscitato così tante interpretazioni germaniche, americane e meridionali. Pel fatto forse che solo chi conosce la lingua veneta lo percepisce immediatamente, per gli altri il mistero è insondabile, che è poi il mistero gaudioso della stessa Repubblica Serenissima. I foresti, tajani compresi, i fa un fià fatiga a capir!

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Due vedute di Castel Sant’Angelo, a monte Gaspar van Wittel, a valle Camille Corot

astel Sant’Angelo è uno dei luoghi più carichi di fascino a Roma, ed è forse la più bella spiegazione immediata della pratica architettonica degli italiani, quella che consiste nel non abbattere, ma nel metabolizzare gli edifici esistenti. Grande torta, similare a una torta da matrimonio, progettata dall’imperatore architetto Adriano per la sua sepoltura, doveva far da concorrente alla settima meraviglia del mondo, quell’altra tomba che Artemisia, vedova del satrapo di Persia Mausolo, fece costruire ad Alicarnasso, generando l’archetipo del mausoleo. Era sormontata originariamente da una teoria di grandi sculture di bronzo che si esaltavano sopra i marmi che la decoravano. Fu tutto condannato allo spoglio negli anni catastrofici del V e VI secolo. Poi le famiglie patrizie che si contendevano l’ammasso di rovine ch’era diventata la Roma dell’alto medioevo scoprirono che chi si trincerava nella tomba si trovava in una fortezza imprendibile con foro d’accesso che attraversava decine di metri di muratura. Quando passò finalmente alla Santa Sede nel Quattrocento, divenne roccaforte del Vaticano, da poco fattosi sede papale, da quando cioè il colto Niccolò V fece decadere il Legato Costantiniano che obbligava il Santo Padre a risiedere a San Giovanni in Laterano, in

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GASPAR ADRIAENSZ. VAN WITTEL

C ASTEL SANT’ANGELO 1693 ca, olio su tela, cm 87x115, Collezione privata (p. 172, particolare)

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pp. 170-171 CAMILLE COROT

C ASTEL S ANT’A NGELO 1835-1840, olio su tela, cm 34,3x46,7, Williamstown (MAS), Sterling and Francine Clark Art Institute

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base alla dimostrazione linguistica di Lorenzo Valla che ne aveva certificato la contraffazione. La tomba-rocca si collega quindi ai nuovi uffici apostolici con il Passetto di Borgo, papa Borgia fa intervenire il Sangallo, Giulio II forse Raffaello o Bramante, Clemente VII ci mette il bagno dove si sollazzerà tranquillo durante il sacco di Roma del 1527, Paolo III ci mette la cassaforte e fa decorare le stanze a Perin del Vaga… Nel frattempo ci fu collocato l’Angelo di bronzo al quale deve il suo nome attuale, poi fu rimodernato il ponte d’accesso con le sculture del Bernini, poi andò il tutto a decadere e divenne galera (lo era sempre stato un poco anche prima, e di sangue grondano le sue viscere), finché Puccini non vi piazzò la Tosca. E oggi è museo. Ogni altro popolo d’Europa lo avrebbe abbattuto varie volte, come fecero i francesi con la Bastiglia, o come fecero prima con il lurido ponte dei teatranti che divenne sulla Senna il Pont Neuf, poco dopo che Cosimo I il

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suo, di ponte, lo aveva invece restaurato con l’altro passetto, il corridoio vasariano che fece del ponte sull’Arno il Ponte Vecchio. Morale della storia: a) gli italiani riutilizzano, b) il potere italiano ama distaccarsi dalla città per rifugiarsi in cremlini imprendibili. E tutto ciò affascinò l’olandese Gaspar van Wittel e ne fece il padre dell’architetto Vanvitelli. Va ricordato che il Gaspar era più vecchio di Canaletto di oltre quarant’anni, veniva da un paese che adorava dipingere paesaggi, ma trovò fonte di meraviglie nel guardare l’Italia, passando dalla piana infinita di casa sua al mosso perenne della sua nuova destinazione. A lui si deve il primo sviluppo costante del paesaggismo narrativo. La veduta è del 1693. Quanto mi piace quella Roma lì, dolcissima e pacifica, piena di stranieri, dove Cristina di Svezia abbandonava la fede luterana e la corona per quella cattolica e musicale di Corelli, quando fondava la prima Accademia dove non contava l’origine nobiliare ma solo il merito artistico o filosofico, quella sua Accademia Reale del 1674 che fu all’origine dell’Arcadia e forse più tardi ancora dei Lincei. Una Roma raffinata e decadente che aspetta il rinnovamento intellettuale del Settecento col ventennio di Clemente XI. Il caso Corot ha una leggera similitudine col caso van Wittel. Svizzero francese e poi francese ex svizzero, figlio di ricchi commercianti di tessuto dei quali apprezza più la vita confortevole che l’inclinazione etica, si fa assai i fatti propri dipingendo senza essere costretto a trovare clienti. Il che lo avvicina assai a quel gruppo di anticlassici e “antiromanticoretorici” che se ne va a dipingere la campagna piatta a Barbizon, Millet, Rousseau & Cie. I contemplativi contro i cittadini. Però Corot scopre le colline d’Italia, ed è anche per lui meraviglia. Scopre a dir il vero anche la Marietta, come Goethe aveva scoperto la Faustina un secolo prima, e si porta a casa dal Belpaese una serie di ricordi inconfondibili.

urner a Venezia dipinse alcuni dei più belli acquarelli del XIX secolo, dove era anticipato tanto di ciò che la pittura avrebbe scoperto molto dopo. Ma si sa che gli acquarelli decadono se esposti alla luce troppo a lungo,

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Camille Corot, Marietta, 1843, olio su carta applicata su tela, cm 29,3x44,2, Parigi, Musée du Petit Palais

Turner

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pp. 174-175 WILLIAM TURNER

V ENEZIA, C AMPO SANTO 1842, olio su tela, cm 62,2x92,7, Toledo (OH), Toledo Museum of Art

quindi li teniamo nascosti nell’armadio dietro all’olio che qui potete vedere. Questa veduta è assai insolita in laguna, perché guarda a sinistra sulle Fondamenta Nuove e a destra sul cimitero di San Michele, al quale sono affezionato come già vi ho detto. La vista scappa a cannocchiale verso le montagne della terraferma e viene rovesciata all’indietro dall’esplosione delle nuvole raffigurate con un gesto pittorico che prende spunto dal miglior Guardi e anticipa l’action painting. Turner è affascinato da Venezia, dalla sua luce. Ma lo è forse ancor di più dal suo estremismo: Venezia dopo il Congresso di Vienna verserà in condizioni drammatiche di povertà e di annullamento dei commerci, passati per volontà austriaca a Trieste. La ribellione serpeggia e porterà ai fatti del 1848-49 quando la rivolta verrà guidata dagli intellettuali, da Manin a Tommaseo. “Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca”. E infatti Turner racconta una Venezia dove le imbarcazioni di alto tonnaggio sono scomparse, una sorta d’India dei suoi tempi che lui visita come luogo dello spirito, come percorso dell’evasione. Evasione anche quella di Caspar David Friedrich, nell’infinito delle dune di fronte all’isola di Rügen. Due cieli a confronto, quello caldo dell’Adriatico superiore, quello freddo e grigio dipinto intorno al 1810 nel mare del Nord. Un monaco che guarda l’orizzonte, pensoso. Un mare minaccioso, una luce tetra anch’essa raffigurata con pennellate fortemente anticipatrici. Ma l’anticipazione più interessante di questo manifesto romantico è proprio la piccola immagine del monaco nella vastità dell’ambiente: ritroveremo il medesimo personaggio nella prima pittura di Giorgio de Chirico.

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CASPAR DAVID FRIEDRICH

MONACO

PRESSO IL MARE

1808-1810, olio su tela, cm 110x171,5, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie

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uesto ambiente collega l’anticamera-atrio con la parte sinistra della casa e direttamente con il Petit Salon. Una porta a filo muro permette anche di passare nel Grand Salon. Al mattino, nell’odore di fumo da sigaro stantio, non è sempre accogliente, o assume un sapore virile che non s’addice ad altro che al passarci furtivi verso la stanza successiva. Di sera diventa estremamente avvolgente e spesso ai due piccoli tavoli verdi da gioco gli ospiti si attardano fino all’alba. Il biliardo centrale, di tipo italiano, consente alcune partite sofisticate a stecca, ma è preferibilmente usato a boccette. L’illuminazione del tavolo da biliardo è tuttora quella d’un lampadario tecnico rigorosamente a gas con tre palle in abat-jour di vetro doppio lattimo e verde; non è un vezzo, ma dà alle bocce d’avorio una tonalità tenera che entra in sintonia con l’incarnato delle signore che giocano a carte alla luce di candelabri d’argento. D’altronde i giocatori e le giocatrici non sono sempre di primo pelo e si sa che la nuit, tous les chats sont gris. L’illuminazione elettrica viene usata solo per le pulizie. L’ironia, la curiosità e il culto apotropaico sono necessari a ogni tipo di dialogo con l’azzardo.

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Sir Henry Raeburn, e Jean-BaptisteSiméon Chardin

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i guardano praticamente in faccia, il giovane aristocratico francese che usa le carte piegandole per farne castelli e il reverendo che in una fredda giornata si diverte a pattinare. Sono praticamente coevi, settecenteschi. Il reverendo sembra divertirsi ben di più, lui membro del primo club di pattinaggio della storia, dalle parti fredde di Edimburgo, verso Duddingston o Lochend. Ammiro la sua sottile scarpetta da ballerino sulla quale sono fissate le lame dei

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DA GIOCO E DELLE CURIOSITÀ

pattini con la medesima stringa di cuoio rosso che piaceva a Federico da Montefeltro sulla sua armatura. E lui i segni sul ghiaccio, graffi testimoni della sua abilità rotatoria, li ha lasciati con fierezza. È una epoca questa, come già abbiamo visto, dove la pittura indaga con attenzione scientifica la realtà, e dove i nasi tendono a essere a punta. Qualità che ritrovo di nuovo in Chardin, nella descrizione perfetta del legno curvato che forma il bordo del tavolo da gioco.

HENRY RAEBURN

IL REVERENDO WALKER DUDDINGSTON

PATTINA SUL LAGO

1795, olio su tela, cm 76,2x63,5, Edimburgo, National Galleries of Scotland, Scottish National Gallery

JEAN-BAPTISTE-SIMÉON CHARDIN

GIOCATORE

DI CARTE

1737, olio su tela, cm 82x66, Firenze, Galleria degli Uffizi

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L’America

pp. 184-185 FREDERIC EDWIN CHURCH

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ICEBERG

1861, olio su tela, cm 163x285, Dallas, Dallas Museum of Art FREDERIC EDWIN CHURCH

STAGIONE

DELLE PIOGGE AI TROPICI

1866, olio su tela, cm 142,9x214, San Francisco, Fine Arts Museums

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rederic nasce nel 1826 e muore nel 1900. È innegabilmente il rappresentante più noto della Hudson River School, l’unico movimento di pittura americano che appartiene ancora alla pittura classica e non pone piedi nella modernità. Affascinato come tutti gli americani dalla forza infinita della natura, prova del percorso sublime creativo dell’Onnipotente, parallelo al culto poetico di Emerson per la natura, i suoi soggetti stupiscono con facilità centocinquant’anni dopo. Anche perché il mondo intatto che egli ebbe la fortuna di vedere è ormai definitivamente scomparso nella catastrofe

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ecologica coltivata dai suoi discendenti. Il ghiaccio dell’iceberg non è solo simbolo d’un Nord lontano e affascinante, è anche dura minaccia, come si evince dal relitto incagliato che ricorda, romantico e disperato, alcuni relitti di Friedrich. La luce rosa e azzurra ha curiose parentele con quella ricercata da quell’altro romanticone viaggiatore del Turner. Il quadro è monito per ogni giocatore che in questa stanza si fida troppo della buona sorte. È invece equilibrato dal dipinto tropicale dove l’arcobaleno esalta l’umidità perenne e stimola gli astanti a sopportare il fumo dei sigari Avana.

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Piccola collezione di curiosità a onore delle Wunderkammer

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’incentra la parete sul più noto dei trompe-l’oeil che il barocco ci abbia consegnato. Di lui, dell’autore Domenico Remps, si sa poco o nulla, se non che probabilmente era un tedesco che come Dürer arrivò a Venezia, ma a differenza del grande maestro non tornò più a casa. Il dipinto è probabilmente dell’ultimo decennio del Seicento. Testimonia al contempo due pratiche ugualmente degne di nota. Il collezionismo di curiosità trae la sua origine dalle passioni antiquariali che gli umanisti del Quattrocento portarono alla voga come necessità di stimolo della loro bulimia di sapere: non si sapeva senza possedere. Diventa addirittura icona il collezionista con il ritratto di Lotto. Diventa necessità maniacale per Rodolfo II che fugge dalle responsabilità politiche dell’impero per rifugiarsi nel suo castello di Praga, dove cerca la pietra filosofale, assume alchimisti d’ogni provenienza e, già che c’è, alleva cervi nel fossato mentre raccoglie denti di narvalo in camera da letto. Lui, il Rudolf, era il risultato del matrimonio fra cugini e forse, come in Cent’anni di solitudine, si sarebbe accontentato di nascere con il codino di maiale se suo padre non fosse stato Massimiliano II, il viennese figlio di Ferdinando I, che si prese la corona di Boemia e quella pure dell’Impero dopo le dimissioni del fratello Carlo V, e sua madre la figlia di Carlo V e di Isabella del Portogallo, la bellissima e cattolicissima ritratta da Tiziano e da Pompeo Leoni. Aveva quindi una sola coppia di bisavoli in Filippo d’Asburgo il bello, proprietario del marchio del Toson d’Oro, e in Giovanna di Castiglia, la figlia de los reyes católicos. Di questo complesso bagaglio ereditario ebbe in regalo il mento allungato d’una masticazione inversa dal quale si riconobbe per vari secoli ogni appartenente all’augusta casata. E a furia di masticare all’incontrario cadde in una perenne melanconia depressiva che solo il collezionismo estremo riusciva a curare. È lui il padre riconosciuto mondialmente della Wunderkammer. La Wunderkammer richiede un’appenditura complessa e integrata, come ben testimoniano alcuni dipinti d’epoca. Ma richiede pure il secondo punto indicato dal dipinto di Remps, quella sorpresa necessaria che fu codificata dai versi di Giovan Battista Marino: “…è del poeta il fin la me-

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raviglia…” che fa di quest’ultimo, protagonista nella corte di Urbano VIII, il primo teorico d’un barocco che, secondo Benedetto Croce, ebbe il suo capolavoro in Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille di Giambattista Basile (1575-1632), quel Pentamerone che vi fu inutilmente inflitto al liceo. Non tutti i barocchi sono napoletani e non tutti si chiamano Giambattista, ma quasi. Tutti però son moderni, e il Pentamerone, pubblicato attorno agli anni ’40, precede di poco i Contes di Charles Perrault, l’avvocato diventato

Lorenzo Lotto, Andrea Odoni , 1527, olio su tela, cm 104,6x116,6, Londra, The Royal Collection pp. 190-191 DOMENICO REMPS

SCARABATTOLO 1675, olio su tela, cm 99x137, Poggio a Caiano, Museo della natura morta

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scrittore modernista che Colbert mise a capo della politica letteraria del Re Sole, avvocato fratello del medico diventato architetto Claude Perrault, progettista del Louvre. E Remps riassume la necessità di sorpresa nei vetri rotti della sua vetrinetta. Trattasi di sublime gioco intellettuale che discende da spirito scientifico, attenzione per l’osservazione e gusto coltivato per la curiosità. Una curiosità naturalmente cosmopolita che colpisce anche il fiorentinissimo e neoplatonicissimo Michelangelo se è vero, come sembrerebbe, che egli copiò a olio l’incisione di Martin Schongauer sulle Tentazioni di sant’Antonio, recependo uno spirito nordeuropeo che diventerà dirompente con la discesa dei lanzichenecchi di Carlo V in Italia, a tal punto da influenzare quel giovane genialoide di Parmigianino, che dipingerà delle vergini savie e folli come quelle di Strasburgo e si farà un autoritratto da alchimista guardandosi nello specchio convesso.

pp. 192-193: 1. ULISSE ALDROVANDI

R INOCERONTE xvI secolo, acquarello su carta, Bologna, Biblioteca universitaria, Fondo Ulisse Aldrovandi, Tavole: animali, vol. 1, c. 91

6. JOHANN GEORG HAINZ

12. ALBRECHT DÜRER

K UNSTKAMMER

L EPRE

1666, olio su tela, cm 114,5x93,3, Amburgo, Kunsthalle

1502, acquarello su carta, cm 25,1x22,6, Vienna, Graphische Sammlung Albertina

7. JAN VAN KESSEL

13. JAN VAN KESSEL

INSETTI

INSETTI

E FRUTTI

1653, olio su rame, cm 11x15,5, Collezione privata 2. ALBRECHT DÜRER

R INOCERONTE

8. MICHELANGELO

1515, incisione

T ENTAZIONI

3. ULISSE ALDROVANDI

1487-1488, olio e tempera su tavola, cm 47x35, Fort Worth (TX), Kimbell Art Museum

LA

DI SANT ’A NTONIO

DONNA - DRAGO

XVI secolo, acquarello su carta, Bologna, Biblioteca

9. GIOVAN FRANCESCO CAROTO

universitaria, Fondo Ulisse Aldrovandi, Tavole: animali, vol. 5-1, c. 84,

F ANCIULLO

CON DISEGNO DI PUPAZZO

prima metà del XVI secolo, olio su tavola, cm 37x29, Verona, Museo di Castelvecchio

4. DAVID TENIERS IL GIOVANE

L’ARCIDUCA LEOPOLDO GUGLIELMO D ’AUSTRIA SUA GALLERIA D ’ ARTE A B RUXELLES

E FRUTTI

1636-1679 ca, olio su rame, cm 11x15,5, Amsterdam, Rijksmuseum 14. JAN VAN KESSEL

INSETTI

E FRUTTI

1653, olio su rame, cm 11x15,5, Collezione privata 15. ALBRECHT DÜRER

LA

GRANDE ZOLLA

1503, acquarello e guazzo, cm 41x31,5, Vienna, Graphische Sammlung Albertina

10. DOMENICO REMPS

16. JAN BRUEGEL IL VECCHIO

S CARABATTOLO

TOPO

1651, olio su tela, cm 123x163, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie

1675, olio su tela, cm 99x137, Poggio a Caiano, Museo della natura morta

1636-1679 ca, olio su rame, cm 11x15,5, Amsterdam, Rijksmuseum

5. PIETER BRUEGEL IL GIOVANE

11. PARMIGIANINO

IL

Autoritratto allo specchio, 1523, olio su tavola emisferica, Ø cm 24,4, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie

NELLA

RUSCELLO

1564-1637, tempera su tavola, Ø cm 16,5, Praga, Národní Galerie

E ROSA CON FARFALLA

p. 194 Alonso Sánchez Coello,L’arciduca Rodolfo, 1567, olio su tela, Londra, The Royal Collection

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opo la Wunderkammer per letterati vi invito a passare all’altra camera delle meraviglie, quella dei fornelli e delle padelle. Allo stanzone delle cucine, per via del suo ruolo assolutamente centrale nella casa e nella vita, si accede per quattro strade diverse: quella segreta della scala a chiocciola, quella normale nell’atrio, dietro a un porta a raso muro, quella che percorrono solo i vassoi grazie a un passavivande a montacarichi, sufficientemente grande da potere anche trasportare un inserviente, infine quella che passa dai misteriosi corridoi del seminterrato e che consente un facile trasporto delle complesse materie prime. Al centro della cucina un grande tavolo di lavoro con un piano di marmo di Carrara consumato dai coltelli. Sulla parete lunga del muro esterno un forno a legna necessario al pane, ai grandi arrosti e, mentre si raffredda, alle meringhe. Di fronte un vasto camino ad altezza di lavoro con un focolare a muro dove le legne profumate bruciano in una gabbia di ferro battuto, lasciando davanti lo spazio al lento e inesorabile movimento del girarrosto. Piccoli contenitori laterali per le braci che servono a padelle e casseruole. Abbiamo concesso anche la presenza di alcuni

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1580, olio su tela, cm 145x215, Milano, Pinacoteca di Brera (pp. 201, 202, particolari)

fuochi a gas, nonché quella tecnomaniaca di cinque piastre di vetro a riscaldamento elettrico. È assolutamente escluso il forno a microonde.

Far bene la spesa è metà del cucinare…

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VINCENZO CAMPI

FRUTTIVENDOLA

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i rendiamo raramente conto di ciò che poteva essere l’alimentazione prima della rivoluzione fisiocratica settecentesca che introdusse nella vita quotidiana il pomodoro, lo spaghetto, la patata e che diede finalmente retta ai dettami, fino ad allora poco seguiti, di san Carlo Borromeo che promuoveva il granturco. Era d’obbligo il cavolo. Le prime nature morte, precedenti addirittura le invenzioni caravaggesche, sono quelle di Vincenzo Campi, non per niente cremonese, se si ricorda che la città di Cremona era nel Cinquecento più popolosa di Londra e ch’era essa la più ricca centrale d’alimentazione nella più ricca parte d’Europa, la Lombardia. La sua Fruttivendola, leggermente fiera e imbarazzata, s’è vestita per la festa e propone il campionario completo di ciò che la campagna fornisce attraverso le stagioni, dalle cerese (ciliegie da sempre note) ai perzigh

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Fede Galizia, Natura morta con pesche, 1600-1605, olio su tavola, cm 30x42, Collezione privata

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(le pesche da poco introdotte dalla Persia e chiamate allora pomus persicus), quelle che ritroveremo identiche nei dipinti intellettuali della Fede Galizia. Ci ritrovo le antiche fave che Pitagora aveva bandito da Crotone perché soffriva di favismo, la loro versione moderna che sono i piselli. Ci rivedo i fichi delle nature morte amate dai romani antichi, quelli che fecero nascere il ficatum, foie gras primordiale da ingozzo di fichi che il cosmopolitismo dell’impero aveva scoperto nella dieta ebraica, e poi esportato nelle province lontane dell’Aquitania, oggi Périgord, della Gallia belgica, oggi Alsazia, e dell’Illiria, oggi Ungheria. E ci rimarco il murun, il gelso del quale la foglia era ghiottoneria per i bachi da seta, mentre il frutto lo era per i bimbi. Poi rieccola

IL MUSEO IMMAGINATO

— C UCINE

in cucina, la serva vestita chic che s’è cambiata d’abito. Il menu è lombardo e completo: radici, carote e cavoli, pesci rigorosamente d’acqua dolce nel fondo di botte, carpa, tinca, luccio, mentre sul tavolo è arrivata una fornitura marina, in mezzo alla piccola cacciagione di pennuti e un cinghialetto. Il dipinto ha una evocazione evangelica, perché narra la cucina dove Marta è al lavoro e dove Gesù viene a farle i complimenti per l’opera. Il quadro è sicuramente appartenuto a un collezionista al contempo colto, devoto e ben fornito. Lo vide sicuramente Adriaen van Utrecht, che passò in Italia pochi anni dopo, e mise dietro alla sua esposizione il medesimo camino con una Marta diventata cuoca. Gli alimenti

VINCENZO CAMPI

CRISTO

IN CASA DI

MARTA

E

MARIA

1580 ca, olio su tela, cm 130x186, Modena, Galleria Estense

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IL MUSEO IMMAGINATO

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sono gli stessi nella Bassa della Lombardia e nelle Province Basse. Anche Snyders passò a Milano, a servizio presso il cardinal Federico in quei primi anni del Seicento. Mi vien il dubbio che abbiano i due futuri olandesi visto i Campi nella stretta cerchia del cardinale, anzi addirittura accarezzo l’ipotesi che li abbian visti nella sua augusta cucina. Snyders partecipa a un mondo in ribellione politica che approva il barocco solo fra i fornelli, ma lui è di professione cattolica, amico di van Dyck e fornitore di fiori dipinti di Rubens, e avrà come migliore cliente Alberto d’Austria, governatore dei Paesi Bassi spagnoli. La sua esposizione di cacciagione ne è prova evidente, col prelibato pavone pronto alla pentola e il biancore dirompente del cigno, che era allora cibo altrettanto apprezzato, talmente ricercato che nell’Inghilterra successiva fu dichiarato specie protetta ottenendo il titolo di royal game, cacciagione riservata alla sola corona, quindi infine a nessuno. Due dettagli per chi soffre di passione iconologica: sulla destra la ciotola Campi-Galizia con limoni e cipolle, sulla sinistra, poiché non v’erano ancora i solerti bretoni di Parigi che aprono le ostriche col coltellino, una rude pinza. A riprova della tesi lombarda, la cameriera è analoga, in veste e gote rosse d’Olanda. Cambia tutto quando Snyders si occupa di pesci. Qui la citazione del pranzo successivo di Babette diventa palese. I mari del Nord forniscono pesci formidabili, la razza enorme e grassa che aspetta il suo burro ADRIAEN VAN UTRECHT

I NTERNO

DI CUCINA CON NATURA MORTA

E DONNA PRESSO IL CAMINO

1620, olio su tela, cm 158,8x210,8, Collezione privata

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IL MUSEO IMMAGINATO

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pp. 206-207 FRANS SNYDERS

DISPENSA 1620, olio su tela, cm 170x290, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts, Musée d’Art ancien

FRANS SNYDERS

IL

MERCATO DEL PESCE

1620-1630, olio su tela, cm 225x365, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie

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fuso al nero per assumere un sapore leggermente acidulo, crostacei d’ogni tipo e una foca che disperatamente abbaia conscia del suo terribile destino. Pescatori concentrati e consci, lui con la barba fiorita di Carlo Magno, Karl Marx e Jean Blanchaert, il quale proviene da Gand, mentre Snyders proviene da Anversa. Intanto a Napoli continua a lievitare lo spirito barocco, ovviamente coi Giovan Battista, il Ruoppolo con le sue frutte, il Recco con i suoi fiori. Ma forse il più significativo dei Recco è Giuseppe. I suoi pesci sono il campionario opposto a quello appena visto. Hanno del Mediterraneo il mistero profondo che già i greci avevano rivelato per i palati latini, tutto si fa elegantemente viscido e viene riscattato dalle contorsioni del corallo rosso.

IL MUSEO IMMAGINATO

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e lo insegna Recco, l’atmosfera della cucina deve essere crepuscolare. L’odore della fuliggine permanente, umido e acre come nella cucina di Gerolamo Induno. È quella una casa prerisorgimentale che ha conosciuto tempi migliori, quando l’Austria non imponeva una tassazione che rese la vita dei signori di campagna frugale oltre i limiti del perbenismo e spinse i loro figli a indossare la camicia rossa del riscatto. È un dipinto che potrebbe di primo acchito sembrare ovvio nella sua stesura verista. È invece capolavoro commovente, coi polli sulla sinistra, la chiave appesa e la gabbia del canarino. Sulla destra, se guardate bene, scorgerete una piccola serie di nature morte di potente intensità, che hanno un forte richiamo a quelle di Chardin e da queste sembrano avere imparato l’intuito dei materiali. Gerolamo Induno partecipò all’epopea

C

L’atmosfera della cucina

GIUSEPPE RECCO

PESCI post 1683, olio su tela, cm 132x170, Collezione privata

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suo ambiente, come se gli stimoli alimentari su di lui non avessero alcun effetto. Il Van Dyck della generazione precedente, il Floris, era ben diverso: sembra quanto lui già influenzato dall’Italia, ma in versione rigida. In trent’anni si passò dai formaggi alla seta. Anton Van Dyck ruppe la tradizione casalinga. Nato ricco borghese, si scoprì immediatamente anche ricco di talento e fantasia. La famiglia di commercianti di sete ad Anversa lo sostenne. A quindici anni aveva praticamente già bottega con Jan Brueghel il Giovane, figlio di Jan il Vecchio, quello del Borromeo. Il suo autoritratto da giovane sembra un dipinto di due secoli dopo, romantico e britannico; il suo ritratto a trent’anni suonati la dà da bere a Salvador Dalì. Per lui la conversione italiana è barocca. Il successo successivo ne fece il ritrattista più pagato d’Europa, così opulento da offrire a disposizione dei suoi clienti le sete per farli posare. Se penso che nel secolo precedente Tiziano invece tendeva a tenere lui le vesti sontuose dei suoi, di clienti, e che il duca d’Urbino

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IL MUSEO IMMAGINATO

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protestò a lungo per farsi restituire i damaschi e le armature! La natura morta di Floris è l’opposto, per quanto parta anch’essa dalle citazioni italiane precedenti. La tovaglia di questa composizione merita una lunga attenzione, sia rispetto alla qualità pittorica che all’abilità del tessitore, la miglior Fiandra possibile. La ciotola con natura morta ricorda i milanesi, il bicchiere è un prototipo di casa sua, le olive sono internazionali, il formaggio proprio quello di Gouda. Il rigore di questa natura morta è prova dell’esistenza d’un genere che si stava affermando e che aveva le proprie regole, fra Italia e bodegón spagnolo. Era il primo tentativo di far nascere l’arte astratta, e se non astratto era il soggetto, dell’arte astratta il dipinto aveva tutto il ritmo compositivo. Si erano cimentati in modo eccellente il Sánchez Cotán, con composizioni dove il contrasto fra realtà e irrealtà, fra concreto e astratto, era addirittura affidato all’artifizio dell’ortaggio appeso, e talvolta anche lo Zurbarán, che poneva i suoi santi esaltati in contrappunti mentali quanto lo erano gli elenchi dei suoi oggetti.

FRANCISCO DE ZURBARÁN

N ATURA

MORTA CON VASI DI CERAMICA

1650, olio su tela, cm 46x84, Madrid, Museo Nacional del Prado

p. 212 FLORIS CLAESZ. VAN DIJCK

N ATURA

MORTA CON FORMAGGI

1615 ca, olio su tavola, cm 82,2x111,2, Amsterdam, Rijksmuseum Antonie Van Dyck, Autoritratto da giovane, 1614, olio su tavola, cm 26x20, Vienna, Akademie der Bildenden Künste, Gemäldegalerie Antonie Van Dyck, Autoritratto con girasole, 1633, olio su tela, cm 60x73, Collezione privata

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JUAN SÁNCHEZ COTÁN

V ERZA

APPESA

1602, olio su tela, cm 69x84,5, San Diego, The San Diego Museum of Art

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JUAN SÁNCHEZ COTÁN

CARDI 1603-1627, olio su tela, cm 62x82, Granada, Museo de Bellas Artes

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I pavoni e la tenerezza infantile arebbe bello, ma forse troppo impertinente, immaginare che Rembrandt abbia visto i putti raffaeleschi della Madonna di Dresda e in un momento di sconsiderata crudeltà abbia rovesciato le loro alucce per farne quelle dei pavoni uccisi che lasciano colare il sangue sullo stesso piano sul quale loro appoggiano le braccine. Certo che questo si trova a essere il dipinto più eccentrico da appendere in cucina, ma corrisponde a un talento effettivo del grande olandese, che è quello d’interessarsi per la prima volta all’infanzia con un occhio vero e indagatore, e con un affetto corrispondente. Troverete la medesima simpatia umana nella sua Sacra Famiglia.

S

REMBRANDT

P AVONI

MORTI

1636 ca, olio su tela, cm 144x134,8, Rijksmuseum, Amsterdam Raffaello, Madonna Sistina, particolare, 1513 ca, olio su tela, cm 265x196, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie Alte Meister Rembrandt, Sacra Famiglia, 1645, olio su tela, cm 117x91, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage

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Il mangiatore di fagioli

ANNIBALE CARRACCI

M ANGIATORE

DI FAGIOLI

1584, olio su tela, cm 57x68, Roma, Galleria Colonna

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l brodo gli cola dal cucchiaio, le unghie sono nere. Non si potrebbe essere più pop di così, se non fosse che nella generazione precedente Vicenzo Campi (I mangiatori di ricotta) già ci aveva provato, e che in quelle successive, dal Pitocchetto a Todeschini, questo genere di rappresentazione sarebbe piaciuto alla nobiltà in parrucca quando scendeva nelle cucine ad assaggiare i sughi.

I

IL MUSEO IMMAGINATO

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l tema analogo, trattato poco dopo da Velázquez, passa dal realismo alla realtà. Il suo bevitore ubriaco, se siete sensibili, vi suggerisco di guardarlo da lontano, perché se vi avvicinate troppo sentirete, mescolato al sentore di sudore, l’odore del vino, e vi garantisco che non è di alta qualità. In cambio la scena è degna del miglior cinema recente. Nulla è falso, neppure il bacchino che è certo parente di quello visto da Velázquez in casa del nostro caro cardinal Scipione Borghese e dipinto da Caravaggio. Ma questo bacchino è in perfetta salute, benché totalmente equivoco e proletario alla Pasolini, con quel suo collega dallo sguardo complice che lo induce a far compiere all’incoronato inginocchiato un gesto che tutto è fuorché presentabile. Una sensualità arcana e pagana in piena epoca di gentiluomini curati, fidati e credenti.

I

La cantina dei vini

DIEGO VELÁZQUEZ

TRIONFO

DI

B ACCO

1628-1629, olio su tela, cm 165,5x227,5, Madrid, Museo Nacional del Prado

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lla grande balconata si accede dalla doppia scala dell’atrio, quella che sulla sua piccola balconata lascia pure il passaggio, dai due lati, alle camere da letto. In centro a questa piccola balconata v’è una larga porta a quattro ante la quale, una volta aperta e ripiegata, lascia uno spazio cortese fra i due calpestii e invita con naturalezza a visitare la collezione appesa nella grande balconata. Questa guarda dall’alto sul Grand Salon, ha un’area di passeggio, nella parte lunga della stanza, larga a sufficienza per consentire l’andirivieni del pubblico, poi si fa più ampia sui due lati corti dove si articola in un elegante arco di cerchio che ospita talvolta una o due orchestre da camera per allietare gli ospiti nei ricevimenti di riguardo. Il soffitto è decorato a stucchi, ma poiché nel progetto si è da un lato tornati al disegno assolutamente classico dello spazio, non si è tuttavia voluto scivolare in citazioni falso-storiche e reazionarie. Il disegno degli stucchi è quindi stato affidato alle mani sapienti del professor Francesco Amendolagine, il quale, perpetuando gli intrecci a canestra settecenteschi così ben ripresi da alcuni decori di Gio Ponti, ne ha restituito una declinazione perfettamente contemporanea. Dal soffitto pendono tre grandi lampadari muranesi realizzati, quelli estremi in color grigio perla

A

PIERO DI COSIMO

SIMONETTA V ESPUCCI 1490 ca, olio su tavola, cm 57x 42, Chantilly, Musée Condé (p. 227, particolare) LEONARDO DA VINCI

DAMA

CON ERMELLINO

1488-1490, olio su tavola, cm 54,8x40,3, Cracovia, Czartoryski Muzeum (p. 226, particolare)

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da Massimo Micheluzzi con l’aiuto del maestro vetraio Andrea Zilio, quello centrale dalla sorprendente Maria Grazia Rosin con Pino Signoretto. I lampadari prevedono tuttora il saliscendi che consente di integrare la loro illuminazione elettrica con il classico mazzo di candele di cera, il che innegabilmente piace molto agli ospiti, specialmente alle signore, che reputano quest’illuminazione particolarmente adatta a esaltare la tinta dei loro incarnati. Il resto dell’illuminazione è tecnologico e serve alla migliore visione delle opere appese. La raccolta di ritratti la troverete in molti musei. Le appenditure di ritratti sono poi pratica corrente in molte case importanti, talvolta raffiguranti gli antenati veri e propri,

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talvolta attribuendoli a casate più recenti e anche più fortunate. La pratica qui seguita è radicalmente diversa. Questa collazione di immagini si fonda su due principi. L’uno, facile da capire, è puramente legato alla potente qualità della pittura. L’altro invece corrisponde a un desiderio di classificazione antropologica dei nostri antenati europei. Quindi è soprattutto il criterio della curiosità che ci ha guidato.

a virilità del maschio occidentale è a tutti molto nota. Fu egli guerriero, pensatore, rivoluzionario, e assai repressore delle sue femmine. Queste, secondo la loro condizione sociale e in modo ben diverso secondo l’evolversi

L

Primo nucleo: maschi e femmine

RAFFAELLO

DAMA

CON

L IOCORNO

1506 ca, tela, trasporto da tavola, cm 65x51, Roma, Galleria Borghese (p. 227, particolare)

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IL MUSEO IMMAGINATO

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delle stagioni della storia, hanno avuto diritto al potere del fascino, alla libertà della loro autonomia raramente, al potere sottile sempre. Troverete immediatamente, appena volgete i vostri passi verso la sinistra, tre ritratti commoventi dell’Italia rinascimentale. Piero di Cosimo ritrae la famosissima Simonetta Vespucci, a seno nudo (il che talvolta nelle feste medicee poteva veramente avvenire). Lei, Simonetta Cattaneo de Candia, figlia di banchieri genovesi e sposa a un Vespucci banchiere fiorentino, fece impazzire tutta Firenze, dai pittori che la ritrassero (forse è lei la modella della Primavera e della Nascita di Venere, che sono appese qui sotto) fino al Giuliano fratello di Lorenzo. Dipinta qui da Cleopatra con l’aspide al collo, morì di tisi nel 1476 mentre il suo spasimante Giuliano fu accoltellato nella congiura de’ Pazzi due anni dopo ancora. Tutto raccontato nelle nuvole dello sfondo? Il parallelo politico di Lorenzo il Magnifico è innegabilmente Lodovico il Moro. Erano amici e alleati e avevano in comune il segreto della politica italiana: il loro potere si fondava non sull’autorità sancita ma sull’autorevolezza. A dir il vero, l’inventore della formula fu Cosimo il Vecchio, quello che possedeva in città ben ventisette banchi, e che Philippe de Commynes, il cronista di Luigi XI, definiva così ricco che solo la pompa gli mancava per essere re. Il Vecchio rimase

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FRA’ GALGARIO,

C AVALIERE

DELL ’ ORDINE COSTANTINIANO CON TRICORNO ,

1745, olio su tela, cm 109 x 87, Milano, Museo Poldi Pezzoli (p. 231, particolare) JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES

LOUIS-FRANÇOIS BERTIN 1832, olio su tela, cm 116x95, Parigi, Musée du Louvre (p. 230, particolare)

HANS HOLBEIN IL GIOVANE

B ONIFACIO A MERBACH 1519, olio su tavola, cm 29,9x28,3, Monaco, Alte Pinakothek, Staatsgemäldesammlungen

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tutta la vita un normale membro del Concilio dei Cento. Suo nipote non ebbe mai carica ufficiale nella Repubblica, nondimeno era chiamato signore di Firenze. Lo stesso per il Moro, che teneva il duca vero e proprio, suo nipote Gian Galeazzo Maria, libero di bere e andare a caccia a Pavia, mentre lui, dopo avere fatto mozzare la testa al Cicco Simonetta, consigliere della reggente Bona di Savoia, governava di fatto e con pugno deciso. Si sposò nel ’91 con Beatrice d’Este, e Leonardo organizzò una regia della festa di cui si parla ancora, dopo di che dipinse con la medesima attenzione il ritratto della di lui amante, Cecilia Gallerani. Se in mano tiene un ermellino, lei sembra realmente un furetto. Quant’è più dolce la ignota signora, sicuramente legata a un potere oscuro, che ha ancora quelle labbra che Raffaello imparò a dipingere dal Perugino, che ne era ossessionato, essendo quelle della moglie. Eppure il dipinto ha già quella misteriosa atmosfera extra reale che non è metafisica nel senso adriatico della tradizione umbro-

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ferrarese perché maturata nel sogno della buona letteratura del palazzo di Urbino. Il palazzo ferrarese di Schifanoia è pieno di unicorni che sono lì simboli apotropaici e garanti di acque pure che fanno sgorgare. La spiegazione del liocorno qui presente cambia come al solito da esegeta a esegeta; c’è chi lo trova simbolo di purezza verginale (ovviamente della signora ritratta); c’è chi sostiene che sia ella, vergine, ad averlo addomesticato e che il rubino che le pende al collo sta a significare che d’ora in poi della verginità potrà fare a meno. Sopra a queste tre vere donne, tre veri uomini. Difficile trovare cavaliere più losco di quello raffigurato da Fra’ Galgario, o forse addirittura è perverso. Difficile trovare borghese più autocosciente dell’editore Bertin raccontato dal pennello preciso di Ingres, e altrettanto difficile trovare giovane romantico che affronti il destino dell’esistenza con altrettanta consapevolezza. Si tratta di Bonifacius Amerbach, figlio d’una delle più prestigiose famiglie di edito-

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ri a Basilea all’inizio del Cinquecento, diventerà giurista e umanista, perfino musicista, in quella che fu la più liberale delle città d’Europa, patria elettiva di Erasmo. E quindi non ho potuto esitare ad appendere in cima alla raccolta l’esempio più potente di quella borghesia, nella sua fase di dedizione all’interesse pubblico, il ritratto del borgomastro di Basilea, Jakob Meyer, dal cognome banale (il major di ogni corte contadina, il fattore in altre parole, e come tale il cognome più diffuso nel mondo germanico) e dalla faccia di Depardieu, e di sua moglie, non troppo allegra, la Dorothea Kannengießer, dal cognome altrettanto normale (= lattoniere). Li ho posati sotto la coppia opposta, quella del duca di Montefeltro, Federico, e di sua moglie Battista Sforza, figlia di Alessandro, signore di Pesaro, nella stesura aulica e sempiterna di Piero della Francesca.

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PIERO DELLA FRANCESCA

DITTICO DEI D UCHI BATTISTA SFORZA,

DI

URBINO,

1474 ca, olio su tavola, cm 47x33, Firenze, Galleria degli Uffizi HANS HOLBEIN IL GIOVANE

IL

BORGOMASTRO JAKOB MEYER HASEN

tavola sinistra di un dittico, 1516, olio su tavola, cm 38,5x31, Basilea, Kunstmuseum

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IL MUSEO IMMAGINATO

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PIERO DELLA FRANCESCA

D ITTICO DEI D UCHI DI U RBINO , F EDERICO DA M ONTEFELTRO , 1475 ca, olio su tavola, cm 47x34, Firenze, Galleria degli Uffizi HANS HOLBEIN IL GIOVANE

DOROTHEA KANNENGIESSER tavola destra di un dittico, 1516, olio su tavola, cm 38,5x31, Basilea, Kunstmuseum

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Le coppie improbabili

e coppie che abbiamo appena ammirato ci spingono alla fantasia di immaginare coppie improbabili, quando la pittura stessa compie la magia degli accostamenti.

L

1. Due parmigiani che non si sono forse mai incontrati se non nella pittura di Parmigianino, ma che già sanno che Parma è il centro del mondo. Lei, giovanissima, ha l’aspetto preoccupato assai, imbarazzata addirittura per un certo verso. La spiegazione potrebbe essere duplice. Da un lato, quella sto-

PARMIGIANINO

R ITRATTO

DI

A NTEA “LA BELLA”

1535, olio su tela, cm 135x88, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

PARMIGIANINO

R ITRATTO

DI UOMO CON LIBRO

1524 ca, olio su tela, cm 70x52, York, York Museums Trust

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IL MUSEO IMMAGINATO

— G RANDE G ALERIE

rico-antropologica, vi potrà apparire scurrile: ella tiene sulla spalla quella pelliccia da animaletto che i tedeschi chiamavano Flohpelz, cioè la pelliccia che per via dei suoi peli, più morbidi di quelli umani, attirava le pulci che correvano sulla testa della vittima e poi veniva sbattuta per allontanare i fastidiosi animaletti. Dall’altro, quella della nostra fantasia: lei spera d’incontrare lui, che ha alzato lo sguardo dal libro che legge, in una stanza misteriosa nella quale la sua severa poltrona è resa leggermente morbida da un tappeto d’Oriente.

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NICOLAS DE LARGILLIÈRE

R ITRATTO

DI UOMO CON MANTO DI PORPORA

1715, olio su tela, cm 79,5x62,5, Kassel, Museumslandschaft Hessen

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2. Non c’entra assolutamente nulla lui con lei, se non per l’atmosfera pittorica. Lui è gentiluomo di potere nella Francia del primo Settecento, e porta una parrucca tale da giustificare il successivo cambio della pettinatura per l’uso della futura ghigliottina. Lo ritrae il più abile dei barocchi francesi, Nicolas de Largillière. Lei è quasi di due secoli prima, ritratta da Domenico Theotokòpulos, detto El Greco. La questione curiosa è che questi due

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dipinti avranno nel XIX secolo destini paralleli. Il grande mercante d’arte parigino, Durand-Ruel, l’uomo che esporterà la fortuna degli impressionisti negli Stati Uniti e in Inghilterra, sarà pure promotore del gusto barocco francese per ricchi d’oltre Atlantico, e passerà una parte della sua vita commerciale a sanare i buchi dovuti agli acquisti di contemporanei, essendo il maggiore rivenditore di dipinti del Greco.

EL GRECO

SIGNORA

CON PELLICCIA

1580 ca, olio su tela, cm 62x50, Glasgow, Pollok House, Stirling Maxwell Collection

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3. Charles Cecil Roberts, o Francis Bassett, comunque nobile inglese nel Grand Tour a Roma, viene colto dal ritratto di Pompeo Batoni in un momento di autentica malinconia. A poco gli vale la mappa della città per orientarsi nei sentimenti, e l’ambiguo cippo antico con l’abbraccio apparente di due uomini (quant’è maschile la matrona!) non lo convince ancor del tutto. Per lui l’Italia non è solo quella antica, ma anche quella del fascino rinascimentale, e lei, la Lucrezia Panciatichi (che brutto cognome, che nome invitante!) è l’innarivabile che lo porterebbe sulla retta via, algida, fiera, perfetta e forse pronta a sciogliersi nella commozione. In realtà il ritratto di lei, e la sua altera freddezza, voglion dire ben altro: sulle barrette della collana potrete leggere, da sinistra a destra sans fin amour dure sans. Lei è inserita in una nicchia, il rosso del vestito è quello della passione

POMPEO BATONI

R ITRATTO

DI GENTILUOMO IN GIACCA ROSSA

1778, olio su tela, cm 221x157, Madrid, Museo Nacional del Prado

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IL MUSEO IMMAGINATO

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di Cristo, e solo tramite questa si ritrova nella circolarità perenne del moto quel senso della vita illuminata che Juan de Valdés propagandava allora. Suo marito Bartolomeo l’umanista era nato ricco mercante a Lione, era diventato poi amicissimo di Cosimo I che in Francia presso il re lo aveva inviato ambasciatore. Lui ne era tornato calvinista e come tale, assieme alla moglie, fu arrestato a Firenze nel 1551 nell’affare Manelfi, il prete anabattista pentito che disse tutto, poi liberato in quanto la giustizia è come la pesca e “i pesci grossi forano sempre le reti”. Divenne quindi subito consigliere dell’Accademia Fiorentina degli Umidi e nel ’67 senatore. Queste informazioni segrete me le ha fornite Carlo Falciani, il quale ha appena scoperto assieme a Philippe Costamagna, a Nizza, il Cristo che apparteneva alla coppia e come i loro ritratti fu dipinto da Bronzino.

AGNOLO BRONZINO

LUCREZIA PANCIATICHI 1540-1541, olio su tavola, cm 102x85, Firenze, Galleria degli Uffizi

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LUCAS CRANACH IL VECCHIO

FEDERICO III E LETTORE

DI

S ASSONIA

1532, olio su tavola, cm 80x49, Vienna, Liechtenstein Museum

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4. Ben più disponibile la veneziana, o almeno così si dice lo sia stata per Dürer nel suo secondo viaggio in Italia quando la dipinse, dolcissima nei suoi boccoli biondi. Chissà che effetto avrebbe fatto all’elettore di Sassonia, il severo Federico III protettore di Martin Lutero, dipinto negli stessi anni dal concorrente Cranach? Federico era detto il Saggio, protesse la Riforma, e piaceva al contempo alla mente contorta di

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Leone X che lo candidò come imperatore in concorrenza a Carlo V. Ma fece proprio il saggio, continuò la sua missione, le sue letture di teologia, e si rifiutò di prendere moglie. Fu sepolto a Wittenberg nel 1525, nella chiesa dove il monaco agostiniano aveva affisso le sue novantacinque proposte poco tempo prima, dopo essersi fatto ritrarre parecchie volte sia da Dürer che da Cranach.

ALBRECHT DÜRER

RITRATTO

DI GIOVANE DONNA VENEZIANA

1505, olio su tavola di olmo, cm 33x25, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie

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REMBRANDT

R ITRATTO

DELLA MADRE COME PROFETESSA

ANNA

1631, olio su tavola, cm 60x48, Amsterdam, Rijksmuseum

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5. Protestanti e cattolici, riformati e controriformati, li ritrovo qui, nell’altra coppia impossibile sia per data che per luogo. Passa forse un secolo fra il vecchio e la vecchia, fra l’area bergamasca e l’Olanda calvinista passa un mondo. Eppure lui, l’amico del Moroni, con la barba grigia,

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la sedia, il libro e la pelliccia che allora erano nuove, ci sarebbe stato benissimo con lei, che ha un libro invece già antico e misterioso, lei, la madre di Rembrandt in versione profetessa Anna e messa in luce col rilievo d’un unico colpo di biacca.

GIOVAN BATTISTA MORONI

RITRATTO

DI VECCHIO SEDUTO

1575, olio su tela, cm 97x81, Bergamo, Galleria dell’Accademia Carrara

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IL MUSEO IMMAGINATO

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6. Sarebbe irriverente presentare una coppia di donne inglesi del Settecento se non ne fossimo stati autorizzati dalla pratica di vita di Bloomsbury nel primo Novecento, e dalle figure straordinarie che il mondo anglosassone ha consegnato alla storia, da lady Sackville-West a Virginia Woolf, fino alle intellettuali successive, Djurna Barnes e Romaine Brooks in testa. La signora di Gainsborough, Mary contessa di Howe, è dipinta nel 1760, quando stavano scrivendo il Beccaria, Voltaire, Winckelmann e Hamilton, tutti già citati. E sono convinto che a ella non importasse nulla, ma dalla grazia con la quale era usa a reggere il lembo del pizzo della gonna per rivelare la caviglia, la sapeva lunga. La signora di Sir Joshua Reynolds compie il gesto identico, ma è già inserita nel vento romantico, la lady Jane Halliday, erede degli zuccherifici di Antigua e passata alla cronaca per essere fuggita di casa con il fidanzato, generando poi una sequela di discendenti femmine che tutte scappavano di casa.

THOMAS GAINSBOROUGH

M ARY

CONTESSA DI

HOWE

1760 ca, olio su tela, cm 244x152,4, Londra, The Iveagh Bequest, Kenwood House

JOSHUA REYNOLDS

L ADY JANE H ALLIDAY 1779, olio su tela, cm 239x148,5, Waddesdon, Waddesdon Manor

245

I triplici ritratti

p. 247 TIZIANO

A LLEGORIA

DELLA PRUDENZA

1550-1565 ca, olio su tela, cm 75,2x68,6, Londra, National Gallery

LORENZO LOTTO

TRIPLICE

RITRATTO

1530 ca, olio su tela, cm 52x79, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie (p. 248, particolare)

Tiziano, Le tre età, 1512-1513, olio su tela, cm 90x150,7, Edimburgo, National Galleries of Scotland, Scottish National Gallery

246

a chissà cosa spinse quella mente anarchica del Lotto a realizzare nel 1530 il primo triplice ritratto che divenne mito? Certo che fu apprezzato sin dall’inizio, questo ritratto dell’orafo, se lo comperarono i Gonzaga, poi fu venduto a Carlo I nel 1627 quando i Gonzaga andarono a meno, e finì a Filippo IV di Spagna quando andò a meno Carlo I sotto la scure della rivoluzione inglese. Il barbuto è Bartolomeo Carpan di Treviso, e probabilmente lo scatto creativo sta lì, nel gioco di parola tre visi per Treviso. Diverso il caso Tiziano: il cadorino aveva già affrontato il tema delle tre età in un dipinto allegorico del 1512, dove i putti eterni infanti giocano mentre un cherubinetto alato calpesta i loro rosei sederini, poi lei, la bella timida, affronta lui nudo (!) e gli indica due usi diversi del piffero, e sul fondo l’anziano barbuto contempla il prossimo viaggio, i due teschi degli ex putti e degli ex amanti. Da vecchio, quando gli cresce la barba bianca, la versione cambia e dipinge se stesso nelle fattezze sue, del figlio Orazio (quello che gli premuore nella peste) e del nipote Guido. Sotto, gli animali che fanno da sostegno, spiegano la faccenda:

M

IL MUSEO IMMAGINATO

— G RANDE G ALERIE

247

ANTONIE VAN DYCK

TRIPLICE

RITRATTO DI

C ARLO I

1635, olio su tela, cm 84,5x99,7, Londra, The Royal Collection

248

convinto come un cane da giovane, forte come un leone da adulto, sveglio come un lupo da vecchio. Ma il modello di Lotto ricompare, ed è ovvio, quando Carlo se lo compra e lo fa ripetere da van Dyck nel 1635, e la prova ne è che le mani del soggetto appaiono quasi identiche. Il triplice ritratto servirà a Bernini per fare il marmo del monarca senza averlo a posare direttamente, quel marmo pare straordinario e purtroppo scomparso nell’incendio di Whitehall. Rimane invece il documento del passo successivo. Il supercardinale Richelieu incarica Philippe de Champaigne di ripetere l’exploit, e il dipinto servirà al busto berniniano che per fortuna esiste ancora e che, a prima vista, diventa prova di tutto il percorso compiuto.

IL MUSEO IMMAGINATO

— G RANDE G ALERIE

Ritratti di famiglia o fece dire con chiarezza il mio amico Mario Monicelli al marchese del Grillo: “Io sono io e tu non sei nessuno”. In questo pensiero condensato sta tutta l’analisi estetica del culto della personalità nella nobiltà barocca: nessuno si vergognava di se stesso, delle proprie fattezze che oggi potremmo considerare goffe, della propria mancanza di rispetto per i canoni estetici condivisi. Tutto cambierà dopo, con il neoclassicismo e con la necessità idealista di sembrare un’altro: il Bonaparte brontolerà non poco per dovere apparire nudo e bello nella grande statua di Canova. Ma qui siamo in pieno Settecento e Luigi XIV si fa ritrarre con tutti i discendenti. Lui, il Re Sole, Louis le Grand, seduto, sullo sfondo le statue del padre (si fa per

L

Gian Lorenzo Bernini, Busto di Richelieu, 1640, marmo, h. cm 83, Parigi, Musée du Louvre

PHILIPPE DE CHAMPAIGNE

TRIPLO

RITRATTO DEL CARDINAL

R ICHELIEU

1642, olio su tela, cm 58,7x72,8, Londra, National Gallery

249

250

IL MUSEO IMMAGINATO

— G RANDE G ALERIE

dire) Luigi XIII e del nonno Enrico IV, in piedi appoggiato alla regale poltrona Louis Le Grand Dauphin, poi il figlio di questi, Luigi principe di Borgogna, in piedi anche lui, infine il figlio di quest’ultimo, il piccolo duca di Bretagna, vestito da bambina e tenuto al guinzaglio dalla duchessa di Ventadour, governante dei bimbi reali. Un quadro che non portò bene. Il Grand Dauphin Luigi muore nel 1711, un anno dopo avere posato per il dipinto. Nel 1712 muoiono di morbillo il Luigi duca di Borgogna e sua moglie Maria Adelaide di Savoia, il 12 e il 18 febbraio, l’8 marzo muore pure il loro figlio, il Luigi bambino del quadro. Un sogno svanito. Luigi XIV muore per ultimo nel ’15, ben vecchio, e l’erede sarà Luigi XV, fratello minore del bimbo che sarà re a cinque anni. Dei due cani si sa poco o nulla. Altra famiglia meno sfortunata. Si fa per dire, poiché il dipinto è del 1800, e tre anni dopo le truppe giacobine di Napoleone la costrinsero all’esilio per piazzare al loro posto sul trono di Spagna il Bonaparte Giuseppe. Carlo IV era, è facilmente immaginabile, figlio di Carlo III, sposato con Maria Amalia di Sassonia, figlia di Augusto il Forte, padrone delle porcellane di Meißen. Carlo III era stato re di Napoli e fondatore della fabbrica di porcellane di Capodimonte. Carlo III era a sua volta figlio di Filippo V di Spagna e della moglie erede di Parma Elisabetta Farnese; fu fatto re di Napoli nel 1738, perché una corona allora non si negava a nessuno, neanche ai NICOLAS DE LARGILLIÈRE

R ITRATTO DI FAMIGLIA DE V ENTADOUR

DI

LUIGI XIV

CON

M ADAME

olio su tela, cm 127,6x161, Londra, The Wallace Collection

251

nostri Savoia, e perché aveva lasciato il posto conquistato di duca di Toscana al marito della giovane Maria Teresa d’Austria. A Napoli portò l’Ercole Farnese e altri reperti di qualità. Poi morì suo padre e se ne tornò in Spagna, dove il posto fisso sembrava più soddisfacente; a Napoli lasciò il buon figlio minore Ferdinando IV. Mi dimenticavo: il primo della serie, Filippo V, era stato fatto re di Spagna dopo la famosa Guerra di successione che si concluse col trattato di Utrecht (1713) e Rastatt (1714), e la fortuna gli aveva sorriso in quanto la Francia usciva vincente dall’operazione e lui era il figlio minore del Grand Dauphin del quadro precedente. Goya è formidabile a dipingerne il nipote e la sua famiglia, lasciandoli tutti brutti come la natura li aveva creati e come la genetica li aveva progettati. Se guardate il naso del IV dei Carlo, quanto assomiglia a quello del babbo e quanto a quello del fratello Ferdinando a Napoli. Ma loro erano loro e gli altri nessuno.

FRANCISCO GOYA

C ARLO IV

E LA SUA FAMIGLIA

1800-1801, olio su tela, cm 280x336, Madrid, Museo Nacional del Prado

252

IL MUSEO IMMAGINATO

— G RANDE G ALERIE

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I cardinali

EL GRECO

RITRATTO

DI UN CARDINALE

1600-1601, olio su tela, cm 170,8x108, New York, The Metropolitan Museum of Art TIZIANO

C ARDINALE FILIPPO A RCHINTO 1558, olio su tela, cm 114,8 x 88,7, Philadelphia, Philadelphia Museum of Art

256

on è cosa irriverente pensare al ritratto dei cardinali come spunto necessario per l’indagine antropologicoculturale. Absit l’injuria di considerarli alternativi a uomini, donne e famiglie. Ma se andate a rileggere la Recherche troverete che in casa Verdurin si dibatte a lungo sulla posizione da dare al cardinale a tavola, proprio per via del fatto che non avendo egli sesso sfugge alla normale etichetta di chi debba stare a destra della padrona di casa. La questione è stata capita da El Greco che si è ritratto da cardinale. La faccenda è stata fondamentale per Francis Bacon, il quale, mescolando l’incredibile ritratto del cardinal Archinto dietro una tenda e lo storico ritratto di Innocenzo X Pamphilj, portando in una unica

N

IL MUSEO IMMAGINATO

— G RANDE G ALERIE

koinè Velázquez e Tiziano, diede vita al suo più potente ritratto di alto prelato che urla. Raffaello ritrae papa Leone X, corrotto, noto simoniaco, perverso, coltissimo amico di Erasmo, e pure figlio di Lorenzo il Magnifico e come tale compagno di scuola di Michelangelo nei Giardini Medicei. Fu l’ultimo papa a essere eletto come semplice diacono, ma fece a lungo parlare di sé per via del fatto che si trovò fra le mani la patata bollente del caso Lutero, e non la seppe gestire. Alle sue spalle, il cugino, figlio illegittimo del fratello di Lorenzo, lo sfortunato Giuliano ucciso nella congiura dei Pazzi. Appare ancora timido, e coraggioso non lo sarà mai più di tanto, ma gli riesce, una volta diventato papa a sua volta come Clemente VII, di assestare un col-

DIEGO VELÁZQUEZ

P APA INNOCENZO X 1650, olio su tela, cm 140x120, Roma, Galleria Doria Pamphilj Francis Bacon, Innocenzo X, 1953, olio su tela, cm 153x118, Collezione privata

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258

IL MUSEO IMMAGINATO

— G RANDE G ALERIE

po diplomatico geniale facendo sposare la pronipote della tribù Medici al re di Francia Enrico II. Questo non gli impedirà di dovere sopportare il sacco di Roma. Il ritratto di Sebastiano del Piombo lo vede già più sicuro di sé, leggermente arrogante e leggermente mal rasato; quell’altro che gli farà anni dopo lo vedrà addirittura con la grinta della barba. Papi e cardinali, come nel caso di papa Lambertini con il cardinal Valenti Gonzaga. Una sequela di papi eccellenti, dal geniale Albani, al finissimo Corsini fino al coltissimo Benedetto XIV, aveva mantenuto a Roma un ruolo da protagonista negli affari politici e religiosi del XVIII secolo. Di questo mondo colto era testimone e attore il buon Valenti Gonzaga, quello del dipinto di Pannini che avete visto nel pensatoio. Bulimico di tutto lo era, del sapere come del collezionare, ma purtroppo anche del mangiare, sicchè malgrado il fatto che fosse stato il primo a coltivare in serra gli ananas, e tutti sanno il beneficio di quel frutto esotico sulla digestione, morì d’indigestione a

RAFFAELLO

LEONE X 1517-1518, olio su tavola, cm 155,2x118,9, Firenze, Galleria degli Uffizi

SEBASTIANO DEL PIOMBO

RITRATTO

DI

CLEMENTE VII

1526, olio su tela, cm 145x100, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte SEBASTIANO DEL PIOMBO

RITRATTO

DI

CLEMENTE VII

1531, olio su ardesia, cm 105,5x87,5, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum

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GIOVANNI PAOLO PANNINI

B ENEDETTO XIV

E IL

C ARDINALE VALENTI GONZAGA

1750 ca, olio su tela, cm 131x178, Roma, Museo di Palazzo Braschi PHILIPPE DE CHAMPAIGNE

Il Cardinal Richelieu 1633-1640, olio su tela, cm 259,5x178,5, Londra, National Gallery

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Viterbo dopo avere preso le acque. Il ritratto di Philippe De Champaigne del cardinale Richelieu troneggia solitario sulla balconata opposta a quelle delle famiglie reali. Se lo merita. La macchia rossa si nota da lontano e il tripudio di sete rassicura. È un dipinto chicchissimo, dove il cardinale sembra dire, indicando la strada con la berretta: Messieurs, je vous en prie. Tutto si conclude con il cardinale che mi è effettivamente più caro, dipinto da Millais, il cardinale Newman, realmente cristiano e convinto a tal punto della sua missione d’essere riuscito per un momento quasi a convertire Oscar Wilde. A lui si deve il più bel trattato di fine Ottocento sull’educazione dei giovani. Il suo legame col ritratto di Richelieu è tutt’altro che casuale, in quanto il fine politico francese commise una delle sue più colossali stupidaggini con la pace di Alais nel 1629 che dava il via alla revocazione dell’Editto di Nantes. Così iniziò la cacciata degli ugonotti e fra di loro v’erano gli antenati del

IL MUSEO IMMAGINATO

— G RANDE G ALERIE

261

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IL MUSEO IMMAGINATO

— G RANDE G ALERIE

cardinale John Henry Newman, il quale nacque anglicano, fece carriera ecclesiale e si convertì al cattolicesimo dopo un viaggio e una lunga malattia di riflessione fra Roma e la Sicilia. Le motivazioni della sua conversione sono oggi considerate uno dei punti apicali della teologia moderna. È stato beatificato da papa Ratzinger nel 2010. Di lui mi ricordo una frase fondamentale nella definizione del gentiluomo: “A real gentleman is a man who never inflicts pain”. E a questo punto, vi suggerisco di tornare domani, lo Slow Museum richiede pause e riflessioni.

JOHN EVERETT MILLAIS

IL CARDINAL NEWMAN 1881, olio su tela, cm 121,3x95,3, Londra, National Gallery

263

solo di recente che è nata nelle case la necessità di delineare una zona notte che si distingue dalla zona giorno. Andatela a spiegare a Luigi XIV che in camera da letto riceveva e indicava il suo umore alla corte a seconda del lato che decideva per scendere dal regale giaciglio, stabilendo così il Petit Lever e il Grand Lever. In realtà tuttora è di gran conforto considerare le camere da letto un luogo della vita sia pubblica che privatissima in base alle decisioni che prende chi vi abita. Certamente nel progetto del museo abbiamo tralasciato l’ipotesi alla Oblomov di disseminare le stanze di divani sui quali dormire anche di notte; però nulla esclude che lo si possa fare, per esempio nel Petit Salon o in Biblioteca. A onor del vero abbiamo adottato una prassi neoclassica che prevede le camere da letto separate dalle aree diurne ma non escluse dalla vita sociale, pensando proprio al gusto da petite maison aux volets verts decantato da J.J. Rousseau e recepito dal Bonaparte sia alla Malmaison che nelle sue abitazioni del ritiro elbano: là il letto era centrale, ma vi si accedeva vestiti coi colori di corte secondo il rango ricoperto. Le camere da letto si raggiungono attraverso la porta laterale sinistra dello scalone, laddove s’innalza la continuazione dello stesso, lasciando prima una porta verso due stanzette che visiteremo dopo. La scala si conclude su un lucernario con due porte opposte, quella per la camera da letto del padrone di casa e quella per la camera della consorte. Il letto padronale è posato in modo da lasciare la testiera a nord e da scorgere gli ultimi raggi trasversali del sole calante e i primi raggi dell’alba. Due pareti sono cariche di dipinti, sicché il padrone può meditarli secondo che egli si corichi sul lato destro, lasciando il cuore libero di battere, o su quello sinistro opprimendone la funzione. Sulla destra vede due Natività. La collezione nel suo insieme evita le opere sacre, che, a parere dei progettisti, stanno molto meglio in chiesa quando il passante, anche inavvertito, le guarda con rispetto e quello introdotto ai misteri della fede si fa il segno della croce. Le Natività e le Adorazioni dei Magi sono in realtà cose diverse, ma rappresentano un momento di riflessione gaudiosa e come tale vivono benissimo in camera da letto, dove incitano a un sonno riparatore perché la mente si curi dalle ansie della vita. E i due dipinti in questione, due Adorazioni dei Magi, corrispondono perfettamente al caso.

È

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IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

La Camera del padrone Adorazione dei Magi ’opera fu dipinta da Dürer a Norimberga per il più prestigioso dei suoi committenti, Federico il Saggio, che per voi ora è una vecchia conoscenza. Gli aveva già dedicato un bel ritratto nel 1496 e poi era stato scalzato nel castello di Wittemberg dall’inizio della carriera di Cranach che il Saggio gli preferiva, forse perché di polso più germanico. Ma l’Adorazione dei Magi è di per sé soggetto dolce, e Dürer aveva già compiuto il suo primo percorso di ammorbidimento nel primo viaggio a Venezia da dove porta gran parte della tematica esposta nella composizione. L’antichità è in rovina, come nei quadri di Cima, e la Nuova Alleanza, con la nascita di Gesù, viene riconosciuta dalle genti lontane. Ma quanto tedesca è la Madonna che non sarebbe mai passata all’esame dei veneziani, i quali la volevano ben più fresca. In cambio rimane tedesco il suo gusto realista per l’asino che raglia, per le farfalle, innamorate e incuranti del brutto insetto nero, che girano attorno al Myosotis alpestris, quello importantissimo per il mondo germanico, il Vergissmeinnicht (il nontiscordardimé nostrano) che verrà ripreso dai romantici, dopo una piccola confusione botanica ma non cromatica, con l’Heliotropium di Novalis, la famosa Blaue Blume. Sulla destra

L

ALBRECHT DÜRER

A DORAZIONE

DEI

MAGI

1504, olio su tavola, cm 100x114, Firenze, Galleria degli Uffizi

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se ne sta andando, commovente, un cervo volante, forse simbolo cristologico per le spine che è costretto a portare in testa. Piccola nota di razzismo germanico: il servo orientale e semitico approfitta dell’attenzione sulla figura centrale del “sacro bimbo” per mettere le mani nella ricca borsa d’uno dei Magi.

270

TIZIANO

ADORAZIONE

DEI

MAGI

1559-1560 circa, olio su tela, cm 120x223, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

aterina dei Medici l’abbiamo già incontrata parlando dei papi Medici, quando Clemente VII, un anno prima di morire, la mandò quattordicenne a sposare nel 1533 l’erede al trono di Francia, suo coetaneo. Solo che il coetaneo adolescente stava per essere svezzato dalla più mondana nave scuola della Francia d’allora, Diane de Poitiers, vedova

C

Adorazione dei Magi

271

elegantissima di vent’anni più grande e di tantissimo più sapiente. Il triangolo durò fino alla morte del re quando, giocando a giostrare, gli fu infilzata una scheggia di lancia nello stretto passaggio della visiera dell’elmo. Diane amava sicuramente Tiziano, visto che si fece porre in parecchi ritratti della prolifica Scuola di Fontainebleau, la serva della Venere di Urbino sullo sfondo. Vien facile da capire che commissionò a Tiziano l’Adorazione dei Magi dove i cavalli, tanto cari all’amato, erano protagonisti. Il quadro, finito in una cornice che richiama le iniziali dell’amata, con le sue lune incrociate, ebbe un curioso destino. Morto il re non c’era più motivo di fargli varcare le Alpi. Fu venduto a Ippolito d’Este e da questo poi ceduto al nostro ricorrente cardinale Borromeo. La sua storia ebbe un’avventura ancor più bizzarra, quella iconologica. Non si riusciva a capire la partizione simmetrica attorno a un palo, se non per il fatto che Tiziano commerciava alla grande pali dal Cadore. Per giunta il cavallo bianco sembrava grattarsi irrispettoso una pulce dalla testa su questo palo centrale. Un recente restauro ha risolto l’enigma. La grande zolla di terra nella quale il palo era conficcato celava in realtà un cagnetto, quello che Tiziano sempre dipinge, che alzava la gamba posteriore destra per compiere il gesto che tutti i cagnetti maschi compiono dinnanzi a ogni palo. Erano chiariti due segreti. Il primo interessava principalmente mia moglie alla quale devo questa ricostruzione: ha saputo finalmente il sesso del cagnetto. Il secondo piacerà ai warburghiani, ai panofskiani e ai grombricciani: la composizione così ha un senso, il cavallo è stupito dal gesto del cagnetto, e Diane de Poitiers era donna di sicuro senso dell’ironia. Quando Tiziano seppe della cancellazione del cagnetto a opera della corte estense, dichiarò: “Solo un ignorante può avere compiuto tale scempio”. I veneti, già allora, insultavano con la parola “ignorante!”.

Adorazione dei Magi

272

ra questi due capolavori di pittura coloratissima tengo una pala a grisaille dall’apparenza mesta, che raffigura papa Gregorio Magno in ginocchio dinnanzi a un altare. Tollero una pittura così pia solo per via della sua tonalità assente che ricorda alcuni vestiti impiegatizi di Giorgio

F

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

HIERONYMUS BOSCH

TRITTICO

DELL ’E PIFANIA , ESTERNO

1485-1501, olio su tavola, trittico, cm 138 x73 (chiuso), Madrid, Museo Nacional del Prado

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Armani. Solo la lenta lettura dell’occhio distratto durante le influenze, quando come suggeriva Rilke, il tepore della febbre porta alla speculazione mentale, consente di scoprire fra i grigi la figura germanica d’un Cristo dolente e tutta la narrazione della Passione. Se poi invece si aprono le ante come quelle d’un libro, esplode la più folle delle fantasie di Bosch. La città in fondo, contemporanea quasi a quella della Tempesta di Giorgione, ha con lei delle arcane similitudini metropolitane. Sul tetto i soliti omini; nella scena centrale, ancora una volta, il popolo formicolante che assiste alla scena, con una situazione che è dipinta solo cinque anni prima di quella di Dürer e che fa capire quanto la contaminazione italiana possa avere effetti irreversibili. E poi i misteri del Geronimo: quel pazzo mezzo nudo in corona che sbircia da dietro chi è? Il dramma della Passione vista dall’altro lato della pala? L’anticristo che si prepara a entrare in azione? La cattiva coscienza di noi tutti, quella che nella pala destra viene narrata con i pericoli del viaggio?

HIERONYMUS BOSCH

TRITTICO

DELL ’E PIFANIA

1485-1500, olio su tavola, trittico, cm 138x144 (aperto), Madrid, Museo Nacional del Prado (pp. 276, 277, particolari) p. 276 Giorgione, La tempesta, particolare, 1503-1504, olio su tela, cm 82x73, Venezia, Gallerie dell’Accademia

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IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

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IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

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Eros e Thanatos

CARAVAGGIO

AMOR

OMNIA VINCIT

1602-1603, olio su tela, cm 156x113, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie

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irandosi sull’altro fianco le cose cambiano molto. Dall’alto vi guarda con il suo sorriso ambiguo Amor omnia vincit di Caravaggio. È innegabilmente un’opera ambigua, ma non per ciò che salta all’occhio subito, quel giovane garzone amante del pittore che ha già una gamba divaricata sul letto disfatto. Roba normale allora e pare anche oggi. Il quadro era stato acquistato da Vincenzo Giustiniani (quello dell’attuale Palazzo del Senato a Roma), uomo dall’aspetto severo ch’era venuto in area papalina a far il banchiere, investendo i risparmi che gli erano rimasti dopo che i turchi gli avevano portato via la sua isola di Chio. Per meriti economici fu immediatamente fatto marchese. Teneva il quadro in casa dietro a una tendina perché pure a lui

G

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

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CARAVAGGIO

B ACCHINO

MALATO

1593-1594, olio su tela, cm 67x53, Roma, Galleria Borghese

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sembrava eccitante, eccellente e un po’ fuori luogo. Ma ciò che vi deve colpire seriamente sono le ali nere, che per la prima volta appaiono nella pittura occidentale. Il quadro lo abbiamo prelevato a Berlino, dove di ali nere se ne sono purtroppo viste tante. Era arrivato lì non per caso. Quando le truppe napoleoniche ridussero Roma a un luogo senza danaro, uno dei napoleonici che fece fortuna, inizialmente come esperto di drenaggi idrici, fu tale Tourloin. Capito come girava il mondo, il Tourloin divenne ricco tanto, nobile forte, cioè il principe Torlonia. Notissimo cravattaro era egli, come si diceva a Roma allora e pare anche oggi. Il mestiere del cravattaro consiste nell’avere danaro, prestarlo a tasso d’usura e portare via la roba al malcapitato che non riesce mai a restituire. Vittima del Torlonia fu l’ultimo dei Giustiniani che gli lasciò quasi tutto ciò che possedeva, compreso il Caravaggio. Torlonia lo vendette, dopo il Congresso di Vienna, al re di Prussia che stava riorganizzando le muse di Berlino, le quali amavano molto il nero in quanto avevano ceduto i loro gioielli d’oro per pagare i cannoni e avevano scoperto la bellezza neoclassica dei gioielli in acciaio nero. Mi sono spesso chiesto il motivo per il quale il colore delle ali degli angeli cambia con l’evolvere del tempo. Le ali colorate provengono dalla tradizione alessandrina dove così già erano da quando Alessandro Magno da casa sua se le portò dove erano appannaggio dei putti e le fece incrociare col colore degli scarabei dipinti sui muri egizi. Le alessandrine divennero veneziane quando i veneziani rubarono san Marco. Da veneziane divennero mondiali, anche in fondo alle terre del negus. Erano il simbolo della cultura d’Oriente. Per questo motivo l’oppositore Giotto dipinse ali monocrome ai suoi putti. Fu una vittoria di Pirro la sua, tutte le altre ali continuavano a esser policrome. Solo con la caduta di Costantinopoli non fu più necessario dichiarare la parentela bizantina. Le ali potevano diventare ciò che si desiderava. Alcuni le dipinsero bianche. Caravaggio con il suo umore nero, le dipinse del colore conseguente. Poi certo è che l’amore vince tutte le arti, compresa la musica di quell’ammasso di strumenti, ma questo lo sapeva già Raffaello quando dipinse la sua Estasi di santa Cecilia che troverete nella sala della musica.

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

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Sotto al Caravaggio ne trovate un’altro, il Bacchino malato, forse è lui lo stesso che avete visto sopra, ma dopo la baldoria. Apparteneva al Cavalier d’Arpino e giunse nella collezione d’un altro dei personaggi che ora vi deve essere noto, il cardinal Scipione Borghese, quando questo sant’uomo lo fece fallire, il cavalier appunto. Il Bacchino, con ben evidente la natura morta e questa sua faccia che anticipa quella dei pescatori di Gemito e dei ragazzi di Pasolini, continua a guardare l’opera di Courbet, la quale non ha bisogno, per una volta, di chiarimenti iconografici. Però di pettegolezzi sì. Punto 1. Courbet non era alla prima esperienza; il nudo gli piaceva per il motivo che il realismo gli piaceva per motivi anarco-socialisti, e lo aveva provato con vari dipinti, alcuni dei quali presentati ai Salons con somma soddisfazione di Charles Baudelaire: le amiche, la Venere col cagnolino di Tiziano, quella con il pappagallo ecc. Punto 2. Il dipinto era stato realizzato per un noto sporcaccione, un turco che si teneva anche il bagno, appunto turco, di Ingres. Fu poi comperato nel 1955 all’asta dal sommo Jacques Lacan, lo psicanalista-filosofo-semiologo, quando agli intellettuali di successo era ancora consentito comperare arte, o meglio, quando l’arte non era così cara da essere acquistabile solo da garantiti non intellettuali. Lacan aveva come fratellastro il pittore Masson, al quale chiese, forse inconsapevolmente, di ripetere il caso Giustiniani: dipingere una scatola nella quale rinchiudere il dipinto e il suo inconfutabile mistero. Erano gli anni nei quali Luis Buñuel girava L’oscuro oggetto del desiderio. L’origine du monde, dipinto nell’Ottocento, diventava l’icona della Francia del XX secolo. Dall’altro lato del Bacchino ammorbato pende l’icona della Francia del Settecento. Sostiene Georges Bataille che nessun collezionista potrà mai guardare un’opera d’arte con il medesimo trasporto col quale un feticista guarda una scarpa. Il presente dipinto di François Boucher serve a testimoniare e sperimentare il contrario. Libertinaggio settecentesco che ha a che fare con la corte parigina di Luigi XV, il quale morì di conseguenze amorose. Fu sepolto di notte per il pudore dovuto al mal francese che lo aveva ucciso, il medesimo morbo che

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IL MUSEO IMMAGINATO

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DA LETTO

GUSTAVE COURBET

L’ORIGINE

DEL MONDO

1866, olio su tela, cm 46x55, Parigi, Musée d’Orsay

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Voltaire lamentava come flagello della modernità, che però aveva pure diffuso una nuova morale che impediva agli zii una naturale copula con le nipoti. Questo quadro mi ha da sempre affascinato per la morbidezza dei cuscini e delle stoffe che il design contemporaneo ha vietato nelle nostre case razionaliste. Mademoiselle O’Murphy, orfana d’un soldato irlandese diventato scarparo a Rouen, venne educata a Parigi per essere offerta da Madame de Pompadour al suo caro Luigi XV come amante infante di quattordici anni. A sedici ebbe una regal bastarda che si sposò un marchese. Poi, allontanata dal monarca, ebbe ben tre mariti e vari figli, fra i quali un generale che si fece onore nel combattere come repubblicano rivoluzionario. Sposò in ultimo, perché ancora gradevole, volitiva e voltairiana, un deputato della Convenzione. Casanova, il nostro caro veneziano che alcuni considerano mitomane, sostiene d’averla scoperta e inventata lui, dopo averne visto il ritratto e aver chiesto di vedere l’originale. Così scrive nelle sue memorie: “L’abile artista aveva dipinto le sue gambe con tale maestria che nessuno avrebbe potuto desiderare di vedere qualcosa di più bello.[…] Feci scrivere sotto: ‘O-Morphi’, parola che non è omerica, ma neanche greca, e che significa Bella”. Morì a settantasette anni, ben più fortunata della sua omologa lady Hamilton, finita in miseria.

FRANÇOIS BOUCHER

L’ODALISCA O’M URPHY

BIONDA , RITRATTO DI

M ARIE-L OUISE

1752, olio su tela, cm 59x73, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Alte Pinakothek

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IL MUSEO IMMAGINATO

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DA LETTO

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IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

Più giù ancora, nell’ultima fila di dipinti, troverete due storici capolavori nell’ambito del nudo femminile. Ne abbiamo già parlato a proposito della Venere d’Urbino. Ora ve li lascio solo ammirare. Vi sarà inspiegabile il quadro appeso in mezzo. Ma qui mi dovete scusare: è da un lato il giusto debito dovuto a tanta allegria esistenziale e un tributo al testo fondamentale di Sigmund Freud, dall’altro lo si deve alla mia personale nascita in Alsazia e al mio condividere alcuni temi pessimisti che lì vengono celebrati con regolarità. Sebastian Stoskopff (testa d’ariete in lingua originale) è nato a Strasburgo nel 1597. Non ricco, fu raccomandato dalla famiglia al consiglio comunale in modo che i solidi borghesi che lo componevano trovassero una strada alla formazione professionale del suo evidente talento. Fu mandato nel cuore dell’Assia, a Hanau, la città dove due secoli dopo sarebbero nati i fratelli Grimm, padri della glottologia germanica ma pure autori di fiabe crudelissime. Lì frequentò la bottega di tale Daniel Soreau, un ugonotto scappato dalle Fiandre francofone e cattoliche. Morto il maestro, fece bottega con l’altro discepolo, Joachim von Sandrart, pittore e teorico che scrisse la prima biografia di Grünewald, l’artista formidabile che troverete in fine di questo volume, quando le vostre fatiche saranno ultimate. Questa vanitas, così diversa da quelle della Controriforma, così ineluttabile e scientifica, ricorda un oggetto che ossessionò la mia infanzia quando dormivo

ÉDOUARD MANET

O LYMPIA 1863, olio su tela, cm 130,5x191, Parigi, Musée d’Orsay

287

288

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

289

pp. 288-289 DIEGO VELÁZQUEZ

V ENERE

ALLO SPECCHIO

1650 ca, olio su tela, cm 122,5x175, Londra, National Gallery SEBASTIAN STOSKOPFF

V ANITAS 1631, olio su tela, cm 50,5x60,8, Basilea, Kunstmuseum

290

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

dal guardiacaccia Schilling a Westhalten, durante il periodo allegro delle vendemmie: sul comodino vicino al letto, già gelido in ottobre, troneggiava una Bibbia di legno con posato sopra un teschio di legno e la scritta: Vielleicht diese Nacht (magari questa notte). Spiega questa natura morta il dilemma dell’alsaziano, teso fra le paure germaniche e i fascini della lingua francese d’un almanacco che Stoskopff probabilmente aveva trovato a Parigi prima di fare anche lui il suo viaggio in Italia.

Guardaroba l guardaroba si accede direttamente dalla camera da letto ed è passante per il bagno. Da un lato ha la finestra e all’opposto una grande Psiche neoclassica per specchiarsi, per quanto lord Brummel sostenga che un gentiluomo si debba vestire e annodare la cravatta senza guardarsi allo specchio. Da un lato si erge fiero uno di quegli enormi armadi di noce che convive con l’interno di sandalo, propizio ad allontanare le tarme. Dall’altro vi è una raccolta complessiva di nudi che non richiedono particolare commento. Sono essi la visione di quel signore in barba grigia, che non è altro che Lucas Cranach in un suo splendido autoritratto da vecchio nel 1550, quando Tiziano ne aveva influenzato i cromatismi. Gli fa compagnia quello che solitamente viene riconosciuto come il più bel ritratto di Dürer, eseguito nel 1526. Si tratta di Hieronymus Holzschuher (il fabbricante di scarpe di legno, dice il cognome), sindaco di Norimberga e collega del pittore nell’associazione proto-protestante della città. Uomini severi e pensosi attorniati dai loro veri pensieri.

A

N.B. Dürer e Cranach erano all’opposto l’uno dell’altro. Dürer, bavarese d’origine ungherese e sotto l’attrazione del sud, quindi dell’Italia, s’era formato nella prima adolescenza sulla riva sinistra del Reno, laddove da sempre l’influenza latina aveva portato alla pratica della pittura.

291

1. LUCAS CRANACH IL VECCHIO

6. LUCAS CRANACH IL VECCHIO

V ENERE

R ITRATTO

1530 ca, olio su tavola, cm 126,7x62, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie

1525, olio su tavola, cm 53,3x38,1, Collezione privata

2. LUCAS CRANACH IL VECCHIO

7. LUCAS CRANACH IL VECCHIO

LUCREZIA

G IUDITTA

1532, tempera su tavola, cm 37,5x24,5, Vienna, Akademie der Bildenden Künste

1530 ca, olio su tavola, cm 89,5x61,9, New York, The Metropolitan Museum of Art

3. LUCAS CRANACH IL VECCHIO

8. LUCAS CRANACH IL VECCHIO

C UPIDO

V ENERE

SI LAMENTA CON

V ENERE

1525 ca, olio su tavola, cm 81,3x54,6, Londra, National Gallery

E

DELLA PRINCIPESSA

CON LA TESTA DI

S IBILLA

DI

C LEVES

O LOFERNE

AMORE

1525, olio su tela, cm 176x80, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts, Musée d’Art ancien

4. LUCAS CRANACH IL VECCHIO

TRE

GRAZIE

2

1531, olio su tavola, cm 37x27, Parigi, Musée du Louvre 5. LUCAS CRANACH IL VECCHIO

LUCREZIA XVI

secolo, Collezione privata

1

centro pagina LUCAS CRANACH IL VECCHIO

AUTORITRATTO 1550, olio su tavola, cm 64x49, Firenze, Galleria degli Uffizi

292 3

4

5

6

8

centro pagina ALBRECHT DÜRER

HIERONYMUS HOLZSCHUHER 1526, olio su tavola di tiglio, cm 48x36, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie

293 7

Cranach non era nato molto lontano, a cento chilometri a nord, a Kronach, quindi già in Franconia, laddove l’influenza principale era quella dei gelidi venti del nord. Ed è forse per questo motivo che fu preferito dall’elettore Federico il Saggio, il quale, in fatto di severità, non aveva da imparare nulla da nessuno. Che questa severità sia necessaria alle faccine perverse delle mille Veneri di Cranach?

Sala da bagno arà forse un poco macabro, il nostro percorso, e un poco irriverente la nostra scelta. Ma non si poteva non mettere nel bagno il capolavoro di David. D’altronde la stanza è ampia, comoda e prevede anche poltrone di vimini nelle quali sedersi avvolti in soffici accappatoi. Il 14 juillet del 1793, l’anno terribile della Terreur, non fu celebrato nella riunione della Convention come quarto anniversario della presa della Bastiglia, ma il deputato Giraut, dopo avere sentito l’annuncio dell’assassinio di Marat, chiese al deputato David di celebrarne la memoria. Esattamente quattro mesi dopo, il 14 novembre, l’opera era pronta e fu pubblicamente presentata. E divenne un mito della rivoluzione e di tutte le rivoluzioni dove il pensatore viene sacrificato. Marat aveva allora esattamente cinquant’anni. Era nato a Neuchâtel, oggi Svizzera, allora sotto dominio prussiano, figlio d’un frate cappuccino sardo di Cagliari, che aveva abbandonato definitivamente l’isola e la veste. Un bel tipo, che era stato medico senza laurea fuori Londra, poi laureato in Olanda, poi fisico e amico di Benjamin Franklin, infine rivoluzionario caldissimo e amico del terribile Robespierre. Lo si chiamava l’amico del popolo. Si vede che Charlotte Corday, che lo infilzò con un pugnale il 13 luglio (il 13 si sa che porta male), non era del tutto d’accordo. In realtà soffriva d’un herpes terribile che lo costringeva a passare ore a mollo. L’assassina, MarieAnne Charlotte de Corday d’Armont, era una nobildonna di Normandia e si diceva pure discendente del grande Corneille, venne a Parigi dalla provincia con il preciso intento di farlo fuori, per via del suo giudizio negativo sugli ecces-

S

JACQUES-LOUIS DAVID

M ORTE

DI

M ARAT

1793, olio su tela, cm 165x128, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts, Musée d’Art ancien

294

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

295

296

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

si rivoluzionari. Era a sua volta animata da sacro fuoco. Aveva venticinque anni e fu ghigliottinata la settimana successiva. Ah, la politica! Se il dipinto di David dà una forte sensazione di caldo, per via dell’acqua bollente, non del crimine, l’altro dipinto garantisce sicuro refrigerio. Si tratta del ritratto che Francesco Hayez fece della bellissima Cristina Belgioioso, la più ricca ereditiera della Milano neoclassica. Ma tutt’altro che superficiale era la nobildonna; mise eroicamente al servizio della rivoluzione che porterà all’Unità d’Italia sia la sua borsa che la sua grazia, sia le sue relazioni che la sua fine intelligenza. Il dipinto sullo sfondo raffigura la baia di Napoli, in quanto lei finanziò parte dell’insurrezione del ’48 napoletana portando poi negli eserciti delle Cinque giornate milanesi il seguito d’una sua propria divisione. Il busto che dall’alto la guarda è probabilmente quello della principessa sua madre che la protesse durante la separazione dal marito negli anni ’30 e la sostenne nel viaggio a Parigi, quell’esilio di militanza con la passione per Alfred de Musset, Liszt e Heine. La Milano d’allora merita un posto privilegiato in questo museo, e alle sue donne in particolare è riservato un pensiero d’affetto e d’ammirazione. Erano leggermente diverse da quelle che appaiono oggi protagoniste della vita pubblica. Erano inclini a uno spirito d’emancipazione che i lumi del Settecento avevano preparato. Questo il motivo che portò la figlia del grande Beccaria, la squisita Giulia, a sposare, per rimettere fieno in cascina, il vecchio conte Manzoni, ma a decidere d’usare ben altra e più fresca linfa per generare l’Alessandro, chissà con quale degli intellettualissimi Verri. Questo il motivo pure che portò la contessa Maffei a tenere in buona considerazione il conte marito nel salotto letterario e politico dove Manzoni incontrava Verdi e lei il Tenca, il quale sosteneva al contempo le passioni della nobildonna e i testi del sommo musicista. Poi venne l’Unità d’Italia e la morale voltò rinnovata verso l’ipocrisia che tuttora sembra d’obbligo, quella della Bella Rosin con il primo dei monarchi e quella della duchessa Litta con il secondo. FRANCESCO HAYEZ

RITRATTO

DI

C RISTINA BELGIOIOSO TRIVULZIO

1832, olio su tela, cm 136x101, Collezione privata

297

La Camera della signora a Camera della signora ha un accesso al medesimo bagno, che va quindi considerato comune, il che dispiacerebbe molto agli inglesi, per quanto questi usino pochissimo i suoi vantaggi. Alla Camera della signora si accede ovviamente anche dal pianerottolo. Qui però è ora che vi riveli un segreto. Il padrone di casa, per avere accumulato queste incredibili ricchezze, non può essere altro che ladro. E quindi il seguito del racconto seguirà l’intreccio del capolavoro di Greenaway Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante. Iniziamo con la moglie che il marito ladro tiene sott’occhio e per la quale ha compiuto scelte precise nella collocazione dei pezzi più preziosi della collezione.

L JOHANN HEINRICH FÜSSLI

I NCUBO 1781, olio su tela, cm 101,6x126,7, Detroit, Detroit Institute of Arts GEORGES DE LA TOUR

LA M ADDALENA

PENITENTE

1642-1644, olio su tela, cm 128x94, Parigi, Musée du Louvre

298

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

299

Era egli Johann Füssli (piedino in lingua locale), uno svizzero nato a Zurigo duecentocinquant’anni circa dopo che Huldrych Zwingli vi aveva introdotto la sua versione estrema della Riforma protestante, quella tanto forte, e parallela a quella di Calvino a Ginevra, d’avere fatto della città un luogo di assoluta tolleranza col passar degli anni. In fondo ad Amsterdam è successo lo stesso fenomeno. Füssli è forse il primo artista ad avere tolto il tappo dal subcosciente e lasciato scappare gli incubi e succubi che lì si nascondono. Preso dal piacere della cosa, li ha pure dipinti. Il ladro minaccia la moglie, dando una interpretazione meno sofisticata al dipinto. È lui l’uomo rospo seduto sulla pancia di lei svenuta e nulla potrà fare quell’asino dell’amante. Il ladro suggerisce alla moglie di guardare con attenzione la calma domestica della Maddalena penitente di Georges de la Tour, lo specialista francese della candela accesa, così abile da farla talvolta riflettere nelle pupille della persona che egli pone a guardarla. Il teschio in mano le sarà d’aiuto, anche se non ha la medesima forza comunicativa di quello di Stoskopff. Si ricordi ella comunque che, come nel piccolo quadretto di Hans Baldung Grien, l’allievo di Dürer, sta ballando col morto, perché fra eros e thanatos la distanza è un nulla. Oppure sprofondi nella meditata contrizione di Hayez, quella d’una Lombardia ottocentesca che si prepara alla rivoluzione unitaria, senza sapere se dare maggior peso al crocefisso o al seno nudo.

HANS BALDUNG GRIEN

LA

MORTE E LA FANCIULLA

1517, tempera su tavola, cm 30,3x14,7, Basilea, Kunstmuseum FRANCESCO HAYEZ

LA M EDITAZIONE 1851, olio su tela, cm 90x70, Verona, Galleria Civica d’Arte Moderna

300

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

301

La Camera dell’amante REMBRANDT

G ANIMEDE

PICCOLO

1635, olio su tela, cm 130x117, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie Alte Meister

302

asta scendere la scala e ci si trova nella Camera dell’amante della moglie del ladro. Di lui si sa poco. Ma il marito sospetta. Non per nulla, egli ha appeso sopra il letto uno dei più curiosi dipinti di Rembrandt, tetro e ironico, un ossimoro olandese. Giove rapisce Ganimede per portarlo nell’Olimpo e farne il coppiere degli dèi. Ma così putto (altri artisti lo rappresentano già in età da lavoro) non potrà far molto e gli scappa una minzione da paura puerile, in una immagine analoga a quella che Bruxelles aveva posato in bronzo nel 1619 sulla piazza del mercato col nome facilmente comprensibile di Manneken-pis.

B

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERE

DA LETTO

La Camera del cuoco iò che il ladro non sospetta è che l’amante della signora abbia a sua volta un amante nella rispettata persona del cuoco. Dalla stanza dell’amante si accede immediatamente a quella del cuoco, e questi, con la scala a chiocciola, passa nel retro del salottino e scende tra i fornelli, all’insaputa di tutti. La signora invece è da parecchio che nutre sospetti, e ha chiesto al marito di mettere in quella stanza un dipinto assai particolare. È dipinto da una donna, Artemisia Gentileschi, che subì violenza sessuale nello studio del padre Orazio e portò l’apprendista colpevole in tribunale, vincendo la causa in una Roma che taluni chiamano maschilista, nel pieno barocco seicentesco. Primo avvertimento. Il secondo sta nella scena cruenta rappresentata, che a un cuoco avvezzo al taglio delle carni deve apparire assolutamente inequivocabile. E così il cerchio che Greenaway aveva lasciato aperto si chiude alla perfezione.

C

ARTEMISIA GENTILESCHI

GIUDITTA

DECAPITA

OLOFERNE

1625-1630, olio su tela, cm 162x126, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

303

CAMERA DELLA MUSICA

lla Camera della musica si accede dalla scala simmetrica a quella che porta nelle camere da letto, vi è pure un corridoio interno che si diparte dalla Camera della signora e passa sopra l’atrio, il che consente a essa di vestirsi per i concerti e apparire come una epifania, quando tutti gli ospiti sono già stati accolti dal padrone di casa. Lei è talvolta assai capricciosa e detesta stare sul portone di casa per ricevere. Ci sono inoltre altri due accessi, che vengono per la verità usati solitamente per consentire un defluire rapido alla fine degli eventi, quando gli ospiti sono ossessionati solo dalla loro fame e dalla voglia di tuffarsi nel buffet. Questi accessi sono ricavati da due bussole che danno sulla Grande Galerie, dai lati opposti ai ritratti delle famiglie reali. La loro forma è stata ispirata da quella graziosissima delle bussole che sicuramente conoscete, collocate nella sala teresiana della Biblioteca Braidense. Sulla parete grande vi è un organo positivo a tre tastiere, arricchito da ance e da un bel basso da sedici piedi comandato dalla pedaliera. Sui due lati stretti, che si guardano come cani cinesi di Fo, due pianoforti a coda, l’uno intimo della ditta Bösendorfer, l’altro più squillante, fatto

A

Jan van Eyck, Polittico di Gand, particolare, 1433, olio su tavola, cm 350x450 (aperto), Gand, San Bavone

cinquant’anni fa da Tallone. All’occorrenza, i due strumenti vengono avvicinati fino a inserire la curva dell’uno in quella dell’altro, e l’effetto combinato per le esecuzioni delle riduzioni di concerti per piano e orchestra è delizioso. Inoltre, lungo la parete troverete due spinette veneziane, un clavicordo silenziosissimo di costruzione alemanna e un potente clavicembalo Rückers a due tastiere. Perché una stanza della musica in una casa museo? La peinture est comme la musique è il titolo d’un bel acquarello di Francis Picabia, il surrealista. Lo stesso Kandinskij dava alle sue opere di rottura titoli musicali come “Composizione” e “Improvvisazione”. Ma la questione non è esclusiva della modernità recente. André Félibien, in Préface aux conférences de l’Académie Royale de peinture et de sculpture, nell’anno di grazia 1667 diceva che Poussin “riteneva che come nella musica l’orecchio non viene incantato se non dal giusto accordo di differenti voci, allo stesso modo nella pittura la vista non rimane gradevolmente soddisfatta se non dalla bella armonia dei colori e dall’armonico accordarsi di tutte le parti le une vicino alle altre”.

308

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERA

DELLA MUSICA

arebbe del tutto incomprensibile lo svolazzo della pittura del grande inglese senza porlo in rapporto con la formidabile rivoluzione musicale che avvenne nelle nebbie della triste isola d’Albione con il cambio dinastico che portò sul trono la famiglia degli Hannover. Giorgio I fu incoronato il 1° agosto 1714, ma già da tre anni si era trasferito a Londra il suo Kapellmeister Georg Friedrich Händel, il parallelo di Bach in versione mondana e teatrale, che lì aveva ottenuto grande plauso con il Rinaldo. Ho sempre pensato che Händel, parallelo ma opposto sessualmente alle abitudini prolifiche del maestro dell’Offerta Musicale per Federico II di Prussia, fosse una sorta di spia al servizio degli Hannover. Chi gli aveva pagato il costoso viaggio a Roma per apprendere da Corelli il lusso dell’opera? Dai successi italiani, romani e fiorentini, passò immediatamente al servizio del principe elettore e poi ad attenderlo a Londra per veder posata sulla sua testa la prestigiosa corona. La

S

Omaggio a Gainsborough

THOMAS GAINSBOROUGH

KARL FRIEDRICH ABEL 1777 ca, olio su tela, cm 225,4x151,1, San Marino (CA), Huntington Library and Art Gallery THOMAS GAINSBOROUGH

ANNE FORD 1760, olio su tela, cm 197,2x134,9, Cincinnati, (OH), Cincinnati Art Museum

309

THOMAS GAINSBOROUGH

R ITRATTO

DI

J OHANN C HRISTIAN B ACH

1776, olio su tela, cm 75,5x62, Bologna, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica

musica era la migliore ambasciatrice d’una Germania che si temeva troppo rigorosa, e che invero diede nuova vita a una Londra che aveva sofferto la proibizione teatrale di Cromwell. D’altronde la questione era allora europea nell’Europa delle corti, se già nel 1719 l’abate Du Bos aveva pubblicato le Réflexions critiques sur la poésie et la peinture, dove sosteneva, citando Orazio, che non vi può essere arte che non tenda alla commozione. La sensibilità iniziò a cambiare, Händel, dopo una vita di successi e di dissolutezza, muore in chiesa alla tastiera dell’organo nel 1759. E dalla Germania fu una vera migrazione verso l’isola, vi arrivò nel ’60 circa Karl Friedrich Abel, che chiamò a dargli una mano l’undicesimo figlio di Bach, Johann Christian, che faceva l’organista capo al duomo di Milano. Insieme inventarono la prima compagnia di teatro ad abbonamento

310

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERA

DELLA MUSICA

e misero a posto loro medesimi e il catalogo musicale. Abel era di Köthen, figlio di Abel, il primo violoncellista di Giovanni Sebastiano che lì aveva l’incarico dal principe locale. Johann Christian si era specializzato dal fratello maggiore Philipp Emanuel a Berlino, quello che aveva studiato legge prima di passare alla musica e aveva inventato la teoria della empfindliche Musik, la musica sensibile, dove il sentimento prendeva il posto della mistica del padre. Nel 1770 arriva a Londra il castrato Giusto Ferdinando Tenducci, quello che impartisce lezioni di canto a Mozart, sempre a Londra, quello che porta lì al successo l’Orfeo di Christoph Willibald Gluck, quello che, secondo Casanova, che lo conosce a Londra, ebbe poi matrimonio e due figli. Quindi forse sopranista e non castrone. Ecco quindi arrivare in Inghilterra una ventata di sentimenti e di melanconie che già

THOMAS GAINSBOROUGH

RITRATTO

DI

G IUSTO FERDINANDO TENDUCCI

CON UNO SPARTITO

1773-1775 ca, olio su tela, cm 76,6x64, Collezione privata

311

Händel aveva introdotto con le sue languide arie d’opera. Ecco una delle radici della pittura di Gainsborough. La stanza contiene un piccolo nucleo di capolavori necessari. La Santa Cecilia di Raffaello, con lei patrona della musica, che spiega ch’è ben più vera la musica celeste del canto angelico di quella terrena degli strumenti che si corrodono. Il formidabile ritratto degli Ambasciatori di

RAFFAELLO

ESTASI

DI SANTA

C ECILIA

1514-1515, tela, trasporto da tavola, cm 238x50, Bologna, Pinacoteca Nazionale

312

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERA

DELLA MUSICA

Holbein, con il noto intervento anamorfico, gli strumenti scientifici e matematici e la musica. Cosa significa questo dipinto sui pavimenti cosmateschi di Westminster? Spiega la musica come punto apicale del quadrivio medioevale: la matematica, la geometria, compresa quella moderna della proiezione, l’astronomia e la musica. Poi non ho potuto esitare a metter qui uno dei cinque sensi di Jan Bruegel il Vecchio, dove si rappresenta la stanza dell’udito, piena di strumenti che indicano il tempo, quindi il ritmo, e lo ho sfacciatamente combinato con un dipinto di Fragonard, nel quale appare per la prima volta la fanciulla che alla tastiera esercita i suoi sogni e comunica al giovanotto ciò che il gatto non saprà mai spiegargli. Si apre così il capitolo della musica francese, quella di Couperin e di Rameau. Sono essi l’opposto del percorso Italia-Germania-Inghilterra. Eleganti, intellettuali, dediti nella sostanza più all’esprit che tanto era d’obbligo a corte, come nei Contes di Voltaire, che al sentimento melanconico. Si capisce che Jean-Jacques Rousseau abbia scritto un complesso trattato musicale per tentarne

CARL SPITZWEG

IL

TOPO DI BIBLIOTECA

1850, olio su tela, cm 49,5x26,8, Collezione privata

HANS HOLBEIN IL GIOVANE

GLI

AMBASCIATORI

1533, olio su tavola, cm 207x209,5, Londra, National Gallery

313

314

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERA

DELLA MUSICA

315

pp. 314-315: JAN BRUEGEL IL VECCHIO

IL

SENSO DELL ’ UDITO

1617-1618, olio su tavola, cm 64x109,5, Madrid, Museo Nacional del Prado

JEAN-HONORÉ FRAGONARD

FANCIULLA

CON LA TASTIERA

1790 ca, olio su tela, cm 110x120, Parigi, Musée du Louvre

316

l’ammodernamento, e che il suo sfortunato amico Diderot abbia posto le basi della sua estetica della piacevolezza nel racconto Le neveu de Rameau. Ed è proprio questo il motivo della presenza del bellissimo, quanto forse futile, ritratto di Madame de Pompadour, eseguito con maestria da Maurice Quentin de la Tour. Lei, morta d’attacco polmonare a quarantadue anni, fu la protagonista assoluta della corte, Luigi XV, essendone pazzo sin dalla sua giovane età, benché già sposato, l’aveva fatta marchesa, e la corte tollerava poco la sua posizione e per nulla la sua origine non aristocratica. Fu invece l’inventrice della vita

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERA

DELLA MUSICA

bucolica e leggera, della casa del parco dei cervi di Versailles, dove una volta assunto un ruolo più morale e vicino a quello della Maintenon negli anni di Luigi XIV, passò a fornire al suo amato carni più fresche, compresa quella della O’Murphy che avete appena conosciuta. Il rapporto svolazzo pittorico e musica della sensibilità lo si ritrova parallelo nella Venezia Guardi-Tiepolo/LegrenziAlbinoni-Vivaldi, anzi nella famiglia Guardi e famiglia Tiepolo. Con la differenza che sempre c’è stata fra l’erotismo veneto, allegramente a seno scoperto, e quello britannico, più misterioso e torbido. La giovine venexiana si sta forse alle-

MAURICE-QUENTIN DE LA TOUR

RITRATTO

DELLA MARCHESA DI

P OMPADOUR

1748-1755, pastello su carta grigio-azzurra e guazzo, cm 177x130, Parigi, Musée du Louvre

317

318

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERA

DELLA MUSICA

nando a interpretare la parte del mandolino del concerto in do maggiore per molti istromenti che il prete rosso, l’Antonio Vivaldi, faceva eseguire dall’orchestra femminile che dirigeva, ma dove le abitudini erano più rigorose, a tal punto che ci fu gran discussione circa la sconvenienza per le dame di tenere le gambe divaricate per trattenere la viola da gamba, che non era ancora del tutto violoncello e non aveva quindi il puntale per l’appoggio. Tutto ciò avviene in un curioso giro di contaminazioni musicali: Bach scopre la melodia morbida in Vivaldi, suo figlio la trasmette al fratello, che la esporta in un’Inghilterra già preparata da un Händel che l’aveva imparata da Corelli. Tutto ovviamente nel magico mondo della scena cantante, quella operistica, dove trionfano Rinaldo e Armida, fra una festa popolare e un eterno carnevale. Un’Italia necessaria all’evoluzione della musica. Eppure era un paese così ritardato in quel campo, mentre si faceva protagonista nel campo visivo e letterario del Rinascimento.

GIAMBATTISTA TIEPOLO

DONNA

CON MANDOLINO

1755-1760, olio su tela, cm 93,7x75, Detroit, Detroit Institute of Arts

Giambattista Tiepolo, Rinaldo e Armida, 1753, olio su tela, cm 105x143, Würzburg, Staatsgalerie

319

Il centro dell’invenzione musicale medioevale era innegabilmente più a nord, fra le prime codificazioni di Francone da Colonia che emancipò il canto combinato dai rigori dell’ictus nel canto gregoriano, alla ripresa che ne fecero, attorno alla Sorbona, Philippe de Vitry e Petrus de Cruce: Guillaume de Machaut (1300-1377) sarà il grande interprete musicale e letterario di questa rivoluzione. Si capisce quindi che, oltre un secolo dopo, Ercole I d’Este chiami per riformare la sua corale Henricus Isaac, detto Arrigo il Tedesco, ch’era già stato l’organista del Magnifico a Firenze, morto il quale andò ad allietare le orecchie dell’imperatore Massimiliano I. E con lui arrivarono altri eminenti esponenti della scuola franco-borgognona e fiamminga, sommo fra tutti Josquin Desprez (Gioacchino dei prati), che da fiammingo francese venne a contaminare la musica italiana, come due generazioni prima l’altro fiammingo francese dal nome altrettanto bucolico Rogier van der Weyden (Roger de la Pasture ovvero Ruggero dei Pascoli) venne a contaminare la pittura italiana. Ma mentre in pittura la penisola era all’avanguardia, nella musica segnava il passo, a tal punto che più tardi ancora Ferrante Gonzaga, il generalissimo di Carlo V, si portò appresso in Sicilia la giovin voce bianca di Roland de Lassus, che si trasformò dopo la muta delle corde vocali nell’eccellente musicista italiano Rolando di Lasso. Invece l’Italia eccelleva nella tecnica inventiva degli strumenti. Quanto sono più “moderni” gli strumenti della Santa Cecilia di Raffaello rispetto a quelli coevi di Grünewald che troverete nella cappella del giardino. La mutazione della debole viola da braccio (la notissima Bratz del mondo nordico) nel potente violino fu pari, da un punto di vista dell’ascolto, al passaggio dal vecchio giradischi all’Hi-Fi durante gli anni ’50 del secolo XX. Quello strumento che l’Amati produsse a Cremona negli anni ’50 del secolo XVI ruppe tutti gli equilibri della musica vocale: era supersonoro, fu impiegato inizialmente per far ballare il popolo, ma subito Enrico II di Francia se lo acquistò per le sue feste. E dopo il Concilio di Trento e il suo riordino trasversale della società e della cultura estetica, divenne protagonista. Pierluigi da Palestrina è il primo a combinare il gregoriano e la nuova musica. L’Italia passa al contrattacco. Sicché, guardata con

320

IL MUSEO IMMAGINATO

— C AMERA

DELLA MUSICA

diffidenza la letteratura colta, riportata nei ranghi del dogma la pittura religiosa, trionfa invece la libertà musicale con la nascita del vero carattere nazionale degli italiani, il melodramma. Nel 1607 Claudio Monteverdi, nella reggia di Mantova, mette in scena, a dir il vero in palazzo e senza teatro, la prima opera, l’Orfeo, un Orfeo, figlio di Calliope e di Apollo, della poesia e della bellezza, che verrà ritratto da Poussin nel 1650, dopo la sua illuminazione romana alla corte di Papa Barberini, l’inventore della vita barocca del potere. Ecco cosa mi racconta la perfetta rappresentazione di questi strumenti musicali dipinti da Caravaggio per il marchese Giustiniani, quello che competeva con il cardinal Del Monte, il quale aveva acquistato, come primo dipinto, l’opera parallela del concertino per la sua sala da musica.

ADOLPH VON MENZEL

IL A

CONCERTO DI FLAUTO DI

FEDERICO

IL

GRANDE

SANSSOUCI

1852, olio su tela, cm 142x205, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie (p. 323, particolare)

La visita si conclude con un piccolo quadretto retrò. Lo dipinse Adolph Menzel nel 1852 in onore di Federico II di Prussia, allora chiamato il Grande Fritz, quando il suo

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Caravaggio, Ragazzo che suona il liuto, 1596 ca, olio su tela, cm 94x119, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage

mito diventava necessario all’unificazione della Germania. È vero che Federico era coltissimo, amava più la lingua francese di quella tedesca e ospitava Voltaire, ma nella lingua musicale era germanico profondo. Fu lui a dare a Bach la frase musicale per l’Offerta Musicale, capolavoro del contrappunto che dopo la sequenza di fughe e canoni si conclude con un trio per basso continuo, violino e flauto traverso, quel flauto che potete ancora oggi ammirare nel castello di Sanssouci a Potsdam, quello del re soldato gentiluomo e provetto flautista che compose, fra una guerra, l’invenzione della scuola dell’obbligo e l’introduzione della coltura delle patate, alcune mirabili sonate per flauto. E con ciò finisce il nostro giro in casa… Vi suggerisco di sgranchirvi le gambe con un piccolo giro nel giardino, dove di pomeriggio offriamo, quand’è freddo il tempo, cioccolata calda, hot port e tè di Ceylon, quando è estate menta piemontese, latte di mandorla di Sicilia e carcadè. Il caffè c’è sempre.

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— C AMERA

DELLA MUSICA

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LA CHIESA

E IL GIARDINO

n fondo al panorama in discesa del giardino, oltre la pelouse e dal lato opposto dei rododendri, potete scorgere un campanile neogotico che si staglia da un masso di vecchi ippocastani ed è parzialmente velato da alcuni arbusti da fioritura esplosiva primaverile mescolati al calicantus dal fiore profumato d’inverno, quando il suo giallo dialoga con il rosa della Camelia sinensis. Vi si accede da un vialetto bordato da canaline di rizzata in sassolini di torrente, propizia a far defluire rapidamente le piogge estive dei temporali. E si arriva al roseto rampicante, attentamente curato sul suo percorso di ferro battuto, da dove si passa a uno di quei tempietti a colonne corinzie che tanto piacevano ai giardinieri del XVIII secolo e che qui invece è stato chiuso dalle vetrate d’una piccola serra. La luce non vi è troppo forte e consente una buona conservazione degli agrumi durante la stagione fredda. D’estate vi si portano a cascata i fiori che amano l’ombra, fucsie e parenti. Il clima è adatto a un dipinto corrispondente di Fragonard, che non ha bisogno di commenti particolari, perché ogni gentiluomo avrebbe voluto essere lì a guardare fra le gambe in quel vortice di luce e di verzure. È la data che colpisce, il 1767, tre anni dopo la morte della Pompadour,

I

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la quale è ritratta da Boucher con una veste molto simile, e dove al posto del nobile voyeur c’è un cagnolino, mentre i tessuti d’arredo son quelli della Odalisque blonde. A voi quindi la morale.

JEAN-HONORÉ FRAGONARD

ALTALENA 1767, olio su tela, cm 81x64, Londra, The Wallace Collection FRANÇOIS BOUCHER

MADAME

DE

P OMPADOUR

1756, olio su tela, cm 201x157, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Alte Pinakothek

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E ora il passo ultimo della vostra visita al museo. Cambia totalmente l’atmosfera quando entrate nella chiesetta neogotica. A tal punto che vi suggerirei di farvi una vista apposita, in una giornata particolare. Qui sono esposti due quadri religiosi, gli unici della raccolta che siano autentici oggetti di culto, opere dinnanzi alle quali è opportuno il silenzio, la concentrazione o addirittura la devozione. Alla cappella si entra da una porta laterale e si rimane immediatamente colpiti dal grande crocefisso che Giotto realizzò per Santa Maria Novella a Firenze all’inizio dell’ultimo decennio del Dugento. Giotto aveva appena concluso la sua partecipazione al ciclo degli affreschi della Basilica superiore di Assisi, dove in quel gruppo tuttora indefinito di romani, allievi del Cavallini, aveva per la prima volta (e i suoi lavori sono facilmente individuabili dall’occhio avvertito) applicato il suo senso della vita reale, della sofferenza e dell’esaltazione, a dimostrazione che il gusto bizantino poteva essere superato: per la prima volta nella storia delle arti visive italiane appaiono le lacrime e i denti. Passò dai francescani d’Assisi ai domenicani di Firenze. Ambedue gli ordini di predicatori avevano cambiato alla radice la fede cristiana dopo il conflitto cataro. Cristo era vero, umano e carico di sofferenza. Il passaggio dal Christus Triumphans al Christus Patiens o Dolens era alla base d’una mutazione linguistica che la pittura doveva recepire. Il Cristo di Giotto è veramente morto, cadaverico, e il suo sangue riscatta il teschio della nostra morte. Era nata la lingua italiana della pittura, come fra poco nascerà la lingua italiana della parola con Dante. Da allora non è più il bello a dominare le arti, come si lamentava ogni tanto il Petrarca, ma la potenza espressiva.

GIOTTO

CROCIFISSIONE particolare 1290-1296, tempera su tavola, cm 578x407, Firenze, Santa Maria Novella (p. 331, intero)

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Se vi girate all’indietro scoverete l’alternativa nordica della scelta giottesca, l’incredibile teatro smontabile dell’altare di Isenheim dipinto da Matthias Grünewald. Quand’è aperto sembra una di quelle tipiche sculture ad ammasso del tardo gotico germanico, con un Pater Omnipotens in mezzo, dalla solida barba grigia, una quantità infinita di cesellature lignee che rendono impossibile ogni concorrenza da parte dei cesellatori d’Ortisei. Quando lo si richiude esplode il miracolo della fede.

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“Il posto sembrò essere sconquassato da un terremoto e i demoni, quasi abbattessero le quattro mura del ricovero, sembravano penetrare attraverso esse in forma di bestie e di cose striscianti…” Così Atanasio di Alessandria raccontava delle battaglie con il demonio affrontato dal suo amico sant’Antonio abate. Oltre mille anni dopo, Grünewald racconta la stessa storia nel retro dell’altare di Isenheim, il quale nella sua complessità pittorica sarebbe come la Cappella Sistina dell’Europa del Nord, anzi di quella cultura della riva sinistra del Reno dove follie e fantasmi si sposano in un immaginario che dura fino ai giorni nostri.

MATTHIAS GRÜNEWALD

A LTARE

DI

I SENHEIM

1512-1516, tempera e olio su tavola, Colmar, Musée d’Unterlinden (pp. seguenti, particolari)

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Nell’anta di sinistra sant’Antonio parla con un eremita, san Paolo, in un paesaggio impervio dove la palma è così come se la può immaginare un tedesco che non ha mai visto il sud, ma dove il cerbiatto è simbolo di un’atmosfera pacata. In quella di destra la casa è diroccata dal terremoto e i diavoli ci ballano sopra; il santo viene trascinato dai demoni tra animali, uccellacci, strane chimere dal corpo di armadillo, teste da ippopotamo, improbabili cornuti con dentoni, che nell’immaginario tardomedioevale non sono affatto mostri inesistenti, ma solo ancora non incontrati, mentre in basso a sinistra l’orribile nanerottolo coperto di pustole, vestito da Medioevo mentre a Roma ci si veste già da Rinascimento, è invece essere sicuramente incontrato fra guerre e pestilenze, o probabilmente già visto nei dipinti del vicino di casa Hieronymus Bosch. Il Cristo è morto, e così morto da sembrare afflitto dalle pustole della sifilide appena introdotta in Europa e che Dürer aveva rappresentato in una sua precedente piccola incisione. Il Battista lo indica con un gesto che più pedagogico di così non si può, la Madre è svenuta nelle braccia di Giovanni e il suo hanchement gotico si trasforma in un passo di tango. Il tutto si muove nella compassione. E il realismo è portato all’estremo del realismo con la catena di ferro alla quale è appeso un pezzo di tavola sulla quale è attaccato il cartiglio INRI, ovviamente in gotico. La croce stessa nega tutte le croci preesistenti e la si ritrova analoga solo in Antonello e nei suoi amici fiamminghi.

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L’agnello mistico sotto è quello con il quale nacque la pittura a olio quando quasi un secolo prima i fratelli van Eyck lo dipinsero per la cattedrale di Gand. Sulla destra il pannello raffigura sant’Antonio abate col diavolo che spacca i vetrini della finestra per entrare. Non è l’unico diavolo presente. Quanti, quelli della tentazione delle predelle posteriori, dove i diavoli sono già quelli che Max Ernst porterà nella pittura surrealista. Goticissimo il pensiero, anche per un certo verso arretrati gli strumenti musicali rispetto a quelli che nei medesimi anni dipinge Raffaello. Ma l’opera completa è una dichiarazione di fede, e mentre la sua contemporanea Cappella Sistina era destinata stabile alla gloria dei ricevimenti papali, questa è destinata all’istruzione del popolo che si ritrovava presso i monaci antoniani, dove la pala veniva articolata secondo i momenti liturgici. E forse per questo motivo il diavolo è onnipresente e viene cacciato solo dalla risurrezione d’un Cristo ciclamino, mentre il diavolo nel Rinascimento italiano quasi scompare, per sopravvivere solo nel Giudizio finale. Siamo attorno al 1515 e fra poco Martin Lutero affiggerà le sue proposte sulla porta della chiesa di Wittenberg. Ma l’Europa, stilisticamente, era già divisa.

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en di più ancora testimonia la pala conclusiva di Isenheim.La stesura di Grünewald, all’apparenza visionaria, si fa spiegabile solo se rapportata ad alcune concezioni teologiche del XX secolo. In uno spazio da fantascienza fra i massi tellurici che volano appare la Teofania del Cristo Cosmico: il suo corpo risorto è racchiuso nell’Omega che è punto conclusivo della storia dei secoli. Il bordo della sfera lascia vibrare la nuova dimensione mistica dove s’incontrano, come prospetta la teologia dello scienziato gesuita Pierre Teilhard de Chardin, le energie sommate della noosfera, la terza sfera dopo la geosfera e la biosfera, essendo questa il luogo dell’incontro delle menti. Teilhard De Chardin, partendo da studi di geologia e di evoluzionismo, ipotizzava una evoluzione delle specie che, dall’Alpha della creazione e dell’insorgere della vita, avrebbe portato la specie più complessa, quella umana, al punto Omega d’incontro con il divino. Fu egli apprezzato con sospetto dai suoi superiori e mandato a studiare sassi nel Tibet da dove passò a New York e lì morì nel 1955. Il suo pensiero sottile fu recuperato dalla mente sottile di Paolo VI. E certo, ora che l’intelligenza umana è costantemente collegata in una rete perenne dove le informazioni generano una dimensione inaspettata, tornano legittime due letture diverse del caso: una laica, a tutti nota, e una mistica, intuita visivamente da Grünewald, nella quale una pellicola sta per avvolgere il cosmo ormai definitivamente interconnesso grazie all’evoluzione del pensiero umano che s’incontra con il permanere del divino per il completamento dei tempi.

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Et resurrexit triumphans nella gloria dei cieli e del colore

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INDICE DELLE OPERE

Bruegel Pieter il Giovane Il ruscello, Praga, Národní Galerie, 192

Aldrovandi Ulisse La donna-drago, Bologna, Biblioteca universitaria, Fondo Ulisse Aldrovandi, Tavole: animali, vol. 5-1, c. 84, 192 Rinoceronte, Bologna, Fondo Ulisse Aldrovandi, Biblioteca universitaria, Fondo Ulisse Aldrovandi, Tavole: animali, vol. 1, c. 91, 192

Bruegel Pieter il Vecchio Combattimento tra Carnevale e Quaresima, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 105, 106-107, 108

Anonimo La città ideale, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, 94-95 Antonello da Messina San Gerolamo nello studio, Londra, National Gallery, 55, 57 Arcimboldo Acqua, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 141 Il Bibliofilo, Bålsta, Svezia, Skoklosters Slott, 68 Bacon Francis Innocenzo X, Collezione privata, 257 Baldung Grien Hans La morte e la fanciulla, Basilea, Kunstmuseum, 300 Batoni Pompeo Ritratto di gentiluomo in giacca rossa, Madrid, Museo Nacional del Prado, 238 Bernini Gian Lorenzo Busto di Richelieu, Parigi, Musée du Louvre, 249 Bosch Hieronymus Giudizio universale, Vienna, Akademie der Bildenden Künste, Gemäldegalerie, 100, 101, 102-103, 104 Trittico dell’Epifania, Madrid, Museo Nacional del Prado, 273, 274-275, 276, 277 Botticelli Sandro Madonna del Magnificat, Firenze, Galleria degli Uffizi, 27 Nascita di Venere, Firenze, Galleria degli Uffizi, 120-121 Allegoria della Primavera, Firenze, Galleria degli Uffizi, 117, 118, 119 Boucher François Madame de Pompadour, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Alte Pinakothek, 329 L’Odalisca bionda, ritratto di Marie-Louise O’Murphy, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Alte Pinakothek, 284-285 Bronzino Agnolo Lucrezia Panciatichi, Firenze, Galleria degli Uffizi, 239 Bruegel Jan il Vecchio Natura morta con fiori in un bicchiere, Amsterdam, Rijksmuseum, 154, 157 Il senso dell’udito, Madrid, Museo Nacional del Prado, 314315 Topo e rosa con farfalla, Amsterdam, Rijksmuseum, 193

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Campi Vincenzo Cristo in casa di Marta e Maria, Modena, Galleria Estense, 203 Fruttivendola, Milano, Pinacoteca di Brera, 200, 201, 202 Canaletto Riva degli Schiavoni, veduta verso est, Tatton Park, Cheshire, National Trust, 35, 36-37, 137 Caravaggio Amor omnia vincit, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie, 278, 279 Bacchino malato, Roma, Galleria Borghese, 281 Canestra di frutta, Milano, Pinacoteca Ambrosiana, 143, 144-145 Ragazzo che suona il liuto, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, 322 Caroto Giovan Francesco Fanciullo con disegno di pupazzo, Verona, Museo di Castelvecchio, 193 Carpaccio Vittore Incontro dei fidanzati e partenza per il pellegrinaggio, Venezia, Gallerie dell’Accademia, 30-31, 32 Sant’Agostino nello studio, Venezia, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, 137 Carracci Annibale Mangiatore di fagioli, Roma, Galleria Colonna, 218 Carriera Rosalba Ritratto di Antoine Watteau, Treviso, Museo Civico, 128 Champaigne Philippe de Cardinal Richelieu, Londra, National Gallery, 255, 261 Triplo ritratto del cardinal Richelieu, Londra, National Gallery, 249 Chardin Jean-Baptiste-Siméon Giocatore di carte, Firenze, Galleria degli Uffizi, 183 Natura morta con brioche, Parigi, Musée du Louvre, 151 Paiolo di rame, Parigi, Musée du Louvre, 211 Chavalliaud Léon-Joseph Il cardinale John Henry Newman, Londra, Brompton Oratory, 88 Church Frederic Edwin Gli iceberg, Dallas, Dallas Museum of Art, 184-185 Stagione delle piogge ai tropici, San Francisco, Fine Arts Museums of San Francisco, 186-187 Cima da Conegliano Sant’Elena, Washington, National Gallery of Art, 123

IL MUSEO IMMAGINATO

— I NDICI

Coello Alonso Sánchez L’arciduca Rodolfo Londra, The Royal Collection, 194

Signora con pelliccia, Glasgow, Pollok House, Stirling Maxwell Collection, 237

Corot Camille Castel Sant’Angelo, Williamstown, Sterling and Francine Clark Art Institute, 170-171 Marietta, Parigi, Musée du Petit Palais, 173

Fra’ Galgario Cavaliere dell’ordine costantiniano con tricorno, Milano, Museo Poldi Pezzoli, 228, 231

Correggio Giove e Io, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 45 Courbet Gustave L’origine del mondo, Parigi, Musée d’Orsay, 283 Cranach Lucas il Vecchio Autoritratto, Firenze, Galleria degli Uffizi, 292 Cupido si lamenta con Venere, Londra, National Gallery, 292 Federico III Elettore di Sassonia, Vienna, Liechtenstein Museum, 240 Giuditta con la testa di Oloferne, New York, The Metropolitan Museum of Art, 293 Lucrezia, Collezione privata, 293 Lucrezia, Vienna, Akademie der Bildenden Künste, 292 Ritratto della principessa Sibilla di Cleves, Collezione privata, 293 Tre Grazie, Parigi, Musée du Louvre, 292 Venere e Amore, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts, Musée d’Art ancien, 293 Venere, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie, 292 Crespi Giuseppe Maria Scaffali con libri di musica, Bologna, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, 71 David Jacques-Louis Giuramento degli Orazi, Parigi, Musée du Louvre, 80, 82-83 Madame Récamier, Parigi, Musée du Louvre, 127 Morte di Marat, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts, Musée d’Art ancien, 295 Domenichino La caccia di Diana, Roma, Galleria Borghese, 42-43 Domenico di Bartolo Accoglienza, educazione e matrimonio di una figlia dell’Ospedale, Siena, Ospedale di Santa Maria della Scala, Pellegrinaio, 122 Dürer Albrecht Adorazione dei Magi, Firenze, Galleria degli Uffizi, 268-269 Hieronymus Holzschuher, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie, 293 La grande zolla, Vienna, Graphische Sammlung Albertina, 193 Lepre, Vienna, Graphische Sammlung Albertina, 193 Rinoceronte, 192 Ritratto di giovane donna veneziana, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 241 El Greco Ritratto di un cardinale, New York, The Metropolitan Museum of Art, 255, 256

Fragonard Jean-Honoré Altalena, Londra, The Wallace Collection, 328 Fanciulla con la tastiera, Parigi, Musée du Louvre, 316 Friedrich Caspar David Monaco presso il mare, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 177 Füssli Johann Heinrich Incubo, Detroit, Detroit Institute of Arts, 298 Gainsborough Thomas Anne Ford, Cincinnati, (OH), Cincinnati Art Museum, 309 Karl Friedrich Abel, San Marino (CA), Huntington Library and Art Gallery, 309 Mary contessa di Howe, Londra, The Iveagh Bequest, Kenwood House, 244 Ritratto di Giusto Ferdinando Tenducci con uno spartito, Collezione privata, 311 Ritratto di Johann Christian Bach, Bologna, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, 310 Galizia Fede Ciliegie, già Collezione Lodi, Campione d’Italia, Courtesy Galleria Silvano Lodi & Due, 146 Natura morta con pesche, Collezione privata, 202 Gentileschi Artemisia Giuditta decapita Oloferne, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, 303 Giorgione La Tempesta, Venezia, Gallerie dell’Accademia, 165, 166, 167, 276 Venere dormiente, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie Alte Meister, 124 Giotto Crocifissione, Firenze, Santa Maria Novella, 330, 331 Madonna di Ognissanti, Firenze, Galleria degli Uffizi, 56 Giusto di Gand Dante, Parigi, Musée du Louvre, 67 Goya Francisco Carlo IV e la sua famiglia, Madrid, Museo Nacional del Prado, 252-253 Maja desnuda, Madrid, Museo Nacional del Prado, 127 La sepoltura della sardina, Madrid, Academia de Bellas Artes de San Fernando, 109 Grünewald Matthias Altare di Isenheim, Colmar, Musée d’Unterlinden, 333, 334335, 336, 337, 338-339, 340-341, 343

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Guardi Francesco Laguna verso Murano vista dalle Fondamenta Nuove, Cambridge, Fitzwilliam Museum, 38-39 Hainz Johann Georg Kunstkammer, Amburgo, Kunsthalle, 192 Hayez Francesco La meditazione, Verona, Galleria Civica d’Arte Moderna, 301 Ritratto di Cristina Belgioioso Trivulzio, Collezione privata, 296 Heda Willem Claesz. Colazione con granchio, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, 152, 153 Hogarth William Matrimonio alla moda, la toeletta, Londra, National Gallery, 46-47 Holbein Hans il Giovane Gli ambasciatori, Londra, National Gallery, 313 Bonifacio Amerbach, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Alte Pinakothek, 229 Il borgomastro Jakob Meyer Hasen, tavola sinistra di un dittico, Basilea, Kunstmuseum, 232 Dorothea Kannengiesser, tavola destra di un dittico, Basilea, Kunstmuseum, 233 Induno Gerolamo Racconto del garibaldino ferito, Collezione privata, 210

Triplice ritratto, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 247, 248 Venere e Cupido, New York, The Metropolitan Museum of Art, 125 Magnasco Alessandro Scena nel tribunale, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 78-79 Manet Édouard Olympia, Parigi, Musée d’Orsay, 126, 286-287 Mantegna Andrea Parnaso, Parigi, Musée du Louvre, 58-59 Mario dei Fiori (Mario Nuzzi) Specchio con vaso di fiori e tre puttini, Roma, Galleria Colonna, 159 Masaccio Il tributo, Firenze, Chiesa del Carmine, Cappella Brancacci, 85 Menzel Adolph von Il concerto di flauto di Federico il Grande a Sanssouci, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 321, 323 Michelangelo Tentazioni di sant’Antonio, Fort Worth, Kimbell Art Museum, 193 Tondo Doni, Firenze, Galleria degli Uffizi, 26

Ingres Jean-Auguste-Dominique Bagnante, Parigi, Musée du Louvre, 126 Bagno turco, Parigi, Musée du Louvre, 127 La grande Odalisca, Parigi, Musée du Louvre, 126 Louis-François Bertin, Parigi, Musée du Louvre, 228, 230 Ruggero libera Angelica, Londra, National Gallery, 127

Moillon Louise Cesta con ciliegie, prugne e melone, Parigi, Musée du Louvre, 147

La Tour Georges de La Maddalena penitente, Parigi, Musée du Louvre, 299

Monsù Desiderio, soprannome dato a François Didier Nomé L’inferno, Besançon, Musée des Beaux-Arts, 110-111

La Tour Maurice-Quentin de Ritratto della marchesa di Pompadour, Parigi, Musée du Louvre, 317

Moroni Giovan Battista Ritratto di vecchio seduto, Bergamo, Galleria dell’Accademia Carrara, 243

Largillière Nicolas de Ritratto di famiglia di Luigi XIV con Madame de Ventadour, Londra, The Wallace Collection, 250-251 Ritratto di uomo con manto di porpora, Kassel, Museumslandschaft Hessen, 236

Oudry Jean-Baptiste Caccia al cervo nella foresta di Saint-Germain, Tolosa, Musée des Augustins, 64 Natura morta con lepre e cosciotto di agnello, Cleveland, The Cleveland Museum of Art, 65

Leonardo da Vinci Dama con ermellino, Cracovia, Czartoryski Muzeum, 224, 226

Pannini Giovanni Paolo Benedetto XIV e il cardinale Valenti Gonzaga, Roma, Museo di Palazzo Braschi, 254, 260 La galleria del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art, 60-61

Lomazzo Giovanni Paolo Rabisch, frontespizio, 69 Longhi Pietro Il rinoceronte, Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento Veneziano, 63 Lotto Lorenzo Andrea Odoni, Londra, The Royal Collection, 189

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Millais John Everett Cardinal Newman, Londra, National Gallery, 255, 263

Parmigianino Autoritratto allo specchio, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 193 Ritratto di Antea “La Bella”, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, 234 Ritratto di uomo con libro, York, York Museums Trust, 235

IL MUSEO IMMAGINATO

— I NDICI

Piero della Francesca Dittico dei duchi di Urbino – Battista Sforza, Federico di Montefeltro, Firenze, Galleria degli Uffizi, 232, 233 Madonna di Senigallia, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, 56 Pala di Brera, Milano, Pinacoteca di Brera, 84, 86, 87, 88 Piero di Cosimo Simonetta Vespucci, Chantilly, Musée Condé, 224, 227

Sánchez Cotán Juan Cardi, Granada, Museo de Bellas Artes, 215 Verza appesa, San Diego, The San Diego Museum of Art, 214 Sebastiano del Piombo Ritratto di Clemente VII, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, 259 Ritratto di Clemente VII, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, 254, 259

Pinturicchio (?) San Bernardino appare di notte a Giovanni Antonio tornato ferito in un agguato e lo risana, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, 95, 96 San Bernardino restituisce, post mortem, la vista a un cieco, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, 95, 96 San Bernardino risana una fanciulla, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, 96 San Bernardino risuscita il bimbo nato morto, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, 96

Snyders Frans Dispensa, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts, Musée d’Art ancien, 206-207 Il mercato del pesce, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 208

Raeburn Henry Il reverendo Walker pattina sul lago Duddingston, Edimburgo, National Galleries of Scotland, Scottish National Gallery, 182

Stoskopff Sebastian Vanitas, Basilea, Kunstmuseum, 290

Raffaello Dama con Liocorno, Roma, Galleria Borghese, 225, 227 Deposizione di Cristo, Roma, Galleria Borghese, 90-91, 92, 93 Estasi di santa Cecilia, Bologna, Pinacoteca Nazionale, 312 La Fornarina, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini, 126 Leone X, Firenze, Galleria degli Uffizi, 254, 258 Madonna Sistina, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie Alte Meister, 216 Recco Giuseppe Pesci, Collezione privata, 209 Rembrandt Ganimede piccolo, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie Alte Meister, 302 Pavoni morti, Amsterdam, Rijksmuseum, 216-217 Ritratto della madre come profetessa Anna, Amsterdam, Rijksmuseum, 242 Sacra Famiglia, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, 216

Spitzweg Carl Il poeta povero, Norimberga, Germanisches Nationalmuseum, 76 Lo scrittore, Monaco, Kunsthaus, 76 Il Tartufe, Schweinfurt, Museum Georg Schäfer, 76 Il topo di biblioteca, Collezione privata, 77

Teniers David il Giovane L’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria nella sua galleria d’arte a Bruxelles, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 192 Tiepolo Giambattista Donna con mandolino, Detroit, Detroit Institute of Arts, 318 Rinaldo e Armida, Würzburg, Staatsgalerie, 319 Tiziano Adorazione dei Magi, Milano, Pinacoteca Ambrosiana, 270-271 Allegoria della prudenza, Londra, National Gallery, 247 Amor Sacro e Amor Profano, Roma, Galleria Borghese, 40-41 Cardinale Filippo Archinto, Philadelphia, Philadelphia Museum of Art, 254, 256 Danae, Madrid, Museo Nacional del Prado, 127 Le tre età, Edimburgo, National Gallery of Scotland, 246 La Venere di Urbino, Firenze, Galleria degli Uffizi, 124, 126, 137 Troy Jean-François de Pranzo di ostriche, Chantilly, Musée Condé, 138

Remps Domenico Scarabattolo, Poggio a Caiano, Museo della natura morta, 190-191, 192-193

Turner William Venezia, Campo Santo, Toledo (OH), Toledo Museum of Art, 174-175

Reynolds Joshua Lady Jane Halliday, Waddesdon, Waddesdon Manor, 245

Van der Ast Balthasar Canestra, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie, 156, 157 Studio di fiori e insetti, Collezione privata, 155

Robert Hubert Paestum, Tempio di Nettuno, Mosca, Museo Puškin, 49 Rubens Pieter Paul Venere allo specchio, Collezione privata, 126

Van der Goes Hugo Trittico Portinari, Firenze, Uffizi, 56 Van der Weyden Rogier Trittico della famiglia Braque, Parigi, Musée du Louvre, 29

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Van Dijck Floris Claesz. Natura morta con formaggi, Amsterdam, Rijksmuseum, 212

DOVE VEDERLE

Van Dyck Antonie Autoritratto con girasole, Collezione privata, 212 Autoritratto da giovane, Vienna, Akademie der Bildenden Künste, Gemäldegalerie, 212 Triplice ritratto di Carlo I, Londra, The Royal Collection, 248

AUSTRIA Vienna, Akademie der Bildenden Künste, Gemäldegalerie Antonie Van Dyck, Autoritratto da giovane, 212 Hieronymus Bosch, Giudizio universale, 100, 101, 102-103, 104 Lucas Cranach il Vecchio, Lucrezia, 292

Van Eyck Jan L’uomo col turbante, Londra, National Gallery, 28 Polittico di Gand, Gand, San Bavone, 8, 308, Ritratto dei coniugi Arnolfini, Londra, National Gallery, 6, 18, 22

Vienna, Graphische Sammlung Albertina Albrecht Dürer, La grande zolla, 193 Albrecht Dürer, Lepre, 193

Van Kessel Jan Insetti e frutti, Amsterdam, Rijksmuseum, 192-193 Insetti e frutti, Collezione privata, 192 Insetti e frutti, Collezione privata, 193 Van Utrecht Adriaen Interno di cucina con natura morta, donna presso il camino, Collezione privata, 204-205 Van Wittel Gaspar Adriaensz. Castel Sant’Angelo, Collezione privata, 168-169, 172 Velázquez Diego Papa Innocenzo X, Roma, Galleria Doria Pamphilj, 254, 257 Trionfo di Bacco, Madrid, Museo Nacional del Prado, 219 Venere allo specchio, Londra, National Gallery, 126, 288-289

Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie Albrecht Dürer, Ritratto di giovane donna veneziana, 241 Alessandro Magnasco, Scena nel tribunale, 78-79 Arcimboldo, Acqua, 141 Correggio, Giove e Io, 45 David Teniers il Giovane, L’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria nella sua galleria d’arte a Bruxelles, 192 Frans Snyders, Il mercato del pesce, 208 Jan Vermeer, L’atelier del pittore, copertina Lorenzo Lotto, Triplice ritratto, 247, 248 Parmigianino, Autoritratto allo specchio, 193 Pieter Bruegel il Vecchio, Combattimento tra Carnevale e Quaresima, 105, 106-107, 108 Vienna, Liechtenstein Museum Lucas Cranach il Vecchio, Federico III elettore di Sassonia, 240

Vermeer Jan L’atelier del pittore, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, copertina Strada di Delft, Amsterdam, Rijksmuseum, 98, 99

BELGIO Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts, Musée d’Art ancien Frans Snyders, Dispensa, 206-207 Jacques-Louis David, Morte di Marat, 295 Lucas Cranach il Vecchio, Venere e Amore, 293

Veronese Paolo Nozze di Cana, Parigi, Musée du Louvre, 134-135, 136, 137

Gand, San Bavone Jan van Eyck, Polittico di Gand, 8, 308

Watteau Antoine Pierrot, Parigi, Musée du Louvre, 129

FRANCIA Besançon, Musée des Beaux-Arts François Didier Nomé, detto Desiderio Monsù, L’inferno, 110-111

Wright of Derby Joseph Esperimento con una pompa ad aria, Londra, National Gallery, 62 Zurbarán Francisco de Natura morta con limoni, Pasadena, Norton Simon Museum of Art, 148-149 Natura morta con vasi di ceramica, Madrid, Museo Nacional del Prado, 212-213 Arte romana Marina, Napoli, Museo Archeologico Nazionale, 139 Pittura romana Marte e Venere, Napoli, Museo Archeologico Nazionale, 116 Arco di Giano, Roma, 89

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Chantilly, Musée Condé Jean-François de Troy, Pranzo di ostriche, 138 Piero di Cosimo, Simonetta Vespucci, 224, 227 Colmar, Musée d’Unterlinden Matthias Grünewald, Altare di Isenheim, 333, 334-335, 336, 337, 338-339, 340-341, 343 Parigi, Musée du Louvre Andrea Mantegna, Parnaso, 58-59 Antoine Watteau, Pierrot, 129 Georges de La Tour, La Maddalena penitente, 299 Gian Lorenzo Bernini, Busto di Richelieu, 249 Giusto di Gand, Dante, 67 Jacques-Louis David, Giuramento degli Orazi, 80, 82-83 Jacques-Louis David, Madame Récamier, 127 Jean-Auguste-Dominique Ingres, Bagnante, 126 Jean-Auguste-Dominique Ingres, Bagno turco, 127 Jean-Auguste-Dominique Ingres, La grande Odalisca, 126

IL MUSEO IMMAGINATO

— I NDICI

Jean-Auguste-Dominique Ingres, Louis-François Bertin, 228, 230 Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Natura morta con brioche, 151 Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Paiolo di rame, 211 Jean-Honoré Fragonard, Fanciulla con la tastiera, 316 Louise Moillon, Cesta con ciliegie, prugne e melone, 147 Lucas Cranach il Vecchio, Tre grazie, 292 Maurice-Quentin de La Tour, Ritratto della marchesa di Pompadour, 317 Paolo Veronese, Nozze di Cana, 134-135, 136, 137 Rogier van der Weyden, Trittico della famiglia Braque, 29 Parigi, Musée d’Orsay Édouard Manet, Olympia, 126, 286-287 Gustave Courbet, L’origine del mondo, 283 Parigi, Musée du Petit Palais Camille Corot, Marietta, 173 Tolosa, Musée des Augustins Jean-Baptiste Oudry, Caccia al cervo nella foresta di SaintGermain, 64 GERMANIA Amburgo, Kunsthalle Johann Georg Hainz, Kunstkammer, 192 Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie Albrecht Dürer, Hieronymus Holzschuher, 293 Balthasar van der Ast, Canestra, 156,157 Caravaggio, Amor omnia vincit, 278, 279 Lucas Cranach il Vecchio, Venere, 292 Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie Adolph von Menzel, Il concerto di flauto di Federico il Grande a Sanssouci, 321, 323 Caspar David Friedrich, Monaco presso il mare, 177 Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie Alte Meister Giorgione, Venere dormiente, 124 Raffaello, Madonna Sistina, 216 Rembrandt, Ganimede piccolo, 302 Kassel, Museumslandschaft Hessen Nicolas de Largillière, Ritratto di uomo con manto di porpora, 236 Monaco, Kunsthaus Carl Spitzweg, Lo scrittore, 76 Norimberga, Germanisches Nationalmuseum Carl Spitzweg, Il poeta povero, 76 Schweinfurt, Museum Georg Schäfer Carl Spitzweg, Il Tartufe, 76 Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Alte Pinakothek François Boucher, L’odalisca bionda, ritratto di Marie-Louise O’Murphy, 284-285 François Boucher, Madame de Pompadour, 329 Hans Holbein il Giovane, Bonifacio Amerbach, 229

Würzburg, Staatsgalerie Giambattista Tiepolo, Rinaldo e Armida, 319 GRAN BRETAGNA Cambridge, Fitzwilliam Museum Francesco Guardi, Laguna verso Murano vista dalle Fondamenta Nuove, 38-39 Cheshire, Tatton Park, National Trust Canaletto, Riva degli Schiavoni, veduta verso est, 35, 36-37, 137 Edimburgo, National Galleries of Scotland, Scottish National Gallery Henry Raeburn, Il reverendo Walker pattina sul lago Duddingston, 182 Tiziano, Le tre età, 246 Glasgow, Pollok House, Stirling Maxwell Collection El Greco, Signora con pelliccia, 237 Londra, Brompton Oratory Léon-Joseph Chavalliaud, Il cardinale John Henry Newman, 88 Londra, National Gallery Antonello da Messina, San Gerolamo nello studio, 55, 57 Diego Velázquez, Venere allo specchio, 126, 288-289 Hans Holbein il Giovane, Gli ambasciatori, 313 Jan van Eyck, L’uomo col turbante, 28 Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 6, 18, 22 Jean-Auguste-Dominique Ingres, Ruggero libera Angelica, 127 John Everett Millais, Cardinal Newman, 255, 263 Joseph Wright of Derby, Esperimento con una pompa ad aria, 62 Lucas Cranach il Vecchio, Cupido si lamenta con Venere, 292 Philippe de Champaigne, Cardinal Richelieu, 255, 261 Philippe de Champaigne, Triplo ritratto del cardinal Richelieu, 249 Tiziano, Allegoria della prudenza, 247 William Hogarth, Matrimonio alla moda, La toeletta, 46-47 Londra, The Iveagh Bequest, Kenwood House Thomas Gainsborough, Mary contessa di Howe, 244 Londra, The Royal Collection Alonso Sánchez Coello, L’arciduca Rodolfo, 194 Antonie van Dyck, Triplice ritratto di Carlo I, 248 Lorenzo Lotto, Andrea Odoni, 189 Londra, The Wallace Collection Jean-Honoré Fragonard, Altalena, 328 Nicolas de Largillière, Ritratto di famiglia di Luigi XIV con Madame de Ventadour, 250-251 Waddesdon, Waddesdon Manor Joshua Reynolds, Lady Jane Halliday, 245 York, York Museums Trust Parmigianino, Ritratto di uomo con libro, 235 ITALIA Bergamo, Galleria dell’Accademia Carrara Giovan Battista Moroni, Ritratto di vecchio seduto, 243

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Bologna, Biblioteca universitaria Fondo Ulisse Aldrovandi, Tavole: animali, vol. 1, c. 91 Ulisse Aldrovandi, Rinoceronte, 192 Bologna, Biblioteca universitaria Fondo Ulisse Aldrovandi, Tavole: animali, vol. 5-1, c. 84, Ulisse Aldrovandi, La donna-drago, 192 Bologna, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica Giuseppe Maria Crespi, Scaffali con libri di musica, 71 Thomas Gainsborough, Ritratto di Johann Christian Bach, 310 Bologna, Pinacoteca Nazionale Raffaello, Estasi di santa Cecilia, 312 Firenze, chiesa del Carmine, Cappella Brancacci Masaccio, Il tributo, 85 Firenze, Santa Maria Novella Giotto, Crocifissione, 330, 331 Firenze, Galleria degli Uffizi Agnolo Bronzino, Lucrezia Panciatichi, 239 Albrecht Dürer, Adorazione dei Magi, 268-269 Giotto, Madonna di Ognissanti, 56 Hugo van der Goes, Trittico Portinari, 56 Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Giocatore di carte, 183 Lucas Cranach il Vecchio, Autoritratto, 292 Michelangelo, Tondo Doni, 26 Piero della Francesca, Dittico dei duchi di Urbino – Battista Sforza, Federico da Montefeltro, 232, 233 Raffaello, Leone X, 254, 258 Sandro Botticelli, Allegoria della Primavera, 117, 118, 119 Sandro Botticelli, Madonna del Magnificat, 27 Sandro Botticelli, Nascita di Venere, 120-121 Tiziano, La Venere di Urbino, 124, 126, 137 Milano, Museo Poldi Pezzoli Fra’ Galgario, Cavaliere dell’ordine costantiniano con tricorno, 228, 231 Milano, Pinacoteca Ambrosiana Caravaggio, Canestra di frutta, 143, 144-145 Tiziano, Adorazione dei Magi, 270-271 Milano, Pinacoteca di Brera Piero della Francesca, Pala di Brera, 84, 86, 87, 88 Vincenzo Campi, Fruttivendola, 200, 201, 202 Modena, Galleria Estense Vincenzo Campi, Cristo in casa di Marta e Maria, 203 Napoli, Museo Archeologico Nazionale Arte romana, Marina, 139 Pittura romana, Marte e Venere, 116 Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 303 Parmigianino, Ritratto di Antea “La Bella”, 234 Sebastiano del Piombo, Ritratto di Clemente VII, 254, 259 Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria Pinturicchio (?), San Bernardino appare di notte a Giovanni Antonio tornato ferito in un agguato e lo risana, 95, 96

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Pinturicchio (?), San Bernardino risuscita il bimbo nato morto, 96 Pinturicchio (?), San Bernardino risana una fanciulla, 96 Pinturicchio (?), San Bernardino restituisce, post mortem, la vista a un cieco, 95, 96 Poggio a Caiano, Museo della natura morta Domenico Remps, Scarabattolo, 190-191, 192-193 Roma Arco di Giano, 89 Roma, Galleria Borghese Caravaggio, Bacchino malato, 281 Domenichino, Il bagno di Diana, 42-43 Raffaello, Dama con Liocorno, 225, 227 Raffaello, Deposizione di Cristo, 90-91, 92, 93 Tiziano, Amor Sacro e Amor Profano, 40-41 Roma, Galleria Colonna Annibale Carracci, Mangiatore di fagioli, 218 Mario dei Fiori (Mario Nuzzi), Specchio con vaso di fiori e tre puttini, 159 Roma, Galleria Doria Pamphilj Diego Velázquez, Papa Innocenzo X, 254, 257 Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini Raffaello, La Fornarina, 126 Roma, Museo di Palazzo Braschi Giovanni Paolo Pannini, Benedetto XIV e il cardinale Valenti Gonzaga, 254, 260 Siena, Ospedale di Santa Maria della Scala, Pellegrinaio Domenico di Bartolo, Accoglienza, educazione e matrimonio di una figlia dell’Ospedale, 122 Treviso, Museo Civico Rosalba Carriera, Ritratto di Antoine Watteau, 128 Urbino, Galleria Nazionale delle Marche Anonimo, La città ideale, 94-95 Piero della Francesca, Madonna di Senigallia, 56 Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento Veneziano Pietro Longhi, Il rinoceronte, 63 Venezia, Gallerie dell’Accademia Giorgione, La tempesta, 165, 166, 167, 276 Vittore Carpaccio, Incontro dei fidanzati e partenza per il pellegrinaggio, 30-31, 32 Venezia, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni Vittore Carpaccio, Sant’Agostino nello studio, 137 Verona, Museo di Castelvecchio Giovan Francesco Caroto, Fanciullo con disegno di pupazzo, 193 Verona, Galleria Civica d’Arte Moderna Francesco Hayez, La Meditazione, 301 PAESI BASSI Amsterdam, Rijksmuseum Floris Claesz. van Dijck, Natura morta con formaggi, 212

IL MUSEO IMMAGINATO

— I NDICI

Jan Bruegel il Vecchio, Natura morta con fiori in un bicchiere, 154, 157 Jan Bruegel il Vecchio, Topo e rosa con farfalla, 193 Jan van Kessel, Insetti e frutti, 192-193 Jan Vermeer, Strada di Delft, 98, 99 Rembrandt, Pavoni morti, 216-217 Rembrandt, Ritratto della madre come profetessa Anna, 242 POLONIA Cracovia, Czartoryski Muzeum Leonardo da Vinci, Dama con ermellino, 224, 226 REPUBBLICA CECA Praga, Národní Galerie Pieter Bruegel il Giovane, Il ruscello, 192 RUSSIA Mosca, Museo Puškin Robert Hubert, Paestum, Tempio di Nettuno, 49 San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage Caravaggio, Ragazzo che suona il liuto, 322 Rembrandt, Sacra Famiglia, 216 Willem Claesz. Heda, Colazione con granchio, 152, 153 SPAGNA Granada, Museo de Bellas Artes Juan Sánchez Cotán, Cardi, 215 Madrid, Academia de Bellas Artes de San Fernando Francisco Goya, La sepoltura della sardina, 109 Madrid, Museo Nacional del Prado Diego Velázquez, Trionfo di Bacco, 219 Francisco de Zurbarán, Natura morta con vasi di ceramica, 212-213 Francisco Goya, Carlo IV e la sua famiglia, 252-253 Francisco Goya, Maja desnuda, 127 Hieronymus Bosch, Trittico dell’Epifania, 273, 274-275, 276, 277 Jan Bruegel il Vecchio, Il senso dell’udito, 314-315 Pompeo Batoni, Ritratto di gentiluomo in giacca rossa, 238 Tiziano, Danae, 127 STATI UNITI Cincinnati, Cincinnati Art Museum Thomas Gainsborough, Anne Ford, 309 Cleveland, The Cleveland Museum of Art Jean-Baptiste Oudry, Natura morta con lepre e cosciotto di agnello, 65 Dallas, Dallas Museum of Art Frederic Edwin Church, Gli iceberg, 184-185 Detroit, Detroit Institute of Arts Giambattista Tiepolo, Donna con mandolino, 318 Johann Heinrich Füssli, Incubo, 298 Fort Worth, Kimbell Art Museum Michelangelo, Tentazioni di sant’Antonio, 193

Los Angeles, The J. Paul Getty Museum Sebastiano del Piombo, Ritratto di Clemente VII, 259 New York, The Metropolitan Museum of Art El Greco, Ritratto di un cardinale, 255, 256 Lorenzo Lotto, Venere e Cupido, 125 Lucas Cranach il Vecchio, Giuditta con la testa di Oloferne, 293 Pasadena, Norton Simon Museum of Art Francisco de Zurbarán, Natura morta con limoni, 148-149 Philadelphia, Philadelphia Museum of Art Tiziano, Cardinale Filippo Archinto, 254, 256 San Diego, The San Diego Museum of Art Juan Sánchez Cotán, Verza appesa, 214 San Francisco, Fine Arts Museums of San Francisco Frederic Edwin Church, Stagione delle piogge ai tropici, 186-187 San Marino, Huntington Library and Art Gallery Thomas Gainsborough, Karl Friedrich Abel, 309 Toledo, Toledo Museum of Art William Turner, Venezia, Campo Santo, 174-175 Washington, National Gallery of Art Cima da Conegliano, Sant’Elena, 123 Williamstown, Sterling and Francine Clark Art Institute Camille Corot, Castel Sant’Angelo, 170-171 SVEZIA Balsta, Svezia, Skoklosters Slott Arcimboldo, Il Bibliofilo, 68 SVIZZERA Basilea, Kunstmuseum Hans Baldung Grien, La morte e la fanciulla, 300 Hans Holbein il Giovane, Il borgomastro Jakob Meyer Hasen, Dorothea Kannengiesser, 232, 233 Sebastian Stoskopff, Vanitas, 290 COLLEZIONI PRIVATE Adriaen van Utrecht, Interno di cucina con natura morta, donna presso il camino, 204-205 Albrecht Dürer, Rinoceronte, 192 Antonie van Dyck, Autoritratto con girasole, 212 Carl Spitzweg, Il topo di biblioteca, 77 Fede Galizia, Ciliegie, 146 Fede Galizia, Natura morta con pesche, 202 Francesco Hayez, Ritratto di Cristina Belgioioso Trivulzio, 296 Francis Bacon, Innocenzo X, 257 Gaspar Adriaensz. Van Wittel, Castel Sant’Angelo, 168-169, 172 Gerolamo Induno, Racconto del garibaldino ferito, 210 Giuseppe Recco, Pesci, 209 Jan van Kessel, Insetti e frutti, 192 Jan van Kessel, Insetti e frutti, 193 Pieter Paul Rubens, Venere allo specchio, 126

Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art Giovanni Paolo Pannini, La galleria del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, 60-61

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CREDITI FOTOGRAFICI © 2011. Copyright The National Gallery, London / Scala, Firenze, 6, 18, 22, 28, 62, 127, 247, 249, 255, 261, 292 © 2011. DeAgostini Picture Library / Scala, Firenze, 100, 101, 104 © 2011. Foto Austrian Archives / Scala, Firenze, 100, 101, 102-103, 104, 192, 212, 247, 248 © 2011. Foto Scala, Firenze, 29, 49, 67, 71, 109, 126, 127, 137, 143, 144-145, 148-149, 152, 153, 193, 206-207, 216, 219, 228, 231, 252-253, 274-275, 276, 277, 286-287, 299, 317, 322 © 2011. Foto Scala, Firenze / BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin, 156, 157, 192, 193, 216, 229, 236, 278, 279, 292, 293, 321, 323 © 2011. Foto Scala, Firenze / Fondo Edifici di Culto – Ministero dell’Interno, 85, 330, 331 © 2011. Foto Scala, Firenze – conc. Ministero Beni e Attività Culturali, 56, 95, 96, 183, 239, 254, 258, 268-269, 292, 303, 312 © 2011. Foto The Philadelphia Museum of Art / Art Resource / Scala, Firenze, 254, 256 © 2011. Image copyright The Metropolitan Museum of Art / Art Resource / Scala, Firenze, 125, 255, 256, 293 © 2011. NTPL / Scala, Firenze, 35, 36-37,137 © 2011. Veneranda Biblioteca Ambrosiana / DeAgostini Picture Library / Scala, Firenze, 270-271 © 2011. Wadsworth Atheneum Museum of Art / Art Resource, NY / Scala, Firenze, 60-61, 193 © 2011. White Images / Scala, Firenze, 126, 127, 138, 173, 184-185, 249, 314-315 © ADP – su Licenza Archivi Alinari, 254, 257 © BasPhoto, 88 © Christie’s Images / CORBIS, 155, 293 © Culture and Sport Glasgow (Museums) / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 237 © DACS / Giraudon / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 257 © DeAgostini / SuperStock, 193 © English Heritage Photo Library / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 244 © Fine Art Photographic Library / CORBIS, 311 © Fine Arts Museums of San Francisco, 186-187 © Francis G. Mayer / CORBIS, 293 © National Gallery of Scotland, Edinburgh, Scotland / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 182 © Photo RMN – © Blot Gérard – Réunion des Musées Nationaux / distr. Alinari, 295 © Photo RMN / Stéphane Maréchalle – Réunion des Musées Nationaux / distr. Alinari, 292 © Samuel H. Kress Collection, courtesy of the National Gallery of Art, Washington, 123 © The Cleveland Museum of Art, 65 © The Huntington Library, Art Collections & Botanical Gardens / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 309 © Toledo Museum of Art / Photo: Photography Incorporated, Toledo, 174-175 © Wallace Collection, London, UK / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 250-251 © York Museums Trust (York Art Gallery), UK / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 235 Archivi Alinari – conc. Ministero Beni e Attività Culturali, 27, 56, 203, 234

Archivi Alinari, Firenze, 310 Archivi Alinari, Firenze – conc. Ospedale di S. Maria della Scala, 122 Archivio RCS, 69, 89, 168-169, 172, 192, 193, 210, 333, 334335, 336, 337, 338-339, 340-341, 343 Bequest of Mary M. Emery / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 309 Biblioteca Universitaria di Bologna, su concessione, 192 Blauel / Gnamm / Artothek / Archivi Alinari, 319 Cameraphoto, Venezia, 296 Contrasto / Lessing, copertina, 46-47, 68, 78-79, 98, 99, 105, 106-107, 108, 117, 118, 119, 120-121, 124, 134-135, 136, 137, 139, 141, 147, 224, 226, 227, 228, 230, 245, 292, 328 Foto George Tatge, Firenze, tratta da Gensini Valentina, Mannini Lucia, Mazzanti Anna (a cura di), Novecento sedotto. Il fascino del Seicento tra le due guerre, Polistampa, Firenze, 2010, 209 Founders Society purchase with Mr and Mrs Bert L. Smokler and Mr and Mrs Lawrence A. Fleischman funds / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 298 Galleria Colonna, Roma, 159 già Collezione Lodi, Campione d’Italia, Courtesy Galleria Silvano Lodi & Due, 146 Gift of Anne and Henry Ford II / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 318 Gift of Anne R. and Amy Putnam / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 214 Giraudon / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 110111, 126, 128, 212-213, 215, 316 Imagno / Archivi Alinari, 192 Národní Galerie, Praga, 192 Oronoz, Madrid / Londra, The Royal Collections, 194 Photo © Christie’s Images / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 204-205 PhotoserviceElecta / AKG Images, 8, 45, 76, 90-91, 92, 93, 95, 96, 177, 193, 208, 211, 212, 216-, 232, 233, 246, 248, 254, 260, 273, 284-285, 290, 300, 302, 308, 329 PhotoserviceElecta / Anelli, 63, 202, 218, 301 PhotoserviceElecta / Anelli – conc. Ministero Beni e Attività Culturali, 94-95, 200, 201, 202, 225, 227, 232, 233 PhotoserviceElecta / Bardazzi, 241 PhotoserviceElecta / Lecat, 283 PhotoserviceElecta / Leemage, 80, 82-83, 127, 129, 151 PhotoserviceElecta / Magliani – conc. Ministero Beni e Attività Culturali, 84, 86, 87, 88, 281 PhotoserviceElecta / Manusardi – conc. Ministero Beni e Attività Culturali, 30-31, 32 PhotoserviceElecta / Pedicini – conc. Ministero Beni e Attività Culturali, 116, 254, 259 PhotoserviceElecta / Quattrone, 58-59 PhotoserviceElecta / Quattrone – conc. Ministero Beni e Attività Culturali, 26, 124, 126, 137, 165, 166, 167, 276 PhotoserviceElecta / Schiavinotto – conc. Ministero Beni e Attività Culturali, 40-41, 42-43 Rijksmuseum, Amsterdam, 154, 157, 192, 212, 242 Sammlung Schönborn-Buchheim, Wien, 240 Seat/Archivi Alinari, 190-191, 192-193 The Bridgeman Art Library /Archivi Alinari, 38-39, 55, 57, 64, 76, 77, 126, 170-171, 288-289, 238, 243, 255, 263, 313 The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, 259 The Royal Collection © 2011 Her Majesty Queen Elizabeth II / The Bridgeman Art Library / Archivi Alinari, 189